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La conclusione della terapia: tre terapeuti aprono la discussione riflettendo sulle proprie trame relazionali – Congresso SITCC 2014

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La conclusione della terapia- tre terapeuti aprono la discussione riflettendo sulle proprie trame relazionaliIl congresso SITCC tenutosi a Genova ha avuto senza dubbio il merito di offrire uno spazio a momenti di riflessione che vanno oltre le linee guida, i protocolli e le analisi statistiche. Il simposio relativo alla fase conclusiva della terapia si colloca proprio in quest’orizzonte, dove non si espongono dati di ricerche condotte, ma si offre materiale per crearne di nuove, per ragionare su tematiche e processi a partire dal materiale umano.

Il dr. Manno presenta un caso clinico in cui la decisione di concludere la terapia viene presa dal paziente, dopo un anno e mezzo di lavoro continuativo e di obiettivi raggiunti. Emerge subito un dubbio, nella testa del terapeuta, condivisibile da chiunque svolga questo lavoro: E’ stato fatto tutto? Gli obiettivi raggiunti sono stabili nel tempo?. I sentimenti avvertiti sono di disagio, e un po’ di dispiacere. Il terapeuta concorda di concludere la terapia da lì a tre mesi: si svolge un bilancio di ciò che è stato fatto e si analizzano possibili scenari futuri.

Il dr. Manno condivide quindi una riflessione relativa a quando incominci la fase conclusiva della terapia e la risposta appare alquanto semplice: con l’inizio della terapia. Il dato che la terapia abbia un inizio e una fine è un elemento intrinseco al percorso stesso, una caratteristica del contratto terapeutico e una regola del setting.

Relativamente alle emozioni del terapeuta, invece, il dr. Manno si sofferma sul tema della perdita, nucleo centrale della conclusione di una terapia, ma non solo per il paziente. Il professionista perde a sua volta un percorso di terapia, e principalmente perde una relazione. I rischi maggiori in questa fase riguardano:

  • Un evitamento di tipo perfezionistico (del terapeuta che vuole assicurarsi che vada tutto bene), o di tipo euforico, che si concretizza nel mantenimento dei contatti con il paziente;
  • Un atteggiamento espulsivo da parte del terapeuta, che conclude troppo velocemente e bruscamente la terapia.

Pertanto risulta necessario che il terapeuta sia profondamente consapevole di tale perdita e delle conseguenze che comporta per entrambi i membri della relazione, al fine di gestire al meglio la parte conclusiva della terapia.

La dr.ssa Gianotti offre invece alla platea la presentazione di due casi clinici in età evolutiva, simili per l’interruzione prematura e non preannunciata della terapia, ma profondamente diversi per quanto riguarda le emozioni provate dalla terapeuta in seguito a tali conclusioni.

Nel primo caso presentato, l’interruzione della terapia avviene in seguito al parziale raggiungimento degli obiettivi e non lascia possibilità di una separazione preparata, come esposto nel contributo del dr. Manno. Le emozioni provate dalla terapeuta in tale situazione sono di rabbia e tristezza, sicuramente comprensibili visto il legame instauratosi con il paziente, per il quale l’ambulatorio della terapeuta era diventato la base sicura in cui potersi sentire accolto e non giudicato. In un secondo momento però, emerge la speranza che l’aver esperito una relazione nuova, diversa dalle altre in termini qualitativi, possa in qualche modo aver lasciato un’impronta positiva nel paziente. La rappresentazione interna del paziente assume quindi una connotazione diversa, in cui permane certo una dose di preoccupazione, ma ridimensionata nell’ottica dei successi terapeutici ottenuti.

Il secondo caso clinico delinea invece la storia di una relazione terapeutica interamente improntata sulla contrattazione, in cui era costantemente attivo il sistema agonistico. In seguito alla conclusione, dopo 18 mesi di incontri settimanali, emergono nella terapeuta sentimenti di ambivalenza, tra senso di colpa e rabbia: interessante notare che lo stile di attaccamento del paziente fosse di tipo ansioso ambivalente. I casi illustrati e le emozioni suscitate risultano molto complessi e difficili da interpretare. Emergono tuttavia alcune domande, che possono suggerire un punto di partenza: l’età del paziente può essere un fattore influente nei sentimenti avvertiti dal terapeuta a fine terapia? Quale potrebbe essere il ruolo dello stile di attaccamento del paziente? Tali domande rimangono per ora aperte, spunto di riflessione e di approfondimento.

L’intervento del dr. Furlani, relatore e chairman del simposio, si focalizza sul parallelismo tra conclusione della terapia e fine di una relazione affettiva.

Salvando senza dubbio l’emozione di soddisfazione che il terapeuta può provare al termine di un percorso terapeutico, si mantiene tuttavia anche il tema della perdita. Viene quindi rinforzata l’idea che tale perdita debba essere metabolizzata, vissuta nel tempo concedendosi gli spazi per accettare un cambiamento personale che, nella prospettiva del dr. Furlani, è inevitabile, in quanto prodotto dalla chiusura di una relazione. Emerge però una differenza rispetto alle relazioni affettive: in una relazione terapeutica è sempre il paziente che sceglie quando concludere la terapia e, di conseguenza, è sempre il terapeuta a essere lasciato, a perdere all’interno della relazione.

L’intervento del dr. Landini, discussant del simposio, rinforza l’idea che sia responsabilità del paziente decidere di intraprendere e di concludere la terapia.

In quest’ottica di libertà il terapeuta può, al momento giusto, permettersi di suggerire al paziente di fare un bilancio e di verificare il raggiungimento degli obiettivi senza per questo creare forzature. Il contributo finale, inoltre, aggiunge alla relazione terapeutica (e non) una connotazione che va oltre l’interazione tra le persone e che comprende anche la rappresentazione delle relazioni passate e la previsione delle relazioni future.

 

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Amore romantico e Psicoterapia cognitiva individuale e di coppia – Congresso SITCC 2014

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Amore romantico e psicoterapia cognitiva individuale e di coppia
Il Dott.Aquilar apre il simposio partendo dalle definizione che Branden (1990) dà dell’Amore Romantico:

Un attaccamento spirituale, emotivo, sessuale, appassionato, che riflette un’elevata considerazione per il valore dell’altro come persona.

Non è raro nella pratica clinica incontrare pazienti che ci riportano vissuti di sofferenza legati al rapporto di coppia.

Da qui l’importanza di mettere a punto tecniche per la psicoterapia individuale che aiutino nell’affrontare tali problematiche. E’ stato così illustrato dal Dott. Aquilar [Presidente dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva e Sociale (AIPCOS) e Didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC)] il procedimento della Psicoterapia Cognitiva per Problemi di Coppia presentando il Modello SEMPRE per l’Auto-Osservazione Guidata Complessa. Tale modello (Aquilar, 2011, 2012, 2013; Aquilar & Pugliese, 2011; Di Manna, 2011, 2013) viene applicato nella modificazione graduale delle sequenze emotive, cognitive e comportamentali  disfunzionali. Il paziente viene invitato a compilare una tabella in cui esplicitare:

Situazione (contesto, antefatto)

Emozioni (stati d’animo, stati corporei)

Meta-emozioni (cosa ho provato per aver provato E)

Pensieri (idee, immagini mentali)

Risposta (cosa ho fatto io e cosa hanno fatto gli altri)

Esito (come è andata a finire; cosa ho imparato da questo evento)

Seguono i codici interpretativi di tale modello, dai sistemi motivazionali interpersonali (se presenti oppure no, se attivi o inattivi, se ipertrofici o ipotrofici) alla Metacognizione e alle funzioni Metacognitive o Meta-rappresentazionali, consente di identificare Idee irrazionali/disfunzionali e distorsioni cognitive, e mettere in evidenza cicli interpersonali problematici ricorrenti. Consente di indagare sistemi di significato, la presenza o l’assenza di  Fattori di resilienza e i Fattori comunicativi e metacomunicativi (Aquilar, 2011).

Le tematiche legate all’innamoramento sembrano riscuotere un grande interesse messo in evidenza anche e soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa. Come suggerito dal Dott. Aquilar è possibile diffondere informazioni relative alla psicoterapia scientifica ricorrendo a questi mezzi cossichè non solo radio e televisione ma anche riviste e periodici possano parlare e diventare strumenti di promozione per la salute psicologica e mentale di coppia.

Come messo in luce dalla letteratura e dalla ricerca in ambito cognitivo, esistono processi ed interazioni ricorrenti nel distress di coppia che si organizza sulla struttura personologica dei soggetti della diade e sulle capacità di resilienza apprese dalla famiglia di origine. Compito del terapeuta è lavorare con il paziente sulle capacità cognitive, emotive e di comunicazione prendendo in considerazione sia gli aspetti di coppia che quelli individuali e mantenendo sempre e comunque uno sguardo attento al contesto psicosociale e alla fase di vita in cui si trova la persona.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Aquilar F., Pugliese M.P. (2011), a cura di, Psicoterapia cognitiva della depressione, Franco Angeli, Milano.  ACQUISTA ONLINE
  • Aquilar F. (2000/2012), Riconoscere le emozioni, Franco Angeli, Milano.  ACQUISTA ONLINE
  • Aquilar F. (2013), a cura di, Parlare per capirsi. Strumenti di psicoterapia cognitiva per una comunicazione funzionale, Franco Angeli, Milano.  ACQUISTA ONLINE

 

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Aspetti clinici e terapeutici dell’elaborazione episodica delle narrative autobiografiche – Congresso SITCC 2014

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Tutte le vite han bisogno di episodi. Aspetti clinici e terapeutici dell’elaborazione episodica delle narrative autobiografiche

Il simposio ‘Tutte le vite han bisogno di episodi. Aspetti clinici e terapeutici dell’elaborazione episodica delle narrative autobiografiche’ si apre con alcune osservazioni del Dott. Lenzi  che invita a riflettere sulla centralità dell’esplorazione narrativa dei vissuti personali nel contesto clinico.

Ogni orientamento psicoterapeutico  si contraddistingue per una specifica metodologia di raccolta della storia di vita del paziente. Si evidenzia, invece, come elemento comune  la necessità in terapia di co-costruire le narrative personali per favorire il processo di consapevolezza, di riformulazione e di integrazione di episodi critici.

I lavori presentati descrivono appunto i diversi modelli di rielaborazione narrativa delle memorie autobiografiche in varie popolazioni cliniche. Dai risultati emerge, in maniera trasversale, un miglioramento della competenza narrativa stessa, una rielaborazione più integrata (aspetti somatici, emotivi e cognitivi) e ricca dei vissuti, che acquisiscono nuovo significato per il paziente.

Lo studio di un caso clinico, presentato dal Dott. Samolsky-Dekel evidenzia bene i passaggi necessari per una ricostruzione di memorie episodiche che abbia valenza terapeutica. La terapia cognitivo-comportamentale si propone di monitorare e rendere più funzionale l’attività cognitiva del soggetto perché questo possa diventare maggiormente capace di affrontare situazioni critiche e problematiche. A tal fine, l’osservazione dell’ elaborazione narrativa diventa parte fondamentale del lavoro terapeutico poichè permette di far luce su ‘come’ gli individui organizzano la propria mente e danno coerenza a ciò che esperiscono.

Le ricostruzioni degli episodi sono guidate dalle domande del terapeuta (metodo della moviola di Guidano) che chiede al paziente di rievocare gli episodi critici e attivare selettivamente diversi sistemi di memoria. Questo intervento facilita l’integrazione dei ricordi e ha una valenza auto-organizzativa rispetto alla conoscenza di sé.

Questo percorso è caratterizzato da una sequenzialità di azioni:

  1. Costruire un idoneo contesto interattivo-conversazionale
  2. Individuare un tema/ problema
  3. Articolarlo sovra-episodicamente descrivendo come sono andate le cose in generale
  4. Individuare e rievocare episodi specifici
  5. Descrivere l’esperienza soggettiva relativa agli episodi suddetti
  6. Rielaborare la versione esplicativa, con elementi di riformulazione interna, integrando gli elementi emersi
  7. Favorire il posizionamento armonico del paziente, individuale e relazionale, verso la vicenda e il suo coping

La presentazione della Dott.ssa Di sturco ha approfondito, invece, il tema delle narrazioni autobiografiche nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI). L ‘interesse per questo ambito nasce dall’osservazione clinica di pazienti con disturbo di personalità che presentano deficit della funzione narrativa. La comprensione della sofferenza e dei meccanismi ricorsivi di funzionamento è così fortemente ostacolata, perciò la TMI lavora nella direzione di implementare questa fondamentale competenza.

L’esplorazione narrativa avviene utilizzando alcune tecniche che favoriscono la risignificazione in ottica relazionale della storia di vita. Il terapeuta TMI parte da episodi attuali e chiede di rievocare eventi passati ricollegabili per similarità del contenuto emotivo. Aiuta il paziente ad elicitare memorie autobiografiche, spesso carenti, ricostruendo assieme o prescrivendo l’uso di diari e promemoria. 

A  partire dai racconti si definiscono in modo condiviso alcune componenti che caratterizzano l’episodio critico: emozioni, pensieri, scopi, percezione dell’altro, percezione di sé, reazione del sé all’altro.

Queste dimensioni permettono la costruzione complessiva dello schema di sé, indispensabile al paziente per avere una visione di sé più integrata e predisporsi al cambiamento.

Anche per questo studio è stato osservato un miglioramento significativo della funzione narrativa (integrazione di aspetti emotivi, somatici e cognitivi, individuazione dei nessi causali etc.) attraverso un’analisi qualitativa dei resoconti.

Il Dott. Di Maggio chiude il simposio sottolineando la necessità di un maggiore rigore metodologico per quanto riguarda la valutazione dei resoconti; esistono, infatti, parametri  internazionali a cui far riferimento che permettono una più affidabile analisi qualitativa. Pone, inoltre, la questione dell’interazione di variabili aspecifiche, come gli stati interni transitori e  le caratteristiche di personalità, rispetto all’implementazione della funzione narrativa e agli esiti del processo terapeutico.

 

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Trauma e Disturbi dell’Alimentazione: l’esperienza di un’unità specializzata nella riabilitazione psico-nutrizionale – Congresso SITCC 2014

Congresso SITCC 2014 Genova

Trauma e Disturbi dell’Alimentazione: l’esperienza di un’unità specializzata nella riabilitazione psico-nutrizionale con approccio multidisciplinare integrato cognitivo-comportamentale 

Relatori: P. Todisco; R. Castegnaro, L. Carli; C. Cazzola

Chairman: P. Todisco, Unità per i DCA, Casa di Cura Villa Margherita, Arcugnano (VI)

Discussant: S. Sassaroli, Studi Cognitivi Milano 

 

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Processi psicopatologici ed interventi di distanza critica nell’ACT – Congresso SITCC 2014

Congresso SITCC 2014 Genova

Processi psicopatologici ed interventi di distanza critica nell’ACT 

Luca Calzolari, Psicologo Psicoterapeuta Docente SCF

Andrea Bassanini, Psicologo Psicoterapeuta Terapeuta ACT 

 

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L’Effetto Placebo da Farmaci e da Relazione Terapeutica – Congresso SITCC 2014

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Effetto Placebo da farmaci e da relazione terapeutica - SITCC 2014 Si parla ancora di effetto placebo, quell’influenza della mente sul corpo, quel cambiamento organico che avviene in seguito all’attribuzione di un significato simbolico al rituale terapeutico che va al di là dell’effettivo contenuto chimico del farmaco, in una perfetta interazione mente-cervello-corpo.

Il Prof. Benedetti apre il simposio illustrando un caso particolare: la risposta placebo in pazienti con deficit dei lobi frontali. La corteccia prefrontale dorso laterale fa parte del sistema di controllo esecutivo, si occupa dunque delle funzioni esecutive ed è un punto cruciale per l’elaborazione delle aspettative. Studi di bioimmagine evidenziano che, mel momento in cui si installa un protocollo di apprendimento, si ha l’attivazione della corteccia prefrontale dorso laterale e il segnale dalla prova di condizionamento in poi, aumenta.

Cosa succede dunque se quest’area subisce dei danni? Senza un controllo prefrontale (casi di degenerazione della sostanza bianca o di deficit della DLPFC come per i pazienti affetti da Alzheimer che presentano una sconnessione dei lobi prefrontali rispetto al resto del cervello) scompaiono totalmente i meccanismi di aspettativa e di conseguenza non c’è la risposta placebo.

I lobi frontali svolgono quindi un ruolo fondamentale nell’effetto placebo ma non solo, data l’additività dell’effetto del contesto psicosociale all’effetto puramente farmacologico, anche durante la somministrazione di un farmaco vero e proprio è importante tenere conto della ridotta capacità dei pazienti con questi deficit di mettere in atto meccanismi di aspettative positive per modulare la dose del farmaco e compensare la mancanza.

Ma se l’effetto placebo è l’effetto del contesto psicosociale, la componente psicologica della terapia, si può parlare di effetto placebo in psicoterapia?

È quanto prova a fare il Dott. Farina nel suo intervento: My fair therapist: la relazione terapeutica tra effetti specifici e placebo.
Mimando la ricerca farmacologica, anche in psicoterapia si è cercato di paragonare una psicoterapia effettiva e una psicoterapia placebo ma ci si è ben presto resi conto che non è possibile realizzare un vero e proprio placebo nella ricerca in psicoterapia.

Quando si somministra un placebo è bene farlo in doppio cieco (né paziente né medico lo sa) e questo in psicoterapia non si può fare. Quello che si può fare, ed è stato fatto, è raffinare i gruppi di controllo aggiungendo o sottraendo delle tecniche psicoterapeutiche specifiche o delle componenti terapeutiche per valutarne l’efficacia e gli effetti. Tuttavia anche in questo caso non è possibile parlare di un vero e proprio effetto placebo: l’idea che il placebo sia arricchito dei significati impliciti ed espliciti attribuiti alla terapia ha fatto pensare alla possibilità che il placebo potesse essere una terapia aspecifica, ma per quanto si possano individuare delle componenti diverse nel processo psicoterapeutico, non è possibile assumere la relazione terapeutica come componente aspecifica del processo né avrebbe alcun senso farlo, data la natura del processo.

Infine il Dott. Ruberti approfondisce il tema spostando l’accento su una questione diversa ma altrettanto fondamentale: il consenso informato.

È indubbia l’importanza della correttezza e della trasparenza nei confronti del trattamento a cui un paziente viene sottoposto. Ma non tutti i contesti si prestano allo stesso modo. Nel contesto psichiatrico questo argomento è delicato e importantissimo proprio perché non è sempre facile e soprattutto utile informare il paziente che potrebbe ricevere un placebo al posto del farmaco.

La letteratura dice che quello psichiatrico è uno dei contesti più efficaci proprio perché la dimensione rituale è molto importante e associata a immagini simbolicamente particolari: il medico con il camice così come gli elementi ambientali, favoriscono significativamente l’efficacia del placebo.

Viene usato principalmente per disturbi temporanei, ricercando degli effetti immediati come nei disturbi soggettivi di ordine fisico o agitazione e insonnia, e soprattutto per pazienti molto richiedenti farmaci al fine di abbassare il livello di farmaci somministrati.

Ma l’equilibrio è precario e le tematiche della fiducia e del sospetto sono importantissime per la relazione terapeutica in psichiatria tanto quanto in psicoterapia. Il problema da porre è dunque se il placebo non detto sia un imbroglio o se, comunicando al paziente che potrebbe ricevere un placebo al posto del farmaco questo riduca l’effetto.

Un ottimo spunto dunque, per ricerche e riflessioni future.

 

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L’effetto Placebo – Plenaria con il Prof. Benedetti -Congresso SITCC 2014

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Effetto Placebo PLenaria - SITCC 2014 Per l’ultima giornata del congresso SITCC il Prof. Fabrizio Benedetti ha discusso in plenaria di effetto placebo: quell’affascinante interazione fra mente e corpo in cui eventi mentali complessi sono in grado di influenzare l’organismo e la sua chimica.

Il placebo è un farmaco o una terapia inerte, che di per sé non ha proprietà terapeutiche, nato per i gruppi di controllo nella ricerca scientifica. Negli anni però oltre alle scoperte sui farmaci, si è reso via via più evidente che nonostante fosse privo di un potere curativo intrinseco, anche il placebo produceva effetti simili alla cura che simulava. Perché?

Perché anche le parole cambiano il cervello.

Quando un medico somministra un farmaco ad un paziente non gli sta dando solo una molecola ma gesti, parole e strumenti insieme ad essa. E diversi studi mostrano che è il farmaco più il contesto psicosociale che lo accompagna (stimoli sensoriali e stimoli sociali) a mettere il paziente in uno stato di aspettativa positiva. È il rituale dell’atto terapeutico nella sua interezza a provocare il cambiamento dell’attività neuronale in grado di indurre un cambiamento clinico, in un eccezionale connubio tra biologia e psicologia.

Numerosi studi dimostrano che mettersi in uno stato di aspettativa positiva (di beneficio terapeutico) è un’attività mentale complessa e un’attività mentale complessa può produrre un cambiamento a livello cerebrale: tutti questi rituali infatti attivano gli stessi recettori e le stesse vie biochimiche dei farmaci riuscendo a produrre un cambiamento dell’attività neuronale.

Parlare di effetto placebo al singolare è però impreciso: esistono diversi meccanismi e diversi effetti placebo, i modelli più studiati sono quelli per il dolore e per il Morbo di Parkinson.

In questi due casi è stato provato che suggestioni verbali positive inducono aspettative positive nel paziente che hanno un effetto analgesico.

Le suggestioni verbali sono in grado di attivare i recettori oppioidi (i recettori mu, specifici per la morfina), gli endocannabinoidi, la via della ciclossigenasi e i recettori della dopamina, esattamente come fanno i farmaci.
Ci sono ovviamente delle differenze, precisamente: nella durata, variabilità e grandezza dell’effetto che sono minori con il placebo rispetto al farmaco.

Ma non solo, un’altra più curiosa differenza è che non tutti rispondono al placebo.

Per provare a spiegare come questo sia possibile sono state avanzate tre ipotesi principali:

  • L’apprendimento: aver esperito l’efficacia di un farmaco porta il paziente ad avere fiducia nel farmaco stesso e dunque ad aspettarsi un effetto positivo dopo la sua assunzione. Questo gioca un ruolo fondamentale: lo dimostra il fatto che l’effetto placebo è più significativo in chi è stato esposto a trattamenti efficaci prima di prendere il placebo.
  • La genetica: diversi genotipi rispondono bene al trattamento placebo, altri no.
  • La personalità: chi presenta una predominanza di quelli che possono essere definiti tratti dopaminergici (chi cerca novità,rischio,…) sembra rispondere meglio al placebo.

La ricerca ha indagato anche gli effetti dei farmaci somministrati senza rituale (hidden drug) come controprova dell’effettiva influenza del contesto.

Il farmaco ha funzionato ma in una misura inferiore rispetto alla condizione precedente a conferma del modello dell’effetto placebo: la componente psicologica ha effetti rilevabili. Le aspettative del paziente attivano delle molecole del cervello che si vanno a legare agli stessi recettori dei farmaci, sebbene in aree diverse del cervello.

Gli effetti sono dunque additivi ma non solo: usando le medesime vie biochimiche dei farmaci, l’effetto placebo è in grado di modulare persino l’azione dei farmaci stessi.

 

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Dipendenze patologiche: nuove prospettive e tecniche metacognitive – Congresso SITCC 2014

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Dipendenze patologiche- nuove prospettive e tecniche metacognitive - sitcc 2014

L’esperienza di craving non è qualitativamente diversa dall’esperienza del desiderio ed è è molto simile tra le diverse persone dipendenti, indipendentemente dal tipo di sostanza implicata. Il craving risulta quindi essere l’estremizzazione di una normale esperienza di desiderio che tutti possiamo provare: quale è allora la differenza tra chi prova una normale esperienza di desiderio e chi prova un’esperienza di craving? 

Il simposio che vede il Dr. Popolo nel ruolo di Chairman e il Dr. Caselli nel ruolo di Discussant si apre con la presentazione di quest’ultimo, che introduce il tema delle dipendenze e del craving, inserito nel recente DSM-5 come criterio diagnostico.

L’esperienza di craving non è qualitativamente diversa dall’esperienza del desiderio ed è è molto simile tra le diverse persone dipendenti, indipendentemente dal tipo di sostanza implicata. Il craving risulta quindi essere l’estremizzazione di una normale esperienza di desiderio che tutti possiamo provare: quale è allora la differenza tra chi prova una normale esperienza di desiderio e chi prova un’esperienza di craving?

La differenza sembra farla il modo in cui le persone rispondono cognitivamente quando le immagini legate al desiderio giungono alla coscienza: questa esperienza può diventare transitoria se decidiamo che non è il momento di soddisfare quel desiderio oppure può diventare pensiero desiderante se la persona vi si sofferma in modo attivo.

 

Il pensiero desiderante ha due componenti (una verbale e una immaginativa) e anche se nel breve periodo può essere appagante, nel lungo termine porta a frustrazione e produce un’escalation di craving e senso di deprivazione. Infatti, mentre da una parte pensando in modo desiderante aumento il craving, dall’altra scelgo consapevolmente di non agire e questo mi porta ad una continua e faticosa soppressione del desiderio stesso. Desiderare può diventare disfunzionale se è un’attività perseverante, scarsamente regolata e relativa a scopi che non voglio in coscienza perseguire.

Secondo il modello di Wells, ci sono credenze metacognitive che spingono le persone a reagire in modi diversi davanti al desiderio. Queste credenze possono essere negative (relative al pericolo e all’incontrollabilità del pensiero desiderante) o positive (rispetto ai benefit percepiti nel pensiero desiderante, a situazioni e condizioni in cui pensare in modo desiderante “aiuta”).

Il modello presentato (Spada, Caselli & Wells, 2013) comprende tutte queste credenze eè stato validato su 4 campioni diversi di dipendenti da alcol, gamblers, dipendenti da internet e fumatori. Secondo questo modello, le intrusioni attivano credenze metacognitive positive, che portano all’attivazione del pensiero desiderante, che può avere un effetto di sollievo nell’immediato ma passando per le credenze negative sul pensiero desiderante stesso arriva a sostenere un’esperienza di craving. Il fatto di cedere alla fine viene percepita come l’unica strategia che il paziente adotta per uscire da una situazione di stress crescente che valutato come intollerabile.

Impulsi e desideri non sono allora un problema, ma il problema sembra essere il modo in cui vi rispondiamo. “Non possiamo sentire meno desiderio se pensiamo di più al desiderio, e pensare molto a desideri che non vogliamo realizzare non è una buona idea”.

In seguito, la Dr.ssa Gemelli presenta un lavoro in cui sono stati confrontati due interventi attentivi: uno di abituazione e uno di applicazione della SAR (Situational Attentional Refocusing) su un campione di 8 pazienti con diagnosi di abuso di alcool, valutando le ricadute di questi due interventi sulla percezione del craving e sulle credenze metacognitive a 1, 3 e 5 minuti di tempo.

I risultati delle analisi dei dati mostrano che l’intervento SAR riduce le credenze metacognitive sull’incontrollabilità e riduce sia il craving che la sensazione di perdita di controllo. Per questa condizione il tempo sembra non avere importanza: quello che importa è la condizione, cioè il compito a cui il soggetto è sottoposto. Al contrario, nella condizione di abituazione la riduzione di tutti i parametri raccolti è più lenta e il tempo diventa significativo.

La terza relazione è presentata dalla Dr.ssa Pasinetti del Centro TMI e tratta degli schemi interpersonali maladattivi in pazienti in doppia diagnosi (con utilizzo di sostanze e concomitante disturbo di personalità). Viene inizialmente sottolineata la difficoltà ad assegnare ai pazienti una doppia diagnosi, e si prosegue mostrando come la correlazione tra disturbo di personalità e uso di sostanze sia intorno al 90%.

 

Interessante l’approfondimento sulla necessità di approfondire l’uso e l’abuso di sostanze nel Cluster C di personalità: i disturbi di personalità e l’uso di sostanze si rinforzano a vicenda, e le caratteristiche del disturbo di personalità da una parte portano il paziente a essere più sensibile alle ricadute, dall’altra aumentano le difficoltà nella relazione terapeutica. In questo senso, la TMI considera come focus preferenziale dell’intervento le disfunzioni metacognitive, gli schemi maladattivi e i cicli interpersonali problematici.

La relatrice prosegue sottolineando come le sostanze siano la prima forma disfunzionale di auto-terapia che questi pazienti usano per non sentire una rappresentazione del sé dolorosa e approfondisce con esempi clinici il modo in cui gli schemi relazionali di base innescano cicli interpersonali disfunzionali.

L’ultima relazione della Dr.ssa D’Urzo del centro TMI si apre con un caso clinico di un paziente con dipendenza da eroina e in seguito riporta il percorso di trattamento che inizia dal tentativo di fare evocare al paziente memorie autobiografiche chiare, che lui fa a fatica, con conseguente impossibilità da parte della terapeuta e del paziente a esplorare gli stati mentali.

La terapeuta decide allora di sospendere l’esplorazione degli stati interni e spostare il focus sulla relazione terapeutica per creare un’atmosfera cooperativa e all’interno di episodi narrativi andare a individuare pensieri e emozioni, arrivando a identificare gli stati che lo portano a usare sostanze.

Il terzo passo è la ricostruzione dei nessi psicologici di causa-effetto tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti. Il quarto punto è l’evocazione delle memorie autobiografiche che siano simili psicologicamente a quelle raccolte finora, e a partire dalle quali (quinto passo) si va a ricostruire lo schema sulla base dei diversi episodi raccontati. La promozione del cambiamento arriva dopo la restituzione dello schema e inizia con la differenziazione (tra i suoi schemi e la realtà), e con l’assunzione di prospettive differenti per avere accesso alle parti sane del paziente.

In chiusura, il discussant sottolinea le differenze tra le prime due relazioni e le ultime due, proponendo come le prime vadano a intervenire sui mediatori del cambiamento (attraverso un intervento preciso ma che rischia di essere puntiforme) mentre le ultime cerchino di intervenire sui moderatori (portando ad una visione più ricca e a tutto tondo di quello che può intervenire sul disagio ma con il possibile svantaggio di perdersi nella vaghezza che può non modificare in modo specifico i punti che mantengono la psicopatologia). 

In un’ottica cooperativa e di auspicabile integrazione, si chiude il simposio nell’accordo di tutti rispetto all’interesse clinico e di ricerca a confrontarsi e confrontare i diversi modelli di trattamento in particolare sui pazienti con doppia diagnosi. Ci aggiorniamo tra due anni.

 

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Congresso SITCC 2014

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Cognitivismo corporeo: sinonimo o ossimoro? Simposio Congresso SITCC 2014

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Il corpo e la terapia cognitiva - SITCC 2014

Al centro del simposio presieduto dal Dott. Ruberti “Il corpo e la terapia cognitiva” c’è il corpo: il corpo come mezzo di conoscenza e come strumento terapeutico.

Come spiega il Dott. Antonio Fenelli, sempre più spesso le persone in difficoltà cercano una spiegazione (e a volte una soluzione) in quello che pensano, al massimo nelle emozioni che provano ma mai in quello che sentono con il corpo. È come se si fosse persa la fiducia in ciò che il nostro corpo ci fa sapere preferendo affidarsi al verbale, ma il verbale inganna tanto quanto inganna il corpo.

Da qui la proposta di riportare l’attenzione sulle sensazioni corporee. Mettere insieme sensazione e cognizione come parte di un tutt’uno, integrare le informazioni e, perché no, astrarre partendo dal corpo.

Non poteva che essere il corpo, dunque, protagonista e strumento unico anche degli interventi in un simposio tutto esperienziale.

La prima simulata è stata proposta dalla Dott.ssa Valeria Ginex: partendo dal teatro russo di inizi novecento fino ad arrivare a parlare di embodied cognition, ha mostrato quanto fondamentale sia il corpo per suscitare emozioni in sé e negli altri.

Nella recitazione, ad esempio, il corpo è persino più importante della parte verbale. Quando postura e gestualità sono incongruenti rispetto al verbale, infatti, sono le prime a mandare il segnale più forte allo spettatore, a suscitare emozioni più intense. Le ricerche di Stanislavskij avevano dimostrato l’efficacia di un approccio bottom up: partire non dalla rievocazione mnemonica, e dunque mentalizzata, dalle emozioni ma dalla loro espressione corporea perché se le azioni fisiche rispecchiano l’emozione riescono a suscitare l’emozione stessa a conferma del predominio dell’azione sul verbale.

Sulla stessa linea di pensiero l’embodied cognition dice che le funzioni cognitive e il sistema senso-motorio sono ampiamente in interazione, e porta evidenze anche a livello fisiologico: quando si elicita un’emozione, oltre all’insula, si attiva anche il sistema senso motorio.

A seguire l’intervento del Dott. Lorenzo Cionini ha affrontato il tema parlando di condivisione e intersoggettività nel silenzio e nel dialogo dei corpi e delle parole. Due colleghi hanno simulato un breve colloquio per riflettere poi su cosa cambia nel corpo durante la narrazione, come il corpo esprime sensazioni ed emozioni e quanto di questo sia consapevole a sé e all’altro in relazione.

La Dott.ssa Savina Stoppa Beretta ha proposto, invece, un esercizio sullo spazio e la prossimità: 8 volontari, in silenzio, hanno dapprima camminato in maniera libera nello spazio a disposizione e successivamente è stato chiesto loro di posizionarsi su due file disposte una di fronte all’altra e andarsi incontro a turno.

La gestione dello spazio e delle distanze hanno permesso di fare luce sulle diverse prospettive e percezioni e su come anche in silenzio sia possibile comunicare sensazioni e stati d’animo.

Come ha concluso il Dott. Benedetto Farina, un approccio terapeutico che non solo tenga in considerazione il corporeo ma parta da esso ha in sé una grande forza. Uno degli ambiti di applicazione più efficace potrebbe essere quello dei pazienti traumatizzati o gravemente dissociati; in questi casi, infatti, non si può utilizzare la cognitività alta ma si deve partire dalla base e, dunque, il corpo é l’ideale.

Perché quando si comincia a scoprire il proprio corpo, si scopre anche qualcosa di sé.

 

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Tra fedeltà dovute e tradimenti confessati: la diffusione e l’adattamento italiano del coping power program – Congresso SITTC 2014

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Tra fedeltà dovute e tradimenti confessati - SITCC 2014

Nel simposio presieduto dal Dott. Furio Lambruschi e Giuseppe Romano si è discusso su come il  Coping Power Program possa essere adattato e utilizzato con successo nel contesto socio culturale italiano.

Il Coping Power Program (Lochman e Wells, 2002) è un programma multimodale per il controllo e la gestione della rabbia per i bambini di età scolare, basato sull’intervento cognitivo comportamentale e sul modello socio-cognitivo di elaborazione dell’informazione di Dodge (Crick e Dodge, 1994).

Il Coping Power Program, inizialmente denominato Anger Coping Program, prevede sessioni di gruppo con i bambini e sessioni di parent training per i genitori. Tale modello di trattamento è riconosciuto oggi dal governo degli USA, nonché dalla comunità scientifica internazionale, come efficace nella prevenzione in bambini e adolescenti che presentano uno scarso rispetto delle regole sociali, comportamenti violenti e abuso di sostanze.

Durante il simposio, Dott. Pietro Muratori ha esposto la sua esperienza su come il programma  Coping Power possa essere inserito ed utilizzato con successo nel contesto italiano. A tale proposito è stato presentato il servizio “Al di là delle Nuvole” per il trattamento dei disturbi del comportamento in età evolutiva dell’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (PI).

 Tale servizio si focalizza sia sui processi del contesto familiare che sui processi cognitivi dei bambini, cercando di promuovere migliori strategie di problem solving e migliori modalità di relazione con i pari. Dai risultati di questi interventi emerge come i bambini che hanno partecipato al programma Coping Power, all’interno del servizio migliorino notevolmente dal punto di vista comportamentale. 

Inoltre, dall’intervento della Dott. Laura Vanzin emerge come il Coping Power Program possa essere adattato e utilizzato nel lavoro con i bambini affetti da Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività (ADHD).

L’aspetto più interessante che è emerso dall’ esposizione della Dott. ssa Vanzin si è focalizzato  su come la consapevolezza possa essere potenziata attraverso un Programma di Coping Power nei bambini con ADHD.

Aumentando la consapevolezza dell’ io, dei pensieri, delle sensazioni corporee, del contesto e della storia personale il bambino impara a focalizzarsi sulle proprie esperienze di vita capendole e gestendole adeguatamente. 

In tal modo, il bambino affetto da ADHD sviluppa l’abilità di stare nel momento presente con piena consapevolezza e apertura all’esperienza, impegnandosi in azioni che siano in linea con i valori personali. 

Inoltre, come sottolineava il dott. Buonanno nel suo intervento durante il simposio, il Coping Power Program riduce i costi relativi all’impatto della sintomatologia esternalizzante (ADHD) e migliora l’attenzione in supervisione in quanto si focalizza sugli acting: prevede le circostanze attivanti e sviluppa regolarità. 

Dall’intervento di Dott. Furio Lambruschi emerge come il Coping Power Program possa essere utilizzato come servizio Sovradistrettuale per il trattamento dei disturbi generalizzati, lavorando sia sui bambini che sui genitori.

Il lavoro sui bambini, ha come obiettivo quello di potenziare: l’abilità a intraprendere obiettivi a breve e a lungo termine, l’organizzazione e le abilità di studio, il riconoscimento e la modulazione della rabbia, il problem solving in situazioni conflittuali, l’abilità a resistere alle pressioni dei pari, le abilità sociali e l’ingresso in gruppi sociali positivi.

Invece il lavoro con i genitori è volto a sviluppare e potenziare le abilità genitoriali relative a: gratificare e fornire attenzione positiva, stabilire regole chiare ed esprimere le aspettative sul comportamento del figlio, promuovere l’organizzazione e le abilità di studio, utilizzare appropriate pratiche educative, modulare lo stress genitoriale, incrementare la comunicazione familiare ed il problem solving in situazioni conflittuali, rinforzare le abilità di problem solving che i bambini stanno acquisendo. 

In conclusione il Dott. Giuseppe Romano sottolinea quanto sia importante essere flessibili rispetto all’utilizzo di protocolli come Coping Power Program presi da contesti culturali diversi come quello statunitense in quanto essi possono essere adattati con successo al contesto socio culturale italiano attraverso un lavoro congiunto.  

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In ricordo di Vittorio Guidano: la scienza della conoscenza – Congresso SITCC 2014

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SIMPOSIO Vittorio Guidano - SITCC 2014

Sono passati ormai 15 anni dalla scomparsa di uno dei padri fondatori della SITCC e del Cognitivismo Post-Razionalista, Vittorio Guidano, e il simposio presieduto dalla Dott.ssa Ardito è l’occasione per ricordare un uomo che è stato per molti un maestro e un mentore. 

Si alternano così gli interventi di colleghi, ma anche amici stretti, e le testimonianze di ex allievi ora co-trainer, in un’atmosfera che si fa via via sempre più carica emotivamente.

Qualcuno tra i presenti si commuove. Per chi non ha conosciuto Vittorio Guidano, i racconti di aneddoti personali del Dott. Reda, del Dott. Balbi e della Dott.ssa Pelliccia intrecciati con i suoi insegnamenti, restituiscono l’immagine di un uomo con un amore infinito per la cultura umanistica e scientifica ed un terapeuta precursore dei tempi. “Parlare con lui era illuminante in qualsiasi circostanza, a lezione come dopocena.” 

 

Vittorio Guidano era fissato con un metodo che fosse esplicativo e non solo descrittivo, che potesse spiegare i motivi dello scompenso psicopatologico – racconta il Dott. Reda – e fu il primo ad inventare agli inizi degli anni ’80 i training di formazione, in cui gli allievi avevano come obiettivo quello di capire chi fossero e venivano valutati in base al loro cambiamento alla fine del training.

Tra i suoi più grandi lasciti vengono ricordati l’importanza del ruolo del terapeuta come perturbatore strategicamente orientato, l’importanza attribuita al lavoro sullo stile affettivo, la concettualizzazione di quello che il Dott. Balbi definisce il più potente modello esplicativo del Self e l’idea che l’eziologia del disturbo psicopatologico sia radicata nello scompenso affettivo:

[blockquote style=”1″]La Terapia Cognitiva Post-razionalista è un metodo attraverso il quale il terapeuta conduce il paziente nella ricostruzione del suo scompenso affettivo, con l’obbiettivo di promuovere, attraverso la distinzione ed integrazione di tutta la gamma di emozioni, sentimenti e stati intenzionali alla discrepanza affettiva in questione, una riorganizzazione progressiva del sistema personale in un nuovo e più articolato livello di coscienza che contenga la nuova maniera di sentirsi.[/blockquote]

A 15 anni dalla sua scomparsa, il grande vuoto che ha lasciato nel panorama cognitivo post-razionalista italiano si sente ancora, nell’attesa che qualcuno riesca ad avere nuove brillanti intuizioni cliniche che possano dare nuovo slancio a questa corrente cognitivista cosi stimolante.

 

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Sogno e Psicoterapia Cognitiva – Congresso SITCC 2014

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Sogno e Psicoterapia Cognitiva - Congresso SITCC 2014

Il simposio Sogno e Psicoterapia Cognitiva si è focalizzato sulle modalità di utilizzo dei sogni in Psicoterapia Cognitiva, prendendo in considerazione diversi punti di vista e diversi orientamenti teorico-clinici: differenti gruppi di ricerca, alcuni di formazione costruttivista altri più vicini all’orientamento cognitivo-comportamentale, hanno dialogato tra loro coordinati dal dott. Aquilar, esponente del modello cognitivo-sociale.

Il gruppo del dott. Bara apre la discussione proponendo un modello costruttivista volto all’ interpretazione emotiva dell’esperienza onirica. L’assunto fondamentale del metodo di interpretazione proposto assume che il sogno sia determinato dalle emozioni attive nel sognatore e possa essere dunque impiegato come strumento per conoscerle in modo più immediato rispetto alla veglia. Non ci dice cos’è successo in passato o cosa succederà in futuro, ma ci mostra il nostro vissuto rispetto alla situazione in cui siamo nel presente.

La trama del sogno, quindi, passa in secondo piano poiché lo scopo terapeutico è incentrato sul recupero consapevole, per quanto possibile, dello stato emotivo onirico. Come afferma il dott Bara “compreso nel suo significato, il sogno diventa un indicatore di direzione: non un vincolo ma una suggestione”.

L’intervento del dott. Rezzonico presenta invece lo stato attuale dell’uso del materiale onirico in Psicoterapia Cognitiva, con un focus particolare all’approccio costruttivista.

Nello specifico, Rezzonico si è soffermato sull’analisi delle differenze esistenti tra l’approccio costruttivista e quello razionalista. Le due correnti, seppur rappresentabili lungo un continuum, ci riportano aspetti talvolta dialoganti e talvolta totalmente scissi.

Il modello razionalista utilizza l’interpretazione dei sogni quando il lavoro terapeutico raggiunge un momento di stallo, l’obiettivo diventa identificare le distorsioni cognitive che accomunano il sogno alla veglia, influenzando la vita del paziente. Si tratta di una sorta di terapia didattica che insegna al paziente “come fare bei sogni”.

L’interpretazione onirica in ottica costruttivista si basa invece su un lavoro di co-costruzione del sogno tra paziente e terapeuta che insieme scelgono il livello di analisi. L’enfasi viene posta sulle emozioni e sulle discrepanze emozionali tra ciò che il paziente ha sognato e l’emozione provata durante l’attività onirica.

L’obiettivo terapeutico diventa quello di far emergere significati personali e raggiungere un maggior livello di consapevolezza. Non si tratta di un significato inconscio che il terapeuta svela al paziente ma di una co-costruzione di significati tra paziente e terapeuta. Il sogno, diventa quindi un mezzo per accedere a nuovi orizzonti personali, prenderne consapevolezza e facilitare il cambiamento nella vita reale.

In conclusione sono stati approfonditi dal dott. Sibillia aspetti relativi alla pratica dei sogni intenzionali nella sindrome da incubi, mentre la dott.ssa Borgo ha concluso il simposio con un interessante parallelismo tra l’attività onirica e i fenomeni allucinatori tipici delle psicosi indotte dall’uso di cannabinoidi.

 

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Sogni

L’Interpretazione dei Sogni

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La formazione personale dei terapeuti nell’ottica post-razionalista – Congresso SITCC 2014

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il lavoro su di sè nel training di formazione - Congresso SITCC 2014

In relazione agli studi riportati risulta importante, per fare una buona psicoterapia, sapersi sintonizzare sul paziente oltre a saper riconoscere e gestire i propri stati emotivi.

Reda ci presenta interessanti studi sulla sintonizzazione tra terapeuta e paziente. Marci C. et al. (2007) hanno misurato il livello di tensione dell’emozione tramite GSR (Galvanic Skin Resistence) mostrando come possano essere presenti diversi livelli di concordanza fisiologica tra paziente e terapeuta.

Le sedute in cui tale concordanza era alta venivano considerate dal paziente come più positive, ed inoltre, successivamente a tali sedute, il paziente esperiva maggior benessere.

Vengono poi presentati successivamente altri studi (Reda et al. 2011; Canestri et al. 2008) dove viene evidenziato come il terapeuta sia meno attivato emotivamente rispetto al paziente prima della seduta, ma tale attivazione è inversa a fine seduta dove l’attivazione del terapeuta è maggiore di quella del paziente.

Il terapeuta deve quindi essere anche capace di uscire da questo ruolo e vivere la propria quotidianità come individuo e non come terapeuta.

In relazione agli studi riportati risulta importante, per fare una buona psicoterapia, sapersi sintonizzare sul paziente oltre a saper riconoscere e gestire i propri stati emotivi.

Il terapeuta può riconoscere e organizzare il proprio materiale conoscitivo implicito relativo a sé, all’altro e alla relazione, operando nella relazione stessa come «perturbatore strategicamente orientato».

Ecco perchè risulta importante il lavoro personale durante il training di formazione della Specializzazione in Psicoterapia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia: intervista con Roberto Lorenzini – I grandi clinici

 

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Roberto Lorenzini

Psichiatra e Psicoterapeuta. Docente SITCC

 

State of Mind intervista Roberto Lorenzini, Psichiatra e Psicoterapeuta. Docente SITCC.
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

VEDI IL PROFILO DI Roberto Lorenzini

Considerazioni sulla relazione di Christian Keysers – Congresso SITCC 2014

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Commento di Francesco Mancini sulla relazione “Il cervello empatico” di Christian Keysers , presentata al Congresso SITCC, Genova, 2014.

SITCC 2014 - Plenaria KeysersNella sua relazione, Kaysers ha passato in rassegna una serie di ricerche su cosa accade nel cervello di una persona quando vede un’altra persona agire, provare sensazioni o emozioni.

La prima considerazione è che i neuroni specchio entrano in gioco non solo durante la percezione di un movimento dell’altro ma anche quando l’altro, ad esempio, è toccato (sensazioni) o, ad esempio, è socialmente escluso (dolore emotivo). Premesso che da sempre è ben noto che gli esseri umani hanno la capacità di essere empatici, l’interesse di questi risultati è, a mio avviso, triplice.

In primo luogo, la scoperta dei neuroni specchio risolve un problema filosofico che era rimasto senza soluzione per centinaia di anni, il problema dei qualia: come è possibile accedere alla esperienza soggettiva, interna e privata di un’altra persona?

In secondo luogo, ci dicono quali aree del cervello, e dunque quali variabili dipendenti, possono essere prese in considerazione per gli studi sull’empatia.

In terzo luogo, è importante sapere che i neuroni specchio non entrano in gioco solo nel caso del movimento ma anche delle sensazioni e emozioni.

La seconda considerazione riguarda un tema di interesse clinico, gli psicopatici.

Le teorie fino a oggi più accreditate, hanno sostenuto che alla base della psicopatia vi sia un deficit di capacità empatiche. Perché gli psicopatici si comportano in un modo che non tiene minimamente in considerazione la sofferenza dell’altro e i suoi diritti? Perché non sono frenati da quel meccanismo inibitorio che entra in gioco normalmente negli esseri umani quando si rendono conto di causare sofferenza ad altri esseri umani?

La risposta tradizionale è che, appunto, la sofferenza dell’altro non risuonerebbe dentro di loro a causa di un deficit di empatia. Le ricerche citate da Keysers dimostrano, però, qualcosa di molto diverso: di fronte alla sofferenza di un’altra persona, a condizione di essere incoraggiati dallo sperimentatore, l’attivazione del cervello degli psicopatici è sovrapponibile a quella di chiunque altro.

Ciò suggerisce con chiarezza che gli psicopatici non hanno un deficit di empatia ma, piuttosto, tendono di solito a non usare l’empatia anche se ne hanno la capacità. Del resto gli autistici hanno gravi difficoltà a essere empatici ma non sono psicopatici e in soggetti normali, soprattutto se maschi, la sofferenza dell’altro non attiva il substrato neurale della empatia, se l’altro è giudicato un mascalzone.

Keysers, non essendo un clinico, non ha affrontato i determinanti della non propensione alla empatia e non ha suggerito alcuna risposta alla domanda: perché gli psicopatici, pur potendo essere empatici, normalmente non lo sono? (per una rassegna, non recentissima, degli studi sulla empatia in psicopatici e anti sociali e su una proposta di soluzione si può vedere in www.apc.it Cognitivismo Clinico, 6, 2, 2009, La moralità nel disturbo antisociale di personalità – F. Mancini, R. Capo, L. Colle SCARICA ARTICOLO).

Un’implicazione, suggerita da questi risultati, è che anche in altri disturbi possa essere opportuno parlare di propensione a non usare determinate abilità piuttosto che di deficit.

La terza considerazione, che mi sembra rilevante per i clinici, riguarda le emozioni dello psicoterapeuta. Una tesi molto diffusa tra gli psicoterapeuti, anche cognitivisti, è che le emozioni che il terapeuta prova in seduta possano essere informative dello stato interno del paziente.

Keysers ci ha mostrato un esperimento interessante: in soggetti normali il movimento del braccio di un’altra persona verso un oggetto attiva i neuroni specchio dell’osservatore, ma cosa succede se il braccio in questione è il braccio non di un’altra persona ma di un robot? Nel cervello dell’osservatore si attivano gli stessi neuroni specchio. Ciò, ha sottolineato Keysers , dimostra che

la nostra intuizione circa gli stati interni dell’altro non dipende da una sorta di “lettura” della mente dell’altro ma è una proiezione, pertanto la sua accuratezza è inaffidabile.

Alla domanda “Come si potrebbe migliorare la capacità empatica di uno psicoterapeuta?”, Keysers ha suggerito la possibilità che lo psicoterapeuta faccia le stesse esperienze del paziente, citando ad esempio la possibilità di toccare un ragno per facilitare la comprensione empatica di ciò che prova un fobico dei ragni. Anche senza voler invocare il principio per il quale l’esperienza è soggettivamente costruita, c’è da chiedersi come ciò sarebbe possibile nel caso, ad esempio, delle esperienze precoci di abuso di un paziente border line.

Una quarta considerazione riguarda la possibile origine ontogenetica dei neuroni specchio. È opportuno ricordare la legge di Hebb la ripetizione di attivazioni contemporanee dei neuroni facilita l’instaurarsi di connessioni fra loro. Nel bambino spesso si attivano contemporaneamente i neuroni che, ad esempio, guidano il movimento della sua mano e quelli con cui percepisce il movimento della sua stessa mano. Ciò faciliterebbe la connessione fra questi due tipi di neuroni, motori e sensoriali e i neuroni specchio nascerebbero da questo processo.

SULLO STESSO SIMPOSIO: IL CERVELLO EMPATICO: LA PLENARIA DI CHRISTIAN KEYSERS AL CONGRESSO SITCC 2014

 

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L’intervento clinico ad orientamento cognitivo costruttivista nel contesto sanitario ospedaliero – Congresso sittc 2014

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 L'intervento clinico ad orientamento cognitivo - sitcc 2014Il presente simposio presieduto dalle Dottoresse Carla Maria Vandoni e Carla Barile si è focalizzato sul ruolo dello psicologo/psicoterapeuta di orientamento cognitivo comportamentale all’interno delle strutture ospedaliere.

Le Dott. sse Silvia Ferrero Merlino, Chiara Marmo, Barbara Nano e Patrizia Valorio hanno esposto le loro esperienze lavorative riportate dall’interno di diverse strutture come: l’Unità Spinale, l’Oncologia, Pediatria Infantile e il Dipartimento per la Salute Mentale rivolto alle persone affette da HIV.

Dagli interventi è emersa l’importanza e la necessità di una figura come lo psicologo all’interno degli ospedali in quanto esso riesce ad accogliere  tutte le paure relative a cosa succede “quando il corpo si ammala”.

In termini più tecnici lo psicologo assume la funzione di base sicura ponendosi come presenza accessibile e di riferimento, in un momento in cui possono prevalere emozioni legate allo shock postraumatico, di perdita di controllo e angoscia, o viceversa d’incredulità, derealizzazione o negazione della situazione. 

Oltre ad occuparsi del paziente, Il ruolo dello psicologo è cardinale in quanto interagisce con altre figure che si trovano all’interno degli ospedali come: medici, infermieri, neuropsicologi e i famigliari dei pazienti.

Come riportato dalla Dott. ssa Barbara Nano i vantaggi della presenza di uno psicologo all’interno di un ospedale si ripercuotono sulla relazione e la collaborazione dello psicologo con  l’equipe medico-infermieristica: gli scambi d’informazione vengono facilitati e, inoltre, il personale infermieristico si affida ai consigli tecnici che riguardano lo stato mentale dei pazienti, forniti dallo psicologo.

Emerge come all’interno delle strutture di cura il lavoro multidisciplinare dell’equipe sia fondamentale e ha come principale scopo il miglioramento della qualità della vita della persona malata. Quindi, le attenzioni dell’intera equipe curante vanno, attraverso il dialogo congiunto tra operatori, paziente e famiglia, alla definizione della condizione del paziente, e all’osservazione del suo livello di consapevolezza e accettazione della sua situazione.

Attività come il colloquio individuale nei luoghi di vita di reparto con la persona, i momenti di consegna integrata o di breafing settimanale aiutano a costruire la relazione che fa da cornice a quella funzione di base sicura che protegge e porta verso l’autonomia il paziente.

In conclusione, il focus dell’intervento psicologico si concentra sul riconoscimento, l’espressione e la modulazione delle emozioni della persona malata.

Inoltre, lo psicologo all’interno delle strutture ospedaliere aiuta tutti gli operatori con cui interagisce a empatizzare non solo con i pazienti ma anche con i loro familiari. 

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Huston, T; Gassaway, J; Wilson, C; Gordon, S; Koval, J; Schwebel, A (2011). Psychology treatment time during inpatient spinal cord injury rehabilitation. Journal of Spinal Cord Medicine, Volume 34, Number 2, pp. 196-204.  DOWNLOAD

L’integrazione delle psicoterapie nell’approccio costruttivista – Congresso sittc 2014

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Integrazione Psicoterapie - SITCC 2014 

Sono diversi i livelli a cui si può parlare di integrazione: si può riferire al terapeuta e alla sua formazione e dunque alla possibilità di unire diversi approcci durante il percorso terapeutico; ma integrazione è anche quella tra terapeuta e paziente poiché all’interno della relazione terapeutica si può lavorare per sintonizzarsi con il paziente e aiutarlo a rimettere insieme i pezzi, mettere in fila esperienze, emozioni, sensazioni, pensieri ed eventi diversi per dargli senso e mantenere integrate, appunto, queste diversità dentro di sé.

Percorso terapeutico come processo di integrazione dunque.

La Dott.ssa Laura Fortunati ha introdotto il tema esponendo il caso di una paziente con difficoltà di gestione emotiva con cui si è rivelato particolarmente utile integrare approcci diversi: la tecnica EMDR (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) per rielaborare due eventi particolarmente significativi, l’approccio eft integrato con esercizi di mindfulness, colloqui individuali ma anche colloqui di coppia coinvolgendo il marito e ha proposto anche la partecipazione a un gruppo MBCT (mindfulness based cognitive therapy) per gestire le oscillazioni emotive e il pensiero rimuginativo.

Il Dott. Michele Spada ha parlato, invece, di dipendenza affettiva e di come sia possibile affrontare la problematica non solo da un punto di vista cognitivo ma anche fisico: Cosa dice il corpo in una relazione di dipendenza?

Ha lavorato con due gruppi (7-8 persone) a cadenza mensile; 10 incontri in tutto.

Dipendenza quindi non solo come mentalizzazione ma anche “incarnata”, attraverso l’esperienza del sentire il proprio corpo, ad esempio con esercizi di  lontananza e avvicinamento, di reciprocità.

L’integrazione in questo caso è tra tacito e esplicito, rivolgendosi al corpo per acquisire consapevolezza attraverso l’uso di metafore (emotività come calore, distanza emotiva come distanza fisica) ri-raccontandosi attraverso il corpo.

Se riprendiamo il corporeo possiamo arrivare a una rielaborazione dei vissuti.

Anche l’intervento della Dott.ssa Carla Antoniotti ha affrontato la narrazione del sé attraverso il corporeo. Ad un gruppo di pazienti ha assegnato il compito di redigere uno scritto dal titolo “storia del proprio corpo”.

L’obiettivo è integrare l’approccio narrativo con il lavoro sul corpo così da mettere in luce la stretta interazione tra dimensione immediata (qui e ora, emozioni, sensazioni, relazioni) e dimensione narrata (sè, coerenza interna, costruzione del significato) e dunque l’interrelazione tra attività cognitiva, identità personale e dimensione corporea.

Infine, la Dott.ssa Rita Pezzati ha esposto il caso di J. e della sua fatica ad integrare.

Questo paziente racconta di vivere diviso tra due “spazi”: la mania e quello che lui chiama di amore e libertà.

Inizialmente per lui era difficile persino concepire la possibilità di condividere le esperienze con un altro individuo, cognitivamente riusciva a parlarne ma emotivamente era difficile per lui accettare questa eventualità.

Emergeva il terrore di sbagliare. Il profondo senso di solitudine, la percezione di dover sostenere tutti.

Grazie alla terapia però ha iniziato a vedere delle parti distinte, a scoprire di riuscire a sopportare anche l’idea di condividere un pezzo di vita con qualcun altro e ad accettare di seguire una cura omeopatica per l’ansia.

E grazie a questi ricordi di condivisione vissuti in terapia riesce a riconoscere le situazioni a “rischio” e a gestirle grazie a questa memoria interna.

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