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I tratti di personalità e il loro ruolo nelle difese immunitarie

FLASH NEWS

I ricercatori hanno a lungo ipotizzato che la personalità possa influenzare lo stato di salute. Ora, un nuovo studio suggerisce che alcuni tratti della personalità possano effettivamente avere un ruolo nel funzionamento del sistema immunitario.

Un team di ricerca della Facoltà di Medicina dell’Università di Nottingham ha rilevato, infatti, che le personalità estroverse hanno più probabilità di avere un sistema immunitario forte, mentre chi è socialmente più cauto tende ad avere un sistema immunitario più debole.

Il team ha arruolato 121 adulti sani (86 femmine e 35 maschi) di età compresa tra i 18 e 59 anni, tutti i partecipanti erano tenuti a compilare un test che misurava cinque dimensioni principali della personalità: estroversione, nevrosi, apertura, piacevolezza e coscienziosità. I partecipanti hanno anche fornito campioni di sangue, e i ricercatori hanno utilizzato la tecnologia dei microarray (un insieme di microscopiche sonde di DNA che permettono di esaminare simultaneamente la presenza di moltissimi geni all’interno di un campione di DNA) per valutare il legame tra i cinque tratti della personalità e l’attività dei geni nelle cellule bianche del sangue che svolgono un ruolo nella risposta del sistema immunitario.

I risultati delle analisi hanno rivelato che i partecipanti con un alto punteggio in estroversione avevano un’aumentata espressione di geni pro-infiammatori nelle cellule bianche del sangue, mentre le personalità più coscienziose mostravano una più ridotta espressione di questi geni. Ricordiamo che i meccanismi difensivi messi in atto dalla risposta infiammatoria tendono a eliminare lo stimolo dannoso e i detriti delle cellule danneggiate e a riparare il danno, ripristinando l’omeostasi funzionale e strutturale dell’organismo, la risposta infiammatoria è cioè indice di buon funzionamento del sistema immunitario.

I risultati erano indipendenti da comportamenti come l’esercizio fisico, il fumare il bere e lo sperimentare emozioni negative.

Nel complesso, i ricercatori pensano che i loro risultati possano migliorare la comprensione di come la personalità influisce sulla salute e la longevità, anche se la vera domanda che rimane aperta è:

E’ la nostra biologia a determinare la nostra psicologia o la nostra psicologia determinare la nostra biologia?

 

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In che modo l’autoritarismo dei genitori influenza la personalità dei figli?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali (2014) – di L. Ciccolini e D. Cosenza

Ciccolini - DCA Copertina 2014

E’ stato pubblicato il libro

IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI ALIMENTARI IN CONTESTI ISTITUZIONALI

a cura della Dott.ssa LAURA CICCOLINI e del Dott. DOMENICO COSENZA:

“Il libro propone una trattazione a più voci della cura dei pazienti affetti da disturbo del comportamento alimentare in un contesto istituzionale. Ciò che lo anima è l’esigenza di reperire la logica che presiede alle pratiche di cura in istituzione messe in campo in questo ambito della psicopatologia contemporanea, ed i nodi problematici che rendono complesso e di difficile soluzione lo sviluppo del trattamento.”

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TUTTI GLI ARTICOLI SU: DCA – DISTURBI ALIMENTARI

 

 

Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazione e bisogni (2014) – Recensione

Pietro Roberto Goisis mette a disposizione dei lettori, in una forma fruibile a un pubblico anche non esclusivamente “di settore”, la propria esperienza clinica e la profonda conoscenza della letteratura di riferimento. Questo aspetto, enfatizzato dalla scelta di un registro linguistico non asettico e non confinato da una gergalità scientifica eccessiva,  consente al lettore di approcciarsi ad un argomento tanto complesso come l’adolescenza in modo semplice, chiaro, pur riuscendo ad avere una visione complessiva esaustiva.

In un momento storico e culturale in cui l’interesse verso l’adolescenza è più vivo che mai, l’autore – che giunge all’elaborazione di questo testo dopo un’esperienza clinica di oltre 35 anni – ci presenta un moderno approccio clinico a questa delicata fase di sviluppo. Il testo è suddiviso in tre capitoli e risulta caratterizzato da uno stile comunicativo immediato che ha il merito di facilitare l’apprendimento e di chiarificare, anche ai non “addetti ai lavori”, il complesso mondo adolescenziale.

Il primo capitolo si apre con la citazione di alcune opere letterarie (e.g., “La metamorfosi” di Kafka) con l’intento di mostrare al lettore come i conflitti psichici – così vivi nell’età adolescenziale – siano ben descritti in ambito artistico/letterario e non solo in ambito scientifico/psicologico.

A seguire, l’autore propone un esaustivo excursus relativo alle diverse teorie psicologiche che, in ambito psicoanalitico, si sono sviluppate nel corso degli anni sul tema dell’adolescenza: dai primi lavori di Stanley Hall a Sigmund Freud, da August Aichorn a Donald Winnicott fino ad arrivare ai lavori di Tommaso Senise (autore fondamentale nella costruzione dell’intero lavoro di Goisis) e ai recenti modelli teorici presenti in letteratura. Nel concludere il capitolo l’autore riflette sul tema della “crisi adolescenziale”, a partire dall’accezione etimologica fino all’analisi delle molteplici dimensioni implicate (e.g., fisiologica piuttosto che sociale/gruppale).

Il secondo, corposo, capitolo del testo è suddiviso in due macrocategorie con l’intento di scindere le riflessioni relative alla teoria da quelle relative alla “tecnica”. Nella prima parte del capitolo – dedicata alla teoria – viene esposto il “modello Senise”, elaborato inizialmente negli anni ’60 ma presentato ufficialmente nel 1980 al Congresso della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile. In particolare, Goisis ne enfatizza due punti fondamentali: il primo relativo alle modalità comunicative da utilizzare nel lavoro con gli adolescenti (sottolineando l’importanza della scelta di una comunicazione schietta, diretta e sincera) e il secondo, invece, relativo alle figure genitoriali e alla possibilità/necessità di coinvolgimento degli stessi – come parte attiva – nel processo terapeutico del giovane paziente.

L’aspetto centrale della riflessione di Goisis è orientato intorno ai concetti di “immedesimazione” e di “costruzione”. L’immedesimazione (che parte sempre dal modello teorico di Senise, passando per i lavori più recenti di Bolognini) è ciò che permette al terapeuta di “mettersi nei panni” del giovane paziente – attraverso una serie di “identificazioni” e “contro-identificazioni” – per poter successivamente “restituire” e aiutare a “costruire” una visione di sé e del mondo più sana. 

Dopo aver dato ampio spazio all’analisi delle recenti acquisizioni derivate dall’apporto delle neuroscienze alla comprensione delle dinamiche psicobiologiche sottostanti lo sviluppo cerebrale (come il fenomeno del pruning o la mielinizzazione), la seconda parte del II capitolo è dedicata alle riflessioni dell’autore in merito alla “tecnica”. Per facilitare la comprensione delle interessanti considerazioni relative ai primi contatti con il paziente adolescente, agli invii e agli incontri con i genitori del paziente, vengono fornite un buon numero di esemplificazioni cliniche.

Inoltre, in un paragrafo scritto da Stephen Finn, viene discusso il ruolo dell’Assessment Psicologico in terapia, mettendo in luce l’importanza di una ripartizione cooperativa di ruoli tra chi si occupa della terapia e l’Assessor. Nel paragrafo che chiude questo capitolo, scritto da Patrizia Bevilacqua, vengono infine raccolte le esperienze professionali dell’autrice come assessor che forniscono un quadro esaustivo di quanto prima teorizzato. Il III e ultimo capitolo, infine, risulta caratterizzato da una serie di esemplificazioni cliniche, racconti e trascrizioni di colloqui, che chiariscono i concetti chiave illustrati nei capitoli precedenti ed esemplificano con zelo il pensiero dell’autore.

Pietro Roberto Goisis mette a disposizione dei lettori, in una forma fruibile a un pubblico anche non esclusivamente “di settore”, la propria esperienza clinica e la profonda conoscenza della letteratura di riferimento. Questo aspetto, enfatizzato dalla scelta di un registro linguistico non asettico e non confinato da una gergalità scientifica eccessiva,  consente al lettore di approcciarsi ad un argomento tanto complesso come l’adolescenza in modo semplice, chiaro, pur riuscendo ad avere una visione complessiva esaustiva. Anche i numerosi richiami al mondo musicale e letterario (i riferimenti al testo della canzone di Ivano Fossati “La costruzione di un amore”, piuttosto che al libro di Tove Jannson “Racconti dalla Valle dei Mumin”) nell’esposizione delle proprie argomentazioni, infatti, contribuiscono a stimolare una riflessione più ampia sull’argomento e a carpire molteplici spunti di riflessione clinica e non.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il mondo degli adolescenti: la transizione dall’infanzia all’età adulta – Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Goisis, P.R. (2014). Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazioni e bisogni. Mimesis Editore

Salvare i documenti ci permette di migliorare la nostra memoria!

FLASH NEWS

Secondo un recente studio della University of California il semplice atto di “salvare” qualcosa, ad esempio un file su un computer, può migliorare la nostra memoria: “risparmiare” spazio in memoria grazie all’uso di supporti esterni, infatti, permette di liberare risorse cognitive che possono essere utilizzate per ricordare nuove informazioni. 

L’idea è abbastanza semplice: il salvataggio agisce come una forma di scarico, in altre parole, l’oblio svolge un ruolo essenziale nel sostenere il funzionamento adattivo della memoria e della cognizione. Facendo in modo che certe informazioni siano accessibili in modo digitale, siamo in grado di ri-assegnare le risorse cognitive, che verrebbero altrimenti impiegate per mantenere tali informazioni in memoria, e di concentrarci sul ricordo di nuove informazioni.

I ricercatori erano interessati a esplorare l’interazione tra memoria e tecnologia. Infatti, anche se ricerche precedenti avevano mostrato che salvare le informazioni su un dispositivo digitale, ad esempio un computer o una fotocamera, ostacola la memorizzazione, i ricercatori hanno ipotizzato che ci potesse essere un rovescio della medaglia positivo di questa dimenticanza indotta dal risparmio di risorse mnestiche.

 

Nel primo studio, i ricercatori univeritari Storm e Stone hanno testato le capacità mnestiche di 20 studenti universitari: questi avevano a disposizione un pc sul quale potevano leggere e “studiare” due diversi files .pdf che contenevano una lista di 10 nomi comuni. I files A e B venivano aperti uno dopo l’altro e studiati per 20 secondi ciascuno. Seguiva il test di memoria sul file B per vedere quanti sostantivi venivano ricordati e poi il test sul file A. È importante sottolineare che la metà del campione è stato detto di salvare il file A in una cartella particolare dopo averlo studiato. L’altra metà, invece, doveva semplicemente chiudere il file dopo la lettura.

Proprio come atteso dai ricercatori, gli studenti si ricordavano più parole del file B quando il file A era stato salvato sul pc rispetto a quando l’avevano semplicemente chiuso. Un secondo studio con un gruppo di 48 soggetti ha confermato questi risultati. Ma il secondo studio ha anche rivelato che gli effetti legati al risparmio di memoria dipendevano da quanto gli studenti pensavano che il salvataggio del file fosse affidabile: se gli veniva detto che il file A non era più accessibile perchè il salvataggio non aveva funzionato non si riscontravano benefici nella memorizzazione del file B legati al risparmio mnestico, cioè la memorizzazione del file era uguale nei due gruppi.

Insomma, secondo i ricercatori, utilizzando pc e altri dispositivi digitali come estensioni della memoria, le persone possono proteggersi dai costi del dimenticare; inoltre salvare le informazioni può avere implicazioni più vaste sul nostro modo di pensare: avere una nuova idea o risolvere un problema significa molte volte riuscire a pensare fuori dagli schemi, abbandonare cioè quella fissità funzionale a cui ci ancora la conoscenza immagazzinata in memoria.

 

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Combattere la perdita di memoria con una risata

 

BIBLIOGRAFIA:

Premio State of Mind 2014 per la Ricerca: i vincitori!

La giuria del Premio 2014 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia ha finito di valutare tutti i lavori partecipanti al Premio State of Mind 2014 ed ecco i risultati:


CATEGORIA JUNIOR 2014

Vincitore: Dott.ssa Silvia Colonna
Articolo: The Nature of Covariation between Separation Anxiety Symptoms and Obsessive Compulsive Symptoms in Developmental Age
 
Secondi classificati (a pari merito):
  • Dott.ssa Marika Rullo
    con l’articolo: Not every flock has its black sheep: The conjoint effect of identification and entitativity in manifestations of the black sheep effect
  • Dott.ssa Maria Diletta Matteoli
    con l’articolo: Perché accelerando la scomparsa delle parole migliorano le abilità di lettura nei bambini con dislessia? il ruolo dell’attenzione spaziale.
 
 
Per via dell’eccezionale partecipazione di quest’anno alla categoria JUNIOR (articoli derivati da tesi di laurea magistrale) dal quale sono emersi moltissimi lavori degni di nota, la giuria ha evidenziato oltre all’articolo vincitore e ai 2 ritenuti secondi a pari merito, anche una selezione dei migliori lavori JUNIOR 2014 che meritano di essere segnalati:
  • Trezzi Veronica: GRIN2B mediates susceptibility to IQ and cognitive impairments in Developmental Dyslexia
  • Nucceteli Fabiana: La percezione del tempo nello sviluppo tipico e atipico
  • Bivacqua Claudio Francesco: Emphaty. Self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy
  • Aufiero Daiana: La valenza del binding emotivo in un compito di memoria di lavoro
  • Costabile Teresa: La Manipolazione delle Immagini Mentali nella Sclerosi Multipla
  • Mazzoni Chiara: Training di assertività per pazienti affetti da Bulimia Nervosa
  • Siri Francesca Marzia: Il ruolo del solco temporale superiore di destra (rsts) nell’integrazione delle informazioni emotive espresse attraverso il corpo e la parola: uno studio di tms-priming
  • Ferri Alessandra: “Col seno di poi”: Il carcinoma mammario raccontato dalle pazienti. Uno studio empirico.
  • Paterlini Chiara: Empatia e riconoscimento del dolore negli autori di reato
 
 
 
 

CATEGORIA SENIOR 2014

Vincitore:  Dott.ssa Maria Laura Mele
Articolo: Believing Is Seeing: Fixation Duration Predicts Implicit Negative Attitudes
 
Secondi classificati (a pari merito):
 
  • Dott.ssa Irene Messina
    Articolo: Neural Correlates of Psychotherapy in Anxiety and Depression: A Meta-Analysis
  • Dott.ssa Eleonora Picerni
    Articolo: The embodied emotion in cerebellum: a neuroimaging study of alexithymia

 

NEI PROSSIMI GIORNI SARANNO PUBBLICATI SUL SITO GLI ARTICOLI DEGLI AUTORI CHE HANNO FORNITO LA LORO AUTORIZZAZIONE E GLI ABSTRACT DEI VINCITORI E DEI MIGLIORI ARTICOLI SELEZIONATI DALLA GIURIA.

 

BUON 2015 E BUON LAVORO A TUTTI!

Aspetti epistemologici e teorico-metodologici in Psicologia Clinica

Nell’ambito della psicologia clinica la riflessione epistemologica pone essenzialmente due grandi problematiche, ovvero come nasce e come si struttura la conoscenza, e quale rapporto esiste tra teoria e pratica all’interno di questa disciplina.

1. Il fondamento della conoscenza e i criteri di demarcazione tra “senso comune” e “senso scientifico”

Il termine epistemologia, derivante dal greco epistéme, conoscenza, e logos, discorso, può essere definito come “la branca della teoria generale della conoscenza che si occupa di problemi quali i fondamenti, i limiti, la natura e le condizioni di validità del sapere scientifico […]; è lo studio dei criteri generali che permettono di distinguere i giudizi di tipo scientifico da quelli di opinione tipici delle costruzioni metafisiche e religiose, delle valutazioni etiche”(Enciclopedia Garzanti di filosofia, 1981).

Tale definizione consente di porre in evidenza come l’epistemologia concerne il discorso generale sulla conoscenza, in quanto si occupa del fondamento, ovvero dell’apparato conoscitivo utilizzato per fondare un discorso stabilendone i criteri di validità scientifica; con il termine epistemologia, dunque, si fa riferimento al discorso sul fondamento dell’atto conoscitivo, ossia all’orizzonte paradigmatico entro il quale si situa la conoscenza.  In tal senso, pertanto, si rileva come l’epistemologia non entra nel merito dei contenuti che vengono riferiti agli oggetti di conoscenza, bensì riguarda le modalità attraverso le quali essi vengono conosciuti , consentendo di delineare i confini entro cui un atto conoscitivo può essere considerato scientifico.

Al fine di esplicitare quest’ultimo aspetto, si ritiene pertinente introdurre alcune considerazioni relative ai criteri di demarcazione tra due modalità di conoscenza distinte: il senso comune ed il senso scientifico.  In tale direzione, con il termine senso comune si intende “proposizioni di qualsiasi natura e tipologia che definiscono e sanciscono qual è la realtà; in questo senso, è la forza retorica dell’argomentazione che rende reale ciò di cui si parla, configurandolo come “realtà di fatto” […] Il “senso comune” manifesta autoreferenzialità nella propria legittimazione, ovvero si auto-legittima a prescindere dal fondamento delle sue affermazioni e dall’esplicitazione delle categorie conoscitive messe in campo […] risulta organizzatore di stereotipi e pregiudizi ed è trasversale a ruoli e contesti”(Turchi G.P., Della Torre C., 2006).

A fronte della definizione testè esposta si evidenzia come un discorso di senso comune, avvalendosi della sua autoreferenzialità, non è sottoposto a criteri di fondatezza epistemologica, ovvero “ciò che viene affermato dal senso comune diviene immediatamente reale, non chiedendo pertanto l’esplicitazione dei presupposti dell’atto conoscitivo posto in essere” (ibidem). In virtù di ciò, quindi, un discorso di senso comune non risulta passibile di confutazione attraverso un procedimento logico o empirico, bensì esso può essere smentito soltanto da un punto di vista dialettico, attraverso l’affermazione di una realtà differente.

Nell’ambito del senso comune il linguaggio utilizzato è quello ordinario, ossia un linguaggio i cui significati sono costruiti nell’interazione dei parlanti, attraverso cui si stabilisce qual è la realtà ed il significato di ciò che si nomina nel momento stesso in cui lo si nomina.  Il linguaggio del senso comune, dunque, si compone di affermazioni che risultano non fondate a livello epistemologico né argomentate, contrariamente al linguaggio del senso scientifico che, viceversa, può essere definito come “l’insieme di asserzioni che risultano fondate e argomentate, in cui cioè si definisce con rigorosità il significato attribuito ad ogni termine utilizzato, che risulta univoco e condiviso da tutti gli appartenenti alla disciplina scientifica che utilizza uno specifico linguaggio tecnico”(ibidem).

In tal senso, quindi, mentre il senso comune si compone di affermazioni, il senso scientifico utilizza asserzioni, il cui fondamento e le cui categorie conoscitive necessitano di essere esplicitate ed argomentate.  In virtù delle definizioni testé presentate, pertanto, emerge che “la demarcazione tra senso scientifico e senso comune risiede nella rigorosità dell’argomentazione, nella fondatezza epistemologica e nella rigorosità metodologica adottata”(Turchi G.P., Della Torre C., 2006).

Nell’ambito del senso scientifico, inoltre, è possibile distinguere diverse modalità di conoscenza, individuabili in base ai suffissi dei nomi che identificano le discipline che si rifanno a tali modalità, e differenziabili in base al linguaggio da esse utilizzato; a tal fine si rileva che mentre le scienze a suffisso ‘-ica’ e  ‘-nomos’ coniano un linguaggio proprio, estraneo a quello comunemente utilizzato nella comunità dei parlanti, quindi utilizzano un linguaggio tecnico, formalizzato, avente un valore simbolico convenzionalmente stabilito a priori, viceversa  le  scienze a suffisso  ‘-logos’ non coniano un linguaggio proprio, bensì utilizzano il linguaggio ordinario.

A fronte di quanto argomentato si ritiene pertinente evidenziare che, pur differenziandosi rispetto al linguaggio utilizzato, le tipologie di scienza sopra descritte (‘-ica’, ‘nomos’ e ‘logos’) condividono l’appartenenza ad un contesto scientifico. In merito a ciò, al fine di operare una demarcazione tra un discorso di senso scientifico ed un discorso di senso comune, l’epistemologia consente di delineare i criteri in virtù dei quali si rende possibile operare una distinzione tra le modalità di conoscenza scientifica e le affermazioni di senso comune; tali criteri di demarcazione sono stabiliti in relazione al tipo di scienza implicato ed al linguaggio (ordinario o formale) da essa utilizzato.

Nelle scienze ‘-ica’ e ‘-nomos’, in virtù del fatto che esse fanno riferimento ad oggetti di conoscenza rappresentati da enti fattuali i quali, in quanto tali, risultano empiricamente rilevabili e quantificabili, i criteri di demarcazione sono rappresentati dall’individuazione dell’oggetto di conoscenza e dalla precisione delle misurazioni che su di esso si compiono.  In maniera differente, nell’ambito delle scienze a suffisso ‘-logos’, quindi nelle scienze discorsive, poichè gli oggetti di conoscenza non si collocano sul piano empirico-fattuale e quindi non esistono indipendentemente dal discorso che li genera in quanto tali, i criteri di demarcazione sono specificati dal rigore dell’argomentazione e dall’adeguatezza epistemologica del discorso rispetto all’oggetto di indagine posto dalla disciplina.

A quest’ultima tipologia di scienza appartiene la psicologia che, in quanto logos sulla psiche, al fine di rispettare i criteri di rigorosità argomentativa e di fondazione epistemologica che sanciscono l’appartenza di tale disciplina all’ambito del contesto scientifico, e non a quello del senso comune, necessita di definire precisamente l’oggetto di indagine e il piano epistemologico entro cui esso si colloca. In riferimento a quest’ultimo aspetto, il paragrafo seguente si dipana attraverso la trattazione delle differenti cornici epistemologiche, ovvero i “livelli di realismo” individuati dalla riflessione epistemologica contemporanea.

2. I livelli di realismo all’interno della riflessione epistemologica

Nell’ambito della psicologia clinica la riflessione epistemologica pone essenzialmente due grandi problematiche, ovvero come nasce e come si struttura la conoscenza, e quale rapporto esiste tra teoria e pratica all’interno di questa disciplina. In merito a ciò, si rende necessario considerare che in psicologia clinica ogni operazione conoscitiva colloca al centro della riflessione non solo l’oggetto di indagine, ma anche lo psicologo e i suoi assunti teorico-metodologici, in quanto le strategie conoscitive risultano necessariamente intersecate agli eventi osservati. In virtù di ciò, quindi, si evidenzia che “la riflessione epistemologica non è per lo psicologo un lusso da lasciare alla speculazione dotta o occasionale, dal momento che egli è comunque implicato in atti conoscitivi che lo rinviano a diverse configurazioni della realtà: a quelle del suo interlocutore e alle proprie in quanto ricercatore o clinico”(Salvini A., 1998).

In merito a quest’ultimo aspetto si ritiene rilevante mettere in luce che, come esposto in precedenza , affinché una disciplina possa dirsi scientifica, è necessario che vi sia una riflessione epistemologica che consente di poter stabilire la fondatezza degli assunti teorici ai quali si fa riferimento e l’adeguatezza dell’argomentazione rispetto all’oggetto di indagine posto. Questa operazione di fondazione epistemologica consiste nell’inscrivere l’oggetto di indagine in una adeguata cornice conoscitiva prima che teorica, in quanto è in virtù della corretta collocazione dell’oggetto d’indagine entro il piano epistemologico a cui esso appartiene che si rende possibile operare una scelta adeguata in termini di modalità di conoscenza utilizzate e di prassi operative adottate.

In riferimento a quanto sopra delineato, attualmente la riflessione epistemologica consente di individuare tre “livelli di realismo”(Salvini A., 1998), i quali corrispondono a tre concezioni di realtà implicanti differenti modalità di conoscenza, coerenti con quanto si assume essere reale; in tal senso, quindi, a seconda del livello di realismo al quale si fa riferimento ne consegue un differente modo di conoscere in quanto, in virtù della prospettiva epistemologica attraverso cui si procede ad indagare i fenomeni, consegue una diversa configurazione della realtà.

Al fine di esplicitare quanto sopra delineato, si procederà ora a fornire una definizione delle assunzioni epistemologiche su cui si basano i cosiddetti livelli di realismo, ovvero dei presupposti sui quali si basa la conoscenza scientifica. I livelli di realismo individuati sono denominati “realismo monista”, “realismo ipotetico” e “realismo concettuale”.

A livello di “realismo monista” (ontologico, o ‘ingenuo’) si assume che la realtà ‘c’è’ in quanto data a livello ontologico.  Entro tale livello di realismo l’oggetto di conoscenza viene individuato come ente fattuale, il quale esiste a prescindere dal conoscente e dalle categorie di conoscenza utilizzate, e l’obiettivo della conoscenza scientifica riguarda l’essenza dell’oggetto, la conoscenza della realtà ultima, con la quale la conoscenza stessa è perfettamente sovrapponibile. In virtù di ciò, l’osservazione è intesa come la fotografia di una realtà esistente di per sè, indipendentemente dal processo di osservazione, in modo tale che vi è un rapporto di isomorfismo tra conoscenza e realtà.

Secondo la prospettiva del realismo monista, dunque, la realtà è indipendente dal soggetto che la conosce, e la concettualizzazione e l’elaborazione teorica seguono l’osservazione, in quanto la realtà è configurata come un dato certo, un dato a-priori, misurabile in maniera oggettiva, indipendente da chi compie la misurazione e soggetto alla legge di causa-effetto, come prescritto dal Paradigma Meccanicistico. Secondo tale Paradigma, infatti, le categorie concettuali dell’osservatore sono ininfluenti rispetto all’oggetto di osservazione, la cui realtà è univoca, non ambigua, misurabile, e gli esperimenti effettuati sugli enti sono riproducibili, a parità di condizioni, in qualsiasi momento e da chiunque. Il dato è considerato come cosa in sé, in esso coincidono la realtà e l’ente oggetto di studio, ed è certo lo statuto ontologico di tale ente. L’attenzione è rivolta al dato empirico e la ricerca scientifica è finalizzata a definire “un sistema di conoscenza che sia isomorfo alla realtà stessa”(Salvini A., 1998).

Il secondo livello di realismo individuato dalla riflessione epistemologica è il cosiddetto “realismo ipotetico”, in cui la realtà, pur essendo postulata come ontologicamente esistente, rimane inconoscibile direttamente. Entro tale livello di realismo, dunque, viene ipotizzata l’esistenza di una realtà esterna e indipendente dall’osservatore, ma si assume che tale realtà possa essere conosciuta soltanto attraverso le categorie concettuali e teoriche utilizzate dall’osservatore stesso. Secondo la prospettiva del realismo monista, quindi, sebbene la realtà esista indipendentemente dalle teorie, l’accesso ad essa non è diretto, bensì risulta mediato dalle “mappe della ragione”(ibidem), ovvero dagli assunti paradigmatici, dalle teorie, dai metodi e dagli strumenti adottati dal ricercatore per avvicinarsi a tale realtà; in tal senso, ne consegue che “ciò che è conoscibile è la mappa, cioè le teorie, mentre il territorio, cioè la “realtà in sè”, non si può conoscere”(ibidem). In conseguenza di tali presupposti, pertanto, le teorie, ovvero la conoscenza, non possono essere isomorfe rispetto alla realtà, bensì il rapporto tra conoscenza e realtà è del tipo “come se”.

A fronte di quanto argomentato assume rilevanza mettere in luce che il realismo ipotetico, rientrando in una prospettiva epistemologica “pluralista”(ibidem), non dà per scontata l’esistenza di una realtà unica, data, univoca e accessibile all’osservatore che, separato da essa, la misura ed analizza senza pregiudizi di sorta. Al contrario, l’accesso al mondo non è mai diretto, bensì viene mediato da una pluralità di assunti paradigmatici, teorie, metodi e strumenti che influenzano l’accesso al reale, il quale dipende dalle scelte teoriche adottate dall’osservatore stesso, da cui non può prescindere (Salvini A., 1998).

Metaforicamente, quindi, “le teorie e i modelli adottati stanno alla realtà che tentano di descrivere e spiegare come una mappa geografica sta al territorio. La costruzione di una mappa fa si che il territorio perda il suo carattere di insieme incoerente di fenomeni o di cose, entrando nei domini della ragione. Tuttavia pur essendo postulata come realtà, il territorio rimane inaccessibile”(ibidem).

Infine, differentemente da quanto postulato dai livelli di realismo finora delineati, nel livello di “realismo concettuale” la realtà non è intesa come esistente ontologicamente, bensì si assume che essa è discorsivamente costruita nell’atto stesso di conoscere, attraverso le categorie concettuali che il conoscente utilizza. Entro il livello di realismo concettuale, dunque, la realtà non viene configurata come esistente in quanto dato ontologico, bensì come costruita a partire dalle categorie di conoscenza che si utilizzano per descriverla in quanto tale.  Tale livello di realismo, pertanto, postula l’impossibilità di distinguere tra conoscente e conosciuto, in quanto sono le modalità di conoscenza che stabiliscono il come e il cosa si conosce. In conseguenza di ciò, l’attenzione non è posta sui contenuti (il ‘conosciuto’), bensì sui processi di costruzione della realtà, ossia sulle modalità conoscitive messe in atto dall’individuo.  All’interno di tale posizione epistemologica, quindi, gli oggetti di conoscenza sono dipendenti dai discorsi che li generano, in quanto la realtà non è data, bensì risulta costruita dalle categorie attraverso cui la si conosce in quanto tale.

In virtù di quanto testé delineato in merito agli assunti su cui si basa il realismo concettuale, assume ora rilevanza evidenziare la relazione di interdipendenza esistente tra il piano epistemologico entro cui si colloca l’oggetto di indagine di una disciplina ed il riferimento paradigmatico adottato dalla medesima.  A tal fine si rileva che, a fronte della collocazione della realtà entro un piano epistemologico concettuale è necessario considerare che, affinché sia possibile intervenire in maniera scientifica rispetto a tale realtà, si pone la necessità di inserire la teoria di riferimento entro una cornice paradigmatica coerente con il piano epistemologico implicato. Il riferimento ad un livello di realismo concettuale, infatti, poggiando su assunzioni epistemologiche altre rispetto a quelle del realismo monista ed ipotetico, consente di abbandonare il Paradigma Meccanicistico per adottare un paradigma alternativo, definito Narrativistico. All’interno della posizione epistemologica entro la quale si situa il Paradigma Narrativistico viene sostenuta l’impossibilità di intendere la conoscenza come specchio di una realtà di fatto, esterna all’atto conoscitivo stesso, ossia ci si allontana dalla definizione di teoria come riproduzione fedele dell’oggetto di indagine, bensì si assume che la scienza è basata su “presupposti” (Bateson G., 1984), i quali guidano e costruiscono il pensiero scientifico.

Entro la posizione gnoseologica del realismo concettuale, infatti, l’osservatore e il teorico vengono considerati all’interno del sistema di conoscenza, in quanto si postula che le teorie scientifiche derivano e si generano in virtù dei presupposti conoscitivi dello scienziato; in conseguenza di ciò, l’attenzione non è posta su ciò che viene conosciuto, ovvero sui contenuti, viceversa è rivolta all’analisi delle modalità di conoscenza messe in atto dal conoscitore, ossia all’analisi dei processi di costruzione di ciò che viene considerato come reale.

Alla luce di quanto esposto relativamente alle assunzioni epistemologiche proprie di ciascun livello di realismo, nel paragrafo seguente si procederà a fornire una definizione del termine paradigma.

3. Paradigma, teoria e modello operativo

Nei paragrafi precedenti è stato evidenziato come una disciplina, al fine di produrre una conoscenza rientrante in una dimensione di senso scientifico e non, viceversa, nell’alveo del senso comune, necessita di utilizzare modalità di conoscenza adeguate rispetto alle assunzioni conoscitive del piano epistemologico entro cui si colloca l’oggetto di indagine della disciplina stessa. Sulla base di tale presupposto consegue che specifiche modalità di conoscenza risultano adeguate, e quindi scientificamente applicabili, rispetto a certi ambiti di indagine ed oggetti di conoscenza e non rispetto ad altri, in virtù della collocazione epistemologica degli stessi.

A fronte di quanto testé considerato, assume ora rilevanza fornire una definizione del termine paradigma. Per paradigma si intende un modo di conoscere, il quale fornisce le assunzioni, ovvero gli elementi di cornice, su cui si basa e si costruisce la conoscenza relativa all’oggetto di indagine e “viene definito attraverso concetti, legami tra concetti e teorie”(Turchi G.P., Ciardiello P., 2005).

Un paradigma si colloca entro un peculiare livello di realismo, e comporta una configurazione della realtà ed una definizione delle metodologie utilizzate per conoscerla; in virtù di ciò, scegliere di fare riferimento ad un paradigma piuttosto che ad un altro implica individuare un peculiare sistema di riferimento attraverso cui organizzare la conoscenza, ovvero “individuare un ‘mondo’ anziché un altro”(Turchi G.P., Ciardiello P., 2005) .

In merito quanto sopra esposto, inoltre, si ritiene pertinente considerare che dall’utilizzo coerente degli assunti paradigmatici è possibile produrre diverse teorie, ognuna delle quali risulta caratterizzata da un proprio assunto teorico; per teoria si intende “la formulazione sistematica degli assunti concettuali relativi ad una scienza, di per sé indiscutibili, legati tra loro da relazioni logiche, quantitative o di altro tipo”(Turchi G.P., Ciardiello P., 2005). Quindi, mentre la teoria definisce il cosa si conosce, il paradigma specifica il come si conosce, in quanto si configura come una cornice conoscitiva che consente l’albergare al suo interno di differenti teorie, e delimita le modalità di conoscenza in virtù delle quali diviene poi possibile operare.

In relazione a quest’ultimo aspetto, assume rilevanza evidenziare come il livello operativo relativo ad un determinato ambito di indagine costituisce la diretta emanazione non soltanto degli assunti teorici, ma prima di tutto paradigmatici, su cui si basa e si costruisce la conoscenza relativa all’oggetto di indagine stesso. In conseguenza di ciò si rileva che, al fine di disporre di prassi operative in grado di porre obiettivi perseguibili ed adottare strategie efficaci per raggiungerli, è necessario il riferimento ad una cornice paradigmatica epistemologicamente fondata rispetto all’oggetto di indagine, in quanto è all’interno di un preciso paradigma che nasce e si adagia il modello operativo. Il modello può essere definito come “un riferimento operativo che si basa su una precisa concezione teorica e si sostanzia in prassi operative, intese come insieme di operazioni di azioni concrete” (Turchi G.P., Ciardiello P., 2005).

E’ dunque sulla base del modello, formato da un insieme di assunti teorici e di prassi coerenti, che è possibile intervenire nella realtà, “oggettiva o costruita che sia”(ibidem). Il modello, infatti, assolve in genere due funzioni, una conoscitiva, esplicitata dagli assunti teorici, ed una operativa, corrispondente alle prassi utilizzate. Sulla base delle definizioni testè esposte, pertanto, emerge che ciò che sancisce l’efficacia e la storicità di un modello è la corrispondenza tra teoria e operazioni, è ciò che stesso, “ovvero quanto le prassi operative sono in grado di dare realtà all’assunto teorico e di divenirne l’enunciazione”(ibidem).

A fronte di quanto sopra delineato si rende ora rilevante considerare che un determinato modello si riferisce soltanto ad una certa classe di eventi, configurati attraverso le sue “categorie logico-concettuali e procedimenti formali di rappresentazione”(Salvini A., 1998), in quanto le specifiche modalità di conoscenza, rese disponibili dal paradigma ed adottate all’interno del modello, sono adeguate rispetto a certi oggetti di indagine e non altri, in virtù del piano epistemologico entro cui tali oggetti sono collocati; in tal senso, quindi, “se un modello (o una teoria) è adeguato a spiegare un certo problema, diverrà inutilizzabile su altri piani di realtà o per altri oggetti configurati entro altre categorizzazioni conoscitive”(ibidem).  

Sulla base di tale presupposto, si evidenzia la necessità di operare una valutazione relativa alla coerenza tra gli assunti teorici, ovvero le modalità di conoscenza proprie di un determinato modello, ed il piano epistemologico entro cui si colloca l’oggetto dell’indagine; si rende necessario interrogarsi, quindi, sulla fondatezza epistemologica e correttezza metodologica sottese all’applicazione delle categorie conoscitive di un determinato modello rispetto all’oggetto verso cui ci si propone di intervenire.

In conseguenza di quanto argomentato, inoltre, emerge che la rilevanza del modello (o della teoria) è generata dalla pertinenza o adeguatezza dello stesso rispetto ad una certa classe di eventi piuttosto che ad un’altra; viceversa, il trasferimento e l’utilizzo di conoscenze e riferimenti peculiari di una disciplina ad un’altra disciplina genera un “uso spurio” (ibidem) del concetto di modello . A fronte di quanto testé argomentato, assume rilevanza mettere in luce che il processo di trasposizione di un modello pone la necessità di operare una riflessione epistemologica relativa sia all’adeguatezza ed alla pertinenza di determinati metodi o concetti rispetto al peculiare ambito conoscitivo considerato, sia alla possibilità di rispettare le implicazioni metodologiche delle categorie conoscitive mutuate.

In virtù di quanto sopra delineato, pertanto, emerge che, affinché la mutazione di categorie e modalità conoscitive da un ambito disciplinare ad un altro sia descrivibile come ‘operazione scientifica’, non è possibile eludere tale riflessione epistemologica.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bateson G. (1979). Mind and nature, tr.it. Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984
  • Kuhn T.S. (1969). La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1999
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  • Turchi G.P., Della Torre C. (2006). Psicologia della Salute. Dal modello bio-psicosociale al modello dialogico. Armando, Roma
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Neuroscienze: bando per 4 Postdoc presso il SAGE Center – Santa Barbara, California

SAGE JUNIOR FELLOW PROGRAM, SAGE CENTER FOR THE STUDY OF MIND, UNIVERSITY OF CALIFORNIA, SANTA BARBARA

Job number JPF00417

Four postdoctoral positions will be available beginning on September 1, 2015. This is a three-year fellowship, and the competition is open to all qualified candidates regardless of institutional affiliation.

The SAGE Center Junior Fellowship Program, established in 2011, fosters interdisciplinary research in the study of brain-mind interaction at the postdoctoral level. We are seeking a group of highly collaborative, interacting fellows who are willing to take different approaches to shared conceptual challenges. Qualified applicants should be able and will be encouraged to utilize the UCSB Brain Imaging Center (http://www.bic.ucsb.edu/). The Center supports the new PRISMA (3T) Siemens magnet as well as MRI compatible high density electroencephalography hardware. Center funding will be available for imaging studies.

In addition to developing research programs in close collaboration with individual faculty, Junior Fellows will enjoy special privileges, including access to visiting SAGE Scholars and attendance at regular group meetings to collaborate and share information about the role of psychology, cognitive neuroscience, economics, political science, anthropology, biology, physics, engineering, the arts, philosophy and other disciplines on the study of brain, mind and behavior.

To be eligible for the Junior Fellows program, a candidate must have been awarded a doctoral degree or foreign equivalent within the past five years. Proposed research topics must be related to brain-mind interaction. Interdisciplinary approaches are encouraged. We will strive to create a team based on common interests of the top applicants.

To apply, please submit: 1. A complete CV, published article and three letters of recommendation 2. A statement of your research interests and a description of how those interests complement the goals of the SAGE Center. For primary consideration, apply by February 1, 2015, although we will accept applications until the positions are filled. Please submit your application at https://recruit.ap.ucsb.edu/apply/JPF00417.

Inquiries about your application may be directed to [email protected].edu; include your last name in the subject line of all correspondence.

Michael S. Gazzaniga, Ph.D. Director, SAGE Center for the Study of Mind University of California, Santa Barbara.

http://www.sagecenter.ucsb.edu/ http://www.psych.ucsb.edu/~gazzanig/ The department is especially interested in candidates who can contribute to the diversity and excellence of the academic community through research, teaching and service. The University of California is an Equal Opportunity/Affirmative Action employer. All qualified applicants will receive consideration for employment without regard to race, color, religion, sex, national origin, or any other characteristic protected by law including protected Veterans and individuals with disabilities. 

Il quinto Quaderno del Centro Napoletano di Psicoanalisi: Identità e Processi di Identificazione – Recensione

L’identificazione in psicoanalisi richiama subito una pluralità di qualificazioni che la specificano e al tempo stesso la articolano e la rinfrangono: identificazione primaria, isterica, melanconica, narcisistica, edipica, alienante. Le numerose sfaccettature rinviano al versante evolutivo o regressivo della dinamica psichica, al lato patologico o a quello costitutivo.

Il quinto Quaderno raccoglie il lavoro svolto dal Centro Napoletano di Psicoanalisi intorno al tema dell’identificazione nelle sue molteplici configurazioni e delle relazioni con la strutturazione dell’identità e con la soggettivazione (ndr: i quaderni del Centro Napoletano di Psicoanalisi sono volumi che raccolgono i momenti più significativi della vita scientifica e culturale del Centro. I precedenti quaderni sono Psicoanalisi e Teoria della Cultura. Riflessioni su un classico: “Il disagio della civiltà” (2003); Metapsicologia Oggi (2005); Violenza e Simbolizzazione (2009) editi da la Biblioteca, Bari-Roma; Le Figure del Vuoto. I Sintomi della Contemporaneità: anoressie, bulimie, depressione e dintorni (2012) per le edizioni Borla, Roma).

L’identificazione in psicoanalisi richiama subito una pluralità di qualificazioni che la specificano e al tempo stesso la articolano e la rinfrangono: identificazione primaria, isterica, melanconica, narcisistica, edipica, alienante. Le numerose sfaccettature rinviano al versante evolutivo o regressivo della dinamica psichica, al lato patologico o a quello costitutivo.

Le relazioni presentate in questo quaderno ci permettono di seguire un percorso che si articola intorno a differenti modelli teorici della psicoanalisi.

 Nella fattispecie possiamo individuare un filo conduttore che partendo da un criterio evolutivo-genetico, incentrato sulla teoria della relazione d’oggetto, perviene dapprima ad una modellizzazione in cui la relazione d’oggetto si articola con una visione strutturale, per arrivare ad un modello fondato totalmente sulla meta-psicologia freudiana classica. Nasciamo stranieri al mondo, in un mondo che ci è estraneo. Comincia quindi un lungo e faticoso percorso di appropriazione e investimento del proprio essere e del proprio divenire nel mondo. Il bambino inizia a divenir del mondo esperto attraverso le forme attiva, passiva e riflessiva della conoscenza.

Identificare è, infatti, contemporaneamente un processo euristico – conoscere l’identità di qualcosa, o di qualcuno, la sua uguaglianza nel tempo e nello spazio – e, riflessivamente, la costruzione della propria persona, soggettività che ci appartiene seppure alienata nella follia. La formazione del soggetto può configurarsi come storia delle sue identificazioni: se queste contribuiscono a strutturare un’identità, d’altro canto costituiscono anche la traccia della permeabilità della psiche al mondo. L’identificazione, collegata ai processi di apprendimento, sembra configurare una necessità tanto radicata da apparire ormai innata nella nostra psiche.

Le problematiche esplorate interrogano teoria e pratica clinica chiamate a confrontarsi sempre più spesso col narcisismo, la soggettività e i suoi confini, la precarietà del senso d’identità, attraversato da crisi personali e sociali.

Nell’ordito di questo tema si è venuta a tessere una trama che disegna immagini composite con inaspettate confluenze e imprevedibili punti di snodo, anche in dialogo con l’antropologia nella sua funzione di osservazione delle trasformazioni identitarie nell’impatto transculturale.

 

LEGGI ANCHE:

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BIBLIOGRAFIA:

  • Cotrufo P. e Pozzi R., (2014), Identità e processi di identificazione, Franco Angeli. ACQUISTA
  • Klein M., (1958), Sullo sviluppo dell’attività psichica, in Scritti, Bollati Boringhieri.
  • Lacan J., (1949), Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Scritti, Einaudi.
  • Thanopulos S., (2012), L’identificazione isterica, Riv. Psicoanal., LVIII, 1.

Stai favorendo lo sviluppo del comportamento aggressivo del tuo bambino?

FLASH NEWS

Gli autori della ricerca hanno trovato che i comportamenti dei genitori potrebbero influenzare lo sviluppo di una relazione tra aggressività e competenze linguistiche nella prima infanzia.

Un recente studio dell’ Università di Montreal smentisce l’ipotesi sostenuta dalla letteratura più recente per cui l’aggressione fisica da parte dei bambini sia associata con la frustrazione causata dagli eventuali problemi della lingua parlata. Gli autori della ricerca hanno trovato che sarebbero i comportamenti dei genitori ad influenzare lo sviluppo di una relazione tra aggressività e competenze linguistiche nella prima infanzia. Colpire frequentemente l’altro attraverso calci, la tendenza a mordere o picchiare gli altri sono esempi di aggressione fisica osservata nei bambini.

Ricerche condotte 10 anni fa hanno dimostrato che i problemi di aggressione fisica sorgono nella prima infanzia in concomitanza con lo sviluppo dell linguaggio. Lo studio longitudinale presentato ha incluso un campione di 2,057 bambini francofoni e anglofoni Québec tra i 17 e 72 mesi di età reclutati dal Quebec Longitudinal Study of Child Development ( QLSCD ), condotto da GRIP in collaborazione con Quebec del Ministero della Sanità e dei Servizi Sociali e l’Istituto di Statistica Québec.

I genitori sono stati invitati a valutare la frequenza delle aggressioni fisiche e le abilità linguistiche dei loro figli a 17 , 29, 41 , 60 , e 72 mesi. Sono stati inoltre valutati i comportamenti dei genitori (comportamento punitivo e/o affettuoso) .

I risultati della ricerca mostravano un’associazione tra la frequenza di aggressioni fisiche e la qualità di sviluppo del linguaggio tra i 17 ei 41 mesi.

In realtà , i bambini che avevano competenze linguistiche di basso livello a 17 mesi hanno commesso maggiori atti di aggressione fisica a 29 mesi e la frequenza di questo comportamento aggressivo a 29 mesi era associata a competenze linguistiche di livello inferiore a 41 mesi. Raggiunta questa età la maggior parte dei bambini hanno imparato ad usare altri mezzi di comunicazione per ottenere ciò che vogliono, riducendo così il rischio di un’ associazione tra il ritardo nel linguaggio e l’adozione del comportamento aggressivo in un campione di popolazione rappresentativo.

Una possibile spiegazione dei risultati raggiunti potrebbe essere l’influenza dei fattori genetici e neurologici sullo sviluppo di questi tipi di comportamento. Tuttavia, i ricercatori hanno anche notato che in questo periodo una modalità di relazione affettuosa con i propri genitori è associata a bassi livelli di aggressività e di buon sviluppo del linguaggio nei bambini.

Questa osservazione potrebbe indicare che i comportamenti affettuosi dei genitori potrebbero facilitare l’apprendimento delle lingue il quale faciliterebbe l’apprendimento di alternative accettabili alla aggressione fisica . Tuttavia, è anche possibile che i bassi livelli di aggressività e uno sviluppo del linguaggio adeguato nei bambini incoraggiano i genitori a essere più responsivi verso i propri figli.

Gli autori della ricerca invitano ad approfondire questa tematica in bambini nei primi tre anni di vita per meglio comprendere il ruolo degli effetti del comportamento dei genitori e della genetica nello sviluppo della relazione tra la aggressione fisica e lo sviluppo del linguaggio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Perfezionismo – Definizione

Elisabetta Marinucci

 LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2014 State of Mind. Riproduzione riservataIl termine “perfezionismo” definisce la consuetudine di esigere da sé stessi o dagli altri una performance di qualità maggiore, rispetto a quella richiesta dalla situazione. Questo  porta il soggetto a  ipercriticare il proprio comportamento (Frost  R. O. e al., 1990 Bastiani A.et al., 1994) e a vivere in un costante stato di ansia causato dal bisogno di fare sempre meglio (Hamacheck 1978).

Paul Hewitt  e Gordon Flett (1991) identificano le seguenti caratteristiche del perfezionismo :

1) Standard irrealistici e sforzi per raggiungerli

2) Attenzione selettiva agli errori

3) Interpretazione degli errori come indicatori di fallimento e credenza che, a causa di essi, verrà persa la stima degli altri

4) Autovalutazioni severe e tendenza ad incorrere in un pensiero tutto o nulla, dove i risultati possono essere solo un totale successo o un totale fallimento

5) Dubbio sulla capacità di portare a conclusione un compito in modo corretto

6) Tendenza a credere che gli altri significativi abbiano aspettative elevate

7) Timore delle critiche.

Quando parliamo di perfezionismo interessante è la distinzione che Hamacheck (1978) propone tra il perfezionismo normale e il perfezionismo nevrotico: mentre nel perfezionismo normale l’errore è visto come una possibilità di crescita e non si teme il giudizio negativo degli altri, nel perfezionismo nevrotico sono costanti la paura di fallire e la svalutazione dei risultati ottenuti; per contro si tende a  sottolineare i propri errori. Questo determina  un abbassamento dell’autostima perché si crede  che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare costantemente il raggiungimento di obiettivi sempre più elevati.

In altri termini Burns (1993) proporrà lo stesso concetto differenziando il perfezionismo clinico dalla “salutare ricerca di eccellere”: questa  è promotrice del sano funzionamento psicologico dell’individuo perché lo spinge a misurare le proprie capacità con obiettivi sempre diversi, senza però intaccare la propria autostima o legarla ai soli risultati ottenuti. Il perfezionismo clinico, invece,  ha un ruolo rilevante nell’eziologia di alcuni stati psicopatologici quali: depressione, disturbi d’ansia (ansia sociale, fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo – DOC), disturbo di personalità ossessivo-compulsivo (DPOC), Disturbi dell’Alimentazione (DCA).

La teoria di Skinner (1968) porterà Terry-Short e collaboratori (1995) a considerare il perfezionismo “sano” come la conseguenza di una storia personale caratterizzata da rinforzi positivi, e il perfezionismo maladattivo il frutto di rinforzi negativi. La psicopatologia del perfezionismo  si struttura in una serie di comportamenti disfunzionali così classificati dal DSM-IV- TR:

1. Preoccupazione eccessiva per le liste, i dettagli e l’organizzazione a discapito dell’obiettivo generale

2. Perfezionismo che interferisce con la riuscita di un lavoro in tempi rapidi

3. Eccessiva dedizione al lavoro (non giustificata da necessità economiche) con conseguente riduzione del tempo dedicato ad attività ricreative

4. Incapacità a gettare oggetti vecchi o inutili, anche quando privi di valore affettivo

5. Inflessibilità su posizioni etiche e/o morali (non giustificate dall’appartenenza politica o religiosa)

6. Riluttanza a delegare compiti o a lavorare in gruppo

7. Stile di vita eccessivamente parsimonioso sia verso sé stessi che verso gli altri

8. Rigidità e testardaggine.

Affinchè possa essere fatta diagnosi di perfezionismo devono essere presenti almeno quattro dei sintomi sopra elencati. Per alcune persone perseguire standard perfezionistici porta ad abbandonare il lavoro a metà per paura di fallire (Antony e Swinson 1998, Burns D.D. 1980, Frost et al 1990, Slade e Owens 1995).

Alla fine degli anni sessanta il perfezionismo è stato descritto come un costrutto unidimesionale dando maggior risalto agli aspetti autoriferiti ovvero lo stabilire standard non realistici per se stessi, l’attenzione selettiva verso il fallimento ed il pensiero dicotomico successo pieno o totale fallimento (Hollender M.H., 1965; Hamacheck D. E., 1978; Burns D.D., 1980).

Hamacheck (1978) evidenzia che quando l’amore dei genitori viene manifestato in base alle performance che si hanno, il bambino non si sente soddisfatto perché il suo comportamento non viene mai percepito abbastanza corretto per guadagnare l’approvazione dei genitori. Tutto questo struttura l’eccessiva preoccupazione di compiere errori, la paura del giudizio negativo degli altri e lo sforzo costante da parte del bambino di conquistare l’approvazione dei genitori.

A partire dagli anni ’90 si sviluppano definizioni multidimensionali di perfezionismo che ne evidenziano non solo gli aspetti autoriferiti ma anche quelli interpersonali. Tale approccio riconosce l’importanza sia del piano personale che di quello sociale per avere una comprensione globale del fenomeno (Frost  R. O. et al, 1990; Hewitt P.L. et al, 1991). Vengono proposte quindi due scale: La Multidimensional Perfectionism Scale (MPS; Frost et al.; 1990) è costituita da 6 dimensioni: 

1) Excessive Concern Over Mistakes:  misura le reazioni negative agli errori, lo sbaglio è considerato un insuccesso, in seguito al fallimento gli altri perderanno la stima nei confronti del soggetto.

2) Personal Standard: misura la presenza di standard elevati e la loro influenza sull’autovalutazione.

3) Parental Expectations: misura la tendenza a credere che gli altri significativi abbiano elevate aspettative nei confronti del soggetto.

4) Parental Criticism: misura la percezione che gli altri siano o siano stati eccessivamente critici nei confronti della persona.

5) Doubts About Action: misura la presenza del dubbio sulla propria capacità di portare a termine il compito in modo perfetto.

6) Organization: misura l’importanza attribuita all’ordine ed all’organizzazione.

La Multidimensional Perfectionism Scale (MPS; Hewitt et al., 1991) è invece costituita da tre dimensioni:

1) Self Oriented Perfectionism: esprime la tendenza a porsi obiettivi troppo elevati, a generalizzare i fallimenti e ad incorrere facilmente in pensieri “tutto o nulla”.

2) Other Oriented Perfectionism:  misura la tendenza ad avere aspettative troppo elevate riguardo agli altri e alle persone significative, ad essere eccessivamente critici nel valutare gli altri.

3) Socially Prescribed Perfectionism: valuta la tendenza a credere che gli altri abbiano alte aspettative sulle prestazioni del soggetto; questo porta timore per la valutazione negativa degli altri e a credere che sia necessario raggiungere quegli standards per guadagnare l’altrui approvazione e accettazione.

Il confronto delle due scale proposto da Frost ed i suoi colleghi nel 1993  riconosce nelle preoccupazioni valutative disadattive e nello sforzo per raggiungere risultati positivi, i due principali fattori distintivi del costrutto, mentre l’Excessive Concern Over Mistake e il Socially Prescribed Perfectionism sembrano essere le dimensioni più correlate alla depressione e al disturbo borderline di personalità.

Alcuni sostengono che il perfezionismo sia una caratteristica necessaria per lo sviluppo del DOC (Rhéaume et al. 1995) perché molti pazienti con disturbo ossessivo compulsivo dichiarano di aver bisogno di perfezione (Goodman et al. 1989). Rothenberg (1990) ritiene che l’anoressia sia una variante “moderna” del DOC con cui condivide molte manifestazioni patologiche. Nell’anoressia, infatti, il cibo e la magrezza costituiscono preoccupazioni ossessive,  mentre  l’esercitare il proprio controllo su peso e appetito diventa un bisogno compulsivo.  Rothenberg, inoltre, evidenzia che anche nei DOC le idee ossessive svolgono una funzione di controllo su impulsi, desideri e affetti. Inoltre i disturbi del comportamento alimentare e il DOC sono accomunati da un alto livello di attività fisica e da una alterazione dell’attività serotoninergica.

Brownell (1991) ha evidenziato il ruolo che la società moderna ha nel generare la ricerca del corpo perfetto. Secondo l’autore le persone ricercano l’ideale non solo per avere benefici in termini di salute ma per ciò che l’ideale di controllo che il corpo perfetto simboleggia. Rosenberg (1965) collega il costrutto dell’autostima alla percezione del proprio valore personale e afferma che la bassa autostima è un fattore di rischio per lo sviluppo dei disturbi alimentari. In particolare Il Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES, Rosenberg 1965) valuta l’autostima globale e il senso di valore di sé.

Sempre in termini di comorbilità gli studi di Hewitt e Flett (1991-1993) evidenziano come il perfezionismo sia una caratteristica della depressione; Hamilton e Schweitzer (2000) in alcuni studi condotti su studenti e campioni psichiatrici, rilevano l’associazione tra il perfezionismo self oriented e socially prescribed con l’aumento dell’ideazione suicidaria. Il perfezionismo socially prescribed inoltre è associato ai disturbi della personalità schizoide, evitante, schizotipico e borderline; mentre il perfezionismo other oriented è stato rilevato nel disturbo istrionico e narcisistico (Hewitt et al. 1994).

Bastiani (1994) in particolare, ha rilevato che la dimensione “self-oriented” del perfezionismo  e l’impulso alla magrezza  si mantengono stabili nonostante  l’aumento di peso corporeo. Questi risultati portano a supporre che il perfezionismo sia una caratteristica dominante della personalità dei  soggetti affetti da anoressia nervosa e che possa aumentare la suscettibilità a sviluppare questo disturbo (Haimi e coll 2000).

La ricerca di Hewitt e Flett (1995) su un campione studentesco, ha evidenziato che il Socially Prescribed Perfectionism è maggiormente legato ai sintomi dei DCA, al disturbo dell’immagine corporea e all’autostima. Il Self Oriented Perfectionism, invece, sembra essere collegato solo a sintomi anoressici, dieta e impulso alla magrezza. Tutto questo sottolinea l’importanza della dimensione sociale del perfezionismo nei DCA in cui i soggetti sembrano animati dal desiderio di conformarsi ad un modello o ad un ideale di perfezione che è percepito provenire dalle richieste altrui.

Secondo Safran e collaboratori (1999), la definizione multidimensionale associa il perfezionismo ad un range di caratteristiche troppo ampio che non consente la valutazione della sua originaria struttura. Secondo questa prospettiva solo la dimensione Self- Oriented descrive nella sua interezza il costrutto del perfezionismo, mentre le dimensioni Other Oriented e Socially Prescribed sono sì  associati al perfezionismo, ma non ne costituiscono parte integrante.

Safran, Cooper e Fairbun (1999) inoltre, propongono una definizione cognitivo comportamentale del perfezionismo definendolo come: “l’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dalla risoluta ricerca di standard personali particolarmente esigenti ed auto-imposti in almeno un dominio altamente saliente, nonostante le conseguenze avverse” (depressione, isolamento sociale, insonnia, ridotta concentrazione etc.). Altri autori sono a favore della multidimensionalità del perfezionismo (Tozzi et al., 2004; Sassaroli et Ruggiero, 2005).

A livello psicopatologico raramente il perfezionismo si manifesta da solo, in genere  si associa a disturbi dell’Asse  I e II.  
Fairfun, Safran e Cooper (1999) a tal proposito hanno suggerito che il soggetto tende a rispondere meno al trattamento quando il dominio in cui il perfezionismo  si manifesta và a sovrapporsi al disturbo psichiatrico. Un esempio: se  pazienti  con fobia sociale, manifestano anche il perfezionismo nel dominio relazioni sociali, quest’ultimo tende a  mantenere stabile il disturbo psichiatrico inficiando un possibile trattamento.

Interessante è l’indagine di Bardone e collaboratori (2000) sulla relazione tra perfezionismo, autostima e insoddisfazione corporea. Lo studio, infatti, rivela che compresenza di queste tre variabili sia predittivo rispetto allo strutturarsi dei  sintomi bulimici. In particolare, percepirsi in sovrappeso, avere alti livelli di perfezionismo e una bassa autostima, espone maggiormente al rischio di manifestare sintomi bulimici.

Grolnick nel 2002 rintraccia nel controllo psicologico in particolare, e nel modello di parenting intrusivo più in generale, quelle modalità educative che il genitore utilizza per spingere il figlio a raggiungere particolari risultati, (Grolnick et al. 2002).  Alcune ricerche hanno evidenziato come il controllo psicologico in tenera età, predica un aumento del perfezionismo maladattivo nella tarda adolescenza, e sia predittivo di un aumento dei sintomi depressivi (Flett et al. 2002).  Inoltre, quando eccessivo, il controllo sembra misconoscere l’indipendenza e la singolarità del bambino (Barbera e Harmon 2002, Kering 2003).

Dal punto di vista terapeutico Burns (1980) propone di fare un’analisi dei costi e dei benefici rispetto alle credenze perfezionistiche disfunzionali per poter valutare i vantaggi e gli svantaggi che si hanno nel mantenerle. Fairbun, Safran e Cooper (1999) sostengono che la terapia debba partire dal riconoscere a livello cognitivo comportamentale il proprio perfezionismo come un problema. Questo per ampliare lo schema di auto-valutazione di sé introducendo domini non disfunzionali. Vanderlinden (2001) propone un approccio terapeutico di tipo comportamentale  suggerendo una serie di esercizi quali:

– individuare le attività che si svolgono in modo compulsivo per poter innescare un cambiamento partendo dalla progressiva diminuzione del tempo dedicato ad esse;

– attuare comportamenti contrari a quelli abituali  definita “sfida al perfezionismo”. Un esempio è essere disordinati volutamente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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  • Zöllner Ulrike a cura di Gerbino C. (2002). Sindrome da perfezionismo. L’arte di essere meno perfetto Koiné Centro Psicologia  (collana Psicopedagogia)

Obesità nei bambini: il cervello si attiva diversamente quando il sapore è dolce!

FLASH NEWS

E se fossero i nostri neuroni ad essere golosi? É quanto sostiene un gruppo di ricercatori dell’Università della California che ha trovato evidenze empiriche secondo cui alcuni cervelli gradiscano lo zucchero più di altri.

Sembrerebbe infatti che alcuni individui abbiano una predisposizione fisiologica che li spinge a desiderare lo zucchero, a essere più portati a percepire il cibo come una ricompensa, a essere motivati dal cibo e a gradire maggiormente la derivante sensazione di benessere data dallo stesso.

Sebbene non sia stata individuata una relazione causale tra l’ipersensibilità allo zucchero e l’eccessiva alimentazione, in questo studio è stato scoperto che nei bambini obesi il cervello risponde diversamente allo zucchero rispetto ai bambini normo-peso.

Per questo studio sono stati coinvolti 23 bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, di cui 10 obesi e 13 normo-peso. Le immagini cerebrali hanno mostrato una maggiore attività della corteccia insulare e dell’amigdala dei bambini obesi rispetto al gruppo di controllo. Regioni che infatti sono coinvolte nella percezione, emozione, consapevolezza, gusto, motivazione e ricompensa.
Non hanno mostrato differenze nell’attività neuronale dello striato, anch’esso parte del circuito di ricompensa che altri studi hanno associato all’obesità negli adulti, tuttavia lo striato non è pienamente sviluppato fino all’adolescenza per cui non stupisce questa assenza di variazioni significative, anzi il campione di riferimento di questa ricerca potrebbe essere il primo caso di studio di sviluppo del circuito della ricompensa da cibo nei pre-adolescenti.

I bambini obesi hanno tra l’80 e il 90% di probabilità di diventare adulti obesi; dunque uno studio come questo è un campanello di allarme che dovrebbe far riflettere sulla prevenzione e sulla possibilità che alcuni bambini nascano con una certa ipersensibilità al cibo o con una predisposizione ad imparare più rapidamente il legame tra mangiare e sentirsi meglio che, se riconosciuta, potrebbe essere un efficace punto di partenza per strutturare un intervento mirato e gestire meglio il rischio di sovrappeso e obesità.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Sindrome metabolica e obesità: fonte di deficit cognitivi?

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia, Metacognizione e PTSD: Nuove conferme sperimentali

L’ipotesi che la metacognizione sia danneggiata nei pazienti gravi era stata espressa da Semerari e colleghi a metà degli anni ’90 – vedi Semerari A. (a cura di) (1999). Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Milano: Raffaello Cortina -. Liotti e colleghi da tempo ipotizzano che esperienze psicologicamente traumatiche disorganizzino le funzioni superiori della coscienza, che corrisponde a problemi in quella che nell’area della metacognizione viene chiamata integrazione.

L’idea fino ad ora non aveva ricevuto conferme sperimentali. Il uno studio del gruppo di Paul Lysaker al quale ho partecipato, abbiamo testato l’ipotesi misurando la metacognizione con la versione adattata della Metacognition Assessment Scale in tre gruppi: uno affetto da PTSD, uno da schizofrenia e un terzo gruppo che è stato soggetto a difficoltà esistenziali significative, di soggetti HIV+.

Sono stati misurati anche i livelli di depressione e le capacità di riconoscimento emozionale attraverso un task che valuta sia l’espressione del viso che la prosodia (il Bell Lysaker Emotion Recognition Task).

È emerso che i pazienti con PTSD avevano migliore metacognizione del gruppo con schizofrenia, come ipotizzato, e livelli minori di mastery, ovvero della capacità di utilizzare la conoscenza sugli stati mentali per padroneggiare problemi interpersonali e sofferenza soggettiva, del gruppo di controllo costituito da pazienti HIV+. I risultati erano indipendenti dal livello di depressione.

All’interno del gruppo PTSD, si è visto che minore mastery era collegata a maggior stress soggettivo e iperarousal. Una relazione simile era specifica di aspetti della metacognizione, mentre non sono emersi collegamenti tra la performance nel task di riconoscimento emotivo e la gravità dei sintomi legati al PTSD.

Alcuni risultati erano invece inaspettati, non abbiamo ad esempio trovato correlazioni tra metacognizione e sintomi di avoidance/numbing.

Ad un livello descrittivo, osservando le medie dei punteggi dei pazienti con PTSD, si notava come non fossero per la maggior parte capaci di integrare molteplici aspetti dell’esperienza soggettiva in una narrazione coerente, direi dato a supporto delle teorie della “disintegrazione” delle funzioni superiori della coscienza sotto l’effetto del trauma.

Il lavoro di riferimento è il seguente:

Lysaker, P.H., Dimaggio, G., Wickett-Curtis, A., Luedtke, B., Vohs, J., Leonhardt, B., James, A., Buck, K.D. & Davis, L.W. (in press) Deficits in metacognitive capacity are related to subjective distress and heightened levels of hyperarousal symptoms in adults with Posttraumatic Stress Disorder. Journal of Trauma and Dissociation.

Nel complesso, l’idea che la metacognizione sia in generale danneggiata nei pazienti gravi – si veda Dimaggio e Lysaker (a cura di) (2011): Metacognizione e Psicopatologia, Raffaello Cortina – trova conferma in una popolazione in cui non era ancora stata studiata. Più nello specifico, arriva una prima conferma sperimentale che, coerentemente con le ipotesi di Liotti, Farina e altri colleghi italiani che se ne sono occupati, che la metacognizione sia compromessa, almeno in parte, nei processi dissociativi.

Studi futuri dovranno esplorare il legame con i pattern di attaccamento in questa patologia e usare un gruppo di controllo privo di patologia (qui ci aspettiamo che il PTSD abbia una performance significativamente inferiore anche in altri aspetti della metacognizione).

 

ARGOMENTI CORRELATI:

METACOGNIZIONETERAPIA METACOGNITIVO-INTERPERSONALE

 

 

Sanità Pubblica & Psicologia: a Napoli primo ambulatorio di Psiconcologia nel territorio

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

ERCOLANO. Un ambulatorio di psicologia riservato esclusivamente a pazienti e familiari di persone ammalate di cancro o da patologie croniche. È il servizio di Psiconcologia dell’Asl Napoli 3 Sud, da qualche tempo attivo presso il Distretto Sanitario di Ercolano nei locali dell’Asl in via Marittima. Un servizio all’avanguardia, soprattutto se si considera che la sanità pubblica in Campania offre questo particolare sostegno ai malati «cronici» quasi esclusivamente in ambiente ospedaliero, in un contesto già di per sé pesante per persone affette da gravi patologie e spesso sottoposte a lunghe e dolorose terapie…

Asl Napoli 3, a Ercolano il primo ambulatorio di psicologia riservato ai malati di cancro e patologie cronicheConsigliato dalla Redazione

Francesco Catalano ERCOLANO. Un ambulatorio di psicologia riservato esclusivamente a pazienti e familiari di persone ammalate di cancro o da patologie croniche. (…)

Tratto da: Il Mattino

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Le parole sono importanti: psicoterapeuti e “psicanalisti”

Una delle ragioni che non aiutano la crescita professionale del mestiere di psicoterapista è la confusione terminologica. Ci sono troppe parole per troppi concetti. Prima di tutto il dilemma: psicoterapista o psicoanalista? Poi le varianti: analista, psicoterapista, psicoterapeuta, terapista, terapeuta. E infine le specializzazioni: psicoterapista psicodinamico (o solo dinamico), cognitivo, cognitivo-comportamentale, sistemico, familiare, umanistico, esperienziale e così via.

Troppe parole creano confusione. Per comunicare occorre semplificare. Meglio sarebbe convenire su una sola parola per iniziare a capirsi. Però a volte il rimedio scelto è peggiore del problema. E già, perché il termine più diffuso tra i non addetti ai lavori per indicare la nostra professione sembra ancora essere “psicoanalista” o –peggio- “psicanalista” senza la “o”, con inevitabile effetto retrò anni ’70. No, “psicoanalista” o “psicanalista” non sono le parole giuste per indicare il nostro mestiere. Indicano solo un gruppo che effettua un determinato tipo di psicoterapia. Appunto la psicoanalisi. La parola giusta è “psicoterapista” o, se si preferisce, “psicoterapeuta”.

C’è cascato anche il Post, che ha pubblicato un estratto di un bel libro di fotografie, cinquanta ritratti di psicoterapisti effettuati da Sebastian Zimmermann. Il libro s’intitola “Fifty shrinks”, ovvero “Cinquanta strizza-cervelli”.

La scelta del Post di rendere “Fifty shrinks” con “Gli psicanalisti a New York” è comprensibile.

“Shrink “è un termine gergale intraducibile in italiano. Nel doppiaggio al cinema o nei fumetti è reso con “strizza-cervelli”, parola che convenzionalmente fornisce l’appropriato saporino americano alla conversazione dei personaggi. Nessuno però userebbe “strizza-cervelli” in una conversazione normale, così come nessuno dice mai “chiudi il becco” in italiano. Al Post avranno pensato giustamente che in un titolo di giornale “strizza-cervelli” sarebbe suonato fumettistico. Meglio “psicoanalista”, che a quanto pare nella conversazione sociale italiana è ancora il termine più popolare per indicare il nostro mestiere.

D’accordo, tutto vero. “Shrink” però ha un merito: è un termine neutro, che va bene per qualunque tipo di psicoterapista. E non per caso Zimmermann ha scelto questo termine neutro. Gli “shrinks” che lui ha fotografato non sono tutti psicoanalisti. Tra le foto di Zimmermann pubblicate nel Post la numero #5 ritrae Albert Ellis, che, a parte il periodo iniziale, tutto è stato nella sua vita professionale meno che uno psicoanalista. Anzi, Ellis è uno dei fondatori della terapia cognitivo-comportamentale. Una psicoterapia diversa dalla psicoanalisi.

Esageriamo?

La tentazione di lasciar perdere ci sarebbe. In fondo si tratta di parole. Le parole sono strumenti e devono il loro significato a convenzioni effimere e mutevoli. Lasciamo ai pedanti la mistica del significato esatto delle parole. Può accadere che un termine particolare indichi un più ampio insieme, senza danno per la comprensione.

Però noi della redazione di State of Mind riteniamo che in questo caso il danno per la comprensione ci sia. Al contrario di quanto accade nella conversazione sociale, nel campo professionale il termine “psicoanalisi” non è diventato il termine comune e neutro da tutti accettato per indicare il nostro mestiere, la pratica psicoterapeutica. Non basta. Gli stessi psicoanalisti ci tengono moltissimo a distinguere la loro pratica non solo dalle psicoterapie non psicoanalitiche, ma anche dalle psicoterapie di derivazione psicoanalitica che non sono psicoanalisi pura. Queste sono chiamate “psicoterapie psicodinamiche”.

Bene sarebbe iniziare ad abituarsi anche nella conversazione sociale e popolare italiana a usare un termine appropriato. “Psicoterapia”, “psicoterapista” e/o “psicoterapeuta” sono le parole giuste. Non così evocative come “psicoanalista”, ma molto più precise e appropriate. Comprendiamo che la pletora di sottotipi di psicoterapie, compresa la psicoanalisi, sono una giungla che probabilmente crea confusione nei non addetti ai lavori. Tuttavia usare in maniera imprecisa e indiscriminata i termini “psicoanalisi”, “psicanalisi”, “psicoanalisti” e “psicanalisti” è confusivo e non aiuta noi professionisti a far capire ai pazienti quale trattamento forniamo e soprattutto non aiuta i pazienti a comprendere cosa possono aspettarsi e cosa cercare per la loro sofferenza.

 

 

Psicoterapia: intervista con Lorenzo Cionini – I Grandi Clinici

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Lorenzo Cionini

Professore Associato di Psicologia Clinica, Università di Firenze

 

State of Mind intervista Lorenzo Cionini: Psicoterapeuta e Professore Associato di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Firenze. 

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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TUTTI GLI ARTICOLI SU:  PSICOTERAPIA COGNITIVA

VEDI IL PROFILO DI LORENZO CIONINI

 

Differenze di genere in ambito scientifico: natura vs cultura

Diego Moriggia, OPEN SCHOOL.

 

L’articolo mette a confronto il punto di vista di 2 studiosi, Pinker e Spelke rispetto alle differenze esistenti tra maschi e femmine in particolare rispetto alle abilità scientifiche e si riporta una serie di evidenze scientifiche a supporto dell’idea che siano i fattori biologici o quelli culturali e sociali a determinare tali differenze, ma la risposta risulta ancora controversa. 

Il 22 gennaio 2005, Lawrence Summers – rettore dell’Università di Harvard – si espresse, in maniera piuttosto netta, sul perché posizioni di vertice accademico in ambito scientifico siano occupate maggiormente da uomini; ebbene, Summers dichiarò che non v’è alcuna ragione da attribuire ad eventuali discriminazioni delle carriere e la causa principale, invece, dev’essere cercata nelle differenze genetiche presenti tra maschi e femmine nel ragionamento scientifico. In altre parole, i maschi sono naturalmente più portati delle femmine nell’avere successo in ambito scientifico.

Com’è possibile immaginare, la dichiarazione portò con sé numerose polemiche di carattere discriminatorio; tuttavia, se da un lato le discussioni erano floride sul solo tema della discriminazione di genere, dall’altro regnava silenzio proprio nella comunità scientifica, restia a spendere opinioni al riguardo.
Pertanto, pochi mesi dopo la stessa Università di Harvard organizzò un dibattito di approfondimento, con protagonisti due tra i più autorevoli pensatori della psicologia contemporanea: Steven Pinker, docente alla facoltà di psicologia di Harvard e grande studioso dell’acquisizione del linguaggio nell’uomo, ed Elizabeth Spelke, anch’essa docente ad Harvard ed eminente ricercatrice nell’ambito dello sviluppo cognitivo. I punti di vista dei due studiosi, come avremo modo di vedere, si riveleranno simili in alcuni punti (è opportuno precisare che entrambi appartengono alla corrente idelogica chiamata “innatismo”, la quale sostiene che gli esseri umani nascano già con un corredo di abilità primordiali e predisposizioni specifiche allo sviluppo) e distanti in altri.

Pinker

Possiamo considerare, secondo Pinker, tre posizioni che ci aiuterebbero a spiegare l’esigua rappresentanza femminile nelle posizioni di vertice accademico in materie scientifiche. Secondo l’ottica naturalista, solamente i maschi posseggono talento e temperamento necessario per lavorare in ambito scientifico; in ottica culturalista, maschi e femmine sono biologicamente indistinguibili, le differenze rilevanti sono prodotto dell’ambiente circostante; per concludere, l’ottica intermedia direbbe che la differenza può essere spiegata da discrepanze biologiche che, in ogni caso, interagiscono con il sistema ecologico.

Ma quali sarebbero esattamente queste differenze tra i due generi? Possiamo immaginare anche delle somiglianze? Rispondendo a questa ultima domanda, sicuramente sì: maschi e femmine non mostrano differenze per quanto riguarda l’intelligenza generale (altrimenti chiamata fattore g) e riferendosi alle categorie base della cognizione (rapporto con il mondo circostante, concezione dei numeri, rappresentazioni degli oggetti, delle persone) è ugualmente possibile non osservare alcuna disparità. Osserviamo differenze – invece – in altri ambiti: l’andamento è comunque variabile, avendo occasioni in cui i maschi sono leggermente meglio delle donne (rotazione mentale degli oggetti) e viceversa (memoria visiva); ancora, le femmine sono più abili nel calcolo matematico e gli uomini nel problem solving.

Tuttavia, possiamo elencare alcune differenze che giocano un ruolo chiave nel dato in oggetto:
Uomini e donne differiscono nei cosiddetti obiettivi di vita; in altre parole, è più probabile che i maschi possano inseguire obiettivi lavorativi sacrificando la famiglia, mentre le femmine mostrano un comportamento più equilibrato. Lo studio di Benbow e collaboratori (Benbow et al., 2000), basato su un campione di 1729 giovani (maschi e femmine) con abilità matematiche particolarmente spiccate e seguiti in follow-up per più di vent’anni, dice che, a parità di talento, risultati ottenuti e soddisfazione percepita, le femmine prestano maggior attenzione ad aspetti come vicinanza ai propri genitori e famigliari e qualità di amicizie e legami; i maschi, d’altro canto, son sembrati più orientati verso scopi carrieristici, remunerativi ma anche creativi.

Interessi lavorativi. Lavorativamente parlando, si è più interessati alle persone o alle cose? La grande mole di dati proveniente dagli studi sugli interessi professionali dice che la percentuale di donne interessate ad un lavoro che implichi lungo contatto con cose fisiche è significativamente minore rispetto a quella degli uomini, pur essendo, in assoluto, molto aumentata negli ultimi quarant’anni; la differenza è osservabile persino tra le diverse specializzazioni scientifiche, per ulteriori informazioni si vedano i lavori di Goldin (1990) e Browne (2002).

Assunzione di rischi. Il genere maschile è quello più spericolato. Byrnes, Miller e Schafer (1999) hanno condotto al riguardo una meta analisi su 150 studi e osservando che i maschi sono sovra-rappresentati in quattordici, su sedici totali, categorie che definiscono l’assunzione di rischi (nelle due rimanenti i generi sono equamente rappresentati, una di queste è relativa al fumo).

Trasformazioni mentali di oggetti a tre dimensioni. Una meta analisi condotta su 286 campioni di dati evidenzia consistenti e stabili differenze tra i generi. Come si è già detto, in alcuni compiti di abilità spaziale le donne sono avvantaggiate, mentre i maschi recuperano in altri (rotazione mentale, percezione dello spazio, visualizzazione dello spazio; Voyer, Voyer, & Bryden, 2005). Potremmo chiederci: che attinenza hanno questi risultati con la capacità di raggiungere risultati in ambito scientifico? Studi psicometrici (Geary, 1996) mostrano una correlazione significativa di queste abilità con il problem solving matematico. Inoltre, brillanti abilità di manipolazione mentale degli oggetti sono rintracciabili negli scritti di alcuni dei più prolifici pensatori: Faraday, Maxwell e Tesla hanno sostenuto di esser giunti alle loro scoperte per mezzo di quest’abilità, trascritte solo successivamente in forma di equazione.

Ragionamento matematico: ragazze e donne hanno migliori voti scolastici in matematica, ma anche in altre materie; in più, sono maggiormente abili nel calcolo matematico, mentre i maschi totalizzano punteggi più alti nei compiti di ragionamento matematico. Per meglio chiarire la questione, ci appelliamo ancora ai risultati di una meta analisi, con 254 studi e più di tre milioni di partecipanti (Hyde, Fennema, & Lamon, 1990): le differenze tra genere sono nulle nell’infanzia, aumentano lievemente nella pubertà per poi ampliarsi in adolescenza ed età adulta. [Nota: parte di questi risultati sono ottenuti confrontando i risultati ottenuti al test SAT (Scholastic Assessment Test); l’attendibilità di questi test è tuttavia criticata da alcuni ricercatori, tra cui la stessa Spelke.]

Ora, aver accennato all’esistenza di queste differenze tra generi non implica l’assunzione a priori della loro origine innata; del resto, quantificare il reale contributo di uno o più fattori biologici nello sviluppo di abilità matematiche è decisamente complesso. Pinker, tuttavia, considera l’esistenza di dieci evidenze scientifiche di difformità intergenere, che potrebbero costituire una base (seppur labile) di differenziazione biologica.
Esiste, tra uomini e donne, una grande differenza a livello di ormoni sessuali, specie nel periodo prenatale, nei primi sei mesi di vita ed in adolescenza (per i quali il cervello umano dispone di una moltitudine di specifici recettori, anche nella corteccia); differenze più piccole sono riscontrate, a livello anatomico, nella dimensione globale dell’encefalo, nella densità neuronale della corteccia, nella dimensione dei nuclei ipotalamici e parecchi altri.

Gran parte delle differenze tra genere sono universali; Donald Brown, nel suo Human Universals (1991), sottolinea che in tutte le culture le femmine sono più direttamente coinvolte nella cura della prole, mentre i maschi mostrano maggior inclinazione alla competitività (in varie misure).

Le differenze sono stabili nel tempo: revisioni della letteratura su temi come personalità ed interessi di vita hanno evidenziato piccoli o nulli cambiamenti nelle due generazioni che hanno raggiunto la maggiore età durante la seconda ondata femminista (Feingold, 1994; Browne, 2002). In compiti di rotazione mentale degli oggetti, Voyer (2011), nella sua meta-analisi, non riscontra nessun cambiamento nel tempo; mentre Hyde, Fennema & Lamon (1990) rilevano, nel ragionamento matematico (e nel corso del tempo), minor differenza tra maschi e femmine.
Alcune delle differenze sopracitate (tendenza alla cura della prole nelle femmine e tendenza all’aggressività nei maschi) sono riscontrabili in altre specie di mammiferi; all’interno dell’ordine dei primati, alcune specie prediligono interazioni con oggetti anziché con conspecifici.

Alcune delle diversità emergono entro la prima settimana di vita: le femmine reagiscono con maggior distress agli stimoli acustici e sono capaci di mantenere contatto visivo più a lungo dei maschi (Baron-Cohen et al., 2004). Più avanti nello sviluppo, alcune differenze divengono vieppiù robuste; si parla dei già citati stili di gioco e d’interazione con gli oggetti, ma anche della capacità di considerare la mente altrui (le femmine sembrano più abili nella soluzione del “false belief task”, ma anche più inclini a comprendere gli stati mentali di personaggi inventati; Baron-Cohen, 2003).

 

Bambini cresciuti come bambine: il caso “John/Joan” (Colapinto, 2000).

Negli anni ’70, un bambino (membro di una coppia di gemmelli omozigoti) perse il proprio pene in seguito ad un approssimativo intervento di circoncisione; i genitori, forti del parere di un luminare dell’epoca, decisero di castrarlo e che gli venissero somministrati specifici ormoni sessuali femminili, perché potesse essere cresciuto come una bambina. Questo caso è stato a lungo citato per rafforzare la teoria che vede i ruoli di genere come socialmente acquisiti. In realtà, il ragazzo (ormai cresciuto) venne intervistato anni dopo e si scoprì che nella sua infanzia, comunque, esibiva stili di gioco propri del genere maschile, rigettando attività “femminili” e mostrando molto più interesse negli oggetti piuttosto che nelle cose.
Gli insegnanti, a lungo imputati di promuovere differenze di considerazione e riconoscimento tra maschi e femmine, in realtà hanno un’idea equilibrata della loro performance scolastica (Lytton & Romney, 1991); anzi, pare che la percezione sui propri studenti derivi proprio dalla loro (degli studenti) motivazione allo studio e dalle loro prestazioni (Jussim & Eccles, 1995).

Il ruolo degli ormoni prenatali: vi sono evidenze, invero un po’ deboli in alcune parti, relative al fatto che differenze quantitative di ormoni sessuali prenatali determinano, nel corso dello sviluppo, significative discrepanze intragenere. Si pensi, ad esempio, alle femmine affette da iperplasia surrenale congenita: viene loro somministrato un trattamento a base di androgeni quando ancora sono nell’utero e, anni più avanti, le medesime bambine esibiscono un comportamento più orientato alla sfera maschile rispetto a quella femminile (Berenbaum, 1999; Collaer & Hines, 1995).

Il ruolo degli ormoni sessuali: nonostante la letteratura sia piuttosto confusa, è stato possibile osservare che, nei maschi, livelli di testosterone medio-bassi sono predittivi di maggiori abilità spaziali, come la rotazione mentale di oggetti (Kimura, 2000; Hines, 2004).

L’imprinting genetico e il ruolo del cromosoma X. Nello specifico quadro clinico chiamato Sindrome di Turner, la bambina (la sindrome ha incidenza sulla sola popolazione femminile) possiede un solo cromosoma X che può essere trasmesso sia dalla madre che dal padre; in accordo con la teoria dell’imprinting genetico (Haig, 2011), quando ella eredita un cromosoma X dalla madre, avrà mediamente un lessico più ampio, migliori abilità sociali e migliore capacità di leggere emozioni.

In definitiva, Steven Pinker vuole, quindi, portarci a considerare l’effetto incrociato della componente biologica e dell’ambiente sullo sviluppo di un individuo, avendo però cura di sottolineare che, alla base, esistono delle diversità intergenere ben specifiche, che tuttavia non indirizzano in alcun modo lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un’altra; concetto che, trasposto all’oggetto del contendere (sottorappresentaione femminile nel mondo scientifico) vuol significare medesima possibilità di sviluppare abilità specifiche pur partendo da un biologismo leggermente diverso in alcuni casi e parecchio diverso in altri.

 

Spelke

L’argomentazione di Spelke muove dal presupposto per cui la forza che genera questa discrepanza è da attribuirsi principalmente a questioni sociali, preoccupandosi prima, però, di discutere due affermazioni coinvolte nella credenza che tratteggia gli uomini come naturalmente predisposti alle materie scientifiche.

“I maschi, a partire dalla nascita, sono maggiormente interessati agli oggetti, le femmine alle persone: ciò spinge i maschi verso la scienza e le femmine verso obiettivi sociali.”
Questo punto di vista, precedentemente menzionato da Pinker, sta guadagnando credito dopo il lavoro pubblicato da Simon Baron-Cohen (2004) e con titolo “The essential difference: the truth about the male and female brain”: all’interno, l’autore distingue due abilità specifiche per maschi e femmine. I maschi, parrebbero presentare innate predisposizioni per apprendere il funzionamento degli oggetti e coglierne l’aspetto meccanico; questo li porterà ad essere quelli che lui chiama “sistematizzatori”.
Dall’altra parte, le femmine sembrerebbero innatamente avvantaggiate ad apprendere emozioni umane e ciò le porterà ad essere “empatizzatrici”. Poiché la sistematizzazione è al centro del pensiero matematico e scientifico, i maschi saranno più propensi a sviluppare abilità scientifiche e matematiche.

Spelke, tuttavia, non concede grande rilievo a questo articolo (“è una vecchia idea, solo proposta in un nuovo linguaggio”), procedendo invece a chiarire quanto gli studi sulle differenze di genere hanno esplicitato nel corso degli ultimi decenni; a partire dal fondamentale lavoro di Maccoby e Jacklin (“The psychology of sex difference”, 1974) fino ai giorni nostri, essi hanno evidenziato peculiari proprietà cognitive nei bambini, relative al riconoscimento di caratteristiche di oggetti. Si scopre così che i bambini percepiscono gli oggetti fin dalla nascita, dove ne finisce uno e ne inizia un altro; a 5 mesi sono in grado di creare rappresentazioni interne dell’oggetto anche dopo la sua scomparsa, confutando i dati ottenuti da Piaget sulla costanza dell’oggetto; sono capaci di produrre inferenze sul movimento degli oggetti e sulle loro interazioni meccaniche. In nessuno di questi ambiti, i ricercatori hanno rilevato significative differenze di genere: maschi e femmine sono ugualmente interessate agli oggetti, producono le medesime inferenze sul loro movimento e nelle stesse fasi dello sviluppo (Baillargeon, 2004; Spelke, 1990). In altre parole, maschi e femmine apprendono le stesse cose allo stesso tempo; inoltre, le conclusioni di Maccoby e Jacklin sono tutt’ora attuali e veritiere.

“I maschi sono naturalmente portati per matematica e scienze”
Le ricerche convergenti di varie aree quali neuroscienze, neuropsicologia e psicologia dello sviluppo cognitivo hanno evidenziato 5 domini chiave che stanno alla base del ragionamento matematico:

Gli umani sviluppano, a partire dai 5 mesi di vita, un sistema che rappresenta piccole quantità: in altre parole, la differenza tra uno, due e tre.
Sempre in prima infazia (4/5 mesi), si acquisisce la capacità di cogliere la differenza di numerosità tra grandi gruppi di oggetti.
Tra i due anni e mezzo di vita e i quattro, i bambini apprendono una capacità cruciale (e, probabilmente, unica in tutto il regno animale): associare la numerosità alla forma verbale.
Non appena i bambini acquistano autonomia di spostamento, osserviamo la nascita di sistemi di supporto all’orientamento: riescono a rappresentarsi la conformazione dell’ambiente circostante, nonché la possibilità di distinguere i confini degli oggetti.

Tutti i sistemi soprastanti sono stati studiati largamente in ampie quantità di maschi e femmine e, ancora, in nessuno di questi è stata notata alcuna differenza di genere.
Aiutiamoci con i dati provenienti da due studi. Nel primo (Condry & Spelke, 2008), i ricercatori ci mostrano che, a fronte di una grande variabilità nella capacità di concettualizzare i numeri naturali entro i due ed i quattro anni di vita, non vi appartiene alcuna superiorità dimostrabile dei maschi, nei confronti delle femmine.

Nel secondo (Lee, Shustermann & Spelke, 2006), una sorta di corrispettivo prescolare del compito di rotazione mentale, si testava nei giovani partecipanti la capacità di ri-orientamento in seguito ad un apposito disorientamento. Anche qui, nessuna differenza di genere. Questi risultati ci portano a concludere che gli umani sono innatamente dotati di specifici sistemi che governano il ragionamento matematico e, in particolare, che questi sistemi si sviluppano equamente in maschi e femmine. Le differenze emergono più avanti nello sviluppo; ma di che tipo di differenze si parla? Le differenze, per quanto di eziologia sconosciuta, sono state rilevate in ambito verbale (maschi più forti nelle analogie verbali, femmine nella fluenza), matematico (femmine più portate nel calcolo, maschi nel ragionamento) e spaziale (femmine più dotate nel riconoscimento degli oggetti nello spazio, maschi più abili nella rotazione mentale. Potremmo chiederci, a questo punto: le peculiarità cognitive dei maschi garantiscono un migliore apprendimento matematico? Non precisamente. Gallagher e Kaufman (2005) scrivono che nell’arco dell’high school (l’equivalente delle nostre scuole superiori) le femmine scelgono quasi la metà dei corsi di matematica, ottenendo migliori voti. Nel percorso universitario, il 47% di lauree triennali in matematica vengono assegnati a femmine, ottenendo voti equiparabili a quelli dei maschi. Citando Halpern (2000): “Maschi e femmine hanno pari talento in matematica; le differenti strategie cognitive di un genere rispetto all’altro non conducono ad alcuna sostanziale differenza.”

Spelke, avendo fornito argomentazioni sufficienti a mettere in dubbio la nostra convinzione relativa ad una differente predisposizione biologica, si sofferma sui fattori sociali implicati, secondo lei ben più incisivi nell’ aver creato il supposto divario prestazionale.
Uno di questi fattori è attinente al modo in cui i genitori percepiscono i loro figli; emerge da alcuni studi (Rubin et al., 1974; Karraker et al., 1995) che i genitori di maschi “vedono” i propri figli come più forti e vigorosi rispetto ai genitori di femmine (a parità di salute globale, controllata dai ricercatori servendosi dei referti medici). Un altro studio di Mondschein (2000), condotto su bambini di 12 mesi e relativi genitori, rivela che i genitori di maschi mostravano più sicurezza dei genitori di femmine nel prevedere il successo del proprio figlio/a in un test di locomozione (anche in questo caso la letteratura conferma che a 12 mesi le capacità locomotorie sono affatto equiparabili). Salendo con l’età, studi diretti a genitori di ragazzi di 11-12 anni di vita confermano aspettative parentali più rosee verso i maschi, i quali sono idealizzati dai propri genitori come più naturalmente portati per matematica e scienze (Eccles et al., 1990; Tenebaum & Leaper, 2003).
A questo punto, abbiamo una chiara disarmonia tra quanto percepiscono i genitori dei propri figli e ciò che le ricerche testimoniano. Sarebbe lecito chiedersi: i genitori riescono a cogliere qualche aspetto che le tecniche di rilevazione sperimentale, invece, tralasciano? Per fugare questo dubbio, Spelke porta a sostegno della sua tesi uno studio (Condry & Condry, 1978) su credenze relative ai bambini e percezione degli stessi: in questo caso, si mostrava ad un gruppo di genitori un bambino sconosciuto, avente età e tratti somatici tali per cui non era possibile determinarne il genere a prima vista. A metà campione genitoriale era stato fatto credere che l’infante era un maschio (“David”), all’altra metà che era una femmina (“Jessica”). I risultati ci dicono che in caso di comportamenti non ambigui del bambino, la credenza di genere non influenzava le risposte mentre, in casi di comportamenti ambigui (es. pianto in seguito ad uno spavento) il genere aveva un effetto sulla percezione del bambino; i genitori che osservavano “Jessica” la definivano spaventata, quelli che osservavano “David” lo consideravano arrabbiato. Ciò che Spelke ritiene pregnante nel commentare questi risultati è che, nonostante un genitore possa avere le migliori intenzioni nel trattare maschi e femmine allo stesso modo, sicuramente lo stesso genitore non tratterà allo stesso modo un bambino arrabbiato e un bambino spaventato: tutto ciò porta, inevitabilmente, a far sì che maschi e femmine attiveranno diverse reazioni dal mondo circostante, diversi schemi di sostegno e incoraggiamento.
Per concludere, Spelke cita un ulteriore studio sull’etichettamento di genere (Steinpreis et al., 1999), questa volta condotto su adulti e con destinatari un campione di docenti di psicologia. A metà di questi veniva fatto pervenire un curriculum vitae di un candidato ideale, perfetto, brillante e di genere maschile; all’altra metà, stesse caratteristiche ma genere femminile. Quindi veniva fatto pervenire anche un CV di livello medio, di un candidato non improduttivo ma nemmeno eccellente; anche qui, per metà campione il genere era maschile e per l’altra metà, femminile. I risultati ci comunicano che nel caso del CV brillante non abbiamo alcun effetto di genere, ovvero un curriculum brillante è giudicato tale sia che rechi il nome di un maschio o di una femmina; nel secondo caso, invece, il candidato maschio – si noti, a parità di pubblicazioni, lezioni, corsi – è sempre considerato in maniera positiva e il candidato femmina in maniera meno positiva. Aspetto piuttosto importante dei risultati, è che i giudizi sono più o meno identici per professori maschi e professori femmine: la diversità di percezione è pari sia in maschi che in femmine, persino in persone assolutamente rispettose dell’equità tra generi.

Come è stato possibile leggere, i punti di vista dei due luminari sono – in alcune parti – piuttosto discordanti, nonostante le tesi dell’uno e dell’altro siano avvalorate da corpose evidenze scientifiche. La vena fortemente evolutiva che caratterizza questo confronto, tuttavia, lascia un “finale” indefinito, e che esprime la grande indecisione del mondo scientifico (non esclusivamente psicologico) rispetto ad uno dei temi più controversi e dibattuti: il contributo di natura e cultura allo sviluppo umano.

 

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I comportamenti antisociali: questione di genetica o ambiente?

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La conclusione a cui sono giunti i ricercatori è che le varianti genetiche interagiscono tra loro e con fattori ambientali negativi per aumentare il rischio di delinquenza, mentre la presenza di fattori ambientali positivi diminuisce questo rischio confermando che i fattori genetici influenzano il nostro cervello e il nostro comportamento alterando la sensibilità all’ambiente.

Tutte e due, genetica e ambiente sono legati da un doppio filo, in una relazione di reciproca influenza. Infatti, la predisposizione genetica rende più o meno sensibili all’ambiente circostante e allo stesso tempo le esperienze, positive o negative, influenzano il modo in cui la genetica influisce sul cervello e, di conseguenza, sul comportamento.

Una chiara evidenza di questa doppia influenza è data da uno studio dell’università di Montréal in cui si è indagato il legame tra comportamenti antisociali nei giovani e l’interazione tra varianti genetiche e esperienze di vita.
A questo scopo 1337 studenti di Västmanland, Svezia, di età compresa tra i 17 e i 18 anni hanno fornito un campione di saliva per estrarre il DNA e compilato un questionario anonimo su delinquenza, conflitti familiari, esperienze di abusi sessuali e la qualità della loro relazione con i rispettivi genitori.

Grazie ai dati raccolti sono stati individuati tre geni come maggiormente coinvolti nei comportamenti antisociali: MAOA (Monoamine oxidase A), BDNF (brain-derived neurotrophic factor) e 5-HTTLPR (trasportatore di serotonina). Inoltre, è stato notato che gli individui che presentavano una variante “meno attiva” erano anche più propensi ad assumere un comportamento più aggressivo.
Queste varianti genetiche oltre ad avere effetti singolarmente hanno mostrato anche una interazione tra loro, ma non solo: in presenza di conflitti familiari e abusi sessuali aumentava la probabilità di sviluppare livelli di delinquenza maggiori.
Tuttavia, quando le stesse varianti genetiche erano associate a esperienze di vita positive il rischio diminuiva significativamente.

La conclusione a cui sono giunti i ricercatori è quindi che le varianti genetiche interagiscono tra loro e con fattori ambientali negativi per aumentare il rischio di delinquenza, mentre la presenza di fattori ambientali positivi diminuisce questo rischio confermando che i fattori genetici influenzano il nostro cervello e il nostro comportamento alterando la sensibilità all’ambiente.

 

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Alessitimia – Definizione Psicopedia

Elisabetta Virginia Marinucci

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Il termine Alessitimia è stato introdotto  agli inizi degli anni settanta da John Nemian e Peter Sifneos (1976) per definire un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici. Deriva dal greco “Alexis thymos” e letteralmente  significa non avere parole per le emozioni.

Nello specifico Peter Sifneos coniò questo termine per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici.

L’alessitimia si manifesta attraverso una serie di difficoltà rispetto a:

identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti;

distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche;

individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni;

utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica.

Taylor, Bagby e Parker (2000) a tal proposito, hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni. Questo potrebbe spiegare la tendenza dei soggetti alessitimici ad assumere alcuni comportamenti compulsivi quali: l’abbuffarsi di cibo, l’abuso di sostanze o il vivere in modo perverso la sessualità per liberarsi dalle tensioni causate da stati emotivi non elaborati.

Solo apparentemente ben inseriti nella società, i soggetti alessitimici assumono una postura rigida, presentano processi immaginativi coartati e tendono ad avere esplosioni di collera o di pianto incontrollato e, se interrogati sui motivi di queste manifestazioni, sono incapaci di dare spiegazioni. Questo perché i  soggetti alessitimici, pur mostrando una normale attivazione fisiologica in presenza di emozioni, hanno ridotte capacità di riorganizzare gli elementi che caratterizzano la loro esperienza corporea in una rappresentazione mentale intrapsichica (Parker J.D.A., Taylor G.J., Bagby R.M. 1993; Kristal H. 2007).

Per molto tempo i tratti alessitimici, poiché altamente riscontrati nei pazienti psicosomatici, sono stati considerati fattori predittivi per lo sviluppo delle malattie psicosomatiche in senso stretto.  Attualmente, invece, studi e ricerche dimostrano che  l’alessitimia è uno dei fattori di rischio per diversi disturbi sia fisici quali coronaropatie, ipertensione, disturbi gastrointestinali (Porcelli P., Bagby R.M., Taylor G.J., De Carne M., Leandro G., Todarello O. 2003) che psicologici: anoressia e bulimia nervosa, depressione, disturbi d’ansia. Caratteristiche alessitimiche sono state individuate anche in pazienti con: dipendenza da sostanze, disturbo post-traumatico da stress, depressione (Honkalampi K, Hintikka J, Laukkanen E, Lehtonen J, Viinamaki H. 2001). Infine l’alessitimia è stata evidenziata nei pazienti cha hanno subito un trapianto, che sono in dialisi o  in terapia intensiva (Porcelli P. 2009).

Diverse teorie neurofisiologiche (Nemiah J.C., Freyberger H., Sifneos P.E. 1976; ·    MacLean PD (1952) Some psychiatric implications of physiological studies onMacLean Paul D. 1952) sono state proposte negli anni per spiegare l’eziologia dell’alessitimia. Gli studi hanno ampiamente dimostrato che  l’emisfero destro è coinvolto maggiormente nell’elaborazione del comportamento emotivo, mentre l’emisfero sinistro è implicato nell’articolazione del linguaggio. Questo fa ipotizzare che l’interruzione della comunicazione interemisferica tramite corpo calloso e un cattivo funzionamento dell’emisfero cerebrale destro possano essere due  possibili cause dello sviluppo dell’alessitimia.

Alcuni studi neurologici (Dizionario di Medicina Treccani, 2010) inoltre, confermano la distinzione tra: Alessitimia di tipo I caratterizzata dall’assenza stessa di esperienza emotiva, e Alessitimia di tipo II che, invece, conserva l’integrità dell’esperienza emotiva da un lato, ma evidenzia un deficit specifico rispetto all’espressione e alla valutazione cognitiva delle emozioni  (Parker JDA, Taylor GJ, Bagby RM. 1993). Questo deficit può essere conseguenza di eventi traumatici o di uno sviluppo inadeguato delle funzioni di mentalizzazione (Kristal H. 2007).

Tutto ciò porta i soggetti alessitimici ad assumere un pensiero operatorio e ad avere una ridotta o inesistente capacità onirica (Marty P., De M’uzan M., David C. 1971).

Paul Mac Lean (1967, 1984) sostiene che quando le emozioni vengono vissute  per via somatica, si incanalano direttamente negli organi attraverso le vie neuroendocrine e autonome. Questo fa sì che i soggetti con tratti di personalità elessitimici abbiano un deficit nel  verbalizzare e interpretare gli stati emotivi che vengono confusi con le sensazioni corporee.

Tra le varie definizioni possibili,  l’alessitimia può essere considerata  un deficit della funzione riflessiva del Sé per la mancanza di consapevolezza emotiva che la caratterizza (Kout H. 1982, 2003). I soggetti che ne soffrono tendono al conformismo sociale e generalmente stabiliscono relazioni di forte dipendenza o, viceversa, preferiscono l’isolamento (Harris J.C. 2003,  Lambert KG, Gerlai R (2003) The neurobiological relevance of social behavior:Lambert K.G., Gerlai R .2003). Questo riconduce a ciò che Winnicott (Winnicott D.V. 1974) definisce stile di attaccamento insicuro- evitante con una immagine materna non interiorizzata.

Da quanto finora detto emerge che l’alessitimia delinea un fenomeno molto articolato, risultato della compresenza di fattori genetici, neurofisiologici , intrapsichici, nonché di modelli di comunicazione  familiare e fattori socioculturali.

Possiamo rintracciare una importante chiave di lettura dell’alessitimia anche  dagli studi condotti da Titchener negli anni venti (Legrenzi P. 1997). Questi infatti non solo osserva che  sin dai primi giorni di vita i neonati  sono turbati dal pianto di un altro bambino, ma rileva che già ad un anno di età i bambini sono capaci di mimetismo motorio per imitare, e verosimilmente comprendere,  la sofferenza degli altri. Tali evidenze porteranno Titchener a considerare il mimetismo motorio il precursore dell’empatia. Questo porta a ritenere che le capacità empatiche si  strutturino nell’individuo già a partire dall’infanzia.

Winnicott, d’altro canto, pone l’accento sulla madre empaticamente sintonizzata come base da cui il bambino può costruire il suo sviluppo emotivo. Al contrario, quando un genitore non riesce sistematicamente a sintonizzarsi con alcune specifiche emozioni del bambino, questi  evita di esprimerle con un costo notevole in termini emozionali (Winnicott D.W. 2000).

Sappiamo infatti che quanto più una persona è consapevole delle proprie emozioni, tanto più riuscirà ad essere empatico. Il retaggio culturale che spinge ad insegnare più favorevolmente  agli uomini capacità pratiche piuttosto che affettive, sembra spiegare il loro maggior numero tra i soggetti alessitimici rispetto alle donne (Pasini A. Delle Chiaie R. Seripa S. Ciani N. 1992; Mattila A. K. , Keefer  K.V. , Taylor J.G.e al, 2010) 2010 | 49 | 3 | 216-221.

Goleman (Goleman D. 1997) sostiene quanto detto individuando proprio nell’empatia e nell’autocontrollo le due fondamentali competenze sociali che consentono di costruire una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente alla base del benessere psico-fisico della persona.

Ad oggi il test più diffuso per la diagnosi di alessitima è la TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) del 1985. Questa scala psicometrica di autovalutazione, si compone di 20 items che servono a rintracciare le presenza delle tre caratteristiche principali del distrurbo:

la difficoltà nell’identificare i sentimenti;

la difficoltà nel descrivere i sentimenti altrui;

il pensiero orientato quasi solo all’esterno, e raramente verso i propri processi endopsichisi.

Il Tematic Apperception Test (TAT) di Murray nel 1935 e gli studi di Reusch tra il 1948 e il 1957  evidenziano che i pazienti alessitimici hanno fantasie primitive e stereotipate e confermando la difficoltà dei paziente ad accedere al proprio mondo pulsionale inconscio.

Il  SAT9 (Objective Scored Archetypale Test) è un’altra tecnica proiettiva di disegno che valuta la caratteristica centrale dell’alessitimia: la funzione simbolica e la capacità del soggetto di creare fantasie.

Come già detto l’alessitimia è significativamente correlata a diverse condizioni patologiche di natura psicosomatica e psicologica ma, per una corretta diagnosi differenziale, và distinta dai sintomi negativi della schizofrenia (ottundimento affettivo, alogia, depressione, anedonia..), e considerata un tratto stabile di personalità.

Studi e osservazioni hanno dimostrato infatti che dopo un anno di trattamento psicofarmacologico appropriato, i pazienti schizofrenici vedono migliorate le sindromi schizofreniche e depressive così come il funzionamento psicosociale, mentre le caratteristiche principali dell’alessitimia restano stabili (Blanchard J.J., Mueser K.T, Bellack A.S. 1998). Questo dimostra che l’alessitimia non è in relazione  ai disturbi dell’Asse I ma è legata alle caratteristiche dell’Asse II ed è quindi una dimensione della personalità indipendente dalle categorie psichiatriche.

Una ipotesi è che la schizofrenia e l’alessitimia possano avere gli stessi meccanismi neurobiologici (Stanghellini G, Ricca V. 1995). Studi recenti ostengono la possibilità che una disfunzione della corteccia cingolata anteriore possa essere il meccanismo neurobiologico comune ai deficit cognitivi responsabili sia di alcuni sintomi della schizofrenia che della manifestazione comportamentale dell’alessitimia (Sanders G.S., Gallup G.G., Heinsen H., Hof P.R., Schmitz C. 2002).

Da un punto di vista terapeutico, si evidenzia la necessità di ristrutturare la sfera cognitivo-affettiva della personalità. Le esperienze cliniche finora raccolte sottolineano l’importanza di un trattamento che integri l’approccio farmacologico con quello psicoterapeutico con l’intento di intervenire sinergicamente sia sulla struttura neurobiologica che sui fattori di matrice psicosociale (Bateson G. 1972, Marty P., De M’uzan M., David C. 1971; Caretti V., La Barbera D. 2005).

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

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BIBLIOGRAFIA:

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