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I Croods: la paura e l’ansia di Grug

“Le novità sono un pericolo, dovete sempre avere paura”, ecco cosa cerca di insegnare papà Grug alla propria famiglia. Ma dopo la terapia con il nomade Guy, Grug cambia idea.

 

I Croods è un film di animazione del 2013 scritto e diretto da Kirk De Micco e Chris Sanders. Racconta la storia di una famiglia di cavernicoli, i Croods appunto, sopravvissuti a numerose avversità, come punture di zanzara e animali feroci, grazie all’accudimento premuroso (forse troppo a volte!) di papà Grug, che costringe il resto della famiglia a rifugiarsi, per la maggior parte del tempo, nella sicura caverna.

I Croods conoscono molto bene la paura e il suo funzionamento, poiché la sperimentano in numerose occasioni: la paura è l’emozione che ci segnala un pericolo e prepara l’organismo ad affrontare la situazione temuta e ad allontanare la minaccia, aumentando lo stato di vigilanza e l’attenzione e attivando risorse aggiuntive con estrema rapidità. Se proviamo paura siamo pronti a reagire e le reazioni sono fuga e/o attacco.

La paura si attiva quando il pericolo è in corso, quindi ad esempio quando i Croods vengono attaccati da un grande felino preistorico: Grug attacca e il resto della famiglia si nasconde. L’atteggiamento protettivo del padre è dettato evidentemente da esperienze di vita simili a queste, in cui ha appreso che le strategie migliori di fronte a ciò che fa paura sono solo due: fuggire o difendersi.

Nel corso della storia, però vediamo che Grug si agita anche in situazioni dove il pericolo non è in corso, ma se il pericolo non è imminente allora l’emozione che sta provando non è paura, ma sta sperimentando qualche altra emozione che lo porta ad evitare le situazioni attivanti.

La paura è una delle emozioni più primitive ed è comune agli essere umani e animali. Sua sorella evoluta è l’ansia, un’emozione tipicamente umana, che si attiva per motivi e in modi identici a quelli della paura. La differenza tra le due si riscontra nella consistenza della minaccia: più è definita e più si parla di paura, mentre se è indefinita e vaga, si parla di ansia. Inoltre l’ansia è riferita ad eventi non immediati ed infatti in essa l’attivazione corporea è meno massiccia e pervasiva (Apparigliato M. & Lissandron S., 2004).

È più probabile che sia l’ansia, e non la paura, a colpire Grug di fronte alla vista del mare per la prima volta. Lì non c’è un pericolo imminente, ma Gurg non ha gli strumenti per distinguere ciò che è un pericolo reale e immediato, interruttore della paura, da un pericolo potenziale per il futuro, che invece accende l’ansia, e in questa confusione l’unica cosa che gli appare sensata è considerare il mondo come pericoloso, pensiero che si traduce in “le novità sono un pericolo, dovete sempre avere paura”, e agire di conseguenza.

Il circolo paura-fuga/attacco viene generalizzato nel tentativo di controllare tutto ciò che potrebbe essere una minaccia per il suo scopo primario di proteggere la sua famiglia. Automatizza l’assegnazione dell’etichetta pericolo a tutto ciò che è nuovo: qualsiasi segnale viene sopravvalutato come estremamente pericoloso mentre le capacità personali di fronteggiare la situazione vengono sottovalutate (per questo il mare diventa pericoloso come l’attacco di un animale feroce) e il comportamento messo in atto è l’evitamento, che si concretizza nella fuga dentro la caverna.

Quando la paura diventa ansia, Grug non ha gli strumenti per trovare strategie alternative a quelle automatiche dettate dalla paura (fuga e attacco), perché non ha ancora imparato la differenza tra le due e quindi non sa che può gestirle in modi diversi e altrettanto funzionali.

Nel momento in cui, a causa di terremoti violenti, i Croods sono costretti ad abbandonare la caverna perché non è più sicura, è Guy, un ragazzo nomade, che va in loro soccorso e li porta in salvo.

Guy mostra a Grug come sia possibile fronteggiare l’ansia utilizzando le idee, questo favorisce il blocco dell’automatismo novità-pericolo-fuga e Grug impara via via a sostituire i pensieri che associava all’ansia (sopravvalutazione dei segnali e sottovalutazione delle proprie capacità) con alternative più funzionali, come un ce la posso fare, sono in grado.

Abbiamo un film a lieto fine perché Grug, dopo quello che potrebbe essere un primitivo percorso terapeutico con Guy, impara a distinguere la paura dall’ansia comprendendo quando si tratta di un pericolo reale, ed è quindi più funzionale scappare o difendersi, e quando invece la minaccia è meno definita e non immediata concedendo così tempo per pensare ad alternative e modi funzionali di risolvere la situazione problematica.

Controindicazioni: non ce ne sono. Questo è un film che aiuta a capire la differenza tra paura e ansia e mostra come è possibile fronteggiarle in modo funzionale senza lasciarsene sopraffare, anche se sono molto intense.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Apparigliato M. & Lissandron S. (A cura di) (2004). Emozioni consuete e inconsuete in psicoterapia cognitiva. Deleyva Editore, Milano. ACQUISTA

Vedere per credere… No, bisogna anche sentire per credere!

Ioana Marchis

 

FLASH NEWS

Il vecchio aforismo “Vedere  per credere” dovrebbe essere aggiornato in base ai risultati riportati da un gruppo di ricercatori dell’Università di Glasgow i quali affermano che il processo visivo coinvolge anche il sistema uditivo.

Oltre “a vedere” dovremmo “sentire” per credere.

“Se in strada si sente il suono di una moto che si avvicina, ci si aspetta di vederla apparire da dietro l’angolo. Se invece al posto della moto compare un cavallo si prova una forte sensazione di sorpresa”, sostengono i ricercatori del presente studio.

Gli scienziati che studiano i processi cerebrali della visione hanno evidenziato che la corteccia visiva utilizza anche le informazioni provenienti dalle orecchie e dagli occhi per “visionare” il mondo circostante.

I ricercatori suggeriscono che l’input uditivo permette al sistema visivo di predire le informazioni in entrata: “I suoni creano immagini visive, immagini mentali e proiezioni automatiche”  sostiene il Professore Lars Muckli dell’Istituto di Neuroscienze e Psicologia presso l’Università di Glasgow.

Il presente studio pubblicato sulla rivista Current Biology, riporta cinque esperimenti condotti con la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) per esaminare l’attività nella corteccia visiva primaria di dieci soggetti volontari durante l’esecuzione di diversi compiti sperimentali.

In uno dei cinque esperimenti, i partecipanti, bendati, ascoltano tre diversi suoni di provenienza naturale: il canto degli uccelli, il rumore del traffico e di un gruppo di persone che parlano.

Con l’ausilio di uno speciale algoritmo in grado di identificare modelli specifici nell’attività cerebrale, i ricercatori sono stati in grado di discriminare i diversi suoni (antecedentemente presentati) elaborati dalla corteccia visiva primaria.

Un altro dei cinque esperimenti ha evidenziato che anche delle semplici immagini mentali (in assenza di suoni o di vere immagini visive) sono in grado di evocare l’attività nella corteccia visiva primaria.

Questa ricerca ci aiuta a capire come le diverse regioni della corteccia siano interconnesse tra di loro.

Fino ad oggi, poco si sapeva su come la corteccia primaria visiva fosse in grado di elaborare le informazioni uditive mentre era già stata riscontrata un’evidenza anatomica d’interconnessione (tra le due regioni) nelle scimmie.

Il presente studio è il primo a dimostrare chiaramente l’esistenza di una simile interconnessione anche negli esseri umani.

Nel futuro, i ricercatori si propongono di evidenziare come l’informazione uditiva sostiene attivamente i processi di elaborazione visiva partendo dalla premessa che il sistemo uditivo fornisce dei veri predittori pronti ad aiutare il sistema visivo nel focalizzarsi su possibili eventi sorprendenti; in questa chiave i predittori avrebbero un forte valore adattativo.

Più informazioni su come il sistema visivo e quello uditivo sono interconnessi potrebbero aiutarci a capire il modo in cui le percezioni sensoriali vengono elaborate in diversi disturbi come la schizofrenia e l’autismo.

 

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Mi sento Sollevata - Vignetta - Immagine: © Costanza Prinetti 2014
“Mi sento Sollevata” Immagine: © Costanza Prinetti 2014


Attaccamento e Psicoanalisi di Morris N. Eagle (2013) – Recensione

 

 

Il destino clinico della teoria dell’attaccamento è una storia un po’ triste di abbandono e accoglimento.

Lo psicoanalista Morris N. Eagle racconta questa storia, riflettendo sulle differenze tra i vari modelli psicoanalitici e la teoria dell’attaccamento.

Ripudiata dalla psicoanalisi nel cui ambiente era cresciuto il suo autore, John Bowlby, la teoria dell’attaccamento si è sviluppata nell’ambiente della psicologia sperimentale e ha finito per essere accolta in alcune correnti del cognitivismo clinico, specialmente in Italia (Liotti, 1994). Più recentemente, c’è stato un lento riavvicinamento.

Lo psicoanalista Morris N. Eagle racconta questa storia, riflettendo sulle differenze tra i vari modelli psicoanalitici e la teoria dell’attaccamento. La differenza principale riguarda il ruolo del trauma reale e delle fantasie. Nella teoria di Bowlby la sofferenza del bambino è fortemente influenzata dagli eventi traumatici, che quindi sono reali. Nei modelli psicoanalitici il trauma è fantasticato e il problema giace tutto nell’interiorità inconscia. Questo è vero soprattutto per i modelli freudiano e kleiniano.

Gli sviluppi successivi della psicoanalisi le hanno permesso di muovere alcuni passi nella direzione dell’interpersonalità dell’attaccamento, ma in realtà la strada era (ed è) ancora lunga. La teoria delle relazioni oggettuali rimane una teoria interiore, anche se prevede che la motivazione umana sia il rapporto con l’altro e non l’istinto sessuale. Anche la teoria del sé e gli sviluppi interpersonali e relazionali comunque mantengono l’attenzione sul mondo interno, come in fondo è giusto che faccia un modello psicoanalitico.

D’altro canto lo studio della teoria dell’attaccamento rende evidente quanto sia non solo cognitivo ma addirittura comportamentale questo modello: l’attaccamento è soprattutto un comportamento osservabile. E i modelli operativi interni sono funzioni cognitivo-comportamentali. Questo può spiegare in maniera credibile perché la psicoanalisi ripudiò la teoria dell’attaccamento, malgrado Bowlby avesse seguito una formazione psicoanalitica.

Insomma, la teoria dell’attaccamento deriva da studi empirici e da definizioni operative, mentre l’interesse di gran parte degli psicoanalisti verte sull’incontro clinico. Nel suo libro Eagle parte con una panoramica della teoria e della ricerca sull’attaccamento che comprende tre capitoli scritti in collaborazione con Everett Waters. Sono poi illustrati lo sviluppo e i principi fondamentali della teoria dell’attaccamento, compresi gli approcci alla misurazione dell’attaccamento nei bambini e negli adulti.

Dopo aver esposto con chiarezza le differenze, Eagle considera i punti di convergenza, a iniziare dall’interesse per lo sviluppo precoce del bambino. Tra gli psicoanalisti che sono stati in grado di recuperare il lavoro di Bowlby, Eagle cita Fonagy e la sua teoria della capacità di mentalizzare, che si apprende all’interno di una relazione di attaccamento sana e funzionale.

Eagle nota anche come la natura fortemente empirica della teoria dell’attaccamento la rende non immediatamente applicabile la pratica clinica. Non esiste una terapia basata sull’attaccamento. Esistono semmai delle indicazioni terapeutiche basate sull’attaccamento, tra cui le varie considerazioni sulla relazione. Probabilmente il terapeuta che più di tutti ha tentato di costruire una terapia basata sull’attaccamento è Liotti (1994), il quale però non è un analista. In campo psicoanalitico quelli che più si sono avvicinati a un uso clinico dell’opera di Bowlby sono Bateman e Fonagy (2004).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bateman, A., Fonagy, P. (2004). Psychotherapy for Borderline Personality Disorder: Mentalization-based Treatment. Oxford University Press, Oxford, New York.   ACQUISTA ONLINE
  • Liotti, G. (1994), La dimensione interpersonale della coscienza. Carocci Editore, Roma. ACQUISTA ONLINE
  • Eagle, M. N. (2013). Attaccamento e psicoanalisi: Teoria, ricerca e implicazioni cliniche. Cortina, Milano.  ACQUISTA ONLINE

Io non mi adeguo! Fenomenologia del Whistleblower

 

 

Con il termine whistleblower si fa riferimento a un individuo che, internamente o esternamente all’organizzazione in cui lavora, rivela comportamenti scorretti commessi all’interno della stessa, i quali rappresentano un pericolo per la comunità.

 

[blockquote style=”1″]Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo (Sandro Pertini).[/blockquote]

Con il termine whistleblower (lett. soffiatore di fischietto) si fa riferimento a un individuo che, internamente o esternamente all’organizzazione in cui lavora, rivela errori o comportamenti scorretti commessi all’interno della stessa, i quali rappresentano un danno o pericolo per la comunità.

Questa figura – ben rappresentata nell’omonimo film del 2011 –  e spesso al centro di notizie di cronaca giudiziaria, italiana e non – si trova a fronteggiare un’autorità superiore, che decide consapevolmente di sfidare, rischiando probabili ritorsioni e la perdita del lavoro stesso.

Come notano Nemeth e Goncalo (2004) molte organizzazioni, aziende e istituzioni tendono infatti a prediligere al proprio interno atteggiamenti di conformismo e coesione, inquadrando gli individui non allineati come minaccia (Collins e Porras, 1994) verso cui attivare meccanismi di persuasione o di vero e proprio rifiuto ed espulsione dal gruppo (Levine, 1989; Nemeth, 1997). I celebri studi di Milgram (Milgram, 1963; Milgram, 1965; Milgram, 1974) inoltre hanno dimostrato che vi sono fattori di natura situazionale che favoriscono massicciamente comportamenti acquiescenti verso un’autorità riconosciuta, anche di fronte a richieste lesive dell’integrità altrui.

Può essere dunque interessante dal punto di vista psicologico capire cosa spinge il whistleblower a denunciare e in quali dimensioni si distingue dai colleghi che, a parità di condizioni esterne, prediligono il silenzio.

Bocchiaro e Zimbardo, in due recenti lavori, si prefiggono quest’obiettivo, allargando il focus degli studi sull’obbedienza all’autorità, concentrandosi sulla figura del disobbediente (ossia colui che rifiuta di eseguire le consegne dello sperimentatore) e del vero e proprio whistleblower.

Nel primo disegno sperimentale ai soggetti veniva richiesto di criticare il proprio compagno di prove (in realtà complice dello sperimentatore) in modo progressivo e sempre più oltraggioso, per ogni errore commesso nelle stesse, con una penalità fittizia nel caso di abbandono, in modo da rendere più difficile e sconveniente la disobbedienza; il compagno avrebbe reagito agli insulti con una serie programmata di lamenti e segnali di disagio.

Le misure di personalità, in questo caso, non giustificherebbero gli alti livelli di disobbedienza riscontrati (70% dei partecipanti), che sarebbero invece riconducibili tanto a fattori situazionali, quali la vicinanza tra i partecipanti e la distanza fisica tra questi e l’autorità, quanto ad elementi di carattere valoriale: in altre parole, considerando prioritaria la tutela dell’integrità del compagno, i disobbedienti tendevano a percepire come necessaria una propria azione diretta ed immediata, attribuendo priorità a segnali di minaccia, pericolo o immoralità.

Risultati analoghi sono emersi nel secondo studio, nel quale la consegna era di scrivere, dietro adeguata ricompensa, commenti favorevoli circa la necessità di un esperimento sulla deprivazione sensoriale, potenzialmente pericoloso per l’incolumità psicofisica dei partecipanti, in modo che il Comitato Etico dell’Università approvasse il progetto; in una stanza separata era posizionato un computer da cui scrivere e una cassetta della posta dove eventualmente segnalare al Comitato la potenziale pericolosità dell’esperimento in forma anonima. Tale accorgimento era finalizzato a fornire la possibilità di disobbedire attivamente all’autorità, oltre che il mero evitamento del compito.

Anche in questo caso chi sceglieva di denunciare mostrava un orientamento preferenziale verso valori morali internalizzati (E’ anti-etico, va contro i miei principi) piuttosto che verso istruzioni esterne. Sarebbe dunque tale orientamento, piuttosto che caratteristiche di personalità, ad influire sul senso di responsabilità individuale di fronte a situazioni non ordinarie e conflittuali, e sulla conseguente probabilità di comportamenti di disobbedienza attiva, a prescindere dalla presenza di premi o punizioni materiali.

Anche studi di natura cross- culturale (Morselli, 2009) evidenziano il ruolo dell’atteggiamento valoriale del singolo nei confronti dell’autorità. In questi veniva distinta un’obbedienza acritica – caratterizzata cioè da un’aderenza incondizionata alle regole imposte dall’alto – e un’obbedienza responsabile, basata invece su un senso interno di responsabilità personale (Bierhoff e
Auhagen, 2001): mentre nella prima condizione le misurazioni correlavano positivamente con dimensioni di autoritarismo, nel secondo caso gli individui sembravano mostrare un orientamento più favorevole verso l’autonomia personale, la prosocialità, l’inclusività sociale e un maggiore coinvolgimento personale in azioni di protesta e disobbedienza attive, quali petizioni, boicottaggi, occupazioni di edifici ecc.

Obbedienza e disobbedienza non sembrerebbero dunque costrutti completamente antitetici ma andrebbero inquadrati come elementi complementari, mediati, tra gli altri fattori, dall’orientamento valoriale del singolo: per dirla con Bocchiaro e Zimbardo, il punto non è disobbedire o meno all’autorità, ma a quale tipo di autorità scegliere di obbedire.

 

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BIBLIOGRAFIA

  • Bierhoff, H.W. (2001). Responsibility and altruism. The role of volunteerism. In Auhagen, A.E., Bierhoff, H.W. (Eds.), Responsibility. The many faces of a social phenomenon (149-166). London: Routledge.
  • Bocchiaro, P., Zimbardo, P.G. (2010). Defying Unjust Authority: An Exploratory Study. Current Psychology, 29(02), 155-170.
  • Bocchiaro, P., Zimbardo, P.G., Van Lange, P.A.M. (2012). To defy or not to defy: An experimental study of the dynamics of disobedience and whistle-blowing. Social Influence, 1, 1-16. DOWNLOAD
  • Collins, J.C., Porras, J.I. (1994). Built to last. Successful habits of visionary companies. New York: Harper Collins.
  • Levine, J.M. (1989). Reaction to opinion deviance in small groups. In Paulus, P.B. (Eds.) Psychology of group influence, 2, 187-231. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Milgram, S. (1963). Behavioral study of obedience. Journal of Abnormal and Social Psychology, 67, 371-378.
  • Milgram, S. (1965). Some conditions of obedience and disobedience to authority. Human Relations, 18, 57-76.
  • Milgram, S. (1974). Obedience to authority: An experimental view. New York: Harper & Row.
  • Morselli, D. (2009). Obbedienza e disobbedienza: dinamiche psicosociali per la democrazia. [Dissertation thesis], Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Dottorato di ricerca in Psicologia sociale, dello sviluppo e delle organizzazioni, Ciclo 21.
  • Nemeth, C.J. (1997). Managing innovation: When less is more. California Management Review, 40 (1), 59-74.
  • Nemeth, C.J., Goncalo, J.A. (2004). Influence and persuasion in small groups. Berkeley: Institute for Research on Labor and Employment. DOWNLOAD

 

APPROFONDIMENTI:

Narcisismo ed Empatia: un connubio possibile?

 

FLASH NEWS

Un recente studio in tre fasi svolto da ricercatori della University of Surrey e della University of Southampton dimostra che, se supportati da indicazioni comportamentali su come assumere la prospettiva di un altro individuo, anche i narcisisti possono provare empatia per la sofferenza e i bisogni altrui.

È noto ed ampiamente documentato che i narcisisti abbiano qualche carenza sul piano dell’empatia. Tendenzialmente egocentrici e pieni di sé, può sembrare difficile che riescano a entrare così in contatto con l’altro da comprenderne i pensieri e condividerne lo stato d’animo.

Eppure un recente studio in tre fasi svolto da ricercatori della University of Surrey e della University of Southampton dimostra che, se supportati da indicazioni comportamentali su come assumere la prospettiva di un altro individuo, anche i narcisisti possono provare empatia per la sofferenza e i bisogni altrui.

Per i campioni sono stati scelti soggetti con narcisismo subclinico, selezionati in base ai risultati del questionario Narcissistic Personality Inventory (NPI; Raskin & Terry, 1988) che avevano volontariamente compilato online.

I partecipanti sono stati poi divisi in due gruppi chiamati basso-narcisismo e alto-narcisismo, ad indicare livelli di narcisismo minori o maggiori rispetto alla media della popolazione non clinica.

Nel primo esperimento è stato chiesto di leggere il racconto della rottura di una relazione ed è stata registrata la reazione empatica attraverso un questionario autosomministrato di 12 item adattati dal Interpersonal Reactivity Index (IRI) di Davis (1983).

Confermando le attese il gruppo alto-narcisismo ha mostrato scarsa empatia per i protagonisti della storia, indipendentemente da quanto grave fosse la situazione.

L’esperimento successivo voleva indagare se questa ridotta propensione personale fosse dovuta ad una vera e propria incapacità o ci fosse margine di cambiamento.

Anche questa volta è stata presentata ai partecipanti una situazione di sofferenza, nello specifico è stato fatto vedere il video di una donna vittima di violenza, e successivamente è stato somministrato lo stesso questionario di 12 item del primo studio.

A differenza della condizione precedente però, i soggetti sono stati divisi in due sottogruppi: ad un gruppo è stato esplicitamente chiesto, prima di guardare il video, di mettersi nella prospettiva della protagonista del documentario suggerendo loro di immaginarsi come potessero sentirsi se fossero al suo posto; il gruppo di controllo invece non riceveva istruzioni di alcun tipo.

I risultati evidenziano che nel gruppo alto-narcisismo le risposte empatiche di chi aveva ricevuto le istruzioni sono state significativamente maggiori rispetto ai soggetti del gruppo di controllo.

Non c’è stata invece alcuna differenza significativa sul gruppo basso-narcisismo, a conferma del fatto che sono autonomamente in grado di assumere la prospettiva dell’altro.

Infine l’ultimo esperimento si proponeva di verificare se il cambiamento dimostrato nel secondo studio riflettesse un vero cambiamento o un cambiamento limitato alla presentazione delle abitudini. A questo scopo le risposte empatiche alla situazione di sofferenza sono state rilevate non più attraverso questionari autosomministrati, ma misurando la presenza/assenza di aumento dei battiti cardiaci.

I risultati dimostrano che le differenze tra i gruppi alto-narcisismo e basso-narcisismo non sono poi così significative, dunque la carente propensione personale sul piano affettivo può essere compensata da una strategia comportamentale per assumere la prospettiva altrui.

È un risultato importante perché stimolare l’empatia significa diminuire i comportamenti anti-sociali ma anche migliorare le relazioni a lungo termine.

 

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Gentlecare: un nuovo modello di assistenza nella cura della Demenza

Morena Peggi

 

Nella cura della persona affetta da Demenza, accanto ai servizi basati sul modello Biomedico, si stanno affacciando, con sempre maggiore insistenza, servizi del tutto alternativi basati su modelli bio-psico-sociali di cura alla persona come l’approccio Gentlecare.

La Demenza è la più comune causa di perdita di memoria che conduce ad una progressiva disgregazione delle capacità cognitive (quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, l’attenzione, il pensiero) tali da pregiudicare la possibilità di una vita autonoma con conseguente perdita della propria identità personale e sociale.

La demenza è considerata una sindrome, ossia un insieme di sintomi, che può essere provocata da un lungo elenco di malattie, alcune molto frequenti, altre invece più rare.

Erroneamente a quanto si pensa, avere una diagnosi di Demenza non necessariamente significa avere la malattia di Alzheimer. In effetti, la demenza  fa riferimento a più di 100 forme diverse le cui cause possono essere riconducibili a carenza di vitamina B12, iporitoidismo, utilizzo eccessivo di droghe, infezioni, deficit nella vista e nell’udito, inadeguata ossigenazione del cervello riconducibili a problematiche cardiache, anemia, fibrillazione atriale, Sindrome delle apnee ostruttuve del sonno ecc.

Tra queste forme la più comune risulta essere la malattia di Alzheimer che, a sua volta, può essere suddivisa in due forme; a esordio precoce (si manifesta tra i 45-60 anni) e a esordio tardivo (si manifesta dopo i 60 anni).

La  Demenza non è solo malattia dell’individuo ma anche malattia della collettività in quanto la famiglia, il personale assistenziale nelle strutture, il Comune, le ASL sono parti in causa nella gestione della patologia e si trovano a fronteggiare un problema complesso di cura, di relazione, di adattamento psicologico e comportamentale.

Negli ultimi anni si è passati da un modello biomedico di approccio alla malattia incentrata sul mal funzionamento a livello bio-molecolare ad un modello bio-psico-sociale. Un modello del tutto rivoluzionario che tiene conto di fattori biologici, psicologici e sociali nel valutare lo stato di salute.

Così, anche nei servizi per la cura degli anziani (Case di Cura, Centri diurni, Residenze, Servizi domiciliari, Reparti di Lungodegenza negli Ospedali ecc) le offerte sono diversificate.

Accanto ai servizi basati sul modello biomedico incentrati sui sintomi della malattia e della cura, dove gli interventi primari sono costituiti da strategie invasive, dove il personale è incoraggiato a rimanere emozionalmente neutro, dove il corpo e la mente vengono considerate entità distinte, dove gli ambienti sono di carattere istituzionale, dove viene incoraggiata nel paziente la dipendenza e l’aderenza al trattamento medico, dove il lavoro viene ripartito secondo settori professionali e dove l’accento viene posto sull’efficienza, si stanno facendo strada nuovi programmi basati su modelli del tutto alternativi che utilizzano nuovi approcci teorici; è il caso del modello Gentlecare di Moyra Jones.

Gentlecare fornisce un modello di assistenza definita dalla stessa autrice protesica in  cui le tre componenti – persone, programmi e spazio fisico – lavorano in armonia per produrre un sostegno, o protesi, per la persona affetta da demenza.

Tale modello è orientato nel preparare il personale assistenziale e i caregiver familiari alla cura della persona affetta da demenza primaria progressiva. Il sistema è applicabile nelle strutture di assistenza per acuti, nelle strutture di lungodegenza e nei programmi dei centri diurni; cambia il modo in cui i caregiver familiari.

Gentlecare promuove un orientamento che, piuttosto che concentrarsi sul comportamento della persona colpita, incoraggia un adattamento dell’ambiente fisico e sociale in cui la persona deve operare. Ciò comporta un cambiamento significativo del modo in cui pensiamo e agiamo nell’assistenza alla persona affetta da demenza.

Si aiutano le famiglie e il personale di assistenza a identificare e rimuovere i fattori di stress dell’ambiente che circonda la persona affetta da demenza. Sono incoraggiati a fornire strategie e programmi efficaci, che aiuteranno l’individuo a vivere più confortevolmente nel proprio ambiente.

Gentlecare crea un ambiente armonico tra persone dementi e costituito da:
– lo spazio fisico
– le loro attività quotidiane
– le persone significative con le quali interagiscono

Le componenti dell’assistenza protesica- persone,programmi e spazio fisico- non sono aggiunte costose a programmi esistenti; fanno parte dei servizi sanitari di base esistenti. Gentlecare organizza semplicemente queste componenti in modo differente, affinchè possano sostenere, piuttosto che sfidare, le persone con danno cerebrale.

 

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Demenza: Le Terapie Comportamentali più utili dei farmaci

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Com’è cambiata la nostra vita con lo sviluppo dei Social Network?

RECENSIONE DE: La solitudine del social Networker (2014)

La solitudine del social network di Carlo Mazzucchelli - RecensioneL’evoluzione tecnologica ha cambiato le dinamiche delle nostre vite, comprese quelle delle nostre relazioni sociali e affettive facendoci vivere realtà virtuali e parallele che hanno invaso e sono ormai indistinguibili da quelle reali e che ci portano a rappresentarci in modalità idealizzate e poco coerenti con quello che realmente siamo.

Un libro dai contenuti molto attuali, che ben descrive l’influenza della tecnologia sulla persona. Il testo è scorrevole ed ordinato, ricco di riferimenti alla letteratura scientifica e ai testi classici.

La solitudine ai tempi di internet, come fenomeno sociale contemporaneo che riguarda ogni fascia d’età, è ormai  indagata da scienziati, sociologi e psicologi con approcci e metodologie sempre più innovative.

Il bisogno di solitudine è una caratteristica fondamentale e imprescindibile del benessere personale individuale e lo è ancor più oggi, in un mondo tecnologico fatto di connessioni globali e di relazioni virtuali. E’ un bisogno utile a riflettere su se stessi, a sperimentare l’intimità e a vivere esperienze affettive profonde. il saper stare con se stessi aiuta a stare con gli altri e favorisce la conoscenza e la relazione.

Grazie alle nuove tecnologie sono aumentate le opportunità di comunicare e relazione sociale, di conoscenza, di informazione e di partecipazione. Al tempo stesso è aumentato il rischio di appiattimento, omologazione, frammentazione e di individualismo. Alla base delle motivazioni a frequentare i social c’è un forte bisogno di autorganizzazione e protagonismo, alla ricerca di stati armonici nei quali poter dar sfogo alle proprie capacità creative, passioni e abilità.

[blockquote style=”1″]Per affrontare il malessere determinato da cause oggettive esterne come la crisi economica, l’inaffidabilità della politica e la precarietà del lavoro, e da cause interne come il bisogno di comunità ci siamo rivolti alla tecnologia come un malato fa con una medicina. [/blockquote]

Studi recenti hanno mostrato l’esistenza di nuove dipendenze da eccessiva vita digitale online. Dipendenze che non prevedono l’uso di sostanza ma che si traducono in malesseri fisici e psicologici come depressione, ansia, tremori e nausee. Molti di questi effetti nascono dall’uso che del media viene fatto, spesso come meta di fuga emotiva e rifugio mentale.

L’evoluzione tecnologica ha cambiato le dinamiche delle nostre vite, comprese quelle delle nostre relazioni sociali e affettive facendoci vivere realtà virtuali e parallele che hanno invaso e sono ormai indistinguibili da quelle reali e che ci portano a rappresentarci in modalità idealizzate e poco coerenti con quello che realmente siamo.

 

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Psicoanalisi, Identità e Internet di A. Marzi (2013) – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Esperienza di sinestesia: a quale livello avviene l’elaborazione dei colori?

– FLASH NEWS-

Gli scienziati descrivono il bizzarro fenomeno della sinestesia come l’”unione dei sensi” in cui due o più dei cinque sensi che sono normalmente esperiti e percepiti in modo distinto e separato sono involontariamente e automaticamente combinati in combinazioni bizzarre.

I ricercatori Ramachandran e Seckel della University  San Diego in California hanno analizzato quattro individui “sinestetici” che erano soliti esperire dei colori nel momento in cui vedevano lettere scritte dell’alfabeto in bianco e nero. Primariamente l’obiettivo dei ricercatori era comprendere il quale momento dell’esperienza percettiva effettivamente comparivano i colori nella mente dei soggetti.

Uno specifico task sperimentale chiedeva ai partecipanti – sia ai “sinestetici” che a un piccolo gruppo di controllo – di completare tre puzzle in cui vi erano alcune parole stampate al contrario e che non erano immediatamente visibili.

I ricercatori hanno scoperto che gli individui sinestetici erano in grado di finire i puzzle con una velocità di tre volte maggiore e con minori errori rispetto ai soggetti di controllo, dichiarando di avere identificato anche le lettere nascoste avendole visualizzate con dei colori specifici, e dunque agevolandoli nel compito rispetto ai soggetti di controllo.

Il case study pubblicato sul numero attuale di Neurocase, supporta l’interpretazione secondo cui i  colori nell’esperienza sinestetica siano processati preconsciamente e in stadi molto precoci dell’esperienza sensoriale: durante il completamento dei puzzle l’informazione sinestetica aggiuntiva nel visualizzare le lettere è stata inviata a più elevati livelli di elaborazione sensoriale, fornendo un ulteriore e aggiuntivo insight per identificare le parole nascoste e distorte.

Chiaramente studi con campioni più estesi sono raccomandabili per approfondire al meglio le caratteristiche delle esperienze di sinestesia.

 

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Le metafore attivano le regioni cerebrali coinvolte nell’esperienza sensoriale

 

BIBLIOGRAFIA:

Etnopsicoanalisi complementarista di George Devereux – Recensione

 

 

Un libro fondamentale per gli esperti di etnopsichiatria, ma anche affascinante per la logica e il rigore delle argomentazioni esposte.

Un testo altresì difficile e denso, fortemente stimolante e di indubbia attualità nella società multietnica contemporanea in cui il concetto di decentramento dal proprio punto di vista e di costellazione di visioni complementari e non gerarchicamente organizzate non può che essere oltre che di grande interesse anche di auspicio.

Nella collana “Scienze e Salute” di Franco Angeli Editore esce, a 40 anni dalla prima pubblicazione, una riedizione di un’ interessante e complessa raccolta di saggi ed articoli di George Devereux curata dallo psichiatra ed etnopsichiatra Alfredo Ancora dell’Università di Siena che ha conosciuto personalmente Devereux e ha potuto arricchire questo libro di commenti e osservazioni, non solo sui contenuti, ma anche sull’autore stesso.

Un aspetto affascinante di questa edizione, dotata di un’interessantissima introduzione, risiede proprio nella lettura dei testi collocati in un contesto di appartenenza che li arricchisce di elementi inerenti l’autore, come uomo storico e studioso eclettico, ed il suo tempo e l’ambiente ricchissimo di contatti e influenze, stimoli e contaminazioni che l’hanno accompagnato nello sviluppo del suo pensiero.

Nato in Ungheria, Devereux ha cambiato nome e nazionalità in un periodo storico ed in un assetto politico di grande trasformazione. Inoltre psicanalista non medico, grecista ed etnologo aveva studiato anche fisica con Bohr e chimica con Marie Curie, arrivando ad utilizzare schemi di ragionamento e persino teoremi mutuati dalle scienze matematiche applicandoli alla psicanalisi ed allo studio dell’uomo.

I testi sono quindi intessuti di riflessioni e analisi ottenute con l’ausilio e l’arricchimento di spunti provenienti dal ricchissimo patrimonio culturale e di saperi dell’autore.

Devereux cercò di sviluppare i rapporti tra psicoanalisi ed etnopsicanalisi sostenendo con forza il concetto di complementarietà in contrapposizione ad una visione dicotomica.

L’etnopsichiatria complementarista ha come obiettivo la formulazione di ipotesi su un dato fenomeno secondo prospettive esterne ( la cultura e la società di appartenenza) e interne (il soggetto) in cui la società e l’individuo sono due approcci di studio della realtà che offrono due prospettive con cui costruire dei quadri di riferimento esplicativi autonomi e validi.

Da un approfondimento sul nucleo centrale del concetto di etnopsicoanalisi complementarista l’autore esplora poi concetti di cultura e personalità, aspetti clinici e aspetti etnici, ma sempre con ragionamenti lucidi e rigore scientifico. “Il complementarismo non è una teoria ma una generalizzazione metodologica. Il complementarismo non esclude nessun metodo e nessuna teoria valida, le coordina. Tali teorie sono complementari e non opposte, attingendo dalla nozione di complementarietà del fisico danese Bohr applicato all’osservazione dei quanti e riproposto circa la complementarietà dell’approccio psicologico (l’osservatore interno al soggetto) e quello sociologico (l’osservatore esterno al soggetto).

Insomma partendo dal principio di indeterminazione di Heisenberg per cui il comportamento che un essere umano manifesta in presenza di un osservatore non è quello che avrebbe manifestato in assenza di un osservatore, Devereux costruisce la cornice di lettura per cui un fatto di per sé non appartiene ad alcuna scienza ma lo stesso fatto può essere descritto da diversi punti di vista non esprimibili simultaneamente, entrambi validi ma complementari.

In particolare interessante e stimolante la visione decentrante in cui la psicoanalisi viene interpretata come una serie di conclusioni socio-psicologiche derivanti dallo studio intensivo della classe media viennese prima della prima guerra mondiale e Freud viene visto come uno psico-sociologo particolarmente meticoloso nello studio degli indigeni di Vienna!

Questo libro presenta dieci saggi più un saggio introduttivo sull’argomento generale che spaziano dalla lettura delle patologie psichiche nelle società tradizionali fino ai segreti degli sciamani degli indiani Mohave esponendo quelli che lo stesso Devereux definisce come i grandi assi della teoria e del metodo complementarista. Un libro fondamentale quindi per gli esperti di etnopsichiatria, ma anche affascinante per la logica e il rigore delle argomentazioni esposte. Un testo altresì difficile e denso, fortemente stimolante e di indubbia attualità nella società multietnica contemporanea in cui il concetto di decentramento del proprio punto di vista e di costellazione di visioni complementari e non gerarchicamente organizzate non può che essere oltre che di grande interesse anche di auspicio.

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 BIBLIOGRAFIA:

La diagnosi nei Disturbi Dissociativi – Intervista a Suzette Boon

Reportage dal Congresso: NUOVE FRONTIERE NELLA CURA DEL TRAUMA
Venezia 30 Maggio-2 Giugno 2014

 

 

I Disturbi Dissociativi: cosa li rende difficili da diagnosticare?

Innanzitutto, spiega la Dott.ssa Boon, la mancanza di consenso su cosa sono i sintomi dissociativi, poi le differenze nei sistemi di classificazione (ICD-10 and DSM 5) e l’ampia comorbilità dei sintomi e delle sindromi trauma-correlate.

Inoltre in molte parti del mondo i sintomi Schneideriani (in particolare quelli legati ad allucinazioni uditive) sono principalmente associati a schizofrenia e le differenze di opinione sull’incidenza e sulla prevalenza dei disturbi dissociativi complessi, in particolare il disturbo dissociativo dell’identità, non aiutano a definire meglio tale diagnosi.

Un ultimo aspetto legato alla clinica, ma che incide molto sulla possibilità di diagnosticare bene questi disturbi, è il fatto che i pazienti non portano sintomi dissociativi in consultazione, ma sintomi comuni anche ad altre categorie dagnostiche, quali disturbi d’ansia, insonnia, abuso di sostanze, disturbi alimentari.

Il problema di base è tuttavia costituito dalla presenza di diversi orientamenti teorici nella comprensione dei disturbi dissociativi, poiché da qui si sono determinati i diversi modi di osservare gli stessi sintomi: da un lato ci sono i teorici del continuum, secondo i quali l’esperienza dissociativa va da una sensazione normale di straniamento, per poi passare da sintomi di assorbimento emotivo, derealizzazione e depersonalizzazione, fino ad arrivare ad una sintomatologia più grave e invalidante come il disturbo dissociativo dell’identità (Bernstein, Putnam 1986).

Dall’altro lato ci sono i teorici della dissociazione strutturale, che sottolineano invece la presenza di differenze qualitative tra i diversi tipi di esperienze dissociative e di caratteristiche tra loro non sovrapponibili. Secondo questi ultimi i sintomi legati ad un restringimento temporaneo della coscienza, quali l’assorbimento, il sognare ad occhi aperti, stati leggeri di trance, difficoltà di concentrazione, possono essere sintomi riferiti sia da pazienti dissociativi che da pazienti affetti da altri disturbi psichiatrici, così come dalla popolazione generale, ma non necessariamente indicare la presenza di un disturbo dissociativo.

I teorici della dissociazione strutturale (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) segnalano che queste esperienze non sono sempre il segno di un fallimento integrativo delle funzioni mentali, mentre nei disturbi dissociativi veri e propri c’è sempre invece una divisione del sé, con diversi modi di vedere se stessi e il mondo, diversi sentimenti e comportamenti.

I tre livelli di dissociazione strutturale secondo Van der Hart e colleghi (2000) sono: dissociazione primaria, caratterizzata dalla presenza di una personalità prevalente capace di portare avanti la vita quotidiana (ANP), mantenendo insieme i ruoli principali per la persona (es: madre, moglie, lavoratrice, figlia, amica…), e una sola parte emotiva (EP), che conserva nella forma primordiale la reazione emotiva legate al trauma, rimettendola in atto solo quando una situazione trigger lo rende necessario. Sono dissociazione primaria il PTSD Semplice, l’Amnesia Dissociativa, i Disturbi Somatoformi Semplici (Conversione).

 

Il secondo livello è la dissociazione secondaria, in cui è presente una sola personalità principale (ANP), ma diverse parti emotive (EP) ognuna delle quali conserva una diversa modalità difensiva (attacco, fuga, freezing, morte apparente) legata al trauma, e comporta invece il verificarsi di reazioni emotive e comportamentali diverse e talora contrastanti di fronte a situazioni percepite come pericolose. Sono dissociazione secondaria il PTSD Cronico, il PTSD complesso, Disturbo da stress estremo (DESNOS) e Disturbo Dissociativo non altrimenti specificato (DDNAS).

Infine la dissociazione strutturale terziaria è caratterizzata dalla presenza di due o più personalità che agiscono e si muovono nella vita quotidiana (ANP), non consapevoli l’una dell’altra, e più EP che reagiscono istintivamente alle situazioni trigger, interne o esterne, ognuna mettendo in atto una modalità difensiva diversa. Questo livello corrisponde alla forma più grave, il Disturbo dissociativo dell’identità (DDI). In tutti e tre i livelli tra le ANP e le EP c’è una barriera di amnesia, un’impossibilità cioè per la ANP di riconoscere le diverse parti emotive come proprie e una impossibilità delle parti emotive di accedere alla vita quotidiana.

La presenza di amnesia e, più in generale, il funzionamento della memoria sono dunque i primi e più importanti aspetti sintomatici da approfondire per poter diagnosticare un disturbo dissociativo, che sia collocabile in uno dei tre livelli descritti.

La Dott.ssa Boon prosegue poi con una dettagliatissima rassegna di sintomi e categorie diagnostiche, aiutandoci a differenziare tra disturbi dissociativi e disturbi psicotici, bipolari, di personalità, sottolineando soprattutto la differenza qualitativa delle esperienze riportate dai pazienti nei confronti dei loro stessi sintomi.

Le principali scale utilizzate per lo screening dei disturbi dissociativi, anche se purtroppo non tutte tradotte in italiano, sono la DES (scala delle esperienze dissociative, Bernstein, Putnam;1986), la DIS-Q (questionario sulla dissociazione, Vanderlinden 1993), la SDQ-20 (questionario sulla dissociazione somatoforme, Nijenhuis et all, 1996) e la MID (repertorio multidimensionale della dissociazione, Dell. 2002, 2006).

Mentre le scale specifiche e più validate per la diagnosi di DD sono DDIS (Dissociative Disorders Interview Schedule, Ross, 1989, Ross et all, 1989), la SCID-D (Structured Clinical Interview for DSM-IV Dissociative Disorders, Steinberg, 1995, 2000) e la TADS-Q (Trauma and Dissociation Symptoms Questionaire, 2013; Boon, Mathess & Draijer, 2006).

In attesa che tutte le scale e le preziose interview dei colleghi olandesi vengano tradotte, due consigli utili e caldamente raccomandati per fare buone diagnosi: 1- considerare e verificare sempre la presenza l’intero cluster di sintomi dissociativi, e non solo di alcuni, e 2- chiedere sempre la descrizione di esempi, di episodi specifici, che possano spiegare meglio appunto la qualità delle esperienze descritte, variabile determinante per differenziare i disturbi dissociativi da tutti gli altri e soprattutto per non cadere nella trappola della iper o ipo-inclusione diagnostica!

 

Intervista con Suzette Boon

Suzette Boon - La diagnosi nei disturbi Dissociativi
Suzette Boon, Psicologa e Psicoterapetua

SoM – La prima cosa che vorrei chiederle, in relazione al suo importante intervento sulla diagnosi è: quali sono i principali rischi legati ad uno scorretto processo diagnostico nella sua esperienza clinica con pazienti dissociativi?
SB – Il primo rischio è che se non si fa una intervista diagnostica completa o se si sbaglia la diagnosi, le persone che vengono in consultazione e che presentano sintomi diversi da quelli dissociativi come ad esempio disturbi alimentari,  depressione, attacchi di panico, verranno trattate per i sintomi che presentano. Tuttavia se il disturbo dissociativo sottostante non viene colto e compreso, il trattamento difficilmente sarà efficace. Potrà esserci una remissione dei sintomi, ma poi il problema salterà fuori in qualche altra forma o talora con gli stessi sintomi. Il motivo è che se la depressione o i disturbi alimentari o l’insonnia sono correlati alla struttura dissociativa del paziente e alla sua storia traumatica e non si lavora su questo, non si lavora sul vero problema. Il secondo rischio è che se non si fa un buon assessment sul disturbo dissociativo complesso e non c’è una buona comprensione del funzionamento delle parti dissociative, ma emergono traumi nella storia del paziente, iniziare da subito a lavorare su questi – ad esempio con la tecnica dell’EMDR – può essere molto rischioso e portare il paziente a spostarsi da un ricordo traumatico all’altro, con un carico emotivo molto intenso, e a scompensarsi. Un altro rischio è quello della iper-inclusione diagnostica, per cui sia terapeuti che pazienti “cercano” questa diagnosi perché negli ultimi anni si sta parlando molto di questo, ma questo è forse un rischio che attualmente corriamo più noi in Olanda che voi in Italia.

SoM – In Olanda sono nati negli ultimi 10 anni molti Trauma Center specializzati su queste problematiche e in grado di occuparsi di questi pazienti nel lungo periodo. Come avete iniziato?

SB – In Olanda il trattamento del trauma è al centro dell’attenzione dei clinici da moltissimi anni, è iniziata 10 anni dopo la seconda guerra mondiale perché i clinici hanno iniziato ad accorgersi di sintomi trauma-correlati nelle vittime dell’olocausto. Dunque c’è una lunga tradizione nel riconoscimento e trattamento del trauma e inizialmente del PTSD semplice. Poi dalla fine degli anni ’80, io e Onno van der Hart abbiamo iniziato a scrivere di disturbi dissociativi, a formare molte persone e c’è stato un momento storico in cui in tutta l’Olanda c’erano persone interessate a questo tema. E’ cresciuto così il numero di colleghi che iniziavano a trattare pazienti in modo specialistico su questi problemi, sia in fase di ricovero che in ambulatorio, ma erano sparsi sul territorio e non coordinati tra loro. Poi circa 8 anni fa, c’è stata un’iniziativa per creare Trauma Center specializzati nel trattamento dei disturbi cronici correlati al trauma e così 7 grandi servizi di salute mentale, in cui c’erano persone e clinici già coinvolti attivamente nel “mondo del trauma”, come me ed altri, hanno avuto il permesso dalle istituzioni nazionali di avviare un dipartimento di salute mentale specializzato nella cura di pazienti con ricordi traumatici. Questo è quello che è successo.

SoM – Attualmente che servizi avete strutturato?

Sin dall’inizio e anche ora i trattamenti che offriamo sono per pazienti ambulatoriali, perché crediamo che la maggior parte dei trattamenti dovrebbero essere così e non in condizioni di ricovero prolungato. Questi pazienti spesso hanno disturbi di personalità oltre che un disturbo dissociativo complesso e ricoveri lunghi tendono a farli peggiorare e regredire, a sviluppare problemi di dipendenza eccessiva dagli altri e dal servizio, anche per bisogni che sarebbero in grado di soddisfare da soli. Ci avvaliamo della rete ospedaliera pubblica e dei servizi psichiatrici solo nei momenti di crisi acuta e solo se strettamente necessario. Abbiamo un contratto con questi servizi psichiatrici, un accordo di collaborazione, in cui è specificata la presa in carico ambulatoriale dei pazienti presso i nostri trauma center, ma che ci potrebbe essere bisogno di cure più intensive presso le loro strutture per periodi di crisi. Attualmente abbiamo 7 Trauma Center per adulti, per la presa in carico di pazienti che vanno dal PTSD complesso ai disturbi dissociativi complessi.

SoM – Quali step di cura sono previsti all’interno dei centri?

SB – Il primo step è la fase di assessment, che è molto intensa può prendere anche molti incontri poiché vengono indagati i problemi riferiti, la storia clinica, la presenza di eventi e situazioni traumatiche nel passato o nel presente; vengono poi somministrate le interviste strutturate per diagnosticare la presenza di disturbi dissociativi e, se il quadro clinico non è ancora chiaro, vengono somministrate interviste strutturate per PTSD e poi per PTSD complesso. Questi approfondimenti possono risultare moto difficili e stressanti per i pazienti, perciò in questa fase è prevista anche la possibilità di una valutazione psichiatrica per un supporto farmacologico. Il processo diagnostico può durare molto tempo e i pazienti si avvalgono nel frattempo del supporto della rete dei servizi di salute mentale “generali”, ma alla fine del processo i pazienti vengono inseriti in programmi di cura altamente specializzati.  Ci sono percorsi differenziati per pazienti con diagnosi di PTSD complesso o con diagnosi di disturbo dissociativo complesso: quella che chiamiamo Fase I di trattamento è la stessa per tutti e prevede l’inserimento in un percorso di gruppo intensivo settimanale focalizzato sulla psicoeducazione e sulla stabilizzazione dei sintomi; i pazienti con diagnosi di disturbo dissociativo complesso seguono in questa fase anche un gruppo specifico sulla comprensione del disturbo dissociativo basato sul libro che abbiamo appena scritto. Chi non vuole partecipare al gruppo terapeutico o non può perché ha, ad esempio, la tendenza a regredire o a peggiorare in gruppo, ovviamente non è obbligato a farlo e viene comunque seguito in psicoterapia individuale. I pazienti con disturbi dissociativi complessi o con disturbo dissociativo dell’identità (DDI) possono restare in questa fase fino 5 anni, mentre i pazienti con PTSD complesso in genere riescono a stabilizzare i sintomi in 3 anni circa. La Fase II è orientata al trattamento specifico dei ricordi traumatici, qui tutti i pazienti lavorano individualmente e in alcuni casi in gruppo con terapie espressive di diverso tipo, e infine la Fase III prevede la fine della terapia e gestione dei sintomi residui nella vita quotidiana. In quest’ultima fase di solito c’è una buona integrazione dei ricordi traumatici nella storia di vita della persona e una migliore integrazione delle parti del sé dissociate a causa delle esperienze di traumatizzazione. Per i pazienti con DDI complesso il percorso complessivo può durare circa 10 anni, con 5 anni in Fase I, altri 3-4 in Fase II  e altri 1-2 anni in Fase III, per potersi reinserire nella vita quotidiana senza il supporto settimanale del terapeuta. Per ora i pazienti in Olanda non pagano per questi trattamenti, è il sistema assicurativo che copre direttamente le spese e che paga i terapeuti e gli operatori che lavorano nei Trauma Center.

SoM – Quanti operatori sono coinvolti nel team di un Trauma Center?

SB – Si tratta di una presa in carico che comporta il lavoro di molte figure professionali, tutte necessarie per la buona riuscita del percorso. Non prenderei in carico da sola pazienti così dissociativi, se non nell’ultima fase di trattamento e nonostante il nostro team sia di circa 16 operatori, tra psicologi psicoterapeuti psichiatri e infermieri, avremmo bisogno di inserire sempre più persone nell’organico per riuscire a lavorare con meno pressione e senza le lunghe liste d’attesa che purtroppo ora ci sono, a volte fino a 5-6 mesi di attesa dopo la fine del processo diagnostico.  
L’unico svantaggio di un servizio così specializzato è che i servizi territoriali inviano molto e non prendono più in carico questi pazienti e al momento, nonostante qui l’organizzazione dei trauma center sia più avviata che in Italia, stiamo vivendo un periodo di forte pressione e di tagli alla spesa sanitaria, che rallenta i nostri tempi di presa in carico e di trattamento. Spero che in futuro avremo più risorse e potremo lavorare ancora meglio e su vasta scala, per garantire a tutto il territorio olandese la presenza di Trauma Center specializzati e di elevata qualità nelle cure offerte.

 

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I Disturbi dissociativi della coscienza (2013) di Giuseppe Miti –  Psicologia

Intervista a Giovanni Tagliavini – Nuove Frontiere nella cura del Trauma 2014

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bernstein, E. M., Putnam F. W. (1986). Development, reliability, and validity of a dissociation scale. Journal of Nervous and Mental Disease, 174(12), pp. 727-735.
  • Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K. (2006). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano: Cortina, 2011. ACQUISTA ONLINE

Perdere peso con un Training Comportamentale

 

 

– FLASH NEWS-

Ora un ambizioso studio (Veling et al., 2014) si è posto tale domanda di ricerca: un training comportamentale di estinzione di apprendimenti associativi tra determinate azioni motorie e cibi non salutari ha dei benefici in termini di effettiva perdita di peso corporeo?

In ambito cognitivo-comportamentale ritroviamo tra le opportunità di diminuire i comportamenti impulsivi sia quella di modificare le associazioni automatiche tra determinati stimoli e alcune nostre risposte – anche in relazione al cibo e all’alimentazione.

Nel 2011 uno studio olandese dell’ Università di Maastricht supporta questa idea dimostrando che un training meramente finalizzato a fermare semplici azioni motorie (prendere con le mani) verso cibi poco salutari ridurrebbe effettivamente il consumo di alimenti non sani, per lo meno in un setting di laboratorio.

Il punto sta proprio qui: ad oggi la maggior parte di studi simili – sul decoupling di associazioni comportamentali disfunzionali alimentari- è stato esplorato solo in setting sperimentali artificiali di laboratorio.

Ora un ambizioso studio (Veling et al., 2014) si è posto tale domanda di ricerca: un training comportamentale di estinzione di apprendimenti associativi tra determinate azioni motorie e cibi non salutari ha dei benefici in termini di effettiva perdita di peso corporeo?

Nell’arco di un periodo di tempo di quattro settimane un centinaio di soggetti hanno preso parte alle diverse condizioni sperimentali tra cui un training via internet chiamato “go/no-go training” che richiedeva loro di rispondere con azioni motorie del braccio e della mano a delle immagini di cibo, ma di reprimere tali azioni relative all’afferrare nel momento in cui apparivano golosi e succulenti cibi non salutari.

Un’altra forma di training basata maggiormente su uno sforzo conscio di elaborazione cognitiva delle intenzioni e delle scelte e meno legato ad aspetti motori, chiedeva ai partecipanti di ripetere mentalmente alcune regole per evitare l’assunzione di cibi eccessivamente calorici – ad esempio: “quando aprirò il frigorifero penserò alla mia dieta”.

In generale, entrambi i training sembrano funzionare rispetto alle condizioni di controllo portando in media alla riduzione di un chilo del peso corporeo nelll’arco di quattro settimane.

Tuttavia, guardando ad alcune differenze individuali il training motorio Go/no-go training ha funzionato meglio per coloro che avevano indici di massa corporea più alti.

Anche se il risultato può sembrare modesto (1 kg in 4 settimane) in realtà lo studio evidenzia la possibilità di attuare training cognitivi con effetti misurabili nella quotidianità degli individui; dunque ulteriori ricerche sul tema sono attese sia in setting di laboratorio che maggiormente ecologici.

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La perdita di peso non aumenta l’autostima nelle ragazze adolescenti?

BIBLIOGRAFIA:

 

La manipolazione nelle Relazioni affettive: The Shape of Things (2003)

THE SHAPE OF THINGS – Recensione.

 

The Shape of Things, pièce teatrale dell’americano Neil LaBute rivisitata anche dal grande schermo, è un percorso di esplorazione sottile attraverso gli snodi della relazione manipolatoria.

Quando Adam, timido nerd che lavora come guardia in un museo, incontra Evelyn, affascinante studentessa d’arte alle prese con un tentativo di atto vandalico ai danni di una delle statue esposte, prende avvio un gioco a due che fin dal principio si delinea come inesorabile trasformazione del ragazzo, suggerita e condotta da Evelyn con una sequenza di interventi pianificati.

Perdere peso, modificare radicalmente il look, esercitarsi ad atteggiamenti più disinvolti diventano per Adam le tappe di un cammino che lo avvicina alla ragazza allontanandolo però in modo irreparabile dalla coppia di amici più cari, in procinto di sposarsi, che prima sembrano divertiti dalla metamorfosi ma ben presto si sentono disorientati di fronte a ciò che non riconoscono più come autentico. In un intreccio di tradimenti, rivelazioni, ribaltamenti di fronte, i quattro protagonisti si confrontano sulla differenza tra essere e apparire, sulla superficialità dei valori contemporanei, sulla possibilità di definire arte le espressioni creative del nostro tempo e con esse i messaggi spirituali ma più spesso materiali che il genere umano si adopera a veicolare con ogni mezzo a disposizione.

Evelyn è interessata unicamente al raggiungimento di un’estetica da esibire, da trattare come arte simbolica priva in realtà di un contenuto fruibile nella condivisione, e la coppia che viene a formarsi tra lei e Adam è il risultato di una manipolazione che individua i bisogni del ragazzo cogliendone la dimensione passiva, irrazionale, viscerale.

Adam chiede implicitamente di essere convertito a ciò che mancandogli lo fa sentire intimamente frustrato, e l’assenza di un’adeguata consapevolezza lo conduce a consegnare le proprie debolezze ad Evelyn, validandone le azioni.

Il cambiamento di forma, di stato, dalla coppia che non si scambia nulla di vero alla coesistenza di due individualità ognuna indifferente a se stessa e agli altri, è presto dato, raddoppiando nei termini quando anche la coppia di amici viene trascinata in un declivio dove le funzioni si frammischiano ai bisogni del momento, ai moti impulsivi mai afferrati pienamente.

The Shape of Things compone una visione disillusa delle relazioni e mette a nudo i processi anaffettivi con cui si instaura la manipolazione. Evelyn non concede valore all’identità di Adam, ne plasma una versione innaturale su cui proietta le proprie istanze narcisistiche, nella completa assenza di ogni riferimento empatico.

La dinamica sviluppa una progressione che appare inevitabile al protagonista e allo spettatore, certi entrambi che ciò che seguirà sarà la fisiologica e insieme amorfa decostruzione dei tratti iniziali. La forma delle cose può diventare assenza di forma, quando i significati si svuotano di categorie interiori plausibili e rispecchiano solo l’incapacità di strutturare una sostanza, un sentimento che accolga l’altro da sè non cedendo all’appetito di annullarlo.

 TRAILER:

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Il Tamponico (o Mammese): una strana lingua. (Bruno Osimo, Dizionario affettivo della lingua ebraica)

Nuove Frontiere nella cura del Trauma 2014 – Intervista a Giovanni Tagliavini

Reportage dal Congresso: NUOVE FRONTIERE NELLA CURA DEL TRAUMA
Venezia 30 Maggio-2 Giugno 2014

 

Si è conclusa lunedì la Terza Edizione del Corso Internazionale “Nuove frontiere nella cura del trauma”, svoltosi nella consueta e meravigliosa cornice veneziana dal 30 maggio al 2 giugno. Il coordinamento del corso è come sempre a cura dell’Associazione Culturale Area Trauma per l’area scientifica, con Giovanni Tagliavini e Benedetto Farina, e della S.P.A.D. – Scuola di Psicoterapia dell’Adolescenza a Indirizzo Psicodinamico di Roma, grazie all’attivo e centrale contributo di Eva Mazzotti.

Il tema di questa edizione ruota intorno all’importanza della diagnosi come aspetto centrale nella comprensione del funzionamento dissociativo.

Suzette Boon, esperta mondiale in questo campo, ha raccontato con dettaglio ed estrema chiarezza quali possono essere i confini esterni dei disturbi dissociativi e quali invece gli aspetti centrali da cogliere nel processo diagnostico, sottolineando i rischi di iper o ipo-inclusione delle situazioni cliniche in questa categoria di disturbi.

A seguire gli interventi di Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera, con la presentazione di casi clinici molto complessi, raccontati con estrema attenzione e con la sensibilità clinica e umana che le caratterizza. Centrale nel corso è stato poi il lavoro in piccoli gruppi, che ha permesso di sperimentarsi in prima persona e di “sentire” quali situazioni cliniche possono metterci “all’angolo” come terapeuti, con particolare attenzione al legame, forte nel lavoro con pazienti dissociativi, tra le emozioni del paziente e quelle del terapeuta.
Prima di presentare gli aspetti più importanti degli interventi nei prossimi contributi, lascerei alle parole del Dott. Tagliavini , “cuore pulsante” del corso, la descrizione delle scelte organizzative e scientifiche e soprattutto il legame importantissimo con il movimento europeo guidato dalla European Society for Trauma and Dissociation (ESTD).

Intervista con Giovanni Tagliavini

Tagliavini Giovanni - FOto
Dott. Giovanni Tagliavini, Psichiatra e Psicoterapeuta

SoM – Dove è nata l’idea di questa occasione di formazione ormai alla terza edizione?
GT – L’avventura di Venezia, iniziata nel 2012 con Bessel van der Kolk, è nata dal lavoro di traduzione del libro “Fantasmi del sé” di Onno van der Hart, perché questa è stata un’occasione per conoscere Gianni Liotti e lavorare con Benedetto Farina, con cui era già iniziata un’amicizia poi è cresciuta negli anni. Proprio da lì è nata l’esigenza di creare insieme occasioni di formazione e di crescita di un gruppo italiano sul tema del trauma e della dissociazione. L’entusiasmo era legato anche al fatto di conoscere persone interessanti, oltre che esperte, come Onno van der Hart, Besser van der Kolk, Janina Fisher, e quest’anno Suzette Boon, e anche altre che non sono ancora venute in Italia ma che verranno, tutte spinte dalla volontà di condividere con i colleghi italiani l’esperienza e anche l’entusiasmo su questi argomenti.

 

SoM – L’obiettivo principale che guida l’organizzazione e i contenuti del corso?
GT – Io mi sono già dedicato in precedenza alla formazione in ambito sanitario e avevo conosciuto l’Istituto Canossiano qui a Venezia come un luogo intimo e molto accogliente. L’idea che ci guida è di tenere alti standard formativi, cioè di non fare adunate oceaniche che possono avere un importante ruolo informativo, ma difficilmente formare alla clinica in modo specifico. Credo che per formare sia necessario puntare sulla creazione di un gruppo basato su conoscenze reciproche, sulla creazione di una rete e tenere il più possibile un profilo interattivo e non solo di lezione frontale. Già il gruppo in plenaria di 70-75 persone è abbastanza grande e proprio per questo motivo quest’anno abbiamo proposto l’idea di lavorare in piccoli gruppi. Speriamo per il futuro di avere delle nuove idee sia in termini di occasioni di formazione che in termini di creazione di gruppi locali. In tanti posti d’Italia si fanno ottime cose sul trauma complesso e sui disturbi dissociativi, ma sono sparse sul territorio e poco collegate tra loro.

 

SoM – Rispetto alla realtà italiana. esistono del centri già attivi e dove?
GT – Non c’è ancora niente di ufficiale, ma diciamo che ci sono ad oggi colleghi validi a Roma, a Bologna e Modena, a Milano e Varese, a Torino e poi c’è soprattutto l’idea di collegarci a livello europeo. Abbiamo in Italia tre referenti della Società Europea Trauma e Dissociazione (ESTD): Fabio Furlani è referente per i soci ESTD italiani del Nord, Maria Paola Boldrini è la referente per Emilia-Romagna e Centro e poi c’è Costanzo Frau che è referente per Sud e Isole. In più abbiamo Gaia Apolloni che ci aiuta nelle comunicazioni con l’estero e nelle attività di traduzione su strumenti clinici e diagnostici.

 

SoM – Come va avanti il lavoro con il gruppo europeo invece?
GT – Siamo legati e in continuo contatto con la ESTD, dove c’è un clima molto attivo, di scambio di idee e di progetti. C’è l’idea che si possa creare un gruppo di italiani, che si occupi sistematicamente di tradurre testi per fare cultura su questi temi, e che questa partecipazione renda il nostro gruppo sempre più visibile. Oggi abbiamo l’occasione di creare un movimento che riuscirà da subito ad essere a livello internazionale, senza dover passare tappe ulteriori di crescita e senza dover affrontare ad esempio la tragica polemica delle “false memorie” che hanno dovuto affrontare invece i colleghi americani. Il problema credo sia iniziare a lavorare bene sui disturbi dissociativi e subito, capendo potenzialità e limiti delle nostre conoscenze, ma anche considerando quello che si conosce già e di cui possiamo avvalerci ora. I dati raccolti in Europa dai colleghi olandesi, ci fanno pensare che sicuramente possiamo essere efficaci dal punto di vista diagnostico e terapeutico, e questo è entusiasmante. Non c’è più bisogno di fare le “lotte tra le parrocchie”. L’ambito del trauma complesso è un ambito dove si sta bene insieme e le persone che hanno orientamenti diversi, ispirazioni diverse, background diversi possono trovare qui un ambito di vera integrazione. Ognuno può dire e aggiungere qualcosa di interessante a questa cornice, che sia cognitivista, che sia psicodinamico o sistemico, che segua una terapia orientata al corpo.

 

SoM – Questo è bello e si respira sia nel clima di questo corso che nei contenuti. In questi giorni con Suzette Boon abbiamo imparato i rischi dell’iper-inclusione e la necessità di differenziare, piuttosto che ricondurre tutto alla “dissociazione”, solo perché oggi ci è comoda questa cornice teorica. Cosa spinge a tenere attivo il dibattito?
GT – Sono contento che si senta e che siamo riusciti a portarlo anche in Italia. Su questo tema penso innanzitutto che sia un dovere quello di delimitare meglio perché la dissociazione è di per sé un concetto che ha dei confini frastagliati e sfuggenti. Inoltre lo stesso concetto di trauma, anzi sarebbe meglio di dire di meccanismo di traumatizzazione, è bene tenerlo il più possibile chiaro, perché già solo se partiamo da dei concetti molto delimitati di trauma, traumatizzazione e disturbi dissociativi avremo molto da fare. Iniziando subito a considerare zone grigie e confini più labili, corriamo invece il rischio di confonderci e soprattutto di non essere efficaci.

 

SoM – Quali situazioni cliniche restano le più indicate a questa cornice teorica?
GT – Purtroppo c’è una fetta di persone che hanno subito e purtroppo subiranno in futuro situazioni di traumatizzazione grave, la cui risposta di sopravvivenza è la dissociazione, così come la risposta di danno è la dissociazione. Nell’esperienza del trauma c’è da un lato il danno, come ci dice Gianni Liotti, cioè il crollo delle capacità integrative e delle funzioni mentali fondamentali, ma dall’altro lato c’è anche la risposta al trauma in termini di capacità di sopravvivenza. La struttura dissociativa è insomma anche il segno che la persona è riuscita a sopravvivere a cose insopportabili. Se riusciamo a chiarire, sia a livello teorico che diagnostico, meglio il campo avremo molto lavoro e con mezzi già a nostra disposizione e di provata efficacia. Questo vuol dire la possibilità di “salvare la vita delle persone”, questo senza voler essere retorici.

 

SoM – Rispetto a questi mezzi, una parte interessante per il futuro è l’opera di traduzione che state facendo. Che strumenti sono disponibili e quali sono in programma per il futuro?
GT – Il percorso fatto insieme alla ESTD e iniziato con Onno van der Hart nel 2005, ci permette oggi di avere a disposizione in meno di 10 anni strumenti bibliografici importantissimi che prima non c’erano e che hanno contribuito a far crescere il movimento italiano che ruota intorno al trauma complesso e ai disturbi dissociativi. Penso anche al filone della terapia senso motoria e al libro di Pat Ogden tradotto in Italia o al recente testo di Boon, Steele e Van der Hart su “La dissociazione traumatica”. Il prossimo passo sarebbe di andare avanti nella traduzione anche delle scale diagnostiche, come quelle presentate da Suzette Boon, scegliendo tra quelle già in uso. L’idea è di decidere insieme agli esperti europei, che se ne occupano da più di 20 anni, quali siano gli strumenti migliori e più efficaci. Poi li traduciamo, li validiamo e iniziamo ad usarli. Magari nei prossimi anni potremo fare le nostre proposte, ma ora è necessario partire con quello che di efficace già c’è. L’ambito è complesso e c’è molta discussione in corso, ma riuscire a partire almeno dagli strumenti principali forniti da Van der Kolk, Janina Fisher, Suzette Boon e Kathy Steele – che sarà qui a Venezia l’anno prossimo – ci può dare una bussola e questo significa poter imprimere una direzione molto efficace a tutto il movimento italiano.

 

SoM – Che percentuale di pazienti potrebbe avvalersi di questi strumenti?
GT – A questo punto del percorso abbiamo bisogno soprattutto di diagnosticare bene, perché i pazienti dissociativi sono messi in tutte le categorie del mondo, tranne che in quella dei disturbi dissociativi. I pazienti dissociativi non sono tanti e non sono pochi, nel senso che le stime più severe e restrittive dicono che all’interno di una popolazione di pazienti acuti psichiatrici un 2% ha un disturbo dissociativo dell’identità (DDI) , cioè la forma più grave e rara di PTSD Complesso, e probabilmente un 5-6% ha un disturbo dissociativo NAS che include sintomi del PTSD Complesso e della dissociazione strutturale secondaria. Stiamo parlando in totale di un 8% dei pazienti e anche volendo considerare una statistica più restrittiva del 4-5% stiamo parlando di un numero rilevante: se pensiamo che un Centro di Salute Mentale segue in media circa 1000-1200 pazienti, significa che almeno 40-50 di loro ha un disturbo dissociativo complesso. Il dato importante è che questi disturbi, se trattati correttamente, hanno una buona prognosi in termini di reinserimento nel mondo del lavoro e gestione dei sintomi, che restano in parte lifetime, ma con una riduzione significativa degli accessi al servizio, dei ricoveri e dei tentativi di suicidio.

 

SoM – Come inserire nei nostri servizi di salute mentale pubblici un trattamento di questo tipo?
GT – Il buono del nostro sistema psichiatrico, cioè la psichiatria italiana dal ’78 ad oggi è proprio quello che servirebbe a questo tipo di pazienti: la presa in carico nel lungo periodo, l’individualizzazione del trattamento, evitare le ospedalizzazione e lo stigma. Quello che a mio parere serve è di pensare che non tutto possa essere “psichiatria generale”: dovremmo tenere la struttura dei servizi, la nostra filosofia di cura territoriale, che di per sé è molto sana, e pensare di creare una “psichiatria specialistica”, perché non è possibile pensare che uno psichiatra sappia curare tutto dalla schizofrenia ai disturbi affettivi, dai disturbi psicotici ai disturbi d’ansia. Bisogna suddividere la specificità e pensare che non è così insolito avere una specializzazione ulteriore e aprire degli ambulatori specializzati, come già succede in Olanda dove hanno ottenuto dei servizi territoriali in grado di seguire a lungo questi pazienti e che utilizzano la rete ospedaliera solo per le crisi acute. Affiancare un modello di questo tipo significherebbe anche formare sui temi dell’efficacia dei trattamenti e rivedere il percorso di cura dei cosiddetti pazienti “resistenti” al trattamento, con l’idea che forse si tratti di pazienti che semplicemente non hanno ricevuto il trattamento per loro più efficace.

 

SoM – Cosa può spingere i clinici ad appassionarsi al trauma complesso?
GT – Non credo che a tutti debba piacere il campo del trauma complesso, però se si è un po’ curiosi di solito si resta abbastanza affascinati. Ci sono state e ci saranno delle fasi di evoluzione dei modelli teorici, delle onde che non sono solo delle mode, ma piuttosto dei momenti in cui matura un certo discorso. Così come poteva essere maturo per gli anni ’80 studiare meglio i disturbi affettivi e tanti pazienti schizofrenici sono stati diagnosticati e curati meglio come bipolari, così come c’è stato poi un interesse importante a diagnosticare precocemente le psicosi non affettive, io direi che adesso è veramente il turno di riuscire a ragionare di trauma e di trauma complesso, come di una locomotiva che può guidare alla comprensione di un grosso campo psicopatologico.

 

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– FLASH NEWS-

Data la centralità di questi dispositivi tecnologici nelle nostre vite, i tentativi di studio scientifico degli effetti della tecnologia sulla nostra mente e sul nostro funzionamento cognitivo diventano rilevanti nella misura in cui possono diventare evidenze per orientare scelte più consapevoli.

Finora non è stato chiaramente dimostrato un chiaro legame tra l’intenso utilizzo di telefoni cellulari nell’adulto e possibili effetti nocivi in termini di funzionamento cognitivo, anche se i ricercatori si domandano se tale possibilità sia più accentuata nell’età dello sviluppo.

I ricercatori dell’Imperial College of London hanno lanciato un nuovo studio per i prossimi tre anni per indagare se l’uso dei telefoni cellulari ha un effetto nocivo e dannoso sul cervello degli adolescenti.

Si prevede che lo studio coinvolgerà circa 2.500 studenti inglesi di 11 e 12 anni: si valuteranno molti aspetti relativi all’uso di telefoni cellulari sia attraverso questionari self-reports sia attraverso dati oggettivi forniti dalle compagnie telefoniche.

In secondo luogo saranno valutate nei soggetti nel corso dei tre anni in diversi e specifici momenti temporali performances cognitive, di memoria e attenzione.

Una parte del campione verrà dotato di dispositivi in grado di registrare il livello di esposizione alle frequenze onde radio nel corso di 48 ore.

Data la centralità di questi dispositivi tecnologici nelle nostre vite, i tentativi di studio scientifico degli effetti della tecnologia sulla nostra mente e sul nostro funzionamento cognitivo diventano rilevanti nella misura in cui possono diventare evidenze per orientare scelte più consapevoli.

Rimaniamo in attesa per qualche anno della pubblicazione dei risultati di questo esteso progetto di ricerca.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Trattamento del Disturbo ossessivo-compulsivo: Citalopram vs EMDR

 

 

Lo studio mostra che entrambi gli interventi terapeutici (quello con il farmaco citalopram e quello con l’EMDR) sono in grado di migliorare i sintomi del DOC, e più nello specifico dimostra che l’EMDR risulta il metodo più efficace, rispetto al citalopram, per il miglioramento di tali sintomi.

In uno studio del 2011 vengono messe a confronto due tipologie di trattamento per il Disturbo Ossessivo-compulsivo (DOC): trattamento farmacologico con citalopram e EMDR. Entrambi migliorano i sintomi del DOC, ma tra i due l’EMDR risulta essere il trattamento maggiormente efficace.

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è uno disturbo d’ansia caratterizzato principalmente da pensieri, fantasie e comportamenti ripetitivi.

Evidenze scientifiche dimostrano che i segni e sintomi del DOC iniziano nell’infanzia nel 30-50% dei pazienti.  Anche se l’esatta eziologia del disturbo non è ancora stata compresa interamente, disfunzioni biologiche, genetiche, cognitive e comportamentali sono considerate i fattori più importanti.

Tra i metodi di trattamento abbiamo, in prima linea, l’utilizzo di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI, tra cui fluoxetine, fluovoxamine, paroxetine, certeraline e citalopram), e poi metodi di trattamento cognitivi o comportamentali.

Lo studio di Nazari del 2011 confronta l’efficacia dell’EMDR come metodo terapeutico con una terapia basata sull’utilizzo di citalopram.

La ricerca è stata effettuata inizialmente su 90 pazienti con diagnosi di DOC, assegnati in modo casuale ai due gruppi in cui venivano effettuati i due diversi trattamenti, per la durata di 12 settimane.

Successivamente 17 pazienti del gruppo citalopram e 13 pazienti del gruppo EMDR sono stati esclusi dall’analisi finale, poiché non hanno partecipato al follow-up. Al termine dello studio ciascuno dei due gruppi era quindi composto da 30 soggetti, per un totale di 60 pazienti.

All’inizio e alla fine del trattamento ai soggetti è stata somministrata la Y-BOCS (scala di valutazione delle ossessioni e delle compulsioni) e sono stati confrontati i risultati. Le medie alla Y-BOCS pre-trattamento erano 25.26 per il gruppo citalopram e 24.83 per il gruppo EMDR; mentre alla Y-BOCS post-trattamento erano rispettivamente 19.06 (citalopram) e 13.6 (EMDR).

Lo studio mostra che entrambi gli interventi terapeutici (quello con il farmaco citalopram e quello con l’EMDR) sono in grado di migliorare i sintomi del DOC, e più nello specifico dimostra che l’EMDR risulta il metodo più efficace, rispetto al citalopram, per il miglioramento di tali sintomi.

Il presente studio costituisce uno dei primi tentativi di confronto tra EMDR e SSRI nel DOC, quindi i risultati devono essere considerati con cautela in funzione anche di quegli elementi che l’autore stesso ha individuato come limiti del proprio lavoro (follow-up a breve termine, bassa dose di citalopram e nessuna registrazione degli effetti collaterali).

Per indagare gli effetti a lungo termine dell’EMDR nel DOC e generalizzare e confermare i risultati positivi trovati da Nazari e dalla sue equipe, sono necessari ulteriori studi clinici controllati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’arte di comunicare con gli altri e in terapia di Francesco Aquilar

 

 

Il libro Parlare per capirsi, scritto da Francesco Aquilar ed edito da Franco Angeli, apre una finestra sul mondo della comunicazione, arte quotidianamente utilizzata per poter interagire con l’altro in ogni ambito della vita.

Capita, spesso di non riuscire a comunicare sempre in maniera efficacie quello che si pensa, e questo porta a una  compromissione dei rapporti e delle relazioni, anche in ambito terapeutico.

Ed è proprio su come riuscire a comunicare in maniera efficace che si focalizza questo libro. Mira, infatti, a esplorare i diversi aspetti della comunicazione inter-personale e sociale non solo nelle diverse situazioni di vita, ma, anche, nella psicopatologia, con l’obiettivo di indicare le modalità che permettono di uscire da un empasse comunicativo.

Lo scopo, dunque, è quello di migliorare la qualità della vita migliorando la qualità della comunicazione.

Ognuno di noi comunica secondo una propria modalità che riflette, inevitabilmente il proprio modo di essere ed è figlia dell’ambiente nel quale si è vissuti. Questo perché la forma della comunicazione dipende dalle caratteristiche personologiche presentate, dal carattere che ognuno possiede e, di conseguenza, dal tipo di organizzazione di personalità mostrata. Quindi, è possibile identificare alcune forme di comunicazione efficaci e inefficaci tipiche di alcune strutture di personalità.

Individuare dei modelli comunicativi permetterebbe non solo di capire in che modo si affrontano le relazioni, ma anche, e soprattutto, quali conseguenze adducono.

Il libro si divide sostanzialmente in tre parti: una didattica, in cui si parla largamente delle difficoltà di comunicazione incontrate in una serie di situazioni significative, come la famiglia, il partner, gli amici, etc., una psicoterapeutica, in cui sono illustrate le modalità secondo cui è possibile implementare le abilità di comunicazione grazie ad una serie di tecniche riferitesi alla terapia cognitiva e cognitiva-sociale, e, infine, una scientifica, dove si fa riferimento alla letteratura, per capire cosa è più idoneo adottare nella comunicazione partendo dai dati empirici.

In generale, è possibile affermare che l’esperienza del comunicare permette di apprendere sempre cose nuove e innovative e questo è importante non solo nella relazione con gli altri, ma anche per incrementare il proprio dialogo interiore in maniera funzionale e non fallace.

Ma oltre al dialogo con gli altri esiste il dialogo interno. Come possiamo parlare con noi stessi per capirci? Come possiamo usare il nostro dialogo interiore per aumentare lo stato di benessere e le emozioni positive, distaccandoci dagli stati negativi?

La strada più semplice da adottare sembrerebbe quella dell’Auto-Osservazione Guidata che favorisce la consapevolizzazione dei propri pensieri, delle proprie emozioni, delle proprie azioni e delle proprie conclusioni e prospettive.

Ogni metodo di Auto-Osservazione Guidata, il più famoso è l’ABC proposto da Ellis,  consente di avere una maggiore coscienza del proprio modo di pensare e delle possibili conseguenze.

In questo libro la tecnica di auto-osservazione proposta dall’autore è identificata con l’acronimo SEMPRE, che renderebbe possibile aumentare le proprie capacità di auto-osservazione e di integrazione consapevole fra pensieri, emozioni e azioni.

Cosa significa SEMPRE?

S :Situazione, contesto, antefatto, premessa;

E :Emozioni, stati d’animo, stati corporei

M: Meta-emozioni: cosa ho provato per aver provato “E”

P:Pensieri, idee, immagini mentali

R:Risposta: Che cosa ho fatto io e che cosa hanno fatto gli altri;

E:Esito: Come è andata a finire e che ho imparato dall’evento

In sostanza questo schema permetterebbe di essere coscienti di cosa accade dentro di noi e consente, in questo modo, di essere guardinghi su cosa determina malessere e come poterlo affrontare in maniera funzionale. Insomma, mette ordine al dialogo interiore permettendo di individuare in maniera strutturata il problema, le conseguenze e le alternative che poi, una volta comprese, possono essere anche comunicate all’altro in maniera funzionale.

Per concludere, dopo aver capito cosa comunicare possiamo farlo in modo efficacie seguendo i suggerimenti riportati nel libro:

– stiamo attenti a noi stessi e agli altri per negoziare migliori soluzioni e goderci maggiormente la comunicazione e le relazioni;

– decentriamo e descriviamo con chiarezza il nostro punto di vista.

– legittimiamo e ridimensioniamo le emozioni e le opinioni degli altri

– prendiamoci cura psichica e fisica di noi stessi e degli altri

– ricordiamoci dei valori personali, che sono in una gerarchia diversa per ciascuno,

– evitiamo di ripetere le stesse cose per evitare circoli viziosi inutili, monotoni, ripetitivi, inefficaci

– sviluppiamo noi stessi tenendoci in esercizio mentale

– dividiamo la torta in parti uguali, ma non dimentichiamoci della nostra parte. legittimando una parte di sano egoismo.

– dedichiamo tempo a situazioni che ci portino gioia procedendo verso i propri obiettivi realizzabili.

– lasciamo liberi noi stessi e gli altri non cercando di organizzare gli altri secondo i propri schemi mentali

– incrementiamo la creatività dedicando un po’ di tempo e di attenzione a cose che piaccino

–  esercitiamo la memoria  non solo su cose e episodi negativi, ma anche di quelli positivi.

La speranza è che, imparando a comunicare meglio, ognuno di noi possa non solo tollerare, ma anche amare e apprezzare la diversità da sé, e concepirla e viverla come ricchezza e anche come straordinario antidoto alla solitudine e alla noia esistenziale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Aquilar, F. (2013). Parlare per Capirsi. Strumenti di psicoterapia cognitiva per una comunicazione funzionale. Franco Angeli Editore.  ACQUISTA ONLINE
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