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Persi nei social network: a volte gli adolescenti non sanno resistere!

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Un recente studio condotto dall’Università di Iowa sostiene che gli adolescenti sono molto più sensibili degli adulti a ricevere ricompense immediate per i loro comportamenti. I risultati potrebbero aiutare a spiegare come mai rispondere agli sms ricevuti invece che studiare è più gratificante nell’immediato per gli adolescenti in quanto lo studio presume uno sforzo non ricompensato a breve termine.

In qualità di genitore, non ti arrabbiare la prossima volta quando scopri che il figlio adolescente scrive sms invece di studiare. Lo fa semplicemente perché non è in grado di resistere.

Un recente studio condotto dall’Università di Iowa sostiene che gli adolescenti sono molto più sensibili degli adulti a ricevere ricompense immediate per i loro comportamenti. I risultati potrebbero aiutare a spiegare come mai rispondere agli sms ricevuti invece che studiare è più gratificante nell’immediato per gli adolescenti in quanto lo studio presume uno sforzo non ricompensato a breve termine.

“Le ricompense hanno una forte attrazione percettiva e sono più allettanti per gli adolescenti; di conseguenza, anche se un comportamento non sarebbe più nell’interesse dell’adolescente di attuarlo, continuerà ad essere eseguito in quanto l’effetto della ricompensa iniziale persiste molto di più nell’adolescente che nel bambino” sostiene Jatin Vaidya, professore di psichiatria e autore del presente studio.

Per facilitare il processo decisionale degli adolescenti nel compiere i compiti scolastici, ai genitori viene suggerito di eliminare i possibili “distrattori” come computer collegati all’internet che permettono l’accesso immediato ai network di socializzazione come Facebook o Twitter.

Tali comportamenti si devono attuare non per negare l’accesso alla tecnologia ma per aiutare gli adolescenti a regolare la loro attenzione in modo che possano sviluppare le capacità di controllo degli impulsi.

Gli autori del presente studio suggeriscono che oltre ad avere difficoltà nel prendere le decisioni, gli adolescenti attuano dei comportamenti impulsivi e a rischio. La maturazione incompleta dei lobi frontali, potrebbe essere una delle ipotesi avanzate dagli autori per spiegare tali comportamenti.

Lo scopo del presente studio era quello di capire il funzionamento del sistema di ricompensa e come esso cambia dall’infanzia all’età adulta. Al presente studio hanno partecipato 40 ragazzi (tra 13 e 16 anni) e 40 adulti di età compresa tra 20 e 35 anni. I partecipanti dovevano svolgere un compito in cui veniva chiesto loro di trovare un anello rosso o verde rispettivamente nascosto all’interno di un’immagine che rappresentava diversi altri anelli colorati, presentata su uno schermo di un PC. Una volta trovato, il partecipante doveva segnalare se all’interno dell’anello fosse disegnata una linea bianca verticale o orizzontale.

Il ritrovamento dell’anello veniva rimborsato con 2 o 10 centesimi rispettivamente. Per metà dei partecipanti il colore verde veniva retribuito di più e viceversa per l’altra metà. Nessuno dei partecipanti conosceva a priori il valore della ricompensa per il ritrovamento dell’anello. Dopo la presentazione di 240 trials, ai partecipanti veniva chiesto se avessero notato qualche associazione collegata al colore dell’anello. La maggior parte dei partecipanti non è stata in grado di identificare il legame tra la ricompensa e il colore quindi il compito dell’anello non coinvolge dei processi decisionali di alto livello. 

Nella fase successiva dell’esperimento i partecipanti hanno mostrato di aver sviluppato un’associazione intuitiva quando è stato chiesto loro di trovare un diamante tra diversi anelli utilizzati come distrattori. Ciò significa che, durante le prime prove del compito, invece di individuare il nuovo bersaglio – il diamante – sia adolescenti che gli adulti individuavano il bersaglio del primo compito: l’anello del colore a cui veniva associata la retribuzione maggiore.

Dopo la presentazione di un paio di trials gli adulti sono stati in grado di risintonizzarsi in base alla nuova richiesta del nuovo compito a differenza degli adolescenti che continuavano ad essere più propensi a scegliere anche dopo 250 trials il vecchio bersaglio (l’anello).

Dai risultati emerge quanto sia difficile estinguere in un adolescente un’associazione imparata in un compito soprattutto se collegata ad una ricompensa.

Gli autori del presente studio sostengono che l’incapacità di regolare gli impulsi potrebbe spiegare certi comportamenti inappropriati come, per esempio, il motivo per cui un’adolescente continua a fare commenti inappropriati in classe anche se i compagni non ridono più alle sue specifiche battute.

Inoltre gli autori sostengono che nel futuro si dovranno condurre nuove ricerche per approfondire se ci siano regioni del cervello o dei circuiti neurali che continuano a svilupparsi dall’adolescenza all’età adulta e che giocano un ruolo importante nell’allontanare l’attenzione da stimoli ricompensa che non siano rilevanti per i compiti svolti. E se si, quali esperienze di vita potrebbero aiutare lo sviluppo di tale abilità.

 

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Misurare la fiducia si può!

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In un recente studio hanno identificato non solo un metodo di misura, ma anche la regione cerebrale che, nei ratti, sembra necessaria per esprimere fiducia nelle loro decisioni. 

La vita è un susseguirsi di decisioni e ognuna di esse, banale o essenziale che sia, è un rischio, un azzardo, una scommessa che porta con sé la possibilità di un ripensamento.

Il nostro desiderio di persistere lungo una strada intrapresa è quasi interamente determinato dalla fiducia che riponiamo in quella decisione: quando si è sicuri che la scelta fatta sia corretta, si è disposti a portarla avanti molto più a lungo.

La fiducia è dunque una componente sostanziale nelle nostre decisioni e determina gran parte del nostro percorso, nella vita. Ma che cos’è? Molti la descriverebbero come un’emozione o un sentimento. Ma gli scienziati del Cold Spring Harbor Laboratory hanno scoperto che è più di un’emozione, è una quantità misurabile e non esclusivamente umana. 

In un recente studio hanno infatti identificato non solo un metodo di misura, ma anche la regione cerebrale che, nei ratti, sembra necessaria per esprimere fiducia nelle loro decisioni.

Per questa ricerca gli scienziati hanno misurato il tempo che alcuni ratti erano disposti ad attendere per ottenere la ricompensa nascosta dietro una porta. 

Il compito era semplice: ai ratti veniva fatto annusare un odore che erano stati addestrati ad associare ad una porta. Quando, di fronte a due alternative, sceglievano la porta giusta ricevevano una ricompensa.

L’idea era che, il tempo che i ratti erano disposti ad aspettare la ricompensa fosse una misura oggettiva della loro fiducia nella scelta fatta.
I ricercatori avevano ipotizzato poi che la corteccia orbitofrontale fosse coinvolta in questo processo.

I risultati hanno confermato anche questa ipotesi: quando inattivata, infatti, i ratti non esibivano più livelli appropriati.

Scoperte simili offrono un ottimo spunto di riflessione per i processi cognitivi di livello superiore ed è probabile che il funzionamento sia simile anche negli esseri umani, visto che la corteccia orbitofrontale umana è una versione più sofisticata della stessa area nei ratti.

Uno sviluppo futuro potrebbe dunque essere quello di esplorare se un sentimento elusivo come la fiducia sia basato su predizioni oggettive che influenzano quindi le nostre decisioni.

 

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Sindrome del sopravvissuto: la trappola della (non) responsabilità

Eventi di intensa tragicità – ci insegna la storia – tendono ad accompagnarsi alla nascita di una particolare tipologia di senso di colpa, definita appunto “del sopravvissuto”.

 

“Ha avuto la sensazione del sopravvissuto, il senso di colpa di chi resta?”

“Senso di colpa no, ma la sensazione molto comune di stare vivendo dei sentimenti e delle emozioni mai provati prima. E di sentirti impotente”.

 

Sono queste le parole che l’attore John Turturro usa per rispondere a un giornalista de “L’Espresso”, interessato allo stato d’animo, nonché psicologico, dell’attore dopo l’11 Settembre 2001. Turturro ha perso in quell’occasione quattro amici, è intervenuto in prima persona per prestare soccorso e, presumibilmente, ha manifestato una commistione di sintomi che potrebbero essere classificati come “post traumatici da stress”, primo fra tutti il senso di impotenza menzionato dall’attore stesso durante l’intervista.

Ma la domanda del giornalista si riferisce a ben altro, e viene fatta con cognizione di causa: “Ha avuto la sensazione del sopravvissuto?”.

Eventi di tale tragicità – ci insegna la storia – tendono difatti ad accompagnarsi alla nascita di una particolare tipologia di senso di colpa, definita appunto “del sopravvissuto”: esempio eclatante e noto a chiunque è quello dello scrittore ebreo Primo Levi, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, ma morto suicida perché vittima di un intollerabile (e apparentemente ingiustificato) senso di colpa nei confronti di chi non è mai tornato a casa.

Il senso di colpa può essere descritto come “il dispiacere provato per aver compromesso il perseguimento di uno scopo a un soggetto X, per essere stati causa di un suo disagio o malessere” (Castelfranchi, D’Amico, Poggi, 1994). Ciò che caratterizza questa emozione, è il fatto che il soggetto si riconosce colpevole per il danno, ingiusto, causato all’altro; ma non solo: è sufficiente che il soggetto si ritenga colpevole di aver avuto l’intenzione o il desiderio di causare danno, portando il tutto a un piano ancor più astratto e scorporato dalla realtà (Mancini, 1997).

Questo aspetto di “scissione” tra realtà e intenzione concerne la fondamentale differenza tra il cosiddetto “senso di colpa da colpa” (Poggi, Bartolucci e Violini, 2000) e il “senso di colpa del sopravvissuto”.

“Per provare il senso di colpa del sopravvissuto non sono necessari alcuni ingredienti, tipici invece del senso di colpa da colpa: innanzitutto non serve che C (il Colpevole) assuma l’esistenza di un nesso di causa fra il proprio comportamento e il danno della vittima; non è neanche necessario che C assuma che avrebbe potuto fare diversamente e nemmeno di aver infranto una delle norme da lui stesso condivise. Per giunta C può essere onestamente consapevole di non aver desiderato il danno di V (la Vittima), addirittura può essergli chiarissimo l’avere una disposizione fortemente positiva verso V” (Mancini, 1997).

 

Nello specifico, la “colpa del sopravvissuto” risulta per il soggetto paralizzante per due motivi:

  1. Per il fatto di vivere una situazione di privilegio a spese di altri o nel confronto con altri che appaiono maggiormente danneggiati (Kubany e Manke, 1995);
  2. Per le azioni o inazioni che hanno aumentato il senso di minaccia alla propria sopravvivenza, ossia la percezione di non aver fatto abbastanza per prevenire la catastrofe e le sue conseguenze (Parson, 1986).

 

Dunque, che cosa genera questo forte senso di responsabilità? Perché un sopravvissuto all’olocausto, all’attacco alle Torri Gemelle, a un incidente o a un episodio drammatico che ha causato la morte di altre persone, può sviluppare un senso di colpa così forte da portare addirittura al suicidio?

“L’operazione cognitiva necessaria per provare senso di colpa del sopravvissuto è un semplice confronto tra le fortune del colpevole e quelle della vittima che, per generare senso di colpa, deve dare un risultato sfavorevole alla vittima. Il soggetto pone su un piatto della bilancia le proprie fortune ed i propri meriti e sull’altro quelli della vittima. Se la bilancia pende a favore del primo allora vi è senso di colpa” (Poggi, 1994). Insomma, quello che viene fortemente minacciato nel caso del senso di colpa del sopravvissuto è il senso di equità e di uguaglianza che si presume debba vigere tra gli esseri umani, e che impedisce di dare risposta alla domanda “Perché lui sì, e io no?”.

Riportiamo un caso clinico che meglio può spiegare questa attitudine (Bottelli, 2012): Francesca è una donna di circa 40 anni, che si avvicina al percorso terapeutico su suggerimento del medico di base, dopo aver sviluppato sintomatologia da attacco di panico, unitamente a un forte senso di vuoto e colpa dopo la morte (improvvisa e ravvicinata) di entrambi i genitori e della sorella minore (i primi, per tumore e a seguito di infarto, la seconda per un cancro al seno). Da notare, emerso nella raccolta anamnestica, un aneurisma avuto dalla paziente in giovane età, dal quale si è ripresa completamente nonostante la prognosi negativa.

“La paziente si vive come una sopravvissuta rispettoa i suoi familiari, risparmiata sia dal cancro, che dall’aneurisma. Ritiene di aver avuto la fortuna di ristabilirsi, al contrario della sorella e dei genitori. La paziente, durante questi anni, si è sentita molto responsabile dello stato di salute dei familiari e della loro gestione, come se l’esito delle cure dipendesse dai suoi sforzi. Di qui, il senso di fallimento e colpa nel non aver salvato la sorella e la madre e, quindi, di essere ingiustamente sopravvissuta”.

Nel caso specifico del senso di colpa legato a un evento traumatico, quale può essere, appunto, il caso della “colpa del sopravvissuto”, la terapia cognitiva comportamentale si rivela efficace, in quanto la colpa è originata essenzialmente dal modo in cui una persona valuta ed interpreta gli eventi.

La terapia cognitivo comportamentale per la colpa legata a un trauma comprende: (a) l’assessment; (b) esercizi di esposizione immaginativa; (c) correzione degli errori di ragionamento che conducono a conclusioni erronee associate alla colpa (rivalutazione della percezione di giustificazione, responsabilità e azioni commesse).

Nello specifico, poi, il terapeuta dovrebbe aiutare il paziente a distinguere tra cosa era in passato e cosa è ora, a diventare maggiormente consapevole dei pensieri e delle credenze sottostanti i sensi di colpa, ad esempio attraverso il self-monitoring. Egli, inoltre, conduce il paziente a formulare interpretazioni più realistiche della situazione: ad esempio aiutandolo a comprendere che l’evento traumatico era completamente al di fuori del suo controllo, e che egli ha fatto del suo meglio in quella situazione.  Riducendo la colpa, quindi, si può anche lavorare con il paziente con l’obiettivo di favorire un incremento della self-compassion e dell’accettazione (Gilbert e Procter 2006). La self-compassion consiste in un’attitudine emotivamente positiva e funzionale che dovrebbe proteggere l’individuo dalle conseguenze negative del giudizio verso se stessi, dall’isolamento e dalla ruminazione. Il paziente può imparare ad essere, pertanto, più compassionevole e non giudicante nei confronti di se stesso, a percepire la propria esperienza come parte dell’esperienza umana più ampia, piuttosto che percepirsi come isolato e separato dal resto, e, infine, a sviluppare un atteggiamento mindfulness, ovvero una maggiore abilità nel controllare i propri pensieri e sentimenti, piuttosto che identificarsi eccessivamente con essi.

 

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LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

E’ così chiamata in quanto apparentemente i suoi sintomi sono opposti a quelli dell’anoressia nervosa, altrimenti detta anche vigoressia, dismorfia muscolare, bigoressia, complesso di Adone.

Questa condizione ha una prevalenza maggiore nel sesso maschile ed in particolare tra frequentatori di palestre e appassionati di body-building, sul finire dell’adolescenza o inizio dell’età adulta.

Attualmente, questo disturbo non è incluso del DSM-5 (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria) come categoria diagnostica a sé stante, ma si discute se debba essere inquadrato tra i Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione o come sottotipo del Disturbo di Dismorfismo Corporeo, a sua volta contenuto nella categoria Disturbo Ossessivo-Cnompulsivo e disturbi correlati.

Il bigoressico è ossessionato dall’idea di essere esile e poco sviluppato fisicamente e, nonostante abbia spesso una muscolatura molto sviluppata, non è soddisfatto a causa della distorsione dell’immagine corporea. L’autostima si basa quasi esclusivamente sul peso corporeo e sulle forme fisiche, che in quanto riferiti a dei modelli irraggiungibili, richiedono un livello estremo di perfezionismo.

I soggetti affetti da anoressia riversa sono soliti: osservarsi costantemente allo specchio, paragonare di sovente il proprio fisico con quello di altri, provare stress se saltano una sessione d’allenamento in palestra o uno dei loro numerosi pasti, domandarsi costantemente se hanno assunto abbastanza proteine ogni giorno, assumere anabolizzanti potenzialmente pericolosi, trascurare il lavoro, gli studi, la famiglia, e le relazioni sociali pensando solo ad allenarsi.

In genere le persone con questo disturbo non si rivolgono ad un psicoterapeuta che li possa aiutare in quanto non riconoscono il loro disturbo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  American Psychiatric Association, (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione, DSM-5. Milano: Raffaello Cortina Editore.  ACQUISTA ONLINE
  • Invernizzi, G., e Bressi, C. (2012). Manuale di Psichiatria e Psicologia clinica, quarta edizione. Milano: McGraw-Hill.  ACQUISTA ONLINE

L’evoluzione della Terapia Sessuale dal modello Kaplaniano ad oggi: sviluppi ed integrazioni – Congresso SITCC 2014

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Evoluzione della Terapia Sessuale - SITCC_2014

Un interessante esempio di integrazione della Terapia Mansionale con la psicoterapia viene presentato dal socio fondatore dell’AISPA Dott. Roberto Bernorio, medico specialista in ginecologia, psicoterapeuta e sessuologo clinico, che durante il suo intervento mostra l’applicazione della Body-mind connection therapy nel trattamento del vaginismo. 

“Verranno mostrati video un po’ forti”. Quando sento questo avvertimento ad inizio simposio, mi domando cosa debba aspettarsi chi va in terapia sessuale oggi.

Nel 1974 Kaplan rivoluzionava la sex therapy proponendo un modello terapeutico innovativo che combinava la terapia mansionale di Masters & Johnson (1970) con teorie psicoanalitiche, introducendo il ruolo della componente psicologica nel trattamento dei disturbi sessuali.

A 40 anni di distanza la psicoterapia sessuale non solo si è arricchita di strumenti e tecniche (es. EMDR, sensorimotor), ma attribuisce al paziente un ruolo più attivo, per esempio nella co-costruzione delle mansioni.

Anche le competenze del terapeuta hanno subito modifiche: lo psicosessuologo deve sì conoscere le tecniche e applicare le mansioni, ma il suo bagaglio clinico deve comprendere per esempio i modelli operativi interni, le teorie sulla costruzione dei legami di attaccamento, il lavoro sulle emozioni…

Tutto ciò a dispetto delle ultime edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM IV-R e DSM V) che codificano come disfunzioni sessuali il Disturbo maschile dell’erezione, l’Eiaculazione precoce o ritardata, il Disturbo dell’eccitazione femminile, ma non rendono conto della vasta gamma di disturbi legati alla sfera sessuale in cui entrano in gioco anche aspetti che non sono legati esclusivamente alla sessualità “rettiliana”, primitiva, ma che coinvolgono l’intimità e l’attaccamento.

 

Un interessante esempio di integrazione della terapia mansionale con la psicoterapia viene presentato dal socio fondatore dell’AISPA Dott. Roberto Bernorio, medico specialista in ginecologia, psicoterapeuta e sessuologo clinico, che durante il suo intervento mostra l’applicazione della Body-mind connection therapy nel trattamento del vaginismo.

Il primo video mostra la fase di inquadramento diagnostico di una grave forma di vaginismo: la paziente è sdraiata sul lettino, il ginecologo inizia ad effettuare la visita, ma non appena tenta di inserire un dito all’interno della vagina la paziente mette in atto una reazione muscolare difensiva involontaria che oltre alla contrazione della vagina coinvolge anche i muscoli del perineo, del bacino e delle gambe; la paziente si contorce sul lettino fino a scalciare via il medico.

“Alla base di tale reazione che scatta in modo automatico è presente la fobia, ovvero la paura immotivata, della penetrazione e del possibile dolore ad essa legata.”

Nel secondo video il Dott. Bernorio illustra invece il metodo da lui utilizzato per agire sul corpo con lo scopo di cambiare la mente: la Body Mind Connection Therapy. La paziente in seduta prova a mettere in pratica la terapia mansionale prescritta dal medico cercando di inserire all’interno della vagina un piccolo cono fallico senza successo. Il medico, a questo punto, prima mette in atto un intervento psicoeducazionale – spiegando come debba avvenire il corretto inserimento ed aiutando la paziente nell’esercizio – e poi interviene sulla reazione fobica: quella a cui assistiamo non è altro che esposizione in vivo seguita da ristrutturazione cognitiva. 

“Rendere la donna capace di introdurre e muovere in vagina i dilatatori attraverso l’aiuto diretto da parte del terapeuta cambia la prospettiva percettiva-reattiva nei confronti della penetrazione e realizza un’esperienza emozionale correttiva”. I risultati riportati dal Dott. Bernorio, sulla base di una metanalisi di quasi 200 casi trattati, mostrano la risoluzione del problema in più del 95% dei casi, a fronte di una rigorosissima selezione a monte dei pazienti per diagnosi clinica e motivazione al trattamento.

Se la possibilità di accedere in seduta in diretta all’emozione disfunzionale del paziente è una preziosa occasione per il lavoro terapeutico, nell’ambito della sfera sessuale la questione è oltremodo delicata. L’esposizione guidata dal terapeuta è una tecnica che in diverse occasioni è stata utilizzata nel trattamento del vaginismo (ter Kuile et Al., 2013; Melles RJ et Al., 2014; Molaeinezhad et Al., 2014).

Al di là dell’ovvia considerazione che un ginecologo può “spingersi” laddove uno psicologo non può (per esempio, in Olanda gli psicologi che praticano l’esposizione guidata in terapia sessuale non hanno il permesso di toccare la paziente), appare interessante riflettere sulle ripercussioni che questa tecnica potrebbe avere sulla relazione terapeutica e in che modo debbano essere gestite, su come fattori quali il sesso del terapeuta (maschio o femmina) piuttosto che le fantasie che il paziente normalmente sviluppa sul terapeuta assumano una nuova connotazione nel momento in cui si inseriscono all’interno della relazione terapeutica la nudità e l’esplorazione intima del proprio corpo.

E voi cosa ne pensate? Quali possono essere i vantaggi ed i rischi dell’esposizione sessuale guidata?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Decision making: anche ciò che non vediamo influenza le nostre scelte

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Contrariamente all’idea tradizionale secondo cui il cervello accede al significato – o al ricordo – di un oggetto solo dopo averlo percepito, la nostra mente processa immagini senza che se ne sia pienamente consapevole ma queste informazioni vengono comunque utilizzate per formulare giudizi e scelte.

Ogni giorno il nostro sistema visivo viene bersagliato da molte più informazioni di quanto sia possibile considerare.

Gli studi classici sostengono che il processo percettivo in prima istanza opera una distinzione tra figura e sfondo e successivamente accede ai significati ma solo delle figure, non analizza lo sfondo.

Eppure uno studio condotto dall’università dell’Arizona dimostra che i dati “eccedenti” non vengono persi, anzi, influenzano comunque il comportamento ma ad un livello non consapevole . Gli oggetti che ci circondano non hanno dunque bisogno di essere notati consapevolmente per influenzare le nostre decisioni. 

 

Contrariamente all’idea tradizionale secondo cui il cervello accede al significato – o al ricordo – di un oggetto solo dopo averlo percepito, la nostra mente processa immagini senza che se ne sia pienamente consapevole ma queste informazioni vengono comunque utilizzate per formulare giudizi e scelte.

Il compito proposto per questo studio consisteva nel classificare come naturali o artificiali nomi di oggetti che apparivano su uno schermo premendo due tasti.

Ad insaputa dei partecipanti prima di ogni nome appariva anche un’immagine: una sagoma nera che aveva la forma di oggetti naturali o artificiali definita da una regione bianca esterna. Veniva proiettata così velocemente che anche sapendolo non sarebbero comunque stati in grado di prestare attenzione all’immagine.

Le performance erano migliori quando immagine e parola erano concordanti.

Questo dimostra che il cervello dei partecipanti era stato in grado di accedere al significato degli oggetti rappresentati nella sagoma nera nonostante non ne fossero consapevoli.

Laura Cacciamani e colleghi hanno dimostrato così che esiste una maggiore interazione tra memoria e percezione di quanto finora presunto: la nostra mente valuta il significato di tutto ciò che ci circonda prima che sia percepito coscientemente.

Per cui non sottovalutate l’occhio della mente: gli oggetti non hanno bisogno di essere notati per influenzare le vostre scelte.

 

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L’attivazione del sistema immunitario compromette le abilità di discriminazione complesse

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L’infiammazione al cervello può compromettere la nostra capacità di recuperare ricordi complessi d’esperienze simili ma distinte, come sostengono Irvine Jennifer Czerniawski e John Guzowski due ricercatori dell’Università di California.

Il loro studio, pubblicato recentemente su The Journal of Neuroscience, individua specificatamente come le molecole di segnalazione del sistema immunitario, chiamate citochine, compromettono la comunicazione tra i neuroni dell’ippocampo, un’area del cervello che controlla le capacità discriminative.

I dati sono stati ottenuti analizzando i deficit cognitivi nelle persone sottoposte a chemioterapia e in quelle con delle malattie autoimmuni o neurodegenerative, tutte condizioni mediche caratterizzate da un elevato livello di citochine.

Guzowski, uno degli autori, sostiene che la presente ricerca fornisce il primo collegamento tra l’attivazione del sistema immunitario, la funzione del circuito neurale alterato e le abilità di discriminazione compromesse.

I risultati possono essere utili per i malati di cancro e per coloro che hanno malattie croniche, come la sclerosi multipla, in cui si verifica la perdita di memoria. Inoltre, gli autori sostengono che un dato interessante emerso dai risultati è che la crescita dei livelli di citochine nell’ippocampo danneggia solo le capacità di discriminazione complesse che ci permettono di distinguere tra esperienze analoghe, come per esempio per ciò che riguarda quello che abbiamo fatto al lavoro o mangiato a cena. Le altre capacità più semplici, elaborate dall’ippocampo – che ci permettono di ricordare il dove si lavora – non vengono alterate dall’infiammazione al cervello.

Nel presente studio i ricercatori hanno esposto dei ratti per diversi giorni a due percorsi simili, ma distinguibili ricevendo delle scosse lievi ogni talvolta che i ratti entravano in uno dei due. Una volta che i roditori hanno mostrato di avere imparato la differenza tra i due percorsi, ad alcuni di essi i ricercatori hanno somministrato una bassa dose di un agente batterico che induce una risposta neuroinfiammatoria con conseguente rilascio di citochine. I roditori esposti all’agente batterico  non erano più in grado di distinguere tra i due percorsi.

In seguito, i ricercatori hanno esplorato i pattern di attività dei neuroni nell’ippocampo dei ratti usando un metodo di imaging cellulare “gene-based” sviluppato nel laboratorio Guzowski. Nei roditori che hanno ricevuto l’agente batterico le reti neurali attivate nei due percorsi erano molto simili a differenza di quelle nei ratti non esposti all’agente batterico. Questa scoperta suggerisce che le citochine interrompono la funzione di questi circuiti neuronali specifici dell’ippocampo.

“Le citochine hanno indotto la rete neurale a reagire come se non avesse avuto luogo l’apprendimento”, sostiene Guzowski, professore di Neurobiologia e comportamento. Inoltre l’autore sostiene che la presente ricerca potrebbe spiegare un fenomeno mentale connesso alla chemioterapia conosciuto come “cervello chemio”, in cui i malati di cancro hanno difficoltà a elaborare in modo efficiente le informazioni. I neuro-oncologi hanno scoperto che gli agenti chemioterapici distruggono le cellule staminali del cervello; cellule che sarebbero diventate neuroni per la creazione e la memorizzazione dei ricordi.

Daniela Bota, co-autrice di questo studio, sta attualmente collaborando con il gruppo di ricerca di Guzowski per vedere se l’infiammazione del cervello potrebbe essere un’altra causa associata ai sintomi del “cervello chemio”.

La ricercatrice sostiene, inoltre, che il loro gruppo di ricerca sta attualmente cercando un semplice intervento, come ad esempio un farmaco anti-infiammatorio o steroidi, che potrebbe diminuire l’infiammazione post-chemio. Bota metterà alla prova questo approccio sui pazienti una volta ottenuti i risultati sui animali.

Grazie a delle indagini future questo metodo potrebbe migliorare la qualità della vita delle persone affette da cancro limitando i danni delle cellule cerebrali causate dalla chemioterapia.
 

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 BIBLIOGRAFIA:  

La mia Londra di Simonetta Agnello Hornby (2014). Recensione – Letteratura & Psicologia

 

 

Simonetta Agnello Hornby dedica a Londra un libro che è un diario, un intreccio di racconti, una guida spirituale alla scoperta di una metropoli tra le più affascinanti al mondo e insieme sfuggente, inafferrabile.

Londra si apre al lettore come un universo intricato e trasparente per equilibrio e armonia, affine al ritmo rallentato di un’intenzione che riemerge dal tempo e capace di improvvise accelerazioni verso l’immaginario in divenire di ciò che domani prenderà forma. Gli stili architettonici si inseguono, forgiano idee impreviste o ne vengono forgiati, in un flusso ininterrotto di mutamenti che ora appaiono nitidi all’osservazione, ora si sviluppano nel movimento sotterraneo di una trasformazione silenziosa.

Londra è un agglomerato cangiante e infinito di ispirazioni artistiche, stimoli letterari, esplorazioni del genere umano attraverso percorsi che sfumano nella dimensione irrazionale dell’esperienza. Camminare per Londra è un viaggio nella storia delle persone comuni, fra le storie di chi ha contribuito a rendere questa città una sintesi sempre aperta di sensazioni, dialettiche esistenziali, legami fra il particolare e l’universale.

Simonetta Agnello Hornby scrive come un’amica, un’amante appassionata, una moglie affettuosa e indulgente; il suo sguardo è scevro da ogni retorica come avviene quando si descrive qualcosa che si è vissuto veramente e fino in fondo. Conosciamo un luogo di gigantesche contaminazioni culturali, dove il richiamo alla tradizione riesce in parte a sopravvivere nonostante l’affermarsi prorompente della modernità, come se l’anima di Londra intuisse da sempre la ricorsività delle stagioni umane, i volti solo in apparenza diversi nel passaggio da una tendenza all’altra, da un gusto delle cose al successivo. Sopravvivono piccole botteghe e librerie antiquarie, molto meno di un tempo, eppure tenaci a non farsi travolgere dalle luci che poi, poco più in là, provano a uniformare gli slanci e i sentimenti riuscendovi solo a metà.

Londra non smarrisce mai la voglia dei suoi abitanti e di chiunque la attraversi per un breve respiro di portare qualcosa di sé che venga riconosciuto, che rimanga nello spirito mai concluso di questa città. La storia, le catastrofi, le leggende e i personaggi sospesi fra cronaca antica e leggenda letteraria, il battito ancora vivo dell’epoca vittoriana e l’impronta dei Tudor quasi modellata nella creta. Sono inesauribili per numero e colori le anime di Londra, alla stregua di un romanzo che s’attorciglia e dispiega, retrocede e un attimo a seguire slancia la propria figura dai contorni imponenti.

Simonetta Agnello Hornby riesce felicemente nel tentativo di rappresentare sulla pagina l’essenza dello scheletro londinese, i suoi incroci tra quartieri inaccostabili e quasi per paradosso indissolubilmente legati; la lettura di questo libro ricrea il passo dell’uomo dentro Londra, le sorprese che lo attendono, le metamorfosi che lo accompagnano. Imperdibile per gli affezionati della Regina, colmo di suggestioni per tutti gli altri. 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Quando negativo è meglio di positivo

Se il tuo miglior amico si sente giù per qualcosa che è andato storto, probabilmente ti verrebbe spontaneo rassicurarlo che tutto è ok e che le cose presto si sistemeranno. 
La riformulazione positiva però potrebbe non essere l’approccio giusto con alcune persone: quelle con una bassa autostima infatti sarebbero maggiormente sensibili alla validazione negativa che a alla riformulazione positiva. Meglio una pacca sulla spalla e riconoscergli che c è poco da stare allegri, piuttosto che tentare di prospettare scenari futuri più rosei e meno problematici, questo lo farebbe sentire incompreso e solo.

 

 

Negative validation may sound depressing, but when people are at their lowest, they may appreciate it more than positivity that rings false to them.

When Negativity Is What We Need

Consigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
If your friend is feeling bad about himself, you might try to convince him that everything’s actually O.K. But a new study suggests this kind of reassurance doesn’t necessarily make people with low self-esteem feel better, and some say it’s further evidence against the idea that positive thinking heals all wounds. (…)

Tratto da: New York Times

 

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Dog People vs. Cat People: Who’s More Outgoing? More Intelligent?Consigliato dalla Redazione

Dog lovers tend to be more lively and also tend to follow rules closely. Cat lovers, on the other hand, were more introverted, more open-minded and more sensitive than dog lovers (…)

Tratto da: LiveScience.com

 

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Un treno di notte per Lisbona (Night Train To Lisbon) (2013) – Cinema & Psicoterapia #29

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #29

Un treno di notte per Lisbona (Night Train To Lisbon)(2013)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

L’inerte e scialbo professore cerca di ridare un po’ di smalto alla sua esistenza. Il film non ci racconta se ce la farà e ci lascia immaginare il dopo. Si farà trascinare dall’interesse affettivo suscitato dall’optometrista che incontra o la grigia e ripetitiva vita di Berna lo incastrerà ancora?

Info:

Titolo originale Night Train To Lisbon. Drammatico. Svizzera, Portogallo, Germania 2013. Un film di Bille August. Con Jeremy Irons, Mélanie Laurent, Jack Huston, Martina Gedeck, Tom Courtenay, Charlotte Rampling. Basato sull’omonimo romanzo, best-seller nei paesi di lingua tedesca, di Pascal Mercier.

Trama:

Una mattina uggiosa a Berna, mentre il professor Gregorius si reca a scuola, una ragazza tenta il suicidio gettandosi da un ponte. Il professore la salva e la ragazza scappa lasciandosi dietro un libro e un biglietto ferroviario per Lisbona. Il fascino del volumetto e una certa voglia di cambiamento spingono Gregorius a salire sul treno per Lisbona con l’intento di mettersi sulle tracce dell’autore del libro, Amadeu de Prado, medico e membro della resistenza che si oppose al regime di Salazar.

L’esistenza monotona e noiosa del professore cambia. La lettura del libro porterà in primo piano e in parallelo, la coraggiosa resistenza condotta da alcuni dissidenti, fino alla rivoluzione dei garofani, che ristabilirà gli equilibri democratici del paese in un intrecciarsi di storie personali che uniscono senso civico, passione, sentimenti e responsabilità personali.

I personaggi che incontra Gregorius in Portogallo sono ormai attempati e mostrano i segni di una stagione tragica e dolorosa. I loro ricordi epici e drammatici si raccolgono intorno a vissuti in cui il peso di alcune scelte che li portarono ad amare e a tradire a rischiare la vita in nome degli ideali e a districarsi in triangoli amorosi poco compatibili con l’impegno politico riemergono rievocati nei numerosi racconti “a ritroso” e nei flashback che si susseguono, via via che il professore prende contatto con i protagonisti di quelle vicende.

Motivi d’interesse:

Il film si snoda tra un’irrisolta indeterminazione propria del protagonista interpretato da Jeremin Irons, piatto, noioso, come sanno essere alcuni intellettuali che rifuggono dalle scelte e la determinazione di chi ha lottato contro la dittatura.

L’abitudine razionale prevarica l’espressione e il desiderio di una vitalità esistenziale, non a caso il professore è stato lasciato per questo dalla moglie. Quando arriva un biglietto ferroviario, quando il caso entra in scena si muovono le acque, il nostro sceglie di partire (Amadeu de Prado: “…l’esperienza che determina un drammatico cambiamento di vita ha spesso una levità impercettibile. Quando rivela il suo effetto rivoluzionario e fa sì che la vita sia inondata da una luce del tutto nuova lo fa silenziosamente…”).

L’inerte e scialbo professore cerca di ridare un po’ di smalto alla sua esistenza. Il film non ci racconta se ce la farà e ci lascia immaginare il dopo. Si farà trascinare dall’interesse affettivo suscitato dall’optometrista che incontra o la grigia e ripetitiva vita di Berna lo incastrerà ancora? (Amadeu de Prado: “Se siamo certi che non potremo mai raggiungere la compiutezza, improvvisamente non sapremo più come vivere il tempo che ci sta davanti”).

Molti pazienti che giungono all’osservazione clinica e non solo loro oscillano tra una libertà interdetta avvolta da sfiducia senza speranza e la costrizione di una vita disforicamente sopportata.

Le tracce della narrazione del film percorrono altri temi che riguardano le conseguenze delle scelte dei personaggi che hanno vissuto il periodo tumultuoso della resistenza narrato da Amadeu de Prado.  Gli strascichi del passato giungono fino al presente, legando a distanza di anni nuovamente le vite dei protagonisti segnate ancora da quegli accadimenti. Come dire dal passato non si sfugge. 

Nel racconto del film si ricompongono però le memorie e trovano spiegazione i fatti rimasti oscuri per lungo tempo, come spesso accade nel setting terapeutico, quando il paziente riesce a riannodare le esperienze passate integrandole in una narrazione unitaria e coerente.

 Spesso è il coraggio di prendere un treno, di rischiare, come sembra proporre il film, che può ridare significato e senso ad un’esistenza incolore e asfittica o perché segnata da episodi traumatici mai elaborati, o perché vissuta nell’ignavia e nella paura.

Le scelte passate e le conseguenze dolorose che ne sono derivate tracciano un filo che lega tutti insieme i personaggi di Treno di notte per Lisbona. 

La reciproca responsabilità (il senso di colpa ricorre frequentemente nei dialoghi tra i protagonisti), la fedeltà a una lotta ideale e ai sentimenti personali avvolgono la storia dello scrittore, della ragazza che tenta il suicidio, del boia di Lisbona che si scoprirà essere suo zio, dello zio dell’optometrista, torturato all’epoca dalla polizia segreta portoghese e ospite ormai di una casa di riposo, della sorella di de Prado, Adriana, del compagno di studi e di resistenza di Amadeu, George, legato sentimentalmente a Stefania che diventerà l’amante dell’amico e l’anello debole della resistenza da eliminare.

La memoria apre le ferite nel corpo e nell’anima dei protagonisti, presente e passato si sovrappongono in piani apparentemente inestricabili contrassegnati dal rimpianto e dal rimorso che intessono la trama dei legami relazionali (Amadeu de Prado: “Lasciamo sempre qualcosa di noi, quando ce ne andiamo da un posto: rimaniamo lì; anche una volta andati via e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo in noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice alla nostra vita. Non importa quanto questi siano stati brevi e viaggiando dentro noi stessi, ci dobbiamo confrontare con la nostra solitudine. Ma tutto ciò che facciamo, non lo facciamo forse per paura della solitudine? Non è questo il motivo per cui rinunciamo a tutte le cose che rimpiangeremo alla fine della nostra vita? …”).

Ognuno dei protagonisti appeso al destino dell’altro e il destino dell’altro segnato dalle scelte di ciascuno con una memoria condivisa nella sofferenza personale e collettiva, una memoria che finisce per trasformarsi in presente, ma un presente meno doloroso quando, generato da una rielaborazione del passato, illumina le ombre e comprende l’esperienza riordinandola attraverso nuovi significati.

Indicazioni per l’utilizzo:

Utile con i pazienti per lavorare sulla consapevolezza, sul ruolo che gioca il caso (Amadeu: ” Il caso è il regista della vita”), l’agentività e la responsabilità personale nelle vicende della vita. 

Trailer:

 

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Rubrica Cinema & Psicoterapia 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’orgoglio di essere se stessi. Per una ristrutturazione cognitiva della vergogna

 

Abstract

Fra le emozioni la vergogna è quella più subdola, in quanto inficia l’autostima e l’autoaffermazione. Essa è il frutto della storia personale dell’individuo e dei giudizi globali negativi che ha collezionato nel corso dello sviluppo.

Della vergogna, però, si può farne un buon uso, ovvero viverla come un’occasione per rivedere se stessi, la propria vita e per scoprire l’orgoglio per la propria imperfezione.

 L’origine della vergogna

Nel corso del secondo anno di vita del bambino compaiono le cosiddette emozioni sociali, definite anche autocoscienti e valutative (Berti e Bombi, 2005). Fra di esse un posto di rilievo lo occupa la vergogna. In questo vissuto emotivo quello che predomina è il giudizio complessivo negativo che la persona dà a se stessa. Alla base di tale emozione ci possono essere due fattori che agiscono nel corso dello sviluppo:

  • un temperamento difficile, che rende problematici i rapporti con l’alterità;
  • l’atteggiamento educativo che gli adulti hanno nei confronti dei bambini. Infatti, i genitori o gli insegnanti che esprimono dei giudizi globali sui propri figli o alunni li avviano ad un’analisi di sé globale, per cui di fronte a qualcosa di sbagliato che essi fanno tenderanno a valutarsi in toto come persone incapaci. Chiaramente la vergogna provata è maggiore laddove i bambini sono continuamente “…umiliati, disprezzati o su cui i genitori fanno pendere la minaccia di non volergli più bene…” (Berti e Bombi, op. cit., pag. 174).

La vergogna influisce negativamente sugli apprendimenti che il ragazzo compie nell’ambito della sua crescita e che appaiono, per questa ragione, ipotecati negativamente. A questo riguardo, la valutazione che il piccolo fa della sua persona  incide notevolmente sul suo stile di apprendimento, comunicazionale, cognitivo e attributivo.  La considerazione che il ragazzo ha di sé, come Mancaniello e Cangioli osservano può essere positiva (goodness), del tipo <sono un bambino buono e bravo>, o negativa (badness) <sono un bambino cattivo>. I giudizi sono inferiti dalle lodi o dai rimproveri dati dalle figure di riferimento significative (genitori, educatori, insegnanti)…” ( 2008, pag. 251).

I costrutti alla base della vergogna

 La mente umana è caratterizzata dalle credenze che possiede relative alla realtà. In pratica, essa percepisce ed interpreta gli eventi che accadono in base alle sue convinzioni. Ogni qualvolta la realtà non combacia con quelle che sono le aspettative, si intraprendono delle azioni che hanno la finalità di cambiare lo stato vissuto (reale) in uno stato desiderato (ipotetico), attraverso delle strategie comportamentali.

Lungo il tragitto che conduce alla condizione auspicata, si effettuano delle verifiche, ovvero sono sottoposte ad analisi le condotte adottate, in modo da stabilire se esse vanno nella direzione giusta o si indirizzano completamente verso altre rotte. In altre parole, se i comportamenti attuati procurano benessere si prosegue sulla stessa traiettoria, se invece producono malessere si cambiano i piani.

Questo accade nella misura in cui l’individuo ha un suo equilibrio psicologico che permette di scegliere, fra più condotte, quelle opportune e di cambiarle allorquando si rivelano inefficaci.

Laddove esiste sofferenza psicologica, il singolo utilizza sempre le stesse strategie che si cristallizzano, divenendo non suscettibili di cambiamento anche quando egli si accorge del malessere e della sofferenza che creano (Castelfranchi, Mancini e Miceli, 2002).

Nel costrutto della vergogna c’è la credenza di essere una persona non degna di stima. L’essere umano, quindi, valuta se stesso in termini non positivi e diviene estremamente attento ai segnali che l’alterità invia e che convalidano questa idea.

Ogni individuo ha una teoria relativa ad un proprio sé ideale. In pratica, ha un’opinione riguardo alle caratteristiche che contraddistinguono quella che reputa la persona giusta, a cui vorrebbe somigliare. Tale costruzione è figlia di tutti gli apprendimenti che il singolo ha compiuto nel corso della sua storia. Nel momento in cui questo sè ideale si discosta dal sè reale, la persona prova vergogna per non essere, agli occhi di se stessa prima e degli altri poi, quello che vorrebbe o dovrebbe essere (Castelfranchi, 2005).

Si prova imbarazzo, allora, non solo per quello che si è, ma anche per quello che si fa  e per tutte le cose che caratterizzano la propria vita.

In questo modo la vergogna diventa un’emozione che permea l’intero vissuto dell’individuo e può essere assimilata, nella sua intensità, ad un qualcosa di totalizzante e paralizzante, che invade completamente la mente, come l’emozione descritta da Antonin Artaud nella sua poesia “…Colei che dorme nel mio letto / E spartisce l’aria della mia camera / Può giocarsi a dadi sul tavolo / Il cielo stesso della mia mente…” (2002, pag. 121).

La persona vorrebbe fortemente apparire agli occhi degli altri per quello che non è. In taluni casi arriva a mistificare con se stessa e con l’alterità, costruendo un’ immagine di sé che non corrisponde a quella reale. Ciò determina la nascita di uno stato di ansia continuo, in quanto, in qualsiasi momento, si può essere smascherati e questo implementa la vergogna di base.

Come acutamente Eugenio Montale fa notare

“…È una grande sventura nascere piccoli / e la peggiore quella di chi rimbambisce / mimando la stoltizia che paventa / una qualche improbabile identità… E la vergogna non è, garzon bennato, che un primo barlume della vita…” (1991, pag. 484).

 La ristrutturazione cognitiva della vergogna

 La vergogna, oltre ad una funzione distruttiva, può avere una valenza positiva laddove diventa il paradigma fondante di una ristrutturazione di sé. Il desiderio più profondo dell’individuo che sperimenta la vergogna, come d’altra parte di ogni essere umano, è quello di essere accettato dall’altro. La falsa credenza, alla base di questa emozione, è quella di pensare che così come si è, con le proprie mancanze, limiti o imperfezioni, non si possa essere stimati dall’alterità.

Della vergogna, come suggerisce la Turnaturi (2012), si può farne un buon uso, ovvero viverla come un segnale che l’io invia per ristrutturare la relazionalità con se stessi e con gli altri.  Il prendere coscienza della vergogna può essere l’avvio per una negoziazione con se stessi, alla ricerca di un io ideale meno aulico, più in sintonia con la propria vera natura, in modo da distanziarsi emotivamente dalle esperienze e dagli apprendimenti che hanno inficiato l’immagine di sé. Bisogna ribadire a se stessi quello che il protagonista del romanzo di Scott Turrow dice

“…Mi manca qualche qualità umana. E noi possiamo essere soltanto ciò che siamo. Io ho la mia storia, i miei ricordi, il labirinto irrisolto del mio io, dove mi smarrisco tanto spesso…”  (1996, pag. 138).

 

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Vergogna e memorie autobiografiche: l’impatto su depressione, ansia sociale e ideazione paranoide

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Artaud, A. (2002). Poesie della crudeltà (1913 – 1935) (P. Di Palmo trad.). Viterbo: Stampa Alternativa.  ACQUISTA ONLINE
  • Berti, A. E. e Bombi, A. S. (2005). Corso di psicologia dello sviluppo. Bologna: Il Mulino.  ACQUISTA ONLINE
  • Castelfranchi, C. (2005). Che figura. Emozioni e immagine sociale. Bologna: Il Mulino.  ACQUISTA ONLINE
  • Castelfranchi, C., Mancini, F. e Miceli, M. (2002). Fondamenti di cognitivismo clinico. Torino: Bollati Boringhieri.  ACQUISTA ONLINE
  • Mancaniello, A. e Cangioli, L. (2008). L’emozione della vergogna nell’infanzia: l’attività ludica motoria sportiva come mezzo per affrontarla. In C. Guido. e G. Vernì (a cura di), Educazione al benessere e nuova professionalità docente (pag. 247 – 266). Bari: Ufficio Scolastico Regionale Puglia.  DOWNLOAD
  • Montale, E. (1991). Tutte le poesie (G. Zampa curatore). Milano: Mondadori.
  • Turnaturi, G. (2012). Metamorfosi di un’emozione. Milano: Feltrinelli.
  • Turrow, S. (1996). Presunto innocente (R. Rambelli trad.). Milano: Mondadori.

Trauma psicologico: la terapia migliore è quella somatica

FLASH NEWS

La terapia somatica è uno dei migliori metodi utilizzati con successo per curare e ridare una vita normale alle persone che soffrono di trauma psicologico.

Gli avvenimenti che accadono nella nostra vita possono influenzare il funzionamento della nostra mente sia al livello conscio che inconscio. Certi eventi come un lutto inaspettato di una persona cara, la malattia, pensieri ansiosi,  incidenti ed esperienze  ai confini della morte possono determinare la comparsa della sintomatologia traumatica. Di conseguenza il trauma psicologico provoca dei danni alla psiche che si verificano in seguito ad un evento ad alto impatto emotivo e difficile da elaborare.

La terapia somatica è uno dei migliori metodi utilizzati con successo per curare e ridare una vita normale alle persone che soffrono di trauma psicologico.

Il termine somatico deriva dal greco “soma” che significa corpo. La terapia somatica è una terapia olistica che studia la relazione tra corpo e mente in base ai problemi di salute emotiva e mentale del soggetto.

La teoria che sostiene la terapia somatica postula l’idea che la sintomatologia traumatica comporta un’instabilità a livello del sistema nervoso autonomo (SNA). Secondo gli psicoterapeuti somatici, i nostri corpi trattengono i traumi del passato che si riflettono nel nostro linguaggio del corpo, nella nostra postura e anche nelle espressioni.

In alcuni casi, i traumi del passato possono manifestare sintomi fisici come dolore, problemi digestivi, squilibri ormonali, disfunzioni sessuali e del sistema immunitario, problemi medici, la depressione, l’ansia e la dipendenza.

Tuttavia i sostenitori di questa corrente psicoterapeutica affermano che attraverso la psicoterapia somatica il SNA può ritrovare l’equilibrio, l’omeostasi, e che questa terapia ridà la quiete ai pazienti con un quadro di trauma psicologico e cura sintomi fisici e mentali derivati da traumi passati.

La terapia somatica conferma il forte legame esistente tra la mente e il corpo, legame sostenuto da numerose ricerche nel campo della neuropsicologia che sostengono  come la mente influenza il corpo e viceversa.

L’obiettivo principale della terapia somatica è il riconoscimento e il rilascio della tensione fisica accumulata che può rimanere nel corpo a seguito di un evento traumatico. Le sessioni di terapia somatica insegnano al paziente come monitorare  l’esperienza passata attraverso  le sensazioni corporee. A seconda della forma di terapia somatica utilizzata, le sessioni possono focalizzarsi sulla la consapevolezza delle sensazioni corporee o possono includere corsi di danza, tecniche di respirazione, canto, esercizio fisico, tocco di guarigione e ipnosi.

La terapia somatica offre una varietà di benefici: rivede e trasforma esperienze negative presente o passate, trasmette un maggior senso di sé,  aumenta la fiducia, la resilienza e la speranza. Riduce il disagio, affaticamento e lo stress grazie ad una maggiore capacità di concentrazione.

La terapia somatica non agisce meccanicamente sul corpo per togliere il dolore. Essendo una terapia olistica, la terapia somatica indica al paziente il perché del problema riscontrato e suggerisce le modalità di eliminazione del dolore.

L’obiettivo del terapeuta è anche quello di far emergere, grazie a una forte empatia con il paziente, le cause emotive del dolore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La scelta di determinare se un volto è animato o no dipende dalla nostra socievolezza

FLASH NEWS

Un recente studio pubblicato su Psychological Science sostiene che sentirsi non socievoli può ridurre la capacità di determinare se un oggetto è inanimato o meno.

In quanto esseri sociali, possediamo una motivazione intrinseca a prestare attenzione alle interazioni sociali; questo bisogno di essere connessi, di appartenere  ad una rete sociale fa parte integrante della natura umana influenzando il benessere fisico e mentale delle persone.

A questa ricerca hanno partecipato 30 studenti universitari che sono stati sottoposti ad un compito in cui dovevano decidere se un volto che veniva presentato loro fosse animato o meno. I volti (morphs) sono stati costruiti ex-novo dagli sperimentatori combinando caratteristiche di volti inanimati (come naso, bocca, le sopracciglia, mento di una bambola) a caratteristiche di volti di persone reali.

Sono state costruite in questo modo due categorie di volti: maschili e femminili, presentati random, che potevano avere diversi gradi di similitudine (su una scala da 0% a 100%) con un volto reale. In seguito, ai partecipanti veniva somministrato un questionario che misurava la socievolezza.

Dai risultati è emerso che i partecipanti che hanno ottenuto punteggi più alti al test di socievolezza categorizzavano più volti come “animati” rispetto al resto del gruppo di partecipanti.

Per approfondire i risultati ottenuti, gli autori hanno condotto un secondo studio in cui hanno manipolato sperimentalmente il “sentirsi socievoli”.

I ricercatori hanno chiesto ad un secondo gruppo di studenti universitari di compilare un test sulla personalità. Al posto del vero esito al test, ai partecipanti veniva fornito in maniera random un feedback che poteva essere la descrizione di una persona che avrebbe condotto una vita isolata e solitaria o di una persona che avrebbe avuto una vita socievole caratterizzata da relazioni durature. In seguito, i partecipanti venivano sottoposti al test della categorizzazione dei volti.

Come ipotizzato, dai risultati è emerso che gli studenti etichettati “come socievoli” hanno scelto un maggior numero di volti come appartenenti alla categoria “animati”.

Powers, uno degli autori del presente studio, sostiene che i risultati ottenuti sono particolarmente interessanti in quanto gli studi precedenti hanno dimostrato che le persone sono abbastanza caute nel determinare se un volto è animato.  Dal presente studio emerge come tale decisione dipende dallo status socio-relazionale dell’individuo e dalle motivazioni per le future interazioni sociali.

Ricerche simili ci aiutano a comprendere i fattori coinvolti nella percezione dei volti e nell’instaurare dei rapporti sociali ed inoltre possono fornire degli spunti interessanti per capire meglio le nuove tipologie di relazioni che sono emerse in età moderna, compresi i nostri rapporti con gli animali domestici, gli avatar o i mezzi tecnologici come computer, robot e telefoni cellulari.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Incidente aereo di Tenerife: le dinamiche di gruppo e l’influenza della cultura organizzativa

Nel 1977 si verificò sull’isola spagnola di Tenerife l’incidente più grave nella storia dell’aviazione: la collisione di due Boeing 747 che costò la vita a 583 persone. La responsabilità dell’incidente è completamente attribuibile a comportamenti sbagliati attuati dalle persone coinvolte e dall’organizzazione di cui facevano parte.

Nel marzo del 1977 si verificò sull’isola spagnola di Tenerife, più precisamente all’aeroporto di Los Rodeos (oggi rinominato Tenerife North Airport), l’incidente considerato da molti il più grave nella storia dell’aviazione: la collisione di due Boeing 747 costò la vita a 583 persone. 

La particolarità del disastro avvenuto a Tenerife consiste nel fatto che non si è verificata un’anomalia tecnica, ad esempio un guasto al motore di un aereo, né l’incidente è avvenuto a causa del maltempo. La responsabilità dell’incidente è completamente attribuibile a comportamenti sbagliati attuati dalle persone coinvolte e dall’organizzazione di cui facevano parte.

 

In rete di possono trovare descrizioni abbastanza dettagliate del disastro aereo, ma l’obiettivo di questo articolo consiste nel commentarne, seguendo un approccio psicologico, un aspetto specifico. Il focus sarà centrato sulla compagnia di uno dei due Boeing 747, ossia la KLM, analizzando le dinamiche di gruppo del team che pilotava l’aereo e i processi organizzativi in gioco. Successivamente verrà trattata l’importanza della cultura organizzativa nell’influenzare i comportamenti dei membri dell’organizzazione in questione e sarà analizzata la situazione attraverso alcune teorie organizzative.

Le dinamiche di gruppo nel team della KLM

Nel team della KLM, composto dal pilota, il copilota e l’ingegnere di volo, è visibile una serie di dinamiche e di processi che lo hanno portato a fallire nel suo compito e a causare la morte di centinaia di persone. Il gruppo si trovava in una situazione di elevato stress (come il team della compagnia Pan Am, gli operatori della torre di controllo e le altre persone coinvolte). Tale situazione difficile ha condotto il team della compagnia KLM a varie difficoltà soprattutto nella comunicazione, dovute a una serie di motivi che saranno esposti in seguito.

I processi di decision making e di individualismo

Risulta evidente che le decisioni sbagliate del pilota dell’aereo non sono state contraddette né dal copilota né dall’ingegnere di volo (Weick, 1990). Nel momento in cui l’aereo della KLM si stava preparando per il decollo, il copilota sapeva che il pilota stava iniziando la fase di decollo illegalmente (ossia senza l’autorizzazione), ma non ha fatto nulla per dimostrare la sua avversione per questo comportamento. Anche l’ingegnere di volo, dal suo canto, aveva dei sospetti che l’aereo della Pan Am fosse ancora sulla pista, ma non ha insistito decisamente per convincere il pilota ad avere più prudenza e a evitare il rischio di incidente.

Il team della KLM si è dimostrato dunque un gruppo composto da tre membri che lavoravano individualmente. Esso sembra possedere le caratteristiche di una struttura meccanicistica di gruppo (‘t Hart, Rosenthal & Kouzimet, 1993, citati da McCreary, Pollard, Stevenson & Wilson, 1998), la quale tende a involvere in una gerarchia burocratica e a catene formali di comando e di comunicazione. Riprendendo la trattazione di ‘t Hart e collaboratori (1993), in questo tipo di gruppi i processi decisionali tendono a essere altamente centralizzati; nel caso in questione, infatti, il pilota della KLM, nella situazione di stress, si è isolato dagli altri e ha preso le decisioni senza consultarli. Si assiste, analizzando la situazione creatasi, a una forma di groupthink che ha permesso ai membri del gruppo di minimizzare i conflitti e di raggiungere il consenso senza il ricorso a una valutazione critica delle idee.

Il copilota, data la sua inesperienza, ha evitato di contraddire le decisioni del pilota, probabilmente per evitare l’imbarazzo o l’ira del leader nei suoi confronti (lo stesso discorso vale per l’ingegnere). Il potere di competenza e il potere leggittimo (Palmonari, Cavazza & Rubini, 2006) del pilota sul copilota deriverebbero da norme interiorizzate di quest’ultimo, che stabiliscono che il primo ha il diritto leggittimo di influenzarlo, dato che è colui che gli ha conferito il brevetto e che di conseguenza sarebbe il membro più esperto del gruppo.

In una situazione stressante e critica come quella in cui si trovavano, inoltre, non potevano permettersi di ledere la coesione di gruppo; per giunta, date le disposizioni olandesi che li obbligavano a rientrare nelle ore mensili di volo previste, essi condividevano questo obiettivo comune che li ha portati a evitare di contrastare la decisione di decollare senza autorizzazione.

L’influenza della cultura organizzativa sul comportamento del team

Come Li e Harris (2006) confermano, i processi di decision-making, i fattori di vigilanza e la cultura organizzativa costituiscono gli elementi primari per l’analisi degli errori umani negli incidenti aerei. Orasanu e Connolly (1993, citati da Li & Harris, 2006) sostenevano che il processo di decision-making si verifica spesso in un contesto organizzativo, nel senso che l’organizzazione influenza direttamente le decisioni dei piloti stabilendo delle procedure operative standard, e indirettamente attraverso le proprie norme e la propria cultura. Li e Harris, nel loro studio del 2006, hanno applicato l’HFACS (Human Factors Analysis and Classification System: uno strumento utilizzato per l’analisi del ruolo dell’errore umano negli incidenti aerei) sugli incidenti della ROC Air Force. Ciò ha permesso loro di sostenere che le decisioni ai livelli superiori di un’organizzazione hanno un ruolo centrale nella provocazione di incidenti ed errori operativi, confermando così il modello teorico di Reason (1990), il quale sostiene che i fallimenti derivino da condizioni latenti nelle organizzazioni.

La prospettiva del sensemaking di weick

La prospettiva del sensemaking di Weick (1995, citato da Bonazzi, 2006) si presta a un’analisi della situazione in questione. Come Weick (1990) sottolinea, quando le persone impiegate in una data organizzazione parlano tra loro e con gli estranei, non solo comunicano all’interno di un’organizzazione, ma costruiscono l’organizzazione stessa attraverso ciò che dicono. Nel caso in questione, qualsiasi conversazione avvenuta tra la cabina di pilotaggio della KLM e gli esterni (dal responsabile della sede dell’aeroporto di Las Palmas alla torre di controllo di Los Rodeos, alle interazioni avvenute all’interno dello stesso cockpit), rappresentano l’organizing della KLM. La debolezza della compagnia aerea si noterebbe nel momento in cui fra i membri del team la comunicazione varia o è del tutto assente.

Per Weick (1995, citato da Bonazzi, 2006) la cultura di un’organizzazione si costruisce d’altronde dai processi cognitivi attraverso cui i soggetti conferiscono senso ai loro flussi di esperienza. In altre parole, il caos dovuto alla situazione stressante ha portato il team della KLM ad attribuirne ordine e forma attraverso l’utilizzo di mappe causali puramente cognitive, ed effettuando delle azioni logiche in merito a ciò; il sensemaking effettuato dal team sarebbe, in quest’ottica, del tutto equivalente ai processi di organizing della KLM.

L’intero processo di interpretazione da parte del team della KLM degli eventi che stavano accadendo e di quelli che di lì a poco sarebbero accaduti dipende da diversi fattori: dal linguaggio, dalle interazioni sociali fra gli attori coinvolti, dunque dalle relazioni prettamente gerarchiche che influenzano nel gruppo gli atteggiamenti e le norme di comunicazione. Seguendo la prospettiva teorica di Weick (1995, citato da Bonazzi, 2006), la realtà attivata dagli attori coinvolti attraverso il processo di enactment ha retroagito su di loro in modo tale che qualsiasi cosa che fosse in seguito successa sarebbe stata reinterpretata, da parte loro, retroattivamente. Ad esempio, considerato che il team della KLM stava aspettando l’autorizzazione al decollo, giacché loro volevano sentire tale autorizzazione, hanno probabilmente interpretato le parole dell’operatore della torre di controllo in tal senso.
Si potrebbe sottolineare inoltre che, in una realtà come le compagnie aeree, vi è un linguaggio comune di atti e procedure che serve a creare una grammatica convalidata consensualmente per evitare fatali ambiguità. Nel momento in cui tale standardizzazione viene a mancare (ad esempio nel caso in questione non è stato attuato un linguaggio corretto da parte del copilota), decade la centralità prettamente a livello sostantivo della lingua nel sensemaking, provocando un misunderstanding generale che conduce a vari errori interpretativi.

La cultura come espressione del nucleo tecnologico

La visione del team della KLM come gruppo (‘t Hart et al., 1993, citati da McCreary et al., 1998) all’interno di una compagnia aerea, conduce a considerare i processi organizzativi in gioco relativi al nucleo tecnologico. I compiti che il team si presterebbe a eseguire quotidianamente sono pressoché routinizzati e abbastanza prevedibili. Seguendo il modello sviluppato da Perrow (1967, citato da Hatch, 2009) il cockpit rappresenta un’unità organizzativa della compagnia aerea che detiene una tecnologia propria. Di conseguenza si possono considerare le dimensioni della variabilità dei compiti e della analizzabilità dei compiti. Secondo la combinazione delle suddette dimensioni, il nucleo tecnologico alla base del team della KLM rientra nella definizione di tecnologia di routine, ossia caratterizzata da una bassa variabilità dei compiti e da un’alta analizzabilità; l’analizzabilità è da considerare alta poiché i membri del team sono addestrati a situazioni che prevedono un dirottamento verso un altro aeroporto, ad affrontare circostanze d’emergenza ecc.

Per spiegare la situazione critica creatasi e le conseguenze cui ha condotto, però, non basta una visione prettamente tecnica come quella di Perrow; la prospettiva simbolico-interpretativa di Weick (1995, citato da Hatch, 2009) ne rappresenta un valido supporto. Il linguaggio utilizzato all’interno della cabina di pilotaggio, le procedure comportamentali, le metafore, le azioni e le interazioni fra i membri del team e fra questi ultimi e l’aereo stesso, sono aspetti che fanno parte della cultura organizzativa, e di conseguenza costituiscono il nucleo tecnologico. I suddetti aspetti rientrano in un processo interpretativo soggettivo della realtà da parte degli attori coinvolti; per quanto il team fosse stato probabilmente addestrato ad affrontare una situazione simile a quella in cui si trovava, non è stato in grado di fare le scelte giuste in un contesto così stressante al fine di evitare il rischio di incidente, per via delle difficoltà prettamente comunicative connesse ai processi psicosociali e organizzativi descritti precedentemente.

Conclusione

Col passare degli anni i sistemi di sicurezza centrati sulla prevenzione di incidenti dovuti a rischi fisici, biologici e chimici si sono perfezionati, ma è prestata ancora poca attenzione al fattore umano all’interno delle organizzazioni, ai rischi psicosociali e alle conseguenze cui questi ultimi potrebbero condurre. Un’adeguata attenzione da parte delle aziende alla gestione dei rischi psicosociali dovuti sia al contenuto del lavoro sia al contesto lavorativo potrebbe evitare il verificarsi in futuro di un altro disastro come quello di Tenerife.

 

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Current

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bonazzi, G. (2006). Come studiare le organizzazioni. Bologna: Il Mulino. ACQUISTA
  • Hatch, M. J. (2009). Teoria dell’organizzazione. Bologna: Il Mulino. ACQUISTA
  • Li, W. C., & Harris, D. (2006). Pilot error and its relationship with higher organizational levels: HFACS analysis of 523 accidents. Aviation Space and Environmental Medicine 77: 10 pp. 1056-1061.
  • McCreary, J., Pollard, M., Stevenson, K., & Wilson, M. B. (1998). Human factors: Tenerife revisited. Journal of Air Transportation World Wide 3: 1 pp. 23-32.
  • Orasanu, J, & Connolly, T. (1993). The Reinvention of Decision Making. In: Klein G.A., Orasanu, J., Calderwood, R., & Zsambok, C.E. (Eds.), Decision Making in Action: Models and Methods. (pp. 3-20). Norwood, New Jersey: Ablex.
  • Palmonari, A., Cavazza, N., & Rubini, M. (2006). Psicologia sociale. Bologna: Il Mulino. ACQUISTA
  • Reason, J. (1994). L’errore umano. Bologna: Il Mulino. (Original work published 1990).
  • ‘t Hart, P., Rosenthal, U., & Kouzmin, A. (1993). Crisis decision making: The centralization thesis
    revisited. Administration & Society. 5, vol 25, No 1, p. 12.
  • Weick, K. E. (1990). The Vulnerable System: An Analysis of the Tenerife Air Disaster. Journal of Management 16: 3 pp. 571-593. DOI: 10.1177/014920639001600304.

 

Linee guida per il supporto alle donne vittime di violenza – Recensione

Un libro veramente utile che illustra per il pubblico italiano di operatori della salute le linee guida per rispondere alla violenza del partner e alla violenza sessuale contro le donne.

Scriviamo violenza verso le donne perché la differenza di frequenza tra uomini e donne è tale che mi è consentito l’utilizzo delle donne come vittime e dei partner come violenti. Anche se ovviamente abbiamo un caso ogni 10 in cui sono le donne ad essere violente e gli uomini ad essere vittime. Una revisione recente della prevalenza life-time della violenza contro le donne ci fornisce un numero che descrive bene l’importanza del fenomeno, il 35% delle donne sperimenta violenza fisica o sessuale nel corso della vita e per quello che riguarda gli omicidi di donne, il 38% sono perpetrati dal partner. 

Le violenze fisiche e sessuali generano problemi di salute, a breve medio o lungo termine. Dal punto di vista degli effetti psicologici, sale drammaticamente il rischio di depressione, i tentativi di suicidio, il PTSD. Queste cose si sanno, anche se i numeri non sono noti a tutti.

Chi opera nella salute mentale conosce l’importanza di un intervento che sia professionalmente informato e insieme rispettoso dei diritti delle donne. Professionale, vuol dire utilizzare negli interventi psicologici protocolli efficaci (come la CBT, o l’EMDR), rispettoso dei diritti delle donne (gender sensitive) implica capacità di ascolto, non invadenza, rispetto dei tempi delle donne, coraggio di non essere interventisti laddove vi siano resistenze da parte della donna, e rispettoso della privacy del racconto della violenza.

Questo approccio “gender sensitive” deve tenere conto del fatto che la violenza è un problema strutturale e spesso ha lo scopo di costringere le donne all’ubbidienza o alla subordinazione, data anche la disparità di forze fisiche in campo. 

Il personale sanitario tutto va formato all’intervento sulla violenza contro le donne. In ogni struttura dovrebbe esserci del personale appositamente formato e consapevole delle linee guida, capace di fornire la psicoterapia, il sostegno, l’aiuto sociale adeguato alle donne vittime di violenza.

Ovviamente noi qui sottolineiamo gli aspetti psicologici perché questo è il nostro campo di esperienza, ma nelle Linee guida si citano anche gli interventi sui rischi fisici. Ad esempio quando si sospetti una gravidanza, o quando la gravidanza sia effettivamente iniziata., o quando vi siano rischi di malattie virali come l’HIV. Il libro dà indicazioni su queste aree in modo corretto e sensibile.

Patrizia Romito nella sua bella presentazione sottolinea giustamente l’urgenza della ricerca sulla trasmissione intergenerazionale della violenza, bambini che assistono a violenza hanno vulnerabilità psichiche di diversa gravità a seconda della quantità di esposizione nel tempo e del tipo di violenza a cui hanno assistito.

Interessante che nelle linee guida siano citate alcune aree in cui non si trova un accordo. In questi casi le raccomandazioni sono come sospese, e si lascia agli operatori la riflessione sulle scelte da compiere. Ad esempio non vi è accordo se occorra o sia sconsigliato uno screening generale (o indagine di routine) sulla violenza in tutti i colloqui psicologici effettuati nei servizi con le donne. Vi sono posizioni che ne rilevano l’importanza, ma molti sono in disaccordo e considerano lo screening generale inapplicabile e se applicato addirittura pericoloso per la gestione corretta del colloquio psicologico. 

Per quanto riguarda gli psicoterapisti il problema della violenza è ben conosciuto e fa parte dell’universo di problemi clinici che ci si trova a d affrontare nei colloqui. Purtroppo, quando ci si trova davanti al racconto di una violenza subìta, si rischia a volte di intervenire utilizzando conoscenze personali o in modo coerente con la propria formazione e non in modo empirico e seguendo linee guida condivise. In questo senso il testo fa riflettere perché consente di vedere come nella formazione in psicoterapia sarebbe forse utile iniserire moduli efficaci sula violenza contro le donne e orientare l’ insegnamento anche pratico non soltanto verso gli approcci che si preferiscono e si conoscono ma verso ciò che è efficace e empiricamente provato. 

Questo renderebbe la formazione più completa, e gli allievi certamente più bravi e meno costretti dalle maglie dell ideologia o delle preferenze formative della scuola che hanno scelto.

Una buona scuola dovrebbe informare sulle linee guida e fare un pezzo di formazione specifica su questo in modo da dare agli allievi strumenti che possano aiutarli nell’inserimento professionale futuro. E i nostri giovani psicologi ci chiedono spesso che la formazione sia concreta, pratica e informata.

 Leggere queste linee guida dà l’idea che la ricerca e i dati empirici in questa area sia appena agli inizi. Sia la diagnostica (identificazione della violenza) che l’assistenza clinica per le vittime di aggressione sessuale sono supportate da pochi dati di ricerca basati spesso su ricerche in contesti limitati (ad esempio solo in occidente) e numeri piccoli.

Ma questa base empirica così debole è sempre affiancata nelle Linee guida da raccomandazioni forti ad agire in modo corretto e definito in modo chiaro. E’ proprio la differenza tra fragilità relativa della ricerca e urgenza della raccomandazione ad agire, che rende questo libro molto interessante e da leggere tutto di un fiato. 

 

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La trasmissione intergenerazionale della violenza: un’ipotesi sistemica sui processi di apprendimento 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

IgNobel 2014: e il premio per la ricerca più assurda va a…

Anche quest’anno si è tenuta la cerimonia della consegna dei premi IgNobel, riconoscimenti per le ricerche assurde e divertenti che hanno lo scopo di stimolare l’interesse del pubblico alla scienza in generale.

I premi vengono assegnati a 10 ricercatori o enti provenienti da differenti settori dell’ambito scientifico.

In particolare, in questa edizione le ricerche meritevoli del premio appartengono alle seguenti categorie:

  • Fisica
  • Economia
  • Arte
  • Nutrizione
  • Biologia
  • Salute pubblica
  • Medicina
  • Scienze artiche
  • Neuroscienze
  • Psicologia

Il premio per le neuroscienze lo portano a casa un gruppo di ricercatori canadesi e cinesi grazie ad uno studio che ha lo scopo di capire cosa accade nel cervello delle persone che vedono la faccia di Gesù in un pezzo di pane tostato.

Questo fenomeno, noto come pareidolia facciale, è la percezione illusoria di una faccia non esistente. Questo studio compara i responsi comportamentali e neurali della pareidolia facciale con quelli della pareidolia delle lettere per esplorare le reazioni specifiche durante il processo di percezione di una faccia. Ai partecipanti sono state mostrate delle immagini pure-noise ma sono stati portati a credere che il 50% di queste conteneva facce o lettere. Il campione ha riferito di aver visto facce o lettere rispettivamente il 34% ed il 38% delle volte. L’area fusiforme per le facce destra (rFFA) mostrava delle reazioni specifiche quando i partecipanti vedevano delle facce rispetto alle lettere.

Queste scoperte suggeriscono che la rFFA gioca un ruolo specifico non solo nel processare volti reali ma anche durante la percezione illusoria di una faccia, forse per facilitare l’integrazione delle informazioni che provegono dalla Corteccia Visiva Primaria e dei segnali dalla Corteccia Pre-Frontale. Le analisi su tutto il cervello hanno rivelato un network specializzato nella pareidolia facciale che include sia le regioni frontali che occipitali.

Il premio per la psicologia invece lo hanno meritato un gruppo di ricercatori americani, australiani ed inglesi per uno studio in cui si evidenzia che, in media, le persone abituate a svegliarsi più tardi sono più manipolatrici , hanno una maggiore autostima e sono più psicopatiche delle persone che si svegliano presto la mattina.

Gli autori suggeriscono che, al fine di attuare una cheater strategy (strategia dell’ imbroglione) migliore, le persone con elevate caratteristiche di Dark Triad (machiavellismo, psicopatia e narcisismo) dovrebbero avere prestazioni cognitive ottimali e, quindi, avere un cronotipo notturno. Tale disposizione trarrà vantaggio dalla luce bassa, dal monitoraggio limitato e dalla diminuita elaborazione cognitiva di persone mattutine.

Mentre sono state trovate differenze di sesso per alcune caratteristiche della Dark Triad, non ci sono differenze di sesso per quanto riguarda il cronotipo.

Per chi fosse curioso di scoprire tutte le ricerche premiate, le può visionare su questo sito: http://www.improbable.com/ig/winners/

 

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BIBLIOGRAFIA:

Matrimonio: più lei è felice meglio è!

FLASH NEW

Una ricerca della Rutgers University ha scoperto che nei matrimoni felici, più è contenta la moglie più felice sarà il marito anche della propria vita personale, a prescindere da ciò che prova lui nei confronti della loro unione.

Quando una moglie è soddisfatta del suo matrimonio tende a fare di più per il proprio marito e questo ha un’influenza positiva sulla vita di lui. In più, avendo gli uomini la tendenza ad esternare poco in maniera verbale, anche in caso di qualche malcontento questo non viene “trasferito” alla moglie e di conseguenza il clima generale è positivo e la qualità della vita individuale è migliore.

I ricercatori hanno analizzato i dati di 394 coppie che erano parte di uno studio nazionale del 2009 su reddito, salute e disabilità. Almeno uno dei coniugi aveva 60 anni o più e, in media, le coppie erano sposate da 39 anni. Per valutare la qualità del matrimonio sono state poste diverse domande sul rispettivo consorte ed è stato fatto scrivere un diario dettagliato delle 24 ore precedenti lo studio.

I partecipanti hanno valutato la loro vita come generalmente molto soddisfacente (in media: 5 su 6 punti), con i punteggi sul matrimonio leggermente più positivi per i mariti rispetto alle loro mogli.

I risultati mostrano che essere in un matrimonio felice è legato a una vita più soddisfacente e felice. Inoltre è emerso anche che anche la malattia viene vissuta diversamente: le mogli diventano più infelici se il marito si ammala ma in caso contrario il livello di felicità del marito non è condizionato dallo stato di salute della moglie.

Studi come questo sono importanti perché la qualità del matrimonio può influire sulla salute e sul benessere individuale soprattutto con l’avanzare dell’età. Un matrimonio felice fornisce appoggio, aiuta a moderare gli effetti sulla salute degli stressor tipici della fase finale della vita e aiuta le coppie ad affrontare e gestire meglio decisioni difficili sulla salute e sulle cure mediche.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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