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Lo Stigma basato sul peso: nemico più che alleato

La visione negativa dell’obesità è resa evidente da numerosi stereotipi negativi che descrivono le persone obese, per esempio, come pigre, goffe, poco disciplinate e senza forza di volontà.

Nonostante la comunità scientifica la riconosca come malattia cronica e multifattoriale, l’obesità è spesso vista come una colpa della persona. 

Questa visione negativa dell’obesità è resa evidente da numerosi stereotipi negativi che descrivono le persone obese, per esempio, come pigre, goffe, poco disciplinate e senza forza di volontà.

La ricerca, soprattutto Americana, ha evidenziato come le persone obese possono incontrare ostacoli nella vita di tutti i giorni a causa del loro peso.

Gli ostacoli possono andare dalle prese in giro fino a veri e propri episodi di discriminazione come, per esempio, mancate assunzioni, atti di bullismo, esclusioni sociali e trattamento irrispettoso da parte del personale sanitario.

Nonostante la ricerca abbia evidenziato le ricadute sull’individuo a livello psicologico, sociale e fisico a causa dello stigma sul peso è ancora diffusa la credenza che questo possa motivare le persone a perdere peso.

La realtà però è proprio l’opposto come dimostrato da uno studio da pochi giorni pubblicato sulla rivista Obesity.

Lo studio condotto nel Regno Unito su circa 3000 soggetti sopra i 50 anni di età mostra come l’avere subito subito questo tipo di discriminazione sia correlato a un aumento ponderale rispetto a chi non l’ha subito.

Le conclusioni del team Londinese confermano la pericolosità dello stigma basato sul peso e correlazione con il rischio di peggiorare nel tempo la condizione di obesità stessa.

I risultati confermano quelli di altri lavori pubblicati su questo tema negli ultimi anni e sono ben sintetizzati da uno degli autori, Jane Wardle, quando dice:

La discriminazione basata sul peso è parte del problema obesità e non la sua soluzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il modello LIBET – Definizione Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 Il termine LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) fa riferimento a un modello di concettualizzazione del caso clinico adottato in ambito cognitivo esistenziale (Sassaroli, 2013).

Tale concettualizzazione si basa sulla nozione di tema di vita, che consiste in un insieme di esperienze dolorose di mancato soddisfacimento di bisogni emotivi e relazionali, e di credenze distorte ricorrenti nella storia individuale: esso può essere definito altresì come il luogo mentale intollerabile o LMI, ovvero uno spazio psichico nel quale la persona sperimenta stati di sofferenza soggettiva, gestita attraverso una serie di strategie più o meno adattive e funzionali.

A differenza dell’approccio cognitivo standard, nella LIBET viene approfondita l’evoluzione del LMI all’interno della storia di vita individuale, considerando altresì l’influenza di figure significative e di accudimento. In altre parole si sottolinea il collegamento tra esperienze deficitarie passate e sofferenze e difficoltà di padroneggiamento di stati mentali dolorosi attuali.

Le strategie utilizzate per gestire il LMI vengono denominate piani di vita, e a livello patologico possono suddividersi in tre principali categorie:

evitamento: la persona si mantiene distante da situazioni e circostanze collegate al tema di vita doloroso;

-controllo: la persona monitora  costantemente determinati parametri di sè o dell’ambiente;

-ipercompensazione: la persona pone in atto condotte autolesive, di sopraffazione e ricerca intensità emozionale;

 

Questi sono caratterizzati da inflessibilità, monodimensionalità e pervasività, e risultano semi-adattivi, in quanto efficaci a breve termine nella gestione del LMI ma potenzialmente deleteri sul medio-lungo periodo. Il prolungamento di questi piani, dunque, può esporre la persona a diversi momenti di scompenso, anche sotto forma di sintomatologia clinica (es. umore depresso) e a un contatto doloroso con i propri temi di vita.

Questi momenti di crisi del sistema psichico possono tuttavia favorire l’emergere di una motivazione intrinseca orientata al cambiamento e la disponibilità a cominciare un percorso terapeutico, orientato tanto ad assumere piani di vita maggiormente adattivi e flessibili, quanto ad aumentare progressivamente il livello di tolleranza e accettazione del tema di vita doloroso.

 

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Il modello LIBET in psicoterapia: Presentazione al Congresso APA 2014 – Washington DC

 

BIBLIOGRAFIA:

  •  Ruggiero, G.M., Sassaroli, S. (2013). Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Milano: Raffaello Cortina Editore.  ACQUISTA ONLINE

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Di cattivo umore? Tutti su Facebook a cercare chi sta peggio

FLASH NEWS

“Una delle grandi attrattive dei social network è che permettono alle persone di gestire il proprio umore scegliendo cosa guardare e con chi paragonarsi”. È quanto sostiene l’autore di un recente studio della Università Statale dell’Ohio. 

Generalmente le persone usano i social media per connettersi con chi appare positivo e di successo (o quanto meno orientato al successo), ma quando l’umore peggiora la tendenza sembra cambiare e l’interesse si sposta verso chi è meno attraente e meno “vincente”, come per evitare paragoni svantaggiosi e tutelare la propria autostima.

Per questa ricerca sono stati coinvolti 168 studenti di un college, dopo un compito preliminare per il quale ricevevano in maniera del tutto casuale un giudizio gratificante o denigrante (per suscitare umore positivo o negativo), è stato chiesto loro di valutare un nuovo sito chiamato “SocialLink” che presentava i profili di 8 individui volutamente creati per sembrare in parte attraenti e di successo, in parte invece l’opposto.

 

I risultati confermano l’ipotesi iniziale: i partecipanti di buon umore hanno passato più tempo sui profili positivi, mentre chi era di cattivo umore ha preferito i profili più negativi.

D’altronde, come dice Knobloch-Westerwick:  “Se si ha bisogno di una botta di autostima, si cerca chi sta peggio. Non si va certo a guardare chi ha appena avuto un nuovo fantastico lavoro o si è appena sposato.”

Gli stati e gli aggiornamenti positivi altrui possono far sentire inadeguati, forse anche per questo chi spende molto tempo su Facebook sembra essere più frustrato, arrabbiato e solo. Il segreto dunque non è evitare del tutto i social network ma solo scegliere quando e come usarli.

In fondo, la vita è una questione di percezione: basta sapere cosa guardare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Processi psicopatologici ed interventi di distanza critica nelle prospettive ACT, REBT, MCT e MTI – Congresso SITCC 2014

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Il simposio che ha visto confrontarsi i modelli ACT (Hayes, 2004), REBT (Albert Ellis, 1962; 2005), MCT (Adrian Wells, 2010) e TMI (Dimaggio, Popolo e Salvatore, 2012) è stato probabilmente uno dei più attesi del congresso SITCC 2014.

Già due anni fa Gabriele Caselli e Giancarlo Dimaggio si erano “sfidati” in un appassionante dibattito sulla Metacognizione e chi fu presente allora attendeva da tempo con grande curiosità il secondo round.

L’attesa non è stata vana, la SITCC 2014 ci ha regalato un altro vivace incontro a cui hanno dato il loro contributo anche Luca Calzolari e Giovanni Ruggiero, alimentando un dibattito attorno ai 4 modelli che già in passato sulle pagine di State of Mind ha infiammato più di una discussione. Vi riportiamo qui di seguito il simposio per intero, una interessante ed utile lezione che confronta tra di loro alcuni dei modelli più significativi all’interno del panorama cognitivista.

Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

Luca Calzolari apre il simposio con un intervento sull’ACT che ha l’obiettivo di individuare, attraverso una lettura critica, quelli che sono i punti di incontro tra i vari modelli; nello specifico si propone di discutere il processo di fusione e quello di evitamento esperenziale nelle sue somiglianze e differenze con gli altri modelli.

L’ACT viene collocata all’interno della Terza Ondata del Cognitivismo ed è caratterizzata da:

– Focus sui processi con interventi terapeutici più esperienziali

– Decentramento cognitivo, cioè promozione di un punto di osservazione rispetto ai propri stati mentali (quindi promuovere un aspetto più metacognitivo)

– Flessibilità, cioè aumento del repertorio comportamentale

– Regolazione degli stati mentali

Per comprendere l’ACT è opportuno partire dalla concettualizzazione che questo modello fa della psicopatologia, distinguendo tra dolore pulito (che non può non essere esperito in relazione ad una data esperienza) e dolore sporco (quello prodotto dalla mente che tenta di combattere ed eliminare una normale reazione emotiva di sofferenza); quest’ultimo è ciò che si intende per psicopatologia.

Diventano pertanto centrali nell’ACT le strategie che il soggetto mette in atto per eliminare, controllare o combattere la propria sofferenza, perdendo di vista in questo modo i propri obiettivi fondamentali di vita. L’ACT riprende aspetti della seconda ondata del cognitivismo, ma li concettualizza e ci lavora sopra con tematiche differenti.

Per capire in che modo, è necessario comprendere il contesto in cui nasce: l’ACT si rifa alla Relational Frame Theory, prospettiva secondo cui il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di cornici, frame, relazionali e non per esperienza diretta). Proprio in base a tale paradigma teorico l’obiettivo che l’ACT si pone è indebolire la tendenza alla concettualizzazione verbale costruendo col soggetto accessi diretti all’esperienza. Ecco quindi che acquisiscono importanza e senso le tecniche focalizzate sull’accettazione e la defusione, mentre la messa in discussione delle credenze (Disputing) non porterebbe altro se non ad un mantenimento della stessa cornice relazionale, dello stesso circuito psicopatologico.

Il modello Hexaflex (Hayes et Al., 2006) concettualizza la psicopatologia secondo l’ACT. 

 ACT-Hexaflex Come si può notare dallo schema riportato, i processi sono tra loro interconnessi e si dividono in due macroaree: un’area riguarda modifiche più comportamentali, l’altra riguarda i processi di accettazione e defusione (es. contatto con il momento presente) che, qualora fossero deficitari, vengono approcciati con tecniche di tipo esperienziale (es. Mindfulness).

 

Sebbene venga concettualizzata in maniera differente – afferma Calzolari – l’ACT ha dei punti di contatto con la TMI proprio nei concetti di valori (promozione delle parti sane di sé) e defusione, che nel modello TMI vengono concettualizzati rispettivamente come agency e differenziazione e che ne rappresentano due pilastri.

Più nello specifico, da una parte nell’ACT è centrale la promozione della flessibilità psicologica, cioè della capacità di stare in contatto con il momento presente, di generare varie risposte ad un problema, desistendo se inefficace, ma anche di persistere in comportamenti orientati dai propri valori (Hayes et Al., 2006); lo scopo è disincastrare il soggetto dai comportamenti che lo bloccano dal mettere in atto comportamenti funzionali ad arricchire la sua vita (i suoi valori), ponendo l’attenzione sull’agire.

Dall’altra parte gioca un ruolo importante la defusione, esatto opposto di una strategia di controllo, che anziché cercare di modificare o eliminare i pensieri spinge ad accettarli per quello che sono, cioè “Frasi che ti passano per la mente” (Harris, 2010); il focus è sulla presa di distanza dai propri contenuti mentali, in altre parole stimolare il decentramento cognitivo attraverso una domanda che richiama molto il disputing di Ellis: “Se tu permetti a questo tuo pensiero di guidare il tuo comportamento, da un punto di vista meramente pragmatico questo ti aiuterà a creare una vita ricca e significativa?”

Calzolari conclude il suo intervento ponendo le seguenti domande:

1. In riferimento alla REBT, come si può integrare il disputing con l’ACT? La REBT può essere vista come un precursore dell’ACT?

2. In riferimento alla MCT, gli interventi di processo di Wells in cosa differiscono dalla defusione?

3. In riferimento alla TMI, quali sono le differenze tra defusione e differenziazione?

Rational Emotive Behavioral Therapy (REBT)

Il secondo intervento vede protagonista Giovanni Maria Ruggiero. All’interno della Seconda Ondata del Cognitivismo la REBT è sempre stata accomunata alla CBT di Beck, ma in realtà i due modelli presentano grandi differenze. Di fronte ad un pensiero negativo il terapeuta CBT lavora sulla catena di inferenze che giustificano quel pensiero al fine di arrivare a concludere che la catena è logicamente debole e il pensiero non corrisponde alla realtà.

Nella REBT invece la patologia non dipende da catene di inferenze, così come la terapia non dipende dalla loro confutazione a colpi di contro-inferenze alla Beck, ma da singoli atti mentali valutativi di cui siamo sempre potenzialmente padroni. Consideriamo lo strumento principe della terapia cognitiva, l’ABC.

Nel modello REBT l’evento attivante (A) è già e sempre il pensiero anche nell’ABC primario ed è rappresentato dalla catena di pensieri (inferenze) che pensiamo nella situazione e che non hanno una funzione patologica. Tale catena culmina con valutazioni finali patologizzanti (evaluation) che costituiscono i B patologici: la terribilizzazione (“…e tutto questo è terribile!”), la doverizzazione (“…e questo non deve / deve essere così”), l’intolleranza alla frustrazione (“…e questo non lo tollero”) e l’autodenigrazione (“…e sono una merda”); essendo pensieri di pensieri le evaluation possono essere considerate metacognizione.

Se quindi la patologia dipende dalla valutazione patologica delle inferenze, e in quanto atto mentale valutativo non ha valore assoluto ma è una discutibile inferenza, appare chiaro come ad ogni inferenza che il paziente produce allo scopo di sostenere e giustificare le proprie inferenze la concezione più pura del Disputing preveda un semplice e continuo “E chi l’ha detto che è così?”, seguita da un significativo silenzio che nel migliore dei casi – sottolinea Ruggiero – esprime esperienzialmente tutta la futilità delle catene di inferenze e la possibilità reale di semplicemente mollare quelle valutazioni in quel momento (Doyle, Digiuseppe, Dryden, Beck 2014. p. 272).

In base alle considerazioni effettuate, i principi pratici che guidano la pratica clinica REBT sono quindi maggiormente spiegabili in termini metacognitivi più che cognitivi, ponendo la REBT tra i precursori della Terza Ondata Cognitivista.

Metacognitive Therapy (MCT)

Gabriele Caselli esordisce riprendendo la concettualizzazione della distanza critica nei modelli ACT e TMI. L’ACT promuove l’idea di accettazione: “Di fronte al pensiero, permettigli di essere lì. Apriti e dagli spazio, dagli il permesso di essere dov’è, smetti di combatterci, dagli un po’ di spazio e respiraci dentro.”. Lasciare che il pensiero scorra e anzi, assumere un atteggiamento di fronte a questo pensiero in qualche misura accogliente. Ma non vi è forse il rischio – si interroga Caselli – che in questo modo si mantenga l’attenzione sul pensiero negativo? 

La TMI invece promuove una buona mastery mentalistica e sembra cercare di raggiungere l’obiettivo di distanza critica attraverso uno sforzo di corretta comprensione e previsione. L’idea sembra essere quella di diventare un corretto conoscitore, revisore, di quello che è il proprio stato mentale e delle sue origini, e conseguentemente della mente altrui, inserendo sia elementi di autoriflessività e di comprensione della mente sia di mastery.

La MCT taglia l’aspetto contenutistico: “Ho un pensiero (e i pensieri non sono fatti -> conoscenza metacognitiva), lo lascio lì e passo ad altro”.

 

Se i tre modelli condividono il tentativo di defusione, l’MCT ha lo scopo di arrivarci nel modo più diretto possibile e “crudo” nel ridurre qualsiasi forma di concettualizzazione. E questo è forse l’aspetto che la distanzia più di tutti dalla TMI.

Ma attenzione, ciò non significa che la MCT spinga a cercare di sopprimere oppure eliminare il pensiero o la sensazione negativa, bensì spinge affinché venga lasciato da parte: sento una serie di stimoli nell’ambiente, porto la mia attenzione sul mondo esterno e non su di me, bensì su ciò che è conforme ai miei obiettivi, su ciò che sto cercando, e non su ciò che mi minaccia o da cui sto fuggendo o che miro a controllare.

Come raggiungere questo obiettivo? La MCT è caratterizzata da una sequenzialità circolare continua e molto insistente di intervento verbale dialettico e intervento esperienziale; all’interno di una seduta vengono fatti diversi interventi di Detachment Mindfulness della lunghezza non superiore ai 3-4 minuti accompagnati da momenti di debriefing. Gli interventi verbali servono per rafforzare le conoscenze, gli interventi esperienziali per trasformare la teoria in qualche cosa che sia vicino alla vita del paziente. 

Gabrielle Caselli chiude l’intervento con un esempio che secondo lui indica perfettamente cosa sia il tipo di approccio e di modalità metacognitiva alla Wells. “Per recuperare questo esempio – sottolinea Caselli sorridendo – mi sono rifatto ad uno dei più grandi psicoterapeuti che abbiamo oggi in Italia… che è Giancarlo Dimaggio”. [Risate divertite tra il pubblico in attesa della prima stoccata tra i due storici duellanti]. In un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera – continua Caselli – Dimaggio racconta di essere stato ad un congresso in cui gli hanno presentato un caso on line:

[blockquote style=”1″]I miei neuroni-specchio impazziscono. Immedesimarmi in inglese con una donna norvegese è tremendamente difficile, chiedo aiuto agli amici, ai padri fondatori e, in ultimo, a Finn. Nessuno di loro è lì a coprirmi le spalle. Mi batte il cuore. La donna non se ne accorge, credo. [/blockquote]

Fino a qui, commenta Caselli, siamo in modalità ansiosa: parte una preoccupazione, l’attenzione è focalizzata sull’ansia, sull’agitazione. Il soggetto cerca rassicurazione nelle persone vicino. Ad un certo punto, però, semplicemente smette, non fa alcuna forma di autoriflessione, ma:

[blockquote style=”1″]Mi riprendo, divento lei, la seduta va alla grande, chiusura commovente.[/blockquote]

Giancarlo Dimaggio, Socio fondatore del centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, ha servito su un piatto d’argento a Gabriele Caselli un perfetto esempio di MCT: ho una preoccupazione, la lascio lì, guardo altro (Wells, 2008). Touché?

Terapia Metacogntiva Interpersonale (TMI)

Il simposio si chiude con l’intervento di Giancarlo Dimaggio che raccoglie divertito il testimone passatogli da Caselli. La Terapia Metacognitiva Interpersonale vede principalmente come target i pazienti con Disturbi di Personalità. Uno dei momenti centrali della terapia cognitiva è quando il paziente smette di trattare i suoi pensieri come un fatto di realtà. Le due colonne portanti del cambiamento terapeutico in TMI sono la ricostruzione assieme al paziente dello schema interpersonale disfunzionale e la promozione dell’accesso alle altri parti sane del sé (cioè il rinvigorirsi dell’agency).

In che modo i pazienti con Disturbo di Personalità dovrebbero differenziare?

– Assumendo vera e propria distanza critica, confutando un’idea creduta vera. (Questo punto si avvicina molto al modello di Beck.)

– Prendendo consapevolezza che oltre agli schemi negativi esistono immagini Sé-Altro più benevole a cui non si presta attenzione

– Prendendo consapevolezza che un’idea sulle relazioni è un dato appreso durante lo sviluppo e non una verità universale

– Non discutendo con il valore di realtà dell’idea, ma riconoscendo che la propria reazione alle azioni degli altri ha valenza soggettiva. (Questo punto ricorda molto Ellis e la REBT)

– Notando la fluttuazione nel grado di certezza delle proprie convinzioni. Se un’idea è vera una volta al 100% e una volta all’80% vuol dire che ha una componente soggettiva.

Come opera la TMI per promuovere la differenziazione?

– Il terapeuta nella relazione terapeutica invita il paziente a esplorare liberamente la propria mente

– Mostrando la ricorrenza delle evidenze attivando nel paziente la memoria autobiografica associativa attraverso la narrazione di episodi.

– Promuovendo l’agency sugli stati mentali (e non la differenziazione sugli schemi) tramite l’individuazione degli elementi di sofferenza soggettiva

– Usando come punto di osservazione aspetti sani del Sé che emergono in seduta e che sono schema-discrepanti, ponendo il paziente nelle condizioni di mettere in discussione le proprie convinzioni disfunzionali sulle relazioni interpersonali; non è il terapeuta a fare il Disputing con il paziente, ma è il paziente a farsi il Disputing da solo.

– Attraverso esperimenti comportamentali utilizzati non per promuovere inizialmente il cambiamento, ma per esplorare nuove aree con l’obiettivo di raccogliere il flusso dell’esperienza soggettiva prima, durante e dopo l’esperimento comportamentale.

– Attraverso il Disputing, che però con i pazienti con Disturbo di Personalità è bene fare a fine terapia quando sono guariti dal disturbo – sostiene Dimaggio – in quanto le tecniche della CBT classica funzionano molto bene con pazienti di Asse I, ma non con pazienti di Asse II.

Al termine del simposio Ruggiero commenta i modelli presentati. Secondo il Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” il problema delle terapie di Terza Ondata è riuscire ad usare il pensiero per pensare di meno… il che non è facilissimo!

La TMI sembra integrare varie tradizioni, dagli interventi di Sassaroli a quelli di Liotti a Semerari, però inseriti all’interno di una nuova cornice teorica, più ampia. Indubbiamente il confronto più approfondito – prosegue Ruggiero – andrebbe fatto tra il modello MCT e il modello TMI, ma non è sufficiente studiare sui libri per poter comprendere a fondo i modelli e discuterne, è necessario seguirne i corsi di formazione.

Detto questo, pare che la differenza tra il modello di Wells e il modello di Dimaggio risieda nel fatto che la MCT implica un addestramento diretto sull’attenzione che non può però esimersi dall’utilizzo della riattribuzione verbale delle metacognizioni e di un po’ di disputing, anche se lo fa in maniera estremamente economica; la TMI invece tende a farlo in maniera più ricca e differenziata, andando in maniera più dettagliata nella storia di vita del paziente (Sassaroli), nelle sue capacità metacognitive (Semerari), nelle sue storie relazionali (Liotti).

Restiamo in attesa, conclude Ruggiero, che il modello TMI venga testato empiricamente per avere una risposta sulla sua efficacia.

Il simposio è stato indubbiamente l’occasione per approfondire alcuni aspetti di modelli che uno psicoterapeuta cognitivo dovrebbe conoscere per poter arricchire il proprio bagaglio di formazione. Noi speriamo che venga mantenuta la promessa di organizzare nei prossimi anni ulteriori incontri sempre più strutturati dove Caselli e Dimaggio – e chiunque altro vorrà gettarsi nella mischia – potranno nuovamente “sfidarsi” in un nuovo stimolante incontro-scontro tra modelli.

 

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Simposio: Disintegrazione: psicopatologia e implicazioni terapeutiche

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Quando un paziente dissocia in seduta, cosa succede nel suo cervello in quel momento?

Consideriamo come funziona la mente: “La mente dell’uomo consiste in un’organizzazione gerarchica che, riflettendo la storia evoluzionistica, integra livelli anatomo-funzionali sempre più complessi in coordinazione tra loro. Ogni livello ha un’organizzazione anatomo-funzionale differente, si è evoluto per scopi e funzioni differenti e genera spinte motivazionali, comportamentali e livelli di cognitività differenti. I livelli superiori modulano e si coordinano con quelli inferiori costruendo le loro rappresentazioni e ai livelli più alti la mente rappresenta se stessa integrando l’attività delle sue componenti inferiori.

Rifacendosi alla teoria neojacksoniana sul funzionamento della mente, il Dott. Benedetto Farina spiega come le funzioni inferiori siano localizzate, stabili e poco flessibili, a differenza delle funzioni più alte, caratterizzate da elaborati network dotati di progressiva flessibilità e sofisticazione funzionale. Ma piuttosto che rimpiazzare i meccanismi inferiori, i sistemi superiori dipendono criticamente da questi sia per l’input di informazioni che per l’output comportamentale in maniera gerarchica  (Cacioppo & Bernoston, 2008).

Già Pierre Janet (1889) parlava di salute mentale come di uno stato caratterizzato da un’alta capacità di integrazione che riunisce un ampio spettro di fenomeni all’interno di un’unica personaltà. Oggi le neuroscienze hanno dimostrato che l’integrazione avviene non solo tramite connettività strutturale cerebrale, ma anche attraverso connettività dinamica: network cerebrali si attivano solo nel momento in cui viene attivata una data funzione, creando una rete tra le reti.

Le funzioni mentali integrative superiori sono quindi basate su network neuronali diffusi:

1)            questi network sono caratterizzati da reti di neuroni funzionalmente connessi tra di loro;

2)            sono reti dinamiche molto distribuite (reti di reti);

3)            questi network di connettività corticale giocano un ruolo fondamentale per funzioni come memoria di lavoro, funzioni esecutive, compiti e capacità attentive, stati di coscienza e coscienza di sé;

4)            si possono misurare in modo non invasivo attraverso la coerenza dei segnali EEG (EEG coherence). Attraverso l’analisi della EEG coherence è possibile, infatti, esplorare le connessioni funzionali tra aree cerebrali, in vivo, nell’ uomo e valutare la connettività corticale diffusa.

Durante il suo intervento il Dott. Farina ha mostrato un interessante studio (Farina et Al, 2014) in cui si è andato a valutare le modifiche della connettività corticale attraverso l’analisi della EEG coherence in soggetti con disturbi dissociativi e in controlli sani prima e dopo il recupero di ricordi di attaccamento elicitati attraverso la somministrazione della Adult Attachment Interview (AAI). Nel gruppo di controllo i ricordi di attaccamento hanno promosso un diffuso aumento della connettività EEG, in particolare nelle bande EEG ad alta frequenza. Rispetto ai controlli, i pazienti affetti da disturbo dissociativo non hanno mostrato un aumento della connettività EEG dopo la somministrazione dell’AAI. E’ noto che soggetti con attaccamento disorganizzato mostrano una riduzione della capacità di integrazione e delle capacità metacognitive. Questi risultati gettano luce sulla neurofisiologia dell’effetto disintegrativo del recupero di ricordi traumatici di attaccamento in pazienti dissociativi, fornendo un abbozzo di prova neurobiologica di ciò che accade nel cervello dei nostri pazienti con attaccamento disorganizzato quando in seduta sembrano “disintegrarsi” nel momento in cui viene chiamato in causa il sistema di attaccamento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  •  Pierre Janet, L’Automatisme Psychologique (1889). L’Harmattan, Paris, 2005 (Ed. It, L’automatismo psicologico, Milano, Raffaello Cortina, 2013.  ACQUISTA ONLINE
  • Cacioppo, J. T. & Berntson, G. G. (2008). Social neuroscience. In W. A. Darity (Ed.), International Encyclopedia of the Social Sciences (2nd Ed.), Farmington Hills, MI: McMillan/Thomson Gale.
  • Farina B, Speranza AM, Dittoni S, Gnoni V, Trentini C, Vergano CM, Liotti G, Brunetti R, Testani E, Della Marca G. (2014). Memories of attachment hamper EEG cortical connectivity in dissociative patients. Eur Arch Psychiatry Clin Neurosci. 2014 Aug;264(5):449-58.

 

 

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Il disturbo da ruminazione – Definizione Psicopedia

 

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Anche detto mericismo, si caratterizza per il continuativo rigurgito del cibo per almeno 1 mese.

Rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 (uscito nel maggio 2013), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria. Nella versione precedente era inserito nel paragrafo “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”, del capitolo “Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza”.

 

Anche detto mericismo, si caratterizza per il continuativo rigurgito del cibo per almeno 1 mese. Di solito è un comportamento quotidiano. Il cibo, prima ingerito, anche parzialmente digerito, viene rigurgitato in bocca, può essere poi rimasticato, ringoiato o sputato, senza nausea o disgusto o conati di vomito.

La funzione del comportamento appare autoconsolatoria e di autostimolazione.

Per la diagnosi è necessaria l’esclusione di condizioni gastrointestinali associate quali il reflusso gastroesofageo, stenosi del piloro, gastroparesi, ernia itale o il decorso di altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, dove il rigurgito con eliminazione sono una modalità di smaltimento delle calorie ingerite.

L’esordio è lungo l’intero arco della vita soprattutto in soggetti con disabilità intellettiva; in questo caso viene apposta la diagnosi di disturbo da ruminazione solamente in presenza di un quadro clinico importante, come anche in comorbilità di un altro disturbo mentale. In età infantile compare solitamente fra i 3 e 12 mesi, andando frequentemente incontro a remissione spontanea; si manifesta con l’incapacità di raggiungere gli aumenti di peso previsti; rara è la malnutrizione grave.

Il decorso può essere episodico o continuativo.

In adolescenti e adulti con concomitante altro disturbo mentale si verificano comportamenti di evitamento, quali il mangiare in pubblico o l’alimentarsi prima di situazioni sociali, di mascheramento della condotta, tossendo o coprendosi la bocca con la mano.

 

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Psicopatologia oggi: la struttura del Sé nei disturbi alimentari

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM – 5). Raffaello Cortina editore.  ACQUISTA ONLINE

Controlli e pulisci molto? Avrai fatto qualcosa di immorale!

FLASH NEWS

In un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychological Science, si è indagato se una specifica categoria di colpa potesse essere legata alle tipiche compulsioni nel disturbo ossessivo-compulsivo.

Il disturbo ossessivo-compulsivo implica la fissazione cognitiva (ossessione) su specifici pensieri e il bisogno di effettuare una serie di comportamenti ripetitivi (compulsioni), come ad esempio lavarsi le mani esageratamente oppure controllare più e più volte che la porta di casa sia chiusa (soltanto due tra moltissimi altri esempi).

In letteratura è già ampiamente dimostrato che vi sarebbe in tali persone un eccesso di responsabilità, o meglio di colpa, nel pensare all’eventualità e alle conseguenze di catastorfi temute (es. la porta di casa è aperta, rischi di contaminazione).

In un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychological Science, si è indagato se una specifica categoria di colpa potesse essere legata alle tipiche compulsioni nel disturbo ossessivo-compulsivo.

In particolare i ricercatori si sono focalizzati su due tipi di colpe: la colpa altruistica e la colpa deontologica.

La prima implica una preoccupazione e compassione per le potenziali vittime delle proprie azioni anche incidentali, e non necessariamente una deviazione dai propri standard morali; la colpa deontologica invece si fonda sulla credenza individuale per cui si è violata una regola morale indipendentemente dai danni causati ad altri.

Dunque l’ipotesi di partenza era che le persone con un forte senso di colpa deontologico – più che altruistico – fossero portate a maggiori compulsioni di controllo e di lavaggio, e che tali compulsioni avessero la funzione di diminuire in maniera più rilevante il senso di colpa deontologico.

In due esperimenti i soggetti erano chiamati ad ascoltare una audioregistrazione di una storia elicitante un senso di colpa altruistico, deontologico oppure neutra: nel primo esperimento i soggetti sono stati sottoposti a un task di distribuzione di palline in contenitori, mentre nel secondo esperimento veniva chiesto loro di pulire un cubo di plexiglas.

In entrambe le condizioni alcuni giudici indipendenti avevano la funzione di valutare quanto spesso nel primo caso fossero portati a controllare le palline già distribuite nei contenitori (compulsione di controllo) e nel secondo con quanta precisione i soggetti pulissero il cubo di plexigals.

In conformità alle attese dei ricercatori, una maggior quota di comportamenti compulsivi di controllo e di pulizia si sono riscontrate nella condizione in cui era stata indotta una emozione di colpa deontologica rispetto alla condizione di colpa altruistica.

I risultati – sebbene siano ottenuti da un campione non clinico- possono quindi contribuire e arricchire i modelli teorici del disturbo ossessivo compulsivo.

 

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Il disturbo ossessivo compulsivo resistente: il ruolo delle credenze

 

BIBLIOGRAFIA:

Nuovi strumenti per la diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico

FLASH NEWS

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Yeshiva sostiene che la velocità con cui il cervello elabora stimoli come immagini e suoni potrebbe essere un indice utilizzato nella diagnosi precoce e nella categorizzazione dei Disturbi dello Spettro Autistico.

Il Centro statunitense per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie stima che 1 su 68 bambini vengono diagnosticati con un Disturbo dello Spettro Autistico (ASD). I segni e i sintomi dell’ASD variano da lievi difficoltà sociali e di comunicazione a profondi disturbi cognitivi.

Come sottolineato da Sophie Molholm, autore del presente studio, “Una delle sfide riguardanti il Disturbo Dello Spetro Autistico è di definire e classificare con precisione i pazienti in sottogruppi in base alla sintomatologia presentata; non riuscire ad avere dei criteri precisi per la classificazione ha notevolmente limitato la comprensione del disturbo e di come trattarlo”.

Inoltre la ricercatrice sostiene che l’autismo viene diagnosticato in base alla sintomatologia comportamentale presentata dal paziente. La diagnosi quindi oltre a richiedere tanta esperienza clinica, può essere soggettiva. In conclusione, da quanto riportato dalla ricercatrice emerge come sia necessario costruire dei criteri più obiettivi per la diagnosi e la classificazione di questo disturbo. 

A tal scopo è stato costruito il presente studio che si focalizza su come l’elaborazione sensoriale possa variare all’interno dei disturbi dello spettro autistico. Sono stati testati quarantatré bambini affetti da ASD con età compresa tra 6 e 17 anni.

Durante la prova sperimentale ai bambini venivano presentati degli semplici stimoli uditivi: uno suono, visivi: l’immagine di un cerchio rosso o misti: uditivo e visivo (un immagine accompagnata da un suono). Il compito consisteva nel premere un pulsante immediatamente dopo la presentazione degli stimoli: visivi, uditivi o misti. Attraverso una cuffietta composta da 70 elettrodi, studiata appositamente per l’età pediatrica, veniva registrata l’EEG durante la presentazione degli stimoli. Lo scopo dello studio era di determinare la velocità con cui il cervello elaborava gli stimoli presentati durante il compito sperimentale.

Dai risultati è emerso che la velocità con cui i bambini elaboravano gli stimoli uditivi era fortemente correlata alla gravità dei loro sintomi. Questi dati sono in linea con gli studi che suggeriscono come la microarchittetura dei centri deputati a processare l’informazione uditiva sia diversa nei bambini con lo sviluppo tipico rispetto a quelli con ASD. 

Inoltre dai risultati è emerso una correlazione anche se più debole tra la velocità con cui venivano elaborati i stimoli audio-visivi e la gravità del quadro sintomatologico dell’ASD. Nessuna associazione è stata trovata tra la l’elaborazione degli stimoli visivi e la severità della sintomatologia ASD.

La dottoressa Molholm sostiene che tali risultati sono incoraggianti e che approfonditi potrebbero condurre allo sviluppo di un biomarker attendibile che potrebbe predire i diversi gradi di severità dei Disturbi dello Spetro Autistico.

Inoltre l’utilizzo dell’EEG potrebbe essere utilizzato con successo nella diagnosi precoce di ASD: una diagnosi precoce permetterebbe l’accesso immediato alle terapie. Ad oggi meno di 15% dei bambini affetti da ASD vengono diagnosticati prima dei 4 anni.
 

Emerge come attraverso l’uso della metodologia EEG si potrebbe costruire uno strumento in grado di consentire la diagnosi precoce dell’ASD che di conseguenza permetterebbe l’accesso immediato alle cure per i bambini che le necessitano.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Se ti chiedo aiuto raccontami te stesso!

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera, Domenica 12 Ottobre 2014

Chi presta aiuto, deve facilitare la comunicazione nei più reticenti. Come? Innanzitutto creando un senso di comunanza.

Non date per scontato che se chiedete aiuto, allo psicoterapeuta, all’amica fidata, al prete, racconterete quello che è necessario a chi vi ascolta.  In presenza di un problema si alza il senso di allarme: riceverò attenzione? Mi rifiuterà? Penserà di me che sono un idiota, un inetto, che sono debole, si approfitterà di me? Se vi trovaste in difficoltà e doveste chiedere aiuto a Frank Underwood –  sì, lui il protagonista di House of Cards – avreste anche ragione.

Il risultato, nel complesso, è che in presenza di dubbi, paure e diffidenza la possibilità di chiedere aiuto e beneficiarne diminuisce drammaticamente. Chi presta aiuto (stesse categorie di prima), deve facilitare la comunicazione nei più reticenti. Come? Innanzitutto creando un senso di comunanza. Noi psicoterapeuti usiamo una strategia che chiamiamo self-disclosure (autosvelamento). Raccontiamo qualcosa di nostro, di vero, che ci sembra simile al problema del paziente. L’effetto di tale comunicazione: riduce la differenza di rango, il curante scende dal piedistallo, rinuncia al potere, l’altro si rilassa. Se aveva timori di umiliazione si ridurranno. Un altro effetto: se chi ci ascolta ci percepisce simili, immagina la nostra mente più ricca, piena di idee e sentimenti che lui stesso pensa e prova. Se ci percepisse diversi, ci fantasticherebbe stranieri e per lui diventeremmo un fantasma minaccioso o uno stereotipo. Agli stereotipi non si chiede aiuto mica tanto volentieri.

Altra strategia: non badiamo troppo alle idee che una persona ha sul perché il suo mondo va in malora. Le opinioni sono buone per i talk show. A me di solito annoiano. A noi interessano fatti, episodi. Precisi. E quelli chiediamo. Facilitiamo il racconto dettagliato di episodi autobiografici. E mentre la persona racconta, al minimo cenno di chiusura, con un guizzo portiamo l’attenzione al comportamento non-verbale. Le espressioni facciali. Una nube di tristezza che vela gli occhi. Una scarica di rabbia che contrae le labbra. La nostra prontezza è dire: vedo qualcosa nel suo sguardo. È paura? Ha chinato il capo, si vergogna? Ricordate Tim Roth in Lie to Me? “C’è rabbia lì”. Qualcosa del genere, solo che rispetto a lui siamo meno sfacciati, più gentili e soprattutto vogliamo aiutare, non smascherare la menzogna.

Ultimo strumento. Di fronte a ogni cenno di malinteso, difficoltà,  chiusura, non puntiamo il faro sull’altro: “Lei è chiuso, ostile, che le succede?”. Al contrario assumiamo noi per primi la responsabilità dell’impasse comunicativa. “Sento che è irritato con me? Ho fatto qualcosa che può averla ferita?”. Tutto quello che segue è negoziazione nella relazione. Nello studio dello psicoterapeuta, almeno lì dentro, funziona. Fuori da lì?

 

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Terapia metacognitiva: come non usare la mente per controllare la mente! Congresso SITCC 2014

Terapia metacognitiva: come non usare la mente per controllare la mente!

Congresso SITTC 2014

Dott. Gabriele Caselli
Studi Cognitivi, Modena, Italy
London South Bank University, London, UK

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Congresso SITCC 2014 Genova

Modello Metacognitivo di Craving e Dipendenze Patologiche 

 Gabriele Caselli, London South Bank University London, UK, Studi Cognitivi Cognitive Psychoterapy School Milano
Marcantonio M. Spada,  London South Bank University London, UK, North East London NHS Foundation Trust, London, UK

 

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SITCC 2012

Processi di categorizzazione sociale e d’interdipendenza nelle organizzazioni

Relativamente poche ricerche si sono focalizzate sulle relazioni tra gruppi nel campo specifico delle organizzazioni; l’obiettivo del seguente elaborato consiste nel presentarne l’importanza, focalizzandosi sui processi di categorizzazione e d’interdipendenza.

I lavoratori nelle organizzazioni possono essere considerati ciò che Kurt Lewin (1948) ha definito gruppi sociali, ossia un certo numero di individui che interagiscono reciprocamente con regolarità. Si potrebbe considerarli, inoltre, gruppi secondari (anche se questa classificazione spesso è giudicata troppo schematica), vale a dire formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma prevalentemente di tipo impersonale, giacché determinati da scopi pressoché pratici (Palmonari, Cavazza & Rubini, 2002), nonostante spesso si possano trasformare in gruppi primari, ossia legati da vincoli di natura emotiva.

Essi rappresentano il fattore umano delle organizzazioni, e costituiscono una parte determinante di queste ultime; risulta dunque importante studiare i processi alla base dell’interazione dei gruppi, in modo tale che si possano prevederne e gestirne le dinamiche. Lo studio delle relazioni tra i gruppi è stato prevalentemente oggetto della psicologia sociale (insieme alla sociologia e all’antropologia), ma relativamente poche ricerche si sono focalizzate su tali relazioni nel campo specifico delle organizzazioni; l’obiettivo del seguente elaborato consiste nel presentarne l’importanza, focalizzandosi sui processi di categorizzazione e d’interdipendenza.

Categorizzazione sociale e interdipendenza

Le teorie dell’identità sociale, della categorizzazione del sé e dell’interdipendenza

Le teorie sulla categorizzazione sociale enfatizzano il ruolo della categorizzazione nelle relazioni intergruppi. Fra queste, le più note sono la Teoria dell’Identità Sociale, sviluppata da Tajfel e Turner a partire dagli anni ’70 e la Teoria della Categorizzazione del Sé di Turner e collaboratori (1987).

La categorizzazione definisce l’insieme dei processi cognitivi che tendono a ordinare e a semplificare l’ambiente in termini di categorie (gruppi di persone, di oggetti, di avvenimenti) secondo caratteristiche che si ritengono in comune, accentuando le somiglianze intracategoriali e le differenze intercategoriali (Tajfel & Wilkes, 1963, citati da Palmonari et al., 2002). La categorizzazione sociale permette di costruire una rappresentazione semplificata dell’ambiente sociale, collegata a valutazioni stereotipiche in cui si tende a valorizzare il proprio gruppo/categoria di appartenenza (ingroup) e a discriminare gli altri gruppi/categorie (outgroup). Questo processo è meglio conosciuto come bias ingroup-outgroup, particolarmente dimostrato dagli esperimenti di Rabbie e Horwitz (1969) sul destino comune ispirati dagli studi lewiniani sui gruppi minimi.

La Teoria dell’Identità Sociale (SIT) si focalizza sugli aspetti motivazionali e affettivi delle appartenenze di gruppo, rendendo quest’ultimo fonte di origine dell’identità sociale. In contrasto con la nozione di competizione realistica di Sherif (1966), Tajfel e Turner (1979) svilupparono il concetto di competizione sociale, in cui i gruppi possono impegnarsi per difendere o acquisire un certo status. In essa entra in gioco il processo di categorizzazione sociale, seguito dal processo di identità sociale, ossia quella parte della concezione di sé di un individuo che deriva dalla consapevolezza di essere membro di uno o più gruppi sociali, e il confronto sociale con altri gruppi, che determina quale sia il valore relativo di certe caratteristiche del gruppo (Palmonari et al., 2002).

La Teoria della Categorizzazione del Sé (SCT) si differenzia dalla SIT poiché pone maggior enfasi sui processi cognitivi del comportamento di gruppo. Essa cerca di mostrare attraverso quali processi le persone giungano a concettualizzare se stesse come appartenenti a determinate categorie sociali (Palmonari et al. 2002). Palmonari et al. (2002) aggiungono che il concetto sociale di sé dipende dalla situazione: le categorie sociali che saranno salienti in un certo contesto attiveranno diverse categorizzazioni sociali del sé, in modo tale che sia attivata la categorizzazione più attinente e che renda la categoria più facilmente accessibile.

Prima di associare i processi appena descritti al contesto delle relazioni intergruppi nelle organizzazioni, occorre accennare brevemente la prospettiva dell’interdipendenza. Secondo Sherif (1966), le persone che devono raggiungere uno scopo attraverso azioni interdipendenti diventano un gruppo con specifiche norme, ruoli gerarchici e relazioni di status tra i membri; l’interdipendenza sarà positiva se si riferisce a scopi sovraordinati, raggiungibili attraverso la cooperazione fra gruppi, mentre sarà negativa se la relazione fra i gruppi è competitiva. Secondo Rabbie e Horwitz (1969), non è necessaria un’effettiva relazione competitiva tra i gruppi per osservare comportamenti differenziali (bias ingroup/outgroup) ma basta un’interdipendenza del destino. L’interdipendenza percepita intra e intergruppi determina il destino comune, lo status, la dimensione e il potere dei gruppi, e costituisce la variabile mediatrice dell’effetto di questi fattori sull’insorgenza del bias ingroup/outgroup (Rubini & Moscatelli, 2004).

 

La categorizzazione sociale e l’interdipendenza nelle organizzazioni

La categorizzazione sociale nelle organizzazioni

A questo punto, dunque, si possono analizzare i processi che sottostanno alle relazioni fra i gruppi in un’ottica particolarmente mirata alle organizzazioni. Innanzitutto si può affermare che lo status del gruppo si riflette sul sé; quindi come lo status e la performance individuali possono essere determinati dal confronto sociale, lo status di un gruppo è determinato dal confronto sociale con gli outgroups. In altre parole, in un’organizzazione, se un gruppo detiene uno status più elevato confronto a un altro gruppo – ad esempio perché si comporta meglio, possiede un ruolo più privilegiato, o svolge un compito con maggiore prestigio organizzativo – ciò si riflette positivamente sull’identità sociale dei membri dell’ingroup (van Knippenberg, 2002). Questo processo del tutto naturale nei gruppi può costituire un vantaggio per l’organizzazione, perché ogni gruppo tende a sovraperformare gli altri, ma potrebbe generare anche degli effetti negativi, prevalentemente rappresentati dal bias favorevole all’ingroup (come avere fiducia eccessiva o dare valutazioni positive a priori verso i membri del proprio gruppo, ecc.) e da atteggiamenti discriminatori verso l’outgroup (van Knippenberg, 2002).

Le motivazioni che portano i gruppi a cadere nel bias favorevole per l’ingroup sono molteplici. Alcune ricerche dimostrano che il bias aumenti l’autostima dei gruppi. Ulteriori ricerche (per una rassegna, si veda ad esempio Hewstone, Rubin & Willis, 2002) hanno dimostrato il bisogno di mantenere la distintività di gruppo: i membri di un gruppo sono portati a valorizzare un’identità distinta che differenzia il proprio gruppo dagli altri (Brewer, 1991, citato da van Knippenberg, 2002). Quando la distintività è minacciata, cioè quando ad esempio sono intaccati i confini intergruppo (come in una fusione), i gruppi possono incorrere in comportamenti di favoritismo sull’ingroup per mantenere o ripristinare il loro carattere distintivo. Tuttavia spesso si presume che il comportamento problematico intergruppo abbia origine dalle differenze tra i gruppi e che quindi aumentare e sottolineare le analogie intergruppi sarebbe un rimedio per le relazioni problematiche intergruppi (van Knippenberg, 2002); ciò dimostra che non ci sono ancora in letteratura studi che diano certezze assolute sulle dinamiche trattate.

Per quanto riguarda invece la discriminazione per l’outgroup, bisognerebbe tener conto del fatto che un individuo può identificarsi con un gruppo, ma quest’appartenenza al gruppo può non essere sempre saliente: essa può esserlo soltanto in determinate occasioni (minacce all’identità sociale o una competizione fra gruppi). Inoltre, non tutti gli outgroups sono così salienti da costituire una minaccia per la distintività di gruppo (perciò ipoteticamente il confronto sociale può avvenire fra due team di produzione, piuttosto che fra due team che operano in contesti del tutto differenti). Tenendo inoltre conto che l’anticipazione di diventare un membro di un altro gruppo può attenuare sostanzialmente i pregiudizi nei confronti di quel gruppo (Tajfel, 1978), si potrebbe affermare che in organizzazioni in cui i confini sono permeabili, dove si può facilmente passare da un gruppo all’altro, la probabilità d’insorgenza del bias è minore.

Ulteriori ricerche hanno dimostrato anche gli effetti di altri moderatori del bias intergruppi, fra cui le motivazioni inerenti alla cultura (più bias in gruppi collettivisti che individualisti), alla dimensione dei gruppi, alla disparità di potere, ecc. (Hewstone et al., 2002).

Seguendo le nozioni delle teorie descritte in precedenza, soprattutto della SCT, le relazioni intergruppi si riflettono sul rapporto del gruppo con l’organizzazione (Kramer, 1991), portando gli individui ad accentuare le differenze intergruppo e le somiglianze infragruppo a seconda della situazione. Ciò comporta effetti negativi (bias a favore dell’ingroup, pregiudizi, discriminazioni), ma può sorgere un ulteriore problema per l’organizzazione: se vengono accentuate le differenze fra i gruppi all’interno dell’organizzazione, gli individui opereranno sempre più frequentemente nel livello intermedio che prende in considerazione il proprio gruppo in confronto agli altri, e tralasceranno il livello superiore d’identificazione con l’organizzazione. Una mancata identificazione con l’organizzazione da parte del lavoratore potrebbe portare a una serie di bad behaviors (assenteismo, propensione a lasciare il lavoro, scarse performance, ecc.) e, per questo, dovrebbe rappresentare una priorità per le organizzazioni gestire le dinamiche intergruppo tenendo conto che in una fusione o in un’acquisizione la questione potrebbe perfino complicarsi.

L’interdipendenza nelle organizzazioni

In un gruppo di lavoro, l’interdipendenza di obiettivi, d’interessi e risultati, può essere un forte promotore dell’affiliazione di gruppo e del comportamento tra i membri (Rubini & Moscatelli, 2004). I gruppi nelle organizzazioni operano in un contesto di relazioni d’interdipendenza con altri gruppi. Si può vedere il gruppo come un insieme di membri che sono interdipendenti positivamente per raggiungere uno scopo comune, e si può vedere l’organizzazione come un insieme di gruppi interdipendenti che lavorano per raggiungere lo scopo dell’organizzazione stessa. L’interdipendenza fra gruppi in un’organizzazione può essere anche indiretta, come per esempio il reparto vendite che dipende dal reparto produzione, e viceversa. Essa può essere anche negativa: i gruppi possono competere per l’acquisizione di risorse all’interno delle organizzazioni, come l’acquisizione del tempo in laboratorio, di ricompense organizzative, dello spazio in ufficio, ecc. Tali situazioni sono potenzialmente causa di conflitto intergruppi e possono costituire una minaccia per il funzionamento organizzativo, poiché il conflitto d’interessi fra gruppi che cooperano ostacola il buon funzionamento degli stessi, inoltre ciò può ostacolare anche altri gruppi che si trovano a cooperare con quelli interessati. Questo non vuol dire che la competizione intergruppo è necessariamente un male per le organizzazioni. Erev, Bornstein, e Galili (1993), per esempio, sostengono che il conflitto intergruppi può promuovere la cooperazione e le prestazioni intragruppo. Senza dubbio, come afferma van Knippenberg (2002), per un buon funzionamento organizzativo, se l’interdipendenza negativa è inevitabile, il clima di concorrenza deve essere quantomeno “amichevole” e sportivo.

Conclusioni

La categorizzazione sociale e l’interdipendenza rappresentano certamente i processi fondamentali per l’analisi delle relazioni intergruppi nelle organizzazioni. Alla luce di tutto ciò, sarebbe utile sviluppare più ricerche nell’ambiente organizzativo e si pone l’accento sull’importanza della psicologia delle organizzazioni nell’offrire un prezioso contributo alla ricerca di soluzioni ottimali per gestire le dinamiche intergruppi.

 

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Il piacere di essere se stessi. L’identità sociale tra essere e dover essere

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Erev, I., Bornstein, G., & Galili, R. (1993). Constructive intergroup competition as a solution to the free rider problem: A field experiment. Journal of Experimental Social Psychology, 29, 463-478.
  • Hewstone, M., Rubin, M., & Willis H. (2002). Intergroup bias. Annual Review of Psychology, 53, 575-604.
  • Kramer, R. (1991). Intergroup relations and organizational dilemmas. Research in Organizational Behavior, 13, 191-228.
  • Palmonari, A., Cavazza, N., & Rubini M. (2002). Psicologia sociale. Il Mulino, Bologna. ACQUISTA
  • Rabbie, J.M., & Horwitz, M. (1969). Arousal of ingroup-outgroup bias by a chance of win or loss. Journal of Personality and Social Psychology, 3, 269-277.
  • Rubini, M., & Moscatelli, S. (2004). Categorie e gruppi sociali: alle origini della discriminazione intergruppi. Giornale italiano di psicologia. 31, 1, 45-69.
  • Rubini, M., & Moscatelli, S. (2004). Categorizzazione ed interdipendenza: due punti di vista epistemologici per lo studio delle relazioni intergruppi. Giornale italiano di psicologia. 31, 4, 875-886.
  • Tajfel, H., & Turner, J.C. (1979). An integrative theory of intergroup conflict. In W.G., Austin, S., Worchel (eds.), The social psychology of intergroup relations. Monterey, CA: Brooks/Cole, 33-47.
  • Turner, J.C., Hogg, M.A., Oakes, P.J., Reicher, S.D., & Wetherell, M.S. (1987). Rediscovering the social Group: A self-categorisation theory. Oxford: Blackwell.
  • van Knippenberg, D. (2002). Intergroup relations in organizations. In M. West, D. Tjosvold, & K. G. Smith (Eds.). International handbook of organizational teamwork and cooperative working. Chichester, UK: Wiley.

Attori e controfigure: perchè il nostro cervello si fa ingannare?

FLASH NEWS

La capacità di riconoscere e distinguere visi è fondamentale per i rapporti sociali ma anche la costanza lo è: se non fossimo in grado di identificare come uguale a se stesso un volto i nostri famigliari e i nostri amici ci apparirebbero ogni volta come persone nuove.

Che gli attori usino controfigure e stuntman durante le riprese è ormai risaputo e scontato, eppure, nonostante si sappia, durante la visione di un film nessuno ci fa caso. Perché? Difficile credere che si possa scambiare la faccia di Johnny Depp per quella di chiunque altro, per cui non è una semplice questione di attenzione.

L’Università di Berkeley, California, ha risolto il mistero ed individuato il meccanismo cerebrale che ci tiene legati ad un particolare viso anche quando questo cambia: è un meccanismo di sopravvivenza che ci dà un senso di stabilità, familiarità e continuità in quello che altrimenti sarebbe un mondo visivamente caotico.

Per questa ricerca è stato chiesto ai partecipanti di confrontare volti che apparivano in rapida sequenza su di uno schermo e individuare i più somiglianti.

 

Ogni sei secondi un “volto target” veniva proiettato per un secondo seguito da volti leggermente diversi. I risultati mostrano non solo che le facce venivano giudicate più simili di quanto fossero in realtà ma anche che, di volta in volta, i partecipanti sceglievano non il viso più somigliante all’ultimo target visto, ma una combinazione degli ultimi due “volti target”.

Come se il nostro sistema visivo fosse predisposto ad andare contro una tale fluttuazione percettiva in favore della costanza. A conferma dell’esistenza di quello che è stato chiamato un “campo di continuità” in cui fondiamo visivamente oggetti simili visti nell’arco di 15 secondi. 

È ciò che accade nei film: non vediamo le controfigure, i tagli di scena e a volte ci sfuggono persino errori e cambi d’abito repentini. Il tutto per soddisfare la nostra aspettativa, e il nostro bisogno, di stabilità.

La capacità di riconoscere e distinguere visi è fondamentale per i rapporti sociali ma anche la costanza lo è: se non fossimo in grado di identificare come uguale a se stesso un volto i nostri famigliari e i nostri amici ci apparirebbero ogni volta come persone nuove.

Gli esseri umani processano l’informazione visiva momento per momento per stabilizzare il loro ambiente, in questo modo il nostro sistema visivo perde sensibilità ma è un piccolo prezzo da pagare in favore di una percezione delle identità come stabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Un nuovo test per la valutazione del rischio di sviluppare Alzheimer

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Secondo una ricerca della York University un semplice test che unisce pensiero e movimento può aiutare a rilevare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, prima ancora che ci siano i segni.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di completare quattro compiti visuo-spaziali e cognitivo-motori di difficoltà crescente. I test erano volti a rilevare il rischio di Alzheimer in coloro che stavano avendo difficoltà cognitive, anche se non mostravano segni esteriori della malattia. 

 

I partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: soggetti con diagnosi di MCI (compromissione cognitiva lieve) o con una storia familiare di Alzheimer, e due gruppi di controllo, giovani adulti e soggetti anziani, senza una familiarità con la malattia.

I risultati indicano che l’81,8 % dei partecipanti che avevano una storia familiare di Alzheimer o una MCI avevano difficoltà nei compiti visuo-motori più esigenti.

“La capacità del cervello di prendere in informazioni visive e sensoriali e trasformarle in movimenti fisici richiede la comunicazione tra la zona parietale nella parte posteriore del cervello e le regioni frontali”, spiega il ricercatore a capo dello studio Lauren Sergio. “Le difficoltà mostrate dai soggetti ad aumentato rischio di Alzheimer possono riflettere un’alterazione cerebrale o segnare l’inizio della neuropatologia, che disturba la comunicazione tra ippocampo e regioni parietale e frontali del cervello.”

Questo test si è dimostrato affidabile nel discriminare tra basso e alto rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer: il gruppo ad alto rischio ha mostrato tempi di reazione e movimento più lenti e meno accuratezza e precisione nei movimenti, dei gruppi di controllo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Hawkins, K.M., & Sergio, L.E. (2014). Visuomotor Impairments in Older Adults at Increased Alzheimer’s Disease Risk. Journal of Alzheimer’s Disease 42, 607–621. DOI 10.3233/JAD-140051 IOS Press. DOWNLOAD

Analisi del contenuto delle autocaratterizzazioni degli allievi in formazione – Congresso SITCC 2014

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Analisi del contenuto delle autocaratterizzazioni degli allievi in formazione

Congresso SITTC 2014

Lambertucci Laura, Scarinci Antonio, Del Ponte Heyra, Di Bari Selenia, Galassi Francesca Romana, Paparusso Marina, Rampioni Margherita, Romanelli Pierluigi, Torrieri Monia

Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

L’autocaratterizzazione si dimostra utile per arrivare ad una comprensione del soggetto e della prospettiva con la quale costruisce in modo personale la propria realtà con modalità di cambiamento in continuo divenire (Kelly 1955).

La valutazione degli aspetti personali del terapeuta che incidono nella relazione è al centro della riflessione sugli obiettivi e gli esiti dei training di formazione degli specializzandi ormai da tempo (Byrd et al. 2010; Fabbro et al. 2013).

L’autocaratterizzazione si dimostra utile per arrivare ad una comprensione del soggetto e della prospettiva con la quale costruisce in modo personale la propria realtà con modalità di cambiamento in continuo divenire (Kelly 1955).

L’utilizzo di questo strumento con gli allievi di una scuola di formazione in psicoterapia al primo anno e al quarto anno può consentire di verificare i cambiamenti personali durante il training.

Sono state individuate una serie di dimensioni o aree problematiche sulle quali durante la formazione interviene un processo evolutivo di assimilazione e accomodamento che dovrebbe portare ad un nuovo assetto il sistema cognitivo del trainee.

Al testo è stata applicata l’analisi del contenuto, una tecnica di ricerca definita da B. Berelson come capace di descrivere in modo obiettivo, sistematico e quantitativo il contenuto manifesto della comunicazione (Losito, 1996).

La singola autocaratterizzazione è stata considerata come unità di rilevazione e analizzata da un gruppo di analisti in base ad opportuni meccanismi di controllo delle decodifiche soggettive.

I risultati della ricerca attestano variazioni statisticamente significative intervenute lungo l’arco dei quattro anni di training.

 

 

 

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Mindfulness in azienda: verso la progettazione di interventi efficaci

 

Data la crescente attenzione che la psicologia del lavoro sta riservando alla mindfulness , facendo affidamento su alcune recenti evidenze prodotte dalla ricerca, in questa trattazione saranno esposti dei punti chiave per la progettazione d’interventi in ambienti professionali.

Considerazioni preliminari

Questo articolo offrirà spazio ad un approccio che sta ricevendo un crescente consenso soprattutto all’interno di contesti lavorativi americani ed anglosassoni. Stiamo parlando della tecnica della mindfulness, e delle applicazioni che ad essa si ispirano.

Data la crescente attenzione che la psicologia del lavoro sta riservando a questo innovativo approccio , facendo affidamento su alcune recenti evidenze prodotte dalla ricerca, in questa trattazione saranno esposti dei punti chiave per la progettazione d’interventi in ambienti professionali.

E’ bene ricordare che lo sviluppo della mindfulness è fatto coincidere con il lavoro del medico Jon Kabat-Zinn, fautore della tecnica Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia di stampo di cognitivo – comportamentale, in grado di apportare miglioramenti sia in popolazioni cliniche che non. Inizialmente concepita per apporre beneficio congiuntamente su corpo e mente (soprattutto indirizzando verso uno stato di benessere), questa tecnica ha in seguito conosciuto un notevole sviluppo nel campo lavorativo, portando diverse aziende leader nei propri settori, tra le quali Google, Apple, Nike, Yahoo!, Deutsche Bank, ad altre ancora , ad investire risorse in questa pratica, nella speranza di coniugare riduzione dello stress nei propri addetti, e benefici operativi.

Diversi programmi, svilluppati anche nel panorama italiano, sembrano garantire sviluppi positivi ottenibili nel proprio posto di lavoro, e una rapida consultazione su internet va nella direzione di confermare questa impressione.

E’ dalla considerazione di questi dati, che nasce l’intento di voler approfondire se tali programmi possano garantire successo se applicati nella propria azienda, e a tal scopo si vogliono chiarire da subito due concetti alla base. Il primo, è che con il termine mindfulness, possiamo riferirci non solo a delle tecniche di meditazione volte al miglioramento dal benessere, ma anche ad un aspetto di natura disposizionale , paragonabile quindi ad un particolare aspetto del proprio carattere. Riferendoci a questa peculiarità, parliamo di mindfulness disposizionale o di tratto, indicando i livelli di mindfulness che una persona ha, ed impiega durante le attività quotidiane, in opposizione allo stato di mindfulness, ottenibile tramite esercizi meditativi . A tal proposito, la ricerca ha rilevato l’indipendenza tra i due costrutti, oltre al fatto che la mindfulness può essere considerata come un riferimento sul quale basare le attività di lavoro.

Una seconda considerazione, nasce dalla consapevolezza che i livelli di mindfulness, sono aumentabili e perfezionabili, tramite la partecipazione ad appositi training, anche se il livello di mindfulness di una persona, non è necessariamente correlato alla partecipazione a questi training.

Ciò nonostante, se il nostro obiettivo è di apporre un cambiamento organizzativo, avvalendoci delle potenzialità della mindfulness, è bene comprendere sin da subito, che una singola iniziativa, o un singolo corso di formazione per il quadro dirigenziale, sono solo dei punti di partenza, poiché qualsiasi progetto che non condivida una visione d’insieme dei numerosi fattori in gioco, rischia fortemente di fallire, nonostante i buoni propositi iniziali .

 

Stabilito ciò, cosa possiamo aspettarci da un approccio efficace?

Per quanto gli studi sulla minfulness, appaiono essere tuttora in uno stato embrionale, sono diversi gli spunti che hanno collegato questo costutto a diversi output lavorativi. L’adozione di una cultura improntata alla consapevolezza, è secondo la formulazione di Weick , un elemento costituente per la prevenzione dei rischi derivanti dall’attività d’impresa, sia di mercato che non, qualificandola come ad alta affidabilità (High Reliability Organization, HRO). Inoltre, secondo Vogus e Sutcliffe, un’organizzazione improntata alla consapevolezza, può favore un atteggiamento propenso verso la verifica dei propri processi, investigando in profondità il ventaglio delle opzioni disponibili, integrando questo livello di analisi, all’interno del proprio modus operandi.

Pocanzi abbiamo parlato di mindfulness di stato e di tratto, ma la portata delle considerazioni che seguiranno, esige un’introduzione al concetto di Mindfulness Organizing (consapevolezza organizzativa) .

I tre principi della Mindfulness Organizing

Ray e colleghi , definiscono la Mindfulness Organizing, come un attributo stabile e duraturo di un’organizzazione, raggiunto grazie pratiche ed interventi strutturali implementati dai top manager. Gli autori, affermano inoltre che un approccio di Mindfulness Organizing risulta evidente quando i leader riescono ad instaurare una cultura che incoraggi i propri collaboratori verso l’adozione di un pensiero ricco, garantendo capacità e margine di azione. Weick e Sutcliffe , invece hanno in precedenza osservato tale caratteristica, come la capacità di un’organizzazione di catturare dettagli discriminatori sui processi a rischio, indirizzando l’attenzione verso i processi contestuali che concorrono alla presa di decisioni.

L’approccio è basato su tre pilastri, ovvero:

  • Trae avvio da processi top-down;
  • Crea il contesto per gli operatori che lavorano a stretto contatto con il cliente (front line), di pensare ed agire;
  • Si attesta come una proprietà duratura dell’organizzazione (come la cultura).

Mindful Organizing

L’attenzione conferita alle dinamiche personali in ambienti professionali, ha portato alcuni autori a convergere sul termine di Mindful Organizing (organizzazione consapevole), per indicare l’insieme dei processi relazionali collettivi, intervenienti in un ambiente professionale. I principi portanti di questa sfera, riprendono analogamente i tre punti appena elencati, articolandoli tuttavia così:

  • Trae avvio da processi bottom-up;
  • Sfrutta il contesto, creato per gli operatori al front line;
  • Si attesta come una proprietà relativamente fragile dell’organizzazione, e pertanto richiede una ricostruzione continua.

Azioni e livelli

L’intento con il quale gli autori soprannominati si sono spesi nell’ arricchimento del concetto originale di mindfluness, non costituisce una semplice opera di disquisizione teorica. L’obiettivo degli autori, e del sottoscritto, è quello di enfatizzare come tali definizioni sono orientate alla pratica. Attraverso l’azione (partecipata) delle diverse parti.

Una duttile analisi, raccoglie le recenti indicazioni di Vogus e Sutcliffe , ed è presentata in seguito. Gli autori, sostengono fortemente che le varie azioni che possono essere intraprese in un approccio ispirato alla mindfulness, debbano sapientemente intrecciare tutti i livelli organizzativi, e le diverse mansioni del proprio team, riconciliando così i livelli di mindfulness organizzativa e mindfull organizing. E’ stato dimostrato come, chi pratica mindfulness in azienda tende ad essere più calmo e sereno, rispetto ai loro colleghi che non lo fanno, e ricordando quanto discusso prima, ovvero che la mindfulness non è necessariamente ottenibile tramite pratiche meditative, scopriamo in questa sezione alcune delle azioni percorribili e i principi sui quali esse si basano, scorgendone inoltre le criticità:

  • Necessità di creare una cultura aziendale che si ponga come riferimento degli interventi di mindfulness intrapresi;
  • Coerenza tra gli interventi preposti: attributo da non sottovalutare, poichè alcune azioni possono presentare margini di incompatibilità tra di loro. Con un esempio, immaginiamoci un datore di lavoro, che voglia valorizzare la pausa lavorativa, adibendo a tal scopo, delle aree relax nella propria azienda. Poniamo che in seguito, questa stanza non venga mai utilizzata dagli stessi dirigenti. Con questa situazione, molto probabilmente creeremo dei presupposti tali per ricadere nella dissonanza cognitiva , fenomeno in grado di impattare negativamente nella vita lavorativa, creando in questo caso, (lecita) incertezza sui lavoratori. Per evitare questa serie di frangenti, e per diminuire la dissonanza, gli interventi proposti devono distinguersi da un buon grado di sincronicità tra di essi, e tra gli attori protagonisti, allineandosi alla stessa cultura aziendale, allineando così, azioni e pensieri;
  • Porsi sullo stesso piano del lavoratore: la professionalità che accompagna l’adempimento delle proprie funzioni, deve essere rispettosa delle gerarchie in campo, ma al contempo, non deve farsi influenzare da essa. Una scarsa consapevolezza del prorio modo di agire, può condurre, a comportamenti non funzionali, al contesto lavorativo, all’interazione coi propri colleghi e alla natura del compito richiesto in quel momento. Investendo sulla propria mindfulness, ci si può aspettare di rompere i vecchi automatismi, a favore di nuovi comportamenti, efficaci anche in momenti difficili, così considerato da Weick e Sutcliffe, che ritengono necessario far affidamento ad un approccio orientato alla mindfulness, quando vi è l’esigenza di prendere una decisione rapida ed importante, dando priorità alla prorpia competenza (o a quella dei propri collaboratori), piuttosto che far affidamento sulla propria autorità;
  • Buona leadership: non sempre si nasce buoni leader, sebbene ci si possa migliorare anche in tal campo. Vi sono tuttavia, diversi modelli di leadership che apportano differenti riflessi sulla struttura organizzativa. La ricerca, ha evidenziato come, tra i vari tipi di leadership, la leadership trasformazionale, può riuscire a mantenere alta creatività e performance del proprio gruppo, attraverso il consolidamento di alti standard di performance, mediante un equo incoraggiamento di tutti membri del proprio gruppo di lavoro . Le caratteristiche vincenti di un leader trasformazionale, sono state messe in relazione con i livelli di mindfulness e grazie a tale connubio, il leader può rafforzare le doti che portano il proprio team, a risolvere problemi e situazioni di stallo, in maniera creativa e vincente , poiché dinanzi ad una situazione problematica, una strategia prodotta da vecchie scelte, oltre che obsoleta, può rivelarsi sconveniente.
  • Decision Making: Hammond, noto esponente in quest’ambito, assieme ad altri colleghi , ha asserito che delle ottime pre-condizioni che garantiscono una presa di decisione efficace, sono un basso ricorso a processi euristici, unitamente ad un’alta attenzione data agli stimoli di natura interna ed esterna. La mindfulness, si caratterizza per essere un approccio adatto per unire a fattore comune entrambi i fattori, interrompendo i vecchi automatismi di pensiero , pertanto ricorrendo ad essa, è lecito aspettarsi un potenziamento delle dinamiche che conducono alla formazione della decisione, diminuendo i bias, e riducendo l’errore fondamentale di attribuzione, fattori che dispongono verso una decisione efficace.
  • Creatività: progettati per venire incontro ai bisogni cognitivi del proprio staff, ambienti più interessanti ed ergonomici (sale riunioni, postazione per la pausa lavoro, ufficio..) possono apporre beneficio sulla produzione di idee creative, un aspetto benaccetto, in un contesto culturale aperto alla ricerca di buone idee, consapevoli anche del fatto, che il tempo passato sul posto di lavoro, spesso e volentieri è più alto rispetto che a casa.
  • Agire sulla percezione e competenze: il fattore percettivo è un aspetto critico da considerare sia nel conferire un bene o servizio, che nelle pratiche interpersonali. La percezione è cruciale, per esempio, nei meccanismi che concorrono alla creazione di stereotipi. In quest’accezione, si vuole offrire uno spunto incentrato sugli addetti al front-line, che contribuendo a dare la prima immagine dell’azienda al cliente in entrata, implicano l’erogazione di competenza assieme ad una buona visibilità, coscienti del fatto che l’opinione finale del cliente, sarà influenzato da entrambi i fattori. Responsabili di tradurre l’atteggiamento organizzativo del nostro intero contesto professionale, questi operatori si caratterizzano in maggior misura per il fatto di mettere letteralmente la faccia, a differenza di altre mansioni che agiscono maggiormente dietro le quinte. Vogus e Sutcliffe, coerentemente a questa preoccupazione, segnalano che apporre restrizioni al mindfulness organizzativa, può impattare negativamente con l’expertise del nostro staff, mentre sul versante percettivo, risulta importante capire ed anticipare quelle che possono essere le emozioni a valenza negativa di una parte del nostro staff. Parliamo per esempio di medici ed insegnanti, categorie professionali spesso associate a fenomeni come il burnout. Una piena consapevolezza del modo di essere e di stare in un contesto lavorativo, va quindi di pari passo all’attenta analisi dei vissuti emotivi.
  • Scoraggiare l’attività multitasking: la mindfulness può rappresentare un antidoto per questo fenomeno. Il fenomeno del multitasking, interpretabile come una conquista della nostra evoluzione, può da un altro lato, suscitare una serie di allarmi . Una criticità sostenuta dalla ricerca, assegna difatti al fenomeno multitasking una valenza negativa, osservandola piuttosto come un’incapacità nel sostenere l’attenzione in maniera continuata, su un determinato compito. Glomb e Duffy (2011) hanno raccolto gli esisti di vari studi, e hanno indicato nella mindfulness, una risorsa diametralmente opposta alle culture organizzative che puntano a lavorare velocemente, a svolgere compiti in multi-tasking, e che tendono così ad essere soffocati dal prioprio lavoro.

Conclusioni

Una questione che la ricerca sulla mindfulness sembra non ancora aver risolto, è interrogarsi su come un tale atteggiamento, possa essere mantenuto nel tempo, soprattutto a livello organizzativo, poiché maggiormente combinato alla numerosità delle persone e dei fattori in gioco. Prima di divenire una pratica consolidata nell’individuo, la mindfulness può essere una conquista non priva di costi psicologici, e un grosso scoglio dell’intero approccio sembra per l’appunto, quello di riuscire a mantenere viva la potenzialità di tale risorsa, lungo i non pochi momenti di stress acuto.

Una risposta che si vuole suggerire, e che sembra emergere dai dati in possesso è data dall’adozione di una cultura di mindfulness, che organizzi i processi ad un livello più alto. Rispondendo alla fragilità con la quale sembra presentarsi la Mindful Organizing, una possibile soluzione potrebbe riguardare l’attenta valutazione e il continuo monitoraggio dei processi e delle risorse dispiegate, assieme alla considerazione delle esigenze di ogni singolo dipendente/mansione.

L’insieme di queste iniziative, andranno pertanto a far parte di un vero e proprio welfare aziendale, e il monitoraggio costante di tali variabili, si presenta come un’occasione per lo psicologo del lavoro, e del suo bagaglio conoscitivo, che se duttilmente impiegato, può garantire affidabilità nelle fasi di valutazione iniziale, nella ridisegnazione delle variabili lavorative e nel continuo monitoraggio.

Concludendo , sembra ancora presto per capire appieno la portata dei risultati raggiunti dalle aziende che si sono spese in queste termini, e dei diversi fattori contestuali in grado di impattare positivamente. Ciò nonostante, sembra abbastanza chiaro, che gli approcci vincenti in questo campo, hanno tenuto debitamente conto della moltitudine di aspetti sostenuti in questa trattazione.

 

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Gli interventi basati sulla mindfulness (2011) di Alberto Chiesa – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

  •  Brown, K., & Ryan, R. (2003). The Benefits of Being Present: Mindfulness and Its Role in Psychological Well-Being. J Pers Soc Psychol, 84(4), 822-48. DOWNLOAD
  • Cahn, B., & Polich, J. (2006). Meditation states and traits : EEG, ERP, and neuroimaging studies. Psychological Bulletin, 132(2), 180–211. DOWNLOAD
  • Festinger, L. (1957). A Theory of Cognitive Dissonance. California: Stanford University Press.
  • Gamberini, L., Chittaro, L., & Paternò, F. (A cura di). (2012). Human-Computer Interaction. I fondamenti dell’interazione tra persone e tecnologie. PEARSON EDUCATION ITALIA . ACQUISTA
  • Glomb, T., & Duffy, M. (2011). Mindfulness at Work. Research in Personnel and Human Resources Management, 30, 115–157. DOWNLOAD
  • Isaksen, S., & Gaulin, J. (2005). A re-examination of brainstorming research: Implications for research and practice. The Gifted Child Quarterly, 49. DOWNLOAD
  • Shin, Y., & Young, C. E. (2014). Team Proactivity as a Linking Mechanism between Team Creative Efficacy, Transformational Leadership, and Risk-Taking Norms and Team Creative Performance. The Journal of Creative Behavior, 48(2), 89–114.
  • Vogus, T., & Sutcliffe, K. (2012). Organizational mindfulness and mindful organizing: A reconciliation and path forward. Academy of Management Learning and Education, 11(4), 722–735. DOWNLOAD
  • Weick, K., & Sutcliffe, K. (2007). Managing the Unexpected: Resilient Performance in the Age of Uncertainty (2nd ed ed.). San Francisco: John Wiley & Sons, Inc. ACQUISTA

Cancellare i ricordi negativi è possibile!

Oggi è possibile realizzare tutto questo attraverso una nuova tecnica laser, l’optogenesi, che usa la luce pulsata per colpire i neuroni della parte del cervello collegata alle emozioni degli eventi passati negativi. Così facendo un brutto ricordo potrebbe essere trasformato in uno bello.  

Ricordate il film se mi lasci ti cancello? Narrava di una ragazza che, stanca della sua relazione ormai in fase di declino, decide, mediante un esperimento scientifico, di farsi asportare dalla mente tutti i ricordi relativi alla storia con il suo Joel.  

Ebbene, oggi è possibile realizzare tutto questo attraverso una nuova tecnica laser, l’optogenesi, che usa la luce pulsata per colpire i neuroni della parte del cervello collegata alle emozioni degli eventi passati negativi. Così facendo un brutto ricordo potrebbe essere trasformato in uno bello. 

Questo è quanto sostenuto nella ricerca pubblicata sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatori del Riken-MIT Centre for Neural Circuit Genetics, secondo i quali questa scoperta potrebbe portare a una svolta per tutti coloro che soffrono di disturbo post traumatico da stress.

La paura e l’angoscia provate da una persona durante un evento tragico possono continuare, nel tempo, a tormentarlo creando malessere. Ma il malessere deriva dall’emozione negativa esperita durante l’evento traumatico vissuto, che porta, successivamente, al non voler più fare quella cosa o al non andare più in quel luogo.

Ricordare l’evento, dunque, porta a rievocare l’emozione negativa vissuta in quell’istante e quindi a star male. A questo punto modificare il ricordo potrebbe essere la soluzione al problema.

Per agire sul circuito appena descritto, gli scienziati hanno studiato il cervello dei topi, osservando la reazioni avuta ad eventi di tipo positivo (socializzare con i propri simili) e ad altri di tipo negativo (elettroshock). Si è ottenuto che stimolando i neuroni, associati alle emozioni opposte a quelle negative esperite durante l’evento traumatico, il ricordo poteva essere capovolto, cioè da negativo poteva essere trasformato in positivo. Infatti, i topi che inizialmente erano ansiosi, dopo la stimolazione riuscivano a rilassarsi e viceversa. 

Ma non è finita, gli studiosi sono riusciti anche ad individuare il punto esatto in cui i ricordi prendono vita, ovvero l’ippocampo, mentre le emozioni collegate alla memoria si troverebbero nell’amigdala, ed è proprio questo il punto in cui la nuova tecnica dovrebbe essere applicata.

La psicoterapia aiuta il paziente a modificare le emozioni dopo aver lavorato sui pensieri (CBT) o a rievocare un ricordo doloroso per ridurre l’emozione negativa che ne deriva (EMDR), ma questa nuova tecnica potrebbe rendere ancora più efficiente e veloce il processo di liberazione dai brutti ricordi.

Quindi cancellare qualcosa di brutto dalla mente oggi sembrerebbe possibile!

 

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Procrastinazione: è influenzata da fattori genetici

FLASH NEWS

Uno studio condotto da ricercatori dell’Università del Colorado ha scoperto che la tendenza a procrastinare è influenzata da fattori genetici, che sono anche legati ad una propensione all’impulsività.

Ma quando si tratta di ritardare, non siamo tutti uguali: alcuni hanno la tendenza a farlo di più, altri meno. Il team di ricercatori di Boulder si è chiesto cosa, a livello genetico, determini questa varibilità individuale. I ricercatori hanno analizzato 181 coppie di gemelli identici e 166 coppie di gemelli diversi, indagando anche la loro capacità di impostare e mantenere gli obiettivi, la propensione a procrastinare e l’impulsività.

Secondo i ricercatori essere impulsivi ha un valore evolutivo perché ha aiutato i nostri antenati nella sopravvivenza quotidiana. La procrastinazione, d’altra parte, potrebbe essere a livello genetico, un “sottoprodotto evolutivo dell’impulsività”, che probabilmente appare con maggiore evidenza nel nostro mondo moderno di quanto abbia fatto nella relatà quotidiana dei nostri antenati, dal momento che ora ci concentriamo su obiettivi a lungo termine, da cui si possiamo facilmente essere distratti. 

 

Sulla base delle somiglianze comportamentali nei gemelli, i ricercatori hanno concluso che la procrastinazione può essere genetica, e che sembra avere una certa sovrapposizione genetica con l’impulsività.

Entrambi i tratti sarebbero anche legati alla capacità di governare gli obiettivi; e questo suggerisce che ritardare, prendere decisioni parziali e di essere in grado di raggiungere gli obiettivi sono tutti comportmenti radicati in una base genetica comune. 

I ricercatori stanno attualmente esaminando se i due tratti siano legati alla capacità cognitive superiori, e se le stesse influenze genetiche siano collegate con altri aspetti di autoregolamentazione della vita moderna.

 

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