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Attori e controfigure: perchè il nostro cervello si fa ingannare?

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La capacità di riconoscere e distinguere visi è fondamentale per i rapporti sociali ma anche la costanza lo è: se non fossimo in grado di identificare come uguale a se stesso un volto i nostri famigliari e i nostri amici ci apparirebbero ogni volta come persone nuove.

Che gli attori usino controfigure e stuntman durante le riprese è ormai risaputo e scontato, eppure, nonostante si sappia, durante la visione di un film nessuno ci fa caso. Perché? Difficile credere che si possa scambiare la faccia di Johnny Depp per quella di chiunque altro, per cui non è una semplice questione di attenzione.

L’Università di Berkeley, California, ha risolto il mistero ed individuato il meccanismo cerebrale che ci tiene legati ad un particolare viso anche quando questo cambia: è un meccanismo di sopravvivenza che ci dà un senso di stabilità, familiarità e continuità in quello che altrimenti sarebbe un mondo visivamente caotico.

Per questa ricerca è stato chiesto ai partecipanti di confrontare volti che apparivano in rapida sequenza su di uno schermo e individuare i più somiglianti.

 

Ogni sei secondi un “volto target” veniva proiettato per un secondo seguito da volti leggermente diversi. I risultati mostrano non solo che le facce venivano giudicate più simili di quanto fossero in realtà ma anche che, di volta in volta, i partecipanti sceglievano non il viso più somigliante all’ultimo target visto, ma una combinazione degli ultimi due “volti target”.

Come se il nostro sistema visivo fosse predisposto ad andare contro una tale fluttuazione percettiva in favore della costanza. A conferma dell’esistenza di quello che è stato chiamato un “campo di continuità” in cui fondiamo visivamente oggetti simili visti nell’arco di 15 secondi. 

È ciò che accade nei film: non vediamo le controfigure, i tagli di scena e a volte ci sfuggono persino errori e cambi d’abito repentini. Il tutto per soddisfare la nostra aspettativa, e il nostro bisogno, di stabilità.

La capacità di riconoscere e distinguere visi è fondamentale per i rapporti sociali ma anche la costanza lo è: se non fossimo in grado di identificare come uguale a se stesso un volto i nostri famigliari e i nostri amici ci apparirebbero ogni volta come persone nuove.

Gli esseri umani processano l’informazione visiva momento per momento per stabilizzare il loro ambiente, in questo modo il nostro sistema visivo perde sensibilità ma è un piccolo prezzo da pagare in favore di una percezione delle identità come stabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Un nuovo test per la valutazione del rischio di sviluppare Alzheimer

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Secondo una ricerca della York University un semplice test che unisce pensiero e movimento può aiutare a rilevare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, prima ancora che ci siano i segni.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di completare quattro compiti visuo-spaziali e cognitivo-motori di difficoltà crescente. I test erano volti a rilevare il rischio di Alzheimer in coloro che stavano avendo difficoltà cognitive, anche se non mostravano segni esteriori della malattia. 

 

I partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: soggetti con diagnosi di MCI (compromissione cognitiva lieve) o con una storia familiare di Alzheimer, e due gruppi di controllo, giovani adulti e soggetti anziani, senza una familiarità con la malattia.

I risultati indicano che l’81,8 % dei partecipanti che avevano una storia familiare di Alzheimer o una MCI avevano difficoltà nei compiti visuo-motori più esigenti.

“La capacità del cervello di prendere in informazioni visive e sensoriali e trasformarle in movimenti fisici richiede la comunicazione tra la zona parietale nella parte posteriore del cervello e le regioni frontali”, spiega il ricercatore a capo dello studio Lauren Sergio. “Le difficoltà mostrate dai soggetti ad aumentato rischio di Alzheimer possono riflettere un’alterazione cerebrale o segnare l’inizio della neuropatologia, che disturba la comunicazione tra ippocampo e regioni parietale e frontali del cervello.”

Questo test si è dimostrato affidabile nel discriminare tra basso e alto rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer: il gruppo ad alto rischio ha mostrato tempi di reazione e movimento più lenti e meno accuratezza e precisione nei movimenti, dei gruppi di controllo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Hawkins, K.M., & Sergio, L.E. (2014). Visuomotor Impairments in Older Adults at Increased Alzheimer’s Disease Risk. Journal of Alzheimer’s Disease 42, 607–621. DOI 10.3233/JAD-140051 IOS Press. DOWNLOAD

Analisi del contenuto delle autocaratterizzazioni degli allievi in formazione – Congresso SITCC 2014

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Analisi del contenuto delle autocaratterizzazioni degli allievi in formazione

Congresso SITTC 2014

Lambertucci Laura, Scarinci Antonio, Del Ponte Heyra, Di Bari Selenia, Galassi Francesca Romana, Paparusso Marina, Rampioni Margherita, Romanelli Pierluigi, Torrieri Monia

Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

L’autocaratterizzazione si dimostra utile per arrivare ad una comprensione del soggetto e della prospettiva con la quale costruisce in modo personale la propria realtà con modalità di cambiamento in continuo divenire (Kelly 1955).

La valutazione degli aspetti personali del terapeuta che incidono nella relazione è al centro della riflessione sugli obiettivi e gli esiti dei training di formazione degli specializzandi ormai da tempo (Byrd et al. 2010; Fabbro et al. 2013).

L’autocaratterizzazione si dimostra utile per arrivare ad una comprensione del soggetto e della prospettiva con la quale costruisce in modo personale la propria realtà con modalità di cambiamento in continuo divenire (Kelly 1955).

L’utilizzo di questo strumento con gli allievi di una scuola di formazione in psicoterapia al primo anno e al quarto anno può consentire di verificare i cambiamenti personali durante il training.

Sono state individuate una serie di dimensioni o aree problematiche sulle quali durante la formazione interviene un processo evolutivo di assimilazione e accomodamento che dovrebbe portare ad un nuovo assetto il sistema cognitivo del trainee.

Al testo è stata applicata l’analisi del contenuto, una tecnica di ricerca definita da B. Berelson come capace di descrivere in modo obiettivo, sistematico e quantitativo il contenuto manifesto della comunicazione (Losito, 1996).

La singola autocaratterizzazione è stata considerata come unità di rilevazione e analizzata da un gruppo di analisti in base ad opportuni meccanismi di controllo delle decodifiche soggettive.

I risultati della ricerca attestano variazioni statisticamente significative intervenute lungo l’arco dei quattro anni di training.

 

 

 

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SITCC 2012

Mindfulness in azienda: verso la progettazione di interventi efficaci

 

Data la crescente attenzione che la psicologia del lavoro sta riservando alla mindfulness , facendo affidamento su alcune recenti evidenze prodotte dalla ricerca, in questa trattazione saranno esposti dei punti chiave per la progettazione d’interventi in ambienti professionali.

Considerazioni preliminari

Questo articolo offrirà spazio ad un approccio che sta ricevendo un crescente consenso soprattutto all’interno di contesti lavorativi americani ed anglosassoni. Stiamo parlando della tecnica della mindfulness, e delle applicazioni che ad essa si ispirano.

Data la crescente attenzione che la psicologia del lavoro sta riservando a questo innovativo approccio , facendo affidamento su alcune recenti evidenze prodotte dalla ricerca, in questa trattazione saranno esposti dei punti chiave per la progettazione d’interventi in ambienti professionali.

E’ bene ricordare che lo sviluppo della mindfulness è fatto coincidere con il lavoro del medico Jon Kabat-Zinn, fautore della tecnica Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia di stampo di cognitivo – comportamentale, in grado di apportare miglioramenti sia in popolazioni cliniche che non. Inizialmente concepita per apporre beneficio congiuntamente su corpo e mente (soprattutto indirizzando verso uno stato di benessere), questa tecnica ha in seguito conosciuto un notevole sviluppo nel campo lavorativo, portando diverse aziende leader nei propri settori, tra le quali Google, Apple, Nike, Yahoo!, Deutsche Bank, ad altre ancora , ad investire risorse in questa pratica, nella speranza di coniugare riduzione dello stress nei propri addetti, e benefici operativi.

Diversi programmi, svilluppati anche nel panorama italiano, sembrano garantire sviluppi positivi ottenibili nel proprio posto di lavoro, e una rapida consultazione su internet va nella direzione di confermare questa impressione.

E’ dalla considerazione di questi dati, che nasce l’intento di voler approfondire se tali programmi possano garantire successo se applicati nella propria azienda, e a tal scopo si vogliono chiarire da subito due concetti alla base. Il primo, è che con il termine mindfulness, possiamo riferirci non solo a delle tecniche di meditazione volte al miglioramento dal benessere, ma anche ad un aspetto di natura disposizionale , paragonabile quindi ad un particolare aspetto del proprio carattere. Riferendoci a questa peculiarità, parliamo di mindfulness disposizionale o di tratto, indicando i livelli di mindfulness che una persona ha, ed impiega durante le attività quotidiane, in opposizione allo stato di mindfulness, ottenibile tramite esercizi meditativi . A tal proposito, la ricerca ha rilevato l’indipendenza tra i due costrutti, oltre al fatto che la mindfulness può essere considerata come un riferimento sul quale basare le attività di lavoro.

Una seconda considerazione, nasce dalla consapevolezza che i livelli di mindfulness, sono aumentabili e perfezionabili, tramite la partecipazione ad appositi training, anche se il livello di mindfulness di una persona, non è necessariamente correlato alla partecipazione a questi training.

Ciò nonostante, se il nostro obiettivo è di apporre un cambiamento organizzativo, avvalendoci delle potenzialità della mindfulness, è bene comprendere sin da subito, che una singola iniziativa, o un singolo corso di formazione per il quadro dirigenziale, sono solo dei punti di partenza, poiché qualsiasi progetto che non condivida una visione d’insieme dei numerosi fattori in gioco, rischia fortemente di fallire, nonostante i buoni propositi iniziali .

 

Stabilito ciò, cosa possiamo aspettarci da un approccio efficace?

Per quanto gli studi sulla minfulness, appaiono essere tuttora in uno stato embrionale, sono diversi gli spunti che hanno collegato questo costutto a diversi output lavorativi. L’adozione di una cultura improntata alla consapevolezza, è secondo la formulazione di Weick , un elemento costituente per la prevenzione dei rischi derivanti dall’attività d’impresa, sia di mercato che non, qualificandola come ad alta affidabilità (High Reliability Organization, HRO). Inoltre, secondo Vogus e Sutcliffe, un’organizzazione improntata alla consapevolezza, può favore un atteggiamento propenso verso la verifica dei propri processi, investigando in profondità il ventaglio delle opzioni disponibili, integrando questo livello di analisi, all’interno del proprio modus operandi.

Pocanzi abbiamo parlato di mindfulness di stato e di tratto, ma la portata delle considerazioni che seguiranno, esige un’introduzione al concetto di Mindfulness Organizing (consapevolezza organizzativa) .

I tre principi della Mindfulness Organizing

Ray e colleghi , definiscono la Mindfulness Organizing, come un attributo stabile e duraturo di un’organizzazione, raggiunto grazie pratiche ed interventi strutturali implementati dai top manager. Gli autori, affermano inoltre che un approccio di Mindfulness Organizing risulta evidente quando i leader riescono ad instaurare una cultura che incoraggi i propri collaboratori verso l’adozione di un pensiero ricco, garantendo capacità e margine di azione. Weick e Sutcliffe , invece hanno in precedenza osservato tale caratteristica, come la capacità di un’organizzazione di catturare dettagli discriminatori sui processi a rischio, indirizzando l’attenzione verso i processi contestuali che concorrono alla presa di decisioni.

L’approccio è basato su tre pilastri, ovvero:

  • Trae avvio da processi top-down;
  • Crea il contesto per gli operatori che lavorano a stretto contatto con il cliente (front line), di pensare ed agire;
  • Si attesta come una proprietà duratura dell’organizzazione (come la cultura).

Mindful Organizing

L’attenzione conferita alle dinamiche personali in ambienti professionali, ha portato alcuni autori a convergere sul termine di Mindful Organizing (organizzazione consapevole), per indicare l’insieme dei processi relazionali collettivi, intervenienti in un ambiente professionale. I principi portanti di questa sfera, riprendono analogamente i tre punti appena elencati, articolandoli tuttavia così:

  • Trae avvio da processi bottom-up;
  • Sfrutta il contesto, creato per gli operatori al front line;
  • Si attesta come una proprietà relativamente fragile dell’organizzazione, e pertanto richiede una ricostruzione continua.

Azioni e livelli

L’intento con il quale gli autori soprannominati si sono spesi nell’ arricchimento del concetto originale di mindfluness, non costituisce una semplice opera di disquisizione teorica. L’obiettivo degli autori, e del sottoscritto, è quello di enfatizzare come tali definizioni sono orientate alla pratica. Attraverso l’azione (partecipata) delle diverse parti.

Una duttile analisi, raccoglie le recenti indicazioni di Vogus e Sutcliffe , ed è presentata in seguito. Gli autori, sostengono fortemente che le varie azioni che possono essere intraprese in un approccio ispirato alla mindfulness, debbano sapientemente intrecciare tutti i livelli organizzativi, e le diverse mansioni del proprio team, riconciliando così i livelli di mindfulness organizzativa e mindfull organizing. E’ stato dimostrato come, chi pratica mindfulness in azienda tende ad essere più calmo e sereno, rispetto ai loro colleghi che non lo fanno, e ricordando quanto discusso prima, ovvero che la mindfulness non è necessariamente ottenibile tramite pratiche meditative, scopriamo in questa sezione alcune delle azioni percorribili e i principi sui quali esse si basano, scorgendone inoltre le criticità:

  • Necessità di creare una cultura aziendale che si ponga come riferimento degli interventi di mindfulness intrapresi;
  • Coerenza tra gli interventi preposti: attributo da non sottovalutare, poichè alcune azioni possono presentare margini di incompatibilità tra di loro. Con un esempio, immaginiamoci un datore di lavoro, che voglia valorizzare la pausa lavorativa, adibendo a tal scopo, delle aree relax nella propria azienda. Poniamo che in seguito, questa stanza non venga mai utilizzata dagli stessi dirigenti. Con questa situazione, molto probabilmente creeremo dei presupposti tali per ricadere nella dissonanza cognitiva , fenomeno in grado di impattare negativamente nella vita lavorativa, creando in questo caso, (lecita) incertezza sui lavoratori. Per evitare questa serie di frangenti, e per diminuire la dissonanza, gli interventi proposti devono distinguersi da un buon grado di sincronicità tra di essi, e tra gli attori protagonisti, allineandosi alla stessa cultura aziendale, allineando così, azioni e pensieri;
  • Porsi sullo stesso piano del lavoratore: la professionalità che accompagna l’adempimento delle proprie funzioni, deve essere rispettosa delle gerarchie in campo, ma al contempo, non deve farsi influenzare da essa. Una scarsa consapevolezza del prorio modo di agire, può condurre, a comportamenti non funzionali, al contesto lavorativo, all’interazione coi propri colleghi e alla natura del compito richiesto in quel momento. Investendo sulla propria mindfulness, ci si può aspettare di rompere i vecchi automatismi, a favore di nuovi comportamenti, efficaci anche in momenti difficili, così considerato da Weick e Sutcliffe, che ritengono necessario far affidamento ad un approccio orientato alla mindfulness, quando vi è l’esigenza di prendere una decisione rapida ed importante, dando priorità alla prorpia competenza (o a quella dei propri collaboratori), piuttosto che far affidamento sulla propria autorità;
  • Buona leadership: non sempre si nasce buoni leader, sebbene ci si possa migliorare anche in tal campo. Vi sono tuttavia, diversi modelli di leadership che apportano differenti riflessi sulla struttura organizzativa. La ricerca, ha evidenziato come, tra i vari tipi di leadership, la leadership trasformazionale, può riuscire a mantenere alta creatività e performance del proprio gruppo, attraverso il consolidamento di alti standard di performance, mediante un equo incoraggiamento di tutti membri del proprio gruppo di lavoro . Le caratteristiche vincenti di un leader trasformazionale, sono state messe in relazione con i livelli di mindfulness e grazie a tale connubio, il leader può rafforzare le doti che portano il proprio team, a risolvere problemi e situazioni di stallo, in maniera creativa e vincente , poiché dinanzi ad una situazione problematica, una strategia prodotta da vecchie scelte, oltre che obsoleta, può rivelarsi sconveniente.
  • Decision Making: Hammond, noto esponente in quest’ambito, assieme ad altri colleghi , ha asserito che delle ottime pre-condizioni che garantiscono una presa di decisione efficace, sono un basso ricorso a processi euristici, unitamente ad un’alta attenzione data agli stimoli di natura interna ed esterna. La mindfulness, si caratterizza per essere un approccio adatto per unire a fattore comune entrambi i fattori, interrompendo i vecchi automatismi di pensiero , pertanto ricorrendo ad essa, è lecito aspettarsi un potenziamento delle dinamiche che conducono alla formazione della decisione, diminuendo i bias, e riducendo l’errore fondamentale di attribuzione, fattori che dispongono verso una decisione efficace.
  • Creatività: progettati per venire incontro ai bisogni cognitivi del proprio staff, ambienti più interessanti ed ergonomici (sale riunioni, postazione per la pausa lavoro, ufficio..) possono apporre beneficio sulla produzione di idee creative, un aspetto benaccetto, in un contesto culturale aperto alla ricerca di buone idee, consapevoli anche del fatto, che il tempo passato sul posto di lavoro, spesso e volentieri è più alto rispetto che a casa.
  • Agire sulla percezione e competenze: il fattore percettivo è un aspetto critico da considerare sia nel conferire un bene o servizio, che nelle pratiche interpersonali. La percezione è cruciale, per esempio, nei meccanismi che concorrono alla creazione di stereotipi. In quest’accezione, si vuole offrire uno spunto incentrato sugli addetti al front-line, che contribuendo a dare la prima immagine dell’azienda al cliente in entrata, implicano l’erogazione di competenza assieme ad una buona visibilità, coscienti del fatto che l’opinione finale del cliente, sarà influenzato da entrambi i fattori. Responsabili di tradurre l’atteggiamento organizzativo del nostro intero contesto professionale, questi operatori si caratterizzano in maggior misura per il fatto di mettere letteralmente la faccia, a differenza di altre mansioni che agiscono maggiormente dietro le quinte. Vogus e Sutcliffe, coerentemente a questa preoccupazione, segnalano che apporre restrizioni al mindfulness organizzativa, può impattare negativamente con l’expertise del nostro staff, mentre sul versante percettivo, risulta importante capire ed anticipare quelle che possono essere le emozioni a valenza negativa di una parte del nostro staff. Parliamo per esempio di medici ed insegnanti, categorie professionali spesso associate a fenomeni come il burnout. Una piena consapevolezza del modo di essere e di stare in un contesto lavorativo, va quindi di pari passo all’attenta analisi dei vissuti emotivi.
  • Scoraggiare l’attività multitasking: la mindfulness può rappresentare un antidoto per questo fenomeno. Il fenomeno del multitasking, interpretabile come una conquista della nostra evoluzione, può da un altro lato, suscitare una serie di allarmi . Una criticità sostenuta dalla ricerca, assegna difatti al fenomeno multitasking una valenza negativa, osservandola piuttosto come un’incapacità nel sostenere l’attenzione in maniera continuata, su un determinato compito. Glomb e Duffy (2011) hanno raccolto gli esisti di vari studi, e hanno indicato nella mindfulness, una risorsa diametralmente opposta alle culture organizzative che puntano a lavorare velocemente, a svolgere compiti in multi-tasking, e che tendono così ad essere soffocati dal prioprio lavoro.

Conclusioni

Una questione che la ricerca sulla mindfulness sembra non ancora aver risolto, è interrogarsi su come un tale atteggiamento, possa essere mantenuto nel tempo, soprattutto a livello organizzativo, poiché maggiormente combinato alla numerosità delle persone e dei fattori in gioco. Prima di divenire una pratica consolidata nell’individuo, la mindfulness può essere una conquista non priva di costi psicologici, e un grosso scoglio dell’intero approccio sembra per l’appunto, quello di riuscire a mantenere viva la potenzialità di tale risorsa, lungo i non pochi momenti di stress acuto.

Una risposta che si vuole suggerire, e che sembra emergere dai dati in possesso è data dall’adozione di una cultura di mindfulness, che organizzi i processi ad un livello più alto. Rispondendo alla fragilità con la quale sembra presentarsi la Mindful Organizing, una possibile soluzione potrebbe riguardare l’attenta valutazione e il continuo monitoraggio dei processi e delle risorse dispiegate, assieme alla considerazione delle esigenze di ogni singolo dipendente/mansione.

L’insieme di queste iniziative, andranno pertanto a far parte di un vero e proprio welfare aziendale, e il monitoraggio costante di tali variabili, si presenta come un’occasione per lo psicologo del lavoro, e del suo bagaglio conoscitivo, che se duttilmente impiegato, può garantire affidabilità nelle fasi di valutazione iniziale, nella ridisegnazione delle variabili lavorative e nel continuo monitoraggio.

Concludendo , sembra ancora presto per capire appieno la portata dei risultati raggiunti dalle aziende che si sono spese in queste termini, e dei diversi fattori contestuali in grado di impattare positivamente. Ciò nonostante, sembra abbastanza chiaro, che gli approcci vincenti in questo campo, hanno tenuto debitamente conto della moltitudine di aspetti sostenuti in questa trattazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Brown, K., & Ryan, R. (2003). The Benefits of Being Present: Mindfulness and Its Role in Psychological Well-Being. J Pers Soc Psychol, 84(4), 822-48. DOWNLOAD
  • Cahn, B., & Polich, J. (2006). Meditation states and traits : EEG, ERP, and neuroimaging studies. Psychological Bulletin, 132(2), 180–211. DOWNLOAD
  • Festinger, L. (1957). A Theory of Cognitive Dissonance. California: Stanford University Press.
  • Gamberini, L., Chittaro, L., & Paternò, F. (A cura di). (2012). Human-Computer Interaction. I fondamenti dell’interazione tra persone e tecnologie. PEARSON EDUCATION ITALIA . ACQUISTA
  • Glomb, T., & Duffy, M. (2011). Mindfulness at Work. Research in Personnel and Human Resources Management, 30, 115–157. DOWNLOAD
  • Isaksen, S., & Gaulin, J. (2005). A re-examination of brainstorming research: Implications for research and practice. The Gifted Child Quarterly, 49. DOWNLOAD
  • Shin, Y., & Young, C. E. (2014). Team Proactivity as a Linking Mechanism between Team Creative Efficacy, Transformational Leadership, and Risk-Taking Norms and Team Creative Performance. The Journal of Creative Behavior, 48(2), 89–114.
  • Vogus, T., & Sutcliffe, K. (2012). Organizational mindfulness and mindful organizing: A reconciliation and path forward. Academy of Management Learning and Education, 11(4), 722–735. DOWNLOAD
  • Weick, K., & Sutcliffe, K. (2007). Managing the Unexpected: Resilient Performance in the Age of Uncertainty (2nd ed ed.). San Francisco: John Wiley & Sons, Inc. ACQUISTA

Cancellare i ricordi negativi è possibile!

Oggi è possibile realizzare tutto questo attraverso una nuova tecnica laser, l’optogenesi, che usa la luce pulsata per colpire i neuroni della parte del cervello collegata alle emozioni degli eventi passati negativi. Così facendo un brutto ricordo potrebbe essere trasformato in uno bello.  

Ricordate il film se mi lasci ti cancello? Narrava di una ragazza che, stanca della sua relazione ormai in fase di declino, decide, mediante un esperimento scientifico, di farsi asportare dalla mente tutti i ricordi relativi alla storia con il suo Joel.  

Ebbene, oggi è possibile realizzare tutto questo attraverso una nuova tecnica laser, l’optogenesi, che usa la luce pulsata per colpire i neuroni della parte del cervello collegata alle emozioni degli eventi passati negativi. Così facendo un brutto ricordo potrebbe essere trasformato in uno bello. 

Questo è quanto sostenuto nella ricerca pubblicata sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatori del Riken-MIT Centre for Neural Circuit Genetics, secondo i quali questa scoperta potrebbe portare a una svolta per tutti coloro che soffrono di disturbo post traumatico da stress.

La paura e l’angoscia provate da una persona durante un evento tragico possono continuare, nel tempo, a tormentarlo creando malessere. Ma il malessere deriva dall’emozione negativa esperita durante l’evento traumatico vissuto, che porta, successivamente, al non voler più fare quella cosa o al non andare più in quel luogo.

Ricordare l’evento, dunque, porta a rievocare l’emozione negativa vissuta in quell’istante e quindi a star male. A questo punto modificare il ricordo potrebbe essere la soluzione al problema.

Per agire sul circuito appena descritto, gli scienziati hanno studiato il cervello dei topi, osservando la reazioni avuta ad eventi di tipo positivo (socializzare con i propri simili) e ad altri di tipo negativo (elettroshock). Si è ottenuto che stimolando i neuroni, associati alle emozioni opposte a quelle negative esperite durante l’evento traumatico, il ricordo poteva essere capovolto, cioè da negativo poteva essere trasformato in positivo. Infatti, i topi che inizialmente erano ansiosi, dopo la stimolazione riuscivano a rilassarsi e viceversa. 

Ma non è finita, gli studiosi sono riusciti anche ad individuare il punto esatto in cui i ricordi prendono vita, ovvero l’ippocampo, mentre le emozioni collegate alla memoria si troverebbero nell’amigdala, ed è proprio questo il punto in cui la nuova tecnica dovrebbe essere applicata.

La psicoterapia aiuta il paziente a modificare le emozioni dopo aver lavorato sui pensieri (CBT) o a rievocare un ricordo doloroso per ridurre l’emozione negativa che ne deriva (EMDR), ma questa nuova tecnica potrebbe rendere ancora più efficiente e veloce il processo di liberazione dai brutti ricordi.

Quindi cancellare qualcosa di brutto dalla mente oggi sembrerebbe possibile!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Procrastinazione: è influenzata da fattori genetici

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Uno studio condotto da ricercatori dell’Università del Colorado ha scoperto che la tendenza a procrastinare è influenzata da fattori genetici, che sono anche legati ad una propensione all’impulsività.

Ma quando si tratta di ritardare, non siamo tutti uguali: alcuni hanno la tendenza a farlo di più, altri meno. Il team di ricercatori di Boulder si è chiesto cosa, a livello genetico, determini questa varibilità individuale. I ricercatori hanno analizzato 181 coppie di gemelli identici e 166 coppie di gemelli diversi, indagando anche la loro capacità di impostare e mantenere gli obiettivi, la propensione a procrastinare e l’impulsività.

Secondo i ricercatori essere impulsivi ha un valore evolutivo perché ha aiutato i nostri antenati nella sopravvivenza quotidiana. La procrastinazione, d’altra parte, potrebbe essere a livello genetico, un “sottoprodotto evolutivo dell’impulsività”, che probabilmente appare con maggiore evidenza nel nostro mondo moderno di quanto abbia fatto nella relatà quotidiana dei nostri antenati, dal momento che ora ci concentriamo su obiettivi a lungo termine, da cui si possiamo facilmente essere distratti. 

 

Sulla base delle somiglianze comportamentali nei gemelli, i ricercatori hanno concluso che la procrastinazione può essere genetica, e che sembra avere una certa sovrapposizione genetica con l’impulsività.

Entrambi i tratti sarebbero anche legati alla capacità di governare gli obiettivi; e questo suggerisce che ritardare, prendere decisioni parziali e di essere in grado di raggiungere gli obiettivi sono tutti comportmenti radicati in una base genetica comune. 

I ricercatori stanno attualmente esaminando se i due tratti siano legati alla capacità cognitive superiori, e se le stesse influenze genetiche siano collegate con altri aspetti di autoregolamentazione della vita moderna.

 

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Dislessia e memoria di lavoro: la memoria è importante tanto quanto la percezione

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Secondo i ricercatori la memoria di lavoro uditiva potrebbe agire come un “collo di bottiglia” sulle prestazioni delle persone dislessiche.  

La Dislessia è un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA), che va a incidere sulla capacità di leggere correttamente. Un ipotesi sull’origine del disturbo vede la dislessia come il risultato di un deficit nella capacità del cervello di elaborare i suoni, soprattutto durante l’infanzia; così che chi ne è affetto fatica a imparare le connessioni tra suoni del linguaggio e le parole su una pagina.

Ma se la radice del problema è nell’analisi dei suoni, come si spiegano i musicisti dislessici? Un team di ricercatori israeliani ha cercato di risolvere questo dilemma testando, per la prima volta, le abilità linguistiche di un gruppo di musicisti dislessici .

I ricercatori, guidati dallo psicologo Merav Ahissar, hanno testato, in un campione complessivo di 52 musicisti (di cui 24 dislessici), la percezione uditiva di base e la percezione uditiva legata specificamente alla musica (distinguendo diversi ritmi o melodie) o al linguaggio (come la capacità di discriminare parole da suoni-non-parole simili ). Hanno anche somministrato ai musicisti test di memoria e testato la loro velocità di lettura e precisione.

I risultati indicano che nella maggior parte dei test di percezione uditiva, i musicisti dislessici, così come quelli non-dislessici, ottenevano punteggi migliori della popolazione generale. I risultati peggiori erano nei test di memoria di lavoro uditiva, cioè nella capacità di mantenere un suono in mente per un breve periodo di tempo (in genere secondi).

Infatti, i musicisti dislessici con una più scarsa memoria di lavoro tendevano ad avere minore precisione nella lettura, mentre quelli con più memoria di lavoro tendevano ad essere più precisi.

Secondo i ricercatori la memoria di lavoro uditiva potrebbe agire come un “collo di bottiglia” sulle prestazioni delle persone dislessiche. In questo caso, suggeriscono, sarebbe utile che la ricerca si concentrasse sulle aree cerebrali relative ai processi mnestici in aggiunta a quelle uditive, che hanno fino ad ora assorbito la maggior parte dell’attenzione della ricerca sulla dislessia.

I risultati appaiono illuminanti e sensati: “imparare una lingua richiede di effettuare collegamenti tra i suoni, il loro significato, e i segni grafici che li rappresentano, e la memoria è una parte cruciale di questo processo: se non riesci a ricordare un suono, non è possibile effettuare questo collegamento”, sostiene Nina Kraus, una neuroscienziata che studia musica e linguaggio alla Northwestern University.

In altre parole, per diventare un virtuoso della lingua, la memoria è importante tanto quanto la percezione.

 

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Fonzie colpisce duro sulla Dislessia… Hey!

 

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Amare gli animali e mangiare gli animali: come riduciamo la dissonanza cognitiva del “meat paradox”

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E’ il meccanismo della riduzione della dissonanza cognitiva che ci viene davvero in aiuto ogni qualvolta, seppur consapevoli dell'”umanità” animale, ci facciamo una bella bistecca: a 9 su 10 di noi, non potendo adattare il proprio comportamento al proprio sistema di credenze e valori (per esempio diventando vegetariani), non resta che adattare le proprie idee al comportamento.

L’italiano medio consuma 81 kg di carne all’anno, poca se si considera che l’americano tipo ne consuma invece più di 250, un appetito alimentato dal massacro di 10 miliardi di animali. Il consumo di carne convive, nella maggior parte delle persone, con la cura e l’amore per gli animali, sopratutto quelli domestici. Ma come viene gestita la tensione psicologica creata da questi comportamenti apparentemente così contrastanti?

Steve Loughnan dell’Università di Melbourne lo chiama il “paradosso della carne”. Lui e il suo team hanno lavorato anni per comprendere il lavorio mentale a cui ricorriamo per risolvere e convivere con questo dilemma morale.

Il modo più sicuro e più ovvio per eliminare questa tensione morale e psicologica è quello di astenersi dal mangiare carne, diventando vegani o vegetariani. Molti vegani dicono che sono disgustati dall’idea di mangiare carne, e il disgusto è un’emozione potente.

Ma non sono molti a compiere questo passo. Questo perché la carne ci piace, ha un buon sapore, e mangiarla ci dà piacere. È l’interazione tra piacere e disgusto a determinare se ci asteniamo o cediamo di fronte ad un hamburger. 

Loughnan si è chiesto a cosa è attribuibile il trionfo del piacere o quello del disgusto, e per scoprirlo ha studiato i carnivori stessi: Quali sono i loro atteggiamenti e valori in genere? come percepiscono bovini e cani? Come fanno pendere la bilancia verso il piacere e tengono lontano il disgusto?

Lui e il suo team hanno trovato alcune differenze interessanti tra i mangiatori di carne e vegetariani. Ad esempio, i mangiatori di carne tendono ad essere più autoritari, accettano l’espressione dell’aggressività e sono anche più propensi ad accettare le disuguaglianze e ad abbracciare le gerarchie sociali.

A quanto pare questi atteggiamenti verso altri esseri umani gli permettono di percepire il consumo di carne come meno problematico moralmente. II mangiare carne è anche strettamente legato all’identità maschile, come se nell’immaginario comune i “veri uomini” non mangiassero niente che non si stacchi da un osso!

Questi valori personali si riflettono anche nelle credenze sugli animali che mangiamo, cioè sulla percezione che abbiamo della loro mente e su quanto li percepiamo simili a noi. Quello che ci domandiamo, insomma, è: “ma gli animali soffrono? E quanto consapevoli del dolore che provano?”.

Loughnan e il suo team hanno scoperto che mangiare un animale “consapevole” e “pensante”, ad esempio un cane, è pecepito come più immorale e disgustoso del mangiare un maiale, percepito come meno consapevole.

Tutte queste percezioni, combinate tra loro a formare il punto di vista individuale di ciascuno, forniscono uno strumento cognitivo potente per risolvere il “paradosso della carne”. Uno in particolare sembra permetterci di salvare capra e cavoli: percepiamo gli animali come capaci di soffrire, ma non se li uccidiamo “umanamente”.

Ma è il meccanismo della riduzione della dissonanza cognitiva che ci viene davvero in aiuto ogni qualvolta, seppur consapevoli dell’”umanità” animale, ci facciamo una bella bistecca: a 9 su 10 di noi, non potendo adattare il proprio comportamento al proprio sistema di credenze e valori (per esempio diventando vegetariani), non resta che adattare le proprie idee al comportamento…ecco allora che l’animale che ci stiamo per mangiare diventa improvvisamente meno “pensante”, e quindi meno in grado di pecepire la sofferenza.

 

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Mangiare o non mangiare animali?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Loughnan, S., Bratanova, B., & Puvia, E. (2012). The Meat Paradox: How are we able to love animals and love eating animals. In-Mind Italia, 15-18. DOWNLOAD

L’educazione religiosa nei bambini riduce la loro capacità di distinguere tra fantasia e realtà

FLASH NEWS

 

Secondo un’interessante ricerca pubblicata su Cognitive Science i bambini che ricevono un’educazione religiosa avrebbero difficoltà a distinguere tra realtà e finzione. 

I ricercatori hanno presentato a un campione di 66 bambini di 5 e 6 anni tre diversi tipi di storie – religiose, fantastiche e realistiche – allo scopo di valutare quanto i bambini fossero in grado di identificare nelle narrazioni elementi impossibili o di fantasia.

I risultati indicano che i bambini che avevano ricevuto un’educazione religiosa erano significativamente meno capaci rispetto agli altri di identificare gli elementi soprannaturali e fantastici del racconto, come ad esempio gli animali parlanti. 

I racconti religiosi ricchi di elementi apparentemente impossibili (ad esempio, Gesù che trasforma l’acqua in vino) diventano per loro l’impalcatura affidabile alla quale affidare il loro sistema di categorizzazione, che ne risulta compromesso quando si trovano a dover discriminare tra elementi di fantasia e reali.

Confutando l’idea che i bambini siano “credenti nati”, gli autori concludono: “l’insegnamento religioso, in particolare l’esposizione a storie di miracoli, porta i bambini ad una ricettività più generica verso l’impossibile, cioè, una più ampia accettazione che l’impossibile può accadere a dispetto di relazioni causali ordinarie.”

 

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BIBLIOGRAFIA:

Neurocezione e relazioni sociali: Il contributo della Teoria Polivagale

Molto spesso la sofferenza psicologica è determinata proprio dal “fallimento” della neurocezione e può riguardare due aspetti centrali per la nostra sopravvivenza: l’incapacità di disattivare il sistema di difesa in condizioni di sicurezza o al contrario l’impossibilità di attivare comportamenti difensivi in situazioni di pericolo.

Osservando i neonati o bambini molto piccoli è esperienza molto comune vederli reagire in modo diverso allo stesso gioco o allo stesso abbraccio in presenza di persone diverse. Allo stesso modo possono ricercare attivamente l’attenzione di un estraneo o sentirsi terrorizzati dal suo solo ingresso nella stanza in cui fino ad un attimo prima giocavano serenamente. Cosa determina queste reazioni?

Secondo il modello di Stephan Porges, già discusso in precedenti contributi sull’argomento, il nostro sistema nervoso sarebbe costantemente impegnato nella valutazione dei rischi, attraverso la continua elaborazione di informazioni e stimoli che dall’ambiente raggiungono i nostri sensi: Neurocezione è il termine coniato dal Prof. Porges per spiegare questo processo.

La nostra eredità come specie ha reso necessaria sin da subito questa abilità per riconoscere i predatori e ancora oggi questo istinto resta scritto nei circuiti neurali più primitivi e ci porta ad avere comportamenti di socializzazione verso persone familiari e comportamenti difensivi verso gli estranei. Il tutto avviene in base a quanto ci sentiamo al sicuro e questo sin dai primissimi attimi di vita!

Molto spesso la sofferenza psicologica è determinata proprio dal “fallimento” della neurocezione e può riguardare due aspetti centrali per la nostra sopravvivenza: l’incapacità di disattivare il sistema di difesa in condizioni di sicurezza o al contrario l’impossibilità di attivare comportamenti difensivi in situazioni di pericolo.

Le moderne tecniche di neuroimaging ci hanno dato la possibilità di individuare le aree del cervello che si “accendono” tutte le volte che ci sentiamo al sicuro (lobi temporali) e che sono in grado di “spegnere” i circuiti neurali responsabili delle risposte difensive (attacco, fuga, freezing, svenimento). Le stesse aree temporali promuovono i processi di affiliazione e comportamenti pro sociali tra esseri umani, grazie all’attivazione di ormoni che favoriscono un legame empatico, positivo e cooperativo.

Uno dei più coinvolti nella capacità di costruire e trarre benessere dalla relazione con gli altri è l’ossitocina: molto presente durante le ultime fasi della gravidanza, il parto e le primissime fasi di vita del bambino, viene rilasciata nel nostro cervello ogni volta che da adulti sentiamo piacere nel contatto o nell’abbraccio di una persona cara, ogni volta che riusciamo a sentire profonda intimità con l’altro. Al contrario non vi è alcun rilascio di ossitocina se ci sentiamo minacciati da un contatto o dall’abbraccio di qualcuno. La stessa esperienza non è più fonte di sicurezza e, dunque, neanche di piacere. 

Il passo successivo all’inibizione dei circuiti difensivi è dunque guadagnare la prossimità fisica e il contatto. Quali sono i segnali del corpo che consentono di ridurre la distanza e di entrare in contatto con gli altri?

Il modo in cui l’altro si muove verso di noi, con il suo corpo e con la sua presenza, determina indubbiamente la lettura che facciamo delle sue intenzioni: ci aiuta a distinguere una ricerca di contatto intimo e affettuoso da una ricerca di contatto violento, minaccioso.

Se tuttavia il sistema di attaccamento sociale fosse legato alla sola lettura ed espressione del movimento volontario, i neonati sarebbero enormemente svantaggiati proprio perché in loro lo sviluppo neurale del sistema motorio corticale, legato al movimento intenzionale, è completamente immaturo.

La ricerca di contatto e prossimità sembra piuttosto dipendere, all’inizio della nostra vita, dal modo in cui muoviamo i muscoli del volto e della testa, regolati da vie neurali più primitive che legano la corteccia al tronco cerebrale (vie cortico spinali). Attraverso questi muscoli riusciamo a dare espressione al volto, a regolare il tono della voce, a direzionare lo sguardo e a distinguere la voce umana tra rumori di fondo.

Queste vie neurali sono sufficientemente sviluppate sin dalla nascita e consentono al neonato di attivare il caregiver attraverso vocalizzazioni e smorfie e di entrare in contatto con il mondo attraverso la direzione dello sguardo, il sorriso e la suzione.

La regolazione neurale e la tonicità dei muscoli del volto e della testa influenzano dunque enormemente come ognuno di noi percepisce l’altro e come l’altro legge le nostre emozioni; il perfezionamento di questa regolazione reciproca e positiva riduce gradualmente la distanza necessaria alla sicurezza, favorendo la costruzione di una maggiore intimità e, nel tempo, di un legame affettivo più forte e solido.

Questo ‘scambio di segnali di sicurezza’ permette a noi esseri umani, sin dalla nascita e poi da adulti, di mantenere il legame e comunicare efficacemente con l’altro attraverso:

 – il contatto oculare, 

– le vocalizzazioni o un tono di voce in grado di attirare gli altri, 

– il ritmo e il suono della voce, 

– le espressioni facciali congrue a come ci sentiamo e 

 la modulazione dei muscoli dell’orecchio medio, per distinguere la voce umana dai rumori di fondo. 

Al contrario, quando la tonicità e la regolazione di questi muscoli è ridotta, la risposta del corpo cambia e cambiano i messaggi che diamo e che riceviamo dagli altri:

– le palpebre sono più chiuse e limitano il contatto oculare, 

– la voce diventa più stereotipata e perde le inflessioni, 

– le espressioni facciali positive scompaiono, 

– la percezione del suono della voce umana diventa meno intensa, 

– la sensibilità e l’interesse per la vicinanza dell’altro si riduce drasticamente. 

La ridotta tonicità e reattività dei muscoli del volto può essere causata da molte situazioni: succede automaticamente in risposta alla neurocezione di un pericolo o di una minaccia alla propria vita proveniente dall’ambiente esterno (es. persona, situazione, evento stressante) oppure può essere determinata da un’alterazione dell’equilibrio interno (es. malattia, dolore fisico, malessere psicologico).

Il nostro modo di interagire con gli altri e di ingaggiarci in legami sociali può variare enormemente in tutte queste situazioni. E’ importante sottolineare a questo proposito come non è solo l’attivazione intensa di questi muscoli legata ad emozioni negative (rabbia, paura) ad essere riconosciuta come pericolosa dal nostro sistema neurocettivo, ma anche un’espressione piatta (still face) come quella di un genitore depresso o di un bambino malato può essere percepita come minacciosa per la vita e inibire la regolazione affettiva spontanea nei processi di interazione sociale e nella lenta costruzione di legami di reciprocità.

In presenza di disturbi psichiatrici e di sofferenza psicologica, in cui la minaccia è spesso interna e legata ad una cronica incapacità di sentire e mantenere un senso di sicurezza personale, si è spesso portati a vivere il rapporto con l’altro in modo estremo e disfunzionale cercando la regolazione affettiva (e neurobiologica) di cui abbiamo bisogno in modo pressante e incongruo o talora rinunciando a questa regolazione, rifiutando ogni contatto, disinvestendo completamente nella possibilità di essere aiutati o confortati dalla sola vicinanza dell’altro.

Anche nelle relazioni adulte, e la psicoterapia è spesso soprattutto questo, è possibile rintracciare questi segnali di disarmonia (difficoltà nel mantenere una contatto oculare, occhi chiusi, sguardo in basso, testa reclinata in basso o lateralmente, voce alta o improvviso calo del tono di voce, espressioni del viso incongrue rispetto al dialogo in corso,..) e riuscire a leggerli in tempo, su se stessi e sugli altri, può aiutare nel ripristinare una buona regolazione e una più efficace comunicazione.

Grazie al Prof. Porges ora sappiamo che tutti questi cambiamenti hanno a che fare con sistemi neurobiologici molto primitivi e ci segnalano sempre che qualcosa di importante sta avvenendo nella relazione o nella situazione in cui siamo. Sta a noi coglierli o lasciarli inosservati.

DA SEGNALARE:

Per ulteriori approfondimenti su aspetti clinici della Teoria Polivagale, il Prof. Porges sarà a Milano il 25 e il 26 Ottobre 2014 in occasione del Convegno dal titolo: “APPLICAZIONI CLINICHE DELLA TEORIA POLIVAGALE: IL POTERE TRASFORMATIVO DELLA SENSAZIONE DI SICUREZZA”.

 

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La Teoria Polivagale: fisiologia della paura – Report dal Congresso 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il dialogo con le voci: come conoscere e ascoltare il lato oscuro di sè

 

La scoperta dei tanti sé che abitano la nostra psiche e guidano la nostra vita è il compito numero uno nel percorso di consapevolezza. E’ solo assumendo responsabilità delle nostre parti che possiamo smettere di vederle negli altri. Reclamando la nostra intera eredità, possiamo vedere gli esseri umani, compresi noi stessi, con maggior compassione e comprensione. 

Dall’epoca dell’Illuminismo l’umanità ha rinnegato tutte le energie “più oscure” come la passionalità, l’irrazionalità, il misticismo, il dubbio, il paradosso ed ha ammirato, quasi venerato, la razionalità, il distacco, l’obiettività scientifica, la chiarezza.

In tal modo è stato negata gran parte dell’informazione che era accessibile a noi in quanto esseri umani. Abbiamo negato anche la nostra collera, la nostra irritabilità, mancanza di sicurezza e confusione, in favore di equilibrio, buon umore, certezza e fiducia in noi stessi. 

I “sette vizi capitali ” (dal latino vitium = difetto, abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) cioè sessualità, sensualità ed emotività, sono bisogni naturali e per lungo tempo sono stati rinnegati poiché intesi come inclinazioni morali e comportamentali distruttivi per l’animo umano, e sono stati contrapposti alle virtù, che invece promuovevano la crescita.

Tutte le attitudini considerate immorali e devianti sono state estirpate dalla società e poiché considerate inaccettabili, si sono trasformate in lato oscuro.

Il lato oscuro è quella parte di ciascuno di noi che nascondiamo a noi stessi o agli altri poiché inaccettabile. E’ ragionevole ritenere che ci voglia una gran quantità di energia per tenere sepolta la nostra vita istintiva, e quanto più a lungo e profondamente è sepolta, tanto più oscura diviene e tanta più energia è necessaria per tenerla sepolta.

 

I nostri sé

Agli inizi degli anni ’70 gli psicologi Stone cominciano ad interessarsi alle tematiche legate alla psicologia dei Sè ed affermano che la psiche contiene molti sé individuali, ognuno con una sua modalità di percezione della realtà, con la sua storia personale, le sue caratteristiche fisiche, le sue reazioni emotive, le sue opinioni su come dovremmo vivere la nostra vita (Stone & Stone, 1996).

Sidra e Hal Stone affermano:

[blockquote style=”1″].. Molto presto nelle nostre esplorazioni iniziammo a vedere che noi siamo composti da sé primari ovvero un gruppo di sé che definiscono la nostra personalità. Ogni volta che ci identifichiamo con un sé primario dall’altra parte c’è, uguale e contrario, il suo opposto ovvero un sé rinnegato. Cominciammo a vedere, comunque, che il vero dono del lavoro non era semplicemente parlare con i sé primari. Al contrario, iniziammo a vedere che il significato vero del lavoro era nel lavorare direttamente con gli opposti. Sembrava importante imparare a separarsi dai sé primari, parlare con i sé rinnegati, e poi imparare a stare fra gli opposti (dei sé primari e rinnegati) sentendoli chiaramente entrambi contemporaneamente. Erano gli opposti ad essere importanti.[/blockquote]

Quando l’Io viene a confrontarsi con la pressione di angosce non elaborabili, percepite come disintegranti e non è possibile integrare in coscienza le parti che abitano il lato oscuro, si verifica l’attivazione di un meccanismo di difesa che Melanie Kein definisce con il termine identificazione proiettiva (Kein, 1946) secondo cui si introducono parti scisse di sé all’interno dell’oggetto esterno al fine di possederlo e controllarlo.

Dalle parole di Klein:

[blockquote style=”1″]Una delle primissime difese nei confronti della paura dei persecutori, siano questi immaginati nel mondo esterno o interiorizzati, è costituita dalla scotomizzazione, cioè dal diniego della realtà psichica; questo può produrre una limitazione considerevole dei meccanismi dell’introiezione e della proiezione e tradursi in diniego della realtà esterna, una situazione che costituisce la base delle psicosi più gravi.[/blockquote]

Se non permettiamo a queste parti che ci appartengono di dialogare con noi, se continuiamo a rinnegarle, esse aumenteranno di intensità, verranno proiettate all’esterno e alla fine proromperanno nelle nostre vite fuori controllo. Al contrario noi abbiamo più possibilità di controllarle quando è permesso loro di esprimersi in modo equilibrato e di essere ascoltate.

La scoperta dei tanti sé che abitano la nostra psiche e guidano la nostra vita è il compito numero uno nel percorso di consapevolezza. E’ solo assumendo responsabilità delle nostre parti che possiamo smettere di vederle negli altri. Reclamando la nostra intera eredità, possiamo vedere gli esseri umani, compresi noi stessi, con maggior compassione e comprensione.

Il Dialogo con le Voci 

Il Dialogo con le Voci fornisce l’accesso diretto alle sub-personalità (i nostri sé) e offre l’occasione di separarle dalla personalità totale e di trattarle come unità psichiche indipendenti ed interagenti. Usando il Dialogo con le Voci ci si rivolge direttamente ad ogni sub-personalità, sia come entità individuale, sia come parte di una personalità totale.

 

Questa tecnica ho lo scopo di aumentare consapevolezza nella costituzione psicologica del soggetto. Questa è una esplorazione rilassata e allo stesso tempo vigile che tende ad incoraggiare la voce a parlare della persona in questione come di un’entità separata. Poiché le voci sono come persone, se il facilitatore è veramente disponibile ed interessato, esse si aprono; se al contrario sentono la mancanza di accettazione o la disapprovazione, tendono a ritirarsi o perfino ad aggredire.

Inoltre, il Dialogo con le Voci è un esplorazione congiunta, e questo atteggiamento allontana il vincolo relazionale genitore-bambino ma incoraggia il soggetto ad evitare di rinunciare al proprio potere in favore di quello del facilitatore. Infatti, lo scopo ultimo è l’espansione della coscienza e non la convalida della visione del facilitatore.

Il Dialogo con le Voci è a volte utilizzato nel lavoro con gli uditori di voci e prevede una o più conversazioni dove il facilitatore entra in contatto direttamente con le voci che la persona sente ed il soggetto uditore riporta ciò che la voce risponde (Cortens et al., 2007).

Secondo questa prospettiva, in accordo con quanto prima espresso, le voci vengono considerate vere per la persona che le sente e quindi vengono esplorate, riconosciute, onorate ed ascoltate (Romme & Escher, 2000). Nella sostanza non vi sono grandi differenze se non che l’uditore non riconosce la voce come parte di sé.

Lo scopo ultimo del dialogo con le voci è quello di una esplorazione vigile e rilassata di chi sono le voci e di cosa vogliono dalla persona e si pratica solo quando certe condizioni sono soddisfatte, ad esempio la piena volontà di collaborazione da parte dell’uditore.

La persona stessa può essere incoraggiata a strutturare una parte della giornata per ascoltare e dialogare con le sue voci, ad esempio dandosi degli appuntamenti quando sono entrambe le parti disponibili (questo potrebbe aiutare la persona ad entrare in una migliore relazione con la voce).

Lo scopo del rapportarsi con le voci, anche quelle più critiche, consiste nello scoprire la funzione protettiva delle voci più aggressive e comprendere quali siano le esperienze che elicitano la loro ira. Quando l’emozione che guida la voce aggressiva è riconosciuta ed accettata, di solito la voce si calma o si ritira (May, 2014). Questa tecnica con gli uditori di voci può essere unita a tecniche derivanti dalla Gestalt (ad esempio la tecnica della sedia vuota) e dalla Drama Therapy.

Cambiare il rapporto con le proprie voci potrebbe essere di grande aiuto per le persone che provano forte stress dovuto alla presenza di voci critiche, aggressive ed invalidanti. Questo viaggio di scoperta e consapevolezza può essere affrontato all’interno di un percorso più ampio che prevede la collaborazione di diverse figure professionali e di altri significativi per la persona.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Atei & Credenti: cambia il senso della moralità?

FLASH NEWS

L’idea secondo cui gli atei sarebbero più immorali dei credenti appare allora erronea, come risulta indagando su questa linea sia in termini pratici che teorici.

Che gli atei siano malvisti dall’opinione pubblica non è difficile da credere; in un ipotetico indice di gradevolezza, tale categoria risulterebbe in fondo alla lista.

Molti studi si muovono in questa direzione; ad esempio la ricerca del Professor Edgell dell’University of Minnesota dimostra che gli Americani condividono meno la visione della società che hanno le persone atee, rispetto ad altri gruppi quali, ad esempio, i musulmani, i cristiani, gli omosessuali, gli immigrati. Questo anche in seguito ai fatti dell’11 Settembre, che avrebbero fatto piuttosto pensare ad una generica tendenza da parte degli americani a disapprovare il pensiero delle persone musulmane.

In uno studio pubblicato da Gervais nel 2011, si richiede ad un campione di 105 persone di leggere un testo in cui si descrivono due azioni immorali (urtare una macchina in un parcheggio senza lasciare il proprio numero e rubare i soldi da un portafoglio trovato gettandolo in seguito nella spazzatura) commesse da Richard, un personaggio immaginario; si chiede dunque ai soggetti di avanzare delle ipotesi sulla categoria di appartenenza di tale personaggio: insegnante, oppure insegnante e cristiano, insegnante e musulmano, insegnante e stupratore o, infine, insegnante ed ateo.

 

Ebbene, la maggior parte dei soggetti ha scelto quest’ultima ipotesi ovvero, in altre parole, è più facile che una persona si “comporti male” quando sia atea; è interessante notare che, nello specifico, è anche più probabile che una persona commetta azioni immorali quando si tratti di un ateo, piuttosto che quando si tratti di un violentatore.

Quanto detto finora, ci porta a concludere che la maggior parte delle persone crede che il pensiero ateo sia socialmente incompatibile e più immorale rispetto a quello di altre minoranze, stupratori compresi.

Questa credenza risulta insostenibile alla luce di due osservazioni. Le statistiche, innanzitutto. Ammesso che consideriamo la criminalità come indice di immoralità, gli atei detenuti nelle prigioni americane sono solo lo 0,07%. In testa alla statistica ci sono piuttosto Cristiani, Protestanti e Musulmani.

La seconda osservazione è che, per l’appunto, la definizione del concetto di moralità risulta essere problematica. I credenti, per esempio, definiscono il fatto di non avere una fede in sé stesso immorale. Quindi, secondo questa logica, gli atei sono, a prescindere, individui immorali.

In uno studio pubblicato in Settembre 2014, Hoffman dimostra che gli stessi atti sono ugualmente considerati morali oppure immorali dagli atei e dai credenti. Il ragionamento, dunque, risulta fallace a causa dell’ambiguità della definizione stessa del concetto di moralità.

L’idea secondo cui gli atei sarebbero più immorali dei credenti appare allora erronea, come risulta indagando su questa linea sia in termini pratici che teorici.

Si spera che le persone possano in futuro guardare all’ateismo con una mente più aperta anche perché, come disse Gervais, se si eliminassero dalla popolazione americana tutte le persone atee ed agnostiche, si perderebbe il 93% della popolazione della National Academy of Sciences, e meno dell’1% degli individui detenuti nelle prigioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Altruismo: si è sviluppato da ragioni egoistiche

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Gli autori suggeriscono che gli animali che vivono in gruppo, inclusi gli esseri umani, hanno sviluppato una sensibilità verso l’ingiustizia per evitare di essere sfruttati all’interno del gruppo di appartenenza.

“Assicurati di giocare correttamente” dicono spesso i genitori ai loro figli. In realtà, i bambini non hanno bisogno d’incoraggiamenti per essere onesti, è una caratteristica della vita sociale che emerge durante l’infanzia.

Quando ai bambini si dà la possibilità di condividere i dolci, essi tendono a comportarsi egoisticamente, ma dall’ età di 8 anni la maggior parte preferiscono distribuire le risorse per evitare le disuguaglianze, almeno all’interno del proprio gruppo.

I biologi sono sorpresi da questa tendenza dei bambini a comportarsi altruisticamente. La teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale prevede che gli individui si comportino così in modo da massimizzare il proprio benessere; quindi vengono selezionati solo quei comportamenti che garantiscono la sopravvivenza e la riproduzione dell’individuo singolo o della famiglia a cui fa parte . Tuttavia, il comportamento mostrato dai bambini sembra essere opposto, mostrando dei comportamenti altruistici nei confronti dei loro compagni con cui non sono imparentati.

Il senso di correttezza, egualitarismo o l’avversione verso la disuguaglianza, può essere “danneggiato” dalle istruzioni ricevute per “essere corretti” e dalle ricomprese associate a tali comportamenti.

Questo succede in quanto una motivazione intrinseca del bambino viene trasformata in una regola imposta dall’esterno. E come ben si sa è più semplice seguire le regole in cui si crede invece di quelle che vengono imposte dall’esterno.

 

Gli uomini sono di natura prosociali. Spesso siamo motivati ad aiutare il prossimo in assenza di una richiesta esplicita d’aiuto, come per esempio nel pianto. Poiché le pratiche culturali non influenzano in modo diretto le tendenze prosociali dei bambini in via di sviluppo si pensa che il senso di correttezza che essi possiedono deve aver avuto una forte valenza positiva durante il corso dell’evoluzione umana.

In un recente studio pubblicato sulla rivista Science, Sarah Brosnan dell’Università di Georgia e Frans de Waal della Università di Emory, hanno indagato come si è evoluta la nostra capacità di essere corretti e di reagire di fronte alle ingiustizie.

Per il presente studio sono state studiate le risposte in specifici compiti di diverse specie di primati (scimmie cappuccino e scimpanzé) cani, uccelli e pesci. Dai risultati è emerso che solo gli scimpanzé reagiscono negativamente quando all’interno del gruppo dei pari vengono ricompensati di meno per lo stesso comportamento svolto rispetto agli altri membri (come per esempio ricevere dei pezzi di banana ogni talvolta volta che si tira la stessa corda). Questo comportamento non emerge all’interno dei membri della stessa famiglia.

Gli autori suggeriscono che gli animali che vivono in gruppo, inclusi gli esseri umani, hanno sviluppato una sensibilità verso l’ingiustizia per evitare di essere sfruttati all’interno del gruppo di appartenenza.

Inoltre gli autori suggeriscono che la motivazione di ricevere uguali ricompense, nonostante si penalizzi se stessi,  avviene per preservare la cooperazione trai i pari necessaria per la sopravvivenza di un gruppo.

Le azioni eroiche e di carità (come salvare la vita di un’altra persona, donare sangue e soldi) possono essere interpretate in termini di benefici, sostengono gli autori del presente studio. In quanto le persone che le attuano guadagnano il riconoscimento e l’apprezzamento dei pari.

 

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Le motivazioni alla base dei comportamenti altruistici – Neuroscienze

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Se la mamma ha il nuovo fidanzato, mi fidanzo anch’io!

di Aufiero Daiana e Pichieri Valerio

 

I cambiamenti familiari dovuti alla separazione dei genitori e l’unione di questi con nuovi partner comporterebbero l’aumento di precoci relazioni sentimentali da parte dei figli adolescenti.

Nella società attuale ci sono sempre più famiglie con genitori separati o divorziati (nell’ultimo ventennio si è passati dal 4,5% al 9,3% dei casi secondo dati dell’Istat) e l’annosa questione dell’etichettamento e del pregiudizio rispetto all’argomento va affievolendosi.

I cambiamenti familiari dovuti alla separazione dei genitori e l’unione di questi con nuovi partner comporterebbero, piuttosto, l’aumento di precoci relazioni sentimentali da parte dei figli adolescenti.

Un recente articolo pubblicato a giugno 2014 sul Journal of Marriage and Family, spiegherebbe ciò col fenomeno linked lives (Elder, 1985), secondo il quale, gli eventi di vita genitoriale sarebbero collegati ai cambiamenti nella vita dei figli adolescenti. Questi ultimi sarebbero portati ad avere esperienze sentimentali simili a quelle dei genitori, pertanto, i figli dei separati o divorziati tenderebbero ad avere ben presto relazioni sentimentali e a sperimentare anch’essi la separazione o il divorzio da adulti, soprattutto se a cercarsi il nuovo fidanzato è stata la mamma.

Questo interessante dato emerge da uno studio volto ad indagare la struttura e il clima delle famiglie di adolescenti olandesi e americani.

A tal fine, sono state contattate 135 scuole primarie, di cui il 90,4% ha accettato di partecipare. Il 76,0% dei genitori degli allievi da sottoporre allo studio ha dato il proprio consenso, permettendo di creare un campione di 2.230 partecipanti. Questi ultimi sono stati sottoposti a interviste della durata di 45 minuti, nelle loro stesse case. I soggetti sono stati invitati a ricordare se, in ambito familiare, avevano avuto luogo alcuni eventi rilevanti nel corso degli ultimi 5 anni (a partire dall’inizio dell’adolescenza, sino alla raccolta dei dati), se i genitori avevano divorziato e se loro stessi avevano intrapreso una relazione sentimentale durante quel periodo.

Gli adolescenti hanno riferito com’era la loro struttura familiare 5 anni prima e al momento dell’intervista; hanno riferito le eventuali separazioni e uscite da casa da parte di uno dei due genitori, il mese e l’anno in cui hanno iniziato e finito le proprie relazioni sentimentali.

In linea generale, è emerso che gli olandesi sono molto dediti alla famiglia e ai figli, dato rilevabile dalla bassissima percentuale di divorzi, dal fatto che le mamme lavorino quasi tutte con orari part time e i figli parlino molto con i genitori delle proprie esperienze sentimentali intraprese maggiormente nella tarda adolescenza. Al contrario, negli USA c’è una percentuale di divorzi ben tre volte più alta, le mamme lavorano quasi tutte con orario full time, come gli uomini, pertanto hanno poco tempo da dedicare ai figli, i quali tenderebbero a sopperire a queste mancanze con altre relazioni affettive e sentimentali fuori dal contesto familiare in modo precoce e repentino.

Dallo studio emerge, dunque, che un’atmosfera familiare stressante dovuta alla separazione, unita alla diminuzione di attenzione e di controllo genitoriale sui figli (in particolare da parte della mamma), costituirebbero i fattori che spingono gli adolescenti a cercare altrove il calore emotivo venuto a mancare in casa.

È come se il cambiamento dello stile di vita familiare fungesse da spinta per gli adolescenti a cercare nuove relazione sentimentali… se la mamma ha il nuovo fidanzato, mi fidanzo anch’io!

Un po’ come accade nel film drammatico del 1991 Papà ho trovato un amico, diretto da Howard Zieft, dove la protagonista, un’adolescente, s’innamora precocemente di un ragazzino quando, in questo caso, il padre rimasto vedovo intraprende una storia sentimentale con la nuova collega di lavoro e comincia a trattare la figlia con freddezza.

Dovremmo indagare, dunque, sul perché l’effetto di spinta alla ricerca precoce del partner da parte dell’adolescente arrivi per lo più se è la mamma a cercare il nuovo fidanzato piuttosto che il papà; potrebbe forse esserci lo zampino del primordiale attaccamento madre-figlio di Bowlby?

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La trasmissione intergenerazionale della violenza: un’ipotesi sistemica sui contesti di apprendimento

BIBLIOGRAFIA:

  • Elder, G. H. (1985). Life course dynamics: Trajectories and transitions, 1968–1980. Ithaca, NY: Cornell University Press.

Il ruolo delle Meta-emozioni e Credenze sulle emozioni – Congresso SITCC 2014

Congresso SITCC 2014 Genova

Il ruolo delle Meta-emozioni e Credenze sulle emozioni 

S. Giuri, R. Bedini, A. Brugnoni, G. Caselli, C. Manfredi, A. Mannarino 

Scuola di Psicoterapia Cognitiva Modena 

 

 

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Congresso SITCC 2014

SITCC 2012

Pronunciamento sul copyright della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) – Congresso SITCC 2014

Il 27 settembre 2014 la Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) ha emesso un comunicato in cui chiariva la sua posizione rispetto alla possibile applicazione, nell’ambito della psicoterapia, delle regole e delle leggi sul copyright e sulla protezione dei prodotti intellettuali. Posizione che è di rifiuto. Cosa significa?

Significa che la linea della SITCC è che non si possa proibire a nessun terapeuta formato e abilitato il diritto di affermare di essere in grado d’implementare una certa tecnica terapeutica e, se essa è compatibile con la propria formazione generale, una certa terapia.

Il pronunciamento è evidentemente concepito come una risposta agli sviluppi degli ultimi anni della terapia cognitiva. Sviluppi che vedono una sempre maggiore articolazione e -purtroppo- anche frammentazione delle psicoterapie cognitive.

Frammentazione nella quale le nuove tecniche terapeutiche, invece di limitarsi a incrementare il repertorio operativo di base, tendono invece a costituirsi come nuove terapie a se stanti, non più cognitive. Così sono sorte la Schema Therapy di Young, la Metacognitive Therapy di Wells (2002) o l ‘Acceptance and Committment Therapy di Hayes (Hayes, Strosahl, Wilson, 1999). Ponendosi come paradigmi alternativi e non come sviluppi storici della terapia cognitiva tradizionale queste nuove terapie tendono anche a disconoscere –a volte con mezzi legali- ai terapeuti cognitivi standard la capacità di apprenderle, eseguirle e insegnarla.

Tutto questo, a modo di vedere della SITCC, è un’indebita interpretazione del concetto di proprietà intellettuale e di diritto d’autore. Il che è vero, se consideriamo che un’applicazione massiva di questa interpretazione restrittiva del copyright costringerebbe ogni terapeuta cognitivo a un’eterna formazione spesa in un logorante esplorazione approfondita di ogni angolino terapeutico della teoria cognitiva.

D’altro canto la formazione, se non eterna, diventa sempre più continua. Ed è in parte vero che queste nuove terapie, se è eccessivo pensarle come dei nuovi paradigmi, al tempo stesso non sono delle mere tecniche ma richiedono uno sguardo differente che non può essere appreso solo dai libri. Indubbiamente sono apparse sul mercato terapie diverse che, a partire da prove di efficacia in determinate aree, si pongono come efficaci tout court in tutte le aree e sono molto connotate e molto ben vendute. La legge dice che queste terapie possono disporre di un logo che non può essere emulato e usato indebitamente. Le idee invece sono di tutti.

Ma il rapporto tra un logo che rappresenta un pacchetto di teorie, tecniche, ed esperienze e questo stesso pacchetto non è scontato. Quanto sia stretta questa relazione è più facile capirlo per una borsa di Gucci che per una psicoterapia. Le innovazioni stilistiche di Gucci sono di tutti, ma a nessuno piace avere un fake di Gucci. Allo stesso modo, l’attenzione di Marsha Linehan alle skills training è un patrimonio di tutti, ma l’aderenza al modello è un apprendimento sotto un logo che può essere protetto?

Gruppi con terapeuti esperti lo sanno fare e lo fanno da anni, ma lasciare tutto esclusivamente all’autocertificazione individuale è un problema che non possiamo trascurare. Insomma per noi terapeuti, non solo della SITCC, c’è qualche motivo di riflessione su cui vorremmo aprire un dibattito.

 

COMUNICATO SITCC:

LEGGI ANCHE:

Congresso SITCC 2014

SITCC 2012

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Hayes, S.C., Strosahl, K., Wilson, K. G. (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An Experiential Approach to Behavior Change. Guilford Press, New York. ACQUISTA
  • Young, J.E., Klosko, J.S., Weishaar, M.E. (2003). Schema therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità. Tr. it. Eclipsi, Firenze, 2007. ACQUISTA
  • Wells, A. (2008). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press. ACQUISTA

Bimbi abusati in rete? Il fenomeno dell’adescamento online

Nel nostro contesto il grooming indica una tecnica di manipolazione psicologica, che gli adulti potenziali abusanti utilizzano online, per indurre bambini e adolescenti a superare le resistenze emotive e instaurare una relazione intima e/o sessualizzata con l’adulto.

La rete non è nè buona nè cattiva, dipende dall’ uso che ne facciamo. Questo è il concetto fondamentale dal quale è utile partire per evitare che genitori ed insegnanti dei cosiddetti nativi digitali entrino in una spirale catastrofica che attribuisce estrema pericolosità a quello che è, e deve rimanere, solo uno strumento.

E se il focus rimane sull’uso che facciamo di una certa cosa è sempre possibile percorrere delle strade che hanno a che fare con l’educazione, l’informazione, e la responsabilizzazione. Sentieri forse più incerti e lenti rispetto ai viadotti del controllare, bloccare e terrorizzare, ma che ci permettono di arrivare con i nostri figli in un luogo certamente più sicuro.

Quando si parla di sicurezza online ci si riferisce a cose molto diverse tra loro. In inglese ci sono due termini che ci aiutano a specificare meglio: security e safety. Con security ci si riferisce all’hardware e al software del nostro dispositivo elettronico, tutto ciò che posso utilizzare per rendere più sicuro il mio strumento, quindi antivirus, filtri ecc. Quando invece si parla di safety ci si riferisce a comportamenti e atteggiamenti che vengono o meno messi in atto e che possono mettere in sicurezza l’utilizzatore dello strumento e non lo strumento in sé. Dunque, ben vengano i filtri, il parental control ecc, importanti soprattutto per proteggere i più piccoli dall’esposizione a contenuti non adatti.

Ma quando incomincia l’età in cui viene meno il controllo genitoriale, è necessario che i nostri ragazzi siano già stati aiutati a raggiungere quelle competenze (tecniche, cognitive, emotive, valoriali) che gli permetteranno di navigare in maniera sicura e responsabile.

Lavorando in un’ ottica di prevenzione dunque è necessario muoversi in una dimensione educativa che tenga conto dei loro bisogni affettivi, sociali, di riferimento, di conoscenza, ecc. e dei loro diritti, primo fra tutti quello alla partecipazione ai sistemi di convivenza cui appartengono.

La conoscenza, l’aumento di senso critico, la possibilità di scegliere consapevolmente, e soprattutto la presenza e disponibilità degli adulti di riferimento nel difficile ruolo di guida verso la cittadinanza (che è anche digitale) sembrano essere, anche in un contesto complesso come quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), le migliori soluzioni.

È bene quindi conoscere oltre alle tante straordinarie opportunità che ci offrono le TIC, anche le insidie che si nascondono in esse per prevenire possibili conseguenze negative e soprattutto per aiutare i nostri figli ad orientarsi in esse.

I principali rischi online sono:

– adescamento online (grooming)

– sexting

– cyberbullismo

– gruppi pro-ana pro-mia

– esposizione a contenuti dannosi

– violazioni della privacy

– dipendenza

Partiamo dal trattare un fenomeno molto complesso: quello dell’adescamento online o grooming.

Grooming (dall’inglese “groom” – curare, prendersi cura) è un termine di derivazione etologica che letteralmente si riferisce a quel comportamento osservato in diversi primati, tra cui gli scimpanzé e i bonobo, per cui un animale provvede a ripulire un suo simile dai parassiti. Nel nostro contesto indica una tecnica di manipolazione psicologica, che gli adulti potenziali abusanti utilizzano online, per indurre bambini e adolescenti a superare le resistenze emotive e instaurare una relazione intima e/o sessualizzata con l’adulto.

Gli adulti interessati sessualmente a bambini e adolescenti utilizzano gli strumenti come i social network, le chat (soprattutto quelle dei giochi online), gli SMS per entrare in contatto con loro. Il grooming definisce proprio il percorso attraverso il quale l’adulto instaura una relazione “di fiducia” con il bambino o adolescente. Tale percorso si sviluppa in tre passaggi distinti:

  1. Contatto. Viene instaurato il primo contatto tra l’adescatore e il minore. Questo può avvenire semplicemente tramite una chat di un gioco online o tramite una richiesta di amicizia su di un social network.
  2. Fiducia. Generalmente dopo i primi contatti, l’adescatore si informa sul livello di “privacy” nel quale si svolge la relazione con il bambino/adolescente (dove è situato il computer in casa, se i genitori sono presenti, se qualcun altro oltre al minore ha accesso allo smartphone ecc.); dopo aver ottenuto queste informazioni, avvia un processo finalizzato a conquistarne la fiducia; condividendo, ad esempio, interessi comuni (musica, attori/attrici preferiti, hobby, ecc.). Se il minore possiede un profilo personale in un social network come Facebook non è difficile per l’adulto ottenere preziose informazioni sui gusti personali del bambino/a… per passare poi a confidenze di natura sempre più privata e intima. In questa fase può verificarsi lo scambio di immagini, non sempre a sfondo sessuale (almeno in una prima fase);
  3. Esclusività. Quando l’adulto è certo di non correre il rischio di essere scoperto, inizia la fase dell’esclusività, che rende impenetrabile la relazione ad esterni. È in questa fase che può avvenire la produzione, l’invio o lo scambio di immagini – anche attraverso l’utilizzo di una webcam – a sfondo sessuale esplicito e la richiesta di un incontro offline. Spesso materiale pedopornografico può essere utilizzato dall’adulto al fine di normalizzare e rendere accettabile una relazione sessualizzata tra un adulto e un bambino/adolescente; a volte, il minore stesso viene sollecitato a inviare sue immagini e/o video. Le stesse immagini/video oppure i testi inviati dal minore in cui, ingenuamente possono avere confessato, ad esempio, le sue fantasie intime, possono poi essere utilizzate in forma ricattatoria in seguito ad un suo eventuale rifiuto nel continuare il rapporto online o nell’avviare una vera e propria relazione sessuale.

Spesso il minore ignora che dall’altra parte potrebbe trovarsi un adulto, altre volte l’età è chiara fin da subito ma non costituisce un problema anche grazie alla presenza dello schermo che mettendo distanza facilita l’apertura.

Quanto è diffuso il fenomeno dell’adescamento online?

Da un’indagine condotta negli Stati Uniti nel 2010, è emerso che un adolescente su 10 è stato adescato online. Nel 69% dei casi, tuttavia, il tentativo di adescamento non si è concluso con una richiesta di contatto al di fuori della Rete.

E’ stato osservato che gli adolescenti sono maggiormente a rischio di essere adescati rispetto ai bambini più piccoli; inoltre, per le ragazze vi è un rischio maggiore rispetto ai loro coetanei maschi.

Secondo un’indagine condotta da EuKids nel 2012 su un campione di oltre 25.000 bambini e adolescenti (età 9-16 anni) provenienti da 25 Paesi europei, il 30% ha riferito di avere conosciuto persone estranee attraverso internet (il 23% ha riferito di averne conosciute 5 o più). Nel 9% dei casi, al contatto online è seguito un incontro offline, ma solo l’1% ha riferito di essersi sentito preoccupato o turbato per questi incontri, mostrando una sottostima dei possibili rischi connessi all’incontro con persone sconosciute.

L’adescamento online è un fenomeno in forte espansione anche nel nostro paese negli ultimi anni e specialmente a seguito del boom dei social network, le vittime degli abusi online appartengono a fasce d’età sempre più basse, tra i 10 e i 12 anni.

Contrariamente a quanto si può pensare, non sono solo le ragazze ad essere esposte a questa tipologia di rischio; i ragazzi maschi, soprattutto quelli disorientati rispetto alla costruzione della propria identità e orientamento sessuale, possono essere particolarmente vulnerabili e quindi ugualmente esposti alla possibilità di entrare in contatto con adulti potenzialmente abusanti.

Educare, informare e responsabilizzare.

Non sempre però abbiamo presente che il minore davanti alle nuove tecnologie ha un ruolo attivo, un modo personale di pensare, sentire e comportarsi e soprattutto ha un ruolo decisionale nei tentativi di adescamento. Per questo è nostro dovere far sapere ai ragazzi:

  • che immagini che ritraggono minori in atteggiamenti sessualizzati spedite o pubblicate su internet potrebbero essere usate in maniera imprevedibile fino a danneggiarci;
  • che per pedopornografia si intende qualsiasi immagine di natura sessuale che ritrae minori di 18 anni;
  • che la legge punisce chi produce ma anche chi scarica, diffonde o pubblicizza questo tipo di immagini.

Nel nostro Paese, l’azione di lotta alla pedofilia online è condotta dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni, specialmente attraverso l’attività del Centro Nazionale per il contrasto della pedopornografia sulla rete Internet.

Per contrastare il fenomeno dell’adescamento online, la legge 1 ottobre 2012 n.172 di ratifica della Convenzione di Lanzarote, prevede l’introduzione del nuovo reato di “adescamento di minorenni” (art. 609-undecies del codice penale). Questa nuova fattispecie di reato consiste in qualsiasi atto volto a carpire la fiducia di un minore di 16 anni attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, allo scopo di commettere uno dei reati sessuali contro i minori previsti dalla legge.

La pena prevista per che si macchia di questo reato è la reclusione da 1 a 3 anni.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Cybersexual addiction: quando il sesso online dà dipendenza – Psicologia & Cybersex

 

BIBLIOGRAFIA:

Pica – Definizione Psicopedia

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Si caratterizza per la continuativa ingestione di una o più sostanze di contenuto non alimentare e non commestibili per almeno 1 mese. Esempi possono essere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, vernice, gomma, metallo, cenere, terra, ciottoli, ghiaccio………

 

 Rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 (uscito nel maggio 2013), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria. Nella versione precedente era inserita nel paragrafo “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”, del capitolo “Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza”.

Si caratterizza per la continuativa ingestione di una o più sostanze di contenuto non alimentare e non commestibili per almeno 1 mese. Esempi possono essere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, vernice, gomma, metallo, cenere, terra, ciottoli, ghiaccio………

Vanno escluse le pratiche di ingestione all’interno di contesti culturali e sociali particolari, quali rituali di popolazioni lontane o immigrate.

Abitualmente non si manifesta avversione per il cibo.

L’esordio è più frequente in età infantile, comunque superiore ai 2 anni (fino ad allora fa parte dei gesti abituali degli bambini piccoli), anche in presenza di uno sviluppo normale; negli adulti, invece, spesso, si associa a disabilità intellettiva grave o altri disturbi mentali, in questo caso viene apposta la diagnosi di pica solamente in presenza di un quadro clinico importante. Il decorso del disturbo, soprattutto negli adulti, con comorbilità è duraturo.

Può comparire nelle donne in gravidanza come desiderio incontrollato, si pone però solo diagnosi di pica quando c’è un rischio medico legato all’ingestione.

Conseguenze mediche di questo comportamento sono ostruzioni intestinali, avvelenamenti, infezioni e deficit nutrizionali.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione – Definizione Psicopedia 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM – 5). Raffaello Cortina editore.  ACQUISTA ONLINE
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