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La supervisione in psicoterapia: il modello americano di supervisione clinica e la realtà europea

La supervisione in psicoterapia: il modello americano, focalizzato sui processi e le esperienze europee. Supervisione clinica e contratto di supervisione 

Di Sandra Sassaroli

Pubblicato il 02 Lug. 2014

Aggiornato il 21 Lug. 2017 14:00

La supervisione clinica in psicoterapia

La carriera del supervisor è molto strutturata negli Stati Uniti e serve per codificare in modo oggettivo la maturazione degli psicoterapeuti, degli psicologi, dei consulenti e degli assistenti sociali, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dal punto di vista della correttezza dell’assetto con il paziente: correttezza nel rispetto del setting, ma anche dei confini, delle emozioni proprie e del paziente.

New York (11-13 giugno 2014) e Copenaghen (25-28 giugno 2014)

Sono stata tre giorni negli Stati Uniti, dall’11 al 13 giugno, perché incuriosita dal titolo di una conferenza : X Conferenza Internazionale sulla Supervisione Clinica (10th International Conference on Clinical Supervision). Negli Stati Uniti questa conferenza è la più conosciuta per quanto riguarda la supervisione in psicoterapia. Quest’anno si è tenuta in una bellissima università privata: Adelphi University, a 50 minuti da Penn Station, nello stato di New York, a Garden City.

Cosa mi ha spinto a fare questo breve viaggio americano? Forse una sensazione che noi in Italia non abbiamo una tradizione di supervisione strutturata per le scuole di psicoterapia e in generale per gli interventi psicologici. Intendiamoci: so bene che la supervisione è contemplata e obbligatoria nelle scuole di formazione alla psicoterapia. Spesso tuttavia ho avuto la sensazione che essa non sia ben formalizzata e dipenda troppo dai modi e dai gusti dei singoli didatti e dai problemi teorici dell’aderenza al modello clinico.

Negli anni sempre più ricevo richieste di fare supervisione alla psicoterapia, sia nelle scuole di psicoterapia che in strutture pubbliche o private. Perché ricevo queste chiamate? In realtà il mio mestiere è quello dello psicoterapeuta, non precisamente del supervisore. Credo che dietro ci sia un’inferenza: un buon (o decente) psicoterapeuta è anche un buon (o decente) supervisore in psicoterapia. Ma non è affatto detto, anzi è una inferenza per nulla dimostrata. E le variabili che misurano l’efficacia della supervisione clinica mi sembrano, al meglio, primitive e poco scientificamente orientate.

Arrivata al congresso, la prima sensazione che ho avuto è stata di spaesamento. Molti assistenti sociali, councelor, qualche psicologo clinico, molto poco specializzati dal punto di vista psicoterapeutico, molto specializzati come supervisori clinici. Questo mi confermava che forse terapeuta e supervisore non sono due mestieri necessariamente sovrapposti.

 

La supervisione clinica: l’esempio degli Stati Uniti

La carriera del supervisor è molto strutturata negli Stati Uniti e serve per codificare in modo oggettivo la maturazione dei terapeuti, degli psicologi, dei consulenti e degli assistenti sociali, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dal punto di vista della correttezza dell’assetto con il paziente: correttezza nel rispetto del setting, ma anche dei confini, delle emozioni proprie e del paziente.

Lo spaesamento derivava anche dalla strutturazione dei corsi didattici americani, che in area socio-psicologica è completamente diversa dalla nostra. Molto probabilmente in soli tre giorni non ho avuto un quadro non del tutto preciso.

Negli Stati Uniti esistono tre carriere che permettono di diventare supervisore: psicologo clinico, (che si conclude con un master o un PhD senza il quale non si può fare clinica), psicologo counselor (che si conclude anch’essa con un PhD, come meta finale) e counselor senza altre specificazioni (anch’essa concludibile con un master o un PhD). Tuttavia, delle tre solo l’ultima prevede un corso di supervisione formalizzato nel percorso. Insomma, dopo i 4 anni di bachelor è possibile fare un master di 2 anni e un PhD di 5/6 anni che dirige verso una carriera da clinici, da educatori, o da assistenti sociali. E i supervisori sono esclusivamente reperibili tra coloro che hanno fatto un master e un PhD.

La supervisione clinica è un’attività molto strutturata e insegnata nelle Università, ma ciò che ho compreso è che essa non riguarda solo la supervisione in psicoterapia ma vigila su tutte le professioni psicologiche, sociali, etiche e di capacità di gestione degli incontri individuali e gruppali.

Diciamolo da psicoterapeuti: la supervisione, almeno quella che ho visto a questo congresso vigila sui fattori aspecifici (congresso che mi è parso dominato da relazionalisti mithcelliani; è possibilissimo che esistano altri mondi del tutto differenti che danno più importanza alla supervisione tecnica).

Un punto interessante è che la ricerca su questo tipo di supervisione relazionale è molto agli inizi. C’è qualche dato sulla soddisfazione dei clienti che aumenta di fronte a clinici ben supervisionati (cosiddetti supervisee), c’è qualche dato sulla soddisfazione dei supervisee, ma non ci sono dati sulla autentica efficacia della supervisione sull’aumento di benessere dei pazienti, o sulla riduzione sintomatica.

 

Supervisione clinica: le tre variabili da mettere a fuoco

Riassumendo, abbiamo tre elementi: il supervisore, il supervisee e il paziente. L’insieme di queste tre variabili è complesso e non facile da mettere a fuoco. Ascoltando le relazioni ho avuto la sensazione che neanche per i ricercatori la messa a punto del focus della ricerca sia metodologicamente facile. È un mondo che sta cominciando ora a fare i primi passi.

La sensazione è che in questo mondo prevalgano le figure rispettate ed esperte di gestione dei gruppi, e capaci di fare coaching. Figure che sono però un po’ come i clinici famosi che hanno quel tocco indicibile, basato più su esperienza non esplicitata che sulla scienza, esperienza sulla quale poi la ricerca fa fatica a procedere.

 

Perché la riflessione sulla supervisione agli psicoterapeuti è cosi relativamente agli inizi?

Perché finora la supervisione clinica era condotta perseguendo l’aderenza corretta a un modello. La domanda era: quanto quello che il supervisionato fa è coerente con il modello che gli sto insegnando? Inoltre non era ben chiaro come era costruita quest’aderenza, essendo le procedure poco formalizzate.

Questa portava al rischio dell’auto-conferma. In realtà uno psicoterapeuta può conoscere e applicare in maniera corretta un modello, trovando poi grandi difficoltà nel fare i conti con il paziente e nel gestire la relazione con lui.

Per reazione si è sviluppato, specie in California, un movimento che spinge una supervisione autoriflessiva, movimento che sta andando per la maggiore adesso e che si muove nella direzione verso la messa a fuoco di elementi che non si limitino a promuovere l’aderenza corretta a un modello. E quali sono questi elementi? Ed è possibile misurarli?

Shulman, un supervisore molto conosciuto, nella sua giornata pre-congresso ha molto spinto sull’articolare la supervisione in psicoterapia in 4 punti:

  • fase preliminare,
  • fase iniziale della relazione di supervisione,
  • parte centrale
  • conclusione.

Quello che è interessante dal mio punto di vista di direttore di una scuola di psicoterapia è che per ognuna di queste fasi è possibile prevedere delle difficoltà negli allievi. Ad esempio, nella fase preliminare, fase importante per l’affiatamento (attunement) iniziale, si va a vedere se ci sono, in un gruppo di psicoterapeuti in formazione, alcune persone che non sono affatto pronte e mettersi in discussione e a mettere in discussione il proprio problema. Queste persone vanno aiutate ad accettare una posizione supervisionabile. Questo stadio ricalca la posizione di pre-contemplazione nello schema di Prochaska e Diclemente.

Come sappiamo, la ricerca di Prochaska e Diclemente ci ha dimostrato che non è affatto vero che un paziente sia arrivato davanti ad un clinico davvero intenzionato a iniziare la psicoterapia. Lo dimostrarono soprattutto per i pazienti tossicodipendenti, ma il loro modello può essere applicato anche ad altre popolazioni cliniche. Dobbiamo chiederci se questo schema non sia applicabile anche alle supervisioni in psicoterapia.

Nelle supervisioni con i nostri allievi terapeuti, quanto siamo capaci di aiutarli ad assumere la posizione emotiva e ricettiva nella quale è possibile mettersi in discussione, ad esempio sulle proprie barriere nei confronti del paziente? Quanto siamo consapevoli delle loro emozioni, delle loro credenze quando lavoriamo insieme sulla supervisione clinica? Ho in mente alcuni esempi di allievi che hanno attraversato la nostra scuola, nonostante tutti gli sforzi profusi, mettendosi pochissimo in discussione, e nascondendosi quando possibile dietro alle proprie difficoltà personali, mai veramente esplicitate.

 

Contenuto e processo nella supervisione in psicoterapia

Nella conferenza era molto esplicita la distinzione nella tra contenuto e processo supervisione. La parte della supervisione focalizzata sul contenuto (come funziona questo paziente, che problemi ha?) attiene ad aderenza, competenza e osservanza delle regole di una certa teoria clinica, mentre la supervisione focalizzata al processo si occupa dei fattori aspecifici, della relazione tra supervisee e suo paziente (come sto con lui, cosa sto facendo con lui di buono o problematico? Perché sto portando il caso e chiedendo aiuto? Qual è il disagio che ho avuto nelle ultime sedute?) e su come il supervisionato sa rapportarsi con il supervisore (quanto accetto di essere messo in discussione? Quanto accetto che il mio supervisore mi suggerisca che quell’atto clinico, quelle emozioni con un certo paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare, come sto in una relazione in cui qualcuno che fa da educatore, fa le pulci al mio operato? Che emozioni ho?).

Come si vede il processo non è solo a un livello (tra supervisee e paziente) ma a due livelli (tra supervisee e suo supervisore). Questi livelli richiedono la capacità di stanare il terapista in supervisione anche a partire da segnali impliciti o emotivi. Ad esempio, come il supervisee ti guarda o non ti guarda in modo diretto, come diventa vago, distoglie l’attenzione o parla d’altro. Oppure come riconoscere in lui una emozione che sta cercando di nascondere.

Queste capacità, lo confesso, sembrano capacità cliniche che il supervisore della psicoterapia è costretto a usare senza un contratto clinico. Il campo è veramente complesso. Per mia esperienza, a meno che non mi trovi davanti ad allievi alle prime armi, la richiesta di supervisione ha in sè problemi di tipo relazionale con il paziente, e questa è un’area transteorica.

 

La supervisione clinica nella SPR

Un altro ambiente che da grande importanza a questi temi è la SPR (Society for Psychotherapy Research). Anche questa società ha appena celebrato il suo congresso internazionale (a Copenaghen, 25-28 giugno 2014). Tanto per non farmi mancare nulla sono andata anche a questo congresso e di nuovo, nei simposi che ho seguito attinenti alla supervisione clinica, molta attenzione era concentrata sugli aspetti relazionali e emotivi del supervisore e del supervisee.

Poi ci sono altri problemi attinenti al ruolo, al riconoscimento del ruolo del supervisore verso i supervisionati. Un conto è una supervisione che un didatta fa a un suo allievo in una scuola di terapia, altro è l’arrivo di un supervisore esterno, per qualche incontro che è proposto e talvolta imposto da un ambiente esterno.

Recentemente mi è capitato di fare una supervisione clinica in un contesto in cui ero estranea, ed è stato abbastanza difficile all’inizio trovare un mio ruolo e delle regole condivise. Non dimentichiamoci che la supervisione in psicoterapia, se non è ben organizzata, se le regole non sono chiare, rischia di essere compiuta al buio, senza avere una idea chiara delle variabili complesse che vi sono in gioco: istituzionali, sociali, psicopatologiche e mediche.

 

Contratto di supervisione in psicoterapia e modalità di lavoro

Un altro punto importante che emerge in molte discussioni del congresso e che a me è parso molto interessante è la necessità che vi sia un esplicito contratto di supervisione tra supervisore e supervisionato. Nel contratto ci si accorda su cosa ci si aspetta uno dall’altro, le cose che si è disposti a fare insieme, si stabiliscono formalmente modi e regole degli incontri. La formalizzazione estrema del processo di supervisione psicoterapica è un bene e protegge il supervisore, il supervisee e il paziente.

Ad esempio è considerato non corretto fare supervisione senza registrazione audio delle sedute. Anzi la supervisione così come emerge nei video che sono stati proiettati al congresso è molto mirata all’incontro tra supervisee e supervisore, ascoltando la seduta e vedendo quali emozioni e quali movimenti emotivi emergono durante quell’incontro. Troppe volte noi siamo costretti a fare supervisioni dei racconti indiretti dei nostri allievi, racconti che rischiano di portare un bias nella lettura e che rende il quadro difficilmente interpretabile.

Insomma negli States la supervisione è un lungo e formalizzato processo di apprendimento, focalizzato sugli aspetti di processo. Se poi un supervisore clinico incontra un problema di contenuto, può riferirsi alla sua specifica formazione psicoterapeutica, ma condivide soprattutto un’attenzione sulla relazione nella supervisione. Insomma l’aderenza a un modello terapeutico è un aspetto collaterale della sensibilità ai processi.

Tutto questo ha stimolato la mia curiosità. D’altro canto non posso non vedere i limiti di questo modo di ragionare, il suo scarso interesse per la ricerca. Insomma un mondo nuovo, scientificamente tutto da costruire, ma pieno di stimoli per chi come me, si occupa di una scuola di psicoterapia.

 

STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA SUPERVISIONE IN PSICOTERAPIA:

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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