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Neurofobia: Chi ha paura del cervello? – Psicologia & Neuroscienze

 

 

Il bel libro di Aglioti e Berlucchi, Neurofobia, edito da Raffaello Cortina, è un affascinante elogio alle neuroscienze e ai loro preziosi contribuiti nei più svariati campi, dalla psicologia alla psichiatria, dal diritto alla politica, dall’economia all’estetica.

Mente vs cervello. Scienze psicologiche vs neuroscienze.  Qual è il rapporto tra attività psichica e attività cerebrale?

Sin dall’antichità l’Uomo ha cercato di dare una risposta a questo quesito e sebbene sia ormai evidente che i processi mentali normali e patologici dipendono in ultima analisi dai processi cerebrali, tutt’oggi si assiste ancora ad una riottosità verso l’integrazione delle neuroscienze nel campo delle discipline psicologiche, quasi nel timore che queste ultime possano esserne inglobate perdendo così la propria autonomia scientifica.

Il contributo fornito dalle neuroscienze negli ultimi trent’anni è impressionante: grazie a metodi d’indagine sempre più raffinati (dalla stimolazione magnetica transcranica alla PET alla risonanza magnetica funzionale) l’Uomo ha potuto sbirciare cosa accade nel cervello e ampliare in maniera significativa le proprie conoscenze sul funzionamento della mente umana a livello cerebrale.

Il bel libro di Aglioti e Berlucchi, Neurofobia, edito da Raffaello Cortina, è un affascinante elogio alle neuroscienze e ai loro preziosi contribuiti nei più svariati campi, dalla psicologia alla psichiatria, dal diritto alla politica, dall’economia all’estetica.

L’entusiasmo verso un settore come quello delle neuroscienze, che mira a “riunire e coordinare le discipline inerenti al sistema nervoso”, e la possibilità di applicare le nuove metodiche d’indagine del cervello ai settori più disparati hanno visto la nascita e il proliferare di nuove discipline “neuro” che vanno ad affiancare le già esistenti neurochimica, neuropsicologia, neurofarmacologia, neurobiologia, neuroendocrinologia, neurofisiologia…; ma, sostengono gli autori del libro, le discipline sopracitate rientrano nella categoria del “neuro consentito” e nessuno si scandalizza per il loro prefisso, probabilmente perché nessuna di loro affronta problematiche che riguardano direttamente il rapporto mente – cervello.

 

Quando invece si parla delle nuove discipline “neuro”, come la neuropsicoanalisi, la neuroeconomia, la neuroestetica, la neuroetica, il neurodiritto…, c’è chi nel mondo accademico e scientifico storce il naso, fino ad arrivare a chi guarda con grande preoccupazione i casi in cui le neuroscienze fanno capolino nella cultura umana (es. neuropolitica, neurofilosofia, neuroteologia).

Secondo Aglioti e Berlucchi l’atteggiamento allarmista di chi sostiene che ci troviamo di fronte ad una vera e propria neuromania è ingiustificato e le critiche mosse nei confronti delle neuroscienze sono spesso più il frutto di neurofobia, atteggiamento pericoloso quanto la neromania.

Nel momento in cui le neuroscienze incontrano la curiosità di voler comprendere cosa accade nel nostro cervello quando, per esempio, dobbiamo compiere una scelta economica o morale, oppure quando ci emozioniamo di fronte ad un’opera d’arte, o ancora quando siamo in preda ad un momento di estasi meditativa, il risultato è affascinante: studi condotti con rigore metodologico scientifico nonché un’accurata contestualizzazione dei risultati ottenuti ci permettono di aggiungere di volta in volta tessere al complesso puzzle che il rapporto mente – cervello rappresenta.

Gli autori di Neurofobia sottolineano come le neuroscienze abbiano “i mezzi intellettuali e materiali per approfondire considerevolmente la conoscenza della natura umana senza la pretesa, e tanto meno l’intenzione, di minacciarne […] le più profonde credenze filosofiche e religiose”.

Alla fine scienze psicologiche e neuroscienze si occupano dello stesso oggetto d’indagine, ma con un approccio che interessa punti di vista differenti: parlare di mente o di cervello significa parlare della stessa cosa su livelli diversi.

Non si tratta di mero riduzionismo né di una visione cerebrocentrica assolutista. Studiare, per esempio, l’amore romantico dal punto di vista neurobiologico (Bianca P. et Al., 2012) lo rende forse meno poetico? Non credo, semmai rende l’argomento più affascinante poiché l’integrazione tra scienze psicologiche e neuroscienze permette di afferrare, comprendere ed apprezzare maggiormente la meravigliosa complessità dei nostri comportamenti e dei nostri stati mentali le cui radici biologiche rappresentano un aspetto da cui non si può prescindere se si vuole avere “una visione equilibrata della natura umana”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Cervello Universale (2013) di Miguel Nicolelis – Neuroscienze & Tecnologia

 Leonor Romero Lauro

 

 

Il libro di Nicolelis trasmette entusiamo e fiducia nella scienza, nella tecnologia e nel cervello, restituendo alle neuroscienze il valore di mostrare non soltanto come funziona l’involucro che ingabbia la mente ma anche come si possano superare i limiti del corpo, “liberare la mente”.

Il Cervello Universale, o la versione originale inglese, che come spesso accade è più precisa ed evocativa, Beyond Boundaries: the new neuroscience of connecting Brain with Machines And How It will Change our lives , è il titolo del recente libro di un neuro scienziato brasiliano, Miguel Nicolelis.

Il libro racconta con entusiasmo e passione la storia dietro alla scoperta che ha reso possibile lo spettacolare calcio di inizio della cerimonia inaugurale dei mondiali il 12 giugno 2014 in Brasile. Già, perché per chi non lo avesse visto o non ne avesse già sentito parlare, il calcio di inizio è stato tirato da un giovane paraplegico grazie ad un esoscheletro robotizzato sensibile ai comandi motori inviati direttamente da cervello.

“Se la parola miracolo non fosse più adatta ad un altro ambito dell’esperienza umana, credo che la società dovrebbe riconoscere ai neuro scienziati il diritto esclusivo di usare questo termine quando descrivono le meraviglie che i circuiti cerebrali possono generare comunemente ogni giorno”, scrive Nicolelis. Aggiungerei che la stessa parola può essere la più opportuna anche per descrivere il miracolo di scienza e tecnologia che ha reso possibile questo calcio d’inizio.

Il libro racconta i passi più importanti nella recente storia delle neuroscienze con il dettaglio e la partecipazione che permettono al lettore di crearsi una visione vivida di quanto narrato, delle diatribe accademiche e dei laboratori in cui scienziati da premi Nobel degli ultimi 100 anni hanno compiuto le loro scoperte e formulato le loro teorie.

Fin dall’avvio della sua carriera scientifica, Nicolelis prende posizione contro l‘idea dominante che l’unità di funzionamento del sistema nervoso sia il singolo neurone e l’idea modularista, fodoriana, che supporta un localizzazionismo estremo, per cui ogni processo cognitivo ha una sede determinata e distinguibile . 

In controtendenza l’autore abbraccia e via via teorizza invece, attraverso una lista di principi che si dispiegano tra le pagine del libro, l’idea di un cervello relativistico, plastico, un fluire dinamico nello spazio- tempo, in cui l’unità di base sono gruppi di neuroni multasking, che possono essere coinvolti in diverse operazioni e in misura diversa a seconda del contesto.

Prendendo in prestito una metafora calcistica, tanto cara all’autore, cercherò di restituirvi in un’immagine rapida e dinamica i momenti più importanti della creazione della Brain Machine Interface (BMI), l’oggetto e il frutto della vita di ricerca di Nicolelis. La mente dell’azione, l’idea di fondo l’ha messa Jon Kaas, da Nicolelis stesso descritto come una fonte d’ispirazione: il cervello non raggiunge la sua forma definitiva e immodificabile al termine dello sviluppo fisiologico, è altresì plastico e sensibile ai cambiamenti per tutta la vita.

Con la stessa idea del cervello in mente, Nicolelis parte all’attacco e si pone il problema di trovare un metodo per mappare in modo più diffuso l’attività neuronale. Il terzino che imposta l’azione con un lungo traversone è il suo primo mentore, César Timo-Iaria, che gli suggerisce la soluzione, lucida e attuale allora come oggi: lascia il Brasile e trova un pazzo americano disposto a pagare per le tue idee.

Così Nicolelis lascia il Brasile per una borsa di Post-Doc presso la Hahnemann University di Filadelfia, nel gruppo di John Chapin che stava appunto lavorando ad un sistema multiarray di sensori per registrare l’attività in contemporanea di gruppi di neuroni che nella corteccia somatosensoriale del topo rispondono al movimento delle loro vibrisse. La realizzazione di questi sistemi permette di dribblare il primo avversario, agevolando il passaggio successivo verso la Duke University, dove Nicolelis e il suo team riescono a registrare l’attività di circa un centinaio di neuroni mentre una scimmia aotide, Aurora, compie dei movimenti utilizzando un joystick per spostare un cursore su uno schermo verso il bersaglio che le permetterà di ricevere in ricompensa il suo amato succo di frutta.

 

Il riuscire a campionare e registrare un alto numero di neuroni corticali attivi mentre Aurora pensa e pianifica il suo movimento e la realizzazione di modelli matematici in grado di estrarre dalla sinfonia cerebrale registrata i segnali effettivamente corrispondenti ai comandi motori messi in atto sono i due passaggi cruciali che portano il team di Nicolelis dritto nell’area di rigore.

Comprendere i pattern di scarica neuronale corrispondenti ai movimenti effettivi rendeva possibile infatti tradurre tali segnali in comandi digitali rivolti ad un braccio meccanico, così da farlo muovere guidato dalla scarica dei neuroni della scimmia.

L’assist finale verso la scoperta è narrato con grande suspense. Immaginatevi un gruppo di ricercatori chiuso in un bunker della Duke che ascolta, come fosse musica, la registrazione di scariche neuronali mentre una scimmia cerca di guadagnarsi il suo succo di frutta. Il passo cruciale è il momento in cui alla scimmia viene tolto il joystick per spostare il cursore. In effetti, avendo in mente l’applicazione finale del BMI come sostegno a chi gli arti non li può muovere, era essenziale campionare i segnali neuronali generati pensando di compiere un movimento piuttosto che facendolo.

Con uno sguardo furbo e accattivante, con un intuito e intraprendenza imprevedibili, la scimmia Aurora ha un insight e si accorge che continuando a muovere le braccia, o meglio semplicemente pensando di muoverle, il cursore si sposta ugualmente fino al bersaglio che le regala il prelibato succo d’arancia. Il movimento del cursore corrisponde a quello di un braccio meccanico, mosso dai segnali elettrici generati dai neuroni della scimmia.

E’ questa la sorprendente capacità del cervello di apprendere per adattarsi ai cambiamenti in funzione di uno scopo. Applicando la stessa logica ad una BMI che coinvolge un esoscheletro e una gamba il gioco è fatto: è possibile pensare di muoversi, tradurre il segnale creato dal pensiero e trasformarlo in un comando motorio ad un arto robotizzato. Il tutto tra l’altro in un tempo record di 300 ms, necessario perché il movimento robotizzato rispecchi in modo fedele quello naturale. La palla vola veloce nell’area di rigore perché un ultimo calcio segni il goal cercato: quello stesso calcio eseguito sotto gli occhi di tutto mondo pochi giorni fa. 

Il libro di Nicolelis trasmette entusiasmo e fiducia nella scienza, nella tecnologia e nel cervello, restituendo alle neuroscienze il valore di mostrare non soltanto come funziona l’involucro che ingabbia la mente ma anche come si possano superare i limiti del corpo, “liberare la mente”.

Ricorda l’importanza di osare, di andare oltre con fiducia e tenacia verso un obiettivo applicativo e concreto, lontano dai polverosi e sterili H-index e Impact-Factor che distraggono e intralciano gli accademici. L’autore ci svela la vera natura di questo obiettivo nelle ultime toccanti pagine del libro, in cui racconta della musica di un violino, suonato dal suo primo mentore il giorno del loro incontro, e di una melodia di Chopin suonata al piano dalla sua amata nonna, che un giorno lui non ha più potuto ascoltare perché ad entrambi una patologia cerebrale aveva sottratto questa capacità.

Per concludere un augurio. Nel lontano 1906 il premo Nobel per la medicina otre che a Santiago Ramòn y Cajal di Madrid venne assegnato al professor Camillo Golgi di Pavia, strenuo sostenitore di una rivoluzionaria e antesignana teoria reticolare contro il localizzazionismo della teoria del neurone dello spagnolo.

Nicolelis scrive che la storia di Golgi gli ricorda le parole di un allenatore brasiliano “questi italiani sono in grado di vincere una partita in modo sorprendente” a proposito dei tre goal che ancora popolano gli incubi di tutti i brasiliani, incluso Nicolelis, segnati da Paolo Rossi nella finale Italia-Brasile del 1982. L’augurio è che l’Italia continui ancora a sorprendere nello stesso modo, nel calcio dei prossimi giorni come nella scienza dei prossimi anni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La supervisione in psicoterapia: il modello americano di supervisione clinica e la realtà europea

La supervisione clinica in psicoterapia

La carriera del supervisor è molto strutturata negli Stati Uniti e serve per codificare in modo oggettivo la maturazione degli psicoterapeuti, degli psicologi, dei consulenti e degli assistenti sociali, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dal punto di vista della correttezza dell’assetto con il paziente: correttezza nel rispetto del setting, ma anche dei confini, delle emozioni proprie e del paziente.

New York (11-13 giugno 2014) e Copenaghen (25-28 giugno 2014)

Sono stata tre giorni negli Stati Uniti, dall’11 al 13 giugno, perché incuriosita dal titolo di una conferenza : X Conferenza Internazionale sulla Supervisione Clinica (10th International Conference on Clinical Supervision). Negli Stati Uniti questa conferenza è la più conosciuta per quanto riguarda la supervisione in psicoterapia. Quest’anno si è tenuta in una bellissima università privata: Adelphi University, a 50 minuti da Penn Station, nello stato di New York, a Garden City.

Cosa mi ha spinto a fare questo breve viaggio americano? Forse una sensazione che noi in Italia non abbiamo una tradizione di supervisione strutturata per le scuole di psicoterapia e in generale per gli interventi psicologici. Intendiamoci: so bene che la supervisione è contemplata e obbligatoria nelle scuole di formazione alla psicoterapia. Spesso tuttavia ho avuto la sensazione che essa non sia ben formalizzata e dipenda troppo dai modi e dai gusti dei singoli didatti e dai problemi teorici dell’aderenza al modello clinico.

Negli anni sempre più ricevo richieste di fare supervisione alla psicoterapia, sia nelle scuole di psicoterapia che in strutture pubbliche o private. Perché ricevo queste chiamate? In realtà il mio mestiere è quello dello psicoterapeuta, non precisamente del supervisore. Credo che dietro ci sia un’inferenza: un buon (o decente) psicoterapeuta è anche un buon (o decente) supervisore in psicoterapia. Ma non è affatto detto, anzi è una inferenza per nulla dimostrata. E le variabili che misurano l’efficacia della supervisione clinica mi sembrano, al meglio, primitive e poco scientificamente orientate.

Arrivata al congresso, la prima sensazione che ho avuto è stata di spaesamento. Molti assistenti sociali, councelor, qualche psicologo clinico, molto poco specializzati dal punto di vista psicoterapeutico, molto specializzati come supervisori clinici. Questo mi confermava che forse terapeuta e supervisore non sono due mestieri necessariamente sovrapposti.

 

La supervisione clinica: l’esempio degli Stati Uniti

La carriera del supervisor è molto strutturata negli Stati Uniti e serve per codificare in modo oggettivo la maturazione dei terapeuti, degli psicologi, dei consulenti e degli assistenti sociali, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dal punto di vista della correttezza dell’assetto con il paziente: correttezza nel rispetto del setting, ma anche dei confini, delle emozioni proprie e del paziente.

Lo spaesamento derivava anche dalla strutturazione dei corsi didattici americani, che in area socio-psicologica è completamente diversa dalla nostra. Molto probabilmente in soli tre giorni non ho avuto un quadro non del tutto preciso.

Negli Stati Uniti esistono tre carriere che permettono di diventare supervisore: psicologo clinico, (che si conclude con un master o un PhD senza il quale non si può fare clinica), psicologo counselor (che si conclude anch’essa con un PhD, come meta finale) e counselor senza altre specificazioni (anch’essa concludibile con un master o un PhD). Tuttavia, delle tre solo l’ultima prevede un corso di supervisione formalizzato nel percorso. Insomma, dopo i 4 anni di bachelor è possibile fare un master di 2 anni e un PhD di 5/6 anni che dirige verso una carriera da clinici, da educatori, o da assistenti sociali. E i supervisori sono esclusivamente reperibili tra coloro che hanno fatto un master e un PhD.

La supervisione clinica è un’attività molto strutturata e insegnata nelle Università, ma ciò che ho compreso è che essa non riguarda solo la supervisione in psicoterapia ma vigila su tutte le professioni psicologiche, sociali, etiche e di capacità di gestione degli incontri individuali e gruppali.

Diciamolo da psicoterapeuti: la supervisione, almeno quella che ho visto a questo congresso vigila sui fattori aspecifici (congresso che mi è parso dominato da relazionalisti mithcelliani; è possibilissimo che esistano altri mondi del tutto differenti che danno più importanza alla supervisione tecnica).

Un punto interessante è che la ricerca su questo tipo di supervisione relazionale è molto agli inizi. C’è qualche dato sulla soddisfazione dei clienti che aumenta di fronte a clinici ben supervisionati (cosiddetti supervisee), c’è qualche dato sulla soddisfazione dei supervisee, ma non ci sono dati sulla autentica efficacia della supervisione sull’aumento di benessere dei pazienti, o sulla riduzione sintomatica.

 

Supervisione clinica: le tre variabili da mettere a fuoco

Riassumendo, abbiamo tre elementi: il supervisore, il supervisee e il paziente. L’insieme di queste tre variabili è complesso e non facile da mettere a fuoco. Ascoltando le relazioni ho avuto la sensazione che neanche per i ricercatori la messa a punto del focus della ricerca sia metodologicamente facile. È un mondo che sta cominciando ora a fare i primi passi.

La sensazione è che in questo mondo prevalgano le figure rispettate ed esperte di gestione dei gruppi, e capaci di fare coaching. Figure che sono però un po’ come i clinici famosi che hanno quel tocco indicibile, basato più su esperienza non esplicitata che sulla scienza, esperienza sulla quale poi la ricerca fa fatica a procedere.

 

Perché la riflessione sulla supervisione agli psicoterapeuti è cosi relativamente agli inizi?

Perché finora la supervisione clinica era condotta perseguendo l’aderenza corretta a un modello. La domanda era: quanto quello che il supervisionato fa è coerente con il modello che gli sto insegnando? Inoltre non era ben chiaro come era costruita quest’aderenza, essendo le procedure poco formalizzate.

Questa portava al rischio dell’auto-conferma. In realtà uno psicoterapeuta può conoscere e applicare in maniera corretta un modello, trovando poi grandi difficoltà nel fare i conti con il paziente e nel gestire la relazione con lui.

Per reazione si è sviluppato, specie in California, un movimento che spinge una supervisione autoriflessiva, movimento che sta andando per la maggiore adesso e che si muove nella direzione verso la messa a fuoco di elementi che non si limitino a promuovere l’aderenza corretta a un modello. E quali sono questi elementi? Ed è possibile misurarli?

Shulman, un supervisore molto conosciuto, nella sua giornata pre-congresso ha molto spinto sull’articolare la supervisione in psicoterapia in 4 punti:

  • fase preliminare,
  • fase iniziale della relazione di supervisione,
  • parte centrale
  • conclusione.

Quello che è interessante dal mio punto di vista di direttore di una scuola di psicoterapia è che per ognuna di queste fasi è possibile prevedere delle difficoltà negli allievi. Ad esempio, nella fase preliminare, fase importante per l’affiatamento (attunement) iniziale, si va a vedere se ci sono, in un gruppo di psicoterapeuti in formazione, alcune persone che non sono affatto pronte e mettersi in discussione e a mettere in discussione il proprio problema. Queste persone vanno aiutate ad accettare una posizione supervisionabile. Questo stadio ricalca la posizione di pre-contemplazione nello schema di Prochaska e Diclemente.

Come sappiamo, la ricerca di Prochaska e Diclemente ci ha dimostrato che non è affatto vero che un paziente sia arrivato davanti ad un clinico davvero intenzionato a iniziare la psicoterapia. Lo dimostrarono soprattutto per i pazienti tossicodipendenti, ma il loro modello può essere applicato anche ad altre popolazioni cliniche. Dobbiamo chiederci se questo schema non sia applicabile anche alle supervisioni in psicoterapia.

Nelle supervisioni con i nostri allievi terapeuti, quanto siamo capaci di aiutarli ad assumere la posizione emotiva e ricettiva nella quale è possibile mettersi in discussione, ad esempio sulle proprie barriere nei confronti del paziente? Quanto siamo consapevoli delle loro emozioni, delle loro credenze quando lavoriamo insieme sulla supervisione clinica? Ho in mente alcuni esempi di allievi che hanno attraversato la nostra scuola, nonostante tutti gli sforzi profusi, mettendosi pochissimo in discussione, e nascondendosi quando possibile dietro alle proprie difficoltà personali, mai veramente esplicitate.

 

Contenuto e processo nella supervisione in psicoterapia

Nella conferenza era molto esplicita la distinzione nella tra contenuto e processo supervisione. La parte della supervisione focalizzata sul contenuto (come funziona questo paziente, che problemi ha?) attiene ad aderenza, competenza e osservanza delle regole di una certa teoria clinica, mentre la supervisione focalizzata al processo si occupa dei fattori aspecifici, della relazione tra supervisee e suo paziente (come sto con lui, cosa sto facendo con lui di buono o problematico? Perché sto portando il caso e chiedendo aiuto? Qual è il disagio che ho avuto nelle ultime sedute?) e su come il supervisionato sa rapportarsi con il supervisore (quanto accetto di essere messo in discussione? Quanto accetto che il mio supervisore mi suggerisca che quell’atto clinico, quelle emozioni con un certo paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare, come sto in una relazione in cui qualcuno che fa da educatore, fa le pulci al mio operato? Che emozioni ho?).

Come si vede il processo non è solo a un livello (tra supervisee e paziente) ma a due livelli (tra supervisee e suo supervisore). Questi livelli richiedono la capacità di stanare il terapista in supervisione anche a partire da segnali impliciti o emotivi. Ad esempio, come il supervisee ti guarda o non ti guarda in modo diretto, come diventa vago, distoglie l’attenzione o parla d’altro. Oppure come riconoscere in lui una emozione che sta cercando di nascondere.

Queste capacità, lo confesso, sembrano capacità cliniche che il supervisore della psicoterapia è costretto a usare senza un contratto clinico. Il campo è veramente complesso. Per mia esperienza, a meno che non mi trovi davanti ad allievi alle prime armi, la richiesta di supervisione ha in sè problemi di tipo relazionale con il paziente, e questa è un’area transteorica.

 

La supervisione clinica nella SPR

Un altro ambiente che da grande importanza a questi temi è la SPR (Society for Psychotherapy Research). Anche questa società ha appena celebrato il suo congresso internazionale (a Copenaghen, 25-28 giugno 2014). Tanto per non farmi mancare nulla sono andata anche a questo congresso e di nuovo, nei simposi che ho seguito attinenti alla supervisione clinica, molta attenzione era concentrata sugli aspetti relazionali e emotivi del supervisore e del supervisee.

Poi ci sono altri problemi attinenti al ruolo, al riconoscimento del ruolo del supervisore verso i supervisionati. Un conto è una supervisione che un didatta fa a un suo allievo in una scuola di terapia, altro è l’arrivo di un supervisore esterno, per qualche incontro che è proposto e talvolta imposto da un ambiente esterno.

Recentemente mi è capitato di fare una supervisione clinica in un contesto in cui ero estranea, ed è stato abbastanza difficile all’inizio trovare un mio ruolo e delle regole condivise. Non dimentichiamoci che la supervisione in psicoterapia, se non è ben organizzata, se le regole non sono chiare, rischia di essere compiuta al buio, senza avere una idea chiara delle variabili complesse che vi sono in gioco: istituzionali, sociali, psicopatologiche e mediche.

 

Contratto di supervisione in psicoterapia e modalità di lavoro

Un altro punto importante che emerge in molte discussioni del congresso e che a me è parso molto interessante è la necessità che vi sia un esplicito contratto di supervisione tra supervisore e supervisionato. Nel contratto ci si accorda su cosa ci si aspetta uno dall’altro, le cose che si è disposti a fare insieme, si stabiliscono formalmente modi e regole degli incontri. La formalizzazione estrema del processo di supervisione psicoterapica è un bene e protegge il supervisore, il supervisee e il paziente.

Ad esempio è considerato non corretto fare supervisione senza registrazione audio delle sedute. Anzi la supervisione così come emerge nei video che sono stati proiettati al congresso è molto mirata all’incontro tra supervisee e supervisore, ascoltando la seduta e vedendo quali emozioni e quali movimenti emotivi emergono durante quell’incontro. Troppe volte noi siamo costretti a fare supervisioni dei racconti indiretti dei nostri allievi, racconti che rischiano di portare un bias nella lettura e che rende il quadro difficilmente interpretabile.

Insomma negli States la supervisione è un lungo e formalizzato processo di apprendimento, focalizzato sugli aspetti di processo. Se poi un supervisore clinico incontra un problema di contenuto, può riferirsi alla sua specifica formazione psicoterapeutica, ma condivide soprattutto un’attenzione sulla relazione nella supervisione. Insomma l’aderenza a un modello terapeutico è un aspetto collaterale della sensibilità ai processi.

Tutto questo ha stimolato la mia curiosità. D’altro canto non posso non vedere i limiti di questo modo di ragionare, il suo scarso interesse per la ricerca. Insomma un mondo nuovo, scientificamente tutto da costruire, ma pieno di stimoli per chi come me, si occupa di una scuola di psicoterapia.

 

STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA SUPERVISIONE IN PSICOTERAPIA:

La violenza familiare lascia delle impronte genetiche nei bambini

 

FLASH NEWS

I ricercatori hanno scoperto come i bambini che vivono in famiglie caratterizzate da violenza, suicidio o carcerazione di un loro membro, avrebbero dei telomeri significativamente più corti.

E’ quanto riscontrato da uno studio effettuato presso la Tulane University School of Medicine di New Orleans, Louisiana, e pubblicato nell’ultimo numero della rivista Pediatrics. I risultati ottenuti avrebbero permesso di individuare delle cicatrici, non soltanto nella psiche dei bambini esposti ad ambienti familiari violenti o traumatici, ma anche nel loro DNA.

I ricercatori hanno scoperto come i bambini che vivono in famiglie caratterizzate da violenza, suicidio o carcerazione di un loro membro, avrebbero dei telomeri significativamente più corti.

Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Il telomero è la regione terminale del cromosoma e possiede un ruolo determinante nell’evitare la perdita di informazioni durante la duplicazione.

Diversi studi hanno dimostrato come il progressivo accorciamento dei telomeri ad ogni ciclo replicativo sia associato all’invecchiamento cellulare, facendo di questi un importante marker cellulare della fase di senescenza.
 
Telomeri corti sono correlati ad un maggior rischio di sviluppare problemi cardiaci, obesità, declino cognitivo, diabete e disturbi mentali in età adulta.
 
Evidenti, quindi, le implicazioni dei risultati ottenuti dal gruppo di ricerca della Tulane University e le conseguenze per la salute dei bambini esposti ad ambienti stressanti.
 

Ma vediamo come sono state raggiunte tali conclusioni: i ricercatori hanno prelevato campioni di materiale genetico da 80 bambini di età compresa tra i 5 e i 15 anni e hanno intervistato i loro genitori circa l’ambiente familiare e l’eventuale esposizione ad eventi di vita avversi.
 
“Alti livelli di stress familiare, come ad esempio assistere a un incidente occorso ad un membro della propria famiglia, creano un ambiente che influenza il DNA cellulare dei bambini”, afferma la Dott.ssa Stacy Drury, direttrice del  Behavioral and Neurodevelopmental Genetics Laboratory della Tulane. “Maggiore è il numero di esposizioni che questi bambini hanno nel corso della vita, minore sarà la lunghezza dei loro telomeri”.
 
Il gruppo di ricerca ha tenuto sotto controllo altri fattori, quali lo status socioeconomico, il livello di istruzione materna e l’età dei genitori e dei bambini. Dall’analisi dei dati raccolti è emerso un ulteriore dato particolarmente interessante: il genere dei soggetti regolerebbe l’impatto dell’instabilità familiare su di essi.
 
Gli eventi traumatici familiari sarebbero, infatti, più deleteri per le femmine, le quali avrebbero così dei telomeri più corti. Per i maschi, invece, sarebbe stato individuato un importante fattore protettivo caratterizzato da un elevato livello di istruzione della figura materna, ma soltanto per i bambini sotto i 10 anni di età.
 
In conclusione, tale studio suggerisce come l’ambiente domestico sia un importante target di intervento per ridurre l’impatto biologico degli eventi di vita avversi sui bambini e poter così favorire un migliore stato di salute generale quando diventeranno adulti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli interventi basati sulla mindfulness (2011) di Alberto Chiesa – Recensione

 

 

Un lavoro molto interessante quello del collega Alberto Chiesa. Come ormai molti sostengono, la Mindfulness sta vivendo in questo periodo un momento di forte “ambivalenza” dovuto alla larga diffusione e alle molte banalizzazioni di cui é stata vittima.

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Spesso le radici epistemologiche, teoriche e filosofiche da cui deriva vengono perse, lasciando spazio a “PNLizzazioni”, per usare un termine usato da Fabio Giommi della Mindfulness. È di dovere ricordare sempre che la Mindfulness non é una “buona tecnica” e nemmeno una “buona idea”, bensì una pratica di meditazione che ha radici molto antiche e che da circa trent’anni é stata proposta come base di alcuni interventi all’interno di un contesto più clinico.

Questa breve premessa solo per sottolineare che il volume che ho tra le mani potrebbe essere inteso come un ottimo “vademecum” scientifico e documentato di cosa é e non é la pratica di Mindfulness. Leggendo nella quarta di copertina, il volume di Chiesa si pone diversi obiettivi. Senza togliere la possibilità al lettore di apprendere il discorso leggendo il volume, cercherò di discutere alcune delle domande esplicitate (e altre che emergono intuitivamente dalla lettura) di questo lavoro molto interessante.

La prima domanda a cui si risponde nel volume é: per quali pazienti gli interventi basati sulla mindfulness hanno dimostrato di essere efficaci?

Lasciando la risposta al volume, credo che questa sia una prima domanda molto importante. In ciò, trovo che la diffusione della Mindfulness di cui accennavo prima, che ha dato alla pratica di Mindfulness la copertina del Time di febbraio, non abbia contributo a far comprendere la pratica di Mindfulness per quella che è: non una tecnica da usare come se fosse l’aspirina del nuovo millennio bensì una pratica che richiede impegno, “allenamento” e costanza … Unita a un buona quota di pazienza. Capire pertanto cosa aspettarsi dalla Mindfulness e chi potrebbe beneficiarne é un argomento di grande interesse, credo non solo clinico, ma anche culturale.

Una seconda domanda, se vogliamo, più “da addetti ai lavori” é la seguente: quando si può proporre a un paziente l’affiancamento di terapie “convenzionali” farmacologiche o psicologiche con le pratiche di mindfulness? Rispondere a questa domanda permette a noi clinici di proporre ai nostri pazienti/clienti un percorso di Mindfulness in un momento “adatto e adeguato” rispetto all’eventuale percorso psicoterapeutico in atto.

Altra questione di grande importanza, a cui Alberto Chiesa, a mio parere, risponde in modo molto chiaro e completo é: come si può descrivere a un paziente la mindfulness in parole semplici, essendo al tempo stesso consapevoli della ricchezza e della profondità che sta dietro questo termine? Chi ha esperienza di pratica di Mindfulness (o più in generale di pratica di consapevolezza) coglie subito in questa domanda potenziali e rischi. Rischi di rimanere imbrigliati in una spiegazione concettuale (mediata dal linguaggio) di una esperienza non semplicemente descrivibile a parole, bensì grazie e con la pratica personale, e quindi l’esperienza stessa di pratica, e dall’altra parte la possibilità di introdurre le persone a un percorso che potrebbe davvero proporre un cambio radicale del proprio stile di vita e di atteggiamento verso la propria sofferenza.

Spesso chi conduce gruppi di pratica di Mindfulness si limita (a ragione) a utilizzare la definizione di Mindfulness data da Jon Kabat Zinn e lascia che il senso di questa definizione si amplifichi e si chiarisca tramite l’esperienza stessa di pratica Mindfulness.

Una quarta domanda a cui l’autore cerca di dare risposta é: come si possono incarnare le qualità che la pratica di mindfulness propone?

La risposta, che qualsiasi persona con esperienza di pratica non può che confermare, é una: la pratica personale. Una delle qualità del volume di Chiesa sia proprio questo: unitamente agli aspetti “concettuali” molto ben documentati, un continuo rimando a come lo professionista che vuole proporre interventi basati sulla Mindfulness debba necessariamente essere a sua volta praticante. Soltanto in questo modo, gli aspetti “analitici, razionali, concettuali e di comprensione” (diciamo banalmente “da emisfero destro”) possono essere trasmessi all’altra persona insieme agli aspetti “esperienziali, sensoriali, percettivi e emotivi” (diciamo banalmente “da emisfero destro”).

L’intero volume di Alberto Chiesa riflette, a mio parere, ciò che sta attraversando il mondo scientifico nella fattispecie quello che si occupa di studiare con gli strumenti della ricerca scientifica la pratica di Mindfulness. Da un lato la “semplicità e la categorizzazione” che giustamente la ricerca scientifica richiede é dall’altro la “complessità e le qualità emergenti” tipiche della pratica di Mindfulness, che ricordo, prima di essere stata un intervento psicoterapeutico (circa 30 anni di vita) é stata, ed é tuttora, una pratica di meditazione (circa 2500 anni di vita).

Il volume, molto chiaro e documentato, si conclude con lo sviluppo e la discussione di altri due importanti aspetti legati alla Mindfulness. Il primo riguarda l’utilizzo della pratica di Mindfulness all’interno del colloquio clinico terapeutico e il secondo prende in considerazione gli aspetti correlati ai meccanismi psicologici e neurobiologici che sottendono i benefici clinici associati alla pratica della mindfulness.

Un ulteriore aspetto apprezzabile del volume sono i “box di riassunto” a fine di ogni capitolo, che ne permette una lettura a più livelli (ad esempio di consultazione “al bisogno”).

L’impressione che ho leggendo con attenzione e curiosità il libro di Alberto Chiesa é che in questo volume il tentativo di unire i due aspetti, non banalizzandone alcuno, sia riuscito, con un (forse inevitabile) viraggio occasionale e discontinuo sugli aspetti scientifici e di ricerca.

Quest’ultimo aspetto credo che sia un valore del libro e non un limite. Forse può mandare un messaggio chiaro e netto a chi é “curioso della Mindfulness” perché, diciamocelo, é cool.  

 

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Report: Master in Psicoterapia per i Disturbi alimentari – Firenze

 Lisa Barbieri

 

Report dal Master

Psicoterapia dei Disturbi Alimentari – Firenze

 

 GUARDA L’EVENTO

Il tema del master è incentrato sulla comprensione, sulla diagnosi e sul trattamento dei disturbi alimentari attraverso una modalità ricca nella pratica, innovativa e interattiva grazie all’utilizzo di esempi clinici, simulate e registrazioni audiovisive.

Il giorno 8 Giugno si è concluso, in un clima di generale soddisfazione, il Master in psicoterapia per i Disturbi alimentari tenuto dalla Scuola Cognitiva di Firenze.

I Disturbi alimentari (DA) rappresentano una grave entità psicopatologica dovuta alla difficoltà nel trattamento, alla cronicizzazione del disturbo e all’elevata mortalità, e rappresentano la terza malattia cronica più comune in adolescenza dopo l’obesità e l’asma.

I DA si dividono in sottocategorie tra cui AN, BN, BED (nel DSM V) e EDNOS suggerendo che siano tra loro distinte, in realtà presentano caratteristiche comuni tanto che Christopher Fairburn ha proposto che tali disturbi siano considerati come un’unica categoria e che quindi ci sia una specifica terapia, focalizzata sulla psicopatologia dei DA: la Terapia Cognitivo Comportamentale Transdiagnostica che ha rappresentato il trattamento di elezione, efficace ed empiricamente supportato per la cura dei DA.

Negli ultimi venti anni però sono stati sperimentati nuovi approcci che stanno influenzando in modo profondo il modello standard, al punto da far spostare l’attenzione della comunità clinica e scientifica internazionale verso alcuni degli approcci terapeutici Cognitivo Comportamentali che sono stati definiti di “terza ondata” (Hayes, Luoma, Bond, Masuda e Lillis, 2006) e che stanno sempre più influenzando anche l’intervento sui DA.

Questi nuovi approcci si occupano di quei fattori che portano alla ripetitività del pensiero e a una cattiva gestione delle strategie di coping. Esempi di interventi di CBT di terza generazione sono: l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT, Hayes, 1999), la Dialectical Behavior Therapy (DBT; Linehan, 1993), la Functional Analytic Psychoterapy (FAP, Kohlenberg & Tsai, 1991), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT; Segal, Williams, & Teasdale, 2001), Terapia Metacognitiva Interpersonale (Di Maggio & Popolo) e gli approcci meta-cognitivi (Wells, 2000).

Il Master si è svolto a Firenze nei finesettimana del 23, 24 e 25 Maggio e 7 e 8 Giugno e ha visto il succedersi di relatori appartenenti alla Scuola Cognitiva di Firenze e all’Azienda USL 11 di Empoli (FI): Stefano Lucarelli, Gloria Vazzano, Giovanni Castellini, Paolo Dirindelli; e relatori appartenenti al panorama internazionale come Janet Treasure e Kate Tchanturia.

Il tema del master è incentrato sulla comprensione, sulla diagnosi e sul trattamento dei disturbi alimentari attraverso una modalità ricca nella pratica, innovativa e interattiva grazie all’utilizzo di esempi clinici, simulate e registrazioni audiovisive.

Con una particolare attenzione alle ultime ricerche per il trattamento delle diverse categorie di DA in tutte le fasi della vita: dall’infanzia, all’adolescenza fino all’età adulta. Prezioso l’intervento sul modello di presa in carico della famiglia di pazienti con DA messo a punto dal Maudsley Hospital di Londra.

Il Dr. Stefano Lucarelli, psichiatra, psicoterapeuta presso il Servizio per la cura e il trattamento dei Disturbi dell’ Alimentazione dell’Azienda USL 11 di Empoli, Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale (SITCC), ha aperto i lavori facendo un quadro generale sulla diagnosi, epidemiologia e comorbilità dei vari disturbi alimentari soffermandosi sulla valutazione psichiatrica dei pazienti e sull’intervento sulla motivazione garantendone un’adeguata comprensione anche grazie all’utilizzo di videoregistrazioni.

Il giorno successivo ha passato il testimone alla Dr.ssa Gloria Vazzano, psicologa, psicoterapeuta presso il Servizio per la cura e il trattamento dei Disturbi dell’ Alimentazione dell’Azienda USL 11 di Empoli, Socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), che si è orientata maggiormente sul modello transdiagnostico per il trattamento dei DA e successivamente sul trattamento centrato sul rimuginio e il controllo (TRC-DA) e sulle procedure di intervento sulle credenze centrali di questi disturbi.

Ha concluso il finesettimana il Dr. Giovanni Castellini, psichiatra e psicoterapeuta. La giornata ha previsto la presentazione della categoria diagnostica del BED e un confronto con i nuovi criteri diagnostici del DSM V che riconosce il BED come categoria a sé stante, per poi passare all’epidemiologia e alla psicopatologia del disturbo grazie all’apporto degli ultimi articoli presenti in letteratura.

La giornata si conclude con una panoramica sul trattamento del BED e con una valutazione dei pro e contro di ogni intervento.

Un notevole e aspettato interesse ha suscitato la presenza e la partecipazione delle Dr.sse Janet Treasure e Kate Tchanturia che hanno aperto i lavori del secondo weekend del master.

Janet Treasure, Director of Eating Disorder Unit, South London and Professor of Psychiatry at King’s College London, ha presentato il modello del Maudsley Hospital che evidenzia l’importanza dei familiari come fonte di aiuto per pazienti con DA e identifica come molti comportamenti dei familiari rappresentano i fattori di mantenimento del disturbo: attraverso l’uso di metafore animali vengono identificati gli stili di reazione dei caregiver al DA e come questi impattano sul percorso di cura.

Il modello infatti prevede un coinvolgimento attivo dei familiari di tali pazienti affinchè possano diventare consapevoli ed eliminare questi meccanismi di mantenimento del disturbo e sostenere il paziente nel processo di cura.

 

É stata poi la volta della dr.ssa Kate Tchanturia, Consultant Clinical Psychologist and Senior Lecturer, South London and Maudsley Hospital, Istitute of Psychiatry, King’s College London; che con una modalità interattiva che ha coinvolto tutto il pubblico, ha presentato il protocollo CRT- Cognitive Remediation Therapy, secondo cui i disturbi cognitivi dell’Anoressia Nervosa non vanno affrontati a livello di contenuti, come il perfezionismo, il controllo, la paura di ingrassare, ecc.. ma a livello di processi aiutando la paziente a ragionare in modo più globale e flessibile attraverso un vero e proprio allenamento cognitivo.

Giunti ormai all’ultima giornata del master che ha avuto come protagonisti della mattina il Dr. Stefano Lucarelli e la Dr.ssa Gloria Vazzano, i quali hanno parlato della terza ondata della Terapia Cognitivo Comportamentale in cui il focus dell’intervento si sposta sui processi cognitivi abbandonando l’analisi delle prove e delle controprove dei contenuti cognitivi.

Tra questi nuovi approcci l’attenzione si è poi focalizzata sul modello della DBT di Marsha Linehan adattato ai disturbi alimentari secondo cui il nucleo della problematica di tali pazienti consiste nella regolazione disfunzionale delle loro emozioni che li porta a ricorrere a mezzi disfunzionali come le abbuffate per gestire le emozioni.

Nel pomeriggio ha concluso l’evento il Dr. Paolo Dirindelli, neuropsichiatra infantile, dirigente medico presso Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda USL 11 di Empoli, che ha portato la propria esperienza sui DA in infanzia e adolescenza, dalla diagnosi alla presa in carico del paziente e della famiglia e conseguente trattamento attraverso la presentazione di casi clinici.

In conseguenza dei feedback positivi ricevuti e dell’ottimismo dei relatori e organizzatori che ne hanno reso possibile la realizzazione, il pensiero va all’organizzazione futura di una nuova edizione del master.

 

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Inquinamento atmosferico & rischio di autismo e schizofrenia

 

FLASH NEWS

L’esposizione all’inquinamento atmosferico durante le prime fasi di vita produce veri e propri mutamenti nel cervello dei topi che possono causare disturbi nello sviluppo neurologico e l’ingrandimento di un’area cerebrale che negli esseri umani è implicata nei casi di autismo e schizofrenia.

La maggior parte dell’inquinamento atmosferico è causato da particelle di carbonio prodotte dalla combustione dei carburanti (industrie, autoveicoli, ecc.) ma le particelle non sono tutte uguali, hanno diverse dimensioni e particelle di dimensioni diverse hanno effetti diversi sull’organismo.

Un nuovo studio del Dipartimento di Medicina Ambientale e Genetica Biomedica dell’Università di Rochester (USA) descrive come l’esposizione all’inquinamento atmosferico durante le prime fasi di vita produca veri e propri mutamenti nel cervello dei topi che possono causare disturbi nello sviluppo neurologico e l’ingrandimento di un’area cerebrale che negli esseri umani è implicata nei casi di autismo e schizofrenia.

Per la ricerca sono stati scelti topolini, sia maschi che femmine, appena nati, poiché le prime settimane di vita sono cruciali per lo sviluppo cerebrale. I topi sono stati esposti per 4 ore al giorno, per un periodo di 2-4 giorni, a livelli di inquinamento simili a quelli che si possono rilevare nelle città statunitensi di media grandezza all’ora di punta.

I topolini sono stati esaminati dopo 1, 40 e 270 giorni dall’ultima esposizione. Il loro cervello presentava una evidente infiammazione e un’alterazione cellulare, in più in tutte le rilevazioni il problema perdurava indicando che il danno cerebrale era permanente e irreversibile.

I ricercatori sono quindi arrivati alla conclusione che un’alta concentrazione ambientale di particelle ultrafini (CAPS) influenza negativamente lo sviluppo del sistema nervoso centrale con alterazioni nelle citochine e nei neurotrasmettitori.

In più, nei topi maschi, si è riscontrata una ventricolomegalia (dilatazione del ventricolo laterale) neuropatologica associata proprio a un ridotto sviluppo neurologico, all’autismo e alla schizofrenia.

I risultati sono coerenti con diversi recenti studi che collegano l’esposizione a inquinamento con effetti neurologici e comportamentali negativi (aumento del rischio di autismo, declino cognitivo, attacco ischemico, schizofrenia e depressione), sia nei bambini che negli adulti.

Questo studio, oltre a confermare il legame, spiega anche il meccanismo sottostante.

Attualmente l’Agenzia di Protezione Ambientale (EPA) regola l’emissione di grandi particelle, tuttavia queste sono le meno dannose poiché vengono espulse tossendo. Le particelle ultrafini, invece, sono molto più pericolose perché sono abbastanza piccole da poter penetrare attraverso i polmoni ed essere assorbite dal flusso sanguigno producendo così effetti tossici in tutto l’organismo.

Studi come questo sono dunque importanti non soltanto per conoscere meglio le neuropatologie ma anche e soprattutto per regolare gli attuali standard e garantire la qualità dell’aria in un’ottica preventiva.

 

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LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Anna Maria Sorrentino

Psicologa e Psicoterapeuta

 

State of Mind intervista Anna Maria Sorrentino, psicologa e psicoterapeuta. Fondatrice e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale Mara Selvini Palazzoli.
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

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REBT: Report dal Primary Practicum di Milano 2014

 

Elena Tugnoli

Il 7, 8 e 9 giugno 2014 è sbarcato in Italia il corso di terapia razionale emotiva comportamentale di Albert Ellis, il “Primary REBT Praticum” originale eseguito secondo il regolamento dell’Albert Ellis Institute (AEI) di New York.

Il corso è stato tenuto da supervisori REBT certificati, i maggiori esponenti dell’istituto di New York, Kristine Doyle (direttore clinico dell’AEI), Raymond Di Giuseppe (direttore scientifico dell’AEI), e Ennio Ammendola, supervisore REBT.

Il corso prevedeva lezioni teoriche al mattino, concentrate sui fondamenti della REBT e tenute da Kristine Doyle o da Ray Di Giuseppe, e gruppi di esercitazione tra pari supervisionati anche da Ennio Ammendola nel pomeriggio.

Per me che già l’avevo seguito a New York non è stata una novità dopo avere già affrontato i successivi due livelli della formazione REBT (advanced e fellowship) e molte, moltissime, supervisioni. Eppure ho trovato ancora cose da imparare e ho potuto chiarire aspetti oscuri. La parte più interessante del corso sono state le piccole sfumature stilistiche e la flessibilità che questo tipo di terapia offre! Nell’individuazione dell’ABC bisogna essere dei veri investigatori al limite della pignoleria, eppure al tempo stesso occorre imparare a non disperdersi in troppe domande.

Mi chiedo: quali sono i punti fermi della REBT e quali invece sono le aree più personalizzabili?

La parte più rigida è la prima sezione, l’individuazione del problema. Nelle descrizioni di Doyle e DiGiuseppe sembra facile. In terapia non è così, ed è facile sottovalutare il problema e scadere nella vaghezza.

Gli Americani sconsigliano una apertura della seduta generica e raccomandano l’individuazione di una situazione problematica specifica per poter lavorare su qualcosa di concreto, il cosiddetto “A critico”. Questa è una delle sfumature da non perdere! Non è sufficiente la situazione ma ci serve l’A critico! Per essere in grado di centrare l’A critico, è importante chiedere un esempio recente di quando il paziente si è sentito a disagio o ha percepito quel fastidio.

La stessa attenzione va dedicata all’indagine scrupolosa dell’emozione. Ci si deve accertare che l’emozione sia chiara e definita, che all’interno di essa non ci siano altre emozioni e che sia disfunzionale (unhealthy), ovvero paralizzante e non volta alla soluzione del problema. Qui si può inserire uno spiraglio di flessibilità, indagare a piacimento, utilizzando scale per misurare l’intensità o chiedere a livello corporeo dove sente quell’emozione.

Si passa poi ai B (beliefs), ai pensieri, e soprattutto agli IB (irrational beliefs), i pensieri disfunzionali. È rimarcata l’importanza di non fermarsi ai soli pensieri negativi del paziente ma andare alla ricerca dei veri B irrazionali attraverso la catena di inferenze, continuando a chiedere “e qual è il problema in questo che ha pensato? Cosa non le piace in questo che ha pensato?” In questo gli allievi italiani si sono dimostrati eccellenti.

Un punto -rigido ma necessario perché penso sia la vera base della terapia- è mostrare l’ABC completo al paziente e al fine di concordare come non sia l’A ma il B a suscitare il C: ovvero non è la situazione che causa il malessere, ma il pensiero. Senza questo passaggio il cliente non ci seguirebbe più e non potremmo proseguire.

Altro punto focale della terapia è concordare l’obiettivo, e in particolare l’obiettivo emotivo. Quale emozione vorresti provare?

Ovvio che l’obiettivo non è di cambiare emozione ma di passare da una versione disfunzionale a una funzionale dello stato emotivo. Questo punto è quello teoricamente più discutibile ma utile nella pratica terapeutica. Si tratta di concordare con il cliente che lo stato d’ansia non va eliminato, ma può essere vissuto in termini più tollerabili e funzionali, chiamando la versione funzionale con un termine diverso. Ad esempio preoccupazione.

La parte più flessibile della terapia risulta essere quella del cosiddetto disputing. Una volta trovati i B irrazionali, che fanno parte di una delle quattro categorie: Doverizzazione o Pretese, Valutazione Globale (Di Sé, Del Mondo e/o Degli Altri), Catastrofizzazione e Intolleranza alla Frustrazione, decideremo come fare il disputing.

Per alcuni, ad esempio Windy Dryden, si parte sempre prima dalla Doverizzazione per poi affrontare le altre categorie; per altri terapeuti REBT invece le categorie sono tutte allo stesso livello e quindi possiamo disputare anche senza la presenza di una doverizzazione.

Il disputing si basa sull’esame della coerenza logica, del valore euristico/funzionale (pragmatico), e delle prove empiriche dei pensieri che sono alla base della sofferenza. E qua sta al terapeuta incoraggiare il cliente a mettere in discussione i suoi IB. Si possono utilizzare delle metafore. Kristine Doyle ci ha illustrato la metafora della mela: su un vassoio ci sono mele buone e succose e ce ne sono un paio marce, diresti mai che il vassoio ha solo mele marce? Utilizzando questa metafora mostriamo al cliente come il suo pensiero sia focalizzato sugli aspetti negativi.

Con prudenza possiamo usare perfino l’ironia, mai contro il cliente ma talvolta contro i suoi pensieri più negativi. Possiamo anche proporre soluzioni pratiche, di fronte alla necessità di provare nell’esperienza la possibilità di pensarla diversamente. Alcuni clienti rigidi e restii a cambiare sostengono che capiscono ma che non riescono a mettere in atto le nuove idee più funzionali. In questo caso due sono le strade possibili. Proporre di sperimentare personalmente la possibilità di poter tollerare le emozioni tanto temute; oppure proporre una soluzione pratica e cosiddetta “inelegante” modificando la situazione esterna, ad esempio incrementando l’assertività.

A fine seduta il terapeuta consegna i compiti a casa che hanno l’obiettivo di rinforzare i B razionali. Si possono dare compiti mirati a incrementare le auto-istruzioni, a partire da semplici post-it per arrivare a registrazioni di memo vocali da risentire.

A questo proposito Doyle e DiGiuseppe ci hanno proposto fin dall’inizio lo shame attack, l’esercizio anti-vergogna che è un “must” nel loro centro e della terapia. Questo esercizio consiste nel fare un’esposizione imbarazzante in pubblico e “stare nella vergogna”. Ci si può sbizzarrire e provare ad urlare in metropolitana, ballare al ristorante o perfino mettersi in mutande in piazza…a proprio rischio e pericolo!

Il Primary Training permette di imparare le tecniche REBT e fornisce al terapeuta una struttura di base al tempo stesso chiara e adattabile al proprio stile personale e alla propria creatività.

 

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La distorsione dell’ Immagine Corporea: quando ciò che vedo non coincide con ciò che sono

Reportage dall’evento  Body Image Modular Therapy – Training di Primo Livello – Immagine Corporea

 

Il nostro corpo riflesso allo specchio non è solo tout court la rappresentazione di un’immagine, bensì un processo molto più complesso.

La propria immagine corporea e la sua rappresentazione sono il risultato dell’unione e della mediazione di diversi aspetti: la percezione e la stima delle dimensioni del proprio corpo, aspetti affettivi e cognitivi che comprendono sentimenti e preoccupazioni legati al nostro corpo e per ultimo anche aspetti comportamentali.

Paul Schilder (1935) fu colui che coniò il concetto di Immagine corporea definendola come

Quel quadro del nostro corpo che formiamo nella nostra mente

e come ogni quadro, nel guardarlo, possiamo provare emozioni, possono emergere ricordi e sensazioni.

Da qui la rappresentazione mentale diviene un processo di integrazione e mediazione fra percezioni, cognizioni ed emozioni che possono influire sulla nostra autostima (Posavac & Posavac, 2002).

Ma come si origina l’immagine del nostro corpo? Quando siamo neonati la percezione che abbiamo del nostro corpo è rappresentata principalmente dalla propriocezione ossia dal sentire il proprio corpo attraverso la contrazione dei muscoli, o dalla sensibilità viscerale oppure dal senso di equilibrio. Il tutto avviene anche senza l’ausilio della vista. Il bambino inizialmente non fa distinzione fra se ed il mondo che lo circonda, questo è un lungo processo che avviene a tappe e che comprende non solo la distinzione fra se ed il mondo esterno ma anche l’integrazione delle parti del proprio corpo in un’unica unità.

A partire dai tre anni di vita il bambino inizia a riconoscere la propria immagine riflessa allo specchio e due anni più tardi capisce che anche le altre persone hanno un corpo simile al suo.

Man mano che si avvicina il periodo dell’adolescenza il corpo va incontro a diversi cambiamenti ed è da qui che molto spesso iniziano le difficoltà nel riconoscersi, per esempio uno sviluppo anticipato rispetto a quello dei coetanei può far si che si diventi fonte di sguardi ed attenzione che non sempre, specie le ragazze, vivono serenamente.

La creazione dell’immagine corporea può infatti risentire di fattori sociali ma anche di fattori interni.

 

L’ambiente in cui stiamo crescendo, l’interazione con i nostri coetanei e anche con i nostri genitori possono condizionare il nostro sviluppo. Si è maggiormente sensibili al giudizio altrui, e si va creando in questo periodo un’ideale del proprio corpo che risente dell’influenza dei mass media ma anche dei confronti con i propri pari. Vi è un continuo paragone fra quello che è il proprio corpo e il corpo ideale, e a seconda della maggiore o minore vulnerabilità al giudizio si andrà formando un’idea di sé più o meno coerente che potrà portare con se maggiore o minore sofferenza.

Il corpo in adolescenza è soggetto a continui e rapidi cambiamenti, l’aumento di peso, lo svilupparsi delle forme, l’acne sono tutte manifestazioni spesso momentanee che possono contribuire ad una maggiore difficoltà nell’accettazione della propria forma fisica. Va da sé che in questa situazione una maggiore vulnerabilità dal punto di vista emotivo e psicologico può far si che si provi un maggiore disagio.

L’immagine e la rappresentazione che l’adolescente si fa della propria fisicità è una complessa strutturazione che risente di fattori sociali ma anche psicologici ed emotivi.

Riportiamo nuovamente le parole di Schilder (1935):

Un’immagine corporea è sempre in qualche misura la somma delle immagini corporee della società… e muta a seconda di colui col quale ci articoliamo

L’insoddisfazione nei confronti della propria forma fisica è assai diffusa sia fra il sesso femminile che fra il sesso maschile, in alcuni casi può però portare alti livelli di sofferenza che possono interferire con la vita dell’individuo.

Le preoccupazioni possono farsi talmente pressanti da portare il soggetto ad effettuare continui Body Checking ossia comportamenti di controllo che vanno dal guardarsi allo specchio molte volte durante la giornata, pesarsi più e più volte al giorno, verificare la perdita di peso e la propria taglia indossando abiti attillati, misurare la circonferenza di cosce, fianchi ed addome, chieder continue rassicurazioni sul proprio aspetto. La persona può impiegare diverse ore per prepararsi prima di uscire, ed evitare di farlo qualora non si fosse raggiunto l’aspetto desiderato.

Coloro che hanno di sé una rappresentazione negativa dedicano molte ore della loro giornata al proprio aspetto fisico e maggiore è l’insoddisfazione maggiore è il tempo impiegato nel controllare e cercare di rimediare ai difetti percepiti.

Per queste persone autostima e aspetto esteriore rappresentano due unità direttamente proporzionali che spesso risultano accompagnate da ansia depressione e forte autosvalutazione.

Un’ immagine corporea negativa implica una forte insoddisfazione per alcuni aspetti del proprio corpo (Cash, 2002) ed è riscontrabile in buona parte dei disturbi del comportamento alimentare oltre che nel disturbo del dismorfismo corporeo (o dismorfofobia). I disturbi legati all’immagine corporea portano con se sintomi specifici: dai comportamenti ripetitivi di evitamento e/o controllo, a pensieri di tipo rimuginativo, alle distorsioni percettive nonchè uno scarso insight della problematica.

La Body Image Modular Therapy rappresenta un tipo di approccio integrativo e specifico per problematiche legate ai disturbi dell’Immagine Corporea, che consente all’individuo di affrontare in maniera mirata ed efficace questa specifica sofferenza.

 

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I giovani adulti che hanno la fortuna di vivere relazioni sentimentali e romantiche beneficerebbero anche di effetti positivi sulla propria personalità e sul loro modo di vedere situazioni interattive sentimentali ambigue secondo una nuova ricerca tedesca delle Università di Jena e Kassel.

Il coinvolgimento in relazioni sentimentali rappresenta una delle esperienze di vita più rilevanti e più preganti soprattutto nella giovane età.

I giovani adulti che hanno la fortuna di vivere relazioni sentimentali e romantiche avrebbero anche effetti positivi sulla propria personalità e sul loro modo di vedere situazioni interattive sentimentali ambigue secondo una nuova ricerca tedesca delle Università di Jena e Kassel.

Nello studio è stato approfondito il cosiddetto Relationship-Specific Interpretation Bias (RIB) (Finn, Mitte, & Neyer, 2013), in italiano bias di interpretazione specifico delle relazioni – che consiste nella tendenza a interpretare scenari relazionali ambigui in un modo negativo.

Questa l’ipotesi dello studio: il bias RIB diminuirebbe nei giovani adulti coinvolti in relazioni sentimentali soddisfacenti, con un effetto anche sulla riduzione del nevroticismo.

In particolare 245 coppie (di età compresa tra i 18 e i 30 anni) sono state coinvolte nello studio per nove mesi e sottoposti a colloqui ogni tre mesi per un totale di quattro assessment.

I ricercatori hanno misurato la variabile del nevroticismo e della soddisfazione relazionale, e hanno inoltre chiesto ai soggetti di immaginarsi in alcune situazioni della vita quotidiana e di riportare le loro reazioni emotive e comportamentali (misurazione del bias RIB).

Secondo lo studio la tendenza al nevroticismo diminuiva gradualmente nel corso dei nove mesi quando una persona era coinvolta in una relazione sentimentale adeguatamete soddisfacente.

In riferimento al bias interpretativo relazionale, i partner soddisfatti riportavano una maggiore quota di fiducia nell’altro e nella relazione riducendo la probabilità di percepire negativamente alcune situazioni relazionali neutre e quindi di essere meno propenso a cedere al bias di interpretazione relazionale.

Dunque essere soddisfatti in una relazione di coppia porterebbe a vedere il mondo e le relazioni sentimentale con occhiali più rosa rispetto a chi così soddisfatto della propria vita sentimentale non è.

Fenomeno naif già conosciuto nelle nostre esperienze quotidiane, dimostrato ora dal mondo empirico della psicologia.

 

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Il tesoro di Risolina: una storia sul valore della diversità – Letteratura & Psicologia

 

 

La favola di Risolina rappresenta uno strumento molto valido per aiutare gli adulti a trasmettere ai bambini la capacità di accettare e valorizzare la diversità in se stessi e negli altri; ciò permette di coltivare il valore della solidarietà e della collaborazione, prevenendo le incomprensioni che possono nascere nei rapporti interpersonali tra i bambini e le dinamiche alla base dei fenomeni di bullismo.

La diversità può essere declinata in vari modi: razza, cultura, genere, caratteristiche fisiche, come nel caso di Risolina, la protagonista di questo libro. “Ma perché le cose belle contengono sempre qualcosa che le rende anche un po’ brutte?”, ci si chiede all’inizio della storia.

Rosa e Pietro hanno avuto una figlia, una figlia un po’ speciale. Ha una chioma molto strana, fatta di seta e chicchi di riso. Quando si pettina Risolina -chiamata così dai suoi genitori proprio per via del riso che compone la trama dei suoi capelli- sparge chicchi di riso ovunque.

Alla nascita la piccola è stata accolta con amore dai suoi genitori, inteneriti e affascinati dai quei capelli così particolari. Con il passare del tempo, però, la contentezza si è trasformata in preoccupazione e dispiacere: Risolina è una bambina isolata, perchè gli altri bambini non vogliono giocare con lei. Non ha amici e i compagni di scuola la prendono in giro e la tengono a distanza.

I suoi genitori non sanno come aiutarla, mentre gli insegnanti non si accorgono del suo malessere. Del resto, lei fa finta di niente, indossando “la maschera della finta felicità”.

Risolina si sente sbagliata e considera i suoi capelli così bizzarri la sua maledizione, ma non ne parla con nessuno: non vuole far soffrire i suoi genitori e si mostra serena, anche se è triste e vorrebbe tanto essere come gli altri bambini.

Il papà e la mamma sono tanto dispiaciuti per la loro figlia, ma fanno finta anche loro di essere felici. In realtà, i due genitori si sentono molto in colpa: sono convinti che l’origine degli strani capelli di Risolina sia nel fatto che, quando Rosa aveva scoperto di aspettare Risolina, Pietro aveva deciso di festeggiare con una bella cena. Avevano mangiato un risotto alla zucca e, da quel momento e per tutti i mesi della gravidanza, Rosa aveva avuto una gran voglia di mangiare riso, tantissimo riso. Chi avrebbe mai pensato ad una simile conseguenza sulla bambina che doveva nascere?
 
Del resto, dice a se stesso e alla moglie papà Pietro, “Se il destino ha deciso che la nostra Risolina abbia sulla testa capelli fatti di chicchi di riso, forse un motivo ci sarà”.
 
In effetti, un giorno i chicchi di riso nei capelli, la maledizione di Risolina, diventano un’inaspettata risorsa, per sé e per gli altri; in quel momento Risolina comprende che ciò che ci rende diversi è anche ciò che ci rende unici, che ci rende noi stessi.
 
Attraverso la favola della bambina che non è come gli altri sono tanti i contenuti che il libro chiama in causa, riconducibili ad un denominatore comune: l’integrazione di chi è diverso -e tutti, per fortuna lo siamo, ognuno a suo modo-. Il CD allegato al testo approfondisce ulteriormente questi temi attraverso una serie di riflessioni proposte dallo stesso autore, Alberto Pellai.
 
Per questa ragione la favola di Risolina rappresenta uno strumento molto valido per aiutare gli adulti a trasmettere ai bambini la capacità di accettare e valorizzare la diversità in se stessi e negli altri; ciò permette di coltivare il valore della solidarietà e della collaborazione, prevenendo le incomprensioni che possono nascere nei rapporti interpersonali tra i bambini e le dinamiche alla base dei fenomeni di bullismo.
 
Altro tema correlato è l’importanza di una corretta educazione all’espressione e alla condivisione delle emozioni: Risolina e i suoi genitori non sono in grado di dare voce al proprio malessere, e fingono gli uni con gli altri, nascondendo i propri sentimenti. Ciò non permette di affrontare il problema e costa a tutti la fatica di indossare una maschera.
 
Anche la mamma e il papà, amareggiati dalle reazioni degli altri e dalla sofferenza della loro bambina, si vergognano della condizione di diversità di cui Risolina è portatrice e se ne attribuiscono la colpa. Non sono in grado di trasmettere alla figlia l’orgoglio e la fierezza della propria, personalissima, identità e neanche la fondamentale capacità di esigere da chiunque il rispetto della propria persona al quale ognuno di noi ha inalienabile diritto.
 
Alla fine della storia Risolina impara, e noi insieme a lei, che essere diversi può essere bello e che non impedisce di essere felici: al contrario, può rappresentare il modo per capire chi siamo davvero, andando oltre le apparenze e i luoghi comuni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Pellai, A. (2014). Il tesoro di Risolina. Una storia sul valore della diversità. Trento: Erickson. ACQUISTA ONLINE

La macchia ostinata dell’immoralità: senso di colpa e compulsioni di pulizia

 

 

I partecipanti indotti a esperire una colpa deontologica hanno esibito, rispetto agli altri, un numero maggiore di comportamenti di controllo nella prima prova e si sono dedicati ad una pulizia più accurata nel secondo esperimento.

Se siete da tempo lettori fedeli e affezionati di State of Mind, ricorderete il post in cui ho evidenziato l’esistenza di un legame tra la pulizia morale e la pulizia fisica. La ricerca scientifica negli ultimi anni non ha fatto che confermare un’intuizione già resa manifesta dal nostro linguaggio comune e da varie opere letterarie e cinematografiche.

Sono infatti molto comuni espressioni come “sporco”,  “viscido” o “lurido”  per descrivere individui di dubbia moralità.

Il cinema vede protagonisti diversi assassini che, dopo aver commesso un omicidio, si dedicano ad una pulizia tanto accurata da lasciar intendere che lo scopo non sia solo quello di eliminare possibili indizi di colpevolezza ma forse anche il senso di colpa per il gesto estremo.

La pulizia potrebbe avere la stessa funzione purificatrice anche per traditori e traditrici di famose soap opera che dopo aver commesso adulterio si buttano sotto la doccia prima di riabbracciare il partner ufficiale di turno.

Addiritura Shakespeare costringe Lady Macbeth al gesto compulsivo di sfregarsi continuamente le mani nel tentativo di cancellare la colpa per aver provocato spargimenti di sangue innnocente.

Ma se ormai è dunque assodato che il senso di colpa sia come una macchia da lavar via, è ragionevole pensare che la difficoltà nel rimuoverla dipenda dal tipo di colpa?

Una risposta a questa domanda arriva puntuale dalla ricerca di Francesca D’Olimpio e Francesco Mancini che con la loro ricerca hanno voluto verificare quale tipo di colpa abbia una correlazione più forte con i comportamenti rituali tipici del Disturbo Ossessivo Compulsivo.

I ricercatori hanno preso in considerazione due tipi di colpa: altruistica e deontologica.

La colpa altruistica si accompagna a sentimenti di preoccupazione e compassione per la vittima delle proprie azioni, indipendentemente dal fatto che esse violino o meno norme morali. La colpa deontologica deriva invece dalla consapevolezza di aver infranto il codice morale, anche se tale azione non ha implicato offesa per nessuno.

Al fine di comprendere quale macchia tra le due sia più ostica da eliminare, i partecipanti alla ricerca sono stati invitati all’ascolto di una storia che elicitasse un senso di colpa altruistica piuttosto che un senso di colpa deontologica. Un ultimo sottogruppo ha invece ascoltato una storia neutra, senza che implicasse quindi l’emergere di alcun tipo di colpa.

Al termine dell’ascolto tutti hanno dovuto classificare delle capsule in contenitori diversi in base al colore e in un secondo momento pulire un cubo di plexiglas utilizzando i materiali messi a disposizione dai ricercatori.

I partecipanti indotti a esperire una colpa deontologica hanno esibito, rispetto agli altri, un numero maggiore di comportamenti di controllo nella prima prova e si sono dedicati ad una pulizia più accurata nel secondo esperimento. Tale evidenza conferma l’ipotesi iniziale dei ricercatori che, in base a studi precedenti, si aspettavano maggior comportamenti di controllo e di pulizia da parte dei violatori del codice morale.

Inoltre l’effetto Lady Macbeth ha riguardato in misura maggiore  proprio questi ultimi che hanno infatti tratto beneficio più grande dal compito di pulizia, dimostratosi invece meno efficace nel rimuovere la macchia della colpa altruistica.

Benchè l’esperimento non abbia coinvolto pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo, gli autori, convinti dell’esistenza di un continuum tra individui senza diagnosi  e  persone con DOC, ritengono che i risultati possano contribuire a chiarire la natura di questo disturbo.

Chissà che tra un po’ non si torni sull’argomento, magari facendo ulteriore luce sulle tipologie di colpe e sui comportamenti che hanno la capacità di rimuoverle.

Ma siamo poi così sicuri che, come spesso accade con le macchie più ostinate, certe colpe si riescano a cancellare senza lasciare aloni?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Criticismo subìto in famiglia e bias cognitivi: in che modo correlano?

FLASH NEWS

 

Il criticismo percepito è associato a bias interpretativi e attentivi che portano la persona a focalizzarsi su elementi emotigeni negativi e ad interpretare situazioni neutre in modo negativo: il tutto elegantemente dimostrato da uno studio sperimentale di Harvard. 

Essere il bersaglio dell’altrui criticismo non è piacevole, può essere copresente all’autocriticismo ed è spesso in relazione all’insorgenza e al mantenimento di diversi distrubi attenenti la sfera mentale e psicologica.

Un team di ricercatori di Harvard ha voluto indagare il fenomeno del criticismo “subìto” (tecnicamente criticismo percepito) e la presenza di specifici bias cognitivi e attentivi nell’elaborazione di informazioni a carattere emotivo.

In altre parole hanno ipotizzato che elevati livelli di criticismo subìto sarebbero correlati a bias interpretativi di situazioni ambigue (valutate in modo negativo), con un possibile meccanismo per cui essere costantemente bersaglio di critiche porterebbe l’individuo ad affinare la propria attenzione verso segnali emotivi negativi e dunque ad essere più soggetto a bias cognitivi.

76 soggetti sono stati reclutati nello studio ed è stato loro chiesto di valutare quanto criticista fosse nei loro confronti “la persona emotivamente più importante nella loro vita”, e in seguito sono stati invitati a completare due compiti sperimentali finalizzati a rilevare bias attentivi nell’elaborazione di informazioni emotive positive, negative e neutre.
Dai dati è emerso che le persone con più elevati livelli di criticismo percepito presentavano maggiori difficoltà nell’ignorare e distrarsi dalle informazioni emotive negative non rilevanti per il completamento del task (predire la direzione di movimento di una freccia se associata a un’espressione facciale emotiva negativa, ad esempio di collera); inoltre, nel secondo compito sperimentale i soggetti con più elevati livelli di criticismo percepito avevano una maggiore tendenza ad interpretare negativamente dal punto di vista emotivo stimoli uditivi neutri.

Dunque il criticismo percepito è associato a bias interpretativi e attentivi che portano la persona a focalizzarsi su elementi emotigeni negativi e ad interpretare situazioni neutre in modo negativo: il tutto elegantemente dimostrato da uno studio sperimentale di Harvard.

 

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BILIOGRAFIA:

Le ombre dell’anima (2013): Pensare le emozioni negative – Recensione

 

Non amiamo la tristezza, ma allora perché amiamo ascoltare la musica triste? Si chiede Roberto Casati nella prefazione del libro.

Le ombre dell'anima_pensare le emozioni negative _RecensioneLa risposta a questa e altre domande inerenti le emozioni complesse, ambivalenti, miste si può trovare in questa bella raccolta di saggi scritti da filosofi di area francofona (Francia, Canada, Svizzera), che vanno ad indagare quei territori emotivi solitamente non molto battuti dai manuali di psicologia e psicoterapia (in particolare cognitiva).

A lungo le emozioni sono state contrapposte alla ragione, con il primato di quest’ultima. Più recentemente, anche grazie alle neuroscienze e alla psicologia evoluzionistica, le emozioni stanno ricevendo la giusta attenzione da parte degli studiosi e sono considerate importanti per il buon funzionamento della ragione stessa.

Nel libro vengono presi in esame stati emotivi un po’ ai margini della nosografia come il senso di famigliarità o il disgusto, con una modalità di indagine chiaramente più vicina alla logica filosofica che alla fenomenologia.
 
Si parte con la valenza delle emozioni dove gli autori cercano di definire la positività o la negatività delle emozioni, non solo in relazioni agli aspetti percettivi, ma anche cognitivi. Viene successivamente affrontato il tema dell’ambivalenza e delle emozioni miste, analizzate anche in rapporto al tempo, che pare l’unico fattore in grado di risolvere i conflitti emotivi.
 
Un capitolo molto interessante dal punto di vista psichiatrico è quello sul sentimento perturbante di freudiana memoria, caratterizzato dal senso di estraneità, che si può riscontrare in gravi disturbi psichiatrici come la Sindrome di Cotard (delirio di negazione dell’esistenza) e la Sindrome di Capgras (delirio dei sosia).
 

Si parla anche di commozione, un sentimento poco generalmente poco trattato e che potremmo definire “a metà”, caratterizzato tipicamente dalla coesistenza in una situazione di aspetti positivi e negativi, con il trionfo della vita sull’avversità (si pensi ad esempio alla nascita di un bambino dopo un parto difficile).
 
Questo sentimento ha una grande importanza a livello sociale in quanto contribuisce al rafforzamento dei legami di una comunità, segnalando ai membri della comunità l’importanza che un soggetto attribuisce ai valori più fondamentali che la fondano, ma anche a livello individuale in quanto costituisce un potente motivo per andare avanti.
 
Il libro si chiude in bellezza, proprio con un saggio intitolato “Bello da vomitare”, in cui viene trattato il tema della difficoltà di tollerare la bellezza troppo perfetta e del bisogno di corromperla in qualche modo.
 
Un libro a tratti complesso, ma molto interessante per uno psicoterapeuta.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Tappolet, C., Teroni, F., & Konzelmann Zlv, A. (2013). Le ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative. Raffaello cortina Editore. ACQUISTA ONLINE

Come cambiare se stessi o meglio come accettarsi

 

 

Ecco qui il segreto: il primo grande passo per cambiare è accettarsi.

Chi di noi è perfettamente contento di quello che è, di ciò che rappresenta o di quello che può dare o fare? Capita di dire: devo mettermi a dieta, devo cercare un lavoro migliore, devo cambiare casa, devo essere più ordinato, meno perfezionista, e potremmo andare avanti per ore ottenendo un elenco lunghissimo di cose da cambiare.

Sicuramente, adesso, ti starai chiedendo cosa vorresti cambiare di te stesso, giusto? Hai capito cosa ti piacerebbe avere o essere?

Indubbiamente, il desiderio di cambiare è qualcosa che ci accompagna costantemente per tutta la vita. Spesso, si è intenti a voler cambiare questo o quello, sia in termini di cose materiali, più facili da realizzare, sia in termini di caratteristiche personali. Tuttavia, è difficile capire da dove cominciare e cosa possiamo realmente fare per poter effettuare un cambiamento su noi stessi.

Gran parte di noi, penso, ha seguito per un periodo della sua vita un regime alimentare dietetico. Alla fine, ottenuti i risultati, capita di non essere pienamente soddisfatti di quanto conseguito e ci si sente come se mancasse un pezzo del puzzle. Ma di cosa si tratta? beh, direi di un cambiamento di forma a cui non segue un cambiamento di sostanza, la stessa che poi porta a intraprendere un comportamento volto ad un mutamento fittizio.

Ora vi svelo un segreto.  Curiosi?

Bene, ecco qui il segreto: il primo grande passo per cambiare è accettarsi.

Il paradosso centrale del processo di cambiamento è proprio questo: abbandonare il desiderio di voler essere qualcosa di diverso da ciò che si è, accettando di non esserlo; solo a questo punto si sperimenta il cambiamento. Si tratta, dunque, di abbandonare i tentativi di manipolazione operati verso se stessi e accettare quello che non si può diventare. Insomma, per potersi accettare veramente per quello che si è bisogna liberarsi dai progetti illusori su noi stessi.

Perché l’accettazione? Perché normalmente dietro ad ogni cambiamento, almeno nella maggior parte dei casi o sicuramente per i più importanti, c’è sempre un problema o qualcosa che si vuole lasciare alle spalle o si fa finta di non vedere. Tuttavia, finché non accettiamo il problema che muove le fila della sofferenza, come se fosse un burattinaio, o zavorre derivanti da regole morali che ci portiamo dietro da sempre e che impediscono di spiccare il volo, non riusciremo mai a essere pienamente soddisfatti di noi stessi.

Se tentassimo di effettuare un grande cambiamento senza accettare, e affrontare, prima di qualsiasi altra cosa, il problema che lo ha generato, alla fine otterremmo solo un appagamento parziale a cui seguirebbe un senso di frustrazione e di fallimento. Quindi, prima di operare qualsiasi tipo di cambiamento comportamentale è necessario accettare il problema, ovvero il tema doloroso che sottende tutto il nostro funzionamento.

Accettare ciò che ci spaventa, dunque, non significa rassegnarsi o tollerare, ma vuol dire riconoscere totalmente e in tutta la sua pienezza il problema. Naturalmente, per accettare è necessario prima di tutto osservare il tema, immergercisi, assumendo la posizione di un osservatore esterno, apprezzandone tutte le diverse sfaccettature. Cercare di capire razionalmente una situazione non significa accettarla, ma equivale a comprenderne le cause e le implicazioni. Dopo aver ottenuto una valutazione oggettiva si passa alla fase successiva: l’accettazione emotiva.
La fase più dolorosa è proprio quest’ultima, ovvero accettare l’emozione negativa che scaturisce quando si pensa all’evento doloroso. A questo punto, l’accettazione dell’emozione negativa porta, esponendosi gradualmente alla stessa, ad un calo progressivo dell’arousal emotivo fino a quando non sparisce totalmente. Questa fase sarà superata solo nel momento in cui, rievocando la situazione critica, l’emozione che riecheggia non sarà più disturbante. Così facendo si apre una finestra logica sulla situazione temuta che porta ad una visione della stessa senza emozioni disturbanti. Il cambiamento è avvenuto, Accetto!

Attenzione, accettarsi non vuol dire affatto crogiolarsi  nel pensiero delle proprie debolezze, ma riconoscerle per quelle che sono, senza autocommiserarsi o criticarsi.

Decisivo è accettarsi totalmente, non solo con i propri punti forti, ma anche, e soprattutto, con quelli deboli. Chi si permette e si concede la possibilità di vedersi debole ha un sano senso di autostima, perché sa guardare con umorismo ai propri limiti o ferite. Nel momento in cui ci riconciliamo con essi, le ferite diventano la nostra forza, uno scrigno da custodire, da portare dentro per tutta la vita. Solo allora, potremmo essere in grado di conoscere e di scoprire la nostra vera natura o vocazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Bambine più ambiziose? Solo se papà collabora nelle faccende domestiche!

FLASH NEWS

 

Secondo una nuova ricerca i padri che assumono ruoli attivi nella collaborazione e gestione domestica avrebbero effetti positivi sulle loro figlie femmine in termini di fiducia nelle proprie possibilità di carriera in un’ottica di equità di genere.

I ricercatori della University of British Columbia hanno intervistato 326 bambini di un range di età dai 7 ai 13 anni riguardo a come venivano suddivisi i lavori di casa tra i loro genitori e riguardo alle proprie aspirazioni lavorative.
 
E’ interessante che il più forte predittore delle ambizioni professionali delle bambine di genere femminile risultava essere proprio l’approccio dei padri ai lavori domestici: se i lavori domestici erano equamente distribuiti tra padri e madri le bambine presentavo generalmente più ampi obiettivi e orizzonti lavorativi meno legati agli stereotipi di genere.
 
Chiaramente altre variabili potranno influenzare tali aspirazioni lavorative più o meno vicine all’equità di genere tra cui anche la condivisione emotiva e di interessi tra padri e figlie come già sottolineato in precedenti studi.

Quindi, responsabilità di padri e madri è attuare nella quotidianità modelli impliciti che guardino all’equità di genere  tenendone presente anche gli effetti transgenerazionali su credenze e aspirazioni esplicite dei figli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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