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Ma dove sono tutti questi bambini iperattivi? Incidenza di ADHD quindici volte inferiore alle attese

COMUNICATO STAMPA – IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri

Da una capillare ricerca della Regione Lombardia, sulla base dell’affinamento dei metodi diagnostici, risulta che l’ADHD è quindici volte inferiore a quella riportata come media nazionale e internazionale.

La sovravalutazione della patologia può concorrere a determinare sia l’abuso nella prescrizione di psicofarmaci, sia il ricorso a errate terapie.

IRCCS Mario Negri - LogoMilano, 3 Novembre 2014 – Secondo la letteratura mondiale i bambini e gli adolescenti iperattivi, affetti da una vera e propria patologia (ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder), sarebbero il 5,3% della popolazione tra 5-17 anni.

            I dati raccolti dal Registro dell’ADHD della Regione Lombardia, pubblicato sul numero 179 della rivista Ricerca&Pratica in distribuzione. (www.ricercaepratica.it), frutto di una capillare e dettagliata indagine, tuttavia la smentiscono clamorosamente. In Lombardia la prevalenza del disturbo è del 3,5 per mille, quindici volte inferiore a quella riportata come media mondiale.

            Il Registro, istituito nel 2011 nell’ambito di uno specifico progetto regionale di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e sostenuto dalla Direzione Generale Salute , con la finalità principale di garantire un’adeguata valutazione e terapia dell’ADHD ad ogni bambino e adolescente fin dal sospetto o segnalazione del disturbo, ha l’obiettivo di stimare la prevalenza del disturbo, definire percorsi diagnostico-terapeutici condivisi, intensificare la formazione e l’aggiornamento degli operatori e informare i cittadini.

            I risultati dello studio documentano che al 65% dei bambini e adolescenti (5-17 anni) che accedono ai 18 Centri Regionali di Riferimento per l’ADHD della Regione Lombardia per sospetto ADHD viene confermato il disturbo. Corrispondono a circa 400 nuovi casi ogni anno, con un picco attorno agli 8 anni d’età, in maggioranza maschi (2 a 1); in un terzo dei casi era presente familiarità e nella maggioranza dei pazienti almeno un altro disturbo psicopatologico. Solo il 15% ha ricevuto un trattamento psicofarmacologico, mentre la quasi totalità uno psicologico.

            Risultati, dunque, inattesi e lontani da quelli riportati in precedenti studi nazionali e internazionali.

            “La forza e unicità di questo studio – sostiene Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica dell’IRCCS Mario Negri di Milano e responsabile del Registro regionale -. sono rappresentate dalle dimensioni: tutta la popolazione di un’intera Regione coinvolta; dalla metodologia applicata: Registro, formazione, informazione; dalla durata nel tempo: il Progetto è ancora attivo. Dai dati raccolti dal Registro e da quelli dei database amministrativi sanitari regionali (prescrizioni, ricoveri, visite ambulatoriali) i bambini e adolescenti (5-17 anni) che presentano ADHD in Lombardia risultano essere 4200 di cui 378 in terapia psicofarmacologica (9%): una prevalenza del disturbo del 3,5 per mille, quindici volte inferiore a quella riportata come media mondiale (5,3% )”.

           

Gli utenti che giungono ai 18 Centri Regionali di Riferimento sono solo quei pazienti che hanno un disturbo medio-grave, con maggiore comorbidità – dice Antonella Costantino, Presidente della SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) e responsabile della UONPIA della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano –, mentre i casi lievi e che non necessitano di trattamento psicofarmacologico sono gestiti direttamente dalle altre 14 UONPIA regionali. Tuttavia anche stimando di triplicare la prevalenza per includere anche i casi lievi, i pazienti con ADHD in Regione Lombardia sarebbero comunque molto pochi rispetto all’atteso”.

            “Il Progetto ha attivato progressivi e significativi miglioramenti nella pratica clinica, garantendo un’efficiente e omogenea qualità delle cure. – conclude Edda Zanetti, responsabile della UONPIA dell’A.O. Spedali Civili Presidio Ospedale dei Bambini di Brescia, e coordinatrice del Progetto – . Un Progetto che necessiterebbe di essere prorogato per l’ADHD e generalizzato anche ad altri disturbi rilevanti di neuropsichiatria dell’età evolutiva”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Per ulteriori informazioni: Sergio Vicario (Mob. 348 98 95170)
Ufficio Stampa – IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’

Quando l’amore fa male: sindrome di Münchhausen per procura

Sara Costi, Irene DeSimoni, Giorgia Righi
OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Per Sindrome di Münchhausen s’intende un disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono una malattia fisica o un trauma psicologico per attirare attenzione, simpatia e compassione verso di sé.

Erano gli sgoccioli degli anni Novanta quando Bruce Willis sbancava il botteghino con “il Sesto Senso”, film triller drammatico il cui colpo di scena finale è passato alla storia insieme alla battuta del piccolo protagonista che tutt’oggi rimane impressa nella memoria quasi al pari del monologo conclusivo di Blade Runner.

Nel film, il bambino, grazie alla sua capacità paranormale di comunicare con i defunti, riesce a vendicare una bambina smascherandone l’assassino, non il classico uomo nero, sconosciuto e cattivo, ma l’amorevole madre, la quale, fingendo di occuparsi della piccola malata, in realtà la avvelenava lentamente tutti i giorni fino ad ucciderla. Un applauso al regista per la trovata cinematografica d’effetto, purtroppo però, il personaggio della madre non è un’invenzione degna dei migliori sceneggiatori, ma rappresenta un disturbo chiamato Sindrome di Münchhausen per procura.

Il nome di questa sindrome deriva da un personaggio effettivamente esistito, per l´appunto il barone di Münchhausen, che visse in Germania nel XIX sec ed era noto per i suoi racconti estremamente fantasiosi e avvincenti, ma soprattutto umoristici.

Nel 1951, Richard Asher fu il primo a descrivere un tipo di autolesionismo, in cui il soggetto s’inventava segni e sintomi di particolari patologie acute al fine di ricevere cure attraverso ospedalizzazioni (M. Godfryd, 1994). Per Sindrome di Münchhausen s’intende un disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono una malattia fisica o un trauma psicologico per attirare attenzione, simpatia e compassione verso di sé. Questi disturbi fittizi spesso non sono immediatamente individuati dal medico, ma vengono scoperti solo dopo aver escluso una lunga serie di possibili diagnosi. La sindrome di Munchhausen va differenziata dagli atti di simulazione, in cui i sintomi sono sempre prodotti intenzionalmente, ma hanno uno scopo connesso alle circostanze ambientali (per es. sono prodotti per evitare obblighi legali, per evitare di sottoporsi a prove etc.); in questo caso la motivazione è il bisogno psicologico di assumere il ruolo di malato. La Sindrome di Münchhausen per procura (Münchhausen Syndrome by Proxy – MSP) è un’altra sfaccettatura di questo tipo di disturbo, nel quale la figura di accudimento arreca un danno fisico al figlio/a per attirare l’attenzione su di sé. Tipicamente la vittima è un bambino ancora piccolo e il responsabile è, nella maggior parte dei casi rinvenuti, la madre (90% dei casi) (Lasher, R.J., 2004).

Un sottotipo di MSP è stato individuato nella Sindrome di Münchhausen “seriale”, vale a dire che si ripete con più figli della stessa famiglia. Spesso nei casi di MSP seriale i figli “si ammalano” uno per volta, di solito intorno alla stessa età del fratello precedente, ma sono riportati casi in cui tutti i figli venivano ricoverati nello stesso momento (Rosemberg, 1987).

La natura cronica e “bizzarra” di questa forma di abuso lascia senza risposte molte domande sull’impatto che questo avrà sulla crescita del bambino, soprattutto sul piano psichico.

I dati più rilevanti sono stati ottenuti da studi di vecchia data di McGuire e Feldman (1989) i quali hanno evidenziato la presenza in sei bambini di disturbi di alimentazione, problemi di comportamento in età prescolare e sintomi di conversione, soprattutto nei bambini più grandi. Roth (1990), Bools, Neale e Meadow (1993) hanno sottolineato che molti bambini mostrano problemi di concentrazione e partecipazione a scuola e difficoltà emotive e comportamentali. A volte, i piccoli, pur di ottenere cure e considerazione dall’adulto, simulano uno stato di malattia che diventa un modo per superare la paura dell’abbandono o del rifiuto. Le vittime di MSP, in linea con le altre che subiscono forme di abuso di natura diversa, spesso compiono tentativi di suicidio e soprattutto in fase adolescenziale mettono in atto condotte a rischio come l’abuso di alcol e fumo, problemi di delinquenza e in età adulta difficoltà di attaccamento, d’autostima e d’identità. Mostrano, inoltre, una forte paura del futuro, ansie e vissuti di malattia, di isolamento ed emarginazione oltre a ipocondrie e fobie, e turbe sessuali (Merzagora Betsos, 2003). In alcuni casi s’istaurano personalità di tipo borderline (Herman, Perry e Van der Kolk, 1989) o personalità multipla (Withman e Munkel, 1991). Anche a distanza di molti anni nei bambini si evidenziano difficoltà di apprendimento e concentrazione, incubi notturni, difficoltà emotivo-comportamentali, nei rapporti con gli altri a casa e a scuola.

Contrariamente alle teorie correnti, Lawlor e Kirakowski, (2004) sostengono che la motivazione che porta queste madri all’abuso sui figli è cosciente e non inconscia e che le caratteristiche di coloro che sono affetti da MSP sarebbero congruenti con quelle associate alla dipendenza (Lawlor A., Kirakowski J., 2014).

Judith Libow e Herbert Schreirer del Children’s Hospital Medical Center di Oakland hanno classificato la MSP secondo le tipologie dei genitori:

– cercatori di aiuto. Sono casi solo apparentemente simili a quelli della MSP. Normalmente si ha un unico episodio di malattia immaginaria piuttosto che una lunga serie di esperienze mediche. L’inganno le consente di cercare le cure mediche per sé esplicitando il bisogno di aiuto psicologico;

– responsabili attivi. Sono i casi da manuale della MSP, in cui un genitore direttamente e attivamente provoca i sintomi nel bambino tramite soffocamento, iniezioni o avvelenamento;

– medico-dipendenti. In questi casi di MSP l’inganno si limita ad un falso resoconto dei precedenti clinici del bambino. Non c’è alcun intervento diretto sulla sintomatologia. Le madri sono convinte che i figli siano realmente malati e si risentono se medici e personale ospedaliero non confermano le loro convinzioni. I bambini di questo gruppo sono in genere più grandi mentre le madri sono tendenzialmente più ostili, paranoiche ed esigenti.

Recentemente in Italia, precisamente a Torino, si è verificato un episodio di MSP, dove la madre, un’infermiera professionista di 42 anni, è stata filmata nella camera dell’ospedale mentre iniettava insulina al figlio di quattro anni; una dose sufficiente per farlo stare continuamente male, senza però ucciderlo. Ora la donna è indagata per tentato omicidio nei confronti del figlio. Il padre del piccolo difende la compagna sostenendo che il piccolo “è sempre stato di natura cagionevole e lei voleva solo aiutarlo”. Nella MSP il ruolo del padre è misterioso e incerto. Il più delle volte è assente dalla vita familiare o resta lontano da casa per la maggior parte del tempo cosa che facilita la messa in atto degli abusi da parte della madre. Il fatto curioso, tuttavia, è che quando la donna viene scoperta e messa di fronte agli abusi perpetrati, non di rado il marito la sostiene e può persino rendersi complice dei suoi inganni, facilitando tacitamente il suo comportamento. La peculiarità della Sindome di Münchhausen per procura è il fatto che chi manifesta la sindrome non è la vittima.

La sindrome di Munchhausen però non sarà più descritta all’interno del DSM-V, a riprova dello scarso interesse per questa tipologia di disturbo, probabilmente anche a causa della difficoltà nel diagnosticarlo. Ad oggi non si hanno dati soddisfacenti sulle percentuali della popolazione che ne è affetta e le ricerche a riguardo sembrano essere arrivate ad un punto morto. Si ritiene, quindi, che una maggiore informazione su questa sindrome possa aiutare i vari operatori sanitari a riconoscere i casi sospetti cercando così di ampliare i dati per possibili studi e per sventare eventuali decessi dei minori dovuti a questa forma di abuso.

 

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Risulta fondamentale promuovere un sistema educativo che riduca gli effetti dello svantaggio economico. Ma con quali modalità sarebbe possibile intraprendere una strada di questo genere?

Lo studio condotto dai ricercatori della University of Adelaide’s School of Population Health in collaborazione con i colleghi della University of Bristol in Inghilterra, dovrebbe portare ad un ripensamento del sistema educativo, in direzione di un miglioramento generale della società ma anche delle vite di molte persone.

Non è una novità, infatti, che lo svantaggio economico familiare sia un fattore di rischio per l’educazione dei bambini, con tutto ciò che ne consegue. Infatti, suggerisce la Dottoressa Chittleborough, “una condizione di svantaggio socioeconomico nell’infanzia è correlata a ridotte capacità di trarre benefici dall’istruzione, esiti educativi peggiori, una più bassa tendenza a continuare gli studi e meno probabilità di successi lavorativi”. Inoltre, suggerisce la studiosa, “un basso livello di educazione porterebbe ad una maggiore dipendenza dal Welfare State, a più basse capacità lavorative e salari inferiori, alimentando il circuito vizioso dello svantaggio”.

Alla luce di tutti questi argomenti, risulta allora fondamentale promuovere un sistema educativo che riduca gli effetti dello svantaggio economico. Ma con quali modalità sarebbe possibile intraprendere una strada di questo genere?

In uno studio longitudinale pubblicato sul giornale Child Development, i ricercatori dell’University of Adelaide e della University of Bristol hanno studiato quali sono gli esiti di interventi educativi precoci mirati a incrementare le capacità scolastiche.

Il campione era composto da 12.000 bambini inglesi in età precoce (meno di 5 anni), su cui poi si verificava l’effetto dell’intervento tramite un follow up all’età di 16 anni. Secondo i risultati ottenuti, il livello di istruzione della popolazione può aumentare del 5% e lo squilibrio socioeconomico legato all’educazione dei ragazzi può diminuire addirittura del 15%.

Questa è una scoperta importante, specialmente se si considera che nel 2012 in Inghilterra c’erano all’incirca 620.000 ragazzi di età compresa tra i 15 e i 16 anni iscritti alla scuola secondaria. Un incremento del 5% negli esiti educativi significa che 13.500 studenti avrebbero una prestazione migliore. Questo avrebbe un impatto significativo nelle loro future possibilità lavorative e professionali, e di conseguenza sulle loro capacità di contribuire al benessere economico della società.

In definitiva, come sottolinea la Dottoressa Chittleborough, “fornendo un adeguato supporto educativo, potremmo contribuire a migliorare significativamente le vite di molti bambini”.

 

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In Italia, il mondo della plusdotazione rappresenta oggi un argomento poco conosciuto e poco studiato dalla ricerca scientifica, eppure sembra che il talento sia sotto i nostri occhi più di quel che crediamo, riguardando circa il 5% della popolazione mondiale (Renati e Zanetti, 2012).

Numerose credenze, miti e stereotipi sull’argomento richiamano l’idea che il bambino plusdotato sia ben regolato, indipendente e auto efficace. Infatti, la maggior parte delle persone considera il bambino ad alto potenziale come un genio che mostra di avere un’intelligenza più viva e brillante rispetto agli altri e che, forte dei suoi talenti, ha tutti i motivi per considerarsi fortunato.

D’altronde, chi non ha mai stimato o desiderato la genialità musicale del grande compositore Beethoven, la brillante intuitività dell’astrofisico Albert Einstein o dell’eclettico Leonardo da Vinci? Eppure, avere un’intelligenza sopra la media può portare forti problematicità, accompagnate da fatica, incomprensioni, isolamento e solitudine. Il concetto di cui parliamo può essere metaforizzato dall’immagine di una medaglia che esprime gli aspetti positivi e negativi attraverso le sue due facce, essi apparentemente sembrano escludersi a vicenda, ma fanno in realtà parte della stessa persona.

La plusdotazione, o giftedness per i colleghi americani, significa avere un dono, una potenzialità che renda il singolo speciale, differente rispetto ai pari. Secondo le ricercatrici Morrone e Renati, il bambino gifted possiede talenti straordinari e bisogni speciali, differenziandosi anche dai soggetti brillanti per la sua attitudine innata a imparare più velocemente, precocemente e in maniera qualitativamente differente (2012).

Vi è quindi un’importante differenza tra bambino brillante e bambino ad alto potenziale. Il primo segue infatti traiettorie di sviluppo normative, rimanendo nei limiti della normodotazione: trattasi di soggetti curiosi, che si esprimono attraverso un vocabolario consono al loro sviluppo, che utilizzano strategie di apprendimento tipiche e che, posti di fronte a un problema, percorrono ogni tappa dei processi mentali per risolverlo. I secondi presentano invece caratteristiche qualitativamente differenti, atipiche rispetto al loro sviluppo, andando così ben oltre la linea di confine della normalità. Harrison (2003) definisce il bambino ad alto potenziale come

colui che manifesta performance, o ne ha il potenziale per, a un livello significatamente superiore rispetto ai pari e le cui abilità e caratteristiche uniche richiedono un apporto speciale e un supporto sociale ed emotivo da parte di famiglia, comunità e contesto socio-educativo.

In letteratura, vi è un certo grado di accordo nel far coincidere la plusdotazione a un quoziente intellettivo pari o superiore a 130, ma la misurazione del QI non dovrebbe essere l’unico paradigma per determinare l’alto potenziale: vi sono infatti manifestazioni di tipo emotivo, corporeo, comportamentale, artistico, morale tipiche che vanno oltre il concetto tradizionale di intelligenza.

La complessità del bambino gifted pone le sue abilità in compresenza a caratteristiche tipiche di questa categoria, tra cui la sovra-eccitabilità nelle sue cinque forme, la sensibilità emotiva, l’intensità, il perfezionismo e l’asincronia. Per sovra-eccitabilità si intende la tendenza del bambino di elevarsi da una situazione di crisi e un livello più elevato di funzionamento intellettivo (Dabrowski e Piechowski, 1977).

Secondo gli autori, le cinque forme sono:

  • Sovra-eccitabilità psicomotoria: presuppone eloquio accelerato, attività atletiche intense, incapacità di stare fermi e reazione immediata agli impulsi;
  • Sovra-eccitabilità dei sensi: è il bisogno di contatto fisico, di ricevere carezze o di essere al centro dell’attenzione;
  • Sovra-eccitabilità immaginativa: incremento delle associazioni di immagini e impressioni, dell’inventiva, visualizzazione vivida e animata. Si manifesta anche attraverso i sogni, gli incubi e alternanza di finzione e realtà;
  • Sovra-eccitabilità intellettuale: tendenza a porre domande, voler conoscere in modo incessante, porre l’accento sull’analisi, sul pensiero teorico, sul rispetto della logica;
  • Sovra-eccitabilità emotiva: comprende inibizione emotiva, come timidezza o vergogna, preoccupazione per la morte, ansie, paure, vissuti depressivi, sentimenti di solitudine e preoccupazione per gli altri.

La sensibilità emotiva è la tendenza ad essere sensibili, talvolta iper-sensibili, di fronte a minimi cambiamenti nell’ambiente circostante e a manifestare una percettività elevata (Fornia e Frame, 2001). Ciò può causare malessere nel bambino perché il modo in cui egli percepisce la realtà è qualitativamente differente e non semplice da comprendere per le altre persone.

La studiosa Ruf osserva inoltre una spiccata tendenza a esprimere intensità (2005). Questo aspetto si riferisce alla profondità dei sentimenti, comportamenti, della creatività o conoscenza del bambino plusdotato: è una spiccata tendenza a esprimere in maniera intensa tutto ciò che egli fa o dice. Ad esempio, di fronte allo stesso evento negativo, un bambino empatico può provare un lieve sgomento per la sofferenza altrui, mentre un bambino plusdotato potrebbe manifestare turbamento per ore o giorni, riflettendo su quanto sia ingiusto il mondo e la vita, esprimendo talvolta veri e propri sfoghi o reazioni depressive.

Il perfezionismo, spesso accompagnato da un senso di fallimento, è la tendenza a dover esprimere sempre a pieno le proprie abilità, raggiungendo la perfezione in ogni ambito. Ciò può generare un senso di fallimento in quanto spesso il bambino gifted ha la sensazione che ogni suo sforzo per raggiungere la dimensione ideale non sia mai sufficiente (Orange, 1997). Dall’altra parte, le figure genitoriali, gli insegnanti e le figure di riferimento, data le elevate potenzialità, hanno la tendenza ad avere aspettative grandiose sulle sue performance, ciò è motivo di frustrazione per il bambino e talvolta di underachievement, che porta ad eseguire una performance molto al di sotto delle proprie capacità (Renati e Zanetti, 2012) .

Maureen Neihart (2011) fa una distinzione importante tra perfezionismo buono – tentativo equilibrato di dare il massimo in base ai propri tempi e modi – e perfezionismo cattivo, o disfunzionale, ovvero l’ansia esagerata di raggiungere la perfezione, che troverebbe correlazione con lo stress (Adderholdt e Goldberg, 1999; Parker e Mills, 1996). Circa il 20% dei bambini plusdotati manifestano quest’ultimo tipo di perfezionismo (Renati e Zanetti, 2012).

Infine, l’asincronia è un’asimmetria nello sviluppo del bambino dal punto di vista emotivo ed intellettivo, in cui si manifesta un livello cognitivo sopra la media accompagnato da una non-corrispondente maturità emotivo-relazionale e da scarsa capacità di giudizio (Fornia e Frame, 2001). Ad esempio, un bambino di cinque anni con elevatissime capacita nell’ambito delle scienze potrebbe avere paura del buio o ancora bisogno del suo pupazzo preferito per addormentarsi.

Altre caratteristiche che possono manifestarsi nel bambino ad alto potenziale sono specifiche paure – di atti di violenza, di morte, di guerre, di stragi nucleari, di epidemie, del buio, di rapimenti, dei suoni strani, dei fallimenti scolastici, degli incubi, delle creature immaginarie- più frequenti e intense rispetto a quelle dei bambini normodotati (Tippey e Burnham, 2009; Derevensky e Coleman, 1989). Egli può inoltre avere particolare interessamento nei confronti dei temi della giustizia e onestà, provando intolleranza verso ipocrisia e inequità; ciò li porta a voler negoziare le regole e le decisioni con genitori, insegnanti e i pari, al fine di far valere il proprio punto di vista (Fornia e Frame, 2001; Renati e Zanetti, 2012).

Le modalità di apprendimento e i processi di risoluzione dei problemi del bambino plusdotato sono inoltre atipici. Egli può aver bisogno di utilizzare tecniche cinestesiche, manuali, musicali o immaginative per imparare; nelle strategie di problem solving egli può inoltre saltare alcuni passaggi usuali dei processi mentali o utilizzare vie di risoluzione complesse e molto difficili da comprendere per i pari normodotati (Silverman, 2002). Ciò rende difficile il suo apprendimento in ambito scolastico, dove le lezioni sono condotte tradizionalmente e sempre attraverso le stesse modalità.

Queste sono le principali caratteristiche attraverso cui un bambino gifted esprime il suo essere speciale. Come già accennato, spesso sono più evidenti le qualità di spicco rispetto alle fragilità che il bambino inevitabilmente porta con sé, ciò avviene sia in ambito familiare che in ambito scolastico. Sarebbe dunque importante indirizzare l’informazione e la ricerca scientifica verso questo ambito ancora poco diffuso ma indubbiamente affascinante e ricco, al fine di sostenere e accrescere nella maniera più idonea la consapevolezza e la libertà di espressione del potenziale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Adderholdt, M.; Goldberg J. (1999) Perfectionism: what’s bad about being too good? (rev. Ed.) Minneapolis, MN: Free Print. ACQUISTA
  • Derevensky, J.; Coleman E. B.(1989) Gifted children’s fears Gifted Child Quarterly, Vol. 33 pp.65-68
  • Dabrowski, K.; Piechowski, M.M. (1977) Theory of level of emotional development: Vol. 1B. Multilevelness and positive disintegration. Oceanside, New York: Dabor Science
  • Fornia, G.L.; Frame, M.W. (2001) Giftedness in parental counseling: a new perspective. The Family Journal, Vol. 4, pp. 360-385
  • Harrison, C. (2003) Giftedness in early childwood, Kensington, NSW: GERRIC
  • Keating, D.P. (2009) Developmental science and giftedness: an integrated life-span framework, Washington DC: American Psychological Association, pp.189-208
  • Morrone, C.; Renati, R. (2012) Dal quoziente intellettivo ai profili degli studenti ad alto potenziale. In Psicologia dell’Educazione, Vol. 6, No. 3, pp. 343-356
  • Neihart, M. (2011) Catch and Release: Assessing Dangerousness in Gifted Students. National Association for Gifted Children (ED.) The Annual Conference of the National Association for Gifted Children.
  • Orange, C. (1997). Gifted students and perfectionism. Roeper Review, Vol. 20 pp. 39-41
  • Parker, G.L.; Mills, F. (1996) A comparison between intellectually gifted and tipical children in their coping responses to a school and a peer stressor. Roeper Review, Vol. 26, pp. 105-111
  • Pfeiffer, S. I. (2012) Serving the gifted: evidence based clinical and psycho-educational practice. New York: Routledge
  • Phillipson, S.N.; McCann, M. (2007) Conceptions of giftedness: sociocultural perspectives, Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates
  • Renati, R.; Zanetti, M.A. (2012) L’universo poco conosciuto della plusdotazione, Psicologia e Scuola, 23. pp. 18-24
  • Ruf, D. L. (2005) Five Levels of Giftedness: school issues and educational options. Tucson: Great Potential Press Inc. ACQUISTA
  • Silverman, l.K. (2002) Upside-down brilliance: The visual spatial learner, Denver: DeLeon Tippey e Burnham, 2009; ACQUISTA
  • Winstanley C. (2009) Too cool for school? Gifted children and homeschooling. Theory and Research in Education Vol. , p.347

The Unsaid- Sotto Silenzio – Cinema & Psicoterapia n.31

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  n.31

The Unsaid – Sotto Silenzio (2001)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Hunter dopo la morte del figlio divorzia e perde l’affetto della figlia. Tre anni dopo incontra una sua ex-studentessa che gli propone un caso. Il paziente gli ricorda suo figlio, ma nasconde un torbido passato.

 

Info

Diretto da Tom McLoughlin., con Andy Garcia, Teri Polo, Vincent Kartheiser, Linda Cardellini, Samuel Bottoms. Thriller. USA-CANADA 2001.

 

Trama

Michael Hunter è uno psicologo di successo. Il figlio adolescente cade in depressione e il padre lo invia ad un collega per curarsi. Il figlio si suicida per l’impossibilità di sopportare il peso delle violenze sessua­li fatte dallo psicologo. Hunter dopo la morte del figlio divorzia e perde l’affetto della figlia. Tre anni dopo incontra una sua ex-studentessa che gli propone un caso. Il paziente gli ricorda suo figlio, ma nasconde un torbido passato. Michel è coinvolto in una catena di omicidi.

 

Motivi di interesse

I temi di questo thriller sono molteplici e offrono spunti di riflessio­ne su argomenti che si incontrano spesso in terapia.

L’incomunicabilità tra il padre psicologo e il figlio è rappresentata simbolicamente dalla porta sbattuta in faccia da Kyle a Michael, che traccia un solco di distanza incolmabile tra i due. La violazione riprovevole del setting del collega di Hunter che rende insopportabile la vergogna del ragazzo e lo porta al suicidio. 

Le accuse mosse dalla madre e dalla sorella al padre che si assume tutta la responsabilità dell’accaduto vivendone il senso di colpa.  Le risonanze del dottor Hunter, sollecitate da Tommy che assomiglia in modo sinistro a Kyle. Il riaccendersi dell’interesse del professionista che non può rimane­re indifferente al caso sottopostogli da una sua ex-allieva. 

Gli atteggiamenti di Tommy, influenzati da avvenimenti della sua storia di vita e il suo disagio che affonda le radici in un contesto fami­liare in cui le violazioni e l’abuso sono la vera ragione del disturbo.

I temi sono scottanti e il film non si sottrae dal proporli offrendo una ottima traccia da utilizzare per la loro elaborazione.

 

Indicazioni per l’utilizzo

Utile per i terapeuti e per i pazienti in una fase molto avanzata della psicoterapia, quando è possibile integrare i percorsi cognitivi extra riflessivi con il pensiero logico-riflessivo per elaborare i vissuti attraver­so modalità complesse.

 

Trailer

Si segnala anche: 

  • Reign Over Me. Un film di Mike Binder. Interpretato da Adam Sandler, Don Cheadle, Liv Tyler, Saffron Burrows, Donald Sutherland. USA 2007. Drammatico.
  • Gente Comune (Ordinary People). Un film di Robert Redford. Con Donald Sutherland, Timothy Hutton, Mary Tyler Moore, Judd Hirsch. Drammatico, USA 1980. Vincitore di quattro premi Oscar. Tratto dal romanzo di Judith Guest.
  • Maternity Blues – Il bene dal male. Un film di Fabrizio Cattani, con Andrea Osvart, Daniele Pecci, Monica Barladeanu, Chiara Martegiani, Marina Pennafina. Drammatico. Italia, 2011. 

 

 LEGGI ANCHE:

Rubrica Cinema & Psicoterapia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

 

Troppi caregivers bambini si prendono cura dei familiari

FLASH NEWS

 

I “caregiving bambini” sono una popolazione nascosta e a rischio di insuccesso scolastico e cattive condizioni di salute, a causa dello stress fisico ed emotivo cronico per le eccessive responsabilità che devono sostenere.

Uno studio di questo fenomeno allarmante, presentato all’American Academy of Pediatrics (AAP) National Conference & Exhibition di San Diego, nasce dalla collaborazione tra il team di ricercatori della University of Miami Miller School of Medicine e l’American Association of Caregiving Youth (AACY) e ha lo scopo di comprendere meglio l’esperienza quotidiana dei giovani caregivers e studiare l’impatto dei servizi forniti da AACY. 

Attualmente negli Stati Uniti, ci sono più di 1,3 milioni di bambini iper-responsabilizzati nella cura di familiari malati, feriti, anziani o disabili.

 

I ricercatori hanno analizzato circa 550 casi di caregivers giovanili: il 62% dei caregivers erano ragazze; 38% erano maschi. L’età media era di 12 anni.

I caregivers riferiscono di spendere nella cura dei familiari una media di 2,5 ore ogni giorno, quattro durante i week-end. Queste attività includono l’assistenza ai familiari per muoversi, mangiare, vestirsi, andare in bagno, l’igiene personale e la cura dell’incontinenza; ma anche il sostegno emotivo, il pulire la casa, fare la spesa, e la somministrazione di farmaci.

“Questo studio è un passo importante verso la sensibilizzazione sul problema dei giovani caregiving”, ha detto il dottor Belkowitz, “L’AACY sta sviluppando collaborazioni in tutta la nazione per capire meglio questa popolazione di giovani ed espandere il programma di assistenza e sostegno di cui questi giovani hanno assolutamente bisogno.”

 

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La relazione Madre-Bambino: un micro-cosmo diadico

 

BIBLIOGRAFIA:

Confusi e felici (2014): psicoanalisi o cabaret? – Recensione

Confusi e Felici (2014) un film di Massimiliano Bruno. Nelle sale italiane dal 30 Ottobre 2014.

 

Dimenticate la psicoanalisi. Dimenticate storie di terapeuti e pazienti reali. “Confusi e felici” è una commedia comica, non ironica. Iniziamo dalla sua dote più apprezzabile: fa ridere. Per tutto il resto, meglio ripassare un’altra volta.

Claudio Bisio è un analista gaffeur, del tutto non credibile nel suo ruolo ma forse la creazione di un personaggio veritiero non apparteneva agli intenti del film; i suoi pazienti sono macchiette, nulla di più. La segretaria, molto bella e molto poco segretaria.

Confusi e felici” pesca a piene mani nella comicità romana, meglio dire nel cabaret: battute rapide, traccianti che vanno dritti al bersaglio, epiteti caustici capaci di definire l’unione tra un volto e uno stereotipo. C’è il ciccione mammone, lo spacciatore rude ma incline al sentimento impacciato, la ninfomane seguace del capezzolo maschile, la moglie trascurata e il marito impotente scolpiti dal linguaggio di borgata.

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La chiave interpretativa del film è sperare che l’esasperazione dei caratteri sia voluta, che il disegno narrativo non sia tracciare l’ardito profilo di una psicoanalisi che non si prende sul serio bensì allontanarsi per principio dalla realtà.

Il cabaret romanesco è a tratti irresistibile, le scene in cui obiettivamente si ride non sono poche; manca però il sorriso, l’ironia imprevedibile e con essa la capacità di variare dai binari di una psicologia predefinita in cui il paziente è matto e bizzarro, il terapeuta assai vicino alla crisi di nervi che vuole scongiurare e gli strumenti terapeutici, individuali o di gruppo, riassunti dentro scenette di maniera.

Se l’intento è dissacrare, fallisce l’impatto con la sostanza. Se al contrario si vuole liberare l’energia di una risata senza filtri e per questo paradossalmente anche arguta – non sempre – il film risulta anche godibile. La trama, quasi pleonastica vista la struttura dichiarata dei rapporti fra i personaggi, racconta un percorso di malattia nel quale l’analista affronta il primo vero terremoto della sua vita; i pazienti, dopo la forzata chiusura della terapia, lo affiancano nel viaggio, alla scoperta dei limiti comuni e dei limiti privati senza trovare granché alle spalle dei cliché universali.

La guarigione o la vittoria della malattia non rappresentano un bivio rilevante, la retorica della vita nuova che si genera nel dramma non viene certo scansata con impegno, mentre la trasformazione dei pazienti abbandonati che diventano stampella empatica, stella polare del proprio mentore esistenziale è tanto irreale quanto funzionale a sostenere l’intreccio comico.

Lo sviluppo degli eventi non riserva particolari sorprese, la sensazione è che sostituendoli con altre infinite e impossibili vicende non se ne avrebbe alcun cambiamento semantico visibile. I dialoghi fra le macchiette divertono per la loro aderenza ad una spontaneità già vista e digerita che con passo caracollante riesce anche a mantenere un buon livello di energia.

I consigli per non uscire dal cinema con l’impronta del tempo perso sono dimenticare i significati complessi che il film non trova mai, valorizzare il colore viscerale e unico in Italia del cabaret di borgata, apprezzare alcuni aspetti minori ma non irrilevanti come la sostanziale assenza di volgarità, mai scontata nel cinema contemporaneo.

Questo è o quantomeno appare “Confusi e felici“, titolo scarsamente comprensibile che i maligni potrebbero attribuire alla confusione delle idee espresse. Ma la malignità non si addice a questi film, non serve.

 

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Dalla concettualizzazione del caso al piano educativo per persone con autismo – Report dal Congresso IESCUM

Gli specialisti del settore sono tutti concordi nel ritenere la formulazione del caso la premessa essenziale per un buon progetto educativo rivolto anche alla popolazione autistica ma mancano indicazioni precise sul da farsi. Una cosa è chiara: per essere efficace essa deve essere breve, focalizzata sulle variabili di interesse e utile a giudicare il trattamento.

Peter Sturmey è professore di Psicologia presso il Queens College and the Graduate Center della City University of New York (CUNY). Da 30 anni si occupa di ritardi dello sviluppo e ne sono testimonianza un centinaio di pubblicazioni tra manuali e articoli.

In questa giornata di formazione dichiara l’intenzione di trasferirci una serie di informazioni che possano poi tradursi in competenze pratiche da spendere nella nostra attività clinica e indubbiamente mantiene la promessa.

Buona parte del suo intervento si focalizza sulla case formulation (concettualizzazione del caso), che negli ultimi anni sta ricevendo l’attenzione che merita essendo il primo passo verso un piano di intervento veramente individualizzato, a garanzia di un trattamento in cui il metodo, qualunque esso sia, non soffochi l’individuo e l’espressione delle sue esigenze particolari.

Gli specialisti del settore sono infatti tutti concordi nel ritenere la formulazione del caso la premessa essenziale per un buon progetto educativo rivolto anche alla popolazione autistica ma mancano indicazioni precise sul da farsi. Una cosa è chiara: per essere efficace essa deve essere breve, focalizzata sulle variabili di interesse e utile a giudare il trattamento.

Il Prof. Sturmey ci offre la possibilità di sperimentare questo percorso analizzando i nostri casi clinici in una sorta di esercitazione di gruppo. I comportamenti problema vengono messi sotto una lente di ingrandimento e analizzati negli aspetti di rinforzo (sociali e non) che contribuiscono a mantenerli, senza perdere di vista il contesto ambientale in cui si palesano.

Non a caso ci presenta un questionario destinato ad ogni persona coinvolta a vario titolo nella vita del bambino o ragazzo, questo non solo per garantire una visione del problema da più angolature e quindi più accurata ma soprattutto per coinvolgere anche queste figure nel piano educativo del minore.

Da ciò deriva la necessità di implementare nella nostra pratica clinica anche lo staff e parent training, attività obiettivamente ancora molto marginali in Italia. Il professore, che spende molte parole a proposito di questi interventi, li ritiene di importanza cruciale per il buon successo terapeutico perchè non sono solo i bambini autistici ad avere problemi a generalizzare le proprie competenze ma anche i membri dello staff che si occupano di loro così come i vari caregiver.

Anzi, forse è proprio la mancanza di una buona condivisione di prassi di intervento e relazione col minore, a produrre spesso le sue difficoltà di adattamento comportamentale ai vari contesti di vita. In una ricerca di Lafasakis e dello stesso Sturmey è per esempio emerso che indirizzare un trattamento comportamentale ai genitori per migliorare le loro capacità di insegnamento (Discrete Trial Teaching) migliora l’apprendimento dei figli.

Se questo significa uscire dalla logica di una terapia a tavolino che promuove l’osservazione e il trattamento dei soli aspetti problematici dell’autistico a favore di una presa in carico globale che coinvolga famiglia, scuola e anche noi terapisti, non si può che essere d’accordo.

Non resta che darsi da fare affinchè anche in Italia l’ovvio venga messo in pratica.

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BIBLIOGRAFIA:

Bambini ed Emozioni: 5 consigli utili per i genitori

Conoscere in quali momenti dello sviluppo emergono le emozioni dei propri figli è di fondamentale importanza, non solo per verificare che il loro percorso di crescita rispetti gli auspicabili parametri di normalità, ma anche per consentire agli adulti che interagiscono con loro di farlo nel rispetto delle possibilità dei bambini.

Non c’è genitore che non sappia a che età il suo bambino probabilmente comincerà a muovere i primi passi o a pronunciare le prime parole. Le tappe fondamentali del suo sviluppo emotivo sono invece sconosciute alla maggior parte di loro.

Conoscere in quali momenti dello sviluppo emergono le emozioni dei propri figli è invece di fondamentale importanza, non solo per verificare che il loro percorso di crescita rispetti gli auspicabili parametri di normalità, ma anche per consentire agli adulti che interagiscono con loro di farlo nel rispetto delle possibilità dei bambini. Sarebbe infatti insensato aspettarsi risposte empatiche da un bambino di un anno e ancor più sbagliato giudicarlo negativamente per l’assenza di esse.

Una delle più accreditate e recenti teorie dello sviluppo emotivo, la Teoria della Differenziazione (Sroufe, 2000), ritiene che le emozioni si originino differenziandosi da uno stato iniziale di eccitazione indifferenziata.

Tale percorso è reso possibile dal parallelo sviluppo cognitivo con il quale mantiene un costante rapporto di reciproca influenza ed è condizionato da fattori sociali e culturali. Ecco perchè approfondire la conoscenza dei genitori rispetto a questo tema, significa anche renderli capaci di esercitare una buona influenza sullo sviluppo emotivo dei propri figli.

Seguire questi semplici consigli potrebbe essere un buon inizio.

1. Attenti alle emozioni

Dedicate allo sviluppo emotivo dei vostri figli la stessa attenzione che rivolgete ad  aspetti più facilmente osservabili della sua crescita, come per esempio lo sviluppo motorio. Espressione, comprensione e regolazione emotiva sono le tre componenti base della competenza emotiva, che riveste un ruolo fondamentale nella promozione di un sano sviluppo psicologico.

2. Nominate le emozioni

Aiutare i bambini a dare un nome ai propri vissuti interni migliora la loro competenza emotiva e li indirizza verso una corretta gestione delle loro emozioni. Confondere per esempio la tristezza con la fame, non solo è indice di difficoltà nell’espressione emotiva ma può indurre il bambino a cercare consolazione nel cibo, piuttosto che nel rapporto con se stesso e con gli altri.

3. Non colpevolizzate le emozioni

E’ importante trasmettere ai propri figli una piena accettazione di tutti i vissuti emotivi di cui fa esperienza. Ciò che può essere invece messo in discussione è la modalità prescelta dal bambino per esprimere le proprie emozioni.

Se vostro figlio si arrabbia, cercate di non dirgli che non dovrebbe essere arrabbiato ma aiutatelo ad esprimere la rabbia nel modo più corretto, rimproverandogli semmai la scelta di condotte inappropriate. Tale eventualità potrebbe verificarsi tanto meno quanto più vi dimostrate capaci di riconoscere e rispondere alla sua rabbia anche in assenza di comportamenti sbagliati.

4. Rassicurate le loro paure, non generatele

Sapere che mamma e papà sono in grado di accogliere senza giudicare le loro paure è già di per sè una buona ragione per non averne. Ciò che spesso accade è che però i figli siano indotti ad attribuire un giudizio di pericolosità ad uno stimolo o ad una situazione da indizi forniti dai genitori. Se quando mettete a letto vostro figlio lo fate sorvegliare da una dozzina di pupazzi e gli fornite un ciuccio luminoso affinchè, non sia mai, lo smarrisca nella notte, è probabile che questo momento della giornata venga temuto più che desiderato.

5. Lasciate vivere le emozioni spiacevoli

Vedere soffrire un figlio, anche per il più banale dei motivi, è sempre un’esperienza sgradevole per i genitori ma solo concedendogli questa possibilità gli restituiremo un’immagine di loro stessi come individui capaci di sopravvivere anche alla tristezza. Inoltre, come insegna Il Piccolo Principe “si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere le farfalle… Dicono siano così belle!”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Sroufe, L. A. (2000). Lo sviluppo delle emozioni. Milano, Raffaello Cortina. ACQUISTA ONLINE
  • Saarni, C. (1999). The development of emotional competence. New York, Guilford Press.
  • Grazzani Gavazzi, I., Ornaghi, V., Antoniotti, C. (2011). La competenza emotiva dei bambini. Proposte psicoeducative per le scuole dell’infanzia e primaria. Erickson. ACQUISTA ONLINE

Perché preferiamo ascoltare suoni bassi e profondi?

FLASH NEWS

Un team di ricercatori del Canada’s McMaster Institute for Music and the Mind ha studiato come il cervello reagisce a toni bassi e acuti per spiegare come gli esseri umani rilevano il ritmo e perchè è più facile, per la maggior parte di noi, seguire suoni bassi e profondi.

I ricercatori hanno monitorato l’attività elettrica nel cervello di 35 persone durante l’ascolto di una sequenza di note di pianoforte basse e acute suonate allo stesso tempo; ogni tanto, le note sono state suonate 50 millisecondi troppo velocemente: la stragrande maggioranza delle persone riusciva a rilevare la sequenza insolita nel tono più basso.

Poi i ricercatori hanno chiesto a un altro gruppo di uomini e donne di seguire le stesse sequenze tonali battendo il ritmo con le dita. Quando si è verificato il cambiamento di tempi, i ricercatori hanno notato che le persone seguivano più facilmente la variazione del ritmo in sincronia con i toni bassi.

Successivamente, i ricercatori hanno suonato le sequenze attraverso un modello computerizzato di orecchio umano. E hanno scoperto che anche il modello computerizzato ha riconosciuto l’insolito nel tono basso più spesso di quanto ha fatto nel tono più alto, portando i ricercatori a ipotizzare che l’effetto si verifichi all’interno dell’orecchio stesso. Cioè la capacità di discriminare i tempi insoliti tra i toni emerge precocemente nel processamento cerebrale del suono; ecco perchè i bassi svolgono un ruolo cruciale nella percezione del ritmo che più amiamo.

 

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Mindfulness per principianti di Jon Kabat-Zinn – Recensione

L’aspetto fondamentale e peculiare di questo libro é che, a differenza di molti altri libri sulla Mindfulness, non segue un percorso passo-passo di guida alla pratica di consapevolezza, bensì utilizza un formato differente, più legato alla tradizione delle raccolta di “meditazioni” e “riflessioni”. 

[blockquote style=”1″]Nella mente del principiante vi sono molte possibilità, in quella dell’esperto poche[/blockquote]

Suzuki Roshi

Il volume di Kabat-Zinn del 2012, Mindfulness for beginners, é state tradotto in italiano e curato da Anna Lucarelli, Lorenzo Colucci, Franco Cucchio e Gherardo Amadei.

Il libro é dedicato a “l’eterno principiante che é in ognuno di noi”. Questo fa pensare che il libro non sia solo e esclusivamente un libro per principianti, sebbene il titolo faccia tornare alla mente la fortunata collana For Dummies a cui molti sono affezionati.

Sfogliando le pagine del libro la sensazione che sia un lavoro molto più complesso di ciò che farebbe pensare il titolo si conferma.

Dopo una breve introduzione, il libro si sviluppa lungo cinque aree che accompagnano il lettore passo passo nell’introduzione alla pratica di consapevolezza (Mindfulness). Sfogliando l’indice troviamo la prima parte, per iniziare, seguita da sostenere, approfondimento, maturazione, e la pratica.

 

L’aspetto fondamentale e peculiare di questo libro é che, a differenza di molti altri libri sulla Mindfulness, non segue un percorso passo-passo di guida alla pratica di consapevolezza, bensì utilizza un formato differente, più legato alla tradizione delle raccolta di “meditazioni” e “riflessioni”.

Ogni parte del libro, infatti, é composta da paragrafi di una o due pagine che iniziano con una frase, con una piccola suggestione, che poi viene commentata nel resto del capitolo. A livello più elementare e introduttivo, sembra che Kabat-Zinn in questo libro volesse ripercorrere ciò che ha fatto quando nel 1994 ha scritto Wherever you go there you are (edito in italiano da TEA con il titolo “Ovunque tu vada ci sei già”), che ha lo stesso formato, riflessioni sulla pratica, commenti e racconti della propria esperienza di pratica che possono essere letti sia come un continuum di un percorso di pratica durato una vita, sia come singole riflessioni da leggere e rileggere diverse volte in diverse fasi del proprio percorso di pratica personale. 

L’impressione che mi lascia “Mindfulness per principianti” é per alcuni versi simile. Credo sia un libro consigliabile a diverse tipologie di persone. 

Un primo gruppo di lettori potrebbe essere composta da quelle persone che non conoscono nulla della pratica di consapevolezza e ne sono attirati, pur essendo (forse) “vittime” della cattiva informazione o di alcuni stereotipi culturali sulla Mindfulness e sulle pratiche di consapevolezza.

Questo libro potrebbe servire loro per “ripulire” la mente da aspettative errate e per entrare da un ingresso privilegiato (le parole di chi ha portato la Mindfulness nel contesto clinici…) nella pratica e nelle sue “regole”.

Un secondo gruppo di possibili lettori potrebbero essere le persone che, per svariati motivi, stanno sviluppando l’interesse a partecipare a un programma MBSR, o a un percorso di Mindfulness. Tramite la lettura di questo libro possono farsi un’idea più chiara e avere una idea chiara, seppure iniziale, della pratica personale (anche grazie all’aiuto delle audio-guide disponibili su internet nel sito dell’editore).

 

Un terzo gruppo di lettori può essere rappresentato da professionisti che operano nell’ambito della salute, in particolare nell’area della psicologia e psicoterapia. A queste persone, Mindfulness per principianti potrebbe servire a chiarirsi le idee e a comprendere meglio cosa e come funzioni la pratica di consapevolezza, entrata ormai con grande vigore nel mondo clinico e medico (ne testimonia la quantità di pubblicazioni scientifiche sul tema Mindfulness, in continuare a esponenziale crescita).

Ultimi potenziali lettori del volume sono le persone che hanno già una esperienza personale di pratica, o che hanno almeno già svolto un programma MBSR o di pratica di consapevolezza e che vogliano utilizzare le riflessioni e le suggestioni presenti nel volume come stimoli per la pratica personale e per coltivare, per l’appunto, la mente del principiante.

Scrive Kabat-Zinn nelle prime pagine del volume:

[blockquote style=”1″]I principianti iniziano nuove esperienze senza sapere molto, e di conseguenza hanno una mente molto aperta. Un’apertura che é anche molto creativa. Questa é una caratteristica innata della mente, il trucco sta nel non perderla mai. Per riuscirci, la cosa più importante è quella di rimanere in una disposizione d’animo di meraviglia verso il momento presente, che é sempre nuovo, e rinnovare questa disposizione costantemente. Ovviamente si tende a perdere userà freschezza mentale (…). Ma se riusciamo a ricordare periodicamente che ciascun momento é nuovo allora forse quello che sappiamo non ci impedirà di essere aperti a quello che non sappiamo, che é sempre un campo più vasto. Così facendo, una mentalità da principiante sarà sempre disponibile, in ogni momento in cui saremo aperti ad essa. [/blockquote]

(p. 19-20).

Insomma, un volume prezioso, scritto da un non-principiante per “principianti” e non.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Kabat-Zinn, J. (2014). Mindfulness per principianti.  A cura di Anna Lucarelli, Lorenzo Colucci, Franco Cucchio, Gherardo Amadei. Mimesis editore. ACQUISTA ONLINE

Winter Sleep, Il Regno d’Inverno (2014) – Cinema & Psicologia

Un film straordinario e dal sapore amaro, come quello che accompagna le relazioni che si trascinano nel vortice dei bisogni inespressi, della castrazione emotiva e della rivendicazione, e che obbliga lo spettatore a mettere in discussione le parti più profonde di sé.

Vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2014, il film il Regno d’Inverno – Whinter Sleep di Nury Bilge Ceylan, è un’indagine lenta quanto dolorosa sui lati più oscuri dell’animo umano. Un film avvincente dal punto di vista emotivo, dove il regista riesce magistralmente a portare lo spettatore verso la dissacrazione degli ideali, della morale e dei sentimenti. Una storia di solitudini, di aspettative mancate, di colpe inveite e richieste di perdono celate dall’orgoglio.

Le personalità dei protagonisti si svelano progressivamente, abbandonando le maschere dell’ipocrisia e del perbenismo per lasciare spazio alla rivendicazione e alla rabbia.

Il protagonista Aydin, ex attore di teatro, decide di ritirarsi dalle scene insieme alla moglie per rifugiarsi in un albergo di sua proprietà, l’Othello, incastonato nei monti aggrovigliati dell’Anatolia. L’arrivo dell’inverno accresce ancor di più la discrepanza tra l’immobilità delle sconfinate lande cappadociche coperte di neve e l’oscurità dei cunicoli dell’albergo, dove si sviscerano i monologhi dei personaggi principali. Le discussioni si fanno sempre più incalzanti, i litigi non sconfinano quasi mai nella rabbia espressa, ma vengono controllati egregiamente, come sa fare chi trova nelle parole armi fendenti e lame affilate.

Con lui c’è la dolce e cara Nihal, giovane moglie e compagna di vita, che lascia da parte le proprie aspirazioni in virtù di una vita agiata, fino al crollo. Dopo anni di litigi e turbolenze emotive sceglie di vivere in un’ala distaccata dell’albergo, dove cerca di ritrovare se stessa impegnandosi a inseguire ideali di solidarietà nei confronti dei più disagiati. Sola e disillusa, riverserà sul marito il proprio senso di inadeguatezza e fallimento esistenziale, che porterà alla rottura definitiva della relazione.

Altra figura di spicco nelle vicende sentimentali è la sorella di Aydin, che vive con la coppia. Ancora alle prese con l’elaborazione della separazione dal marito alcolista, intrattiene lunghe chiacchierate con il fratello nella penombra di una piccola stanza, in un crescendo di toni di autocommiserazione ad attacchi diretti verso le reciproche aspettative disattese.

Il protagonista cerca di arrabattarsi in tutte le vicende emotive che si susseguono, cercando la fuga nella scrittura di un libro sulla storia del teatro turco. Personaggio emblematico, dalla mente autarchica e dai connotati malinconici, rivela nel corso del film una celata arroganza e tratti narcisistici che gli impediscono di far fronte in modo empatico alle richieste emotive della moglie e della sorella. Il rifugio da lui costruito diventa la tana di ricordi gloriosi e teatro di dissapori, ai quali risponde con un viaggio verso Istanbul per approfondire gli studi.

Da qualcuno è stato definito un film presuntuoso, nei suoi 196 minuti, forse quanto può esserlo l’animo umano, quando il bisogno di proteggere il proprio mondo interno spinge verso l’incomunicabilità e l’incapacità di riflettere sulle proprie mancanze.

Un film lentissimo e al contempo violento, tale da lasciare lo spettatore incollato allo schermo nella speranza di una riconciliazione. Nelle battute finali il protagonista torna al rifugio. Rimangono nella mente le immagini sbiadite della moglie dietro alla finestra e il monologo interno di lui, mentre chiede perdono per una colpa che non conosce.

Un film straordinario e dal sapore amaro, come quello che accompagna le relazioni che si trascinano nel vortice dei bisogni inespressi, della castrazione emotiva, della rivendicazione e che obbliga lo spettatore a mettere in discussione le parti più profonde di sé.

 

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Cinema & Psicoterapia

Come la tecnologia sta cambiando il nostro cervello

FLASH NEWS

La tecnologia ha modificato la fisiologia umana: ci fa pensare, sentire e sognare in modo diverso;  influenza la nostra memoria, l’attenzione e i cicli del sonno. Tutto questo grazie alla neuroplasticità cerebrale, cioè la capacità del cervello di modificare il proprio comportamento in base a nuove esperienze.

Alcuni esperti di cognizione hanno elogiato gli effetti della tecnologia sul cervello, lodando la sua capacità di organizzare le nostre vite e liberare le nostre menti. Altri, invece, temono che la tecnologia abbia paralizzato i nostri tempi di attenzione, riducendo la creatività e rendendoci impazienti.

 

Ecco alcuni dei modi in cui la tecnologia sta “cablando”, nel bene e nel male, il nostro cervello: 

– Sogniamo a colori.

L’impatto della televisione sulla nostra psiche è così profondo che può influenzare i nostri sogni. Nel 2008, uno studio condotto presso l’Università di Dundee in Scozia ha scoperto che gli adulti di età superiore ai 55 anni che erano cresciuti in una famiglia con un televisore in bianco e nero erano più propensi a sognare in bianco e nero. Partecipanti più giovani, che sono cresciuti nell’era del Technicolor, quasi sempre sognano a colori.

– Sperimentiamo FOMO (fear of missing out)

cioè la paura di perdersi qualcosa, di sentirsi esclusi, definita dal New York Times come “una miscela di ansia, inadeguatezza e irritazione che può divampare mentre navighiamo veloci nei social media”.

Prima di Instagram e Facebook, passare il sabato sera a casa invece che fuori in compagnia, lasciava al massimo un vago senso di tristezza, ma grazie ai social media, quella sensazione è aggravata da immagini, video e messaggi di cene squisite e feste vorticose a cui abbiamo, aimè, mancato.

– La “sindrome da vibrazioni fantasma”

In uno studio del 2012 pubblicato sulla rivista Computers and Human Behavior, i ricercatori hanno scoperto che l’ 89% dei 290 studenti intervistati ha dichiarato di sentire “vibrazioni fantasma”, cioè la sensazione fisica che il loro telefono stava vibrando, anche quando non era vero, con una frequenza di una volta ogni due settimane.

È esperienza comune che la stessa cosa accada anche con il suono del cellulare, cioè lo sentiamo suonare anche quando non sta suonando.

– L’insonnia e l’alterazione dei ritmi circadiani

Siamo tecnofili abituati ad addormentarsi con il computer portatile incandescente di fianco al letto dopo aver visto l’ultima puntata della nostra serie preferita, o aver letto sull’ipad il capitolo di un libro. Queste routine notturne possono però interferire con i nostri ritmi circadiani.

I neuroscienziati sospettano che le luci incandescenti emesse dai computer portatili, schermi di tablet e smartphone, interferiscano con segnali interni del nostro corpo e con gli ormoni del sonno. L’esposizione alla luce può ingannare il cervello facendogli credere che è ancora giorno, e può potenzialmente avere effetti duraturi sui ritmi circadiani del corpo. I nostri occhi sono particolarmente sensibili alla luce blu emessa dagli schermi. Questo rende più difficile addormentarsi, soprattutto per coloro che già lottano con l’insonnia.

– Poca memoria e capacità attentive

 

In passato avere buona memoria era un’abilità importante; ora, nell’era di google, in cui praticamente qualsiasi informazione è immediatamente a portata di mano, non ci preoccupiamo di ricordare…chi ha bisogno di memorizzare la capitale del Mozambico, quando si può semplicemente chiedere a Siri?

Nel 2007, un neuroscienziato ha intervistato 3.000 persone e ha scoperto che gli intervistati più giovani hanno meno probabilità di ricordare le informazioni personali di base, come il compleanno di un parente o anche il proprio numero di telefono. Allo stesso modo, gli studi hanno dimostrato che i calcolatori possono diminuire semplici competenze matematiche. Alcune persone non sono più in grado di navigare nella loro città senza l’aiuto del GPS.

I Social media e Internet hanno anche dimostrato di ridurre i nostri tempi di attenzione. Gli individui immersi nei media digitali hanno difficoltà a leggere libri per lunghi periodi di tempo, e spesso “sfiorano” articoli on-line piuttosto che leggere ogni parola. Questo fenomeno può essere particolarmente preoccupante per i giovani, i cui cervelli sono più malleabili e, di conseguenza, potrebbero non riuscire a sviluppare le capacità di concentrazione.

– Abbiamo migliori capacità visive …

Uno studio del 2013 ha trovato che i videogiochi, sopratutto quelli in prima persona, implementano i processi decisionali e le capacità visive. Infatti l’alto coinvolgimento costringe i giocatori a prendere decisioni veloci sulla base di segnali visivi; questo migliorerebbe le capacità di attenzione visuo-spaziale e la capacità di analizzare i dettagli del proprio ambiente fisico. I giocatori migliorano anche nel rilevare il contrasto tra gli oggetti in ambienti poco illuminati.

Anche complessi giochi di strategia, come Starcraft possono migliorare la “flessibilità cognitiva”, aumentando la capacità di multitasking.

-Minor controllo degli impulsi

Purtroppo, lo stesso studio del 2013 sui videogiochi ha rilevato come alcuni di questi possano inibire la capacità dei giocatori di tenere a freno il comportamento impulsivo e aggressivo. I ricercatori concludono che, costringendo i giocatori a prendere decisioni veloci in situazioni violente, si inibisce il “controllo esecutivo proattivo” su reazioni impulsive e impulsi; i giocatori erano, cioè, più propensi a reagire con immediatezza, ostilità o aggressività incontrollata nella vita reale.

Altri studi hanno motivato l’idea di un legame tra videogiochi violenti e problemi di aggressività e attenzione.

-Siamo più creativi

‪Clay Shirky sostiene che Internet valorizza il “surplus cognitivo”: i social media richiedono agli utenti di interagire con testi, immagini e video in un modo che il semplice guardare la televisione non fa. I social media promuovono una cultura della condivisione e gli utenti si sentono più inclini a creare e condividere qualcosa di proprio, sia esso un album di Flickr, una recensione di un libro, o un contributo a Wikipedia.

“L’accumulo di tempo libero tra la popolazione istruita del mondo – forse un trilione di ore l’anno – è una nuova risorsa.”

 

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Il cervello universale (2013) di Miguel Nicolelis – Neuroscienze & Tecnologia

 

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Resto Umano (2014) di A. P. Lacatena: la storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna.

Questo libro narra la storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna. Miki è un uomo in un corpo di donna con una storia da raccontare: la storia di Michela, diventata Miki.

Il libro è composto da due parti: la prima è la storia di vita di Miki, la seconda è un’appendice dove il lettore può trovare approfondimenti in merito alle tematiche trattate nella ricostruzione del protagonista.

Una storia vera intensa e lucida, raccontata con la serenità che caratterizza chi è sopravvissuto al peggio, corredata da una serie di riferimenti tecnici e informazioni più specifiche su tossicodipendenza, su transessualismo e sulle tematiche sociali trattate.

E’ soprattutto, un romanzo biografico in cui non c’è spazio per luoghi comuni, condanne, pregiudizi, patetismi e favole.

Michela, già da bambina, vive un dramma interiore al quale non sa dare un nome e che la porta presto a scegliere di vivere per e di strada, dove incontra compagnie pericolose, sostanze stupefacenti (l’eroina è la mia signora, il mio corpo il suo regno!), il carcere e infine la contrazione dell’AIDS. Le prime esperienze sentimentali e sessuali la inducono a respingere gli uomini e preferire le attenzioni delle donne, dapprima amiche poi qualcosa di più. Fino a quando le viene diagnosticato un carcinoma maligno all’utero curabile solo con la rimozione dell’organo: quasi una liberazione per Michela, che inizia così il suo percorso per diventare Miki e, forse, finalmente se stesso.

Maschio o femmina alla nascita, tale devi rimanere per tutta la vita. Se questa cosa ti fa soffrire, al mondo non interessa. Vivitelo come vuoi, ma senza che quel dolore faccia troppo rumore.

Ricostruendo la storia di Miki, la Dott.ssa Lacatena ha narrato un’esistenza di grande vulnerabilità e sofferenza, troppo spesso ignorata dalla società, cercando di restituirle visibilità e valore. Dipendenza patologica, detenzione, AIDS e transessualismo sono entità di devianza, che non dispongono di validazioni e approvazioni sociali da parte della collettività. Le società e le culture possiedono una propria configurazione di genere (maschio e femmina), e forniscono pertanto modelli di condotta sessuale specifici e definiti culturalmente. Il rapporto tra i sessi è, infatti, un principio imprescindibile nell’ambito dei processi sociali, configurandosi più precisamente come struttura sociale di genere, attraverso la quale vengono apprese norme e valori.

Il transessualismo si configura come un disturbo dell’identità di genere. Il Transessualismo (Benjamin, 1953) può essere definito come il desiderio di un cambiamento di sesso da riportare a un’identificazione completa con il genere opposto, negando e cercando di modificare il sesso biologico di origine. Esso è stato inserito nel DSM-IV e nell’ICD-10, nei disturbi di genere; nel DSM V invece è stato derubricato come disturbo mentale. Questa depatologizzazione del transessualismo ha acceso un dibattito, ancora in corso, che comprende numerosi piani di dialogo (socio-culturale, normativo, economico,…). L’approccio multidisciplinare appare imprescindibile al cospetto di un fenomeno che porta con sé implicazioni sociali, psicologiche, biologiche, giuridiche, quando non di tipo bio-etico.

La sfida attuale è di sottrarre una questione così complessa al quadro puramente ideologico.

 

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Ai Confini delle Diagnosi: La Disforia di genere – SOPSI 2014 – LGBT

BIBLIOGRAFIA:

  • Lacatena, A.P. (2014), Resto Umano, Chinasky Editore ACQUISTA
  • Benjamin,H. (1968) Il fenomeno transessuale, Roma
  • Ferracuti, F. (1988) in Aspetti generali, psicologici e psichiatrico-forensi del transessualismo da Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense VIII, Edizioni Giuffrè
  • Valerio, P., Bottone, M., Vitelli, R., Sisci, N. (2006) L’identità Transessuale tra Storia e Clinica in Gay e Lesbiche in Psicoterapia, Cortina Editore
  • Ruspini, E. (2003) Le identità di genere, Collana Le Bussole, Carocci Editore.

Il Piacere derivante da attività rischiose e la Ricerca di Sensazioni

Massimiliano Iacucci

Oggi tratteremo di una motivazione che, ad un primo sguardo, sembra presentare difficoltà interpretative particolari: si tratta del fascino che le attività rischiose esercitano su certi individui. Tali attività sono azioni dall’esito aperto in cui, nonostante l’incertezza del risultato, vengono messe in gioco conseguenze importanti. In alcuni casi il rischio viene definito come la tensione verso un oggetto-meta non sicuramente raggiungibile (Kogan, Wallach 1967).

Tuttavia, di regola, un’azione viene sentita come realmente rischiosa solo quando il suo corso sfavorevole implica anche una perdita. Non solo l’incertezza dei guadagni, ma anche la possibilità di trovarsi alla fine dell’azione con qualcosa in meno di quanto si aveva all’inizio rendono quindi rischiosa una determinata attività.

Tuttavia vale la pena rischiare solo se, qualora gli eventi prendano una piega positiva, i guadagni siano particolarmente elevati. Un uomo d’affari o uno speculatore di borsa che riflettono sul fatto di investire o meno il loro denaro in un progetto non completamente sicuro potrebbero rappresentare casi tipici di questo calcolo razionale degli investimenti.

Accettare rischi senza realistiche prospettive di vantaggiosi profitti sarebbe, in ogni caso, incomprensibile. Tuttavia esistono moltissimi esempi del fatto che gli uomini non seguono calcoli razionali di questo genere. Talvolta sono addirittura disposti a pagare per esperire lo stato di insicurezza. Gli occasionali frequentatori dei casinò che, ogni volta, rischiano un determinato importo precedentemente fissato, esemplificano questo fatto.

Essi, di solito, sono consapevoli che la probabilità di perdere denaro è maggiore della speranza di vincerne. Ciononostante investono i soldi. Indipendentemente dal fatto che essi siano contenti di respirare l’atmosfera del casinò, in questo caso predominano innanzitutto gli stimoli, la tensione e l’eccitazione vissuti nelle fasi in cui è un elemento incalcolabile della situazione (per esempio, il rotolare della pallina della roulette) che può decidere se improvvisamente sì vincerà una forte somma oppure no. Ma il caso del gioco è compatibile con il modello di investimento razionale: si è pur sempre in vista di un risultato che, nel caso di successo, potrebbe essere di molto superiore all’investimento. 

Completamente inconciliabili con il modello dell’investimento razionale sarebbero invece i casi in cui un individuo mette a repentaglio valori importanti senza nessuna prospettiva di risultati vantaggiosi. Ciononostante, nei fine settimana assolati, moltissimi rocciatori si arrampicano sulle pareti più difficili; molte persone si librano in volo su deltaplani o si gettano con il parapendio; i motociclisti sfrecciano veloci sfiorando il suolo nelle curve; gli sciatori azzardano la discesa di ripidi e stretti canaloni; in giorni di tempesta i surfisti si gettano nell’inferno di onde alte diversi metri facendo il giro della morte. Nella pratica di sport rischiosi gli individui sborsano parecchi soldi per le attrezzature, i viaggi, investono tempo e fatica, litigano con il partner, rischiano la salute e la vita, e, in caso di successo, non hanno nulla di tangibile. Ma allora cos’è che spinge a ricercare questo tipo di rischio?

Csikszentmihalyi (1975) ha scoperto proprio negli scalatori esperienze flow (tabella 1) particolarmente intense (deep flow). Essi raccontano che, mentre si arrampicano, sono di necessità completamente concentrati sullo spazio che immediatamente li circonda, cioè sull’appiglio che la mano deve afferrare nei secondi successivi. La loro percezione del tempo passato si contrae al massimo ai trenta secondi precedenti e la loro pianificazione non supera i cinque minuti. Non esiste assolutamente nulla oltre all’azione che stanno ora svolgendo: tutto è chiaro e limitato all’arrampicarsi, tanto che la vita con le sue contraddittorie esigenze e i suoi problemi in questi momenti non esiste. In casi ideali sembra quasi che i movimenti si adeguino naturalmente alla roccia: senza riflettere, si fanno le cose giuste.

Si potrebbe sicuramente ammettere che gli stati flow possano avere un grado di incentivo fortemente elevato. Rimane tuttavia aperto il problema circa la ragione che spinge alcuni individui proprio all’arrampicarsi. L’esperienza flow si può provare anche giocando a scacchi o ballando (Csikszentmihalyi, 1975), suonando (Siebert, Vester, 1990) o dipingendo (Hentsch, 1992) e senza il pericolo che la minima distrazione possa provocare gravi incidenti o avere conseguenze fatali.

Tabella 1. Componenti dell’esperienza “flow”

tab 1

Sembrerebbero esservi delle differenze individuali nell’atteggiamento verso il “pericolo di perdere la vita”, in alcuni individui procura paura, in altri eccitazione. Il concetto di sensation seeking è quello che ha maggiormente stimolato questo tipo di ricerca (Zuckerman, 1971; 1979; 1994).

 

In esperimenti sulle ripercussioni a lungo termine dell’impoverimento di stimoli (la cosiddetta deprivazione sensoriale), Zuckerman aveva notato che alcuni individui sopportavano queste situazioni monotone meglio di altri. Questi ultimi diventavano subito inquieti e avevano sensazioni di forte avversione quando mancavano le stimolazioni.

Zuckerman ha ipotizzato che le differenze emerse in questa insolita situazione sperimentale derivassero da una disposizione comportamentale primaria che si presenta anche in situazioni diverse. Egli ha chiamato questa disposizione sensation seeking (ricerca di sensazioni e impressioni). Essa comprende il bisogno, diverso per ogni individuo, di impressioni varie, nuove e complesse, unito alla disponibilità ad accollarsi, proprio per amore di esse, rischi fisici e sociali.

Anche per ciò che riguarda la sensation seeking si può pensare all’esistenza di un retroterra biologico-evoluzionistico. Gli esseri viventi con un forte bisogno di impressioni e sensazioni ottengono necessariamente maggiori informazioni sul loro ambiente. Rapportandosi alle condizioni esterne, essi sviluppano competenze maggiori rispetto agli esseri viventi che sono appagati da quello che già sanno, o che rifuggono intimoriti da tutto ciò che è nuovo.

Nel 1969 Zuckerman ha ipotizzato che le differenze nell’ambito della sensation seeking risalissero semplicemente all’esistenza di standard individualmente diversificati relativi al livello di eccitazione ottimale del sistema nervoso. Gli individui con un alto standard di eccitazione sono destinati ad avere stimolazioni più intense e sono, di conseguenza, più spesso alla ricerca di sensazioni e impressioni di quanto non accada agli individui con uno standard più basso di eccitazione ottimale. Dal momento che l’attivazione generale del sistema nervoso centrale (Duffy, 1957) non è stata dimostrata nell’ambito della ricerca psicofisiologica, anche Zuckerman ha abbandonato questo tipo di approccio al problema.

Egli ha ripreso un’idea di Stein (1978), secondo la quale l’interesse e la curiosità sono prodotti da processi biochimici nel sistema limbico, nei quali la dopamina e la monoaminossidasi nel sangue hanno un ruolo importante (Zuckerman 1984). Le differenze individuali di questi processi dovrebbero quindi essere le cause delle differenze di sensation seeking. Tuttavia anche queste ipotesi non sono del tutto accettate (Knorring, 1984) e, nonostante i molteplici esperimenti fatti, la fondazione biochimica della sensation seeking non è ancora stata dimostrata scientificamente ( Schneider, Rheinberg, 1996).

Considerando il concetto di sensation seeking da un punto di vista psicologico, il primo problema che si pone è la determinazione di una simile disposizione. Per fondare una sindrome comportamentale quale la sensation seeking, sarebbero teoricamente necessarie moltissime osservazioni di differenti individui posti in situazioni e in momenti diversi. Per motivi economici l’osservazione diretta è stata sostituita da un questionario, in cui gli intervistati davano informazioni sulle modalità comportamentali in questione. Sono stati così raggruppati quegli enunciati relativi a preferenze e a modi di reazione che si riferivano sia a impressioni forti, nuove e ricche di variazioni, sia ad attività rischiose, sia infine all’evitamento della monotonia e della noia. Dalle analisi statistiche (analisi fattoriali) è emerso che la sensation seeking comprende quattro diverse componenti (Tabella 2).

Tabella 2. Le quattro componenti della “sensation seeking”

tab 2Nella versione attuale (la quinta) ogni componente viene determinata da dieci enunciati. Se si tengono presenti le singole componenti, allora risulta che esse hanno correlazioni reciproche medio-basse (da r = 0,20 a r = 0,40). A causa di ciò, Zuckerman (1979) ha ritenuto opportuno costruire un valore complessivo dato dalla somma delle componenti, che dovrebbe riflettere la tendenza alla sensation seeking di un individuo. Da un punto di vista statistico questo procedimento è piuttosto criticabile. Anche alla luce dei risultati di ricerche ulteriori bisognerebbe riflettere se non sia più proficuo lavorare con le singole componenti, anziché con il valore complessivo.

Affiancando la scala di Zuckerman ad un test della personalità, il test 16PF di Cattell (1956), si è infatti dimostrato che le diverse componenti della sensation seeking dipendevano, di volta in volta, da altre caratteristiche della personalità.

1. La componente “thrill and adventure seeking” (ricerca di brivido e di avventura) è legata ai fattori della personalità “scarsa tendenza al conflitto”, “elevata forza dell’Io”, “fiducia” e “iniziativa sociale”;

2. l’”experience seeking” (ricerca di esperienze) invece, ai fattori “non conformità” e “scarsa autodisciplina”;

3. la componente “disinhibition” (disinibizione) a “impulsività” e “dipendenza dal gruppo”;

4. la “boredom susceptibility” (suscettibilità alla noia), infine, è in relazione con “diffidenza” e “radicalismo”.

L’elemento decisivo non è quindi lo sport in sé, bensì – di fatto – il suo contenuto di rischio. Proprio la presunta pericolosità di ogni singola disciplina è in rapporto con la sensation seeking. Sciatori che hanno avuto incidenti presentano valori di sensation seeking più elevati rispetto agli sciatori che finora non ne hanno avuti.

Sono state dimostrate molteplici correlazioni con i più diversi ambiti comportamentali, i cui valori sono spesso bassi e talvolta medi; sono così emersi rapporti plausibili della sensation seeking con la disposizione al rischio viaggiando in macchina o in motocicletta nel traffico stradale, con il consumo di droghe, con la sessualità, e addirittura con la delinquenza.

In ogni caso, tutte queste ricerche non possono colmare il grave deficit teorico del modello di sensation seeking. Zuckerman si concentra sulla possibilità di riportare la disposizione alla sensation seeking, misurabile sulla base di questionari, a processi nervosi e biochimici. Tuttavia non affronta il problema della chiarificazione teorica del rapporto tra tale disposizione e il comportamento. Non è ancora stato definito quali siano i fattori situazionali e quali siano i processi emotivi e cognitivi che vengono stimolati da una determinata intensità di sensation seeking, la cui azione reciproca porta poi ad un certo comportamento. Questa spiegazione del comportamento si basa semplicemente sulla teoria delle caratteristiche individuali. I tratti particolari della condotta sono riportati ai tratti particolari di base della persona. L’equazione del comportamento elaborata da Lewin (1946), secondo cui la condotta è sempre funzione della persona e della situazione, non viene presa in considerazione. Ciononostante il lavoro di Zuckerman è importante perché ha fornito un modello di alcune caratteristiche personali che portano verso situazioni rischiose.

 

Una delle componenti isolate, cioè la predilezione di sport rischiosi, può essere ulteriormente spiegata tramite l’analisi degli incentivi incentrati sull’attività (Rheinberg, 1987; 1996). Nelle ricerche sugli incentivi propri di sport pericolosi, per esempio il motociclismo e lo sci, oltre ad un elevato numero di incentivi diversi, è emerso anche un insieme di tre componenti relative al rischio.

La prima riguarda esperienze valutate positivamente, quali «il solleticare l’emozione» o «lo stuzzicare la paura». Tale componente corrisponde esattamente al thrill and adventure seeking di Zuckerman (1979). Queste indagini hanno però messo in evidenza che tali componenti non sembrano caratterizzare in modo adeguato la motivazione agli sport pericolosi. Cohen (1960), Slovic (1962) o Kogan e Wallach (1964) avevano richiamato l’attenzione su un’importante differenza relativa a situazioni rischiose. La misura in cui il corso di un evento dipende dal caso (per esempio, nella roulette) e la misura in cui dipende dal soggetto e dalla sua abilità (per esempio, in una difficile scalata al successo) costituiscono l’elemento decisivo per tale divisione. Coloro che praticano sport pericolosi hanno una forte tendenza al rischio legato alla propria abilità.

Nel frattempo è stata sviluppata una scala ridotta, che rileva la disponibilità ad accettare rischi dipendenti dall’abilità vs. dal caso (Risikobevorzugungs-Skala, Rheinberg, 1998). Le ricerche condotte su sciatori hanno mostrato innanzitutto che questo gruppo di sportivi amanti del rischio preferisce chiaramente, come atteso, rischi dipendenti dalla competenza piuttosto che rischi dipendenti dal caso. Alla luce di tali risultati sarebbe fuorviante certificare a coloro che praticano discipline sportive pericolose un inconscio desiderio di morte, che potrebbe essere dedotto dalla pulsione di morte freudiana (Freud 1920). Sportivi di questo tipo preferiscono invece, sistematicamente, situazioni in cui i «valori» superiori – cioè l’incolumità fisica o la vita stessa – dipendono dalla loro abilità. Abbiamo quindi a che fare con una basilare tematica della riuscita: la conferma del successo in condizioni di emergenza. In questo caso successo e insuccesso hanno conseguenze vitali e non solo simboliche; in nessun’altra situazione, infatti, la propria capacità di riuscita potrebbe essere più importante. Gli sport pericolosi provocano questa sensazione a coloro che li praticano.

La seconda componente della motivazione a sport rischiosi, oltre al thrill and adventure seeking, è quindi rappresentata da un motivo di riuscita fortemente accentuato. Entrambe le componenti si riferiscono l’una all’altra. Come è appena stato detto, l’eccitante pericolo vitale accentua l’importanza dell’abilità/competenza richiesta al soggetto. D’altra parte la valutazione della minaccia che produce il brivido (thrill) dipende decisamente dalla stima che il soggetto compie delle proprie capacità (capacità di controllo degli eventi). Gli stessi sportivi, per esempio l’alpinista estremo Reinhold Messner, interrompono l’impresa quando l’influenza di fattori incontrollabili si fa troppo elevata. Essi vivono alcune situazioni (per esempio, il traffico stradale) come fossero estremamente pericolose, poiché gli errori altrui mettono in campo rischi che non possono essere compensati dalla loro abilità. In questo senso ci si può sentire più sicuri in parete che non in autostrada.

La terza componente dell’incentivo nelle attività sportive pericolose – accanto alla tematica della riuscita e alla ricerca di eccitazione – corrisponde a ciò che Duncker (1940) aveva definito dynamic joys. Essa è stata determinata in modo più preciso da Caillois [1958], il quale ha analizzato «i giochi» in quanto attività prive di scopi. Egli ha formato un gruppo di «giochi» che ha definito ilinx (vortice, vertigine). Si esperisce quando il corpo viene posto in determinati stati dí movimento: «la caduta o il lancio nello spazio, la rotazione vertiginosa, gli scivoloni, la velocità, l’accelerazione in un movimento lineare oppure la sua combinazione con un movimento rotatorio» (Caillois 1958, 33). L’attrattiva di questi stati può essere osservata già nei bambini piccoli che strillano di gioia quando li si butta in aria, Molti (ma non tutti!). Gli adulti spendono denaro per avere esperienze simili sulle montagne russe o con il bungeejumping. Con Kiphard (1999) possiamo denominare questo stimolo componente vestibolare.

Tabella 3. La triade degli incentivi alle attività sportive rischiose (Rheinberg, 1996)

tab 3

La tabella 3 mostra in sintesi la triade degli incentivi alla motivazione ad attività sportive rischiose. Questi tre incentivi spingono un individuo all’esecuzione di attività sportive pericolose, in cui la possibilità di una minaccia vitale potenzia l’eccitazione rendendo l’esperienza più intensa e facendogli comprendere la fondamentale importanza della sua abilità per la sopravvivenza stessa.

Restano tuttavia due aspetti che necessitano di ulteriori chiarificazioni sia teoriche che empiriche: da un lato bisognerebbe spiegare fino a che punto la predilezione per un certo incentivo – predilezione che si determina con i concetti di motivo o disposizione – possa essere intesa come valore costante della persona. (In questo caso si dovrebbero studiare per esempio i rapporti con la disposizione alla sensation seeking). Dall’altro lato bisognerebbe spiegare come tale predilezione influenzi il tipo di attività che un individuo intraprende e le modalità con cui la esegue. Entrambi gli aspetti sono ancora poco chiari. Questo tipo di analisi di incentivi impedisce esclusivamente che la ricostruzione motivazionale venga frettolosamente riportata a uno o due modelli teorici preformulati.

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BIBLIOGRAFIA:

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  • Rheinberg, F. (1987). Fragen zum Erleben von T\ätigkeiten. (Ein Fragebogen zum Erfassen von Flow-Erleben im Alltag.), Psychologisches Institut der Universität Heidelberg.
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L’ossitocina: come l’ormone dell’amore regola il comportamento sessuale

FLASH NEWS

Nel loro insieme i risultati evidenziano che la nuova classe di neuroni ossitocina-reattivi regola un aspetto importante del comportamento sociale femminile nei topi.

L’ossitocina è stata chiamata “l’ormone dell’amore” perché svolge un ruolo importante nei comportamenti sociali, come il caregiving e il legame di coppia.

Un nuovo studio pubblicato su Cell, ha scoperto le cellule cerebrali che reagiscono all’ossitocina e che sono necessarie affinchè i topi femmina provino interesse sociale per i topi maschi durante l’estro – la fase sessualmente ricettiva del loro ciclo. Questi neuroni, che si trovano nella corteccia prefrontale, possono svolgere un ruolo in altri comportamenti sociali ossitocina-correlati, come l’intimità, l’amore, o il legame madre-figlio.

I risultati dello studio suggeriscono che le interazioni sociali, che stimolano la produzione di ossitocina, utilizzino questo circuito recentemente identificato per coordinare le risposte comportamentali complesse, indotte da mutate situazioni sociali in tutti i mammiferi, compreso l’uomo.

I neuroni ossitocina-reattivi si trovano in molte strutture cerebrali – testimoniando l’importanza di questo ormone in una varietà di comportamenti sociali – anche se non è chiaro quali siano le cellule bersaglio dell’ossitocina, o come l’ormone influisca sui circuiti neurali.

Un indizio emerge dalla scoperta di una popolazione di neuroni nella corteccia prefrontale mediale che esprimono il recettore dell’ossitocina. Quando i ricercatori hanno interrotto l’attività di questi neuroni, i topi femmina hanno perso interesse nei topi maschi durante l’estro. Al contrario, le femmine mantengono un livello normale di interesse sociale in altre femmine durante l’estro, e in topi maschi, quando non sono in estro. Inoltre, il comportamento sociale dei topi di sesso maschile non è stato influenzato dal silenziamento di questi neuroni.

Nel loro insieme i risultati evidenziano che la nuova classe di neuroni ossitocina-reattivi regola un aspetto importante del comportamento sociale femminile nei topi.

“Il nostro lavoro mette in evidenza l’importanza della corteccia prefrontale nei comportamenti sociali e sessuali e suggerisce che questa popolazione di cellule critiche può mediare su altri aspetti del comportamento in risposta ai livelli elevati di ossitocina che si verificano in una varietà di contesti differenti”, dice Heintz.

Le future indagini sui meccanismi responsabili dell’attivazione di questo circuito potrebbero anche fornire indizi utili alla comprensione del disturbo dello spettro autistico e di altri disturbi comportamentali.

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