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E’ una questione di principio! – Le persone cambiano i loro valori morali per trarne profitto?

Laura Pancrazi

FLASH NEWS

Quando qualcuno afferma “Non lo faccio per i soldi, ma è una questione di principio!” è molto probabile che non faccia qualcosa proprio per una questione economica.

Perseguire il proprio successo economico mettendo i propri interessi finanziari avanti a tutto spesso non è possibile perché bisognerebbe passare sui diritti o interessi degli altri, e questo è moralmente inaccettabile! Quindi, a questo punto cosa succede? Succede che le persone cercano non solo di ottenere il massimo guadagno individuale, ma anche di convincere gli altri di essere, moralmente, nel giusto. O almeno questo è quanto affermano gli autori di uno studio pubblicato su Proceedings of the Royal Society B.

Lo studio, intitolato Equity or equality? Moral judgments follow the money, è stato condotto da Peter DeScioli, professore associato di scienze economiche presso la Brock University e coordinatore associato del Center for Behavioral Political Economy, ed del suo gruppo di ricerca. Lo studio qui presentato sottolinea che per i raggiungere i propri scopi si prode spesso in modo inflessibile ed egoistico, infatti le persone aggiusterebbero le loro proprie scelte morali sulla base dei benefici che potrebbero ottenere. 

Per dimostrarlo, i ricercatori del gruppo di DeScioli hanno condotto una ricerca strutturata in questo modo: i partecipanti lavoravano a coppie per trascrivere un paragrafo in cambio di una ricompensa in forma di denaro. Uno dei due partecipanti (Typist) svolgeva la funzione di dattilografo e trascriveva tre paragrafi. L’altro partecipante (Checker) si occupava di trascrivere un paragrafo scelto casualmente tra quelli scritti dal collega. Se le due trascrizioni corrispondevano esattamente, allora ricevevano una ricompensa in denaro. Al primo partecipante (Typist) era affidato il compito di decidere in che modo dividere la ricompensa ottenuta, potendolo fare in due modi: la ricompensa poteva essere divisa al 50% tra i due partecipanti, secondo il principio di uguaglianza, oppure proporzionalmente al lavoro svolto, spettando allora il 25% al soggetto che aveva trascritto un paragrafo e il restante 75% all’altro soggetto, secondo il principio di giustizia.

La maggior parte di loro ha scelto di prendersi la fetta più larga della torta, come ipotizzato dagli autori dello studio. Non solo: ai partecipanti era richiesto di valutare la bontà del principio di uguaglianza e quello di giustizia. Ovviamente, anche questa scelta si è dimostrata essere egoisticamente interessata, ovvero volta a difendere e giustificare la propria preferenza. Infatti, i partecipanti nel ruolo di Typist giudicavano più onesto il principio di giustizia; invece i soggetti nel ruolo di Checker preferivano, com’era ipotizzabile, il principio di uguaglianza. Ma non è tutto: i ricercatori avevano chiesto l’opinione dei partecipanti riguardo la correttezza di ciascuna modalità di ripartizione sia prima che dopo l’assegnazione dei ruoli. A quanto pare, in pochi minuti i partecipanti hanno cambiato i propri valori in favore della regola morale, che gli avrebbe garantito di ricevere una maggiore quantità di denaro. Sembra dunque che molto spesso le nostre scelte si basino su presupposti egoistici e interessati.

DeScioli sottolinea come i risultati di questa ricerca siano potenzialmente estensibili a qualsiasi occasione delle nostre vite in cui ci siano delle risorse economiche da spartire, pensiamo, ad esempio, ad una famiglia che si divide un’eredità, colleghi di lavoro che dividono profitti, politici che decidono in che modo spendere le entrate fiscali o capi di stato che si dividono territori. Ognuno farà le scelte che di fatto gli consentiranno di prendersi la fetta più grossa della torta.

Tuttavia, ci rincuora lo studioso, il nostro egoismo ha un limite: in un esperimento successivo, si era riproposta una situazione simile a quella dello studio precedentemente illustrato dividendo però esattamente a metà il lavoro da svolgere, in modo tale da rimuovere ogni pretesto per una suddivisione non equa del denaro. Dunque, ogni partecipante trascriveva solo un paragrafo e, se le due trascrizioni corrispondevano, guadagnavano una ricompensa. In questo caso tutti i partecipanti hanno scelto di dividere equamente il denaro.

In conclusione, secondo DeScioli, le persone cercano non solo di ottenere il massimo guadagno individuale, ma anche di convincere gli altri di essere, moralmente, nel giusto. Però, certo, a tutto c’è un limite, anche al nostro egoismo.

 

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State of Mind intervista:

Antonino Ferro

Psichiatra e Psicoanalista
Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, SPI

 

State of Mind intervista Antonino Ferro, Psichiatra e Psicoanalista, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, SPI. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia..

 

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Intervista con Gianrico Carofiglio: tra gratitudine e prospettiva

Cristiana di San Marzano.

Gianrico Carofiglio è stato magistrato, deputato e ora è soltanto scrittore.  Un autore molto prolifico, in dodici anni ha pubblicato una decina di libri, che ogni volta scalano le classifiche dei più venduti.  L’ultimo, La regola dell’equilibrio, esce lunedì 10 per Einaudi Stile Libero e riporta in scena come protagonista l’avvocato Guido Guerrieri.

La Regola dell'equilibrio (2014) Einaudi.
La Regola dell’equilibrio (2014) Einaudi.

La nostra conversazione parte però da un altro libro, il recente La casa nel bosco, scritto con il fratello Francesco, architetto, illustratore e anche lui scrittore. Un memoir a quattro mani che ci consente di aprire una finestra sul suo percorso adolescenziale. Leggendo il libro che ha scritto con suo fratello sembra che da giovani, fra i due, lei fosse il più estroverso?
Non sono naturalmente estroverso, anzi forse è vero il contrario. Però  ho sempre avuto voglia di entrare in contatto con gli altri e quando ero ragazzo avevo difficoltà piuttosto serie a farlo, per la mia timidezza. Ci ho lavorato su parecchio, e credo di essere migliorato, col tempo.

Eppure, come si racconta nel libro, lei è descritto come un attaccabrighe.
Non so se è la definizione esatta. Attaccabrighe è uno che se le va a cercare. Può darsi che qualche volte l’abbia fatto, ma in generale io in realtà tendevo a non tirarmi indietro, ad accettare le provocazioni. Anche questo era una conseguenza della timidezza, dell’insicurezza, il bisogno di dimostrare qualcosa.

Poi a un certo punto ha cominciato a studiare karate.
Avevo 14 anni, e fu una delle strategie per cercare di liberarmi dell’insicurezza di cui dicevo.

Quindi aveva già messo a fuoco questo suo problema.
Molti ragazzini insicuri hanno questo tipo di desiderio. Sono convinti che praticando una disciplina di combattimento diventeranno fisicamente forti, se non imbattibili e questo curerà la loro insicurezza. Certo, può anche accadere, ma in maniera diversa da come uno se lo immagina. Studiando una disciplina di combattimento con consapevolezza si capisce non solo che l’invincibilità non esiste, ma che in generale la cosa più saggia è evitare di combattere. Diciamo che io ci ho messo un po’ di tempo a capirlo e sono stato un po’ rissoso per qualche anno
Fino ai 18, 20 anni.
Qualche propaggine anche oltre (ride).

Forse aveva qualche problema con la rabbia.
Non parlerei di rabbia, era il contrasto fra la paura, che è emozione sana perché aiuta a fuggire situazioni di pericolo, e il bisogno di dimostrare qualcosa. Qualcosa che all’epoca era impreciso per me stesso, ma che mi induceva a rimanere e raccogliere le provocazioni . No, non era rabbia, mi sento di dirlo con sicurezza: tutte le volte che ho fatto a botte non ho mai inferito su chi cadeva a terra.

Spesso si pensa che chi fa arti marziali abbia un problema di aggressività repressa.
C’è di tutto fra chi le pratica, meglio evitare generalizzazioni. Diciamo che studiarle con consapevolezza, con un bravo maestro, senza nessuna esaltazione della violenza e dello scontro, può aiutare la comprensione di certe dinamiche interiori e indirizzare l’attitudine al conflitto in qualcosa di innocuo e addirittura positivo. A me le arti marziali, senza girarci troppo intorno, hanno cambiato la vita.

In che senso?
Ho imparato a fare a botte e poi ho capito che fare a botte non era una buona idea. Può produrre conseguenze imprevedibili e a volte devastanti. Come dicono certi maestri giapponesi, la miglior vittoria è il combattimento che non hai fatto.

Nel corso della sua vita ha poi messo a punto da cosa aveva origine il conflitto che la portava a doversi misurare con un’altra persona, ad accettare provocazioni?
Ero un bambino goffo e timido, avevo paura di tutto e spesso gli altri ragazzini, più svelti di me, mi prendevano in giro. L’incipit di un libro che prima o poi scriverò è: “da bambino avevo paura di tutto”.

Suo fratello invece?
Lui era più fluido, socialmente più adeguato e fisicamente più abile.

I vostri erano genitori molto attenti?
Sì, però hanno sempre giudicato poco rilevante l’educazione fisica. Un’idea sbagliata, direi. Quindi ho fatto tutto da solo.

Badavano di più all’educazione intellettuale.
Sicuramente. Il fatto che io volessi fare sport era considerato bizzarro. Quando poi ho addirittura cominciato a fare agonismo loro davvero non capivano.

Ha mai avuto esperienze di psicoterapia?
Ho attraversato un periodo in cui stavo molto male, ero molto infelice. Non so se fosse una forma depressiva, difficile dirlo, e del resto non vorrei medicalizzare quella che forse era semplice tristezza. In quel periodo, che poi portò al cambiamento più rilevante della mia vita, cioè a scrivere il primo romanzo, sono andato da un medico, che era anche psicoterapeuta, e ho fatto qualche incontro. Tre volte al mese per tre o quattro mesi, mi diede anche un blando aiuto farmacologico. Ma non la definirei una psicoterapia, che forse implica una continuità.

È stato comunque un aiuto?
Difficile dire che cosa abbia aiutato, io credo che la svolta ci sia stata con l’inizio della scrittura. Credo che quel malessere intenso fosse un segnale del corpo e della psiche che dicevano: insomma non perdere altro tempo, c’è una cosa che vorresti fare, falla! Altrimenti ti farai scorrere tutta la vita tra le mani. E la cosa che volevo, da molto tempo, era scrivere.

Perché lei ha cominciato tardi il mestiere dello scrittore.
Avevo scritto dei saggi, ma il mio primo romanzo è uscito nel 2002 e avevo da poco compiuto 41 anni.

Come è successo che aveva deciso di entrare magistratura?

  Come molte cose della vita in generale e della mia in particolare, è stato molto casuale. Ero laureato da un anno e lavoravo con scarso entusiasmo in uno studio legale quando fu bandito il concorso. Con un paio di amici decidemmo di farlo. Consegnato lo scritto pensai che quella poteva essere la mia strada e aspettai con una certa ansia i risultati. Fu una grande gioia sapere di avercela fatta. È un lavoro che mi è piaciuto molto. Ci sono alcune cose che fai per caso e scopri che eri nato per fare quello, io penso  che quel lavoro di pubblico ministero, di investigatore, fosse il mio. L’ho fatto per parecchi anni, e, credo, abbastanza bene. Poi è arrivato un momento in cui si trattava di cambiare.

Sbaglio o è un lavoro che fruga nelle vite altrui per scoprire la verità?
È un modo un po’ ruvido di metterla, per dirla più dolcemente spesso capita di andare a guardare in ambiti privati. E anche scoprire la verità è una frase grossa, la metterei così: cercare di avvicinarsi il più possibile a quello che è successo. Il massimo che possiamo fare è avere delle ricostruzioni accettabilmente  approssimative di quello che è successo nel passato. Nel mio penultimo romanzo, Una mutevole verità, il protagonista è un maresciallo dei carabinieri che fa una riflessione proprio su cosa significa ricostruire la verità. L’investigatore, come anche lo scrittore, deve costruire una buona storia, plausibile, che per quanto riguarda l’investigatore ricostruisca in maniera plausibile i fatti del passato.

Ricostruire la verità, per uno che lo fa di mestiere, presuppone che abbia ricostruito o per lo meno cercato la verità anche dentro se stesso?
No, certamente no. A parte il fatto che tendo a escludere che sia possibile un’operazione del genere. Bisogna avere obiettivi e prospettive molto più limitati. Essere consapevoli dei limiti delle nostre capacità, consapevoli che anche nella persona più attrezzata tecnicamente e culturalmente il pregiudizio può interferire con la ricostruzione obiettiva dei fatti del passato. Bisogna cercare di tener conto il più possibile dell’effetto distorsivo che deriva dal fatto che noi siamo punti di vista. Ricorda il film Rashomon? Uno deve ricordarlo sempre quando fa l’investigatore o il giudice, deve sempre controllare quali sono le alternative, per poi magari decidere che la prima ipotesi è quella buona. O che quella più adeguata è un punto di mezzo. Quella che noi consideriamo la verità del passato in realtà è solo il risultato di un punto di vista, di un modo di raccontarcelo. Pensi a questa frase che ora le propongo: si può dire che un fatto è vero? é una frase priva di senso, i fatti sono o non sono, noi possiamo dire che un enunciato fattuale, cioè che una storia è vera o no,  se corrisponde a come sono andate le cose. È nell’equivoco del fatto vero che si nasconde la presunzione di oggettività che invece non esiste.

Quindi chi indaga in ogni campo, e includo il campo psicologico e medico, deve mettere da parte se stesso.
Deve essere consapevole che egli stesso è un fattore di interferenza, di cui bisogna tener conto. Le citazioni sono sempre un po’ pretenziose, però in fisica c’è il principio di indeterminazione di Heisenberg, che scoprì che non si possono osservare le particelle subatomiche senza interferire sul loro funzionamento, nel momento in cui le osservi sono diverse, l’osservazione interferisce. Questo vale per cose molto meno matematizzabili delle entità fisiche. Uno deve sapere che il punto di vista è decisivo, e quindi cercare poi di non  farsene travolgere. Dipende poi su quali elementi si indaga. Se dobbiamo esaminare il filmato di una telecamera lo spazio di soggettività è inferiore a quello che si avrà nella valutazione di un racconto di una persona che usa le sue parole, elabora il suo ricordo, caratterizzato dalle emozioni, dalla paura, dal desiderio. Questo approccio alla verità approssimativo vale a maggior ragione se uno si occupa della psiche altrui. Una volta uno psicanalista molto famoso mi invitò come scrittore a un seminario che teneva ai suoi allievi. Venne fuori un sogno che io avevo scritto in un romanzo, ma che era inventato, e questi si lanciarono in interpretazioni da sganasciarsi dalle risate. Io li lasciai fare, dando anzi ulteriori indizi che potevano essere considerati sintomi, e loro senza un filo di dubbio si lasciarono andare a diagnosi ridicole. Pericolosissimo.

Non è che lei quando ha fatto la sua psicoterapia era un po’ prevenuto verso la categoria…
No, quel signore era bravo, equilibrato, senza verità categoriche. Diceva cose sensate. Einstein sosteneva che il buonsenso è il genio in abiti da lavoro.  Nel mio romanzo Il silenzio dell’onda (storia di un maresciallo dei carabinieri che attraverso i colloqui con il suo psichiatra racconta il passato), il personaggio che più mi è piaciuto raccontare è quello dello psichiatra, uno così mi piace eccome. Sono affascinato da quelle professioni, se fatte nel modo giusto, non da stregoni o da detentori di un sapere magico. Quando mi capita di incontrare qualcuno che ha questo tipo di approccio, laico, dubitante,  sono affascinato perché so che quando ci si muove in questo modo, per tentativi, facendo anche errori, e sapendo che li si dovranno poi correggere, si scoprono cose incredibili. Vale per tanti campi. È la stessa tecnica di un bravo investigatore.

Tornando al periodo in cui è stato male, ha poi capito  cosa la bloccava nella scrittura se questa era la sua aspirazione?
Non so darle una risposta. Me lo sono chiesto più volte, ma senza troppo accanimento, non ho una visione deterministica delle cose. Probabilmente bisognava aspettare che arrivasse il momento giusto.

Poi ha cominciato e non si è più fermato, possibile che la sofferenza si sia incanalata nella scrittura?
Di certo non ho scritto per curarmi, ma se è vero che la sofferenza derivava dal non scrivere, l’avere scritto ha in parte curato quella sofferenza e poi ha messo in moto un cambiamento.

Ha ancora periodi di sofferenza?
Spesso, tutti quanti ne abbiamo, però quel tipo di sofferenza no.

E quando le capita di soffrire, c’è un luogo dal quale nasce questa desolazione?
Un luogo interiore?
Certo.
Non uno specifico, me ne vengono in mente tanti. Per esempio a volte mi fa diventare triste la sofferenza di altre persone cui voglio bene, che vorrei aiutare e mi accorgo che non posso. Ho sempre avuto la pessima abitudine di dare consigli, appunto perché vorrei aiutare, poi ho capito che non serve a nulla. Quello a volte mi da un senso di grande frustrazione. Ecco, a me sarebbe piaciuto fare lo psicoterapeuta, mi piacerebbe aiutare  le persone. E una delle enormi fonti di soddisfazione della scrittura è quando uno ti dice, e mi è capitato: “Ero davanti alla sala operatoria dove mio marito subiva un intervento delicatissimo. La notte è passata senza che me ne accorgessi perché stavo leggendo un suo libro. Non potrò mai smettere di ringraziarla per questo”. So anche che diversi psicoterapeuti e psichiatri hanno ‘prescritto’ ai pazienti come percorso di superamento dei loro problemi la lettura di Testimone inconsapevole, e questo mi ha fatto piacere.

Ricorre a delle strategie per non stare nel luogo del dolore?
Sono posti che non amo in generale, ma penso anche che non si deve avere il terrore della sofferenza come della tristezza. Arriva. Il crogiolarsi, l’autocommiserarsi lo trovo insopportabile. Può capitare, e se avverto un momento in arrivo, sì, attuo delle strategie, a cominciare dalla gratitudine.

Cosa intende?
Forse rischio di apparire retorico, però io sono un convinto fautore, in modo laico, dell’importanza etica e dell’utilità pratica della gratitudine. Si fermi un attimo a pensare a tutte le cose – cose semplici, che diamo per scontate – di cui possiamo essere grati in questo preciso momento. Se sei triste e pensi che potresti essere cieco, o non avere l’uso delle gambe o cose simili,  e pensi come sarebbe la tua vita senza vista, senza gambe, in questo momento, riesci a cogliere meglio le proporzioni delle cose e delle sofferenze. La gratitudine è un ottimo strumento, intanto per evitare quella cosa tossica che è la lamentela, l’autocommiserazione, poi per attenuare di molto quando capita, e capita, la tristezza, la sofferenza.

Altre strategie?

  Collegata alla gratitudine c’è la prospettiva. Guardare a questo momento di sofferenza di tristezza proiettandosi in un prossimo futuro, fra sei mesi un anno: ti volti e non vedi più niente. Penso per esempio a come sono stato male quando poi ho scritto il libro, ora faccio fatica anche a riportare alla memoria quelle emozioni, quelle sensazioni. Se sali in cielo, metaforicamente, e guardi  dall’alto improvvisamente tutto diventa piccolissimo, meno importante. Questo per dire che bisogna un po’ liberarsi dall’eccesso di concentrazione su se stessi. Anche l’autoironia aiuta, trovare il ridicolo in se’.

Lei mi sembra una persona molto razionale, o che comunque cerca di superare con la razionalità i momenti più difficili.
Cerco di usare lo strumento della ragione nei limiti in cui funziona, consapevole che sono limiti circoscritti. Ci sono molte cose che sfuggono del tutto al controllo razionale ed è bene saperlo con chiarezza.

Ma le emozioni le lascia fluire?
Come no, me le vivo. Ma ripeto, a volte si confonde il vivere le emozioni con questa concentrazione su se stesso, questa confabulazione continua che francamente mi sembra ridicola. Se uno si ferma un attimo a riflettere si rende conto che spesso sono banali le preoccupazioni che ci sembrano fondamentali, si tratta di sbarazzarci di questa tirannia. Io per primo, a volte mi preoccupo di cose di cui mi vergogno due minuti dopo. Ora sono diventato più rapido a sbarazzarmene, però le penso. A volte mi accorgo di avere dei desideri meschini, come tutti. Poi mi fermo – sei ridicolo, mi dico – e lascio perdere.

D’obbligo una domanda sulla sua esperienza in Parlamento.
Psicopatologicamente vuol dire?

Sì.
Beh, interessante. Purtroppo la politica, oggi forse più che in passato, è una pratica che anche nelle persone perbene e competenti – naturalmente ce ne sono –  tende a produrre un involgarimento. Nei cinque anni che sono stato là ho visto persone normali all’inizio che erano diventate veramente pessime alla fine. Il potere, o anche solo la vicinanza al potere, ha una capacità corruttiva, nel senso della corruzione del carattere. Le eccezioni sono piuttosto rare.

Lei è uno scrittore di successo.
Non mi piace la parola successo

Beh, allora diciamo che vende tantissime copie dei suoi libri. Non le viene mai l’ansia di non riuscire più a fare i numeri che ha fatto finora nelle vendite?
Se mi viene l’ansia me la faccio passare continuando a lavorare. Se pensi di non sbagliare mai sei spacciato. É inevitabile e utile per tutti sbagliare, anzi uno dovrebbe moltiplicare gli errori perché in questo modo riduce il rischio degli errori gravi. Moltiplicare le manovre di assestamento. Io cerco di scrivere onestamente, di raccontare storie dove ci siano personaggi in cui sia facile immedesimarsi, non esiste l’algoritmo del successo in generale, tantomeno letterario. Però mi dicono che in tanti soffrono di questo, io soffro di tanti difetti, che non le dirò perché me ne vergogno, ma non di questo.

Mi dica uno di questi difetti.
La vanità. Ce l’ho e non mi piace. Ci sono momenti in cui con grande fastidio mi accorgo di essere assorbito da me stesso. Per fortuna in quei momenti mi sento ridicolo. Il senso del ridicolo, lo ripeto, è un grande antidoto, una grande medicina.

 

 

La prossima settimana: Intervista con Cristina Comencini

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La nascita di un figlio aumenta davvero la felicità di un genitore?

FLASH NEWS

 

I risultati mostrano dunque un temporaneo e transitorio incremento della felicità dei genitori attorno alla nascita del primo o del secondo figlio soltanto.

La nascita di un figlio aumenta davvero la felicità dei genitori? È ciò che vuole verificare Mikko Myrskylä, professore di demografia alla London School of Economics e Direttore del Max Planck Institute per la ricerca demografica di Rostock, Germania.

Provare a comprendere come l’arrivo di uno o più figli influenzi il benessere soggettivo dei genitori potrebbe servire a spiegare i cambiamenti nei comportamenti in materia di felicità.

Secondo i dati presentati nella sua ricerca, i genitori riportano un aumento della felicità durante l’anno precedente e l’anno successivo alla nascita del primo figlio, ma poi diminuisce rapidamente fino a tornare agli stessi livelli di felicità registrati pre-bimbo.  Per l’eventuale secondogenito la curva è simile ma l’intensità è già dimezzata rispetto al primo figlio, con il terzo poi la differenza di valori riportati è addirittura non significativa.

I risultati mostrano dunque un temporaneo e transitorio incremento della felicità dei genitori attorno alla nascita del primo o del secondo figlio soltanto.

Ma, ovviamente e per fortuna, non è un dato così triste come sembra. Anche i figli dopo il secondo sono fonte di gioia, quello che si intende sottolineare è che l’esperienza dei genitori è vissuta con minor senso di novità ed eccitamento in quanto già sperimentata.

Oltre a questo si è notato che chi ha figli in età più adulta (35-49anni, sembra essere la fascia ideale) o ha un livello d’istruzione più alto mostra una risposta particolarmente positiva alla prima gravidanza che si mantiene tale anche dopo la nascita.

Questo quindi sembrerebbe spiegare perché negli ultimi anni la tendenza sia diventata quella di rimandare e ridurre il numero delle gravidanze.

 

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Il Nobel per la Medicina a 3 Psicologi

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Tratto da: Il Post

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Da castigo degli dei a diversamente abili: l’identità sociale del disabile nel corso del tempo

La storia recente è stata testimone di un cambiamento epocale, che ha visto affermati i diritti delle persone disabili nell’ambito dell’educazione, del lavoro e del tempo libero. Attualmente nella definizione di diversamente abile è racchiuso un paradigma innovativo, ovvero quello di una speciale normalità, che è fatta di punti di forza e di criticità.

L’identità sociale del disabile nel corso della storia dell’umanità è stata oggetto di alterni destini, che si sono concretizzati, spesso, in epiteti denigratori: da castigo degli dei presso la civiltà greco-romana ad espressione di forze malefiche e diaboliche nel medioevo, da giullare di corte nel Rinascimento a malato incurabile nell’Ottocento, da vita che non merita di vivere durante il nazismo a diversa abilità nella società odierna. La storia recente è stata testimone di un cambiamento epocale, che ha visto affermati i diritti delle persone disabili nell’ambito dell’educazione, del lavoro e del tempo libero. Attualmente nella definizione di diversamente abile è racchiuso un paradigma innovativo, ovvero quello di una speciale normalità, che è fatta di punti di forza e di criticità.

Castigo degli dei, capro espiatorio, disonore della stirpe

Già in alcuni graffiti dell’epoca paleolitica compare la diversità fisica, a cui è attribuita un significato positivo, ossia di una molteplicità che connota la fenomenologia variegata della natura umana.

Nel pensiero greco, alimentato dall’agiografia del corpo perfetto, la disabilità suscita condanna e disprezzo. I maggiori filosofi greci dimostrano un ostracismo verso la diversità corporea. La città ideale di Platone, per esempio, deve essere abitata da individui perfetti, che generano figli sani. Egli prescrive un incremento degli accoppiamenti fra questi eletti per un fine riproduttivo, mentre auspica una morigeratezza di costumi fra i mostri, onde evitare che la bruttezza e l’indegnità fisica abbia un seguito generativo. Aristotele è dell’opinione che lo Stato deve impedire l’allevamento e la cura dei neonati deformi, che rappresentano uno sperpero di risorse ed energie.

Nelle prime società elleniche il disabile è ritenuto un capro espiatorio, che ha una funzione sociale ben codificata. Egli è frutto dell’ira degli dei e, quindi, viene al mondo come castigo divino. In pratica, quando gli dei hanno qualche controversia con gli umani, fanno sì che i prodotti generativi antropologici (lo sperma dell’uomo e il mestruo della donna) subiscono dei processi nocivi, che conducono alla generatività di mostri. La maggior parte di essi è giustiziata alla nascita. Alcuni, invece, sono allevati e destinati a diventare capri espiatori. In caso di carestie o di eventi naturali funesti, la popolazione sceglie, fra questi mostri lasciati in vita, il soggetto più repellente da immolare agli dei. La ritualità del sacrificio prevede una successione di eventi ben delineati. Il disabile è portato fuori dalle mura, bastonato sui genitali per sette volte e infine bruciato vivo sul rogo. In ultimo, si raccolgono le sue ceneri e si disperdono in mare, con l’obiettivo di placare la volontà degli dei (Stilo, 2013, pag. 10).

Un destino più benevolo attende i disabili che presentano un corpo non intaccato da mostruosità. Godono di un certo rispetto i ciechi e i pazzi. Secondo la mentalità comune, i ciechi non vedono quello che accade nel presente e, per questa ragione, percepiscono il tempo futuro e, quindi, sono in grado di predire gli accadimenti. I pazzi, nei loro deliri, sono capaci di parlare con gli dei, per cui non bisogna inimicarseli se si vuol godere della benevolenza divina.

Anche la cultura ebraica aborrisce il mostro: infatti, nell’antico testamento l’individuo che presenta qualche deformità fisica non può avvicinarsi a Dio e neanche compiere alcuna offerta votiva per invocare la sua indulgenza (Cario, 2014, pag. n.n.).

La civiltà romana eredita da quella greca il culto del bello e del corpo perfetto, archetipo di una supremazia che affermerà la sua potenza in tutto il mondo allora conosciuto. Per Seneca la disabilità può essere paragonata alla vita inutile. Nell’opinione popolare la mostruosità di un figlio è un disonore per l’intera stirpe. A tal riguardo, ogni nuovo nato subisce il rito dell’innalzamento al cielo, che indica che è stato accolto dalla sua famiglia, divenendo cittadino romano. In pratica, subito dopo la nascita l’infante è portato dal pater familias, che constatata la sua integrità fisica o morale (sono immorali i figli nati da relazioni extraconiugali), lo solleva in alto, presentandolo agli dei. Se questo non avviene il neonato subisce l’esposizione, ossia l’infante viene messo in un cumulo d’immondizie, fuori casa, e lasciato morire (Stilo, op. cit., pag. 8). Anche nella società romana il mutilato e lo storpio non possono accostarsi agli dei, a causa della loro indegnità fisica.

Diabolici, malvagi e giullari

Dopo la caduta dell’Impero romano, nel periodo medioevale, rimane lo stigma negativo che caratterizza la disabilità. La madre è ritenuta la principale responsabile della deformità del proprio figlio. In altre parole, la mostruosità del bambino partorito è uno specchio delle sue colpe, che possono andare dal semplice adulterio ad una relazione carnale con le forze malefiche e diaboliche. In questo caso il destino è segnato: entrambi bruciano sul rogo.

La Chiesa alimenta tale visione della disabilità, ovvero come frutto dell’intervento di forze diaboliche. Il papa Gregorio Magno è un convinto assertore di questa tesi, per cui si fa portatore del costrutto che in un corpo deforme non può esserci un’anima che abbia la grazia di Dio. Il vescovo Cesario di Arles afferma che la disabilità è frutto della lussuria, che induce a non rispettare con l’astinenza i giorni che devono essere dedicati al Signore, cioè le festività e il periodo della quaresima. Chi non si attiene a tale precetto corre il rischio di avere dei figli affetti da lebbra, epilessia e, quindi, posseduti dal demonio (Stilo, op. cit., pag. 14).

Ai disabili, però, è permesso girare, soprattutto in occasione delle festività religiose, per le città medievali con lo scopo di chiedere l’elemosina. Essi devono essere percepiti dai normali come un monito perenne che deve ricordare la triste sorte riservata a chi non rispetta i precetti della Chiesa, appesantendo quella situazione antropologica già fortemente ipotecata dal peccato originale e dalla cacciata dal paradiso.

In questo periodo assorge a spettro principale della punizione divina la peste. Essa è considerata il castigo meritato da chi ha commesso molti peccati, soprattutto di lussuria. C’è la convinzione che la lebbra sia una patologia a trasmissione sessuale e, onde evitare la sua diffusione, i malati devono essere riconoscibili.

Per tale ragione portano appesa al collo una campana che avverte del loro arrivo e una croce gialla, che troneggia sugli indumenti. Per tenerli lontani dalla città con l’obiettivo di evitare il contagio fisico e morale, sono costruiti i lazzaretti che li ospitano. In questa maniera si pongono le basi per quel discorso ideologico, destinato ad implementarsi nei periodi successivi, che ha il suo paradigma fondante nella separazione dei sani dai malati, ovvero nell’emarginare ogni diversità sociale (Foucault, 1998). In più di una circostanza i lebbrosi diventano capri espiatori. Famosa a questo riguardo è la congiura di cui furono accusati nel 1321 in Francia. In pratica, essi furono ritenuti responsabili di aver ordito la fine del regno francese, attuata disseminando la lebbra nei fiumi e nei pozzi di Francia.

Una sorte diversa, fra i disabili, è riservata ai gobbi e ai nani, che diventano giullari di corte, a cui spetta il compito di far divertire i nobili. Di essi si ha un grande rispetto: sono gli unici membri della corte che possono permettersi il lusso di dire quello che pensano anche al proprio re.

In quel tempo, i folli assumono il ruolo sociale di portatori dell’eredità satanica. Essi sono considerati il concentrato di tutte le nefandezze e le malvagità imputabili al genere umano. Ed è proprio per questa ragione che devono essere isolati dal resto del mondo. Si creano, così, i presupposti per quelle strutture di segregazione che diventeranno i manicomi.

La moltitudine dei folli comprende un’umanità variegata, che è fatta di mendicanti, vagabondi, nulla tenenti, disoccupati, sfaccendati, delinquenti, individui politicamente sospetti, eretici, donne di facili costumi, libertini… figlie disonorate, figli che sperperano il patrimonio (Stilo, op. cit., pag. 22).

Si delinea, così, la divisione medica – sociale – culturale fra patologie del corpo e patologie della mente, fra folli e savi. Le due categorie di pazienti trovano allocazione in strutture distinte. I manicomi si diffondono in tutta Europa. In alcuni di essi i pazienti sono racchiusi in gabbie e, pagando un piccolo obolo, possono essere osservati nelle loro stravaganze dal popolo.

L’ostracismo verso i disabili non conosce tregua. Nel catechismo tridentino del 1566 sono stabiliti i requisiti che consentono di diventare sacerdote. Fra le condizioni che non possono permettere di officiare messa è inserita l’indegnità, che deriva dall’essere pazzi, sanguinari, omicidi, bastardi… deformi e storpi. Infatti la deformazione ha qualcosa di ripugnante che può ostacolare l’amministrazione dei sacramenti (Stilo, op. cit., pag. 23).

Curabili – Incurabili, Produttivi – Improduttivi

Con l’illuminismo, la concezione della disabilità subisce una profonda trasformazione. In pratica, secondo Diderot, citato in Cario (2014, op. cit., pag. n.n.), la disabilità è sintonica con la non perfezione della natura e come tale è da considerarsi fisiologica.

In questo lasso di tempo si afferma in maniera preponderante la medicina, in quanto scienza esercitata da una parte di quella élite che detiene il potere, ovvero la borghesia.

La disabilità è medicalizzata e curata negli ospedali che, in numero crescente, sorgono in quel periodo. Essa viene classificata a seconda della sua curabilità, per cui i disabili sono divisi in due categorie, i curabili e gli incurabili. Fra questi ultimi rientrano i malati di mente, il cui destino è quello di essere internati per tutta la vita.
Relativamente alla disabilità psichica, Pinel, però, il fondatore della psichiatria moderna, ne sostiene la curabilità. Nel suo trattato del 1800 Trattato medico-filosofico sull’alienazione, citato in Stilo (op. cit., pag. 26), egli propone una cura della malattia mentale che prevede due strategie terapeutiche. La prima è l’allontamento del malato dal mondo esterno, la seconda è la cura psicologica che consiste nell’aiutare il paziente a non pensare alle sue idee bizzarre, distraendolo con altri interessi. In realtà questa terapia non è mai applicata, in quanto i disabili psichici continuano ad essere semplicemente allontanati dalla società, attraverso il ricovero coatto nei manicomi, dove non ricevono nessuna cura e assistenza.

A metà del settecento comincia la ristrutturazione dei processi produttivi che porta alla nascita, in Europa, delle prime industrie. L’introduzione delle macchine nella filiera produttiva, che avviene in maniera massiccia nell’Ottocento, fa sorgere i primi disabili fisici, la cui invalidità è causata proprio dall’utilizzo di questi nuovi mezzi industriali.

Il numero sempre crescente di individui che presentano problematiche visive o menomazioni ortopediche cambia la percezione sociale della disabilità. In pratica, essa è ritenuta una condizione da dover curare, studiando tutti gli ausili che possono permettere a questi soggetti di ritornare ad essere attivi e, quindi, nuovamente utilizzati nelle industrie. Laddove questo non può avvenire, i nuovi disabili sono condannati ad una condizione di marginalizzazione sociale.

Scemi di guerra e la vita che non merita di vivere

La fine della prima guerra mondiale produce un elevatissimo numero di disabili. Otto milioni di invalidi, mutilati, ciechi e pazzi, i cosiddetti scemi di guerra (Stilo, op. cit., pag. 34). La disabilità assume una connotazione sociale differente, ovvero viene vista come una condizione da rispettare e a cui dover rimediare, anche attraverso aiuti economici.

Durante il periodo hitleriano si assiste ad una regressione ideologica. Il nazismo definisce la disabilità come la vita che non merita di vivere e si rende protagonista di una distruzione di massa dei disabili, in particolar modo di quelli che presentano deficit mentali (Friedlander, 1997).

Alla fine degli anni Trenta è promulgato il Decreto Ministeriale sull’obbligo di dichiarazione dei neonati deformi (Stilo, op. cit., pag. 36). Secondo questa legge, chiunque fra il personale sanitario è a conoscenza della nascita o dell’esistenza di disabili affetti da patologie psicofisiche ha l’obbligo di segnalarli ad un Comitato Nazista, creato a tale scopo. Questi minori sono ricoverati nei reparti di eutanasia infantile, che si trovavano presso ogni ospedale, dove sono lasciati morire di fame oppure uccisi attraverso la sperimentazione di nuovi e potenti farmaci o avvelenati mediante l’utilizzo massiccio di morfina e barbiturici. Per i disabili adulti il destino è segnato già da lungo tempo: il campo di concentramento, a cui segue la camera a gas.

Diversamente abili – portatori di diritti inalienabili

Dagli anni 70 del secolo scorso, la considerazione della disabilità ha subito una vera e propria metamorfosi. In Italia, per esempio, sono state approvate delle leggi che hanno mutato la percezione sociale della disabilità, ovvero da malattia – menomazione a diversa normalità. In altri termini, i soggetti disabili, alla luce delle nuove normative, sono divenuti portatori di diritti, piuttosto che oggetti di assistenza di stampo pietistico.

A questo riguardo sono da menzionare:

  • La legge 180 del 1978: è la normativa che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, disciplinando i trattamenti sanitari nell’ambito della disabilità mentale (Giberti e Rossi, 1983);
  • La legge 517 del 1977, che ha aperto le scuole ai diversamente abili, promuovendo l’integrazione e creando la figura dell’insegnante di sostegno (Piazza, 1996); 
  • La legge 104 del 1992, che ha sostenuto i diritti delle persone disabili lungo l’intero ciclo di vita, implementando gli strumenti per favorire l’integrazione scolastica, sociale e lavorativa (G. U. 15 aprile 1994, n. 87).

In ambito internazionale la maggiore rivoluzione è stata compiuta dalla Organizzazione Mondiale della Salute che ha redatto l’ICF nel 2001. Esso non è altro che la classificazione del funzionamento, della disabilità e della salute dell’individuo. Secondo il paradigma bio-psico-sociale, che è alla base di tale documento, la persona disabile ha risorse e potenzialità che possono estrinsecarsi o rimanere latenti, a seconda dell’ambiente in cui vive. In altre parole, il contesto può fungere da barriera, ostacolando il manifestarsi di queste risorse possedute, oppure essere un facilitatore, che incoraggia l’espressione di queste potenzialità. In ragione di ciò la disabilità è intesa come uno stato di salute in un ambiente non favorevole (OMS, 2002). 

 

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Disabilità e qualità della vita – Il tempo libero della persona disabile 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cario, M. (2014). Breve storia della disabilità. Educare. it, Anno XIV, N.7, luglio 2014.
  • Foucault, M. (1998). Storia della follia nell’età classica. Milano: Rizzoli. ACQUISTA
  • Friedlander, H. (1997). Le origini del genocidio nazista: dall’eutanasia alla soluzione finale. Roma: Editori Riuniti.
  • Giberti, F. e Rossi, R. (1993). Manuale di Psichiatria. Padova: Piccin.
  • Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Legge – quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. G. U. 15 aprile 1994, n. 87.
  • OMS (WHO) (2002). ICF [CIF], Classificazione Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute. Trento: Erickson. DOWNLOAD
  • Piazza, V. (1996). L’insegnante di sostegno. Trento: Erickson.
  • Stilo, S. (2013). La disabilità nella storia – Unità 1. Roma: Unimarconi.

Fondamenti di Terapia Cognitiva a cura di Carmelo La Mela – Recensione

Sara Mori

Il libro offre una guida al modo con cui “fare terapia” tra “scientificità e laboratorio artigianale” a tutti coloro che ne condividono l’approccio, a coloro che siano semplicemente motivati ad esplorarne le peculiarità o, è proprio il caso di dirlo in questo contesto, a quanti cerchino “una base sicura” alla propria pratica clinica.

Il libro “Fondamenti di Terapia Cognitiva” a cura di Carmelo La Mela nasce dall’idea di scrivere un manuale pratico e quanto più possibile semplice e chiaro per gli allievi del primo biennio delle scuole di specializzazione in psicoterapia cognitiva.

L’handbook, scritto a più mani, delinea una descrizione delle correnti principali del cognitivismo, dando uno spazio maggiore rispetto ad altre opere, ad una delle dimensioni  più approfondite all’interno del contesto mediterraneo ed italiano in particolare: quella relazionale. L’accento posto sulle dinamiche interpersonali, specialmente quelle che si attivano all’interno della relazione terapeutica, apre la strada a nuove modalità di concettualizzazione del caso clinico, particolarmente utili nel trattamento dei disturbi di personalità e di quelle forme di psicopatologia resistente alla terapia standard.

Il modello teorico è ampiamente descritto nella prima parte del libro nella quale gli autori illustrano i principi fondamentali e le evoluzioni della terapia cognitiva. All’interno di questa sezione vengono approfondite le funzioni metacognitive, dandone una definizione operativa utile a concettualizzare il caso clinico e pianificare il trattamento, e viene descritto il modello LIBET (Life Themes and plans implication of Biased Beliefs: elicitation and treatment) del quale sono esposti gli elementi principali riportando esempi utili a spiegare il trattamento dei pazienti “difficili”.

Questa prima parte si conclude con un capitolo dedicato al contributo che la teoria dell’attaccamento offre alla teoria cognitivista di origine beckiana, con un’attenzione particolare alla descrizione dei sistemi motivazionali. Tale prospettiva vede nelle vicende relazionali avvenute in età precoce il contesto in cui si originano gli schemi di sé e quelli interpersonali. La qualità di queste relazioni è ritenuta una variabile fondamentale per lo sviluppo della metacognizione, che si configura come una funzione mentale alla base  della capacità di regolazione delle emozioni e della comprensione della mente altrui.

Nella seconda sezione del libro viene completato il quadro teorico attraverso la descrizione dei fattori di vulnerabilità e di mantenimento della sofferenza psicologica. Vengono riportati casi clinici per spiegare in modo pratico il ruolo patogenetico della vulnerabilità cognitiva e sono approfonditi diversi aspetti che concorrono al mantenimento del disturbo: i bias cognitivi, i comportamenti protettivi, le metacredenze, il rimuginio e la ruminazione, ma anche i cicli interpersonali e il loro legame con gli schemi interpersonali e i sistemi motivazionali interpersonali. Tra i fattori di mantenimento, in linea con la prospettiva offerta dal volume, viene affrontato il tema della dissociazione e di come sia possibile identificare fenomeni dissociativi nella sintomatologia presentata dal paziente.  

La terza sezione del libro è ricca di esempi clinici con cui vengono descritte le fasi iniziali della terapia: dal primo contatto col paziente che chiede spesso una risposta psicopatologica e nosografica ad un quesito a volte vago, alle tecniche cognitive per mettere in atto un rigoroso  assessment cognitivo.

Il manuale dipinge le componenti che si configurano come il cuore della fase iniziale della terapia cognitiva: l’assessment, la definizione del problema in termini cognitivisti, la definizione del contratto terapeutico, la condivisione di scopi e la scelta delle strategie terapeutiche. Anche in questo caso vengono approfonditi in modo particolare gli aspetti inerenti la relazione terapeutica, tra cui la sua funzione di regolazione emotiva e il processo motivazionale nelle diverse fasi del percorso terapeutico.

Nella parte conclusiva del libro sono illustrate le tecniche: da quelle utili nel colloquio, tra cui la disputa,  a quelle cognitive per l’intervento sulle meta credenze a quelle comportamentali. In Appendice, a caratterizzare ancora di più in senso pratico il volume, si trovano esempi di griglie per la concettualizzazione del caso e una descrizione esemplificativa e completa di un caso clinico.
   
Il libro offre dunque una guida al modo con cui “fare terapia” tra “scientificità e laboratorio artigianale” a tutti coloro che ne condividono l’approccio, a coloro che siano semplicemente motivati ad esplorarne le peculiarità o, è proprio il caso di dirlo in questo contesto, a quanti cerchino “una base sicura” alla propria pratica clinica.

 

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Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Papà e messaggi: quando il rapporto con i propri figli è legato all’uso delle nuove tecnologie

Laura Stefanoni e Veronica Iazzi

FLASH NEWS

Da uno studio condotto da alcuni ricercatori dell’Università del Kansas e pubblicato su Emerging Adulthood è emerso che può essere importante, nel rapporto padre- figlio, la capacità di comunicare via email e facebook.

Jennifer Schon, PhD che si occupa di studiare le modalità di comunicazione, ha trovato che le relazioni soddisfacenti tra i giovani adulti ed i loro genitori sono moderatamente influenzate dal numero di mezzi utilizzati per comunicare tra loro, come cellulari, email e social network.

I partecipanti allo studio, costituito da 367 giovani adulti con un’età compresa tra i 18 e i 29 anni, hanno compilato un sondaggio circa i mezzi di comunicazioni utilizzati per comunicare con i propri genitori, il modo in cui usano la tecnologia ed il grado di soddisfazione in merito alla loro relazione con i genitori. Sono stati inoltre indagati i metodi comunicazione utilizzati, quali telefono fisso, cellulari, messaggi, whatsapp, snapchat, email, video chiamate, social network e gioochi online. In media, i partecipanti hanno riportato l’uso di circa tre canali di comunicazione.

Questo studio mostra come inizialmente per alcuni genitori le nuove tecnologie costituiscano un mezzo di comunicazione poco utile o troppo complicato. Tuttavia, nonostante le difficoltà e la fatica nell’imparare ad usare questi nuovi mezzi di comunicazione, è emerso come i genitori apprezzano infine il valore comunicativo degli stessi.

A differenza di studi precedenti che si sono occupati di indagare la comunicazione tra giovani adulti ed il gruppo dei pari, lo studio di Schon è stato il primo a occuparsi della comunicazione tra giovani adulti ed i loro genitori. La ricerca mostra come aggiungere un ulteriore canale di comunicazione ha un modesto incremento sulla qualità della relazione familiare e sul livello di soddisfazione.

Secondo Schon, l’uso di un maggior numero di strumenti di comunicazione potrebbe favorire il livello di soddisfazione in merito alla relazione con il proprio genitore. In altre parole, Schon afferma che una migliore competenza dei genitori nell’uso di strumenti tecnologici favorisca un tipo di comunicazione più efficace ed appropriata. Ciò è risultato inoltre essere il migliore indice del grado di felicità nella relazione familiare.

I genitori che sono comunicatori efficaci nell’utilizzo delle nuove tecnologie non hanno riportato differenze a seguito dell’aggiunta di un ulteriore mezzo di comunicazione. Coloro, invece, che mostravano una minore competenza comunicativa beneficiavano maggiormente di tale aggiunta. In particolare la ricerca di Schon si riferisce ai padri che tendono ad usano un minor numero di mezzi di comunicazione e che comunicano meno frequentemente e per poco tempo con i propri figli.

Da questa ricerca e dal successivo follow up è emersa inoltre l’importanza della frequenza di comunicazione nelle relazioni tra genitori e giovani adulti. Nello specifico, ciò che è risultato significativo è l’utilizzo dei messaggi al fine di mantenere un contatto con i propri genitori, anche con brevi comunicazioni, piuttosto che il contenuto stesso del messaggio.

 

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Silenzio e dialogo ai tempi di WhatsApp – Tecnologie e Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La canzone come strumento terapeutico e riabilitativo – Report dal Congresso di Modena, 24 Ottobre 2014

Gaspare Palmieri, Cristian Grassilli

Se dunque l’arte, compresa la musica, è di fatto un mediatore empatico della comunicazione tra l’artista e il suo fruitore e se, come ha spiegato Jasper, il disagio mentale non si può non capire senza empatia, si dovrebbe poter affermare che un resoconto artistico che tratta il tema della sofferenza psicologica può effettivamente facilitare la comprensione della psicopatologia ed un esempio in questo senso potrebbe essere la canzone d’autore all’interno di un percorso terapeutico.

Nell’ambito della Settimana della Salute Mentale Mat 2014, Venerdì 24 Ottobre presso La Tenda di Modena si è svolta la mattinata di studio dal titolo “La canzone come strumento terapeutico e riabilitativo”, promossa dall’Associazione Escomarte, l’Ospedale Privato Villa Igea e ovviamente dagli psicantrici (Segreteria scientifica: Dr. G. Palmieri).

Dopo i saluti del Dr. Paganelli di Escomarte e del Dr. Lorusso, Direttore Sanitario di Villa Igea, ha aperto le danze il Dr. Stefano Mazzacurati, psichiatra e scrittore, che, da raffinato intellettuale ed umanista, ha fatto un excursus sul significato storico e psicologico della canzone.

Mazzacurati ha messo in luce diversi aspetti di questa forma musicale, dall’antichità fino ai giorni nostri, partendo dalle canzoni provenzali e soffermandosi su un canto delle lavandaie napoletane,”Jesce sole”, in cui l’elemento consolatorio individuale del cantare era centrale.

Ha suddiviso la canzone poi in quattro diversi filoni: la canzone feuilleton, la canzone rock, la canzone d’autore e la canzone ironica. Ha poi riflettuto sul senso della canzone e dell’uso che ogni individuo ne può fare: tra chi la considera come un megafono di uno stato d’animo che già si prova e chi invece la utilizza come leva per far provare delle emozioni. Ha concluso che lo spazio delle canzoni è lo spazio dell’io, che nasconde un’intenzione ed è alla ricerca di un significato.

Successivamente è stato il turno del Dr. Gabriele Catania, psicologo clinico dell’Ospedale Sacco di Milano e docente universitario, ma soprattutto autore dell’interessantissimo libro “La terapia De Andrè” (2013), che racconta esperienze dell’uso di canzoni di Faber in contesti psicoterapici.

Il Dr. Catania ha iniziato il proprio intervento citando il concetto di empatia e di “giusta distanza” del famoso filosofo e psichiatra tedesco Karl  Jasper, ricordando che “nell’atto dell’approccio empatico, lo psicopatologo è come un attore che si immedesima nel personaggio pur restando se stesso” (Jaspers,1959).

Catania ha illustrato le basi neurobiologiche dell’empatia con riferimenti agli studi sui neuroni specchio e alla neuroestetica, un’area di ricerca che coinvolge le scienze cognitive e l’estetica e che affianca un approccio neuroscientifico alla consueta analisi estetica della produzione e della fruizione di opere d’arte.

Recentemente alcuni ricercatori, tra cui il Professor Vittorio Gallese, che fa parte del gruppo degli scopritori dei neuroni specchio assieme a Rizzolati, Fadiga e Fogassi, hanno potuto osservare l’attivazione della corteccia motoria in presenza di un’opera visiva astratta (nel caso specifico i tagli su una tela di Lucio Fontana), che non rappresentava alcun corpo in movimento.

Il collega ha ipotizzato che tale risonanza emotiva si possa stabilire anche per le altre forme artistiche, come ad esempio tra un musicista e chi lo ascolta. Alcuni studi hanno mostrato come il livello di empatia di un musicista in concerto sia direttamente correlato all’attività delle aree frontali dell’emisfero cerebrale destro dove risiedono i sistemi dei neuroni specchio.

E’ stato inoltre osservato che i musicisti più coinvolti nell’esecuzione mostravano livelli di empatia più elevati, il che equivale a dire che la capacità di suonare in concerto è correlata alla comprensione dei comportamenti, delle emozioni e delle intenzioni dell’altro. Secondo quanto sostenuto dalla neuroestetica dobbiamo aspettarci che lo spettatore, nell’osservare i movimenti di un artista nella sua performance musicale partecipi, attraverso l’attivazione dei suoi neuroni specchio, alla performance stessa condividendone i contenuti emotivi. E questo è evidente a chiunque partecipi a un concerto, come è altrettanto intuibile che questi stessi effetti di compartecipazione emotiva si possono ottenere anche durante il solo ascolto di un brano musicale, perché nella nostra mente l’immaginazione ha gli stessi effetti della realtà esterna.

Se dunque l’arte, compresa la musica, è di fatto un mediatore empatico della comunicazione tra l’artista e il suo fruitore e se, come ha spiegato Jasper, il disagio mentale non si può non capire senza empatia, si dovrebbe poter affermare che un resoconto artistico che tratta il tema della sofferenza psicologica può effettivamente facilitare la comprensione della psicopatologia ed un esempio in questo senso potrebbe essere la canzone d’autore all’interno di un percorso terapeutico.

Il collega ci ha poi fornito un esempio dell’utilizzo della canzone “Un matto” di De Andrè durante il lavoro clinico con un paziente affetto da psicosi, ascolto effettuato con l’obiettivo di aiutare quel paziente ad accettare meglio la cura e a collaborare in modo più funzionale al progetto terapeutico. Ci ha poi reso partecipi del nuovo progetto “Faber in mente”, un concept disc, realizzato dall’associazione Amici della mente Onlus in collaborazione con la scuola di musica Cluster di Milano, in cui i testi di nove brani di Fabrizio de Andrè, sono stati riscritti dal Dr. Catania, nel tentativo di rappresentare in modo empatico la dimensione esistenziale delle storie cliniche che ha raccontato nel suo libro “La terapia De Andrè”.

Durante la pausa c’è stata l’esibizione della psychiatric band Fermata Fornaci nata all’interno del Day Hospital di Villa Igea e coordinata dalla cantautrice Barbara Rosset. I ragazzi hanno regalato tre brani del loro vasto repertorio.

I lavori sono ripresi con la presentazione del musicista e musicoterapeuta Paolo Alberto Caneva, coordinatore e insegnante del corso di musicoterapia del Conservatorio di Verona, che svolge la propria attività clinica in un centro diurno psichiatrico ed è autore del libro “Songwriting. La composizione di canzoni come strategia di intervento musicoterapico” (2007). La presentazione del collega è stata suggestiva, poichè ha privilegiato gli aspetti visuali e musicali per chiarire il suo punto di vista sulla musicoterapia.

Attraverso i filmati proposti (tra cui un meraviglioso estratto del film Yes Man con Jim Carr) ha sottolineato che l’obiettivo primario della musicoterapia è quello di dare la possibilità a chiunque di partecipare al “fare musica” e di scoprirsi protagonista di tale processo ludico e creativo. Ha poi dato la parola alla musica, facendo ascoltare tre brani composti dagli utenti del suo centro e sottolineando con la pratica che “quello che non riusciamo a dire, possiamo cantarlo!”.

La mattina si è conclusa con il doppio intervento del dott. Palmieri e del dott. Grassilli, che hanno raccontato la propria esperienza sull’uso della canzone presso l’Ospedale Privato Villa Igea.

Il Dr. Grassilli ha raccontato l’esperienza di songwriting presso la Residenza e Semiresidenza per adolescenti Il Nespolo e presso la Residenza Psichiatrica a Trattamento Protratto Il Borgo. Grassilli ha illustrato la struttura del laboratorio con le varie attività proposte: realizzazione di canzoni (cover) richieste alla fine dell’incontro precedente (possibilità di arrangiamenti e accompagnamenti musicali), riscrittura del testo di canzoni, adattamento di testi su basi musicali, songwriting di testi e musiche originali.

Ha poi mostrato il procedimento per la costruzione di una canzone in gruppo, una volta scelto un tema, partendo da brevi frammenti musicali fino alla strutturazione di strofe e ritornelli. L’accento è stato posto anche sulla possibilità che offre la canzone di poter parlare di sé, in relazione al tema affrontato e di come ad esempio l’evoluzione del personaggio della canzone, durante lo sviluppo del testo, crei possibili agganci con le storie e le narrative degli utenti (condivisione dei vissuti, strategie di coping, elaborazione e confronto rispetto al tema ad esempio del “sentirsi inadeguati e giudicati”). Infine è stata fatta ascoltare una canzone creata da un utente alla quale tutto il gruppo si è impegnato per la registrazione e per il canto nei ritornelli.

Il Dr. Palmieri ha descritto il gruppo di ascolto settimanale di canzoni che conduce con utenti psichiatrici ricoverati presso il reparto Villa Centrale. Ha portato l’esempio dell’utilizzo di una scheda ABC musicale che aiuti gli utenti a identificare in modo più preciso pensieri, stati emotivi e immagini evocati dalla canzone. Anche in questo caso i contenuti dei brani e le storie dei cantati entrano in risonanza con le storie e i vissuti degli utenti, fornendo stimoli importanti per lo svelamento e la condivisione di episodi di vita e stati mentali problematici, che possono successivamente essere ripresi nelle sedute psicoterapiche individuali.

Palmieri ha inoltre presentato un’esperienza di songwriting nell’ambito dello stesso gruppo, che ha portato alla riscrittura de La canzone di Marinella di De Andrè. In questo caso la storia della protagonista viene sostituita dalla storia dell’utente, pur mantenendo lo schema metrico e la struttura in rima. Tale esercizio costituisce uno sforzo di sintesi metanarrativa in cui il paziente cerca rileggere il proprio disagio e i motivi che l’hanno portato al ricovero, distanziandosi in modo critico.

 

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Report del Congresso “Quale musicoterapia nella salute mentale?”

 

BIBLIOGRAFIA:

La Settimana della Salute Mentale, Mat 2014: "La canzone come strumento terapeutico e riabilitativo"
La Settimana della Salute Mentale, Mat 2014: “La canzone come strumento terapeutico e riabilitativo”

Combattere l’effetto sunk cost attraverso la mindfulness

Un processo di decision making razionale non dovrebbe essere influenzato dai soldi già spesi che non sono più recuperabili. Questo regola però viene spesso violata dalle persone e questi costi sommersi influenzano le decisioni sulle azioni presenti o future.

Sei al cinema ed hai appena comprato i biglietti per uno spettacolo, ad un tratto incontri un amico con i tuoi stessi gusti cinematografici il quale ti dice di aver già visto quel film e che è veramente brutto.

Come ti comporti, vai ugualmente a vedere il film perchè oramai hai già comprato i biglietti? In questo caso sei caduto nel cosiddetto effetto sunk cost.

Un processo di decision making razionale non dovrebbe essere influenzato dai soldi già spesi che non sono più recuperabili. Questo regola però viene spesso violata dalle persone e questi costi sommersi influenzano le decisioni sulle azioni presenti o future.

Le basi neuronali di questo Bias (distorsione cognitiva) sono ancora sconosciute, nonostante la sua influenza sul comportamento. Usando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) su soggetti alle prese con un compito di decision-making in ambito finanziario, i ricercatori hanno riscontrato che un investimento precedente riduceva il contributo della corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC) al decision- making successivo, e tale riduzione dell’attività della vmPFC è correlata con l’effetto sunk cost. Inoltre l’attività della corteccia prefrontale dorsolaterale è correlata negativamente con l’attività della vmPFC.
L’interazione tra queste due aree potrebbe favorire questa tendenza a persistere a sprecare soldi con cause perse solo perché ci abbiamo già investito.

Come combattere questa tendenza? Uno studio di un gruppo di ricercatori ha dimostrato che 15 minuti di meditazione mindfulness appena prima di effettuare la decisione, riduce la vulnerabilità delle persone all’effetto sunk cost.

I ricercatori pensano che probabilmente questa pratica di mindfulness aiuta a ridurre questo bias poichè tale errore è in parte causato dal ricordo dell’investimento precedente ed anche dall’anticipazione del rimpianto nel futuro nel caso che un progetto venga abbandonato.

Attraverso le interviste ad un campione di 178 persone adulte, I ricercatori hanno scoperto che la tendenza naturale a concentrarsi sul hic et nunc (chiamata mindful attention awareness) correlava con l’essere meno incline all’effetto sunk cost.

In 2 ulteriori esperimenti , che hanno coinvolto degli studenti, è stato visto che appena 15 minuti di meditazione mindfulness basata sul ritmo della respirazione portava ad essere meno vulnerabili al bias durante lo svolgimento di compiti di decisione in casi di business.  Nel primo esperimento si chiedeva agli studenti di scegliere di comprare una stampante di nuova tecnologia anche se avevano già investito in una più vecchia. Il secondo esperimento invece richiedeva di prendere la decisione di disinvestire sulla produzione di un aereo da guerra poichè un’azienda rivale ne aveva creato un modello superiore.

In entrambi i casi, i partecipanti che si sono sottoposti al training di mindfulness hanno dimostrato una resistenza maggiore all’effetto sunk cost (rispettivamente 78% e 53%) rispetto al gruppo di controllo (44% e 29%) a cui diversamente è stato chiesto di pensare a quello che si voleva.

Il prossimo passo sarà quello di capire se il far vagare la mente tra mille pensieri aumenti la vulnerabilità a quest’effetto. Quindi, quando dobbiamo prendere la decisione di continuare o meno in qualcosa in cui abbiamo già investito, prendiamoci 15 minuti per concentrarci sul momento attuale prima di prendere una decisione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Fattori genetici implicati nelle capacità attentive e nello sviluppo di ADHD

FLASH NEWS

I deficit dell’attenzione riguardano solo il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) oppure è possibile rintracciare in tutta la popolazione un’ampia gamma di funzionamento delle capacità attentive?

La risposta a questa domanda potrebbe avere importanti ripercussioni sia sulla diagnosi psichiatrica sia sulla società più in generale.

Uno studio condotto da alcuni ricercatori della Cardiff University School of Medicine dell’Università di Bristol e pubblicato su Biological Psychiatry sembra suggerire l’esistenza di una grande varietà nel grado di funzionamento delle capacità attentive, dell’iperattività, dell’impulsività e delle capacità linguistiche, all’interno della società.

Specifici deficit di queste capacità sono risultati associati in varia misura ad un cluster di geni collegato con il fattore di rischio per l’ADHD. Guardare a queste funzioni come dimensioni o tendenze è tuttavia in contrasto con la visione tradizionale dell’ADHD, inteso come una categoria di disturbo.

Per rispondere alla domanda iniziale, il gruppo di ricercatori guidato dalla Dott.ssa Anita Thapar ha utilizzato informazioni sui dati genetici di pazienti con diagnosi di ADHD e dati provenienti da uno studio longitudinale condotto sempre presso l’Università di Bristol che ha coinvolto 14.500 famiglie residenti nell’area di Bristol allo scopo di valutare il peso dei fattori genetici e ambientali sullo sviluppo di genitori e bambini (Avon Longitudinal Study of Parents and Children, ALSPAC).

I ricercatori hanno creato dei punteggi di rischio poligenico – un punteggio composito degli effetti genetici in base al quale descrivere un indice di rischio genetico – di ADHD per 8,229 soggetti che hanno preso parte allo studio ALSPAC. In questo modo è stato trovato che il fattore di rischio poligenico per l’ADHD era positivamente associato con più alti livelli di iperattività/impulsività e di deficit di attenzione all’età di 7 e 10 anni nella popolazione generale. Tale fattore è inoltre risultato negativamente associato con le abilità di linguaggio pragmatico e l’abilità di usare appropriatamente il linguaggio in condizioni sociali. Dice Thapar:

I nostri ricercatori hanno trovato che un set di geni identificati come fattore di rischio in pazienti UK con una diagnosi clinica di ADHD durante l’infanzia è in grado di predire anche alti livelli di difficoltà di sviluppo in un gruppo di bambini della popolazione in generale, nel ALSPAC.

Joanna Martin aggiunge

I nostri risultati supportano l’esistenza di un livello genetico nel suggerire che la diagnosi di ADHD rappresenta la parte più estrema dello spettro di queste difficoltà. I risultati sono inoltre importanti in quanto suggeriscono che lo stesso set di geni, considerati come fattore di rischio, contribuisca a differenti aspetti dello sviluppo infantile che sono caratteristiche peculiari di disordini del neurosviluppo di disturbi quali ADHD o disordini dello spettro autistico.

Secondo il Dr. John Krystal potrebbe essere il caso di pensare che ad un certo punto i punteggi di rischio poligenico potrebbero aiutare, in associazione con altre informazioni cliniche, l’identificazione di bambini che avranno difficoltà nella scuola e in altri contesti a causa di difficoltà attentive. Obiettivo di questo tipo di identificazione precoce è quello di aiutare bambini a rischio di sviluppare queste difficoltà in modo da fornire loro un supporto che possa prevenire il disagio che incontreranno all’interno del contesto scolastico.

 

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Il Partito Democratico tra narcisismo e dissociazione

Il problema è che qualcuno decide, da sinistra, chi è di sinistra. Pretesa narcisistica. Salvo poi dissociarsi e cambiare idea.

Unire psicologia e divulgazione non è facile. È stata questa l’ambizione di State of Mind fin dall’inizio, e speriamo di esserci riusciti. Abbiamo tentato sempre di parlare di argomenti di interesse comune e di legarli a dati scientifici solidi. Qualche volta abbiamo parlato di costumi sociali, qualche altra volta di fatti di cronaca, altre volte ancora di eventi artistici. Raramente di eventi politici.

In questi giorni un collega aveva lanciato l’idea di tentare di scrivere qualcosa sulle afflizioni e i tormenti del partito democratico, ma l’entusiasmo non ha infiammato la redazione. Il rischio di banalizzare eventi storici e politici complessi e la difficoltà di mantenere una posizione imparziale in un campo che è invece dominato dalla passione delle fazioni non invitano i redattori a esporsi. Sta di fatto che il suggerimento si estinse.

Però qualche giorno dopo mi cade l’occhio su una dichiarazione di Matteo Renzi. E leggendola penso che forse essa è in grado di ispirarmi un commento (spero) non banale, in termini psicologici. Nelle furibonde polemiche sull’articolo 18 Renzi ha dichiarato che questo articolo

[blockquote style=”1″]è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato[/blockquote]

 

Possibile? L’articolo 18 non votato dalla sinistra? E allora da chi?

Beh, sappiamo che l’articolo 18 fu votato dai partiti di governo di allora. Ovvero, se non erro, da uno dei tanti governi all’epoca presieduti da Mariano Rumor e sostenuto da una coalizione politica costituita dalla Democrazia Cristiana (DC), dal Partito Repubblicano Italiano (PRI), dal Partito Socialista Unitario (PSU) e dal Partito Socialista Italiano (PSI) (Link). Quel governo approvò l’articolo 18 nell’ambito dello statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Il Partito Comunista Italiano (PCI), in quanto partito di opposizione, si astenne.

 

Rumor, DC, PSI, PRI. Ma anche PCI. Nomi e sigle di un lontano passato, non so quanto comprensibile ai giovani di oggi. E poi quel PSU, che pochi possono ricordare. Era il nome che all’epoca aveva il PSDI, il Partito Socialista Democratico Italiano. Ma temo che anche questa sigla, PSDI, dica poco ai più giovani. Nomi inghiottiti dal tempo, a me però familiari sebbene all’epoca fossi minorenne, perché i miei genitori, come molti genitori di allora appassionati e impegnati di e in politica, parlavano precocemente e frequentemente di politica con i figli. Un’altra epoca, in cui tutto era impregnato, troppo impregnato, di passione e di ossessione politica.

 

Ma torniamo all’articolo 18. Il PCI si astenne, essendo all’opposizione. Però al governo c’erano il PSI e il PSU. PSI e PSU erano entrambi partiti socialisti, sia pure divisi dalla diversa posizione verso Marx: il PSU lo aveva pienamente ripudiato, mentre il PSI manteneva una posizione più ambigua. Né piena adesione al marxismo come il PCI, né ripudio come il PSU.

E già qui temo che il lettore si sia confuso e annoiato di queste cose passatissime e si chieda: due partiti socialisti? Che casino. E che c’entra tutto questo con la psicologia? La tentazione di deporre la penna (ancora il passato; in realtà dovrei spegnere il computer) fa capolino. Chi me lo fa fare di scrivere di politica? Oppure no. Forse tutta questa confusione merita anche uno sguardo psicologico.

Si potrebbe dire allora che non è vero, che Renzi si sbaglia, che la sinistra votò l’articolo 18. Lo votarono PSI e PSU, i due partiti socialisti. Dunque Renzi confuso e ignorante? Non so. Io ci andrei cauto nel deridere Renzi. Renzi è un frutto della sinistra cattolica, proviene da una forte tradizione politica toscana che risale a Giorgio La Pira (1904-1977), sindaco di Firenze e poi terziario francescano. Basti pensare che Renzi si è laureato in giurisprudenza con la tesi “Firenze 1951-1956: la prima esperienza di Giorgio La Pira Sindaco di Firenze”.

 

Con i cattolici di sinistra occorre sempre stare attenti

Sembrano bonari e innocui. Non assumono mai pose ieratiche alla Berlinguer e men che meno esprimono la iattanza di un D’Alema. È facile sottovalutarli. A differenza dei progressisti di provenienza comunista, non si atteggiano a intellettuali e non nutrono le alterigie o la stizzosità narcisistiche di coloro che ritengono di aver capito come cambiare il mondo dopo aver letto da giovani il Capitale di Marx. Questi cattolici di sinistra, essendo sgobboni, il Capitale lo hanno letto anche loro, insieme a molti altri libri che però si guardano bene dal citare, per non sembrare saputi. Sono maestri della conquista del consenso politico. Così è che governano da decenni, dapprima sotto il nome di democrazia cristiana e poi sotto il nome di partito democratico, con Prodi e ora con Renzi. Ed è così che non hanno fatto la fine di Occhetto e D’Alema: reprimendo con freddezza ogni narcisismo sussiegoso.

Ma dov’è la psicologia? Adesso arriva. Temo che Renzi, più che essere confuso, abbia creato volutamente confusione alla sua sinistra, al fine di scompaginarne ulteriormente le fila già sbandate. Dicendo che la sinistra non votò l’articolo 18 ha messo il dito su una piaga, anzi su due piaghe che torturano la sinistra italiana fin dalla fine della seconda guerra mondiale: la piaga della narcisismo e quella della dissociazione.

Narcisismo

La piaga narcisistica consiste nel fatto che il partito comunista, nel 1970 ancora affascinato da un’orgogliosa e auto-referenziale ideologia rivoluzionaria di assoluta opposizione a qualunque sviluppo politico occidentale, finiva per respingere -o almeno per non votare- anche le iniziative politiche più progressiste e sostanzialmente di sinistra, bollandole come truffe ai danni della classe lavoratrice. Come l’articolo 18 nel 1970. In questa logica i partiti democratici, socialdemocratici o laburisti tedeschi, scandinavi e dei paesi anglo-sassoni erano etichettati come partiti non di sinistra (incredibile, no?), falsi progressisti in realtà servi del capitale.

La conseguenza, paradossale ma reale non solo in Italia ma anche in altri paesi latini, è che le riforme a favore dei lavoratori le facevano i partiti non di sinistra ma di centro allora al governo: democristiani in Italia, gollisti e liberali in Francia. La sinistra comunista era confinata all’opposizione, sognando la rivoluzione e finendo per non votare le leggi a favore dello stato sociale. Come l’articolo 18.

Nei paesi nordici, invece, i partiti di sinistra, avendo smesso da tempo di sognare la rivoluzione, facevano il loro mestiere, ovvero costruivano lo stato sociale. In Germania per esempio fin dal 1959, anno della svolta di Bad Godesberg in cui Marx fu ripudiato. E non riesco a immaginare nulla di più narcisistico di un partito all’opposizione che sdegnosamente decide di togliere la patente di partiti di sinistra ai gloriosi partiti socialdemocratici scandinavi e tedeschi che governando costruivano lo stato sociale nei loro paesi. Narcisismo.

Dissociazione

La seconda piaga è dissociativa, e consiste in quel citare quel partito socialista li, al governo, come esempio da rinfacciare a Renzi per dimostrargli che la sinistra aveva votato a favore dell’articolo 18. Ora, sappiamo che, secondo una certa vulgata, il partito socialista avrebbe misteriosamente smesso di essere di sinistra negli anni ’80. Di qui la confusione, anzi la dissociazione: i socialisti sono o non sono di sinistra? Boh. Nel migliore dei casi, dipende dalle convenienza polemica del momento. Se si tratta di dare dell’ignorante a Renzi, i socialisti sono di sinistra. In altri casi, i socialisti non lo sono più. Senza contare che la precedente rimozione dei socialisti dalla sinistra costringe comunque a una riabilitazione a posteriori che confonde i più giovani. E poi ci sono quelli che forse non sanno nemmeno più che in Italia un tempo c’era un partito socialista. Insomma, sembra di parlare di guelfi e ghibellini. In questa nebbia sopravvive solo il termine anodino di “sinistra”, col risultato che tutti hanno ragione: la sinistra votò e non votò l’articolo 18. Possibilissimo, dato che Berlinguer diceva che il PCI era un partito di lotta e di governo. E così la confusione aumenta.

Però è vero che negli anni ’70 i socialisti quando votarono a favore dell’articolo 18 erano considerati ancora di sinistra. O almeno così avevano deciso quelli che erano più a sinistra di tutti. Se fosse così, non ci sarebbe dissociazione.

O quasi di sinistra. O forse no, già negli anni ’70 non erano più considerati di sinistra. Chi era nelle fila della sinistra italiana prima ancora degli anni ’80 sa bene che la lenta espulsione ideologica del partito socialista dalla sinistra iniziò fin da quando questo partito entrò, negli anni ’60, nel governo a costituire i cosiddetti governi di centro-sinistra. Governi democristiani e socialisti, dunque, che attuarono riforme socialdemocratiche, ovvero le riforme del welfare tipiche degli anni ’60 in tutto l’occidente, anni in cui perfino in USA ci si lanciò nel grande esperimento quasi-socialdemocratico della “Great Society” merito del presidente Lyndon B. Johnson (altro interessante caso di politico progressista ideologicamente “espulso” dalla sinistra).

Un momento. Abbiamo detto: riforme socialdemocratiche? Ovvero proprio le riforme bollate come falsa sinistra dall’intero gruppo dirigente comunista italiano? Come si vede, l’espulsione del PSI dalla sinistra era già iniziata.

E il problema è sempre quello: che qualcuno decide, da sinistra, chi è di sinistra. Pretesa narcisistica. Salvo poi dissociarsi e cambiare idea. Tra narcisismo e dissociazione c’è di che perdere la testa.

Forse è meglio non scrivere articoli di politica.

 

Sul narcisismo consigliamo “Metacognizione e psicopatologia: Valutazione e trattamento“ di Giancarlo Dimaggio e Paul Lysaker, sulla dissociazione “Sviluppi Traumatici” di Gianni Liotti e Benedetto Farina (2011)

 

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PSICOLOGIA & POLITICA

BIBLIOGRAFIA: 

Adulti Asperger inclini a pensieri suicidi: che influenza ha la società?

Il quadro clinico di depressione secondaria negli Asperger è imputabile all’isolamento sociale, alla mancanza di servizi di qualità e alla difficoltà che questi adulti riscontrano nel mantenere una soddisfacente vita lavorativa oltre che affettiva.

Uno studio di coorte condotto dall’University of Cambridge ha evidenziato la maggior presenza di pensieri suicidi negli Asperger piuttosto che nella popolazione neurotipica. Una conclusione piuttosto scontata per chi vive questa condizione di neurodiversità e forse anche per le persone a lui più vicine.

La sindrome di Asperger, menzionata per la prima volta nel DSM IV e non più presente nel DSM V, si differenzia dal quadro clinico di Autismo per l’assenza di ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, delle capacità d’autonomia e del comportamento adattativo pur presentando le caratteristiche tipiche di difficoltà nell’interazione sociale e la tendenza a comportamenti ripetitivi o a sviluppare interessi ristretti.

E’ gia strato dimostrato come questa condizione si correli frequentemente alla depressione ma pochi studi fino ad ora avevano indagato la presenza di ideazione suicidaria in questi soggetti.

Illustri nomi in materia di autismo, la dott.ssa Cassidy ed il Prof. Baron-Cohen, hanno sottoposto un questionario a 374 soggetti diagnosticati Asperger da adulti tra il 2004 e il 2013 nel Regno Unito, con l’intenzione di verificare la presenza, nel corso della loro vita, di depressione, ideazione suicidaria, piani e tentativi di suicidio.

I risultati sono stati ovviamente comparati con i dati riguardanti l’ideazione suicidaria tra la popolazione generale neurotipica ed i pazienti psicotici.

I ricercatori hanno riscontrato che ben il 66% degli intervistati Asperger ha riferito di aver pensato al suicidio, contro il 17% della popolazione generale e il 59% degli psicotici. Di questo 66% inoltre, il 35% ha dato seguito a questi pensieri pianificando o addiritura tentando il suicidio.

La presenza di depressione nella storia di vita dell’adulto Asperger è risultata essere un fattore determinante nel promuovere pensieri e comportamenti suicidari. Nel dettaglio chi ha una storia di depressione è quattro volte più a rischio di imbattersi in pensieri suicidari ed è due volte più probabile che pianifichi o tenti il suicidio.

Il Prof. Baron-Cohen sottolinea opportunamente che il quadro clinico di depressione secondaria negli Asperger è imputabile all’isolamento sociale, alla mancanza di servizi di qualità e alla difficoltà che questi adulti riscontrano nel mantenere una soddisfacente vita lavorativa oltre che affettiva. In attesa che ulteriori studi confermino la presenza di altri fattori coinvolti nella predisposizione all’ ideazone suicidaria, faremmo bene a prendere atto di questi primi dati.

Noi tutti potremmo, per esempio, ridurre il nostro egocentrismo, iniziare a considerare la neurodiversità una disabilità perchè in relazione con un mondo che abbiamo plasmato a nostro uso e consumo, governato da regole sociali che promuovono l’esclusione di chi ad esse non sa naturalmente aderire.

In questo scenario le proposte di aiuto per la popolazione Asperger, sin dall’infanzia, risultano troppo spesso un violento tentativo di nascondere la neurodiversità sotto un buon programma di addestramento neurotipico, pensato da neurotipici, per una società neurotipica che non contempla la possibilità di ristrutturarsi per accogliere la neurodiversità e svincolarla dal preconcetto di disabilità.

Perchè molto spesso, ciò che rende depresso e a rischio di suicidio un Asperger, non è la sua condizione neurobiologica ma una realtà sociale che imputa ad essa la responsabilità di una condizione psicologica come la depressione e di conseguenza non è in grado di offrire un servizio di sostegno psicoterapeutico adeguato.

Solo recentemente si sta cercando di adattare la terapia cognitivo-comportamentale alle caratteristiche di funzionamento autistico ma anche in questo caso il grosso limite di cui tener conto è che sono ancora una volta i neurotipici a farlo.

Tutto ciò crea un enorme sbilancio culturale a cui dovremmo porre rimedio perchè, ad oggi, questi individui hanno fatto molti più passi nella nostra direzione di quanti ne abbiamo fatti noi e forse anche questa è la ragione per cui ci ritroviamo a leggere gli spiacevoli esiti di ricerche come queste.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Boyhood (2014) di Richard Linklater: Ciak, si cresce!

L’innovazione di questo progetto cinematografico sta nell’aver deciso di seguire sul serio la crescita del protagonista anno dopo anno, andando di pari passo con la crescita degli attori: le riprese, infatti, sono cominciate nel 2002, quando appunto l’interprete principale eras solo un bambino e sono durate 12 anni.

La trama racconta la vita ordinaria della famiglia di Mason: secondogenito di genitori ancora troppo giovani, vive con la madre, che, dopo la separazione, riprende gli studi per diventare insegnante; è una donna energica, ma sola, affascinata da uomini con un ruolo gonfio di carisma (un professore universitario prima, un ufficiale dell’esercito americano poi), soliti a lasciarsi affogare nell’alcool. Il padre, invece, troppo perso per stare così presto in quel ruolo genitoriale, si arrabatta tra una vita ancora provvisoria e i weekend spesi con i figli. Sullo sfondo un pezzo di America negli anni della guerra afgana e l’elezione di Obama, dell’evoluzione della tecnologia e delle mode musicali.

La vita di Mason si inserisce in questo scenario e racconta, dal suo punto di vista, un susseguirsi di trasferimenti e nuove dimensioni familiari, i successivi matrimoni fallimentari della madre e la nuova relazione del padre. Ma soprattutto disegna in maniera puntuale il suo cammino di crescita, dell’infanzia e dell’adolescenza, fino al collage, declinandone emozioni, cambiamenti e scossoni. Mason si affaccia al mondo destreggiandosi con stile tra giochi di bambino e prime conflittualità, amori e delusioni, passioni e prime volte.

Il film colpisce senza scadere nella scontata retorica che le dinamiche che si susseguono possono insinuare. È una fotografia in movimento di un percorso evolutivo e familiare che scorre tra gioie e sofferenze. È un’epopea formativa che ben delinea l’importanza e la ricchezza degli anni che precedono l’età adulta.

Si riflettono dallo schermo emozioni pure, sane e autentiche, specchio di quel mondo giovanile descritto dallo sceneggiatore in maniera mirabile e precisa, reso tale dallo spessore e dalla caratterizzazione di ciascun personaggio.

Grazie alla protezione della madre da una precarietà relazionale in cui tende ad infilarsi, ma allo stesso tempo da cui esce con determinazione, alla genuinità di un padre che tra patatine fritte e testi di canzoni gli insegnerà quanto basta, e grazie a tutte le figure che ruotano intorno a lui, nel corso del tempo, Mason riuscirà a cogliere ogni attimo che il percorso di crescita gli offrirà, rendendolo un neoadulto pronto per girare una nuova scena della sua vita.

Il film offre una rappresentazione fedele di un imprescindibile periodo di vita, uguale per tutti, ma per tutti differente, la cui qualità orienta e condisce l’itinerario di sviluppo (cognitivo, emotivo e relazionale) che conduce verso un sano e coerente sé adulto.

 

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Ipersensibilità del sistema immunitario come fattore di rischio per lo sviluppo della depressione

FLASH NEWS

Differenze individuali del sistema immunitario di ciascun individuo possono essere considerate fattori di rischio per sviluppare sintomi legati a depressione o ansia.

Il livello di sensibilità allo stress può aumentare il rischio di sviluppare la Depressione. Secondo uno studio condotto presso la Scuola Icahn di Medicina Mount Sinai, preesistenti differenze individuali del sistema immunitario di ciascun individuo, possono essere considerate fattori di rischio per sviluppare sintomi legati a depressione o ansia.

Studi precedenti avevano riscontrato una forte associazione, ancora poco chiara, tra presenza di elevati livelli di molecole infiammatorie nel sangue e maggior numero di globuli bianchi con la presenza di depressione ed ansia negli individui. 

Gli autori hanno misurato sia i livelli di leucociti nel sangue che livelli di citochina IL-6 in topi non aggressivi prima e dopo l’esposizione a provocazioni sociali da parte di un topo aggressivo. Entrambi i valori misurati sono risultati essere elevati in topi più vulnerabili allo stress già prima di essere esposti a situazioni stressanti.

I ricercatori hanno poi convalidato l’aumento dei livelli di IL-6 in due gruppi distinti di pazienti umani con diagnosi resistente al trattamento Disturbo Depressivo Maggiore. Gli autori sostengono che il sistema immunitario può diventare ipersensibile ad un agente stressante e portare alla disregolazione cronica di processi infiammatori che alla fine causano la malattia.

I topi particolarmente vulnerabili allo stress, manifestano comportamenti molto simili al Disturbo Depressivo (per esempio l’evitamento sociale), a differenza di altri topi che mostrano invece una risposta resiliente alla fonte stressante. In individui che presentano maggiore vulnerabilità allo stress, la presenza di alti livelli della proteina Interleuchina-6 può portare a sviluppare sintomi riconducibili a disturbo depressivo e disturbo d’ansia.

Gli autori suggeriscono di utilizzare i risultati raggiunti dalla presente ricerca, per pensare a nuove forme di trattamento anche farmacologico, come per esempio l’uso di inibitori della proteina IL-6 che può ridurre il rischio di recidive per il Disturbo Depressivo maggiore.

I disturbi da stress e molti processi infiammatori sono insieme associati ad aumento della prevalenza di molte altre malattie croniche, come le malattie cardiache e ictus che sono altamente in comorbilità con disturbi emotivi, questi risultati possono fornire anche indicazioni per trattamenti per diverse malattie.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Developmental Psychopathology: origini storiche e prospettive

Armando Biamonte

La Psicopatologia dello Sviluppo è una disciplina scientifica il cui scopo è quello di chiarire come l’interazione tra gli aspetti biologici, psicologici, sociali e ambientali possa determinare lo sviluppo normale e anormale durante tutta la vita, e muovendosi proprio sul confine di interazione tra normale e patologico, attraverso questo costante confronto, fornisce il quadro teorico di riferimento per la prevenzione e l’intervento dei disturbi psicopatologici.

Con il termine “Developmental Psychopathology” si identifica una disciplina scientifica che ha origine negli Stati Uniti e che possiamo provare a tradurre in italiano con il termine “Psicopatologia dello Sviluppo”, un termine che in realtà in Italia viene utilizzato in modo più ampio, ma che identifica un ambito di studi ben preciso che si sta diffondendo nel resto dell’Europa e ormai anche in Italia.

La Psicopatologia dello Sviluppo è una disciplina scientifica il cui scopo è quello di chiarire come l’interazione tra gli aspetti biologici, psicologici, sociali e ambientali possa determinare lo sviluppo normale e anormale durante tutta la vita, e muovendosi proprio sul confine di interazione tra normale e patologico, attraverso questo costante confronto, fornisce il quadro teorico di riferimento per la prevenzione e l’intervento dei disturbi psicopatologici.

Per la Psicopatologia dello Sviluppo l’interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione può influenzare il processo evolutivo. Per esempio, se vari fattori di rischio si sono dimostrati estremamente dannosi per il funzionamento normale, interagendo tra di loro e moltiplicandosi, sarà altrettanto importante considerare sia i fattori di protezione, che possono influire sull’azione degli stessi fattori di rischio, che l’interazione tra i fattori di rischio e i fattori protettivi, in quanto processi simili sono alla base di disturbi anche diversi.

La psicopatologia dello sviluppo ha il merito di aver integrato gli approcci teorici derivanti da diverse discipline, che troppo spesso sono tenute in considerazione solo se isolate tra di loro, come la Psicologia Clinica, la Psichiatria e la Psicopatologia, promuovendo così un nuovo sapere scientifico e un netto progresso delle nostre conoscenze.

La psicopatologia dello sviluppo sostiene che per ogni singolo individuo esista un percorso di sviluppo specifico, e di conseguenza ogni esperienza traumatica avrà degli effetti specifici che dipenderanno dalla vulnerabilità e dalla resilienza della persona: semplicemente, la psicopatologia dello sviluppo sottolinea l’importanza di una valutazione dell’individuo e dell’unicità del suo percorso evolutivo, in quanto considera tutti i disturbi psicopatologici in generale non come una malattia, ma come un esito evolutivo proprio della storia di quell’individuo.

In quest’ottica la psicopatologia può considerarsi come l’espressione di un fallimento della capacità di adattamento al proprio ambiente e nella regolazione dei compiti evolutivi, ma anche come un processo esteso nel tempo.

Un importante aspetto del paradigma della psicopatologia dello sviluppo è rappresentato dalla prospettiva relazionale dell’adattamento. Infatti, secondo questa prospettiva, quando sono presenti disturbi psicologici, è molto probabile che siano presenti anche dei disturbi relazionali.

La rivoluzione che la psicopatologia dello sviluppo comporta nello studio delle relazioni sta nel fatto che più che considerare i disturbi relazionali come fattori di rischio, li considera come veri e propri precursori della psicopatologia individuale.

In questo ambito teorico la ricerca ha preso avvio dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby che rappresenta il pilastro concettuale, attraverso il quale la psicopatologia dello sviluppo sottolinea come i problemi evolutivi non possano essere considerati solo come problemi del bambino ma dovranno essere sempre considerati come problemi della relazione tra un bambino e le caratteristiche del proprio ambiente che non fornisce al bambino la necessaria esperienza di regolazione per adattarsi al contesto.

Esiste un’associazione tra una grave patologia della personalità e un’esperienza infantile di maltrattamenti e violenza: se i bambini sono maltrattati, ma hanno la possibilità di sperimentare una relazione d’attaccamento significativa che fornisce la capacità di elaborare l’evento traumatico, questi saranno in grado di elaborare positivamente la loro esperienza e l’abuso non sfocerà in un disturbo grave della personalità, al contrario dei soggetti con una relazione di attaccamento disfunzionale, che hanno minori probabilità di superare l’esperienza dell’abuso e maggiori probabilità di sviluppare una psicopatologia.

Le perturbazioni relazionali, soprattutto nelle primissime fasi dello sviluppo, possono indicare una condizione evolutiva a rischio in cui si verificano in modo ripetitivo interazioni incoerenti e insensibili, che, nel caso perdurassero potrebbero evolvere verso una psicopatologia individuale o relazionale.

Nell’ambito di questo inquadramento teorico si è voluto approfondire come viene trattata una classe di disturbi ancora molto controversa come quella dei disturbi dello spettro autistico, sui quali manca ancora l’accordo non solo sulle cause, ma anche sulle terapie. Approfondire come questo nuovo approccio affronti il disturbo autistico, risulta interessante per evidenziare cosa può offrire di nuovo nel campo delle psicopatologie in generale.

La psicopatologia dello sviluppo riesce a fornire una visione molto ampia e articolata dei disturbi psicopatologici, come, appunto, i disturbi dello spettro autistico, che per eccellenza rappresentano la disfunzione del sistema relazionale, ma sottolinea come bambini con una stessa diagnosi possano presentare enormi differenze tra loro, così come bambini con diagnosi diverse possano presentare profili molto simili.

Per esempio, un bambino può ricevere una diagnosi di autismo perché presenta delle difficoltà nel relazionarsi con gli altri, quando in realtà i suoi problemi specifici riguardano la difficoltà nell’elaborare le informazioni verbali e una iper-reattività ai suoni acuti. Di conseguenza, le parole di chi gli sta intorno potrebbero diventare confuse e aggressive provocando un disagio emozionale contro cui il bambino potrebbe mettere in pratica un meccanismo di difesa che lo porta ad isolarsi.

Detto ciò, le prospettive evolutive, sottolineano come la sindrome autistica rispecchi una sequenza generale, delle tappe, evidenziando cioè le manifestazioni sintomatologiche che emergono nelle diverse fasi dello sviluppo.

Questo approccio potrebbe essere interpretato come un tentativo di generalizzare le stesse manifestazioni sintomatiche, evidenziando cioè tutte le caratteristiche comuni sia rispetto al disturbo e sia rispetto alla singola persona che ne risulta affetta: è bene ricordare che la psicopatologia dello sviluppo sottolinea come sia importante un costante confronto tra il normale e il patologico,  ma anche di come sia importante confrontare i dati specifici ed individuali riguardanti il singolo caso clinico con i dati generali della patologia, e di come la stessa psicopatologia debba essere concepita come un processo esteso nel tempo, perché proprio da questi elementi sarà possibile ricostruire le diverse linee di sviluppo di una storia individuale, sia del disturbo e sia dell’individuo.

La psicopatologia dello sviluppo ha come obiettivo principale quello di prevedere lo sviluppo psicopatologico, quindi, anche nei confronti delle sindromi dello spettro autistico,  diventa necessario valutare quali siano le manifestazioni precoci dei disturbi destinate a consolidarsi e strutturarsi nel tempo e riconoscere le trasformazioni a cui vanno incontro questi disturbi durante lo sviluppo.

Per esempio: uno dei segni sintomatologici caratteristici della sindrome autistica, è il mancato aggancio dello sguardo che emerge già nel primo periodo di vita del bambino, cioè entro i primi sei mesi di vita, fino a diventare evitamento dello sguardo entro il primo anno.

Individuare la presenza di una difficoltà emotiva o comportamentale in età precoce, soprattutto nella sua fase di organizzazione, e intervenire tempestivamente, costituisce un importante fattore di protezione rispetto al rischio di una strutturazione di un disturbo più radicato e complesso.

Secondo la psicopatologia dello sviluppo, per meglio comprendere la sindrome autistica è importante partire da una concezione multifattoriale e considerarla come una perturbazione generalizzata e grave del processo di sviluppo che assume caratteristiche specifiche in relazione alla persona che ne è affetta.

I benefici di questa nuova prospettiva sono evidenziabili non solo nel processo di diagnosi ma anche nell’approccio terapeutico, e possiamo citare una tecnica d’intervento chiamata TMA, ovvero Terapia Multisistemica in Acqua, che utilizza gli assunti teorici della psicopatologia dello sviluppo, partendo dal pilastro rappresentato dalla teoria dell’attaccamento, che viene utilizzata proprio nel trattamento delle sindromi autistiche.

È un particolare approccio terapeutico che si svolge in un setting rappresentato dalla piscina, altamente individualizzato volto ad influenzare i disturbi del comportamento e relazionali, con mezzi prettamente psicologici ed educativi, attivando prima di tutto il sistema relazionale.

Il contributo nuovo di questa disciplina è da rintracciare proprio nel concetto “multifattoriale”, perché accanto agli elementi biologici, genetici, psicologici, sociali e ambientali, questo approccio evidenzia anche la dimensione temporale, la dimensione individuale e la dimensione relazionale, andando cioè ad affrontare un qualsiasi quadro psicopatologico utilizzando il maggior numero di prospettive, senza limitarsi ad individuarne una sola causa e soprattutto senza dover generalizzare le manifestazioni sintomatologiche e, ponendo l’accento sul carattere fondamentalmente evolutivo, individuale  e relazionale del comportamento deviante, rappresenta una valida alternativa agli approcci tradizionali.

Possiamo renderci conto, in conclusione, di quante variabili potranno intervenire e interferire con le linee di sviluppo e di come da esse potranno derivare percorsi evolutivi patologici diversi: individui diversi potranno sviluppare lo stesso disturbo mentale seguendo percorsi diversi, i disturbi mentali potranno essere causati da diversi fattori e non da una sola causa; potranno inoltre esistere diverse manifestazioni sintomatologiche per uno stesso disturbo e identificare un fattore di rischio potrà solamente far luce su un aspetto di un quadro molto più complesso.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 European Society for Trauma and Dissociation – Report dal congresso 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’addio silenzioso di Clotilde. Di fronte al suicidio di un paziente – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.14 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #14

L’addio silenzioso di Clotilde 

 

 

– Leggi l’introduzione –

Nonostante la discrezione di Clotilde nell’andarsene come se si trattasse di uno sfortunato incidente Biagioli si rendeva conto che quel corpo sul tavolo di marmo indicava inesorabilmente che qualcosa non aveva funzionato. I meccanismi consolatori dell’autoinganno stentavano ad attivarsi, quella morte lo pervadeva e lo accusava.Era la terza volta nella sua carriera ma la prima durante una psicoterapia così lunga.

Il senso di colpa, la rabbia, la tristezza e persino un po’ di ansia si mescolavano nella sua testa in quella domenica pomeriggio tutta sbagliata. Era confuso. Il dottor Biagioli non avrebbe mai creduto di assistere personalmente a quello che Clotilde aspettava da tutta una vita, sul quale tanto avevano lavorato insieme: il riconoscimento da parte della madre.

Non era ciò che avevano auspicato. Non era quello il riconoscimento tanto inutilmente agognato. La fredda luce al neon non rendeva giustizia all’ambrato della sua pelle, ai suoi riccioli biondi con iniziali spruzzate d’argento. I tratti del volto irrigiditi e taglienti la assomigliavano ai profili decisi di certi eroi greci nelle illustrazioni dell’Iliade su cui Carlo aveva preparato la stentata maturità. Aveva l’impressione che gli sorridesse beffarda con una complicità che escludesse la madre che cantilenava singhiozzi, domande tardive e maledizioni all’universo intero e inumidiva di lacrime il maglione di Carlo cui aggrappata voleva estorcere un assoluzione delegata e tardiva.

Era lui ora a custodire i segreti che credeva indicibili. Biagioli dal momento che a casa aveva appreso la notizia per la solerzia di un infermiere del pronto soccorso che conosceva la vicenda per aver sostituito al CIM per tre mesi Luisa Tigli in maternità era certo che si trattasse di un suicidio. Clotilde in un’estrema attenzione per non disturbare e creare imbarazzo, forse soprattutto a lui, aveva scelto quel metodo inconsueto, incerto nel risultato (verrebbe da dire pericoloso, se non suonasse comico, dal punto di vista di un candidato al suicidio) per archiviare la sua dolorosa esistenza. Si era semplicemente esposta lungamente al pericolo correndo a manetta con la sua Honda 750 sulla pedemontana via dei laghi, contando sul fatto che la statistica prima o poi fa giustizia dei comportamenti estremi. Il contachilometri era fracassato sui 180km/h.

Per ironia della sorte involontari complici del progetto furono i signori Pace che riaccompagnavano la nonna Assunta alla casa di riposo dopo la libera uscita domenicale. Quest’ultima, seduta a fianco del figlio conducente, fu la più contrariata al pensiero fuggevole che la accompagnò, prima ancora di Clotilde dinanzi a San Pietro, della soddisfazione che avrebbe regalato alla odiata nuora con il risparmio della retta dell’ospizio. Il pensiero estremo di Clotilde era stato invece per Carlo, l’ultimo dei numerosi psichiatri che avevano cercato di raddrizzare la sua indole storta. Un altro che avrebbe deluso, era la sua specializzazione. Un altro che aveva idealizzato e disprezzato. Povero Carlo(aveva imposto il “tu” dalla prima seduta) in quasi tre anni di psicoterapia era stato un amorevole e rispettoso compagno di viaggio sopportando le sue intemperanze, gli dispiaceva essere un suo fallimento e ciò era la prova di quanto poco fosse guarita.

Clotilde era tecnicamente una borderline. Donna del tutto o niente. Di grandi passioni: amori estremi ed altrettanto assoluti e improvvisi odi. Il contatto con il CIM era avvenuto 5 anni prima dopo un ricovero in SPDC per avere, completamente ubriaca e strafatta di cocaina, quasi ucciso di botte la sua coinquilina, una ventottenne calabrese, rea di aver lasciato il formaggio scartato nel frigo o, più probabilmente, di averla provocata per poi negarsi all’ultimo momento.

 

Quella pericolosa dinamica relazionale che Eric Berne chiama il gioco di “violenza carnale”. Si, perchè il difetto essenziale di Clotilde era la sua omosessualità confinante e sconfinante con un disturbo dell’identità di genere. Era fallata sin dalla nascita, un pezzo di seconda scelta da gettare o svendere. Tutti i quarantacinque anni dell’esistenza di Clotilde erano stati un continuo tentativo di essere accettata, riconosciuta e amata nonostante questo difetto originario che lei stessa non riusciva a nominare. Nonostante le numerose terapie che aveva fatto sin da bambina per i problemi più diversi quel suo desiderio rimaneva inconfessabile e ribaltato nella coscienza in una intransigente omofobia.

Dopo le sue tre sorelle maggiori la sua nascita era stata una vera delusione. Il corredino preparato era rigidamente azzurro e “Massimo” il nome scelto per colui che avrebbe dovuto dare prosecuzione al glorioso cognome dei Visani. Invece la sua presenza nefasta aveva dato l’avvio alle disgrazie. Il padre Ottavio, burbero e stimatissimo professore di greco al liceo classico di Terni era morto d’infarto prima che lei compisse un anno,forse per il dolore del maschio mancato. La sorella maggiore si era fatta mettere incinta da un figlio dei fiori e viveva in casa con i due gemellini dei fiori. La madre era dovuta andare a lavorare alle poste per sfuggire all’assedio della miseria. Coltivava un rancore ovviamente inconfessabile per quelle figlie che l’avevano costretta a lasciare il suo piccolo regno casalingo. In particolare per Clotilde, quel maschio mancato che, anche secondo lei, aveva ucciso Ottavio.

Ufficialmente non sapeva dell’omosessualità della figlia ma non perdeva occasione per vomitare disprezzo verso tutte le diversità e specificamente verso gay e lesbiche ( meglio un figlio morto che frocio era il suo slogan, quando veniva a conoscenza di una di queste situazioni). Clotilde aveva corso tutta la vita per riscattarsi fino alla curva in cui aveva incontrato l’incolpevole mercedes dei signori Pace.

Nella famiglia materna le apparenze sociali contavano più di tutto. Da grande si rese conto che ciò era probabilmente dovuto al fatto che la nonna materna ricca e temuta moglie del podestà aveva messo al mondo due figli, la madre e suo zio, che tutti sapevano essere bastardi, figli del farmacista cui somigliavano come due gocce d’acqua. L’importante signora dunque se ne andava impettita e altezzosa per il corso del paese con quei due ragazzini per mano che per i loro 4 anni di differenza di età testimoniavano una cornificazione tutt’altro che passeggera del signor eccellentissimo podestà.

In quella famiglia l’immagine sociale era tutto e la vergogna da fuggire a tutti i costi. Ci mancava sola una figlia lesbica! Fino alla pubertà molti la scambiavano per un maschietto per l’aspetto e gli interessi che coltivava..Mai un vestito o una gonna, sempre sudata per i giochi sfrenati e polverosi. Aveva imparato a fare pipì stando in piedi e ricercava lo scontro fisico con i coetanei, esclusivamente maschi con cui giocava. Con lo sviluppo puberale aveva assistito disgustata alla femminilizzazione del suo corpo. Quei rigonfiamenti che lievitavano di mese in mese non le appartenevano e li camuffava in tutti i modi con abiti informi. A tredici anni era stata iniziata all’amore saffico dalla sua insegnante di pianoforte, una sessantenne amica della madre che le confesso, forse per eccitarla, i particolari di una relazione sessuale con suo padre. Di quel pomeriggio estivo ricordava la confusa miscela di vergogna, colpa, piacere e soprattutto la sensazione di essere finalmente arrivata a casa. Aveva incontrato la sua identità: non era un maschio, era lesbica. Da quel momento, forte di una bellezza ambigua tra l’eroe omerico e la femminilità botticelliana si avventurò con il fragile battello del suo animo alla ricerca di quell’amore che non l’aveva accolta al suo arrivo in questo mondo. Desiderava le donne con un impeto assolutamente maschile.

Tra i 18 e i 22 anni visse quella che avrebbe chiamato con una nostalgia inestinguibile “la mia scintillante primavera”. Pur rimanendo nascosta conobbe tutto l’universo gay del paese avviando alla loro vera natura che intuiva infallibilmente , come un espertissimo talent scout, numerosissime ragazzine, senza disdegnare le donne mature e persino le vecchie. Diceva che quello era stato il suo periodo bulimico.

Le passioni si avvicendavano rapidamente sempre con la cifra della drammaticità. Clotilde era infatti convinta di dare il meglio di sé nella fase del corteggiamento e traeva sollievo dal conquistare. Ancora non erano conclusi i festeggiamenti per il successo che già batteva in ritirata per evitare una sconfitta che sentiva sicura. Le altre che si innamoravano di lei o si sbagliavano. o non la vedevano realmente,o erano stupide. In questo modo riusciva a mantenere saldamente deficitaria la sua autostima Era certa che ad una intimità più stretta e duratura il bluff che sentiva di essere non avrebbe retto. Lasciava o, più spesso, faceva in modo di essere lasciata per non correre il rischio di vedere sul viso dell’altra quella delusione che, nonostante i suoi sforzi non era mai riuscita a cancellare dal volto della madre e che immaginava essere stata l’espressione che l’aveva accolta in questo mondo.

Di sforzi ne aveva fatti moltissimi. Diplomatasi all’istituto tecnico per geometri con il massimo dei voti, aveva iniziato a lavorare da subito nei cantieri contribuendo al mantenimento della famiglia. Si era fatta strada in un ambiente tipicamente maschile. Biagioli, di fronte alla preoccupazione che la sua omosessualità venisse scoperta le aveva suggerito l’ipotesi che fosse un segreto di pulcinella considerate le sue frequentazioni esclusivamente femminili, il suo abbigliamento militare e i suoi hobby (motociclismo, pugilato).

Parlarne con la madre, obbiettivo primo di tutti i suoi sforzi di essere accettata, era improponibile e persino in seduta usava giri di parole per non usare la parola “omosessualità”. Cosa avrebbe detto oggi se avesse visto la madre salutare Biagioli stringendogli le mani unite tra le sue e dicendogli con fare consolatorio “dottore, non se ne faccia una colpa….non aveva mai accettato la sua omosessualità”. Effettivamente era lei la prima a non accettarsi e proiettava questo rifiuto sugli altri.

Dopo il primo episodio per cui era stata ricoverata c’erano stati altri agiti di di impulsività incontrollata, una costanza di abuso di sostanze e numerosi gesti autolesivi soprattutto a carattere dimostrativo. Insomma quanto basta per una diagnosi di borderline ed una presa in carico. Questi ultimi con tagli e bruciature di sigarette,si manifestavano in seguito alla rottura dei legami affettivi, anche se da lei stessa provocati. In un caso al dolore assoluto si mescolava umiliazione e rabbia. Nell’altro colpa e autodenigrazione. Non sapeva dire quale fosse peggiore.

 

In quelle situazioni Biagioli si sentiva impotente, schiacciato da un dolore che riconosceva fin troppo anche suo per esserne la cura. Ora avvertiva la colpa di non essersi fatto aiutare. Clotilde precipitava in uno stato simile alla morte. Senza un altro che le rimandasse un immagine di sé positiva si percepiva disgustosa, indegna di esistere e tutti gli appetiti vitali si assopivano. Gli richiamava alla mente l’immagine dell’urlo di Munch. Un dolore assoluto, eterno ed inconsolabile come di madre che vede il figlio morire e implora di scambiare di posto. Smetteva di mangiare, trascurava la sua persona e se non fosse stata per la solerzia con cui le infermiere del CIM l’accudivano, si sarebbe trasformata in una barbona inavvicinabile. Quell’essere disgustoso era l’immagine di se stessa che aveva se uno specchio esterno non gliene rimandava un altra. Da sola ogni istante doveva convivere con quel mostro che era se stessa. Da sé non si può andare in vacanza diceva disperata.

Nonostante la discrezione di Clotilde nell’andarsene come se si trattasse di uno sfortunato incidente Biagioli si rendeva conto che quel corpo sul tavolo di marmo indicava inesorabilmente che qualcosa non aveva funzionato. I meccanismi consolatori dell’autoinganno stentavano ad attivarsi, quella morte lo pervadeva e lo accusava.Era la terza volta nella sua carriera ma la prima durante una psicoterapia così lunga.

Seduto nella panchina del cortile antistante la sala settoria rifletteva sugli errori senza neppure il conforto di quelle sigarette che aveva di recente ripudiato (un fioretto di cui, da razionalista militante, si vergognava moltissimo). Forse era stato presuntuoso a non condividere la gestione di un caso così grave con la dottoressa Mattiacci che avrebbe potuto seguire l’aspetto farmacologico e costituire un altro punto di riferimento soprattutto nei momenti in cui l’alleanza con lui vacillava esposta alle tempeste borderline. Si chiedeva cosa, in fondo, avesse fatto e soprattutto dove avesse sbagliato. La prima accusa era di non aver condiviso con gli altri, di non essersi confrontato.

Ora quel cadavere era soltanto suo, del dottor Biagioli definito ironicamente “ghe pensi mi” per l’incapacità a delegare. Si sforzò di riordinare le idee. Il filone principale della terapia era stato il sostegno all’autostima o, meglio, la stabilizzazione di una identità personale che non dipendesse esclusivamente dalle incostanti conferme altrui. L’accettazione del mancato riconoscimento materno non attribuendosene la responsabilità. Non colpevole ma vittima di una madre distratta dal lutto del marito. Si chiese se non avesse avuto paura di entrare davvero in quel dolore esistenziale assoluto che terrorizzava anche lui e se non l’avesse lasciata sola con lui.

Forse si era disperso troppo su quei problemi che rendevano difficile la quotidianeità di Clotilde ed inerivano le grandi strategie che metteva in atto per ottenere riconoscimento e, magari, amore. La prima l’aveva imparata tornando a casa alle elementari con la lode sul quaderno o la coccarda tricolore che suscitava abbracci e sorrisi soddisfatti. Si era dunque prefissata di essere semplicemente perfetta in tutto. La cura dei dettagli era meticolosa. Su ogni piccolo compito si giocava tutto il suo valore trasformandolo in una montagna da scalare ed allungando enormemente i tempi. Aveva ben chiaro quanto il “meglio fosse nemico del bene”, ma per lei il meglio ed anzi la perfezione era il minimo che dovesse fare (nient’altro che il suo dovere, come diceva la madre). C’era sempre un amichetta che poteva essere presa da modello che aveva fatto meglio. Un passetto in più era sempre possibile, non bisogna mai accontentarsi.

Una seconda strategia consisteva nell’essere totalmente accondiscendente alle richieste dell’altro. I suoi diritti sembravano non esistere, solo quelli degli altri contavano. A furia di non ascoltare i suoi bisogni non si rendeva più conto di averli ed anche in seduta era difficilissimo farle esprimere una preferenza figuriamoci un desiderio. Aveva smesso di volere appaltando all’altro il compito. Aveva sviluppato una capacità naturale di percepire i desideri dell’altro prima che li esprimesse, li assecondava spontaneamente mettendo ciascuno a proprio agio. L’altro fatalmente era indotto ad approfittare di questa sua disponibilità fino a quando Clotilde, magari per un particolare secondario e irrilevante, non si vedeva oggetto di un sopruso ed esplodeva violentemente. Si era conquistata l’etichetta di matta imprevedibile. Il lavoro fatto, soprattutto attraverso la relazione terapeutica, era orientato all’assertività con l’indispensabile premessa dell’ascolto dei propri bisogni e desideri.

La terza strategia, già in precedenza accennata, era la fuga dall’intimità per evitare che fosse scoperto quel bluff che sentiva di essere. Questa dinamica più volte evidenziata nelle relazioni affettive e professionali non era stata purtroppo presa sufficientemente in considerazione nella relazione terapeutica. Anche con lui era stata agita. Forse questo era stato l’errore più grave, rimuginava Biagioli sulla panchina.

Lei era una paziente perfetta e faceva di tutto per accontentare il suo terapeuta che, a sua volta, la gratificava. Si rispecchiavano vicendevolmente. Forse aveva pensato di non poter rovinare questo idillio con la merda che sentiva di avere dentro. E lui l’aveva lasciata fare per paura di affogare in quell’oceano livido di dolore. Anche con lui l’intimità si era arrestata per non deluderlo.

Aveva preferito stare al servizio dei presunti bisogni di Carlo piuttosto che dei suoi. E lui non se ne era accorto. Perchè non parlargli dei suoi propositi suicidi se non per non disturbare come faceva con tutti? Perchè altrimenti scegliere quel modo camuffato e discreto per andarsene. Carlo la immaginò che stesse scusandosi con la vecchia Assunta Pace che aveva trascinato con sé a miglior vita e forse si sarebbe scusata anche con i gestori dell’al di là per l’arrivo anticipato causa di disagi organizzativi.

Tra poco, nonostante fosse domenica di campionato, lo avrebbero raggiunto gli altri colleghi del CIM per portare conforto, come si usa in questi casi, al curante come se fosse un familiare. Sarebbero state dette le solite frasi “era un caso gravissimo”, “non potevi fare altro”, “e’ il nostro lavoro”, “non c’erano segnali evidenti, non potevi prevederlo”, “se volessimo star tranquilli dovremmo ricoverare tutti”, “non è detto sia un suicidio”.

Quando la madre di Clotilde lo raggiunse, per rassicuralo a sua volta, aveva gli occhi umidi di pianto e ciò gli valse il riconoscimento di quella grande sensibilità umana che Clotilde, diceva la madre. Gli aveva sempre accreditato e ne aveva fatto il suo terapeuta più importante, ma anche l’ultimo. Quando, visto il circolo singhiozzante dei signore Pace, si sentì attanagliare da un ulteriore senso di colpa per la dipartita della vecchia nonna ruppe gli indugi e chiese una sigaretta alla madre. Lui, in fondo, non credeva ai fioretti.

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CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

Disturbo da lutto prolungato: ridurre i sintomi con l’intervento integrato tra CBT e tecnica dell’esposizione

FLASH NEWS

La terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento del disturbo da lutto prolungato (PGD) può dare risultati più efficaci se integrata con la tecnica dell’esposizione. 

Il PGD coinvolge un persistente desiderio per la persona cara perduta associato a dolore emotivo persistente, la difficoltà di accettazione della perdita, il senso di vuoto, l’amarezza e la difficoltà a riprendere le proprie attività quotidianamente. Per la diagnosi di disturbo da lutto prolungato i sintomi devono durare almeno sei mesi; a differenza della depressione, la preoccupazione invalidante della persona con PGD è il desiderio bramoso verso la persona cara perduta.

Gli autori dello studio hanno sottoposto per due ora a settimana e per 10 settimane gli 80 paziente con diagnosi di PGD, alla terapia di gruppo CBT; i pazienti poi sono stati sottoposti anche a quattro sessioni di terapia individuale con la tecnica dell’esposizione oppure con la sola CBT . Nella terapia con esposizione, i pazienti rivivono attraverso i ricordi l’esperienza della morte della persona amata perduta. I criteri di efficacia della terapia sono: livelli della depressione, valutazioni cognitive e di funzionamento nel follow-up a sei mesi.

I risultati hanno dimostrato che un trattamento integrato di terapia cognitivo- comportamentale e di tecnica dell’esposizione ha favorito la riduzione di indici di depressione, e ha portato miglioramenti rispetto alle valutazioni cognitive e di funzionamento nel follow-up.

Inoltre i risultati hanno mostrato una riduzione del numero di pazienti che soddisfano i criteri per il PGD.

In conclusione lo studio evidenzia come il rendere accessibili ricordi ed emozioni legate alla perdita di una persona cara può promuovere l’adattamento verso la perdita della stessa e migliorare la qualità della vita della persona a rischio di PGD.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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