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Genitori antisociali? Conseguenze sullo sviluppo cognitivo dei figli

FLASH NEWS

I dati raccolti su un campione di un milione di uomini svedesi, mostrano chiaramente l’esistenza di una relazione tra i comportamenti criminali di alcuni uomini e le capacità cognitive dei loro figli.

Come afferma la ricercatrice Antii Latyala, che lavora presso il Karolinka Institute in Svezia e presso l’University of Helsinki in Finlandia, “tali scoperte sono interessanti, dal momento che le abilità cognitive sono il più importante predittore di molti fondamentali esiti della vita, inclusa la salute e le condizioni socioeconomiche”.

Le ricerche in cui, in passato, sono state studiate generazioni di famiglie, suggeriscono tale tipo di relazione diretta: maggiore è la tendenza di un padre a mettere in atto comportamenti anti-sociali (trasgressione di regole, comportamenti aggressivi e/o violenti), maggiore è la probabilità che lo sviluppo dei loro figli abbia esiti negativi, come ad esempio disturbi psichiatrici, uso di sostanze e scarso rendimento scolastico. Questi studi hanno altresì dimostrato che le persone aventi maggiore tendenza alla messa in atto di comportamenti antisociali, sono anche quelle con capacità cognitive più scarse.

Latyala e colleghi erano interessati a combinare questi due elementi, indagando specificatamente il modo in cui i comportamenti antisociali dei genitori influenzano gli esiti cognitivi dei loro figli. I ricercatori si sono serviti dei numerosi dati esistenti sui cittadini svedesi, compresi dati sulle abilità cognitive raccolti nel contesto della leva militare obbligatoria e dati sui comportamenti anti-sociali (definiti, in questo caso, in termini di condanne penali) raccolti nei registri legali nazionali.

Analizzando i dati di oltre un milione di uomini, Latyala e i suoi collaboratori hanno scoperto che i soggetti i cui padri hanno avuto condanne criminali, mostrano minori abilità cognitive rispetto agli individui i cui padri non hanno una storia di tale genere. E questa associazione sembra strettamente influenzata dalla gravità degli atti criminali commessi dai padri. In altre parole, maggiore è la gravità del comportamento del padre, più scarsi sono gli esiti cognitivi dei loro figli.

Tuttavia, la questione che i ricercatori vogliono indagare è ben più sottile. Ad essi infatti interessa scoprire se tale associazione sia diretta oppure mediata da altri fattori, come ad esempio le componenti genetiche. Per fare ciò, essi confrontano la relazione tra storia criminale del padre e abilità cognitive dei figli con quella dei cugini i cui padri abbiano diverse relazioni tra di loro.

In particolare, gli autori prendono in esame l’associazione tra cugini i cui padri siano fratellastri (ovvero condividono il 25% del loro patrimonio genetico), oppure fratelli o fratelli-gemelli (50% dei geni in comune), oppure gemelli omozigoti (ovvero condividono il 100% del loro patrimonio genetico).

Se i comportamenti anti-sociali dei padri sono direttamente causa delle scarse abilità cognitive dei figli, tale associazione dovrebbe rimanere ugualmente forte tra le diverse relazioni genetiche. I dati, però, dimostrano tutt’altro: quando i ricercatori prendono in considerazione il patrimonio genetico, l’associazione tra i comportamenti criminali del padre e gli esiti cognitivi dei figli sembra diminuire.

“I nostri risultati indicano che, nonostante le difficoltà associate ai comportamenti antisociali del proprio padre, è improbabile che tale atteggiamento influenzi direttamente lo sviluppo delle abilità cognitive dei figli nella loro infanzia. Piuttosto, i dati evidenziano come sia da prendere in considerazione la componente genetica in quanto fattore di rischio”, concludono i ricercatori.

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BIBLIOGRAFIA:

Naturalmente infertile: storie di strade e di sogni – Recensione

Leggere questo libro significherebbe non sentirsi sole, significherebbe rispecchiarsi nelle parole di altre donne e sentirsi supportate. Per chi è fermo a quello Stop, “Naturalmente infertile” e Strada per un sogno potrebbero dare più sicurezza e più determinatezza nel riprendere la marcia.

[blockquote style=”1″]Quella porta, di quell’ospedale milanese, quella mattina mi ha cambiato la vita. Sentivo che la mia strada sarebbe stata lunga, tortuosa e complessa, ma come tutti speravo di uscire da quella porta e di chiudermela alle spalle velocemente. Velocemente… Ecco è proprio la fretta di riuscire a ottenere una gravidanza che sconvolge la vita. La normalità si spacca in mille pezzi.[/blockquote]

Queste sono le parole di una delle protagoniste del libro “Naturalmente infertile”. Un libro che parla alle donne e alle coppie, quelle donne e quelle coppie che nei propri progetti di vita hanno dovuto fermarsi un attimo, raccogliere le proprie forze e ripartire più determinate di prima. 

Il libro, scritto da Stefania di Tusco e Luisa Musto infatti, racconta le storie di donne e di coppie che, per diversi motivi, hanno incontrato un ostacolo nel loro cammino: il non poter avere figli. Tra le righe si legge del dolore, della sofferenza e dei sensi di colpa che caratterizzano questo duro confronto con la realtà. Tuttavia queste coppie hanno in comune un altro particolare: la scoperta della PMA (Procreazione Medicalmente Assistita).

 

I diversi cammini di vita ripartono da qui: da una speranza, dalla voglia di sentirsi e credersi di nuovo genitori.

Le voci dei protagonisti di questo libro danno luce a diverse storie: matrimoni felici, malattie, separazioni e riconciliazioni, in cui l’ unica costante è il voler avere un figlio. Le loro storie non si fermano col libro: le protagoniste e altre donne ancora hanno condiviso e condividono i loro vissuti su un forum, Strada per un sogno, punto di incontro per chi ha intrapreso già, o intende farlo, la strada della PMA.

Incuriosita, mi sono dedicata all’esplorazione del forum, diverse le discussioni aperte: dal parere degli esperti, alle opinioni di chi a quegli esperti si è rivolto; dalle mamme grazie all’eterologa, alle gioie della gravidanza, e così via, con discussioni anche sul tema di affido e adozione. Già, perchè non sempre la PMA porta ai risultati tanto desiderati ma, come si legge anche nelle storie del libro, il desiderio di amare un piccolo può andare oltre e, attraverso un cambio di rotta, si possono iniziare pratiche di adozione o affido.

Consiglio la lettura del libro, oltre che agli operatori (quale modo migliore di conoscere un vissuto se non attraverso un racconto in prima persona del protagonista?), soprattutto alle coppie e alle donne che credono di aver trovato un segnale di Stop alla propria genitorialità. Dopo uno Stop, con calma, si può sempre ripartire. 

Leggere questo libro significherebbe non sentirsi sole, significherebbe rispecchiarsi nelle parole di altre donne e sentirsi supportate. Per chi è fermo a quello Stop, “Naturalmente infertile” e Strada per un sogno potrebbero dare più sicurezza e più determinatezza nel riprendere la marcia.

Buona lettura!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Tosca, S., & Musto, L. (2014). Naturalmente infertile. Storie di strade e di sogni. Graphe Edizioni

Cosima, una storia di abusi familiari e deliri erotomanici – Centro di Igiene Mentale- Cim n. 19 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE #19

Cosima

 

Cosima Cencelli, 45 anni, ha iniziato la parte della vita in cui si rimpiange come si era, gli amori avuti, le occasioni sfiorate. Le donne si accorgono d’un tratto di essere diventate invisibili e gli sguardi dei maschi, un tempo insistenti e fastidiosi, le trascurano per ragazzine che potrebbero essergli figlie.

Cosima di rimpianti ne ha pochi, è sempre stata una bambina, ragazza e donna brutta. Bassa un metro e cinquantacinque, capelli radi tinti di un nero corvino innaturale che lasciano intravedere il cranio. Occhi grigi puntiformi da topo, unico punto di interesse in un viso gonfio come di chi appena svegliato, per il fortissimo strabismo convergente che a momenti, senza un apparente motivo come la gobba di Igor in Frankestein junior, diventa con uno scatto improvvisamente divergente e parlandone non si sa mai dove fissarla.

Cosima Cencelli si rivolge al CIM come terza scelta dopo il suo parroco Don Felice Benetton e l’accogliente vescovo di Vontano che riesce nella manovra di dirottamento. E’ stanca di aspettare e sente che perderà la pazienza. Qualcuno deve pur darle una risposta, sente che il tempo della sua vita stringe e le promesse non possono tardare a realizzarsi anche se il ricordo della biblica Sara la consola. Il fatto che sia Giovanni Brugnoli a farle il primo colloquio è frutto del caso e della sua disponibilità a coprire i turni scoperti. Per Cosima invece sarà un evidente segno del destino che aveva predisposto quell’incontro da quando lei a sette anni si dedicò al Signore. Come spiegare altrimenti che quel lontano giorno di 35 anni fa e l’incontro con Giovanni fossero un sabato 6 seppur di mesi diversi? Questi pensieri Cosima li tenne per sé e Giovanni ne venne a conoscenza solo molti mesi dopo leggendo la memoria difensiva che lei stessa (era avvocato) aveva preparato per il GIP di Vontano che doveva decidere sull’eventuale rinvio a giudizio per stalking e molestie sessuali. Gli assistenti sociali facevano il primo colloquio per raccogliere informazioni a 360°. Poi in base a quanto emerso si decideva in riunione d’equipe l’assegnazione del caso al professionista più idoneo a seconda del problema presentato.

Con la stilografica che Biagioli gli aveva regalato da poco per il suo compleanno, Brugnoli si accinse a compilare la scheda di accoglienza. Gli invii del vescovo erano sempre situazioni impegnative. Ciò suscitava un interesse di Brugnoli di forza uguale e contraria alla sgradevolezza estetica che lo spingeva a mantenere le distanze. Si aggiunga che, cosa rara per le brutte che in genere compensano con la simpatia, Cosima era anche antipatica, arrogante e pretenziosa di risarcimento come una principessa decaduta che ce l’ha col mondo per le sue disgrazie. Insomma da fuggire a gambe levate e infatti così dovevano aver sempre fatto tutti. Impossessatasi della stilografica di cui diceva di essere amante come di tutte le cose antiche l’aprì per vedere le cartucce ed una pozza di inchiostro nero si allargò sulla scrivania innescando un profluvio di scuse e tentativi di rimediare peggiori del male. Cosima disse che per farsi perdonare gliene avrebbe regalata una più bella. Qui lo sventurato sorrise con quella dolcezza da bambino smarrito che era l’arma migliore della sua seduttività. Cosima era la quinta figlia di un ricchissimo penalista di Reggio Calabria che aveva sposato la marchesa Dellipaoli di Capo Rizzuto per nobilitare i soldi fatti assistendo delinquenti e ndranghetisti. La madre, pia donna ubbidientemente contraria agli anticoncezionali, risolse il problema con una emorragia interna che se la portò mentre metteva al mondo quella orribile creatura che era sin da subito Cosima. I due fratelli più grandi avevano quasi venti anni più di lei e vivevano al nord. Il terzo fratello di sei anni più grande prima di raggiungere i due più grandi si era premurato di iniziare al sesso le due sorelline Cosima all’età di 7 anni e Maria, più grande di dodici. Le due sorelle si serrarono a difesa da un mondo pericoloso. Il padre vedovo sempre fuori per lavoro aveva per loro delle attenzioni improprie. Maria era ancora a scuola mentre Cosima, già tornata, sentì distintamente i tre colpi ravvicinati e dopo alcuni secondi di silenzio l’ultimo pietoso alla fronte. Non ebbe neppure bisogno di affacciarsi nel cortile per capire. Lo scalpicciare affannato della portiera sulle scale ed il suo grasso abbraccio a pararle la vista furono il modo in cui venne a sapere di essere diventata orfana.

A Maria non capitava ma per Cosima fu una realtà palpabile sin dalla domenica successiva ai maestosi funerali dove il parroco ricordò alle due bambine che ora la mamma ed il papà stavano alla destra e alla sinistra di Gesù per guidare le loro vite. Un uomo biondo bellissimo che diceva di essere l’arcangelo Gabriele inviato da Dio si sedette sul bordo del suo letto e le promise che se si fosse mantenuta pura fino a 33 anni come gli anni di Cristo, non concedendosi a nessun ragazzo ciò avrebbe dato la forza a Dio di distruggere la ndrangheta e allora il padreterno le avrebbe fatto incontrare l’uomo della sua vita. Maria era l’unica confidente di Cosima e le consigliò di rivolgersi al parroco. L’anziano padre Carmelo fu dilaniato dal dubbio. Da un lato l’opportunità di un rilancio turistico del paese sull’esempio di Lourdes o Medjugorje, sebbene un arcangelo ancorchè biondo tiri meno di una madonna piangente azzurro vestita. Dall’altro non gli sembrava buona cosa per la sua vecchiaia l’annuncio della distruzione della ndrangheta. Da allora il segreto rimase chiuso nel suo cuore e si avviò sulla sua strada di castità aiutata in ciò dall’aspetto che con l’adolescenza diventava, se possibile, ancor più sgradevole.

Giunta a 13 anni consultandosi con Maria decise che il voto prevedeva l’assenza di contatti sessuali con gli uomini reali. Si dedicò con passione allo sviluppo di fantasie sessualmente megalomaniche cui associò presto una masturbazione compulsiva che impediva ogni altra attività. Vivevano grazie alle abbondanti rendite della famiglia materna gestite da un fratello della madre avvocato che la prese nel suo studio. Da allora la chiamavano e sosteneva di essere avvocato ( se incalzata diceva avvocato difensore di tutti gli uomini al cospetto di Dio) ma non prese mai alcuna laurea. La casa con la vecchia portiera che faceva la domestica, sei ore al giorno allo studio dello zio, fantasie ed orgasmi ripetuti dal dopo cena alle prime luci dell’alba. Così Cosima arrivò senza accorgersene a trent’anni. Avvicinandosi la scadenza del voto, convinta che il Signore doveva aver iniziato a prepararle il predestinato, iniziò a guardarsi intorno. Non poteva che essere lui. Lo aveva sempre immaginato così con l’aspetto di Antonio Banderas ma più dolce e comprensivo. E tale era il nuovo parroco sudamericano che aveva sostituito don Carmelo che aveva concluso serenamente la sua vecchiaia senza inciampi con la ndrangheta. Quando leggeva le letture si rivolgeva chiaramente a lei e tutti quei riferimenti ad Israele come sposa illibata del Signore erano inequivocabili. Così come a lei anche a lui il Signore chiedeva un sacrificio per potersi unire al suo dono: avrebbe dovuto rinunciare al sacerdozio.

Quando padre Manel prima con garbo e poi con sempre più fermezza all’aumentare delle insistenze e degli agguati della donna le disse che si era sbagliata e avrebbe fatto bene a curarsi, il mondo le crollò addosso. Entrata una sera in chiesa poco prima della chiusura in preda ad una crisi pantoplatica devastò gli altari minori, sparse a terra le ostie del tabernacolo. Roteando le stampelle degli ex voto ribaltò i portacandele e per poco non provocò l’incendio delle panche. Il primo trattamento sanitario obbligatorio avvenne in questa occasione. Durante il ricovero Cosima era inizialmente adirata con il Signore ma poi capì che aveva avuto poca fede. Evidentemente aveva preparato per lei un uomo molto migliore e non un vile indeciso come Don Manuel. E non era neppure un caso che l’avesse condotta lì. Manuel era solo l’annunciatore come Giovanni Battista rispetto a Gesù. Anche il fatto che la ndrangheta non fosse stata ancora distrutta era la prova che il tempo non era compiuto. Fu certa che il vero sposo per lei fosse il primario dottor Giannetti, moro, barbuto e fumatore di pipa come piaceva a lei. Provò a scivolare nel suo letto una notte in cui era di guardia. Si narra che quella fu l’unica volta che Giannetti rifiutò una donna. L’esagerata bruttezza fu certamente di aiuto ma ancor più il senso di pericolo che da provetto psichiatra intuì nelle advance di quella donna. Durante il ricovero, saputo che Cosima era ancora vergine, fu richiesta una consulenza ginecologica che, nonostante una rispettosa attenzione all’ispessito e intatto imene, segnalò la presenza di numerosi segni di lesioni vulvari pregresse. Da questo episodio si sviluppo un delirio bizzarro. Il signore temendo una sua diminuita fertilità con l’avanzare degli anni aveva fatto prelevare numerosi ovociti che poi aveva sparso negli uteri di donne insignificanti. Fermava bambini per strada, li carezzava, gli regalava dei dolci, a volte tentava di sottrarli alle madri per prenderli in braccio, convinta fossero suoi figli. Una frattura scomposta del setto nasale le indusse una maggiore prudenza nell’operazione di recupero figli.

L’arcangelo Gabriele che dopo la devastazione della chiesa si era astenuto per un po’ tornò a visitarla. Il tempo stava davvero per compiersi e il ritardo era dovuto alle lungaggini delle pratiche in paradiso molto simili a quelle terrestri. Passati i 40 anni la rabbia di Cosima cresceva sempre più. Ogni rifiuto comportava una reazione violenta e divenne una abituale frequentatrice di commissariati e pronti soccorsi psichiatrici dove veniva genericamente chiamata “Cosima l’erotomane” rappresentando una vera e propria croce per medici, infermieri e poliziotti che si prendevano in giro attribuendosela come fidanzata. Bersaglio delle sue attenzioni erano soprattutto uomini famosi del mondo delle arti, scrittori e cineasti. Rileggeva nelle loro opere evidenti riferimenti alla storia d’amore che avevano con lei ad insaputa di tutti. Il resto della loro vita (mogli e figli) le appariva come una montatura per mantenere sotto copertura, lontano dagli sguardi indiscreti del grande pubblico il loro purissimo amore. La denuncia scattava immancabile quando Cosima faceva improvvisamente irruzione nella vita del malcapitato. Fermava la moglie per strada e le intimava di sparire raccontandogli della fecondissima storia d’amore che aveva col marito. Si era presentata durante le celebrazioni della notte di natale rivendicando il ruolo di padrona di casa. Aveva prelevato i bambini all’uscita della scuola dichiarando di essere la baby sitter. Aveva scritto a tutte le autorità possibili dal papa al presidente della repubblica perché fosse riconosciuto il suo eroismo nella lotta alla malavita organizzata e quella che lei chiamava l’eterea maternità. I suoi ovuli sottratigli dal ginecologo e disseminati negli uteri di donne ignare che infatti si ribellavano alle sue rivendicazioni avevano ormai generato millenovecentoventisette bambini che avevano ormai tra i tre e i sette anni.

Brugnoli era un uomo affascinante, era stato un autentico Don Giovanni ed alle sue due mogli aveva sempre affiancato numerose amanti. Lui davvero temeva di avere sparsi in giro altri figli oltre le due adolescenti cui si dedicava dopo l’abbandono da parte dell’ultima moglie. Non era un personaggio famoso ma forse si trattava di un richiamo del Signore all’umiltà e poi era stato messo sulla sua strada proprio dal vescovo di Vontano e quindi indirettamente proprio dal padreterno. Dopo i primi episodi di stalking nei suoi confronti la questione venne affrontata nella riunione di equipe. La maggioranza era per una segnalazione cautelativa alle forze dell’ordine. Irati, che da sempre invidioso dei successi amatori di Brugnoli sotto sotto godeva per la punizione che gli era toccata, sosteneva essere paradossale in quanto il magistrato non avrebbe fatto altro che affidare Cosima, evidentemente disturbata, alle cure del CIM. A quel punto assegnarla ad un altro operatore non avrebbe che peggiorato la situazione facendola sentire rifiutata. Nei capannelli intorno alla macchina del caffè traboccava livore dicendo che Cosima gli avrebbe tagliato le palle e che lui non avrebbe guarito lei ma lei avrebbe guarito lui dal suo vizietto. Per comprendere il perché di tanta animosità occorre ricordare che il secondo dei tre matrimoni del raffinato dottor Giuseppe Irati, quello che gli aveva dato le due figlie, era finito a motivo di una improvvisata che aveva fatto il giorno del precedentemente mai festeggiato onomastico della signora.

Maddalena, che era iscritta a psicologia, prendeva ripetizioni gratuite dal generoso collega del marito laureatosi da poco a pieni voti. In un ambiente colto, aperto, libero e di sinistra non si fa tanto chiasso per cose del genere. Non si tirano fuori le lupare, le mani restano a posto e le parole seguono i percorsi tortuosi delle analisi. Ci si interroga, si problematizza, si cerca di comprendere, di mettersi in discussione. Il brutto non sono le corna ma lo sarebbe il non portarle con disinvoltura, ironia, superiorità. Sebbene con estremo garbo, il successivo onomastico Maddalena lo festeggiò nel monolocale che si era comprata dopo la vendita della villetta matrimoniale. Ma queste son storie vecchie e risapute. La dottoressa filata si opponeva ideologicamente alla denuncia. Diceva che mai un paziente, e ne avevano avuti di gravi e pericolosi, era stato denunciato dal CIM. Il loro compito era quello di curanti e non di giustizieri. Non si poteva cambiare atteggiamento solo perché ad essere coinvolto e a disagio era un operatore del CIM. Era disposta a organizzare la protezione di Brugnoli ma della denuncia non si doveva neppure parlare.

La Mattaccini invece diceva che poteva essere una manovra terapeutica imponendo un esame di realtà. Il dottor Luigi Cortesi, novello Salvo D’Acquisto, si offrì di sostituire Brugnoli nella gestione del caso. Biagioli chiuse la discussione sostenendo che un cambio di operatore avrebbe solo peggiorato la situazione e che la decisione finale circa la denuncia spettava a Brugnoli che era il diretto interessato. Giovanni condivideva la posizione ideologica di Maria Filata e dentro di sé covava un lieve sentore di colpa. Non poteva negarsi che dopo il primo colloquio aveva pensato tra sé “Questa qui con quattro botte fatte bene guarirebbe subito”, purché non dovesse essere lui a dover compiere l’operazione mai tentata fino ad allora da nessun vivente. Ora si vergognava di questo pensiero becero e maschilista e temeva di aver fatto trapelare qualcosa che avesse potuto attivare il delirio di Cosima. Provò poi un’ immensa pena a pensare che la poveretta, anche da loro, veniva trattata come un problema di ordine pubblico. In tutta la riunione nessuno si era occupato della sua psiche e dei percorsi mentali della sua sofferenza. Concluse promettendo una relazione dettagliata sul caso entro due mesi e chiese di essere affiancato, senza per questo mollare, dalla Filata per gli aspetti psicologici e da Luigi Cortesi per le terapie farmacologiche.

Fu, comunque, un grande sollievo per Giovanni poter avventurarsi nel mondo delirante di Cosima, nel quale pur bisognava immergersi per coglierne il senso e magari intravedere qualche pertugio d’uscita, tenendosi per mano a Maria e Luigi che stimava professionalmente e umanamente. Si sentiva protetto più che dalle possibili advance di Cosima che di fronte ai garbati rifiuti divenivano sempre più insistenti e minacciose, dal possibile naufragare della sua stessa mente. Non è difficile smarrirsi nei gironi di una mente delirante se non si ha la supervisione attenta di Virgilio. Soprattutto per lui che forse proprio per questo timore aveva iniziato ad occuparsi dei matti e dei poveri come assistente sociale prima di essere incantato dalle sirene della psicologia.

Cosima fin dall’inizio della sua vita era stata una creaturina brutta e sgraziata apparsa tale persino ai genitori che non avevano saputo amarla. Solo Gesù avrebbe potuto amarla nonostante la sua bruttezza esteriore ed interiore. Anche dentro era schifosa. Infatti dopo le molestie del padre e l’abuso del fratello sentiva un demone perverso e lussurioso agitarsi in lei tormentarla tutti i giorni e accrescersi continuamente alimentandosi della compulsiva masturbazione con cui tentava di acquetarlo. Aveva trovato un senso alla sua vita nel dedicarsi al Signore e nel sacrificarsi per la lotta alla ndrangheta che le aveva portato via il padre. La promessa dell’arcangelo l’aveva compensata per quasi quarant’anni ed in un modo o nell’altro aveva vissuto una vita per lei eroica. Quando era andata a riscuotere il premio del suo sacrificio i conti non erano più tornati. Di settimana in settimana la carrozzeria della macchina di Brugnoli si arricchiva di incisioni reclamanti amore che grondavano disperazione. Le due figlie di 14 e 16 anni erano state fermate due volte all’uscita del liceo da quella brutta signora che gli aveva raccontato una strana storia. Il padre gli aveva spiegato la vicenda e loro l’avevano trovata simpatica e avevano rassicurato il padre di essere tranquille. In un paio di occasioni Giovanni era stato assalito fisicamente all’uscita del CIM e fatto oggetto di pesanti palpamenti da parte di Cosima completamente nuda sotto un lungo cappotto da militare sovietico. La mail di Brugnoli era intasata da video porno amatoriali con Cosima unica protagonista. In un primo momento i curanti avevano pensato di indirizzare Cosima verso una vita religiosa in qualche istituzione disposta ad accoglierla e per questo avevano anche parlato col vescovo di Vontano che era l’inviante. Un monastero di suore, una casa di cura gestita dalle religiose. Progressivamente però il delirio erotomanico si arricchiva di agiti. Giovanni la vedeva comparire dovunque andasse e non riusciva a capire come fosse a conoscenza dei suoi spostamenti. Al bar in piazza. Nella faggeta dove andava per funghi. Due file sotto a lui allo stadio. Era la cassiera del cinema, l’addetta al bagno dell’autogrill sull’autostrada, la benzinaia che faceva il pieno all’auto istoriata dalle sue stesse incisioni, la signora sull’auto accanto al semaforo. A volte le sembrava persino la giornalista del TG. Lei si limitava a guardarlo, sorrideva triste e, non sempre, si apriva un attimo il sovietico pastrano a mostrare le sue nudità. Si convinse che stava impazzendo e chiese a Luigi Cortesi di prescrivergli del serenase adducendo un periodo di insonnia whiskey resistente. Continuava a non voler denunciare per motivi ideologici e perché certo di coprirsi di ridicolo raccontando i suoi deliri persecutori. Il P.M di Vontano dottor Ferracuti aveva proceduto d’ufficio anche a seguito delle pressioni confidenziali del capitano Ruffi del carabinieri di Monticelli dopo che l’incendio doloso dell’auto di Brugnoli aveva rischiato di appiccare le fiamme ai locali della Caritas che ospitavano i senza tetto. Ferracuti ricostruì la storia recente delle molestie interrogando tutti gli operatori del CIM e chiuse in un mese le indagini. Poi la pratica fu affidata insieme alla memoria difensiva scritta dalla stessa Cosima al giudice delle indagini preliminari che doveva decidere per l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Scrupoloso chiese al CIM la cartella clinica che studiò con attenzione e si riservò una settimana per esprimere il suo verdetto. Verificata l’evidente non imputabilità della signora Cencelli la affidava alle cure del CIM e costata l’incompatibilità con il pur bravo psicologo Brugnoli ne raccomandava l’assegnazione ad un medico esperto che più volte aveva collaborato con il tribunale quale il dottor Giuseppe Irati.

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Soffri di ansia sociale? Probabilmente i tuoi amici ti apprezzano più di quanto credi

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I dati ottenuti in questa ricerca vanno nella stessa direzione di quanto sostenuto in passato da molti studiosi, ovvero che il disturbo d’ansia sociale porta le persone che ne soffrono a sottostimare la qualità dei loro rapporti di amicizia.

La psicoterapia con una persona che soffre di disturbo d’ansia sociale comprende, tra le altre cose, il tentativo del terapeuta di stimolare il paziente di essere socialmente accettati più di quanto essi credano. Approccio spesso vano, in quanto questo genere di pazienti tende regolarmente a svalutare le proprie relazioni.

Thomas Rodebaugh ed i suoi colleghi indagano proprio questa tematica, declinandola specificatamente nel contesto dei rapporti di amicizia: i ricercatori chiedevano a soggetti con disturbo d’ansia sociale di valutare una loro amicizia in termini di intimità, piacevolezza, supporto e soddisfazione; chiedevano poi agli amici chiamati in causa di fare lo stesso.

La ricerca si basava su un campione di 77 uomini e donne con una diagnosi di disturbo d’ansia sociale e 63 soggetti di controllo che non soffrissero di tale disturbo. Ciascuno dei partecipanti nominava un amico e a entrambi era somministrato lo stesso questionario. La maggior parte delle amicizie erano tra persone dello stesso sesso.

I dati ottenuti in questa ricerca vanno nella stessa direzione di quanto sostenuto in passato da molti studiosi, ovvero che il disturbo d’ansia sociale porta le persone che ne soffrono a sottostimare la qualità dei loro rapporti di amicizia.

In particolare, dallo studio di Rodebaugh e collaboratori emerge la tendenza di tali soggetti patologici a giudicare in maniera peggiore questo tipo di relazioni se confrontati con il gruppo di controllo. Inoltre, più giovani erano i partecipanti con disturbo d’ansia sociale e più nuove le loro amicizie, tanto più queste erano valutate negativamente.

Ad ogni modo, la buona notizia è che, mentre non c’era una differenza significativa tra le valutazioni dei soggetti di controllo e il loro rispettivo amico in merito al loro rapporto, c’era invece una differenza significativa tra i giudizi espressi dai partecipanti con disturbo d’ansia sociale e i loro amici. Ovvero, questi ultimi giudicavano la relazione in modo molto più positivo. Infatti, essi vedono i soggetti con disturbo d’ansia sociale come meno dominanti e aventi maggiori capacità di adattamento quindi, in sostanza, più comprensivi e capaci di compromesso.

Nonostante i limiti di questo studio – è possibile che le differenze tra gruppi siano la causa, e non la conseguenza, del disturbo d’ansia infatti, la ricerca era ristretta a persone con disturbo d’ansia sociale che avessero un amico disponibile a partecipare a tale ricerca – è importante sottolineare il messaggio di ottimismo e speranza rivolto alle persone che soffrono di questo disturbo: non preoccupatevi, nonostante non ne abbiate la percezione chiara e definitiva, i vostri amici vi adorano.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia: La Regione cancella la Psicologia dalla riforma della sanità – Comunicato Stampa

COMUNICATO STAMPA

Friuli Venezia Giulia, «La Regione cancella la psicologia dalla riforma della sanità»

La denuncia del presidente dell’Ordine degli Psicologi: «Famiglie, disabili e anziani vengono abbandonati a se stessi. Questa è una sanità senza testa».

 

Nessun supporto all’interno di un progetto organico ai portatori di disabilità e alle donne in difficoltà. Addio anche alle strutture di valutazione neuropsicologica per la diagnosi delle demenze. Finiscono nel limbo i servizi per i minori.

Il presidente dell’Ordine degli psicologi del Friuli Venezia Giulia Roberto Calvani boccia la riforma della sanità regionale che è stata recentemente approvata: «È un riforma che delinea una sanità senza testa dove non si fa nulla per integrare la figura professionale dello psicologo. Il testo approvato lascia presagire che i servizi a carattere psicologico non saranno più erogati dal nostro sistema sanitario. Se così fosse questo comporterebbe un taglio netto delle prestazioni essenziali a supporto delle fasce più deboli della popolazione».

Insiste Calvani: «La riforma, così come scritta, delinea una sanità dedicata alla sola cura di coloro che sono necessari al sistema produttivo, mentre le fasce più deboli, quelle che richiedono interventi essenziali di carattere psicologico, saranno lasciate sole».

A partire dai portatori di disabilità, cui spesso si associano sintomatologie psichiche anche gravi che, «al compimento della maggiore età, non verrebbero più seguiti dal servizio sanitario regionale non essendo prevista una specifica attribuzione di ruoli e competenze psicologiche. In particolare, ci si è più volte imbattuti nella impossibilità di orientare opportunamente le persone con disabilità adulta, in situazioni di necessità di valutazioni, rivalutazioni, accompagnamento presso un centro adeguatamente preparato e formato sulla disabilità adulta anche per contrastare le “migrazioni” verso centri fuori Regione».

Per quanto riguarda i minori, «i servizi, che sono già in serissime difficoltà, con liste di attesa che rasentano in alcune realtà gli otto-nove mesi, non trovano nella legge una precisa collocazione. Non si prende nemmeno in considerazione per gli psicologi liberi professionisti l’opportunità di collaborare, in modalità strutturale, con le ASL e le scuole della Regione per attuare, all’interno di un protocollo definito, le norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico».

Anche sulla popolazione anziana, gli effetti sarebbero molto pesanti. «Le strutture di valutazione neuropsicologica, fondamentali per la diagnosi delle demenze e in particolare dell’Alzheimer, non vengono nemmeno prese in considerazione nel nuovo sistema sanitario. Così come i servizi adeguati di sostegno ed accompagnamento della disabilità adulta non trovano compensazione né risposta nella legge».

La riforma porta così ad una serie di tagli che «a fronte dell’aumento delle richieste di intervento psicologico che registriamo da parte di  familiari e pazienti, cancellano le parole “psicologia” e “psicologo” dal testo della norma». Questo, sottolinea Calvani, «davanti ad una situazione che vede operare nel sistema sanitario regionale 287 psicologi di cui 196 di ruolo con contratto a tempo indeterminato e 91 con contratti  a termine o di diversa natura che si stanno avviando verso una cessazione del servizio.

Attualmente gli psicologi svolgono la loro professione in oltre 20 servizi sanitari sia territoriali che ospedalieri con erogazione di decine di migliaia di prestazioni psicologiche. Non è possibile cancellare tutto questo con un colpo di spugna in nome di non si sa cosa».

 

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Contesti di emergenza: la fiducia verso l’altro è funzionale!

Marco Pontalti

 

La fiducia verso l’altro è funzionale in contesti di emergenza? Il fatto che certe persone siano state coinvolte senza che il piano di emergenza lo abbia previsto, e pertanto ne abbiano avuto il permesso, è stato oggetto di interesse per alcuni studiosi svedesi (Uhr et al., 2008).

Stiamo assistendo in questi ultimi mesi ai vari dissesti idrologici che stanno duramente colpendo molte zone del territorio italiano: alluvioni, frane, smottamenti. Così come accade ad ogni situazione di calamità, il piano di emergenza è l’abbecedario che permette alle autorità competenti, radunatisi in una sala operativa, di fornire le istruzioni alle unità di soccorso al fine di intervenire in maniera coordinata ed operativa alla tutela della popolazione coinvolta e dei beni sul territorio colpito. Per esempio, il Sindaco di un comune colpito da una frana è colui che prende in mano il comando ed il controllo cercando di dirigere e coordinare i servizi di assistenza e soccorso come quanto previsto dal piano. Pertanto il Sindaco dovrà seguire le istruzioni, coinvolgendo i diversi organismi, come la Protezione Civile, i Vigili del Fuoco, il Pronto Soccorso, etc.

Alcuni studiosi hanno notato che nelle situazioni di emergenza, pur in presenza di un piano in cui sono definiti ruoli e responsabilità, si possono osservare delle differenze tra quanto previsto nel piano stesso e quanto effettivamente messo in atto (Mendonça 2006; Santoianni, 2007; Uhr et al., 2008). Potrebbe accadere che invece di coinvolgere il responsabile di un’unità di soccorso, il Sindaco senta per primo il consigliere comunale, che il soccorritore chiami un suo amico per aiutarlo in un’operazione di recupero, che un capo volontario raccolga informazioni sulla situazione dal suo collega piuttosto che dal suo diretto responsabile. Queste deviazioni potrebbero apparire all’occhio del lettore come sintomi di disorganizzazione che possono causare rallentamenti e disordine nella regolare attuazione del piano di emergenza.

Il fatto che certe persone siano state coinvolte senza che il piano di emergenza lo abbia previsto, e pertanto ne abbiano avuto il permesso, è stato oggetto di interesse per alcuni studiosi svedesi (Uhr et al., 2008). Attraverso il metodo di analisi della social network (é una metodologia di analisi di reti sociali che, attraverso strumenti di rilevazione come questionari, consiste nell’individuazione di nodi che rappresentano i singoli individui di una rete, e di frecce/linee le quali raffigurano le relazioni tra gli stessi)(Wasserman & Faust, 1999), hanno cercato di comprendere se sono state chiamate perché legate da un rapporto di reciproca conoscenza e fiducia.

Riferendosi al caso di un grave incidente industriale accaduto nel febbraio del 2005 vicino a Helsingborg, gli stessi si sono dapprima documentati sull’ evento accaduto, sulle organizzazioni e sulle persone coinvolte. Successivamente hanno somministrato agli operatori un questionario per ottenere informazioni circa il loro ruolo, i tempi di inizio e conclusione del loro intervento oltreché le risposte ai tre quesiti:

“Chi hai contattato durante l’emergenza?”

– Il quesito cerca di misurare il fattore contact ossia quante volte una persona è stata contattata e chi, oltre agli intervistati, è stato coinvolto. La risposta a questo quesito, combinata con il ruolo dell’operatore intervistato, consentirebbe di identificare gli addetti ai soccorsi distinguendoli da quelli non rientranti nel piano di emergenza.

“Chi tra questi sono stati i più importanti per svolgere le tue operazioni?”

– Il quesito misura su una scala da 0 a 3 il fattore importance, ossia quanto le persone contattate sarebbero state importanti per portare avanti e a termine il proprio intervento. La risposta consentirebbe di individuare se un soggetto contattato sia stato o meno funzionale per lo svolgimento dei propri compiti.

“Chi e quanto tra questi conoscevi prima di intervenire?”

– Il quesito misura il fattore friendship. La risposta, su una scala da 0 (non lo si conosce per nome) a 5 (è un amico di fiducia), cercava di valutare se l’ausilio delle persone si fosse basato anche su un rapporto di fiducia. Tale risposta consentirebbe di analizzare se i soggetti, importanti o meno, sono stati chiamati sulla base di un rapporto di reciproca conoscenza.

L’insieme di questi dati hanno consentito di ricostruire diverse social network analysis e di comprendere le dinamiche relazionali tra gli attori coinvolti. In generale gli studi sembrano mostrare che durante una situazione di emergenza, i soggetti tenderebbero a contattare le persone che risultano importanti nel perseguimento dei propri compiti, piuttosto che quelle previste nel piano di emergenza. Sembrerebbe anche che ad influenzare la tempestività dell’intervento da parte degli operatori sia il fattore fiducia: pare infatti che sul campo intervengano primariamente conoscenti o amici, coinvolti in quanto ritenuti funzionali alla finalizzazione del proprio intervento.

 Pertanto, la costellazione relazionale ed interpersonale sembra essere precostituita già prima che un evento si manifesti, influenzando potenzialmente il tipo di risposta all’emergenza e generando una deviazione o una strutturazione organizzativa non prevista. Questo permetterebbe la formazione di gruppi ad hoc, ovvero, adattati al contesto, altamente efficienti (Meyerson et al., 1996), promotori di cooperazione (Gambetta, 1988) e di comportamenti funzionali alla creazione di una solida rete interattiva (Miles & Snow, 1992). Con questo gli studiosi svedesi non intendono dire che i piani di emergenza siano inadeguati, restano dei capisaldi a cui fare riferimento per regolare in maniera strategica i ruoli, i mezzi e le procedure da attivare. Ritengono, invece, utile far presente che sussistono componenti sociali e psicologiche, la cui conoscenza e consapevolezza contribuirebbe ad una più efficace organizzazione dell’intervento in caso di emergenza.

Tornando all’esempio del Sindaco del Comune colpito da una frana: consulterà il piano di emergenza o in primis mobiliterà le risorse che già conosce e che sono a sua diretta disposizione? Di fronte alla necessità di rodare e aggiornare il piano di emergenza, preferirà formarsi e collaborare con esperti a lui sconosciuti o con persone della sua rete interpersonale?

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mendonça, D., Beroggi, G. E. G., van Gent, D., & Wallace, W. A. (2006). Designing gaming simulations for the assessment of group decision support systems in emergency response. Safety Science, 44 (6), 523-535.
  • Santoianni, F. (2007). Protezione civile disaster management. Emergenza e soccorso: pianificazione e gestione. Firenze: Accursio Edizioni.  ACQUISTA ONLINE
  • Uhr, C., Johansson, H., & Fredholm L. (2008). Analysing emergency response systems. Journal of Contingencies and Crisis Management, 16 (2), 80-90.
  • Wasserman, S, & Faust, K. (1999). Social network analysis. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Meyerson, D., Weick, K.E. and Kramer, R.M.Swift Trust and Temporary Groups (1996), Trust in Organizations: Frontiers of Theory and Research, Sage Publications, California.  ACQUISTA ONLINE
  • Miles, R.E. and Snow, C.C. (1992). Causes of Failure in Network Organisations, California Management Review, 34 (4), 53–72.  DOWNLOAD
  • Gambetta, D. (1988). Trust: making and breaking cooperative relations. New York:Basil Blackwell. DOWNLOAD 

Psicoterapia: intervista a Tullio Scrimali – I Grandi Clinici

 LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

 

State of Mind intervista:

Tullio Scrimali

Professore di Psicologia Clinica, Università di Catania

 

State of Mind intervista Tullio Scrimali: Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Catania. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva Aleteia.

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Iescum e Beneficentia: insieme per gli studenti friulani – 10 borse di studio!

Ufficio Stampa IESCUM: ISTITUTO EUROPEO PER LO STUDIO DEL COMPORTAMENTO UMANO

 

Il Master di I° livello in Analisi Comportamentale Applicata rappresenta un traguardo importante e necessario per promuovere e diffondere il più possibile un approccio che rispecchi gli standard scientifici internazionali e allo stesso tempo sia compatibile con il contesto e con il sistema dei servizi sociosanitari territoriali.

IESCUM MAster Borse di studio

Dieci borse di studio del valore di 1000 euro l’una e due del valore di 2500 euro l’una per chi sceglie di specializzarsi in Friuli Venezia Giulia e per gli studenti friulani: grazie ad una donazione ricevuta dalla Fondazione Beneficentia Stiftung di Vaduz, Iescum – Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano è in grado di offrire questa opportunità a coloro che si iscriveranno all’edizione 2015 del Master ABA di I livello che si svolgerà a Trieste ed agli studenti residenti in Friuli che intendano partecipare al Master ABA di II livello 2015, con sede a Parma.

Un’occasione unica per quanti intendano affrontare studi superiori in Analisi del Comportamento ed Applicazioni al disturbo autistico.

Negli ultimi anni nel territorio del Friuli Venezia Giulia si sta affermando, attraverso il lavoro di alcuni professionisti afferenti al sistema dei servizi pubblici e del privato, una cultura delle pratiche e interventi rivolti alle disabilità intellettive ed all’autismo, allineata ai modelli  scientifici basati su evidenze.
 

Tutto questo sta incidendo in modo positivo sui servizi e sugli esiti degli interventi. Tale percorso di cambiamento richiede un importante investimento sul fronte formativo. In questa prospettiva il Master di I° livello in Analisi Comportamentale Applicata rappresenta un traguardo importante e necessario per promuovere e diffondere il più possibile un approccio che rispecchi gli standard scientifici internazionali e allo stesso tempo sia compatibile con il contesto e con il sistema dei servizi sociosanitari territoriali.

Parimenti, l’edizione parmense del Master – per quanti decideranno di frequentarla – può vantare gli stessi standard qualitativi dell’edizione friulana. Iescum, con il suo Presidente – il Professor Paolo Moderato, ordinario di Psicologia Generale presso l’Università IULM di Milano – è l’unica realtà italiana a poter garantire, da un decennio, non solo altissimi livelli formativi nel campo delle scienze del comportamento, ma anche l’accesso all’esame BCaBA  a coloro che avranno, con costanza, frequentato il Master di I livello e superato le prove finali.

In un contesto, come quello italiano, in cui l’Analisi del Comportamento Applicata è l’unico trattamento consigliato dalle linee guida emesse dall’Istituto Superiore di Sanità per la terapia dei disturbi dello spettro autistico, la partecipazione al Master si rivela anche un decisivo step nella possibilità di proporsi lavorativamente come terapista adeguatamente formato.

Al Master potranno partecipare coloro in possesso dei seguenti requisiti minimi: Diploma o laurea triennale in psicologia, pedagogia, scienze dell’educazione, logopedia, fisioterapia, terapia della riabilitazione o titoli equipollenti. Maggiori informazioni sulle modalità di iscrizione, sull’accesso alle borse di studio e sulla tempistica del Master possono essere reperite sul sito www.masteraba.it

 

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Parlare della morte con i familiari influisce positivamente sulla qualità dei rapporti

FLASH NEWS

Le diadi che avevano una comunicazione maggiormente orientata alla relazione e al rispetto dell’identità dell’altro, piuttosto che agli obiettivi da raggiungere, erano anche quelle che alla fine si dichiaravano più appagate dalla conversazione stessa.

Parlare della fine del ciclo di vita è difficile e certo non è un argomento molto gettonato nelle conversazioni quotidiane con familiari ed amici. Un nuovo studio rivela però che questo è un tema da non sottovalutare e che la qualità della comunicazione sulle scelte sanitarie e mediche da compiere in vista della propria morte o di quella di un familiare ha un forte impatto positivo sulla qualità delle relazioni stesse, indipendentemente dalle scelte concrete che vengono fatte.

Allison Scott, dell’Università del Kentucky College of Communication and Information, ha studiato la qualità della comunicazione in 121 diadi di genitori anziani e figli adulti mentre prendevano importanti decisioni sanitarie legate al momento della fine. 

Le diadi che avevano una comunicazione maggiormente orientata alla relazione e al rispetto dell’identità dell’altro, piuttosto che agli obiettivi da raggiungere, erano anche quelle che alla fine si dichiaravano più appagate dalla conversazione stessa, dalla quale sentivano di aver ricevuto un senso di vicinanza relazionale che faceva sentire anche più speranzosi e meno sofferenti dopo la conversazione.

Conclude Scott:

[blockquote style=”1″]“Il modo in cui comunichiamo con gli altri della nostra o della loro fine ha in sé il potenziale per rafforzare o minare le relazioni stesse; allo stesso modo la qualità della comunicazione familiare ha un grande potenziale per migliorare l’assistenza sanitaria di fine vita, e questo potenziale sta nella qualità delle comunicazioni” [/blockquote]

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’uomo che metteva in ordine il mondo (2014) di Friedrick Backman – Recensione

LETTERATURA

Il libro non è un testo clinico ma fornisce uno spaccato abbastanza realistico, per quanto edulcorato e leggero, di un disturbo ossessivo.

Ove è un pensionato svedese che vive in un tranquillo quartiere residenziale. Ama le cose fatte come dice lui, la routine, la Skoda, le patate e odia le ingiustizie! Ha vissuto una vita onesta, votata al lavoro e ai sani principi e all’improvviso le giornate scandite da ritmi sempre uguali e facce note (sempre le stesse e soprattutto ridotte all’osso) verranno rivoluzionate da una simpatica donna straniera che si trasferisce nel quartiere insieme a due bambine e al marito un po’ imbranato, che diverranno croce e delizia di Ove!

Il libro del giornalista svedese è un bellissimo romanzo che scorre narrando le disavventure di Ove in un riuscito incastro di presente e flashback. Ogni capitolo rappresenta un post che il giornalista aveva inizialmente pubblicato sul suo blog e si potrebbe dire che rappresenta una satira buffa e mai troppo veemente di critica rispetto alla società moderna, che sembra aver perso il senso della misura ma soprattutto il senso della concretezza delle cose e dei rapporti umani!

Ci si innamora facilmente del personaggio, che pur rappresentando a prima vista un disturbo ossessivo, scandito da rituali, estrema attenzione alla precisione e al pulito, è un uomo capace di profondi legami d’amore. Fondamentalmente, dunque, è una bellissima storia d’amore e di tolleranza perché – una delle tante linee interpretative che potremmo seguire, ma poi ciascuno trovi la sua – cos’altro non è, potremmo chiederci, l’amore se non un atto di tolleranza?

Ad Ove non interessa nè piace socializzare, è disturbato da segni di scarpe sul pavimento e da un piano della cucina poco oliato, non ha mai cambiato marca di auto, nè concepisce le diavolerie moderne, ma è un uomo che quando qualcuno ha bisogno di aiuto, agisce senza troppe sovrastrutture mentali. Divide il mondo in ciò che è giusto e ciò che non lo è, e le ingiustizie, in genere, non sono molto arbitrarie. Sonia, la moglie, è una donna invece colorata nell’animo e nel vestire, socievole, che ama il contatto e le relazioni umane, la lettura e le novità. Eppure la loro è una storia d’amore onesta, sincera, appassionata, a cui facilmente si vorrebbe ambire. Cosa può dunque tenere uniti, ci si può domandare, due persone che vivono apparentemente la vita ai poli opposti? La risposta che fornisco torna ad essere legata a quanto detto: la tolleranza!

Penso che davvero uno dei messaggi più forti di Backeman e di questo bellissimo romanzo, sia l’accettare l’altro con le proprie diversità. Siano esse religiose, di orientamento sessuale, di letture o di scelta della marca di auto da guidare. 

Il libro non è ovviamente un testo clinico, non pretende di esserlo, ma fornisce uno spaccato abbastanza realistico, per quanto edulcorato e leggero, di un disturbo ossessivo. Ne coglie anche il lato buono: l’integerrimità e talvolta la durezza sono forse necessarie per non lasciare che tutto ci travolga. E allora meno male che esiste chi rimane adeso ai propri principi, chi nonostante l’immobilismo, però, è in grado di fare ciò che deve quando deve senza che gli venga chiesto.

Ecco perché ci si innamora facilmente di Ove, perché è capace di un amore assoluto, definitivo, netto, che non scende a patti con niente se non con se stesso. È’ un amore romanzato, ma da cui si può imparare molto.

 

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 Il disturbo ossessivo-compulsivo in The Aviator (2004) di Martin Scorsese

BIBLIOGRAFIA:

  • Backman, F. (2014). L’uomo che metteva in ordine il mondo. Mondadori editore.  ACQUISTA ONLINE

International Relations: the Interpersonal Relationships in a Foreign Language

Rizzo Amelia, Santoro Simona, Kurt Miray, Sales Jacob Glàucia.

 

When an individual is abroad, in a context of foreign language learning, he/her must activate specific mechanisms of adaptation. Shame and inadequacy are very common feelings. The lacking of spoken language practice contributes to a state of uncertainty about one’s own abilities.

 

When you dream in another language,
it is no longer an instrument
of rational communication
it belongs to the unconscious

(Tabucchi, 1991).

Abstract

This article aims to identify the psychological dynamics involved in interpersonal relationships in a foreign language and is based on the observational method and the direct experience of the authors in an international School of English Language IELS in Sliema, Malta. From a brainstorming session, conducted through media technology, we were able to systematize some reflections that have been confirmed by the literature.

Keywords: foreign language, stereotypes, body language.

 

When an individual is abroad, in a context of foreign language learning, must activate specific mechanisms of adaptation. In the initial phase, when he is not familiar with the language, the environment requires an effort to overcome a challenging situation and the individual response depends largely on the personality characteristics. Shame and inadequacy are very common feelings. The lacking of spoken language practice contributes to a state of uncertainty about one’s own abilities.

In this regard Horwitz, Horwitz and Cope (1986) have elaborated a theoretical model called foreign language anxiety. The authors consider it to be a responsive anxiety disorder, specific to the situation and based on three aspects:

  • comunication apprehension;
  • test anxiety;
  • fear of negative evaluation.

The student’s behavior can indeed be characterized by the fear of making mistakes or offend the interlocutor, by the frustration due to the difficulty in finding the right word, by the tendency to translate the thoughts and the desire to encounter fellow countrymen.

The focus of this work is about relationships because we observed that anxiety decreases thanks to the relational role played by the teacher and classmates. The teacher is essential to increase the motivation and knowledge and to facilitate a climate of low-anxiety (Young, 1991; Dörnyei, 1998; Hismanoglu, 2000). Classmates instead allow peer learning both in the classroom and, especially, outside the classroom.

The first questions are what’s your name? and where are you from?. This corresponds to at least three needs:

  • to undertake relations in a context of extraneous,
  • to define one’s own identity and other’s identity by introducing,
  • to get information from the country of origin for orienting our behavior, based on previous knowledge and experiences.

This interpretation is grounded in the theories of social psychology about stereotypes or expectations that guide our evaluation of others and our behavior towards them (Brown, 2000). In line with the observations of Ibrosheva & Ibrosheva (2009) we have noted, however, that these stem mainly from the images broadcast by the media and are often based on biases.
What makes the experience of international relations really extraordinary is storytelling. Classmates’ stories, photographs and videos, the music coming from their countries change the other’s perception. Stereotypes fall, people knows different realities and often find similarities. The foreigner is no longer a stranger, but he is more similar to us than we could imagine.

At the same time, another process is activated: the narration of ourselves. The effect of these processes leads to different outcomes. 

The first is the improvement in learning the language, which in this phase is finally used to express ideas and opinions. Of course, as a second language, it requires a meaning negotiation (Bygate et al., 2003), since in the daily life the most important goal to achieve is to be understood. Sometimes the relationship could be impaired by foreign language – if we consider that both interlocutors aren’t using their native language – because one misplaced word can completely change the meaning of what it means to say, creating misunderstandings, especially when the subject is delicate such as politics and religion.

According to Watslawick, Beavin and Jackson (1973), humans communicate with each other digitally and analogically. It means that we can represent the reality through symbols (language) or behavior. All non-verbal communication is analogic such as posture, gestures, facial expression, voice inflection etc., and the body language could be helpful in that cases.
What is observed is that in most cases of relationships with foreign language it begins with more analogic and less digital comunciation and, as the individual becomes familiar with the foreign language, digital communication grows. Though is that in most cases these relationships become so narrow, that the language ceases to be a deterrent and becomes the main tool for communication, whether translating emotions and feelings or translating desires.

Second, the time spent outside classroom, made of pure interpersonal relationships, creates a specific learning context not deliberate and intentional, the implicit learning, based on unconscious processes of generalization and abstraction (Smidth, 1995). In this process, technological devices – chat applications and social networks such as Facebook – can play a facilitating role, as scientifically demonstrated (Dekhinetet al., 2008). On one hand they allow students to practice writing skills, on the other helps to mantain relationships and foster mutual acquaintance by increasing the levels of coscientiousness and extraversion (Kao & Craigie, 2014).

The third point concerns more profoundly the concept of identity. The experience of social comparison (Festinger, 1954) allows to create more complex representations of self and other. According to the Social Cognition and Object Relation Theories the more mature people representation is “psychologically minded, insight into self and others, differentiated and shows considerable complexity” (Westen, 1991). Hence, the experience of reconizing similarities and differences is an exercise of individual growth, which leads to better know positive and negative aspects of self and others.

The last point is that speaking a second language “opens up the mind” because on one hand it is the point of contact towards many other cultures as on the other hand it gives the feeling of being part of the world that usually in everyday life is ingored. It creates a mental dimension of immediacy and simplicity that allows you to get to the perfect understanding of the other’s feelings even if the verbal expression is not appropriate, increasing the level of Self-trascendence (Cloninger et al., 1993).

Finally, another interesting instrument in the sphere of interpersonal relationships is music. Listening to music, playing musical instruments and singing in a foreign language has been a binding agent which leads to think that music is a universal language. Also in this case the results are reflected on different levels. As stated by Ludtke et al. Singing can facilitate foreign language learning. On the one hand helps to recall and produce spoken phrases, on the other hand allows to share feelings and emotions that go beyond words.

 

Conclusions

People understand each other through communication, but sometimes speaking the same language is not enough for people to empathize. Even if they come from the same culture, understanding people’s emotion it’s a very diffucult challenge. We are social beings so we need to communicate (Ruesch & Bateson, 2006). If we master a foreign language we initially can not communicate easily. But is necessary to point out, from our observations, that having the same culture and same experience is not a prerogative for communication. The belief that people who have the same culture and experience can empathically understand each other is an assumption. A true understanding needs a lot of common things. For example, people experience an intense difficulty to express and understand unpleasant situations in a foreign culture and language. Nevertheless, from our experience, people who don’t speak the same language can utilize more one’s own behaviour, by treating each other with friendliness and, as a result, can build a new common understanding on the basis of their relationship quality.

 

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Linguaggio e Comunicazione

 

REFERENCES:

 

About the authors

Amelia Rizzo is a PhD student in Psychological Sciences at the University of Messina, Italy. Simona Santoro is attending a Masters degree in Clinical Psychology, at the University of Palermo, Italy. Miray Kurt is a Doctor in Psychology, graduated at the Istanbul Aydin University, Turkey. Sales Jacob Glàucia is a Psychologist and Psychoterapist, graduated at Unicesumar, the University Center of Maringa, Brazil. They met in Malta in the occasion of the english language course, from wich started their scientific collaboration.

Aknowledgements

The authors wants to thanks all our classmates and friends met at IELS, Sliema.

Stress relazionale di mezza età e declino cognitivo – Neuroscienze

FLASH NEWS

Avere rapporti interpersonali stressanti nella mezza età non peggiora solo la qualità della vita, ma espone anche al rischio di un declino delle capacità cognitive in età avanzata.

In particolare, secondo uno studio pubblicato sull’American Journal of Epidemiology, le relazioni più nocive sarebbero quelle caratterizzate da ambivalenza e quelle in cui ci si sente impotenti, invasi e ipercontrollati.

Il team del’ dott. Jing Liao, dello University College di Londra, ha utilizzato i dati di 5873 dipendenti pubblici britannici che hanno partecipato a uno studio a lungo termine, cominciato intorno al 1997, e che sono stati sottoposti a test cognitivi per un periodo di 10 anni, a partire dalla mezza età.

I test hanno misurano la memoria verbale e la sua fluidità. I partecipanti hanno anche compilato dei questionari sulla qualità delle relazioni sociali in tre momenti diversi dello studio longitudinale: le domande vertevano su quanto i loro rapporti interpersonali generassero preoccupazioni, problemi e stress e quanto si sentissero sostenuti in queste relazioni.

I risultati indicano che chi riferiva rapporti interpersonali più negativi tendeva anche ad andare incontro ad un più rapido invecchiamento cognitivo: per avere un idea, chi si trovava in cima alla lista dello stress relazionale dimostrava un anno di invecchiamento cognitivo in più.

Inoltre chi ha segnalato un maggior numero di aspetti negativi in relazioni interpersonali strette ha avuto anche più probabilità di avere sintomi di depressione e il diabete, rispetto agli altri. Un’altro dato interessante è che la relazione causale tra cattiva qualità delle relazioni e declino cognitivo sembra essere unidirezionale, cioè le cattive relazioni causano il declino cognitivo ma non il contrario.

“Dato che l’incidenza della demenza aumenta esponenzialmente con l’avanzare dell’età e nessuna medicina efficace è attualmente disponibile, il nostro studio fornisce la prova di quali fattori di rischio potrebbero essere presi di mira prima che i cambiamenti cognitivi siano irreversibili”, dicono i ricercatori.

Gli anziani dovrebbero essere incoraggiati a promuovere rapporti di protezione e gli interventi devono essere mirati a come ridurre le interazioni problematiche e alleviare le reazioni psicologiche negative, per minimizzare o risolvere i conflitti e rafforzare la capacità di farvi fronte.

 

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Prevenire il declino cognitivo: No farmaci & No esercizio fisico

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Liao, J., Head, J., Kumari, M., Stansfeld, S., Kivimaki, M., Singh-Manoux, A., Brunner, E.J. (2014). Negative Aspects of Close Relationships as Risk Factors for Cognitive Aging. Am. J. Epidemiol, doi: 10.1093/aje/kwu236. DOWNLOAD

Interview with Emily Maguire: the courage to start over again – Music & Bipolar Disorder

All human experience is about darkness and light, about wanting to find happiness and to avoid suffering. That is what all songs are ultimately about. Being bipolar means having those extremes of highs and lows perhaps more often and more dramatically than others.

Emily Maguire is a British songwriter with a very expressive voice (someone has compared her to unforgettable Eva Cassidy) and great composing capacities. Her songs have been played regularly on BBC Radio and in 2010 she published the book ‘Start Over Again’, a highly personal account of her experiences of dealing with bipolar disorder.

Following the publication of her book, Emily performed in psychiatric hospitals and daycare centers in Bristol and Manchester, leaving her audience of staff, carers and patients deeply moved by her songs and inspired by her openness and willingness to share her experiences of psychosis and depression. This so particular tour reminds me of what happened in Trieste (Italy) at the end of the Seventies, when the revolutionary psychiatrist Franco Basaglia invited for the first time many artists to perform in the local psychiatric asylum, against the stigmatization and the indifference. Emily’s biography is a remarkable one. Classically trained as a child on cello, when she was in her twenties she left England to move in a farm in Australian bush for four years with her partner, financing her music by making and selling goats cheese on the farm.

Many of Emily’s songs describe problematic mental states, as “Over the waterfall”, where she portrays a psychotic experience (“I bet you don’t hear a million voices ringing in your head, I bet you don’t see symbolic meaning in every word you said”). In this song the waterfall seems the border between mental sanity and madness (“I lose my mind, if they can’t find a cure this time, they’ll take me away in a big white van…So take my hand and don’t let me go over the waterfall”). Emily’s story really stimulated my curiosity and I decided to interview her on Skype.

You started writing songs when you were stuck at home with fibromialgia pain syndrome. Was music helpful to cope with this disorder?

Music was incredibly helpful in getting me through that difficult time. Writing songs helped to distract me from the constant physical pain and was a way in which I could express the thoughts and feelings I had about life and the world outside my window. In fact once I’d started writing songs I felt that the illness had become a blessing in disguise because I had all this time on my hands to write.

Can you tell us a little more about your psychiatric experience and treatments you received?

I was first diagnosed with acute clinical depression when I was 16 and treated with antidepressants for many years. I had my first psychosis when I was 23 years old and was then diagnosed with bipolar disorder and put on lithium. Before this psychosis I’d had many years of therapy first under a psychiatrist and then from various counsellors. After coming out of hospital after the psychosis I decided I’d had enough therapy. After a few years of being relatively okay my doctor took me off lithium and two years later I had my second psychosis when I was 28 years old. I was hospitalised again and put on lithium and olanzapine. Since then I have had a bit of counselling but no other psychotherapy apart from solution focused hypnotherapy which my husband practices and which I have found very helpful for depressive episodes. I am still on olanzapine but not on lithium at the moment which has been a bit tricky at times.

In 2010 you published your biography Start over again, where you tell about your personal experience with psychosis and bipolar disorder. Was it difficult to open yourself to the public with this coming out?

Yes it was a difficult decision to make and I thought it might be the end of my music career. But in the end it was completely liberating and I got the most wonderful response from my fans and from lots of other people who heard about my story on BBC radio. Since then I’ve been able to talk openly about my condition and be of some help to others who suffer in the same way. And people know where my songs are coming from now.

How much of your experience of suffering of affective disorder is in your songs? Are there songs where you specifically talk about it?

All human experience is about darkness and light, about wanting to find happiness and to avoid suffering. That is what all songs are ultimately about. Being bipolar means having those extremes of highs and lows perhaps more often and more dramatically than others. My songs come from my heart so it’s inevitable that my lyrics are often influenced by these experiences. About a year after my first psychosis when I’d gone through all the stages of being completely terrified and then chronically depressed, and I was starting to feel a bit stronger, I wrote a song called ‘I’d Rather Be’. It expressed my feelings of gratitude and acceptance of the way that I am. But the most direct song I’ve ever written about my experience of bipolar disorder is ‘Over The Waterfall’.

Can you tell us about your experience of playing in psychiatric hospital in UK?

My tour of mental health hospitals earlier this year was one of the best things I’ve ever done. It was hugely challenging but hugely rewarding and out of the 17 gigs I did there were no negative experiences. I did a half-hour performance in each mental health facility, singing my songs about surviving mental illness, reading a bit from my book about my own psychosis and answering questions from the patients. There is so little music in mental health hospitals in the UK so aside from anything else it was a bit of entertainment in an otherwise boring routine. Both staff and patients did really listen and sometimes seemed to be very moved by it. The feedback from the staff was amazing (see Mental Health Tour). One good thing about my experience of bipolar disorder is that it covers both psychosis and depression so I was able to relate to both patients who have schizophrenia and also to those with chronic anxiety and depression.

Are you involved in any other project concerning mental health?

At the moment I’m a bit out of action because of tendonitis in my arms but I hope to be doing some work in the future with the mental health charity Mind. I would also like to approach some other NHS trusts to offer my services and do similar gigs in other hospitals and for outpatient groups.

What do you think of music therapy? Any experience?

I had music therapy the last time I was sectioned in hospital and it was great. The music therapist was very surprised when I started singing her some of my songs. The staff on the acute ward where I was sectioned let me keep my guitar and one of the songs on my first album I wrote in that hospital (‘Falling on My Feet’). Afterwards the music therapist came to some of my gigs. There have been big cuts in mental health services in the UK in recent years and out of the 17 gigs that I did earlier this year only 2 places had any kind of music provision. I think that music can be a vital part of helping people with mental health problems and I hope that part of my career will be focused on getting more music into mental health facilities.

How is the stigma situation in England? Have you ever been stigmatized in some ways after your outing about the bipolar disorder?

I haven’t felt stigmatised at all. A lot of people said I was brave when I published my book but in fact I’ve only felt liberated by coming out about my own mental illness. I really believe that stigma only has power if we pander to it and that the more people are open about their mental health and talk about it, the better. That’s why campaigns like Time to Change in the UK are so important. Things are much better now than they were a few years ago. And I often quote the words of Dr Seuss: “Be you are and say what you feel because those that mind don’t matter and those that matter don’t mind.”

Which is in your experience the relationship between creativity and mental disorders?

 I can’t speak for all mental disorders but certainly with bipolar disorder my experience has been that creativity is the silver lining to the bipolar cloud. The three things that have saved my life have been music, meditation and medication. I think that any kind of creative outlet, be it painting, music, poetry, gardening or crafts can be of huge benefit to people like me with all this energy in our heads that otherwise turns in on us and causes so many problems. If you can learn to use that energy in a positive, productive way then the illness can really become a blessing in disguise.

I read that you practice Tibetan Buddhism. In the last decades the worlds of psychology and Buddhism have met and techniques inspired by Buddhist meditation (mindfulness) are now used for chronic depression. In which way practicing Buddhism is beneficial for your mental health?

As I said meditation is one of the three things that has saved my life. I started doing five minutes of sitting meditation first thing in the morning over 15 years ago. I now practice for an hour each morning and half an hour each evening. My Buddhist faith has saved me in more ways than one. For a start believing that suicide would simply be jumping out of the frying pan into the fire has stopped me from ending my own life in severe depressive episodes. The Buddhist teaching on impermanence has also been incredibly helpful. Having a guru in the form of my teacher Lama Jampa Thaye gives me much-needed support and encouragement and guidance during dark times. The Buddhist teachings on mind-training are incredibly practical and helpful methods of dealing with difficult situations. I am also fascinated by Buddhist psychology and philosophy and this gives me a real focus for my intellectual stimulation and interest. The daily practice of meditation has taught me self-discipline which feeds into every other part of my life. And I am a great believer in the power of faith. I know from my own experience how powerful the mind can be, both destructive and creative. I want to tame my mind to be less troublesome to myself and more helpful to others.

 

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PARTE 3

Costruire una vita parallela a quella reale in un videogioco online spesso spinge i giocatori a preferire la vita alternativa a scapito di quella reale, con una serie di importanti conseguenze sulle relazioni sentimentali e affettive.

Negli ultimi dieci anni sono state rilevate interessanti associazioni tra bassi livelli di benessere psicologico e utilizzo eccessivo/compulsivo o patologico del computer e dei videogiochi.
Per esempio i giocatori assidui manifestano minore soddisfazione nella vita quotidiana, minore autostima, minori competenze sociali e maggiore senso di solitudine.
Inoltre quei giocatori che trascorrono la maggior parte del loro tempo libero sui videogiochi manifestano sintomi tra cui evitamento, preoccupazione, perdita del controllo e conflitti inter/intrapersonali.

Costruire una vita parallela a quella reale in un videogioco online spesso spinge i giocatori a preferire la vita alternativa a scapito di quella reale, con una serie di importanti conseguenze sulle relazioni sentimentali e affettive.

Inoltre giocare assiduamente a giochi a sfondo violento può ridurre sensibilmente le capacità empatiche del soggetto e conseguentemente favorire lo sviluppo di aggressività fino a permeare tutta la capacità di problem solving all’insegna della violenza (Lemmens et al., 2011).

Gli adolescenti che vengono classificati come soggetti a basse competenze sociali, con poca autostima, soli e generalmente insoddisfatti della loro vita reale, hanno più probabilità di sviluppare sintomi di gioco patologico: un circolo vizioso dove solitudine e insoddisfazione portano a giocare compulsivamente online e a costruirsi lì una vita alternativa che comporta incapacità di vivere la vita reale e quindi insoddisfazione e senso di solitudine.

Da ulteriori ricerche è emerso che giocare assiduamente online (MMORPGs e simili) è associato a comportamenti di dipendenza (sia al gioco online, sia per esempio al gioco d’azzardo), comportamenti antisociali, riduzione delle ore di sonno o del mangiare, stanchezza durante il giorno, lamentele somatiche e problemi fisici, problemi a scuola e con le consegne dei compiti a casa e infine problemi con amici, familiari e partner (Hellstrӧm et al., 2012).

In ogni caso, a causa della poca ricerca empirica sulle conseguenze dell’assiduo gioco online, è difficile dimostrare in modo decisivo se i sintomi riscontrati siano causa o effetto del gioco patologico. Rimane palese la fortissima limitazione della vita sociale reale di queste persone con marcata preferenza per le relazioni virtuali, il che tampona momentaneamente la loro ansia sociale ma allo stesso tempo aumenta tutte le loro difficoltà.

E’ possibile però trovare degli elementi positivi in questa attività di videogaming? Secondo un ricercatore di Hong Kong ciò è sicuramente possibile. Tao Wang Yu parte infatti da una critica all’attuale sistema scolastico e al metodo di insegnamento delle conoscenze, secondo l’autore il focus dell’apprendimento dovrebbe infatti vertere sull’apprendere come si impara, sul pensare e sul creare. Tutti quegli elementi analizzati ed elencati precedentemente, categorizzati come negativi e facilitanti la dipendenza e l’isolamento, potrebbero essere convertiti in fattori facilitanti l’apprendimento.

I MMORPGs sono infatti organizzati in modo tale che l’attività di gruppo assolva un ruolo fondamentale per raggiungere successi e quindi i giocatori devono presto imparare a valorizzare il lavoro di squadra e la collaborazione sfruttando (o imparando!) le abilità sociali.

I giocatori hanno la possibilità di sviluppare nuove abilità come quelle organizzative, di negoziazione, di marketing e di mediazione dei conflitti, il tutto ai fini di conoscenza e apprendimento. Il gioco online spinge i giocatori a cambiare prospettiva e a guardare il mondo con occhi diversi.

Sono stati progettati diversi esperimenti di apprendimento mediato dal videogioco, per esempio Dede nel 2005 ha presentato il gioco River city adibito a insegnare a giocatori provenienti da una scuola media competenze di ricerca scientifica: l’obiettivo del gioco era infatti scoprire perché gli abitanti della cittadina virtuale si stessero ammalando e quindi i giocatori erano invitati a muoversi per gruppi e ad analizzare tutti gli elementi del gioco che potenzialmente generavano la malattia.

Foreman e Borkman (citati in Wang Yu, 2009) aggiungono anche che questi videogiochi educativi dovrebbero presentare una precisa organizzazione interna per cui, per superare un livello, è necessario che i partecipanti dimostrino di aver appresso tutte le abilità acquisite nei livelli precedenti.

Inoltre, non è facile reperire ricerche in questa direzione e perseguire obiettivi educativi tramite l’utilizzo di videogame perché nel mondo scolastico ci sono tre principali ostacoli ovvero le aule non predisposte per una attività di questo genere, gli insegnanti stessi che non hanno sufficienti basi di conoscenza del computer e di internet. In più è ancora ben radicata nel senso comune la convinzione che i videogiochi costituiscano solamente un passatempo e non un elemento di formazione e di crescita.

Infine va comunque ricordato che, nonostante il computer ed internet costituiscano un buon mezzo per facilitare la comunicazione tra persone, non possono costituire un sostituto delle interazioni faccia-a-faccia: attraverso la tecnologia infatti si perde tutto il contenuto non verbale della comunicazione (espressioni facciali, postura, gestualità, tono della voce, sguardi, contatto fisico) che invece è di fondamentale importanza negli scambi interattivi tra persone (Wang Yu, 2009).

Conclusioni

Affrontare un argomento così delicato come la dipendenza da internet e da videogiochi online, significa spesso imbattersi in stereotipi e luoghi comuni ormai ben radicati nella conoscenza di tutti noi.

E’ certo però che alcuni elementi hanno un fondo di verità e per questo motivo non vanno sottovalutati: la dipendenza da un mondo virtuale, alternativo a quello reale, dove tutto quello che accade è reversibile, controllabile e stabilito dall’utente, può far gola a chiunque: per i soggetti dalla personalità dipendente e fobici sociali l’attrattiva è ovviamente maggiore.  Se si considera inoltre che ormai internet è diventato una risorsa accessibile a praticamente ogni persona, il pericolo diventa maggiore. Fare prevenzione e porre una particolare attenzione a queste dinamiche è quindi di fondamentale importanza.

Tuttavia è sbagliato demonizzare completamente questo mondo perché i suoi aspetti positivi li ha, non da ultimo il costituire una fonte di svago e un modo per implementare alcune capacità cognitive.

Un gesto di civiltà potrebbe partire dagli ideatori dei giochi, segnalando per esempio (come avviene nelle pubblicità dei GrattaEvinci) nella homepage dei siti, il rischio di dipendenza legato ai giochi MMORPGs.

 

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Brutti pensieri? Basta andare a dormire presto!

FLASH NEWS

I risultati hanno evidenziato che chi dormiva per periodi più brevi e andava a letto più tardi riportava una maggiore presenza di pensieri negativi rispetto agli altri.

Secondo Jacob Nota e Meredith Coles, ricercatori alla Binghamton University, il giusto riposo non è solo una questione di quanto si dorme ma, anche e soprattutto, di quando tempo si dedica al farlo.

Da un loro recente studio risulta che chi va a dormire molto tardi la sera è sopraffatto più spesso e in misura maggiore da pensieri negativi e ricorrenti rispetto a chi rispetta gli orari più “standard” del ritmo sonno-veglia.

Che ci sia un legame tra i disturbi del sonno e pensieri negativi è noto: pensieri pessimistici che sembrano ripetersi nella mente, la sensazione di aver poco controllo sul rimuginio, la tendenza a preoccuparsi troppo per il futuro così come la tendenza a ripensare eccessivamente al passato e la presenza di fastidiosi pensieri intrusivi, oltre a essere spesso tipici di altri disturbi, si ritrovano infatti anche molto di più in chi ha problemi del sonno rispetto a chi dorme sufficientemente bene.

In questo studio i ricercatori hanno chiesto a 100 giovani adulti di compilare una batteria di test e di eseguire due compiti al computer atti a misurare quanto si preoccupassero, rimuginassero o avessero pensieri ossessivi. Oltre a questo è stato chiesto loro quali fossero le loro abitudini relative al sonno.

I risultati hanno evidenziato che, effettivamente, chi dormiva per periodi più brevi e andava a letto più tardi riportava una maggiore presenza di pensieri negativi rispetto agli altri.

Questo studio fa parte di una linea di ricerca che esamina la relazione tra i comportamenti di sonno-veglia e la salute mentale, riuscire ad approfondire la conoscenza di questo legame potrebbe portare interessanti spunti a livello clinico e aiutare i trattamenti dei disturbi d’ansia o altre psicopatologie.

 

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PARTE 2

Uno dei tanti obiettivi che si propone costantemente il mondo di internet, se non lo scopo principe, è quello di promuovere la comunicazione e quindi anche lo scambio sociale. A tal proposito, qual è il ruolo dei MMORPGs nelle interazioni sociali?

Diversi autori si sono soffermati sullo studio della costruzione dei rapporti sociali su internet. Per esempio McKenna e Bargh (citati in Shao-Kang et al., 2005) ipotizzano che coloro che hanno la tendenza a stabilire legami significativi online non riescono ad essere loro stesse nella vita reale e questo genera in loro ansia sociale (nel disturbo dell’Ansia Sociale, l’individuo ha paura e quindi evita tutte le situazioni sociali che presentino la possibilità di essere osservati e giudicati, soprattutto quelle situazioni sociali in cui l’individuo deve incontrare persone nuove o quelle situazioni dove deve fare qualcosa davanti ad un pubblico; l’ideazione cognitiva predominante di questi soggetti è quella di essere giudicati negativamente dagli altri, di essere messi in imbarazzo, umiliati o rifiutati). Costruire relazioni online, per questi soggetti, significa tamponare momentaneamente questa ansia.

Kimberly Young (citata in Shao-Kang et al., 2005), affermata studiosa e ricercatrice in questo campo, sostiene che i soggetti utilizzatori assidui di chat-rooms spesso mancano di contatti interpersonali autentici e reali con amici e familiari.

A questo punto è il momento di entrare nel vivo di questa trattazione e determinare quale sia il ruolo dei MMORPGs nelle interazioni sociali.

I creatori di questo tipo di giochi inventano delle comunità virtuali nelle quali ciascun utente può costruirsi un ruolo e partecipare alla vita virtuale interagendo con persone provenienti da tutto il mondo. Quando infatti si chiede ai giocatori il perché della popolarità di questi giochi, la risposta è quasi sempre la stessa: sono le persone che ci attraggono, non il gioco in sé (Ducheneaut et al., 2006).

Ciò che sembrerebbe fare la differenza è la possibilità di condividere esperienze, la natura collaborativa di molte attività, il piacere di essere parte di una comunità e la possibilità di guadagnarsi una reputazione. I MMORPGs sono infatti essenzialmente dei giochi di reputazione che permettono al giocatore di guadagnare uno status, una reputazione e una fama, il tutto garantito dalla presenza di altri giocatori (detti audience) senza i quali il gioco avrebbe meno senso e soprattutto molta meno attrattiva (sempre a detta degli utenti stessi).

Un interessante progetto di ricerca ha portato gli autori Ducheneaut, Yee, Nickell e Moore ad immergersi in prima persona in questo mondo online (ognuno creando un account) e quindi ha permesso agli autori di studiare dall’interno le dinamiche del famoso gioco World of Warcraft (WoW).

I ricercatori hanno osservato che il gioco innanzitutto incoraggia gli utenti a formare dei gruppi sfruttando due meccanismi principali:

  • sulla base dell’appartenenza ad una qualche razza o casta che ha gli stessi poteri e le stesse abilità e
  • sulla base del fatto che alcune sfide o missioni sono troppo complicate per essere affrontate da soli.

Nonostante ciò alcuni giocatori hanno fatto notare che non sempre il gruppo costituisce un vantaggio e che anzi alcuni personaggi preferiscono perfino l’attività solitaria e solo negli ultimissimi livelli del gioco si uniscono ad altri gruppi.

Un fenomeno molto particolare però è costituito dalla cosiddette gilde: le gilde sono dei gruppi di giocatori più o meno grandi all’interno delle quali sono presenti dei capi che le guidano. Le gilde, come osservano gli autori, sono il luogo all’interno del quale vengono costruite la maggior parte delle amicizie virtuali a lungo termine, anche se mano a mano che il numero dei partecipanti della gilda cresce, diminuisce la possibilità di socializzare e conoscere i membri del gruppo (in media i giocatori conoscono al massimo 1 membro su 4 di tutta la gilda e giocano più spesso al massimo con 1 membro su 10).

Inoltre è stato osservato che il numero medio di ore trascorse sul gioco aumenta se il soggetto è parte di una qualche gilda, il che ha fatto supporre agli autori della ricerca che forse in un certo modo nelle gilde esiste una forma di pressione sociale per cui gli utenti che vi fanno parte sono costretti a giocare sempre di più.

Per concludere i quattro autori della ricerca hanno osservato che nel gioco WoW un elemento che aumenta e massimizza la possibilità di migliorare l’atmosfera sociale è il sense of humor presente nel gioco stesso: il gioco è caratterizzato infatti da toni rasenti il comico, talvolta con situazioni bizzarre e oggetti buffi utilizzabili dagli utenti e personaggi di sfondo che presentano caratteristiche memorabili e divertenti.

Ciò che rende questi giochi particolarmente accattivanti è dato da tre componenti: interagire con altri istantaneamente e in modo anonimo, formare relazioni virtuali e costruire comunità virtuali.

Date queste caratteristiche, gli individui che hanno particolari difficoltà nelle interazioni sociali potrebbero utilizzare i contatti di internet come sostituti di quelli reali. Uno studio condotto da Shao-Kang e colleghi su 180 studenti di Taiwan ha permesso di dimostrare che gli assidui utilizzatori di giochi di ruolo online hanno relazioni interpersonali molto meno soddisfacenti rispetto ai giocatori non compulsivi e ai soggetti non giocatori. Inoltre è stato dimostrato che l’ansia sociale tende ad aumentare in base al grado di utilizzo di questi giochi. Va sottolineato che, anche se questo tipo di giochi sembri attenuare i sintomi dell’ansia sociale, di fatto non migliora la capacità dei soggetti di relazionarsi nel mondo reale (Shao-Kang, Chih-Chien, Wenchang, 2005).

Strettamente legata al fattore interpersonale, l’identificazione del giocatore con il personaggio interpretato online non è un elemento da sottovalutare. Wolfendale (citato in Smahel et al., 2008) sostiene che la relazione tra giocatore e personaggio sia molto simile a quella che si costruisce con una persona assente, o più nello specifico non reale, ma nonostante ciò i sentimenti nei suoi confronti sono invece veri. L’autore anzi aggiunge che sarebbe addirittura più appropriato definire tale legame attaccamento e non semplicemente relazione.

I dati della ricerca condotta da Smahel e colleghi sono abbastanza chiari a riguardo:

  • il 26% di partecipanti ha concordato sul fatto che le abilità e le caratteristiche dei loro avatar sono simili a quelle da loro possedute anche se più potenti,
  • il 17% ha affermato che il loro avatar compensa le proprie abilità e capacità,
  • il 14% sostiene che l’avatar e il giocatore siano la stessa persona,
  • il 18% afferma di possedere le stesse abilità del proprio avatar e infine
  • il 65% si dichiara fiero e orgoglioso del proprio personaggio.

Questa ricerca non dimostra solamente che una piccola percentuale di giocatori tende ad identificarsi fortemente con il proprio avatar e a provare nei suoi confronti dei sentimenti autentici ma anche che un forte coinvolgimento emotivo influisce sulla dipendenza dal gioco e che chiude il giocatore nel mondo virtuale, portandolo a sostituirlo con quello reale.

MMORPGs are both game and communities

(cit. Ducheneaut et al.)

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Il Disturbo bipolare nel mondo della musica – Intervista con Emily Maguire: il coraggio di ricominciare

Tutta l’esperienza umana è fatta di buio e di luce, della voglia di trovare la felicità e di evitare la sofferenza. E’ questo di cui parlano alla fine le canzoni. Essere bipolari significa avere questi estremi di alti e bassi forse più spesso e più drammaticamente degli altri.

Emily Maguire è una cantautrice inglese dotata di una una voce fortemente espressiva (paragonata da alcuni all’indimenticabile Eva Cassidy, per intenderci) e un capacità compositiva degna delle migliori folk-singer americane. Le sue canzoni vengono trasmesse regolarmente dalla BBC e nel 2010 ha spiazzato i propri fan con la biografia Start over again (che è anche il titolo di una sua canzone), dove ha fatto coming out rispetto al suo disturbo bipolare, attirando in pochi mesi l’attenzione dei media e divenendo una sorta di testimonial per tale disturbo.

E’ stata invitata a suonare in ospedali psichiatrici e centri di riabilitazione in diverse città dell’Inghilterra, emozionando pazienti e operatori con le sue canzoni. Questo tour così particolare ricorda quel periodo, alla fine degli anni Settanta, in cui il rivoluzionario Franco Basaglia invitava gli artisti ad esibirsi nel manicomio di Trieste, per abbattere i muri dell’indifferenza.

Dalla biografia dell’artista emergono altri particolari interessanti come l’educazione musicale in violoncello fin dall’infanzia e il periodo di quattro anni vissuto nel bush australiano con il proprio compagno, in una dimensione ecosostenibile, finanziando i progetti musicali con la vendita di formaggio di capra.

I brani di Emily sono ricchi di riferimenti alla sua storia di sofferenza, come “Over the waterfall”, che recita “I bet you don’t hear a million voices ringing in your head, I bet you don’t see symbolic meaning in every word you said” (Scommetto che tu non senti un milione di voci che squillano nella tua testa, scommetto che tu non cerchi un significato simbolico in ogni parola che dici), e poi ancora “I lose my mind, if they can’t find a cure this time, they’ll take me away in a big white van…So take my hand and don’t let me go over the waterfall” (Sto perdendo la testa, se non trovano la cura giusta questa volta mi porteranno via su un furgone bianco…prendi la mia mano e non farmi andare oltre la cascata). La cascata pare una metafora molto efficace del confine tra normalità e follia. La sua storia mi ha molto incuriosito e l’ho intervistata via Skype.

  Ciao Emily. Ho letto nella tua biografia che hai scritto le prime canzoni quando ti sei trovata costretta a casa a causa della fibromialgia. La musica ti è stata d’aiuto per affrontare questo doloroso disturbo?

In quel periodo difficile la musica è stata incredibilmente utile. Lo scrivere canzoni mi ha aiutato a distrarmi dal costante dolore fisico ed è stato un modo per esprimere pensieri ed emozioni che provavo rispetto alla vita e al mondo che vedevo fuori dalla mia finestra. Sono arrivata a pensare che la malattia sia stata una fortuna “mascherata”, proprio perché mi ha dato la possibilità di avere così tanto tempo a disposizione per scrivere.

Ci racconti qualcosa di più del tuo disturbo psichiatrico e delle cure che hai intrapreso?

Quando avevo sedici anni mi è stato diagnosticato per la prima volta un episodio depressivo acuto e sono stata curata con antidepressivi per molti anni. All’età di ventitrè anni ho avuto un episodio psicotico e in quell’occasione mi è stato diagnosticato un disturbo bipolare e mi è stata prescritta una terapia con litio. Nel frattempo avevo fatto diversi anni di psicoterapia prima con uno psichiatra e poi con diversi counsellors. Una volta dimessa dall’ospedale, dopo la psicosi, ho deciso che avevo fatto psicoterapia a sufficienza. Dopo alcuni anni di relativo benessere il medico mi ha tolto il litio e due anni dopo ho avuto il secondo episodio psicotico all’età di ventotto anni. Sono stata nuovamente ricoverata e mi sono stati prescritti litio e olanzapina. Da allora ho fatto un po’ di counselling ma non più percorsi psicoterapici a parte una terapia ipnotica (“solution focused hypnotherapy”) che mio marito pratica e che ho trovato davvero molto utile per gli episodi depressivi. Sto ancora assumendo l’olanzapina ma non il litio, che in certi periodi mi ha dato alcuni effetti collaterali. 

Nel 2010 hai pubblicato la tua biografia Start over again, dove racconti pubblicamente le tue esperienze personali con la psicosi e il disturbo bipolare. E’ stato difficile fare questo coming out?

Sì, è stata una decisione difficile e ho anche pensato che potesse rappresentare la fine della mia carriera musicale. Ma alla fine è stata una grande liberazione ed ho ricevuto una risposta fantastica dai miei fans e da tutti coloro che hanno conosciuto la mia storia dalla trasmissione radiofonica sulla BBC. Da allora sono riuscita a parlare apertamente della mia condizione e ad essere di aiuto alle persone che soffrono allo stesso modo. Adesso inoltre le persone sanno da dove vengono le mie canzoni.

In che modo la tua esperienza di sofferenza psichica è entrata nelle tue canzoni? C’è qualche brano rappresentativo a riguardo?

Tutta l’esperienza umana è fatta di buio e di luce, della voglia di trovare la felicità e di evitare la sofferenza. E’ questo di cui parlano alla fine le canzoni. Essere bipolari significa avere questi estremi di alti e bassi forse più spesso e più drammaticamente degli altri. Le mie canzoni vengono dal profondo del mio cuore, quindi è inevitabile che i testi siano influenzati da queste esperienze. Circa un anno dopo il primo episodio psicotico, dopo essere passata attraverso tutte le fasi in cui mi sono sentita completamente terrorizzata e poi cronicamente depressa, quando iniziavo a sentirmi un po’ meglio ho scritto il brano “I’d rather be”, che esprime i miei sentimenti di gratitudine e accettazione rispetto a come sono. Ma la canzone che esprime in modo più diretto la mia esperienza con il disturbo bipolare è “Over the waterfall”.

Ci racconti qualcosa della tua straordinaria esperienza di concerti nei luoghi di cura psichiatrici inglesi?

Il mio tour negli ospedali psichiatrici all’inizio di quest’anno è stata in assoluto la cosa migliore che abbia mai fatto. E’ stata una grossa sfida, ma molto soddisfacente, anche perché nei diciassette concerti che ho fatto non ho avuto esperienze negative. Ho tenuto performance di circa mezz’ora in ogni struttura psichiatrica, cantando le mie canzoni che raccontano di sopravvivenza alla malattia mentale, leggendo estratti dal mio libro sulla mia esperienza personale con la psicosi e rispondendo alle domande dei pazienti. C’è così poca musica negli ospedali psichiatrici inglesi, che innanzitutto le mie performance sono state una forma di intrattenimento nei confronti di una routine noiosa. Sia lo staff che i pazienti hanno sempre ascoltato attentamente e alle volte sono sembrati davvero commossi. Il feedback dagli operatori è stato meraviglioso. Una aspetto “positivo” del mio disturbo bipolare è che comprende elementi sia di psicosi che di depressione, così sono stata in grado di relazionarmi sia con pazienti affetti da schizofrenia che con pazienti affetti da ansia e depressione cronica.

Sei coinvolta in altri progetti che riguardano la salute mentale?

Al momento sono un po’ fuori dal giro a causa di una tendinite a un braccio ma spero in futuro di lavorare con Mind, un ente no profit che si occupa di salute mentale. Mi piacerebbe anche proporre i miei concerti ad altri ospedali e magari anche in setting ambulatoriali.

Cosa pensi della musicoterapia?

Ho partecipato a sedute di musicoterapia l’ultima volta che sono stata ricoverata in ospedale ed è stato molto bello. Il musicoterapeuta è rimasto molto sorpreso quando ho iniziato a cantare alcune mie canzoni. Lo staff del reparto per acuti dove ero ricoverata mi faceva tenere la chitarra e ho anche scritto il brano “Falling on my feet” del mio primo album, durante la permanenza in ospedale. Successivamente il musicoterapista è venuto ad alcuni miei concerti. Ci sono stati tanti tagli nei servizi psichiatrici inglesi negli ultimi anni e dei diciassette luoghi dove mi sono esibita, solo due erano dotati di una qualche proposta musicoterapica. Credo che la musica possa rivestire un ruolo vitale nell’aiutare le persone con problemi psichiatrici e spero che parte della mia carriera si focalizzerà sul portare più musica nei luoghi della salute mentale.

Come vedi la situazione dello stigma psichiatrico in Inghilterra? Ti è mai capitato di essere stigmatizzata per il tuo disturbo bipolare?

Non mi sono mai sentita stigmatizzata. Un sacco di gente mi ha detto che sono stata coraggiosa a pubblicare il mio libro, ma in realtà mi sono solo sentita liberata di un peso. Penso che lo stigma diventi potente solo se lo assecondiamo e che più la gente parla di salute mentale meglio è. Per questo campagne come Time to Change, che hanno fatto in Inghilterra sono importantissime. Le cose vanno meglio adesso che alcuni anni fa e spesso cito le parole del Dottor Seuss “Sii te stesso e dì quello che senti senza timori, perché quelli che si preoccupano non contano e quelli che contano non si preoccupano”.

Nella tua esperienza in che rapporto sono la creatività e i disturbi mentali?

 Non posso parlare per tutti i disturbi mentali, ma certamente nella mia esperienza col disturbo bipolare la creatività è stata l’unica luce tra le nubi. Le tre cose che mi hanno salvato la vita sono state la musica, la meditazione e i farmaci. Credo che ogni attività creativa, che sia pittura, musica, poesia, giardinaggio o anche altre attività manuali possa essere di enorme beneficio per le persone come me che hanno così tanta energia dentro che non sanno dove dirigere e che può causare così tanti problemi. Se riesci a imparare a utilizzare quella energia in modo positivo e produttivo la malattia può davvero diventare un’occasione quasi positiva.

Ho letto che pratichi il Buddismo Tibetano, a cui negli ultimi anni la psicologia si sta ispirando per proporre tecniche terapeutiche come la meditazione per la cura dei disturbi depressivi. Hai trovato anche tu un giovamento per qualche disagio psicologico nel buddismo?

 Come ho detto la meditazione è stata una delle tre cose che mi hanno salvato la vita. Ho iniziato a fare cinque minuti ogni mattina di meditazione seduta circa quindici anni fa. Adesso pratico per un’ora ogni mattino e mezz’ora ogni sera. La mia fede buddista mi ha salvata in più di un modo. Prima di tutto convincermi del fatto che commettere un gesto suicidario sia come “saltare dalla padella alla brace”, mi ha impedito di togliermi la vita negli episodi depressivi più acuti. Anche gli insegnamenti buddisti sull’impermanenza sono stati utilissimi. Avere una guida spirituale come il Lama Jampa Thaye mi fornisce un grande sostegno emotivo durante I periodi più bui. Gli insegnamenti buddisti sull’esercizio delle proprie facoltà mentali sono metodi pratici ed utili per affrontare situazioni difficili. Sono anche affascinata dalla psicologia e dalla filosofia buddista, che trovo davvero interessante e intellettualmente stimolante. La pratica quotidiana meditativa mi ha insegnato un’autodisciplina che risulta utile anche in altri ambiti della mia vita. Inoltre credo molto nel potere della fede. So in prima persona quanto la mente possa essere potente, sia creativamente che distruttivamente. Voglia addomesticare la mia mente affinchè sia meno problematica per me e più utile per gli altri. 

 

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FLASH NEWS

Le mamme sono più attive nella comunicazione verbale con i neonati rispetto ai papà, ma nel determinare questa differenza sembra che anche il sesso del bambino abbia un ruolo: le mamme, infatti, parlano più alle figlie femmine che ai figli maschi già nelle prime settimane e mesi di vita dei loro figli.

Lo studio, pubblicato su Pediatrics, ha esaminato le interazioni linguistiche tra 33 neonati e i loro genitori, per un totale di 3.000 ore di registrazioni.
Con grande sorpresa, i ricercatori hanno scoperto che le mamme hanno interagito verbalmente più con le figlie femmine che con i figli maschi in tutto il primo mese di vita dei neonati. I padri, invece, hanno comunicato più frequentemente con i figli maschi che con le femmine, ma le differenze non hanno raggiunto la significatività statistica.

L’autrice e neonatologa Dr. Betty Vohr, direttrice del programma di follow up Neonatale presso il Women & Infants Hospital di Rhode Island e professore di pediatria presso Alpert Medical School della Brown University, spiega che il team ha voluto comprendere meglio quali fattori legati al genere influenzino le mini-conversazioni genitori/neonati; infatti anche i neonati sanno vocalizzare e avere interazioni reciproche, e appena lo fanno le madri sono pronte a rispondere, mentre i padri sono in generale “più rilassati”; anche i risultati dello studio indicano che quando le mamme sono con i bambini rispondono immediatamente a un vocalizzo l’ 88-94 % del tempo, mentre i papà vi rispondono il 27-30 % del tempo.

Insomma i neonati, dalla nascita fino ai 7 mesi di età, sono esposti significativamente più spesso al dialogo con le mamme che con i papà e i bambini stessi tendono a rispondere più alle madri che ai padri.

 

Ma perchè le madri parlano di più con le femmine che con i maschi?

Secondo i ricercatori questo fenomeno potrebbe essere dovuto al fatto che la maturazione cerebrale nelle femmine è più precoce che nei maschi e questo permette alle femmine di mantenere un miglior contatto oculare e una maggiore “attenzione congiunta,” cioè la capacità di due individui di condividere l’attenzione verso un oggetto terzo.
Questo gap tra i sessi potrebbe avere conseguenze a lungo termine ed è importante che anche i padri si rendano maggiormente attivi nel proporre e rispondere alle comunicazioni; alcuni studi precedenti infatti hanno mostrato che anche il vocabolario paterno, ma non quello materno, usato dal genitore con il figlio a 6 mesi può essere un predittore della maturazione delle abilità linguistiche del bambino a 16 e 36 mesi.

Insomma è molto importante che sia le madri che i padri si impegnino a comunicare con i figli, e, a questo scopo, i ricercatori si propongono di creare un programma di intervento, basato sui risultati di queste ricerche, che incrementi la partecipazione dei padri alle comunicazioni linguistiche con i neonati, incominciando con l’insegnare ai papà l’importanza del loro ruolo nello sviluppo del linguaggio infantile.

 

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