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Correlati neuronali del Gioco dell’Ultimatum

I modelli economici standard del processo decisionale umano (come la teoria dell’utilità) hanno sempre minimizzato o ignorato l’influenza delle emozioni sul comportamento decisionale. Tuttavia, negli ultimi anni, i ricercatori hanno cominciato a usare tecniche di neuroimaging per esaminare l’influenza di fattori psicologici ed emotivi nei giochi economici.

I modelli economici standard del processo decisionale umano (come la teoria dell’utilità) hanno sempre minimizzato o ignorato l’influenza delle emozioni sul comportamento decisionale, considerando i decisori come delle macchine perfettamente razionali.

Tuttavia, negli ultimi anni questa ipotesi è stata contestata da studi, che hanno individuato ulteriori fattori psicologici ed emotivi che influenzano il processo decisionale e, negli ultimi anni, i ricercatori hanno cominciato a usare tecniche di neuroimaging per esaminare il comportamento nei giochi economici.

Nel Gioco dell’ Ultimatum, due i giocatori hanno la possibilità di dividere una somma di denaro. Un giocatore fa l’offerta su come dividere il denaro mentre l’altro la può accettare o rifiutare.

Se si accetta, il denaro viene diviso come proposto, ma se l’offerta viene rifiutata, nessun giocatore riceve nulla. La soluzione razionale standard del gioco è di offrire la più piccola somma di denaro possibile e di accettarla poiché qualsiasi importo monetario (per quanto minimo) è preferibile a nessuno. Tuttavia, molte ricerche indicano che indipendentemente dalla somma, le offerte sono circa il 50% dell’importo totale e le offerte basse (circa il 20% del totale) hanno oltre il 50% di probabilità di essere respinte. 

Perché le persone fanno questo? Sulla base delle relazioni dei partecipanti, sembra che le basse offerte vengano spesso respinte poiché percepite come ingiuste. Le emozioni negative provocate dal comportamento ritenuto scorretto nel Gioco dell’Ultimatum può portare le persone a rinunciare ad un guadagno finanziario per punire il loro partner.

Le offerte inique nel Gioco dell’Ultimatum generano conflitto tra il cognitivo (accetto) e l’ emotivo (rifiuto)Questo conflitto può essere visibile a livello neurale grazie alla risonanza magnetica funzionale (fMRI). 

In questo studio sono state indagate le reazioni neuronali e comportamentali dei giocatori che dovevano accettare offerte giuste (50:50) o ingiuste. In particolare, è stato ipotizzato che le offerte inique avrebbero impegnato strutture neurali coinvolte sia nella elaborazione emotiva sia cognitiva, e che l’entità di attivazione in queste strutture possa prevedere la decisione di accettare o rifiutare.

I partecipanti sono stati inseriti all’interno dello scanner MRI ed informati che le offerte potevano essere fatte sia da partner umani che da un computer, poi hanno iniziato a giocare attravero un pc.

I risultati comportamentali sono stati molti simili a quelli che si riscontrano tipicamente in questo tipo di gioco. I partecipanti hanno accettato tutte le offerte ritenute giuste mentre quelle molto basse sono state rifiutate e la percentuale di rifiuto era molto più alta se l’offerta ingiusta proveniva da un uomo piuttosto che dal computer.

Le aree che hanno mostrato una maggiore attivazione durante le offerte ingiuste sono state: l’insula anteriore, la corteccia prefrontale dorso laterale (DLPFC) e la corteccia cingolata anteriore (ACC).

In più, l’entità dell’attivazione era molto maggiore quando l’offerta veniva da un partner umano piuttosto che dal computer.
Questo suggerisce che tali attivazioni non dipendono solo dalla quantità di denaro offerto, ma sono influenzate anche dal contesto. L’insula anteriore ha anche mostrato di essere sensibile al grado di ingiustizia, infatti la sua attivazione era maggiore quanto più era bassa l’offerta. L’attivazione dell’insula anteriore denota uno stato emotivo negativo di chi deve prendere una decisione ed è correlata al rifiuto dell’offerta.

A differenza dell’insula, la DLPFC è un area collegata a comportamenti di mantenimento dell’obiettivo e di controllo esecutivo, ma nonostante la sua attivazione durante il Gioco non è correlata con l’accettazione dell’offerta (evidentemente l’attivazione dell’insula è più forte).

Infine l’attivazione dell’ACC, area connessa al conflitto cognitivo, potrebbe essere dovuta al conflitto emotivo che provoca il Gioco.

 

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Le preoccupazioni economiche interferiscono con il ragionamento

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Sanfey, A. G.,  Rilling, J. K.,  Aronson, J.A.,  Nystrom, L. E., Cohen, J. D. (2003). The Neural Basis of Economic Decision-Making in the Ultimatum Game. Science, 300, 1755- 1758.  DOWNLOAD

Chiudi la porta a depressione e stress! L’effetto benefico delle passeggiate all’aperto

FLASH NEWS

Può sembrare una banalità, ma è un dato di fatto: uscire e farsi una passeggiata all’aperto, in mezzo alla natura e stuzzicati dall’aria fresca, magari insieme ad altre persone, aiuta a superare la depressione ed a combattere lo stress.

Lo studio condotto dall’Università del Michigan, con la collaborazione dell’Università di De Montfort, dell’Istituto James Hutton e dell’Università inglese Edge Hill, dimostra che un fatto semplice come la partecipazione ad un gruppo di cammino incrementa la percezione positiva del proprio vissuto quotidiano.

I vantaggi di praticare tale tipo di attività vanno ben oltre: è infatti dimostrato che partecipare ad un gruppo di cammino è di grande supporto ad un approccio non farmacologico a patologie anche gravi, come la depressione.

In tale studio, i ricercatori hanno valutato 1.991 partecipanti al programma Walking for Health in Inghilterra, rilevando in loro maggiori emozioni positive ed una maggiore sensazione di benessere, rispetto alla popolazione media. E’ stato altresì dimostrato che le camminate all’aria aperta favoriscono il superamento di alcuni eventi stressanti, quali ad esempio una seria malattia, la separazione dal proprio partner o, ancora, un recente licenziamento oppure una condizione di disoccupazione.

Insomma, camminare è una forma di esercizio fisico accessibile a tutti, per nulla pericolosa ed a costo zero; se combinata alla buona compagnia e ad una sana immersione nella natura, poi, può avere effetti veramente benefici ed a lungo termine, che potrebbero seriamente migliorare la qualità della vita delle persone. Allora, perché non approfittarne?

 

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Dolore cronico, qualità del sonno e attività fisica – Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

Adolescenti e futuro: culture, relazioni e disagio – XI Convegno Nazionale dei Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza

Due giorni intensi che hanno visto lo scambio di molti professionisti e un calendario ricco di workshop che hanno cercato di offrire una panoramica circa gli adolescenti di oggi, non solo a livello di patologia e cura, ma anche più semplicemente di “persona”.

Al convegno sono intervenuti molti professionisti impegnati nella cura e nel sostegno di adolescenti alle prese con i compiti evolutivi, ma anche con genitori che si dichiarano impreparati a comprendere e gestire una fase della vita del nucleo familiare (e non solo del singolo) così delicata e appassionata.

La seduta plenaria iniziale ha visto gli interventi di Michele Serra, giornalista, e di Pietropolli Charmet che hanno cercato di fornire due vertici di discussione differenti ma complementari.

L’adolescenza vista da un padre non addetto ai lavori (Michele Serra con il suo libro “Gli sdraiati” cerca di fornire la panoramica di un genitore alle prese con qualcuno che non riconosce più) e da un professionista della relazione di cura.

Mi ha molto colpito il tema trasversale ai due giorni, ripreso poi nella seduta plenaria conclusiva, circa la dimensione del tempo e del futuro per chi è adolescente al giorno d’oggi. Come terapeuti, infatti, siamo tenuti ad interrogarci su cosa significhi crescere, vivere e amare in un contesto socio-economico-culturale senza precedenti.

Un contesto alle prese con forti conflitti che se da un lato spingono ad allontanarsi dalla famiglia (molti adolescenti, come emerge dai focus group e dalla ricerca condotta da Agipssa su un campione di studenti a livello nazionale, non ritengono l’Italia un contesto adatto nel quale poter  continuare a vivere e quindi si dichiarano pronti a partire per un futuro altrove), dall’altro sicuramente trattengono in una posizione regressiva e regressivizzante, che passivizza e amplifica il senso di inadeguatezza con il quale ogni adolescente lotta pressoché quotidianamente.

 

Ogni individuo, poi, trova una strada – la propria strada – che può essere sufficientemente sana ma anche, in taluni casi, patologica. I soggetti adolescenti sono chiamati ad evolversi, ma si sentono inadeguati ed incapaci di portare a termine il compito assegnato (realizzarsi). Il problema, quindi, non è tanto rivolto al passato (eventuale trauma) bensì al futuro (essere in grado di).

Spetta al contesto e all’ambiente, quindi, essere in grado di cogliere i segnali di disagio, per evitare che si trasformino in qualcosa di più. Gli adolescenti, infatti, ci insegnano che se gli adulti o l’ambiente non rispondono adeguatamente, alzano il tiro e vanno alla ricerca di una strada e di un’auto-cura sfruttando le risorse a loro disposizione. Il gruppo dei pari diviene quindi un serbatoio di rinforzi, e quando lo stesso gruppo dei pari fa paura o mette ansia, le nuove tecnologie fungono da supporto ausiliario.

Lo scacco evolutivo in cui incappano certi adolescenti non si limita ad un singolo campo dell’esistere psichico, ci rimette tutto il Sè, che non si sente in diritto di mettersi in scena; si crea così una situazione di depressione narcisistica il cui sintomo principale, che si riversa nel comportamento, è la morte del futuro (non posso realizzare il mio desiderio, la mia storia). Quindi, l’inevitabile, sarà il rifugio nel presente e la ricerca di ogni strumento che annulli in qualche modo il futuro (ad esempio trasformo il corpo seduttivo e femminile in uno scheletro, nel caso delle patologie anoressiche; fuggo la competizione reale con un avatar, evitando lo sguardo del gruppo, nel caso di adolescenti hikikomori; etc.).

La fine del futuro per un adolescente rappresenta la fine dell’ansia e dello scacco evolutivo. Non è forse un caso che oggigiorno gli adolescenti vivano in una società legata alla velocità e all’esterno presente. Siamo eternamente – e ovunque – connessi, ma forse più soli. Non c’è più tempo per fermarsi a riflettere, e la sfida attuale per noi terapeuti è proprio questa: creare una dimensione a-temporale ma piena di significato nella quale si può guardare, insieme, oltre loschermo del telefono per scoprire – parafrasando Lewis Carroll – cosa Alice vi trovò.

Penso che per farlo, però, il primo passo sia conoscere davvero gli strumenti e i linguaggi usati dagli adolescenti, non demonizzandoli tout court e pensando che per taluni adolescenti possono rappresentare, invece, anche una via di uscita sufficientemente buona.

Come adulti (e professionisti) siamo chiamati a credere, innanzitutto, in un futuro possibile per il nostro mondo, ma anche per i nostri pazienti adolescenti, trasmettendo e – laddove mancano- insegnando, le funzioni genitoriali:

– suscitare amore (sei amabile e sarai in grado di amare);

– suscitare speranza e vitalità (puoi esplorare e scoprire cose nuove);

– contenere l’angoscia depressiva (pessimismo, la paura di non capire cosa sta accadendo nel
proprio mondo interno);

– suscitare pensiero (aprire uno spazio di pensiero intorno alle esperienze emotive, dando loro un
significato).

Il confronto, ma soprattutto l’onesta autocritica, sono a mio avviso le due strade fondamentali per raggiungere questo obiettivo. Il Convegno di Parma ha rappresentato proprio questo: un terreno di scambio, critica e confronto.

 

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ADOLESCENTI 

WinABC: un’App per il trattamento della Dislessia

Tra le App mediche sta guadagnando sempre maggior rilievo WinABC, un programma di lettura temporizzata utilizzato nella riabilitazione della dislessia, disponibile già da diverso tempo su pc, ora adattata all’uso su tablet, con tutti i vantaggi che questo strumento comporta.

WinABC si basa su un trattamento di tipo sub-lessicale, che è applicato a unità via via più ampie, a partire dalla lettera, passando per la sillaba e la parola intera. Il trattamento mira a supportare i bambini con difficoltà nella decifrazione, lenta o scorretta che sia, attraverso l’automatizzazione del riconoscimento sub-lessicale.

Dopo un trattamento di tre mesi con questo sistema di lettura i soggetti dislessici evidenziano un recupero di lettura superiore a quanto atteso dall’evoluzione spontanea (Tressoldi et al. 2001).

WinABC permette di ripercorrere ed esercitare le principali tappe dell’apprendimento della lettura, partendo appunto dalla fase sub-lessicale.

Il soggetto dislessico può impostare dapprima la lettura con la scansione in sillabe che consente di sviluppare e allenare l’automatismo di riconoscimento delle componenti sillabiche che formano la parola. In una fase successiva, il soggetto è libero di impostare la scansione in parole, per esercitare e potenziare la sua abilità di comprensione del testo in condizioni simili a quelle ‘reali’ di lettura.

La possibilità di impostare differenti velocità di scansione permette di personalizzare lo strumento, adattandolo alle reali capacità della persona dislessica e tenendo traccia dei progressi raggiunti. In questo modo si evita la frustrazione derivata da un compito troppo difficile e si mantiene alta la motivazione a proseguire con il training.

Alla fine di ogni esercizio di lettura si può avere accesso all’analisi dei risultati, in cui sono sintetizzate le impostazioni e le prestazioni: in tabelle e grafici sono visualizzati il numero di elementi letti, il tempo totale dedicato alla lettura, la velocità e la quantità di errori. L’analisi può quindi essere esportata e inviata al proprio terapista che può a sua volta suggerire come cambiare eventualmente le impostazioni.

I dati di ricerca raccolti tramite WinABC e altre applicazioni simili da Tressoldi e collaboratori, confermano quanto già ampliamente pubblicato in letteratura rispetto al cambiamento della funzionalità cerebrale in seguito a riabilitazione.

Trattamenti mirati e centrati sul deficit, mettono in luce la sorprendente plasticità di cui è dotato il sistema nervoso centrale (Aylward et al 2003; Temple et al 2003; Simos et al 2002).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Addiction e Disturbi di Personalità: il trattamento con la Terapia Metacognitiva Interpersonale

La Redazione di State of Mind segnala quento evento formativo nell’area di Roma:

 

 

NEWS – Centro Terapia Metacognitiva Interpersonale – TMIConsigliato dalla Redazione

Centro di terapia metecognitiva interpersonale - TMI
Venerdì 14 Novembre 2014 e Sabato 15 Novembre 2014 – Corso di due giornate – c/o Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Anoressia: l’efficacia dei trattamenti familiari

FLASH NEWS

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine ha effettuato uno studio che, in linea con molte delle ricerche finora condotte in merito, conferma l’importanza del coinvolgimento dei genitori nel trattamento dell’anoressia.

L’Anoressia Nervosa è un Disturbo dell’Alimentazione caratterizzato, secondo i criteri del DSM-IV TR, da:

 – A. Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura (perdita di peso che porta a mantenere il peso corporeo al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza, con la conseguenza che il peso rimane al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto).

– B. Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso.

-C. Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso.

– D. Nelle femmine dopo il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi” (DSM-IV TM, 1994, pp. 539-540). 

Tale disturbo, che affligge una percentuale compresa tra lo 0.5% e lo 0.7% delle adolescenti, è una delle malattie psichiatriche con maggiore tasso di suicidi. Questo è uno dei motivi per cui è importante concentrarsi sulle terapie ad essa dedicate, indagare le possibili vie d’uscita e magari pensare interventi precoci che destrutturino i sintomi fin dalla giovane età; senza contare l’importanza di proporre modelli educativi che prevengano l’esordio di tale patologia.

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine ha effettuato uno studio che, in linea con molte delle ricerche finora condotte in merito, conferma l’importanza del coinvolgimento dei genitori nel trattamento dell’anoressia.

 

Tale studio, che si basava su un trial randomizzato e controllato di 164 pazienti condotto in sei diverse aree degli Stati Uniti e del Canada, metteva a confronto gli effetti di due differenti terapie. Entrambe prevedevano il coinvolgimento dei giovani pazienti e delle loro famiglie.

Un tipo di approccio si focalizzava sull’insegnare la collaborazione tra genitori e figli al fine di favorire in questi ultimi un’alimentazione normale ed un graduale riacquisto del peso. Il secondo tipo di approccio proponeva invece la risoluzione delle dinamiche familiari che avrebbero potuto essere alla base del disturbo.

I risultati di tale ricerca mostrano la funzionalità ed efficacia di entrambi i metodi ma, in generale, i pazienti curati con il trattamento focalizzato sullo stile alimentare e di vita acquistano peso più facilmente e più velocemente, ricorrendo con meno frequenza a ricoveri ospedalieri. La terapia basata sulla risoluzione delle problematiche familiari si è dimostrata invece più efficace nel trattamento specifico di un sottogruppo di pazienti: quelli che, in comorbidità con l’anoressia nervosa, presentano anche sintomi ossessivo-compulsivi severamente radicati.

James Lock, professore di Psichiatria e Scienze del Comportamento presso la Stanford University, nonché coautore dello studio presentato in questa sede, evidenzia che il coinvolgimento (“coinvolgimento, non colpevolizzazione”, specifica lo studioso) dei genitori nel trattamento della sintomatologia anoressica può avere sui giovani pazienti effetti a lungo termine.

Agras, altro professore della Stanford e autore principale dello studio, suggerisce che “più a lungo l’anoressia si protrae, maggiormente difficile sarà curarla. Infatti, molti pazienti vivono cronicamente con questo disturbo, conducendo uno stile di vita restrittivo basato sulla privazione di cibo e sull’eccesso di esercizio, e purtroppo molti di loro muoiono”.

E’ dunque importante agire in età precoce, evitare la cronicizzazione dei sintomi, per garantire agli adolescenti maggiori possibilità di vita ed una migliore qualità della stessa.

 

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Lo Stigma basato sul peso: nemico più che alleato

La visione negativa dell’obesità è resa evidente da numerosi stereotipi negativi che descrivono le persone obese, per esempio, come pigre, goffe, poco disciplinate e senza forza di volontà.

Nonostante la comunità scientifica la riconosca come malattia cronica e multifattoriale, l’obesità è spesso vista come una colpa della persona. 

Questa visione negativa dell’obesità è resa evidente da numerosi stereotipi negativi che descrivono le persone obese, per esempio, come pigre, goffe, poco disciplinate e senza forza di volontà.

La ricerca, soprattutto Americana, ha evidenziato come le persone obese possono incontrare ostacoli nella vita di tutti i giorni a causa del loro peso.

Gli ostacoli possono andare dalle prese in giro fino a veri e propri episodi di discriminazione come, per esempio, mancate assunzioni, atti di bullismo, esclusioni sociali e trattamento irrispettoso da parte del personale sanitario.

Nonostante la ricerca abbia evidenziato le ricadute sull’individuo a livello psicologico, sociale e fisico a causa dello stigma sul peso è ancora diffusa la credenza che questo possa motivare le persone a perdere peso.

La realtà però è proprio l’opposto come dimostrato da uno studio da pochi giorni pubblicato sulla rivista Obesity.

Lo studio condotto nel Regno Unito su circa 3000 soggetti sopra i 50 anni di età mostra come l’avere subito subito questo tipo di discriminazione sia correlato a un aumento ponderale rispetto a chi non l’ha subito.

Le conclusioni del team Londinese confermano la pericolosità dello stigma basato sul peso e correlazione con il rischio di peggiorare nel tempo la condizione di obesità stessa.

I risultati confermano quelli di altri lavori pubblicati su questo tema negli ultimi anni e sono ben sintetizzati da uno degli autori, Jane Wardle, quando dice:

La discriminazione basata sul peso è parte del problema obesità e non la sua soluzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il modello LIBET – Definizione Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 Il termine LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) fa riferimento a un modello di concettualizzazione del caso clinico adottato in ambito cognitivo esistenziale (Sassaroli, 2013).

Tale concettualizzazione si basa sulla nozione di tema di vita, che consiste in un insieme di esperienze dolorose di mancato soddisfacimento di bisogni emotivi e relazionali, e di credenze distorte ricorrenti nella storia individuale: esso può essere definito altresì come il luogo mentale intollerabile o LMI, ovvero uno spazio psichico nel quale la persona sperimenta stati di sofferenza soggettiva, gestita attraverso una serie di strategie più o meno adattive e funzionali.

A differenza dell’approccio cognitivo standard, nella LIBET viene approfondita l’evoluzione del LMI all’interno della storia di vita individuale, considerando altresì l’influenza di figure significative e di accudimento. In altre parole si sottolinea il collegamento tra esperienze deficitarie passate e sofferenze e difficoltà di padroneggiamento di stati mentali dolorosi attuali.

Le strategie utilizzate per gestire il LMI vengono denominate piani di vita, e a livello patologico possono suddividersi in tre principali categorie:

evitamento: la persona si mantiene distante da situazioni e circostanze collegate al tema di vita doloroso;

-controllo: la persona monitora  costantemente determinati parametri di sè o dell’ambiente;

-ipercompensazione: la persona pone in atto condotte autolesive, di sopraffazione e ricerca intensità emozionale;

 

Questi sono caratterizzati da inflessibilità, monodimensionalità e pervasività, e risultano semi-adattivi, in quanto efficaci a breve termine nella gestione del LMI ma potenzialmente deleteri sul medio-lungo periodo. Il prolungamento di questi piani, dunque, può esporre la persona a diversi momenti di scompenso, anche sotto forma di sintomatologia clinica (es. umore depresso) e a un contatto doloroso con i propri temi di vita.

Questi momenti di crisi del sistema psichico possono tuttavia favorire l’emergere di una motivazione intrinseca orientata al cambiamento e la disponibilità a cominciare un percorso terapeutico, orientato tanto ad assumere piani di vita maggiormente adattivi e flessibili, quanto ad aumentare progressivamente il livello di tolleranza e accettazione del tema di vita doloroso.

 

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Il modello LIBET in psicoterapia: Presentazione al Congresso APA 2014 – Washington DC

 

BIBLIOGRAFIA:

  •  Ruggiero, G.M., Sassaroli, S. (2013). Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Milano: Raffaello Cortina Editore.  ACQUISTA ONLINE

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Di cattivo umore? Tutti su Facebook a cercare chi sta peggio

FLASH NEWS

“Una delle grandi attrattive dei social network è che permettono alle persone di gestire il proprio umore scegliendo cosa guardare e con chi paragonarsi”. È quanto sostiene l’autore di un recente studio della Università Statale dell’Ohio. 

Generalmente le persone usano i social media per connettersi con chi appare positivo e di successo (o quanto meno orientato al successo), ma quando l’umore peggiora la tendenza sembra cambiare e l’interesse si sposta verso chi è meno attraente e meno “vincente”, come per evitare paragoni svantaggiosi e tutelare la propria autostima.

Per questa ricerca sono stati coinvolti 168 studenti di un college, dopo un compito preliminare per il quale ricevevano in maniera del tutto casuale un giudizio gratificante o denigrante (per suscitare umore positivo o negativo), è stato chiesto loro di valutare un nuovo sito chiamato “SocialLink” che presentava i profili di 8 individui volutamente creati per sembrare in parte attraenti e di successo, in parte invece l’opposto.

 

I risultati confermano l’ipotesi iniziale: i partecipanti di buon umore hanno passato più tempo sui profili positivi, mentre chi era di cattivo umore ha preferito i profili più negativi.

D’altronde, come dice Knobloch-Westerwick:  “Se si ha bisogno di una botta di autostima, si cerca chi sta peggio. Non si va certo a guardare chi ha appena avuto un nuovo fantastico lavoro o si è appena sposato.”

Gli stati e gli aggiornamenti positivi altrui possono far sentire inadeguati, forse anche per questo chi spende molto tempo su Facebook sembra essere più frustrato, arrabbiato e solo. Il segreto dunque non è evitare del tutto i social network ma solo scegliere quando e come usarli.

In fondo, la vita è una questione di percezione: basta sapere cosa guardare.

 

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La Sindrome del Selfie – Social Network & Narcisismo – Psicologia 

 

BIBLIOGRAFIA:

Processi psicopatologici ed interventi di distanza critica nelle prospettive ACT, REBT, MCT e MTI – Congresso SITCC 2014

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Il simposio che ha visto confrontarsi i modelli ACT (Hayes, 2004), REBT (Albert Ellis, 1962; 2005), MCT (Adrian Wells, 2010) e TMI (Dimaggio, Popolo e Salvatore, 2012) è stato probabilmente uno dei più attesi del congresso SITCC 2014.

Già due anni fa Gabriele Caselli e Giancarlo Dimaggio si erano “sfidati” in un appassionante dibattito sulla Metacognizione e chi fu presente allora attendeva da tempo con grande curiosità il secondo round.

L’attesa non è stata vana, la SITCC 2014 ci ha regalato un altro vivace incontro a cui hanno dato il loro contributo anche Luca Calzolari e Giovanni Ruggiero, alimentando un dibattito attorno ai 4 modelli che già in passato sulle pagine di State of Mind ha infiammato più di una discussione. Vi riportiamo qui di seguito il simposio per intero, una interessante ed utile lezione che confronta tra di loro alcuni dei modelli più significativi all’interno del panorama cognitivista.

Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

Luca Calzolari apre il simposio con un intervento sull’ACT che ha l’obiettivo di individuare, attraverso una lettura critica, quelli che sono i punti di incontro tra i vari modelli; nello specifico si propone di discutere il processo di fusione e quello di evitamento esperenziale nelle sue somiglianze e differenze con gli altri modelli.

L’ACT viene collocata all’interno della Terza Ondata del Cognitivismo ed è caratterizzata da:

– Focus sui processi con interventi terapeutici più esperienziali

– Decentramento cognitivo, cioè promozione di un punto di osservazione rispetto ai propri stati mentali (quindi promuovere un aspetto più metacognitivo)

– Flessibilità, cioè aumento del repertorio comportamentale

– Regolazione degli stati mentali

Per comprendere l’ACT è opportuno partire dalla concettualizzazione che questo modello fa della psicopatologia, distinguendo tra dolore pulito (che non può non essere esperito in relazione ad una data esperienza) e dolore sporco (quello prodotto dalla mente che tenta di combattere ed eliminare una normale reazione emotiva di sofferenza); quest’ultimo è ciò che si intende per psicopatologia.

Diventano pertanto centrali nell’ACT le strategie che il soggetto mette in atto per eliminare, controllare o combattere la propria sofferenza, perdendo di vista in questo modo i propri obiettivi fondamentali di vita. L’ACT riprende aspetti della seconda ondata del cognitivismo, ma li concettualizza e ci lavora sopra con tematiche differenti.

Per capire in che modo, è necessario comprendere il contesto in cui nasce: l’ACT si rifa alla Relational Frame Theory, prospettiva secondo cui il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di cornici, frame, relazionali e non per esperienza diretta). Proprio in base a tale paradigma teorico l’obiettivo che l’ACT si pone è indebolire la tendenza alla concettualizzazione verbale costruendo col soggetto accessi diretti all’esperienza. Ecco quindi che acquisiscono importanza e senso le tecniche focalizzate sull’accettazione e la defusione, mentre la messa in discussione delle credenze (Disputing) non porterebbe altro se non ad un mantenimento della stessa cornice relazionale, dello stesso circuito psicopatologico.

Il modello Hexaflex (Hayes et Al., 2006) concettualizza la psicopatologia secondo l’ACT. 

 ACT-Hexaflex Come si può notare dallo schema riportato, i processi sono tra loro interconnessi e si dividono in due macroaree: un’area riguarda modifiche più comportamentali, l’altra riguarda i processi di accettazione e defusione (es. contatto con il momento presente) che, qualora fossero deficitari, vengono approcciati con tecniche di tipo esperienziale (es. Mindfulness).

 

Sebbene venga concettualizzata in maniera differente – afferma Calzolari – l’ACT ha dei punti di contatto con la TMI proprio nei concetti di valori (promozione delle parti sane di sé) e defusione, che nel modello TMI vengono concettualizzati rispettivamente come agency e differenziazione e che ne rappresentano due pilastri.

Più nello specifico, da una parte nell’ACT è centrale la promozione della flessibilità psicologica, cioè della capacità di stare in contatto con il momento presente, di generare varie risposte ad un problema, desistendo se inefficace, ma anche di persistere in comportamenti orientati dai propri valori (Hayes et Al., 2006); lo scopo è disincastrare il soggetto dai comportamenti che lo bloccano dal mettere in atto comportamenti funzionali ad arricchire la sua vita (i suoi valori), ponendo l’attenzione sull’agire.

Dall’altra parte gioca un ruolo importante la defusione, esatto opposto di una strategia di controllo, che anziché cercare di modificare o eliminare i pensieri spinge ad accettarli per quello che sono, cioè “Frasi che ti passano per la mente” (Harris, 2010); il focus è sulla presa di distanza dai propri contenuti mentali, in altre parole stimolare il decentramento cognitivo attraverso una domanda che richiama molto il disputing di Ellis: “Se tu permetti a questo tuo pensiero di guidare il tuo comportamento, da un punto di vista meramente pragmatico questo ti aiuterà a creare una vita ricca e significativa?”

Calzolari conclude il suo intervento ponendo le seguenti domande:

1. In riferimento alla REBT, come si può integrare il disputing con l’ACT? La REBT può essere vista come un precursore dell’ACT?

2. In riferimento alla MCT, gli interventi di processo di Wells in cosa differiscono dalla defusione?

3. In riferimento alla TMI, quali sono le differenze tra defusione e differenziazione?

Rational Emotive Behavioral Therapy (REBT)

Il secondo intervento vede protagonista Giovanni Maria Ruggiero. All’interno della Seconda Ondata del Cognitivismo la REBT è sempre stata accomunata alla CBT di Beck, ma in realtà i due modelli presentano grandi differenze. Di fronte ad un pensiero negativo il terapeuta CBT lavora sulla catena di inferenze che giustificano quel pensiero al fine di arrivare a concludere che la catena è logicamente debole e il pensiero non corrisponde alla realtà.

Nella REBT invece la patologia non dipende da catene di inferenze, così come la terapia non dipende dalla loro confutazione a colpi di contro-inferenze alla Beck, ma da singoli atti mentali valutativi di cui siamo sempre potenzialmente padroni. Consideriamo lo strumento principe della terapia cognitiva, l’ABC.

Nel modello REBT l’evento attivante (A) è già e sempre il pensiero anche nell’ABC primario ed è rappresentato dalla catena di pensieri (inferenze) che pensiamo nella situazione e che non hanno una funzione patologica. Tale catena culmina con valutazioni finali patologizzanti (evaluation) che costituiscono i B patologici: la terribilizzazione (“…e tutto questo è terribile!”), la doverizzazione (“…e questo non deve / deve essere così”), l’intolleranza alla frustrazione (“…e questo non lo tollero”) e l’autodenigrazione (“…e sono una merda”); essendo pensieri di pensieri le evaluation possono essere considerate metacognizione.

Se quindi la patologia dipende dalla valutazione patologica delle inferenze, e in quanto atto mentale valutativo non ha valore assoluto ma è una discutibile inferenza, appare chiaro come ad ogni inferenza che il paziente produce allo scopo di sostenere e giustificare le proprie inferenze la concezione più pura del Disputing preveda un semplice e continuo “E chi l’ha detto che è così?”, seguita da un significativo silenzio che nel migliore dei casi – sottolinea Ruggiero – esprime esperienzialmente tutta la futilità delle catene di inferenze e la possibilità reale di semplicemente mollare quelle valutazioni in quel momento (Doyle, Digiuseppe, Dryden, Beck 2014. p. 272).

In base alle considerazioni effettuate, i principi pratici che guidano la pratica clinica REBT sono quindi maggiormente spiegabili in termini metacognitivi più che cognitivi, ponendo la REBT tra i precursori della Terza Ondata Cognitivista.

Metacognitive Therapy (MCT)

Gabriele Caselli esordisce riprendendo la concettualizzazione della distanza critica nei modelli ACT e TMI. L’ACT promuove l’idea di accettazione: “Di fronte al pensiero, permettigli di essere lì. Apriti e dagli spazio, dagli il permesso di essere dov’è, smetti di combatterci, dagli un po’ di spazio e respiraci dentro.”. Lasciare che il pensiero scorra e anzi, assumere un atteggiamento di fronte a questo pensiero in qualche misura accogliente. Ma non vi è forse il rischio – si interroga Caselli – che in questo modo si mantenga l’attenzione sul pensiero negativo? 

La TMI invece promuove una buona mastery mentalistica e sembra cercare di raggiungere l’obiettivo di distanza critica attraverso uno sforzo di corretta comprensione e previsione. L’idea sembra essere quella di diventare un corretto conoscitore, revisore, di quello che è il proprio stato mentale e delle sue origini, e conseguentemente della mente altrui, inserendo sia elementi di autoriflessività e di comprensione della mente sia di mastery.

La MCT taglia l’aspetto contenutistico: “Ho un pensiero (e i pensieri non sono fatti -> conoscenza metacognitiva), lo lascio lì e passo ad altro”.

 

Se i tre modelli condividono il tentativo di defusione, l’MCT ha lo scopo di arrivarci nel modo più diretto possibile e “crudo” nel ridurre qualsiasi forma di concettualizzazione. E questo è forse l’aspetto che la distanzia più di tutti dalla TMI.

Ma attenzione, ciò non significa che la MCT spinga a cercare di sopprimere oppure eliminare il pensiero o la sensazione negativa, bensì spinge affinché venga lasciato da parte: sento una serie di stimoli nell’ambiente, porto la mia attenzione sul mondo esterno e non su di me, bensì su ciò che è conforme ai miei obiettivi, su ciò che sto cercando, e non su ciò che mi minaccia o da cui sto fuggendo o che miro a controllare.

Come raggiungere questo obiettivo? La MCT è caratterizzata da una sequenzialità circolare continua e molto insistente di intervento verbale dialettico e intervento esperienziale; all’interno di una seduta vengono fatti diversi interventi di Detachment Mindfulness della lunghezza non superiore ai 3-4 minuti accompagnati da momenti di debriefing. Gli interventi verbali servono per rafforzare le conoscenze, gli interventi esperienziali per trasformare la teoria in qualche cosa che sia vicino alla vita del paziente. 

Gabrielle Caselli chiude l’intervento con un esempio che secondo lui indica perfettamente cosa sia il tipo di approccio e di modalità metacognitiva alla Wells. “Per recuperare questo esempio – sottolinea Caselli sorridendo – mi sono rifatto ad uno dei più grandi psicoterapeuti che abbiamo oggi in Italia… che è Giancarlo Dimaggio”. [Risate divertite tra il pubblico in attesa della prima stoccata tra i due storici duellanti]. In un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera – continua Caselli – Dimaggio racconta di essere stato ad un congresso in cui gli hanno presentato un caso on line:

[blockquote style=”1″]I miei neuroni-specchio impazziscono. Immedesimarmi in inglese con una donna norvegese è tremendamente difficile, chiedo aiuto agli amici, ai padri fondatori e, in ultimo, a Finn. Nessuno di loro è lì a coprirmi le spalle. Mi batte il cuore. La donna non se ne accorge, credo. [/blockquote]

Fino a qui, commenta Caselli, siamo in modalità ansiosa: parte una preoccupazione, l’attenzione è focalizzata sull’ansia, sull’agitazione. Il soggetto cerca rassicurazione nelle persone vicino. Ad un certo punto, però, semplicemente smette, non fa alcuna forma di autoriflessione, ma:

[blockquote style=”1″]Mi riprendo, divento lei, la seduta va alla grande, chiusura commovente.[/blockquote]

Giancarlo Dimaggio, Socio fondatore del centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, ha servito su un piatto d’argento a Gabriele Caselli un perfetto esempio di MCT: ho una preoccupazione, la lascio lì, guardo altro (Wells, 2008). Touché?

Terapia Metacogntiva Interpersonale (TMI)

Il simposio si chiude con l’intervento di Giancarlo Dimaggio che raccoglie divertito il testimone passatogli da Caselli. La Terapia Metacognitiva Interpersonale vede principalmente come target i pazienti con Disturbi di Personalità. Uno dei momenti centrali della terapia cognitiva è quando il paziente smette di trattare i suoi pensieri come un fatto di realtà. Le due colonne portanti del cambiamento terapeutico in TMI sono la ricostruzione assieme al paziente dello schema interpersonale disfunzionale e la promozione dell’accesso alle altri parti sane del sé (cioè il rinvigorirsi dell’agency).

In che modo i pazienti con Disturbo di Personalità dovrebbero differenziare?

– Assumendo vera e propria distanza critica, confutando un’idea creduta vera. (Questo punto si avvicina molto al modello di Beck.)

– Prendendo consapevolezza che oltre agli schemi negativi esistono immagini Sé-Altro più benevole a cui non si presta attenzione

– Prendendo consapevolezza che un’idea sulle relazioni è un dato appreso durante lo sviluppo e non una verità universale

– Non discutendo con il valore di realtà dell’idea, ma riconoscendo che la propria reazione alle azioni degli altri ha valenza soggettiva. (Questo punto ricorda molto Ellis e la REBT)

– Notando la fluttuazione nel grado di certezza delle proprie convinzioni. Se un’idea è vera una volta al 100% e una volta all’80% vuol dire che ha una componente soggettiva.

Come opera la TMI per promuovere la differenziazione?

– Il terapeuta nella relazione terapeutica invita il paziente a esplorare liberamente la propria mente

– Mostrando la ricorrenza delle evidenze attivando nel paziente la memoria autobiografica associativa attraverso la narrazione di episodi.

– Promuovendo l’agency sugli stati mentali (e non la differenziazione sugli schemi) tramite l’individuazione degli elementi di sofferenza soggettiva

– Usando come punto di osservazione aspetti sani del Sé che emergono in seduta e che sono schema-discrepanti, ponendo il paziente nelle condizioni di mettere in discussione le proprie convinzioni disfunzionali sulle relazioni interpersonali; non è il terapeuta a fare il Disputing con il paziente, ma è il paziente a farsi il Disputing da solo.

– Attraverso esperimenti comportamentali utilizzati non per promuovere inizialmente il cambiamento, ma per esplorare nuove aree con l’obiettivo di raccogliere il flusso dell’esperienza soggettiva prima, durante e dopo l’esperimento comportamentale.

– Attraverso il Disputing, che però con i pazienti con Disturbo di Personalità è bene fare a fine terapia quando sono guariti dal disturbo – sostiene Dimaggio – in quanto le tecniche della CBT classica funzionano molto bene con pazienti di Asse I, ma non con pazienti di Asse II.

Al termine del simposio Ruggiero commenta i modelli presentati. Secondo il Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” il problema delle terapie di Terza Ondata è riuscire ad usare il pensiero per pensare di meno… il che non è facilissimo!

La TMI sembra integrare varie tradizioni, dagli interventi di Sassaroli a quelli di Liotti a Semerari, però inseriti all’interno di una nuova cornice teorica, più ampia. Indubbiamente il confronto più approfondito – prosegue Ruggiero – andrebbe fatto tra il modello MCT e il modello TMI, ma non è sufficiente studiare sui libri per poter comprendere a fondo i modelli e discuterne, è necessario seguirne i corsi di formazione.

Detto questo, pare che la differenza tra il modello di Wells e il modello di Dimaggio risieda nel fatto che la MCT implica un addestramento diretto sull’attenzione che non può però esimersi dall’utilizzo della riattribuzione verbale delle metacognizioni e di un po’ di disputing, anche se lo fa in maniera estremamente economica; la TMI invece tende a farlo in maniera più ricca e differenziata, andando in maniera più dettagliata nella storia di vita del paziente (Sassaroli), nelle sue capacità metacognitive (Semerari), nelle sue storie relazionali (Liotti).

Restiamo in attesa, conclude Ruggiero, che il modello TMI venga testato empiricamente per avere una risposta sulla sua efficacia.

Il simposio è stato indubbiamente l’occasione per approfondire alcuni aspetti di modelli che uno psicoterapeuta cognitivo dovrebbe conoscere per poter arricchire il proprio bagaglio di formazione. Noi speriamo che venga mantenuta la promessa di organizzare nei prossimi anni ulteriori incontri sempre più strutturati dove Caselli e Dimaggio – e chiunque altro vorrà gettarsi nella mischia – potranno nuovamente “sfidarsi” in un nuovo stimolante incontro-scontro tra modelli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Psicopatologia, clinica e terapia della disintegrazione traumatica – SITCC 2014

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Simposio: Disintegrazione: psicopatologia e implicazioni terapeutiche

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Quando un paziente dissocia in seduta, cosa succede nel suo cervello in quel momento?

Consideriamo come funziona la mente: “La mente dell’uomo consiste in un’organizzazione gerarchica che, riflettendo la storia evoluzionistica, integra livelli anatomo-funzionali sempre più complessi in coordinazione tra loro. Ogni livello ha un’organizzazione anatomo-funzionale differente, si è evoluto per scopi e funzioni differenti e genera spinte motivazionali, comportamentali e livelli di cognitività differenti. I livelli superiori modulano e si coordinano con quelli inferiori costruendo le loro rappresentazioni e ai livelli più alti la mente rappresenta se stessa integrando l’attività delle sue componenti inferiori.

Rifacendosi alla teoria neojacksoniana sul funzionamento della mente, il Dott. Benedetto Farina spiega come le funzioni inferiori siano localizzate, stabili e poco flessibili, a differenza delle funzioni più alte, caratterizzate da elaborati network dotati di progressiva flessibilità e sofisticazione funzionale. Ma piuttosto che rimpiazzare i meccanismi inferiori, i sistemi superiori dipendono criticamente da questi sia per l’input di informazioni che per l’output comportamentale in maniera gerarchica  (Cacioppo & Bernoston, 2008).

Già Pierre Janet (1889) parlava di salute mentale come di uno stato caratterizzato da un’alta capacità di integrazione che riunisce un ampio spettro di fenomeni all’interno di un’unica personaltà. Oggi le neuroscienze hanno dimostrato che l’integrazione avviene non solo tramite connettività strutturale cerebrale, ma anche attraverso connettività dinamica: network cerebrali si attivano solo nel momento in cui viene attivata una data funzione, creando una rete tra le reti.

Le funzioni mentali integrative superiori sono quindi basate su network neuronali diffusi:

1)            questi network sono caratterizzati da reti di neuroni funzionalmente connessi tra di loro;

2)            sono reti dinamiche molto distribuite (reti di reti);

3)            questi network di connettività corticale giocano un ruolo fondamentale per funzioni come memoria di lavoro, funzioni esecutive, compiti e capacità attentive, stati di coscienza e coscienza di sé;

4)            si possono misurare in modo non invasivo attraverso la coerenza dei segnali EEG (EEG coherence). Attraverso l’analisi della EEG coherence è possibile, infatti, esplorare le connessioni funzionali tra aree cerebrali, in vivo, nell’ uomo e valutare la connettività corticale diffusa.

Durante il suo intervento il Dott. Farina ha mostrato un interessante studio (Farina et Al, 2014) in cui si è andato a valutare le modifiche della connettività corticale attraverso l’analisi della EEG coherence in soggetti con disturbi dissociativi e in controlli sani prima e dopo il recupero di ricordi di attaccamento elicitati attraverso la somministrazione della Adult Attachment Interview (AAI). Nel gruppo di controllo i ricordi di attaccamento hanno promosso un diffuso aumento della connettività EEG, in particolare nelle bande EEG ad alta frequenza. Rispetto ai controlli, i pazienti affetti da disturbo dissociativo non hanno mostrato un aumento della connettività EEG dopo la somministrazione dell’AAI. E’ noto che soggetti con attaccamento disorganizzato mostrano una riduzione della capacità di integrazione e delle capacità metacognitive. Questi risultati gettano luce sulla neurofisiologia dell’effetto disintegrativo del recupero di ricordi traumatici di attaccamento in pazienti dissociativi, fornendo un abbozzo di prova neurobiologica di ciò che accade nel cervello dei nostri pazienti con attaccamento disorganizzato quando in seduta sembrano “disintegrarsi” nel momento in cui viene chiamato in causa il sistema di attaccamento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  •  Pierre Janet, L’Automatisme Psychologique (1889). L’Harmattan, Paris, 2005 (Ed. It, L’automatismo psicologico, Milano, Raffaello Cortina, 2013.  ACQUISTA ONLINE
  • Cacioppo, J. T. & Berntson, G. G. (2008). Social neuroscience. In W. A. Darity (Ed.), International Encyclopedia of the Social Sciences (2nd Ed.), Farmington Hills, MI: McMillan/Thomson Gale.
  • Farina B, Speranza AM, Dittoni S, Gnoni V, Trentini C, Vergano CM, Liotti G, Brunetti R, Testani E, Della Marca G. (2014). Memories of attachment hamper EEG cortical connectivity in dissociative patients. Eur Arch Psychiatry Clin Neurosci. 2014 Aug;264(5):449-58.

 

 

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Il disturbo da ruminazione – Definizione Psicopedia

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Anche detto mericismo, si caratterizza per il continuativo rigurgito del cibo per almeno 1 mese.

Rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 (uscito nel maggio 2013), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria. Nella versione precedente era inserito nel paragrafo “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”, del capitolo “Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza”.

 

Anche detto mericismo, si caratterizza per il continuativo rigurgito del cibo per almeno 1 mese. Di solito è un comportamento quotidiano. Il cibo, prima ingerito, anche parzialmente digerito, viene rigurgitato in bocca, può essere poi rimasticato, ringoiato o sputato, senza nausea o disgusto o conati di vomito.

La funzione del comportamento appare autoconsolatoria e di autostimolazione.

Per la diagnosi è necessaria l’esclusione di condizioni gastrointestinali associate quali il reflusso gastroesofageo, stenosi del piloro, gastroparesi, ernia itale o il decorso di altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, dove il rigurgito con eliminazione sono una modalità di smaltimento delle calorie ingerite.

L’esordio è lungo l’intero arco della vita soprattutto in soggetti con disabilità intellettiva; in questo caso viene apposta la diagnosi di disturbo da ruminazione solamente in presenza di un quadro clinico importante, come anche in comorbilità di un altro disturbo mentale. In età infantile compare solitamente fra i 3 e 12 mesi, andando frequentemente incontro a remissione spontanea; si manifesta con l’incapacità di raggiungere gli aumenti di peso previsti; rara è la malnutrizione grave.

Il decorso può essere episodico o continuativo.

In adolescenti e adulti con concomitante altro disturbo mentale si verificano comportamenti di evitamento, quali il mangiare in pubblico o l’alimentarsi prima di situazioni sociali, di mascheramento della condotta, tossendo o coprendosi la bocca con la mano.

 

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Psicopatologia oggi: la struttura del Sé nei disturbi alimentari

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM – 5). Raffaello Cortina editore.  ACQUISTA ONLINE

Controlli e pulisci molto? Avrai fatto qualcosa di immorale!

FLASH NEWS

In un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychological Science, si è indagato se una specifica categoria di colpa potesse essere legata alle tipiche compulsioni nel disturbo ossessivo-compulsivo.

Il disturbo ossessivo-compulsivo implica la fissazione cognitiva (ossessione) su specifici pensieri e il bisogno di effettuare una serie di comportamenti ripetitivi (compulsioni), come ad esempio lavarsi le mani esageratamente oppure controllare più e più volte che la porta di casa sia chiusa (soltanto due tra moltissimi altri esempi).

In letteratura è già ampiamente dimostrato che vi sarebbe in tali persone un eccesso di responsabilità, o meglio di colpa, nel pensare all’eventualità e alle conseguenze di catastorfi temute (es. la porta di casa è aperta, rischi di contaminazione).

In un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychological Science, si è indagato se una specifica categoria di colpa potesse essere legata alle tipiche compulsioni nel disturbo ossessivo-compulsivo.

In particolare i ricercatori si sono focalizzati su due tipi di colpe: la colpa altruistica e la colpa deontologica.

La prima implica una preoccupazione e compassione per le potenziali vittime delle proprie azioni anche incidentali, e non necessariamente una deviazione dai propri standard morali; la colpa deontologica invece si fonda sulla credenza individuale per cui si è violata una regola morale indipendentemente dai danni causati ad altri.

Dunque l’ipotesi di partenza era che le persone con un forte senso di colpa deontologico – più che altruistico – fossero portate a maggiori compulsioni di controllo e di lavaggio, e che tali compulsioni avessero la funzione di diminuire in maniera più rilevante il senso di colpa deontologico.

In due esperimenti i soggetti erano chiamati ad ascoltare una audioregistrazione di una storia elicitante un senso di colpa altruistico, deontologico oppure neutra: nel primo esperimento i soggetti sono stati sottoposti a un task di distribuzione di palline in contenitori, mentre nel secondo esperimento veniva chiesto loro di pulire un cubo di plexiglas.

In entrambe le condizioni alcuni giudici indipendenti avevano la funzione di valutare quanto spesso nel primo caso fossero portati a controllare le palline già distribuite nei contenitori (compulsione di controllo) e nel secondo con quanta precisione i soggetti pulissero il cubo di plexigals.

In conformità alle attese dei ricercatori, una maggior quota di comportamenti compulsivi di controllo e di pulizia si sono riscontrate nella condizione in cui era stata indotta una emozione di colpa deontologica rispetto alla condizione di colpa altruistica.

I risultati – sebbene siano ottenuti da un campione non clinico- possono quindi contribuire e arricchire i modelli teorici del disturbo ossessivo compulsivo.

 

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Il disturbo ossessivo compulsivo resistente: il ruolo delle credenze

 

BIBLIOGRAFIA:

Nuovi strumenti per la diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico

FLASH NEWS

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Yeshiva sostiene che la velocità con cui il cervello elabora stimoli come immagini e suoni potrebbe essere un indice utilizzato nella diagnosi precoce e nella categorizzazione dei Disturbi dello Spettro Autistico.

Il Centro statunitense per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie stima che 1 su 68 bambini vengono diagnosticati con un Disturbo dello Spettro Autistico (ASD). I segni e i sintomi dell’ASD variano da lievi difficoltà sociali e di comunicazione a profondi disturbi cognitivi.

Come sottolineato da Sophie Molholm, autore del presente studio, “Una delle sfide riguardanti il Disturbo Dello Spetro Autistico è di definire e classificare con precisione i pazienti in sottogruppi in base alla sintomatologia presentata; non riuscire ad avere dei criteri precisi per la classificazione ha notevolmente limitato la comprensione del disturbo e di come trattarlo”.

Inoltre la ricercatrice sostiene che l’autismo viene diagnosticato in base alla sintomatologia comportamentale presentata dal paziente. La diagnosi quindi oltre a richiedere tanta esperienza clinica, può essere soggettiva. In conclusione, da quanto riportato dalla ricercatrice emerge come sia necessario costruire dei criteri più obiettivi per la diagnosi e la classificazione di questo disturbo. 

A tal scopo è stato costruito il presente studio che si focalizza su come l’elaborazione sensoriale possa variare all’interno dei disturbi dello spettro autistico. Sono stati testati quarantatré bambini affetti da ASD con età compresa tra 6 e 17 anni.

Durante la prova sperimentale ai bambini venivano presentati degli semplici stimoli uditivi: uno suono, visivi: l’immagine di un cerchio rosso o misti: uditivo e visivo (un immagine accompagnata da un suono). Il compito consisteva nel premere un pulsante immediatamente dopo la presentazione degli stimoli: visivi, uditivi o misti. Attraverso una cuffietta composta da 70 elettrodi, studiata appositamente per l’età pediatrica, veniva registrata l’EEG durante la presentazione degli stimoli. Lo scopo dello studio era di determinare la velocità con cui il cervello elaborava gli stimoli presentati durante il compito sperimentale.

Dai risultati è emerso che la velocità con cui i bambini elaboravano gli stimoli uditivi era fortemente correlata alla gravità dei loro sintomi. Questi dati sono in linea con gli studi che suggeriscono come la microarchittetura dei centri deputati a processare l’informazione uditiva sia diversa nei bambini con lo sviluppo tipico rispetto a quelli con ASD. 

Inoltre dai risultati è emerso una correlazione anche se più debole tra la velocità con cui venivano elaborati i stimoli audio-visivi e la gravità del quadro sintomatologico dell’ASD. Nessuna associazione è stata trovata tra la l’elaborazione degli stimoli visivi e la severità della sintomatologia ASD.

La dottoressa Molholm sostiene che tali risultati sono incoraggianti e che approfonditi potrebbero condurre allo sviluppo di un biomarker attendibile che potrebbe predire i diversi gradi di severità dei Disturbi dello Spetro Autistico.

Inoltre l’utilizzo dell’EEG potrebbe essere utilizzato con successo nella diagnosi precoce di ASD: una diagnosi precoce permetterebbe l’accesso immediato alle terapie. Ad oggi meno di 15% dei bambini affetti da ASD vengono diagnosticati prima dei 4 anni.
 

Emerge come attraverso l’uso della metodologia EEG si potrebbe costruire uno strumento in grado di consentire la diagnosi precoce dell’ASD che di conseguenza permetterebbe l’accesso immediato alle cure per i bambini che le necessitano.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Se ti chiedo aiuto raccontami te stesso!

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera, Domenica 12 Ottobre 2014

Chi presta aiuto, deve facilitare la comunicazione nei più reticenti. Come? Innanzitutto creando un senso di comunanza.

Non date per scontato che se chiedete aiuto, allo psicoterapeuta, all’amica fidata, al prete, racconterete quello che è necessario a chi vi ascolta.  In presenza di un problema si alza il senso di allarme: riceverò attenzione? Mi rifiuterà? Penserà di me che sono un idiota, un inetto, che sono debole, si approfitterà di me? Se vi trovaste in difficoltà e doveste chiedere aiuto a Frank Underwood –  sì, lui il protagonista di House of Cards – avreste anche ragione.

Il risultato, nel complesso, è che in presenza di dubbi, paure e diffidenza la possibilità di chiedere aiuto e beneficiarne diminuisce drammaticamente. Chi presta aiuto (stesse categorie di prima), deve facilitare la comunicazione nei più reticenti. Come? Innanzitutto creando un senso di comunanza. Noi psicoterapeuti usiamo una strategia che chiamiamo self-disclosure (autosvelamento). Raccontiamo qualcosa di nostro, di vero, che ci sembra simile al problema del paziente. L’effetto di tale comunicazione: riduce la differenza di rango, il curante scende dal piedistallo, rinuncia al potere, l’altro si rilassa. Se aveva timori di umiliazione si ridurranno. Un altro effetto: se chi ci ascolta ci percepisce simili, immagina la nostra mente più ricca, piena di idee e sentimenti che lui stesso pensa e prova. Se ci percepisse diversi, ci fantasticherebbe stranieri e per lui diventeremmo un fantasma minaccioso o uno stereotipo. Agli stereotipi non si chiede aiuto mica tanto volentieri.

Altra strategia: non badiamo troppo alle idee che una persona ha sul perché il suo mondo va in malora. Le opinioni sono buone per i talk show. A me di solito annoiano. A noi interessano fatti, episodi. Precisi. E quelli chiediamo. Facilitiamo il racconto dettagliato di episodi autobiografici. E mentre la persona racconta, al minimo cenno di chiusura, con un guizzo portiamo l’attenzione al comportamento non-verbale. Le espressioni facciali. Una nube di tristezza che vela gli occhi. Una scarica di rabbia che contrae le labbra. La nostra prontezza è dire: vedo qualcosa nel suo sguardo. È paura? Ha chinato il capo, si vergogna? Ricordate Tim Roth in Lie to Me? “C’è rabbia lì”. Qualcosa del genere, solo che rispetto a lui siamo meno sfacciati, più gentili e soprattutto vogliamo aiutare, non smascherare la menzogna.

Ultimo strumento. Di fronte a ogni cenno di malinteso, difficoltà,  chiusura, non puntiamo il faro sull’altro: “Lei è chiuso, ostile, che le succede?”. Al contrario assumiamo noi per primi la responsabilità dell’impasse comunicativa. “Sento che è irritato con me? Ho fatto qualcosa che può averla ferita?”. Tutto quello che segue è negoziazione nella relazione. Nello studio dello psicoterapeuta, almeno lì dentro, funziona. Fuori da lì?

 

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Terapia metacognitiva: come non usare la mente per controllare la mente! Congresso SITCC 2014

Terapia metacognitiva: come non usare la mente per controllare la mente!

Congresso SITTC 2014

Dott. Gabriele Caselli
Studi Cognitivi, Modena, Italy
London South Bank University, London, UK

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Modello Metacognitivo di Craving e Dipendenze Patologiche 

 Gabriele Caselli, London South Bank University London, UK, Studi Cognitivi Cognitive Psychoterapy School Milano
Marcantonio M. Spada,  London South Bank University London, UK, North East London NHS Foundation Trust, London, UK

 

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Processi di categorizzazione sociale e d’interdipendenza nelle organizzazioni

Relativamente poche ricerche si sono focalizzate sulle relazioni tra gruppi nel campo specifico delle organizzazioni; l’obiettivo del seguente elaborato consiste nel presentarne l’importanza, focalizzandosi sui processi di categorizzazione e d’interdipendenza.

I lavoratori nelle organizzazioni possono essere considerati ciò che Kurt Lewin (1948) ha definito gruppi sociali, ossia un certo numero di individui che interagiscono reciprocamente con regolarità. Si potrebbe considerarli, inoltre, gruppi secondari (anche se questa classificazione spesso è giudicata troppo schematica), vale a dire formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma prevalentemente di tipo impersonale, giacché determinati da scopi pressoché pratici (Palmonari, Cavazza & Rubini, 2002), nonostante spesso si possano trasformare in gruppi primari, ossia legati da vincoli di natura emotiva.

Essi rappresentano il fattore umano delle organizzazioni, e costituiscono una parte determinante di queste ultime; risulta dunque importante studiare i processi alla base dell’interazione dei gruppi, in modo tale che si possano prevederne e gestirne le dinamiche. Lo studio delle relazioni tra i gruppi è stato prevalentemente oggetto della psicologia sociale (insieme alla sociologia e all’antropologia), ma relativamente poche ricerche si sono focalizzate su tali relazioni nel campo specifico delle organizzazioni; l’obiettivo del seguente elaborato consiste nel presentarne l’importanza, focalizzandosi sui processi di categorizzazione e d’interdipendenza.

Categorizzazione sociale e interdipendenza

Le teorie dell’identità sociale, della categorizzazione del sé e dell’interdipendenza

Le teorie sulla categorizzazione sociale enfatizzano il ruolo della categorizzazione nelle relazioni intergruppi. Fra queste, le più note sono la Teoria dell’Identità Sociale, sviluppata da Tajfel e Turner a partire dagli anni ’70 e la Teoria della Categorizzazione del Sé di Turner e collaboratori (1987).

La categorizzazione definisce l’insieme dei processi cognitivi che tendono a ordinare e a semplificare l’ambiente in termini di categorie (gruppi di persone, di oggetti, di avvenimenti) secondo caratteristiche che si ritengono in comune, accentuando le somiglianze intracategoriali e le differenze intercategoriali (Tajfel & Wilkes, 1963, citati da Palmonari et al., 2002). La categorizzazione sociale permette di costruire una rappresentazione semplificata dell’ambiente sociale, collegata a valutazioni stereotipiche in cui si tende a valorizzare il proprio gruppo/categoria di appartenenza (ingroup) e a discriminare gli altri gruppi/categorie (outgroup). Questo processo è meglio conosciuto come bias ingroup-outgroup, particolarmente dimostrato dagli esperimenti di Rabbie e Horwitz (1969) sul destino comune ispirati dagli studi lewiniani sui gruppi minimi.

La Teoria dell’Identità Sociale (SIT) si focalizza sugli aspetti motivazionali e affettivi delle appartenenze di gruppo, rendendo quest’ultimo fonte di origine dell’identità sociale. In contrasto con la nozione di competizione realistica di Sherif (1966), Tajfel e Turner (1979) svilupparono il concetto di competizione sociale, in cui i gruppi possono impegnarsi per difendere o acquisire un certo status. In essa entra in gioco il processo di categorizzazione sociale, seguito dal processo di identità sociale, ossia quella parte della concezione di sé di un individuo che deriva dalla consapevolezza di essere membro di uno o più gruppi sociali, e il confronto sociale con altri gruppi, che determina quale sia il valore relativo di certe caratteristiche del gruppo (Palmonari et al., 2002).

La Teoria della Categorizzazione del Sé (SCT) si differenzia dalla SIT poiché pone maggior enfasi sui processi cognitivi del comportamento di gruppo. Essa cerca di mostrare attraverso quali processi le persone giungano a concettualizzare se stesse come appartenenti a determinate categorie sociali (Palmonari et al. 2002). Palmonari et al. (2002) aggiungono che il concetto sociale di sé dipende dalla situazione: le categorie sociali che saranno salienti in un certo contesto attiveranno diverse categorizzazioni sociali del sé, in modo tale che sia attivata la categorizzazione più attinente e che renda la categoria più facilmente accessibile.

Prima di associare i processi appena descritti al contesto delle relazioni intergruppi nelle organizzazioni, occorre accennare brevemente la prospettiva dell’interdipendenza. Secondo Sherif (1966), le persone che devono raggiungere uno scopo attraverso azioni interdipendenti diventano un gruppo con specifiche norme, ruoli gerarchici e relazioni di status tra i membri; l’interdipendenza sarà positiva se si riferisce a scopi sovraordinati, raggiungibili attraverso la cooperazione fra gruppi, mentre sarà negativa se la relazione fra i gruppi è competitiva. Secondo Rabbie e Horwitz (1969), non è necessaria un’effettiva relazione competitiva tra i gruppi per osservare comportamenti differenziali (bias ingroup/outgroup) ma basta un’interdipendenza del destino. L’interdipendenza percepita intra e intergruppi determina il destino comune, lo status, la dimensione e il potere dei gruppi, e costituisce la variabile mediatrice dell’effetto di questi fattori sull’insorgenza del bias ingroup/outgroup (Rubini & Moscatelli, 2004).

 

La categorizzazione sociale e l’interdipendenza nelle organizzazioni

La categorizzazione sociale nelle organizzazioni

A questo punto, dunque, si possono analizzare i processi che sottostanno alle relazioni fra i gruppi in un’ottica particolarmente mirata alle organizzazioni. Innanzitutto si può affermare che lo status del gruppo si riflette sul sé; quindi come lo status e la performance individuali possono essere determinati dal confronto sociale, lo status di un gruppo è determinato dal confronto sociale con gli outgroups. In altre parole, in un’organizzazione, se un gruppo detiene uno status più elevato confronto a un altro gruppo – ad esempio perché si comporta meglio, possiede un ruolo più privilegiato, o svolge un compito con maggiore prestigio organizzativo – ciò si riflette positivamente sull’identità sociale dei membri dell’ingroup (van Knippenberg, 2002). Questo processo del tutto naturale nei gruppi può costituire un vantaggio per l’organizzazione, perché ogni gruppo tende a sovraperformare gli altri, ma potrebbe generare anche degli effetti negativi, prevalentemente rappresentati dal bias favorevole all’ingroup (come avere fiducia eccessiva o dare valutazioni positive a priori verso i membri del proprio gruppo, ecc.) e da atteggiamenti discriminatori verso l’outgroup (van Knippenberg, 2002).

Le motivazioni che portano i gruppi a cadere nel bias favorevole per l’ingroup sono molteplici. Alcune ricerche dimostrano che il bias aumenti l’autostima dei gruppi. Ulteriori ricerche (per una rassegna, si veda ad esempio Hewstone, Rubin & Willis, 2002) hanno dimostrato il bisogno di mantenere la distintività di gruppo: i membri di un gruppo sono portati a valorizzare un’identità distinta che differenzia il proprio gruppo dagli altri (Brewer, 1991, citato da van Knippenberg, 2002). Quando la distintività è minacciata, cioè quando ad esempio sono intaccati i confini intergruppo (come in una fusione), i gruppi possono incorrere in comportamenti di favoritismo sull’ingroup per mantenere o ripristinare il loro carattere distintivo. Tuttavia spesso si presume che il comportamento problematico intergruppo abbia origine dalle differenze tra i gruppi e che quindi aumentare e sottolineare le analogie intergruppi sarebbe un rimedio per le relazioni problematiche intergruppi (van Knippenberg, 2002); ciò dimostra che non ci sono ancora in letteratura studi che diano certezze assolute sulle dinamiche trattate.

Per quanto riguarda invece la discriminazione per l’outgroup, bisognerebbe tener conto del fatto che un individuo può identificarsi con un gruppo, ma quest’appartenenza al gruppo può non essere sempre saliente: essa può esserlo soltanto in determinate occasioni (minacce all’identità sociale o una competizione fra gruppi). Inoltre, non tutti gli outgroups sono così salienti da costituire una minaccia per la distintività di gruppo (perciò ipoteticamente il confronto sociale può avvenire fra due team di produzione, piuttosto che fra due team che operano in contesti del tutto differenti). Tenendo inoltre conto che l’anticipazione di diventare un membro di un altro gruppo può attenuare sostanzialmente i pregiudizi nei confronti di quel gruppo (Tajfel, 1978), si potrebbe affermare che in organizzazioni in cui i confini sono permeabili, dove si può facilmente passare da un gruppo all’altro, la probabilità d’insorgenza del bias è minore.

Ulteriori ricerche hanno dimostrato anche gli effetti di altri moderatori del bias intergruppi, fra cui le motivazioni inerenti alla cultura (più bias in gruppi collettivisti che individualisti), alla dimensione dei gruppi, alla disparità di potere, ecc. (Hewstone et al., 2002).

Seguendo le nozioni delle teorie descritte in precedenza, soprattutto della SCT, le relazioni intergruppi si riflettono sul rapporto del gruppo con l’organizzazione (Kramer, 1991), portando gli individui ad accentuare le differenze intergruppo e le somiglianze infragruppo a seconda della situazione. Ciò comporta effetti negativi (bias a favore dell’ingroup, pregiudizi, discriminazioni), ma può sorgere un ulteriore problema per l’organizzazione: se vengono accentuate le differenze fra i gruppi all’interno dell’organizzazione, gli individui opereranno sempre più frequentemente nel livello intermedio che prende in considerazione il proprio gruppo in confronto agli altri, e tralasceranno il livello superiore d’identificazione con l’organizzazione. Una mancata identificazione con l’organizzazione da parte del lavoratore potrebbe portare a una serie di bad behaviors (assenteismo, propensione a lasciare il lavoro, scarse performance, ecc.) e, per questo, dovrebbe rappresentare una priorità per le organizzazioni gestire le dinamiche intergruppo tenendo conto che in una fusione o in un’acquisizione la questione potrebbe perfino complicarsi.

L’interdipendenza nelle organizzazioni

In un gruppo di lavoro, l’interdipendenza di obiettivi, d’interessi e risultati, può essere un forte promotore dell’affiliazione di gruppo e del comportamento tra i membri (Rubini & Moscatelli, 2004). I gruppi nelle organizzazioni operano in un contesto di relazioni d’interdipendenza con altri gruppi. Si può vedere il gruppo come un insieme di membri che sono interdipendenti positivamente per raggiungere uno scopo comune, e si può vedere l’organizzazione come un insieme di gruppi interdipendenti che lavorano per raggiungere lo scopo dell’organizzazione stessa. L’interdipendenza fra gruppi in un’organizzazione può essere anche indiretta, come per esempio il reparto vendite che dipende dal reparto produzione, e viceversa. Essa può essere anche negativa: i gruppi possono competere per l’acquisizione di risorse all’interno delle organizzazioni, come l’acquisizione del tempo in laboratorio, di ricompense organizzative, dello spazio in ufficio, ecc. Tali situazioni sono potenzialmente causa di conflitto intergruppi e possono costituire una minaccia per il funzionamento organizzativo, poiché il conflitto d’interessi fra gruppi che cooperano ostacola il buon funzionamento degli stessi, inoltre ciò può ostacolare anche altri gruppi che si trovano a cooperare con quelli interessati. Questo non vuol dire che la competizione intergruppo è necessariamente un male per le organizzazioni. Erev, Bornstein, e Galili (1993), per esempio, sostengono che il conflitto intergruppi può promuovere la cooperazione e le prestazioni intragruppo. Senza dubbio, come afferma van Knippenberg (2002), per un buon funzionamento organizzativo, se l’interdipendenza negativa è inevitabile, il clima di concorrenza deve essere quantomeno “amichevole” e sportivo.

Conclusioni

La categorizzazione sociale e l’interdipendenza rappresentano certamente i processi fondamentali per l’analisi delle relazioni intergruppi nelle organizzazioni. Alla luce di tutto ciò, sarebbe utile sviluppare più ricerche nell’ambiente organizzativo e si pone l’accento sull’importanza della psicologia delle organizzazioni nell’offrire un prezioso contributo alla ricerca di soluzioni ottimali per gestire le dinamiche intergruppi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Erev, I., Bornstein, G., & Galili, R. (1993). Constructive intergroup competition as a solution to the free rider problem: A field experiment. Journal of Experimental Social Psychology, 29, 463-478.
  • Hewstone, M., Rubin, M., & Willis H. (2002). Intergroup bias. Annual Review of Psychology, 53, 575-604.
  • Kramer, R. (1991). Intergroup relations and organizational dilemmas. Research in Organizational Behavior, 13, 191-228.
  • Palmonari, A., Cavazza, N., & Rubini M. (2002). Psicologia sociale. Il Mulino, Bologna. ACQUISTA
  • Rabbie, J.M., & Horwitz, M. (1969). Arousal of ingroup-outgroup bias by a chance of win or loss. Journal of Personality and Social Psychology, 3, 269-277.
  • Rubini, M., & Moscatelli, S. (2004). Categorie e gruppi sociali: alle origini della discriminazione intergruppi. Giornale italiano di psicologia. 31, 1, 45-69.
  • Rubini, M., & Moscatelli, S. (2004). Categorizzazione ed interdipendenza: due punti di vista epistemologici per lo studio delle relazioni intergruppi. Giornale italiano di psicologia. 31, 4, 875-886.
  • Tajfel, H., & Turner, J.C. (1979). An integrative theory of intergroup conflict. In W.G., Austin, S., Worchel (eds.), The social psychology of intergroup relations. Monterey, CA: Brooks/Cole, 33-47.
  • Turner, J.C., Hogg, M.A., Oakes, P.J., Reicher, S.D., & Wetherell, M.S. (1987). Rediscovering the social Group: A self-categorisation theory. Oxford: Blackwell.
  • van Knippenberg, D. (2002). Intergroup relations in organizations. In M. West, D. Tjosvold, & K. G. Smith (Eds.). International handbook of organizational teamwork and cooperative working. Chichester, UK: Wiley.
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