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Mindfulness per principianti di Jon Kabat-Zinn – Recensione

L’aspetto fondamentale e peculiare di questo libro é che, a differenza di molti altri libri sulla Mindfulness, non segue un percorso passo-passo di guida alla pratica di consapevolezza, bensì utilizza un formato differente, più legato alla tradizione delle raccolta di “meditazioni” e “riflessioni”. 

[blockquote style=”1″]Nella mente del principiante vi sono molte possibilità, in quella dell’esperto poche[/blockquote]

Suzuki Roshi

Il volume di Kabat-Zinn del 2012, Mindfulness for beginners, é state tradotto in italiano e curato da Anna Lucarelli, Lorenzo Colucci, Franco Cucchio e Gherardo Amadei.

Il libro é dedicato a “l’eterno principiante che é in ognuno di noi”. Questo fa pensare che il libro non sia solo e esclusivamente un libro per principianti, sebbene il titolo faccia tornare alla mente la fortunata collana For Dummies a cui molti sono affezionati.

Sfogliando le pagine del libro la sensazione che sia un lavoro molto più complesso di ciò che farebbe pensare il titolo si conferma.

Dopo una breve introduzione, il libro si sviluppa lungo cinque aree che accompagnano il lettore passo passo nell’introduzione alla pratica di consapevolezza (Mindfulness). Sfogliando l’indice troviamo la prima parte, per iniziare, seguita da sostenere, approfondimento, maturazione, e la pratica.

 

L’aspetto fondamentale e peculiare di questo libro é che, a differenza di molti altri libri sulla Mindfulness, non segue un percorso passo-passo di guida alla pratica di consapevolezza, bensì utilizza un formato differente, più legato alla tradizione delle raccolta di “meditazioni” e “riflessioni”.

Ogni parte del libro, infatti, é composta da paragrafi di una o due pagine che iniziano con una frase, con una piccola suggestione, che poi viene commentata nel resto del capitolo. A livello più elementare e introduttivo, sembra che Kabat-Zinn in questo libro volesse ripercorrere ciò che ha fatto quando nel 1994 ha scritto Wherever you go there you are (edito in italiano da TEA con il titolo “Ovunque tu vada ci sei già”), che ha lo stesso formato, riflessioni sulla pratica, commenti e racconti della propria esperienza di pratica che possono essere letti sia come un continuum di un percorso di pratica durato una vita, sia come singole riflessioni da leggere e rileggere diverse volte in diverse fasi del proprio percorso di pratica personale. 

L’impressione che mi lascia “Mindfulness per principianti” é per alcuni versi simile. Credo sia un libro consigliabile a diverse tipologie di persone. 

Un primo gruppo di lettori potrebbe essere composta da quelle persone che non conoscono nulla della pratica di consapevolezza e ne sono attirati, pur essendo (forse) “vittime” della cattiva informazione o di alcuni stereotipi culturali sulla Mindfulness e sulle pratiche di consapevolezza.

Questo libro potrebbe servire loro per “ripulire” la mente da aspettative errate e per entrare da un ingresso privilegiato (le parole di chi ha portato la Mindfulness nel contesto clinici…) nella pratica e nelle sue “regole”.

Un secondo gruppo di possibili lettori potrebbero essere le persone che, per svariati motivi, stanno sviluppando l’interesse a partecipare a un programma MBSR, o a un percorso di Mindfulness. Tramite la lettura di questo libro possono farsi un’idea più chiara e avere una idea chiara, seppure iniziale, della pratica personale (anche grazie all’aiuto delle audio-guide disponibili su internet nel sito dell’editore).

 

Un terzo gruppo di lettori può essere rappresentato da professionisti che operano nell’ambito della salute, in particolare nell’area della psicologia e psicoterapia. A queste persone, Mindfulness per principianti potrebbe servire a chiarirsi le idee e a comprendere meglio cosa e come funzioni la pratica di consapevolezza, entrata ormai con grande vigore nel mondo clinico e medico (ne testimonia la quantità di pubblicazioni scientifiche sul tema Mindfulness, in continuare a esponenziale crescita).

Ultimi potenziali lettori del volume sono le persone che hanno già una esperienza personale di pratica, o che hanno almeno già svolto un programma MBSR o di pratica di consapevolezza e che vogliano utilizzare le riflessioni e le suggestioni presenti nel volume come stimoli per la pratica personale e per coltivare, per l’appunto, la mente del principiante.

Scrive Kabat-Zinn nelle prime pagine del volume:

[blockquote style=”1″]I principianti iniziano nuove esperienze senza sapere molto, e di conseguenza hanno una mente molto aperta. Un’apertura che é anche molto creativa. Questa é una caratteristica innata della mente, il trucco sta nel non perderla mai. Per riuscirci, la cosa più importante è quella di rimanere in una disposizione d’animo di meraviglia verso il momento presente, che é sempre nuovo, e rinnovare questa disposizione costantemente. Ovviamente si tende a perdere userà freschezza mentale (…). Ma se riusciamo a ricordare periodicamente che ciascun momento é nuovo allora forse quello che sappiamo non ci impedirà di essere aperti a quello che non sappiamo, che é sempre un campo più vasto. Così facendo, una mentalità da principiante sarà sempre disponibile, in ogni momento in cui saremo aperti ad essa. [/blockquote]

(p. 19-20).

Insomma, un volume prezioso, scritto da un non-principiante per “principianti” e non.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Gli interventi basati sulla Mindfulness (2011) di Alberto Chiesa – Recensione 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kabat-Zinn, J. (2014). Mindfulness per principianti.  A cura di Anna Lucarelli, Lorenzo Colucci, Franco Cucchio, Gherardo Amadei. Mimesis editore. ACQUISTA ONLINE

Winter Sleep, Il Regno d’Inverno (2014) – Cinema & Psicologia

Un film straordinario e dal sapore amaro, come quello che accompagna le relazioni che si trascinano nel vortice dei bisogni inespressi, della castrazione emotiva e della rivendicazione, e che obbliga lo spettatore a mettere in discussione le parti più profonde di sé.

Vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2014, il film il Regno d’Inverno – Whinter Sleep di Nury Bilge Ceylan, è un’indagine lenta quanto dolorosa sui lati più oscuri dell’animo umano. Un film avvincente dal punto di vista emotivo, dove il regista riesce magistralmente a portare lo spettatore verso la dissacrazione degli ideali, della morale e dei sentimenti. Una storia di solitudini, di aspettative mancate, di colpe inveite e richieste di perdono celate dall’orgoglio.

Le personalità dei protagonisti si svelano progressivamente, abbandonando le maschere dell’ipocrisia e del perbenismo per lasciare spazio alla rivendicazione e alla rabbia.

Il protagonista Aydin, ex attore di teatro, decide di ritirarsi dalle scene insieme alla moglie per rifugiarsi in un albergo di sua proprietà, l’Othello, incastonato nei monti aggrovigliati dell’Anatolia. L’arrivo dell’inverno accresce ancor di più la discrepanza tra l’immobilità delle sconfinate lande cappadociche coperte di neve e l’oscurità dei cunicoli dell’albergo, dove si sviscerano i monologhi dei personaggi principali. Le discussioni si fanno sempre più incalzanti, i litigi non sconfinano quasi mai nella rabbia espressa, ma vengono controllati egregiamente, come sa fare chi trova nelle parole armi fendenti e lame affilate.

Con lui c’è la dolce e cara Nihal, giovane moglie e compagna di vita, che lascia da parte le proprie aspirazioni in virtù di una vita agiata, fino al crollo. Dopo anni di litigi e turbolenze emotive sceglie di vivere in un’ala distaccata dell’albergo, dove cerca di ritrovare se stessa impegnandosi a inseguire ideali di solidarietà nei confronti dei più disagiati. Sola e disillusa, riverserà sul marito il proprio senso di inadeguatezza e fallimento esistenziale, che porterà alla rottura definitiva della relazione.

Altra figura di spicco nelle vicende sentimentali è la sorella di Aydin, che vive con la coppia. Ancora alle prese con l’elaborazione della separazione dal marito alcolista, intrattiene lunghe chiacchierate con il fratello nella penombra di una piccola stanza, in un crescendo di toni di autocommiserazione ad attacchi diretti verso le reciproche aspettative disattese.

Il protagonista cerca di arrabattarsi in tutte le vicende emotive che si susseguono, cercando la fuga nella scrittura di un libro sulla storia del teatro turco. Personaggio emblematico, dalla mente autarchica e dai connotati malinconici, rivela nel corso del film una celata arroganza e tratti narcisistici che gli impediscono di far fronte in modo empatico alle richieste emotive della moglie e della sorella. Il rifugio da lui costruito diventa la tana di ricordi gloriosi e teatro di dissapori, ai quali risponde con un viaggio verso Istanbul per approfondire gli studi.

Da qualcuno è stato definito un film presuntuoso, nei suoi 196 minuti, forse quanto può esserlo l’animo umano, quando il bisogno di proteggere il proprio mondo interno spinge verso l’incomunicabilità e l’incapacità di riflettere sulle proprie mancanze.

Un film lentissimo e al contempo violento, tale da lasciare lo spettatore incollato allo schermo nella speranza di una riconciliazione. Nelle battute finali il protagonista torna al rifugio. Rimangono nella mente le immagini sbiadite della moglie dietro alla finestra e il monologo interno di lui, mentre chiede perdono per una colpa che non conosce.

Un film straordinario e dal sapore amaro, come quello che accompagna le relazioni che si trascinano nel vortice dei bisogni inespressi, della castrazione emotiva, della rivendicazione e che obbliga lo spettatore a mettere in discussione le parti più profonde di sé.

 

TRAILER DEL FILM:

 

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Cinema & Psicoterapia

Come la tecnologia sta cambiando il nostro cervello

FLASH NEWS

La tecnologia ha modificato la fisiologia umana: ci fa pensare, sentire e sognare in modo diverso;  influenza la nostra memoria, l’attenzione e i cicli del sonno. Tutto questo grazie alla neuroplasticità cerebrale, cioè la capacità del cervello di modificare il proprio comportamento in base a nuove esperienze.

Alcuni esperti di cognizione hanno elogiato gli effetti della tecnologia sul cervello, lodando la sua capacità di organizzare le nostre vite e liberare le nostre menti. Altri, invece, temono che la tecnologia abbia paralizzato i nostri tempi di attenzione, riducendo la creatività e rendendoci impazienti.

 

Ecco alcuni dei modi in cui la tecnologia sta “cablando”, nel bene e nel male, il nostro cervello: 

– Sogniamo a colori.

L’impatto della televisione sulla nostra psiche è così profondo che può influenzare i nostri sogni. Nel 2008, uno studio condotto presso l’Università di Dundee in Scozia ha scoperto che gli adulti di età superiore ai 55 anni che erano cresciuti in una famiglia con un televisore in bianco e nero erano più propensi a sognare in bianco e nero. Partecipanti più giovani, che sono cresciuti nell’era del Technicolor, quasi sempre sognano a colori.

– Sperimentiamo FOMO (fear of missing out)

cioè la paura di perdersi qualcosa, di sentirsi esclusi, definita dal New York Times come “una miscela di ansia, inadeguatezza e irritazione che può divampare mentre navighiamo veloci nei social media”.

Prima di Instagram e Facebook, passare il sabato sera a casa invece che fuori in compagnia, lasciava al massimo un vago senso di tristezza, ma grazie ai social media, quella sensazione è aggravata da immagini, video e messaggi di cene squisite e feste vorticose a cui abbiamo, aimè, mancato.

– La “sindrome da vibrazioni fantasma”

In uno studio del 2012 pubblicato sulla rivista Computers and Human Behavior, i ricercatori hanno scoperto che l’ 89% dei 290 studenti intervistati ha dichiarato di sentire “vibrazioni fantasma”, cioè la sensazione fisica che il loro telefono stava vibrando, anche quando non era vero, con una frequenza di una volta ogni due settimane.

È esperienza comune che la stessa cosa accada anche con il suono del cellulare, cioè lo sentiamo suonare anche quando non sta suonando.

– L’insonnia e l’alterazione dei ritmi circadiani

Siamo tecnofili abituati ad addormentarsi con il computer portatile incandescente di fianco al letto dopo aver visto l’ultima puntata della nostra serie preferita, o aver letto sull’ipad il capitolo di un libro. Queste routine notturne possono però interferire con i nostri ritmi circadiani.

I neuroscienziati sospettano che le luci incandescenti emesse dai computer portatili, schermi di tablet e smartphone, interferiscano con segnali interni del nostro corpo e con gli ormoni del sonno. L’esposizione alla luce può ingannare il cervello facendogli credere che è ancora giorno, e può potenzialmente avere effetti duraturi sui ritmi circadiani del corpo. I nostri occhi sono particolarmente sensibili alla luce blu emessa dagli schermi. Questo rende più difficile addormentarsi, soprattutto per coloro che già lottano con l’insonnia.

– Poca memoria e capacità attentive

 

In passato avere buona memoria era un’abilità importante; ora, nell’era di google, in cui praticamente qualsiasi informazione è immediatamente a portata di mano, non ci preoccupiamo di ricordare…chi ha bisogno di memorizzare la capitale del Mozambico, quando si può semplicemente chiedere a Siri?

Nel 2007, un neuroscienziato ha intervistato 3.000 persone e ha scoperto che gli intervistati più giovani hanno meno probabilità di ricordare le informazioni personali di base, come il compleanno di un parente o anche il proprio numero di telefono. Allo stesso modo, gli studi hanno dimostrato che i calcolatori possono diminuire semplici competenze matematiche. Alcune persone non sono più in grado di navigare nella loro città senza l’aiuto del GPS.

I Social media e Internet hanno anche dimostrato di ridurre i nostri tempi di attenzione. Gli individui immersi nei media digitali hanno difficoltà a leggere libri per lunghi periodi di tempo, e spesso “sfiorano” articoli on-line piuttosto che leggere ogni parola. Questo fenomeno può essere particolarmente preoccupante per i giovani, i cui cervelli sono più malleabili e, di conseguenza, potrebbero non riuscire a sviluppare le capacità di concentrazione.

– Abbiamo migliori capacità visive …

Uno studio del 2013 ha trovato che i videogiochi, sopratutto quelli in prima persona, implementano i processi decisionali e le capacità visive. Infatti l’alto coinvolgimento costringe i giocatori a prendere decisioni veloci sulla base di segnali visivi; questo migliorerebbe le capacità di attenzione visuo-spaziale e la capacità di analizzare i dettagli del proprio ambiente fisico. I giocatori migliorano anche nel rilevare il contrasto tra gli oggetti in ambienti poco illuminati.

Anche complessi giochi di strategia, come Starcraft possono migliorare la “flessibilità cognitiva”, aumentando la capacità di multitasking.

-Minor controllo degli impulsi

Purtroppo, lo stesso studio del 2013 sui videogiochi ha rilevato come alcuni di questi possano inibire la capacità dei giocatori di tenere a freno il comportamento impulsivo e aggressivo. I ricercatori concludono che, costringendo i giocatori a prendere decisioni veloci in situazioni violente, si inibisce il “controllo esecutivo proattivo” su reazioni impulsive e impulsi; i giocatori erano, cioè, più propensi a reagire con immediatezza, ostilità o aggressività incontrollata nella vita reale.

Altri studi hanno motivato l’idea di un legame tra videogiochi violenti e problemi di aggressività e attenzione.

-Siamo più creativi

‪Clay Shirky sostiene che Internet valorizza il “surplus cognitivo”: i social media richiedono agli utenti di interagire con testi, immagini e video in un modo che il semplice guardare la televisione non fa. I social media promuovono una cultura della condivisione e gli utenti si sentono più inclini a creare e condividere qualcosa di proprio, sia esso un album di Flickr, una recensione di un libro, o un contributo a Wikipedia.

“L’accumulo di tempo libero tra la popolazione istruita del mondo – forse un trilione di ore l’anno – è una nuova risorsa.”

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il cervello universale (2013) di Miguel Nicolelis – Neuroscienze & Tecnologia

 

BIBLIOGRAFIA:

Resto Umano (2014) di A. P. Lacatena: la storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna.

Questo libro narra la storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna. Miki è un uomo in un corpo di donna con una storia da raccontare: la storia di Michela, diventata Miki.

Il libro è composto da due parti: la prima è la storia di vita di Miki, la seconda è un’appendice dove il lettore può trovare approfondimenti in merito alle tematiche trattate nella ricostruzione del protagonista.

Una storia vera intensa e lucida, raccontata con la serenità che caratterizza chi è sopravvissuto al peggio, corredata da una serie di riferimenti tecnici e informazioni più specifiche su tossicodipendenza, su transessualismo e sulle tematiche sociali trattate.

E’ soprattutto, un romanzo biografico in cui non c’è spazio per luoghi comuni, condanne, pregiudizi, patetismi e favole.

Michela, già da bambina, vive un dramma interiore al quale non sa dare un nome e che la porta presto a scegliere di vivere per e di strada, dove incontra compagnie pericolose, sostanze stupefacenti (l’eroina è la mia signora, il mio corpo il suo regno!), il carcere e infine la contrazione dell’AIDS. Le prime esperienze sentimentali e sessuali la inducono a respingere gli uomini e preferire le attenzioni delle donne, dapprima amiche poi qualcosa di più. Fino a quando le viene diagnosticato un carcinoma maligno all’utero curabile solo con la rimozione dell’organo: quasi una liberazione per Michela, che inizia così il suo percorso per diventare Miki e, forse, finalmente se stesso.

Maschio o femmina alla nascita, tale devi rimanere per tutta la vita. Se questa cosa ti fa soffrire, al mondo non interessa. Vivitelo come vuoi, ma senza che quel dolore faccia troppo rumore.

Ricostruendo la storia di Miki, la Dott.ssa Lacatena ha narrato un’esistenza di grande vulnerabilità e sofferenza, troppo spesso ignorata dalla società, cercando di restituirle visibilità e valore. Dipendenza patologica, detenzione, AIDS e transessualismo sono entità di devianza, che non dispongono di validazioni e approvazioni sociali da parte della collettività. Le società e le culture possiedono una propria configurazione di genere (maschio e femmina), e forniscono pertanto modelli di condotta sessuale specifici e definiti culturalmente. Il rapporto tra i sessi è, infatti, un principio imprescindibile nell’ambito dei processi sociali, configurandosi più precisamente come struttura sociale di genere, attraverso la quale vengono apprese norme e valori.

Il transessualismo si configura come un disturbo dell’identità di genere. Il Transessualismo (Benjamin, 1953) può essere definito come il desiderio di un cambiamento di sesso da riportare a un’identificazione completa con il genere opposto, negando e cercando di modificare il sesso biologico di origine. Esso è stato inserito nel DSM-IV e nell’ICD-10, nei disturbi di genere; nel DSM V invece è stato derubricato come disturbo mentale. Questa depatologizzazione del transessualismo ha acceso un dibattito, ancora in corso, che comprende numerosi piani di dialogo (socio-culturale, normativo, economico,…). L’approccio multidisciplinare appare imprescindibile al cospetto di un fenomeno che porta con sé implicazioni sociali, psicologiche, biologiche, giuridiche, quando non di tipo bio-etico.

La sfida attuale è di sottrarre una questione così complessa al quadro puramente ideologico.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Ai Confini delle Diagnosi: La Disforia di genere – SOPSI 2014 – LGBT

BIBLIOGRAFIA:

  • Lacatena, A.P. (2014), Resto Umano, Chinasky Editore ACQUISTA
  • Benjamin,H. (1968) Il fenomeno transessuale, Roma
  • Ferracuti, F. (1988) in Aspetti generali, psicologici e psichiatrico-forensi del transessualismo da Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense VIII, Edizioni Giuffrè
  • Valerio, P., Bottone, M., Vitelli, R., Sisci, N. (2006) L’identità Transessuale tra Storia e Clinica in Gay e Lesbiche in Psicoterapia, Cortina Editore
  • Ruspini, E. (2003) Le identità di genere, Collana Le Bussole, Carocci Editore.

Il Piacere derivante da attività rischiose e la Ricerca di Sensazioni

Massimiliano Iacucci

Oggi tratteremo di una motivazione che, ad un primo sguardo, sembra presentare difficoltà interpretative particolari: si tratta del fascino che le attività rischiose esercitano su certi individui. Tali attività sono azioni dall’esito aperto in cui, nonostante l’incertezza del risultato, vengono messe in gioco conseguenze importanti. In alcuni casi il rischio viene definito come la tensione verso un oggetto-meta non sicuramente raggiungibile (Kogan, Wallach 1967).

Tuttavia, di regola, un’azione viene sentita come realmente rischiosa solo quando il suo corso sfavorevole implica anche una perdita. Non solo l’incertezza dei guadagni, ma anche la possibilità di trovarsi alla fine dell’azione con qualcosa in meno di quanto si aveva all’inizio rendono quindi rischiosa una determinata attività.

Tuttavia vale la pena rischiare solo se, qualora gli eventi prendano una piega positiva, i guadagni siano particolarmente elevati. Un uomo d’affari o uno speculatore di borsa che riflettono sul fatto di investire o meno il loro denaro in un progetto non completamente sicuro potrebbero rappresentare casi tipici di questo calcolo razionale degli investimenti.

Accettare rischi senza realistiche prospettive di vantaggiosi profitti sarebbe, in ogni caso, incomprensibile. Tuttavia esistono moltissimi esempi del fatto che gli uomini non seguono calcoli razionali di questo genere. Talvolta sono addirittura disposti a pagare per esperire lo stato di insicurezza. Gli occasionali frequentatori dei casinò che, ogni volta, rischiano un determinato importo precedentemente fissato, esemplificano questo fatto.

Essi, di solito, sono consapevoli che la probabilità di perdere denaro è maggiore della speranza di vincerne. Ciononostante investono i soldi. Indipendentemente dal fatto che essi siano contenti di respirare l’atmosfera del casinò, in questo caso predominano innanzitutto gli stimoli, la tensione e l’eccitazione vissuti nelle fasi in cui è un elemento incalcolabile della situazione (per esempio, il rotolare della pallina della roulette) che può decidere se improvvisamente sì vincerà una forte somma oppure no. Ma il caso del gioco è compatibile con il modello di investimento razionale: si è pur sempre in vista di un risultato che, nel caso di successo, potrebbe essere di molto superiore all’investimento. 

Completamente inconciliabili con il modello dell’investimento razionale sarebbero invece i casi in cui un individuo mette a repentaglio valori importanti senza nessuna prospettiva di risultati vantaggiosi. Ciononostante, nei fine settimana assolati, moltissimi rocciatori si arrampicano sulle pareti più difficili; molte persone si librano in volo su deltaplani o si gettano con il parapendio; i motociclisti sfrecciano veloci sfiorando il suolo nelle curve; gli sciatori azzardano la discesa di ripidi e stretti canaloni; in giorni di tempesta i surfisti si gettano nell’inferno di onde alte diversi metri facendo il giro della morte. Nella pratica di sport rischiosi gli individui sborsano parecchi soldi per le attrezzature, i viaggi, investono tempo e fatica, litigano con il partner, rischiano la salute e la vita, e, in caso di successo, non hanno nulla di tangibile. Ma allora cos’è che spinge a ricercare questo tipo di rischio?

Csikszentmihalyi (1975) ha scoperto proprio negli scalatori esperienze flow (tabella 1) particolarmente intense (deep flow). Essi raccontano che, mentre si arrampicano, sono di necessità completamente concentrati sullo spazio che immediatamente li circonda, cioè sull’appiglio che la mano deve afferrare nei secondi successivi. La loro percezione del tempo passato si contrae al massimo ai trenta secondi precedenti e la loro pianificazione non supera i cinque minuti. Non esiste assolutamente nulla oltre all’azione che stanno ora svolgendo: tutto è chiaro e limitato all’arrampicarsi, tanto che la vita con le sue contraddittorie esigenze e i suoi problemi in questi momenti non esiste. In casi ideali sembra quasi che i movimenti si adeguino naturalmente alla roccia: senza riflettere, si fanno le cose giuste.

Si potrebbe sicuramente ammettere che gli stati flow possano avere un grado di incentivo fortemente elevato. Rimane tuttavia aperto il problema circa la ragione che spinge alcuni individui proprio all’arrampicarsi. L’esperienza flow si può provare anche giocando a scacchi o ballando (Csikszentmihalyi, 1975), suonando (Siebert, Vester, 1990) o dipingendo (Hentsch, 1992) e senza il pericolo che la minima distrazione possa provocare gravi incidenti o avere conseguenze fatali.

Tabella 1. Componenti dell’esperienza “flow”

tab 1

Sembrerebbero esservi delle differenze individuali nell’atteggiamento verso il “pericolo di perdere la vita”, in alcuni individui procura paura, in altri eccitazione. Il concetto di sensation seeking è quello che ha maggiormente stimolato questo tipo di ricerca (Zuckerman, 1971; 1979; 1994).

 

In esperimenti sulle ripercussioni a lungo termine dell’impoverimento di stimoli (la cosiddetta deprivazione sensoriale), Zuckerman aveva notato che alcuni individui sopportavano queste situazioni monotone meglio di altri. Questi ultimi diventavano subito inquieti e avevano sensazioni di forte avversione quando mancavano le stimolazioni.

Zuckerman ha ipotizzato che le differenze emerse in questa insolita situazione sperimentale derivassero da una disposizione comportamentale primaria che si presenta anche in situazioni diverse. Egli ha chiamato questa disposizione sensation seeking (ricerca di sensazioni e impressioni). Essa comprende il bisogno, diverso per ogni individuo, di impressioni varie, nuove e complesse, unito alla disponibilità ad accollarsi, proprio per amore di esse, rischi fisici e sociali.

Anche per ciò che riguarda la sensation seeking si può pensare all’esistenza di un retroterra biologico-evoluzionistico. Gli esseri viventi con un forte bisogno di impressioni e sensazioni ottengono necessariamente maggiori informazioni sul loro ambiente. Rapportandosi alle condizioni esterne, essi sviluppano competenze maggiori rispetto agli esseri viventi che sono appagati da quello che già sanno, o che rifuggono intimoriti da tutto ciò che è nuovo.

Nel 1969 Zuckerman ha ipotizzato che le differenze nell’ambito della sensation seeking risalissero semplicemente all’esistenza di standard individualmente diversificati relativi al livello di eccitazione ottimale del sistema nervoso. Gli individui con un alto standard di eccitazione sono destinati ad avere stimolazioni più intense e sono, di conseguenza, più spesso alla ricerca di sensazioni e impressioni di quanto non accada agli individui con uno standard più basso di eccitazione ottimale. Dal momento che l’attivazione generale del sistema nervoso centrale (Duffy, 1957) non è stata dimostrata nell’ambito della ricerca psicofisiologica, anche Zuckerman ha abbandonato questo tipo di approccio al problema.

Egli ha ripreso un’idea di Stein (1978), secondo la quale l’interesse e la curiosità sono prodotti da processi biochimici nel sistema limbico, nei quali la dopamina e la monoaminossidasi nel sangue hanno un ruolo importante (Zuckerman 1984). Le differenze individuali di questi processi dovrebbero quindi essere le cause delle differenze di sensation seeking. Tuttavia anche queste ipotesi non sono del tutto accettate (Knorring, 1984) e, nonostante i molteplici esperimenti fatti, la fondazione biochimica della sensation seeking non è ancora stata dimostrata scientificamente ( Schneider, Rheinberg, 1996).

Considerando il concetto di sensation seeking da un punto di vista psicologico, il primo problema che si pone è la determinazione di una simile disposizione. Per fondare una sindrome comportamentale quale la sensation seeking, sarebbero teoricamente necessarie moltissime osservazioni di differenti individui posti in situazioni e in momenti diversi. Per motivi economici l’osservazione diretta è stata sostituita da un questionario, in cui gli intervistati davano informazioni sulle modalità comportamentali in questione. Sono stati così raggruppati quegli enunciati relativi a preferenze e a modi di reazione che si riferivano sia a impressioni forti, nuove e ricche di variazioni, sia ad attività rischiose, sia infine all’evitamento della monotonia e della noia. Dalle analisi statistiche (analisi fattoriali) è emerso che la sensation seeking comprende quattro diverse componenti (Tabella 2).

Tabella 2. Le quattro componenti della “sensation seeking”

tab 2Nella versione attuale (la quinta) ogni componente viene determinata da dieci enunciati. Se si tengono presenti le singole componenti, allora risulta che esse hanno correlazioni reciproche medio-basse (da r = 0,20 a r = 0,40). A causa di ciò, Zuckerman (1979) ha ritenuto opportuno costruire un valore complessivo dato dalla somma delle componenti, che dovrebbe riflettere la tendenza alla sensation seeking di un individuo. Da un punto di vista statistico questo procedimento è piuttosto criticabile. Anche alla luce dei risultati di ricerche ulteriori bisognerebbe riflettere se non sia più proficuo lavorare con le singole componenti, anziché con il valore complessivo.

Affiancando la scala di Zuckerman ad un test della personalità, il test 16PF di Cattell (1956), si è infatti dimostrato che le diverse componenti della sensation seeking dipendevano, di volta in volta, da altre caratteristiche della personalità.

1. La componente “thrill and adventure seeking” (ricerca di brivido e di avventura) è legata ai fattori della personalità “scarsa tendenza al conflitto”, “elevata forza dell’Io”, “fiducia” e “iniziativa sociale”;

2. l’”experience seeking” (ricerca di esperienze) invece, ai fattori “non conformità” e “scarsa autodisciplina”;

3. la componente “disinhibition” (disinibizione) a “impulsività” e “dipendenza dal gruppo”;

4. la “boredom susceptibility” (suscettibilità alla noia), infine, è in relazione con “diffidenza” e “radicalismo”.

L’elemento decisivo non è quindi lo sport in sé, bensì – di fatto – il suo contenuto di rischio. Proprio la presunta pericolosità di ogni singola disciplina è in rapporto con la sensation seeking. Sciatori che hanno avuto incidenti presentano valori di sensation seeking più elevati rispetto agli sciatori che finora non ne hanno avuti.

Sono state dimostrate molteplici correlazioni con i più diversi ambiti comportamentali, i cui valori sono spesso bassi e talvolta medi; sono così emersi rapporti plausibili della sensation seeking con la disposizione al rischio viaggiando in macchina o in motocicletta nel traffico stradale, con il consumo di droghe, con la sessualità, e addirittura con la delinquenza.

In ogni caso, tutte queste ricerche non possono colmare il grave deficit teorico del modello di sensation seeking. Zuckerman si concentra sulla possibilità di riportare la disposizione alla sensation seeking, misurabile sulla base di questionari, a processi nervosi e biochimici. Tuttavia non affronta il problema della chiarificazione teorica del rapporto tra tale disposizione e il comportamento. Non è ancora stato definito quali siano i fattori situazionali e quali siano i processi emotivi e cognitivi che vengono stimolati da una determinata intensità di sensation seeking, la cui azione reciproca porta poi ad un certo comportamento. Questa spiegazione del comportamento si basa semplicemente sulla teoria delle caratteristiche individuali. I tratti particolari della condotta sono riportati ai tratti particolari di base della persona. L’equazione del comportamento elaborata da Lewin (1946), secondo cui la condotta è sempre funzione della persona e della situazione, non viene presa in considerazione. Ciononostante il lavoro di Zuckerman è importante perché ha fornito un modello di alcune caratteristiche personali che portano verso situazioni rischiose.

 

Una delle componenti isolate, cioè la predilezione di sport rischiosi, può essere ulteriormente spiegata tramite l’analisi degli incentivi incentrati sull’attività (Rheinberg, 1987; 1996). Nelle ricerche sugli incentivi propri di sport pericolosi, per esempio il motociclismo e lo sci, oltre ad un elevato numero di incentivi diversi, è emerso anche un insieme di tre componenti relative al rischio.

La prima riguarda esperienze valutate positivamente, quali «il solleticare l’emozione» o «lo stuzzicare la paura». Tale componente corrisponde esattamente al thrill and adventure seeking di Zuckerman (1979). Queste indagini hanno però messo in evidenza che tali componenti non sembrano caratterizzare in modo adeguato la motivazione agli sport pericolosi. Cohen (1960), Slovic (1962) o Kogan e Wallach (1964) avevano richiamato l’attenzione su un’importante differenza relativa a situazioni rischiose. La misura in cui il corso di un evento dipende dal caso (per esempio, nella roulette) e la misura in cui dipende dal soggetto e dalla sua abilità (per esempio, in una difficile scalata al successo) costituiscono l’elemento decisivo per tale divisione. Coloro che praticano sport pericolosi hanno una forte tendenza al rischio legato alla propria abilità.

Nel frattempo è stata sviluppata una scala ridotta, che rileva la disponibilità ad accettare rischi dipendenti dall’abilità vs. dal caso (Risikobevorzugungs-Skala, Rheinberg, 1998). Le ricerche condotte su sciatori hanno mostrato innanzitutto che questo gruppo di sportivi amanti del rischio preferisce chiaramente, come atteso, rischi dipendenti dalla competenza piuttosto che rischi dipendenti dal caso. Alla luce di tali risultati sarebbe fuorviante certificare a coloro che praticano discipline sportive pericolose un inconscio desiderio di morte, che potrebbe essere dedotto dalla pulsione di morte freudiana (Freud 1920). Sportivi di questo tipo preferiscono invece, sistematicamente, situazioni in cui i «valori» superiori – cioè l’incolumità fisica o la vita stessa – dipendono dalla loro abilità. Abbiamo quindi a che fare con una basilare tematica della riuscita: la conferma del successo in condizioni di emergenza. In questo caso successo e insuccesso hanno conseguenze vitali e non solo simboliche; in nessun’altra situazione, infatti, la propria capacità di riuscita potrebbe essere più importante. Gli sport pericolosi provocano questa sensazione a coloro che li praticano.

La seconda componente della motivazione a sport rischiosi, oltre al thrill and adventure seeking, è quindi rappresentata da un motivo di riuscita fortemente accentuato. Entrambe le componenti si riferiscono l’una all’altra. Come è appena stato detto, l’eccitante pericolo vitale accentua l’importanza dell’abilità/competenza richiesta al soggetto. D’altra parte la valutazione della minaccia che produce il brivido (thrill) dipende decisamente dalla stima che il soggetto compie delle proprie capacità (capacità di controllo degli eventi). Gli stessi sportivi, per esempio l’alpinista estremo Reinhold Messner, interrompono l’impresa quando l’influenza di fattori incontrollabili si fa troppo elevata. Essi vivono alcune situazioni (per esempio, il traffico stradale) come fossero estremamente pericolose, poiché gli errori altrui mettono in campo rischi che non possono essere compensati dalla loro abilità. In questo senso ci si può sentire più sicuri in parete che non in autostrada.

La terza componente dell’incentivo nelle attività sportive pericolose – accanto alla tematica della riuscita e alla ricerca di eccitazione – corrisponde a ciò che Duncker (1940) aveva definito dynamic joys. Essa è stata determinata in modo più preciso da Caillois [1958], il quale ha analizzato «i giochi» in quanto attività prive di scopi. Egli ha formato un gruppo di «giochi» che ha definito ilinx (vortice, vertigine). Si esperisce quando il corpo viene posto in determinati stati dí movimento: «la caduta o il lancio nello spazio, la rotazione vertiginosa, gli scivoloni, la velocità, l’accelerazione in un movimento lineare oppure la sua combinazione con un movimento rotatorio» (Caillois 1958, 33). L’attrattiva di questi stati può essere osservata già nei bambini piccoli che strillano di gioia quando li si butta in aria, Molti (ma non tutti!). Gli adulti spendono denaro per avere esperienze simili sulle montagne russe o con il bungeejumping. Con Kiphard (1999) possiamo denominare questo stimolo componente vestibolare.

Tabella 3. La triade degli incentivi alle attività sportive rischiose (Rheinberg, 1996)

tab 3

La tabella 3 mostra in sintesi la triade degli incentivi alla motivazione ad attività sportive rischiose. Questi tre incentivi spingono un individuo all’esecuzione di attività sportive pericolose, in cui la possibilità di una minaccia vitale potenzia l’eccitazione rendendo l’esperienza più intensa e facendogli comprendere la fondamentale importanza della sua abilità per la sopravvivenza stessa.

Restano tuttavia due aspetti che necessitano di ulteriori chiarificazioni sia teoriche che empiriche: da un lato bisognerebbe spiegare fino a che punto la predilezione per un certo incentivo – predilezione che si determina con i concetti di motivo o disposizione – possa essere intesa come valore costante della persona. (In questo caso si dovrebbero studiare per esempio i rapporti con la disposizione alla sensation seeking). Dall’altro lato bisognerebbe spiegare come tale predilezione influenzi il tipo di attività che un individuo intraprende e le modalità con cui la esegue. Entrambi gli aspetti sono ancora poco chiari. Questo tipo di analisi di incentivi impedisce esclusivamente che la ricostruzione motivazionale venga frettolosamente riportata a uno o due modelli teorici preformulati.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Caillois, R., (1958). Man, Play and Games. Published by Librairie Gallimard.
  • Cattell, R. B., (1956). Validation and intensification of the sixteen personality factor questionnaire. Journal of Clinical Psychology, 12, 204–214.
  • Cohen, J., (1960). Chance, Skill and Luck: The Psychology of Guessing and Gambling.Baltimore: Penguin Books.
  • Csikszentmihalyi, M., (1975). Beyond boredom and anxiety. San Francisco: Jossey-Bass.
  • Duffy, E., (1957). The psychological significance of the concept of “arousal” or “activation.” Psychological Review, 64, 265-275.
  • Duncker, K. (1940). On pleasure, emotion, and striving. Philos. Phenomenol. Res. 1, 391/430.
  • Freud, S. (1920). Al di la del principio di piacere”, Opere, vol. IX, Turín, Boringhieri
  • Hentsch, A. (1992). Motivationale Aspekte des Malens. Eine Anreizanalyse. Diplom-Arbeit, Psychologisches Institut der Universität Heidelberg.
  • Kiphard, E.J. (1999). Humor, Komik und Lachen als therapeutische Elemente, in Praxis der Psychomotorik, Heft 4
  • von Knorring, L. (1984). The biochemical basis of sensation-seeking behavior. Behavioral and Brain Sciences 7 (3):443.
  • Kogan, N., Wailach, M. A. (1967). Risk taking as a function of the situation, the person, and the group. In New directions in psychology III. New York: Holt, Rinehart and Winston. 
  • Kogan, N., Wallach, M. A., (1964). Risk-Taking: A Study in Cognition and Personality.New York: Holt, Rinehart and Winston, Inc.
  • Lewin, K. (1946) ‘Action research and minority problems’, in: G.W. Lewin (Ed) (1948) Resolving Social conflict. Harper & Row, London
  • Renn, O. (1989). Risikowahrnehmung – Psychologische Determinanten bei der intuitive Erfassung und Bewertung von technischen Risiken. In: Hosemann, G. (Hrsg.), Risiko in der Industriegesellschaft (S. 167 – 192). Erlangen.
  • Rheinberg, F. (1996). Flow-Erleben, Freude an riskantem Sport und andere” unvern\ünftige” Motivationen. Motivation, Volition und Handlung. Enzyklop\ädie der Psychologie C/IV/4, 101–118.
  • Rheinberg, F. (1987). Fragen zum Erleben von T\ätigkeiten. (Ein Fragebogen zum Erfassen von Flow-Erleben im Alltag.), Psychologisches Institut der Universität Heidelberg.
  • Schneider, K., Rheinberg, F. (1996). Enyclopädie der psychologie. Temperaments- und persönlichkeitsunterschiede. Differentielle psychologie und persönlichkeitsforschung 3. Göttingen: Hogrefe.
  • Siebert, T., Vester, T. (1990). Zur Anreizstruktur des Musizierens: Motivationsanalyse einer Tätigkeit. Diplom-Arbeit, Psychologisches Institut der Universität Heidelberg.
  • Slovic, P., (1962). “Convergent Validation of Risk Taking Measures,” Journal of Abnormal and Social Psychology, 65, 68-71.
  • Stein L., (1978). Brain endorphins: possible mediators of pleasure and reward. Neurosci Res Program Bull.;16:556–563
  • Zuckerman, M., (1994). Behavioral expressions and biosocial bases of sensation seeking. New York, NY: Cambridge University Press.
  • Zuckerman, M., (1984). Sensation seeking: a comparative approach to a human trait. Behavioural and Brain Sciences, 7, 413-471.
  • Zuckerman, M., (1979). Sensation seeking. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum.
  • Zuckerman, M., (1971). Dimensions of sensation seeking. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 36(1), 45-52.

L’ossitocina: come l’ormone dell’amore regola il comportamento sessuale

FLASH NEWS

Nel loro insieme i risultati evidenziano che la nuova classe di neuroni ossitocina-reattivi regola un aspetto importante del comportamento sociale femminile nei topi.

L’ossitocina è stata chiamata “l’ormone dell’amore” perché svolge un ruolo importante nei comportamenti sociali, come il caregiving e il legame di coppia.

Un nuovo studio pubblicato su Cell, ha scoperto le cellule cerebrali che reagiscono all’ossitocina e che sono necessarie affinchè i topi femmina provino interesse sociale per i topi maschi durante l’estro – la fase sessualmente ricettiva del loro ciclo. Questi neuroni, che si trovano nella corteccia prefrontale, possono svolgere un ruolo in altri comportamenti sociali ossitocina-correlati, come l’intimità, l’amore, o il legame madre-figlio.

I risultati dello studio suggeriscono che le interazioni sociali, che stimolano la produzione di ossitocina, utilizzino questo circuito recentemente identificato per coordinare le risposte comportamentali complesse, indotte da mutate situazioni sociali in tutti i mammiferi, compreso l’uomo.

I neuroni ossitocina-reattivi si trovano in molte strutture cerebrali – testimoniando l’importanza di questo ormone in una varietà di comportamenti sociali – anche se non è chiaro quali siano le cellule bersaglio dell’ossitocina, o come l’ormone influisca sui circuiti neurali.

Un indizio emerge dalla scoperta di una popolazione di neuroni nella corteccia prefrontale mediale che esprimono il recettore dell’ossitocina. Quando i ricercatori hanno interrotto l’attività di questi neuroni, i topi femmina hanno perso interesse nei topi maschi durante l’estro. Al contrario, le femmine mantengono un livello normale di interesse sociale in altre femmine durante l’estro, e in topi maschi, quando non sono in estro. Inoltre, il comportamento sociale dei topi di sesso maschile non è stato influenzato dal silenziamento di questi neuroni.

Nel loro insieme i risultati evidenziano che la nuova classe di neuroni ossitocina-reattivi regola un aspetto importante del comportamento sociale femminile nei topi.

“Il nostro lavoro mette in evidenza l’importanza della corteccia prefrontale nei comportamenti sociali e sessuali e suggerisce che questa popolazione di cellule critiche può mediare su altri aspetti del comportamento in risposta ai livelli elevati di ossitocina che si verificano in una varietà di contesti differenti”, dice Heintz.

Le future indagini sui meccanismi responsabili dell’attivazione di questo circuito potrebbero anche fornire indizi utili alla comprensione del disturbo dello spettro autistico e di altri disturbi comportamentali.

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Monogamia & Ossitocina 

BIBLIOGRAFIA:

Neurobufale: miti e luoghi comuni sulle Neuroscienze nei discorsi di tutti i giorni

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Dal blog di Annamaria Testa, Nuovo e Utile:

Fino a una manciata di decenni fa nessuno aveva la più pallida idea di quello che succede nel cervello umano, “il singolo oggetto fisico più complesso dell’universo” secondo il neuroscienziato Gerald Edelman. Adesso i ricercatori cominciano ad averne di più precise, e anche il grande pubblico, cioè tutti noi. Peccato che, per quanto riguarda il “tutti noi”, si tratti spesso di bufale: nient’altro che neuro-miti, idee infondate o distorte, insomma bufale, diffuse però in tutto il mondo. Che vanno sfatate perché, per esempio, a partire da queste, a scuola si attivano pratiche educative inefficaci. O perché, aggiungo io, sempre a partire da queste si diffondono idee esoteriche, e ugualmente inefficaci, sulla creatività. Qui di seguito vi ricordo tre neuro-miti nei quali, con buona probabilità, ci siamo imbattuti tutti quanti…

Idee 120. Non credete a queste bufale sul cervelloConsigliato dalla Redazione

L’emisfero destro creativo? Una bufala. Il fatto che usiamo appena il 10 per cento del nostro cervello? Una sciocchezza. Il mito dei tre anni? Solo un mito. (…)

Tratto da:

 

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Analisi di un caso di mobbing: la storia di Marco – Psicologia del Lavoro

Una lenta discesa all’inferno: chi ne parla è un lavoratore che definisce così su un blog il suo essere vittima sul posto di lavoro. Nel seguente articolo sarà analizzata la sua storia di Mobbing.

L’obiettivo del seguente articolo consiste nell’analizzare un caso di Mobbing pubblicato su un blog; l’autore intitola la sua testimonianza una lenta discesa all’inferno (il link della testimonianza è in bibliografia). Si procederà con un iniziale chiarimento delle caratteristiche che portano a definirla come caso di Mobbing; dopodiché sarà esaminata la situazione attraverso il modello sul Mobbing multicausale di Zapf (1999) e, infine, saranno avanzate delle prospettive di intervento.

 

Identificazione dei comportamenti vessatori e dei fattori di rischio Mobbing

Tipologie di comportamenti riscontrati nella testimonianza

La situazione presa in analisi presenta molte tipologie di comportamenti che si possono ricondurre al Mobbing da diversi punti di vista:

  • Comunicazione. La possibilità di esprimersi della vittima è limitata e viene in molte occasioni interrotto quando parla, sia dal titolare sia dai suoi responsabili. Inoltre Marco è vittima di continue critiche da parte del titolare dell’azienda sul suo lavoro e ribadisce più volte che subiva rimproveri e gli veniva continuamente ricordato quanto costasse all’azienda. I continui lamenti dovuti al suo demansionamento e al suo stipendio tagliato non sono presi in considerazione. È inoltre vittima di minacce da parte del suo titolare, soprattutto nel periodo in cui gli chiedeva di firmare le dimissioni.
  • Relazioni sociali. La situazione di tensione creatasi gli procura difficoltà nel relazionarsi col titolare soprattutto, ma anche con i colleghi. La realtà in cui lavora è peggiore di un sogno ricorrente che egli racconta, nel quale è da solo in una stanza circondata da pareti di vetro; alcuni colleghi dall’altra parte dei vetri ridono di lui, mentre altri lo guardano con compassione.
    La possibilità di relazionarsi coi suoi colleghi è limitata: gli vengono più volte cambiate le mansioni, ma la maggior parte delle volte deve fare lavori in cui il contatto con i colleghi è ridotto al minimo.
  • Immagine sociale. Marco è costretto a fare lavori umilianti e piuttosto disparati. Nonostante egli fosse un valido lavoratore che otteneva degli ottimi risultati, il suo lavoro non veniva premiato, ma molte volte veniva giudicato in maniera sbagliata e offensiva. 
  • Situazione professionale e privata. Marco subisce cambiamenti di mansioni improvvisi: passa dal dover puntare ad obiettivi quasi impossibili da raggiungere, al dover svolgere compiti umilianti, molto al di sotto della sua qualificazione professionale.
  • Attacchi alla salute. Subisce attacchi pressoché verbali. Inoltre gli si impedisce di andare in malattia, quindi subisce anche attacchi indiretti alla salute fisica.

Leymann (1996) ha fissato a sei mesi la soglia minima di tempo affinché la vessazione possa essere considerata come mobbing. Nel caso in questione, si può considerare, dall’inizio dei comportamenti vessatori nei confronti della vittima fino al suo licenziamento, un periodo che va da almeno dicembre 2007 (ma anche prima dato che la vittima lamenta l’inizio delle pressioni psicologiche dal momento in cui l’azienda si trasferisce in uno stabile più grande, ma non menziona il mese preciso) all’aprile 2009. Dalla testimonianza inoltre si può cogliere che: i comportamenti vessatori venivano attuati almeno alcune volte al mese (Marco afferma più volte che le umiliazioni erano continue da tutti i punti di vista); ci è stato un aumento di intensità nel tempo e non si permetteva alla vittima di difendersi, con l’obiettivo finale di costringerlo alle dimissioni.

Fattori di rischio presenti nella testimonianza

A questo punto si può procedere ad un’analisi dei fattori di rischio che potrebbero favorire la presenza di mobbing:

  • Aspetti organizzativi. Si può affermare che il clima organizzativo non offriva alcun supporto sociale: per lunghi periodi Marco lavorava da solo, con contatti limitati con i suoi colleghi e con i responsabili. Inoltre la messa in atto di cambiamenti organizzativi così improvvisi, come il trasferimento o il nuovo responsabile che poi viene repentinamente licenziato, possano rappresentare degli aspetti organizzativi da considerare rischiosi.
  • Aspetti di gruppo. Purtroppo la vittima raramente cita i rapporti che aveva con i suoi gruppi di lavoro, ma si può azzardare che col tempo la qualità dei rapporti tra lui e i colleghi sia diventata abbastanza scarsa.
  • Aspetti individuali. Gli viene continuamente chiesto di occupare ruoli lavorativi nettamente inferiori alla sua preparazione professionale; per giunta, a suo dire, le mansioni che gli venivano assegnate e gli obiettivi che egli doveva raggiungere erano esagerati in confronto a quello che avrebbe potuto fare un solo lavoratore nell’azienda in questione.

Conseguenze sulla vittima delle azioni di mobbing

I comportamenti vessatori da parte dell’organizzazione nei confronti di Marco hanno provocato una serie di conseguenze da diversi punti di vista:

  • Sulla salute. La vittima rammenta una serie di disturbi psicosomatici (attacchi d’asma, tachicardia, nausea, gastrite, febbre), segnali emozionali (disturbi dell’umore, pianti improvvisi e incontrollabili, sensazioni di impotenza e fragilità, stress, senso di solitudine, insonnia) e segnali comportamentali (blocco dell’appetito, perdita di peso, collassi ecc.).
  • Sul contesto sociale. Un’organizzazione sempre più esigente che ad un certo punto ha portato la vittima a riconsiderare e mettere in dubbio la sua certezza lavorativa e i rapporti interpersonali coi colleghi; un reinserimento occupazionale dopo i giorni di malattia che prevedeva dei cambi completi di mansioni.
  • Sui costi economici. Marco era diventato un peso per l’organizzazione, la quale non poteva permettersi un lavoratore come lui a tempo indeterminato. I suoi giorni di malattia, causati tra l’altro dall’organizzazione stessa, erano diventati un problema, e probabilmente ciò ha contribuito al suo licenziamento.

Lettura del caso tramite il modello multicausale di Zapf

Il caso in questione può essere analizzato mediante l’utilizzo del modello multicausale sul mobbing di Zapf (1999), che integra fattori individuali, sociali e organizzativi fra le cause del mobbing, i quali possono essere collegati alle manifestazioni e alle conseguenze che sono state descritte precedentemente.

Nel caso in questione, i fattori rilevanti sembrano essere quelli organizzativi, prettamente collegati ad uno stile di leadership autoritario; si può notare un abuso di potere da parte del titolare dell’azienda che impartisce ordini insindacabili, con toni minacciosi e molto forti, non permettendo alla vittima di ribattere alle accuse che gli vengono spinte, prendendo delle decisioni che mirano a ledere il benessere lavorativo. I suoi responsabili, d’altro canto, sono totalmente indifferenti alla sua situazione (il responsabile fa passare dei giorni prima di comunicare alla direzione il problema di Marco per la partenza in Sardegna per le vacanze di Pasqua, provocando l’ennesimo disagio per la vittima al momento della discussione nell’ufficio del titolare). Si può inoltre identificare una organizzazione del lavoro ambigua, con continui cambiamenti, abbastanza instabile, che favorisce l’insorgenza di job insecurity. Si può rilevare, d’altronde, la presenza di stressor sia dal punto di vista della cultura organizzativa (una comunicazione scarsa e un’aria totalmente indifferente ai risultati ottenuti dai gruppi di lavoro), sia dello sviluppo di carriera, pieno di ostacoli (stipendio tagliato, insicurezza dell’impiego dovuta a vari problemi), e del contenuto del lavoro: orari di lavoro eccessivamente lunghi e ingestibili. Dato che, in questo caso, il mobber si identifica nella figura del titolare dell’azienda, si può identificare un’organizzazione in cui sia assente una specifica politica sul mobbing, non vengono puniti i possibili mobbers e non si permette ai mobbizzati di appellarsi ad una norma che li tuteli (Marco è costretto a rivolgersi al sindacato per ottenere delle spiegazioni e delle sicurezze sulla sua situazione).

Tralasciando i fattori di gruppo, dato che la vittima non cita nella sua testimonianza i rapporti che aveva con i propri colleghi, si possono trattare i fattori individuali della vittima che avrebbero potuto aumentare la possibilità di insorgenza del fenomeno del mobbing. In uno studio, Persson e collaboratori (2009) dimostrano che le vittime del mobbing dimostrano più alti livelli di instabilità emotiva e una maggiore tendenza all’impulsività. Questi tratti di personalità possono corrispondere al caso di Marco, dato che più volte nella sua testimonianza ha indicato una tendenza a provare sia ansia che irritabilità (ma ciò non si può affermare con certezza poiché questi stati emotivi erano pressoché una risposta ai comportamenti vessatori nei suoi confronti).

Prospettive d’intervento

Prendendo come spunto il caso analizzato, si potrebbero suggerire delle misure che l’organizzazione in questione potrebbe attuare per prevenire i rischi presenti nella testimonianza, e le azioni che avrebbe potuto intraprendere per affrontare la situazione di Marco.

Interventi preventivi

L’organizzazione in questione dovrebbe focalizzarsi innanzitutto su una valutazione dei fattori di rischio psicosociale, sia dal punto di vista del contesto di lavoro (cultura organizzativa, sviluppo di carriera) sia dal punto di vista del contenuto del lavoro (orari di lavoro, carico/ritmo di lavoro, pianificazione dei compiti). Per giunta, qualora non lo avesse, si dovrebbe creare un codice etico diretto alla gestione e alla riduzione della probabilità del verificarsi di comportamenti aggressivi sia da parte dei superiori sia fra colleghi. Essa dovrebbe inoltre investire nella formazione e nella promozione di stili di leadership meno autoritari, meno indifferenti e più comunicativi, focalizzati sia sul compito sia sulle relazioni interpersonali, in modo tale da creare un clima aziendale piacevole e collaborativo. Si potrebbe consigliare di implementare un sistema che premi i lavoratori meritevoli e dei sistemi di ascolto (per esempio uno sportello mobbing), che permettano di alleviare sia la durata di fenomeni come il mobbing sia la diffusione dei disturbi. Infine, l’organizzazione dovrebbe evitare di prendere decisioni senza consultare i diretti interessati; per esempio, nel momento in cui viene attuato un progetto di lavoro, la direzione dovrebbe organizzare una riunione con tutti i diretti interessati almeno una volta al mese, per analizzare l’andamento del progetto e per riflettere insieme a loro su eventuali sospensioni. Per giunta, dovrebbe evitare di fare promesse che non può mantenere, come ad esempio lo stipendio fisso accompagnato da provvigioni che è stato assicurato a Marco e mai confermato.

Come intervenire sulla situazione di Marco

Dato che il caso della vittima in questione si è risolto con un licenziamento, ci sarebbe ben poco da recuperare, ma si potrebbe focalizzare la trattazione su possibili interventi da attuare per cercare di risolvere situazioni simili.

Se, dopo l’attuazione di interventi preventivi (alcuni dei quali consigliati nel paragrafo precedente), si verificassero casi di Mobbing, l’organizzazione non potrebbe fare altro che intervenire direttamente sulle vittime. Innanzitutto dovrebbe rispettare alla lettera le norme contrattuali: lo stipendio che spetta al lavoratore dev’essere dato senza tagli e, se la persona ha diritto a usufruire di giorni di malattia certificati, allora bisogna concederli senza contrastarla. Al suo rientro in azienda, l’organizzazione dovrebbe attuare un piano di recupero che permetta alla vittima, se l’assenza è stata piuttosto lunga, di reintegrarsi nel contesto lavorativo serenamente e senza ulteriori pressioni. Il sovraccarico di lavoro si dovrebbe evitare, consentendo alla vittima un recupero graduale; si dovrebbe evitare, inoltre, il cambiamento delle mansioni che aveva precedentemente e l’isolamento sociale, assicurando un posto di lavoro in cui possa giovare di supporto sociale e di relazioni interpersonali proficue. Ogni decisione aziendale dev’essere ufficializzata, in modo tale che non si instauri nelle vittime la percezione di ingiustizia organizzativa e la paura che venga fatto qualcosa alle loro spalle. Se, come per Marco, non è più disponibile la precedente posizione lavorativa della vittima, sarebbe opportuno trovarne una alternativa a tutti i costi; se neanche quest’ultima fosse reperibile, si dovrebbe preventivamente provvedere a un outplacement in tempi piuttosto brevi.

 

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Io non mi adeguo! Fenomenologia del Whistleblower

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Esperienze del dolore (2014) di D. Le Breton – Il significato della sofferenza e la sua utilità – Recensione

Esperienze del dolore, un libro che illustra i significati della sofferenza fisica e del perchè spesso provare dolore è un bene.

La felicità è benefica per il corpo, ma è il dolore che sviluppa i poteri della mente. (Marcel Proust)

David Le Breton, sociologo e antropologo all’università di Strasburgo, torna a parlare di dolore, dopo Antropologia del dolore (1995), dove affrontava il tema da un punto di vista culturale e sociale. In questa nuova opera le diverse dimensioni del dolore sono presentate secondo un’ottica più cognitiva ed emotiva.

Nell’introduzione del saggio Le Breton stesso spiega perchè è importante parlare di dolore: un’esperienza fondamentale del vivere umano, la cui assenza ci sarebbe fatale. Da Descartes in poi il dolore è stato considerato come qualcosa di fisico, mentre la sofferenza come attinente allo psichico – separando di fatto il corpo dalla mente – qualcosa con una causa specifica e da trattare secondo una terapia prestabilita, indipendentemente dalla persona che soffre e della sua storia di vita.

Questa visione è mutata grandemente nel corso del tempo e già a partire dagli anni Sessanta, scienziati come Melzack e Wall, con la Teoria del Cancello, riportano il dolore alla dimensione dell’esperienza, superando il dato neurofisiologico: il nostro apparato è costruito in modo tale da consentire di provare dolore nello stesso modo da persona a persona, ma come viene effettivamente percepito a livello individuale, è strettamente connesso all’esperienza di chi quel dolore lo prova e dal contesto culturale e sociale di riferimento. In virtù di questo, continua Le Breton, l’intervento per trattarlo, non può essere solo medico, ma deve attingere a tutte le discipline disponibili e fare riferimento alle risorse dell’individuo nella sua globalità.

L’opera, divisa in sette capitoli, affronta il tema da angolazioni differenti; il dolore nella sua valenza filosofica, come momento di cambiamento e trasformazione, il punto di vista culturale, da cui derivano i diversi modi di espressione e gestione dello stesso, a seconda dei contesti sociali di riferimento. Il dolore da un’ottica esistenziale, qualcosa a cui difficilmente siamo grati, ma tramite il quale ci sentiamo vivi. Il dolore nella sua accezione più atroce, quando è procurato per mezzo di una tortura fisica e morale, qualcosa a cui si può sopravvivere, ma da cui non sempre si riesce a guarire. Il dolore nella sua accezione più bella: quello provato dalla donna durante il parto e, in chiusura, il dolore che si sostituisce al piacere e diventa esso stesso piacere, quello procurato nelle pratiche sadomaso.

Ogni sezione suscita interesse e spunti di riflessione, ad esempio nel capitolo dedicato alla sofferenza fisica provocata e ricercata in quanto mezzo per oltrepassare i propri limiti e accedere a una coscienza modificata, l’autore porta l’esempio dell’attività sportiva: ciò che rende interessante una prova, non è semplicemente la voglia di eccellere, il record, ciò che affascina è la volontà di arrivare fino in fondo, vincendo il dolore e la voglia di mollare. L’atleta è colui che migliora la prestazione, spingendo l’intollerabile un po’ più in là, ogni volta.

Nella stessa sezione, viene citato il dolore delle pratiche mistiche per arrivare all’estasi o come rito di passaggio alle diverse età della vita, in voga ancora oggi tra alcuni popoli primitivi, arrivate fino a noi occidentali, seppur spogliate del valore simbolico, sotto forma di body art, l’arte della modificazione corporea,

Il dolore è indubbiamente un’esperienza fisica e al contempo emotiva, che produce pena e può essere associata a una lesione di un tessuto, ma è anche sensazione, emozione e percezione. Qualcosa che può essere un’occasione di crescita e miglioramento personale, anche a seguito di una malattia improvvisa.

E’ difficile contenere in una sola opera tutte le sfaccettature di un argomento così ricco di significati, implicazioni e rimandi sociali e culturali, ma Le Breton sembra riuscirci senza scadere nel didascalico e nozionistico.

Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita è un’opera utile, sia per chi si trova a lavorare nelle professioni di aiuto, sia per chi è coinvolto direttamente o indirettamente in questo tipo di esperienza, perchè siamo abituati a pensare al dolore come qualcosa di negativo, inutile e che ci fa star male, da sopprimere il più velocemente possibile. Le Breton, invece, ci mostra le finalità di questo sentire e l’importanza di cercare di capire come nasca, venga espresso e che impatto possa avere sulla vita umana, perchè l’accompagna sempre, per breve tempo o cronicamente. Dal dolore si può essere annientati o grazie al dolore ci si può salvare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Le Breton, D. (2014). Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita. Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA

Abuso psicologico? Grave quanto quello fisico e sessuale!

FLASH NEWS

L’abuso psicologico è meno affrontato di quello fisico e sessuale nei programmi di prevenzione e trattamento della violenza, ma un nuovo studio mette in evidenza come l’abuso psicologico e la trascuratezza (neglect) possano provocare gravi conseguenze sul piano della salute mentale infantile, a volte addirittura peggiori di quelle legate all’abuso fisico e sessuale.

I ricercatori hanno utilizzato il National Child Traumatic Stress Network Core Data Set per analizzare i dati provenienti da 5.616 giovani con storie di abuso: maltrattamento psicologico (abuso emotivo o trascuratezza emotiva), abusi fisici e abusi sessuali. I dati sono stati raccolti tra il 2004 e il 2010, e l’età media dei bambini all’inizio della raccolta dati era di 10-12 anni.

La maggioranza (62 %) aveva una storia di maltrattamento psicologico, e quasi un quarto (24 %) di tutti i casi di maltrattamento erano di tipo esclusivamente psicologico, che lo studio definisce come una forma di bullismo inflitto dal caregiver, che implica: il terrorizzare e l’esercitare un controllo coercitivo con ingiurie gravi, svilimento, minacce, richieste eccessive, evitamento e/o l’isolamento.

I bambini che hanno subito abuso psicologico soffrivano di ansia, depressione, bassa autostima, sintomi da stress post-traumatico e rischio suicidario in misura simile, e in alcuni casi peggiore, rispetto ai bambini fisicamente o sessualmente abusati. Inoltre tra i tre tipi di abuso, il maltrattamento psicologico è stato più fortemente associato con la depressione, il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo d’ansia sociale, problemi di attaccamento e l’abuso di sostanze.

Il maltrattamento psicologico, associato ad abuso fisico o sessuale, ha portato ad esiti negativi significativamente più gravi e di ampia portata rispetto a quando i bambini erano “solo” abusati sessualmente o fisicamente. Inoltre, gli abusi sessuali e fisici dovevano avvenire nello stesso periodo per generare lo stesso effetto del solo abuso psicologico su problemi comportamentali a scuola, problemi di attaccamento e comportamenti autolesivi.

Secondo il U.S. Children’s Bureau quasi 3 milioni di bambini americani sperimentano ogni anno una qualche forma di maltrattamento, prevalentemente da un genitore, un familiare o un altro adulto che si prende cura di loro. L’American Academy of Pediatrics nel 2012 ha identificato il maltrattamento psicologico come “la forma più grave e prevalente di abuso e trascuratezza del minore.”

Spiega Spinazzola:

“L’abuso psicologico non lascia segni riconoscibili sul corpo e per questo non è facile da identificare inoltre non è considerato un tabù sociale grave come gli abusi fisici e sessuali sui minori. Abbiamo bisogno di iniziative di sensibilizzazione per aiutare le persone a capire quanto sia dannoso il maltrattamento psicologico per i bambini e gli adolescenti”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il godimento estetico, una questione di “empatia”!

“L’artista ha una visione profetica, vede in anticipo sul tempo e sullo spazio.”

A partire dalla fine del 19°secolo, i cosiddetti filosofi “empatisti” hanno sostenuto che la principale fonte di godimento estetico sia l’einfuhlung, ossia l’empatia con l’opera d’arte – nella convinzione che l’uomo sia un “animale empatico” – derivante da una sorta di risonanza simpatetica che il corpo è in grado di instaurare con l’immagine.

Lo stato fisico e psicologico del nostro corpo ha un ruolo fondamentale nel nostro pensare, sentire e percepire.

La questione di come l’arte possa creare un senso di appeal estetico ha interessato gli psicologi, i filosofi e in generale gli intellettuali di ogni epoca, in particolar modo in seguito alle teorie di Theodor Lipps e Robert Visher.

Nel mondo delle arti visive è infatti abbastanza comune credere che le caratteristiche percettive di un dipinto (forma, colore, movimento) determinino piacere estetico; già Leon Battista Alberti nel De Pictura notava la particolare predisposizione dell’animo umano all’immedesimazione in quanto si osserva nel dipinto.

Tuttavia, a partire dalla fine del 19°secolo, i cosiddetti filosofi “empatisti” hanno sostenuto che la principale fonte di godimento estetico sia l’einfuhlung, ossia l’empatia con l’opera d’arte – nella convinzione che l’uomo sia un “animale empatico” – derivante da una sorta di risonanza simpatetica che il corpo è in grado di instaurare con l’immagine.

Nel 2007,  grazie ai progressi della moderna neuroscienza, David Freedberg, professore di Storia dell’Arte del Dipartimento di Storia dell’Arte e Archeologia della Columbia University di New York e Vittorio Gallese, neuroscienziato dell’Università di Parma, hanno dato una risposta scientifica alla relazione empatia-arte figurativa.

A seguito dei loro esperimenti sul sistema neuronale specchio, hanno concluso che nell’uomo anche l’osservazione di un’opera d’arte sia in grado di attivare il sistema motorio, data la sua abilità di attivazione dinanzi ad azioni finte, ambigue o mimate. Si può volgarmente parlare di “simulazione incarnata” dell’osservatore e, aggiungo, di una sorta di “empatia carnale”, ossia motoria.

In un secondo esperimento  del 2012 riguardante l’arte spazialista di Lucio Fontana, hanno potuto constatare che anche dinanzi a questa espressione informale, astratta ed insolita all’occhio, l’uomo sia in grado di attivare processi neuronali associati al modo in cui l’opera è stata prodotta e quindi alla gestualità dell’artista dell’opera; cosicché il piacere estetico deriva dalla risonanza del corpo dell’osservatore con i movimenti che il creatore ha eseguito durante la produzione e nel momento creativo. E in questo caso, la caratteristica più direttamente legata ai movimenti dell’artista è lo stile del dipinto, ossia il modo in cui esso è realizzato, il modo in cui i colori sono poggiati sulla tela.

Helmut Leder , Siegrun Bär e Sascha Topolinski, psicologi dell’Università di Vienna e di Wurzburg, hanno condotto un esperimento interessantissimo a questo proposito, pubblicato l’8 novembre del 2012 con il titolo “Covert painting Simulations influence aesthetic appreciation of artworks” sulla rivista Psychological Science: presso l’Università di Vienna hanno posto 114 studenti davanti ai quadri di Van Gogh e di alcuni noti impressionisti e controllato i movimenti inconsci e apparenti delle mani, poste dinanzi ad un foglio di carta. Gli studenti si sono inconsapevolmente rispecchiati nei dipinti osservati e anche le loro mani hanno mostrato la loro risonanza: chi è entrato in empatia motoria con la Vista su Arles di Van Gogh ha riprodotto il suo pennellato tratteggiato, chi con la Marie Honfleur di George Seurat, il pennellato puntinista.

Non solo, chi ha prodotto i tratti ed è quindi entrato in empatia col primo stile, ha detto di preferire esso, e quindi si è dimostrato che anche il piacere estetico, l’indice di gradimento di un’ opera, derivi dal grado di risonanza carnale dell’osservante. Quei partecipanti che avevano prodotto movimenti di punteggiatura hanno mostrato un apprezzamento maggiore nei confronti delle opere di Seurat, coloro che hanno imitato le pennellate hanno apprezzato maggiormente le opere di stile tratteggiato.

La percezione di uno stile pittorico suscita quindi movimenti della mano che concordano con quelli del pittore secondo delle simulazioni.

La conclusione che ne scaturisce è che un qualsiasi osservatore è in grado di entrare in empatia con l’artista di ogni tempo e di ogni luogo.

In che modo? Riproducendo a livello cerebrale gli stessi circuiti neurali che si sono attivati nell’artista a lavoro.

La risonanza del corpo di uno spettatore con lo stile di un pittore è, dunque, una sorgente di godimento estetico. Persino un’ artista assente, quindi una figura non presente fisicamente, “smaterializzata” è in grado di influenzare il comportamento dell’uomo.

 

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La Terapia Metacognitiva Interpersonale per i pazienti con disturbo di personalità con disregolazione emotiva – Congresso SITCC 2014

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PROCEDURE PER L'INTERVENTO STEP BY STEP PER I PAZIENTI CON DISTURBO DI PERSONALITA' CON DISREGOLAZIONE EMOTIVA: LA TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALELa Terapia Metacognitiva Interpersonale appartiene all’ultima generazione delle psicoterapie cognitive sviluppate negli ultimi vent’anni ed è volta alla cura dei pazienti con disturbi di personalità (Dimaggio et Al., 2013).

Se con i pazienti coartati/inibiti la terapia viene impostata a partire dalla formulazione condivisa del funzionamento del soggetto per poi arrivare alla promozione del cambiamento, con i pazienti che presentano disregolazione emotiva in associazione a disintegrazione – quindi caratterizzati da stati dissociativi, caoticità ed ipercoinvolgimento relazionale, disorganizzazione narrativa, comportamenti suicidari e parasuicidari, impulsività e iperespressività, ansia, somatizzazione – il focus iniziale deve essere posto proprio sulla disregolazione emotiva e la disintegrazione (che si alimentano a vicenda) con l’obbiettivo di ridurre l’arousal. 

 

Gli interventi sulla disregolazione emotiva comprendono:

 – la farmacoterapia

la disciplina interiore, tenendo bene a mente che anche le caratteristiche del terapeuta giocano un ruolo: funzionano bene terapeuti che stabiliscono confini forti, che mostrano uno spirito avventuroso, orientamento all’azione, che hanno un buon senso dell’umorismo e sono irriverenti (Rosenkranz & Morrison, 1994. Gunderson, 2008. Linehan, 1993)

– la psicoeducazione con soothing alla base dell’intervento, in cui si effettuano interventi di rassicurazione prospettica (“tra poco starà meglio”) monitorando se il paziente è in grado di calare la propria esperienza in uno scenario narrativo

– la validazione emotiva

– la negoziazione del contratto (Linehan, 1993)

Gli interventi sulla disfunzione dell’integrazione includono:

– procedure di gestione basate sul contatto con il terapeuta per favorirne la rappresentazione integrata

– interventi diretti sull’integrazione

– riparazione delle rottutìre

Una volta risolte le problematiche relative alla disregolazione emotiva e alla disintegrazione è possibile passare alla formulazione del caso e promuovere nel paziente in una seconda fase della terapia strategie autonome.

 

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La Terapia centrata sul Transfert per il Disturbo Borderline di Personalità – TFP Parma 2014

Si è conclusa a Parma la terza edizione della conferenza promossa dalla Società internazionale di Terapia Centrata sul Transfert (TFP), una forma di psicoterapia psicodinamica adattata in particolare al trattamento delle condizioni borderline.

Sono intervenuti a discutere gli aspetti più attuali di clinica e ricerca alcuni tra i maggiori esponenti internazionali dell’approccio TFP tra cui il prof. Otto Kernberg, presidente della Società.

Moltissime le tematiche di discussione, con un’attenzione in particolare alle seguenti: il trattamento del disturbo borderline, la tematica della sessualità e di come questa possa influenzare la relazione terapeutica, l’adattamento delle pratiche TFP standard al lavoro con bambini e adolescenti.

La giornata congressuale è stata preceduta da due Workshop introduttivi, uno dei quali condotto dal Prof. Frank Yoemans e incentrato sul trattamento dei disturbi gravi di personalità, in particolare il disturbo borderline.

Il relatore ha presentato la teoria alla base della TFP e introdotto alcune delle relative tecniche; si è partiti dall’assunto che la TFP ha come scopo principale e a lungo termine non tanto la stabilizzazione dei sintomi quanto una profonda modifica strutturale del carattere, in quanto l’evidenza empirica sembra dimostrare che il sollievo sintomatologico è diretta conseguenza del cambiamento nella struttura di personalità, e non viceversa.

Ma come si manifesta, e si può quindi misurare, il cambiamento in psicoterapia? Le tre principali aree di valutazione da parte del clinico sono il miglior funzionamento (e quindi una maggiore integrazione dell’identità) in area lavorativa, sessuale e relazionale/ sociale.

 

Premessa indispensabile al trattamento è chiaramente la valutazione della struttura di personalità di partenza, e gli elementi chiave che vengono presi in considerazione dall’analista sono l’integrazione dell’identità (coerenza nel senso di sé e degli altri), le difese maggiormente utilizzate, l’esame di realtà, la qualità delle relazioni oggettuali, il funzionamento morale.

La valutazione del grado di compromissione di questi aspetti danno una misura del livello di gravità della patologia, e permette di collocare il paziente su un scala che vede nell’ordine la personalità normale, quella nevrotica, poi quella con organizzazione borderline e infine quella con organizzazione psicotica.

Grande enfasi è stata data alla raccomandazione di non ignorare in terapia gli aspetti transferali e controtransferali che a volte vengono difensivamente sottovalutati o trascurati dal terapeuta e che rischiano invece poi di controllare l’andamento della seduta, soprattutto se connotati da aggressività; da qui l’importanza di non focalizzarsi tanto su quello che il paziente dice ma su come lo dice, che può fornire più informazioni sulla sua sfera affettiva e motivazionale.

Per chiarire questo punto il Prof. Yoemans ha spesso riportato alcuni interessanti esempi legati alla propria attività clinica, raccontando ad esempio di quando una sua paziente, per il fatto che il marito si era dimenticato di farle gli auguri di compleanno, ha afferrato un televisore e glielo ha scagliato contro, senza minimamente considerare questo un atteggiamento aggressivo, bensì la logica e unica reazione possibile a una simile negligenza da parte del partner.

Compito del terapeuta, in un caso simile, è aiutare il paziente a riconoscere come i propri vissuti negativi vengano proiettati sugli altri (spesso anche sul terapeuta) e finiscano per innescare reazioni disregolate e slegate dalla realtà (anche se supportate dalla logica, spesso ineccepibile, che sottende il ragionamento, di fatto bizzarro, dei pazienti borderline).

Questo riflette la grande attenzione dell’approccio TFP per il qui ed ora; non voli pindarici di stampo analitico classico sulle esperienze infantili con genitori incompetenti, bensì osservazione e interpretazione sistematica di quello che accade in seduta tra terapeuta e paziente, e che di per sé riattiva la rappresentazione interna delle relazioni passate e il modo in cui queste si replicano nelle relazioni attuali.

Si tratta di un approccio potenzialmente utile anche con pazienti dotati di scarsa mentalità psicologica, perché non indaga con il binocolo vissuti relativi a rapporti squalificanti ma lontani nel tempo, bensì si concentra, ad esempio, sul perché il paziente si alteri se il terapeuta ha guardato l’orologio. In questo consiste la chiarificazione, ossia dare un nome ben preciso a quello che sta succedendo tra paziente e terapeuta nel momento presente.

 

Ciò non toglie che il terapeuta debba monitorare il fatto che non sempre vengono proiettati solo i vissuti negativi, con conseguente aggressività e svalutazione da parte del paziente; può anche succedere il contrario, ossia che il paziente proietti sul terapeuta il polo più positivo e idealizzato delle proprie relazioni oggettuali interne, con conseguente idealizzazione irrealistica del terapeuta e delle terapia, il che è altrettanto pericoloso, perché indebolisce la relazione terapeutica tanto quanto gli acting aggressivi.

Rispetto a questo punto, il Prof. Yoemans invita a effettuare in maniera particolarmente scrupolosa sia la fase di assessment che quella del contratto terapeutico: potersi ricondurre sistematicamente ad un contratto ben definito e concordato permette di fugare false convinzioni e aspettative magiche, ma soprattutto permette di pretendere un vero coinvolgimento del paziente nel lavoro terapeutico.

“Qual è il problema? Da quanto dura? Cosa si aspetta che io possa fare per lei? Cosa si aspetta dal trattamento?” Sono tutte domande indispensabili prima di passare all’intervento vero e proprio.

In questo modo il contratto fornisce a paziente e terapeuta una comprensione comune del problema, definisce le reciproche responsabilità, permette al terapeuta di ragionare lucidamente e di interpretare eventuali deviazioni del paziente dagli accordi. Spesso infatti il contratto viene “testato” dai pazienti, sia nel tentativo di controllare il terapeuta si allo scopo di valutare quanto e se il terapeuta “ci tiene davvero” al rispetto delle regole.

Il relatore ha poi illustrato alcune strategie utilizzate, tra cui il fatto di individuare ogni volta la relazione oggettuale dominante in seduta per aiutare il paziente a gestire il caos del proprio mondo interno, osservare e interpretare i suoi “cambiamenti di ruolo” (ad esempio da vittima a persecutore) e promuovere la sua capacità di distinguere tra il tranfert e le esperienze relazionali reali, affinché possa generalizzare la consapevolezza maturata in terapia alle relazioni interpersonali fuori dallo studio.

Le tecniche utilizzate sono l’utilizzo della consapevolezza del tranfert, un continuo processo interpretativo (chiarificazione, confrontazione, interpretazione, aumento della mentalizzazione) l’analisi delle distorsioni relazionali.

In particolare la confrontazione consiste nel chiedere chiarimenti al paziente in merito ad eventuali contraddizioni tra la comunicazione verbale e quella non verbale; l’interpretazione ha invece come scopo quello di integrare aspetti dissociati dell’esperienza, sostituire le difese primitive, risolvere la diffusione dell’identità, promuovere la capacità di autoriflessione.

Infine, un accenno alla tematica della neutralità del terapeuta, che non significa né distanza né indifferenza, bensì il non schierarsi dalla parte di nessuna delle forze che muovono il conflitto interno del paziente, siano esse ad esempio forze primitivo/aggressive oppure repressive.

Come terapeuti siamo invitati a non dimenticare che il conflitto non è mai tra noi e il paziente, neanche quando questo ci scaglia contro tutti gli oggetti alla sua portata, insultandoci con violenza; il conflitto è sempre interno al paziente, ma può talvolta essere proiettato sulla terapia e sul terapeuta in quanto, da quelli, il paziente sa che in qualche modo, eventualmente, può scappare.

 

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Relazioni familiari positive riducono il rischio di contrarre l’HIV in giovani gay e bisessuali

FLASH NEWS

Relazioni familiari fondate sullo scambio, sulla fiducia e sull’astinenza da giudizi morali da parte dei familiari riduce il rischio di comportamenti sessuali ad alto rischio e di conseguenza riduce il rischio di contrarre l’HIV.

Lo studio della Rutgers School of Social Work ha indagato il ruolo di relazioni sicure all’interno del contesto familiare nell’influenzare il rischio di comportamenti sessuali ad alto rischio da parte di giovani omosessuali e bisessuali. Relazioni familiari fondate sullo scambio, sulla fiducia e sull’astinenza da giudizi morali da parte dei familiari riduce il rischio di comportamenti sessuali ad alto rischio e di conseguenza riduce il rischio di contrarre l’HIV.

Lo studio coinvolge 38 omosessuali e bisessuali maschi tra i 14 e 21 anni, i genitori o tutori legali dei soggetti coinvolti vivono nelle aree metropolitane del New Jersey, di New York, di Washington e di Philadelphia.

Gli autori attraverso alcune interviste rilevarono la consapevolezza da parte dei soggetti coinvolti rispetto alla qualità delle relazioni familiari, le conoscenze rispetto al tema dell’HIV e l’eventuale influenza delle relazioni parentali sulle decisioni relative ai comportamenti sessuali. Ai genitori è stato chiesto di descrivere la relazione con i loro figli, la loro conoscenza circa l’HIV e di valutare la loro influenza sui comportamenti a rischio dei loro figli.

Lo studio rileva che l’accettazione da parte dei genitori dell’orientamento sessuale dei propri figli, e l’apertura al dialogo tra i genitori e i propri figli espone i giovani omosessuali e bisessuali a minor rischio di adottare comportamenti sessuali ad alto rischio. Al contrario giovani omosessuali e bisessuali che non hanno sperimentato relazioni di vicinanza con le proprie famiglie dichiarano di aver adottato comportamenti sessuali ad alto rischio durante l’anno precedente, aumentando il rischio di contrarre l’HIV.

L’ambiente familiare protettivo porta il giovane omosessuale e bisessuale a proteggere sé stesso da comportamenti sessuali ad alto rischio. Le famiglie invece che instauravano una relazione di chiusura al dialogo all’interno della propria relazione con i propri figli, non rappresentavano una fonte di sicurezza per i propri figli.

Gli autori consigliano il supporto di terapeuti e assistenti sociali per aiutare le famiglie ad instaurare una relazione fondata sul dialogo, sull’accettazione dell’orientamento sessuale dei propri figli e su un modello informativo-educativo che possa fornire informazioni sull’argomento, in modo da proteggere i propri da comportamenti sessuali ad alto rischio che potrebbero inficiare la loro salute.

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La Transference Focused Psychotherapy per il trattamento di pazienti adolescenti con disturbo borderline – Report dal Congresso di Parma

L’adattamento della TFP al trattamento degli adolescenti si pone come primo obiettivo la graduale acquisizione di autonomia dalle figure di riferimento, sia promuovendo un senso di sé distinto e individuale, sia riducendo il bisogno psicologico di approvazione, di modo che il paziente assuma via via su di sé il compito di  regolare autonomamente la propria autostima.

Nella terza giornata della conferenza ISTFP, la professoressa Lina Normandin, dell’Università Laval in Canada, ha presentato la sua proposta di adattamento della TFP al trattamento degli adolescenti.

Apre il suo intervento sfatando il mito dell’adolescenza come periodo di “sturm und drang” a tutti i costi, sottolineando come in molti casi l’adolescenza sia sì un periodo turbolento di profondi cambiamenti, ma che possa essere connotata anche dalla presenza di una rappresentazione coerente e stabile di sé e degli altri, dalla capacità di esplorare divertendosi e di inaugurare le prime relazioni sessuali ed affettive in maniera funzionale.

Per gli adolescenti con disturbo borderline di personalità, invece, l’adolescenza può essere davvero un periodo disastroso, dove le fragilità pre-esistenti e la predisposizione alla diffusione dell’identità si slatentizzano definitivamente.

L’adattamento della TFP al trattamento degli adolescenti si pone come primo obiettivo la graduale acquisizione di autonomia dalle figure di riferimento, sia promuovendo un senso di sé distinto e individuale, sia riducendo il bisogno psicologico di approvazione, di modo che il paziente assuma via via su di sé il compito di  regolare autonomamente la propria autostima.

Nel mettere in atto queste manovre psicoterapeutiche è bene sempre tener presenti alcune peculiarità neurobiologiche che caratterizzano il periodo adolescenziale, come ad esempio il fatto che gli adolescenti sono capaci di un sofisticato pensiero astratto, ma non quando l’affettività risulta particolarmente attivata (la corteccia prefrontale matura più lentamente rispetto al sistema limbico); il comportamento adolescenziale è infatti caratterizzato dal delicato equilibrio tra il sistema di ricompensa (limbico) e i processi di controllo (corteccia pre-frontale).

Quali implicazioni quindi  per il terapeuta TFP? Gli imperativi terapeutici con gli adolescenti risultano essere:

–  promuovere e supportare il processo di individuazione-separazione

– proteggere il delicato narcisismo fisiologico

– rinforzare le strategie spontanee adattive

– contenere l’impulsività

 

Con gli adolescenti in particolare si ripropone l’imperativo di condurre l’assessment in maniera quanto più possibile accurata, accompagnato da un’indagine puntuale delle rappresentazioni di sé e degli altri attraverso domande come “ Chi sei tu? Come sei? Chi sono gli altri e come sono? Chi sono io e come sono?”

Quest’ultimo aspetto introduce la messa in gioco del terapeuta in prima persona nell’indagine di come il paziente adolescente si rappresenti l’altro e le relazioni interpersonali.

La “Personality Assessment Interview” ha tra le sue finalità appunto quella di indagare nel dettaglio la rappresentazione che l’adolescente ha della relazione terapeutica, con domande di questo tipo:

– Che cosa ti è stato detto dell’incontro che avresti avuto con me?

– Adesso che siamo stati un po’ insieme, come ti sembra rispetto alla tua impressione iniziale?

– Adesso che siamo stati insieme (x) minuti, come ti aspetti che sarà il resto della seduta?

– Che cosa hai imparato rispetto a te stesso, e rispetto a me, e cosa credi che abbia imparato io?

– Come pensi che si concluderà il nostro incontro?

 

Anche la fase del contratto riveste un’importanza fondamentale e deve porsi come obiettivi prioritari il mantenimento delle condizioni di sicurezza e riservatezza e la tolleranza dell’impulsività e della ricerca di gratificazione tipicamente adolescenziali. Ovviamente, prioritaria è la gestione delle problematiche particolarmente urgenti quali gli atteggiamenti suicidari, l’abuso di droghe, i comportamenti autolesivi, il perseguimento di vantaggi secondari.

Il coinvolgimento dei genitori viene sempre concordato con il paziente e si attua spiegando loro le caratteristiche del trattamento e le loro responsabilità, informandoli dei progressi e ascoltando le loro preoccupazioni, supportandoli nell’esercizio della propria autorità genitoriale.

Anche nel rapporto con i pazienti adolescenti, le reazioni controtransferali hanno un potente significato clinico; le reazioni del terapeuta possono infatti essere analizzate come prototipo delle reazioni degli altri al comportamento del paziente.

Ad esempio atteggiamenti esibizionisti o dominanti possono avere lo scopo di ridurre la paranoia, ma ottengono come effetto un aumento della distanza dagli altri, che non necessariamente sono disposti a tollerare determinati atteggiamenti.

Questo chiaramente finisce per penalizzare la socializzazione, che è proprio uno dei principali compiti evolutivi del paziente adolescente.

 

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Neuroinvasione del Virus dell’Epatite C (HCV) e Deterioramento Neuropsicologico Trattamento con Psicoterapie di Terza Generazione (DBT) – Congresso SITCC 2014

Neuroinvasione del Virus dell’Epatite C (HCV) e Deterioramento Neuropsicologico

Trattamento con Psicoterapie di Terza Generazione (DBT)

Congresso SITCC 2014 Genova

Silvana Zito, Psicologa, Specializzanda SPC, Reggio Calabria ([email protected])

Giuseppe Mercurio, Studente – Università Vita-Salute San Raffaele – Milano

Simona Mercurio, Dott.ssa in Medicina e Chirurgia – Università Campus Bio-Medico, Roma

 

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Per comprendere la sofferenza psicologica di questi pazienti è necessario differenziare i sintomi presenti nello stato avanzato di malattia, correlati a grave disfunzione epatica, rispetto allo stato iniziale di malattia, a cui non è stata ancora pienamente attribuita un’eziologia.

Il presente lavoro nasce con l’obiettivo di mettere in luce la sofferenza psicopatologica nei pazienti affetti da epatite cronica causata dal virus dell’Epatite C (HCV).

Per comprendere la sofferenza psicologica di questi pazienti è necessario differenziare i sintomi presenti nello stato avanzato di malattia, correlati a grave disfunzione epatica, rispetto allo stato iniziale di malattia, a cui non è stata ancora pienamente attribuita un’eziologia.

Esaminando le fonti a sostegno dell’idea che i disturbi neuropsicologici presenti nella fase iniziale della malattia siano causa di un effetto biologico del virus, è stato ipotizzato il meccanismo a “cavallo di Troia”, con il quale il virus supera la barriera ematoencefalica e invade il sistema nervoso determinando uno stato infiammatorio. Questo induce l’interazione di diversi sistemi quali: endocrino, cerebrale e immunitario e determina disfunzioni neuro-psicopatologiche.

Si aggiungono inoltre gli effetti indesiderati del trattamento farmacologico indicato per la malattia, nonché lo stigma sociale associato al rischio di contagio che induce il paziente in uno stato di isolamento sociale.

La condizione descritta elicita nel paziente risposte somatiche, cognitive ed emotive e il corteo sintomatologico a carattere neuro-psicopatologico può avere effetto sul deterioramento della qualità della vita.

In Italia l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) stima 1,5 milioni di persone infette dal virus HCV; di fronte a tali dati è necessario pensare a possibili interventi di cura e prevenzione anche riguardo alla sofferenza psicologica.

Un intervento proficuo potrebbe essere la Terapia Dialettico Comportamentale (DBT) che si colloca tra le “terapie di terza generazione”. Essa è una terapia evidence-based originariamente pensata e concettualizzata negli anni ‘70 da Marsha Linehan, a partire dal Modello Cognitivo-Comportamentale Classico.

Le tecniche utilizzate sono prevalentemente di derivazione comportamentista e si focalizzano sul cambiamento del comportamento. Si riavvisa quindi, un ri-adattamento per questa popolazione, proponendo in primis una fase di accettazione (mindfulness), al fine di intervenire sull’esperienza emotiva e la sofferenza del paziente che ha un sentimento di impotenza intenso e doloroso.

 

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Lucy: utilizziamo davvero solo il 10% del nostro cervello? – Recensione

Lucy (2014) di Luc Besson 

“Si ritiene che noi usiamo solo il 10% delle nostre capacità cerebrali, ma, se ci fosse un modo di utilizzare il 100% del nostro cervello, cosa saremmo in grado di fare?” Così il professor Norman (Morgan Freeman) spiega la sua tesi ai suoi studenti.

Lucy (Scarlett Johansson), una studentessa che studia a Taipei, viene obbligata dal suo ragazzo a consegnare una valigetta a un gruppo di criminali, e poi da loro viene rapita. Nell’addome le viene inserito uno dei sacchetti di droga (una nuova droga) contenuti nella valigetta, che successivamente si romperà a causa di un violento pestaggio che Lucy subisce dai malavitosi. Il prodotto chimico viene assorbito dal suo corpo, permettendole di accedere al 100% delle proprie capacità mentali. Ciò la rende capace di fare ragionamenti che nessuno è in grado di fare, di sapere ogni cosa, di sentire tutto, di controllare tutto ciò che la circonda e tanto altro.

Film di grande successo in Italia e altrove, è ultimamente sulla bocca di tutti; in pochi sanno però che esso si basa su un falso mito. Non è vero che usiamo soltanto il 10% della potenza del nostro cervello. Si tratta di una credenza popolare molto diffusa e ampiamente fomentata da vari film, libri, pubblicità ecc. In realtà, usiamo tutto il nostro cervello e non soltanto una piccola parte (tranne nei casi in cui ovviamente delle malattie o dei danni cerebrali hanno colpito alcune aree rendendole inutilizzabili); il nostro cervello è continuamente, e interamente, attivo, persino quando dormiamo.

Non si sa con certezza come e quando abbia avuto origine il mito. Si pensa che William James, nel suo libro del 1908 intitolato “The Energies of Men”, scrisse “Stiamo facendo uso di solo una piccola parte delle nostre possibili risorse mentali e fisiche” (Wang, 2009). Successivamente, nel 1936, il giornalista Lowel Thomas avrebbe citato erroneamente lo psicologo americano (in una prefazione al libro di Dale Carnegie intitolato “How to Win Friends and Influence People”), affermando che James avesse detto: “una persona media sviluppa solo il 10% delle sue latenti capacità mentali”. Da allora, sarebbe partita una catena di credenze che ha portato la gente a pensare che l’essere umano sarebbe capace di fare grandi cose se solo usasse tutte le capacità di cui è dotato. Altri persino attribuiscono la colpa ad Albert Einstein.

I neuroscienziati (ad esempio, Beyerstein, 1999) hanno fornito un elevato numero di prove che smentiscono la tesi secondo la quale non utilizziamo tutto il nostro cervello: le tecniche di neuroimaging hanno dimostrato che tutte le aree del cervello sono attive durante lo svolgimento di azioni di routine (come parlare, camminare, ecc.); se il mito del 10% fosse vero, se si verificasse un incidente a una parte del cervello non ci dovrebbero essere gravi conseguenze (in realtà ci sono e anche abbastanza evidenti); non avremmo sviluppato un cervello così grande se stessimo sviluppando soltanto una parte di esso; il cervello utilizza il 20% delle risorse energetiche del corpo, non avrebbe senso per il 10% del cervello utilizzare una così grande quantità di energia; ogni regione del cervello serve a qualcosa e ha determinate funzioni, e fino ad ora non sono state trovate aree inattive; infine vi è la prova delle malattie neurali: le cellule cerebrali che non vengono utilizzate hanno la tendenza a degenerare, quindi se il 90% del cervello fosse inattivo, le autopsie sul cervello adulto avrebbero rivelato una degenerazione su larga scala.

Nonostante ciò, molti continuano a farsi influenzare dai media e credono fermamente che l’uomo utilizzi soltanto il 10% delle sue capacità mentali, e ciò stimola necessariamente la produzione di false pillole che aumentano le capacità intellettive, di libri visionari che esaltano l’uomo a essere dotato di super poteri nascosti e di film come Lucy.

L’altro giorno un amico mi fa: “Lo sai che utilizziamo soltanto il 10% del nostro cervello?”.

E pensare che ha utilizzato il 100% del cervello per dire questa sciocchezza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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