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Imparare giocando: i vantaggi di avere un fratello

 

 

FLASH NEWS

Alcuni ricercatori della Concordia University si sono interessati proprio alle dinamiche di apprendimento attraverso il gioco, più precisamente il momento di gioco tra fratelli.

Il gioco è uno degli elementi fondamentali per la crescita del bambino, si sa, ed è altrettanto noto che imparare giocando è molto più efficace.

Tuttavia sempre più spesso i pomeriggi dei bambini vengono occupati da attività strutturate, sport, passatempi; anche ai più piccoli si riempiono le giornate di impegni lasciando così poco spazio ai momenti più ludici e liberi.

Alcuni ricercatori della Concordia University si sono interessati proprio alle dinamiche di apprendimento attraverso il gioco, più precisamente il momento di gioco tra fratelli.

Come raccontato nello studio pubblicato sul Journal of Cognition and Development, hanno osservato e registrato 6 sessioni di 90 minuti di gioco spontaneo tra due fratelli nelle case di 39 famiglie di ceto medio, in Canada.

Dalle osservazioni è emerso che i bambini danno vita a diversi momenti di reciproco insegnamento in maniera del tutto spontanea: imparare a contare, imparare a usare una lavagna, usare il gessetto, sono tutte azioni che si insegnano a vicenda mentre giocano. Spesso il fratello più grande assume il ruolo di insegnante anche senza una esplicita richiesta, altre volte invece è il più piccolo a chiedere espressamente aiuto.

In ogni caso queste occasioni di apprendimento si sono dimostrate molto più frequenti di quanto i ricercatori si aspettassero.

La Dottoressa Nina Howe, ricercatrice, consiglia dunque a tutti i genitori non soltanto di permettere che questi momenti accadano ma anche di sollecitarli e di lasciare che i figli giochino insieme più tempo possibile.

É importante dare loro il tempo e lo spazio per interagire e promuovere l’insegnamento e l’apprendimento fornendo loro strumenti, sia in termini di giochi che di opportunità, per stare insieme.

 

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Leader si nasce o si diventa?

 

 

La genetica, le reti neurali, l’intelligenza emotiva e la flessibilità sono caratteristiche che racchiudono in loro la chiave del successo di un leader. Si tratta di alcune caratteristiche innate altre apprese, ma l’ingrediente essenziale è saperle condire incanalandole, ottenendo così quanto di più ambito ci possa essere: diventare un leader.

Una domanda che da sempre arrovella la mente è: Leader si nasce o si diventa? Interrogativo arduo al quale è difficile attribuire una risposta!

Da sempre gli psicologi sociali hanno cercato risposte postulando teorie, modelli, ma esattamente una opinione univoca fatica ad arrivare. Allora, nell’era delle neuroscienze, si procede studiando il cervello per comprendere il funzionamento cognitivo di un leader. Ed ecco che alcuni dati cominciano a emergere.

Qualche anno fa, esattamente nel 2012, è stato pubblicato un libro dal titolo Neuroleadership in cui si assumono modelli di funzionamento neurale da cui si possono trarre diverse tecniche per apprendere come poter diventare un leader. In realtà si tratta per lo più di metafore di funzionamento, nulla a che vedere con il vero meccanismo neurale che sottende il processo di pensiero di un leader.

Per scoprire qualcosa in più sulla neurobiologia del leader siamo andati a spulciare in letteratura e abbiamo individuato una ricerca, effettuata su gemelli, in cui si parla di una certa quota di ereditabilità all’essere leader. Pare che i leader presentino una variante del gene per il recettore dell’acetilcolina, neurotrasmettitore associato a caratteristiche di personalità quali la persistenza nel perseguire un determinato obiettivo. Quindi, tutti coloro che mostrano questa particolare variazione genetica, tendenzialmente, potrebbero ambire a diventare dei leader.

Ma non basta! Determinante per il futuro di ognuno è avere una storia di vita che incanali questa capacità fino ad portarlo alla vetta. Insomma, avere questo gene non è la sola cosa necessaria , ma bisogna trovare terreno favorevole, ambientale e culturale, che possa indurre e condurre fino alla tanto ambita leadership.

E non è finita qui! In una recente ricerca realizzata dalla Case Western Reserve University di Cleveland sono state individuate due reti neurali interconnesse che si riferiscono a due stili di pensiero: un sistema chiamato Task Positive Network, coinvolto nella risoluzione dei problemi, nella focalizzazione dell’attenzione, nella capacità di prendere le decisioni e di controllare le azioni, e un altro, il Default Mode Network, che ha a che fare con i comportamenti etici e sociali, con la consapevolezza di sé, con le cognizioni sociali, con la creatività e con la morale.

Si tratta di reti neurali specifiche, di cui una più centrata sulla risoluzione dei problemi e l’altra più attenta alla dimensione emozionale e relazionale. Sono presenti in ognuno di noi e funzionano in maniera alternata. La peculiarità del leader, dunque, è saperle usare entrambi, ma soprattutto passare velocemente da una rete all’altra a seconda delle situazioni. Infatti, i primi risultati di questa ricerca mostrano che la flessibilità del pensiero gioca un ruolo primario per l’efficacia della leadership. In sostanza, secondo questo gruppo di ricerca, l’essere repentinamente flessibili pare sia la caratteristica fondamentale che dovrebbero avere i leader.

Ma, come dice il professor Richard E. Boyatzis, il tutto deve essere condito con capacità di saper usare la propria intelligenza sociale ed emozionale per gestire le proprie emozioni e quelle degli altri, creando in questo modo relazioni migliori. Se si riuscisse a fare tutto questo in maniera adeguata il successo della leadership è garantito.

Il leader, dunque, è colui che è in grado di comprendere e gestire la propria emotività, che è capace di capire la visione del mondo dell’altro e le sue emozioni. L’empatia, cognitiva ed emotiva, è infatti una caratteristica fondamentale per il buon funzionamento di un gruppo di lavoro, essenziale per creare relazioni efficienti e funzionali e per motivare e ispirare il proprio team. La discussione e il confronto, così come la condivisione di una visione possono aiutare a stimolare lo sviluppo e l’innovazione creativa.

Per concludere, la genetica, le reti neurali, l’intelligenza emotiva e la flessibilità sono tutte caratteristiche che racchiudono in loro la chiave del successo di un leader. Si tratta, dunque, di alcune caratteristiche innate altre apprese, ma l’ingrediente essenziale è saperle condire incanalandole, ottenendo così quanto di più ambito ci possa essere: diventare un leader.

 

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Mentire non sapendo di mentire: testimonianza Inconsapevole

 

Quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, più che la verità, presenta una sua personale rappresentazione della stessa.

 

Tra il mentire – cioè dire consapevolmente cose false – e dire la verità cioè riferire i fatti in modo conforme al loro effettivo svolgimento – esiste una terza possibilità. […] Quella del teste che riferisce una certa versione dei fatti nella erronea convinzione che essa sia vera. Si tratta di quella che potremmo definire la falsa testimonianza inconsapevole. […] Non ci vuole la malafede. Basta avere una teoria da confermare, il nostro cervello fa tutto da solo, percependo, rielaborando, verbalizzando in modo da adattare i fatti alla teoria. Creando, anzi direi: assemblando il falso ricordo.

La voce di Guido Guerrieri, magistralmente diretta dalla penna di Gianrico Carofiglio, ben ci introduce nella tela in cui si intrecciano testimonianza e memoria, verosimiglianza e verità, probabilità o certezza, e lo fa con la ricercatezza dello scrittore e l’accuratezza del magistrato, che sposandosi hanno dato vita al ciclo di legal thriller, di cui “Testimone inconsapevole” rappresenta il punto d’inizio.

In ambito penale, la testimonianza è un mezzo di prova, raccolta oralmente (art. 526 c.p.p.) durante il contraddittorio (art. 111 Cost.), che verte ad esaminare il teste circa i fatti determinati che costituiscono oggetto di prova (art. 194 c.p.p.).

Una testimonianza è considerata attendibile quando c’è corrispondenza tra ciò che viene raccontato e ciò che è accaduto. La testimonianza dipende in primo luogo dalla memoria, il cui elemento cruciale è l’accuratezza, ossia la corrispondenza tra il contenuto dell’evento e il contenuto della memoria (Mazzoni, 2003).

È bene precisare che quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, presenta più che la verità, una sua personale rappresentazione della stessa (Gulotta, 2008a). Infatti, nel momento in cui si è chiamati a riferire di quanto si è stati testimoni, si innesca un meccanismo di recupero delle informazioni relative all’evento, immagazzinate in memoria, e una rielaborazione delle stesse. È lo stesso meccanismo che governa le funzioni mnestiche.

La memoria è un processo psichico complesso che consente all’individuo di codificare, immagazzinare e recuperare le informazioni attraverso un’attiva rielaborazione dei contenuti. Questo implica che il contenuto rievocato (recuperato) sia una ricostruzione dell’informazione originaria.

 

Dalla codifica fino alla rievocazione, ciascuno di noi è influenzato dalle conoscenze che già possiede sul mondo e sullo stato delle cose e dagli schemi e gli script che utilizza per organizzare tali conoscenze: essi plasmano il modo in cui un oggetto, un evento o una situazione verranno poi percepiti, codificati e rappresentati nella memoria a lungo termine (MLT) e vanno ad innescare quel ragionamento deduttivo che, tramite inferenze, consente di colmare i vuoti del ricordo, consentendo alla persona di ricostruire il puzzle del ricordo per intero.

La stessa cosa vale per la testimonianza: per poter definire attendibile una testimonianza e accurato un ricordo bisogna considerare alcuni fattori, quali l’intenzionalità a ricordare nel momento in cui si assiste all’evento, l’interpretazione che è stata data all’evento al momento della codifica, il tempo trascorso e le inferenze che il testimone subisce tra il momento in cui assiste all’episodio e il momento in cui è chiamato a testimoniare.

L’interpretazione si attiva immediatamente e in maniera automatica, e poggia saldamente sulla nostra personale modalità di organizzare e dare significato alla realtà esperita; le inferenze si nutrono delle nostre conoscenze, dei nostri schemi cognitivi, dei nostri stereotipi; in più, distorsioni e informazioni fuorvianti (post-event misinformation effect) possono insinuarsi, anche tramite elementi introdotti da domande suggestive, nella tela del ricordo, rimanendone impigliate, cristallizzandosi in esso e divenendo parte integrante dello stesso: nasce così quello che si può definire un falso ricordo.

È opportuno precisare che creare un falso ricordo non significa mentire (Gulotta, 2008b, p. 5):

Tra mentire e dire il falso ed essere sincero e dire la verità c’è una bella differenza. Io posso mentire e dire la verità o essere sincero e dire il falso. […] La verità è quello che noi riteniamo di credere essere vero. 

Può sembrare paradossale, ed infatti lo è: la conoscenza sulla quale possiamo contare non riguarda una realtà oggettiva, ontologica, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione che diamo alle nostre esperienze, siano esse anche eventi e situazioni di cui siamo testimoni, ossia la realtà che attivamente costruiamo per dare ad essa un senso e un significato, che è solo nostro.

È quello che succede al testimone chiave del processo del romanzo di Carofiglio: una testimonianza inconsapevolmente confusa, guidata dal pregiudizio, deviata da indagini inquinate e domande fuorvianti, volte a confermare impropriamente la teoria iniziale, che però diventa lente con cui osservare i fatti e leggere gli indizi, per trovare a tutti i costi non il colpevole, ma un colpevole per il più orribile e innaturale dei crimini: la morta violente di un bambino.

È il rischio che si corre in processi di questo tipo, dove il fine non può e non deve giustificare la modalità di condurre le indagini e appurare l’effettiva natura dei fatti: bias cognitivi, domande suggestive e un’epistemologia verificazionista non possono trovare posto in questo ambito.

Ci si auspica che la scienza psicologica possa sedere legittimamente al fianco della giurisprudenza, in nome di quel giusto processo (art. 111 Cost.), a cui la Costituzione anela.

L’arringa dell’avvocato Guerrieri docet. La competenza romanzata di Carofiglio illumina.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Carofiglio, G. (2002). Testimone inconsapevole. Palermo: Sellerio Editore. ACQUISTA
  • Gulotta, G. (2008a). Breviario di psicologia investigativa. Milano: Giuffè Editore. ACQUISTA
  • Gulotta, G. (2008b). Trattato della menzogna e dell’inganno. Milano: Giuffè Editore. ACQUISTA
  • Mazzoni, G. (2003). Si può credere ad un testimone? Bologna: Il Mulino. ACQUISTA

 

 

Aggressività nella vita quotidiana: le sue diverse forme

 

 

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Quando pensiamo al termine aggressione, probabilmente ci viene in mente una rissa da bar o situazioni in cui le persone sono violente con degli sconosciuti. Ma una ricerca della Georgia Regents University suggerisce che in realtà l’aggressività è il più delle volte espressa nei confronti delle persone che ci circondano nella vita di tutti i giorni: partner, amici, familiari e colleghi.

L’aggressione non deve essere confusa con assertività, ambizione, ostilità o rabbia, che implicano l’espressione di un’ emozione, ma non sono comportamenti necessariamente diretti ad altri esseri viventi. L’aggressione infatti è sempre diretta verso qualcuno.

I ricercatori hanno costruito un questionario in grado di distinguere tra diverse manifestazioni di aggressività. L’aggressività diretta, per esempio, comporta l’affrontare un’altra persona con parole o azioni offensive, come l’urlare o il colpire. L’aggressione indiretta, invece, comprende sia i comportamenti indiretti come “l’agire attraverso un’altra persona o un oggetto,” (ad esempio il danneggiamento di proprietà o lo spettegolare), che i comportamenti passivi, come ad esempio il silenzio.

I dati del questionario hanno anche fornito alcuni spunti interessanti che sembrano andare contro le comuni concezioni di aggressione.

Mentre l’aggressione è generalmente associata a un comportamento conflittuale, i partecipanti al questionario in realtà segnalano una preferenza per l’utilizzo di comportamenti passivi piuttosto che direttamente aggressivi o di aggressività indiretta.

E, mentre gli stereotipi di genere suggeriscono che gli uomini siano più aggressivi delle donne, i dati dei questionari rivelano che gli uomini sono solo più propensi a utilizzare forme dirette di aggressione; uomini e donne infatti sono ugualmente propensi a utilizzare forme di aggressione indiretta.

Il tipo di aggressione sembra dipendere, almeno in parte, dalle nostre reti sociali. In uno studio con studenti universitari di sesso maschile, i giovani con una rete sociale stretta (cioè le 10 persone con cui più spesso interagivano si conoscevano tra loro), erano meno propensi all’espressione di aggressività diretta e più propensi a quella indiretta, di uomini le cui reti sociali non erano così interconnesse.

I risultati della ricerca suggeriscono, inoltre, che complessivamente sono i partner e gli amici a sopportare il peso dell’aggressività, ma sono i fratelli ad avere maggiore probabilità di subire forme di aggressione diretta. Le persone infatti tendono a confrontarsi con fratelli (e partner) faccia a faccia; quando si tratta di amici, invece, l’aggressività indiretta, come il pettegolezzo maligno, è la forma più comune.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Intervista a Dolores Mosquera: Elogio alla lentezza nel dialogo clinico

 

Dolores Mosquera è una psicologa e psicoterapeuta e nel panorama europeo è delle principali esperte e formatrici sul tema del trauma complesso e della dissociazione in pazienti con disturbi di personalità e disturbi dissociativi.

Vive e lavora in Spagna in numerosi centri clinici ed è autrice di importanti volumi sul tema del trauma complesso e dei trattamenti più efficaci presenti nel panorama scientifico attuale. Il suo lavoro terapeutico è il risultato dell’integrazione tra diversi approcci e tecniche, quali l’EMDR e la terapia sensomotoria, con importanti risultati di efficacia nel trattamento di patologie anche molto complesse come il Disturbo Dissociativo dell’Identità.

La cornice di riferimento è quella della teoria della Dissociazione Strutturale di Van der Hart, già discussa in precedenti contributi sull’argomento, in cui il funzionamento della personalità viene compreso individuando diverse parti del sé, in grado di rispondere a differenti situazioni e stimoli ambientali. Nell’approfondimento del funzionamento generale del paziente, questa cornice prevede l’individuazione di parti del sé più adulte e sviluppate sul profilo cognitivo, emotivo e comportamentale, che permettono cioè alla persona di portare avanti la propria vita in modo abbastanza efficace e soddisfacente, e di parti bambine e meno sviluppate dal punto di vista cognitivo, che portano cioè la persona a sentire le proprie emozioni in modo dirompente e a manifestarle con comportamenti spesso dannosi, per sé o per gli altri, o comunque poco efficaci nel soddisfare i bisogni affettivi che le generano.

In questo quadro generale, l’aspetto innovativo del lavoro di Dolores Mosquera, e della sua collega Annabel Gonzalez, è l’utilizzo del dialogo tra le parti accedendo al funzionamento del paziente attraverso la/e parti adulte e promuovendo il dialogo tra queste e le parti più piccole ed emotive; il terapeuta ha dunque innanzitutto il ruolo di moderatore tra le istanze di tutte le parti – in un lavoro terapeutico paragonabile a quello di una terapia di gruppo – e soprattutto di osservatore attento, in grado di cogliere l’ingresso di una o più parti all’interno del dialogo in corso. Questo secondo aspetto può essere di più facile interpretazione quando nel dialogo clinico emergono parti più attive e reattive, legate cioè ad un intenso iper-arousal (es: parti arrabbiate, parti spaventate, parti ansiose,..), mentre può diventare più difficile individuare l’ingresso di parti meno reattive (ipo-arousal), ma altrettanto profondamente sofferenti (es: parti bloccate nel trauma, parti sole, parti abbandonate, parti distaccate, parti che non sentono il corpo,..).

Il lavoro clinico presentato in occasione del Corso Internazionale Nuove Frontiere nella cura del Trauma tenutosi a Venezia lo scorso Giugno, si è concentrato proprio su tecniche specifiche da utilizzare nel portare avanti questo dialogo, ponendo molta attenzione soprattutto ai messaggi che arrivano dalle parti meno riconoscibili, ma che lavorano dietro le quinte, generando situazioni di conflitto talora intensissime e spesso non riconosciute, né esplicitate dal paziente.

In particolare ci si è concentrati sul riconoscimento dei segnali più subdoli e meno evidenti, osservando con estremo dettaglio le reazioni legate a reazioni di ipo-arousal di origine dissociativa: reazioni di blocco, di assorbimento, di assenza, di riduzione dello stato di coscienza o di alterata percezione del corpo. Questi segnali possono allarmarci meno, come terapeuti, rispetto a comportamenti più esplosivi o semplicemente risultare meno visibili, ma sono in ogni caso il sintomo di un grave fallimento integrativo, in genere scatenato dal dialogo in corso e dunque fondamentale da cogliere nel nostro lavoro.

I principali accorgimenti da seguire, secondo la Dott.ssa Mosquera, per lavorare in sicurezza con pazienti gravemente traumatizzati sono:

  • riconoscere il ruolo di ogni parte e validare la sua importanza,
  • capire i motivi del perché ogni parte ha bisogno di restare separata,
  • parlare attraverso la parte più adulta e con più risorse,
  • parlare a tutto il sistema includendo sempre tutte le parti,
  • le parti non sono persone diverse, ma parti diverse della stessa persona e nessuna va ignorata,
  • accettare l’esperienza del paziente, anche se non si è d’accordo,
  • enfatizzare sentimenti di empatia interna tra le parti, di negoziazione e di cooperazione,
  • partire sempre dalle risorse disponibili, anche se poche e molto primitive
  • proporre soluzioni di gestione dei conflitti interni, che siano accettate da tutte le parti coinvolte,
  • guadagnare, prima di ogni intervento, la fiducia di ogni singola parte.

E infine, raccomandazione importantissima, la velocità del lavoro terapeutico è sempre dettata dalla parte che procede più lentamente, senza la quale non si può e non si deve andare avanti!

Il lavoro presentato a Venezia ha dato l’occasione di acquisire strumenti utili per osservare e riconoscere tutte le parti presenti nella personalità dei pazienti, per raccogliere le più importanti situazioni trigger che generano conflitto tra le parti e per promuovere il dialogo tra esse in cerca di una soluzione più integrata, alla quale tutte devono necessariamente contribuire, dalla più piccola a quella più adulta.

Nell’intervista che segue la Dott.ssa Mosquera ci offre spunti clinici importanti e tecniche di emergenza da utilizzare in momenti particolari della terapia, in attesa della pubblicazione del suo nuovo libro su Trastorno Límite de la Personalidad y EMDR di prossima traduzione in inglese ed in italiano.

 

Quali sono le funzioni principali svolte dalle parti ostili, che di fatto ostacolano il processo terapeutico?

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Tutte le parti, collaborative o distruttive, hanno avuto e hanno tutt’ora un ruolo adattivo fondamentale per la vita del  paziente e questo ruolo va capito e condiviso con lui/lei, prima di qualunque intervento di modifica. Le funzioni  principale che l’individuo delega alle parti ostili sono in genere:

  • mantenere le difese dissociative utilizzate per isolare e contenere ricordi traumatici o per proteggere la personalità principale dalla rivelazione di segreti non condivisibili all’esterno;
  • contenere sentimenti come la rabbia che il paziente non può tollerare o che non ha potuto esprimere, as es., per timore delle rappressaglie dell’abusatore;
  • controllare il dolore infliggendolo alla personalità principale adulta, al posto di subirlo senza alcun controllo. Questo favorisce l’identificazione con l’aggressore e così la persona smette di sentirsi vulnerabile e vittima;
  • proteggere la personalità principale generando sospetti verso persone che potrebbero abusare di loro oppure punendola per controllare una condotta che potrebbe esporla al rischio di un abuso;
  • fornire la possibilità di mantenere un attaccamento con un caregiver che a volte è abusatore e a volte è affettuoso. Dissociando in parti distinte e separate gli aspetti buoni e cattivi del caregiver, il bambino può preservare il vincolo con il caregiver buono.

Tutte sono funzioni importantissime per la sopravvivenza fisica ed emotiva della persona e non possiamo pensare di modificare una parte ostile, di attaccarla o di ignorarla senza generare un conflitto intensissimo. Con tutte abbiamo bisogno di stabilire un contatto e una relazione di fiducia e collaborazione.

 

Come riconoscere, nel dialogo clinico, quando le parti ostili lavorano “dietro le quinte”?

Generalmente dò molta attenzione soprattutto al linguaggio del corpo. Il linguaggio dissociativo ci dice molto di più di quello che il paziente riesce a comunicare attraverso le parole. Qualche volta è possibile notare come alcune parti stiano comunicando internamente proprio davanti a noi e lo si può osservare ad esempio, attraverso cambi di postura, cambiamenti nello sguardo, atteggiamenti di ascolto interno. Ognuno di questi cambiamenti può indicarci che il paziente è bloccato. A volte questi segnali possono essere molto subdoli e perciò di solito cerco di comunicare con il paziente in modo tale che l’intero sistema ne sia informato e che non si senta minacciato. Ad esempio mi capita di dire E’ importante che tutte le parti della mente ora ascoltino ciò che diremo riguardo il trattamento, C’è qualcosa che possiamo dire a questa parte spaventata per rassicurarla?, Chiedile se possiamo fare qualcosa perché non si senta minacciata in questo momento.., Se comunichiamo solo alla parte adulta più funzionale o ci alleiamo con lei, il conflitto è garantito!

 

Quali sono i segnali di ipo-arousal dissociativo più frequenti?

I segnali di ipo-arousal sono molto importanti, ma tuttavia più difficili da identificare rispetto a quelli di iper-arousal. Ci dicono in generale che in quel momento per il paziente il nostro lavoro è troppo intenso. Quando i nostri pazienti non riescono a dire stop, il corpo e la mente lo fanno al loro posto. In uno stato di ipo-arousal possiamo notare ad esempio che il paziente non è più lì presente con noi o che non è connesso emotivamente a quello che racconta. Alcuni segnali tipici che precedono l’ipo-arousal possono essere il mal di testa, le vertigini, un senso di ottundimento, confusione, il paziente inizia a parlare molto più lentamente o a sentire una crescente sensazione di stanchezza.
Un ipo-arousal positivo, legato ad esempio ad uno stato di profondo rilassamento, permette alla persona di essere presente e consapevole nella situazione in cui è, di essere connessa con il proprio corpo e con le proprie emozioni. Di restare in contatto con la realtà.

 

Quali sono gli interventi principali da utilizzare in questi casi?

E’ fondamentale innanzitutto identificare l’ipo-arousal come stato emotivo, proprio perché il paziente tende a disconnettersi abbiamo bisogno di insegnargli a riconoscerlo in tempo. Altra cosa importante è individuare le situazioni trigger che lo causano, perché ci danno informazioni utili rispetto a quali aree della sua storia sono ancora inaccessibili per lui/lei e dunque per noi. L’idea generale che guida il mio lavoro è di tenere il paziente sempre consapevole e presente in ogni momento per evitare questo tipo di reazioni. Quando tuttavia succede, gli esercizi da fare per uscire dall’ipo-arousal possono essere: ricercare attivamente il contatto oculare con noi (sistema di coinvolgimento sociale), modificare la distanza in cui siamo seduti chiedendo feedback su questo (si sente meglio se mi siedo qui? Dove posso mettermi perché si senta più a suo agio?); in genere è utile aiutare il paziente ad orientarsi nel presente (ora è qui con me, siamo nel 2014, non si trova più lì, è riuscito a scappare e ora è al sicuro), si può chiedere di portare l’attenzione ad alcuni oggetti nella stanza e di provare a descriverli. In questa fase sono molto utili anche esercizi di grounding per recuperare il contatto con il proprio corpo e con sensazioni più piacevoli.

 

Quali esperimenti tipici della terapia sensomotoria risultano di solito efficaci in questi casi?

Alcuni esperimenti corporei della terapia sensomotoria, come ci insegna Pat Ogden, principale referente internazionale per questo metodo, possono essere molto efficaci. Un esempio è il mirroring , in cui il terapeuta può mettere in atto un comportamento che richiami sensazioni di calma e sicurezza di fronte al paziente, invitandolo a fare lo stesso (es: prendere un cuscino e tenerlo tra le braccia), oppure risulta molto utile talora invitare il paziente a notare la propria postura e proporre piccoli cambiamenti (es: se notiamo che la spina dorsale tende ad assumere una posizione accasciata, si può proporre di sedersi più dritti e notare la differenza); permettere sempre al paziente di scegliere cosa fare può essere di per sé un’esperienza ripartiva importantissima, poiché il vissuto di impotenza nel trauma può essere così intenso da diventare pervasivo (es: dare la possibilità al paziente di cambiare la sua posizione nella stanza o sulla sedia e invitarlo ad osservare come si sente). Invitare il paziente a completare alcuni gesti solo accennati durante il racconto di un evento significativo e fargli notare come si sente mentre lo compie (es: stringere un pugno se c’è un’emozione di rabbia, stendere le mani in avanti per ‘mettere distanza’ dall’aggressore). In generale gli esercizi di automonitoraggio in terapia sensomotoria insegnano ad osservare l’esperienza interna rintracciandone emozioni e sensazioni corporee, mentre gli esperimenti possono aiutare a sviluppare nuovi pattern di comportamenti utili ad incrementare, ad esempio, il proprio senso di sicurezza o anche solo la possibilità di ottenere sensazioni più confortevoli dal proprio corpo, esperienza spesso gravemente compromessa nei pazienti traumatizzati.

 

Quali segnali ci dicono invece che possiamo andare avanti nel processo terapeutico?

In generale sappiamo che l’integrazione sta procedendo bene se notiamo la comparsa di sentimenti di empatia tra le parti in conflitto, se c’è consapevolezza di quello che è accaduto di traumatico nel passato e di quello che le parti hanno dovuto fare per superarlo, se cambiano le credenze nucleari per la persona (Sono stata fragile e impotente nel passato, ma ora sono diversa, posso scegliere!), se le parti dissociate vengono riconosciute come parti di sé (Quella bambina sono io!), se la rabbia viene sentita e riconosciuta dal paziente e non più dissociata, se viene mantenuta la consapevolezza di essere nel presente e di avere risorse e possibilità nuove (il passato è passato, posso evitare che influenzi il mio presente!).

 

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Elettroshock. Sono ancora vivo. E la chiamano depressione (2014) – Recensione

 

Il libro  è scritto da Ignazio Cucci, che racconta la sua lotta con una grave forma di depressione con aspetti psicotici. E’ un racconto senza filtro, drammatico e variegato, con uno stile narrativo pieno di libere associazioni che ti investe come un ciclone.

Chi in Italia si interessa, anche minimamente, di sport è molto probabile che conosca il giornalista sportivo Italo Cucci, ospite di tante trasmissioni televisive e già direttore di Guerin Sportivo e del Corriere dello Sport-Stadio. Cucci ha fatto la storia del giornalismo sportivo italiano, distinguendosi, a mio avviso, per una particolare simpatia romagnola, insieme a una sorta di saggezza da vecchio tifoso. Vedere il suo nome scritto su un libro che ha come titolo la parola “elettroshock” scritta in rosso a caratteri cubitali, lo confesso, mi ha stupito non poco.

Il libro in realtà ha la prefazione di Italo Cucci, mentre il resto del volume è scritto dal figlio Ignazio, che racconta la sua lotta con una grave forma di depressione (bipolare?) con aspetti psicotici. E’ un racconto senza filtro, drammatico e variegato, con uno stile narrativo pieno di libere associazioni che ti investe come un ciclone e si arricchisce con una sezione di poesie e addirittura con uno stralcio della tesi di laurea dell’autore sulla Roma dei gladiatori.

Nella storia troviamo il classico confronto con una figura paterna ingombrante (sindrome da figlio d’arte?) e con una famiglia piena di personaggi bizzarri e avventurosi, che potrebbero avere avuto un’influenza sui deliri grandiosi di Ignazio, che arriva, nei momenti più acuti della malattia, a identificarsi e a sentire la voce di personaggini del calibro di Alessandro Magno, Napoleone Bonaparte, Giulio Cesare, Silvio Berlusconi (ebbene sì…), ma soprattutto Frank Sinatra.

L’effetto sul lettore è un po’ tragicomico, con bonarie prese in giro al mondo psi in frasi del tipo

Vorrei segnalare che questo libro è scritto con potenti brainstorming, Serendipity e metodo A-HA (soluzione psicologica non preventivata ad un problema dopo un lungo percorso ragionativi) e infine con ipnosi suggestiva e training autogeno alla Schultz.

Ignazio racconta il lungo e difficile percorso di cure che l’ha portato da diversi psichiatri e psicologi senza ottenere sostanziali miglioramenti, fino all’incontro con il luminare italiano della psicofarmacologia Gian Battista Cassano, che con una buona dose di neurolettici e con l’elettroshock (o meglio terapia elettroconvulsiva- TEC), riesce a far ritrovare un certo equilibrio nella mente dell’autore, che oggi lavora come bibliotecario nell’Isola di Pantelleria.

Il trattamento elettroconvulsivo ricevuto da Ignazio non ha niente a che vedere con gli elettroshock modello Qualcuno volò sul nido del cuculo, ben impressi nel nostro immaginario collettivo. E’ sicuramente più paragonabile a un piccolo intervento chirurgico fatto in anestesia generale. 

Non mi sono ribellato perché l’anestesista e Gabriella mi infondevano fiducia, sentivo amore intorno a me, non minacce

scrive l’autore, evidenziando come l’elemento di umanità risulta fondamentale per accettare anche i trattamenti più invasivi e potenzialmente traumatizzanti.

L’elogio della TEC (inventata, ricordiamocelo, dai nostri connazionali Cerletti e Bini negli anni venti) è sicuramente una presa di posizione coraggiosa, soprattutto in Italia, dove, a differenza dei paesi anglosassoni, viene ancora molto demonizzata anche per ragioni ideologiche.

È vero, l’elettroshock funziona. È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci la radio riprende a funzionare diceva infatti Franco Basaglia, anche se la letteratura scientifica internazionale considera la TEC come un trattamento importante e di comprovata efficacia per la depressione resistente ai farmaci, soprattutto quando sono presenti anche sintomi psicotici (Kellner et al., 2012).

Secondo altri studi avrebbe anche un’efficacia nella schizofrenia, soprattutto quando si cerca un effetto rapido sulla sintomatologia produttiva, anche se i risultati sono meno evidenti (Tharyan, 2005). In Italia le strutture attrezzate a somministrare tale cura sono nove, e nel triennio 2008-2010 sono stati eseguiti poco più di 1400 trattamenti, soprattutto a pazienti con gravi forme depressive resistenti alle terapie farmacologiche.

Navigando sul web si possono trovare diverse testimonianze di persone come Ignazio che hanno tratto beneficio dalla TEC, come quelle di molte altre persone che non l’hanno trovato e che lamentano solo gli effetti collaterali soprattutto di tipo cognitivo (amnesie retrograde).

L’impressione è che di fronte ai disturbi psichiatrici gravi come le depressioni con aspetti psicotici (che alcuni fanno rientrare nella diagnosi controversa di disturbo schizoaffettivo) siamo ancora molto lontani da trattamenti standardizzabili e che la variabilità individuale abbia ancora un peso troppo forte. Anche nell’uso degli psicofarmaci ci si trova spesso a dare dei calci a delle radio rotte. Le storie come quella di Ignazio fanno comunque ben sperare.

 

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Superare la depressione, un programma di terapia cognitivo-comportamentale- Recensione del libro di Levini, Michelin e Piacentini

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cucci, I., Cucci, I. (2014). Elettroshock. Sono ancora vivo. E la chiamano depressione. Minerva Edizioni ACQUISTA

La cecità attenzionale: perchè i bambini non sanno attraversare la strada

FLASH NEWS

 

I ricercatori di Londra hanno scoperto che le capacità percettive e l’attenzione dei ragazzi si sviluppano lentamente, e che questo li rende meno capaci di notare una macchina in arrivo, per non parlare della prossimità e velocità del veicolo.

Essere colpiti da una macchina è tra le principali cause di morte tra i bambini da 5 a 9 anni di età. Non è difficile capire perché. I bambini sono facilmente distratti, e perché sono più piccoli, sono più a rischio di morire a causa delle ferite.

Uno studio recente suggerisce che la ragione non sta solo nella facilità con cui i più piccoli si distraggono o nella loro vulnerabilità fisica, ma nel fatto che i bambini semplicemente non vedono le auto che vanno verso di loro.

I ricercatori di Londra hanno scoperto che le capacità percettive e l’attenzione dei ragazzi si sviluppano lentamente, e che questo li rende meno capaci di notare una macchina in arrivo, per non parlare della prossimità e velocità del veicolo.

Per testare la percezione periferica nei diversi gruppi di età, lo psicologo ricercatore Nilli Lavie e il suo team hanno reclutato più di 200 visitatori al Museo della Scienza di Londra per un esperimento.

I partecipanti, in 7 diverse prove, sono stati invitati a giudicare quale percorso in un incrocio fosse il più lungo. Nella settima prova, un quadrato lampeggiava sullo schermo e ai partecipanti è stato chiesto se lo avevano notato o no. La difficoltà del compito è stata regolata cambiando la differenza nella lunghezza del percorso: meno differenza, maggiore difficoltà.

Gli adulti erano in grado di individuare il quadrato lampeggiante in più del 90% dei casi nelle prove di difficoltà moderata e bassa. I bambini più piccoli hanno avuto una capacità significativamente inferiore di avvistare il quadrato lampeggiante: solo il 10% dei bambini tra i 7 e i 10 anni lo identificava durante il compito moderato e il 50% nel compito facile.

Questo semplice test dimostra quanto i bambini siano particolarmente soggetti alla cecità attenzionale.

In uno studio del 2010, un team di ricercatori dell’Università di Londra simulò in laboratorio una situazione di attraversamento di strada, per confrontare le capacità percettive degli adulti con quelle di bambini di varie età. In questa simulazione, una macchina si avvicinava su una strada, variando in dimensioni, velocità e posizione. Gli scienziati hanno anche calcolato la velocità dei pedoni.

I risultati indicano un chiaro modello di sviluppo nella percezione dei veicoli incombenti: i bambini diventavano più acuti all’aumentare dell’età, ma neanche quelli più grandi mostravano capacità paragonabili a quelle degli adulti.

Questo suggerisce che i meccanismi neurali che sottendono questa abilità sono sottosviluppati nei bambini. Paradossalmente, le auto più veloci sembravano meno incombenti di quelle lente, creando l’illusione che non si stanno avvicinando. Infatti secondo le rilevazioni dei ricercatori i bambini non erano in grado rilevare in modo affidabile una macchina che si avvicina a velocità superiori a 20 miglia all’ora (circa 30km/h).

Inoltre la percezione dei bambini dell’approssimarsi di una macchina era peggiore se la macchina era leggermente di lato o se loro si stavano muovendo, entrambe condizioni comuni nelle reali situazioni di attraversamento della strada.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Congresso SITCC 2014: Intervista a Rita Ardito

 

State of Mind intervista Rita Ardito

Co-Presidente del XVII congresso SITCC

 

 

State of Mind: A settembre si terrà il XVII Congresso Nazionale SITCC. I temi principali trattati saranno CAMBIAMENTO, CONSAPEVOLEZZA e RELAZIONE. Come mai la decisione di concentrarsi proprio su questi temi?

Rita Ardito: Questi temi sono quelli che guidano l’agire terapeutico e sui quali si concentra la ricerca degli ultimi anni. Il cambiamento è l’obiettivo della psicoterapia e lo strumento prezioso della psicoterapeuta è la relazione. La tradizione cognitivista italiana ha sempre avuto nella costruzione della relazione fra terapeuta e paziente uno dei suoi punti di forza, declinandola nei vari ambiti clinici. Un costante monitoraggio e una consapevolezza di sé da parte del terapeuta è ciò che ai nostri allievi insegniamo come via fondamentale. Incontrarsi su questi, ma anche altri, temi caldi del dibattito psicoterapeutico è un’occasione per confrontarsi e crescere nella riflessione teorica e nella pratica clinica. Al congresso infatti saranno presenti tutti i teorici del settore con i loro contributi più recenti.

 

 

SOM: Qual è lo stato della ricerca italiana su questi argomenti? Quali correnti ritiene stiano dando i contributi più interessanti a riguardo?

RA: Beh a questa domanda risponderei alla fine dei lavori: Bruno Bara e io abbiamo organizzato questo congresso proprio per poterlo scoprire insieme.

 

 

SOM: Al di là dei temi trattati, in che cosa questo congresso vuole essere diverso dai precedenti?

RA: Personalmente non ho mai pensato di voler fare un congresso diverso dai precedenti, spero che questo congresso, anzi, riesca ad ereditare il meglio che ciascun congresso SITCC ha offerto ai suoi soci. Mi piace dunque più parlare dei punti di forza dell’evento di Genova, senza volere per questo fare un paragone con quelli che lo hanno preceduto. Sicuramente l’attenzione ai temi che possano vedere l’integrazione felice di riflessione teorica messa al banco di prova della ricerca a favore di una pratica clinica aggiornata e informata. Inoltre, una grande attenzione ai giovani clinici e ricercatori: non solo simposi ma spazio grande ai poster che, arrivati numerosissimi (questo è un grande orgoglio di Bruno Bara e mio) vedono la partecipazione di giovanissimi colleghi e allievi che fanno ricerca di eccellenza. A questi giovani la vetrina prestigiosa del congresso SITCC e la possibilità di vedere premiati i migliori 3 lavori oltreché di averne pubblicati una selezione in un numero monografico della rivista della società “Quaderni di psicoterapia” .

 

 

SOM: Che cosa ama di più dei congressi SITCC ?

 
RA:
Gli incontri. È molto bello riveder colleghi che sono anche amici ed è molto bello poterlo fare ascoltando le loro relazioni piuttosto che bevendo un caffè insieme nelle pause o sorseggiando buon vino a cena. La dimensione sociale la valorizziamo coi nostri pazienti e ne insegniamo l’importanza ai nostri allievi riconoscendone la forza preziosa: i congressi SITCC sono anche questo.

 

 

SOM: Indubbiamente i congressi sono un’occasione per conoscere persone nuove, i giovani che presentano i propri lavori, rivedere colleghi; ma al di là dell’essere un’occasione per fare networking, questi congressi hanno poi un’utilità concreta, pratica? In altre parole, se ne riscontra successivamente l’influenza sia in campo clinico che nella ricerca?

RA: A mio parere sì. Non sono mai uscita da un congresso SITCC senza pensare di non avere imparato qualcosa di nuovo. E questo mi è capitato tanto nelle sessioni plenarie, quelle degli ospiti di chiara fama, quanto nei simposi di giovani colleghi.

 

 

SOM: Stiamo attraversando un periodo di crisi economica e partecipare ad un congresso di questa portata è un investimento economico importante (iscrizione, trasferimenti, pernottamento…). Quali sono le motivazioni per le quali vale la pena fare questo investimento e partecipare al XVII Congresso Nazionale SITCC?

RA: Spero che ciò che motiva le persone a venire sia la voglia di condividere il proprio lavoro e la curiosità di ascoltare quello altrui. Inoltre sono convinta che il senso di appartenenza alla società sia un motore importante. La SITCC è un porto a cui ogni suo buon marinaio ritorna, speriamo che più che mai a Genova tanti terapeuti possano ritornare per la voglia di portare esperienza dei mari esplorati.

VEDI I DETTAGLI DEL PROSSIMO CONGRESSO SITCC

TUTTI GLI ARTICOLI DAI CONGRESSI SITCC

Mr Jones – Cinema & Psicoterapia nr. 27

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #27

Mr Jones (1993)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

Mr-JonesI modelli e gli approcci al Disturbo Bipolare sottolineano l’importan­za di una prospettiva multifattoriale, che consideri il ruolo delle variabili sociali, biologiche e psicologiche. Nel generare e mantenere il disturbo predominano le variabili biologiche.

Un film di Mike Figgis. Interpretato da Richard Gere, Lena Olin, Anne Bancroft, Tom Irwin, Delroy Lindo. USA 1993. Romantico/Drammatico.

Trama

Mr. Jones è un uomo affetto da disturbo bipolare con fasi maniaca­li e depressive. Dall’interruzione dell’“Inno alla Gioia” di Beethoven all’interno di un auditorium gremito fino all’inverosimile, all’arrampi­carsi sui tetti di un edificio in costruzione preso dalla voglia di volare fino a cadere in uno stato di depressione con idee suicidarie, il film è un susseguirsi di rappresentazioni che mostrano la sintomatologia dei maniaco-depressivi.

La dottoressa Libbie Bowen dell’ospedale psichiatrico dove viene ricoverato Mr Jones prende in carico il paziente e intreccia una dram­matica storia d’amore violando la deontologia professionale, nonostan­te i consigli del suo supervisore e direttrice della clinica.

La scena finale mostra la dottoressa che salva il paziente arrampi­candosi sul tetto di una casa in costruzione con tanto di bacio finale.

Come sottolinea Kezich in una recensione del film “siamo tra una ver­sione ripulita in stile anni ’90 di “La fossa dei serpenti”, con le tipizzazioni fret­tolose di matti e maniaci, e la versione modernizzata di “Io ti salvero’” di Hitchcock, dove la dottoressa Ingrid Bergman soccorreva amorosamente il paziente Gregory Peck”.

Motivi d’interesse

Il film mostra il susseguirsi imprevedibile di episodi di alterazione dell’umore con comportamenti caratteristici che compromettono il fun­zionamento sociale e lavorativo.

 

Dal passo danzante, braccia a mulinel­lo, alle chiacchiere inarrestabili, per continuare con scrosci improvvisi di riso e crisi di pianto, Mr. Jones butta via i soldi in mance e regali, si muove nell’immenso salone di vendita di un negozio di musica e infine si siede ispirato al pianoforte, incanta uomini e donne trascinato da un ingannevole desiderio di onnipotenza. Coltiva intenzioni irrazionali e iperboliche come quella di volare, unite a quelle di interrompere questa altalena con la morte.

I modelli e gli approcci al Disturbo Bipolare sottolineano l’importan­za di una prospettiva multifattoriale, che consideri il ruolo delle variabili sociali, biologiche e psicologiche. Nel generare e mantenere il disturbo predominano le variabili biologiche.

Il film naturalmente trascura queste notazioni tecniche, ma le manifestazioni primarie della malattia che riguardano il comportamento e la psiche, con mutamenti profondi nella cognizione, negli umori, negli atteggiamenti e nei comportamenti ven­gono rappresentate discretamente.

La disregolazione dei ritmi circadiani, l’instabilità dei ritmi sociali, i cambiamenti positivi o negativi di vita, l’assenza di supporto sociale, le cognizioni intrattenute, il raggiungimento o il mancato raggiungimento di scopi nell’interpretazione di Gere sembrano abbastanza credibili.

Meno credibile è l’apporto tecnico che fornisce la dottoressa Bowen che mostra una classica violazione del setting, intrecciando una relazione affettiva con il paziente i cui sviluppi la narrazione evita di descrivere.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può essere molto utile per discutere con il paziente i segnali che indicano l’affacciarsi dello scompenso sia maniacale che depressivo e le conseguenze che i comportamenti agiti possono produrre in un periodo di lungo termine nella sua vita e in quella delle persone più vici­ne e significative.

Può rappresentare un’ottima base di discussione sulla relazione terapeutica e su possibili violazioni del setting. Rappresenta un utile supporto in fase di restituzione dell’assessment.

Trailer:

 

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La ricerca delle basi genetiche nel disturbo bipolare – Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma.   BOOKTRAILER  RECENSIONE 

Scoperta l’area cerebrale che spinge ad essere attivi!

FLASH NEWS

 

 

Un recente studio dell’istituto di ricerca di Seattle ha individuato l’area del cervello che potrebbe essere deputata al controllo della motivazione all’esercizio e alla partecipazione ad attività gratificanti, e potrebbe rivelarsi utile anche per migliorare i trattamenti per la depressione.

L’esercizio fisico è uno dei più efficaci anti-depressivi non farmacologici ed è noto che l’incapacità di provare piacere per le gratificazioni o in generale per esperienze piacevoli, sono segni caratteristici della depressione maggiore. Da qui l’importanza di una simile scoperta.

La ricerca è stata condotta su topi e i risultati indicano la abenula dorso mediale come responsabile del controllo del desiderio di fare esercizio; i topi, a cui venivano geneticamente bloccati i segnali provenienti da questa zona, infatti, erano letargici e correvano molto meno. Erano fisicamente capaci di correre ma apparivano immotivati a farlo. Dato che questa piccola regione cerebrale è molto simile negli umani e noi roditori, ci si aspetta che svolga la stessa funzione in entrambe le specie.

Oltre a far luce su regioni cerebrali poco studiate, ricerche come questa sono uno spunto interessante per future indagini sui trattamenti per la depressione e sulla possibilità di intervenire in maniera mirata per migliorare l’efficacia di alcuni di essi.

 

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Superare la depressione, un programma di terapia cognitivo-comportamentale- Recensione del libro di Levini, Michelin e Piacentini

 

Superare la depressione di Leveni, Michielin e Piacentini rappresenta proprio un manuale di auto-aiuto a orientamento cognitivo-comportamentale teso alla risoluzione dei sintomi depressivi in pazienti che ne soffrono.

Mi sento triste, non riesco a fare nulla, ho perso interesse in qualsiasi attività, sono un incapace!

Se un paziente riporta pensieri ed emozioni di questo genere, è molto probabile che si tratti di depressione e alcuni di loro potranno provare vergogna perché la considerano una debolezza o un castigo divino, altri si attribuiranno colpe personali per quanto succede loro, alcuni invece si sentiranno incompresi dagli altri.

In realtà, la depressione è un disturbo che causa molta sofferenza, ma che può essere superato con l’aiuto di uno psicoterapeuta o, in alcuni casi, anche con un buon manuale di auto-aiuto.

Superare la depressione di Leveni, Michielin e Piacentini rappresenta proprio un manuale di auto-aiuto a orientamento cognitivo-comportamentale teso alla risoluzione dei sintomi depressivi in pazienti che ne soffrono e questa edizione ne costituisce la revisione di una precedente del 2004.

La lunga esperienza degli autori con pazienti depressi ha fornito lo spunto per offrire ai lettori un modello di trattamento efficace nella maggior parte dei casi. La letteratura ha, infatti, dimostrato che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha la stessa efficacia degli psico-farmaci ed è preferibile a questi ultimi, in quanto non ha effetti collaterali e i miglioramenti sono più duraturi; tuttavia, nelle forme più gravi di depressione è possibile combinare la psicoterapia con gli psicofarmaci.

Il manuale è suddiviso in tre parti:

  • Nei primi 3 capitoli vengono fornite informazioni generali sulla depressione, la sintomatologia, le cause e le conseguenze, le principali terapie e viene esposto il modello comportamentale della depressione relativo alla riduzione delle attività e dei rinforzi e il modello cognitivo relativo alle principali convinzioni di base e pretese disfunzionali dei pazienti depressi;
  • La seconda parte del manuale è costituita dai capitoli 4 e 5; nel capitolo 4 si sottolinea l’importanza di riprendere a svolgere attività piacevoli, in quanto un circolo vizioso alla base della depressione è proprio quello relativo alla riduzione delle attività e dei rinforzi e, nel contempo, è fondamentale ridurre gli evitamenti e possibili comportamenti dannosi o controproducenti, come l’assunzione di alcol o sostanze o le abbuffate, ecc.; nel capitolo 5, invece, viene presentato un metodo strutturato di problem solving e di raggiungimento degli obiettivi;
  • La terza parte del manuale si sofferma sul modello cognitivo di trattamento della depressione; il capitolo 6 espone la tecnica degli ABC per individuare il legame tra eventi, pensieri ed emozioni e riporta i principali pensieri negativi su di sé, sugli altri e sul mondo che il paziente depresso generalmente sviluppa (la triade di Beck); il capitolo 7 riguarda la ristrutturazione cognitiva e, dunque, la messa in discussione dei pensieri disfunzionali e la sostituzione con pensieri alternativi più funzionali; il successivo capitolo si sofferma ulteriormente sulle convinzioni di base e le pretese disfunzionali, mentre il capitolo 9 descrive il meccanismo della ruminazione e come interromperlo; gli ultimi capitoli concernono la riduzione del senso di colpa che spesso attanaglia i pazienti depressi, il potenziamento delle abilità assertive e l’importanza del sostegno sociale per il superamento della depressione.

Nonostante l’apparente complessità del modello proposto, il manuale risulta di facile comprensione e si rivolge sia a pazienti che soffrono di depressione e che intendano seguire un trattamento cognitivo-comportamentale, sia ai familiari di pazienti depressi sia agli psicoterapeuti che vogliono applicare un protocollo di intervento cognitivo-comportamentale in modo strutturato.

Il testo risulta, inoltre, altamente motivante e validante della sofferenza realmente esperita dai pazienti depressi e fornisce continuamente incentivi per continuare a lottare per il superamento della depressione nonostante possibili momenti di sconforto e debolezza.

Termino questo commento sul manuale con una citazione di Albert Camus posta al termine del libro e che mi sembra assolutamente esplicativa delle intenzioni degli autori:

Nel profondo dell’inverno, finalmente scoprii che dentro di me c’era una invincibile estate. 

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Leveni, D., Michielin, P., Piacientini, D. (2014). Superare la Depressione, un Programma di Terapia Cognitivo- Comportamentale. Eclipsi, Firenze.  ACQUISTA

Mondovisione di Ligabue: recensione – Psicologia & Musica

Un viaggio doloroso, ma positivo: nell’ultima di copertina Ligabue osserva il cielo e le sue stelle, dalla prospettiva di un mondo non più sgualcito e spiegazzato perché Sono sempre i sogni a dare forma al mondo

 

Un mondo accartocciato, come un foglio pronto a finire in un cestino. Un mondo distratto, ma non distrutto. Un mondo che ha ancora qualcosa da dire, che reclama attenzione, abbracciato da ringhiere in cui il titolo del disco è impresso in lettere di un Carosello d’annata.Un mondo pronto a (ri) partire dal metallico tunnel di un aeroporto (seconda e terza di copertina), per attraversare luoghi, vivere guerre, terremoti, lutti, in un viaggio di istantanee dirette e senza sconti incastonate tra i testi.

Un viaggio doloroso, ma positivo: nell’ultima di copertina l’artista osserva il cielo e le sue stelle, dalla prospettiva di un mondo non più sgualcito e spiegazzato perché – e così chiude l’album

Sono sempre i sogni a dare forma al mondo.

Questa, la visione del mondo che Luciano Ligabue consegna al suo pubblico, con Mondovisione (Zoo Aperto srl, distribuzione Warner Music). Il lavoro, giunto a più di tre anni di distanza da Arrivederci Mostro, racconta in 14 tracce, di cui 2 strumentali, il percorso dell’artista, i suoi cambiamenti (non solo nel look), le sue esperienze e quelle di un’intera umanità ormai disabituata a
comunicare.

Un’evoluzione che si specchia anche nei suoni, sulla cui ricerca – afferma il cantautore in conferenza stampa – è confluito l’impegno maggiore. L’intento, sostiene, è quello di creare un prodotto il più possibile omogeneo all’ascolto, dove live e registrato riescono quasi a confondersi nelle stesse sonorità.

Più leggeri, anche alcuni arrangiamenti ed inserite – per dare respiro all’ascolto – le brevissime pause strumentali Capo Spartivento e Il Suono, Il Brutto e Il Cattivo. Il desiderio, sostiene, era quello di fare un disco in cui fossi presente e che rispecchiasse il suono del gruppo attuale e che schivasse il metodo di lavoro dei dischi moderni.

In fondo, per l’artista (Conferenza stampa, Milano, 22.11.13), il rock è il modo migliore per urlare i propri sentimenti in faccia alla gente .

Ad aprire il lavoro, è Il muro del suono. Un suono, senza compromessi e dal sapore live, quello delle chitarre che accompagnano l’urlo di rabbia che l’artista lancia contro chi riesce a dormire/comunque sia andata. Sotto accusa, gli occhi da sempre/distratti del mondo, dove ogni storia è riscritta in economia, dove i tempi della giustizia lacerano vite, dove il vampiro – nella scalata al successo – non chiede scusa e non paga per tutto quel sangue.

Ma quella gridata dal cantautore non è solo indignazione. È impulso ad abbattere il muro, a reagire, a trasformare la difficoltà in opportunità. Si, perché ognuno di noi può far molto. Si, perché un cerino sfregato nel buio/fa più luce di quanto crediamo.

Venature soul e sound più dolce, per Siamo chi siamo, seconda traccia in cui Ligabue si abbandona, nel cantato e nel recitato di chiusura, a riflessioni più introspettive, in cui l’ascoltatore può ritrovarsi mentre si osserva allo specchio e comprende che da certe certezze non si scappa. E se la vita non da indicazioni, ti mette lì a sbagliare, a scegliere percorsi tra mille incroci, sono le rughe a parlar chiaro dei tentativi che non ho mai fatto.

 

Tornano a vestirsi di rock, le note di Il volume delle tue bugie, quadro del disincanto femminile di chi scopre che la fiaba è ben diversa dalla realtà e si tatua un’anima dura dentro/molto più di quel che basta. Un brano che si fa apprezzare per la penna capace di delineare con estremo realismo il vissuto di una donna ferita, che ormai arrotonda per difetto e che mente – tradendosi – quando, di fronte al mare gira in fretta gli occhi e il cuore.

E non credo sia un caso, che il terzo brano lasci il posto alla favola, questa volta a lieto fine, il cui narrato è accompagnato dalla seducente atmosfera melodica di La neve se ne frega (già titolo di un romanzo di Ligabue). La ballata si muove sul suono fiabesco di una chitarra che trova il suo dialogo, nelle ultime note, in un pianoforte che non stupisce ma rassicura. Un brano che si ascolta
a sensi aperti, immaginandosi sfiorati dalle piume di una neve che cade e che costringe ad un tempo diverso. Molto intima, l’istantanea in cui il parlami davvero/dentro questo gelo ed il baciami davvero/che non casca mica tutto il cielo/che ci stiamo ancora sotto insieme evocano la magia di due ciglia bagnate che si promettono di tutto.

Torna il sociale con il singolo di lancio “Il sale della terra”, denuncia a chi, Montblanc tra le dita, può farti fuori. Nessuna impronta politica, però, perché anche le canzoni d’incazzatura sono canzoni sentimentali (dall’intervista concessa a Fabio Fazio).

Ancora amore in Tu sei lei, dichiarazione d’eterno che riflette il sogno di ogni donna: essere scelta, nonostante i difetti come il domani, il futuro, il progetto del proprio uomo. Un uomo che i tuoi occhi li conosce davvero (io li ho visti spesso nudi/ma non si vedeva mai la fine”).

Inietta energia pura, il rock della traccia Nati per vivere, in cui la rabbia diventa motivo per ricordarci che siamo sulla terra per vivere adesso e qui.

Una vita messa a dura prova in La terra trema, amore mio, pezzo dedicato al sisma che ha colpito l’Emilia e al bisogno vitale di una profonda ricostruzione – non solo architettonica – ma esistenziale (sottolinea il cantautore), tesa a riconquistare punti di riferimento, affetti e certezze. Amore, distruzione e morte, dunque, ma anche rinascita. Queste le chiavi del domani. Del resto, una catastrofe che cristallizza gli animi di fronte a L’urlo delle viscere – sia consentito citare un mio componimento poetico, scritto nella notte del sisma che ha distrutto la mia città nel 2009 – cambia prospettive e aspettative, perché ti pone di fronte ad un quadro in cui, paralizzato, vedi solo anziani fermi al muro/bambini già fantasmi/e intorno solo vuoto.

Si torna ai primi amori, all’infanzia, alla famiglia, con Per sempre, nostalgica ballata che libera nell’aria toccanti flashback, fotografie di attimi vissuti con i propri genitori, ai quali canta per sempre/solo per sempre/cosa sarà mai portarvi dentro solo tutto il tempo. Un eterno racchiuso in pochi istanti, tra un parlato e un assolo di chitarra. Un brano che arriva.

Il contrasto tra la poesia del Natale ed il dolore intenso di un lutto che svuota di senso ogni pensiero, che ti fa riflettere su cosa c’è e cosa no, è ben narrato in Ciò che rimane di noi, a mio parere uno dei brani più intensi del lavoro. E la melodia, con la sua alternanza di suoni, a volte morbidi ed altre graffianti, si armonizza alla sofferenza e alla voglia di comprendere come non è andata/e cosa non è stato. L’invito, è a cogliere l’essenza di ciò che rimane al di là di un’emozione effimera, che (e prendo in prestito le parole dell’autore) dura cinque minuti e poi passa.

Non poteva mancare, poi, sulla scia dei Sogni di rock’n’roll e di In pieno rock’n’roll, un richiamo diretto allo stile amato dall’artista, che Con la scusa del rock’n’roll (track n. 13) sostiene di aver detto cose che potevo non dire e fatto cose che potevo non fare.

Ligabue ci saluta con Sono sempre i sogni a dare forma al mondo. Sonorità che vogliono adagiarsi, senza soffocarle, sulle sensazioni regalate all’ascoltatore. L’idea è quella di trasmettere la forza di credere ancora al potere dei sogni, perché – afferma il cantautore – qualsiasi cosa abbia plasmato il mondo, è passata attraverso il sogno di qualcuno che poi l’ha realizzato.

Ecco che anche il sogno diviene realtà, strumento e mezzo per restituire al mondo quella dignità e quella forma di cui la società
ha saputo privarlo.

E se noi siamo fatti anche di canzoni – perché noi siamo storia e perché la citazione è il sintomo d’amore al quale non sappiamo rinunciare (dalla sinossi all’opera di G. Antonelli: Ma cosa vuoi che sia una canzone) – Ligabue ci ha consegnato molto di se (confessa: ho raccontato tutto nelle mie canzoni. Mi sono spolpato).

Non resterà, allora, che indagarci dentro per comprendere se davvero vogliamo che la nostra terra continui a ruotare attorno ad un format, trasmesso in Mondovisione, figlio di presunzione, aridità e superficialità. E se non è questo che vogliamo, allora restituiamo sale a questa terra e forma al mondo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Ligabue, L. (2013). Mondovisione. Zoo aperto. Warner Music distribuzione ACQUISTA
  • Antonelli, G. (2010) Ma cosa vuoi che sia una canzone. Il Mulino ACQUISTA
  • Ligabue, L. (2013) La vita non è in rima (per quello che ne so). Intervista sulle parole e i testi a cura di G. Antonelli, Laterza  ACQUISTA
  • Pascasi, S. (2013). L’urlo delle viscere (tratto da Con tre quarti di cuore). Edizioni Galassia Arte ACQUISTA

 

 

24 ore senza dormire: attento ai sintomi!

 

FLASH NEWS

 

Un recente studio dell’Università di Bonn ha scoperto che restare svegli 24 ore consecutive, senza mai dormire, può provocare sintomi simili a quelli della schizofrenia.

24 partecipanti, sia uomini che donne, di età compresa tra i 18 e i 40 anni sono stati accolti nel laboratorio del sonno dell’Università di Bonn. Per una settimana i volontari hanno dormito regolarmente, la settima notte sono stati tenuti svegli con film, conversazioni, giochi e brevi passeggiate. La mattina successiva sono state poste loro domande riguardanti pensieri e sensazioni e somministrato un test per valutare la capacità di filtrare le informazioni (“prepulse inhibition test”).

Dai risultati sono emersi:

• pronunciati deficit dell’attenzione;

• una drastica riduzione della funzione filtrante del cervello;

• maggiore sensibilità alla luce, ai colori e alla luminosità;

• alterazione del senso del tempo e del senso dell’olfatto;

• e molti di loro avevano anche un’alterata percezione corporea.

I ricercatori si aspettavano un indebolimento della capacità di concentrazione ma non i sintomi tipici della psicosi o della schizofrenia o quanto meno non si aspettavano che i sintomi fossero così pronunciati dopo una sola notte di veglia.

Il Dr. Ulrich Ettinger afferma che questa scoperta può avere importanti implicazioni anche nella ricerca farmaceutica.

Nello sviluppo di medicinali, infatti, i sintomi di diversi disturbi mentali vengono solitamente simulati attraverso alcune sostanze, le evidenze dimostrate da questo studio aprono invece nuove prospettive di ricerca.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ice Bucket Challenge: da moda virale a piccolo miracolo della beneficenza

 

 

ICE BUCKET CHALLENGE AISLADa moda virale come tante l’Ice Bucket Challenge, la sfida a rovesciarsi sulla testa un secchio di acqua ghiacciata e a diffondere il video dell’impresa via web, è diventata in breve tempo un fenomeno mediatico benefico.

L’idea nasce negli USA da Pete Frates, un uomo di Boston che, saputo della catena che girava da qualche settimana in rete, ha deciso di provare a legarla alla malattia di cui soffre, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), per sensibilizzare le persone e convincerle a fare donazioni per la ricerca.

Il gesto intende far provare, almeno per un momento, la sgradevole sensazione di intorpidimento muscolare, di irrigidimento, di perdita di contatto con il proprio corpo. La sensazione che prova chi è affetto da SLA nelle prime fasi della malattia.

Analizzando il fenomeno dal punto di vista psico-sociale possiamo individuare le componenti di sfida ed emulazione: chi si “congela” con la doccia sfida altri a ripetere il gesto, compresa la donazione per la ricerca sulla SLA.

Se si è stati nominati la pressione sociale è ad agire questo gesto, anche perché è molto potente il canale web: Youtube, Facebook. La condivisione sui social network dei video delle secchiate è un’altra fetta del fenomeno. Politici, personaggi dello spettacolo, sportivi, big del mondo della tecnologia non si sono sottratti alla sfida e sono diventati testimonial della campagna, soggetti in cui identificarsi ed emulare.

Il messaggio della raccolta fondi è semplice ed è veicolato attraverso il canale visivo, molto efficace nel farlo penetrare.

L’obiettivo condiviso della causa benefica attiva una cooperazione trasversale al fine comune.

La riprovazione sociale, direi la moderna gogna mediatica, è non tanto per coloro che si sottraggono alla sfida della doccia gelata, fatta da alcuni forse per narcisismo o esibizionismo, uno spot pubblicitario a costo zero, quanto per quei personaggi pubblici che sono poco generosi nelle donazioni. Questi sono i rischi professionali dell’esposizione ai mezzi di informazione e comunicazione.

PER DONARE CON CARTA DI CREDITO >> LINK
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Il bordo vertiginoso delle cose di Gianrico Carofiglio – Recensione

Gianrico Carofiglio ha più volte dimostrato di essere un attento indagatore e conoscitore dell’animo umano; i suoi non sono semplici romanzi, ma quella che è la narrazione vera e propria si intreccia sapientemente con l’indagine introspettiva del protagonista e con le dinamiche relazionali che lo coinvolgono.

Non di meno compaiono interessanti citazioni circa la conoscenza della psicopatologia e della materia psichiatrica. Ne “Il silenzio dell’onda” è portatore di conoscenza in materia, uno psicoterapeuta (ne consiglio la lettura a prescindere dall’interesse professionale).

Uno dei suoi ultimi lavori, “Il bordo vertiginoso delle cose”, presenta già un titolo che apre a diverse interpretazioni. A cosa fa riferimento questo bordo? Ha una collocazione precisa? Cosa c’è oltre? L’immagine del confine richiama quella di una divisione tra due luoghi, due persone, due tempi e la presenza inequivocabile di un “oltre”. La parola vertiginoso richiama, invece, la sensazione di un possibile pericolo legato proprio all’oltrepassare quel confine. Pare che nella scelta del titolo Carofiglio abbia attinto al mondo della poesia, nello specifico a una di Robert Browning; ma proprio perché siamo nel mondo della letteratura e della poesia non possiamo chiedere “a un poeta di spiegare cosa voleva dire con un verso o anche con una singola parola” perché in questo modo uccideremmo la poesia.

 

La storia si snoda in due tempi: il presente di Enrico, scrittore in crisi dopo il successo del suo primo e unico romanzo, ora editor a Firenze, e il suo passato, nello specifico l’anno del suo primo liceo classico, all’Orazio Flacco di Bari, costellato di incontri e avvenimenti determinanti per il succedersi degli avvenimenti.

Enrico torna indietro, sia fisicamente che con la memoria: ritorna a Bari dopo aver letto, per caso, una notizia sul giornale, e torna indietro alla sua adolescenza. La cosa interessante è che mentre il suo presente viene raccontato alla seconda persona singolare, è il passato che viene raccontato in prima persona, come se quello fosse ora il vero presente, come se ritornare in quei luoghi riportasse in vita quel ragazzo che suonava la chitarra e aveva la passione per la scrittura. Parlare di sé in seconda persona sembra da un lato indicare una scissione tra alcune parti di Sé, come se Enrico non si riconoscesse in quello che è ora; dall’altro lato è come se Enrico si decentrasse per osservarsi davvero, per soffermarsi su se stesso. Enrico ha bisogno di comprendere, di capire, e per farlo ha bisogno di tornare indietro, di ri-scoprire alcune parti del Sé che aveva dimenticato, rimosso, o forse non elaborato. Lui stesso però esprime a se stesso la paura di fare tutto questo quando dice a una ragazza conosciuta sul treno che, per caso, legge uno dei suoi racconti preferiti: “Spesso non è una buona idea tornare sui propri passi”. Ma parte lo stesso, si sente pronto a raccontarsi la storia della propria vita. Di quella professoressa di filosofia che lo incantava.

Di quel padre e di quel fratello troppo simili tra loro per poterlo capire.

Di quella madre troppo distante.

Dell’unica vera amica mai avuta.

Di una passione “vertiginosa” per qualcosa che finalmente lo faceva sentire su quel bordo oltre il quale sarebbe potuto cambiare tutto.

Di quell’audacia che fa sentire più forti e di quell’inconfessabile dolore provocato da un cuore quando si frantuma in mille pezzi.

Enrico, fermandosi, prova emozioni per troppo tempo soppresse, forse perché facevano davvero tanta paura, forse perché non aveva ancora gli strumenti adatti per fronteggiarle. Ma sembra riprendere le redini di se stesso. La paura di tornare è stata affrontata. Quei ricordi provocano ancora forti sensazioni, fortissime. Ma ora può gestirle, comprenderle alla luce di una nuova maturità, è pronto a raccontare la storia della propria vita integrando fatti e correlati emotivi nuovi. Ed è pronto a farlo non solo con agli altri, ma soprattutto con se stesso.

Che quel bordo vertiginoso delle cose sia proprio quella che ci separa dai nostri ricordi?

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Carofiglio, G. (2013). Il bordo vertiginoso delle cose. Editore Rizzoli: Milano. ACQUISTA ONLINE

La relazione terapeutica nella Schema Therapy: una carta vincente

L’assunto centrale della Schema Therapy è che i disturbi emotivi e mentali derivano da un non adeguato soddisfacimento dei bisogni emotivi primari in età infantile.

La Schema Therapy porta con sé la forza di aver saputo integrare, in una cornice di chiaro senso terapeutico, aspetti di terapia cognitivo comportamentale, terapia della gestalt, teoria dell’attaccamento e psicoanalisi, andando ad individuare un approccio psicoterapico efficace per quelle persone che non riuscivano a trarre un reale beneficio dagli approcci terapeutici standard, rimanendo incastrati in relazioni interpersonali disfunzionali e in copioni di vita che portano sofferenza.

L’assunto centrale della Schema Therapy è che i disturbi emotivi e mentali derivano da un non adeguato soddisfacimento dei bisogni emotivi primari in età infantile. Il non soddisfacimento dei bisogni emotivi primari porta alla creazione di Schemi Precoci Maladattivi, che sono da considerarsi patologici quando associati ad emozioni negative ed intense.

I bisogni emotivi primari (quali bisogno di sicurezza, stabilità, cura e accettazione, bisogno di autonomia, bisogno di esprimere le proprie emozioni, bisogno di limiti realistici, bisogno di spontaneità e gioco) vengono espressi nella relazione con le figure di accudimento e attaccamento e, quando non sono soddisfatti, danno luogo ad un’intensa sofferenza che il bambino non è in grado di gestire.

Le esperienze, ad esempio, di deprivazione emotiva, abbandono, trascuratezza verranno mentalizzate dal bambino, dando luogo agli Schemi Maladattivi Precoci, che struttureranno la visione di sé, degli altri e del mondo. Gli Schemi Maladattivi rappresentano, quindi, tutte le emozioni, i ricordi e i pensieri legati al non soddisfacimento dei bisogni emotivi primari, che poi vengono generalizzati alle diverse esperienze di vita del soggetto nel corso dello sviluppo; gli SMP tendono ad auto-mantenersi, attivandosi in situazioni differenti, anche nella vita adulta, quando il soggetto sperimenta quelle stesse emozioni e sensazioni vissute nell’esperienza originaria di trauma. Il ponte tra il passato e il presente avviene grazie all’attivazione emotiva, ed è proprio questo il motivo per cui in terapia è così importante lavorare sulle emozioni.

 

Jeffrey Young individua diciotto schemi suddivisi in cinque domini.

Nel dominio distacco e rifiuto, i bisogni di base non soddisfatti sono quelli di sicurezza, stabilità, cura e accettazione e gli schemi che ne fanno parte sono:

abbandono/instabilità;

sfiducia/abuso;

deprivazione/emotiva;

inadeguatezza/vergogna;

isolamento sociale/alienazione.

Nel dominio mancanza di autonomia e abilità, il bisogno di base non soddisfatto è quello di autonomia e gli schemi di riferimento sono:

dipendenza/incompetenza;

vulnerabilità al pericolo;

invischiamento/sé poco sviluppato;

fallimento.

Nel dominio mancanza di regole, il bisogno non soddisfatto è quello della struttura e fissazione di limiti e gli schemi appartenenti a questo dominio sono:

pretese/grandiosità;

autocontrollo insufficiente.

Il quarto dominio è quello dell’eccessiva attenzione alle esigenze degli altri, il bisogno non soddisfatto è quello dell’espressione delle proprie emozioni ed è caratterizzato dai seguenti schemi:

sottomissione;

auto-sacrificio;

ricerca di approvazione.

Il quinto dominio è definito ipercontrollo e inibizione, il bisogno non soddisfatto è quello di spontaneità e gli schemi associati sono:

negativismo/pessimismo;

inibizione emotiva;

standard severi;

punizione.

La modalità con cui un individuo reagisce all’attivazione di uno schema rappresenta una risposta di coping, e cioè una strategia di fronteggiamento del soggetto di fronte alla sofferenza e al dolore che l’attivazione dello schema stesso comporta. Le modalità di coping che l’individuo può mettere in atto sono:

la resa;

l’evitamento;

l’ipercompensazione.

Quando il soggetto risponde con un atteggiamento di resa, le persone si comportano come se non ci fosse un’alternativa allo schema stesso. Quando si parla di un coping di ipercompensazione le persone si comportano come se il contrario dello schema fosse vero, ad esempio un uomo con schema di abbandono e con la paura che tutti prima o poi lo lasceranno farà in modo di chiudere le relazioni prima che possano diventare significative. Si parla di coping di evitamento quando le persone evitano sia da un punto di vista cognitivo che comportamentale che emotivo di attivare lo schema.

Il compito del terapeuta è proprio arrivare a modificare gli Schemi Maladattivi Precoci, attraverso tecniche cognitive, comportamentali ed emotive/esperienziali, ma soprattutto attraverso la relazione terapeutica, che diventa uno strumento indispensabile per modificare l’esperienza emotiva del paziente e ristrutturare le modalità con cui egli valuta sé, gli altri e il mondo.

La qualità emotiva della relazione terapeutica contribuisce a creare nella terapia una zona sicura e condivisa, in cui i bisogni emotivi della persona che soffre vengono riconosciuti validati e soddisfatti, proprio quando emerge la parte più vulnerabile e sofferente. La relazione terapeutica è orientata quindi al soddisfacimento di quei bisogni primari insoddisfatti, ovviamente nei chiari limiti del setting terapeutico: una relazione di accudimento in cui il terapeuta, come adulto funzionale, si prende cura dei bisogni del bambino, validando e dando valore alle sue emozioni, ai suoi pensieri, per costruire con lui nuovi schemi con cui leggere la realtà. Il nome con cui si definisce questo tipo di rapporto terapeutico è “Limited Reparentig”. All’interno della relazione terapeutica viene a crearsi un luogo sicuro in cui il paziente, spesso per la prima volta, può sentirsi accolto, non giudicato e protetto.

Il “Limited Reparenting” rappresenta uno degli aspetti peculiari della Schema Therapy; con esso si intende una tecnica specifica ideata per dare al paziente la possibilità di soddisfare quei bisogni che sono stati frustrati nell’infanzia. L’immaginazione viene usata come mezzo per accedere alle situazioni dolorose dell’infanzia del paziente, il paziente ritorna bambino e rivive le esperienze che hanno determinato la formazione dei suoi Schemi Maladattivi, questa volta, però, in un contesto buono, sicuro, in cui le emozioni del bambino vengono finalmente riconosciute e validate e i bisogni soddisfatti. Andando a lavorare sull’emozione di quel bambino, dando finalmente una risposta buona ed adeguata a quei bisogni frustrati, andiamo ad indebolire gli Schemi Maladattivi che perdono la struttura emotiva sofferente che li tiene in piedi. Proprio perché l’emozione, come detto prima, fa da ponte tra le esperienze presenti e le esperienze passate andando a “correggere” la percezione emotiva di un evento dell’infanzia, possiamo arrivare a cambiare il modo in cui la persona pensa, sente e agisce nelle situazioni difficili odierne.

Nella relazione terapeutica, il terapeuta funziona da modello di adulto sano, si prende cura in modo amorevole del bambino del paziente, poi, pian piano nel corso della terapia l’adulto del paziente imparerà ad affiancare e poi a sostituire il terapeuta nell’importante compito di prendersi cura di sé.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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FLASH NEWS

 

 

Un gruppo di ricercatori della UCLA ha dimostrato come la ridotta interazione faccia-faccia, conseguente all’uso intenso di smartphone e dispositivi elettronici in genere, possa causare una diminuzione delle abilità sociali.

Lo studio ha coinvolto due gruppi di studenti di 11-12 anni, 51 ragazzi hanno vissuto per 5 giorni in un campo-scuola in cui non era permesso usare alcun dispositivo. Altri 54 ragazzi della stessa scuola, invece, non avevano restrizioni di alcun tipo.

Prima e dopo l’esperimento sono state rilevate le abilità di riconoscere le emozioni altrui di ciascun partecipante attraverso la presentazione di 48 immagini di volti che esprimevano felicità, tristezza, rabbia e paura che veniva chiesto di identificare e dei video di cui dovevano descrivere le emozioni degli attori.

I risultati mostrano che i bambini che avevano partecipato al campo avevano migliorato significativamente le loro abilità di lettura delle emozioni facciali e di altri indizi non-verbali, a differenza di quanto invece fatto dai bambini che avevano continuato a usare i suddetti dispositivi.

Senza l’interazione faccia-faccia si perdono, dunque, importanti abilità sociali che non si possono apprendere allo stesso modo attraverso uno schermo.

Dobbiamo, quindi, ricordare che in quanto creature sociali è per noi necessario interagire direttamente con l’altro e non smettere di comunicare senza la mediazione di strumenti elettronici.

 

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Donne e sessualità: tra soddisfazione e legami di attaccamento – Recensione

Ivan Formica  

 

Il libro “Donne e Sessualità. Uno studio casistico tra soddisfazione e legami di attaccamento” guarda all’orizzonte del piacere femminile partendo da un viaggio retrospettivo nella storia della sessualità, dal mondo antico fino ai giorni nostri; per molto tempo piacere e desiderio furono considerati come disgiunti l’uno all’altro ed esclusivamente rilegati alla necessità procreativa.

[blockquote style=”1″]La vita sessuale degli uomini è divenuta accessibile alla ricerca. Quella delle donne è nascosta dietro un’impenetrabile oscurità[/blockquote]

(S. Freud, 1905).

Le parole di Freud riecheggiano come per molto tempo lo studio della sessualità femminile sia stata oggetto di dubbi, pregiudizi e false credenze ma anche di interesse per quella “sfera esperienziale” come la definirebbe Foucault, tanto negata e repressa, quanto vissuta ed ostentata.

Il libro “Donne e Sessualità. Uno studio casistico tra soddisfazione e legami di attaccamento” guarda all’orizzonte del piacere femminile partendo da un viaggio retrospettivo nella storia della sessualità, dal mondo antico fino ai giorni nostri; per molto tempo piacere e desiderio furono considerati come disgiunti l’uno all’altro ed esclusivamente rilegati alla necessità procreativa.

Tale “scissione” era evidente per esempio nell’antica Grecia, si pensi alle parole di Demostene: «Abbiamo le etere per il piacere, le concubine per la cura quotidiana del corpo, le mogli per procreare figli legittimi e per custodire fedelmente la casa»; una massima fiorentina del Trecento sintetizzava bene tale concetto: “buon cavallo e mal cavallo vuole sprone; buona donna e mala donna vuol bastone”. Le donne, come il cavallo, a prescindere dalle loro caratteristiche di bontà o malizia, dovevano essere dominate e punite poiché secondo la scienza medica del tempo, essendo la donna sensibile alle influenze esterne ed a cedervi, occorrevano sorveglianza e repressioni costanti. (L. Stone, 1995).

Nella tarda antichità e primo Cristianesimo, intorno al II sec d.C., si avvertirono le prime avvisaglie di una svolta nell’ambito della sessualità: la superiorità dell’anima sul corpo decantata da Platone e dagli Stoici, esortava alla moderazione e all’autocontrollo, il corpo era considerato come la morte dell’anima dunque l’unica soluzione per permettergli di risorgere era quello di privarlo e martoriarlo (P. Veyne, 1978).

L’avvento del Cristianesimo portò con sé l’imperativo morale della fedeltà coniugale e con esso ancora una serie di divieti e vincoli abbastanza rigidi nei confronti della donna la cui sessualità continuava a essere confinata alla procreazione. Questo spirito sessuofobico culminerà nella caccia alle streghe durante il Medioevo, il Malleus maleficarum offre a tal riguardo assieme ai molti atti processuali dell’epoca, definizioni emblematiche «il sesso non è nulla di naturale, ma viene dal diavolo e la donna è il suo ministro nell’opera di tentazione». (Cfr. A. Cipriani, 2006).

Con la nascita della psichiatria, sociologia ed antropologia, uno dei tanti interrogativi delle nuove scienze fu quello di definire il confine tra normalità ed insanità ed anche in ambito sessuale molti furono i dubbi a riguardo; infine, con l’avvento del XX e XXI secolo, la ruota della morale sessuale ha compiuto un altro giro, quello della tolleranza e della sessualizzazione di tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Senza entrare in merito alle lotte femministe si può asserire che la rivoluzione sessuale, caratterizzante il secolo, ha visto nell’avvento dei mezzi contraccettivi poco costosi e affidabili (come il preservativo e la pillola) e la scoperta degli antibiotici con i quali curare le malattie veneree, due timoni saldi con i quali indirizzare la rotta di una nuova sessualità femminile. Le scoperte mediche e scientifiche concernenti i metodi anticoncezionali e abortivi, posero le premesse per il controllo da parte della donna della sfera sessuale, separandola dalla sola procreazione (M. Boneschi, 1998).

Ma cosa s’intende per soddisfazione sessuale femminile? Nella sua Prefazione al libro, Clemente Cedro Professore di Psichiatria all’Università degli Studi di Messina, scrive: “con una scrittura piacevole e suffragata da dati documentali, l’autrice illustra l’evoluzione del concetto di orgasmo femminile e la sua natura fisiologica, fornendo informazioni, che risultano estremamente interessanti per lettori di entrambi i sessi.

Il testo è quindi un valido manuale per comprendere a fondo la sfera del piacere sessuale femminile, utile per conoscere l’attuale indice di soddisfazione sessuale del campione di donne esaminate, ma forse, e soprattutto, per stimolare riflessioni sull’importanza che riveste la vita di relazione con i propri genitori nella prima infanzia in rapporto alla possibilità concreta per le donne di realizzare una sana e soddisfacente vita sessuale”; nel libro il concetto di soddisfazione non si esaurisce con il raggiungimento dell’orgasmo nonostante nella nostra società vi sia un’attenzione particolare, da parte di entrambi i sessi, al fatto che la donna raggiunga l’orgasmo come sintomo di salute psichica in generale: un capitolo intero è dedicato alle problematiche sessuali femminili alle indicazioni per una corretta diagnosi, all’eziologia ed ai suggerimenti per il trattamento.

Infine, la ricerca condotta in alcuni Consultori Familiari, ha indagato dal punto di vista clinico e scientifico l’universo femminile che si cela dietro alle più comuni problematiche sessuali oggetto di consulenza specialistica, in correlazione con i rapporti con le figure genitoriali ed il contesto socioculturale entro cui questi si esprimono, dimostrando come questi possano avere un impatto notevole nello sviluppo di una sana sessualità o di particolari disfunzioni (vaginismo, anorgasmia ecc.).

L’autrice sottolinea quindi la necessità di ripartire dal basso, dall’ educazione all’affettività come fondamento per la costruzione di legami sani ed appaganti.

I clinici sono ormai consapevoli del fatto che quando una problematica sessuale diventa l’argomento principale in un’intervista iniziale, questo rappresenta solo la punta di un iceberg, infatti i nuovi modelli dinamici di interpretazione e di trattamento delle disfunzioni sessuali considerano la natura eziologica multicomponenziale del disturbo e lo stesso ciclo di risposta sessuale come sinergia tra motivazioni, fattori socio-psicologici e relazionali interagenti inclusi i fattori derivanti da condizioni fisiopatologiche importanti come il diabete (Gabbard, 2007).

Nel libro uno sguardo attento e prospettico è inoltre rivolto all’adolescenza, al disagio giovanile ed al ruolo importante che rivestono la famiglia e la scuola: in riferimento alla stretta correlazione tra accudimento e soddisfazione sessuale in età adulta su citata, emerge come la madre ricopra un ruolo importante nei processi di identificazione e differenziazione che la giovane attraversa durante la formazione della sua identità.

L’importanza di braccia calde e accoglienti, di prontezza e di comunicazione fa sì che il linguaggio non-verbale costituisca quel palcoscenico intersoggettivo attraverso cui sperimentare le proprie emozioni, convalidarle grazie all’aggancio emotivo della madre e riproporle nella formazione e sperimentazione della propria affettività.

La madre diventa così, per la ragazza che si trova a relazionarsi con l’altro sesso, un valido veicolo e un elemento di “modeling” oltre che una base sicura cui fare affidamento. L’abbassamento dell’età dei primi rapporti, l’aumento delle gravidanze tra le giovanissime e delle malattie sessualmente trasmissibili, si accompagnano spesso a una scarsa consapevolezza e ad una carenza di informazione da parte della ragazza.

Per tali motivi è fondamentale la creazione di punti di riferimento esterni alla famiglia che accompagnino e sostengano, questa delicata fase evolutiva. È importante considerare come comportamenti sessuali, considerati a rischio, possano in realtà veicolare altri aspetti, a livello più strettamente individuale, la sessualità può servire a diminuire il senso di solitudine o gli stati d’ansia, soprattutto quando questi sono legati alla difficoltà di comunicare con gli altri od a situazioni problematiche quali disagi familiari.

Il disagio giovanile può essere dunque l’espressione di una crisi più ampia che copre l’intera area esistenziale del soggetto: oggi molti giovani fanno fatica a sviluppare un loro progetto di vita, a dare un senso profondo alla propria esistenza, vivono focalizzati sul presente, nel mondo virtuale del “qui tutto è possibile” passando spesso da un’esperienza frammentaria all’altra. Tali comportamenti se non adeguatamente prevenuti, contenuti e reindirizzati in maniera funzionale possono condurre a disagi psicologici più ampi e preoccupanti, si pensi alla condizione di solitudine ed emarginazione dei cosiddetti “hikikomori”, al fenomeno delle baby squillo, del cyber sex e più in generale alle ormai diffuse dipendenze comportamentali.

Sempre dalla Prefazione si legge: “Parlare oggi di sessualità e di soddisfazione sessuale è più che mai attuale. In primo luogo la psicologia, ma anche la politica e la catechesi, non possono trascurare questa sfera della vita umana, che è generatrice di componenti esistenziali di primaria importanza, come i legami d’amore, la coesione coniugale, la procreazione, la felicità esistenziale (…); Cinquanta anni sono ormai trascorsi dall’inizio della cosiddetta rivoluzione sessuale, iniziata come movimento culturale legato all’esigenza di riconoscere alle donne pari diritti e pari opportunità rispetto al mondo maschile, e che negli anni ’70 portò in Italia alle lotte per il riconoscimento del diritto alla maternità responsabile e alla sessualità sganciata dalla necessità procreativa; L’interessante lavoro scientifico di Maria Laura Falduto apre delle prospettive evolutive meritevoli di sempre nuove indagini e approfondimenti. Lo stile, a tratti tecnico, che l’autrice mantiene in alcune parti del testo, è espressione di una volontà “laica” di esporre i risultati al di là di rappresentazioni ideologiche precostituite”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

AUTORE: 

  • Ivan Formica: Ricercatore universitario presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Messina.
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