expand_lessAPRI WIDGET

Fibromialgia – Definizione, sintomi, cura

La fibromialgia (o sindrome fibromialgica) è una malattia cronica complessa definita dall’American College of Rheumatology come “una condizione di dolore cronico diffuso con caratteristici “tender points” (punti dolenti alla pressione) all’esame fisico, spesso associata con una varietà di sintomi o disfunzioni quali la fatica, i disturbi del sonno, la cefalea, la sindrome del colon irritabile e i disturbi dell’umore”.

 

Che cos’è la fibromialgia

La fibromialgia è stata ed è ancora una delle diagnosi più controverse in medicina. L’angolo di visuale del reumatologo  non sempre concorda con quello dello psicologo, dello psichiatra o del neurologo.

Il gruppo italiano di studio sulla fibromialgia ha recentemente definito questa malattia:

[blockquote style=”1″]“una sindrome da sensibilizzazione centrale, caratterizzata da disfunzione dei neurocircuiti, che coinvolgono la percezione, la trasmissione e la processazione degli stimoli nocicettivi afferenti, con la prevalente manifestazione di dolore a livello dell’apparato locomotore”.[/blockquote]

Nel 1996 Turk e collaboratori avevano dimostrato l’esistenza di “subset” di pazienti differenziabili in base a caratteristiche cognitive, psicosociali e che rispondevano in modo diverso al trattamento farmacologico. Nel 2003, Giesecke e collaboratori, basandosi sulle caratteristiche del dolore (intensità, capacità di controllo del dolore e soglia nocicettiva) e sugli aspetti interpretativi ed emozionali della percezione nocicettiva (ansia, depressione e catastrofismo) hanno identificato tre tipologie di pazienti (1):

•    il primo gruppo (51,5%) è caratterizzato da valori medi per tutti i parametri misurati; comprende la maggior parte dei pazienti che si rivolgono al medico di medicina generale a causa del dolore diffuso e che, solitamente, rispondono maggiormente al trattamento;

•    il secondo gruppo (32%) è caratterizzato da alti livelli di ansia, depressione e catastrofismo, da scarsa capacità di autocontrollo del dolore e da elevata dolorabilità alla digitopressione;

•    il terzo gruppo (16,5%) è invece caratterizzato da pazienti con bassi livelli di ansia, depressione e catastrofismo ma con soglia nocicettiva particolarmente bassa.

 

Diagnosi di fibromialgia

I criteri per la diagnosi della fibromialgia sono stati definiti dall’American College of Rheumatology nel 1990. Nel 1992 la fibromialgia è stata riconosciuta come malattia nosograficamente autonoma dalla Organizzazione Mondiale della Sanità ed è stata classificata con il codice M79.03 nella classificazione internazionale delle malattie (ICD-10). Infine, nel 1994 l’International Association of the Study of Pain (IASP) ha riconosciuto la fibromialgia come una malattia, classificandola con il codice X33.X8a. Ma quali sono i sintomi caratteristici di questa malattia così emblematica? Eccone un elenco.

 

Sintomi della fibromialgia

Dolore

Il dolore cronico diffuso, riferito a “tutto il corpo”, presente da almeno 3 mesi, è indubbiamente il sintomo più caratteristico della fibromialgia, rilevandosi nella quasi totalità dei pazienti. Il dolore che affligge i pazienti affetti da fibromialgia, è un dolore diffuso che non presenta una particolare distribuzione anatomica. L’elenco dei segni e dei sintomi è estremamente ampio e variegato. La semantica del dolore è alquanto variegata. Espressioni quali: “mi fa male tutto” o , “riesco prima a dire che cosa non mi fa male” sono del tutto caratteristiche dei pazienti fibromialgici. Il dolore viene abitualmente definito come “pungente”, “urente”, “lancinante”, “penetrante”. La sintomatologia dolorosa viene caratteristicamente accentuata dal freddo, dall’umidità, ma anche da eventi stressanti, periodi di inattività o dal sovraccarico funzionale. I malati tendono a definire il dolore “di tipo muscolare”.

 

Astenia

Un quadro di astenia talora intenso ed uno stato generale di affaticamento (che gli anglosassoni ben definiscono con il termine: la “fatigue”) sono presenti nel 75-90% dei casi (2,3). “Mi sento sempre stanco” è una tipica descrizione della “fatigue” da parte del malato, che riferisce inoltre spossatezza, stanchezza, mancanza di energie. L’astenia è nettamente più accentuata al risveglio, tanto che i pazienti spesso utilizzano la stessa frase per descrivere questa sensazione: “mi sento più stanca la mattina rispetto alla sera”. Tra i fattori correlati all’astenia ed al senso di affaticamento figurano: qualità e quantità del sonno inadeguate (sonno non ristoratore), un decondizionamento muscolare causato dall’inattività ed uno stato ansioso-depressivo (astenia “motivazionale).

 

Disturbi del sonno

Tipico della fibromialgia è un sonno non ristoratore, riferito dal 75% dei pazienti e si manifesta sotto forma di: insonnia iniziale, insonnia centrale (risvegli frequenti durante la notte con difficoltà a riaddormentarsi), insonnia finale, ipersonnia, sonno leggero, irregolare riposo diurno, inversione del ritmo sonno-veglia (4). Studi di polisonnografia hanno mostrato che i soggetti con fibromialgia, rispetto ad un gruppo sano di controllo, presentano una ridotta quota di sonno ad onde lente, di sonno REM, di sonno totale, così come un maggior numero di risvegli prolungati ed un pattern elettroencefalografico di intrusione di onde alfa (onde associate alla reazione di risveglio) sul ritmo delta (onde lente che caratterizzano il sonno profondo)(5). Le alterazioni del sonno appena riferite, creano un circolo vizioso, in quanto accentuano il dolore e influiscono sull’umore, che a loro volta contribuiscono a disturbare il sonno (6). I pazienti con sonno maggiormente alterato presentano una maggiore percezione del dolore ed un più elevato numero di tender point (5,7).

 

Parestesie

Una sensazione di formicolio, di intorpidimento, di spilli o aghi che pungono si rileva nell’ 84% dei pazienti (8). L’esame obiettivo neurologico e l’elettromiografia risultano il più delle volte nella norma.

 

Sensazione di gonfiore nelle zone dolenti

Una sensazione soggettiva di gonfiore si osserva in circa la metà dei pazienti (9). Questa sensazione è spesso associata a crampi muscolari, fascicolazioni e tremori palpebrali.

 

Disturbi neurocognitivi

Sintomi neurocognitivi della fibromialgia comprendono difficoltà e calo della concentrazione, disturbi della consolidazione della memoria a breve termine (“mi dimentico tutto”), rallentamento nei gesti, riduzione della performance linguistiche, inabilità a compiere più azioni contemporaneamente, facile distrazione e sovraccarico cognitivo sono particolarmente frequenti in corso di fibromialgia. I pazienti lamentano inoltre “nebbia cognitiva” (definita come “fibro-frog”), confusione mentale, dislessia, difficoltà nello scrivere, nel parlare, nel leggere, nel compiere azioni matematiche e nel reperire vacaboli (10). È stato dimostrato che i pazienti con fibromialgia presentano funzioni cognitive (in termini di memoria a lungo termine e “working memory”) inferiori rispetto a soggetti più anziani di 20 anni (11,12) e simili a quelle di adulti di venti anni più anziani. I pazienti possono avere performance simili ai soggetti sani di controllo ma solo con attivazione neuronale estensiva delle regioni frontali e parietali dell’encefalo (13).
Studi recenti mostrano come nei pazienti affetti da fibromialgia vi sia una significativa perdita di materia grigia (3,3 volte maggiore rispetto a soggetti sani della stessa età), con una correlazione tra durata di malattia e perdita di sostanza grigia (14).

 

Acufeni

Senso di ronzio e di rumore all’orecchio rientrano tra i sintomi frequenti nei pazienti con fibromialgia.

 

Dolore temporo-mandibolare

La Sindrome algico-disfunzionale delle articolazioni temporo-mandibolari è di non raro riscontro. Il dolore si accentua con i movimenti di apertura e chiusura della bocca.

 

Sindrome delle gambe senza riposo

Una tipica “restless leg syndrome” è presente nel 30% dei pazienti, e si manifesta con la caratteristica sintomatologia notturna (gambe che si muovono di continuo).

 

Colon irritabile

Sindrome del colon irritabile è presente nel 32-70% dei pazienti e si manifesta con dolore addominale, sensazione di gonfiore e turbe dell’alvo (diarrea alternata a stipsi).

 

Disturbi dell’apparato genito urinario

Dolori pelvici, spasmi vescicali con minzioni frequenti, tensione ai genitali, dismenorrea sono molto frequenti nelle pazienti con fibromialgia.

 

Disfunzioni sessuali

La fibromialgia risulta associata con alcune disfunzioni sessuali femminili. Tra queste figurano soprattutto la diminuzione della eccitazione sessuale, una negativa esperienza orgasmica ed un aumento del dolore correlato al coito (15,16,17,18). Sul ruolo della componete psicologica nella genesi di tali disturbi non si registrano orientamenti univoci. Anche se i dati epidemiologici non possono ritenersi esaurienti, si ritiene che circa 1/5 delle donne affette da fibromialgia presenti disturbi da dolore vulvare (19,20). La comparsa di dolore durante il rapporto coitale è più comune nelle pazienti fibromialgiche (50%) rispetto alle donne sane (16,7%) (Aydin et al). Secondo altri autori (Shower et al) il dolore nel corso di un rapporto sessuale sarebbe più frequente nelle pazienti con fibromialgia dal momento che in questa malattia la tolleranza e la soglia di percezione del dolore sono nettamente ridotte rispetto ai soggetti sani (21).

 

Disturbi della sfera affettiva

Il 50-60% dei pazienti con fibromialgia presenta almeno un episodio di depressione maggiore nel corso della vita. Degno di nota è il fatto che i parenti di primo grado dei pazienti con fibromialgia presentino una prevalenza elevata di disturbi dell’umore rispetto ai pazienti con artrite reumatoide ed ai soggetti di controllo (22). I soggetti affetti da fibromialgia riportano esperienze traumatiche infantili, come abusi, rifiuti e maltrattamenti fisici, più frequentemente rispetto ai soggetti di controllo (23).   

 

Altri sintomi della fibromialgia

Altre manifestazioni: nell’infinita lista dei sintomi della fibromialgia figurano inoltre: disturbi vasomotori periferici, intolleranza alla luce ed ai suoni, sindrome sicca (secchezza degli occhi e della bocca), dolore toracico (descritto come “forti fitte al cuore da togliere il respiro”), cardiopalmo (sensazione soggettiva del battito cardiaco).

I tender point rappresentano invece il segno obiettivo più caratteristico della fibromialgia. Possono essere definiti punti dolenti alla pressione situati in corrispondenza di specifiche sedi muscolari e tendinee. La digitopressione che l’operatore esercita nei 18 punti dolenti individuati nella mappa dei tender point deve essere di 4 Kg/cm2 (questa pressione equivale allo sbiancamento del letto ungueale dell’esaminatore).

Il complesso quadro sintomatologico dei pazienti con fibromialgia può essere influenzato negativamente da fattori esterni, quali eventi stressanti (lutti, traumi, esperienze traumatiche infantili, abusi e/o violenze, rifiuti e maltrattamenti fisici, traumi fisici e psicologici, eventi particolarmente dolorosi), rumore (24), freddo, umidità, cambiamenti metereologici, fase pre-mestruale, sovraccarico lavorativo, lunghi periodi di inattività, ritmi di vita frenetici, stato di tensione continua, ansia, stress, sonno disturbato (25,26).

 

Epidemiologia della fibromialgia

Per ciò che concerne l’epidemiologia, è possibile affermare che la fibromialgia è una condizione di difficile valutazione e può contare un numero limitato di studi su incidenza e prevalenza che certamente non rendono agevole la messa a punto di una accurata mappa epidemiologica della malattia. Gli studi basati sui criteri classificativi dell’American College of Rheumatology (ACR) riportano una prevalenza sulla popolazione generale tra lo 0,1 ed il 3,3%.

Lo studio MAPPING riporta una prevalenza della fibromialgia nell’ordine del 2.22%. Sulla base di tale dato, in Italia risulterebbero affetti da fibromialgia 1.333.000 soggetti (5). Questa percentuale risulta quasi doppia rispetto alle stime di riferimento di Ciocci e coll. che vedevano la fibromialgia interessare l’1,2% della popolazione generale (circa 700.000 italiani) (27).

La motivazione della maggiore prevalenza nel sesso femminile non è del tutto nota.  E’ probabile che la differenza tra i due sessi debba essere ricondotta  ad una diversa interazione tra fattori genetici, biologici, psicologici e socio culturali (certamente gli estrogeni hanno un ruolo importante nella modulazione del dolore, come pure la ridotta produzione del testosterone nel sesso femminile). Sembra che la prevalenza della fibromialgia aumenti con l’aumentare dell’età fino ai 79 anni, pur potendo colpire adolescenti e bambini.

Il sesso femminile rappresenta certamente il maggior fattore di rischio per la fibromialgia (rapporto maschi/femmine 1:9). Uno studio del 1999 di Forseth (28) ha preso in esame i possibili fattori di rischio per la comparsa di fibromialgia in un gruppo di donne con dolore diffuso aspecifico. Sono risultati predittori la durata del dolore superiore ai 6 mesi, la presenza di dolore assiale e nella parte distale degli arti superiori, la presenza di sintomi associati quali disturbi del sonno, metereolabilità, la familiarità, la cefalea cronica, l’alvo alterno, le parestesie ed un tono dell’umore depresso. L’età attuale, l’età di esordio, la conta dei tender point alla digitopressione e le caratteristiche del dolore non sono elementi utili per discriminare i soggetti che possono sviluppare la fibromialgia.

Un dato interessante emerso da molti studi riguarda invece il rapporto inverso esistente tra il grado di istruzione e lo sviluppo di una sindrome dolorosa cronica, analogamente alla presenza di condizioni sociali svantaggiose (divorzio, handicap, immigrazione, basso reddito) (29,30).

 

Fibromialgia e disturbi della sfera affettiva

È inoltre evidente l’importanza che riveste nello sviluppo di una sintomatologia fibromialgica la presenza di disturbi della sfera affettiva in atto o pregressi (divorzi, separazioni, lutti) o di altre affezioni croniche, in particolare se aggravate da stress psicologico e/o caratterizzate dalla presenza di stimoli nocicettivi persistenti.

Oliver e Silman (31) hanno riproposto in un recente articolo, l’importanza degli studi epidemiologici nella fibromialgia, avvalorando la tesi secondo cui traumi fisici, problematiche psico-sociali, fattori genetici e raziali possano essere elementi condizionanti la comparsa e l’espressione della fibromialgia. Grazie ad un’intervista condotta in anonimo via Internet, Wilson e coll., hanno potuto confermare che le cause indicate dalla popolazione come motivo di insorgenza della fibromialgia sono nel 60% emozionali (40% fisiche) e che le stesse cause emozionali sono nel 94,2% motivo stesso delle riacutizzazioni (5,8% cause fisiche ed ambientali)(32).

 

Comorbilità nella fibromialgia

Le classiche espressioni cliniche della fibromialgia possono rilevarsi anche in soggetti con un’ampia e variegata gamma di affezioni ad impronta algico-disfunzionale. Tra le comorbilità più frequentemente osservate in pazienti con fibromialgia figurano (33):

–    sindrome del tunnel carpale (23% vs 1% dei controlli);

–    ansia (5% vs 1% dei controlli);

–    depressione (12% vs 3% dei controlli).

Di rilevante interesse risulta lo studio di Bateman e coll. che nel 2009 hanno pubblicato un’indagine condotta su pazienti partecipanti al convegno tematico sulla fibromialgia tenutosi a Salt Lake City (USA).  Fra le comorbilità più frequenti risultarono i disturbi del sonno (83%), la depressione (71%), l’ansia (63%) e l’artrite (38%).

 

Fibromialgia e disturbi psichiatrici

La prevalenza dei disturbi psichiatrici nei pazienti con fibromialgia è palesemente elevata rispetto alla popolazione generale. E’ stato dimostrato che il rischio di sviluppare disturbi d’ansia (in particolare il disturbo ossessivo – compulsivo ed il disordine post-traumatico da stress) nel corso della vita dei pazienti con fibromialgia è circa 5 volte superiore rispetto a soggetti di controllo (34). Studi epidemiologici hanno infatti osservato una concomitante depressione maggiore nel 14-36% dei pazienti fibromialgici contro il 6.6% dei soggetti di controllo (35). Un’ulteriore associazione è stata osservata tra il disordine post-traumatico e il  56% dei pazienti con fibromialgia.

 

Fibromialgia e depressione

Anche se vi è una associazione ben documentata tra malattie croniche e depressione, quella tra depressione e fibromialgia è particolarmente rilevante (Kassan et al, 2006). È stato recentemente dimostrato che la stanchezza e la depressione risultano essere le componenti che esercitano maggior impatto negativo sulla capacità funzionale dei pazienti (Del e coll., 2008). Dallo studio degli autori spagnoli è emerso che una storia pregressa di problematiche significative di ordine psicologico e psichiatrico risultava documentabile nel 50% dei casi. Al momento dello studio, tuttavia, la prevalenza di una “mental illness” è stata documentata solo nel 36,4% dei casi. Questa percentuale risulta sostanzialmente sovrapponibile a quella che si registra in studi precedenti in soggetti con altre malattie croniche.

Occorre sottolineare che in questi pazienti la diagnosi di fibromialgia viene accolta con un certo sollievo. In alcuni soggetti l’ansia innescata dalla perplessità e dai dubbi in merito alla natura della sintomatologia sembra quasi dileguarsi di fronte alla conferma della diagnosi di fibromialgia. L’espressione “mi sento meglio adesso che so che non mi stavo inventando tutto” è particolarmente frequente e caratterizza una reazione molto comune da parte dei pazienti, i quali si sentono considerati dei veri e propri “malati immaginari” anche dai propri familiari. In quest’ottica, la diagnosi di fibromialgia viene in parte considerata come una vera e propria liberazione.

Occorre sottolineare che i fibromialgici mostrano spesso una forte irritazione quando i propri disturbi vengono ricondotti nel contesto delle espressioni di una sindrome depressiva e tendono a rifiutare con fermezza i farmaci anti-depressivi e, in senso più generale, ogni terapia capace di incidere nel tono dell’umore. Tra i descrittori semantici più spesso utilizzati per esprimere tale atteggiamento figurano espressioni quali: “non sono pazzo”, “non sono depresso”. Di ciò deve tener conto il medico, dal momento che alcuni dei farmaci che si sono rivelati più efficaci nella terapia della fibromialgia appartengono proprio al gruppo degli anti-depressivi.

 

Trattamento della fibromialgia

Un principio fondamentale della strategia di trattamento della fibromialgia è l’approccio interdisciplinare e multiprofessionale finalizzato all’attenuazione del dolore, alla riduzione della “fatigue”, delle turbe del sonno e delle altre manifestazioni emotive della malattia. Il risultato finale dei diversi possibili schemi di intervento è quello di migliorare la qualità della vita, che risulta gravemente compromessa nella quasi totalità dei pazienti fibromialgici. La strategia di trattamento deve risultare particolarmente flessibile, dovendo tener conto delle molteplici variabili che incidono sulla espressione di malattia.

Depressione e angoscia sono sentimenti che nascono e si sviluppano come risposta naturale alla diagnosi di una malattia cronico – degenerativa o oncologica. Passare dalla condizione di “individuo sano” a quella di  “individuo malato” è una esperienza complessa e delicata, non facile da gestire, specie in soggetti molto sensibili o particolarmente fragili (VEDI: Accettazione della malattia).

 

Psicoterapia per la fibromialgia

Fra le tante emozioni che il paziente vive figurano anche la tristezza, la rabbia (..”perché proprio a me” … “cosa ho fatto per meritarmi questo”), la vergogna, il senso di impotenza ed una tendenza all’isolamento, che porta inesorabilmente il malato ad una progressivo accentuazione della sofferenza e ad un stato di profonda solitudine dell’anima. Anche la famiglia vive gli stessi sentimenti del paziente, spesso uniti ad un senso di colpa e di imbarazzo per la difficoltà che ha nell’affrontare lo sguardo del proprio caro o per non sentirsi capace di gestire in modo adeguato la situazione. A tal fine risulta sempre più importante l’integrazione della terapia farmacologica alla psicoterapia.

La Fibromialgia un'esperienza di gruppo - Immagine: 74868580CONSIGLIATO: FIBROMIALGIA, UN ESPERIENZA DI TERAPIA DI GRUPPO

Una recente meta analisi orientata allo scopo di valutare il ruolo degli ”psychological treatments” ha dimostrato che l’ effetto della psicoterapia può definirsi “small but robust” e comparabile con quello attribuibile al trattamento farmacologico comunemente usato per la fibromialgia. La terapia cognitivo-comportamentale è risultata associata con il maggior “effect sizes” (36).

Quest’ultima è stata infatti utilizzata come base per molti programmi di trattamento del dolore e dello stress e costituisce una forma di educazione più complessa del paziente. Gli interventi della terapia cognitivo comportamentale possono comprendere:

–    l’aiuto ai pazienti ad apprendere e a monitorare le interazioni tra i propri pensieri, sentimenti, sintomi, comportamento e ambiente sociale,

–    il training cognitivo di adattamento alla malattia (tecniche di risoluzione dei problemi, tecniche di rilassamento, ristrutturazione cognitiva ecc),

–    le tecniche comportamentali di adattamento (definizione degli obiettivi, tecniche di prevenzione delle recidive, ecc.)  

–    le strategie per promuovere il supporto sociale.

Alcuni studi apportano l’efficacia del trattamento educazionale associato a strategie terapeutiche multimodali più complesse da parte di specialisti per il dolore, che lavorano in modo multidisciplinare su protocolli terapeutici per i pazienti affetti da fibromialgia. Alcuni di questi studi combinavano l’educazione del paziente e/o la terapia cognitivo comportamentale con l’esercizio; nella maggior parte di questi studi è stato evidenziato alla fine del trattamento, un miglioramento significativo in una o più delle variabili cliniche considerate (37).

Attraverso una meta-analisi (38) condotta su 49 pazienti affetti da fibromialgia è stata confrontata l’efficacia di terapie farmacologiche e di trattamenti non farmacologici (terapia cognitivo comportamentale e terapia fisica) nei confronti della condizione fisica, dei sintomi, della fibromialgia, dello stato psicologico e delle capacità funzionali. Gli antidepressivi hanno determinato miglioramenti significativi sia della condizione fisica che dei sintomi soggettivi della fibromialgia.

La terapia cognitivo comportamentale del dolore, invece, ha determinato miglioramenti significativi di tutti e quattro gli aspetti, raggiungendo un risultato migliore anche rispetto al trattamento farmacologico per quanto riguarda il miglioramento dei sintomi soggettivi e l’abilità nello svolgere le normali attività quotidiane. Questa meta-analisi porta alla ragionevole conclusione che il trattamento ottimale per la fibromialgia dovrebbe includere anche i metodi cognitivo-comportamentali.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Esperienze del dolore (2014) di D. Le Breton – Il significato della sofferenza e la sua utilità – Recensione

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

 

BIBLIOGRAFIA:

  1. Giesecke T, Williams DA, Harris RE, et al. (2003). Subgrouping of fibromyalgia patients on the basis of pressure- pain thresholds and psychological factors. Artritis Rheum, 48: 2916-22.
  2. Lessard JA, Russell IJ: Fibrositis/fybromialgia in private rheumatology practice; systematic analysis of a patient data base. 1989 (unpublished) Reported in: Fibrositis /fibromyalgia (Chapter 23), in The Clinical and Scientific Basis of Myalgia Encephalomyelitis/Chronic Fatigue. Syndrome. (1993). Editors: Hyde BM, Goldstein J, Levine P. The Nightingale Research Foundation, Ottawa, Canada.
  3. Russell IJ; Fibrositis/fybromialgia (Chapter 23), in The Clinical and Scientific Basis of Myalgia Encephalomyelitis/Chronic Fatigue. Syndrome. Editors: Hyde BM, Goldstein J, Levine P. The Nightingale Research Foundation, Ottawa, Canada, 1992.
  4. Sarzi-Puttini P, Cazzola M, Atzeni F, Stisi S. (2010). Fibromialgia, 11: 108-109.
  5. Moldofsky H, Scarisbrick P, England R, Smythe H. (1975). Musculosketal symptoms and non-REM sleep disturbance in patients with “fibrositis syndrome” and healthy subjects. Psychosom Med, 37: 341-51.
  6. Moldofsky H, Scarisbrick P, England R, Smythe H. Musculosketal symptoms and non-REM sleep disturbance in patients with “fibrositis syndrome” and healthy subjects. (1975). Psychosom Med,  37: 341-51.
  7. Yunus Mb, Inanici F, Aldag JC, Mangold RF. (2000). Fybromyalgia in men:comparison of clinical features with women. J Rheumatol, 27: 485-90.
  8. Simms RW, Goldenberg DL. (1988). Symptoms mimicking neurologic disorders in fibromyalgia syndrome. J Rheumatol; 15: 1271-3.
  9. Campbell SM, Clark S, Tindall EA, Forehand ME, Bennett RM. (1983). Clinical characteristics of fibrositis. I.A “blinded”, controlled study of symtoms and tender points. Arthritis Rheum; 26: 817-24.
  10. Jain KA, Carruthers M, Van De Sande MI, et al. (2003). Fibromyalgia Syndrome: Canadian clinical working Case Definition, diagnostic and treatment protocols – A consensus document. J Musculoske Pain, 4: 3-107.
  11. Grace GM, Nielson WR, Hopkins M, Berg MA. (1999). Concentration and memory deficits in patients with fibromyalgia syndrome. J Clin Exp Neuropsychol, 21: 477-87.
  12. Park DC, Glass JM, Minear M, Crofford LJ. (2011). Cognitive function in fibromyalgia patients. Arthritis Rheum, 44: 2125–213.
  13. Bangert AS, Glass JM, Welsh RC, Crofford LJ, Taylor SF, Park DC. (2003). Functional magnetic resonance imaging of working memory in fibromyalgia. Arthritis Rheum, 48: S90.
  14. Kuchinad A, Schweinhardt P, Seminowicz DA, Wood PB Chizh BA, Bushnell MC. (2007). Accelerated brain gray matter loss in fibromyalgia patients: premature aging of the brain? J Neurosci., 27(15):4004-7.
  15. Tizik C, Muezzinoglu T, Pirildar T, Taskn EO, Frat A, Tuzun C. (2005). Sexual dysfunction in female subject with fibromyalgia. J Urol, 174: 620-3.
  16. Prins MA, Woertman L, Kool MB, Geenen R. (2006). Sexual functioning of women with fibromyalgia. Clin Exp Rheumatol, 24: 551-61.
  17. Shaver JL, Wilbur J, Robinson FP, Wang E, Buntin MS. (2006). Women’s health issues with fibromyalgia syndrome. J Womens Health (Larchmt), 15: 1035-45.
  18. De Costa ED, Kneubil MC, Leao WC. The KB. (2004). Assessment of sexual satisfaction in fibromyalgia patients. Einstein, 2: 177-81. DOWNLOAD
  19. Arnold LD, Bachmann GA, Rosen R, Kelly S, Rhoads GG. (2006). Vulvodynia: characteristics and associations with comorbidities and quality of life. Obstet Gynecol,  107: 617-24.
  20. Gordon AS, Panahian-Jand M, McComb F, Melegari C, Sharp S. (2003). Characteristics of women with vulvar pain disorders: responses to a Web-based survey. J Sex Marital Ther, 29 (Suppl 1): 45-58.
  21. Bendtsen L, Norregaard J, Jensen R, Olesen J. (1997). Evidence of qualitatively altered nociception in patiens with fibromyalgia. Arthritis Rheum, 40: 98-102.
  22. Hudson JH, Arnold LM, Keck PE jr, et al. (2004). Family study of fibromyalgia and affective spectrum disorders. Biol Psychiatry, 56: 884-91.
  23. Van Houdenhove B, Neerinckx E, Lysens R et al. (2001). Victimization in chronic fatigue syndrome and fibromyalgia in tertiary care: a controlled study on prevalence and characteristics. Psychosomatics, 42: 21-8.
  24. Pellegrino MJ. Atypical chest pain as an initial presentation of primary fibromyalgia. Arch Phys Med Rehabil 1990; 71: 526-8
  25. Yunus Mb, Masi AT, Aldag JC. (1989). A controlled study of primary fibromyalgia syndrome: clinical features and associations with other functional syndromes. J Rheumatol Suppl., 19: 62-71.
  26. Campbell SM, Clark S, Tindall EA, Forehand ME, Bennett RM. (1983). Clinical characteristics of fibrositis. I.A “blinded”, controlled study of symtoms and tender points. Arthritis Rheum, 26: 817-24.
  27. Ciocci A, Buratti L, Di Franco M, Mauceri MT. (1999). L’epidemiologia delle malatie reumatiche: confronto fra i dati italiani e quelli stranieri. Reumatismo, 51 Suppl 2:201.
  28. Forseth KØ, Gran JT & Førre Ø. (1997). A population study of the incidence of fibromyalgia among women aged 26–55 years. British Journal of Rheumatology, 36: 1318–1323.
  29. White KP, Speechley M, Harth M & Østbye T. (1999). The London fibromyalgia epidemiology study: theprevalence of fibromyalgia syndrome in London, Ontario. Journal of Rheumatology, 26: 1570–1576.
  30. Pincus T, Callahan I & Burkhauser R. (1987). Most chronic diseases are reported more frequently by individuals with fewer than 12 years of formal education in the age 18–64 United States population. Journal of Chronic Diseases,40: 984–985.
  31. Oliver JE, Silman AJ. (2009). What Epidemiology Has Told Us about Risk Factors and Aetiopathogenesis in Rheumatic Disease. Arthritis Research & Therapy, 11 (3).
  32. Wilson H, Robinson J, Swanson K, Turk D.(2009). Emotionals factors in the onset and aggravation of Fibromyalgia symptoms: result of an internet survey. The Journ of Pain, 9 (4), Supplement 2:17.
  33. Berger A, Dukes E, Martin S, Edelsberg J, Oster G. (2007). Characteristics and healthcare costs of patients with fibromyalgia syndrome. Int J Clin Pract, ;61:1498-508.
  34. Raphael KG, Janal MN, Nayak S, Schwartz JE, Gallagher RM. (2006). Psychiatric comorbidities in a community sample of women with fibromyalgia. Pain, 124: 117 25.
  35. Ahles TA, Khan SA, Yunus MB, Spiegel DA, Masi AT. (1991). Psychiatric status of patients with primary fibromyalgia, patients with rheumatoid arthritis, and subjects without pain: a blind comparison of DSM-III diagnoses. Am J Psychiatry, 148: 1721-6.
  36. Pain. (2010), 151(2): 280-95. Epub
  37. Nielson WR, Walker C, McCain GA. (1992). Cognitive behavioural treatment of fibromyalgia syndrome: preliminary findings. J Rheumatol, 19: 98-103
  38. Rossy LA, Buckelew SP, Dorr N, et al. (1999). A meta-analysis of fibromyalgia treatment interventions. Ann Behav Med,  21: 180-91.

Le persone affette da disturbo mentale hanno maggiore probabilità di sottoporsi al test per l’HIV

FLASH NEWS

Secondo un nuovo studio condotto da un team di ricercatori della Penn Medicine, Centri statunitensi per il Controllo e la Prevenzione  della malattia, le persone affette da un disturbo mentale hanno maggiori probabilità di sottoporsi al test per
l’HIV rispetto a soggetti sani.

I ricercatori hanno scoperto che i pazienti con diagnosi di malattia mentale più grave (come schizofrenia e disturbi bipolari) hanno effettuato il più alto numero di test per l’HIV.

Lo studio ha valutato i dati del 2007 a livello nazionale di 21.785 adulti intervistati dal  National Health Interview Survey (NHIS).

I ricercatori hanno rilevato che il 15 percento degli intervistati ha riferito di presentare un disturbo psichiatrico. Di questi, l’89 % ha avuto sintomi di depressione e / o ansia, l’ 8,5 %  ha avuto un disturbo bipolare, e del 2,6 % era affetto da disturbi dello spettro della schizofrenia. Tra i soggetti che segnalavano almeno una malattia mentale, il 48,5 per cento era stato testato per l’HIV. Più in particolare, il 64 per cento delle persone con schizofrenia, il 63 per cento delle persone con disturbo bipolare, e il 47 percento delle persone con depressione e /o ansia non avevano mai segnalato di essere stati testati all’HIV.

L’autore della ricerca Michael B. Blank, sostiene che lo studio ha dimostrato che le persone con malattia mentale e / o gli operatori che ne forniscono assistenza, riconoscono che i soggetti affetti da disturbo mentale sono a più alto rischio di contrarre l’HIV e chiedono di essere testati, ma non ci sono progetti di prevenzione formale e programmi di screening da parte di operatori della salute mentale dedicati a questa parte di popolazione a rischio.

Inoltre, lo studio ha rilevato che le persone di età compresa tra 25-44, le donne, le minoranze razziali ed etniche, divorziati/separati, coloro che dichiarano un uso eccessivo di alcol o tabacco, e le persone che presentavano maggiori fattori di rischio HIV erano significativamente più propensi ad essere testati per verificare la presenza dell’ HIV rispetto ai loro omologhi.

I soggetti affetti da malattie psichiatriche hanno maggiori possibilità di adottare comportamenti ad alto rischio associati a trasmissione di HIV, come rapporti sessuali non protetti, assunzione di droga con siringa e sesso con partner multipli.

In linea con studi precedenti, dalla ricerca emerge che le persone con malattia mentale sono testati maggiormente per l’HIV  rispetto a coloro che non ne sono affetti, ma si evidenzia anche il ridotto numero di programmi di prevenzione per questa popolazione a rischio.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Relazioni familiari positive riducono il rischio di contrarre l’Hiv in giovani gay e bisessuali

BIBLIOGRAFIA:

 

Ruolo strategico degli psicologici: l’attenzione del Ministero della Salute e della Regione Lombardia al ruolo dello psicologo – Comunicato Stampa

Si è svolto a Roma il seminario organizzato dal CNOP  – Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi – dal titolo “Il contributo della psicologia alla Sanità che cambia” durante il quale il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, ha espresso il suo impegno nel promuovere la figura dello psicologo su tutto il territorio nazionale.

 

COMUNICATO STAMPA

“RUOLO STRATEGICO DEGLI PSICOLOGI”:

L’ATTENZIONE DEL MINISTERO DELLA SALUTE E DELLA REGIONE LOMBARDIA

Dichiarazione del presidente dell’Ordine Psicologi della Lombardia, Riccardo Bettiga

Milano, 19 dicembre 2014:

 [blockquote style=”1″]Creare un tavolo tecnico nel quale il Ministero della Salute possa fornire le linee guida e gli indirizzi strategici affinché il lavoro di programmazione previsto dal Patto della Salute venga implementato in maniera più uniforme e completa su tutto il territorio nazionale, consentendo così anche un adeguato ed efficace inserimento della figura dello psicologo, che assume un ruolo sempre più strategico di fronte all’incremento di malattie psicologiche determinate dalla crisi economica[/blockquote].

E’ l’impegno preso dal Sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, durante il seminario organizzato dal CNOP – Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi – dal titolo “Il contributo della psicologia alla Sanità che cambia”, che si è svolto ieri a Roma. 

Riccardo Bettiga, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, commentando questa dichiarazione ha espresso “soddisfazione per i risultati raggiunti dall’azione politica attuata dal CNOP, che riunisce tutti gli Ordini regionali”.

Inoltre, ricordando il recente incontro presso la sede dell’Ordine a Milano con il Governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni e il Presidente della terza Commissione Sanità e Politiche sociali della Regione, Fabio Rizzi, Bettiga ha anche detto che : “l’attenzione alla figura professionale dello psicologo e il coinvolgimento dell’Ordine in una fase importante come quella della stesura del Libro Bianco relativo alla nuova riforma della sanità lombarda, ha visto Regione Lombardia anticipare e confermare le fondamentali dichiarazioni rese dal Sottosegretario De Filippo. Come Ordine non possiamo che apprezzare l’interessamento del Governatore e del presidente Rizzi che hanno visto, da un lato nella figura dello psicologo un investimento per migliorare l’appropriatezza e l’integrazione delle attività socio-sanitarie, in una prospettiva di riduzione dei costi e miglioramento della qualità assistenziale e, dall’altro, nella natura ampia e trasversale della professione psicologica, soprattutto in ambito di riformulazione dei servizi territoriali, una grande opportunità per i cittadini e le istituzioni”.

 

ARGOMENTO CORRELATO:

Psicologia & Psichiatria Pubbliche 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia: la Regione cancella la Psicologia dalla Riforma della Sanità –  Comunicato Stampa 

Psicoterapia: Intervista a Cesare Maffei – I Grandi Clinici Italiani

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Cesare Maffei

Professore Ordinario di Psicologia Clinica
Primario del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia dell’Istituto Scientifico H San Raffaele

Prorettore alle Scienze Umane UNISR

 

State of Mind intervista Cesare Maffei,  Professore Ordinario di Psicologia Clinica e Primario del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia dell’Istituto Scientifico H San Raffaele.

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU:  PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

VEDI IL PROFILO DI CESARE MAFFEI

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal workshop di Reggio Calabria 

 

Oltre il potenziale d’azione: l’emergentismo in psicologia.

Davide Di Vitantonio

 

All’interno del dibattito scientifico, vengono definite emergenti tutte quelle proprietà di un sistema complesso (sia esso il cervello umano o una rete neurale artificiale) che presentano caratteristiche di irriducibilità (a proprietà di base), imprevedibilità (a livello epistemologico) e inspiegabilità (a livello concettuale).

Per usare le parole di Kim (1999, p. 3.)

Quando un sistema acquista gradi di complessità organizzativa sempre maggiori esso comincia a esibire nuove proprietà che in qualche senso trascendono le proprietà delle loro parti costituenti, e si comporta in modi che non possono essere predetti sulla base delle leggi che governano i sistemi più semplici.

L’emergentismo rappresenta la possibile terza via nell’esplicazione dei fenomeni, contrapponendosi sia al fisicalismo riduttivo sia al dualismo cartesiano; in quest’ottica, l’encefalo di un soggetto sarebbe in grado di generare stati mentali quali coscienza o intenzionalità, qualitativamente differenti da quelli che sarebbero prevedibili sulla base del funzionamento causale delle singole cellule componenti il substrato biologico. Sulla base di tali considerazioni, la prospettiva emergentista esplose negli anni ’80 allargandosi dalla filosofia ai campi della scienze cognitive, dell’informatica e della psicologia sociale.

Il dilemma dei qualia (proprietà qualitative imprevedibili e irriducibili della mente, di natura ipotetica), croce e delizia di pensatori del calibro di Daniel Dennet, Hilary Putnam o Frank Jackson, rappresenta un esempio lampante del fermento generato dall’ipotesi sulle proprietà irriducibili; due neuroni posti in isolamento mostrano la medesima attività, generata dalle medesime componenti biologiche, nonostante possano appartenere a due diverse cortecce sensoriali. Eppure le percezioni del canto o dell’acqua che scorre fra le mani sono qualitativamente differenti; tali percezioni qualitative, o qualia, sarebbero dunque proprietà emergenti del sistema cervello, così come l’intelligenza o il linguaggio.

Gli stessi comportamenti delle folle o l’andamento del traffico stradale, così come variabili fisiche quali lo spazio e il tempo, sono anch’essi considerabili come eventi emergenti, esibiti da sistemi estremamente complessi e inspiegabili sulla base delle leggi che ne governano i singoli componenti.

Tenendo in considerazione che l’interpretazione di Copenaghen ha già posto limiti importanti alla possibilità di predire il comportamento dei sistemi complessi (vengono accettate solo collezioni di probabilità) e che la presenza di un osservatore influisce inevitabilmente sulla misura del costrutto di interesse (Heisenberg), diventerà di importanza cruciale per la scienza psicologica tenere in considerazione gli effetti emergenti di sistemi di enorme complessità come la mente stessa (Psicologia Generale e Neuroscienze) e le dinamiche di gruppo (Psicologia Sociale e dello Sviluppo).

Tutto questo senza dimenticare il campo delle reti neurali (finora sembra non aver mostrato proprietà genuinamente emergenti) e dell’intelligenza artificiale.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

The Self Illusion: Siamo davvero solo un Ammasso di Atomi?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kim, J., 1993, Supervenience and Mind, Cambridge, Cambridge University Press.
  • Kim, J., 1996, Philosophy of Mind, Oxford, Westview.
  • Kim, J., 1988, Mind in a Physical World, Cambridge, MIT Press.
  • Kim, J., 1999, Making Sense of Emergence, Philosophical Studies, 95, 3-36,.
  • Crane, T., 2001b, The Significance of Emergence, in C. Gillett, B. Lower (a cura di), Physicalism and Its Discontents, Cambridge, Cambridge University Press, 207-224.
  • De Caro, M., e Macarthur, D., 2004, (a cura di) Naturalism in Question, Cambridge (MA), London, Harvard University Press; tr. it. La mente e la natura, Roma, Fazi, 2005.
  • Di Francesco, M., 2000, Causalità mentale, riduzionismo e fisicalismo non riduttivo, Sistemi Intelligenti, XII, 1, 2000, 77-93.

Le donne nelle scienze matematiche: nessuna discriminazione di genere!

FLASH NEWS

Non esisterebbe una differenza significativa tra le possibilità professionali e lavorative di uomini e donne nel mondo delle scienze matematiche.

Un studio pubblicato su Psychological Science ed effettuato da Ceci, Ginther, Kahn e Williams, ha recentemente suscitato grande scalpore e provocato numerose risposte. Questo, soprattutto, grazie ad un articolo pubblicato sul New York Times dalle co-autrici dello studio Stephane Ceci e Wendy Williams, dal titolo “Academic Science isn’t sexist”. Affermazione forte, questa che, in effetti proprio per la sua potenza,  ha stimolato l’interesse di molti e aperto le porte a svariate discussioni sul tema.

Il laborioso studio di Ceci e colleghe consisteva in 54 pagine di analisi di dati precedentemente raccolti ma anche di dati nuovi, ad ogni modo tutti riguardanti la distribuzione di uomini e donne nel mondo delle scienze matematiche: matematica, informatica, fisica, ingegneria…

La conclusione delle autrici sarebbe che, per le donne, le difficoltà ad ottenere un lavoro di tale tipo e fare carriera in questo contesto non sarebbero maggiori di quanto non lo siano per gli uomini. In altre parole, non esisterebbe una differenza significativa tra le possibilità professionali e lavorative di uomini e donne nel mondo delle scienze matematiche. E’ interessante tuttavia entrare nel merito di questi dati e cercare di capire in dettaglio le premesse che hanno portato a tale inaspettata conclusione.

I risultati dello studio suggeriscono innanzitutto che il tasso di persone che accedono a dottorati di ricerca in questo contesto è ugualmente distribuito tra uomini e donne. Le donne costituiscono però solo il 30% degli Assistenti Docenti, e la percentuale si abbassa ulteriormente se consideriamo quante siano le persone di sesso femminile che abbiano contratti come Docente di Ruolo. Le autrici attribuiscono la colpa di ciò alle “barriere passate” e Wendy Williams afferma che, al giorno d’oggi, “una volta che le donne accedono al mondo delle scienze matematiche, le loro possibilità di progresso in tale campo sono del tutto paragonabili a quelle degli uomini”.

Le studiose evidenziano anche che, secondo la loro esperienza nel campo delle scienze, alle persone di sesso femminile viene spesso offerto un lavoro o una promozione. Questo a sottolineare che esiste un’assoluta imparzialità nelle assunzioni di personale nel campo delle scienze matematiche, in contrasto con anni e anni di studi di psicologia, i quali dimostrano che candidati con preparazione identica vengono spesso trattati in modo diverso a causa del genere cui appartengono.

Ceci e collaboratrici cercano di darsi una ragione di questo gap tra la realtà e quanto rilevato negli studi di laboratorio, affermando che, in un laboratorio, non si è mai riscontrata una discriminazione di genere nel caso in cui un candidato fosse estremamente preparato; in altre parole, le studiose suggeriscono che solo quando il responsabile della selezione dei candidati aveva una quantità insufficiente di dati interessanti a disposizione, allora iniziava inconsciamente a fare illazioni sulla base di stereotipi. Il che  suona come una giustificazione, piuttosto che una spiegazione.

Il numero di pubblicazioni è un’altra misura che mette in luce le nette differenze esistenti tra maschi e femmine nel contesto delle scienze matematiche. Analizzando ulteriormente i dati dello studio, emerge che gli uomini sono molto più produttivi, definendosi su una media di tre o più pubblicazioni in due anni. Secondo Ceci e Williams, questo accadrebbe perché le donne investono molto più tempo nella cura dei figli, avendone in questo modo meno a disposizione per tutto ciò che riguarda il lavoro. Tuttavia, uno sguardo più approfondito ai dati ci consente di notare il fatto che le pubblicazioni delle donne con o senza figli sono comunque meno rispetto a quelle degli uomini.

Le autrici concludevano l’articolo precedentemente menzionato sostenendo che le possibilità professionali delle donne nel campo delle scienze matematiche sono simili a quelle dei loro colleghi uomini: certo, non uguali, ma molto meno differenti di quel che si sarebbe portati a credere. Esiste inoltre una sottorappresentazione del genere femminile in tale contesto che potrebbe essere legata, secondo le studiose, a fattori quali, ad esempio, gli interessi personali oppure il profilo cognitivo individuale. Insomma, tale sottorappresentazione sarebbe una coincidenza, che non coinvolge stereotipi di sorta ma piuttosto variabili soggettive.

Viene senz’altro da pensare che l’esperienza diretta delle autrici sia stata buona oltre ogni aspettativa, e che quanto vissuto da loro sia in contraddizione con quello che viene comunemente definito “sessismo accademico”. Questo giustificherebbe le conclusioni che hanno tratto dai dati e le modalità ottimistiche con cui li hanno interpretati e diffusi; ma tale concetto politicamente e culturalmente mediato di sessismo, non favorisce certo l’auspicato cambiamento che ci avvicini sempre più al tanto sospirato concetto di parità dei sessi. Perché offuscare i dati con l’ottimismo certo non aiuta.

E’ bello apprezzare il fatto che attualmente, nel campo delle scienze, le discriminazioni di genere sono meno diffuse rispetto al passato, e ancor meno rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare. Tuttavia l’articolo delle autrici non dice, per esempio, in che misura il mondo accademico moderno sia libero dal sessismo informale di tutti i giorni, e se le donne che scelgono di intraprendere questa carriera debbano affrontare tra gli altri anche questo ostacolo, e in che misura tutto ciò possa essere per loro stressante. Il mondo della scienza ha chiaramente fatto grandi passi in avanti verso l’uguaglianza di genere, ma è decisamente prematuro sostenere che il sessismo è cosa d’altri tempi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Abuso verbale sul posto di lavoro: esistono differenze di genere?

 

BIBLIOGRAFIA:

Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello di Emiliano Toso – Recensione

Libro finalista al Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica 2014.

Cinzia Gasperi

Il lettore può vedere le prove dei cambiamento del cervello quando la terapia va a buon fine ed allo stesso tempo entra nel vivo di una discussione scientifica che ancora non ha trovato una risposta definitiva ai molti quesiti che la discussione sull’esposizione ha dischiuso.

Emiliano Toso, nel testo Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello, si propone l’intento, splendidamente riuscito, di parlare contemporaneamente ad un pubblico di specialisti e di appassionati. Lo stile che caratterizza l’intero libro è scorrevole, immediato, ma allo stesso tempo accurato e preciso.

I cardini attorno cui si sviluppano il discorso sono la plasticità neuronale e l’esposizione, ossia quella tecnica che propone alle persone d’affrontare ciò che più temono coll’aiuto di un terapeuta. Questo spunto consente all’autore d’illustrare le ultime frontiere della psicoterapia e d’intrecciare strettamente cervello, mente e comportamento, a partire da una solida base scientifica, riccamente documentata da una rassegna di recenti ricerche.

Il ritratto che emerge è quello di un cervello come organo capace di cambiare se stesso grazie allo straordinario ruolo dell’esperienza e di una psicoterapia efficace in quanto “metodica esperienziale di apprendimento controllato per eccellenza”.

premio_nazionale_300Il primo capitolo descrive l’esposizione, illustrando le diverse strategie che appartengono a questa famiglia; nonché quali elementi impediscano la sua attuazione o favoriscano la riuscita dell’intervento.  Toso illustra, poi, sia efficacia dell’esposizione, sia  l’impossibilità di comprendere  i suoi sorprendenti effetti, poiché non sono ancora chiari i meccanismi che davvero cambiano la persona, i suoi comportamenti, la sua mente.

Il secondo capitolo descrive cosa d’intenda per plasticità neuronale, ossia la straordinaria abilità del nostro cervello di scolpirsi attraverso le esperienze di vita, che solo le recenti evoluzioni delle tecniche di neuroimmagine (argomento del quarto capitolo) hanno consentito di iniziare ad esplorare, aprendo un terreno di ricerca nuovo e fecondo per i curiosi della mente. Queste recenti acquisizioni hanno permesso, inoltre, di comprendere come sia possibile superare i limiti del genoma e come le persone possano adattarsi oltre l’immaginabile ad ambienti ed eventi di vita, grazie a meccanismi spiegati e trasmessi con immediatezza al lettore.

L’aspetto forse più affascinante che l’autore pone in luce, è proprio la possibilità che noi tutti abbiamo d’influenzare, attraverso esperienza, azioni, pensieri, emozioni il nostro cervello e la nostra mente  ed è proprio questo meccanismo che ci porta a ridefinire la psicoterapia (esperienza correttiva per eccellenza),  rendendola a pieno titolo una terapia anche biologica; essa stessa, (come ampliamente descritto nel capitolo quarto) risulta efficace, infatti, solo se insieme ai comportamenti e ai pensieri dalla persona, ne modifica anche quel chilo e mezzo scarso di carne della consistenza del tofu, che chiamiamo cervello (come illustrato del terzo capitolo).

La riprova di quanto scritto si trova nel capitolo quinto, che presenta una rassegna di ricerche sull’uso e l’efficacia dell’esposizione in diversi disturbi psicologici, quali DOC ed Ansia Sociale, solo per citarne alcuni.

Il lettore può vedere, così, le prove dei cambiamento del cervello quando la terapia va a buon fine ed allo stesso tempo entra nel vivo di una discussione scientifica che ancora non ha trovato una risposta definitiva ai molti quesiti che la discussione sull’esposizione ha dischiuso.

Tosi conclude con alcune considerazioni, che vanno a concretizzare il discorso portante dell’intero testo: è impossibile, visti gli intrecci tra esperienza, vita e carne, separare il psicologico dal biologico, rinchiudere la sofferenza e l’esperienza umana in una rigida linea causa-effetto.

Questa constatazione ci obbliga a ridefinire su base scientifica il dualismo anima-corpo di cartesiana memoria: la mente diventa in grado di modificare e modificarsi; dobbiamo ripensare la psicoterapia stessa, non più come una terapia alternativa agli aspetti biologici, ma come un processo incarnato, con tutte le responsabilità che ne derivano.

Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello: un testo di divulgazione, di psicoterapia, di riflessione ontologica.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Fondamenti di Terapia Cognitiva a cura di Carmela La Mela – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

  • Toso E. (2014). Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello. Libreria universitaria

Dalla parte del nemico: la sindrome di Stoccolma

Davide Di Vitantonio

La sindrome di Stoccolma non viene considerata un vero e proprio disturbo, bensì un insieme di attivazioni emotive e comportamentali peculiari nel funzionamento di alcuni soggetti sottoposti a eventi particolarmente traumatici, come un rapimento o una lunga serie di abusi fisici e mentali.

 

Stati Uniti, 18 Settembre 1975.
Dopo una caccia all’uomo durata 19 mesi l’FBI arresta la ricca ereditiera Patricia Hearst, assieme alla compagna Wendy Yoshimura. L’uomo che le stringe le manette ai polsi si trova di fronte a una donna che per più di un anno aveva partecipato ad attacchi dinamitardi e a violente rapine che avevano comportato l’uccisione di civili.
Tutto ciò con al fianco degli stessi personaggi che il 4 Febbraio del 1975 avevano fatto irruzione nella sua abitazione di Berkeley (California) e l’avevano trascinata nel bagagliaio di una macchina; un rapimento a fine di riscatto, attuato dall’Esercito di Liberazione Simbionese.  Al processo la difesa sostenne la tesi del “lavaggio del cervello”; la personalità della vittima era stata manipolata attraverso l’esposizione a condizioni disumane, l’umiliazione per la propria condizione di ricca privilegiata e un riferimento martellante agli ideali del gruppo.

Al di là delle considerazioni giuridiche, ciò che balza agli occhi è un quadro comportamentale noto da tempo: la Sindrome di Stoccolma, che prende il nome dalla città omonima presso la quale a seguito del rapimento di alcune persone, gli ostaggi manifestarono, dopo la liberazione, dei sentimenti positivi verso i criminali, sentendosi in debito per la gentilezza e la generosità dimostrate. Tale sindrome non viene considerata un vero e proprio disturbo, bensì un insieme di attivazioni emotive e comportamentali peculiari nel funzionamento di alcuni soggetti sottoposti a eventi particolarmente traumatici, come un rapimento o una lunga serie di abusi fisici e mentali. Le interviste cliniche hanno mostrato come il legame emotivo con l’aggressore rappresenti una vera e propria strategia di sopravvivenza messa in atto dalla vittima. Tale legame si sviluppa secondo le seguenti attivazioni emotive:
– Sentimenti positivi della vittima verso l’aggressore, generati dalla consapevolezza che dall’ altro dipenda la propria vita e dalla percezione di essere risparmiati.
– Sentimenti negativi verso la propria famiglia e le forze dell’ordine, percepite come minacciose nei confronti del legame instauratosi.
– Identificazione con il punto di vista dell’aggressore (generato in determinati casi dalla preponderanza dei riferimenti ideologici).
– Incapacità di mettere in atto comportamenti che potrebbero garantire la liberazione (gli operatori sul campo sanno bene che non è raro incontrare resistenze da parte degli ostaggi all’ atto della liberazione).

Chiaramente non vi è correlazione diretta fra l’atto di violenza e il manifestarsi della sindrome; in questo senso sono stati rilevati quattro fattori maggiormente predittivi nei confronti delle reazioni descritte:
1) I soggetti devono percepire un imminente minaccia all’integrità fisica e psicologica, e mantenere per un determinato periodo di tempo la credenza che l’aggressore potrebbe realizzarla in qualunque momento.
2) Alternanza di comportamenti minacciosi e piccole gentilezze o concessioni. Da sottolineare come i soggetti intervistati riportino spesso di aver percepito come forma di gentilezza la semplice mancanza di violenza fisica o psicologica; in questo senso, la differenza che intercorre fra le peggiori fantasie delle vittime e la realtà oggettiva, prepara il terreno per lo sviluppo di sentimenti positivi verso l’aggressore.
3) Incapacità di isolarsi dal punto di vista dell’aggressore esplorando altre possibilità. La dipendenza che si sviluppa fra vittima e carnefice, originatasi dall’istinto di sopravvivenza (la vita della vittima è nelle mani dell’altro), impedisce che ci si concentri sul punto di vista dei soggetti estranei alla situazione presente (famigliari e forze dell’ordine).
4) Forte vissuto di impotenza relativo a possibilità di fuga. Se liberarsi autonomamente non è possibile, le risorse cognitive si focalizzano sull’evitare che nel qui e ora si verifichino eventi temuti; le vittime tendono dunque a mantenere un atteggiamento docile e remissivo al quale seguono feed-back positivi da parte dell’altro rinforzando così il circolo; risulta necessario sottolineare come gli effetti della Sindrome coinvolgano anche gli aggressori, che finiscono per sviluppare sentimenti positivi verso le vittime.

La Sindrome di Stoccolma non è codificata in nessun manuale diagnostico, in quanto come evidenziato in precedenza, non viene considerata un disturbo a tutti gli effetti. Eppure, in un’ottica di psicologia clinica sarebbe interessante tentare di approfondirne le cause, indagando gli stili di attaccamento e i profili comportamentali dei soggetti che hanno vissuto lo stato di identificazione vittima-carnefice, così da permettere agli operatori della salute mentale di guardare con occhi diversi situazioni analoghe identificate dagli studi: membri di sette, personale carcerario, donne maltrattate e, naturalmente, gli ostaggi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Trauma psicologico: la terapia migliore è quella somatica

 

BIBLIOGRAFIA:

Le crisi di fine decade: quali sono i periodi critici della vita?

Caterina Laria

Avvicinandosi alla cifra tonda le persone sono spinte all’autoriflessione più che in altri compleanni, sentendosi al varco di una soglia che li condurrà in una nuova fase della loro vita.

Le teorie del ciclo di vita ci insegnano che ci sono delle età particolarmente critiche in particolari fasi di transizione come ad esempio l’adolescenza o la cosiddetta terza età.

Una recente ricerca condotta negli Stati Uniti evidenzia la possibilità che possano verificarsi periodi critici anche in altre fasi della vita: si tratterebbe del passaggio da una decade all’altra. In particolare, queste crisi si collocherebbero ai 29,39,49 e 59 anni dell’individuo.

L’ipotesi di Alter ed Hersfield è che avvicinandosi alla cifra tonda le persone siano spinte all’autoriflessione più che in altri compleanni, sentendosi al varco di una soglia che li condurrà in una nuova fase della loro vita. Questo indurrebbe anche alla ricerca di nuove modalità comportamentali e di nuovi significati per la propria esistenza.

Questa ricerca, pubblicata su PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, è frutto di sei studi  somministrati a adulti tra i 25 e i 64 anni che hanno preso in considerazione tre macro-aree:

– la ricerca di relazioni extraconiugali;

– il tasso di suicidi;

– l’iniziare a praticare esercizio fisico.

I primi due studi hanno riguardato la somministrazione del World Values Survey, un questionario riguardante i valori morali, a oltre 42000 persone di oltre 100 paesi tra il 2010 e il 2014. In particolare, l’indagine era volta a verificare quanto spesso gli intervistati mettessero in discussione il senso e lo scopo delle loro vite. Coloro che si stavano avvicinando a nuova decade (detti “nine-ender”) sono risultati più propensi a questo tipo di riflessione.

Il terzo studio ha analizzato la relazione tra età e comportamenti negativi, come il tradimento del partner. Il parametro di riferimento è stato la registrazione a un famoso sito di incontri extraconiugali, osservando che il numero di nine-ender era del 20% superiore alla media, con una tendenza al maschile.

La quarta indagine si è focalizzata sui comportamenti suicidari, raccogliendo i dati già catalogati dai centri per il controllo dei suicidi e la prevenzione delle malattie mentali. Qui i nine-ender sono risultati avere un tasso suicidario del 2,4% superiore alla media, collocandosi nella fascia di popolazione più a rischio, a parità di decade. Questo significa, ad esempio, che un ventinovenne era più a rischio rispetto dei ventottenni e ventisettenni.

Le ultime due indagini, infine, hanno approfondito la ricerca di comportamenti positivi come iniziare a praticare regolarmente esercizio fisico. Attingendo al database di un sito dove i podisti caricano i loro tempi nelle gare e i loro progressi negli allenamenti, i ricercatori hanno riscontrato che gli utenti di 29 e 39 anni avevano registrato tempi più competitivi che nei due anni precedenti e successivi. Inoltre, i nine-ender che correvano per la prima volta una maratona avevano una percentuale di successo più altra del 45%, suggerendo una maggior spinta motivazionale in vista della nuova decade.

Nell’insieme, la ricerca indica che l’avvicinarsi una nuova decade della propria vita potrebbe fornire la spinta per rivalutare priorità e comportamenti. Gli autori aggiungono come ciò potrebbe dare una spiegazione anche a spese particolarmente costose, come auto sportive, interventi estetici e grossi investimenti.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Condividere con gli altri momenti epici della propria vita può avere dei costi sociali

 

BIBLIOGRAFIA:

Gas esilarante per il trattamento della depressione? – Psichiatria

FLASH NEWS

Presso la Washington University School of Medicine di St. Louis, è stata condotta la prima ricerca in cui pazienti affetti da gravi forme di depressione sono stati sottoposti ad un trattamento nel corso del quale veniva somministrato loro monossido di diazoto, o gas esilarante.

A tale studio hanno preso parte 20 pazienti, che sono risultati essere resistenti al trattamento clinico per la depressione. A ciascuno di essi è stato somministrato, in due differenti sessioni, una miscela di gas costituita per metà da ossigeno e per metà da monossido di diazoto (lo stesso prodotto utilizzato dai dentisti) ed un placebo, costituito da una miscela composta per metà da ossigeno e per metà da azoto (i due gas che si trovano in quantità maggiori nell’aria che respiriamo). Trattandosi di uno studio a doppio cieco, né i soggetti né lo sperimentatore erano a conoscenza dell’ordine con cui i due trattamenti venivano somministrati.

Dopo due ore dalla conclusione di ciascun trattamento ed il giorno successivo allo stesso, veniva valutata la gravità dei sintomi depressivi riferiti dai pazienti. In modo particolare venivano indagati aspetti quali la tristezza, i sentimenti di colpa, i pensieri suicidari, l’ansia e l’insonnia.

I risultati ottenuti dalle valutazioni dei sintomi depressivi il giorno seguente la somministrazione del trattamento con il gas esilarante hanno messo in evidenza come 3 pazienti riferivano una scomparsa quasi completa dei propri sintomi, 7 pazienti riportavano un miglioramento significativo mentre altri 7 riportavano uno scarso miglioramento. Dalle valutazioni ottenute il giorno successivo alla somministrazione del placebo è emerso, invece, che solo 2 pazienti riportavano di sentirsi significativamente meglio in seguito al trattamento, 5 riferivano uno scarso miglioramento dei propri sintomi e 1 paziente riportava un loro peggioramento.

Secondo i ricercatori del dipartimento di anestesiologia e di psichiatria della Washington University School of Medicine e del Taylor Family Istitute for Innovative Psychiatric Research, nonostante gli effetti del trattamento a base di gas esilarante siano stati valutati il giorno stesso e a distanza di sole ventiquattro ore dalla sua somministrazione, il miglioramento dei sintomi riscontrato in due terzi dei pazienti sembra essere incoraggiante circa il successo di questa nuova forma di trattamento. Inoltre, sebbene alcuni pazienti riportino di sentirsi meglio anche dopo aver respirato il placebo, secondo Charles Conway, professore associato di psichiatria e coautore della ricerca, il pattern osservato mostra una maggiore efficacia dell’ossido di diazoto sui sintomi depressivi rispetto al placebo.

Il gas esilarante potrebbe, quindi, costituire un valido strumento nel trattamento dei pazienti che non rispondono alla terapia tradizionale, e che costituiscono circa un terzo dei soggetti affetti da depressione. L’utilizzo di tale gas presenta limitati effetti collaterali, nella maggior parte dei casi nausea e vomito, e viene rapidamente eliminato dal corpo. Sostiene Charles Zorumski

È la rapidità con cui l’ossido di diazoto entra in azione che potrebbe essere particolarmente utile nel trattamento di pazienti con una depressione grave, che possono essere a rischio di suicidio e che necessitano di un rapido aiuto questo tipo di trattamento potrebbe permettere, inoltre, di ridurre i sintomi temporaneamente fino a che i trattamenti tradizionali comincino a fare effetto.

Molti studi sono ancora necessari per capire se l’ossido di diazoto porta gli stessi benefici anche in altri pazienti affetti da depressione. Per questo motivo i ricercatori stanno cercando di verificare se possa esserci una differenza nell’efficacia del gas sui sintomi depressivi a seconda della sua concentrazione.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Chiudi la porta a depressione e stress! L’effetto benefico delle passeggiate all’aperto

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Multitasking: le conseguenze su stress, memoria e invecchiamento cognitivo

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Adesso gli scienziati lanciano l’allarme sulle conseguenze del multitasking trilla un recente articolo su la Repubblica. Dopo un lungo, colorito esordio arriviamo a un primo fatto: Sandra Bond Chapman, fondatrice del Center for brain health dell’università di Dallas, afferma che il multitasking accresce i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. E spiega che il nostro cervello sa far bene una cosa alla volta: i neuroni, se devono sorvegliare molte attività contemporaneamente, non riescono a spartirsi i compiti e li tengono tutti sotto controllo millisecondo per millisecondo, commutando il proprio impegno dall’uno all’altro. Risultato: un superlavoro che produce risultati modesti e imprecisi…

Una cosa alla volta è meglio – Annamaria TestaConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Adesso gli scienziati lanciano l’allarme sulle conseguenze del multitasking trilla un recente articolo su la Repubblica. Dopo un lungo, colorito esordio arriviamo a un primo fatto: Sandra Bond Chapman, fondatrice del Center for brain health dell’università di Dallas, afferma che il multitasking accresce i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress… (…)

Tratto da: Internazionale

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Articoli sul Multitasking
I pericoli del multitasking e la virtù della solitudine
Il multitasking impatta negativamente sulle nostre vite, ritagliarsi del tempo da soli aiuta a fermarsi e rifocalizzare gli obiettivi
Multitasking: gestirlo grazie alla Mindfulness e all'attenzione al presente
La mindfulness come antidoto al multitasking
Per sviluppare un atteggiamento mindful, utile a gestire i rischi del multitasking, occorre sospendere il giudizio e indossare la mente del principiante
Teoria della razionalità limitata: tra multitasking e accettazione dei limiti
Chi non conosce il proprio limite tema il destino e l’assenza del bonus mensile: il bisogno del concetto di Razionalità Limitata
Teoria della razionalità limitata: nel mondo lavorativo odierno la necessità del multitasking supera di molto il vantaggio di riconoscere i propri limiti
Tecnologia: implicazioni e costi sull'apprendimento delle nuove generazioni
La tecnologia nelle nuove generazioni
La tecnologia ha modificato drasticamente il modo di conoscere e apprendere, ma quali costi comporta per le nuove generazioni questa trasformazione?
Multitasking: un'abitudine utile o di cui sarebbe meglio preoccuparsi?
Multitasking: un’abitudine sempre più diffusa. Dovremmo preoccuparci?
Il multitasking è un fenomeno complesso, che richiede un alto livello di attenzione per poter svolgere due attività contemporaneamente. La letteratura scientifica si divide tra chi ritiene che il multitasking abbia una serie di effetti negativi, anche a livello cerebrale, e chi invece ne rivendica vantaggi e benefici.
Multitasking e media multitasking: gli effetti su attenzione e apprendimento
Multitasking e media multitasking: gli effetti su lavoro e apprendimento
Multitasking e media multitasking: il criterio per stabilire se siamo più o meno efficaci potrebbe dipendere dal tipo di compito che eseguiamo in parallelo. Intanto, alcuni ricercatori hanno studiato gli effetti sull'apprendimento dell'uso del media multitasking a scuola
Immagine: Fotolia_58357039_multitasking fare due cose contemporaneamente ed entrambe bene
Multitasking: chi ha detto che non si possono fare due cose contemporaneamente ed entrambe bene?
Lo studio ha dimostrato che, combinando attività cognitive semplici e un' attività motoria, si massimizzano gli effetti di entrambe - Psicologia
Multitasking: quali sono le conseguenze sul cervello?
Secondo la ricerca, il multitasking provoca delle modificazioni nella materia grigia, in particolare nella corteccia cingolata anteriore (ACC)
BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Multitasking: le conseguenze su stress, memoria e invecchiamento cognitivo
Adesso gli scienziati lanciano l’allarme sulle conseguenze del multitasking trilla un recente articolo su la Repubblica...
State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicoogiche - Flash News
Come la tecnologia sta cambiando il nostro cervello
La tecnologia ha modificato la fisiologia umana grazie alla neuroplasticità cerebrale, cioè la capacità del cervello di modificare il proprio comportamento.
State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicoogiche - Flash News
I vantaggi del multitasking: aumenta la prestazione nei compiti
Contrariamente alle credenze popolari gli adolescenti che usano in contemporanea diversi dispositivi multimediali potrebbero trarne dei benefici
Mindfulness in azienda-verso la progettazione di interventi efficaci - Immagine: Fotolia_46920884
Mindfulness in azienda: verso la progettazione di interventi efficaci
Data l'attenzione della psicologia del lavoro verso la mindfulness, nell'articolo sono esposti i punti chiave per la progettazione di interventi in azienda.
“To do” or “do not” list? Il bisogno di organizzazione e l’arte delle liste - Immagine: © Arman Zhenikeyev - Fotolia.com
“To do” or “do not” list? L’arte delle liste e il bisogno di organizzazione
Liste: utili strategie psicologiche che ci aiutano a focalizzare un obiettivo, costringendoci a pensare ai passi necessari per conseguirlo.
-Rassegna Stampa - State of Mind: Il Giornale delle Scienze Psicologiche - anteprima
Multitasking: uomini e donne a confronto.
Il multitasking è ormai una realtà diffusa tra lavoratori di tutte le età e di entrambi i sessi; la American Sociological Review ha pubblicato i risultati di un ampio studio che ha trovato importanti differenze nella percezione, e nella tolleranza, che madri e padri hanno allo svolgimento di più lavori contemporameamente.

Psicologia della disobbedienza: Siamo uomini e caporali (2014) – Recensione

Elena Ponzio

In questa prospettiva dis-obbedire è un segno di maturità e umanità che colloca l’individuo in un collettivo umano di persone capaci di sentire e di com-patire al di là dell’esecuzione rigida di compiti e norme o del loro abuso.

Quanto siamo influenzati dal contesto in cui ci troviamo ad operare e quanto siamo disposti ad aderire al nostro ruolo rinunciando a certi aspetti di noi che ci rendono diversi gli uni dagli altri e che fanno sì che ogni nostra decisione e reazione sgorghino  da una valutazione serena e approfondita dei fatti? Quanto insomma siamo Uomini (con la U maiuscola) o caporali?

Un dialogo ricco di verve e di riferimenti attuali tra Totò e temi di psicologia sociale. La “disobbedienza pro-sociale” e  l’”obbedienza responsabile” vengono presentati come valori necessari alla costruzione di una società democratica e di una autonomia personale: prospettiva quanto mai attuale e stimolante ricca di rimandi agli eventi sociali e politici, oltre a quelli personali è più intimi di ciascuno di noi.

In questa prospettiva dis-obbedire è un segno di maturità e umanità che colloca l’individuo in un collettivo umano di persone capaci di sentire e di com-patire al di là dell’esecuzione rigida di compiti e norme o del loro abuso.

E Totò su questo tema aveva riflettuto molto a partire dalla propria esperienza al servizio militare in cui i temi dell’adesione acritica a ruoli autoritari, della prossimità tra individui e della possibilità di una dis-obbedienza costruttiva (che l’autore chiama pro sociale) rappresentarono un ambito di grande impatto per Totò uomo, e di grande ispirazione per Totò attore. Leitmotiv di tutta la filmografia di Totò è il grande interrogativo sulla natura dell’uomo e del caporale: l’uno  o l’altro oppure l’uno e l’altro?

In un excursus esilarante attraverso le sue opere Totò riflette sul tema dell’etica della disobbedienza per raggiungere gradualmente posizioni via via più pessimistiche sulla natura dell’uomo incapace di fatto di liberarsi dal giogo dell’assimilazione alle leggi del potere e del suo esercizio.

Nel libro si dipanano percorsi paralleli tra gli esperimenti di psicologia sociale di Zimbardo e Milgram e i film di Totò, esplorando i concetti di adesione al ruolo, prossimità tra gli individui e obbedienza e disobbedienza all’autorità.

Gli esperimenti di Milgram e Zimbardo mostrano come sia rilevante l’influenza dei fattori ambientali nel determinare certe condotte piuttosto che le caratteristiche personali, tanto che un ex allievo di Zimbardo arriva a proporre la teoria del “cattivo cesto” invece di quella delle “mele marce”. Grave errore sarebbe ritenersi al sicuro, certi delle proprie reazioni in base alle proprie personali caratteristiche e completamente al di fuori del contesto, come se idealmente operassimo in un ambiente rarefatto dove non vi fosse interrelazione tra individui.

Riprendendo le parole dell’autore: “esiste quindi un antidoto all’inerzia sociale, un vaccino contro i pericoli dell’obbedienza cieca, una vitamina per rinforzare la solidarietà degli individui?”

Cianciabella conclude con una nota costruttiva e di speranza, una prospettiva decisamente più ottimista di quella con cui si avvia a fine carriera Totò, indicando una possibile strada nella formazione e nell’educazione capace di avvertire del pericolo, insegnare a riconoscerlo e conseguentemente a proteggersene. “Attraverso la formazione,dice, è possibile rendere le persone consapevoli delle dinamiche psicologiche che stanno alla base delle interazioni umane, delle forme di influenza sociale come l’obbedienza all’autorità e il conformismo.”

E a questo punto si capisce come dagli esperimenti nelle facoltà di psicologia come quelli di Milgram e Zimbardo si giunga finalmente al qui ed ora di ciascuno di noi alle prese con fatti di cronaca ed eventi di vita che spaziano dalle atrocità del carcere di Abu Grahib al bullismo scolastico. Nessuno può essere davvero certo di non avere un po’ del caporale dentro di sè ma possiamo lavorare affinché consapevolezza, solidarietà e responsabilità condivisa ci aiutino a diventare persone migliori.

Un libro avvincente ed interessantissimo per tutti, imperdibile per insegnanti, formatori e autorità.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Psicologia sociale – alla (non) ricerca della felicità

BIBLIOGRAFIA:

  • Cianciabella, S. (2014). Siamo uomini e caporali. Psicologia della disobbedienza. Franco Angeli Editore. ACQUISTA ONLINE

Mal di montagna: il comportamento nello stato di ipossia

Davide Di Vitantonio

Il mondo per come è conosciuto, è costituito da una massa di agenti chimici, biologici e fisici i quali, interagendo con la struttura degli esseri viventi, generano un output di risposte interne, alcune di queste tradotte dalla coscienza sensibile in comportamenti osservabili.

Uno degli agenti che permette alla singola cellula animale di esistere, è rappresentato da un gas: l’Ossigeno. L’intero funzionamento di Homo Sapiens dipende da questo. 

La presenza di un livello ottimale di ossigeno garantisce il normale funzionamento della macchina umana, il mantenimento dell’omeostasi e un adeguato adattamento all’ambiente esterno: quando l’apporto di ossigeno ai tessuti tende a diminuire (ipossia) o ad aumentare drasticamente (iperossia), la gamma di effetti comportamentali osservabili è sorprendente.

Ross A. McFarland (1932,1937,1972) osservò che processi complessi, quali l’elaborazione mentale aritmetica e la capacità di giudizio venivano compromessi durante l’ascesa ad alte quote, ma più in generale lo stato ipossico può manifestarsi con diverse forme di afasia, cecità, ed emiparesi.

Ancora più interessante storicamente, è il caso di un’anormalità di segnale nel globo pallido di un paziente coreano di 49 anni, riscontrata dopo un’ascesa a 4700 metri, associata a cambiamenti di personalità osservati in quel paziente in seguito all’ascesa. 

Al di là delle affascinanti implicazioni di natura più squisitamente filosofica che tali casi comporterebbero (cambiamenti di personalità dovuti a fattori appartenenti all’universo fisico), lo studio dell’ipossia e dello stadio ipossico induce necessariamente a considerare tutti quei casi in cui tale condizione si manifesta senza che l’individuo ascenda a quote particolari, principalmente il processo di invecchiamento e la Sindrome da apnee ostruttive nel sonno (OSAS).

L’invecchiamento porta a un’ipossia naturale (come se con l’età si salisse lentamente verso la cima di una montagna), mentre l’OSAS, dovuta a occlusione intermittente delle vie aeree superiori, provoca un calo significativo della performance diurna del soggetto affetto, includendo l’attività professionale, la sfera emotiva e relazionale, la pianificazione e il raggiungimento di obiettivi.

In un’ottica di psicologia sperimentale, si sente il bisogno di una cornice teorica che affianchi ai paradigmi tradizionali della scienza in questione una conoscenza più vasta, arricchita dall’intreccio di discipline come la fisica e la fisiologia, al fine di affrontare i sempre nuovi scenari che le spedizioni scientifiche e la tecnologia aerospaziale metteranno di fronte alla macchina umana.

 

LEGGI ANCHE:

Open School – Studi Cognitivi Modena

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La qualità del sonno e le cure genitoriali ricevute influenzano le funzioni esecutive nel bambino

FLASH NEWS

Gli autori hanno rilevato che i bambini che hanno ricevuto cure genitoriali  di qualità superiore e che hanno dimostrato un attaccamento più sicuro verso le loro madri hanno raggiunto risultati migliori su alcuni tipi di funzioni esecutive come la memoria di lavoro.

Comprendere lo sviluppo del benessere dei bambini richiede una conoscenza integrata delle relazioni sociali, biologiche e cognitive. Questo è quanto sostengono Annie Bernier i suoi colleghi dell’Università di Montreal riassumendo le ultime scoperte circa la relazione esistente tra la qualità del sonno dei bambini, i rapporti con i loro caregiver e le  funzioni esecutive, un insieme di processi cognitivi di ordine superiore che servono soprattutto all’auto-organizzazione del comportamento e dell’emozione.

La prima infanzia, grazie alla rapida crescita del cervello, rappresenta un periodo particolarmente formativo  nel corso dello sviluppo umano. Infatti, le interazioni con i genitori occupano gran parte della vita di un bambino. Per questo, Bernier e colleghi si sono occupati di studiare il modo in cui le relazioni, tra i bambini piccoli con i propri genitori, possano essere associate a un buono sviluppo esecutivo.

In una serie di studi, gli autori hanno rilevato che i bambini che hanno ricevuto cure genitoriali  di qualità superiore e che hanno dimostrato un attaccamento più sicuro verso le loro madri hanno raggiunto risultati migliori su alcuni tipi di funzioni esecutive come la memoria di lavoro. Inoltre, i bambini che vivevano in famiglie con basso reddito o che presentavano temperamenti difficili hanno mostrato un migliore controllo degli impulsi se avevano ricevuto cure genitoriali di qualità superiore.

Inoltre, le cure genitoriali e la qualità del sonno dei bambini rappresentano un fattore importante per la salute fisica e psicologica, e sembrano anche essere correlati.

Uno studio longitudinale suggerì che la salute mentale delle madri e dei padri e la qualità delle cure parentali erano associati a una qualità del sonno migliore in giovani bambini. In altre ricerche, ancora, è emerso che i bambini che a un anno di età presentano una qualità del sonno migliore mostravano funzioni esecutive migliori durante il corso dello sviluppo.

Quindi, dormire a sufficienza aiuta i bambini ad essere più responsivi verso cure parentali positive, che a loro volta sostengono lo sviluppo sano.

Questi  risultati provengono da studi correlazionali che non hanno permesso di determinare definitivamente nessi causali. Per questo, Bernier e colleghi suggeriscono di condurre nuove ricerche per misurare gli effetti diretti della genitorialità sul funzionamento cognitivo dei bambini attraverso un approccio multidisciplinare.

In sintesi, gli autori  della ricerca, combinando i disegni longitudinali, le diverse misure di osservazione tipiche della psicologia dello sviluppo con tecniche di genotipizzazione e di imaging cerebrale, insieme a interventi genitoriali, auspicano di poter spiegare la complessità delle relazioni, la biologia, e cognizione alla base dello sviluppo del bambino.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il “segreto” di Andrea Pirlo: calcio & funzioni esecutive

 

BIBLIOGRAFIA:

Antonio Semerari su Il Delirio di Ivan (2014) – Psicologia & Letteratura

Lo psichiatra e psicoterapeuta Antonio Semerari ha pubblicato nel 2014 il suo saggio: Il Delirio di Ivan.  Il 5 dicembre, in occasione della presentazione del libro a Reggio Calabria, è stato girato questo breve servizio televisivo che vi segnaliamo:

 

Proviamo ad immaginare, in un gioco di finzione, uno dei maggiori romanzieri di tutti i tempi che accompagna dallo psicoterapeuta tre dei suoi figli di penna. Quello che ci verrà consegnato alla fine di questo incontro sarà un libricino candido e minuto, firmato da uno dei maggiori psicoterapeuti italiani, Antonio Semerari, che racchiude un’analisi accurata e illuminante della psicologia (o meglio, della psicopatologia) dei tre pazienti dostoevskijani che si sono succeduti sulla sua poltrona: Dmitrij, Aleksej e Ivan, più famosi e noti come i fratelli Karamazòv.

Il delirio di Ivan è un invito a nozze per gli psicologi che amano la letteratura e uno stimolo intellettuale per i profani che hanno però da sempre amato il talento di Fëdor Dostoevskij nel dare vita a personaggi perfetti e coerenti dal punto di vista psichico, a tal punto da sembrare reali… LEGGI LA RECENSIONE COMPLETA DEL LIBRO

 

ARGOMENTI CORRELATI:

LETTERATURADISTURBI DI PERSONALITA’

 

I fantasmi nella stanza dei bambini: un’eredità transgenerazionale

 

Nei primi mesi di vita e anche nei primi anni, la relazione madre-bambino è il fattore psicologico più facilmente soggetto a un intervento terapeutico e profilattico e quindi merita di essere studiato assiduamente e con una speciale attenzione (Spitz, 1973). 

Nel momento successivo alla nascita il nuovo nato compie il primo tentativo di adattamento ad un ambiente differente e meno protetto sostenuto dalla funzione di caretaker che è parte del patrimonio di tutte le specie. La sua innata predisposizione a stabilire una relazione con chi si occupa di lui è indipendente dal fatto che questo gli fornisca cibo e nutrimento. In questo periodo è il sostegno dato all’Io dall’assistenza materna che permette al piccolo di vivere e di svilupparsi, malgrado egli non sia ancora capace di sentirsi responsabile di ciò che è buono e cattivo nell’ambiente e di controllarlo (Winnicot, 1970) .

Le ricerche condotte in campo psicoanalitico sull’importanza delle relazioni familiari per lo sviluppo dell’individuo hanno indicato la consultazione terapeutica, una prospettiva di salute per l’intero nucleo familiare, favorendo l’abbandono di una consultazione esclusiva sulla prima infanzia. Le finalità principali di un tale impegno erano quelle di promuovere il miglioramento delle competenze genitoriali e le potenzialità di sviluppo del bambino.

Il lavoro pioneristico compiuto della psicoanalista Selma Fraiberg, in questo ambito di studi, costituisce il frutto di anni di esperienza clinica con le famiglie nel portare alla luce remote angosce e la loro influenza sulle relazioni familiari.

I fantasmi di cui l’autrice parla, intrusi del passato che hanno preso la residenza nella stanza dei bambini, costituiscono l’eredità psicologica di una tragedia familiare destinata a ripetersi per generazioni, la cui individuazione, ha aperto la via alla comprensione della ripetizione del passato nel presente. Un’indagine che con accoglienza, attenzione e silenzio concede l’emergere di orrori rimossi che legano genitori, figli e nipoti in una perversa spirale di sofferenza. Un passato di segreti di famiglia, promiscuità, crimine, abbandono, abusi infantili, trascuratezza, disordine e anche psicosi accomunano due donne la sig.ra March e Annie e le relazioni problematiche con il loro figli, Maria e Greg.

Il comportamento dei bambini, giunti molto piccoli in osservazione, a soli rispettivamente cinque e tre mesi era permeato per lo più da una difesa molto forte nei confronti del caregiver, l’evitamento. Pochi o nessuno sguardo, sorrisi o vocalizzi, né tentativi di girare la testa verso la mamma o di cercarla in momenti di angoscia o disagio. Quasi una profonda compromissione del canale uditivo e visivo peggiorato nel caso di Greg anche da denutrizione.

In assenza di modelli di trattamento a disposizione, l’impresa compiuta dalla Fraiberg e dai suoi collaboratori è stata quella di sviluppare un programma per la salute mentale infantile introducendo via via metodi nel corso dell’attività clinica. L’utilizzo del transfert, la ripetizione del passato nel presente e l’interpretazione erano al centro della psicoterapia psicoanalitica utilizzata, accompagnata da osservazioni dello sviluppo del bambino e della responsività del comportamento materno.

La risposta al quesito clinico che coinvolge le madri in una abnorme difficoltà di ascolto delle grida strazianti degli infanti proviene dalla storia degli stessi dei genitori, affollata di fantasmi.

L’individuo singolarmente preso non utilizza tutti i possibili meccanismi di difesa, ma si limita a selezionarne alcuni, questi però si fissano nel suo Io, diventano modalità abituali di reazione del suo carattere che si ripetono nel corso dell’intera esistenza ogniqualvolta, si presenta una situazione analoga a quella originaria (Freud, 1937).

La signora March era stata a sua volta una bambina abbandonata da una madre che aveva sofferto di psicosi post-partum, cresciuta prima da una zia ed in seguito dalla nonna in una situazione di povertà e promiscuità. Si tratta di una madre le cui grida non sono state sentite, il cui dolore insopportabile è stato tagliato fuori, lasciando spazio ad uno sguardo vuoto e senza speranza, proprio quello che traspariva dagli occhi dalla piccola Marie. La rivelazione dei vecchi sentimenti di bambina era sopraggiunta grazie al lavoro terapeutico, così come il sollievo di poter piangere e sentire il conforto e la comprensione del suo terapeuta. L’ascolto delle grida della madre aveva permesso l’ascolto di quelle del suo bambino innescando una serie di cambiamenti positivi nella relazione diadica con scambi di tenerezze e attenzioni.

Il passato di sofferenze di Annie, una mamma adolescente che alterna accessi di rabbia a umore estremamente depresso aveva ugualmente compromesso la capacità di prendersi cura del suo bambino Greg. Annie era stata abbandonata dalla madre e picchiata per banali disobbedienze dal suo patrigno alcolizzato. Un’intensa paura che impulsi sadici e distruttivi potessero condurla a picchiare e uccidere il suo bambino, proprio come faceva il suo patrigno con lei, la costringeva a evitare il contatto con il piccolo. Anche in questo caso la vicinanza consapevole con vissuti emotivi di rabbia, paura, tristezza e abbandono, le ha consentito di separarsi della dall’identificazione con l’aggressore in atto, in favore di un avvicinamento al figlio. I progressi compiuti hanno permesso di sradicare prima l’evitamento, poi uno strano sorriso che il bambino mostrava ai suoi comportamenti aggressivi, gli stessi che lei aveva usato per tollerare affetti dolorosi.

Un esame profondo delle dinamiche relazionali disfunzionali, l’attribuzione di un significato a comportamenti distruttivi o scarsamente responsivi, sentire le proprie emozioni, può rappresentare un dispositivo di prima scelta delle nuove generazioni di genitori. Accogliere la nascita di un bambino concretamente comporta il riesame del proprio mondo interiore, delle figure, delle relazioni, delle emozioni, delle esperienze che l’hanno definito e l’elaborazione di antiche sofferenze in modo da aprirsi a questo passaggio con piena maturità.

Diventare genitore diviene così un compito complesso da gestire, in cui si palesano aspetti concreti e fantasmatici trasmessi dal genitore al figlio e in cui è indispensabile raggiungere la guarigione del caregiver per il funzionamento ottimale dell’intero nucleo familiare.

 

LEGGI ANCHE:

Gravidanza e genitorialità

BIBLIOGRAFIA:

 

Umorismo: il meccanismo del Twist e perchè fa così bene

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 L’umorismo  non è solo ridere, accende la complicità ed è creativo. Si costruisce attraverso una serie di aspettative  per introdurre poi un twist (un colpo di scena appunto) che se ne beffa in modo intelligente e scatena la risata

 

Lo humour è una specie di ginnastica, un modo per mantenere attivo il cervello e per aumentare la flessibilità mentale

Il twist e il cervello Consigliato dalla Redazione

Lo humour non è solo ridere: è uno strano cocktail in cui si mescolano – in proporzioni variabili e in una visione del mondo nuova perché stralunata – sorpresa, tenerezza, bonarietà, empatia, indulgenza, candore, massimi sistemi ed eventi minimi, consistenza e leggerezza. (…)

Tratto da: Internazionale

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Articoli su psicologia positiva
Gratitudine: il segreto per combattere la solitudine e migliorare il benessere
Una ricerca ha rivelato come utilizzare la gratitudine per ridurre la solitudine, migliorare le relazioni e promuovere il benessere psicologico
Psicoterapia integrativa (2022) di Rainer Matthias Holm-Hadulla – Recensione
Il volume "Psicoterapia integrativa" è una lampante testimonianza dell’approccio volto alla integrazione di diversi orientamenti terapeutici
Il benessere al centro della psicologia positiva
Esploriamo i fondamenti della Psicologia Positiva le sue applicazioni per promuovere il benessere, l'ottimismo e la crescita personale
Realizzazione di sè nella prospettiva di Carl Rogers
La realizzazione di sé nella prospettiva di Carl Rogers 
L’uomo deve appropriarsi della propria vita raggiungendo la realizzazione di sè e, per farlo, deve agire attivamente su se stesso
Felicità: raggiungerla attraverso comportamenti pro-sociali
Felicità, benessere soggettivo e comportamenti pro-sociali 
Cercare di rendere felici gli altri è il modo più efficace per raggiungere la propria felicità, anche più di quando gli altri cercano di rendere felici noi
Grinta: passione e perseveranza per ottenere ciò che desideriamo
Vivere con grinta (grit): passione e perseveranza per ottenere ciò che desideriamo
La grinta è un costrutto che tenta di cogliere quelle disposizioni individuali che promuovono il perseguimento degli obiettivi a lungo termine
Positivo: come è cambiato il significato del termine - Psicologia
Positivo
Fino ad un anno e mezzo fa l’aggettivo positivo portava il più delle volte ad una rapida e diretta connessione con beneficio, ma ora non è più così
Speranza, consapevolezza e cambiamento
Mai come in questo periodo parliamo di speranza, ma cosa significa da un punto di vista psicologico sperare? Qual è il suo impatto sulla qualità di vita?
Abitudini: come modificarle in modo efficace per ottenere dei cambiamenti
Piccole abitudini per grandi cambiamenti
Spesso riteniamo che per dei grandi successi servano delle grandi azioni, ma la verità è che migliorare anche solo l’1% è ciò che fa davvero la differenza
Benessere: prevenzione e promozione per favorire la salute - Psicologia
Dalla prevenzione alla promozione del benessere
Promuovere la cultura della salute significa far prendere coscienza al soggetto delle sue scelte e a far sì che salute e benessere diventino stili di vita
Self compassion il potere dellessere gentili con se stessi Recensione EVIDENZA
Self Compassion: il potere dell’essere gentili con se stessi (2019) di Kristin Neff – Recensione del libro
"Self Compassion" è un libro per ogni persona che abbia sperimentato quanto sia doloroso stare a stretto cotatto con le proprie autocritiche.
12 Regole per la vita: un libro per affrontare positivamente il cambiamento
Prendi in mano la tua vita e pensa positivo
Il best seller '12 regole per la vita. Un antidoto al caos' aiuta il lettore a riprendere in mano la propria vita senza temere il cambiamento
Coronavirus: il pensiero positivo come rinforzo quotidiano - Psicologia
Coronavirus: pensare positivo, è possibile?
Il COVID-19 ha stravolto la nostra quotidianità. Sviluppare il pensiero positivo ci permette di vivere meglio e godere di un adeguato equilibrio interiore
Il viaggio come fenomeno psicologico che richiama la circolarità della vita
Psicologia del viaggio 
Il viaggio è un fenomeno psicologico che nelle sue fasi (partenza, percorso e arrivo) rende l’idea della ciclicità della vita e del suo dinamismo.
Felicità: un prodotto del cervello? - La scienza della felicità di Daniel Gilbert
La scienza (sorprendente) della felicità
La felicità, per Dan Gilbert, dipende in buona misura dal ridimensionare desideri ed eventi spiacevoli che ci capitano: è una capacità del nostro cervello
Fattore 1%. Piccole abitudini per grandi risultati (2019) di Luca Mazzucchelli – Recensione del libro
Fattore 1% è il nuovo libro di Luca Mazzucchelli che ci guida attraverso una serie di esercizi concreti verso un percorso crescita personale e cambiamento.
Barbara Fredrickson: la funzione delle emozioni positive - Psicologia
L’importanza delle emozioni positive. Il contributo di Barbara Fredrickson
Barbara Fredrickson per prima ha studiato le emozioni positive individuandone quattro tipologie: gioia, contentezza, interesse e amore.
Flow: una nuova strada per raggiungere il benessere psicologico
Anche giocare a Tetris può dare sollievo a una mente preoccupata
Il termine flow viene usato per descrivere uno stato mentale totalmente focalizzato e disimpegnato, libero da preoccupazioni su possibili eventi futuri
Psicologia positiva: come coltivare il proprio benessere psicofisico
Come cambiare la percezione di sé e della propria vita attraverso le strategie della psicologia positiva
Coltivare i principi della psicologia positiva, ovvero privilegiare i pensieri positivi, conduce ad un benessere psicofisico, eleva il tono dell’umore, incrementa l’ottimismo, cambia la connotazione cognitiva chi si dà allo stress legato alla quotidianità, facendolo mutare da dis-stress in eu-stress.
Psicologo del benessere: potenzia le risorse con la psicologia positiva
La psicologia positiva e i suoi ambiti di applicazione: il ruolo dello psicologo del benessere
Lo psicologo del benessere promuove la condizione soggettiva di benessere attraverso il potenziamento delle risorse già presenti nella persona, anche in una condizione di difficoltà non patologica. In altre parole usa l'approccio della psicologia positiva
Carica altro

Stress lavoro-correlato nei knowledge workers

 

L’obiettivo principale di questo articolo consiste nell’ individuazione delle opzioni organizzative in grado di prevenire lo stress legato alle organizzazioni ad alta intensità di conoscenza.

Introduzione

Nel contesto lavorativo contemporaneo, continuamente soggetto a modificazioni e caratterizzato da importanti processi quali la globalizzazione, la mobilità, la precarietà e la flessibilità occupazionale, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni gioca un ruolo cruciale nella progettazione di interventi mirati alla promozione della salute e del benessere dei lavoratori. Tra i rischi psicosociali che scaturiscono dal panorama appena accennato, lo Stress Lavoro-Correlato (SLC) costituisce una delle maggiori conseguenze da prendere in considerazione. Nonostante esso riguardi tutte le tipologie di lavoro, indipendentemente «dalla dimensione dell’azienda, dal campo di attività, dal tipo di contratto o di rapporto di lavoro» (Accordo europeo sullo stress sul lavoro, 2004), pochi sono stati gli studi che si sono focalizzati sulla manifestazione di questo fenomeno nei cosiddetti knowledge workers.
Comunemente tradotta in lingua italiana come «lavoratori della conoscenza», la suddetta espressione indica quella categoria di ruoli professionali che non producono beni o oggetti, ma informazioni. Tale categoria comprende professioni collegate con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i consulenti, i docenti, gli avvocati, gli scienziati, in genere ruoli che in un determinato contesto operano e comunicano principalmente con la conoscenza.
L’obiettivo principale di questo articolo consiste nell’individuazione delle opzioni organizzative in grado di prevenire lo stress legato alle organizzazioni ad alta intensità di conoscenza. Si tratterà delle organizzazioni che Alvesson (1995, citato da Ipsen & Jensen, 2012) ha definito di conoscenza “pura”, ossia in cui gli individui stessi rappresentano i fruitori e i promotori della stessa (università, studi legali, società di consulenza ecc.).

1. Le caratteristiche del lavoro della conoscenza

Dato che la letteratura non è molto ricca sull’argomento, innanzitutto occorre inquadrare le caratteristiche dell’ambiente psicosociale delle organizzazioni in questione. Il lavoro di Ipsen e Jensen (2012) fornisce un prezioso contributo sulla determinazione di informazioni sul lavoro della conoscenza. Nonostante il loro studio sia mirato unicamente ad aziende di consulenza, può essere considerato come un interessante punto di partenza per studi futuri su questo campo. Attraverso interviste semi-strutturate e aperte è emerso che i lavoratori della conoscenza lavorano autonomamente, ma al contempo cooperano con i clienti e i colleghi per risolvere compiti specifici, al fine di sviluppare prodotti della conoscenza nuovi e accettabili. La stretta interazione con gli altri costituisce continuamente compiti nuovi, unici e complessi per affrontare e fornire nuove soluzioni. La conoscenza di ognuno è a disposizione di tutti, nel senso che ognuno condivide volentieri il proprio sapere con altri.
In altre parole, un’organizzazione ad alta intensità di conoscenza, fa affidamento sul capitale intellettuale al fine di soddisfare le richieste dei clienti e del mercato. Per questo motivo tali organizzazioni reclutano individui altamente competenti e il fattore umano rappresenta l’elemento centrale. In pratica la conoscenza è frutto di collaborazioni fra i lavoratori, di condivisione di saperi, di esperienze, di consigli, di rielaborazioni, di soluzioni, e il prodotto è rappresentato dalla professionalità di ogni individuo che partecipa al progetto o al task assegnato.

2. Lo stress lavoro-correlato nel lavoro della conoscenza

Una volta delineato un panorama generale dell’ambiente che caratterizza le organizzazioni ad alta intensità di conoscenza, bisognerebbe individuare le cause organizzative dei problemi di stress lavoro-correlato. In linea generale, l’ISPESL (2010), nel manuale in cui suggerisce una proposta metodologica sulla valutazione dello stress lavoro-correlato, fornisce una descrizione dettagliata delle caratteristiche del lavoro e delle condizioni che possono condurle a rappresentare dei fattori di rischio psicosociali per l’individuo e le organizzazioni stesse. I fattori stressogeni sono stati divisi in due grandi categorie: quelli relativi al contesto lavorativo (la cultura organizzativa, il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, l’autonomia decisionale/controllo, le relazioni interpersonali e l’interfaccia famiglia/lavoro) e quelli relativi al contenuto del lavoro (ambiente di lavoro e attrezzature, pianificazione dei compiti, carico/ritmi di lavoro e orario di lavoro). Facendo riferimento alle suddette indicazioni, si possono confrontare i dati raccolti da Ipsen e Jensen (2012) con i fattori stressogeni:

Cultura organizzativa: è emerso che le pratiche aziendali relative alla gestione del disagio psicosociale sono pressoché assenti; i lavoratori gestiscono le loro situazioni problematiche attuando strategie di coping personali; in altre parole, essi risolvono i propri problemi nel modo che ritengono migliore, concedendosi qualche giorno di assenza, decidendo di lavorare più lentamente o velocemente, o confidandosi con i colleghi. L’imprevedibilità dei compiti e dei clienti, che inizialmente è stata ritenuta un grande incentivo, al tempo stesso è stata considerata causa di stress, in quanto aveva un effetto sulle prestazioni personali e sullo stipendio.
Ruolo nell’organizzazione: l’organizzazione è caratterizzata da un decentramento incorporato in una organizzazione a matrice. La vasta rete prevede un mercato interno e informale per lo scambio di competenze personali, in cui i dipendenti possono partecipare a vari progetti; mantenere questa rete costituisce così una parte centrale del lavoro.
Sviluppo di carriera: dall’ analisi è emerso inoltre che gli incentivi materiali (come il salario o i bonus) giocano un ruolo minore. Maggior importanza viene attribuita agli incentivi culturali (i valori, il prestigio o la reputazione). Nonostante la volontà di condividere la conoscenza e il riconoscimento della sua posizione centrale, i tipici sistemi di ricompensa hanno un focus esplicito sulla performance del singolo in termini di vendite e ore di produzione. Attività e processi interni, come la condivisione della conoscenza e lo sviluppo di nuovi concetti, non sono ricompensati con incentivi materiali, e lo stipendio di un individuo è legato al livello del task assegnato.
Autonomia decisionale/controllo: molto spesso i lavoratori sono tenuti a cercare autonomamente le informazioni necessarie e più adeguate. Pertanto, i dipendenti hanno un interesse comune a un pool di conoscenze che è a disposizione di tutti in caso di necessità. È stato anche chiarito che la conoscenza è condivisa volentieri e direttamente.
Relazioni interpersonali sul lavoro: la maggior parte delle volte non si tratta di un lavoro individuale, ma di un lavoro in team, in cui ogni individuo, direttamente o meno, contribuisce alla creazione del prodotto (la conoscenza) ovvero è parte del prodotto. Già in quest’ottica si potrebbero ipotizzare eventuali situazioni tipicamente stressogene, se ripetute costantemente. Per esempio, la psicologia sociale, per via dei suoi innumerevoli studi sulle dinamiche di gruppo, potrebbe fornire informazioni importanti riguardo alle potenziali situazioni di conflitto all’interno di un team di lavoro. È alta la probabilità di nascita di conflitti legati alle differenziazioni di ruolo, a diverse categorie di pensiero dei vari membri sullo stesso costrutto, alle modalità di comunicazione, alle attitudini o alla personalità dei membri.
Interfaccia famiglia lavoro: la maggior parte delle organizzazioni in questione forniscono vari servizi per i dipendenti: centri diurni per i bambini, mense, club, bar aziendali ecc. Vi è quindi la possibilità di effettuare una pausa pasto in luoghi adeguati, vi è un orario flessibile e la possibilità di svolgere un lavoro part-time verticale o orizzontale.
Ambiente di lavoro/attrezzature: in quanto alle condizioni fisiche del lavoro, o alla manutenzione e alla riparazione delle strutture, non sono state fatte domande, in quanto è stata prestata più attenzione al fattore umano.
Pianificazione dei compiti: in linea generale, i lavoratori intervistati credono di dover migliorare la loro capacità personale di pianificare il loro lavoro al fine di guadagnare più tempo, il che porterebbe ad una maggiore soddisfazione sul lavoro e a soluzioni migliori. In altre parole, hanno ritenuto che sarebbe stata colpa loro se si fossero verificati eventuali problemi; vi è la credenza generale che i problemi siano causati dal singolo individuo.
Carico/ritmi di lavoro/ orari di lavoro: in primo luogo, gli intervistati ritengono che la quantità di incarichi non corrisponde con le risorse disponibili, in termini di denaro e di tempo. È stato espresso inoltre che non ci sono mai due incarichi o due giorni lavorativi uguali, non ci sono routine, ognuno è libero di lavorare ovunque (in casa, in sede, o presso i clienti), utilizzando qualsiasi metodo che ritiene opportuno secondo una scelta personale. Alcune interviste hanno dimostrato che i lavoratori ritengono il proprio lavoro stimolante e interessante, ma che può rivelarsi anche frustrante, poiché bisogna ad esempio mantenersi sempre aggiornati professionalmente.

Utilizzando lo Star Model di J. Galbraith (2002), Ipsen e Jensen (2012) hanno dimostrato che le condizioni organizzative, quali i sistemi di ricompensa, la strategia, la struttura e il flusso di informazioni hanno un’influenza sul flusso di conoscenze e le prestazioni di lavoro. I lavoratori intervistati hanno avvertito che l’essere abbandonati a loro stessi nel cercare le informazioni necessarie per svolgere al meglio il task assegnato, costituisce a volte una perdita di tempo e, qualora fallissero, il loro orgoglio professionale risulterebbe ferito. Gli intervistati hanno sottolineato ad esempio che la mancanza di accesso a nuove conoscenze provoca frustrazione, stress, e ripetizione di errori, anche perché non sempre è così facile confrontarsi con i colleghi. Un altro elemento importante è la mancanza di strutture di supporto che potrebbero prevenire vari problemi. Gli unici supporti presenti sono informali, focalizzati sull’aumento delle performance del singolo.

3. Alcuni suggerimenti per prevenire lo stress lavoro-correlato

Alla luce dei dati raccolti sui fattori organizzativi, si potrebbero avanzare dei suggerimenti utili per prevenire lo stress lavoro-correlato nei lavoratori della conoscenza.
Le aziende di consulenza prese in esame da Ipsen e Jensen (2012) si comportano come la maggior parte delle aziende, concentrandosi sull’individuo piuttosto che sulle variabili organizzative, attribuendo la “colpa” al singolo lavoratore e accantonando le responsabilità dell’organizzazione. Le ragioni di questa prospettiva sono molteplici, ma nella maggior parte dei casi si riconducono alla credenza, da parte della direzione, che i problemi di stress da lavoro siano causati dai lavoratori stessi e dalla loro incapacità di far fronte alle richieste di lavoro a cui sono soggetti. Per giunta, le organizzazioni reputano difficoltoso o, addirittura, controproducente, attuare dei cambiamenti, anche macroscopici, per gestire il problema in questione.

Come accennato in precedenza è emerso che le aziende in questione, in un certo senso, effettuano interventi di sostegno pressoché individuale, mirati soprattutto all’aumento delle capacità di coping dei lavoratori, ma si potrebbero integrare dei corsi di training, come quelli proposti da Murphy (2003, citato da Chandola, 2010), orientati al rilassamento, che si concentrerebbero sulla respirazione e sul calmare l’attività dei muscoli per scaricare la tensione; si potrebbero attuare dei programmi di intervento che si basano sull’aumento della capacità di gestione del tempo e di controllo della rabbia. Infine, sarebbe consigliabile l’implementazione di programmi che comprendono il trattamento terapeutico da uno specialista qualora necessario, o di semplice consulenza.
L’approccio individuale possiede il principale vantaggio della brevità nei tempi di esecuzione, che non comporta un’interruzione nella routine di lavoro, e si adatta facilmente alle esigenze dei singoli. Fra gli svantaggi, però, quello principale è rappresentato dall’impossibilità di agire sulle fonti stressogene.
Seguendo un approccio centrato sull’organizzazione e non sul singolo lavoratore, nelle organizzazioni ad alta intensità di conoscenza si potrebbe implementare un sistema che renda le attività meno frammentate e che gestisca la circolazione delle informazioni e/o che generi delle prescrizioni chiare e coerenti per facilitare i compiti dei lavoratori della conoscenza (evitando magari il sovraccarico o il sottocarico di lavoro). Sarebbe opportuno creare delle “squadre di azione” finalizzate all’individuazione dei problemi e alla loro soluzione, puntare al collettivo, cioè al gruppo di lavoro e agli aspetti collettivi; in questo modo si regola il carico di lavoro e si aiuta ciascuno a costruire la propria identità professionale. Lo studio inoltre dimostra che sia i dipendenti sia i manager sono consapevoli dei problemi del loro lavoro, e hanno anche un’idea delle loro cause e di possibili soluzioni. L’elemento paradossale è che queste opinioni relative ai problemi non sono condivise, perciò sarebbe possibile progettare dei nuovi modi di gestione del lavoro della conoscenza, in cui il fattore umano sarebbe integrato nel disegno organizzativo. Non si verificano mai delle occasioni di confronto fra lavoratori che occupano una posizione manageriale e i dipendenti, in cui si parli per esempio dei fattori che influenzano la qualità e l’efficienza del loro lavoro; perciò sarebbe auspicabile che venissero sviluppate regolarmente delle riunioni centrate su questo tema.

4. Conclusione

Nonostante la ricerca di Ipsen e Jensen (2012) presenti diversi limiti (il campione ridotto, o l’analisi effettuata in un contesto ristretto e specifico), il loro scopo consisteva semplicemente nel dimostrare quanto fosse importante il fenomeno dello stress lavoro-correlato nei lavoratori della conoscenza, dato che la maggior parte degli studi sono stati effettuati in altri ambienti (ad esempio nelle industrie). Sarebbe molto interessante prendere in esame, per esempio, altre imprese che si basano sul lavoro della conoscenza, anche se quest’ultima risulta essere “materializzata” in determinate tecnologie (per esempio nelle aziende high-tech o di biotecnologie). Bisogna sottolineare anche che lo studio in questione si è basato su aziende di una determinata area geografica, sarebbe necessaria una ricerca che prenda in considerazione un campione di aziende molto più ampio.
Alla luce di tutto ciò è evidente che la progettazione di interventi preventivi e correttivi del fenomeno SLC rappresenti un campo d’azione per la psicologia del lavoro e delle organizzazioni. La scarsità di studi sull’ambiente relativo ai lavori della conoscenza è un’opportunità da cogliere al volo per fornire nuove ricerche e analisi sulla manifestazione del fenomeno in questione.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Mindfulness come strumento di prevenzione e gestione dello stress lavoro-correlato

BIBLIOGRAFIA:

cancel