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Una delle ragioni per cui le donne guadagnano meno degli uomini

FLASH NEWS

 

Le donne, si sa, guadagnano meno degli uomini, ma ciò che forse è meno noto è che in una trattativa economica per il posto di lavoro sono loro le prime a chiedere meno soldi degli uomini. La cosa sorprendente è che questa difficoltà scompare nel momento in cui una donna deve negoziare economicamente a nome di un’altra persona.

Emily Amanatullah, assistente professore di management presso l’Università del Texas, si è interessata a questo curioso fenomeno e ha cominciato a raccogliere opinioni in merito: tutte le donne con cui ha parlato odiavano difendere la propria posizione sul lavoro, ma non avevano difficoltà a farlo per i colleghi.

Amanatullah ha quindi ideato un semplice esperimento: uomini e donne dovevano negoziare lo stipendio per se stessi e poi a nome di qualcun altro.

Quando le donne hanno trattato per se stesse, hanno chiesto in media 7.000 dollari meno degli uomini . Ma quando hanno trattato per conto di un amico, hanno chiesto tanti soldi quanto un uomo.

Secondo Amanatullah quando una donna contratta il suo stipendio con i superiori sta facendo molto più che quello: sta negoziando anche la sua immagine personale.

Le donne infatti sembrano temere che l’attaccamento al profitto possa danneggiare la loro immagine personale; come se in risposta alla loro assertività si aspettassero una valutazione negativa, per questo motivo tendono a usare tecniche poco competitive ottenendo quindi scarsi risultati personali.

I risultati di questo studio danno ragione a questa tesi, tanto che dai risultati emerge che manager di entrambi i sessi sono meno propensi a voler lavorare con le donne quando si tratta di negoziare lo stipendio durante un colloquio di lavoro. “Una delle donne che ha partecipato allo studio si è sottovalutata così tanto durante la trattativa economica che il reclutatore è venuto a chiedermi se lei fosse proprio sicura di voler chiedere così poco!”, rivela la ricercatrice.

Le donne dovrebbero utilizzare la loro capacità di lottare per gli altri ed essere assertive anche per il raggiungimento di scopi personali; per esempio durante la negoziazione dello stipendio può essere di aiuto pensare a tutte le persone in famiglia che godranno di quello stipendio.

Si raccomanda inoltre che le donne smettano di pensare a una trattativa come a una “battaglia da affrontare con addosso l’armatura”, ma che si concentrino più che altro su come risolvere un problema.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il protocollo CBT basato sulla Mindfulness per il Disturbo ossessivo-compulsivo

 

Il Trattamento cognitivo-comportamentale basato sulla Mindfulness (MBCBT) per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Report dal convegno – Padova – 07, 08 giugno 2014

 

 

La pratica mindfulness, integrata con la CBT, può offrire una prospettiva maggiormente globale, intervenendo sui sintomi e sulla persona. La Mindfulness è “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zin, 2003).

La sede del convegno era il suggestivo ed accogliente centro per la mindfulness dell’associazione Motus Mundi di Padova. Il workshop è stato organizzato dall’Istituto Italiano per la mindfulness (ISIMIND).

Nella prima giornata il Dott. Fabrizio Didonna ha illustrato una completa ed originale analisi fenomenologica e clinica della problematica ossessiva e il razionale dell’intervento basato sulla mindfulness. Nella seconda giornata è stato illustrato, sessione per sessione, il protocollo MBCBT di gruppo per il D.O.C. In entrambi i giorni i partecipanti hanno assistito alla proiezione di video sull’applicazione clinica del protocollo e hanno praticato diversi esercizi di mindfulness.

E’ stata presentata una completa fenomenologia del D.O.C. (ossessioni e compulsioni), gli aspetti eziologici e di familiarità (modeling dell’ambiente familiare) del disturbo, e i modelli cognitivi di Salkovskis.

Il dott. Didonna ha sottolineato l’importanza dei principali fattori di attivazione e di mantenimento della sintomatologia ossessiva; in particolare, ha evidenziato il rapporto disfunzionale che il soggetto ha sviluppato nei confronti dei propri stati interni e delle proprie cognizioni, gli specifici bias attentivi, emotivi e sensoriali, il pervasivo sentimento di sfiducia e di auto-invalidazione nei confronti delle proprie informazioni sensoriali. Secondo il relatore, il D.O.C. potrebbe essere considerato il “disturbo della fiducia”.

[blockquote style=”1″]La natura non ci inganna mai; noi inganniamo noi stessi. Non è la sensazione che è sbagliata, ma il giudizio che ci formiamo su di essa.[/blockquote]

Jean-Jacques Rousseau

I circoli viziosi ossessivi, i rituali e le compulsioni diventano dei veri e propri piloti automatici, durante i quali il paziente non è più consapevole dei loro effetti reali e del loro significato. In tal senso, il problema ossessivo potrebbe essere definito come uno stato di grave mindlessness (mancanza di consapevolezza) che comprende i seguenti deficit: rimuginio, bias attentivi, fusione pensiero-azione, bias di non-accettazione, auto-invalidazione percettiva, bias metacognitivi relativi agli stati interni.

La pratica mindfulness, integrata con la CBT, può offrire una prospettiva maggiormente globale, intervenendo sui sintomi e sulla persona. La Mindfulness è “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zin, 2003).

[blockquote style=”1″]I sensi non ci ingannano ma i giudizi si.[/blockquote]

Johann Wolfgang Von Goethe

Il protocollo mindfullness che il Dott. Didonna propone per il D.O.C., si compone di (almeno) 10 sessioni. Può essere utilizzato individualmente o in gruppo, in un contesto sia residenziale sia ambulatoriale. E’ prevista, altresì, una sessione extra con i familiari o con persone significative per i pazienti, a scopo psicoeducativo ed esperienziale.

Lo scopo principale del protocollo è di acquisire, attraverso la pratica mindfulness, la capacità di riconoscere e accettare consapevolmente i pensieri, le emozioni e le sensazioni indesiderate, senza reagire nei modi abituali e automatici che tendono a mantenere e alimentare i sintomi.

[blockquote style=”1″]Non attraverso le azioni, non attraverso le parole noi diventiamo liberi dalle contaminazioni mentali, ma osservandole e riconoscendole in continuazione[/blockquote]

Anguttara Nikaja, 557 – 477 B.C.

Attraverso la mindful exposure (esposizione consapevole) è possibile esporre il paziente agli stimoli ansiogeni in ma in maniera consapevole e avendo contatto con il presente; questo permette di spostare il focus attentivo su altri aspetti dell’esperienza e di far perdere l’importanza del pensiero.

La pratica della mente osservatrice ha permesso ai partecipanti di rendersi conto di come reagiamo agli stati interni. La tecnica della validazione dell’esperienza percettiva addestra il paziente ad un nuovo rapporto con l’esperienza sensoriale, utilizzandola in modo da ottenere una visione della realtà chiara e vera e prevenendo le reazioni ossessive.

[blockquote style=”1″]Dall’intenzione germoglia l’atto, dall’atto germoglia l’abitudine, dall’abitudine cresce il carattere, dal carattere si sviluppa il destino.[/blockquote]

Da un testo buddista

Tutto il protocollo verte sull’accettazione e sulla promozione di un atteggiamento di auto-compassione. Il senso di colpa patologico, il senso di responsabilità e la non accettazione dei propri limiti sono fattori che alimentano la problematica ossessiva.

La pratica R.E.A.L. (riconoscimento, espansione delle consapevolezza, accettazione e lasciarsi andare), molto apprezzata dai pazienti, sviluppa una capacità di accettazione dell’evento ed un abbandono consapevole di tutti i comportamenti di reazione agli stati interni.

Il Dott. Didonna ha comunicato che entro la fine dell’anno sarà pubblicato un testo che tratterà in maniera dettagliata questo protocollo MBCBT per il D.O.C.

 

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Uno sguardo verso l’alto di Marco Calamai – Recensione

uno sguardo verso l'alto di Marco CalamaiCome osserva acutamente Emma Lamacchia in un capitolo introduttivo, per i ragazzi speciali, portatori di handicap, la palla sostituisce la parola, quindi fare un passaggio a un compagno assume una valenza comunicativa.

Da eterno appassionato di basket, soprattutto da playground, la mia attenzione non poteva non essere rapita da questo libro scritto da Marco Calamai, già allenatore professionista di pallacanestro e insegnante, che ha messo a disposizione per dodici anni la propria competenza professionale nella creazione di una squadra di atleti speciali. L’esperienza del basket riabilitativo si svolge presso il Centro di Terapia Integrata per l’Infanzia La Lucciola di Modena, diretto dalla neuropsichiatra infantile Emma La macchia, che da anni cura bambini affetti da gravi patologie o portatori di handicap (autismo, paralisi cerebrale infantile, psicosi, sindromi genetiche, etc.). Il centro è caratterizzato da una modalità terapeutica in cui le tecniche di cura non si presentano nella loro veste tradizionale, magari con accezioni correttive o solo educative, ma sono decodificate in esperienze reali di vita. Alcuni anni fa, ad esempio, La Lucciola ha aperto un ristorante (La lanterna di Diogene), dove i ragazzi servono ai tavoli o lavorano in cucina e dove tra l’altro si mangia molto bene (parola di modenese…). E’ in questo ambiente terapeutico innovativo e illuminato che nasce l’esperienza di Calamai, che all’inizio non aveva alcuna esperienza di handicap o disabilità, ma che sicuramente era dotato del carisma, della sensibilità e dell’autorevolezza necessari per gestire gruppi di giganti normodotati di serie A, quindi sicuramente più allenatore che psicologo. Nel libro emerge come questa “competenza incompetente” gli sia stata di aiuto in quanto lo liberava dai pregiudizi nei confronti dei presunti limiti dei suoi atleti speciali, che attraverso il basket sono riusciti a portare lo sguardo sempre più in alto. La pallacanestro è infatti uno sport dove lo sguardo e l’obiettivo sono posti in alto, al canestro appunto e questo può simbolicamente rappresentare un anelito alla crescita, al miglioramento, al superamento della condanna di certi limiti. Si tratta inoltre uno sport particolarmente “accogliente”, dove sullo stesso campo puoi trovare stangoni di due metri e piccoletti di un metro e sessanta, che possono trovare comunque un ruolo nel gioco, che come ci ricorda Winnicott, rimane un’esperienza fondamentale per la crescita.

Inizialmente la protagonista assoluta del lavoro di Calamai è stata la palla a spicchi, questo oggetto magico, che nel basket riabilitativo diventa uno strumento di autoconoscenza del proprio corpo e di messa in relazione con l’altro. Come osserva acutamente Emma Lamacchia in un capitolo introduttivo, per i ragazzi speciali, portatori di handicap, la palla sostituisce la parola, quindi fare un passaggio a un compagno assume una valenza comunicativa. Ho trovato straordinaria questa riflessione, nella sua semplicità disarmante, che può sicuramente essere estesa alla riabilitazione psichiatrica con i pazienti adulti. Negli anni Calamai scopre le risorse uniche dei suoi atleti speciali osservando ad esempio come i ragazzi affetti dalla sindrome di Down siano spesso dotati di una volontà ferrea, quelli affetti da psicosi spesso da un’inesauribile vitalità fisica. La storia di Calamai e dei suoi ragazzi speciali a tratti ricorda un po’ una favola a lieto fine. Partito con i primi allenamenti in una stalla di una delle sedi de La Lucciola, il progetto basket e disabilità è cresciuto di anno in anno fino alla creazione di una squadra mista di normodotati e atleti disabili che partecipa a campionati nazionali, con i colori della storica società bolognese Fortitudo Basket, fornendo un’esempio stupendo di integrazione. Nel libro vengono descritti dettagliatamente gli esercizi che costituiscono gli allenamenti degli atleti speciali, anche a seconda della patologia presentata, e vengono forniti tanti consigli utilissimi nella formazione e gestione delle squadre miste. La Lucciola e Calamai hanno fatto scuola, visto che nel libro viene raccontata la nascita di special team in altre realtà (Pavia, Rimini), ispirati dall’ esperienza bolognese. Sono inoltre presenti interessanti commenti al progetto da parte di allenatori professionisti (Messina, Recalcati), di operatori che si occupano di disabilità e di genitori e ragazzi, che raccontano i grandi benefici ricevuti dall’attività baskettara. Completa l’opera il DVD in allegato “La voglia di osare“, di Lucrezia Argentiero, un documentario sul lavoro di Calamai e dei suoi ragazzi, che lascia a bocca aperta. E con lo sguardo verso l’alto.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Calamai, M. (2008). Uno sguardo verso l’alto. Un progetto di pallacanestro sperimentale con ragazzi disabili. Franco Angeli Editore, Milano.   ACQUISTA ONLINE 

FMRI e la “lettura del pensiero” – Neuroscienze

 

 

FLASH NEWS

Usando solo i dati provenienti da scansioni di fMRI, i ricercatori dell’Università di Yale hanno ricostruito accuratamente le immagini di volti umani visti da alcune persone.

“E ‘ una forma di lettura del pensiero “, ha detto Marvin Chun, professore di psicologia, scienze cognitive e neurobiologia e autore dell’articolo pubblicato su Neuroimage .

L’aumento del livello di sofisticazione delle scansioni fMRI ha già permesso agli scienziati di utilizzare i dati provenienti da scansioni cerebrali per capire se un soggetto sta visualizzando, ad esempio, una spiaggia o una parte della città, un animale o un edificio. Queste scansioni però non sono in grado di dirci “quale” animale o edificio è oggetto della visualizzazione; per questo sarebbe necessario un livello di sofisticazione dello strumento ancora maggiore.

Alan S. Cowen, uno degli allievi di Chun, partendo dall’idea che noi percepiamo i volti con un maggiore livello di dettaglio rispetto alle altre cose, si è chiesto se fosse possibile ricostruire un volto umano a partire da modelli di attività cerebrale.

Cowen, in una prima fase di “allenamento”, ha mostrato a sei soggetti 300 diverse facce, intanto li ha sottoposti a fMRI. Ha usato questi dati per creare una sorta di biblioteca statistica di come ciascun cervello ha risposto alle singole facce. Ha poi mostrato ai sei soggetti, nuovamente sottoposti a fMRI, nuovi insiemi di facce. Infine, sulla base dei dati contenuti nella biblioteca statistica, è riuscito a ricostruire i volti che i soggetti stavano visualizzando con sorprendente accuratezza.

L’accuratezza di queste ricostruzioni facciali aumenta con il tempo, dice Cowen, e queste ricostruzioni potrebbero essere utilizzate come strumento di ricerca per studiare, ad esempio, come bambini autistici rispondono alle facce.

Questa metodologia rappresenta non solo un nuovo e promettente approccio per indagare la percezione del viso, ma suggerisce nuove strade per ricostruire le esperienze visive, tra cui i sogni, i ricordi e i prodotti dell’immaginazione, che sono principalmente rappresentati in aree corticali di alto livello.

 

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La Sindrome Premestruale: il corpo e la psiche

Teresita Forlano

 

Chi soffre di Sindrome Premestruale lieve o moderata presenta sintomi soprattutto fisici, poco invalidanti; nella Sindrome Premestruale grave si riscontra una ciclica comparsa di tristezza, irritabilità associate a  sintomi somatici durante la tarda fase luteale e premestruale.

Nelle prime due settimane del ciclo mestruale sono gli ormoni estrogeni ad avere il sopravvento; questi sono i giorni in cui una donna si può mostrate più tranquilla, rilassata con maggiore predisposizione alla socializzazione.

E’ nelle due settimane successive, quando agli estrogeni si sostituisce un più alto picco di progesterone che compaiono le modalità disfunzionali e reattive che sovente le sole condizioni ambientali o familiari non riescono a spiegare.

Gli steroidi ovarici sono implicati nell’eziopatogenesi dei sintomi dell’umore nel pre-mestruo tanto che, la sindrome premestruale (SPM) non compare quando è presente una soppressione ovarica come negli anni che precedono il menarca, in gravidanza, o dopo la menopausa. Nelle donne che soffrono di SPM non sono stati riscontrati livelli di Estrogeni e Progesterone differenti, ma una modalità di secrezione caratterizzata da sbalzi della secrezione ormonale.

La sindrome premestruale può essere influenzata anche dallo stress: infatti colpisce con più intensità le donne tra i 30 e i 40 anni. A questa età, le donne hanno più impegni, dividendosi tra famiglia e lavoro spesso con la necessità di fare tutto, subito e bene.

La ripartizione dei compiti e degli impegni da affrontare secondo priorità e capacità di delegare ad altri, potrebbe aiutare a ridurre il carico di tensione, che inevitabilmente si accumula quando si cerca di fare tutto da sole senza chiedere aiuto a chi ci sta vicino.

Nel corso della fase premestruale, la donna può esperire una serie di disagi che, a seconda delle caratteristiche e della gravità, si definiscono:

– Sindrome Premestruale (SPM) di grado lieve

– SPM di grado moderato

– SPM grave

– Disturbo Disforico premestruale (DDPM).

Circa il 75% delle donne presenta Sintomi premestruali minori o isolati; dal 20 al 50% manifesta una SPM, dal 5 al 15% una SPM grave, il 3-5% un DDPM.

Non tutte le donne, però, soffrono di SPM e ne soffrono nella stessa intensità. È stata rilevata una predisposizione genetica al disturbo.

La valutazione clinica comprende oltre 300 sintomi fisici e psichici che possono presentarsi isolati o associati tra loro nel premestruo; solitamente tendono a risolversi dopo l’inizio delle mestruazioni.

Chi soffre di Sindrome Premestruale lieve o moderata presenta sintomi soprattutto fisici, poco invalidanti; nella Sindrome Premestruale grave si riscontra una ciclica comparsa di tristezza, irritabilità associate a  sintomi somatici durante la tarda fase luteale e premestruale.

Uno dei sintomi gravi della sindrome premestruale è l’aggressività. Il sintomo è tanto più grave quanto più compromette la vita quotidiana della donna rendendola incapace di gestire in modo adeguato relazioni familiari o sociali. Quando ciò avviene e la qualità di vita della donna peggiora drasticamente disturbando le sue capacità di relazione con il mondo, si parla di Disturbo Disforico Premestruale. Non è un caso che questo disturbo in America venga riconosciuto come un attenuante nei processi dove una donna è colpevole di reato di aggressione.

Il Disturbo Disforico Premestruale (DDPM)

Parliamo di un vero e proprio Disturbo Disforico Premestruale (DDMP) nel momento in cui i sintomi, oltre a presentarsi con le consuete modalità cicliche, risultano così gravi da interferire in modo rilevante con l’adattamento lavorativo, sociale o interpersonale. Il DDPM tende a cronicizzare e permanere fino alla menopausa.

In questi giorni la donna diventa più nervosa, irritabile, triste, tanto da registrare un aumento della litigiosità in famiglia e una perdita di giorni lavorativi o scolastici.

Caratteristiche:

Marcata labilità affettiva;

Ira o irritabilità persistente;

Marcata ansia, tensione;

Umore notevolmente depresso;

Diminuito interesse e piacere per le attività abituali

Facilità a stancarsi;

Difficoltà soggettiva a concentrarsi;

Marcata modificazione dell’appetito;

Alterazione del sonno;

Altri sintomi fisici

Vi sono donne che nella loro storia hanno sofferto di disturbi d’ansia o di depressione che presentano un peggioramento dei sintomi psichici in fase premestruale o hanno esordito la patologia psichiatrica in questa fase del ciclo.

I sintomi della SPM o del DDPM possono aumentare con l’età e dopo aver avuto un figlio, in caso di assunzione o sospensione di un contraccettivo orale o in seguito a chirurgia pelvica. Non ci sono risultati dell’esame fisico o test di laboratorio specifici per la diagnosi di DDPM. Una storia medica completa, l’esame obiettivo (tra cui un esame pelvico), e la valutazione psichiatrica devono essere fatti per escludere altre condizioni.

Tenere un calendario o un diario dei sintomi può aiutare le donne ad individuare i sintomi più fastidiosi e i tempi in cui si verificano. Queste informazioni possono aiutare i medici a diagnosticare il DDPM e stabilire il trattamento appropriato.

Cura tramite presidi non farmacologici della sindrome premestruale

La maggiore conoscenza e la consapevolezza del quadro clinico permette alle donne di affrontare il periodo che precede il ciclo con maggiore senso di tranquillità e capacità di gestione dei sintomi. Una volta individuati i sintomi e valutata la gravità degli stessi anche attraverso la compromissione del funzionamento lavorativo e sociale sarà possibile optare per una serie di trattamenti che andranno da presidi non farmacologici a trattamenti di tipo farmacologico a seconda della condizione clinica e della risposta agli stessi.

Alle pazienti con sintomatologia da lieve a moderata, poco invalidante e sporadica, si suggerisce una adeguata attenzione alla qualità e alla durata del sonno nella settimana che precede il  ciclo e alla qualità dell’ alimentazione; in particolare evitare di rispondere con abbuffate di dolci al caratteristico aumento di appetito e favorire, al contrario, una dieta il più possibile equilibrata, riducendo al minimo l’utilizzo di sale, caffè e alcol, che aggravano i sintomi.

Presidi non farmacologici utili nella gestione e riduzione dei sintomi premestruali possono essere gli integratori alimentari a base di magnesio e vitamine, l’esercizio fisico, le tecniche di rilassamento e la psicoterapia.

Quando i disturbi premestruali sono di leggera o media entità, l’attività fisica può contribuire al benessere. Bastano 10-20 minuti di esercizio fisico, possibilmente per 3-4 volte a settimana, come una  corsa moderata, o lunghe camminate.

Il movimento favorisce il rilascio di endorfine, sostanze utili per combattere il dolore, che diminuiscono proprio nei giorni che precedono le mestruazioni. L’attività fisica fa aumentare i livelli di serotonina, il neurotrasmettitore del benessere, importante per ottenere un miglioramento dell’umore ed un sonno riposato. Inoltre le attività fisiche aerobiche aumentano il flusso di sangue diretto ai muscoli di tutto il corpo, e questo aiuta a sciogliere i crampi e a far scomparire il dolore.

Il Training Autogeno consente di eliminare quelle perturbazioni emotive che generano sul piano fisico sintomi da attivazione (come la tachicardia) e da tensione prolungata (ipertonia muscolare che provoca mal di pancia, mal di schiena e mal di testa). Sul piano psicologico combatte la tensione psichica, il nervosismo e l’insonnia, che spesso accompagnano il ciclo a causa sia dei cambiamenti ormonali, sia (e a volte soprattutto) dell’atteggiamento con il quale la donna lo vive.

Gli sbalzi d’umore e l’irritabilità sono frequenti e si possono combattere con questa tecnica di rilassamento che  permette di sciogliere le tensioni e recuperare la calma e la stabilità del tono dell’umore, quando questo è perturbato da cause transitorie come quelle legate al ciclo mestruale.

La psicoterapia è utile in presenza di una sintomatologia premestruale che con altri trattamenti non ha trovato sollievo e cura. La SPM può avere anche cause psicologiche, soprattutto quando vi è un vissuto psicologico conflittuale verso le mestruazioni .

Terapia Farmacologica della sindrome premestruale

La terapia farmacologica per SPM e DDPM dispone di diversi interventi atti a controllare e a ridurre la sintomatologia quotidiana, soggettivamente disturbante e disfunzionale.

Nelle donne che presentano una SPM di grado moderato/grave e nel DDPM la terapia psicofarmacologica con l’utilizzo di antidepressivi è risultata la più efficace nel controllo e nella cura della sintomatologia psichica, con miglioramento dell’adattamento e del funzionamento globale.

I farmaci più efficaci utilizzati sono rappresentati dagli antidepressivi della categoria degli SSRI o gli SNRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina o della serotonina/noradrenalina) che agiscono sulla cascata ormonale del progesterone ed aiutano a correggere i sintomi psichici. Non sempre risultano efficaci nella sintomatologia fisica. Evidentemente questa scelta deve essere valutata attentamente da uno specialista in modo da calcolare rischi e benefici del trattamento prima della sua applicazione.

Il 10% delle donne che denunciano sintomi di sindrome premestruale, in particolare quelle con DDPM, presentano pensieri suicidi. L’incidenza di suicidio nelle donne con depressione è significativamente più elevata durante la seconda metà del ciclo mestruale.

Contattare il medico curante, uno psicologo, o psichiatra, se si hanno pensieri suicidi, o se i sintomi interferiscono con la vostra vita quotidiana.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La Body Image Modular Therapy – Report dal Training di primo livello – Milano

Body Image Modular Therapy

Report dal Training di primo livello – Sabato 7 Giugno 2014 – Milano 

 

Emanuel Mian, PhD, ha presentato a Milano il Training di primo livello in Body Image Modular Therapy (BIMT), illustrando un approccio modulare e flessibile che non sostituisce, bensì integra e compendia le altre terapie, e che si avvale di tecniche di video-simulazione digitale (Body Image Revealer) per la diagnosi e il trattamento dei disturbi dell’immagine corporea.

Chi si occupa di pazienti che soffrono di Dismorfismo Corporeo o di Disturbi Alimentari sa che il tema della percezione distorta della propria immagine corporea è un aspetto delicato da trattare: rassicurare un paziente sul fatto che la sua bocca simmetrica non è asimmetrica non serve a niente, così come cercare di convincere una ragazzina di 45 kg che non ha le gambe grosse o la pancia è tempo perso.

Questi pazienti hanno una rappresentazione interna della propria apparenza esterna alterata, che li porta a rimuginare sulla loro condizione, a mettere in atto estenuanti comportamenti di controllo (check del peso, tattili, visivi; confronto con gli altri), a richiedere infinite rassicurazioni e ad elaborare strategie di evitamento (es. camouflage, eccessivo ricorso alla chirurgia estetica, etc.).

Data la peculiarità dei sintomi tipici dei disturbi dell’immagine corporea, è utile avere a disposizione un protocollo specifico applicabile a tali problematiche: la Body Image Modular Therapy sembra essere una valida proposta.

Emanuel Mian, PhD, ha presentato a Milano il Training di primo livello in Body Image Modular Therapy (BIMT), illustrando un approccio modulare e flessibile che non sostituisce, bensì integra e compendia le altre terapie, e che si avvale di tecniche di video-simulazione digitale (Body Image Revealer) per la diagnosi e il trattamento dei disturbi dell’immagine corporea.

Il corso, molto interessante, ben condotto, supportato da letteratura scientifica, in cui clinica e ricerca danno entrambe il loro contributo, ha illustrato diversi moduli che costituiscono la BIMT, alcuni specifici per l’immagine corporea e altri indirettamente correlabili.

Il protocollo consta di moduli boost, moduli retest, moduli per OCD (skin picking, tricotillomania…), moduli weight (AN, BN, Obesità), moduli assessment, moduli per l’esposizione in vivo o immaginativa, moduli per la prevenzione delle ricadute, ciascuno ben strutturato e con homework specifici.

L’intervento prevede una fase introduttiva in cui si effettuano la raccolta anamnestica, la valutazione psicodiagnostica, la formulazione del caso, gli interventi psicoeducativi relativi al peso e/o all’immagine corporea, e l’enhancement della motivazione, assieme alla costruzione di una buona alleanza terapeutica.

In particolare la formulazione del caso implica l’identificazione dei pensieri automatici e dei trigger del paziente sui pensieri negativi, nonché la discussione dell’immagine corporea. L’assessment, invece, compendia la diagnosi psichiatrica o psicodiagnostica standard attraverso interviste semistrutturate e test psicodiagnostici specifici, tra cui BDI, BAT-20 (Body Attitude Test), EDI-2 o EDI-3 (con particolare attenzione alle scale Insoddisfazione corporea e Desiderio di magrezza), BUT (Body Uneasiness Test). Non manca l’uso di strumenti di psicodiagnostica per immagini volti ad indagare la percezione che il paziente ha della propria immagine e come vorrebbe essere (Silhouettes Figure Rating Scales).

L’assessment comprende anche l’uso di strumenti di videosimulazione digitale: vengono scattate foto ai pazienti che vengono successivamente videoproiettate ed analizzate insieme al terapeuta.

La BIMT prevede dei moduli specifici che riguardano le Rassicurazioni ed il Controllo, in cui vengono utilizzate tecniche di ristrutturazione cognitiva, ed il Face Focus e il Body Focus, in cui giocano un ruolo fondamentale l’esposizione allo specchio e la photo/video confrontation.

Poiché l’esposizione è un’attività fortemente ansiogena per il paziente, il protocollo prevede sia la valutazione ad inizio seduta del tono dell’umore (in modo da valutare se sia il momento adatto per sottoporre il paziente allo stress dell’esposizione) sia l’utilizzo di tecniche di rilassamento e respirazione. L’esposizione viene affiancata ad ulteriori tecniche cognitive, di mindfulness e ad un assessment emotivo.

Nella photo/video confrontation il paziente si confronta invece con la propria immagine manipolata digitalmente; per esempio nel caso di pazienti che soffrono di Anoressia Nervosa viene simulato l’aumento di peso temuto e l’immagine ottenuta viene discussa in seduta; per il paziente è anche l’occasione per sperimentare la possibilità di stare nel momento, dentro l’emozione che lo spaventa.

La BIMT dedica inoltre un modulo all’autostima, costrutto fortemente legato all’immagine corporea, andando ad indagare e a lavorare su quello che il paziente pensa di essere, come vorrebbe essere (o ritiene dovrebbe essere) e come gli altri pensano che sia.

In conclusione la BIMT lavora sugli aspetti cognitivi (come il paziente pensa di essere fisicamente), emotivi (come il paziente sente di essere fisicamente) ed ideali (come il paziente vorrebbe essere fisicamente) dell’immagine corporea, è un approccio in cui è evidente l’influenza del modello cognitivo-comportamentale, della mindfulness e dell’ACT, e che per la sua modularità ben si presta ad essere integrato all’interno di qualsiasi terapia che debba affrontare il tema dell’alterazione della percezione della propria immagine.

A settembre verrà riproposto il training di primo livello e a seguire il secondo ed il terzo livello con la conclusione del corso per marzo 2015. Per chi si occupa in particolare di Disturbo da Dismorfismo Corporeo o di Disturbi Alimentari la BIMT può sicuramente rappresentare un valido strumento da tenere nella propria cassetta degli attrezzi di psicoterapeuti.

 

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Grasso sarà anche bello, ma in politica non piace agli elettori; è quanto emerge da uno studio della Michigan State University secondo il quale i candidati politici in sovrappeso tendono a ricevere meno voti rispetto ai loro avversari più magri.

Già in passato la ricerca ha messo in evidenza come le persone in sovrappeso vengano discriminate nella maggior parte dei contesti sociali americani (a scuola, nelle imprese, in attività di intrattenimento), ma questa è la prima volta che la ricerca scientifica in questo campo si interessai risultati elettorali.

I coniugi  Roehling – lui ex manager delle risorse umane e avvocato civile specializzato in licenziamenti illeciti e discriminazione, lei  professore di psicologia presso l’Hope College – hanno analizzato i dati delle elezioni al Senato degli Stati Uniti del 2008 e del 2012 .

I 126 candidati sono stati classificati come normopeso, sovrappeso o obesi.

I risultati delle elezioni, incrociati con la classificazione effettuata dai ricercatori, hanno rivelato che sia gli uomini che le donne obese avevano meno probabilità di ottenere voti.

Inoltre, nella condizione di sovrappeso, erano le donne a pagare maggiormente le conseguenze, infatti gli uomini di taglia forte, ma non obesi, venivano discriminati meno delle avversarie donne.

In generale, comunque, in tempi di elezioni, obesità e sovrappeso raccolgono meno voti di un corpo snello e asciutto.

“Lo studio “, ha detto Roehling , ” fornisce la prova che il pregiudizio e la discriminazione contro il sovrappeso e l’obesità, già documentati nei settori dell’occupazione, dell’istruzione, della sanità e nelle situazioni sociali si estende anche al processo elettorale.”

 

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Ruminazione rabbiosa e Impulsività – Report dal seminario con Raymond Digiuseppe Ph.D

I Disturbi di Rabbia: Psicopatologia e trattamento

Report dal seminario

Raymond Digiuseppe
Raymond Digiuseppe Ph.D

Questa è l’osservazione da cui Raymond DiGiuseppe e il suo gruppo di ricerca sono partiti per un interessante viaggio nella letteratura scientifica riguardante questa emozione e le sue implicazioni psicopatologiche e che ha presentato oggi in una lezione magistrale organizzata dalla Scuola di Psicoterapia Studi Cognitivi. 

Nel panorama dei manuali diagnostici di psicopatologia la rabbia ha subìto uno strano destino. Pur essendo una delle emozioni negative di base, non sono state considerate negli anni categorie diagnostiche per disturbi emozionali che fossero centrati sull’esperienza della rabbia.

Hanno sempre dominato emozioni come ansia e depressione. Anche i libri di psicopatologia e psicoterapia spesso non hanno un capitolo dedicato alla rabbia.

Questa è l’osservazione da cui Raymond DiGiuseppe e il suo gruppo di ricerca sono partiti per un interessante viaggio nella letteratura scientifica riguardante questa emozione e le sue implicazioni psicopatologiche e che ha presentato oggi in una lezione magistrale organizzata dalla Scuola di Psicoterapia Studi Cognitivi.

Uno dei temi centrali è il rapporto tra ruminazione rabbiosa e impulsività come elementi caratterizzanti l’espressione rabbiosa. Se si osservano gli strumenti di valutazione clinica della rabbia emergono due modalità espressive. La prima (Anger-IN o rabbia repressa) riguarda una tendenza a mantenere un stato di rancore nella propria mente, verso di sé o verso altri o per esperienze vissute.

Le persone sopprimono l’espressione esterna della propria rabbia ma vi rimangono intrappolati mentalmente. Il marker di riferimento è un pensiero di analisi ruminativa sulle ingiustizie subìte o sulle possibili azioni di rivendicazione e rivalsa. Talvolta anche per giorni, per anni o per tutta la vita.

La seconda (Anger-Out o rabbia esplosiva) riguarda un comportamento aggressivo verbale, fisico contro oggetti o contro le persone.

Ci si aspetterebbe che queste due manifestazioni rabbiose abbiano un rapporto discontinuo e separato, come se si distinguessero rabbiosi da ruminazione e rabbiosi da impulsività. DiGiuseppe al contrario mostra che nella maggior parte rappresentano due facce dello stesso problema, le due componenti sono talmente correlate da rendere complesso distinguerle a livello statistico.

Lo sforzo prolungato per l’autocontrollo affiancato da una tendenza ruminante favorisce espressioni impulsive rabbiose. In altre parole, l’affaticamento da ruminazione e da repressione dell’espressione rabbiosa produce agiti impulsivi, anche innanzi a un evento apparentemente di minore importanza.

L’individuo appare privo di controllo, si sente impulsivo e fatica a essere consapevole dei processi che hanno generato questa risposta. Esiste un modello che descrive questo meccanismo (Baumeister, 2003): l’autocontrollo è un muscolo e come tale si stanca con il tempo, la ruminazione rabbiosa lo costringe a un continuo sforzo.

La dinamica di ruminazione e autocontrollo consuma i livelli di glucosio disponibili nel cervello per mantenere autocontrollo e aumenta il rischio di comportamenti esplosivi. La ruminazione carica di energia rabbiosa intensa che richiede poi un grande sforzo per regolarla.

In una raccolta dati del gruppo ricerca di DiGiuseppe su componente ruminativa e impulsiva della rabbia, solo il 4% delle persone ha alta impulsività e bassa ruminazione rabbiosa e si tratta di persone con problemi neurocognitivi (lesioni orbitofrontali).

Nel 90% delle persone ruminazione e impulsività si muovono assieme. Un altro 4% circa ha alta ruminazione rabbiosa con bassa impulsività. Questi individui per DiGiuseppe sono quelli che manifestano maggior rischio di vendetta violenta.

Quali sono le implicazioni cliniche? Il più frequente riferimento in risposta alla rabbia è il self-inoculation training (Novaco, 1977).

L’obiettivo è usare autoistruzioni attraverso il dialogo con sé stessi per controllare l’impulsività rabbiosa. Il rischio è quello di cogliere la fatica del muscolo dell’autocontrollo o di identificare la propensione alla ruminazione.

La possibilità suggerita è focalizzare sulla costruzione dell’assertività intesa come espressione adattiva della propria rabbia a monte, prima che divenga una pentola a pressione in procinto di esplodere al minimo intralcio.

Questo per uscire dalla dicotomia tra il non dire nulla e l’esplosione imparando nuove risposte (prima in immaginazione e poi in vivo) innanzi agli stimoli che generano rabbia.

 

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Ruminazione rabbiosa: quanto ci costa?

 

BIBLIOGRAFIA:

I Disturbi Dissociativi della Coscienza di Giuseppe Miti – Recensione

 I Disturbi dissociativi della coscienza

Di Giuseppe Miti (2013). Carocci, Roma

 

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I Disturbi Dissociativi della coscienza rappresenta il tentativo ben riuscito dell’autore di offrire una descrizione chiara e precisa dei disturbi dissociativi della coscienza con un occhio attento per la nuova classificazione Diagnostica proposta dal DSM-V e per recenti linee guida internazionali al trattamento.

[blockquote style=”1″]È dunque da attribuirsi più all’esigente natura delle mie aspirazioni che a una mia speciale degradazione, il motivo per cui si separarono in me, con un solco più profondo, le regioni del bene e del male che dividono e compongono ad un tempo la duplice natura dell’uomo. Per quanto io fossi preda di un profondo dualismo, le due nature in me coesistevano in perfetta buona fede, ed ero ugualmente me stesso sia quando, sciolto ogni freno, ero immerso nella vergogna, sia quando mi affaticavo a lavorare per il progresso della scienza o per dare sollievo al dolore e alla sofferenza.[/blockquote]

Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

I disturbi dissociativi rappresentano una realtà psicopatologica non così rara come molti clinici sono ancora soliti pensare, ma che sempre più frequentemente sono oggetto di osservazione e trattamento. Non solo, ma la loro esistenza pone il clinico di fronte al problema di come il trauma precoce produca dei profondi e  potenti effetti sulla dimensione della coscienza umana, in cui il mondo relazionale dell’individuo gioca un ruolo cruciale.

Questa riflessione e tante altre ci vengono offerte da Giuseppe Miti nel suo libro I Disturbi dissociativi della coscienza, che rappresenta il tentativo ben riuscito dell’autore di offrire una descrizione chiara e precisa dei disturbi dissociativi della coscienza con un occhio attento per la nuova classificazione Diagnostica proposta dal DSM-V e per recenti linee guida internazionali al trattamento.

Ma il libro di Miti è molto di più, nella misura in cui offre al lettore degli spunti di riflessione interessanti sul tema della coscienza e della dissociazione sotto il profilo storico-culturale, scientifico, neurofisiologico e clinico.

Il testo offre prima di tutto al lettore una precisa definizione del termine coscienza, della sua evoluzione nel corso degli anni, sino all’identificazione, attraverso i dati provenienti dai più recenti studi neuropsicologici, della sua origine intrinsecamente relazionale, ovvero emergente dal costante dialogo tra mondo esterno e processi di memoria.

Di qui il concetto di dissociazione, dal modello Janetiano di Isteria alle concettualizzazione degli anni ’80, che pensavano il fenomeno da un lato come parte di un continuum e dall’altro come entità a sé stante e qualitativamente diversa dalle altre. Non mancano gli ultimi e più interessanti sviluppi del concetto di dissociazione, che affondano le loro radici nella teoria dell’attaccamento, e sulla base della quale la dissociazione viene proposta, non più come processo difensivo a seguito del trauma, ma come tentativo di inibire l’attivazione del sistema motivazione dell’attaccamento a scopo protettivo rispetto alle esperienze terrifiche e non-integrabili.

Ad una precisa descrizione dell’attuale classificazione dei disturbi dissociativi proposta dal DSM-V, dove non manca la sottolineatura degli aspetti di continuità e di novità rispetto alla nosografia precedente, segue un capitolo interamente dedicato dall’autore alla memoria e ai ricordi, così intimamente connessi al fenomeno della dissociazione.

I diversi sistemi mnestici vengono descritti da un punto di vista funzionale, dei circuiti neuronali coinvolti e del loro sviluppo precoce nel bambino così come gli effetti che su di essi esercitano le memorie traumatiche, producendo da un lato la sintomatologia più propriamente osservabile nel PTSD e dall’altro i disturbi della coscienza e della memoria. Il coinvolgimento di tali funzioni viene quindi approfondita con riferimento alla neurobiologia delle emozioni, con attenzione al ruolo che i fattori ambientali giocano nella modulazione dell’amnesia e dei falsi ricordi.

L’autore propone a questo punto una riflessione sulla linee guida internazionali di trattamento dei disturbi dissociativi, sottolineando da un lato la maggiore utilità rispetto alle tecniche terapeutiche classiche di quelle più recenti, quali la psicoterapia Sensomotoria, l’EMDR e la Mindfulness, nell’elaborazione e integrazione delle memorie traumatiche. Dall’altro, attraverso la proposta di un caso clinico, stimola nel lettore la riflessione sulle difficoltà e gli errori che possono essere commessi nella psicoterapia con questi pazienti, non priva di insidie, momenti di stallo e soprattutto attacchi alla relazione terapeutica, frutto del costante attivarsi di sistemi motivazionali differenti, la cui gestione rappresenta un elemento cardine del lavoro clinico.

L’efficacia degli interventi terapeutici bottom-up viene inoltre spiegata dall’autore attraverso un attento approfondimento della Teoria Polivagale di Porges (2001), che aiuta il clinico a comprendere l’origine dei deficit conseguenti al trauma da un punto di vista neurfisiologico.

Grande interesse è infine l’ultimo capitolo, che Miti dedica al tema della possessione, con cura e precisione analizzato nella sua evoluzione storica, culturale e religiosa, offrendo al lettore molteplici spunti di riflessione su un fenomeno che il clinico può incontrare nella sua pratica, e che non si caratterizza solamente per la complessità degli elementi che caratterizzano il funzionamento psichico del paziente ma anche per i significati, gli effetti e le influenze che il mondo relazionale e interpersonale dell’individuo, prima bambino, esercita su di esso.

Un testo quindi, quello di Miti, che offre spunti di riflessione interessanti e indicazioni terapeutiche utili al clinico che tratta nella sua pratica questi pazienti così complessi, così come per il clinico che si avvicina per la prima volta alla comprensione dei significati connessi ai fenomeni dissociativi.  

 

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Drogati d’amore? Guarire si può

FLASH NEWS

 

Alla base della dipendenza affettiva c’è una profonda necessità di legarsi ad un altra persona, di connettersi emotivamente perché la propria identità e autostima sono costruite sull’opinione altrui.

Può l’amore creare dipendenza al pari di droga e alcol?

Attualmente non sono stati riconosciuti dei criteri diagnostici per definire la dipendenza affettiva e dunque non è stata ancora classificata come patologia, tuttavia la sua fenomenologia trova molte similarità con la dipendenza da sostanze presentando caratteristiche quali ebbrezza (sensazione conseguente allo stare insieme al partner) e dose (quantità di tempo sempre maggiore da spendere all’interno della coppia).

Alexandra Katehakis, fondatrice e Direttore Clinico del Center for Healthy Sex di Los Angeles, racconta le testimonianze di alcuni suoi pazienti con dipendenza affettiva che accusano sintomi comuni, primo fra tutti la paura: paura di perdere l’amore, paura dell’abbandono o della separazione, paura della solitudine e della distanza, paura di mostrarsi per quello che si è, ma
anche senso d’inferiorità nei confronti del(la) compagno(a), senso di colpa, rancore e rabbia, coinvolgimento totale nella relazione e vita sociale limitata, gelosia e possessività, ossessione per l’altro, incapacità di smettere di vedere la persona amata anche quando si è consapevoli che è distruttiva per se stessi, sentimenti di disperazione e fallimento quando si è allontani dal partner; oltre ad altri sintomi simili a tutte le dipendenze come insonnia, nausea, disturbi gastrici e sintomi influenzali, fino ad arrivare a depressione e stati simili al lutto.

Alla base della dipendenza affettiva c’è una profonda necessità di legarsi ad un altra persona, di connettersi emotivamente perché la propria identità e autostima sono costruite sull’opinione altrui. È il disamore di sé, la sfiducia nel proprio valore e nelle proprie capacità a creare la paura di non essere degna d’amore, il bisogno di continue rassicurazioni e la ricerca di conferme di sé nel
partner sono manifestazioni di un bisogno ossessivo di sicurezza che porta a tollerare anche maltrattamenti e tradimenti pur di non perdere l’altro.

Spesso le persone dipendenti hanno un passato di abusi, maltrattamenti fisici ed emotivi che non sono da sole riuscite ad elaborare. Dinamiche familiari di questo tipo vengono replicate nella scelta di partner inadeguati. I dipendenti, infatti, instaurano frequentemente relazioni con persone evitanti finendo col ritrovarsi così in una serie continua di alti e bassi che causano loro
un’incredibile delusione e devastazione.

Anche se questo genere di relazioni tende ad essere molto intenso, di rado porta a una reale intimità. Ciò che fornisce è una fantasia, che non riflette la realtà dell’oggetto del loro affetto.

Le conseguenze di una dipendenza affettiva non sono solo sul piano emotivo, chi ne soffre spesso è così coinvolto nell’inseguimento di queste relazioni malsane da trascurare le proprie responsabilità professionali, la cura personale e quella familiare.

È necessario dunque affrontare questa problematica con un processo di disintossicazione del tutto simile a quello che si mette in atto per chi è dipendente da sostanze, chiedere aiuto è essenziale per superare questo difficile passaggio fatto anche di dolore dell’astinenza e della sensazione di essere perduti. È un percorso di ripresa del controllo sulla propria vita che parte dal
riconoscimento e dall’accettazione della propria vulnerabilità e della propria dipendenza.

Per farlo la Katehakis propone un cammino che combini una terapia individuale a 12 incontri con un gruppo di Dipendenti da Sesso e Amore Anonimi (SLAA, Sex & Love Addicts Anonymous) con cui condividere emozioni ed esperienze e sentirsi meno soli.

 

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Dalla manipolazione alla dipendenza affettiva – Psicologia & Relazioni

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Katehakis, A. (2014). The Process of Love Addiction Withdrawal. Psych Central. Retrieved on May 31, 2014, from  http://psychcentral.com/blog/archives/2014/05/28/the-process-of-love-addiction-withdrawal/

 

Psicoterapia: intervista con Paolo Moderato – Ricerca & Psicoterapia

 LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Paolo Moderato

Professore Ordinario di Psicologia Generale
IULM Libera Università di Lingue e Comunicazione

 

State of Mind intervista Paolo Moderato, Professore Ordinario di Psicologia Generale, IULM Milano. Past President EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) Past President AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento) Direttore della Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale HUMANITAS. Fondatore e Presidente di IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano).
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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ACT Acceptance and Commitment Therapy

Psicoterapia Sistemico-Relazionale: Intervista ad Alfredo Canevaro

Riproponiamo la trascrizione completa dell’intervista che il prof. Alfredo Canevaro ha rilasciato a State of Mind a Dicembre 2013

SoM – Quali sono i principi teorici e clinici irrinunciabili e che utilizza per orientarsi nel lavoro clinico?

AC – Senz’altro il lavoro con la famiglia di origine, che è il principio cardine della mia filosofia terapeutica e delle tecniche che ho cercato di adoperare e creare in questi anni per far si che questa epistemologia abbia un in incidenza clinica diretta in beneficio del paziente, perchè la mia bussola è stata sempre stata l’efficacia terapeutica. Sono un clinico e tento di integrare le cose buone che arrivano dai diversi rami della scienza. Ho avuto una formazione psicoanalitica dalla fine degli anni ’60, deliberatamente però non volli entrare nell’associazione psicoanalitica perchè all’epoca c’era la tirannia freudo-kleiniana,che imponeva una praxis molto lontana dei miei bisogni, visto che lavoravo con gli schizofrenici e loro famiglie.Cominciai a lavorare con i pazienti psicotici gravi e le loro famiglie già nel ’67, nel servizio diGarcia Badaracco, uno psicoanalista di psicotici molto conosciuto che credeva che la psicosi poteva guarire con la psicoterapia ed era considerato un altro matto! Invece con lui cominciai con i gruppi multifamiliari e poi fondammo una clinica nel maggio del ’68 che ho co-diretto per 13 anni, trattavamo i casi più esiziali di psicosi, la stragrande maggioranaza era schizofrenia, psicosi affettive maggiori e pochissimi tossicodipendenti , però sempre in un contesto multifamiliare dove si interagiva con le famiglie già dal primo momento, poi le famiglie avevano anche la terapia familiare nucleare e i pazienti la loro psicoterapia individuale.

SoM – Multi-familiare nel senso che facevate gruppi di familiari?

AC – Certo, quando la clinica era nell’apogeo con circa 40 pazienti li avevamo divisi in tre micro comunità con 8-10 famiglie ciascuno, poi c’era una sera a settimana in cui si faceva un gruppo multifamiliare di tipo assemblare che poteva coinvolgere 70, 80 persone e 7, 10 terapeuti, che è una tecnica molto importante dove si accede a una comprensione e a un’efficacia che non si ha in nessun altro setting, perchè la potenza delle famiglie insieme è enorme. Cioè ricostruiscono la rete familiare persa della famiglia tradizionale e quando si riesce a far lavorare il gruppo terapeutico si vedono cose notevoli, sopratutto il trattamento della violenza che è una cosa difficile da gestire in altri setting. In quei gruppi c’era un centro drammatico, dove accadevano molte cose e li ho imparato molto attraverso la prossemica, perchè il senso è questo: i pazienti venivano ricoverati dai loro analisti e molti di loro avevano 10, 15, 20 anni di analisi; ho conosciuto uno di 29 anni, con lo stesso ‘analista, che già era passato da padre a nonno e bisnonno, non aveva più interpretazioni da dare a questo povero paziente! Questi pazienti sono sempre molto intelligenti e leggevano anche molta psicoanalisi, ne sapevano più di me che dovevo, comunque sia, cercare di aiutarli, e allora tutti questi sistemi terapeutici erano disfunzionali, perchè l’analista ricoverava il paziente in rotta con la famiglia e in coalizione con il paziente, o in coalizione con la famiglia contro il paziente e i direttori dovevano mediare tra questi sistemi terapeutici disfunzionali, per cui non solo ho visto centinaia di pazienti ma ho visto centinaia di terapeuti all’opera con situazioni molto gravi che mettono alla prova chiunque, per cui ho capito molto bene cosa c’è dall’altra parte della panca. Assistevo a questi dialoghi tra i pazienti e i loro terapeuti su resistenza, transfert, identificazione proiettiva e introiettiva ma erano matti da legare! Per cui ho capito che il linguaggio, pur essendo la massima espressione dell’essere umano, purtroppo serve anche per mentire e mistificare, invece le emozioni non mentono mai, per cui questa è stata la mia scelta, di lavorare con le emozioni perchè poi possano cambiare la cognizione; e per questo lo spazio emozionale, la prossemica erano importanti e cominciai a fare delle esperienze con i pazienti, avvicinandoli per sentire di più che succedeva con loro, o allontanandoli, quando non potevano parlare con i congiunti, da una “I position” parafrasando Bowen. Li facevo sedere accanto a me e da li parlavano in prima persona, comunicando i loro bisogni e sentimenti. Tutte queste esperienze mi sono servite molto per creare alcune tecniche per il lavoro individuale e di coppia. Per cui questo è stato il contesto originario della mia esperienza che poi si evolse verso il concetto dell’approccio trigenerazionale e cominciai a studiare molto l’interazione tra i sistemi familiari di origine di ognuno dei partner e da li allora uno dei metodi che creai, e che continuo tutt’ora a impiegare da più di 35 anni, ed è quando c’è una crisi di coppia convocare ogni famiglia di origine senza l’altro coniuge presente, in questo modo si riescono a capire le coalizioni intergenerazionali, che creano sempre disfunzionalità. Quando tra la prima generazione e la generazione della coppia ci sono coalizioni intergenerazionali alle spalle del partner, queste incidono sempre disfunzionalmente sulla coppia, ma anche quando c’è la coalizione tra un padre e un figlio contro la madre, o viceversa, il bambino soffre. Per cui questo è il concetto: che il legame si basa sull’interazione di due vincoli fondamentali, il vincolo di filiazione, endogamico sanguigno che unisce il padre con i genitori e i figli dei figli, e il vincolo di alleanza, che unisce i rappresentanti di due sistemi famigliari diversi, due clan diversi, questi due vincoli sono antitetici ma complementari, come la luce e l’oscurità, il flusso e il reflusso del mare, più forte diventa uno più si indeblisce l’altro, però insieme costituiscono il punto nodale del sistema trigenerazionale, che è la coppia. Il cuore della famiglia. Noi vedremo sempre situazioni in cui il vincolo di filiazione predomina su quello di alleanza e allora dovremmo cercare di armonizzare entrambi e questo fa parte del lavoro terapeutico che per me è centrale

SoM – Nello specifico con le coppie o anche quando si lavora con i pazienti in individuale?

AC – Certo anche con il paziente individuale è molto importante che il paziente abbia la centralità; nella terapia familiare diceva Boszormenyi-Nagy che ci sono parzialità multidirezionali, cioè il terapeuta deve essere alleato di tutti e complice di nessuno, nella terapia individuale sistemica con gli allargamenti il paziente deve essere centrale; i famigliari sono invitati come testimoni per collaborare nella terapia a portare informazioni, consigli, pronostici, suggerimenti, per aiutare il terapeuta ad aiutare il suo paziente, così io li convoco, perchè penso che l’arte maggiore del terapeuta è volgere la famiglia a favore del processo terapeutico; Uno dei drammi più grandi della psicoterapia individuale è il fatto che molti terapeuti quando il paziente dice “la mia famiglia mi fa impazzire, mi mette i bastoni tra le ruote” tutti dicono “salvati tu!”, anche il terapeuta “vai a vivere da solo e cerca di tenerli a bada!” e credo che questo sia un errore clinico enorme, fonte di molti drop-out, impasse terapeutiche e fallimenti terapeutici.

SoM – Andare nella direzione di una separazione invece che di un avvicinamento

AC – Certo ma questo già lo diceva Bowen, un terapeuta multigenerazionale molto importante: colui che pretende differenziarsi dalla sua famgilia con la distanza fisica o emozionale, non fa che portarsi appresso questa indifferenziazione, che inevitabilmente si ripeterà nelle relazioni significativi che instaurerà nel tempo e la coppia è uno dei sistemi dove inevitabilmente ognuno cerca di neutralizzare, sopperire o elaborare problemi irrisolti con la famglia di origine e questo è uno dei drammi della coppia, perchè la coppia non è fatta per sopperire alla famiglia, la coppia ha una funzione diversa. Io credo dopo più di 46 anni di lavoro intenso con le coppie, e quintali di libri e film fatti su questo argomento che, l’essenza della vita di coppia è: insieme a te nel cammino della vita sto meglio che da sola/o, punto. Tutto il resto sono proiezioni, depositazioni che si fanno sul partner in un tentativo di risolvere quello irrisolto con la famiglia d’origine e questo porta a molti fallimenti di coppia perchè il partner si sente ingiustamente trattato “io non sono quello che tu mi dici!”. Ad esempio, se una donna che ha una madre anaffettiva dice al partner “tu non mi vuoi bene, non mi coccoli, non stai con me tutto il tempo” e lui si sente offeso “ma come? tu sei la persona che più amo nella vita, ti do tutto il mio tempo libero, ma tu sei un barile senza fondo!”. Se noi abbiamo la possibilità di invitare questa donna con la madre in seduta e cercare di capire il perchè di questa anaffettività, giacchè può essere che questa madre sia stata depressa, abbia avuto problemi, o non sia stata accolta bene dalla famiglia del marito o dalla propria, o che abbia avuto drammi esistenziali che possono spiegare questa situazione, e se noi riusciamo a creare una relazione figlia-adulta/madre più soddisfacente inevitabilmente il partner ci dirà che la relazione di coppia è migliorata molto.Se non è così è perchè è un problema specifico della coppia.

SoM – Per cui tornare sempre alla famiglia di origine sia nelle terapie di coppia che quelle individuali

AC – Si, tornare in un momento iniziale del processo terapeutico sia individuale che di coppia. Per esempio con il lavoro del paziente individuale, io ho pubblicato 4 anni fa un libro che si chiama “quando volano i cormorani” sulla terapia individuale sistemica con l’allargamento ai famigliari significtivi. I cormorani sono uccelli marini che fanno 3 o 4 salti di qualità nella loro autonomizzazione, questo lo scopri Kortland, uno zoologo olandese, negli anni ’50, cioè il cormorano prima è nel proprio nido, poi si sposta nel proprio albero, poi negli alberi vicini, poi scompare in giro per qualche giorno, poi torna ed è rimbeccato per 3 giorni dai genitori e poi spicca il volo fino alla primavera successiva, malgrado la chiamata insistente dei genitori. E Kortland chiamò a questo processo la reprogressione biologica: fare un passo indietro per farne due avanti. E questo è quello che io cerco di fare con le famiglie, andiamo indietro per cercare di avere il nutrimento affettivo e l’accettazione del sé originale del proprio paziente per poi spiccare il volo verso il suo progetto esistenziale. Io credo che l’arte più grande è che il terapeuta possa impiegare la sua energia nel liberare gli ostacoli che impediscono la normale crescita e differenziazione che appartiene a tutti gli esseri umani, persino allo psicotico più grave. Diceva David Cooper, uno psichiatra sudafricano, anti-psichiatra, che nei circhi della Boemia di metà ‘800, mostravano esseri umani fatti crescere in casse di legno per cui diventavano mostri, lui diceva che anche noi riusciamo a crescere nelle nicchie che la famiglia ci fa attorno, come rappresentante di un autoritarismo sociale,che anche noi in certo senso possiamo essere mostri.. Va bene, io riscatto in questo esempio la forza della crescita, il bisogno di differenziazione che è insito in ogni persona ed è bloccato dai conflitti familiari, se noi riusciamo a liberare gli ostacoli, convocando i familiari e lavorando nei processi disfunzionali, il paziente migliorerà” da solo,”, perchè anche la vita è terapeutica. Per cui impiegando molta forza in quella fase della terapia sia individuale che di coppia e poi il paziente-cormorano può volare con le ali meno cariche di zavorra e allora lì lavoreremo veramente sul progetto esistenziale del paziente.

SoM – Lei fa prevalentemente terapie individuali sistemiche con questa tecnica degli allargamenti. Come è avvenuto il passaggio dalla terapia familiare classica al lavoro sui sottosistemi?

AC – La terapia familiare congiunta sempre e comunque inizia 50 anni fa ed è importante nei casi gravi di psicosi, tossicodopendenza, o pazienti borderline poter convocare la famiglia, invece quando il paziente è meno grave, che poi sono l’80% dei pazienti che vanno in giro cercando terapia, questi pazienti per il fatto di non essere gravi hanno perso l’opportunità di convocare la loro famiglia in terapia, per questo motivo questo il metodo del libro dei cormorani si applica ai pazienti che possono avere una vita più o meno autonoma. L’errore della psicoanalisi, ma anche delle terapie cognitiviste o sistemiche che non pensano in termini di famiglia, è separare il paziente anziché aiutarlo a differenziarsi attraverso la famiglia, e non contro la famiglia. Questo può portare molti pazienti a fare, come diceva Bowen, un cut-off, un taglio emotivo, si salvano dalla famiglia, fanno un percorso molte volte positivo, molte volte con anni e anni di terapia, ma rimane sempre una mutilazione emozionale, che è molto diversa da quando si fa attraverso il lavoro con la famiglia, dove il paziente possa ricevere quello che gli spetta dagli altri, come i genitori, il nutrimento affettivo e la conferma del sé originale di ogni persona, questo appartiene a loro ma ce l’hanno i genitori e a volte lo lesinano per paura di rimanere da soli, di avvicinarsi di più alla morte. Questo è il problema delle generazioni in terapia, quante volte un uomo o una donna, più le donne anziane, dicono al figlio “io che ti ho dato la vita, adesso la devi dare tu a me”, io dico “alt! Non è così che vanno le cose: quando lui o lei darà ai suoi figli l’amore e la protezione che lei ha dato a lui/lei ripagherà indirettamente a lei il debito esistenziale di essere in vita, perchè il tempo scorre sempre in avanti e mai indietro”, questo è la migliore differenziazione che si fa dentro la famiglia, perchè un altro errore frequente che si fa concettualmente è pensare alla famiglia di origine come là e allora, invece la famiglia c’è sempre fino a che noi campiamo o campano loro, un padre e una madre a 90 anni può essere importantissimo con un gesto di affetto, con un informazione, con un contributo a questo figlio, e qui tocchiamo un altro mito della psicoterapia: mi diceva una terapeuta sistemica tanti anni fa “Che c’entra la famiglia di origine in un adulto! Uno a 25 anni è già adulto!” un altro errore notevole; Nella casistica pubblicata sul libro dove due ricercatrici della scuola e un giudice imparziale come Matteo Selvini crearono dei questionari e li mandarono a un ottantina di pazienti che avevo trattato nell’arco di 5 anni, non per 5 anni. Risposero al questionario 66 persone, che era un 82% che negli standard internazionali viene accettato come valido; il 10% dei pazienti avevano tra i 40 e i 60 anni e io ero riuscito a convocare i loro genitori sani di 80, 85 anni, persino ho il record di una nonna di 93 anni che convocai insieme alla figlia e alla nipote che era la mia paziente per vedere un problema trigenerazionale nell’asse femminile: la nonna prese il microfono e non lo mollò più! Diede una visione panoramica della famiglia che sembrava una terapeuta familiare, aiutò moltissimo la nipote…e aveva 93 anni! Questo è un altro mito che sto cercando di demitificare

SoM – La famiglia vista come una risorsa e come un luogo in cui fare cambiamenti nel presente, nel qui e ora, non solo in una visione storica

AC – Certo, molte volte cerco di applicare alcune tecniche esperenziali per favorire il processo di differenziazione, una si chiama lo zaino, dove si incontrano i genitori e i pazienti in un momento importante della terapia, dopo aver già collaborato nel primo tratto e quando il paziente già ha risolto molti problemi con loro e prima di andare nella fase del percorso terapeutico che io chiamo “del progetto esistenziale”, gli faccio fare questa tecnica dello zaino, che è molto intensa e semplice nella esecuzione ma potentissima nella differenziazione: vengono i genitori e lo fanno alternativamente con il figlio o molte volte lo faccio in sedute diadiche con il padre e la madre, li faccio sedere di fronte gli uni agli altri, prendersi le mani, le ginocchia si toccano, c’è una grande prossimità, si guardano negli occhi e chiedo al padre o alla madre di fare finta che il figlio o la figlia abbia uno zaino dietro le spalle e gli dico:”Cerchi due o tre aspetti del suo carattere che abbia coltivato nella vita e di cui sia orgoglioso/a, da dare in dono a suo figlio, così quando lui, nel lungo cammino della vita ne avrà bisogno prenderà dallo zaino quello che Lei gli ha dato e lo farà proprio…” Allora loro danno generalmente danno cose positive previste dal loro ruolo sociale “ti do la mia onestà, la mia gioia di vivere, la forza, la pazienza”, i genitori devono equipaggiare lo zaino del figlio, questo è il loro compito; La cosa più interessante è che poi io chiedo al paziente di lasciare qualcosa ai genitori di sé stesso, del suo carattere, dei suoi sogni, dei suoi hobbies, qualcosa che il padre o la madre possano gradire avere di questo figlio o figlia, e lì succedono cose molto belle perchè vengono chiaramente fuori delle funzione vicarianti silenti, silenziose, che ogni figlio fa per sostenere i genitori, in modo inconsapevole e che mantiene l’invischiamento. Quando un figlio dice “ti lascio la speranza di ritrovare cose buone in te”..una figlia diceva alla madre depressa, sempre vestita di nero “ti lascio i miei vestiti colorati”, un altra diceva “ti lascio i mio amore per i viaggi o per l’aria”, questo che loro danno sono funzioni che inconsapevolmente mantenevano l’invischiamento, sostenendo i genitori. Quell’incontro intenso è anche un congedo, perchè come dicevano i cinesi non si può separare niente che non sia stato unito precedentemente, allora in un certo senso è una trappola bonaria in cui io li metto, perchè i genitori non possono non sancire ufficialmente che il figlio o la figlia deva differenziarsi però nel contempo tutte queste emozioni che sono intensissime arricchiscono la relazione e tutti i pazienti del questionario dicevano che dopo lo zaino spiccarono il volo, per cui è una tecnica molto potente che ha avuto molto successo nella scuola e in altre scuole, italiane e non

SoM – Per cui è una tecnica in cui si rende esplicito ciò che è implicito della relazione?

AC – Sì, anche se io non lo segnalo, io promuovo attivamente un’esperienza e dico a loro: tutte le emozioni che sono sorte, che sono la vostra ricchezza tenetele dentro, fatele scorrere e non cercate di incasellarle subito, e andatevene, vi ringrazio di essere venuti

SoM – Quindi non è una tecnica che prevede una riformulazione da parte del terapeuta?

AC – No, loro devono vivere questo. Poi dopo magari riusciremo a capire con il nostro paziente e a elaborare quello che è successo ma io cerco di fargli vivere un’esperienza nuova, perchè tanti lo dicono che mai hanno avuto questa possibilità. Alla fine dell’esercizio gli dico adesso datevi un abbraccio in silenzio senza parole, e ognuno posi la testa sulla spalla dell’altro il tempo necessario… Allora li a volte è fantastico come sorgono emozioni bellissime nell’abbraccio, molte volte piangono, si accarezzano, è un incontro notevole che poi favorisce la differenziazione, da solo

SoM – Quindi una tecnica esperenziale, ce ne sono altre che lei utilizza?

AC – Si, ci sono due tecniche di lavoro con le coppie che ho creato lungo tanti anni e che sono potenti, molto, una che serve a lavorare sull’identificazione proiettiva, che è la bestia nera della vita di coppia e della terapia di coppia: i partner si sono fusi durante tanto tempo in modo tale che è impossibile vedere la trave nel proprio occhio, questo uno lo può dire, lo può interpretare ma scivola su di loro. Invece ho creato questa tecnica: lavoro sulla rabbia, li faccio sedere lontano, e ciascuno alternativamente deve dire le 2 o 3 cose peggiori dell’altro e spiegare perchè, e viene fuori di tutto! Poi chiedo a loro di dire la stessa cosa in prima persona “ io sono…” Questo lo facevo per alcuni anni però logicamente a nessuno piace trovare la trave nel proprio occhio, per cui i risultati non erano soddisfacenti, fino a che un giorno, 8, 10 anni fa, stavo lavorando con una coppia di cui conoscevo le famiglie di origine e ho aggiunto una cosa che credo l’ha resa molto più incisiva e trasformativa: chiedo alternativamente a ciascuno se nella loro convivenza con la famiglia di origine o tutt’ora chi è così e così, e ripeto gli aggettivi usati per definire il partner, immediatamente viene fuori la risposta “ è mia madre” “è mio padre”, a volte inaspettatatamente “è mia sorella o mio fratello!” che non era apparso nel dialogo, allora andiamo direttamente alla fonte della proiezione, agli oggetti primari con cui si è vissuta, prima della depositazione che poi si fa sull’altro per cercare di vivere più leggero. Io chiamo questo lavoro con la coppia “per arte di levare”, come diceva Michelangelo parlando della scultura: la statua è già insita nel marmo, io non altro faccio che liberarla del superfluo. Io credo che la coppia è un grande attaccapanni dove ognuno deposita quello che non ha risolto con la famiglia di origine e a volte questo attaccapanni è così pieno che neanche si riescono a vedere i membri della coppia, altre volte ha su di sé così tanto peso che si rompe. Quando noi riusciamo a levare tutte queste proiezioni, riusciremo a vedere cosa c’è sotto: se c’è affetto e c’è incontro l’ossigeno farà si che in un certo tratto migliorino moltissimo, ma altre volte vediamo che l’amore è morto, allora è meglio seppellirlo perchè altrimenti puzza. Questa definizione della relazione, questo incontro o disincontro è quello che io cerco, perchè poi da li si partirà in una terapia che riesca a mettere in risalto gli obiettivi

SoM – Per cui una terapia di coppia che sposti dal problema di coppia ai problemi che ciascuno ha con la sua famiglia di origine

AC – Certo, questo lo faccio quando non posso lavorare convocando le famiglie di origine in terapia. Poi quando la rabbia è andata via faccio un altro esercizio che chiamo “dell’intimità”, che consiste nel mettersi di fronte, guardarsi negli occhi e fare una serie di esercizi a occhi chiusi, toccandosi il viso, cercando di rivivere chi è l’altro e poi aprendo gli occhi cercare lo sguardo, ma sopratutto chi c’è dietro lo sguardo. Questo è un esercizio molto importante che dà una miriade di informazioni nel non verbale e molte volte definisce una terapia. Una volta mi è capitato che una donna si mise a piangere sconsolatamente durante l’esercizio perchè aveva capito che voleva separarsi ma non aveva la forza di dirlo e in quel momento queste lacrime permisero di capirlo. Un’altra volta avevo fatto un seminario a Buenos Aires con una coppia disfunzionale di cui avevo visto entrambe le famiglie di origine, stava finendo il seminario e io ancora non avevo capito che c’era in quella coppia! fino a che fecero questo esercizio: improvvisamente l’uomo si alzò indignato, andò a sedersi altrove…aveva sentito che la moglie non c’era più nella relazione, ed effettivamente lei disse “sì mi voglio separare e avevo paura di dirtelo”, e questo permise di lavorare meglio la situazione. È una tecnica semplice ma molto intensa.

SoM – La quarta domanda: lei come valuta e monitora il cambiamento in terapia?

AC – In quella ricerca che si fece c’erano una serie di domande, per esempio è soddisfatto o no dei risultati raggiunti? Pensa che gli obiettivi terapeutici siano stati raggiunti? È molto soddisfatto dei risultati o oltre i risultati raggiunti la qualità della sua vita è cambiata in meglio? Nella mia casistica il 10% ha risposto “non sono soddisfatto, non ho raggiunto i risultati desiderati”, un 30% “sono soddisfatto perchè ho raggiunto gli obiettivi desiderati” e quasi il 40% “sono molto soddisfatto perchè oltre ai risultati raggiunti la qualità della mia vita è migliorata”

SoM – Il cambiamento lo valuta il paziente, è valutato sulla soddisfazione del paziente?

AC – Si. non faccio altre valutazioni. Una delle domande se non sbaglio è “come si mette fine alla terapia”, io al primo incontro cerco di definire molto bene il problema della consultazione, cioè “mi dica dove le preme la scarpa adesso”. Poi tracciamo gli obiettivi terapeutici. Io nella verifica della terapia riprenderò questo primo foglio perchè vedremo insieme cosa è stato raggiunto o meno, cosa manca. Quando si sono raggiunti gli obiettivi io dico “possiamo finire adesso la terapia o se lei vuole possiamo fare due incontri trimestrali e uno semestrale”, per cui sarò ancora in contatto per un anno con questa persona con 3 incontri; il 90% preferisce così e devo dire che nel 99% dei casi ogni volta che vengono stanno meglio, perchè la terapia continua, loro sanno che hanno quella scadenza e continuano a lavorare sulle linee guida, sulle cose che abbiamo visto insieme

SoM – Quindi una separazione graduale?

AC – Si, ma poi io lascio una porta aperta, perchè a volte una persona può essere migliorata molto ma può avere un momento della sua vita, fa un figlio, si sposa, o fa un viaggio importante, o si laurea eccetera, e ci sono altre situazioni esistenziali positive che possono sconvolgere la persona, se loro vogliono ritornare per vedere quello io ci sono, non chiudo la porta. Non sono tanti che tornano ma se tornano è perchè qualcosa di nuovo ha modificato la loro vita

SoM – La sesta domanda riguarda il paziente difficile, che è un po’ il must della terapia familiare di stampo classico. Ritiene che con questo tipo di pazienti le sue tecniche e le sue procedure si modifichino?

AC – I pazienti difficili indubbiamente hanno bisogno della loro famiglia in terapia e queste tecniche si possono applicare quando il paziente sta meglio. Anche se ricordo il caso di uno zaino fatto con un ragazzo psicotico, figlio unico di madre vedova, per cui una trappola mortale! Io feci venire un intimo amico del padre che conosceva a menadito i problemi che il padre aveva con questo figlio e che sapeva più cose del padre della moglie e del figlio stessi, è stata una collaborazione molto importante e questo ragazzo è riuscito a migliorare molto. Però quando ci sono pazienti difficili, mi riferisco agli psicotici, li si deve lavorare molto con la famiglia perchè il paziente possa poi continuare da solo, in quel tratto dobbiamo lavorare con molte tecniche, sopratutto con un accompagnamento intenso per riuscire a modificare molte situazioni che sono sempre legate alla vita famigliare. Io in 46 anni intensivi di lavoro non ho mai trovato una famiglia sana con un figlio disfunzionale, piuttosto il contrario qualche volta si vede, che da una famiglia disfunzionale una persona grazie alla resilienza possa migliorare, sicuramente, però al rovescio mai, non credo che lo psicotico, il tossicodipendente o il borderline cresca ex novo da una famiglia sana, io non ci credo

SoMCon i disturbi di personalità c’è un lavoro specifico che fa?

AC – Ovviamente dipende dal disturbo, però cercherò di lavorare sicuramente con i personaggi significativi della famiglia; molte volte devo iniziare con un fratello o una sorella per arrivare ai genitori, sopratutto ai padri, che purtroppo vengono considerati nella terapia marginali, assenti o periferici; ma io dico sempre che se sono considerati periferici e marginali è perchè tacitamente c’è un centro, ed è la madre che occupa quel centro; per cui io critico i terapeuti familiari di avere fatto una terapia familiare troppo maternocentrica, non abbiamo sviluppato tecniche terapeutiche di coinvolgimento dei padri; Io sono stato testimone dell’amore sfegatato che molti padri hanno per i loro figli e non sanno se devono dirlo, se possono dirlo, o non sanno come dirlo perchè sono analfabeti emotivi, però quando ci si riesce, sopratutto con la figlia, l’incontro con il padre può dare una svolta notevole alla terapia, perchè c’è questo mito, molti padri arrivano a casa e appendono al chiodo la loro funzione perchè entrano nel regno materno e allora sono considerati dai figli marginali, poco interessati a loro, ma non è così, è talmente forte ancora l’impronta socio-culturale, dicevano i romani “pater patrimonio, mater matrimonio”, casa e figli…che malgrado gli anni di liberazione femminile, di accesso della donna al mondo del lavoro, che hanno liberato la donna dalla famiglia, tutt’ora questo è molto forte e la madre è la centralinista della famiglia che comunica con tutti e questi padri, quando vengono e possono trasmettere quello che sentono, è una cosa straordinaria! L’ho visto recentemente in una paziente, che aveva fatto un tentativo gravissimo di suicidio, ricoverata con molte ferite, seguita da uno psichiatra- psicoterapeuta individualmente che mi chiese di aiutarlo lavorando con la famiglia, e così feci, e quando sono riuscito a convocare separatamente il padre e la madre, (i genitori erano separati), con il padre fu una cosa impressionante perchè quest’uomo era molto provato dal gravissimo tentativo di suicidio della figlia e facemmo lo zaino e disse “ti do tutto l’amore che ho per te perchè tu lo possa trasmetterlo ai tuoi figli, tutto l’amore che non ti ho mai detto di avere” piangendo sconsolatamente, poi ci fu un abbraccio straordinario. Poi in un seguente incontro ho lavorato con la madre che era una depressa che lei doveva sempre sostenere, invece nell’incontro la madre si dimostrò molto più competente con la figlia di quanto lei pensasse. Dopo questi incontri la paziente disse al suo terapeuta “durante questi incontri con i miei genitori ho sentito un clic e mi sono resa conto che posso guarire”, per cui sono cose molto potenti e significative anche in casi gravi come questo

SoM – Ci sono situazioni in cui, sempre all’interno della terapia individuale sistemica, non propone l’allargamento?

AC – Io cerco di farlo sempre perchè è una risorsa e un arricchimento della persona, ma certamente ci sono situazioni in cui non si può fare, perchè i pazienti hanno molta paura, o cresciuti in una logica di potere sentono che sono stati schiacciati o derisi nei loro tentativi, o che saranno risucchiati di nuovo dalla famiglia, ci sono casi in cui non si può fare

SoM – Quindi si procede con un lavoro individuale di ricostruzione

AC – Certo, tutte le controindicazioni possono essere risolte, tranne una: che è la malafede. Secondo me è l’unica grande controindicazione, contro la quale a volte non abbiamo armi per difenderci. Molte volte il paziente non ti dice che viene mandato in terapia, che la moglie gli ha detto “o vai in terapia o mi separo” o molte volte ha fini oscuri, certamente abbiamo strumenti come il controtransfert, però la verifica certa la faremo con gli allargamenti, come mi diceva un paziente in terapia di coppia, quando spiegai cosa avremmo fatto, “ma così non si può barare!”, per cui io cerco di farlo sempre, io non so se è perchè sono troppo entusiasta del modello, a volte capita che ci innamoriamo del nostro modello e diventiamo un po’ fondamentalisti, però io ho visto che questo funziona clinicamente, i risultati si raggiungono, per cui penso che il mio delirio è questo! Convocare famiglie di origine! Però è un delirio che produce buoni risultati per cui non prenderò l’aloperidolo!

SoM – Ultima domanda, l’integrazione con gli approcci non sistemici. Cosa ne pensa? L’ha effettuata in prima persona? Ha effettuato per esempio forme di training per imparate tecniche o approcci diversi dal suo?

AC – Si, io ho fatto 35 anni fa un paio di laboratori gestaltici che mi sono stati molto utili, poi ho imparato alcune tecniche psicodrammatiche, ho lavorato anche su concetti cognitivisti e psicoanalitici. Nella sua essenza la psicoanalisi è un’antropologia famigliare, ma io sono molto critico con la tecnica, ho visto troppi fallimenti terapeutici per una tecnica che passa anni ad analizzare il pupazzo senza toccare il ventriloquo, questo porta a fallimenti terapeutici, e sfortunatamente ne ho visti tantissimi. Questo è il dramma della psicoterapia, si dice in Argentina “ogni maestrino con il suo librino”, ognuno cerca il suo…però io punto molto sui fallimenti terapeutici che chiamo “la voce poco ascoltata dei pazienti” e sopratutto penso che i pazienti possano aiutarci a capire i problemi significativi dei loro congiunti perchè li conoscono da anni. Il terapeuta individuale purtroppo, nel suo santuario, nel suo delirio di onnipotenza, crede che può risolvere tutto con i pazienti e molte volte si mette in un braccio di ferro micidiale con la famiglia in cui è sempre la famiglia che vince, purtroppo a spese del paziente; perchè il terapeuta può annoverare più fallimenti terapeutici, però per il paziente si tratta della sua unica vita, per questo sono molto critico con questa posizione del terapeuta che non è per niente umile, io so che la famiglia è molto più potente del paziente e di me e questo mi da una forza notevole per lavorare con loro, può sembrare onnipotenza e invece nasce dalla mia convinzione che loro sono più forti di me, per cui andrò a lavorare intensamente con loro perchè riescano a modificare i comportamenti disfunzionali

SoM – Quindi la famiglia in una funzione co-terapeutica, quando possibile

AC – Si, la famiglia viene convocata come testimone per collaborare, ovviamente a volte vediamo problemi seri che dobbiamo trattare a volte a brutto muso, ci sono situazione molto difficili. la famiglia fa impazzire i suoi membri ma anche li può guarire, noi dobbiamo approfondire le risorse che possono intensificare la forza guaritrice della famiglia. Noi possiamo stare una vita perchè il paziente migliori combattendo le sue incompetenze individualmente, invece stimolando le risorse già si relativizzano i problemi, per cui convocare una famiglia che possa aiutare il suo congiunto è sempre una risorsa utile e a volte determinante per la sua evoluzione.

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Donnie Darko (2001): un prototipo di adolescente americano – Recensione

 

Donnie Darko è  ormai un vero e proprio cult-movie che ogni adolescente conosce e che a distanza di anni non cessa di attrarre pubblico e critica lasciandosi apprezzare per quello che è: un film originale, ben diretto, emotivamente coinvolgente. Soprattutto è un film che ama confondere; ma per spiegare cosa?

Nel 2001 esce nelle sale Donnie Darko, il primo lungometraggio del regista statunitense Richard Kelly. Sembrava finita lì, in un modestissimo risultato di botteghino. Poi un nuovo montaggio, il passaparola incessante alimentato dal fascino giovanile e sinistro che la pellicola emana, la presentazione al Festival del Cinema di Venezia e il successo.

Donnie Darko è  ormai un vero e proprio cult-movie che ogni adolescente conosce e che a distanza di anni non cessa di attrarre pubblico e critica lasciandosi apprezzare per quello che è: un film originale, ben diretto, emotivamente coinvolgente. Soprattutto è un film che ama confondere; ma per spiegare cosa?

Donnie è uno schizofrenico, assume farmaci, segue una psicoterapia, ha un amico immaginario che gli indica data e ora della fine del mondo. Intorno a lui, tutti i personaggi della kermesse bacchettona e sessuofoba di una società moralizzatrice che ama difendersi dalla paura di vivere azzimando i prati e curando le facciate di case pulite e perfette che sono l’esoscheletro della rettitudine di chi vi abita.

Troviamo così il sedicente terapeuta a metà tra lo psichico e il mistico che predica l’amore incondizionato ma che poi nasconde in cantina una pornoprigione per ragazzini, l’insegnante puritana che si batte per la censura dei libri pericolosi, e poi bulli e vittime, nevrotici, perversi, dementi, vittime di violenza domestica; tutta la psicopatologia che la canonica hollywoodiana scotomizza alla ricerca del più confortante e remunerativo happy end.

Il film sa coinvolgere sin dall’inizio ma è nel finale che esprime pienamente il suo potere attrattivo; i fan di tutto il mondo hanno elaborato le teorie più fantasiose per cercare di raggrupparne il senso, tuttavia è la dissociazione il tema portante: sin dall’inizio, dove si assiste ad una vera e propria fuga dissociativa da manuale, scene assolate e di una rassicurante quotidianità lasciano il posto a tenebre inquietanti, cariche di presagi di morte e terreno d’azione per l’alter ego di Donnie, distruttivo e grandioso.

Sempre in primo piano, lo spaccato intrapsichico di un adolescente in contrapposizione a quel provincialismo americano che fa della repressione intellettuale un’arma infallibile e che trova nella moralizzazione -la variante meno laica delle difese razionalizzanti- la maniera di soffocare ogni passione e ogni sommovimento originale e scandalosamente creativo; con grande efficacia il regista crea scene che mettono alle strette una collettività impaurita dalla variabilità delle condizioni umane, attraverso la sovversione di metodi educativi asfittici, smascherando la falsa rassicurazione della consuetudine ideologica per mettere al centro dell’uditorio l’ansiogena presa di posizione dell’autenticità del pensiero.

Il disturbo della condotta manifestato dal protagonista, che deturpa monumenti, distrugge proprietà e appicca incendi per vendicarsi del rifiuto e dell’incomprensione ricevuti, riverbera in un’altra operazione sovversiva, questa volta dell’etica dell’industria cinematografica, che vorrebbe preferibilmente film dal senso compiuto e univoco, ed evidenzia la tendenza chiaramente anticonformista del regista, che in alcuni casi sa colpire nel segno in maniera così puntuale e consapevole di certe dinamiche intrapsichiche da far nascere il sospetto che egli stesso non sia completamente digiuno di certa sintomatologia psichiatrica, e che tutto il film non sia che l’autobiografica elaborazione della propria adolescenza.

Il regista trasforma lo spettatore in uno schizofrenico prototipico confondendolo e proponendogli versioni alternative della realtà, aberrazioni temporali, confusioni identitarie, allucinazioni, in maniera tale da impedire ogni soluzione cognitiva, cosa che già di per sé sarebbe un buon descrittore della patologia psicotica.

Non sappiamo se il film sia una proposta di comprensione della fenomenologia del contatto con la realtà, e in questo caso se il tentativo sia stato conscio oppure accidentale, fatto sta che l’utilizzo di un linguaggio preverbale, l’ambiguità del senso o l’imperfetta possibilità di una sua condensazione, la perturbazione dei significati e la cortocircuitazione della logica lineare, si rivelano il mezzo perfetto, anzi l’unico adatto a simbolizzare allo spettatore quelle condizioni di funzionamento mentale alterato dove ciò che manca è proprio una funzione simbolica sufficiente, che fa sì che le nostre esperienze siano riconoscibili agli altri invece che aliene.

In altre parole, l’originalità del film e la sua spiccata ambiguità sono il prodotto di un bisogno intimo di rappresentare parti di Sé complesse, o piuttosto di uno più commerciale, dove un giovane regista debutta provocatoriamente nella Hollywood dei grandi divertendosi al pensiero di quante teorie astruse verranno elaborate per spiegare il suo film? Oppure le due ipotesi sono in realtà la stessa cosa?

In definitiva è un film che merita di essere guardato, perché offre l’opportunità di comprendere meglio che un’apparente complessità è essa stessa la rappresentazione riuscita di un’esperienza soggettiva, vissuta da molti adolescenti, dove il senso di Sé è percepito dolorosamente distante dal resto del mondo.

 

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Consumo terapeutico di marijuana: può ridurre i sintomi del PTSD?

Ioana Marchis

 

FLASH NEWS

Un recente studio clinico condotto in New Messico e pubblicato sulla rivista Journal of Psychoactive Drugs, ha evidenziato come il fumo di cannabis (canapa) sia associato, in alcuni pazienti, alla riduzione dei sintomi del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD).

Nel 2009, il New Messico divenne il primo stato ad autorizzare l’uso medico della cannabis per i pazienti con PTSD e a tale scopo venne fondato un centro clinico.

All’interno di questo centro fu condotto il presente studio longitudinale dal 2009 al 2011.

Alla ricerca hanno partecipato 80 pazienti selezionati inizialmente attraverso delle interviste telefoniche e poi sottoposti ad una valutazione psicologica. Per essere inclusi nel campione, i partecipanti dovevano soddisfare i seguenti criteri d’inclusione: aver vissuto un’esperienza traumatica ed aver avuto una risposta emotiva ad essa (criterio A del DSM-4 per la diagnosi del PTSD); la presenza di sintomi di esperienza rivissuta, evasione e ipervigilanza; tutti sintomi presenti in assenza dell’uso di cannabis; la mancanza di qualsiasi danno o problemi di funzionamento derivanti dall’uso di cannabis.

Prima e dopo la partecipazione al programma per l’uso terapeutico della cannabis, i partecipanti sono stati valutati attraverso il metodo CAPS cioè uno strumento di ricerca frequentemente utilizzato nel PTSD che pone domande circa la presenza di esperienze traumatiche e le risposte emotive relative; le risposte valutano la frequenza e l’intensità dei sintomi su una scala da 0 a 4.

Dai risultati è emersa una diminuzione del 75 % dei sintomi di PTSD nel campione dei partecipanti in seguito all’assunzione terapeutica della cannabis.

Il Dott. George Greer, uno dei ricercatori, sostiene che “Tanti dei pazienti che hanno assunto cannabis hanno riportato una diminuzione dei sintomi di PTSD e che si devono fare delle indagini future per vedere quale tipo di pazienti affetti da PTSD beneficiano maggiormente dall’uso terapeutico della cannabis o dei suoi principi attivi”.

In Italia, da quest’anno, la regione Sicilia, grazie ad una delibera regionale, ha autorizzato l’uso della cannabis per scopi terapeutici per diverse malattie tra cui la sclerosi multipla.

Per impedire l’abuso dei consumi di cannabinoidi, la prescrizione dell’uso dovrà essere effettuata da medici specialistici all’interno di strutture sanitarie e il percorso terapeutico potrà essere eseguito anche a domicilio.

 

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Io speriamo che me la cavo: come spieghiamo ciò che ci accade?

Vincenzina Porretta

 

Io speriamo che me la cavo!: cos’è che ci porta a pensare che tutto è destinato a evolvere in maniera negativa? Cos’è invece che ci spinge a credere che il futuro ci sarà favorevole? La differenza sta in quello che viene chiamato stile esplicativo: il modo in cui spieghiamo a noi stessi quello che ci troviamo ad affrontare nella nostra vita.

Io speriamo che me la cavo è il titolo di un libro degli anni novanta del maestro Marcello D’Orta che raccolse i temi dei suoi studenti di una scuola elementare in provincia di Napoli. Il testo volge lo sguardo al disagio dei giovani del sud attraverso l’innocente sguardo dei bambini.

Il titolo, seppur ironico, è quanto mai voluto perché anche noi, ogni giorno, siamo chiamati a districarci nella nostra quotidianità … e forse anche noi  pensiamo : “Io speriamo che me la cavo!”

Ma cos’è che ci porta a dire questa frase o piuttosto a pensare che tutto è destinato a evolvere in maniera negativa, che i problemi che incontriamo sono destinati a perdurare per molto tempo, o a dirci che noi non saremo mai abbastanza per fare una determinata cosa, riuscire in un determinato obiettivo, etc.? Cos’è invece che ci spinge a credere che il futuro ci sarà favorevole?
La differenza sta in quello che viene chiamato stile esplicativo, o per chiarirci, nel modo in cui interpretiamo gli eventi che ci accadono, cioè come spieghiamo a noi stessi quello che ci troviamo ad affrontare nella nostra vita.

Gli individui che comunemente definiamo pessimisti tendono a pensare che la situazione traumatica sia permanente (questa cosa non finirà mai!), e pervasiva (nella mia vita succede sempre così!) e si incolpano per quanto avviene. La spiegazione data è quindi pervasiva, permanente e personale.

Come sottolinea Seligman

[blockquote style=”1″]Quando si spiega un fallimento in modo permanente e pervasivo lo si proietta nel futuro e in tutte le situazioni.[/blockquote]

Quando invece accade un evento positivo, i pessimisti tendono a pensare che non siano stati loro gli artefici ma fattori esterni (ho avuto un colpo di fortuna!), e credono che la situazione piacevole sarà temporanea, quindi non durerà, e circoscritta esclusivamente ad uno specifico evento.

Viceversa gli ottimisti di fronte ad una situazione negativa forniscono solo spiegazioni temporanee e circoscritte. Pensano quindi che le cose si sistemeranno rapidamente e che tale situazione coinvolgerà una parte della loro vita non tutti i suoi ambiti.
A fronte di questa diversa interpretazione degli eventi, i pessimisti adotteranno strategie di coping evitante, laddove invece gli ottimisti utilizzeranno uno stile di coping attivo.

Il diverso modo di interpretare gli eventi inevitabilmente porta con sé delle ripercussioni in diversi ambiti: a scuola, ad esempio, un bambino che crede di non poter far niente di buono, di fronte alla difficoltà smetterà di provare ed inevitabilmente prenderà voti più bassi. Di conseguenza il potenziale può arrivare a perdere la sua rilevanza se non affiancato da uno stile esplicativo positivo. Inoltre il livello di pessimismo può avere ripercussioni sulla salute indebolendo il sistema immunitario.

Viceversa l’ottimismo può influenzare la salute in maniera positiva in diversi modi: ad esempio, gli ottimisti fanno meno esperienza di episodi duraturi di impotenza appresa e questo gli consente di mantenere difese immunitarie più attive. L’impotenza appresa indica le reazioni di rinuncia che scaturiscono dal credere che qualsiasi cosa si faccia non sia importante ed in grado di influenzare gli eventi; tale atteggiamento non influisce solo sul comportamento ma diminuisce anche l’attività del sistema immunitario.

Un’altra ragione per cui gli ottimisti dovrebbero avere una salute migliore sta nel fatto che essi affrontano più rapidamente gli eventi, e quindi con più probabilità agiscono per prevenire l’insorgenza della malattia o per debellarla quando ne sono colpiti.
Un ulteriore fattore che tutela lo stato di salute è legato al supporto sociale; la capacità di instaurare forti legami di amicizia e amore sembra essere importante per la salute fisica.

I pessimisti, invece, diventano facilmente passivi di fronte alle difficoltà e non ricercano supporto negli altri. Le persone che si isolano quando sono malate tendono a peggiorare, in quanto anche il contatto sociale costituisce un fattore di prevenzione nei confronti della malattia.

Lo stile esplicativo è il modulatore dell’impotenza appresa, e dato il modo in cui un pessimista abitualmente si spiega gli eventi che vive (cioè in modo permanente e pervasivo), in seguito ad un fallimento egli tenderà a estendere il senso d’impotenza oltre lo specifico evento.

Per comprendere meglio come noi possiamo distorcere la realtà con il nostro stile esplicativo riporto l’esempio di una paziente proposto da Seligman.
Mentre era terapia, nel ricordare alcuni eventi della sua vita, la donna disse che quando un professore espresse i propri complimenti per un suo commento, pensò: «Prova ad essere carino con tutte», quando apprese la notizia dell’assassinio di Indira Gandhi pensò: «In un modo o nell’altro tutte le donne al potere sono condannate». Quando il suo compagno una notte si rivelò impotente,  lei pensò: «Sono io che gli faccio schifo».
Ma quando Seligman le chiese: «Se un ubriaco per strada ti dicesse che sei ripugnante tu ci crederesti?», la sua risposta fu: «Sicuramente no». Di fronte a questa risposta lui le disse:«Tuttavia quando dici le stesse cose irragionevoli a te stessa ci credi. Questo perché ritieni che la fonte delle informazioni, ossia tu stessa, sia più attendibile. Ma spesso noi distorciamo la realtà più degli ubriachi».

Seligman, in questo modo, portò la sua paziente a mettere in discussione i suoi pensieri automatici. Quello che cominciò a sviluppare fu la capacità di condurre un dialogo personale ottimistico, nella consapevolezza che l’aspettativa del fallimento non fa altro che renderlo  più probabile.

Comprendere che dietro ogni sentimento c’è un pensiero che lo ha generato, e sviluppare una maggiore coscienza di quest’ ultimo, serve a interrompere il loop che porta ad adottare sempre i medesimi comportamenti disfunzionali. Quindi, in questa prospettiva, le emozioni come la tristezza, la paura e la rabbia non sono da ritenersi immutabili ma derivanti dalle credenze della persona, e pertanto non sono inevitabili e permanenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Seligman M.E.P. (1990). Learned optimism. How to change your mind and your life. New York: Pocket Books (Trad. it. Imparare l’ottimismo. Firenze:Giunti). ACQUISTA

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges

 

Gli schemi relazionali che ogni paziente vive nella sua vita quotidiana, tendono a ripetersi all’interno della relazione terapeutica e, nel migliore dei casi, possono trovare lì una comprensione più profonda e utile ad affrontare meglio le relazioni fuori da lì.

La relazione terapeutica è innanzitutto una relazione affettiva tra esseri umani. All’interno di questa relazione si generano emozioni, sentimenti e comportamenti che hanno a che fare con la storia del paziente e contemporaneamente con il legame affettivo in corso tra paziente e terapeuta.

I medesimi schemi relazionali che ogni paziente vive nella sua vita quotidiana, fuori cioè dalla terapia, tendono ripetersi all’interno della relazione terapeutica e, nel migliore dei casi, possono trovare lì una comprensione più profonda e utile ad affrontare meglio le relazioni fuori da lì.

Uno dei modelli più innovativi ed entusiasmanti degli ultimi decenni, in grado di spiegarci proprio questi schemi di comportamento all’interno delle relazioni tra esseri umani, è quello del neurofisiologo Stephen Porges e della sua Teoria Polivagale.

In una recente intervista (2013) Porges racconta così l’origine della sua teoria:

La Teoria Polivagale si basa sull’evoluzione biologica del nostro sistema nervoso e un elemento centrale da capire è innanzitutto che esiste una enorme differenza tra i nostri antenati rettili e noi mammiferi. I mammiferi hanno bisogno per sopravvivere di instaurare relazioni sociali, hanno bisogno di avere legami affettivi e di proteggersi l’un l’altro, mentre i rettili no, sono animali solitari.

Aggiunge inoltre che nel passaggio evolutivo tra rettili e mammiferi il sistema nervoso autonomo si sia dovuto modificare per aumentare le possibilità di sopravvivere in condizioni di pericolo: il sistema di difesa è infatti caratterizzato da due branche fondamentali del sistema nervoso autonomo, l’una in grado di promuovere reazioni di attacco, fuga, congelamento (sistema simpatico) e l’altra in grado di innescare la reazione di morte apparente (sistema parasimpatico dorso-vagale).

Successivamente nei mammiferi si sarebbe sviluppata una terza branca, il sistema parasimpatico ventro-vagale, in grado di attivare comportamenti di affiliazione e vicinanza, di collaborazione e aiuto reciproco. Quest’ultima branca è attiva solo in condizioni di sufficiente sicurezza ed è quella più legata ai comportamenti di attaccamento e di cooperazione tipici degli esseri umani. Questa branca del sistema nervoso è, o meglio dovrebbe essere, quella più attiva delle altre nella relazione terapeutica, almeno finché il paziente e noi stessi ci sentiamo al sicuro.

La branca del sistema simpatico si attiva invece in condizioni di medio-pericolo, in cui sentiamo cioè di poter provare a reagire o a fuggire, mentre la branca del parasimpatico dorso-vagale è simile alle reazione retti liana e si attiva nell’uomo solo in condizioni di grave pericolo di vita.

Rispetto al lavoro terapeutico è importante sapere che mentre l’attivazione del sistema simpatico è intensa, ma ben tollerata dal nostro organismo, quella del sistema dorso-vagale è intollerabile e paragonabile ad un vera esperienza di morte. Per questo motivo in situazioni di grave traumatizzazione, come aggressioni, tortura, abusi fisici o catastrofi, questa reazione dell’organismo può spaventare e imprimere quel ricordo nella nostra memoria.

L’importanza del lavoro di Porges nel lavoro terapeutico è data soprattutto dalla possibilità che ci da di osservare l’attivazione o la dis-attivazione di questi sistemi fisiologici e innati nella relazione terapeutica.

Come sappiamo, la percezione soggettiva di essere o sentirsi al sicuro può essere molto compromessa nelle persone che mostrano una qualche sofferenza psicologica, dal disturbo di panico ai comportamenti legati all’impulsività, e in quest’ottica la comprensione dei sintomi in una chiave evolutiva può offrire una valida spiegazione a reazioni altrimenti incomprensibili e apparentemente prive di razionale fondamento.

La minaccia alla sicurezza personale, ad esempio, può essere sperimentata in condizioni di solitudine o al contrario di eccessiva intimità. Ci si può sentire in pericolo nelle mura di casa o per strada, in ascensore o all’aperto, in una folla o in una piazza vuota.

Non c’è una reazione sbagliata, c’è il nostro corpo che reagisce a qualcosa che vive come pericoloso, per motivi validi e che vengono dalla nostra storia: Porges la chiama neurocezione.

Le parole di Porges spiegano meglio di tutte di cosa trattiamo quando parliamo di Teoria Polivagale:

Non si tratta di una teoria sul sistema nervoso, ma di una teoria sull’evoluzione del sistema nervoso negli esseri umani

ed è forse qui che può collocarsi il legame tra una teoria profondamente neuroscientifica e la nostra esperienza come clinici: osservare i sintomi riportati dal paziente sia nell’ evoluzione della sua storia, che nell’evoluzione della sua …. specie!

Al prossimo contributo il legame tra Neurocezione e il social engagement…

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Buczynski, R. (intervistatore). Porges, S. (intervistato). (2013). Body, Brain, Behavior: How Polyvagal Theory Expands Our Healing Paradigm. [Trascrizione]. DOWNLOAD

 

Alti livelli di cinismo e rischio di sviluppare demenza: quale correlazione?

 

FLASH NEWS

Il cinismo è caratterizzato dalla credenza che gli altri siano motivati, nelle loro azioni, a raggiungere interessi personali. Tale idea rispetto alle intenzioni altrui potrebbe sembrare soltanto un semplice e innocuo punto di vista, ma la ricerca scientifica sembra aver dimostrato, invece, come tale disposizione nei confronti degli altri possa addirittura aumentare le probabilità di sviluppare una demenza.

A tale conclusione sono giunti i ricercatori della University of Eastern Finland di Kuopio, Finlandia, coordinati da Anna-Malia Tolppanen, PhD, i quali hanno pubblicato i risultati da loro ottenuti sulla rivista Neurology.

In passato è già stato dimostrato come il cinismo sia correlato ad altri problemi di salute, come ad esempio le patologie cardiache, ma tale lavoro è il primo a dimostrarne la correlazione con lo sviluppo di una patologia degenerativa come la demenza.

Per esaminare la relazione intercorrente tra demenza e cinismo, i ricercatori hanno reclutato 1449 persone, con un’età media di 71 anni, alle quali sono stati somministrati i test maggiormente in uso per diagnosticare il deterioramento cognitivo, oltre ad un questionario per la valutazione del livello di cinismo.

Quest’ultimo strumento permette di ottenere risultati attendibili e stabili nel corso degli anni ed è composto da item in cui i partecipanti devono indicare il loro grado di accordo con affermazioni quali: “Credo che la maggior parte delle persone mentano per ottenere dei vantaggi” o “E’ più sicuro non fidarsi di nessuno”.

Dopo aver analizzato i risultati raggiunti dai soggetti, i ricercatori li hanno raggruppati in categorie di basso, moderato o alto livello di cinismo.

In totale 622 partecipanti hanno concluso lo studio, sottoponendosi ad una seconda valutazione, circa otto anni dopo l’inizio della ricerca. Durante tale lasso di tempo 46 persone hanno ricevuto una diagnosi di demenza.

Andando ad analizzare i profili di tali soggetti e considerando anche altri fattori che aumentano il rischio di demenza, quali l’alta pressione sanguigna, livelli elevati di colesterolo e il fumo, il team ha potuto riscontrare come i soggetti ai quali erano stati attribuiti alti livelli di cinismo avevano un rischio tre volte più elevato di sviluppare demenza rispetto agli altri.

In particolare, 14 dei 164 partecipanti con alti livelli di cinismo hanno sviluppato demenza, rispetto al gruppo con basso cinismo, in cui soltanto 9 soggetti su 212 hanno ottenuto diagnosi di deterioramento cognitivo.

Tolppanen afferma:

[blockquote style=”1″]Tali risultati evidenziano come la personalità delle persone possa avere un impatto sulla loro salute. Comprendere come un tratto di personalità quale il cinismo influenzi il rischio di sviluppare demenza, può fornirci un importante aiuto sulla comprensione di come ridurre il rischio di demenza.[/blockquote]

Tale possibilità sembra essere di grande importanza se consideriamo che nel 2010 le persone affette da demenza erano 35,6 milioni e che tale incidenza sembra essere in costante aumento, tanto da far prevedere che nel 2050 le persone colpite da deterioramento cognitivo saranno 115,4 milioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Anche i papà possono essere brave mamme

 Teresita Forlano

 

L’esperienza di accudimento dei figli mobilita e altera anche nel padre le stesse reti di circuiti cerebrali che si attivano nella madre, sia pure con alcune differenze minori. Il livello di cambiamento cerebrale innescato dall’esperienza della cura appare strettamente collegato al tempo che i padri sono di disposti a dedicare all’accudimento.

Salvo alcune differenze minori, la cura dei figli da parte del padre si basa sullo stesso substrato di circuiti neurali che sono mobilitati nella donna, circuiti che sono plasmati e rimodellati dall’esperienza stessa della cura per il piccolo. A dimostrarlo è uno studio condotto da ricercatori dell’Università Bar-Ilan a Ramat-Gan, in Israele.

Diversi studi hanno analizzato le risposte ormonali e cerebrali delle donne all’esperienza di cura dei figli, ma finora quasi nessuno si era interessato alle basi cerebrali dell’esperienza della paternità, alla capacità di risposta del cervello maschile all’esperienza della cura (caregiving) e alle somiglianze e differenze con quanto avviene nel cervello materno.

Nel nuovo studio, Ruth Feldman e colleghi hanno monitorato le risposte cerebrali di 89 genitori alle prese con il loro bambino, suddivisi in tre gruppi composti da: 20 mamme eterosessuali che avevano la responsabilità primaria dell’accudimento del bambino, 21 padri eterosessuali con una responsabilità secondaria di accudimento (assolto principalmente dalla partner) e 48 padri omosessuali responsabili primari del piccolo. I ricercatori hanno valutato la risposta cerebrale dei soggetti a stimoli infantili sia con scansioni di risonanza magnetica funzionale, sia misurando il livelli di ossitocina circolante, sia osservandone il comportamento.

I risultati hanno rivelato che tutti i genitori che si dedicano all’accudimento mobilitano due sistemi cerebrali, integrandoli tra loro: la rete dei circuiti dell’elaborazione emotiva, che comprende le strutture sottocorticali e paralimbiche, fra cui l’amigdala, associate alla vigilanza, alla rilevanza dello stimolo, alla ricompensa e alla motivazione; e la rete di mentalizzazione, che coinvolge la corteccia frontopolare-mediale-prefrontale e il solco temporale superiore, implicati nella comprensione sociale e nell’empatia cognitiva.

Le madri hanno mostrato una maggiore attivazione nella rete di elaborazione emotiva e i padri in quella dei circuiti sociocognitivi; entrambe le reti mediano, in modo leggermente diverso, la relazione fra livelli di ossitocina e comportamento.
Inoltre, nei padri accuditori primari si ha un livello di attivazione dell’amigdala uguale a quello delle madri (superiore ai padri accuditori secondari), ma anche una forte attivazione del solco temporale superiore (STS), paragonabile a quella dei padri accuditori secondari.

Per di più, nei padri accuditori primari la connettività funzionale tra amigdala e STS, quella che consente il colloquio fra le reti dell’emotività e della mentalizzazione, era superiore a quella dei due altri gruppi di soggetti. In ogni caso, in tutti i padri il livello di questa connettività era direttamente proporzionale al tempo dedicato alla cura del piccolo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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