expand_lessAPRI WIDGET

Neurobufale: miti e luoghi comuni sulle Neuroscienze nei discorsi di tutti i giorni

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Dal blog di Annamaria Testa, Nuovo e Utile:

Fino a una manciata di decenni fa nessuno aveva la più pallida idea di quello che succede nel cervello umano, “il singolo oggetto fisico più complesso dell’universo” secondo il neuroscienziato Gerald Edelman. Adesso i ricercatori cominciano ad averne di più precise, e anche il grande pubblico, cioè tutti noi. Peccato che, per quanto riguarda il “tutti noi”, si tratti spesso di bufale: nient’altro che neuro-miti, idee infondate o distorte, insomma bufale, diffuse però in tutto il mondo. Che vanno sfatate perché, per esempio, a partire da queste, a scuola si attivano pratiche educative inefficaci. O perché, aggiungo io, sempre a partire da queste si diffondono idee esoteriche, e ugualmente inefficaci, sulla creatività. Qui di seguito vi ricordo tre neuro-miti nei quali, con buona probabilità, ci siamo imbattuti tutti quanti…

Idee 120. Non credete a queste bufale sul cervelloConsigliato dalla Redazione

L’emisfero destro creativo? Una bufala. Il fatto che usiamo appena il 10 per cento del nostro cervello? Una sciocchezza. Il mito dei tre anni? Solo un mito. (…)

Tratto da:

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

POTREBBE INTERESSARTI: LUCY: UTILIZZIAMO DAVVERO SOLO IL 10% DEL NOSTRO CERVELLO?


Ultimi articoli pubblicati
Arrivare in ritardo o annullare una seduta: solo un imprevisto? – Inside Therapy
La rubrica Inside Therapy esplora le ragioni comuni dietro la tentazione di annullare o saltare le sedute di psicoterapia
Intelligenza artificiale e pensiero critico: come sta cambiando il nostro modo di pensare – Psicologia Digitale
L’intelligenza artificiale è sempre più presente nella vita quotidiana, sollevando interrogativi sul suo impatto sul pensiero critico
Nuove linee guida APA 2025 per il trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD)
Linee guida APA 2025 per il trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico. Cosa cambia nella pratica clinica secondo le nuove raccomandazioni?
ADHD: un disallineamento tra individuo e ambiente?
L’ADHD si manifesta in modi diversi a seconda del contesto in cui una persona vive, combinando aspetti genetici e influenze ambientali
Lo sconosciuto conosciuto: la sindrome di Fregoli
La Sindrome di Fregoli è un raro disturbo psichiatrico che porta a riconoscere nei volti estranei persone familiari sotto mentite spoglie
Il sonnambulismo: quel misterioso caso del “sonno a metà”
Il sonnambulismo è un disturbo del sonno in cui il corpo si muove mentre la coscienza resta sopita. Cosa accade nel cervello?
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Giugno 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
Consulenza e benessere sessuale – Uno spazio sicuro per esplorare sé stessi
Ascoltarsi è il primo passo. Esprimersi con libertà è il più importante - Scopri il nostro servizio di consulenza psico-sessuologica
La Consulta delle Scuole CBT: un Convegno per il Futuro della Psicoterapia in Italia
Il convegno della Consulta delle Scuole Italiane di CBT ha offerto un'occasione per esaminare la formazione attuale e futura, sottolineando l'importanza di adottare pratiche basate sull'evidenza.
Quando un genitore tradisce: comprendere e superare il dolore
L’infedeltà di un genitore non coinvolge solo la coppia, ma può generare nei figli sentimenti di tradimento, delusione e perdita di fiducia
Lab Apprendimento Clinica Eta Evolutiva Milano
Lab-Apprendimento: strategie per un apprendimento autonomo
Un mini-corso estivo promosso dalla Clinica età Evolutiva di Milano per imparare un metodo di studio efficace. Dal 1 al 22 luglio a Milano.
Il potere della chain analysis: comprendere i nostri comportamenti problematici può generare cambiamenti e migliorarci la vita
La chain analysis aiuta a comprendere a fondo i comportamenti problematici, ricostruendo i processi che li precedono e li mantengono nel tempo
Tollerare la noia: un nuovo strumento self-report per una nuova prospettiva sulla “divina indifferenza”
La scala Boredom Intolerance Scale (BIS) misura l’intolleranza alla noia, offrendo una nuova prospettiva clinica
Congresso: L’orizzonte della Psicoterapia – Porta il tuo contributo e proponi il tuo poster
4° Congresso italiano di psicoterapie cognitive-comportamentali di terza generazione. Condividi i risultati del tuo lavoro proponendo un poster da presentare durante la sessione dedicata
I videogiochi d’azione possono migliorare le abilità di lettura
I videogiochi d’azione possono potenziare la consapevolezza fonologica nei bambini in età prescolare, riducendo il rischio di dislessia
I farmaci integrati alla psicoterapia: quali paure e quali resistenze? – Inside Therapy
La rubrica Inside Therapy esplora quando e perché in psicoterapia può servire anche un supporto farmacologico
ChatGPT e psicoterapia: può l’Intelligenza Artificiale sostituire il terapeuta umano?
ChatGPT sta entrando nel mondo della psicoterapia, ma resta aperto il dibattito su quanto possa davvero sostituire l’intervento umano
”Vado a tagliare i capelli”. Dispercezioni sensoriali nell’autismo e trattamenti: lo studio di un caso
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
La coppia narcisistica borderline. Nuovi approcci alla terapia di coppia (2023) di Joan Lachkar – Recensione
La coppia narcisistica borderline (2023) di Joan Lachkar esplora le complesse dinamiche emotive e relazionali tra personalità narcisistiche e borderline
Le conseguenze dei disturbi alimentari in epoca perinatale sullo sviluppo psicofisico del nascituro
I disturbi alimentari in gravidanza rappresentano un fattore di rischio per il benessere psicofisico della madre e lo sviluppo del bambino
Carica altro

Analisi di un caso di mobbing: la storia di Marco – Psicologia del Lavoro

Una lenta discesa all’inferno: chi ne parla è un lavoratore che definisce così su un blog il suo essere vittima sul posto di lavoro. Nel seguente articolo sarà analizzata la sua storia di Mobbing.

L’obiettivo del seguente articolo consiste nell’analizzare un caso di Mobbing pubblicato su un blog; l’autore intitola la sua testimonianza una lenta discesa all’inferno (il link della testimonianza è in bibliografia). Si procederà con un iniziale chiarimento delle caratteristiche che portano a definirla come caso di Mobbing; dopodiché sarà esaminata la situazione attraverso il modello sul Mobbing multicausale di Zapf (1999) e, infine, saranno avanzate delle prospettive di intervento.

 

Identificazione dei comportamenti vessatori e dei fattori di rischio Mobbing

Tipologie di comportamenti riscontrati nella testimonianza

La situazione presa in analisi presenta molte tipologie di comportamenti che si possono ricondurre al Mobbing da diversi punti di vista:

  • Comunicazione. La possibilità di esprimersi della vittima è limitata e viene in molte occasioni interrotto quando parla, sia dal titolare sia dai suoi responsabili. Inoltre Marco è vittima di continue critiche da parte del titolare dell’azienda sul suo lavoro e ribadisce più volte che subiva rimproveri e gli veniva continuamente ricordato quanto costasse all’azienda. I continui lamenti dovuti al suo demansionamento e al suo stipendio tagliato non sono presi in considerazione. È inoltre vittima di minacce da parte del suo titolare, soprattutto nel periodo in cui gli chiedeva di firmare le dimissioni.
  • Relazioni sociali. La situazione di tensione creatasi gli procura difficoltà nel relazionarsi col titolare soprattutto, ma anche con i colleghi. La realtà in cui lavora è peggiore di un sogno ricorrente che egli racconta, nel quale è da solo in una stanza circondata da pareti di vetro; alcuni colleghi dall’altra parte dei vetri ridono di lui, mentre altri lo guardano con compassione.
    La possibilità di relazionarsi coi suoi colleghi è limitata: gli vengono più volte cambiate le mansioni, ma la maggior parte delle volte deve fare lavori in cui il contatto con i colleghi è ridotto al minimo.
  • Immagine sociale. Marco è costretto a fare lavori umilianti e piuttosto disparati. Nonostante egli fosse un valido lavoratore che otteneva degli ottimi risultati, il suo lavoro non veniva premiato, ma molte volte veniva giudicato in maniera sbagliata e offensiva. 
  • Situazione professionale e privata. Marco subisce cambiamenti di mansioni improvvisi: passa dal dover puntare ad obiettivi quasi impossibili da raggiungere, al dover svolgere compiti umilianti, molto al di sotto della sua qualificazione professionale.
  • Attacchi alla salute. Subisce attacchi pressoché verbali. Inoltre gli si impedisce di andare in malattia, quindi subisce anche attacchi indiretti alla salute fisica.

Leymann (1996) ha fissato a sei mesi la soglia minima di tempo affinché la vessazione possa essere considerata come mobbing. Nel caso in questione, si può considerare, dall’inizio dei comportamenti vessatori nei confronti della vittima fino al suo licenziamento, un periodo che va da almeno dicembre 2007 (ma anche prima dato che la vittima lamenta l’inizio delle pressioni psicologiche dal momento in cui l’azienda si trasferisce in uno stabile più grande, ma non menziona il mese preciso) all’aprile 2009. Dalla testimonianza inoltre si può cogliere che: i comportamenti vessatori venivano attuati almeno alcune volte al mese (Marco afferma più volte che le umiliazioni erano continue da tutti i punti di vista); ci è stato un aumento di intensità nel tempo e non si permetteva alla vittima di difendersi, con l’obiettivo finale di costringerlo alle dimissioni.

Fattori di rischio presenti nella testimonianza

A questo punto si può procedere ad un’analisi dei fattori di rischio che potrebbero favorire la presenza di mobbing:

  • Aspetti organizzativi. Si può affermare che il clima organizzativo non offriva alcun supporto sociale: per lunghi periodi Marco lavorava da solo, con contatti limitati con i suoi colleghi e con i responsabili. Inoltre la messa in atto di cambiamenti organizzativi così improvvisi, come il trasferimento o il nuovo responsabile che poi viene repentinamente licenziato, possano rappresentare degli aspetti organizzativi da considerare rischiosi.
  • Aspetti di gruppo. Purtroppo la vittima raramente cita i rapporti che aveva con i suoi gruppi di lavoro, ma si può azzardare che col tempo la qualità dei rapporti tra lui e i colleghi sia diventata abbastanza scarsa.
  • Aspetti individuali. Gli viene continuamente chiesto di occupare ruoli lavorativi nettamente inferiori alla sua preparazione professionale; per giunta, a suo dire, le mansioni che gli venivano assegnate e gli obiettivi che egli doveva raggiungere erano esagerati in confronto a quello che avrebbe potuto fare un solo lavoratore nell’azienda in questione.

Conseguenze sulla vittima delle azioni di mobbing

I comportamenti vessatori da parte dell’organizzazione nei confronti di Marco hanno provocato una serie di conseguenze da diversi punti di vista:

  • Sulla salute. La vittima rammenta una serie di disturbi psicosomatici (attacchi d’asma, tachicardia, nausea, gastrite, febbre), segnali emozionali (disturbi dell’umore, pianti improvvisi e incontrollabili, sensazioni di impotenza e fragilità, stress, senso di solitudine, insonnia) e segnali comportamentali (blocco dell’appetito, perdita di peso, collassi ecc.).
  • Sul contesto sociale. Un’organizzazione sempre più esigente che ad un certo punto ha portato la vittima a riconsiderare e mettere in dubbio la sua certezza lavorativa e i rapporti interpersonali coi colleghi; un reinserimento occupazionale dopo i giorni di malattia che prevedeva dei cambi completi di mansioni.
  • Sui costi economici. Marco era diventato un peso per l’organizzazione, la quale non poteva permettersi un lavoratore come lui a tempo indeterminato. I suoi giorni di malattia, causati tra l’altro dall’organizzazione stessa, erano diventati un problema, e probabilmente ciò ha contribuito al suo licenziamento.

Lettura del caso tramite il modello multicausale di Zapf

Il caso in questione può essere analizzato mediante l’utilizzo del modello multicausale sul mobbing di Zapf (1999), che integra fattori individuali, sociali e organizzativi fra le cause del mobbing, i quali possono essere collegati alle manifestazioni e alle conseguenze che sono state descritte precedentemente.

Nel caso in questione, i fattori rilevanti sembrano essere quelli organizzativi, prettamente collegati ad uno stile di leadership autoritario; si può notare un abuso di potere da parte del titolare dell’azienda che impartisce ordini insindacabili, con toni minacciosi e molto forti, non permettendo alla vittima di ribattere alle accuse che gli vengono spinte, prendendo delle decisioni che mirano a ledere il benessere lavorativo. I suoi responsabili, d’altro canto, sono totalmente indifferenti alla sua situazione (il responsabile fa passare dei giorni prima di comunicare alla direzione il problema di Marco per la partenza in Sardegna per le vacanze di Pasqua, provocando l’ennesimo disagio per la vittima al momento della discussione nell’ufficio del titolare). Si può inoltre identificare una organizzazione del lavoro ambigua, con continui cambiamenti, abbastanza instabile, che favorisce l’insorgenza di job insecurity. Si può rilevare, d’altronde, la presenza di stressor sia dal punto di vista della cultura organizzativa (una comunicazione scarsa e un’aria totalmente indifferente ai risultati ottenuti dai gruppi di lavoro), sia dello sviluppo di carriera, pieno di ostacoli (stipendio tagliato, insicurezza dell’impiego dovuta a vari problemi), e del contenuto del lavoro: orari di lavoro eccessivamente lunghi e ingestibili. Dato che, in questo caso, il mobber si identifica nella figura del titolare dell’azienda, si può identificare un’organizzazione in cui sia assente una specifica politica sul mobbing, non vengono puniti i possibili mobbers e non si permette ai mobbizzati di appellarsi ad una norma che li tuteli (Marco è costretto a rivolgersi al sindacato per ottenere delle spiegazioni e delle sicurezze sulla sua situazione).

Tralasciando i fattori di gruppo, dato che la vittima non cita nella sua testimonianza i rapporti che aveva con i propri colleghi, si possono trattare i fattori individuali della vittima che avrebbero potuto aumentare la possibilità di insorgenza del fenomeno del mobbing. In uno studio, Persson e collaboratori (2009) dimostrano che le vittime del mobbing dimostrano più alti livelli di instabilità emotiva e una maggiore tendenza all’impulsività. Questi tratti di personalità possono corrispondere al caso di Marco, dato che più volte nella sua testimonianza ha indicato una tendenza a provare sia ansia che irritabilità (ma ciò non si può affermare con certezza poiché questi stati emotivi erano pressoché una risposta ai comportamenti vessatori nei suoi confronti).

Prospettive d’intervento

Prendendo come spunto il caso analizzato, si potrebbero suggerire delle misure che l’organizzazione in questione potrebbe attuare per prevenire i rischi presenti nella testimonianza, e le azioni che avrebbe potuto intraprendere per affrontare la situazione di Marco.

Interventi preventivi

L’organizzazione in questione dovrebbe focalizzarsi innanzitutto su una valutazione dei fattori di rischio psicosociale, sia dal punto di vista del contesto di lavoro (cultura organizzativa, sviluppo di carriera) sia dal punto di vista del contenuto del lavoro (orari di lavoro, carico/ritmo di lavoro, pianificazione dei compiti). Per giunta, qualora non lo avesse, si dovrebbe creare un codice etico diretto alla gestione e alla riduzione della probabilità del verificarsi di comportamenti aggressivi sia da parte dei superiori sia fra colleghi. Essa dovrebbe inoltre investire nella formazione e nella promozione di stili di leadership meno autoritari, meno indifferenti e più comunicativi, focalizzati sia sul compito sia sulle relazioni interpersonali, in modo tale da creare un clima aziendale piacevole e collaborativo. Si potrebbe consigliare di implementare un sistema che premi i lavoratori meritevoli e dei sistemi di ascolto (per esempio uno sportello mobbing), che permettano di alleviare sia la durata di fenomeni come il mobbing sia la diffusione dei disturbi. Infine, l’organizzazione dovrebbe evitare di prendere decisioni senza consultare i diretti interessati; per esempio, nel momento in cui viene attuato un progetto di lavoro, la direzione dovrebbe organizzare una riunione con tutti i diretti interessati almeno una volta al mese, per analizzare l’andamento del progetto e per riflettere insieme a loro su eventuali sospensioni. Per giunta, dovrebbe evitare di fare promesse che non può mantenere, come ad esempio lo stipendio fisso accompagnato da provvigioni che è stato assicurato a Marco e mai confermato.

Come intervenire sulla situazione di Marco

Dato che il caso della vittima in questione si è risolto con un licenziamento, ci sarebbe ben poco da recuperare, ma si potrebbe focalizzare la trattazione su possibili interventi da attuare per cercare di risolvere situazioni simili.

Se, dopo l’attuazione di interventi preventivi (alcuni dei quali consigliati nel paragrafo precedente), si verificassero casi di Mobbing, l’organizzazione non potrebbe fare altro che intervenire direttamente sulle vittime. Innanzitutto dovrebbe rispettare alla lettera le norme contrattuali: lo stipendio che spetta al lavoratore dev’essere dato senza tagli e, se la persona ha diritto a usufruire di giorni di malattia certificati, allora bisogna concederli senza contrastarla. Al suo rientro in azienda, l’organizzazione dovrebbe attuare un piano di recupero che permetta alla vittima, se l’assenza è stata piuttosto lunga, di reintegrarsi nel contesto lavorativo serenamente e senza ulteriori pressioni. Il sovraccarico di lavoro si dovrebbe evitare, consentendo alla vittima un recupero graduale; si dovrebbe evitare, inoltre, il cambiamento delle mansioni che aveva precedentemente e l’isolamento sociale, assicurando un posto di lavoro in cui possa giovare di supporto sociale e di relazioni interpersonali proficue. Ogni decisione aziendale dev’essere ufficializzata, in modo tale che non si instauri nelle vittime la percezione di ingiustizia organizzativa e la paura che venga fatto qualcosa alle loro spalle. Se, come per Marco, non è più disponibile la precedente posizione lavorativa della vittima, sarebbe opportuno trovarne una alternativa a tutti i costi; se neanche quest’ultima fosse reperibile, si dovrebbe preventivamente provvedere a un outplacement in tempi piuttosto brevi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Io non mi adeguo! Fenomenologia del Whistleblower

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Esperienze del dolore (2014) di D. Le Breton – Il significato della sofferenza e la sua utilità – Recensione

Esperienze del dolore, un libro che illustra i significati della sofferenza fisica e del perchè spesso provare dolore è un bene.

La felicità è benefica per il corpo, ma è il dolore che sviluppa i poteri della mente. (Marcel Proust)

David Le Breton, sociologo e antropologo all’università di Strasburgo, torna a parlare di dolore, dopo Antropologia del dolore (1995), dove affrontava il tema da un punto di vista culturale e sociale. In questa nuova opera le diverse dimensioni del dolore sono presentate secondo un’ottica più cognitiva ed emotiva.

Nell’introduzione del saggio Le Breton stesso spiega perchè è importante parlare di dolore: un’esperienza fondamentale del vivere umano, la cui assenza ci sarebbe fatale. Da Descartes in poi il dolore è stato considerato come qualcosa di fisico, mentre la sofferenza come attinente allo psichico – separando di fatto il corpo dalla mente – qualcosa con una causa specifica e da trattare secondo una terapia prestabilita, indipendentemente dalla persona che soffre e della sua storia di vita.

Questa visione è mutata grandemente nel corso del tempo e già a partire dagli anni Sessanta, scienziati come Melzack e Wall, con la Teoria del Cancello, riportano il dolore alla dimensione dell’esperienza, superando il dato neurofisiologico: il nostro apparato è costruito in modo tale da consentire di provare dolore nello stesso modo da persona a persona, ma come viene effettivamente percepito a livello individuale, è strettamente connesso all’esperienza di chi quel dolore lo prova e dal contesto culturale e sociale di riferimento. In virtù di questo, continua Le Breton, l’intervento per trattarlo, non può essere solo medico, ma deve attingere a tutte le discipline disponibili e fare riferimento alle risorse dell’individuo nella sua globalità.

L’opera, divisa in sette capitoli, affronta il tema da angolazioni differenti; il dolore nella sua valenza filosofica, come momento di cambiamento e trasformazione, il punto di vista culturale, da cui derivano i diversi modi di espressione e gestione dello stesso, a seconda dei contesti sociali di riferimento. Il dolore da un’ottica esistenziale, qualcosa a cui difficilmente siamo grati, ma tramite il quale ci sentiamo vivi. Il dolore nella sua accezione più atroce, quando è procurato per mezzo di una tortura fisica e morale, qualcosa a cui si può sopravvivere, ma da cui non sempre si riesce a guarire. Il dolore nella sua accezione più bella: quello provato dalla donna durante il parto e, in chiusura, il dolore che si sostituisce al piacere e diventa esso stesso piacere, quello procurato nelle pratiche sadomaso.

Ogni sezione suscita interesse e spunti di riflessione, ad esempio nel capitolo dedicato alla sofferenza fisica provocata e ricercata in quanto mezzo per oltrepassare i propri limiti e accedere a una coscienza modificata, l’autore porta l’esempio dell’attività sportiva: ciò che rende interessante una prova, non è semplicemente la voglia di eccellere, il record, ciò che affascina è la volontà di arrivare fino in fondo, vincendo il dolore e la voglia di mollare. L’atleta è colui che migliora la prestazione, spingendo l’intollerabile un po’ più in là, ogni volta.

Nella stessa sezione, viene citato il dolore delle pratiche mistiche per arrivare all’estasi o come rito di passaggio alle diverse età della vita, in voga ancora oggi tra alcuni popoli primitivi, arrivate fino a noi occidentali, seppur spogliate del valore simbolico, sotto forma di body art, l’arte della modificazione corporea,

Il dolore è indubbiamente un’esperienza fisica e al contempo emotiva, che produce pena e può essere associata a una lesione di un tessuto, ma è anche sensazione, emozione e percezione. Qualcosa che può essere un’occasione di crescita e miglioramento personale, anche a seguito di una malattia improvvisa.

E’ difficile contenere in una sola opera tutte le sfaccettature di un argomento così ricco di significati, implicazioni e rimandi sociali e culturali, ma Le Breton sembra riuscirci senza scadere nel didascalico e nozionistico.

Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita è un’opera utile, sia per chi si trova a lavorare nelle professioni di aiuto, sia per chi è coinvolto direttamente o indirettamente in questo tipo di esperienza, perchè siamo abituati a pensare al dolore come qualcosa di negativo, inutile e che ci fa star male, da sopprimere il più velocemente possibile. Le Breton, invece, ci mostra le finalità di questo sentire e l’importanza di cercare di capire come nasca, venga espresso e che impatto possa avere sulla vita umana, perchè l’accompagna sempre, per breve tempo o cronicamente. Dal dolore si può essere annientati o grazie al dolore ci si può salvare.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Dolore Cronico: il modello cognitivo stress-valutazione-coping

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Le Breton, D. (2014). Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita. Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA

Abuso psicologico? Grave quanto quello fisico e sessuale!

FLASH NEWS

L’abuso psicologico è meno affrontato di quello fisico e sessuale nei programmi di prevenzione e trattamento della violenza, ma un nuovo studio mette in evidenza come l’abuso psicologico e la trascuratezza (neglect) possano provocare gravi conseguenze sul piano della salute mentale infantile, a volte addirittura peggiori di quelle legate all’abuso fisico e sessuale.

I ricercatori hanno utilizzato il National Child Traumatic Stress Network Core Data Set per analizzare i dati provenienti da 5.616 giovani con storie di abuso: maltrattamento psicologico (abuso emotivo o trascuratezza emotiva), abusi fisici e abusi sessuali. I dati sono stati raccolti tra il 2004 e il 2010, e l’età media dei bambini all’inizio della raccolta dati era di 10-12 anni.

La maggioranza (62 %) aveva una storia di maltrattamento psicologico, e quasi un quarto (24 %) di tutti i casi di maltrattamento erano di tipo esclusivamente psicologico, che lo studio definisce come una forma di bullismo inflitto dal caregiver, che implica: il terrorizzare e l’esercitare un controllo coercitivo con ingiurie gravi, svilimento, minacce, richieste eccessive, evitamento e/o l’isolamento.

I bambini che hanno subito abuso psicologico soffrivano di ansia, depressione, bassa autostima, sintomi da stress post-traumatico e rischio suicidario in misura simile, e in alcuni casi peggiore, rispetto ai bambini fisicamente o sessualmente abusati. Inoltre tra i tre tipi di abuso, il maltrattamento psicologico è stato più fortemente associato con la depressione, il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo d’ansia sociale, problemi di attaccamento e l’abuso di sostanze.

Il maltrattamento psicologico, associato ad abuso fisico o sessuale, ha portato ad esiti negativi significativamente più gravi e di ampia portata rispetto a quando i bambini erano “solo” abusati sessualmente o fisicamente. Inoltre, gli abusi sessuali e fisici dovevano avvenire nello stesso periodo per generare lo stesso effetto del solo abuso psicologico su problemi comportamentali a scuola, problemi di attaccamento e comportamenti autolesivi.

Secondo il U.S. Children’s Bureau quasi 3 milioni di bambini americani sperimentano ogni anno una qualche forma di maltrattamento, prevalentemente da un genitore, un familiare o un altro adulto che si prende cura di loro. L’American Academy of Pediatrics nel 2012 ha identificato il maltrattamento psicologico come “la forma più grave e prevalente di abuso e trascuratezza del minore.”

Spiega Spinazzola:

“L’abuso psicologico non lascia segni riconoscibili sul corpo e per questo non è facile da identificare inoltre non è considerato un tabù sociale grave come gli abusi fisici e sessuali sui minori. Abbiamo bisogno di iniziative di sensibilizzazione per aiutare le persone a capire quanto sia dannoso il maltrattamento psicologico per i bambini e gli adolescenti”.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

PTSD, attivazione genetica & abuso infantile

 

BIBLIOGRAFIA:

Il godimento estetico, una questione di “empatia”!

“L’artista ha una visione profetica, vede in anticipo sul tempo e sullo spazio.”

A partire dalla fine del 19°secolo, i cosiddetti filosofi “empatisti” hanno sostenuto che la principale fonte di godimento estetico sia l’einfuhlung, ossia l’empatia con l’opera d’arte – nella convinzione che l’uomo sia un “animale empatico” – derivante da una sorta di risonanza simpatetica che il corpo è in grado di instaurare con l’immagine.

Lo stato fisico e psicologico del nostro corpo ha un ruolo fondamentale nel nostro pensare, sentire e percepire.

La questione di come l’arte possa creare un senso di appeal estetico ha interessato gli psicologi, i filosofi e in generale gli intellettuali di ogni epoca, in particolar modo in seguito alle teorie di Theodor Lipps e Robert Visher.

Nel mondo delle arti visive è infatti abbastanza comune credere che le caratteristiche percettive di un dipinto (forma, colore, movimento) determinino piacere estetico; già Leon Battista Alberti nel De Pictura notava la particolare predisposizione dell’animo umano all’immedesimazione in quanto si osserva nel dipinto.

Tuttavia, a partire dalla fine del 19°secolo, i cosiddetti filosofi “empatisti” hanno sostenuto che la principale fonte di godimento estetico sia l’einfuhlung, ossia l’empatia con l’opera d’arte – nella convinzione che l’uomo sia un “animale empatico” – derivante da una sorta di risonanza simpatetica che il corpo è in grado di instaurare con l’immagine.

Nel 2007,  grazie ai progressi della moderna neuroscienza, David Freedberg, professore di Storia dell’Arte del Dipartimento di Storia dell’Arte e Archeologia della Columbia University di New York e Vittorio Gallese, neuroscienziato dell’Università di Parma, hanno dato una risposta scientifica alla relazione empatia-arte figurativa.

A seguito dei loro esperimenti sul sistema neuronale specchio, hanno concluso che nell’uomo anche l’osservazione di un’opera d’arte sia in grado di attivare il sistema motorio, data la sua abilità di attivazione dinanzi ad azioni finte, ambigue o mimate. Si può volgarmente parlare di “simulazione incarnata” dell’osservatore e, aggiungo, di una sorta di “empatia carnale”, ossia motoria.

In un secondo esperimento  del 2012 riguardante l’arte spazialista di Lucio Fontana, hanno potuto constatare che anche dinanzi a questa espressione informale, astratta ed insolita all’occhio, l’uomo sia in grado di attivare processi neuronali associati al modo in cui l’opera è stata prodotta e quindi alla gestualità dell’artista dell’opera; cosicché il piacere estetico deriva dalla risonanza del corpo dell’osservatore con i movimenti che il creatore ha eseguito durante la produzione e nel momento creativo. E in questo caso, la caratteristica più direttamente legata ai movimenti dell’artista è lo stile del dipinto, ossia il modo in cui esso è realizzato, il modo in cui i colori sono poggiati sulla tela.

Helmut Leder , Siegrun Bär e Sascha Topolinski, psicologi dell’Università di Vienna e di Wurzburg, hanno condotto un esperimento interessantissimo a questo proposito, pubblicato l’8 novembre del 2012 con il titolo “Covert painting Simulations influence aesthetic appreciation of artworks” sulla rivista Psychological Science: presso l’Università di Vienna hanno posto 114 studenti davanti ai quadri di Van Gogh e di alcuni noti impressionisti e controllato i movimenti inconsci e apparenti delle mani, poste dinanzi ad un foglio di carta. Gli studenti si sono inconsapevolmente rispecchiati nei dipinti osservati e anche le loro mani hanno mostrato la loro risonanza: chi è entrato in empatia motoria con la Vista su Arles di Van Gogh ha riprodotto il suo pennellato tratteggiato, chi con la Marie Honfleur di George Seurat, il pennellato puntinista.

Non solo, chi ha prodotto i tratti ed è quindi entrato in empatia col primo stile, ha detto di preferire esso, e quindi si è dimostrato che anche il piacere estetico, l’indice di gradimento di un’ opera, derivi dal grado di risonanza carnale dell’osservante. Quei partecipanti che avevano prodotto movimenti di punteggiatura hanno mostrato un apprezzamento maggiore nei confronti delle opere di Seurat, coloro che hanno imitato le pennellate hanno apprezzato maggiormente le opere di stile tratteggiato.

La percezione di uno stile pittorico suscita quindi movimenti della mano che concordano con quelli del pittore secondo delle simulazioni.

La conclusione che ne scaturisce è che un qualsiasi osservatore è in grado di entrare in empatia con l’artista di ogni tempo e di ogni luogo.

In che modo? Riproducendo a livello cerebrale gli stessi circuiti neurali che si sono attivati nell’artista a lavoro.

La risonanza del corpo di uno spettatore con lo stile di un pittore è, dunque, una sorgente di godimento estetico. Persino un’ artista assente, quindi una figura non presente fisicamente, “smaterializzata” è in grado di influenzare il comportamento dell’uomo.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Verso la neuroestetica: le premesse filosofico-psicologiche

La Terapia Metacognitiva Interpersonale per i pazienti con disturbo di personalità con disregolazione emotiva – Congresso SITCC 2014

SCARICA IL PROGRAMMA DEL CONGRESSO

PROCEDURE PER L'INTERVENTO STEP BY STEP PER I PAZIENTI CON DISTURBO DI PERSONALITA' CON DISREGOLAZIONE EMOTIVA: LA TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALELa Terapia Metacognitiva Interpersonale appartiene all’ultima generazione delle psicoterapie cognitive sviluppate negli ultimi vent’anni ed è volta alla cura dei pazienti con disturbi di personalità (Dimaggio et Al., 2013).

Se con i pazienti coartati/inibiti la terapia viene impostata a partire dalla formulazione condivisa del funzionamento del soggetto per poi arrivare alla promozione del cambiamento, con i pazienti che presentano disregolazione emotiva in associazione a disintegrazione – quindi caratterizzati da stati dissociativi, caoticità ed ipercoinvolgimento relazionale, disorganizzazione narrativa, comportamenti suicidari e parasuicidari, impulsività e iperespressività, ansia, somatizzazione – il focus iniziale deve essere posto proprio sulla disregolazione emotiva e la disintegrazione (che si alimentano a vicenda) con l’obbiettivo di ridurre l’arousal. 

 

Gli interventi sulla disregolazione emotiva comprendono:

 – la farmacoterapia

la disciplina interiore, tenendo bene a mente che anche le caratteristiche del terapeuta giocano un ruolo: funzionano bene terapeuti che stabiliscono confini forti, che mostrano uno spirito avventuroso, orientamento all’azione, che hanno un buon senso dell’umorismo e sono irriverenti (Rosenkranz & Morrison, 1994. Gunderson, 2008. Linehan, 1993)

– la psicoeducazione con soothing alla base dell’intervento, in cui si effettuano interventi di rassicurazione prospettica (“tra poco starà meglio”) monitorando se il paziente è in grado di calare la propria esperienza in uno scenario narrativo

– la validazione emotiva

– la negoziazione del contratto (Linehan, 1993)

Gli interventi sulla disfunzione dell’integrazione includono:

– procedure di gestione basate sul contatto con il terapeuta per favorirne la rappresentazione integrata

– interventi diretti sull’integrazione

– riparazione delle rottutìre

Una volta risolte le problematiche relative alla disregolazione emotiva e alla disintegrazione è possibile passare alla formulazione del caso e promuovere nel paziente in una seconda fase della terapia strategie autonome.

 

LEGGI ANCHE:

Congresso SITCC 2014

SITCC 2012

 

BIBLIOGRAFIA:

La Terapia centrata sul Transfert per il Disturbo Borderline di Personalità – TFP Parma 2014

Si è conclusa a Parma la terza edizione della conferenza promossa dalla Società internazionale di Terapia Centrata sul Transfert (TFP), una forma di psicoterapia psicodinamica adattata in particolare al trattamento delle condizioni borderline.

Sono intervenuti a discutere gli aspetti più attuali di clinica e ricerca alcuni tra i maggiori esponenti internazionali dell’approccio TFP tra cui il prof. Otto Kernberg, presidente della Società.

Moltissime le tematiche di discussione, con un’attenzione in particolare alle seguenti: il trattamento del disturbo borderline, la tematica della sessualità e di come questa possa influenzare la relazione terapeutica, l’adattamento delle pratiche TFP standard al lavoro con bambini e adolescenti.

La giornata congressuale è stata preceduta da due Workshop introduttivi, uno dei quali condotto dal Prof. Frank Yoemans e incentrato sul trattamento dei disturbi gravi di personalità, in particolare il disturbo borderline.

Il relatore ha presentato la teoria alla base della TFP e introdotto alcune delle relative tecniche; si è partiti dall’assunto che la TFP ha come scopo principale e a lungo termine non tanto la stabilizzazione dei sintomi quanto una profonda modifica strutturale del carattere, in quanto l’evidenza empirica sembra dimostrare che il sollievo sintomatologico è diretta conseguenza del cambiamento nella struttura di personalità, e non viceversa.

Ma come si manifesta, e si può quindi misurare, il cambiamento in psicoterapia? Le tre principali aree di valutazione da parte del clinico sono il miglior funzionamento (e quindi una maggiore integrazione dell’identità) in area lavorativa, sessuale e relazionale/ sociale.

 

Premessa indispensabile al trattamento è chiaramente la valutazione della struttura di personalità di partenza, e gli elementi chiave che vengono presi in considerazione dall’analista sono l’integrazione dell’identità (coerenza nel senso di sé e degli altri), le difese maggiormente utilizzate, l’esame di realtà, la qualità delle relazioni oggettuali, il funzionamento morale.

La valutazione del grado di compromissione di questi aspetti danno una misura del livello di gravità della patologia, e permette di collocare il paziente su un scala che vede nell’ordine la personalità normale, quella nevrotica, poi quella con organizzazione borderline e infine quella con organizzazione psicotica.

Grande enfasi è stata data alla raccomandazione di non ignorare in terapia gli aspetti transferali e controtransferali che a volte vengono difensivamente sottovalutati o trascurati dal terapeuta e che rischiano invece poi di controllare l’andamento della seduta, soprattutto se connotati da aggressività; da qui l’importanza di non focalizzarsi tanto su quello che il paziente dice ma su come lo dice, che può fornire più informazioni sulla sua sfera affettiva e motivazionale.

Per chiarire questo punto il Prof. Yoemans ha spesso riportato alcuni interessanti esempi legati alla propria attività clinica, raccontando ad esempio di quando una sua paziente, per il fatto che il marito si era dimenticato di farle gli auguri di compleanno, ha afferrato un televisore e glielo ha scagliato contro, senza minimamente considerare questo un atteggiamento aggressivo, bensì la logica e unica reazione possibile a una simile negligenza da parte del partner.

Compito del terapeuta, in un caso simile, è aiutare il paziente a riconoscere come i propri vissuti negativi vengano proiettati sugli altri (spesso anche sul terapeuta) e finiscano per innescare reazioni disregolate e slegate dalla realtà (anche se supportate dalla logica, spesso ineccepibile, che sottende il ragionamento, di fatto bizzarro, dei pazienti borderline).

Questo riflette la grande attenzione dell’approccio TFP per il qui ed ora; non voli pindarici di stampo analitico classico sulle esperienze infantili con genitori incompetenti, bensì osservazione e interpretazione sistematica di quello che accade in seduta tra terapeuta e paziente, e che di per sé riattiva la rappresentazione interna delle relazioni passate e il modo in cui queste si replicano nelle relazioni attuali.

Si tratta di un approccio potenzialmente utile anche con pazienti dotati di scarsa mentalità psicologica, perché non indaga con il binocolo vissuti relativi a rapporti squalificanti ma lontani nel tempo, bensì si concentra, ad esempio, sul perché il paziente si alteri se il terapeuta ha guardato l’orologio. In questo consiste la chiarificazione, ossia dare un nome ben preciso a quello che sta succedendo tra paziente e terapeuta nel momento presente.

 

Ciò non toglie che il terapeuta debba monitorare il fatto che non sempre vengono proiettati solo i vissuti negativi, con conseguente aggressività e svalutazione da parte del paziente; può anche succedere il contrario, ossia che il paziente proietti sul terapeuta il polo più positivo e idealizzato delle proprie relazioni oggettuali interne, con conseguente idealizzazione irrealistica del terapeuta e delle terapia, il che è altrettanto pericoloso, perché indebolisce la relazione terapeutica tanto quanto gli acting aggressivi.

Rispetto a questo punto, il Prof. Yoemans invita a effettuare in maniera particolarmente scrupolosa sia la fase di assessment che quella del contratto terapeutico: potersi ricondurre sistematicamente ad un contratto ben definito e concordato permette di fugare false convinzioni e aspettative magiche, ma soprattutto permette di pretendere un vero coinvolgimento del paziente nel lavoro terapeutico.

“Qual è il problema? Da quanto dura? Cosa si aspetta che io possa fare per lei? Cosa si aspetta dal trattamento?” Sono tutte domande indispensabili prima di passare all’intervento vero e proprio.

In questo modo il contratto fornisce a paziente e terapeuta una comprensione comune del problema, definisce le reciproche responsabilità, permette al terapeuta di ragionare lucidamente e di interpretare eventuali deviazioni del paziente dagli accordi. Spesso infatti il contratto viene “testato” dai pazienti, sia nel tentativo di controllare il terapeuta si allo scopo di valutare quanto e se il terapeuta “ci tiene davvero” al rispetto delle regole.

Il relatore ha poi illustrato alcune strategie utilizzate, tra cui il fatto di individuare ogni volta la relazione oggettuale dominante in seduta per aiutare il paziente a gestire il caos del proprio mondo interno, osservare e interpretare i suoi “cambiamenti di ruolo” (ad esempio da vittima a persecutore) e promuovere la sua capacità di distinguere tra il tranfert e le esperienze relazionali reali, affinché possa generalizzare la consapevolezza maturata in terapia alle relazioni interpersonali fuori dallo studio.

Le tecniche utilizzate sono l’utilizzo della consapevolezza del tranfert, un continuo processo interpretativo (chiarificazione, confrontazione, interpretazione, aumento della mentalizzazione) l’analisi delle distorsioni relazionali.

In particolare la confrontazione consiste nel chiedere chiarimenti al paziente in merito ad eventuali contraddizioni tra la comunicazione verbale e quella non verbale; l’interpretazione ha invece come scopo quello di integrare aspetti dissociati dell’esperienza, sostituire le difese primitive, risolvere la diffusione dell’identità, promuovere la capacità di autoriflessione.

Infine, un accenno alla tematica della neutralità del terapeuta, che non significa né distanza né indifferenza, bensì il non schierarsi dalla parte di nessuna delle forze che muovono il conflitto interno del paziente, siano esse ad esempio forze primitivo/aggressive oppure repressive.

Come terapeuti siamo invitati a non dimenticare che il conflitto non è mai tra noi e il paziente, neanche quando questo ci scaglia contro tutti gli oggetti alla sua portata, insultandoci con violenza; il conflitto è sempre interno al paziente, ma può talvolta essere proiettato sulla terapia e sul terapeuta in quanto, da quelli, il paziente sa che in qualche modo, eventualmente, può scappare.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

In Studio con Otto Kernberg: l’importanza centrale del transfert 

 

BIBLIOGRAFIA:

Relazioni familiari positive riducono il rischio di contrarre l’HIV in giovani gay e bisessuali

FLASH NEWS

Relazioni familiari fondate sullo scambio, sulla fiducia e sull’astinenza da giudizi morali da parte dei familiari riduce il rischio di comportamenti sessuali ad alto rischio e di conseguenza riduce il rischio di contrarre l’HIV.

Lo studio della Rutgers School of Social Work ha indagato il ruolo di relazioni sicure all’interno del contesto familiare nell’influenzare il rischio di comportamenti sessuali ad alto rischio da parte di giovani omosessuali e bisessuali. Relazioni familiari fondate sullo scambio, sulla fiducia e sull’astinenza da giudizi morali da parte dei familiari riduce il rischio di comportamenti sessuali ad alto rischio e di conseguenza riduce il rischio di contrarre l’HIV.

Lo studio coinvolge 38 omosessuali e bisessuali maschi tra i 14 e 21 anni, i genitori o tutori legali dei soggetti coinvolti vivono nelle aree metropolitane del New Jersey, di New York, di Washington e di Philadelphia.

Gli autori attraverso alcune interviste rilevarono la consapevolezza da parte dei soggetti coinvolti rispetto alla qualità delle relazioni familiari, le conoscenze rispetto al tema dell’HIV e l’eventuale influenza delle relazioni parentali sulle decisioni relative ai comportamenti sessuali. Ai genitori è stato chiesto di descrivere la relazione con i loro figli, la loro conoscenza circa l’HIV e di valutare la loro influenza sui comportamenti a rischio dei loro figli.

Lo studio rileva che l’accettazione da parte dei genitori dell’orientamento sessuale dei propri figli, e l’apertura al dialogo tra i genitori e i propri figli espone i giovani omosessuali e bisessuali a minor rischio di adottare comportamenti sessuali ad alto rischio. Al contrario giovani omosessuali e bisessuali che non hanno sperimentato relazioni di vicinanza con le proprie famiglie dichiarano di aver adottato comportamenti sessuali ad alto rischio durante l’anno precedente, aumentando il rischio di contrarre l’HIV.

L’ambiente familiare protettivo porta il giovane omosessuale e bisessuale a proteggere sé stesso da comportamenti sessuali ad alto rischio. Le famiglie invece che instauravano una relazione di chiusura al dialogo all’interno della propria relazione con i propri figli, non rappresentavano una fonte di sicurezza per i propri figli.

Gli autori consigliano il supporto di terapeuti e assistenti sociali per aiutare le famiglie ad instaurare una relazione fondata sul dialogo, sull’accettazione dell’orientamento sessuale dei propri figli e su un modello informativo-educativo che possa fornire informazioni sull’argomento, in modo da proteggere i propri da comportamenti sessuali ad alto rischio che potrebbero inficiare la loro salute.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Recensione: Rigliano, Ciliberto e Ferrari (2012) – Curare i Gay?

BIBLIOGRAFIA:

La Transference Focused Psychotherapy per il trattamento di pazienti adolescenti con disturbo borderline – Report dal Congresso di Parma

L’adattamento della TFP al trattamento degli adolescenti si pone come primo obiettivo la graduale acquisizione di autonomia dalle figure di riferimento, sia promuovendo un senso di sé distinto e individuale, sia riducendo il bisogno psicologico di approvazione, di modo che il paziente assuma via via su di sé il compito di  regolare autonomamente la propria autostima.

Nella terza giornata della conferenza ISTFP, la professoressa Lina Normandin, dell’Università Laval in Canada, ha presentato la sua proposta di adattamento della TFP al trattamento degli adolescenti.

Apre il suo intervento sfatando il mito dell’adolescenza come periodo di “sturm und drang” a tutti i costi, sottolineando come in molti casi l’adolescenza sia sì un periodo turbolento di profondi cambiamenti, ma che possa essere connotata anche dalla presenza di una rappresentazione coerente e stabile di sé e degli altri, dalla capacità di esplorare divertendosi e di inaugurare le prime relazioni sessuali ed affettive in maniera funzionale.

Per gli adolescenti con disturbo borderline di personalità, invece, l’adolescenza può essere davvero un periodo disastroso, dove le fragilità pre-esistenti e la predisposizione alla diffusione dell’identità si slatentizzano definitivamente.

L’adattamento della TFP al trattamento degli adolescenti si pone come primo obiettivo la graduale acquisizione di autonomia dalle figure di riferimento, sia promuovendo un senso di sé distinto e individuale, sia riducendo il bisogno psicologico di approvazione, di modo che il paziente assuma via via su di sé il compito di  regolare autonomamente la propria autostima.

Nel mettere in atto queste manovre psicoterapeutiche è bene sempre tener presenti alcune peculiarità neurobiologiche che caratterizzano il periodo adolescenziale, come ad esempio il fatto che gli adolescenti sono capaci di un sofisticato pensiero astratto, ma non quando l’affettività risulta particolarmente attivata (la corteccia prefrontale matura più lentamente rispetto al sistema limbico); il comportamento adolescenziale è infatti caratterizzato dal delicato equilibrio tra il sistema di ricompensa (limbico) e i processi di controllo (corteccia pre-frontale).

Quali implicazioni quindi  per il terapeuta TFP? Gli imperativi terapeutici con gli adolescenti risultano essere:

–  promuovere e supportare il processo di individuazione-separazione

– proteggere il delicato narcisismo fisiologico

– rinforzare le strategie spontanee adattive

– contenere l’impulsività

 

Con gli adolescenti in particolare si ripropone l’imperativo di condurre l’assessment in maniera quanto più possibile accurata, accompagnato da un’indagine puntuale delle rappresentazioni di sé e degli altri attraverso domande come “ Chi sei tu? Come sei? Chi sono gli altri e come sono? Chi sono io e come sono?”

Quest’ultimo aspetto introduce la messa in gioco del terapeuta in prima persona nell’indagine di come il paziente adolescente si rappresenti l’altro e le relazioni interpersonali.

La “Personality Assessment Interview” ha tra le sue finalità appunto quella di indagare nel dettaglio la rappresentazione che l’adolescente ha della relazione terapeutica, con domande di questo tipo:

– Che cosa ti è stato detto dell’incontro che avresti avuto con me?

– Adesso che siamo stati un po’ insieme, come ti sembra rispetto alla tua impressione iniziale?

– Adesso che siamo stati insieme (x) minuti, come ti aspetti che sarà il resto della seduta?

– Che cosa hai imparato rispetto a te stesso, e rispetto a me, e cosa credi che abbia imparato io?

– Come pensi che si concluderà il nostro incontro?

 

Anche la fase del contratto riveste un’importanza fondamentale e deve porsi come obiettivi prioritari il mantenimento delle condizioni di sicurezza e riservatezza e la tolleranza dell’impulsività e della ricerca di gratificazione tipicamente adolescenziali. Ovviamente, prioritaria è la gestione delle problematiche particolarmente urgenti quali gli atteggiamenti suicidari, l’abuso di droghe, i comportamenti autolesivi, il perseguimento di vantaggi secondari.

Il coinvolgimento dei genitori viene sempre concordato con il paziente e si attua spiegando loro le caratteristiche del trattamento e le loro responsabilità, informandoli dei progressi e ascoltando le loro preoccupazioni, supportandoli nell’esercizio della propria autorità genitoriale.

Anche nel rapporto con i pazienti adolescenti, le reazioni controtransferali hanno un potente significato clinico; le reazioni del terapeuta possono infatti essere analizzate come prototipo delle reazioni degli altri al comportamento del paziente.

Ad esempio atteggiamenti esibizionisti o dominanti possono avere lo scopo di ridurre la paranoia, ma ottengono come effetto un aumento della distanza dagli altri, che non necessariamente sono disposti a tollerare determinati atteggiamenti.

Questo chiaramente finisce per penalizzare la socializzazione, che è proprio uno dei principali compiti evolutivi del paziente adolescente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

OTTO KERNBERG: LA SESSUALITÀ NEL TRANSFERT – REPORT DAL CONGRESSO DI PARMA

Frank Yeomans: Lectio sulla Transference Focused Psychoterapy

Neuroinvasione del Virus dell’Epatite C (HCV) e Deterioramento Neuropsicologico Trattamento con Psicoterapie di Terza Generazione (DBT) – Congresso SITCC 2014

Neuroinvasione del Virus dell’Epatite C (HCV) e Deterioramento Neuropsicologico

Trattamento con Psicoterapie di Terza Generazione (DBT)

Congresso SITCC 2014 Genova

Silvana Zito, Psicologa, Specializzanda SPC, Reggio Calabria ([email protected])

Giuseppe Mercurio, Studente – Università Vita-Salute San Raffaele – Milano

Simona Mercurio, Dott.ssa in Medicina e Chirurgia – Università Campus Bio-Medico, Roma

 

SCARICA IL PROGRAMMA DEL CONGRESSO

Per comprendere la sofferenza psicologica di questi pazienti è necessario differenziare i sintomi presenti nello stato avanzato di malattia, correlati a grave disfunzione epatica, rispetto allo stato iniziale di malattia, a cui non è stata ancora pienamente attribuita un’eziologia.

Il presente lavoro nasce con l’obiettivo di mettere in luce la sofferenza psicopatologica nei pazienti affetti da epatite cronica causata dal virus dell’Epatite C (HCV).

Per comprendere la sofferenza psicologica di questi pazienti è necessario differenziare i sintomi presenti nello stato avanzato di malattia, correlati a grave disfunzione epatica, rispetto allo stato iniziale di malattia, a cui non è stata ancora pienamente attribuita un’eziologia.

Esaminando le fonti a sostegno dell’idea che i disturbi neuropsicologici presenti nella fase iniziale della malattia siano causa di un effetto biologico del virus, è stato ipotizzato il meccanismo a “cavallo di Troia”, con il quale il virus supera la barriera ematoencefalica e invade il sistema nervoso determinando uno stato infiammatorio. Questo induce l’interazione di diversi sistemi quali: endocrino, cerebrale e immunitario e determina disfunzioni neuro-psicopatologiche.

Si aggiungono inoltre gli effetti indesiderati del trattamento farmacologico indicato per la malattia, nonché lo stigma sociale associato al rischio di contagio che induce il paziente in uno stato di isolamento sociale.

La condizione descritta elicita nel paziente risposte somatiche, cognitive ed emotive e il corteo sintomatologico a carattere neuro-psicopatologico può avere effetto sul deterioramento della qualità della vita.

In Italia l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) stima 1,5 milioni di persone infette dal virus HCV; di fronte a tali dati è necessario pensare a possibili interventi di cura e prevenzione anche riguardo alla sofferenza psicologica.

Un intervento proficuo potrebbe essere la Terapia Dialettico Comportamentale (DBT) che si colloca tra le “terapie di terza generazione”. Essa è una terapia evidence-based originariamente pensata e concettualizzata negli anni ‘70 da Marsha Linehan, a partire dal Modello Cognitivo-Comportamentale Classico.

Le tecniche utilizzate sono prevalentemente di derivazione comportamentista e si focalizzano sul cambiamento del comportamento. Si riavvisa quindi, un ri-adattamento per questa popolazione, proponendo in primis una fase di accettazione (mindfulness), al fine di intervenire sull’esperienza emotiva e la sofferenza del paziente che ha un sentimento di impotenza intenso e doloroso.

 

LEGGI ANCHE:

Congresso SITCC 2014

SITCC 2012

 

BIBLIOGRAFIA:

Lucy: utilizziamo davvero solo il 10% del nostro cervello? – Recensione

Lucy (2014) di Luc Besson 

“Si ritiene che noi usiamo solo il 10% delle nostre capacità cerebrali, ma, se ci fosse un modo di utilizzare il 100% del nostro cervello, cosa saremmo in grado di fare?” Così il professor Norman (Morgan Freeman) spiega la sua tesi ai suoi studenti.

Lucy (Scarlett Johansson), una studentessa che studia a Taipei, viene obbligata dal suo ragazzo a consegnare una valigetta a un gruppo di criminali, e poi da loro viene rapita. Nell’addome le viene inserito uno dei sacchetti di droga (una nuova droga) contenuti nella valigetta, che successivamente si romperà a causa di un violento pestaggio che Lucy subisce dai malavitosi. Il prodotto chimico viene assorbito dal suo corpo, permettendole di accedere al 100% delle proprie capacità mentali. Ciò la rende capace di fare ragionamenti che nessuno è in grado di fare, di sapere ogni cosa, di sentire tutto, di controllare tutto ciò che la circonda e tanto altro.

Film di grande successo in Italia e altrove, è ultimamente sulla bocca di tutti; in pochi sanno però che esso si basa su un falso mito. Non è vero che usiamo soltanto il 10% della potenza del nostro cervello. Si tratta di una credenza popolare molto diffusa e ampiamente fomentata da vari film, libri, pubblicità ecc. In realtà, usiamo tutto il nostro cervello e non soltanto una piccola parte (tranne nei casi in cui ovviamente delle malattie o dei danni cerebrali hanno colpito alcune aree rendendole inutilizzabili); il nostro cervello è continuamente, e interamente, attivo, persino quando dormiamo.

Non si sa con certezza come e quando abbia avuto origine il mito. Si pensa che William James, nel suo libro del 1908 intitolato “The Energies of Men”, scrisse “Stiamo facendo uso di solo una piccola parte delle nostre possibili risorse mentali e fisiche” (Wang, 2009). Successivamente, nel 1936, il giornalista Lowel Thomas avrebbe citato erroneamente lo psicologo americano (in una prefazione al libro di Dale Carnegie intitolato “How to Win Friends and Influence People”), affermando che James avesse detto: “una persona media sviluppa solo il 10% delle sue latenti capacità mentali”. Da allora, sarebbe partita una catena di credenze che ha portato la gente a pensare che l’essere umano sarebbe capace di fare grandi cose se solo usasse tutte le capacità di cui è dotato. Altri persino attribuiscono la colpa ad Albert Einstein.

I neuroscienziati (ad esempio, Beyerstein, 1999) hanno fornito un elevato numero di prove che smentiscono la tesi secondo la quale non utilizziamo tutto il nostro cervello: le tecniche di neuroimaging hanno dimostrato che tutte le aree del cervello sono attive durante lo svolgimento di azioni di routine (come parlare, camminare, ecc.); se il mito del 10% fosse vero, se si verificasse un incidente a una parte del cervello non ci dovrebbero essere gravi conseguenze (in realtà ci sono e anche abbastanza evidenti); non avremmo sviluppato un cervello così grande se stessimo sviluppando soltanto una parte di esso; il cervello utilizza il 20% delle risorse energetiche del corpo, non avrebbe senso per il 10% del cervello utilizzare una così grande quantità di energia; ogni regione del cervello serve a qualcosa e ha determinate funzioni, e fino ad ora non sono state trovate aree inattive; infine vi è la prova delle malattie neurali: le cellule cerebrali che non vengono utilizzate hanno la tendenza a degenerare, quindi se il 90% del cervello fosse inattivo, le autopsie sul cervello adulto avrebbero rivelato una degenerazione su larga scala.

Nonostante ciò, molti continuano a farsi influenzare dai media e credono fermamente che l’uomo utilizzi soltanto il 10% delle sue capacità mentali, e ciò stimola necessariamente la produzione di false pillole che aumentano le capacità intellettive, di libri visionari che esaltano l’uomo a essere dotato di super poteri nascosti e di film come Lucy.

L’altro giorno un amico mi fa: “Lo sai che utilizziamo soltanto il 10% del nostro cervello?”.

E pensare che ha utilizzato il 100% del cervello per dire questa sciocchezza.

 

 Trailer:

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La psicoterapia può cambiare il cervello? – Neuroscienze

 

BIBLIOGRAFIA:

Fobia sociale: perfezionismo e ruminazione come predittori di ansia sociale e depressione

Alcuni fattori di personalità come il perfezionismo e la disregolazione emotiva sembrano essere implicati nel mantenimento dell’ ansia sociale.

La fobia sociale è un disturbo d’ansia caratterizzato da ansia significativa indotta dall’esposizione a determinate situazioni interpersonali o prestazionali in pubblico (come parlare o mangiare insieme ad altre persone, firmare un documento davanti a degli osservatori, utilizzare un bagno pubblico, conoscere nuove persone, esprimere la propria opinione in gruppo, prendere la parola in una riunione), spesso associata ad evitamento di situazioni, comportamenti, luoghi, contesti, persone che possono elicitare le situazioni temute. La sua caratteristica principale è la paura di essere criticati dagli altri durante azioni o compiti di vario genere o essere soggetti alla valutazione di altre persone. Le persone con fobia sociale temono che le loro prestazioni o azioni appariranno agli occhi degli altri inadeguate e/o ridicole. Il concetto di paura del giudizio altrui è l’aspetto centrale della fobia sociale, oltre ad essere considerato fondamentale anche nell’eziologia e nel mantenimento del disturbo (Clark, Wells, 1995).

La fobia sociale, spesso, si accompagna ad altri disturbi come la depressione e la dipendenza da sostanze (Kessler, Stang, Wittchen, Stein, Walters, 1999). Le persone con fobia sociale tendono ad abusare di sostanze o di alcool per fini autoterapeutici: infatti, grazie alla loro azione “disinibente”, queste sostanze aiutano ad alleviare l’ansia che origina dal confronto con le situazioni temute. I soggetti che soffrono di Fobia Sociale presentano una significativa disfunzione sociale e professionale e scarsa qualità della vita (Fresco, Erwin,  Heimberg, Turk, 2000).

I modelli cognitivi comportamentali che cercano di spiegare l’origine e il mantenimento della Fobia Sociale evidenziano il ruolo dell’ansia anticipatoria (generata da preoccupazioni, pensieri, ricordi, immagini, aspettative, conseguenze catastrofiche fantasticate prima di esporsi alla situazione temuta, come la possibilità di essere criticati dagli altri o giudicati negativamente in una determinata situazione sociale), dell’attenzione focalizzata e della valutazione a posteriori dell’evento (PEP) che riguarda sia la valutazione dei comportamenti tenuti al termine della performance, sia delle emozioni, dei pensieri, e dei ricordi esperiti, nonché il giudizio relativo alla propria performance e alle sue future conseguenze su di sé e sul proprio futuro (Clark e Wells, 1995; Rapee, Heimberg, 1997)

Alcuni fattori di personalità come il perfezionismo e la disregolazione emotiva sembrano anch’essi implicati nel mantenimento della ansia sociale (Juster, Heimberg, Frost, Holt, Mattia, Faccenda, 1996; Kashdan,  Breen, 2008).

Il perfezionismo è definito come il desiderio di raggiungere i più alti standard prestazionali e presenta la tendenza ad una eccessiva autocritica (Frost, Marten, Lahart, Rosenblate, 1990). Il perfezionismo è stato concepito come un costrutto multidimensionale da Frost e colleghi che ne rilevano 6 dimensioni: : 1) eccessiva preoccupazione di commettere errori (CM), 2) dubbi sulle azioni (DA), 3) critiche genitoriali (PC) e 4) aspettative dei genitori (PE), 5) bisogno eccessivo di organizzazione (O), 6) elevati standard personali (PS). (Frost, Marten, Lahart, Rosenblate, 1990; Hewitt, Flett, 1991). I pazienti con Fobia Sociale mostrano elevati punteggi di perfezionismo disadattivo, che comprende l’eccessiva preoccupazione di commettere errori (CM), il dubbio riguardo l’azione, gli alti standard personali e l’alto criticismo genitoriale (PC) (Juster, Heimberg, Frost, Holt, Mattia, Faccenda, 1996; Antony, Purdon, Huta, Swinson, 1998; Kumari, Sudhir, Mariamma, 2012; Rosser, Issakidis, Peters, 2003).

Il perfezionismo sembra essere un importante fattore di mantenimento sia di “negative affect” (uno stato emotivo negativo o affetto negativo) che si esprime con umore ansioso e depresso (o disforico), che di ansia anticipatoria (Clark e Wells, 1995).

La ruminazione è un insieme di pensieri ripetuti e ripetitivi sul proprio stato d’animo negativo che impedisce il comportamento attivo e quindi la ricerca di una soluzione. La ruminazione viene attivata in risposta a flessioni dell’umore e produce un prolungamento e aggravamento della sintomatologia disforica. In sintesi, si tratta di una catena di pensieri e quesiti generici e astratti che una persona inizia a porre a se stessa in risposta a uno stato emotivo negativo. Un esempio può essere: «Perché succede a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo? Perché non riesco a dare un senso a quello che mi succede?». In questo senso la ruminazione è stata concettualizzata come una reazione cognitiva che tende a perseverare e aggravare l’umore depresso. I modelli cognitivi della Fobia Sociale evidenziano anche la tendenza a rimuginare sui pensieri che derivano dal giudizio di fallimento prestazionale auto attribuitosi dopo l’esperienza sociale (Clark e Wells, 1995).

La valutazione a posteriori dell’ evento è stata associata a livelli più elevati di ansia sociale (Abbott, Rapee, 2004) e si distingue dalla ruminazione per il fatto che si sofferma sul fallimento prestazionale piuttosto che sui sintomi depressivi (Kocovski, Rector, 2007). La ruminazione è simile, ma non combacia neanche con il rimuginio. Il rimuginio o preoccupazione (“worry”) è definito come una concatenazione di pensieri e immagini relativamente incontrollabili e attivati dall’individuo allo scopo di prevedere o prevenire eventi negativi in condizioni di incertezza (Borkovec, 1994). Nonostante aspetti comuni, il rimuginio risulta più fastidioso e orientato a prefigurare pericoli futuri mentre la ruminazione appare maggiormente duratura e orientata ad analizzare e comprendere le cause del proprio malessere (Papageorgiou e Wells, 2004; Watkins, Moulds e McIntosh, 2005). Mentre la ruminazione ha ricevuto grande attenzione dalla ricerca nello studio della depressione (Just, Alloy, 1997; Nolen-Hoeksema,  Morrow, Fredrickson, 1993) è stato studiato meno estesamente nel contesto dei disturbi d’ansia. Alcuni studi riportano che la ruminazione è prospetticamente associata con alti livelli di ansia (Nolen-Hoeksema, 2000) e di ansia sociale (Kocovski, Endler, Rector, Flett, 2005). La ruminazione, inoltre, sembra essere collegata al perfezionismo e sembrerebbe mediare la relazione tra perfezionismo e umore disforico (Harris, Pepper,  Maack, 2008).

La disregolazione emotiva è un fattore importante nella genesi e nel mantenimento dei disturbi dell’umore e  d’ansia (Campbell-Sills, Barlow, 2007) e nella Fobia Sociale in particolare (Kashdan, Breen, 2008). I pazienti con Fobia Sociale esprimono meno frequentemente le emozioni positive, prestano meno attenzione alle loro emozioni e hanno più difficoltà a descrivere le emozioni rispetto agli individui con disturbo d’ansia generalizzato e ai controlli (Turk, Heimberg, Luterek, Mennin, Fresco, 2005).

La regolazione cognitiva delle emozioni si riferisce alla capacità di modulare le proprie reazioni emotive attraverso un diverso modo di pensare, meno disfunzionale (Garnefski, Kraaij, Spinhoven, 2001). “Reappraisal” ovvero il “riesame” o la “rivalutazione” o la “riconsiderazione” è, in ambito clinico, un processo mentale cosciente che permette di modificare l’interpretazione che si dà ad uno stimolo emotivo, con l’obiettivo di ridurre il potenziale effetto stressante (Gross, 2002).  In psicoterapia, una forma “positiva” e “costruttiva” di reappraisal (positivo) può essere la cosiddetta “ristrutturazione cognitiva”, che permette di esaminare pensieri, emozioni e comportamenti legati a particolari eventi stressanti e di produrre una ‘nuova valutazione’ degli eventi stessi, che sia più funzionale e costruttiva agli scopi dell’individuo. Reappraisal può essere associato però anche ad “esiti negativi” laddove l’interpretazione degli eventi è sistematicamente orientata in senso negativo, accompagnata da una rigida e deficitaria valutazione degli aspetti cognitivi ed emotivi, tipica dei soggetti ansiosi e/o depressi. Reappraisal e  l’accettazione sono modulatori positivi nella regolazione delle emozioni (Aldao, Nolen-Hoeksema, Schweizer, 2010; Gross, 1998). Reappraisal, attraverso la generazione di interpretazioni positive di una situazione stressante, riduce lo stress, ed è associata ad una migliore salute psicologica, attraverso l’esperienza di emozioni positive, al miglioramento delle relazioni interpersonali, ad una migliore autostima e soddisfazione della qualità della vita. (Gross, 1998; Gross, John, 2003; John, Gross, 2004)

L’accettazione dell’esperienza si riferisce all’accoglimento non giudicante di ciò che si vive interiormente, senza l’assillo del controllo né della spiegazione (Garnefski, Kraaij, Spinhoven, 2001). L’accettazione è associata a miglioramento dell’umore (Campbell-Sills, Barlow,  Brown, Hofmann, 2006) ed è considerata una componente importante nella terapia cognitiva comportamentale di terza generazione, come ad esempio la Terapia cognitiva basata sulla mindfulness (MBCT) (Segal, Williams, Teasdale, 2002) e l’Acceptance and Commitment Therapy, in italiano “Terapia di accettazione e di impegno nell’azione (Hayes, Wilson, 2003).

Lo studio ha voluto esaminare la relazione tra perfezionismo, ruminazione, accettazione e reappraisal e valutare come tali dimensioni influenzino i livelli di ansia e depressione nei pazienti che soffrono di Fobia Sociale.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Ansia sociale: non tutto lo stress viene per nuocere

Condividere con gli altri momenti epici della propria vita può avere dei costi sociali

FLASH NEWS

Sarebbe bello poter condividere con gli altri le nostre straordinarie esperienze – quella volta che abbiamo scalato il Kilimanjaro, assaggiato un vino speciale o incontrato per strada un personaggio famoso. Tuttavia, alcuni studi dimostrano che comunicare agli altri questi momenti “epici” può avere dei costi a livello sociale.

Cooney e T. Gilbert dell’Harvard University e Timothy D. Wilson dell’University of Virginia, hanno condotto uno studio volto esattamente ad indagare le conseguenze profonde della condivisione di un vissuto personale fuori dal comune. L’idea nasce dalle sensazioni esperite dagli autori stessi, così diverse da quanto immaginato nel senso comune:

Pensiamo sempre che il fatto di aver vissuto un’esperienza straordinaria ci porrà al centro della conversazione e, in generale, al centro dell’attenzione. Ma non è così. Essere straordinari significa essere diversi dalle altre persone e, al contrario, l’interazione sociale si fonda sulle somiglianze e le cose in comune“.

Si potrebbe dunque ipotizzare che raccontare un tale genere di avvenimenti abbia più costi che benefici.

Per approfondire questo tema, Cooney e i suoi colleghi hanno invitato 68 partecipanti allo studio a recarsi in laboratorio e sono stati suddivisi in gruppi di quattro persone. A ciascuno di questi piccoli gruppi, veniva mostrato ad una persona un video che aveva ricevuto il massimo punteggio di gradimento (4 stelle) dai fruitori. In tale video si poteva osservare un artista di strada proporre eccezionali trucchi di magia ad un’ampia folla di osservatori. Ai restanti tre membri del gruppo veniva mostrato un video animato al quale era stato attribuito un punteggio di gradimento piuttosto basso (due stelle). I partecipanti erano consapevoli di quale tipologia di  video fosse stata assegnata loro e quale invece agli altri. Dopo aver visto i video, ai soggetti era richiesto di sedersi attorno ad un tavolo e instaurare una conversazione non strutturata che durasse all’incirca 5 minuti.

Dallo studio emerge che le persone che hanno visto il video con maggiore punteggio di gradimento, ovvero coloro che avevano vissuto una situazione più insolita e fuori dal comune, hanno sperimentato sensazioni peggiori rispetto agli altri nel contesto del dialogo di gruppo, in quanto si sarebbero sentiti esclusi.

Dati aggiuntivi suggeriscono che le esperienze straordinarie potrebbero suscitare sentimenti di frustrazione anche perchè il costo sociale di vivere un’esperienza diversa che separa dagli altri non viene in nessun modo anticipato. Infatti, ai partecipanti di due ulteriori studi in questo campo, veniva anche chiesto di immaginare come si sarebbero sentiti se fossero stati loro ad avere l’occasione di vedere un video differente da quello somministrato agli altri. Come previsto, essi hanno erroneamente affermato che si sarebbero sentiti meglio di coloro che avevano vissuto un’esperienza ordinaria. A ciò aggiungevano che sarebbero stati molto partecipi alla discussione avvenuta dopo, senza sentirsi in alcun modo esclusi.

Insomma, dai dati a disposizione emerge una generale tendenza a sentirsi esclusi nel momento in cui si cerca di condividere con gli altri un vissuto veramente fuori dal comune, e comunque non alla portata di tutti.

Sarebbe dunque importante scegliere bene il momento e le persone a cui si decide di raccontare le proprie esperienze straordinarie, per evitare di sentirsi esclusi e rimanere, di conseguenza, molto delusi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Perchè sentiamo l’istinto di narrare? Il potere della narrativa per la nostra mente

 

BIBLIOGRAFIA:

La Professione Psicologica: partecipa alla ricerca!

La Professione Psicologica

Università Bicocca Milano – Associazione Innovazione Sostenibile

 

Gentile collega,

il seguente questionario è stato realizzato allo scopo di approfondire alcuni aspetti riguardanti la professione psicologica. Più in generale, riteniamo importante svolgere una ricerca volta a conoscere i modi con cui gli psicologi e gli psicoterapeuti si rapportano alla propria utenza, promuovendosi e svolgendo la loro attività professionale anche tramite l’utilizzo di dispositivi web e social.
Il questionario intende raccogliere dei dati preliminari a questo scopo.

Nel compilare il questionario Le potrà capitare di notare come alcune domande si prestino a più interpretazioni, così come di non riconoscersi immediatamente in nessuna delle alternative proposte. In questi casi, Le chiediamo di “forzarsi” e dare comunque una risposta, sempre seguendo il Suo personale punto di vista.
Il tempo necessario alla compilazione è di circa 8-10 minuti.
Le Sue risposte saranno elaborate statisticamente solo in forma aggregata, in modo da garantire in maniera assoluta il Suo diritto alla riservatezza, alla non riconoscibilità e all’anonimato.

Grazie per la collaborazione.

Rossana Actis Grosso e Roberta Capellini – Università Bicocca di Milano
Elisabetta Di Girolamo e Marco Guidi – Associazione Innovazione Sostenibile

ARTICOLO CONSIGLIATO:

FARE LA SCUOLA DI PSICOTERAPIA CONVIENE? I RISULTATI DELL’INCHIESTA

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOLOGIA & PSICHIATRIA PUBBLICACYBERPSICOLOGIASOCIAL NETWORK

Corpo a “corpo spezzato”: l’embodiment del terapeuta in formazione con il paziente mieloso – Congresso SITCC 2014

Corpo a “corpo spezzato”

L’embodiment del terapeuta in formazione con il paziente mieloso

Congresso SITCC 2014

Sara Poggio

Psicologa specializzanda presso Scuola di Formazione in Psicoterapia Cognitiva, Centro Terapia Cognitiva, sede di Torino; Tirocinio di Specialità – SSA Psicologia (Dir. G. Montobbio; Tutor P. Valorio) – ASO SS Antonio e Biagio e C. Arrigo Alessandria

 

SCARICA IL PROGRAMMA DEL CONGRESSO

 

LEGGI ANCHE:

Congresso SITCC 2014

SITCC 2012

Otto Kernberg: La sessualità nel transfert – Report dal Congresso di Parma

Il Prof. Kernberg ha aperto la sua riflessione sulla sessualità nel transfert chiarendo come, per ragionare  sulla sessualità umana, occorra far riferimento non soltanto ai contributi in ambito psicoanalitico (in primis la cornice teorica data dalle intuizioni di Freud sulla costituzione della libido e dell’aggressività) bensì anche alle più recenti scoperte neurobiologiche, in particolare quelle legate agli studi sull’attaccamento.

VEDI DETTAGLI EVENTO: 3rd ISTP CONFERENCE – OCTOBER 13-15, 2014

La sessualità, per Kernberg, inizia a plasmarsi dai primissimi giorni di vita; la figura di attaccamento, accarezzando il bambino e mettendo in atto attività di cura fisicamente piacevoli, modella le prime esperienze erotiche del neonato, che prendono poi forma nell’idealizzazione del corpo materno da una parte, e nelle forme di aggressività contro di esso dall’altra.

Questi profondi stati dell’esperienza psichica saranno la base per il costituirsi di stati affettivi di natura positiva e negativa, che a loro volta porteranno al formarsi di relazioni oggettuali “buone” o “cattive”, la cui integrazione è presupposto indispensabile per un funzionamento psichico sano.

L’amore maturo costituisce la più alta e funzionale manifestazione della sessualità umana, mentre nelle sue distorsioni (come ad esempio nelle patologie narcisistiche) si possono individuare regressioni a meccanismi difensivi primitivi, che portano ad esempio alla svalutazione, sistematica e talvolta inconsapevole, dell’oggetto d’amore.

La capacità d’amare implica la capacità di entrare in relazione intima con l’altro, ecco perché la passione autentica prevede che ci sia un’integrazione di dimensioni apparentemente molto distanti tra di loro: attaccamento, erotismo, desiderio sessuale, intimità.

Una dimensione così pervasiva del funzionamento biologico e psicologico non può, secondo Kernberg, essere ignorata nelle riflessioni inerenti la relazione terapeutica.

Così come è fondamentale monitorare le componenti aggressive che possono connotare il tranfert e il controtranfert, altrettanto importante è tenere in considerazione le componenti sessuali, spesso costituite da fantasie a sfondo erotico che il paziente può fare sul terapeuta, ma anche viceversa.

Tale consapevolezza  deve guidare anche la fase di assessment, e non solo quella di trattamento vero e proprio; il terapeuta non deve trascurare di chiedersi quale sia il funzionamento sessuale del paziente, se nella sua vita siano in corso conflitti di coppia, quanto tolleri l’intimità, come potrebbe funzionare se non fosse irretito da certe inibizioni e distorsioni caratteriali che interferiscono con la sfera intima e sessuale.

Tutto questo partendo dal presupposto che siamo tutti esseri erotici, e quindi l’erotismo pervade inevitabilmente tutte le nostre relazioni, siano esse professionali, famigliari, affettive, sociali.

Partendo da questo presupposto, la disposizione erotica del paziente può fornire al clinico molte informazioni: nella sessualità normale affettività ed erotismo sono ben integrati e riflettono una rappresentazione positiva delle relazioni oggettuali.

Al contrario relazioni oggettuali distorte possono portare a manifestazioni psicopatologiche di diverso grado: un esempio è dato dai pazienti sadomasochistici i quali, guidati da relazioni oggettuali caotiche, si ingaggiano in rapporti con partner umilianti e maltrattanti, spesso sfidando provocatoriamente anche il terapeuta in modo tale da portarlo a trattarli allo stesso modo.

Diversamente, nel contesto delle patologie narcisistiche, il paziente è portato talvolta ad una negazione difensiva dell’impulso erotico nel transfert, dovuta ad una esagerata interferenza del Super-Io.

Il problema del narcisismo può purtroppo riguardare anche i terapeuti, quando succede che questi traggano soddisfazione dall’essere idealizzati dal paziente e colludano con le sue manovre seduttive.

Ancora una volta, definire in maniera scrupolosa il contratto e il setting terapeutico può intervenire a tutelare sia il paziente che  il terapeuta; se esiste la possibilità di ricondursi ad un frame che sia chiaro e non ambiguo, anche le situazioni più problematiche possono essere risolte o interpretate.

In generale, quindi, Kernberg incoraggia una maggior attenzione alla dimensione sessuale della relazione terapeutica, e invita gli analisti ad essere pronti a tollerare le fantasie (proprie e del paziente) e le regressioni primitive, chiedendosi sempre quale significato possano avere in seduta.

Per chiarire questo punto, utilizza un aneddoto legato alla sua esperienza di terapeuta; racconta di una paziente che era solita presentarsi in seduta con un aspetto pesantemente trascurato e con addosso sempre lo stesso abito nero, maleodorante e sporco di cenere di sigaretta.

L’abito era però indossato in modo tale da lasciare puntualmente intravedere il seno, un seno gradevole alla vista e che  insinuava nel terapeuta un’eccitazione sessuale.

Come gestire una situazione del genere in seduta? Non (come qualcuno tra il pubblico ha proposto) con una manovra di cauta self-disclosure (“Vogliamo ragionare sul fatto che il suo seno mi sta eccitando?”) il che avrebbe potuto evocare nella paziente una reazione non del tutto opinabile (“Senta professor Kernberg, veda di andare a soddisfare i suoi bisogni sessuali altrove”), ma piuttosto con una manovra di confrontazione, volta ad indagare fino a che punto il paziente sia consapevole o meno di quanto certi suoi atteggiamenti possano assumere, agli occhi dell’altro, una connotazione sessuale.

Differenza sottile, ma non da poco.

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

Donne e sessualità: tra soddisfazione  e legami di attaccamento – Recensione

 

 BIBLIOGRAFIA:

  • Kernberg Otto (2013). Amore e aggressività – Prospettive Cliniche e teoriche. Giovanni Fioriti Editore.  ACQUISTA ONLINE

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività (ADHD) nell’età evolutiva: le strategie psicopedagogiche

Le strategie terapeutiche possono essere attuate su tre fronti, cioè lavorando individualmente con il bambino, operando con la famiglia, attraverso delle strategie di parent education e di parent training, occupandosi del contesto scolastico (insegnanti e bambini con sviluppo tipico) con il fine di ottimizzarlo. 

 

Abstract

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività è una patologia dell’età evolutiva. Essa ha un effetto particolarmente dirompente, connotando negativamente il rapporto che il bambino ha con se stesso, il suo contesto familiare, la sua esperienza scolastica. Frequentemente gli insegnanti non hanno gli strumenti operativi opportuni per fronteggiare tale criticità, che incide profondamente sulla quotidianità scolastica.

 

Disattenzione, impulsività e iperattività

Il disturbo da deficit di attenzione con iperattività si manifesta attraverso una sintomatologia che è rapportabile a tre parametri:

• l’attenzione;

• l’impulsività;

• l’iperattività.

L’attenzione può essere scissa in due componenti, ovvero l’attenzione automatica, che solitamente obbedisce a meccanismi inconsapevoli, e l’attenzione controllata, che è quella utilizzata allorquando si vuole dirigere il proprio focus attentivo verso un compito specifico.

Nel minore affetto da ADHD, come Chiarenza, Bianchi e Marzocchi (2002) avvertono, l’attenzione controllata è deficitaria. In pratica, il bambino non è in grado di dirigere e fermare la sua attenzione su di un compito specifico, soprattutto quando esso appare particolarmente elaborato e richiede un intervallo temporale protratto di applicazione. Inoltre, connessa all’attenzione, è la capacità di programmare e organizzare il lavoro, che, nel minore affetto da tale patologia, risulta notevolmente compromessa.

Relativamente all’impulsività, si assiste a comportamenti che denotano uno scarso controllo, ovvero un agire senza pensare. A questo riguardo Barkley, citato in Chiarenza, Bianchi e Marzocchi (op. cit., pag. 2), ascrive tale impulsività ad un’alterazione dei meccanismi cognitivi che presiedono al controllo del comportamento.

Riguardo all’iperattività, diverse ricerche hanno dimostrato che i minori affetti da ADHD presentano un notevole incremento dei movimenti del proprio corpo, rispetto ai bambini che non soffrono di tale patologia. Questa ipercinesi si osserva anche durante il riposo notturno.

 

La comorbidità del disturbo da deficit di attenzione con iperattività

Accanto al disturbo specifico dell’attenzione, spesso, i bambini presentano, in comorbidità, un disturbo del comportamento, che si estrinseca in due quadri clinici specifici, ovvero il disturbo della condotta e il disturbo oppositivo – provocatorio.

In un numero elevato di casi si palesa anche un disturbo dell’apprendimento, che si concretizza prevalentemente in difficoltà relative all’ambito della lettura (Chiarenza, Bianchi e Marzocchi, op. cit., pag. 3). Molto frequenti sono altresì i disturbi relazionali. In pratica, a causa dell’aggressività che i bambini evidenziano, i rapporti con l’alterità appaiono compromessi. Il minore, infatti, non è in grado di esercitare le abilità sociali, che fanno nascere le amicizie fra coetanei.

Le strategie terapeutiche – Il trattamento individuale

Le strategie terapeutiche possono essere attuate su tre fronti, cioè lavorando individualmente con il bambino, operando con la famiglia, attraverso delle strategie di parent education e di parent training, occupandosi del contesto scolastico (insegnanti e bambini con sviluppo tipico) con il fine di ottimizzarlo.

Il lavoro individuale con il bambino rientra in un intervento terapeutico di tipo cognitivo comportamentale. Nello specifico, gli obiettivi, che tale terapia si pone, sono quelli di insegnare al minore le tecniche di autocontrollo per la gestione dell’impulsività e le procedure cognitive utili ad affrontare i problemi che si presentano.

Riguardo alla prima finalità, al bambino si fanno apprendere le metodiche per controllare l’impulsività, attraverso il riconoscimento delle proprie emozioni e lo sviluppo di comportamenti alternativi di espressione della emotività.

Relativamente al secondo scopo, si utilizza una procedura di risoluzione dei problemi che passa attraverso i seguenti momenti:

• identificazione di un problema;

• generazione di alternative;

• scelta, realizzazione e valutazione di una soluzione” (Chiarenza, Bianchi e Marzocchi, op. cit., pag. 5).

Il trattamento familiare

L’intervento sui genitori del bambino affetto da ADHD si avvale di due strategie. Nel parent education si forniscono tutte le informazioni necessarie affinché i genitori siano completamente edotti e consapevoli della patologia del proprio figlio. Nel parent training si lavora con la coppia genitoriale per ristrutturare la percezione dei comportamenti del minore. In altre parole, si interviene sul sistema delle attribuzioni e sulle aspettative che i genitori del piccolo hanno. Sovente queste attribuzioni sono negative: infatti, i genitori ascrivono a valenze negative la maggior parte delle condotte manifestate dal bambino.

Questa percezione alimenta un vissuto depressivo, che mina il benessere dell’intero nucleo familiare. Il programma di parent training comprende anche l’apprendimento di procedure comportamentali finalizzate al controllo delle condotte distoniche. “Ai genitori viene insegnato a dare chiare istruzioni, a rinforzare positivamente i comportamenti accettabili, a ignorare alcuni comportamenti problematici e a utilizzare in modo efficace le punizioni” (Chiarenza, Bianchi e Marzocchi, op. cit., pag. 8).

Gli interventi psicopedagogici

Il contesto scolastico è il luogo nel quale si estrinsecano in maniera macroscopica le problematiche del ragazzo. Avere fra i propri alunni o fra i compagni di classe un bambino affetto da ADHD mette a dura prova la pazienza degli insegnanti e degli altri alunni. Frequentemente i docenti non conoscono fino in fondo la fenomenologia sintomatologica del disturbo e vivono talune manifestazioni come un attacco alla loro persona e alla loro autorità. Questo suggerisce che la prima strategia da utilizzare con loro è proprio quella di curare la conoscenza della patologia, in maniera da prepararli ad affrontare le peculiarità dell’ADHD.

In secondo luogo bisogna intervenire sulla loro resilienza, ovvero renderli emotivamente meno vulnerabili nell’interazione con il bambino affetto da disturbo dell’attenzione con iperattività.

Molte volte i docenti, laddove il minore manifesta anche disturbi del comportamento con condotte antisociali, vivono uno stato di ansia continua, legata al timore che il piccolo possa arrecare danni fisici ai suoi compagni. Questa preoccupazione alimenta una sensazione di precarietà e di frustrazione, per cui l’insegnate si sente in balìa delle circostanze ambientali, non in grado di esercitare il controllo della situazione problematica e dell’intero gruppo classe. 

L’intervento psicopedagogico rivolto al bambino affetto da ADHD nel contesto scolastico deve orientarsi su due fronti, ovvero lavorare con gli insegnanti, in modo che possano impadronirsi di alcune strategie comportamentali che hanno l’obiettivo di controllare il comportamento del piccolo. Contemporaneamente è necessario operare con i compagni di classe, promuovendo tutti quelli atteggiamenti inclusivi, che possano veicolare dinamiche interattive positive, per mezzo delle quali il bambino possa sentirsi accettato e capito dai coetanei.

Il minore affetto da patologia dell’attenzione con iperattività ha delle caratteristiche che devono essere conosciute dai docenti al fine di ottimizzare l’intervento didattico. Per esempio, egli solitamente è più tranquillo nella prima parte della giornata scolastica, mentre verso la fine delle lezioni si esacerbano i suoi comportamenti problematici. Di questo bisogna tenerne conto nello strutturare la cronologia della giornata. Nella prima parte è bene proporre delle attività che richiedano dei compiti attentivi maggiori, riservando ad attività meno impegnative, più improntate alla dimensione ludica, il tempo rimanente. 

Altro accorgimento è quello di scomporre i nuovi apprendimenti in microunità didattiche, che siano a misura dei tempi attentivi del piccolo, in maniera che egli possa sentirsi motivato ad apprendere, ritenendo il compito apprenditivo alla sua portata.

In ogni classe si creano delle dinamiche affettive fra i vari alunni, fatte di simpatia, comunanza di intenti, sintonia di bisogni. Questo avviene anche nei contesti dove è inserito un minore affetto da ADHD. Ai fini del miglioramento delle interazioni sociali all’interno della classe, si deve utilizzare il coetaneo con il quale il minore ha maggiore affinità come tutor e come mediatore nel rapporto con gli altri alunni.

Tutti gli insegnanti, che fanno parte di una classe in cui è presente un minore affetto da tale patologia, dovrebbero avere lo stesso modo di operare, soprattutto per quel che riguarda il controllo della disciplina. A questo riguardo è opportuno che l’intero team dei docenti si faccia carico di osservare alcune semplici regole relative al controllo dei comportamenti, che devono essere applicate da ognuno in qualunque circostanza. In pratica, il gruppo dei docenti deve concordare quali comportamenti, anche se distonici, possono essere tollerati, e quali, invece, devono essere puniti, avendo cura di uniformare gli interventi punitivi, servendosi dei paradigmi della token economy.

Altra procedura da osservare è quella di creare una successione subitanea fra comportamento scorretto ed eventuale punizione. Infatti, più aumenta l’intervallo temporale fra stimolo (comportamento problematico) e risposta (punizione) e più si perde l’incisività sulla condotta distonica.

Al bambino problematico deve essere spiegato con sufficiente chiarezza quello che può fare e quello che invece non è permesso. Le regole devono essere semplici, capibili ed in numero esiguo. È necessario che esse siano continuamente ripetute, in modo che possano divenire bagaglio interiore del ragazzo. Inoltre, egli deve sapere a che cosa va incontro nel momento in cui trasgredisce qualcuno dei precetti concordati. Ogni volta che il minore manifesta dei comportamenti sintonici, essi devono essere sottolineati e lodati, in maniera che possano diventare elementi per la costruzione dell’autostima.

Con il bambino affetto da ADHD deve esserci da parte degli insegnanti un’interazione sistematica, ossia si deve coinvolgerlo il più possibile e questo coinvolgimento, che serve a sollecitare i suoi processi attentivi, deve essere fatto verbalmente, chiamando, frequentemente, il ragazzo per nome.

Spesso è utile servirsi dei cosiddetti “antistress”: sono oggetti che il bambino può utilizzare per scaricare la tensione. Essi permettono al minore di canalizzare la sua iperattività, consentendogli di stare seduto più a lungo. Questi elementi possono essere, come La Prova (2013) fa notare, dei braccialetti da far andare su e giù per il braccio, degli elastici da tendere, un portachiavi con moschettone da far ruotare. È opportuno far fare al bambino degli esercizi motori, mentre è seduto, che permettono di scaricare la tensione, come il sollevarsi con le mani dalla sedia per un tempo stabilito o premere le mani una contro l’altra per 10 secondi (La Prova, op. cit., pag. 7, 8, 9).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

ADHD: nuove prospettiva con la Tecnica Pomodoro e il Sober 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Chiarenza, A. G., Bianchi, E. e Marzocchi, G. M. (2002). Linee guida del trattamento cognitivo comportamentale dei disturbi da deficit dell’attenzione con iperattività (ADHD). Linee guida della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza. DOWNLOAD
  • La Prova, A. (2013). ADHD e compiti a casa: manuale pratico di sopravvivenza. Roma: Edizioni FORePSI. DOWNLOAD

Rimuginio, gelosia e lunaticità nelle donne: maggiore rischio di Alzheimer?

FLASH NEWS

Esiste una possibile connessione tra nevroticismo e Alzheimer?

È quanto risulta da uno studio longitudinale durato 38 anni e che ha coinvolto 800 donne di età media di 46 anni.

La maggior parte delle ricerche sull’Alzheimer si sono concentrate su fattori quali educazione, fattori di rischio cardiovascolari, traumi cranici, storia familiare e genetica. Ma anche la personalità può avere un’influenza sull’insorgenza di alcune malattie, quale ad esempio la demenza, attraverso i suoi effetti sul comportamento, lo stile di vita e la gestione dello stress. Per questo Lena Johannsson ha deciso di indagare la possibilità di una connessione tra nevroticismo e Alzheimer.

Le persone nevrotiche mostrano una certa tendenza all’ansia, alla preoccupazione e al rimuginio, così come la gelosia e i frequenti cambiamenti d’umore.

Per raccogliere le informazioni desiderate è stato chiesto alle partecipanti se avessero vissuto episodi di stress della durata di un mese o più, indipendentemente dal fatto che fossero associati a lavoro, salute o situazioni familiari, nei cinque anni precedenti e sono stati somministrati loro diversi test: un test di personalità per indagare i livelli di nevroticismo e introversione/estroversione e alcuni test di memoria.

L’introversione è descritta come timidezza e riservatezza e all’opposto l’estroversione è l’essere socievoli; il nevroticismo, invece, è associato a espressioni di rabbia, colpa, invidia, ansia o depressione.

Lo studio ha rilevato che il fattore introversione/estroversione non ha influenze dirette sulla comparsa della malattia, mentre le donne con i punteggi più alti nei test per il nevroticismo mostravano un rischio doppio, rispetto alle altre, di sviluppare la demenza.

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

Ippoterapia e Alzheimer: quando gli animali aiutano i più anziani

BIBLIOGRAFIA:

cancel