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Condividere con gli altri momenti epici della propria vita può avere dei costi sociali

FLASH NEWS

Sarebbe bello poter condividere con gli altri le nostre straordinarie esperienze – quella volta che abbiamo scalato il Kilimanjaro, assaggiato un vino speciale o incontrato per strada un personaggio famoso. Tuttavia, alcuni studi dimostrano che comunicare agli altri questi momenti “epici” può avere dei costi a livello sociale.

Cooney e T. Gilbert dell’Harvard University e Timothy D. Wilson dell’University of Virginia, hanno condotto uno studio volto esattamente ad indagare le conseguenze profonde della condivisione di un vissuto personale fuori dal comune. L’idea nasce dalle sensazioni esperite dagli autori stessi, così diverse da quanto immaginato nel senso comune:

Pensiamo sempre che il fatto di aver vissuto un’esperienza straordinaria ci porrà al centro della conversazione e, in generale, al centro dell’attenzione. Ma non è così. Essere straordinari significa essere diversi dalle altre persone e, al contrario, l’interazione sociale si fonda sulle somiglianze e le cose in comune“.

Si potrebbe dunque ipotizzare che raccontare un tale genere di avvenimenti abbia più costi che benefici.

Per approfondire questo tema, Cooney e i suoi colleghi hanno invitato 68 partecipanti allo studio a recarsi in laboratorio e sono stati suddivisi in gruppi di quattro persone. A ciascuno di questi piccoli gruppi, veniva mostrato ad una persona un video che aveva ricevuto il massimo punteggio di gradimento (4 stelle) dai fruitori. In tale video si poteva osservare un artista di strada proporre eccezionali trucchi di magia ad un’ampia folla di osservatori. Ai restanti tre membri del gruppo veniva mostrato un video animato al quale era stato attribuito un punteggio di gradimento piuttosto basso (due stelle). I partecipanti erano consapevoli di quale tipologia di  video fosse stata assegnata loro e quale invece agli altri. Dopo aver visto i video, ai soggetti era richiesto di sedersi attorno ad un tavolo e instaurare una conversazione non strutturata che durasse all’incirca 5 minuti.

Dallo studio emerge che le persone che hanno visto il video con maggiore punteggio di gradimento, ovvero coloro che avevano vissuto una situazione più insolita e fuori dal comune, hanno sperimentato sensazioni peggiori rispetto agli altri nel contesto del dialogo di gruppo, in quanto si sarebbero sentiti esclusi.

Dati aggiuntivi suggeriscono che le esperienze straordinarie potrebbero suscitare sentimenti di frustrazione anche perchè il costo sociale di vivere un’esperienza diversa che separa dagli altri non viene in nessun modo anticipato. Infatti, ai partecipanti di due ulteriori studi in questo campo, veniva anche chiesto di immaginare come si sarebbero sentiti se fossero stati loro ad avere l’occasione di vedere un video differente da quello somministrato agli altri. Come previsto, essi hanno erroneamente affermato che si sarebbero sentiti meglio di coloro che avevano vissuto un’esperienza ordinaria. A ciò aggiungevano che sarebbero stati molto partecipi alla discussione avvenuta dopo, senza sentirsi in alcun modo esclusi.

Insomma, dai dati a disposizione emerge una generale tendenza a sentirsi esclusi nel momento in cui si cerca di condividere con gli altri un vissuto veramente fuori dal comune, e comunque non alla portata di tutti.

Sarebbe dunque importante scegliere bene il momento e le persone a cui si decide di raccontare le proprie esperienze straordinarie, per evitare di sentirsi esclusi e rimanere, di conseguenza, molto delusi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La Professione Psicologica: partecipa alla ricerca!

La Professione Psicologica

Università Bicocca Milano – Associazione Innovazione Sostenibile

 

Gentile collega,

il seguente questionario è stato realizzato allo scopo di approfondire alcuni aspetti riguardanti la professione psicologica. Più in generale, riteniamo importante svolgere una ricerca volta a conoscere i modi con cui gli psicologi e gli psicoterapeuti si rapportano alla propria utenza, promuovendosi e svolgendo la loro attività professionale anche tramite l’utilizzo di dispositivi web e social.
Il questionario intende raccogliere dei dati preliminari a questo scopo.

Nel compilare il questionario Le potrà capitare di notare come alcune domande si prestino a più interpretazioni, così come di non riconoscersi immediatamente in nessuna delle alternative proposte. In questi casi, Le chiediamo di “forzarsi” e dare comunque una risposta, sempre seguendo il Suo personale punto di vista.
Il tempo necessario alla compilazione è di circa 8-10 minuti.
Le Sue risposte saranno elaborate statisticamente solo in forma aggregata, in modo da garantire in maniera assoluta il Suo diritto alla riservatezza, alla non riconoscibilità e all’anonimato.

Grazie per la collaborazione.

Rossana Actis Grosso e Roberta Capellini – Università Bicocca di Milano
Elisabetta Di Girolamo e Marco Guidi – Associazione Innovazione Sostenibile

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Corpo a “corpo spezzato”: l’embodiment del terapeuta in formazione con il paziente mieloso – Congresso SITCC 2014

Corpo a “corpo spezzato”

L’embodiment del terapeuta in formazione con il paziente mieloso

Congresso SITCC 2014

Sara Poggio

Psicologa specializzanda presso Scuola di Formazione in Psicoterapia Cognitiva, Centro Terapia Cognitiva, sede di Torino; Tirocinio di Specialità – SSA Psicologia (Dir. G. Montobbio; Tutor P. Valorio) – ASO SS Antonio e Biagio e C. Arrigo Alessandria

 

SCARICA IL PROGRAMMA DEL CONGRESSO

 

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Otto Kernberg: La sessualità nel transfert – Report dal Congresso di Parma

Il Prof. Kernberg ha aperto la sua riflessione sulla sessualità nel transfert chiarendo come, per ragionare  sulla sessualità umana, occorra far riferimento non soltanto ai contributi in ambito psicoanalitico (in primis la cornice teorica data dalle intuizioni di Freud sulla costituzione della libido e dell’aggressività) bensì anche alle più recenti scoperte neurobiologiche, in particolare quelle legate agli studi sull’attaccamento.

VEDI DETTAGLI EVENTO: 3rd ISTP CONFERENCE – OCTOBER 13-15, 2014

La sessualità, per Kernberg, inizia a plasmarsi dai primissimi giorni di vita; la figura di attaccamento, accarezzando il bambino e mettendo in atto attività di cura fisicamente piacevoli, modella le prime esperienze erotiche del neonato, che prendono poi forma nell’idealizzazione del corpo materno da una parte, e nelle forme di aggressività contro di esso dall’altra.

Questi profondi stati dell’esperienza psichica saranno la base per il costituirsi di stati affettivi di natura positiva e negativa, che a loro volta porteranno al formarsi di relazioni oggettuali “buone” o “cattive”, la cui integrazione è presupposto indispensabile per un funzionamento psichico sano.

L’amore maturo costituisce la più alta e funzionale manifestazione della sessualità umana, mentre nelle sue distorsioni (come ad esempio nelle patologie narcisistiche) si possono individuare regressioni a meccanismi difensivi primitivi, che portano ad esempio alla svalutazione, sistematica e talvolta inconsapevole, dell’oggetto d’amore.

La capacità d’amare implica la capacità di entrare in relazione intima con l’altro, ecco perché la passione autentica prevede che ci sia un’integrazione di dimensioni apparentemente molto distanti tra di loro: attaccamento, erotismo, desiderio sessuale, intimità.

Una dimensione così pervasiva del funzionamento biologico e psicologico non può, secondo Kernberg, essere ignorata nelle riflessioni inerenti la relazione terapeutica.

Così come è fondamentale monitorare le componenti aggressive che possono connotare il tranfert e il controtranfert, altrettanto importante è tenere in considerazione le componenti sessuali, spesso costituite da fantasie a sfondo erotico che il paziente può fare sul terapeuta, ma anche viceversa.

Tale consapevolezza  deve guidare anche la fase di assessment, e non solo quella di trattamento vero e proprio; il terapeuta non deve trascurare di chiedersi quale sia il funzionamento sessuale del paziente, se nella sua vita siano in corso conflitti di coppia, quanto tolleri l’intimità, come potrebbe funzionare se non fosse irretito da certe inibizioni e distorsioni caratteriali che interferiscono con la sfera intima e sessuale.

Tutto questo partendo dal presupposto che siamo tutti esseri erotici, e quindi l’erotismo pervade inevitabilmente tutte le nostre relazioni, siano esse professionali, famigliari, affettive, sociali.

Partendo da questo presupposto, la disposizione erotica del paziente può fornire al clinico molte informazioni: nella sessualità normale affettività ed erotismo sono ben integrati e riflettono una rappresentazione positiva delle relazioni oggettuali.

Al contrario relazioni oggettuali distorte possono portare a manifestazioni psicopatologiche di diverso grado: un esempio è dato dai pazienti sadomasochistici i quali, guidati da relazioni oggettuali caotiche, si ingaggiano in rapporti con partner umilianti e maltrattanti, spesso sfidando provocatoriamente anche il terapeuta in modo tale da portarlo a trattarli allo stesso modo.

Diversamente, nel contesto delle patologie narcisistiche, il paziente è portato talvolta ad una negazione difensiva dell’impulso erotico nel transfert, dovuta ad una esagerata interferenza del Super-Io.

Il problema del narcisismo può purtroppo riguardare anche i terapeuti, quando succede che questi traggano soddisfazione dall’essere idealizzati dal paziente e colludano con le sue manovre seduttive.

Ancora una volta, definire in maniera scrupolosa il contratto e il setting terapeutico può intervenire a tutelare sia il paziente che  il terapeuta; se esiste la possibilità di ricondursi ad un frame che sia chiaro e non ambiguo, anche le situazioni più problematiche possono essere risolte o interpretate.

In generale, quindi, Kernberg incoraggia una maggior attenzione alla dimensione sessuale della relazione terapeutica, e invita gli analisti ad essere pronti a tollerare le fantasie (proprie e del paziente) e le regressioni primitive, chiedendosi sempre quale significato possano avere in seduta.

Per chiarire questo punto, utilizza un aneddoto legato alla sua esperienza di terapeuta; racconta di una paziente che era solita presentarsi in seduta con un aspetto pesantemente trascurato e con addosso sempre lo stesso abito nero, maleodorante e sporco di cenere di sigaretta.

L’abito era però indossato in modo tale da lasciare puntualmente intravedere il seno, un seno gradevole alla vista e che  insinuava nel terapeuta un’eccitazione sessuale.

Come gestire una situazione del genere in seduta? Non (come qualcuno tra il pubblico ha proposto) con una manovra di cauta self-disclosure (“Vogliamo ragionare sul fatto che il suo seno mi sta eccitando?”) il che avrebbe potuto evocare nella paziente una reazione non del tutto opinabile (“Senta professor Kernberg, veda di andare a soddisfare i suoi bisogni sessuali altrove”), ma piuttosto con una manovra di confrontazione, volta ad indagare fino a che punto il paziente sia consapevole o meno di quanto certi suoi atteggiamenti possano assumere, agli occhi dell’altro, una connotazione sessuale.

Differenza sottile, ma non da poco.

 

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Donne e sessualità: tra soddisfazione  e legami di attaccamento – Recensione

 

 BIBLIOGRAFIA:

  • Kernberg Otto (2013). Amore e aggressività – Prospettive Cliniche e teoriche. Giovanni Fioriti Editore.  ACQUISTA ONLINE

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività (ADHD) nell’età evolutiva: le strategie psicopedagogiche

Le strategie terapeutiche possono essere attuate su tre fronti, cioè lavorando individualmente con il bambino, operando con la famiglia, attraverso delle strategie di parent education e di parent training, occupandosi del contesto scolastico (insegnanti e bambini con sviluppo tipico) con il fine di ottimizzarlo. 

 

Abstract

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività è una patologia dell’età evolutiva. Essa ha un effetto particolarmente dirompente, connotando negativamente il rapporto che il bambino ha con se stesso, il suo contesto familiare, la sua esperienza scolastica. Frequentemente gli insegnanti non hanno gli strumenti operativi opportuni per fronteggiare tale criticità, che incide profondamente sulla quotidianità scolastica.

 

Disattenzione, impulsività e iperattività

Il disturbo da deficit di attenzione con iperattività si manifesta attraverso una sintomatologia che è rapportabile a tre parametri:

• l’attenzione;

• l’impulsività;

• l’iperattività.

L’attenzione può essere scissa in due componenti, ovvero l’attenzione automatica, che solitamente obbedisce a meccanismi inconsapevoli, e l’attenzione controllata, che è quella utilizzata allorquando si vuole dirigere il proprio focus attentivo verso un compito specifico.

Nel minore affetto da ADHD, come Chiarenza, Bianchi e Marzocchi (2002) avvertono, l’attenzione controllata è deficitaria. In pratica, il bambino non è in grado di dirigere e fermare la sua attenzione su di un compito specifico, soprattutto quando esso appare particolarmente elaborato e richiede un intervallo temporale protratto di applicazione. Inoltre, connessa all’attenzione, è la capacità di programmare e organizzare il lavoro, che, nel minore affetto da tale patologia, risulta notevolmente compromessa.

Relativamente all’impulsività, si assiste a comportamenti che denotano uno scarso controllo, ovvero un agire senza pensare. A questo riguardo Barkley, citato in Chiarenza, Bianchi e Marzocchi (op. cit., pag. 2), ascrive tale impulsività ad un’alterazione dei meccanismi cognitivi che presiedono al controllo del comportamento.

Riguardo all’iperattività, diverse ricerche hanno dimostrato che i minori affetti da ADHD presentano un notevole incremento dei movimenti del proprio corpo, rispetto ai bambini che non soffrono di tale patologia. Questa ipercinesi si osserva anche durante il riposo notturno.

 

La comorbidità del disturbo da deficit di attenzione con iperattività

Accanto al disturbo specifico dell’attenzione, spesso, i bambini presentano, in comorbidità, un disturbo del comportamento, che si estrinseca in due quadri clinici specifici, ovvero il disturbo della condotta e il disturbo oppositivo – provocatorio.

In un numero elevato di casi si palesa anche un disturbo dell’apprendimento, che si concretizza prevalentemente in difficoltà relative all’ambito della lettura (Chiarenza, Bianchi e Marzocchi, op. cit., pag. 3). Molto frequenti sono altresì i disturbi relazionali. In pratica, a causa dell’aggressività che i bambini evidenziano, i rapporti con l’alterità appaiono compromessi. Il minore, infatti, non è in grado di esercitare le abilità sociali, che fanno nascere le amicizie fra coetanei.

Le strategie terapeutiche – Il trattamento individuale

Le strategie terapeutiche possono essere attuate su tre fronti, cioè lavorando individualmente con il bambino, operando con la famiglia, attraverso delle strategie di parent education e di parent training, occupandosi del contesto scolastico (insegnanti e bambini con sviluppo tipico) con il fine di ottimizzarlo.

Il lavoro individuale con il bambino rientra in un intervento terapeutico di tipo cognitivo comportamentale. Nello specifico, gli obiettivi, che tale terapia si pone, sono quelli di insegnare al minore le tecniche di autocontrollo per la gestione dell’impulsività e le procedure cognitive utili ad affrontare i problemi che si presentano.

Riguardo alla prima finalità, al bambino si fanno apprendere le metodiche per controllare l’impulsività, attraverso il riconoscimento delle proprie emozioni e lo sviluppo di comportamenti alternativi di espressione della emotività.

Relativamente al secondo scopo, si utilizza una procedura di risoluzione dei problemi che passa attraverso i seguenti momenti:

• identificazione di un problema;

• generazione di alternative;

• scelta, realizzazione e valutazione di una soluzione” (Chiarenza, Bianchi e Marzocchi, op. cit., pag. 5).

Il trattamento familiare

L’intervento sui genitori del bambino affetto da ADHD si avvale di due strategie. Nel parent education si forniscono tutte le informazioni necessarie affinché i genitori siano completamente edotti e consapevoli della patologia del proprio figlio. Nel parent training si lavora con la coppia genitoriale per ristrutturare la percezione dei comportamenti del minore. In altre parole, si interviene sul sistema delle attribuzioni e sulle aspettative che i genitori del piccolo hanno. Sovente queste attribuzioni sono negative: infatti, i genitori ascrivono a valenze negative la maggior parte delle condotte manifestate dal bambino.

Questa percezione alimenta un vissuto depressivo, che mina il benessere dell’intero nucleo familiare. Il programma di parent training comprende anche l’apprendimento di procedure comportamentali finalizzate al controllo delle condotte distoniche. “Ai genitori viene insegnato a dare chiare istruzioni, a rinforzare positivamente i comportamenti accettabili, a ignorare alcuni comportamenti problematici e a utilizzare in modo efficace le punizioni” (Chiarenza, Bianchi e Marzocchi, op. cit., pag. 8).

Gli interventi psicopedagogici

Il contesto scolastico è il luogo nel quale si estrinsecano in maniera macroscopica le problematiche del ragazzo. Avere fra i propri alunni o fra i compagni di classe un bambino affetto da ADHD mette a dura prova la pazienza degli insegnanti e degli altri alunni. Frequentemente i docenti non conoscono fino in fondo la fenomenologia sintomatologica del disturbo e vivono talune manifestazioni come un attacco alla loro persona e alla loro autorità. Questo suggerisce che la prima strategia da utilizzare con loro è proprio quella di curare la conoscenza della patologia, in maniera da prepararli ad affrontare le peculiarità dell’ADHD.

In secondo luogo bisogna intervenire sulla loro resilienza, ovvero renderli emotivamente meno vulnerabili nell’interazione con il bambino affetto da disturbo dell’attenzione con iperattività.

Molte volte i docenti, laddove il minore manifesta anche disturbi del comportamento con condotte antisociali, vivono uno stato di ansia continua, legata al timore che il piccolo possa arrecare danni fisici ai suoi compagni. Questa preoccupazione alimenta una sensazione di precarietà e di frustrazione, per cui l’insegnate si sente in balìa delle circostanze ambientali, non in grado di esercitare il controllo della situazione problematica e dell’intero gruppo classe. 

L’intervento psicopedagogico rivolto al bambino affetto da ADHD nel contesto scolastico deve orientarsi su due fronti, ovvero lavorare con gli insegnanti, in modo che possano impadronirsi di alcune strategie comportamentali che hanno l’obiettivo di controllare il comportamento del piccolo. Contemporaneamente è necessario operare con i compagni di classe, promuovendo tutti quelli atteggiamenti inclusivi, che possano veicolare dinamiche interattive positive, per mezzo delle quali il bambino possa sentirsi accettato e capito dai coetanei.

Il minore affetto da patologia dell’attenzione con iperattività ha delle caratteristiche che devono essere conosciute dai docenti al fine di ottimizzare l’intervento didattico. Per esempio, egli solitamente è più tranquillo nella prima parte della giornata scolastica, mentre verso la fine delle lezioni si esacerbano i suoi comportamenti problematici. Di questo bisogna tenerne conto nello strutturare la cronologia della giornata. Nella prima parte è bene proporre delle attività che richiedano dei compiti attentivi maggiori, riservando ad attività meno impegnative, più improntate alla dimensione ludica, il tempo rimanente. 

Altro accorgimento è quello di scomporre i nuovi apprendimenti in microunità didattiche, che siano a misura dei tempi attentivi del piccolo, in maniera che egli possa sentirsi motivato ad apprendere, ritenendo il compito apprenditivo alla sua portata.

In ogni classe si creano delle dinamiche affettive fra i vari alunni, fatte di simpatia, comunanza di intenti, sintonia di bisogni. Questo avviene anche nei contesti dove è inserito un minore affetto da ADHD. Ai fini del miglioramento delle interazioni sociali all’interno della classe, si deve utilizzare il coetaneo con il quale il minore ha maggiore affinità come tutor e come mediatore nel rapporto con gli altri alunni.

Tutti gli insegnanti, che fanno parte di una classe in cui è presente un minore affetto da tale patologia, dovrebbero avere lo stesso modo di operare, soprattutto per quel che riguarda il controllo della disciplina. A questo riguardo è opportuno che l’intero team dei docenti si faccia carico di osservare alcune semplici regole relative al controllo dei comportamenti, che devono essere applicate da ognuno in qualunque circostanza. In pratica, il gruppo dei docenti deve concordare quali comportamenti, anche se distonici, possono essere tollerati, e quali, invece, devono essere puniti, avendo cura di uniformare gli interventi punitivi, servendosi dei paradigmi della token economy.

Altra procedura da osservare è quella di creare una successione subitanea fra comportamento scorretto ed eventuale punizione. Infatti, più aumenta l’intervallo temporale fra stimolo (comportamento problematico) e risposta (punizione) e più si perde l’incisività sulla condotta distonica.

Al bambino problematico deve essere spiegato con sufficiente chiarezza quello che può fare e quello che invece non è permesso. Le regole devono essere semplici, capibili ed in numero esiguo. È necessario che esse siano continuamente ripetute, in modo che possano divenire bagaglio interiore del ragazzo. Inoltre, egli deve sapere a che cosa va incontro nel momento in cui trasgredisce qualcuno dei precetti concordati. Ogni volta che il minore manifesta dei comportamenti sintonici, essi devono essere sottolineati e lodati, in maniera che possano diventare elementi per la costruzione dell’autostima.

Con il bambino affetto da ADHD deve esserci da parte degli insegnanti un’interazione sistematica, ossia si deve coinvolgerlo il più possibile e questo coinvolgimento, che serve a sollecitare i suoi processi attentivi, deve essere fatto verbalmente, chiamando, frequentemente, il ragazzo per nome.

Spesso è utile servirsi dei cosiddetti “antistress”: sono oggetti che il bambino può utilizzare per scaricare la tensione. Essi permettono al minore di canalizzare la sua iperattività, consentendogli di stare seduto più a lungo. Questi elementi possono essere, come La Prova (2013) fa notare, dei braccialetti da far andare su e giù per il braccio, degli elastici da tendere, un portachiavi con moschettone da far ruotare. È opportuno far fare al bambino degli esercizi motori, mentre è seduto, che permettono di scaricare la tensione, come il sollevarsi con le mani dalla sedia per un tempo stabilito o premere le mani una contro l’altra per 10 secondi (La Prova, op. cit., pag. 7, 8, 9).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Chiarenza, A. G., Bianchi, E. e Marzocchi, G. M. (2002). Linee guida del trattamento cognitivo comportamentale dei disturbi da deficit dell’attenzione con iperattività (ADHD). Linee guida della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza. DOWNLOAD
  • La Prova, A. (2013). ADHD e compiti a casa: manuale pratico di sopravvivenza. Roma: Edizioni FORePSI. DOWNLOAD

Rimuginio, gelosia e lunaticità nelle donne: maggiore rischio di Alzheimer?

FLASH NEWS

Esiste una possibile connessione tra nevroticismo e Alzheimer?

È quanto risulta da uno studio longitudinale durato 38 anni e che ha coinvolto 800 donne di età media di 46 anni.

La maggior parte delle ricerche sull’Alzheimer si sono concentrate su fattori quali educazione, fattori di rischio cardiovascolari, traumi cranici, storia familiare e genetica. Ma anche la personalità può avere un’influenza sull’insorgenza di alcune malattie, quale ad esempio la demenza, attraverso i suoi effetti sul comportamento, lo stile di vita e la gestione dello stress. Per questo Lena Johannsson ha deciso di indagare la possibilità di una connessione tra nevroticismo e Alzheimer.

Le persone nevrotiche mostrano una certa tendenza all’ansia, alla preoccupazione e al rimuginio, così come la gelosia e i frequenti cambiamenti d’umore.

Per raccogliere le informazioni desiderate è stato chiesto alle partecipanti se avessero vissuto episodi di stress della durata di un mese o più, indipendentemente dal fatto che fossero associati a lavoro, salute o situazioni familiari, nei cinque anni precedenti e sono stati somministrati loro diversi test: un test di personalità per indagare i livelli di nevroticismo e introversione/estroversione e alcuni test di memoria.

L’introversione è descritta come timidezza e riservatezza e all’opposto l’estroversione è l’essere socievoli; il nevroticismo, invece, è associato a espressioni di rabbia, colpa, invidia, ansia o depressione.

Lo studio ha rilevato che il fattore introversione/estroversione non ha influenze dirette sulla comparsa della malattia, mentre le donne con i punteggi più alti nei test per il nevroticismo mostravano un rischio doppio, rispetto alle altre, di sviluppare la demenza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Marbles (2014): una Graphic Novel sul Disturbo Bipolare. Di Ellen Forney

Marbles di Ellen Forney, fumettista americana di Seattle affetta da un disturbo bipolare, racconta la storia della propria malattia utilizzando il mezzo espressivo a lei più congeniale: il racconto fumettistico.

La collana Psycho Pop di Edizioni BD, curata dalla scrittrice Micol Beltramini, ha la finalità di raccontare situazioni complesse a livello emotivo, psicologico e sociale senza mai scadere nella pesantezza o nella retorica, grazie a un impianto visuale pop e a un approccio narrativo intelligente e ironico.

L’obiettivo mi pare pienamente raggiunto in Marbles di Ellen Fourney, fumettista americana di Seattle affetta da un disturbo bipolare, che racconta la storia della propria malattia utilizzando il mezzo espressivo a lei più congeniale. Il racconto fumettistico è molto appassionante ed autentico, anche perché la vita dell’artista è già di per sé interessante.

Al di là della malattia Ellen pare una persona vivace, complessa, molto autoriflessiva e fiera rappresentante del mondo queer. Il
suo stile grafico è realistico e originale, con l’alternanza di immagini molto curate ed altre che sembrano quegli schizzi che si fanno mentre si è sovrappensiero (magari mentre si parla al telefono o mentre si ascolta una conferenza noiosa) ed altre ancora, molto significative, realizzate nelle fasi più acute della malattia.

Tra un La mania fa paura, ma è fica e l’idea bizzarra, subito abbandonata, che la parte maniacale si prenda cura della parte depressiva, l’opera rappresenta in modo efficace il difficile percorso che l’autrice compie per trovare un equilibrio, in cui entrano in gioco sia fattori prettamente biologici (la lunga ed estenuante ricerca del giusto mix di farmaci), sia il migliorare il proprio stile di vita (praticare yoga, astenersi dal consumo di droghe).

Soprattutto per le persone affette da disturbo bipolare, la ricerca della stabilità passa attraverso un processo di autosservazione e presa di coscienza delle proprie reazioni psichiche di fronte a certi stimoli.

Ma spesso non è facile

E’ come un cucchiaio che cerca di guardarsi mentre mescola

osserva acutamente l’autrice, che si arma di bloc notes per fermare sulla carta un po’ di quella realtà che tende a fuggire troppo rapidamente, diventando un sorta di reporter di sé stessa.

Commovente la scena in cui Ellen, spinta forse dal bisogno di qualcosa di solido a cui aggrapparsi, si trova ad abbracciare un grosso albero durante la passeggiata in un parco. Gran bella immagine.

Nel libro vengono raffigurati in modo preciso gli incontri periodici con la psichiatra per la valutazione delle diverse terapie psicofarmacologiche, descritte in modo scientificamente corretto, soprattutto per quanto riguarda gli effetti benefici e collaterali (ad esempio viene spiegata in modo puntale la rara ma temibile necrosi cutanea, o sindrome di Steven- Johnson, indotta
dallo stabilizzatore dell’umore lamotrigina). Si percepisce che tra le due si instaura una buona alleanza terapeutica, in cui la paziente si fida del medico e in cui lo specialista non ha mai un atteggiamento giudicante o paternalistico, ma cerca di coinvolgere la persona in ogni decisione terapeutica. La psichiatra risulta particolarmente umana quando concede coraggiosamente a Ellen di fumare un po’ d’erba ogni tanto per contrastare l’anorgasmia indotta dai farmaci, nonostante sia ben consapevole dei possibili effetti collaterali della cannabis sui disturbi dell’umore.

Ampio spazio viene inoltre dedicato al rapporto tra creatività e disturbi mentali, con i riferimenti alle storie di artisti come Michelangelo, Sylvia Platt, Edvard Munch, Vincent Van Gogh. Meglio tenere le sofferenze o l’ispirazione? è la domanda cardine di questa parte. Ma le sofferenze fanno schifo! e l’autrice giunge alla conclusione che solo quando è equilibrata riesce a concentrarsi e a svolgere il proprio lavoro. Un messaggio positivo e maturo, in netta antitesi con una lunga tradizione di  affascinanti artisti maledetti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Forney, E. (2014). Marble. Psycho Pop Edizioni BD. 

Marbles - Anteprima pagina 231

La solitudine di Alessandro – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.13 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 – CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #13

La solitudine di Alessandro 

 

– Leggi l’introduzione –

Alessandro aveva circa quarant’anni, fisico imponente da cestista. Non si lavava da almeno un mese e puzzava di escrementi e di fumo. Faccia da mangiatore di patate di Van ghogh, capelli fini color paglia che resistevano solo ai lati, occhi azzurro-follia spaventati in cerca di risposte su quanto stesse succedendo. Tutti, smarriti come bambini nel bosco, cercavano di capirci qualcosa.

Il capitano dei carabinieri di Monticelli aveva chiamato direttamente sul cellulare di Biagioli e ciò stava a significare che era gradita proprio la presenza del responsabile del CIM. Secondo le regole essendo ormai le 21.00 l’ambulatorio era chiuso e le emergenze erano compito della guardia medica con eventualmente il 118. Le regole, però non erano importanti per quelli del CIM. Il capitano Ruffi aveva stima di Biagioli che aveva restituito a lui una moglie e ai suoi quattro figli una madre dopo una depressione puerperale che l’aveva portata molto vicina al debutto sulla cronaca nazionale. Si era creata tra i due una sorta di imbarazzata confidenza. Se non fossero stati entrambi così riservati si sarebbero potuti dire amici ma era parola che riservavano solo per pochi intimi da lungo tempo. Dichiarata era la stima reciproca. Non potendo ammettere il piacere di stare insieme si concedevano periodici pranzi di lavoro per esaminare varie situazioni che stavano al confine tra le loro due competenze. Biagioli aveva imparato a citare gli articoli del codice e Ruffi azzardava diagnosi.

Non potendo entrare nel parcheggio del CIM chiuso per la notte sarebbe andato con la sua Golf. Antonio Nitti che aveva già i piedi sotto il tavolino per la cena smadonnò al citofono mentre si infilava la giacca e recuperava la borsa. Aveva il difetto di abitare vicino a Biagioli e il pregio di essere sempre disponibile. La tromba delle scale rimbombava della sua corsa mentre sulla mappa Biagioli cercava “località rio freddo” la location della loro prossima impresa. Se non avessero fatto troppo tardi ci sarebbe scappata una cena a tre da “La grande abbuffata” pit stop di tutti i camionisti che uscivano appositamente dall’autostrada. Ma prima il lavoro.

La facciata dell’antico casale, sfuggito chissà come all’agriturismizzazione, pulsava di bianco e di blu per l’intrecciarsi delle muffole delle tre gazzelle circondate da militi coraggiosi di fronte alla delinquenza e smarriti di fronte all’imprevedibilità della follia. Dovevano essere lì da un pezzo a giudicare dalle cicche per terra ma nessuno era entrato. Ruffi disse a Biagioli che il Pezzato (non ce la faceva proprio a non usare il cognome con l’articolo come a scuola), ovvero Alessandro, il paziente, era ritornato in casa dopo il casino che aveva fatto. Urlava minacce di morte a tutti e aveva dato prova di fare sul serio. Non era ancora calato del tutto il sole che aveva impiccato il suo pastore maremmano al fico sul lato destro del casale. La povera bestia ancora penzolava spettrale alla luce delle muffole delle auto.

Uccidere il proprio cane, unica sua compagnia, era un pessimo segno prognostico dell’intenzione di finirla non avendo più nulla da perdere. Dopo aver giustiziato il cane, impugnata un ascia aveva distrutto la porta e il soggiorno dei vicini che sembrava bombardato. I signori Ferretti visto il cane impiccato temendo una crisi più grave delle solite avevano abbandonato tutto e, dato l’allarme, erano fuggiti in macchina dalla suocera in paese. Antonio e Carlo affacciatisi oltre la porta iniziarono a chiedere ad Alessandro di dar loro una mano per tirar giù Lampo ( il nome lo avevano visto sulla cuccia) che da soli non ce l’avrebbero fatta. Ruffi fu pregato di portare tutti i carabinieri in casa Ferretti per fare un censimento dei danni e rendere meno militarizzato e ostile l’ambiente. Il mostro piangeva singhiozzando, chiese immediatamente una sigaretta e si accomodarono intorno al tavolo della sala.

Alessandro aveva circa quarant’anni, fisico imponente da cestista. Non si lavava da almeno un mese e puzzava di escrementi e di fumo. Faccia da mangiatore di patate di Van ghogh, capelli fini color paglia che resistevano solo ai lati, occhi azzurro-follia spaventati in cerca di risposte su quanto stesse succedendo. Tutti, smarriti come bambini nel bosco, cercavano di capirci qualcosa.

Alla terza sigaretta prosciugata in poche tirate iniziò a spiegare. Dalla morte della madre avvenuta un mese prima i vicini avevano iniziato a tormentarlo. Lo deridevano attraverso la televisione e la radio che quindi aveva dovuto gettare nel pozzo. Con le antenne paraboliche gli leggevano nella mente e i pensieri migliori glieli rubavano sostituendoli con altri orribili. Ne abusavano sessualmente con dei raggi laser potentissimi. Per difendersi mostrò cosa aveva predisposto. Sotto i pantaloni aveva una sorta di cintura di castità o di mutande di lamiera che si era costruito da solo. Non poteva più togliersele nonostante lo ferissero a sangue e l’igiene intima ne aveva risentito pesantemente. Alla vista del marchingegno e afferrato alla gola dall’odore che emanava Antonio ebbe un conato di vomito e corse fuori ad accendersi una sigaretta.

Siccome nonostante tutto le protezioni quel pomeriggio il traffico di pensieri nel suo cervello era continuato aveva capito il loro trucco. Avevano sostituito Lampo, l’essere che più gli stava vicino, con un robot in grado di controllare tutte le sue funzioni mentali e fisiche. Per questo aveva dovuto liberarsene ed esporlo sul fico in modo che i Ferretti capissero che certi trucchi con lui non funzionavano.

Biagioli fece un primo resoconto a Ruffi di quanto era probabilmente accaduto. Alessandro dopo la morte del padre avvenuta due anni prima viveva da solo con la madre. La signora era stata per un anno afflitta da un carcinoma al pancreas ed era morta esattamente trentacinque giorni prima. Da quel momento nessuno aveva più somministrato ad Alessandro la terapia farmacologica che la dottoressa Mattiacci gli aveva prescritto ed il delirio persecutorio era riesploso.

La trascuratezza del CIM era evidente. Già la morte della madre in sé rappresentava un evento stressante ed Alessandro era stato lasciato solo ad affrontare la situazione e persino senza terapia. Sarebbe bastato un farmaco depot o, meglio, quotidiane visite domiciliari infermieristiche anche per gestire la casa (igiene e alimentazione) e la possibile tragedia sarebbe stata evitata. 

Ruffi accettò di non procedere penalmente con l’arresto che sarebbe stato un atto dovuto purchè il Pezzato fosse immediatamente ricoverato e saldamente preso in carico dal CIM. Lampo rimase appeso a ricordare quella notte di terrore mentre Alessandro salì con Antonio nella golf di Biagioli, che ne avrebbe portato per sempre il ricordo olfattivo, per raggiungere il reparto di psichiatria di Vontano.

Mentre guidava veloce con i fari antinebbia accesi lungo le curve di montagna che conducevano a Vontano Biagioli rimuginava. Sul lavaggio interno che avrebbe dovuto pagarsi perché la golf tornasse abitabile e sul discorso fermamente indignato che avrebbe dovuto fare agli operatori per quanto era accaduto. Contrario per carattere a imporsi e rimproverare e portato invece all’esempio e al motivare si sentiva parzialmente responsabile di quanto era accaduto e soprattutto di quanto sarebbe potuto accadere. Si sarebbe meritato una denuncia per abbandono di incapace e per un attimo pensò davvero di autodenunciarsi per sollevare il problema in modo clamoroso. Un istrice che attraversò di corsa la strada, il colpo di freni e la successiva sbandata sull’asfalto umido dalla nebbia lo riportarono al presente.

Chi seguiva la situazione del Pezzato? (come avrebbe detto Ruffi) chiese ad Antonio Nitti che stava con la testa fuori dal finestrino come i cocker in autostrada nelle macchine che vanno in vacanza avendo preferito il freddo al puzzo. Alessandro era stato seguito lungamente dalla dottoressa Lina Mattiacci e dalla dottoressa Maria Filata. Una accoppiata di rilievo per professionalità e dedizione.

Alessandro nasce da un rapporto occasionale tra Aldo e Antonia. Aldo è un maresciallo dei carabinieri che viene inviato in servizio a Monticelli e lascia a Noto la moglie e due figli piccoli. Antonia ormai trentatreenne decide comunque di portare avanti la gravidanza nonostante le pressioni di Aldo che chiarisce sin da subito di non avere alcuna intenzione di abbandonare la famiglia.

 

Il figlio della colpa cresce nel podere dei nonni materni accerchiato dal soffocante affetto della madre e dallo scherno dei paesani che lo chiamano “il bastardello”. Il padre contribuisce con sporadici vaglia postali e crede di aver fatto il suo dovere quando a 15 anni riesce a farlo entrare all’accademia navale garantendogli così una istruzione ed un lavoro. All’idea di separarsi dalla madre è convinto di morire di crepacuore, invece avviene il miracolo. Non prova alcun dolore. Se si consente qualche nostalgia è di cose materiali, di comodità che l’accademia non permette. La madre e i nonni è come se non fossero mai esistiti. Per non aver più freddo l’animo si è gelato. Con il padre non ha contatti. L’accademia è dura e impara benissimo a cavarsela da solo e, come gli insegnano, a camminare sempre “col culo a paratia” per non offrire il fianco ai potenziali nemici.

Terminati gli studi si congeda e crea un impresa privata che produce strumenti per la navigazione di diporto, si afferma e fa soldi. Il suo unico hobby è il basket, imparato in accademia che pratica e di cui è tifoso. Vive prevalentemente a Roma sede dell’azienda e va a trovare la madre una o due volte al mese. In paese non lo chiamano più il “bastardello”. Ha soldi, successo e soprattutto sa farsi rispettare. Ordina alla madre di non accettare più quei miseri vaglia postali che gli ricordano la sua origine. Lui ce l’ha fatta ormai. Non ha amici ma solo colleghi di lavoro (in realtà dipendenti). Bello e prestante gode fama di grande amatore. E’ uno scapolo d’oro e colleziona una infinità di donne ma fugge ogni legame profondo e duraturo. E’ generoso sulle cose materiali ma non si fida a mettere in ballo il suo cuore. Il suo distacco è direttamente proporzionale al suo successo con le donne ma addirittura geometricamente proporzionale alla sua solitudine.

Costringe all’aborto due fidanzate. Lascia alle sue spalle una serie di tentati suicidi per amore. Molti dei quali certamente dimostrativi ma colleziona anche una sedia a rotelle permanente e una camera ardente piena di giovani disperati e arrabbiati con lui. Si sente enormemente potente, tutto ciò che fa gli riesce e non deve risponderne a nessuno. Per la verità alle feste comandate quando non lavora si sente sprofondare in una melma di tristezza come in certe domeniche pomeriggio all’accademia. Ma un po’ di polvere bianca e tanta tanta fica cancellano tutto. Non è felice la sua vita. Un deserto, un vagare insensato con il solo obiettivo di esaurire i suoi compiti. Sommamente efficiente riempie l’agenda di compiti e l’unica soddisfazione che prova sta nello spuntarli, nell’aver fatto il suo dovere. Anche i divertimenti, gli svaghi, le vacanze, il sesso sono calendarizzati e spuntati. Il suo scopo è fare tutto bene e subito nella speranza che, come gli diceva la madre “prima il dovere e poi il piacere”, prima o poi arrivi il tempo del piacere.

E’ così fissato nel portarsi avanti con gli impegni che più volte ha pensato che l’ultimo compito sarà la morte dopodiché finalmente potrà prendersi del tempo per sé. Gli è balzato in mente di anticiparla e togliersi il pensiero. Molti suoi comportamenti sembrano proprio finalizzati inconsapevolmente a depennare anche l’ultimo impegno e per questo viene chiamato il CIM ad intervenire. Paracadutismo, deltaplano, arrampicata libera li usa come stimoli per risvegliarsi dal sonno delle emozioni. Ha tre incidenti per guida spericolata sotto l’effetto di sostanze e resta per un mese in coma. Dopo la dimissione si rifugia a casa della madre e non esce per quasi due mesi. Gli eccessi precedenti e la conseguente chiusura gli fanno conquistare la diagnosi di disturbo bipolare dell’umore e la Mattiacci gli allaga il cervello di stabilizzatori (depakin, tregretol) e, mostrandosi contrariato dagli effetti collaterali sulla sessualità, il grande vecchio insuperato Litio.

E’ diventato mite. Con la dottoressa Filata cerca di dar ordine alla sua vita. Si conforma alle regole antieccessi di protezione dell’umore. Niente stravizi, a letto presto, vita sana e buone compagnie. La cartella clinica riporta due soli interventi in emergenza negli ultimi cinque anni. Una scazzottata con perdita di due incisivi da parte di un vecchio compagno delle elementari che aveva esercitato la memoria sul suo antico soprannome che gli era costata un incremento del dosaggio del litio e controlli ematici più frequenti. Un tentativo di suicidio con i farmaci giudicato goffo e inattendibile che aveva comportato solo una lavanda gastrica in pronto soccorso.

Pezzato Alessandro era progressivamente diventato un caso dormiente ovvero cronicizzato, stabile che non crea problemi e dal quale le risorse vengono progressivamente ritirate per essere investite sui casi attivi. L’assunzione dei farmaci era garantita dalla presenza della madre. Antonia tre anni prima dei fatti narrati aveva avuto un ictus che l’aveva relegata su una sedia a rotelle e le rendeva confuso e malamente comprensibile il parlare. In quel caso il CIM aveva rivalutato la situazione e cercato di promuovere una autonoma gestione della casa da parte di Alessandro il cui ritiro si era accentuato dopo la malattia della madre. Si sarebbe dovuto predisporre una presenza infermieristica capillare ma quello era il tempo dell’esperienza di “villa Santovino” e le risorse residue erano poche.

La compianta Silvia Ciari che faceva un punto d’onore del comporre esigenze diverse in modo da soddisfare più bisogni ebbe un’idea che parve a tutti geniale. I Ferretti,vicini di casa di Antonia e Alessandro, avevano la prima figlia Simona che aveva concluso le scuole medie inferiori con il sostegno per una encefalite all’età di tre anni. Il comune gli aveva fatto saltuari contratti come operatrice ecologica ma, non essendo in grado di guidare ogni giorno il padre doveva accompagnarla e riprenderla. La trovata di Silvia fu di esternalizzare l’assistenza di Alessandro utilizzando il sussidio d’accompagnamento di Antonia e un contributo di 300 € deliberato a favore di Alessandro. Simona, con l’aiuto di tutta la famiglia Ferretti si occupava dunque dell’assistenza di Antonia e della terapia farmacologica di Alessandro. Per un anno era andato tutto bene. Poi la violazione della privacy ormai quasi autistica del ritiro di Alessandro era stata forse la causa del delirio persecutorio sviluppato. Poiché negli ultimi tempi Alessandro aveva cercato di molestare Simona c’erano stati vivaci scontri tra le due famiglie. Antonia in seguito ad una recidiva dell’ictus si era aggravata ed era morta tre settimane prima dell’emergenza. Simona aveva paura ad entrare nella casa dove Alessandro era rimasto solo e così la farmacoterapia era stata bruscamente interrotta rotte le uova si stava preparando la frittata indigesta che era toccata fortunosamente, solo al povero Lampo.

Il ricovero doveva essere l’occasione per un nuovo inizio caratterizzato dalla presa in carico dei reali bisogni di Alessandro, mentre il passato sembrava essersi impaludato nella gestione di un problema di ordine pubblico. I farmaci, la compagnia della vecchia madre ed il sostegno di Simona Ferretti avevano lo scopo di ammucchiare cenere sulla brace, mantenere lo status quo, evitare problemi. Insomma tirare avanti. Inconsciamente anche gli operatori colludevano con l’idea di Alessandro circa l’inutilità della sua vita e col desiderio che presto anche l’ultimo compito di questa esistenza disgraziata fosse compiuto. Ma quella era anche l’unica vita a disposizione che in tutta l’eternità era data a quella combinazione unica di geni ed esperienze particolari che rispondeva al nome di Alessandro Pezzato.

Nella riunione generale di equipe del CIM che doveva impostare il futuro progetto terapeutico Biagioli propose un gioco. Ognuno doveva indicare uno o due aggettivi che descrivessero Alessandro e poteva toglierne uno che gli apparisse inopportuno. Solo……..arrogante………narcisista……spaventato….sfortunato….rifiutato….gradasso…….smarrito. Questi furono solo alcuni dei 25 aggettivi con cui la complessa personalità di Alessandro venne descritta. Alla fine il mostro che aveva spaventato le forze dell’ordine ed era temuto dall’intero paese che ne invocava la chiusura definitiva negli agonizzanti ma ancora esistenti manicomi criminali fu riassunto da Biagioli in poche frasi.

Si trattava di un bambino rifiutato e abbandonato che aveva sperimentato la minacciosità degli altri e ne era terribilmente spaventato . Aveva imparato a difendersi in due modi. Non legarsi a nessuno per non rischiare delusioni ed usare gli altri come oggetti per la soddisfazione dei propri bisogni. Non fidarsi soprattutto di chi si offriva di accudirlo e controllare tutto per non avere fregature. Questo atteggiamento freddo, distaccato, lucido e controllante aveva portato notevoli successi in ambito professionale e si era dunque rinforzato per i lussi il sesso e la cocaina che comportava. Ma il bambino Alessandro sotto la corazza del guerriero era rimasto tremante, solo e spaventato avvolto in un freddo paralizzante che era diventato mortale con la scomparsa della madre. Quando aveva pensato che anche Lampo lo avesse tradito aveva sentito che tutto era finito e come un kamikaze aveva voluto andare incontro alla morte.

Biagioli decise. Si sarebbero occupati di lui quegli operatori che riuscivano a vedere e sentire il bambino spaventato e abbandonato dietro gli atteggiamenti da gradasso del mostro. Il primo ad essere indicato fu proprio Biagioli per la facilità con cui si calava nel ruolo di buon padre affettuoso ma normativo e per il legame indelebile che si era creato tra Alessandro e la sua golf. La dottoressa Filata perché rappresentava la continuità con il passato, aveva con lui un buon rapporto e non era opportuno fargli sperimentare un altro abbandono. Come infermieri Gilda e Antonio per l’entusiasmo vitale che sprigionavano e che si sperava contagioso.

Biagioli predispose un piano di progressivo scalaggio dei farmaci convinto com’era che la necessità di farmaci fosse inversamente proporzionale alla presenza e all’impegno degli operatori. Era convinto che al di là delle manifestazioni aggressive e delle oscillazioni del tono dell’umore il problema di fondo fosse una miniera di tristezza. I farmaci potevano coprire i sintomi socialmente indesiderabili ma serravano ancora di più l’accesso a quella miniera. La dottoressa Filata aveva il compito di tenere per mano Alessandro nell’esplorazione dei cunicoli bui di quella miniera, puntellarne la volta e piazzare le fiaccole per l’illuminazione.

Uno dei temi fondamentali era il disvalore che Alessandro si era attribuito per essere stato abbandonato dal padre. Al contrario non teneva conto dell’affetto mostratogli dalla madre e dai nonni che l’avevano voluto a tutti i costi nonostante la difficilissima situazione e lo scandalo che, per il tempo d’allora, creava.

Nessuno degli interlocutori era più in vita. Maria chiese ad Alessandro di avviare un carteggio ideale con il padre e con la madre in cui lui doveva scrivere a loro delle lettere e poi, mettendosi nei loro panni, rispondersi. Lo scopo era facilitare un decentramento che portasse alla comprensione ed al perdono. Non si arrivò mai completamente a ciò. Dopo le iniziali lettere di rabbia per non avergli dato ciò che gli spettava, l’ira si stemperò in pena e tristezza. Erano stati dei poveri incapaci non cattivi e soprattutto non era sua la colpa, lui era semplicemente la vittima. Come del resto loro stessi. Dopo alcuni mesi di lavoro manifestò persino l’interesse di conoscere i fratellastri di Noto che vide come altre vittime della vicenda, ma decise poi di non turbare altre esistenze.

Il perno di tutto il suo dolore è l’arrivo in accademia navale all’età di 15 anni. La voce tremava nel raccontarlo. La tiepida mattina presto di aprile mischiava gli odori della campagna primaverile con la miscela al 3% dell’Ape Piaggio con cui il nonno lo accompagnava alla stazione termini. Nella stretta cabina con la valigia poggiata sulle ginocchia e la testa sulla giacca di velluto marrone del vecchio contadino intrisa di umido e fumo di toscano aveva vissuto gli ultimi momenti di una intimità domestica protettiva.

Il diretto Roma- Napoli lo aveva trasportato in uno stato di trance che non aveva lasciato ricordi. Il golfo di Napoli abbagliante di sole aveva assistito alle sue prime umiliazioni nel cortile dell’istituto dove era stato fatto spogliare da capo a piedi 5 volte perché sbagliava il nodo all’ultimo indumento da indossare: la cravatta. Le flessioni in numero pari ai secondi di ritardo alla cerimonia dell’alzabandiera lo vedevano finire con un tonfo faccia a terra con la saliva mista al sudore gocciante al suolo. Non riusciva a mangiare il brodo grasso con le verdure lessate che rappresentava la costante di pranzi e cene e alla cerimonia della Promessa che si teneva dopo quindici giorni dall’arrivo si ritrovò nel solito cortile assolato a “quattro di bastoni” tra la polvere che impastava bocca e narici e le risate degli altri allievi. Il tenente medico dell’istituto raccomandò al sergente Izzo, che sapeva iscritto al primo anno di psicologia alla Federico II°, di stare vicino al giovinetto che mostrava evidenti fragilità. Il compito fu preso da Izzo talmente a cuore che iniziò Alessandro a tutti i segreti della vita dell’istituto per cavarsela in ogni situazione. Si sentiva protetto e si fidava per cui non ebbe obiezioni quando Izzo si presentò nella sua camerata in accappatoio dicendo che gli avrebbe insegnato come farsi una doccia che potesse essere degna di tale nome.

La madre la vedeva soltanto durante le vacanze estive ma non riusciva a spiegare a lei e ai nonni l’inferno che viveva in accademia. I due mondi erano separati e incomunicabili. I primi rapporti sessuali erano stati con delle prostitute cinesi nei vicoli dell’angiporto. Le disprezzava in quanto prostitute ed in quanto cinesi. Col tempo questo disprezzo divenne parte fondamentale del godimento sessuale. Le doveva sottoporre a pratiche umilianti con escrementi e improvvisati strumenti di tortura. Ricordava ancora con terrore la sera che la giovanissima Chin On, che lui chiamava scimmietta, una bambina tredicenne che la madre aggiungeva come optional per soli 10€ alle sue prestazioni , aveva temuto morisse per una emorragia che l’aveva fatto fuggire inorridito e chiamare immediatamente l’ambulanza. Per questo genere di cose servono i soldi e Alessandro si fece rapidamente strada nel commercio delle sostanze. Grazie all’appoggio di Izzo aveva il monopolio assoluto all’interno dell’accademia e gli erano affidate la metà delle scuole medie del Vomero. Riusciva persino a mandare i soldi a casa dicendo che nel tempo libero lavorava in un ristorante. Antonia se ne vantava con tutto il paese dicendo che il figlio aveva insegnato a fare la pizza ai napoletani.

Durante le vacanze a Monticelli scoprì un nuovo rassicurante modo di stare con gli altri: il rispetto intimorito. Non si potevano certamente definire amici ma molti coetanei del paese lo ammiravano per i suoi soldi e lo temevano sapendolo facile all’ira e senza scrupoli. Quando iniziò ad essere intollerante dell’opprimente patrocinio di Izzo fu trovato nel suo armadietto un sacchetto di polvere bianca che gli costò l’espulsione dall’accademia. Tornato a Monticelli in una casa in affitto prese ad operare come pendolare sulla piazza romana. Il primo episodio delirante risaliva proprio al periodo del suo sbarco su Roma.

 

Il consumo di cocaina era vertiginoso e il bisogno di sempre maggiori quantità di denaro gli fecero mettere da parte la prudenza. Entrò in rotta di collisione con i fratelli Genovesi per il controllo del ricco e crescente distretto del Pigneto. L’ultimo ricordo che riusciva a recuperare era la comparsa di una pattuglia della polizia nel bar di piazza dei condottieri dove avevano l’appuntamento per la trattativa. Il resto glielo aveva raccontato il suo difensore d’ufficio al suo risveglio nell’infermeria del carcere di Rebibbia. I poliziotti avevano chiesto di identificarlo e lui li aveva minacciati con una pistola con la matricola abrasa (che non aveva mai visto ne tantomeno posseduto). Ne era seguita una colluttazione che gli aveva fratturato la mandibola e il polso destro e lo aveva sprofondato in un coma da commozione cerebrale che giustificava l’amnesia lacunare.

Scontati i sei mesi della condanna per direttissima era tornato a Monticelli ma i fantasmi persecutori lo seguirono. Tutti lo spiavano. Le donne volevano portargli via i suoi soldi, gli uomini la sua potenza sessuale. Era, in entrambi i casi l’invidia il movente della loro persecutori età. Pensarsi invidiato da tutti, se da un lato lo faceva sentire in pericolo, dall’altro costituiva un sostegno per la sua autostima per la sua autostima sempre più vacillante dopo la perdita di 5 denti per l’intervento della polizia, della capacità erettile per l’abuso di cocaina, dell’azienda di attrezzature da diporto per la fama di inadempiente che si era fatto e dei capelli per una precoce calvizie di origine genetica, unico lascito del suo sconosciuto padre poliziotto siciliano.

A questo periodo risalivano i primi contatti con il CIM. In genere per comportamenti aggressivi e bizzarrie che ai colloqui con la dottoressa Mattiacci mostrarono subito il loro radicarsi in uno strutturato delirio persecutorio che diede il via ad un bombardamento di neurolettici, associato in seguito ingenti coperture con stabilizzatori dell’umore per l’andamento oscillante della sintomatologia. Il massiccio carico farmacologico produsse un progressivo ritiro dalla vita sociale e così cessarono le indignate richieste di intervento da parte dei cittadini benpensanti. Bloccato dalla camicia di forza chimica aveva cessato il lavoro, rinunciato all’affitto ed era tornato a vivere in campagna da Antonia.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore dei compaesani aveva cessato di essere un problema anche per il CIM che aveva finito per dimenticarselo, fino alla notte della mancata tragedia. La dedizione assoluta con cui la dottoressa Filata si dedicava ai pazienti iniziò a scavare una breccia nel muro difensivo di diffidenza. Alessandro faceva di tutto per convincersi dell’incontrario ma non poteva negarsi l’evidenza. Ogni martedì aspettava con piacere malcelato l’arrivo della macchina della ASL con cui Maria raggiungeva il podere per il colloquio settimanale. Il martedì mattina era stato scelto come giorno della doccia settimanale e l’aspetto veniva maggiormente curato.

Però, come spesso accade nella vita, fu il caso piuttosto che l’intenzionalità a dare una svolta decisiva alla terapia. La brina dicembrina rimaneva ghiacciata fino alle 9 e mezzo del mattino. Maria scesa dall’auto di servizio si stringeva la sciarpa rossa intorno al collo e alla testa e accelerava il passo per raggiungere la cucina, interdetta per due ore al transito materno, con il cammino acceso dove avvenivano i colloqui. Alessandro in attesa dietro i vetri, la vede ruzzolare malamente e d’istinto corse fuori. Non doveva trattarsi di nulla di grave ma la caviglia bluastra lievitava dolente. Il pronto soccorso era necessario ma Maria non era in grado di guidare.

Avvennero così due cose che non succedevano da tempo. Alessandro si riaffacciò nel paese da cui si era ritirato e lo fece in una macchina della ASL ma non al posto del curato ma del curante. E, ancor più sconcertante, per la prima volta dopo la morte di Lampo, Alessandro tornava a prendersi cura di un essere vivente. Più tardi avrebbe detto alla stessa Filata di aver provato la stessa struggente, dolcissima tenerezza della notte in cui Chin On aveva rischiato di morire dissanguata. L’accaduto fu oggetto di lunghe riflessioni nella riunione di equipe del CIM. Un pertugio per penetrare nel difesissimo mondo emotivo di Alessandro sembrava quello dell’accudimento. Essere lui ha prestare le cure ed occuparsi degli altri aveva due vantaggi enormi. Da un lato lo faceva sentire importante se non superiore puntellando la scricchiolante autostima. Dall’altro gli consentiva una intimità non minacciosa come quella in cui era lui ad affidarsi alle cure di un altro che si era dimostrato spesso inaffidabile, abbandonico e persecutorio.

Sviluppare ruoli in cui fosse Alessandro ad occuparsi degli altri sembrò la strada da perseguire per il recupero e la riabilitazione sociale. A conferma di ciò lo stesso Alessandro propose che, d’ora in avanti, per evitare il ripetersi di disagi per la dottoressa avrebbe lui raggiunto l’ambulatorio del CIM con i mezzi pubblici il martedì mattina.

La dottoressa Filata gli disse che parlando di lui nell’equipe generale ( si sentì inorgoglire al pensiero che tanta gente importante dedicasse del tempo a parlare di lui) erano emerse alcune idee e che due infermieri in gambissima, Antonio e Gilda, gliene avrebbero parlato alla prima occasione. L’entusiasmo contagioso di Antonio e la abbacinante bellezza di Gilda ebbero certamente un ruolo nell’accettazione da parte di Alessandro delle proposte. Sarebbe però ingiusto ridurre tutto a questioni così superficiali.

Il progetto gli piaceva davvero. Da cinque anni la gestione del randagismo animale era passata dalla competenza provinciale ai comuni. Lo storico servizio di “accalappiacani” era stato di fatto dismesso e i rarissimi casi in cui si rendeva necessario un intervento del genere, era la guardia forestale ad occuparsene. Restava però il problema della custodia e protezione degli animali abbandonati. Erano così sorte numerose cooperative, gravitanti nel mondo degli animalisti (WWF,LIPU, ANTIVIVISEZIONE) che gestivano canili o “animal home”, come preferivano chiamarle, che prendevano appalti comunali e creavano uno spazio alla occupazione giovanile.

Sia Gilda che Antonio militavano nella Lega Ambiente. Dato il loro pluriennale impegno nel partito una cooperativa che li avesse tra i membri fondatori non avrebbe incontrato inciampi sulla strada degli appalti. Alessandro che metteva a disposizione il terreno e i locali inutilizzati del grande podere fu il presidente. Cinque mesi dopo in occasione della festa della repubblica del 2 giugno c’erano tutti all’inaugurazione. Persino la famiglia Ferretti al completo e vestita a festa era intervenuta. Antonio Nitti e Gilda nelle retrovie apparecchiavano il tavolo del rinfresco. Alessandro affiancava il sindaco con la fascia tricolore orgoglioso dell’ennesimo nastro tagliato sotto la sua amministrazione. Biagioli, ancora più orgoglioso sottobraccio al capitano Ruffi, gli illustrava come si fosse giunti a ciò anche grazie al suo contributo con il mancato arresto. L’insegna in ferro battuto “Casa Lampo” tutti pensavano facesse riferimento alla rapidità con cui l’impresa era stata realizzata ma ad Alessandro ricordava troppo la analoga scritta “il lavoro rende liberi” all’ingresso del campo di Auschwitz e la sera stessa l’aveva sostituita con una tavola di castagno con su scritto “La fattoria degli animali”.

Tutti erano contenti ed ognuno si sentiva orgoglioso per quanto fatto. I narcisismi presenti non erano entrati in una dinamica competitiva cercando di accaparrarsi il merito. Al contrario si rinforzavano vicendevolmente. Gli ego sarebbero presto esplosi se un provvidenziale temporale estivo non avesse rimandato tutti precocemente a casa. L’unico la cui gioia appariva velata era proprio il protagonista. Alessandro Pezzato non riusciva a non pensare che in fondo quello che aveva costruito era una via di mezzo tra un ospedale, una casa di riposo e un carcere per animali.

Nonostante la ressa intorno a lui e le pacche sulle spalle si sentiva solo. Questa sensazione viscerale di solitudine gli gelava le viscere. Non bastavano i successi a placarla. Era sempre lì anche cinque anni dopo quando, senza autorità ma con un rinfresco fornito dal migliore catering di Vontano, festeggiò la prima nidiata di sei cuccioli di pastore maremmano dell’allevamento specializzato che aveva costruito nel podere limitrofo acquistato dai signori Ferretti con la promessa di dare lavoro alla primogenita Simona che,se a causa dell’encefalite non riusciva nelle addizioni a tre cifre, aveva una intesa naturale con ogni tipo di bestiola e si scherniva dicendo “io li capisco perché sono come loro”.

Era diventato un paziente modello. Non saltava una seduta di psicoterapia che forse lo avrebbe accompagnato per sempre. I farmaci li avevano sospesi da un pezzo. Fiancheggiava dall’esterno le attività del CIM fornendo occasioni di inserimento lavorativo sia nel canile che nell’allevamento a pazienti inviati dal CIM. 

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CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

La percezione di autoefficacia negli psicoterapeuti in formazione: un’indagine esplorativa

Francesca Mancini.

Il presente studio si propone di indagare la relazione fra percezione di autoefficacia, variabili personali ed esperienziali nei terapeuti in formazione ad orientamento cognitivo-comportamentale. In particolare, si vuole verificare l’eventuale relazione esistente tra autoefficacia percepita, stile di coping e tratti di personalità. Infine, si vuole verificare se il numero di drop out possa influire sulla percezione di autoefficacia stessa. 

Uno degli aspetti centrali della psicoterapia cognitivo-comportamentale è la ricerca scientifica di prove relative all’efficacia dei trattamenti proposti. Oltre all’analisi e alla stesura di protocolli validati per il trattamento dei singoli disturbi, si è assistito negli anni ad un crescente numero di ricerche aventi come focus centrale il terapeuta stesso.

La letteratura del settore riporta studi che approfondiscono il ruolo di caratteristiche personali dello psicoterapeuta negli esiti della terapia, o ancora, ricerche che fanno riferimento alla dimensione emozionale di quest’ultimo in relazione, ad esempio, alla patologia del paziente. 

Il presente studio si propone di indagare la relazione fra percezione di autoefficacia, variabili personali ed esperienziali nei terapeuti in formazione ad orientamento cognitivo-comportamentale. In particolare, si vuole verificare l’eventuale relazione esistente tra autoefficacia percepita, stile di coping e tratti di personalità. Infine, si vuole verificare se il numero di drop out possa influire sulla percezione di autoefficacia stessa. 

L’autoefficacia percepita può essere definita come la convinzione degli individui di poter fornire un certo livello di prestazione e, quindi, di sapere gestire adeguatamente le situazioni problematiche e stressanti. Il senso di autoefficacia influenza il modo in cui gli individui sentono, pensano, trovano motivazioni e si comportano. 

Sono stati condotti due studi: in primo luogo (Studio 1) sono stati raccolti ed analizzati dati su un campione di soggetti iscritti ai quattro anni del corso di specializzazione in psicoterapia cognitivo- comportamentale delle scuole APC ed SPC al fine di valutare se, ed in che modo, la percezione di autoefficacia si modifichi nel corso della formazione. Tuttavia, alcuni limiti metodologici potrebbero aver influito sui risultati ottenuti nello Studio 1, come la disomogeneità del campione sperimentale esaminato; di conseguenza, è in corso uno studio longitudinale (Studio 2) che prende in esame un singolo gruppo di terapeuti durante i quattro anni di formazione. 

 

Lo strumento utilizzato consiste in un questionario on line in cui si sono raccolte sia le informazioni anamnestiche relative al soggetto e alla sua attività clinica, che le relative risposte a tre questionari validati: “Eysenck Personality Questionnaire forma ridotta – EPQ-R (Dazzi et al. 2004), “Coping Orientation to Problems Experienced – COPE NVI” (Sica et al. 2008) e la “Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione di Problemi Complessi” (Farnese et al. 2007).

La variabile “Percezione di Autoefficacia” era articolata su quattro dimensioni: “Maturità Emotiva”, “Finalizzazione dell’Azione”, “Fluidità Relazionale” ed “Analisi del Contesto”. Inoltre, per ogni soggetto si è individuato lo stile di personalità (“Estroversione”, “Nevroticismo”, “Psicoticismo”) e lo stile di coping adottato (“Sostegno Sociale”, “Evitamento” “Attitudine Positiva”, “Orientamento al Problema”, “Orientamento Trascendente”). 

STUDIO 1

Hanno partecipato allo studio 220 (M = 34; F = 186) studenti frequentanti i quattro anni delle scuole di specializzazione APC e SPC. I risultati ottenuti mostrano come il senso di autoefficacia percepita dagli psicoterapeuti in formazione sia modulato positivamente in funzione della propria attitudine positiva e della capacità di orientamento al problema. Diversamente, il senso di autoefficacia sembra diminuire negli studenti con alti livelli di nevroticismo e in quelli che adottano prevalentemente strategie di evitamento. Infine, il numero di drop-out sembra non influire sul livello di autoefficacia percepita. 

STUDIO 2

Il presente studio si propone di rendere più omogeneo il campione sperimentale attraverso una ricerca longitudinale che preveda l’uso di somministrazioni annuali agli studenti del test sopradescritto fino alla conclusione del loro percorso formativo; anche in questo caso, il fine è di approfondire se vi sia, e con quali caratteristiche, una variazione nei livelli di autoefficacia. 

Hanno partecipato allo studio 98 (M =10; F = 89) studenti iscritti al primo anno di corso presso le varie sedi APC e SPC.

I risultati preliminari ottenuti confermano parzialmente quanto ottenuto nello Studio 1: infatti, l’autoefficacia sembra essere modulata positivamente dalle strategie di coping adottate dal soggetto, quali l’attitudine positiva e secondariamente l’orientamento al problema. Al momento non emergono differenze legate ai fattori di personalità. 

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FLASH NEWS

Il risultato è che la marijuana non ha avuto alcuna conseguenza sul pensiero convergente, mentre per il pensiero divergente l’effetto è stato addirittura negativo con prestazioni significativamente compromesse.

Steve Jobs una volta ha detto: “Il modo migliore per descrivere gli effetti della marijuana e dell’hashish è che mi fanno sentire rilassato e creativo”.

Molte persone credono che la cannabis migliori la creatività, per questo un team di ricercatori della Leiden University, Olanda, ha condotto uno studio su 59 (52 maschi e 7 femmine) utilizzatori abituali di marijuana al fine di verificarne gli effetti.

Siccome queste proprietà sono state attribuite al tetraidrocannabinolo (THC), un ingrediente psicoattivo della cannabis, i ricercatori hanno diviso i partecipanti in tre gruppi e somministrato a ciascuno dosi diverse di questo componente (uno dei tre gruppi in realtà aveva la dose azzerata, prendendo dunque un placebo) e chiesto loro di cimentarsi in una serie di compiti cognitivi che misuravano due forme di pensiero creativo: pensiero divergente, avere idee nuove esplorando quante più soluzioni possibili, e pensiero convergente, inteso come trovare l’unica risposta esatta ad una domanda.

Il risultato è che la marijuana non ha avuto alcuna conseguenza sul pensiero convergente, mentre per il pensiero divergente l’effetto è stato addirittura negativo con prestazioni significativamente compromesse.

L’aumento della creatività da cannabis è dunque solo un’illusione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Kowal. M.A., Hazekamp, A., Colzato, L., van Steenbergen, H., van der Wee, N.J.A., Durieux, J.,  Manai, M. & Hommel, M.(2014). Cannabis and creativity: highly potent cannabis impairs divergent thinking in regular cannabis users. Psychopharmacology, DOI 10.1007/s00213-014-3749-1. DOWNLOAD

Il modello dimensionale dei Disturbi di Personalità: nuovi sviluppi nel Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva

E su quali assi sono basate le dimensioni del nuovo modello del Terzo Centro? Naturalmente sugli assi metacognitivi. È la finale maturazione del modello metacognitivo, maturazione che consente al Terzo Centro di offrire una concettualizzazione del caso di Disturbo di Personalità molto avanzata.

Avevo sempre pensato che uno dei tratti più originali della ricerca clinica sui Disturbi di Personalità effettuata da ormai quasi vent’anni dal cosiddetto Terzo Centro* di Psicoterapia Cognitiva fosse, accanto all’attenzione ai deficit metacognitivi, anche l’interesse per le diverse caratteristiche dei Disturbi di Personalità. 

A differenza di altri clinici, come Marsha Linehan o Peter Fonagy, che sembrano privilegiare soprattutto il disturbo borderline di personalità, il gruppo di Antonio Semerari sviluppò fin dall’inizio modelli specifici per quasi tutti i disturbi di personalità: il narcisistico, il dipendente, l’evitante, il paranoide, e anche altri.

Questo finora. A Genova, invece, -durante il congresso della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC)- i colleghi del Terzo Centro hanno presentato un modello dimensionale che tenta di superare le differenze categoriali. Questa svolta però non annulla il loro interesse per i vari tipi di disturbo di personalità.

Credo che i clinici del Terzo Centro non si appiattiscono su un un’unica dimensione, come forse rischiano di fare altro quando parlano di mentalizzazione o di disregolazione emotiva. Il lungo lavoro passato sulle facoltà metacognitive e i loro guasti che portano alla personalità disturbata consente di mantenere l’interesse per la varietà clinica.

Confesso che inizialmente l’abbandono del modello categoriale mi aveva lasciato perplesso. E questa mia perplessità era stata colta da Semerari e dai suoi collaboratori, con il loro consueto acume. Non per niente una delle principali capacità metacognitive è la lettura della mente dell’altro, capacità che evidente non è deficitaria negli amici del Terzo Centro. Sollecitato –intellettualmente ed emotivamente- da loro, ho riconsiderato il loro lavoro e ho cercato di capire meglio cosa fosse questa svolta dimensionale.

In fondo si trattava di estrarre le ultime conseguenze dal modello metacognitivo, modello che era stato sempre dimensionale e che, quando era stato applicato alle categorie diagnostiche, era stato forzato. In realtà è facile ricordare che ciò che colpiva nel vecchio modello del Terzo Centro era proprio il fatto che le categorie diagnostiche fossero intrecciate.

Nella descrizione dei disturbi dipendente ed evitante Carcione e Procacci sottolineavano la presenza di una rabbia sotterranea che –nel dipendente- poteva esplodere in scatti improvvisi, simili a quelli osservabili nel disturbo borderline. Nella descrizione dei disturbi paranoide e narcisistico Nicolò e Dimaggio notavano il profondo senso di esclusione che poteva poi sfociare in stati di vuoto simili a quelli del disturbo borderline. E così via.

Tanto valeva abbandonare le vecchie barriere tra i disturbi, secondo una tendenza che ha informato anche la quinta edizione del manuale diagnostico dei disturbi mentali, il DSM-5. Anche se poi il DSM-5 non ha trovato il coraggio per eseguire l’ultimo salto e lasciarsi alle spalle definitivamente le categorie. Lo hanno fatto quelli del Terzo Centro, coronando una lunga diffidenza per la struttura categoriale.

E su quali assi sono basate le dimensioni del nuovo modello del Terzo Centro? Naturalmente sugli assi metacognitivi. È la finale maturazione del modello metacognitivo, maturazione che consente al Terzo Centro di offrire una concettualizzazione del caso di Disturbo di Personalità molto avanzata. E non si tratta solo dei Disturbi di Personalità. Il modello è applicabile anche al disturbo bipolare o ai disturbi d’ansia e ossessivo.

 

Questo modello consente di pianificare l’intervento in maniera più attenta e consapevole. Non si tratta di un’operazione astratta e aprioristica. L’intervento è continuamente ricucito addosso al paziente attraverso riunioni e supervisioni continue, in cui la valutazione delle capacità metacognitive, nonché dello sviluppo delle risorse sociali e personali, è instancabilmente aggiornata e promuove il riesame periodico della sequenza degli interventi.

Tutto questo sarebbe ancora un po’ generico. Il lavoro del Terzo Centro, invece, va nella direzione moderna della definizione operativa e formalizzata degli stati problematici e degli interventi. Semerari e i suoi collaboratori stanno fornendo degli indicatori affidabili per riconoscere in quale stato stiano i pazienti e per decidere quale sia l’intervento più efficace, in un ventaglio che comprende interventi di psicoterapia individuale, a loro volta classificati in integrativi e di differenziazione, interventi di gruppo focalizzati sullo skills training e interventi farmacologici.

La formalizzazione degli stati problematici è stata costruita utilizzando indicatori delle capacità metacognitive, di regolazione emotiva e di funzionamento socio-relazionale.

Non basta. Il modello sta andando incontro anche a una forte verifica empirica. In un campione di ormai quasi centocinquanta pazienti (e il campione è destinato a crescere) si stanno esplorando le correlazioni tra funzioni metacognitive, stati problematici di disregolazione emotiva e sintomi, in modo da poter dare una conferma controllabile al modello e ai suoi suggerimenti clinici.

Naturalmente rimane ancora un ampio margine di miglioramento. In particolare forse è probabilmente opportuno incrementare il livello di controllo dell’aderenza dei clinici alle linee guida dell’intervento. È giusto, infatti, che il bisogno di personalizzare l’intervento si accoppi con uno sforzo parallelo di verifica di quanto i clinici davvero si attengano alle linee guida. In questo senso occorre lavorare sempre più anche sulla formazione dei terapeuti, allo scopo di essere sicuri che, oltre ad aver compreso le basi, essi sappiano anche applicare il modello in maniera corretta. Buon lavoro!

*Si tratta del noto centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma dove operano Antonio Semerari, Antonino Carcione, Laura Conti, Donatella Fiore, Giuseppe Nicolò, Michele Procacci e molti altri dove in passato ha collaborato Giancarlo Dimaggio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Carcione, A., Nicolò, G., Procacci, M., Buccione, I., Colle L., Conti, L., Fiore, D., Fera, T., Moroni, F., Pedone, R., Pellecchia, G., Riccardi, I., Semerari, A. (2014). Un approccio strutturato per il trattamento dei disturbi di personalità. Presentazione al XVII congresso nazionale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) ‘Marinai, terapeuti e balene’, Genova, 25-28 Settembre 2014.
  • Biondi, M. (2014) (a cura di). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE
  • Semerari, A., Colle, L., 
 Pellecchia, G., Buccione, I., Carcione, A., Dimaggio, G., Nicolò, G., Procacci, M.,
 Pedone, R. (2014). Metacognitive dysfunctions
in personality disorders: correlations with disorder severity and personality styles. Journal of Personality Disorders, 28, 137-153

Interview with Philip Zimbardo – APA 2014, Washington DC

Giovanni Maria Ruggiero interviews Philip Zimbardo

at the APA 2014 Congress in Washington DC

 

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LE INTERVISTE

Job insecurity: cos’è e come combatterla

Negli ultimi decenni il mondo del lavoro ha subìto una serie di mutamenti che hanno portato a una rivoluzione dei contesti lavorativi e al cambiamento dei lavoratori stessi. L’evoluzione delle tecnologie informatiche ha determinato la creazione di nuovi compiti e ruoli lavorativi, e ha fomentato l’esigenza di creare sistemi più complessi, che prevedono non solo competenze tecniche, ma anche cognitive e sociali.

La nascita delle macchine di nuova generazione, che eseguono lavori che prima erano svolti dall’uomo, ha portato le aziende a effettuare downsizing e ristrutturazioni, che hanno aumentato la probabilità dell’insorgenza di diversi effetti psicosociali sia a livello organizzativo (outsourcing, organizzazioni piatte ecc.) sia a livello individuale, come la cosiddetta sindrome dei sopravvissuti, i conflitti sociali e atteggiamenti di sfiducia (Sverke, Hellgren, & Näswall, 2002). Altre aziende hanno applicato fusioni e incorporazioni per meglio gestire le esigenze del mercato, provocando una repentina trasformazione degli stili di gestione e di comportamento dei lavoratori e delle organizzazioni stesse; in aggiunta, si assiste per gradi a una modifica delle tipologie di occupazione (il moltiplicarsi dei contratti a tempo determinato, part-time, prestazioni occasionali, forme di lavoro indipendente ecc.), delle relazioni dipendente/datore di lavoro all’interno dei contesti lavorativi, e della qualità generale della vita lavorativa (Sarchielli, 2008). Appare evidente che il lavoro assume i connotati dell’incertezza e dell’insicurezza, non più e non solo come assenza o presenza di esso (Zuffo e Barattucci, 2008), e il sentimento di insicurezza sul lavoro si diffonde gradualmente fra i lavoratori (De Witte, De Cuyper, Vander Elst, Vanbelle, & Nielsen, 2012). 

L’obiettivo di questo articolo consiste innanzitutto nel presentare lo stato dell’arte del fenomeno della job insecurity – macrotema emergente negli ultimi anni e di grande interesse per la psicologia del lavoro e delle organizzazioni –, definendo le sue caratteristiche e analizzando le conseguenze sia a livello individuale sia organizzativo. Dopodiché saranno avanzati dei suggerimenti per ovviare al fenomeno in questione.

Cos’è la job insecurity

Il fenomeno della job insecurity è definito in diversi modi in letteratura. Ad esempio, Greenhalgh e Rosenblatt (1984, p. 438) definiscono l’insicurezza lavorativa come l’impotenza percepita nel mantenere la continuità desiderata in una situazione di potenziale minaccia. Heaney, et al. (1994) fanno riferimento alla percezione di una potenziale minaccia per la continuità del lavoro attuale; Sverke e collaboratori (2002) hanno condotto un lavoro di classificazione e di meta-analisi di quanto in letteratura è stato espresso sulla job insecurity, individuando un comun determinatore che lega le molteplici definizioni del fenomeno: la preoccupazione per la continuità futura del lavoro in corso.

Dalle definizioni indicate precedentemente, è facilmente intuibile che l’insicurezza lavorativa è una percezione pressoché soggettiva, da ciò si evince che la stessa situazione oggettiva potrebbe essere interpretata in modi differenti da vari lavoratori. Ad esempio il licenziamento potrebbe essere temuto da alcuni dipendenti di un’azienda, anche se da un punto di vista oggettivo non potrebbe esserci alcuna ragione per temerlo, mentre altri si potrebbero sentire fiduciosi sul loro lavoro anche se c’è un’alta probabilità che possano essere licenziati (De Witte et al., 2012). In definitiva, comunque, quando si parla di job insecurity si fa riferimento all’insicurezza soggettiva scaturita da una possibilità oggettiva di perdita di lavoro.

Conseguenze della job insecurity

In letteratura la job insecurity è considerata, date le sue caratteristiche, un vero e proprio stressor (ad es. Ashford, Lee, & Bobko, 1989), ossia una caratteristica del lavoro che ha conseguenze negative sia sul singolo lavoratore sia sull’organizzazione di cui esso fa parte (De Witte et al., 2012).

Per quanto riguarda le conseguenze negative sulla salute e il benessere dei lavoratori, la job insecurity è negativamente correlata alla soddisfazione del proprio lavoro, al benessere psicologico e alla salute fisica (Cheng & Chan, 2008; Sverke et al., 2002). Per quanto riguarda le conseguenze nelle organizzazioni, la percezione di job insecurity è spesso associata a un abbassamento della fiducia nel management e del commitment, a un aumento dell’intenzione a lasciare il posto di lavoro (Cheng & Chan, 2008; Sverke et al., 2002; Sverke, Hellgren, Näswall, Chirumbolo, De Witte, & Goslinga, 2004), a una resistenza ai cambiamenti nell’organizzazione (Greenhalgh e Rosenblatt, 1984), e a una riduzione delle prestazioni (Cheng & Chan, 2008; De Witte, 2005).

Inoltre è stato dimostrato che i membri più qualificati di un’organizzazione sono più propensi a lasciare l’azienda, proprio perché hanno più probabilità nel trovare un nuovo lavoro (Greenhalgh e Rosenblatt, 1984). Tutto ciò contribuisce a rendere debole l’organizzazione, a diminuire la sua valenza sul mercato; inoltre questi problemi richiedono nuovi investimenti per l’azienda per cercare nuovi lavoratori e per gestire le situazioni di mancata salute organizzativa.

Ulteriori studi hanno indagato gli effetti della job insecurity su degli outcome che possono essere definiti extralavorativi (per una rassegna più completa si veda ad esempio De Witte, 1999, 2005; Ferrie, 2001; Probst, 2008; Sverke & Hellgren, 2002). È stato dimostrato infatti che l’insicurezza lavorativa è negativamente correlata alla soddisfazione della vita in generale e al sentirsi felici (De Witte, 2003, citato da De Witte et al., 2012). Inoltre, in uno studio di De Cuyper et. al (2009) è stato dimostrato che il fenomeno in questione è associato sia all’essere vittima di episodi di bullismo, sia all’esserne l’autore.

Come ridurre la job insecurity

È compito della psicologia individuare gli interventi atti a contrastare gli effetti negativi del fenomeno in questione. La crisi economica che sta attraversando tutto il mondo dal 2008 è certamente un fattore decisivo dei macro-cambiamenti che stanno avvenendo nel lavoro. Da ciò si evince che i fattori che sottostanno al fenomeno sono abbastanza complessi. Intervenire a livello mondiale sulle società organizzative è una sfida per i vertici internazionali. Gli interventi che saranno proposti in questo elaborato consistono, piuttosto, in pratiche di gestione aziendale che, nella realtà in cui opera, un’azienda potrebbe attuare per migliorare il benessere proprio e dei lavoratori.

Per ovviare al fenomeno in questione, un’organizzazione dovrebbe puntare innanzitutto a una comunicazione efficace; quest’ultima rende l’azienda più prevedibile per i dipendenti e permette ai lavoratori di avere un maggiore controllo sul loro lavoro. In aggiunta, la comunicazione dovrebbe essere chiara e onesta, in modo tale che un dipendente si senta rispettato e preso in considerazione (De Witte, 2005). La partecipazione dei lavoratori al processo decisionale produrrebbe gli stessi effetti; inoltre, si potrebbe far riferimento alla Teoria dell’equità di Adams (1963) e al concetto di giustizia sociale di Greenberg (1990), suggerendo che bisognerebbe fare in modo che ogni individuo percepisca giustizia distributiva (un’equa distribuzione delle risorse economiche e sociali) e giustizia procedurale (imparzialità nei processi aziendali che sottostanno all’allocazione delle risorse). Bisogna tener conto anche del sostegno sociale, la cui importanza è stata rilevata da Greenhalgh e Rosenblatt (1984), per moderare l’insicurezza lavorativa; ad esempio Lim (1996, citato da De Witte, 2005) ha dimostrato che il sostegno della famiglia, dei colleghi e dei sindacati indebolisce l’impatto negativo della job insecurity nei lavoratori.

Nel suggerire dei possibili interventi, si deve tener conto anche dell’importanza della formazione dei dipendenti. Rendere i lavoratori più resistenti al cambiamento informandoli e motivandoli, lavorando anche sulle capacità di gestire determinate situazioni, può considerarsi una strategia utile.
Infine, si potrebbero studiare dei sistemi che riducano lo squilibrio sforzo-ricompensa di cui parlava Siegrist (1996). La presenza d’insicurezza potrebbe essere compensata creando un sistema premiante o, se è già presente, inserendo altri premi; si potrebbe anche agire sul lato degli sforzi, diminuendo il carico di lavoro compensandolo con nuovi posti di lavoro che saranno ricoperti da nuove assunzioni. Ovviamente, come evidenzia De Witte (2005), degli interventi che richiedono degli investimenti, come gli ultimi descritti, sono quasi inattuabili in situazioni di crisi economica, perciò si potrebbe puntare a quelle strategie di gestione indicate in precedenza, che non richiedono dei costi, ma che possono essere molto efficaci.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Adams J.S. (1963). Toward an understanding of inequity. Journal of abnormal and social psychology, 67, pp. 422-436.
  • Ashford, S. J., Lee, C., & Bobko, P. (1989). Content, causes, and consequences of job insecurity: A theory-based measure and substantive test. Academy of Management Journal, 32(4), 803-829.
  • Cheng, G. H. L., & Chan, D. K. S. (2008). Who suffers more from job insecurity? A meta-analytic review. Applied Psychology-an International Review-Psychologie Appliquee-Revue Internationale, 57(2), 272-303.
  • De Cuyper, N., Baillien, E., & De Witte, H. (2009). Job insecurity, perceived employability and targets’ and perpetrators’ experiences of workplace bullying. Work and Stress, 23(3), 206-224.
  • De Witte, H. (1999). Job insecurity and psychological well-being: Review of the literature and exploration of some unresolved issues. European Journal of Work and Organizational Psychology, 8(2), 155-177.
  • De Witte, H. (2003). Over de gevolgen van werkloosheid en jobonzekerheid voor het welzijn. Empirische toets op basis van de Europese Waardenstudie [On the consequences of unemployment and job insecurity for metal well-being. Empirical tests based on the European Values Survey]. Tijdschrift Klinische Psychologie, 33(1), 7-21.
  • De Witte, H. (2005). Job insecurity: review of the international literature on definitions, prevalence, antecedents and consequences. SA Journal of Industrial Psychology, 31 (4), pp. 1-6. DOWNLOAD
  • De Witte, H., De Cuyper, N., Vander Elst, T., Vanbelle, E., & Niesen, W. (2012). Job Insecurity: Review of the Literature and a Summary of Recent Studies from Belgium. Romanian Journal of Applied Psychology, 14(1), 11-17.
  • Ferrie, J. E. (2001). Is job insecurity harmful to health? Journal of the Royal Society of Medicine, 94(2), 71-76. DOWNLOAD
  • Greenberg, J. (1990). Organizational justice: Yesterday, today, and tomorrow. Journal of Management, 16(2), 399–432.
  • Greenhalgh, L., & Rosenblatt, Z. (1984). Job insecurity: Toward conceptual clarity. Academy of management review, 9 (3), pp. 438-448.
  • Heaney, C., Israel, B. & House, J. (1994). Chronic job insecurity among automobile workers: Effects on job satisfaction and health. Social Science and Medicine, 38 (10), 1431-1437.
  • Lim, V. (1996). Job insecurity and its outcomes: Moderating effects of work-based and non work-based social support. Human Relations, 49 (2), 171-194.
  • Probst, T. M. (2008). Job Insecurity. In J. Barling & C. L. Cooper (Eds.), The SAGE Handbook of Organizational Behavior (Volume 1: Micro Perspectives) (pp. 178-195). London: Sage. ACQUISTA
  • Sarchielli, G. (2008). Psicologia del lavoro. Il Mulino, Bologna. ACQUISTA
  • Siegrist, J. (1996). Adverse health effects of high-effort/lowreward conditions. Journal of Occupational Health Psychology, 1, 27-41.
  • Sverke, M., & Hellgren, J. (2002). The nature of job insecurity: Understanding employment uncertainty on the brink of a new millennium. Applied Psychology: An International Review, 51(1), 23-42.
  • Sverke, M., Hellgren, J., & Näswall, K. (2002). No security: A meta-analysis and review of job insecurity and its consquences. Journal of Occupational Health Psychology, 7 (3), pp. 242-264.
  • Sverke, M., Hellgren, J., Näswall, K., Chirumbolo, A., De Witte, H., & Goslinga, S. (2004). Job Insecurity and Union Membership. European Unions in the Wake of Flexible Production. Brussels: Peter Lang.
  • Zuffo, R.G., & Barattucci, M. (2008). Job-insecurity e disagio lavorativo. In: M. Fulcheri, A. Lo Iacono & F. Novara (Eds), Benessere psicologico e mondo del lavoro, pp. 27-37. Centro Scientifico Editore.

 

Frammenti di micro-Rna ricordano i traumi subiti per generazioni

Uno studio pubblicato su Nature Neuroscience dal team condotto dalla Dott.ssa Mansuy e dai ricercatori del Brain Research Institute di Zurigo, suggerisce che alcune esperienze traumatiche, sia di natura psicologica che affettiva, potrebbero essere trasmesse alle generazioni successive.

La ricerca ipotizza che ciò avvenga grazie a un meccanismo chiamato eredità epigenetica; tale fenomeno, implicato anche in una moltitudine di disturbi mentali presenti in larga misura ai giorni nostri, sarebbe in grado di trasmettere l’esperienza stressante alla generazione successiva, in particolare in condizioni di schizofrenia, disturbo bipolare e obesità.

La ricerca è stata condotta sui topi, ma gli autori ipotizzano che i risultati ottenuti possano valere anche per l’uomo. In particolare la Dott.ssa Mansuy ricorda come ci siano malattie, come il disturbo bipolare, che si tramandano in famiglia nonostante non siano riconducibili ad un particolare gene.

Lo studio ha rilevato che i microRNA, piccole molecole endogene di RNA a singolo filamento, sono in grado di alterarsi in situazioni di stress, e di trasferire la memoria di situazioni traumatiche e stressanti trasmettendo l’informazione alla progenie.

Per identificare il meccanismo sono stati messi a confronto topi adulti, esposti a condizioni traumatiche nei primi anni di vita, con altri topi non traumatizzati. I ricercatori hanno studiato il numero e il tipo di microRNA nei roditori traumatizzati scoprendo così che lo stress traumatico aveva alterato – per eccesso o per difetto – la quantità di numerosi microRNA sia nel sangue, che nel cervello che nel liquido spermatico; modificazioni che alterano l’attività dei geni per far fronte a difficoltà ambientali.

Gli studiosi hanno osservato che i topi traumatizzati modificavano il loro comportamento: perdevano la naturale avversione agli spazi aperti e alla luce e mostravano segni di depressione. Caratteristiche che tramite lo sperma venivano trasferite alla prole fino alla terza generazione; anche se tali esemplari non subivano stress o traumi manifestavano cambiamenti sia nei livelli di insulina che di zuccheri nel sangue che nei comportamenti.

Il gruppo di ricercatori ha identificato specifici microRNA che vengono prodotti non solo in presenza di eventi traumatici, ma anche in situazioni di stili di vita inappropriati quali l’abuso di cibo, lo scarso esercizio fisico, o la mancanza di cibo per carestia.

In base alla ricerca suddetta Moshe Szyf della McGill University of Montreal dice che:

Studi di questo tipo evidenziano l’idea che le esperienze temporanee di una generazione potrebbero influenzare il comportamento delle generazioni successive, anche se non sono mai state esposte alla stessa esperienza; se questo è vero anche negli esseri umani ciò ha immense implicazioni morali, sociali e politiche.

E la Mansuy riassume:

Siamo stati in grado di dimostrare per la prima volta che le esperienze traumatiche influenzano il metabolismo a lungo termine, che i cambiamenti indotti sono ereditari e che gli effetti del trauma ereditato persistono sul metabolismo e sui comportamenti psicologici fino alla terza generazione.

L’importante scoperta apre il campo a nuove ricerche, in particolare sarà fondamentale capire se gli stessi meccanismi siano validi anche per l’uomo.

La conclusione di Mansuy è che i condizionamenti ambientali lasciano tracce nel cervello, negli organi e nei gameti, attraverso i quali quelle tracce vengono trasmesse alle generazioni successive.

 

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I vantaggi del multitasking: aumenta la prestazione nei compiti

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Contrariamente alle credenze popolari che sostengono che il multitasking porterebbe ad uno scarso rendimento, gli adolescenti che usano in contemporanea diversi dispositivi multimediali per tanto tempo potrebbero trarne dei benefici. 

Dire ai giovani che manipolano più dispositivi elettronici di focalizzarsi su un solo compito potrebbe non essere sempre un buon consiglio, secondo i risultati di una ricerca che è stata presentata da due ricercatori durante la Conferenza annuale di Pediatria, U.S.A., 2014.

Nel loro studio intitolato: “Limiti di capacità della memoria di lavoro: L’impatto del multitasking sul controllo cognitivo negli adolescenti”, Sarayu Caulfield e Alexandra Ulmer hanno evidenziato come contrariamente alle credenze popolari che sostengono che il multitasking porterebbe ad uno scarso rendimento, gli adolescenti che usano in contemporanea diversi dispositivi multimediali per tanto tempo potrebbero trarne dei benefici.

Una possibile ipotesi avanzata dagli autori per spiegare tali risultati fa leva sul concetto di pratica: “Probabilmente tanta pratica rende perfetti; nell’ambiente mediale odierno tante persone possono essere definite multitasking e grazie alla pratica sono diventate veramente veloci a svolgere più attività in contemporanea”, sostiene Dott. Caulfield uno degli autori del presente studio. 

Per studiare come le attività mediali multitasking influiscono sulla capacità degli adolescenti di elaborare l’informazione, gli autori hanno reclutato per la partecipazione al loro studio 196 femmine e 207 maschi con età compresa tra 10-19 anni. A tutti i partecipanti sono state chieste delle informazioni riguardanti le loro abitudini quotidiane afferenti l’uso dei dispositivi media. Inoltre ai partecipanti veniva somministrato il questionario Stanford Multitasking Media Index che valuta quanto spesso una persona compie delle attività multitasking (ad esempio chattare e scrivere una mail in contemporanea).

 

I partecipanti hanno poi completato dei testi che valutavano le loro capacità di fare più attività in contemporanea o di focalizzarsi su un singolo compito. Essi sono stati assegnati in modo casuale a due gruppi per svolgere attività senza distrattori (non-multitasking) e rispettivamente con distrattori (multitasking): uditivi e visivi.

Dai risultati è emerso come i partecipanti che hanno ottenuto dei punteggi bassi al questionario Multitasking Media Index in media non dedicano più di 20 minuti al giorno allo svolgimento dei compiti multimediali. Inoltre essi dedicano in media 2.5 ore al giorno per lo svolgimento dei loro compiti scolastici e nel mentre solo 0,8% di questo tempo viene utilizzato per lo svolgimento in contemporanea di altre attività mediali. Mentre i partecipanti che hanno ottenuto dei punteggi elevati al questionario Multitasking Media Index dedicano più di 3 ore al giorno alle diverse attività multimediali. Inoltre essi dedicano più di 3.5 ore al giorno ai compiti scolastici e nel mentre più del 50% del tempo svolgono in contemporanea altre attività mediali. 

Inoltre dai risultati è emerso come i partecipanti che dedicano più tempo alle attività mediali e svolgono più attività in contemporanea presentano dei risultati migliori nei compiti con distrattori e risultati peggiori nei compiti senza distrattori. Risultati opposti sono stati registrati nei partecipanti che dedicano poco tempo allo svolgono di più attività mediali in contemporanea.

Il dott. Caulfield sottolinea come “la maggior parte delle persone eseguono meglio un compito in assenza dei distrattori tuttavia una eccezione alla regola si riscontra negli adolescenti che per tanto tempo sono immersi in più attività mediali in contemporanea”.

Questo studio suggerisce come i nativi digitali (essendoci da piccoli esposti ad un ambiente mediale multitasking) potrebbero aver sviluppato una memoria di lavoro maggiore che implica prestazioni migliori nei ambienti con più distrattori rispetto ad ambiti in cui ci si debba focalizzare su un solo compito.

Questi risultati potrebbero essere utili nel migliorare i metodi d’insegnamento e la curricula proposta agli allievi-nativi digitali.

 

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Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo!

Annalisa Oppo.

La motivazione conta per entrare all’università?

La tradizione narra che un giorno Archimede, matematico ed inventore greco, avrebbe detto: “Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”. La celebre frase fu conosciuta in seguito alla scoperta dell’uso delle leve per sollevare gli oggetti ed è stata poi tramandata da filosofi e matematici. Oggi il concetto di leva viene usato, in senso metaforico, per spiegare alcuni costrutti psicologici come quello della motivazione.

La motivazione può essere vista come la manifestazione dei motivi che inducono un individuo a compiere azioni o a muoversi verso una direzione. La letteratura scientifica sulla motivazione è decisamente copiosa, per usare un eufemismo… Digitando la parola “motivation” su PUBMED, la banca dati scientifica più conosciuta, il risultato è sbalorditivo: 154167 articoli che, in un modo o nell’altro, sfiorano questo argomento.

Restringendo la ricerca ai soli studenti universitari, il numero degli articoli scientifici che hanno come parola chiave “motivation” si avvicina agli ottomila. Ma cosa ci dice la letteratura scientifica?

Uno studio longitudinale recente (Bjørnebekk et al., 2013) ha evidenziato che costrutti come la motivazione, l’autoefficacia e la capacità di darsi degli obiettivi siano i maggiori indicatori in grado di predire il successo accademico. Inoltre, Bjørnebekk e collaboratori hanno evidenziato come la motivazione connessa ad un comportamento orientato ad evitare il fallimento aumenta significativamente la probabilità di un drop out scolastico, in altre parole: un vero e proprio abbandono.

Una meta-analisi recente (Richardson et al., 2012) ha inoltre identificato in alcuni fattori, definiti dagli stessi autori “non-intellective constructs”, i maggiori predittori di grade point average (GPA), ritenuto uno degli indicatori di successo scolastico più affidabile e maggiormente indicativo di successo occupazionale (Strenze, 2007). Più precisamente, le variabili in grado di predire un GPA più elevato sono: l’autoefficacia connessa alla prestazione accademica (academic self-efficacy), la capacità di definire obiettivi di carriera scolastica (grade goal), e la capacità di autoregolare le proprie energie (effort regulation) che possono essere viste come declinazioni diverse del più ampio costrutto “motivazione”.

SFU PRESENTAZIONEDate le evidenze riportate dalla letteratura ci si chiede perché, in un contesto come quello universitario che dovrebbe essere orientato alle pratiche basate sulle evidenze, le procedure di selezione degli studenti ignorino l’aspetto motivazionale. Questo interrogativo si veste di un’importanza ancora più rilevante se si parla dello studio della psicologia.

Qual è la situazione relativa all’accesso ad un corso di laurea in psicologia in Italia?

Il Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR) dichiara l’esistenza di 37 università e 43 corsi di laurea in psicologia, includendo università pubbliche (78.4%), private (15.8%) e telematiche (7.9%).

Sebbene il corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche (L-24) non sia incluso nella lista dei corsi di laurea definiti dal MIUR “a numero chiuso”, l’ammissione al corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche è, per quasi la totalità dei corsi, a numero chiuso. Ad oggi, sebbene legittimo per ogni ateneo effettuare selezioni con le modalità che l’ateneo stesso ritiene più opportune, un test di ammissione rappresenta un dato di fatto per tutti i candidati che vogliono iscriversi a questo corso di laurea. La procedura di default è quella del test d’ingresso che prevede una serie di quesiti che spaziano dalla cultura letteraria a quella scientifico-matematica, unitamente ad una serie di domande attinenti al corso di interesse.

Da una nostra stima effettuata sulle liste degli studenti che hanno superato i test d’ingresso in alcune delle facoltà di psicologia che hanno il maggior numero di posti disponibili risulta che circa il 30 % dei ragazzi che prova un test entra effettivamente in un corso di laurea in scienze e tecniche psicologiche. Uno su 3.

In questo contesto, ci si chiede se una selezione basata su domande a scelta multipla possa valutare effettivamente il livello di preparazione del futuro psicologo piuttosto che una capacità strategica di conquistare il maggior numero di punti possibili considerando il minimo rischio di errore (ricordiamo che ad ogni domanda errata viene solitamente sottratto un quarto di punto).

Sia l’opinione pubblica che quella dei tecnici sembra essere abbastanza concorde nell’affermare che un test a scelta multipla potrebbe non essere la scelta di selezione più felice.

Il Professor Alberto Scanni, primario emerito di oncologia al Fatebenefratelli di Milano afferma in un’intervista pubblicata sull’Espresso nel maggio del 2014 che «Per dare al Paese buoni dottori andrebbe valutata una sola cosa: la motivazione, la spinta etica»; afferma anche che «Il test non è democratico» e che «La selezione andrebbe fatta durante gli studi. Con esami molto più seri e impegnativi di quelli attuali. Non sbarrando l’ingresso a priori».

Il Professor Scanni parla dei medici, noi pensiamo che questo discorso valga anche per gli psicologi e nell’era dell’evidence-based dove la ricerca ha sottolineato l’importanza degli aspetti motivazionali ci chiediamo se fare una selezione, perché una selezione va fatta, ignorando l’aspetto motivazionale, sia la scelta migliore o più etica.

 

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Le storie di ingiustizia non denunciate sono, per definizione, non conosciute; ma non è forse vero che la storia è scritta dai vincitori?

L’argomento sul quale si vuole portare l’attenzione è quello relativo alle tante storie non conosciute di ragazzi “scomparsi” ai quali è stata negata una possibilità: l’accesso ad un corso di laurea che rappresentava la loro prima scelta. In particolare il nostro interesse è rivolto ai futuri studenti che hanno come sogno nel cassetto quello di studiare psicologia, ma qual è la situazione relativa all’accesso ad un corso di laurea in psicologia in Italia?

Da una nostra stima risulta che circa il 70 % dei ragazzi che prova un test di ammissione a psicologia non supera il test di ingresso. Noi siamo interessati a queste storie e ci interessa la tua opinione.

 

SE DEI DISPONIBILE, PARTECIPA ALLA NOSTRA RICERCA COMPILANDO IL QUESTIONARIO, CI INTERESSA LA TUA OPINIONE!

The Hours (2002) – Cinema & Psicoterapia n.30

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  n. 30

The Hours (2002)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Il mal di vivere logora i tre personaggi e l’impossibilità di elaborare una visione negativa di sé, del futuro e del mondo sembra travolgere i loro vissuti emotivi.

 

Info:

Diretto da Stephen Daldry, con Meryl Streep, Nicole Kidman, Julianne Moore, Miranda Richardson, Ed Harris. Drammatico. USA 2002. Basato sul romanzo di Michael Cunningham.

 

Trama:

Tre donne che vivono in periodi diversi sono unite da un romanzo.

Virginia Woolf nonostante stia lottando contro una forte depressione comincia a scrivere La signora Dalloway.

Laura Brown vive a Los Angeles negli anni cinquanta, sta leggendo “La signora Dalloway” e la lettura la spinge a mettere in discussione le sue scelte di giovane moglie e madre.

Clarissa Vaughan, che abita nella New York attuale, sente di somigliare a una moderna signora Dalloway mentre organizza l’ultima festa in onore del suo amico ed ex amante Richard, che si sta spegnendo a causa dell’AIDS. Le storie di queste tre donne, vissute in periodi diversi, si intrecciano fra loro.

 

Motivi d’interesse:

I temi depressivi che propone il film portano Virginia Woolf al suicidio: annegherà riempiendosi le tasche di sassi. Laura abbandonerà il marito e il figlio alla ricerca di se stessa, oppressa da una vita in cui ha perduto la capacità di scegliere. Clarissa, editor newyorkese si prende cura di Richard, poeta morente (si scoprirà poi essere il figlio abbandonato di Laura), confrontandosi con vissuti di perdita e abbandono.

Il mal di vivere logora i tre personaggi e l’impossibilità di elaborare una visione negativa di sé, del futuro e del mondo sembra travolgere i loro vissuti emotivi. Alcune frasi di Nicole Kidman scritte al marito rendono bene questi stati mentali:

“Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi, faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so… Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe… Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi”.

Il fallimento dei progetti esistenziali viene riaffermato con consapevolezza da Richard:

“Davvero il mio lavoro continuerà a vivere? Non ci riesco. Perché io volevo fare lo scrittore, io volevo scrivere di tutto, di tutto ciò che può accadere in un momento, di come erano i fiori mentre li portavi tra le braccia, di questo asciugamano, del suo odore, della sensazione che dà la sua trama, di tutte le nostre sensazioni, le tue e le mie, della nostra storia, di chi eravamo una volta, di tutte le cose del mondo, tutto mescolato insieme, come tutto è mescolato adesso… E invece ho fallito. Ho fallito. Il punto di partenza può essere anche alto ma finisce col ridursi”.

Emerge un nichilismo patologico associato allo scacco esistenziale che porta o sollecita il suicidio come gesto estremo e libero di rinuncia, di desistenza. L’abbandono di sé e l’autodistruzione  seguono necessariamente uno stato di prostrazione, di dolore e sofferenza incolmabili e incontenibili.

 

Indicazioni per l’utilizzo:

È consigliato un uso didattico del film. Da non prescrivere a pazienti depressi.

 

Trailer:

 

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Rubrica Cinema & Psicoterapia

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma.  ACQUISTA ONLINE
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