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Violetta: una vita senza amore – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.16 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

Il senso di essere sbagliata, fuori posto, dannosa non è riferito a uno o più comportamenti ma propriamente alla sua essenza. E’ un difetto di fabbrica ineliminabile e del quale, contraddittoriamente, si sente anche colpevole. Per placare questa percezione di difettualità avrebbe bisogno di sentirsi amata. Per cercare di ottenere questo amore cerca di non dare mai fastidio (non richiedere niente) e rendersi utile.

Il parco auto a disposizione del CIM acquistato al momento della fondazione, invecchiava inesorabilmente come gli operatori e la carenza di fondi rendeva le riparazioni un evento straordinario quando invece auto guidate da moltissime persone richiederebbero una manutenzione assidua e affettuoso.  I più utilizzavano per le trasferte le macchine private con un rimborso chilometrico di 50 cent, ma i pazienti non potevano assolutamente esservi trasportati non essendo protetti da assicurazione.

Al lettore sembrerà sciocca una tale divagazione sui mezzi in ciò dimostrando la sua ignoranza sull’operatività di un CIM soprattutto di una grande provincia che avviene prevalentemente sul territorio con grandi spostamenti. Il lettore porterà dunque pazienza se tarderò ancora un po’ a riportarlo nel palpitare dell’attività clinica. Le auto erano due fiat tipo bianche con le insegne della Asl, un pulmino ford transit azzurro per le attività di gruppo e la cosiddetta ammiraglia della flotta. L’ammiraglia era una Fiat bravo nera usata per i viaggi più lunghi o quando c’era fretta essendo più potente e sicura. Sapendo quanto Biagioli ci tenesse tutti gli operatori gli avevano regalato  per i suoi cinquant’anni un autoradio che era stato montato sulla “Bravo”. Il vero regalo consisteva soprattutto nell’aver seguito le procedure per poter ottenere il montaggio. Chi non ha avuto esperienza di ASL non può immaginare quanto sia difficile non soltanto ottenere qualcosa dalla ASL (ad esempio un pagamento per forniture) ma anche donarle qualcosa. Quell’autoradio rappresentava una vittoria contro la burocrazia ed era motivo di orgoglio di tutti.

Essendo  i presenti piuttosto ridotti dalla coda delle ferie della seconda metà di agosto, la scelta ricadde facilmente sulle più disponibili e la dottoressa Mattiacci e la dottoressa Filata furono subito lanciate sulla superstrada che portava fuori provincia verso l’ospedale di Montello. Il rombo del motore 1.9 turbo diesel  disturbava le canore dichiarazioni di Vasco Rossi circa il desiderio di  una vita spericolata. Lina e Maria, praticamente coetanee, al contrario si raccontarono  per buona parte del tragitto quante spericolatezze avrebbero volentieri cancellate dalle proprie vite.

Lina avrebbe volentieri fatto a meno del brivido di andare a ricercare per le campagne di Monticelli il padre demente del suo convivente assurgendo, come era successo una volta, agli onori di “chi l’ha visto?” Avrebbe anche volentieri evitato le continue discussioni con il suo compagno vedovo che, pur non volendola sposare per rispetto della povera Assunta, voleva un figlio con il sistema dell’utero in affitto. Lina sospettava che la fecondazione del suddetto utero dovesse essere nelle intenzioni di Riccardo piuttosto tradizionale: passava le notti in rimuginii e le giornate in controlli. Maria attraversava un tribolatissimo inizio di menopausa: si accorgeva di essere diventata invisibile agli uomini e inutile per i suoi due ragazzoni. Bravissimi a scuola ed ora avviati ad una duratura disoccupazione avevano occhi e attenzioni solo per le due ragazze che si erano appropriate del loro cuore e delle loro camere senza mai porsi il problema di dare una mano. Il pensionato era aumentato da due a quattro ospiti e la collaborazione già scarsa dimezzata “hanno altro per la testa”.  Giovanni che non amava la confusione ed i piena crisi di andropausa era sempre più assente e distratto. Su questo tema che potremmo definire di gelosia le preoccupazioni di Lina e Maria si allearono rinforzandosi reciprocamente. Se le avesse fermate un poliziotto maschio lo avrebbero probabilmente insultato e preso a schiaffi.

Spensero Vasco mandandolo a quel paese e si lasciarono cullare dai saliscendi e dalle curve  in un paesaggio che sotto il verdeggiare rigoglioso degli alti fusti mostrava a terra  screpolature e siccità per una estate torrida che non accennava a placare le sue fiamme. Se fosse andato a fare la spesa Vasco si sarebbe accorto come fosse spericolato già l’acquistare le verdure di stagione che avevano dovute essere annaffiate tutti i giorni.  Per rendere più spericolato l’inizio della giornata e grazie ai saliscendi e alle curve. Maria vomitò per metà oltre la portiera del passeggero ma per l’altra metà sulla moquette interna della Bravo con l’autoradio prediletta da Biagioli.

Violetta era ricoverata all’ospedale di Montello perché avevano tardato ad intervenire. Dalla vigilia di ferragosto i vicini erano allarmati per quella signora stravagante che aveva intensificato le minacce di suicidio, isteriche a detta di tutti, da quando Elio il marito ingegnere edile era stato licenziato ed era partito per la Germania dove conosceva un cognato. Lei era convinta che non avrebbe trovato soltanto lavoro e già si viveva come abbandonata. Non c’erano i figli a trattenerlo in Italia e i genitori di lui erano morti l’anno passato. I genitori di Violetta invece vivevano nella capitale e si occupavano esclusivamente dei due gemelli disabili (oligofrenici gravi) nati dieci anni dopo di lei ed ora quarantenni a totale carico degli anziani genitori cui mancava lo spazio per altro dolore.

Per essere sinceri i vicini di Violetta non erano davvero preoccupati per lei considerata una stravagante rompiscatole sempre in cerca di affetto e dunque talvolta pericolosamente equivoca con i mariti del circondario. Temevano semplicemente che un tentativo di suicidio maldestro (gas) potesse trasformarsi in una tragedia.

In anamnesi aveva un T.S. con l’ingestione di aspirine, un TS con numerosi tagliuzzi sull’avambraccio ed un quasi coma alcolico. Tutti i tentativi erano stati fatti nell’immediatezza del ritorno a casa del marito. Insomma l’intenzionalità suicida non sembrava molto forte. Siccome non si sa mai il CIM era stato avvertito più volte daquelli rimasti nel palazzo nonostante il periodo estivo. Tutto si era acquietato con la partenza di Violetta per la casa di campagna della zia a Montello. Problema risolto. Invece  si era ingozzata un flaconcino di pillole per il cuore della vecchia ed era giunta al pronto soccorso per miracolo. Prima di raggiungere il letto di Violetta bisognava attraversare e chiedere informazioni a metà ospedale affrontando lo sguardo rimproverante dei sanitari che costretti a lavorare per un paziente fuori zona accusavano i colleghi locali di non aver fatto bene il loro lavoro. Persino in cartella avevano scritto “nonostante le ripetute segnalazioni dei vicini……”.

Andò avanti la dottoressa Mattiacci che alimentando volontariamente il pensiero dell’utero ricercato da Riccardo aveva un aspetto che sconsigliava il contraddirla. La dottoressa Filata, al seguito, incontrava sorrisi e gentilezza in sovrappiù come da chi esagera per compenso e per scusarsi dopo un deciso rimprovero. Una solerte caposala attrezzò una stanzetta essenziale (tre sedie e una scrivania) tranquilla e riservata più di quelle di  cui usufruivano al CIM di Monticelli.

Violetta giunta in emergenza aveva un abbigliamento rimediato dalle infermiere e donato da qualche altra paziente, non dunque il consueto pigiama d’ordinanza o le consuete tute che popolano le corsie ospedaliere. L’insieme comunque era stato da lei scelto e assemblato con cura tanto da conferirle un certo fascino sbarazzino e zingaresco. La casacca verde da infermiere di sala operatoria troppa larga era cinta in vita da una kefiah palestinese a disegni rossi che drappeggiava sopra dei pantaloncini corti che considerati i ricami dovevano essere stati delle mutande di una nonna della bella epoque. I piedi curatissimi e smaltati di un rosso ferrari  in sandali di cuoio che si arrampicavano oltre la caviglia.  Non mancava nessun accessorio utile a identificarla come una ex ragazza della generazione del boom economico e della rivoluzione hippy:  collane di pietre coloratissime intrecciate tra loro tre orecchini per orecchio assolutamente diversi tra loro, un tatuaggio piccolo del segno “fate l’amore e non fate la guerra sul polso destro ed un inconfondibile profumo di Paciuli  che attivò nelle due dottoresse un ondata di ricordi, come solo i profumi sanno fare, e la meraviglia che ancora fosse in commercio.

Violetta era pressoché coetanea delle due dottoresse.  Avrebbe compiuto 50 anni nel mese di settembre. Lo stile generale del suo aspetto sembrava orientato con molta attenzione a far vedere che non si curava. Insomma quella seduttività da “gatta morta” che  spesso inganna i maschi ma non sfugge alle altre donne provocandone l’irritazione in quanto considerata concorrenza sleale. Di poco sotto il metro e settanta aveva però tutti i tratti della femminilità solidi e ben conservati segno di una attenta politica di conservazione. Non li mostrava ma era molto attenta a verificare che fossero intuiti e apprezzati. Capelli biondi da paggetto e grandi occhi azzurri velati di una malinconia straziante che, di tanto in tanto si inumidivano  senza decidersi alle lacrime vere e proprie. Musetto imbronciato in cui si mischiavano producendo uno strano effetto tre emozioni. Il dolore per una perdita. La rabbia per un torto subito. Le scuse per aver osato chiedere ciò che non le spettava. Insomma un bambino capriccioso che si dispera per essere stato sgridato e fermamente convinto di avere ragione. 

Quasi per non creare disturbo Violetta dichiarò subito che il tentativo di suicidio era stato un momento di debolezza per lo sconforto di non riuscire a parlare con Elio che arrivato in Germania da una settimana  ancora era irraggiungibile dovendo modificare il contratto del cellulare. Le era sembrata una grave disattenzione nei suoi confronti e si era presa l’intera boccetta delle pilloline di Cuorenorm della zia Matilde. Per rassicurare le due dottoresse aggiunse che aveva lasciato la porta di casa spalancata e sapeva che la zia sarebbe tornata dopo mezz’ora.

Tanta volontà di normalizzare il gesto e di rassicurare le due dottoresse ottenne l’effetto opposto. Consultatesi con la scusa di un caffè al distributore automatico concordarono sulla sensazione di un dolore profondo inconsolabile che doveva venire da ben più lontano. Avevano l’impressione che volesse rassicurarle per liberarsene e portare a termine il progetto iniziato e, infine che  in due erano troppe e concordata la terapia farmacologica con il reparto si potevano proporre le dimissioni  e poi proseguire con una psicoterapia  affidata alla dottoressa Filata con cui sembrava esserci un particolare feeling. Avvertirono telefonicamente Biagioli perché facesse  vedere con grande evidenza che d’ora in poi Violetta sarebbe stata seguita assiduamente dal CIM. Insomma doveva fare “la moina” per rassicurare i coinquilini e diminuire così l’ostracismo nei suoi confronti. I farmaci si limitarono a blandissimi ansiolitici. La Mattiacci non amava sparare pesantemente sui sintomi senza aver prima capito i motivi profondi di un disagio.

La stanza della Filata  dove avvenivano i colloqui se si eccettua l’odore di Paciuli  sottolineava le radici culturali e generazionali comuni e le metteva a proprio agio. Naturalmente le due cornici con i figli di Maria finirono in un cassetto  dopo un bacio di saluto e di scuse della madre.

Violetta riferiva una assoluta mancanza di senso dell’intera sua esistenza. Vivere non era tanto doloroso quanto soprattutto inutile e siccome molto spesso faticoso non vedeva che senso avesse affaticarsi tanto per nulla. Il desiderio di non essere mai nata l’aveva accompagnata sin dalla prima infanzia. Usava come fantasia consolatoria nei momenti bui l’immagine di lei rannicchiata dentro una bara tre metri sottoterra  con tutto il mondo che continuava ad affaccendarsi sopra di lei. Donna colta con due lauree (scienze della formazione e sociologia) ed un diploma da logopedista, aveva già fatto due psicoterapie tra i venti ed i trent’anni quando erano gli attacchi di panico a dominare la scena.

La prima junghiana era stata interrotta per esplicite molestie sessuali del terapeuta. La seconda freudiana di tre anni aveva ben identificato il nucleo problematico nella sua famiglia d’origine. Attualmente si guadagnava da vivere lavorando come logopedista in una struttura convenzionata e la partenza del marito la metteva in serie difficoltà economiche. Il nucleo del suo problema era facilmente riassumibile quanto difficilmente modificabile avendo radici profonde nelle esperienze familiari della prima infanzia. Violetta pensava di non valere niente o peggio, di essere un elemento dannoso che rovinava tutto ciò con cui veniva in contatto, la cosiddetta “mela avariata” che fa marcire tutto il paniere.

Il senso di essere sbagliata, fuori posto, dannosa non è riferito a uno o più comportamenti ma propriamente alla sua essenza. E’ un difetto di fabbrica ineliminabile e del quale, contraddittoriamente, si sente anche colpevole. Per placare questa percezione di difettualità avrebbe bisogno di sentirsi amata. Per cercare di ottenere questo amore cerca di non dare mai fastidio (non richiedere niente) e rendersi utile. Quando tuttavia le attenzioni e i riconoscimenti arrivano li riferisce ai suoi comportamenti e non incidono dunque sull’essenza di difettualità. Non ritenendosi amabile  e certa che l’altro prima o poi scoprirà il bluff e quanto sia disgustosa non si lascia avvicinare confermando l’idea di indesiderabilità.

Oltre la professione d’aiuto che svolge è sempre stata impegnata  nel volontariato  con persone e soprattutto animali (più rassicuranti) che avessero un tale stato di bisogno da ritenerla indispensabile e dunque non lasciarla. Primogenita ha da subito dovuto occuparsi dei due fratelli più piccoli dopo l’allontanamento del padre violento e alcolista che ha lasciato la madre, quando lei aveva tre anni, in uno stato di indigenza economica e di grave depressione da cui è uscita ponendo cinicamente se stessa e i suoi bisogni al centro dell’universo. Violetta è sempre stata convinta di essere la causa dell’allontanamento del padre.

Durante l’adolescenza ha scoperto che un altro tipo di accondiscendenza con cui ottenere attenzioni e affetto era quella sessuale. Ha vissuto un periodo eroico e rischioso per promiscuità e droghe. Non che godesse. Per lei si trattava sempre di un impegnativo lavoro in vista di un riconoscimento e di un amore che curasse quella sua difettualità originaria. Non può dire di non essersi anche divertita ma quel suo disagio, quel senso di inutilità non l’ha lasciata un istante. Ed ora è stanca, tanto stanca.

Prima di Elio ha avuto altre due importanti storie inconsapevolmente scelte per confermare  la sua idea di difettualità. Renato un tossico gravissimo che  l’ha sempre lasciata al secondo posto dopo l’eroina. Gianni che per sette anni le ha detto che la moglie non contava niente per lui e aspettava solo di andarsene e nel mentre ci ha fatto altri due figli. Freud chiamava “coazione a ripetere” il riproporsi nella vita delle persone sitazioni analoghe, dolorose e dichiaratamente non volute. Più modestamente la dottoressa Filata pensava che faccia meno paura un male conosciuto piuttosto che l’ignoto. Infine era arrivato Elio  il classico buon partito, buona laurea, buon lavoro, solida famiglia alle spalle. Disposto a prendersela nonostante dopo la storia con Renato fosse molto chiacchierata. Per lei era una scelta protettiva e di stabilità dopo il periodo di follie, qualcuno con cui invecchiare serenamente.

In realtà Elio era rimasto figlio della sua famiglia d’origine senza mai proiettarsi nella nuova. A 35 anni comunicò di non volere figli perché in futuro si sarebbe dovuto occupare della cura dei propri adorati genitori. Violetta accettò perché da parte sua si riteneva incapace di procreare qualcosa di buono e tanto meno di accudirlo. Oggi il rimpianto per quella scelta la devasta. L’assoluta anaffettività di Elio se da un lato era motivo di sofferenza dall’altro suonava come conferma della sua non amabilità e dunque la giustificava ampiamente: era ciò che si meritava e non poteva pretendere di più.

Violetta aveva molti amici  a motivo della sua oblatività coatta.  Il suo dramma che la spingeva al suicidio lo descriveva dicendo che non tollerava di vivere senza essere la cosa più importante per qualcuno. Si descriveva come un pappagallo che ha bisogno di un trespolo su cui posarsi. Non lo trova ed è sempre più stanco. Siccome frugando su internet e ricordando i suoi studi di psicologia si era diagnosticata una “depressione anaclitica” caratteristica dei bambini privati di cure materne e che per tutta la vita cercano qualcuno cui appoggiarsi sentendo altrimenti di non esistere, si accordarono di chiamare questo vissuto  che la assillava “Anacleto”.

Lo scopo di Violetta era di essere amata solo se occupava completamente la mente di qualcun altro sentiva di esistere. Altrimenti non c’era. Che dico?magari non esserci. Il suo vissuto era quello di un morire infinito, un affogare senza mai toccare il fondo. Uno spasmo fisico le asserragliava il torace. Per spiegarlo a Maria disegnava una bambina su un foglio e mentre la cancellava diceva di sentirsi così. La paura di scomparire non veniva dismessa dal suo accadere. A precipizio seguiva precipizio e il terrore di cadere rimaneva intatto. L’atrocità stava nella lucidissima consapevolezza dell’imminenza della fine che non arrivava mai. Immagina, diceva,il vissuto di una partita di roulette russa o la tortura della finta esecuzione.

La gravità del caso era spesso oggetto di discussione nelle riunioni cliniche del CIM su esplicita richiesta di Mattaccini e Filata sempre più preoccupate. I pareri discordi si estremizzavano a diventare partiti. Per Irati, per la prima volta in assoluto d’accordo con una psicologa nella persona della dottoressa Daniela Ficca, era semplicemente una isterica anzi una “istericona” come si usava dire quando la categoria diagnostica veniva usata in termine dispregiativo nel senso di esagerata, commediante, viziata, manipolatrice e persino un po’ mignotta (come se chi avesse bisogno di fare tutto ciò per ottenere attenzione non fosse grandemente sofferente).

Per la Mattaccini ed il dottor Cortesi si trattava di un disturbo bipolare dell’umore e lo sbarco farmacologico in grande stile era stato fin troppo e rischiosamente rimandato. Chi sembrava capirla perfettamente era il dottor Biagioli appoggiato come al solito da Luisa Tigli. Lui che aveva sofferto da piccolo di una fortissima ansia da separazione non stentava a mettersi nei suoi panni .Spiegava agli altri che quella mancanza è un dolore muto, non riesce a dispiegarsi in parole, soffoca, svuota dal di dentro, ti lascia vivere da morto. Era pessimista, diceva che solo l’amore l’avrebbe potuta curare senza tuttavia guarirla mai ma quell’amore non era un servizio fornito dal CIM. Secondo i vecchi militanti dell’antipsichiatria ( Giovanni Brugnoli,Antonio Nitti e Maria detta Gilda) era una crisi esistenziale da menopausa ed il CIM doveva proporle una serie di attività che dessero un senso alla sua esistenza. A loro avviso si doveva puntare ad utilizzare l’oblatività coatta di Violetta e fecero numerose proposte. Volontariato nell’hospice “Exit” che operava a domicilio dei terminali, operatrice retribuita con un sussidio ASL nel centro per  homeless che il CIM aveva appena aperto nei locali della parrocchia di San Carluccio. Corso di danza africana (di cui era esperta) per i pazienti del centro diurno regolarmente in sovrappeso per i farmaci.

Violetta obbediente si sperimentava con senso del dovere in tutte queste proposte ma il senso di inutilità non si modificava. Non voleva aiutare gli altri, voleva disperatamente essere amata. Dopo che Elio le comunicò con una raccomandata A/R che non aveva intenzione di tornare chiedendole di inviare ad un indirizzo di Amburgo le sue poche cose Gilda rispolverò il suo orgoglio femminista e tutta la sua spregiudicatezza e partì all’attacco. La spinse a frugare su internet alla ricerca di occasioni di incontro per cinquantenni “ben tenute”.

In terapia alla dottoressa Filata riportava l’universo di solitudine e di squallore che le si era parato innanzi. Se si escludeva il settore delle coetanee a caccia di sesso virtuale e, se fortunate, di cazzi a tempo determinato. Era un mondo molto popolato dove riconobbe sotto nickname improbabili alcune amiche felicemente sposate e sorprendentemente una certa Makeba28GR che scoprì essere sua madre. Chi non era impegnato in safari genitali ambo i sessi si dedicava a tutto quel mondo che andava dall’astrologia, alle pratiche magiche nord europee e più o meno animiste. C’erano gruppi per ogni cosa. Vergini attempate che accoglievano la primavera danzando la notte nei boschi. Sette religiose e alimentari di ogni genere che giuravano di aver trovato il senso dell’esistenza nel quotidiano lavaggio intestinale, nell’assoluta astinenza da tutti i derivati della soia o nel rifiuto del sapone e i suoi derivati. Non ce la poteva fare. Si accusava di essere forse troppo snob ma non erano cose per lei.

Il costante peggioramento della situazione  rendeva concreto il rischio suicidiario e, di nuovo si crearono due partiti. Quelli favorevoli al ricovero immediato in trattamento sanitario obbligatorio perchè Violetta non voleva saperne e coloro che ritenevano fosse diritto di ognuno decidere per la propria vita e non ci fossero criteri esterni e oggettivi per stabilire se fosse o meno degna di essere vissuta.

Perchè di fronte ad una SLA terminale senza possibilità di comunicare con gli altri o in una “sindrome locked in” si è disposti a prendere in considerazione l’eutanasia o perlomeno la cessazione delle cure ed in una vita ritenuta intollerabile perchè senza amore no? Non c’è forse una impropria sovrapposizione dei criteri dei curanti su quelli del paziente per espropriargli una sua decisione? I dibattiti filosofici lasciarono il passo alla consuetudine clinica ormai guidata soprattutto dall’evitare questioni medico legali (la cosiddetta medicina difensiva schierata a proteggere le terga dei medici) e Violetta fu ricoverata con ordinanza del sindaco e sospiro di sollievo dei coinquilini presso l’ospedale territoriale di Vontano. Qualche piccola rogna la passò invece l’infermiere del reparto che nel tentativo di trattenerla rimase con uno di quei suoi deliziosi sandali in mano. Ma loro hanno una assicurazione specifica e prendono anche una  cospicua indennità di rischio quasi come i radiologi.

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CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

Intelligenza: una questione di genetica e non di socializzazione tra genitori e figli

FLASH NEWS

I risultati indicano chiaramente che il QI non è il risultato della socializzazione tra figli e genitori. Insomma socializzare con i nostri figli li farà sentire sicuramente più amati e fiduciosi in sé stessi, ma non innalzerà il loro QI.

Nessuna delle buone abitudini che il senso comune suggerisce essere alla base di una sana socializzazione tra genitori e figli – leggere la storia della buonanotte, impegnarsi a comunicare, cenare insieme – ha alcuna influenza rilevabile sulla futura intelligenza dei bambini.

Risultati di studi precedenti sostengono la correlazione tra intelligenza e comportamenti genitoriali, ma questo dato, sostiene Kevin Beaver, professore di criminologia alla Florida State University, potrebbe essere falsato dal fatto di non tenere conto dell’influenza genetica. In altre parole bambini più intelligenti avrebbero genitori più intelligenti e il fatto che siano anche più socializzanti non influenzerebbe la loro intelligenza.

Proprio per testare queste due ipotesi, Beaver ha utilizzato un disegno di ricerca adoption-based. Infatti, studiare i bambini che non condividono il DNA con i genitori adottivi elimina la possibilità che la socializzazione dei genitori sia in realtà un marker della trasmissione genetica.

Il disegno di ricerca prevedeva l’analisi e la comparazione di due campioni di giovani provenienti dal National Longitudinal Study of Adolescent Health (un campione di giovani, rappresentativo a livello nazionale e un campione di bambini adottati).
Lo studio ha analizzato i comportamenti genitoriali e se questi hanno avuto un effetto sull’intelligenza verbale dei figli, misurata con il Picture Vocabulary Test (PVT). I test di intelligenza sono stati somministrati ai ragazzi durante le scuole medie e superiori, e successivamente tra i 18 e i 26 anni.

I risultati indicano chiaramente che il QI non è il risultato della socializzazione tra figli e genitori. Insomma socializzare con i nostri figli li farà sentire sicuramente più amati e fiduciosi in sé stessi, ma non innalzerà il loro QI.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La Mindfulness come strumento di prevenzione e gestione dello stress lavoro-correlato

La presenza attenta e non giudicante, a quello che c’è, alla persona che è davanti a me in questo momento, produce frutti anche per la qualità delle relazioni, nel team, nell’azienda. Più ascolto, più sintonia, empatia, sollecitudine. In altri termini più intelligenza emotiva e sociale.

Cos’e’ lo stress correlato al lavoro?

Lo stress lavorativo può essere definito come un danno fisico e una risposta emotiva che interviene quando le caratteristiche del lavoro non corrispondono alle capacità, risorse o bisogni dei lavoratori (EU-OSHA, 2009).

Lo stress non è una malattia, ma uno stato di prolungata tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può causare gravi problemi di salute psicologica e fisica. Lavorare sotto una certa pressione per un breve periodo può migliorare le prestazioni e, quando si raggiungono obiettivi impegnativi, può anche produrre effetti psicologici positivi quali un aumento della soddisfazione lavorativa, motivazione e senso di autoefficacia personale. Al contrario, quando le richieste e la pressione diventano eccessive e prolungate possono causare stress e gravi problemi di salute mentale e fisica.

Perche’ e’ importante gestire lo stress lavoro-correlato?

“…Considerare il problema dello stress sul lavoro può voler dire una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme…” (Accordo Europeo sullo stress sul lavoro, Bruxelles, 8 ottobre 2004).

Attualmente la legge che disciplina la valutazione del rischio stress lavoro correlato è il Decreto legislativo 81/08, art. 28 e successive modifiche e integrazioni. Tale decreto, in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro, obbliga il datore di lavoro ad effettuare la valutazione dello stress correlato al lavoro secondo quanto previsto dall’Accordo Quadro Europeo, siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004.

Affrontare lo stress lavoro-correlato e i rischi psicosociali può essere considerato costoso, ma le ricerche mostrano che ignorare questi rischi costa molto di più (EU-OSHA, 2013). Studi recenti nei Paesi della Comunità Europea evidenziano come lo stress legato alla attività lavorativa sia il problema di salute più largamente diffuso tra i lavoratori europei dopo i disturbi muscoloscheletrici.

La condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa ed è stato stimato che una percentuale compresa tra il 50% e il 60% delle giornate lavorative perse in un anno è correlata allo stress lavorativo (EU-OSHA, 2000). Lo stress comporta costi significativi sia per le organizzazioni sia per le economie nazionali (EU-OSHA, 2014).

Da una recente relazione dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (2014) è emerso che l’ingente costo economico dello stress lavorativo è spiegato principalmente dai costi correlati alla perdita di produttività, all’assenteismo per malattia e all’assistenza sanitaria.

Inoltre, le ricerche indicano che è altamente probabile che il fenomeno aumenti in futuro, a causa di alcuni cambiamenti in corso nel mondo del lavoro (es. contratti di lavoro precari, insicurezza lavorativa, forza lavoro sempre più vecchia, squilibrio fra lavoro e vita privata): l’Organizzazione mondiale della Sanità prevede che entro il 2020 la depressione – spesso associata a uno stile di vita stressante – sarà la principale causa di assenza sul lavoro.

Effetti dello stress sui lavoratori e sulle organizzazioni

Gli effetti dello stress lavorativo a livello individuale riguardano principalmente disturbi del sonno (insonnia, incubi notturni, spossatezza al risveglio), mal di testa, disturbi dell’umore (cambiamenti di umore, ansia, attacchi di panico, depressione, apatia), disturbi cognitivi (disturbi della memoria, difficoltà di concentrazione), disturbi del comportamento (abuso di alcol, droga, cibo).

Quando lo stress è prolungato e cronico si può assistere alla comparsa di disturbi fisici, tra cui disturbi all’apparato digerente, disturbi dell’apparato cardiocircolatorio (ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica), disturbi dell’apparato genitale (alterazioni del ritmo mestruale, amenorrea), disturbi della sfera sessuale (calo del desiderio, impotenza), disturbi muscoloscheletrici, disturbi dermatologici (dermatiti, psoriasi, arrossamenti) e diabete (Backé et al., 2012; Belkic et al., 2000; Beswick et al., 2006; Chen et al., 2009).

Lo stress può causare conseguenze negative non solo per il singolo lavoratore ma anche per le organizzazioni, con particolare riferimento ad uno scarso rendimento complessivo (Baillien et al., 2009; Yildirim, 2009), maggiore assenteismo (Kivimaki, Elovainio e Vahtera, 2000; Griep et al., 2010), turnover e presenteismo (le persone continuano ad andare a lavorare quando sono malate e non possono essere efficienti), un aumento dei tassi di incidenti e infortuni e di richieste di pensionamento anticipato (Arcuri & Caciolli, 2011), un peggioramento del clima interno e dell’immagine aziendale.

Tutti questi elementi rappresentano per l’azienda evidenti costi che potrebbero essere sensibilmente ridotti applicando un percorso di prevenzione dello stress lavoro-correlato che non sia semplicemente una procedura dovuta al mero rispetto della normativa.

Come intervenire?

Gli interventi psicologici volti alla prevenzione e gestione dello stress lavorativo possono essere suddivisi in: a) interventi diretti all’organizzazione e b) interventi diretti all’individuo.

I primi riguardano interventi di tipo organizzativo che agiscono su quei fattori di rischio relativi al contenuto e al contesto del lavoro (es. job redesign, rotazione del personale). Questi interventi risultano essere efficaci in quanto vanno ad agire direttamente sulla fonte di stress, ma sono di difficile attuazione in quanto richiedono importanti risorse e l’implementazione di veri e propri cambiamenti organizzativi.

Gli interventi a livello individuale mirano a promuovere efficaci strategie di coping e di resilienza individuale al fine di modificare la valutazione cognitiva del potenziale stressor e, di conseguenza, ridurre il suo potenziale impatto negativo sulla salute. A questo proposito, le tecniche di rilassamento, tra cui in particolare la Mindfulness, sono risultati efficaci strumenti di gestione dello stress, utili anche a fronteggiare gli eventi stressanti nei luoghi di lavoro (Hulsheger et al., 2013).

Cos’è la Mindfulness

I pensieri automatici giocano un ruolo importante nello sviluppo dello stress lavoro-correlato. Divenire consapevoli di questi, quindi, può aiutare a prevenire lo stress o a gestire in modo più efficace una situazione stressante. Una pratica utile per sviluppare la consapevolezza di sé è la Mindfulness.

Si tratta di un’antica pratica meditativa di origine buddista, che può essere definita come “uno stato di coscienza o processo mentale caratterizzato da un’attenzione consapevole, libera da valutazioni e focalizzata sul presente, verso l’esperienza interna ed esterna e priva di reazioni verso di essa” (Didonna, 2009). L’obiettivo della Mindfulness, quindi, è quello di essere presenti nel “qui e ora” e di accogliere le emozioni e i pensieri, senza giudicarli.

A partire dagli anni Ottanta una grande mole di ricerche scientifiche ha mostrato l’efficacia clinica di queste tecniche sia per il trattamento di disturbi psichiatrici (Depressione, Disturbi d’Ansia, Uso di Sostanze ecc.) sia per disturbi di tipo medico (oncologia, psoriasi, dolore cronico). Sono stati approntati dei protocolli e dei modelli terapeutici di provata efficacia in cui le tecniche della psicoterapia cognitivo-comportamentale si integrano con la Mindfulness.

Un ulteriore aspetto importante di questa pratica è la rilevanza attribuita all’unità mente-corpo, basata sull’assunto che il benessere si declina e si sviluppa anche attraverso un’adeguata sintonia tra questi due sistemi. La Mindfulness consente di esplorare la propria corporeità in modo spontaneo e decentrato e di comprendere i rapporti tra le dimensioni cognitiva, emotiva e fisico-sensoriale.

Esistono delle tecniche specifiche che vengono impiegate al fine di sviluppare la consapevolezza e tra queste vi sono:

– il Body Scan, che consiste nella focalizzazione dell’attenzione sulle varie parti del proprio corpo, concentrandosi sulle sensazioni che ogni parte trasmette e che ha l’obiettivo di incrementare la consapevolezza corporea;

– la Meditazione camminata, che consiste nel porre attenzione alternativamente ad un arto e all’altro, durante il movimento, concentrandosi sui movimenti delle singole parti.

A sostegno dell’efficacia e diffusione della tecnica emerge che circa il 41% dei terapeuti (dei principali orientamenti) riferisce di impiegare la Mindfulness in psicoterapia, e, nello specifico, che circa il 69% dei terapeuti cognitivi riferisce di utilizzarla.

Il programma MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) per lo stress lavoro-correlato

L’applicazione della Mindfulness per interventi sullo stress o di tipo preventivo può quindi portare a importanti benefici. La prima applicazione della Mindfulness allo stress si è avuta nel 1979, con il programma di Mindfulness Based Stress Reduction. Questo programma è nato da un’idea di Jon Kabat Zinn, un biologo americano.

I primi destinatari di questo programma furono dei malati cronici. Per contenere lo stress portato dalle sofferenze continue a cui erano sottoposti, Zinn sottopose questi pazienti a un ciclo di otto incontri, che prevedevano la pratica attiva di questa disciplina.  Alla fine del ciclo, si osservò nei pazienti un aumento delle strategie di coping positive e una diminuzione di quelle negative.

Un programma di ricerca, fondato sulla MBSR, è stato svolto più recentemente dal Centro di Ricerca Extreme Physiology (centro che ha come obiettivo principale lo studio della risposta psicofisica dell’organismo a condizioni estreme), con operatori socio-sanitari, medici ed infermieri. Prima dell’inizio del programma, il personale sanitario è stato sottoposto a misurazioni psicofisiologiche per rilevare una condizione di stress, quali ECG, misurazione di valori pressori pre e post turno di lavoro, rilevazione del cortisolo e dei livelli di colesterolo presenti nel sangue, test psicometrici per valutare il livello di stress percepito ed eventuali disturbi del sonno. Successivamente il personale è stato introdotto alle pratiche Mindfulness.

Al termine del ciclo di incontri, sono state effettuate nuovamente delle misurazioni psicofisiologiche, per valutare come e se fossero variati i livelli di stress percepito. Analisi statistiche hanno evidenziato una diminuzione del valore medio della scala relativa all’ansia e allo stress.

Una ricerca simile è stata condotta con il personale medico e paramedico rispetto all’influenza della Mindfulness sul burnout. Goodman e Schorling (2012) hanno sottoposto il personale sanitario a misurazioni pre e post corso di Mindfulness, per quanto riguarda le tre dimensioni del burnout, misurate dal Maslach Burnout Inventory (MBI): Esaurimento emotivo, Depersonalizzazione e Diminuzione di Autoefficacia. Dal confronto tra le misurazioni pre e post, gli autori hanno stimato un decremento nelle dimensioni di Esaurimento emotivo e Depersonalizzazione e un aumento nella percezione del senso di Autoefficacia.

Effetti psicofisiologici della Mindfulness

Gli effetti positivi della Mindfulness sono stati riscontrati anche a livello del funzionamento cerebrale. Davidson et al. (2003) ha condotto infatti uno studio per valutare l’impatto della Mindfulness sulle funzioni cerebrali, servendosi del neuroimaging. La Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) ha rivelato una crescita di quelle aree della corteccia prefrontale dedicate alla Stabilità Emotiva, alla Capacità di Regolazione delle Emozioni, alla Sintonia Interpersonale e alla Conoscenza di Sé.

Un’altra ricerca condotta da Lazar et al. (2000) ha trovato nei praticanti di Mindfulness un ispessimento della corteccia mediale e un ampliamento dell’insula destra, rispettivamente sedi dell’Empatia e della Capacità di Autosservazione.

Ulteriori ricerche hanno riportato i seguenti dati:

• maggiore attenzione rispetto all’ambiente circostante (suoni, odori ed aspetti visivi);

• maggiore consapevolezza rispetto all’influenza delle emozioni su pensieri e comportamento;

• acquisizione di un atteggiamento non giudicante rispetto ai propri pensieri ed emozioni;

• incremento della capacità di sentire le emozioni;

• espressione più efficace delle proprie emozioni.

L’acquisizione di un atteggiamento non giudicante rispetto a pensieri ed emozioni consente di identificare gli assunti che guidano le interpretazioni che si danno a percezioni e stimoli interni ed esterni. Ciò può permettere una gestione più efficace delle emozioni elicitate da tali assunti. La regolazione delle emozioni, infatti, è alla base della prevenzione e gestione dello stress.

Perché molte organizzazioni inseriscono la Mindfulness nei loro programmi di sviluppo e formazione?

Pesci. Due pesci rossi, arrivando da direzioni opposte si incontrano e uno chiede all’altro: “com’è
l’acqua dalla tua parte?” “l’acqua? cos’è l’acqua?”

Umani. Il responsabile marketing scende soddisfatto dalla sala riunioni dopo il grande successo della sua presentazione al Direttore Generale. La presentazione ha comportato mesi di lavoro dei suoi tre bravi collaboratori. Lui passa veloce davanti alla loro stanza. Li vede. Ma non li nota. Non li guarda. Tira dritto. Loro invece lo hanno notato.

Di cosa stiamo parlando?

Stiamo parlando di Mindfulness: presenza mentale, e del suo contrario, la Mindlessness, ossia quello stato mentale caratterizzato da: distrazioni, automatismi, reattività, che fa vivere la vita guidati dal pilota automatico. Come quella del pesce che non sa dell’acqua in cui vive, o del responsabile marketing che non vede il bisogno di riconoscimento dei collaboratori.

Stiamo parlando di una facoltà, la Mindfulness, che è la base per la crescita personale e lo sviluppo professionale; una capacità che agendo direttamente sul livello della persona permette di migliorare anche le competenze di un ruolo all’interno dell’organizzazione. Siamo nel campo di training della persona, del cambiamento nelle persone. E poiché sono le persone che formano le organizzazioni, stiamo parlando anche di organizzazioni che crescono, si sviluppano ed imparano ad affrontare efficacemente i numerosi cambiamenti che la società moderna impone.

Stiamo parlando di accompagnare le persone e le organizzazioni in un percorso di crescita per lo sviluppo di quelle competenze trasversali che contraddistinguono il valore aggiunto delle imprese moderne. Stiamo parlando di vera leadership e di followership. Capacità indispensabili per poter lavorare con efficienza in team. 

Infine stiamo parlando di Mindfulness come capacità di rispondere (che è diverso da reagire) efficacemente all’eccessivo stress imparando a gestirlo, e a ridurre la sofferenza ed il disagio, sia nel lavoro che nella vita di tutti i giorni. Molte aziende, sia all’estero che in Italia, stanno inserendo il training alla pratica di Mindfulness nei loro programmi di sviluppo risorse umane.

Questo sta avvenendo anche in molte business school, che sono i luoghi di preparazione dei futuri manager. Qual è il motivo di questa diffusione? Ci sono ragioni diverse, attinenti aree differenti, ma fortemente convergenti.

La prima investe l’area del personal developement di quadri e dirigenti. Sempre di più assistiamo ad una presa di coscienza che la formazione e l’apprendimento vanno perseguiti con percorsi che lascino spazio alla soggettività, alla messa in gioco dell’individuo, al suo lavoro su se stesso. In questo senso va letta la crescente diffusione del coaching. Lo stesso vale per la pratica di Mindfulness: un lavoro condotto anche in gruppo che attiva percorsi di consapevolezza individuale profonda.

Questi approcci formativi sono adottati dalle organizzazioni che necessitano di quadri e manager più consapevoli, presenti, capaci di ascolto, ricettivi e aperti al cambiamento, meno reattivi e intrappolati in reazioni emotive automatiche e inconsapevoli, come la paura del nuovo, l’ansia, l’autoriferimento, ecc. I programmi di Mindful leadership vengono condotti per far crescere capi consapevoli ed empatici, capaci di assumere profondamente il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, e di gestire efficacemente i gruppi di lavoro.

Una seconda ragione di diffusione della Mindfulness nei contesti organizzativi riguarda il tema delle relazioni. La presenza attenta e non giudicante, a quello che c’è, alla persona che è davanti a me in questo momento, produce frutti anche per la qualità delle relazioni, nel team, nell’azienda. Più ascolto, più sintonia, empatia, sollecitudine. In altri termini più intelligenza emotiva e sociale. Meno reattività, con tutto il tristemente noto seguito di conflitti, scontri egoici, contrapposizioni. Fattori che oltre a rendere tossica la vita delle persone nel lavoro, comportano costi elevati anche in senso economico. Il punto è proprio costruire, passando per le singole persone, quel Mindful workplace, o luogo di lavoro consapevole, che rifletta le qualità viste sopra.

La terza ragione investe l’area energia/stress/benessere. Le aziende rischiano di diventare ambienti con elevati livello di stress diffuso. L’eccesso di stress brucia l’energia delle persone e quindi dell’azienda, e provoca situazioni di squilibrio, di potenziale burn out, aumenta il rischio di turnover, ed i livelli di assenteismo con un relativo calo della produttività delle imprese.

La pratica della Mindfulness attiva risorse e consapevolezze che consentono alle persone di passare ad un livello più consapevole di rapporto con le cause di stress e di imparare a gestire lo stress contribuendo a una vita lavorativa più appagante con il conseguente incremento delle performance. Il benessere in azienda non va visto come una parentesi di rilassamento ogni tanto, ma come un modo più bilanciato di stare nel quotidiano lavorativo, momento dopo momento.

Molte organizzazioni e business school stanno acquisendo consapevolezza dell’importanza della pausa, nel vorticoso ritmo del “fare fare fare”, tipico della vita aziendale. Senza la capacità di schiacciare ogni tanto il tasto pausa noi perdiamo di vista noi stessi, il nostro corpo, la nostra energia, le nostre emozioni, e il senso di ciò che stiamo facendo. E perdendoli di vista non siamo più in condizione di prenderci cura di queste cose importantissime, che influenzano sia la vita lavorativa che la vita privata.. e così ci dimentichiamo di chi fa il fare, cioè di noi stessi.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte e degli studi condotti sulla percezione dello stress lavoro correlato sarebbe utile approfondire questa pratica che ha ormai preso piede anche in occidente e di iniziare a considerarla come una valida alternativa o come tecnica integrativa alle classiche tecniche di rilassamento e alle terapie individuali, che vengono abitualmente usate negli interventi sullo Stress.

[blockquote style=”1″]Osservare deliberatamente il tuo corpo e la tua mente, lasciando che le tue esperienze scorrano liberamente di momento in momento e accettandoli così come sono. Non significa rifiutare i pensieri o bloccarli o reprimerli. Non significa controllare alcunchè, eccetto la direzione della tua attenzione[/blockquote]

Jon Kabat-Zinn, 1990

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli sdraiati e i loro padri, di Michele Serra – Recensione

È un esercito di vanagloriosi, quello dei vecchi, troppo intenti a mostrarsi ancora forti e capaci, non finiti, da non capire quanto una battaglia contro i giovani sia inutile e infruttuosa e vada contro la bellezza, la natura e la vita stessa.

Il giornalista e scrittore Michele Serra ci presenta con dolceamara ironia la sua visione di paternità, ponendosi dal di dentro. È lui il padre ed è suo il figlio portati ad esempio, sullo sfondo di una modernità, anche emozionale, che li ospita.

Nonostante la brevità dello scritto, nelle pagine si intrecciano tre strade narrative: episodi quotidiani del rapporto tra il Serra-padre e suo figlio adolescente, a cui si interpongono spezzoni di un romanzo sarcastico, che l’autore dichiara di voler scrivere, ambientato in un futuro ipotetico e che racconta della grande guerra finale tra giovani e vecchi. Compaiono, inoltre, brevi flash di una gita in montagna.

Il fil rouge è lo scambio intergenerazionale tra gli “eretti” e gli “sdraiati”, tra vecchi padri e giovani figli, tra generazioni consecutive ma allo stesso tempo lontane.

Forse a causa di una modernità più larga e più comoda, sono le posizioni ad essere cambiate, e con esse la visione che ciascuna prospettiva comporta. Il rapporto genitori/figli che emerge dall’asciutta prosa dell’autore è un rapporto di conflitto, di incomprensioni, di mancata conoscenza reciproca e di una conseguente estraneità che connota questa coppia relazionale e ne allontana i membri.

La voce del padre che urla tre le righe del romanzo sottilmente racconta proprio di una non comprensione e per certi aspetti di una non accettazione del mondo dei figli, che può evolversi in un’inadeguatezza nell’avvicinarsi a loro, o addirittura in un’ostilità. Ciò che non si conosce, spaventa e ciò che spaventa, o si allontana o si combatte.

Proprio quello che l’autore si propone di portare in scena nel fantascientifico romanzo di cui anticipa la genesi: è la lotta tra vecchi e giovani, tra la superiore lungimiranza dei primi e la confusione dei ultimi.  È un esercito di vanagloriosi, quello dei vecchi, troppo intenti a mostrarsi ancora forti e capaci, non finiti, da non capire quanto una battaglia contro i giovani sia inutile e infruttuosa e vada contro la bellezza, la natura e la vita stessa.

Nell’epilogo della gita in montagna, infine, fa capolino l’essenzialità del messaggio dell’autore/padre. Bastano due sillabe urlate al fondo di un sentiero nel paesaggio dove ancora galleggiava la sua infanzia a destarlo dal dialogo mentale che si snoda per tutte le 100 pagine: è un’accusa, un richiamo all’ordine. “Io – non altri- sono quelle due sillabe. Io sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve” (p. 107). È un riconoscimento: la restituzione da parte del figlio al padre, del giovane al vecchio, dell’importanza di un ruolo, del suo peso imprescindibile, della sua necessaria presenza.

Al di là di regole, schemi, consigli, cioè che rende genitori è esserci nella relazione, riconoscere la propria parte, senza dare per scontata l’assoluta adesione alla stessa. Si diventa genitori, ma si continua ad essere persone che seguitano comunque a vivere: “L’amore naturale che si porta ai figli bambini non è un merito. Non richiede capacità che non siano istintive. Anche un idiota o un cinico ne è capace. […] E anni dopo, è quando tuo figlio si trasforma in un tuo simile, in un uomo, in una donna, insomma in uno come te, è allora che amarlo richiede le virtù che contano. La pazienza, la forza d’animo, l’autorevolezza, la severità, la generosità, l’esemplarità…troppe, troppe virtù per chi nel frattempo cerca di continuare a vivere.” (p. 21).

È una sagoma paterna (più in generale, genitoriale) delicata, quella che compare sullo sfondo del romanzo, che rappresenta anche un elogio ad una generazione tanto discussa, ma forse poco compresa. Sono gli sdraiati e i loro padri.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Serra, M. (2013). Gli sdraiati. Feltrinelli Editori, Milano.

The Walking Dead: dalla parte degli zombies – Psicologia & TV Series

Il virus che sembrava essere controllato, ha preso piede. I morti si risvegliano ed attaccano i vivi, la cui presenza è sempre minore. I pochi superstiti presto si accorgeranno che i veri nemici sono gli altri esseri umani, spinti unicamente dall’istinto di sopravvivenza.

In America prima ed ora anche in Italia ha grande successo la pluripremiata serie di FOX The Walking Dead. prodotta dal 2010 e basata sull’omonima serie a fumetti scritta da Robert Kirkman.

Rick Grimes è uno sceriffo vittima di un incidente durante uno scontro a fuoco con dei fuorilegge: colpito alla schiena, va in coma, lasciando tra le lacrime la moglie Lori e il figlio Carl. Il risveglio, poco tempo dopo, è traumatico: l’ospedale è distrutto ed è pieno di cadaveri. Rick non ci metterà molto a capire la situazione: il virus che sembrava essere controllato prima del suo incidente, ha preso piede. I morti si risvegliano ed attaccano i vivi, la cui presenza è sempre minore. Lo sceriffo sfrutterà tutte le sue abilità di sopravvivenza e di capacità con le armi per sopravvivere ed uscire dalla città, trovando altri superstiti rifugiati tra i boschi: tra questi, ritrova la famiglia e il suo migliore amico Shane. Costretti poi a spostarsi, presto si accorgeranno che i veri nemici sono gli altri esseri umani, spinti unicamente dall’istinto di sopravvivenza.

In un mondo da day after si scatena una guerra tra bande di umani per la sopravvivenza. L’unico sistema motivazionale attivo è quello agonistico tra i vari gruppi e all’interno degli stessi gruppi con una lotta spietata per la definizione del rango, anche quando apparirebbe decisamente più conveniente un atteggiamento cooperativo considerata la costante minaccia esterna.

I figli mi accusano di complicità con gli zombies per i frequenti moti di pena e tenerezza che esprimo nel vedergli aprire la testa come cozze pelose baresi con ogni strumento possibile (armi da fuoco, frecce, mazze da baseball) unico modo per ucciderli definitivamente.

Non metto in dubbio che per il loro aspetto da cadavere raffermo appena diseppellito, l’andatura da emiparetico, un linguaggio che non oltrepassa gli ingenui versacci gutturali che si fanno per spaventare i bambini nel gioco la strega di mezzanotte e soprattutto la cattiva abitudine di azzannare gli umani per nutrirsene trasformandoli a sua volta in zombies non suscitino immediata simpatia, anche se, a guardar bene, alcune gonnellone che sembrano reduci da Woodstock, non siano affatto male (sono consapevole che deve essere qualche perverso adolescenziale imprinting a condizionarmi).

Mi sono chiesto dunque perché, nel profondo, stessi dalla loro parte (gonnellone a parte). Risposta semplice. Essi sono esattamente come i matti. Malati (si ricordi che sono colpiti da un virus) non si pensa di curarli ma di allontanarli ed eliminarli considerandoli portatori di tutti i possibili mali e soprattutto capaci di attaccare la follia, la Zombaggine, ai sani. Questi ultimi peraltro non si fanno mancare niente e non hanno bisogno di alcun contagio per mostrare in proprio tutti i possibili più gravi disturbi di personalità (antisociali pericolosi, narcisisti maligni e borderlinaggine per tutti q.b).

Insomma nell’atteggiamento verso gli zombies ho ritrovato tutti i pregiudizi dello stigma verso i pazienti psichiatrici.

La serie, peraltro affascinante nella regia e con effetti speciali che non cessano di suscitare incredulità può essere anche letta in questa prospettiva.

 

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Perchè la tristezza dura più a lungo delle altre emozioni?

FLASH NEWS

Le emozioni che durano meno sono anche quelle suscitate da eventi considerati soggettivamente poco importanti; le emozioni che durano di più invece sono legate a eventi a forte impatto per il soggetto, con conseguenze marcate.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Motivation and Emotion, la tristezza si spegne più lentamente di altre emozioni, come vergogna, sorpresa rabbia e noia. Perchè?

I ricercatori della University of Leuven, in Belgio, hanno chiesto a 233 studenti delle scuole superiori di ricordare episodi emotivi recenti e di valutarne la durata. I partecipanti dovevano, inoltre, rispondere a domande sulle strategie usate per valutare e gestire le emozioni in questione.

Dallo studio emerge che la dimensione che permette di distinguere tra emozioni altrimenti molto simili è proprio la durata. I risultati, infatti, indicano differenze significative nella durata delle diverse emozioni: su una serie di 27 emozioni, la tristezza è durata più a lungo delle altre, mentre la vergogna, sorpresa, paura, disgusto, noia, irritazione o sensazione di sollievo erano spesso momentanee.

È interessante notare che la noia era tra le emozioni vissute per un minor tempo; secondo i ricercatori, a dispetto della sensazione comune che la noia duri a lungo, quest’emozione è in realtà molto fugace. Il senso di colpa invece persiste molto più a lungo della vergogna, mentre l’ansia dura più a lungo della paura.

In generale è emerso che le emozioni che durano meno sono anche quelle suscitate da eventi considerati soggettivamente poco importanti; le emozioni che durano di più invece sono legate a eventi a forte impatto per il soggetto, con conseguenze marcate.

Alcune delle implicazioni di un evento possono diventare evidenti solo con il passare del tempo a causa del pensiero ripetitivo attorno all’evento stesso: rimuginare o ruminare aumenta l’emozione corrispondente che a sua volta incrementa il pensiero attorno all’evento e alle sue conseguenze, in un circolo vizioso emotivo-ideativo autorinforzante.

“La ruminazione, sostengono i ricercatori, è il fattore centrale nel determinare perché alcune emozioni durano più a lungo rispetto ad altre. Emozioni associate con alti livelli di ruminazione dureranno, inevitabilmente, più a lungo”.

Questo studio sottolinea e suggerisce quanto sia importante, in ambito clinico, poter intervenire sui processi ruminativi che sottendono alla persistenza dell’emozione di tristezza nei disturbi depressivi.

 

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Il costo economico della tristezza #1

 

BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze comportamentali e società: oltre il Neodarwinismo – XI Edizione dell’ICBS, Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

Non si può più sostenere la vecchia dicotomia “influenze ambientali vs ciò che è geneticamente determinato”, ma è necessario andare oltre: è riduttivo fermarsi all’idea che l’ambiente impatti sul corredo genetico concretizzando le condizioni di rischio (vulnerabilità o suscettibilità) congentite, bisogna invece riconoscere che l’ambiente agisce anche determinando modifiche nell’espressività dei geni nel corso della vita.

Oggigiorno il primato della genetica sembrerebbe indiscutibile: ogni due per tre i giornali pubblicano articoli che titolano a caratteri cubitali SCOPERTO IL GENE… e proliferano studi sui geni coinvolti nell’autismo, nell’invecchiamento, nelle differenze di genere (per una discussione vedi Di Nuovo, 2014), nell’amicizia (Fowler et Al., 2011), nel divorzio (Walum et. Al, 2012), e chi più ne ha più ne metta.

La rilevanza della genetica viene ben sintetizzata dal pensiero di Jean-Pierre Changeaux (1998): “L’importanza di fattori genetici nell’organizzazione anatomica del sistema nervoso, nella genesi e propagazione dell’attività nervosa e infine nella realizzazione di comportamenti così evoluti come l’apprendimento o gli stati affettivi. L’onnipotenza dei geni è qui.” 

Ma riconoscere il potere dei geni – sostiene il prof. Di Nuovo – non significa sottomettere qualsiasi cosa alla loro autorità! Possiamo sostenere che il cervello e la sua organizzazione siano la mera espressione di un programma genetico? No! E questo ce lo dimostra l’epigenetica, che studia i geni alla luce delle loro modificazioni espressive nell’ambiente e non come se fossero un’entità immutabile.

Il background genetico di una persona, infatti, è sì una struttura stabile, ma il funzionamento dei geni, la loro espressione, può cambiare sulla base di stimoli esterni: per esempio, sappiamo che non tutti i geni sono espressi, alcuni sono silenti; sappiamo che ci sono geni che non sono sempre espressi; sappiamo che alcuni geni non sono espressi contemporaneamente ad altri… e stimoli esterni sono in grado di realizzare quello che viene definitivo imprinting genomico, che include fenomeni quali l’attivazione o silenziamento di un gene, l’instabilità cromosomica e il rimodellamento cromosomico.

L’interazione dei meccanismi epigenetici con l’esposizione a fattori ambientali (es. agenti biologici o chimici, alimentazione, stressors, ambiente arricchente o negativo…) determina delle epi-mutazioni, cioè delle variazioni nel funzionamento dei geni la cui struttura, però, rimane immutata.

Quanto sopra descritto ha una forte relazione con il concetto di plasticità neuronale: mentre i geni guidano l’iniziale processo di sviluppo del cervello e la formazione di connessioni neurali, l’esperienza dell’individuo e la sua interazione con un ambiente più o meno ricco di stimoli portano ad una modifica degli stadi finali dello sviluppo dei circuiti cerebrali ed infine allo sviluppo di diverse forme di comportamento.

Alla luce di ciò la relazione tra geni → meccanismi neurobiologici e neurochimici → comportamento (normale e patologico) non può essere più letta in maniera lineare top – down, con interventi che hanno come target privilegiato solo i meccanismi neurobiologici e neurochimici (farmaci); poiché comportamento (inteso nel senso ampio del termine, che comprende gli aspetti emotivi, cognitivi e verbali) e meccanismi neurobiologici interagiscono tra loro e si influenzano a vicenda, anche gli interventi sul comportamento acquistano un ruolo importantissimo. I possibili campi di applicazioni di interventi psicologici sono svariati, dallo sviluppo infantile alle malattie neurodegenerative, dall’indebolimento cognitivo nella vecchiaia all’esordio delle malattie oncologiche ai disturbi cognitivi e comportamentali…

Non si può più sostenere la vecchia dicotomia “influenze ambientali vs ciò che è geneticamente determinato”, ma è necessario andare oltre: è riduttivo fermarsi all’idea che l’ambiente impatti sul corredo genetico concretizzando le condizioni di rischio (vulnerabilità o suscettibilità) congentite, bisogna invece riconoscere che l’ambiente agisce anche determinando modifiche nell’espressività dei geni nel corso della vita.

La portata di un superamento del paradigma neodarwiniano a favore di una prospettiva che riconosca il ruolo attivo giocato dall’ambiente nella modifica dell’espressività genetica è evidente: la possibilità di creare ambienti in grado di offrire stimoli arricchenti sia per il corpo che per la mente rappresenta una opportunità che deve essere colta sia in ambito psicologico che sociale come forma di intervento di certo non secondaria agli interventi farmacologici.

 

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Behavior Science and Policy: XI Edizione dell’ICBS – Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

 

BIBLIOGRAFIA:

Behavior Science and Policy: XI Edizione dell’ICBS – Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

Chi pensava che il comportamentismo fosse morto ha commesso un grave errore: il paradigma si è certamente evoluto rispetto al riduzionismo e riduttivismo che lo ha caratterizzato nei primi anni della sua esistenza e oggi continua ad influenzare, grazie anche alla rigorosa metodologia scientifica che lo distingue, vari campi, dalla salute umana.

Il 6 e 7 novembre l’università IULM di Milano ha ospitato il Behavior Science and Policy, XI Edizione dell’ICBS – International Congress on Behavior Studies organizzato da IESCUM, l’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano, centro studi e ricerche no profit che ha l’obiettivo di “promuovere lo studio scientifico e l’avanzamento della conoscenza relativi al comportamento umano (compresi gli aspetti emotivi, cognitivi e verbali) con particolare attenzione alle applicazioni psicologiche per la soluzione di problemi pratici nonché alla prevenzione e al rimedio del disagio umano in un mondo soggetto a rapidi e continui cambiamenti”.

La XI Edizione dell’ICBS è stata l’occasione per “approfondire e discutere temi di grande attualità e interesse secondo la prospettiva della scienza del comportamento che, attraverso il metodo scientifico, studia il comportamento umano per promuovere in maniera efficace il cambiamento individuale e della società.”

Il congresso ha visto moltisssimi interessanti contributi in diversi ambiti, tra cui salute e prevenzione, politiche sociali, amministrazione pubblica, sostenibilità e smart cities. Per citarne alcuni, nell’ambito delle politiche sociali T.V. Joe Layng ha illustrato il ruolo delle contingenze di esclusione nello sviluppo della violenza e del terrorismo e gli interventi da adottare per prevenirli o contrastarli; nell’ambito della salute Hans Rudiger Rottgers ha descritto il ruolo delle scienze comportamentali nella terapia dell’autismo in Germania mentre la Dott.ssa Majani, attraverso il brillante intervento “La psicologia in sanità fa risparmiare?”, ha mostrato come per poter promuovere la psicologia nell’ambito sanitario – dove chi prende le decisioni parla un linguaggio economico – , è importante sapersi interfacciare sia con gli aspetti di efficacia clinica degli interventi psicologici sia con la loro utilità economica.

Durante il congresso si è inoltre discusso, tra i tanti argomenti affrontati, con il Prof. Santo Di Nuovo dell’Università di Catania del rapporto di influenza reciproca tra genetica e comportamento, si è parlato con il Dott. Goyos del ruolo dell’ambiente nell’influenzare il comportamento (Behavioral Games and the study of generosity), e alcuni esponenti dello IESCUM hanno evidenziato come interventi psicologici (es. ACT – Acceptance and Commitment Therapy) volti ad aumentare la flessibilità psicologica possano promuovere comportamenti efficaci e benessere all’interno di contesti sociali.

Il comportamentismo nel 2013 ha festeggiato un secolo di vita con la pubblicazione del testo Cent’anni di comportamentismo. Dal manifesto di Watson alla teoria della mente, dalla BT all’ACT (Franco Angeli Edizioni), un prezioso volume che raccoglie gli scritti di esponenti storici del comportamentismo italiano e internazionale (di questi ultimi i contributi sono in lingua inglese) offrendo una visione attuale e aggiornata di questo paradigma.

Chi pensava quindi che il comportamentismo fosse morto ha commesso un grave errore: il paradigma si è certamente evoluto rispetto al riduzionismo e riduttivismo che lo ha caratterizzato nei primi anni della sua esistenza e oggi continua ad influenzare, grazie anche alla rigorosa metodologia scientifica che lo distingue, vari campi, dalla salute umana (si pensi agli interventi Evidence Based) alla prevenzione, dall’ambito sociale a quello politico (es. la Nudge Theory1), dimostrando che dall’alto dei suoi cento anni non solo è vivo e vegeto, ma ha ancora tanto da offrire allo studio del comportamento umano.

 

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Neuroscienze comportamentali e società: oltre il Neodarwinismo – XI Edizione dell’ICBS, Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

 

BIBLIOGRAFIA:

Ti presento Bill (Meet Bill) (2007) – Cinema & Psicoterapia #32

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #32

Ti presento Bill (Meet Bill) (2007)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Bill presenta i tratti di una personalità dipendente. È un perdente, dipende economicamente e affettivamente dalla moglie Jess. Teme di essere abbandonato e quando la moglie lo tradisce e lo dileggia con il suo amante, è pronto a perdonare e tentare di riconquistarla.

Un film di Bernie Goldmann, con Aaron Eckhart, Jessica Alba, Elizabeth Banks, Logan Lerman, Holmes Osborne. Commedia. USA 2007.

Trama

Bill è un uomo in crisi d’identità. Sposato con la figlia di un banchiere, da cui dipende, non ha scopi e ambizioni, vive agiatamente ma non è felice. La moglie Jess lo tradisce con un presentatore televisivo, arrogante e narcisista.

Dopo aver scoperto il tradimento, Bill viene anche umiliato, ridicolizzato e sbattuto fuori casa dalla moglie. Ciò nonostante Bill non vorrebbe lasciare Jess e invece di agire con dignità e assertivamente, assume comportamenti goffi e maldestri. L’amicizia con un giovane studente e con la sua compagna aiuterà il protagonista a superare le difficoltà e a decidere di abbandonare la moglie.

Motivi d’interesse

Bill presenta i tratti di una personalità dipendente. È un perdente, dipende economicamente e affettivamente dalla moglie Jess. Teme di essere abbandonato e quando la moglie lo tradisce e lo dileggia con il suo amante, è pronto a perdonare e tentare di riconquistarla.

Nonostante venga umiliato, ridicolizzato, anche se la moglie lo tradisce nel suo letto dopo avergli impedito di avvicinarsi a casa, e con arroganza e durezza ribalta la colpa su di lui, non riesce a reagire, si sente perso.

Jess lo tradisce con un uomo che è al polo opposto, un narcisista che ha una considerazione grandiosa di sé. Il contrasto e la contrapposizione tra i tratti di personalità dei due è evidente.

La difficoltà di regolare le scelte e l’assetto mentale senza più legami di dipendenza fa scivolare Bill in un vuoto terrifico. L’amicizia con lo studente e la sua amica in una prima fase risponde all’uso ipertrofico del coordinamento interpersonale come strategia di mastery, ma pian piano consente un processo di autonomizzazione e indipendenza che culminerà nella scelta di abbandonare la moglie e cambiare vita.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può aprire scenari alternativi e indicare una via percorribile per i pazienti con disturbo dipendente di personalità. Offre ottimi spunti per confrontarsi sugli stati mentali del paziente e sui cicli interpersonali disfunzionali.

In fase di assessment può avere una funzione specchio che faciliti il riconoscimento e incrementi la consapevolezza e la motivazione.

Trailer

 

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Fai le ore piccole? Hai un rischio maggiore di fare abuso di alcool

 FLASH NEWS

La preferenza ad andare a letto tardi e dormire durante il giorno è risultata essere statisticamente associata ad una maggiore quantità di alcol ingerito e ad una più alta frequenza di comportamenti di Binge Drinking.

Comunemente esistono soggetti che preferiscono alzarsi presto al mattino e altri che amano stare svegli fino a tardi per poi dormire di giorno. Tali comportamenti sono in realtà regolati da fattori genetici. Inoltre, la tendenza a “fare le ore piccole” esporrebbe il soggetto a un maggior rischio di consumo di alcol, che potrebbe avvenire o in tarda giornata o durante la notte.

A tale proposito, Nathaniel Watson e i colleghi dell’University of Washington e dell’University of Texas hanno recentemente indagato la relazione esistente tra la preferenza a dormire durante il giorno ed il consumo di alcol.

Per fare ciò i ricercatori hanno sviluppato uno studio su un campione di 2.945 soggetti. La preferenza per un particolare ritmo sonno/veglia è stata valutata attraverso la somministrazione del Morningness-Eveningness Questionnaire (rMEQ). Il consumo di alcol è stato indagato chiedendo ai soggetti informazioni in merito alla frequenza e alla quantità di alcol ingerito, compresa la frequenza di episodi di Binge Drinking (consumo di sei drink o più in un’unica occasione).

Nell’analisi dei risultati è stato utilizzato un modello quantitativo genetico per indagare i fattori genetici ed ambientali che determinano la preferenza per svegliarsi presto oppure stare  svegli fino a tardi per poi dormire nel corso della giornata. Inoltre, tali ritmi sonno/veglia sono stati messi in relazione al consumo di alcol.

Da tale studio è emerso che:

•    I fattori genetici spiegano il 37% della varianza in merito alla preferenza per uno dei due ritmi sonno/veglia;

•    Tra le due tendenze non esiste una differenza in termini di frequenza nel consumo di alcol;

•    La preferenza ad andare a letto tardi e dormire durante il giorno è risultata essere statisticamente associata ad una maggiore quantità di alcol ingerito e ad una più alta frequenza di comportamenti di Binge Drinking.

Secondo gli autori tra i geni responsabili della preferenza per uno dei due comportamenti sonno/veglia esisterebbe un sottogruppo specifico (NPAS2) che risulta implicato anche nella regolazione del consumo medio di alcol.

Il limite più importante in questo studio riguarda la scelta della modalità di indagine del consumo di alcol. Infatti, gli autori riconoscono che gli item utilizzati erano troppo pochi e che, inoltre, indagavano nello specifico problematiche legate all’abuso o alla dipendenza da alcol. Ciononostante, i risultati di tale ricerca sono importanti in quanto sottolineano che la tendenza a “fare le ore piccole“ costituisce un fattore di rischio rilevante in merito al consumo di alcol, sulla base dell’implicazione di fattori genetici in entrambi i processi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

I disturbi psichici nel bambino e nell’adolescente: dal pregiudizio all’evidenza scientifica – Report dal Congresso di Rimini, II giornata

Responsabile dell’unità operativa di neuropsichiatria dell’ospedale Bambin Gesù di Roma,  il dott. Stefano Vicari affronta con uno stile dichiaratamente provocatorio l’intervento dal titolo: “I disturbi psichici nel bambino e nell’adolescente: dal pregiudizio all’evidenza scientifica”. Il suo intervento cerca di abbattere alcuni tra i più diffusi miti e credenze che ruotano attorno al tema della salute mentale nei minori.

1. Le malattie mentali esistono davvero anche in età evolutiva? Non sono piuttosto disturbi che appartengono solo al mondo degli adulti?

La risposta è no. Le proiezioni per il 2020 dell’Organizzazione mondiale della sanità  parlano chiaro: il carico di disabilità legato ai disturbi mentali è destinato ad aumentare e nel 2020 i bambini e adolescenti ad aver bisogno di un supporto psicologico o psichiatrico saranno il 20%.

Inoltre le malattie mentali in età evolutiva non solo esistono ma la maggioranza dei disturbi mentali in età adulta hanno preso origine in infanzia e in adolescenza. Infatti il 75% di queste si manifesta in maniera sintomatologicamente evidente entro i 25 anni. Il picco di incidenza delle malattie psichiatriche si ha tra i 12 ed i 35 anni (Patel, Fisher et al., 20071).

Supereroi fragili: Convegno Rimini - Grafico 1

 Nella figura si nota come gran parte dei disturbi mentali più frequenti hanno avuto un’età di insorgenza di molto precedente l’età adulta. Il disturbo d’ansia ad esempio è evidente in una percentuale che va dal 50% al 75% dei casi già dai 5-6 anni. Purtroppo però nonostante siano chiaramente presenti anche in età infantile spesso non vengono riconosciuti, diagnosticati e trattati come dovrebbero.

Secondo uno studio pubblicato nel 2011 su The Lancet la prima causa di disabilità in termini generali fra i 10 e 24 anni d’età sono i disturbi dell’umore. Al secondo posto ci sono gli incidenti stradali, al terzo posto la schizofrenia e al quarto il disturbo bipolare.

 Vanzetta - grafico 2

 

Nel nostro paese uno studio epidemiologico svolto nel 2009 mostra come il 10% degli adolescenti testati nelle scuole su in campione di quasi 3500 partecipanti presentano un disturbo mentale diagnosticabile secondo i criteri del DSM-IV.

Lo studio è stato separato  in due fasi che hanno visto la somministrazione della child behavior checklist/ 6-18 (CBCL) e l’intervista semistrutturata development and well-being assessment (DAWBA). Il dato meno incoraggiate di questa ricerca è che di questo 10% di ragazzi con un disturbo mentale evidente l’80% non aveva mai ricevuto una consulenza medica o psicologica.

2. Se un bambino ha un disturbo mentale è tutta colpa della famiglia.

Il secondo punto sul quale Vicari articola il suo intervento è quello dell’eziologia dei disturbi mentali in età evolutiva. Rimane purtroppo ancora oggi un forte pregiudizio che punta il dito esclusivamente verso la famiglia d’origine. In realtà gli agenti di rischio possono essere molteplici come i fattori biologici, quali l’uso di tabacco e alcool durante la gravidanza, la familiarità, i traumi cranici, il basso peso alla nascita.

Oltre ai fattori di rischio ci sono anche dei fattori di protezione, tra i più importanti il quoziente intellettivo; fattori psicologici come ad esempio avere o meno un disturbo dell’apprendimento; fattori sociali, dove ovviamente la differenza la fanno la famiglia, la scuola, il contesto comunitario e il gruppo dei pari. La famiglia da sola quindi non determina un disturbo mentale ma è sempre un intreccio complesso di fattori che può portare ad un disturbo complesso. Così come il fumo da solo non provoca il cancro al polmone ma certamente lo può facilitare.

3. Come possono essere curati? In fondo basta dare loro tanto amore.

Purtroppo l’amore non basta. Per intervenire in una realtà complessa e difficilmente sottoponibile a schematismi come quella della salute mentale è necessario andare al di là delle polemiche “un po’ medioevali” che vedono contrapposte terapia psicoterapica e terapia farmacologica.  “Un depresso è molto diverso da uno schizofrenico. Un dislessico sarà ben diverso da un disturbo bipolare quindi bisogna garantire la migliore cura sulla base delle conoscenze attuali”. Significa che, disturbo per disturbo, dobbiamo affidarci agli studi controllati e mettere in atto il trattamento che risulta essere ad oggi più efficace.

Ci sono studi che ci dicono ad esempio che per la cistite, se risultata positiva ad un esame colturale, l’antibiotico rimane la migliore cura possibile. Questo esiste anche in ambito psicologico. Ad esempio grazie alle ricerche scientifiche sappiamo che non esiste un farmaco che cura l’autismo. Sappiamo anche che l’intervento psicoanalitico è completamente inutile mentre altre tecniche, come quelle comportamentali, sono più efficaci.

Sappiamo che nella depressione lieve la psicoterapia cognitivo-comportamentale è sufficiente, mentre per la depressione media o grave il farmaco è la prima risposta. Se abbiamo un esordio schizofrenico la prima risposta è il farmaco, non è l’unica naturalmente ma deve essere la prima. Quindi ridurre il dibattito a farmaco si-farmaco no è piuttosto semplicistico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Bullismo: conseguenze permanenti nelle vittime anche dopo quarant’anni

Gli effetti sociali, fisici e mentali negativi derivanti dall’essere vittima di bullismo non sono purtroppo confinati all’interno dell’età infantile ed adolescenziale, ma sono stati riscontrati anche a parecchi anni di distanza, quando le vittime sono adulte.

Secondo una ricerca condotta dal King College di Londra il bullismo è un fenomeno che implica conseguenze negative che vengono evidenziate in uno spazio di tempo molto più ampio, anche dopo quarant’anni anni.

Lo studio, pubblicato sull’ American Journal of Psychiatry, è il primo ad avere esaminato gli effetti del bullismo oltre la prima età adulta. I risultati provengono dal National Child development Study britannico che include i dati su tutti i bambini nati in una settimana del 1958 in Inghilterra, Scozia e Galles.

La ricerca espone gli esiti di interviste effettuate ai genitori di 7771 bambini che fornivano informazioni sull’esposizione del loro figli al bullismo quando avevano un’età compresa tra 7 e 11 anni. I bambini sono stati poi osservati per i loro successivi quarant’anni fino al compimento dei cinquanta: i ricercatori hanno riscontrato che gli effetti delle prevaricazioni subite erano ancora visibili quattro decenni più tardi.

Ryu Takizawa, dell’istituto di Psichiatria del King College e autore principale dello studio, dice: “L’impatto di questo fenomeno è persistente e pervasivo sulla salute di chi lo subisce e le conseguenze sociali ed economiche durano anche nell’età adulta.”

Dall’analisi è emerso che:

– il 28% era stato vittima di bullismo solo occasionalmente;

– il 15% invece lo era stato frequentemente.

Gli individui, vittime occasionali di bullismo durante l’infanzia, sono risultati essere soggetti più frequentemente a peggiori condizioni di salute fisica e psicologica all’età di cinquanta anni; i soggetti vittime frequenti durante l’infanzia sono risultati avere un aumentato rischio di depressione, disturbi d’ansia e pensieri suicidi.

Le conseguenze del bullismo rilevate dallo studio non sono solo queste, i traumi vissuti e subiti influiscono su:

– alti livelli di stress psicologico;

– difficoltà a raggiungere livelli di istruzione superiore;

– difficoltà nelle relazioni interpersonali;

– difficoltà a trovare lavoro;

– difficoltà a guadagnare denaro;

–  minore qualità della vita.

I ricercatori hanno rilevato che gli effetti dannosi del bullismo erano presenti anche dopo che altri fattori erano stati presi in considerazione, in particolare: problemi emotivi e comportamentali, status socio-economico della famiglia e basso coinvolgimento dei genitori.

Il professor Louise Arseneault, uno degli autori della ricerca, afferma: “Dobbiamo togliere la percezione che essere vittima di bullismo sia una parte inevitabile dell’adolescenza. Insegnanti, genitori ed educatori dovrebbero stare in guardia su cosa accade a scuola, tenendo presente che le prevaricazioni possono avere ripercussioni a lungo termine sui fanciulli. I progetti per la prevenzione sono estremamente importanti, ma abbiamo anche necessità di concentrare i nostri sforzi su un intervento precoce per evitare potenziali problemi persistenti in adolescenza e in età adulta.”

Aggiunge inoltre: “Quarant’anni sono un lungo periodo di tempo, quindi quei giovani avranno avuto senza dubbio esperienze diverse che avrebbero potuto proteggerli dagli effetti del bullismo, o, al contrario peggiorarne le conseguenze.”

 

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BIBLIOGRAFIA:

La meditazione rende più creativi! – Psicologia

FLASH NEWS

Alcune tecniche di meditazione possono favorire lo sviluppo del pensiero creativo, anche in persone che non hanno mai praticato alcun tipo di meditazione. È quanto emerso da uno studio condotto da due psicologhe cognitive, Lorenza Colzato e Dominique Lippelt, presso l’Università di Leiden. 

Da questo studio, pubblicato su Mindfulness, è emerso come la pratica degli esercizi di meditazione influenzi a lungo termine alcuni aspetti della cognizione umana, tra i quali anche il modo in cui vengono concepite le idee.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come gli effetti derivanti dalla meditazione non dipendano dal fatto di essere esperti o principianti nell’esercizio di tale pratica.  

Il campione oggetto di studio era composto da 40 soggetti, alcuni dei quali esperti di pratiche meditative ed altri che non avevano mai praticato prima alcuna forma di meditazione. A ciascun soggetto sono stati proposti una serie di compiti cognitivi dopo aver meditato per 25 minuti. Nel corso dello studio è stata indagata l’influenza delle differenti tecniche di meditazione su due principali aspetti del pensiero creativo: il pensiero divergente ed il pensiero convergente.

Quando si parla di pensiero divergente ci si riferisce alla capacità di creare nuove idee. Tale capacità è stata valutata attraverso l’uso di un compito definito di Usi Alternativi in cui ai partecipanti veniva chiesto di pensare a quanti più usi possibili potrebbe avere un particolare oggetto, ad esempio una penna. Per pensiero convergente s’intende, invece, la capacità di rintracciare una possibile soluzione in riferimento ad un problema specifico. Tale aspetto è stato valutato attraverso la presentazione di un compito di Associazioni Remote nel quale venivano presentate ai partecipanti tre parole apparentemente non collegate tra loro, come tempo, capelli e allungare. In seguito veniva chiesto ai partecipanti dello studio di individuare un possibile collegamento esistente tra queste
parole, in questo caso ad esempio lungo.

Dallo studio è emerso come non tutte le forme di meditazione possono avere lo stesso effetto sulla genesi del pensiero creativo. I partecipanti allo studio hanno ottenuto punteggi migliori nella valutazione del pensiero divergente (inteso come la capacità di pensare a quante più soluzioni possibili di fronte ad un problema) dopo aver praticato una meditazione di tipo Open Monitoring, durante la quale si richiede ai soggetti di essere recettivi di fronte ad ogni pensiero e sensazione che può insorgere nel corso della pratica meditativa. Non è stato invece trovato alcun effetto sul pensiero divergente in seguito alla pratica di un tipo di meditazione Focused Attention, focalizzata cioè su di un un particolare pensiero o oggetto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Colzato, L.S., Szapora, A., Lippelt, D. & Hommel, B. (2014). Prior Meditation Practice Modulates Performance and Strategy Use in Convergent- and Divergent-Thinking Problems. Mindfulness. DOI: 10.1007/s12671-014-0352-9 DOWNLOAD

Mindfulness: al di là del pensiero, oltre il pensiero (2014) – Recensione

Ad oggi, dopo circa dieci anni dalla pubblicazione della prima edizione del manuale, ci troviamo di fronte a un lavoro molto maturo, intellettualmente molto onesto che descrive non solo gli aspetti di tecnica e le procedure dell’MBCT bensì anche aspetti di cornice e di riferimento di più ampio respiro.

Il volume di Boringhieri presenta una lavoro molto importante all’interno del panorama mindfulness. Infatti, si tratta del manuale del protocollo MBCT – Mindfulness Based Cognitive Therapy, il protocollo basato sulla consapevolezza sviluppato da Segal e colleghi. Ad oggi, dopo circa dieci anni dalla pubblicazione della prima edizione del manuale, ci troviamo di fronte a un lavoro molto maturo, intellettualmente molto onesto che descrive non solo gli aspetti di tecnica e le procedure dell’MBCT bensì anche aspetti di cornice e di riferimento di più ampio respiro, che all’interno dei protocolli Mindfulness Based assumono a mantengono una posizione centrale.

Sfogliando le pagine del volume, circa 500, si ha subito la sensazione di quale sia l’intento degli autori, a partire dalla profonda e documentata introduzione alla edizione italiana di Fabio Giommi: che MBCT, e tutti i protocolli basati sulla cosiddetta Mindfulness altro non sono che una introduzione alla pratica di consapevolezza portata e adattata al contesto sanitario e clinico. 

In questa cornice, gli aspetti tecnici del protocollo, per quanto fondamentali e giustamente strutturati, vengono inseriti e descritti da praticanti e non da applicatori di tecniche. A proposito di ciò, nelle prima pagine, le parole degli autori sono chiare:

dieci anni dopo […] ci è ancora più chiaro di quanto lo fosse nel 2002 che quando usiamo l’espressione mindfulness-based non ci riferiamo solo al fatto che ciò che viene insegnato nelle sessioni o negli ambulatori è fondato sulla mindfulness, ma stiamo anche dicendo che il fondamento da cui sorgono le capacità e le competenze come istruttore è la pratica quotidiana di consapevolezza […] Ciò significa che gli istruttori di mindfulness sono praticanti di mindfulness nella propria vita quotidiana. Senza una pratica regolare e continuativa di meditazione di consapevolezza, qualunque cosa possa venire insegnata non è MBCT (pp. 18-19).

Il libro, nella sua edizione italiana, apre con una introduzione di Fabio Giommi che di per sé rappresenta un articolo scientifico, un manifesto teorico di riferimento, un’esperienza da istruttore e da praticante e un excursus storico sulla pratica di consapevolezza e sulla sua diffusione negli ambiti clinici, a partire dai lavori di Jon Kabat-Zinn dei primi anni ’80 fino ai recenti sviluppi dei cosiddetti MBIs (Mindfulness Based Intrventions).

Il cuore del libro, almeno in termini di corpus centrale del lavoro, è rappresentato dalla descrizione del protocollo MBCT per la prevenzione delle ricadute depressive.

Dopo alcuni capitoli teorici sul modello cognitivo della depressione, della ruminazione e della ricaduta depressiva, vengono descritti le otto sessioni (e la giornata di pratica intensiva) del protocollo MBCT. La giornata di pratica intensiva rappresenta la prima grande novità del protocollo nella sua versione 2.0, se così si può chiamare. Infatti, sebbene da sempre presente nel programma MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction Program), a cui l’MBCT deve circa il 90% della sua strutturazione, per la prima volta anche nel protocollo MBCT viene prevista una giornata intensiva di pratica.

Tutte le otto sessioni previste dal protocollo MBCT sono descritte dagli autori in modo dettagliato e accompagnate da una enorme mole di materiale raccolto dalle condivisioni e delle interazioni con i partecipanti al protocollo. Il formato non é mai descrittivo, bensì utilizza uno stile narrativo e discorsivo che ben trasmette il cuore del protocollo, la pratica di consapevolezza per l’appunto.

Rispetto alla prima edizione del volume, sono stati inseriti diversi capitoli, molto importanti per comprendere in modo approfondito l’MBCT: tra questi, un capitolo sulla pratiche di gentilezza e autocompassione, riferite in modo critico e per nulla naïf, un capitolo sull’inquiry, la pratica di condivisione che viene svolta tra istruttore, partecipante e gruppo dopo la maggior parte della pratiche e degli esercizi del protocollo e aggiornamenti sugli ultimi dieci anni di ricerca empirica sul MBCT e sulla sua diffusione. 

Il volume di Segal e colleghi é sì un manuale di procedura, ma non come viene inteso classicamente dal mondo cognitivista: più come un manuale di procedure da presentare e
somministrare si tratta di un manuale che offre moltissime suggestioni e spunti di riflessione agli istruttori di protocolli Mindfulness e a chi é interessato ad avvicinarsi agli interventi Mindfulness Based. Quest’ultimo aspetto non sacrifica affatto la descrizione puntuale, sistematica e approfondita di ogni sessione del protocollo e di tutto il materiale, mutuato dalla psicoterapia cognitiva standard da cui gli autori provengono per formazione, utilizzato e condivido con i partecipanti ai gruppi MBCT.

Spesso si discute di quanto gli interventi basati sulla pratica di consapevolezza sia vicini o distanti dalla terapia cognitiva e quanto la Mindfulness nelle intenzioni di Kabat-Zinn in primis fosse differente da una tecnica da applicare o da una buona idea. La lettura del volume dei fondatori del protocollo MBCT, primo protocollo dedicato a una popolazione clinica psichiatrica a differenza dell’MBSR, permette di rispondere in modo chiaro a tutte le domande (che talvolta diventano solo confusioni) su tale annosa questione. Riprendendo le parole di Fabio Giommi:

la sperimentazione diretta della pratica di consapevolezza rappresenta la vera sostanza dell’MBSR così come degli altri interventi mindfulness-based generati da questa matrice. Al cuore e al centro dei protocolli sta l’intenzione di offrire un’introduzione alla meditazione di consapevolezza adatta ai contesti clinici e psicosociali (introduzione pp. XXVIII).

Ciò che i protocolli basati sulla pratica della Mindfulness condividono con il cognitivismo é rappresentato da diversi aspetti, definiti da Rebecca Crane e dal suo gruppo del Centre for Mindfulness dell’Università di Bangor in Galles.

Ciò che gli MBIs e il cognitivismo condividono sono i seguenti aspetti: una cornice teorica utile per comprendere la vulnerabilità psicologica e lo studio l’influenza della pratica di consapevolezza su di essa; il continuo incontro tra l’osservazione clinica, le ipotesi teoriche e la ricerca empirica e, infine, l’esplicitazione dei processi psicologici in atto, come ad esempio il processo della ruminazione depressiva. Ciò che nell’MBCT rimane invariato rispetto al programma MBSR é la cornice centrale, l’intenzione con cui si propone il percorso ai partecipanti. Per utilizzare le parole di Kabat-Zinn:

Poiché è probabile che in futuro l’interesse per la mindfulness e la sua applicazione a specifici disturbi affettivi continui a crescere, soprattutto all’interno della comunità dei terapeuti cognitivisti […] diventa di importanza cruciale che le persone che si avvicinano a questo campo con interesse professionale ed entusiasmo riconoscano l’aspetto peculiare e le caratteristiche distintive della mindfulness in quanto pratica meditativa, con tutto ciò che implica; ossia che la mindfulness non va concepita come una nuova promettente tecnica o esercizio cognitivo‑comportamentale, decontestualizzato, innestato in un paradigma cognitivista, il cui scopo sia di indurre un cambiamento desiderabile […] La mindfulness non è solo una buona idea che, dopo averne sentito parlare, si possa immediatamente decidere di vivere nel presente, con la promessa di una riduzione dell’ansia e della depressione o di un aumento delle prestazioni e della qualità di vita, e che si possa poi rimettere in pratica all’istante in modo attendibile (Kabat-Zinn, 2003).

Ricerca e RCT (randomized control trials) su alcuni interventi basati sulla consapevolezza esistono, almeno per MBSR (il protocollo più studiato in ricerca empirica) e MBCT, ora si tratta di continuare a comprendere a indagare quali siano le caratteristiche o variabili dirimenti sugli effetti della pratica di consapevolezza sul benessere. E in questo la letteratura sulla pratica della Mindfulness sta compiendo molti passi in avanti. Passo dopo passo, senza pomposità, come si addice alla ricerca scientifica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Zindel V. Segal, Z. V., Williams, M. J., Teasdale, J. D. (2014). Mindfulness: Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. A cura di Giommi, F., Olivero, G., Sullam, S. Bollati Boringhieri Psicologia. 
  • Kabat‑Zinn, J. (2003). Mindfulness-Based Interventions in Context: Past, Present, and Future. Clinical Psychology: Science and Practice, 10, pp. 145‑48. DOWNLOAD

Supereroi fragili: adolescenti a scuola tra vecchi e nuovi disagi – Report dal Congresso di Rimini

Il 24 e 25 ottobre al Palacongressi di Rimini si è svolto il primo convegno dal titolo Supereroi fragili – Adolescenti a scuola tra vecchi e nuovi disagi, organizzato dal Centro Studi Erickson.

Più di mille presenti tra insegnanti, educatori, genitori, assistenti sociali e psicologi. Molti e diversi tra loro gli argomenti affrontati nelle due sessioni plenarie e nei quattordici workshop di approfondimento: dalla dispersione scolastica alla microcriminalità, dai disturbi del comportamento alimentare ai bes, dal bullismo al cyberbullismo, dalla dipendenza da sostanze a quella da internet.

Particolare interesse hanno suscitato gli interventi riguardanti i cosiddetti “nuovi disagi” in adolescenza. Dove si è parlato di identità digitale, avatar, rischi della rete e di nuove dipendenze si è sentita forte la presenza di un pubblico in cerca di risposte.

Riporto qui di seguito alcuni punti tratti dall’intervento del dott. Federico Tonioni dal titolo “Vecchie e nuove dipendenze”.

Federico Tonioni è psichiatra e dirige l’ambulatorio per l’ascolto e la cura del cyberbullismo del Policlinico Gemelli di Roma, dove è responsabile anche del gruppo di intervento integrato per l’Internet Addiction Disorder.

Tonioni cerca si sfatare alcune generalizzazioni e tendenze moderne riguardo al rapporto tra ragazzi e nuove tecnologie, fornendo una lettura non semplicistica del complesso fenomeno della “dipendenza patologica”. Invita tutti a non utilizzare il termine “dipendenza” come se avesse una valenza negativa intrinseca. Dipendenza non è infatti sinonimo di patologia. Per questo

“la dipendenza da internet negli adolescenti è semplicemente un nuovo modo di pensare e comunicare che ha degli effetti collaterali che non ci aspettavamo”.

Oggi, piuttosto che misurare le ore di connessione sembra avere più importanza comprendere questo nuovo modo di pensare e soprattutto la natura delle relazioni web-mediate.

Tonioni e i suoi collaboratori durante questi primi anni di attività dell’ambulatorio per la dipendenza da internet hanno visto più di 700 ragazzi. Il problema più evidente è quello del ritiro sociale che può portare in alcune situazioni fino all’abbandono scolastico per passare le proprie giornate al gaming online. Le situazioni di vita di questi ragazzi hanno delle chiare somiglianze con il noto fenomeno degli Hikikomori in Giappone. Dice Tonioni “in questi ragazzi, dotati di intelligenza e maturità straordinarie, ci ha colpito da subito l’impossibilità di avere un contatto visivo… se io provavo ad inseguirli durante una seduta vis a vis diventavo subito persecutorio”.

Ritornando alla domanda riguardante la natura delle relazioni web-mediate Tonioni punta il focus sulla questione del corpo. “Abbiamo imparato in questi anni che due ragazzini reciprocamente visibili con una web-cam mentre parlano o chattano su skype, non arrossiscono, anche se sono attivati dal punto di vista emotivo. Questo succede perché la comunicazione non verbale si attiva esclusivamente quando si è a portata di contatto fisico”. Difficilmente ipotizzabili sono le conseguenze dell’esclusione del corpo nella comunicazione. La comunicazione non verbale non è un alternativa a quella verbale, ma ne è per certi versi l’essenza stessa.

I nativi digitali sono nati in un mondo che ha delle cornici spazio-temporali completamente diverse da quelle che conoscevamo noi. L’unità di misura dello spazio nell’era digitale non è il metro ma la connettibilità. Le relazioni online sono “senza luogo” perché travalicano la presenza di uno spazio concreto. Il tempo digitale è più intenso, più simile ad un letto a castello, piuttosto che un letto a due piazze. Oggigiorno abbiamo inficiato la nostra capacità di attesa e la nostra capacità di stare da soli, conquiste nello sviluppo della mente e del corpo.

In questo contesto mutato sembra molto difficile trovare un modo per aiutare i nostri figli, alunni e pazienti ad orientarsi.

Secondo Tonioni importante è non privare bambini e ragazzi del rispecchiamento emotivo, che oggi spesso sembra mancare. L’identità dei bambini si sviluppa per livelli crescenti di rispecchiamento emotivo ed è per questo che ogni bambino vuole essere visto. “Guarda mamma che disegno ho fatto. Guarda che voto ho preso. Guarda come ho disegnato la Barbie al Nintendo, che è la stessa cosa non importa se è sul foglio o al Nintendo. Il punto è che noi lo dobbiamo vedere, non guardare”. Continua Tonioni “vedere significa far sentire i bambini considerati. Sento tanti genitori che mi dicono compiaciuti che il figlio davanti al computer non si vede e non si sente. Ma allora vuole dire che non si pensa. E i bambini hanno bisogno di essere pensati prima, anziché controllati dopo”.

Un altro aspetto importante per aiutare bambini e ragazzi nel loro processo di sviluppo è quello di porre regole che veicolino la nostra presenza. Ma porre delle regole in maniera rigida può essere del tutto inutile. Esistono frustrazioni e regole che fanno crescere, ed altre che bloccano la crescita.

“Più che porre la regola è importante vedere fino a dove i ragazzi riescono a tollerarla. È li che dobbiamo porre attenzione come dottori, insegnanti e genitori. Nell’incontrare i figli, i giovani pazienti e gli alunni nel loro punto di massimo sforzo, perché quello è il punto dove possono crescere”.

In conclusione Tonioni invita a conservare attiva dentro di noi la capacità di meravigliarci.

“Perché un fenomeno che ci meraviglia ci fa vedere anche qualcosa che non conoscevamo. Non dobbiamo fare l’errore di etichettare come patologico tutto ciò che non riusciamo a comprendere”.

 

 
BIBLIOGRAFIA:
  • Quanto internet diventa una droga, Federico Tonioni, 2011, SuperET
  • Psicopatologia web-mediata. Dipendenza da internet e nuovi fenomeni dissociativi, Federico Tonioni, 2013, Springer Verlag

Ecco perchè grattarsi aumenta il prurito – Neuropsicologia

FLASH NEWS

L’influenza della serotonina nel controllo del dolore è nota da decenni, ma in questo studio si rileva per la prima volta il suo ruolo sulla sensazione di prurito.

Le mamme lo sapevano già: quando si ha un prurito non bisogna grattarsi, altrimenti potrebbe aumentare.  Zhou-Feng Chen, PhD e direttore del Centro per lo Studio del Prurito dell’Università di Washington, ha provato a spiegare perché questo accade.

Pare che il grattarsi provochi un lieve dolore cutaneo il cui segnale genera il rilascio di serotonina che allevia momentaneamente il fastidio. Successivamente, il prurito ritorna perché la serotonina si propaga dai neuroni sensibili al dolore alle cellule nervose circostanti, influenzando l’intensità dello stesso. Così, si dà vita a un circolo vizioso senza fine.

L’influenza della serotonina nel controllo del dolore è nota da decenni, ma in questo studio si rileva per la prima volta il suo ruolo sulla sensazione di prurito.

Nella ricerca eseguita da Zhou-Feng Chen sono stati studiati un gruppo di topi geneticamente modificati a non produrre serotonina. E’ stato osservato che in caso di prurito non si grattavano come avrebbero normalmente dovuto fare. Quindi, la serotonina svolgerebbe un ruolo determinate nella genesi e nel mantenimento del ciclo del prurito.

Inibire, però, la produzione di serotonina negli esseri umani non è auspicabile, viste le sue molteplici funzioni e il suo coinvolgimento nei processi di sviluppo, invecchiamento, regolazione dell’umore, ecc. Per questo motivo i ricercatori stanno studiando come interferire sulla comunicazione specifica tra serotonina e le cellule nervose che trasmettono il prurito.

Questa inferenza deriva dall’ipotesi che i segnali per il prurito e per il dolore siano sottesi da fascicoli cerebrali differenti ma collegati.

In conclusione, riuscire a comprendere meglio i meccanismi molecolari e cellulari che controllano questo ciclo (prurito-dolore-prurito) sarebbe importante, soprattutto nell’aiuto di coloro che soffrono di prurito cronico, sintomo di alcune malattie quali sclerosi multipla, fuoco di Sant’Antonio e neuropatia diabetica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Paolo e Olly – Centro di igiene Mentale – Cim n. 15 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE #15

Paolo e Olly

 

I servizi per le tossicodipendenze sono organizzativamente separati da quelli per la salute mentale. Tale distinzione, discutibile da un punto di vista scientifico, è motivo di numerosi conflitti di attribuzione dei casi e genera un’ ampia area di sovrapposizione chiamata “doppia diagnosi”.

La maggioranza degli operatori dei CIM non ama lavorare con i tossici. Dichiaratamente per la loro scarsa motivazione, la tendenza a manipolare e mentire. Probabilmente per un pregiudizio secondo cui “i matti sono dei poverelli vittime innocenti della società e delle famiglie, mentre i tossici dei viziosi causa del loro stesso male, inclini alla delinquenza. Due anni prima di questi fatti gli operatori del CIM si erano opposti al trasferimento del Sert nei locali loro adiacenti adducendo il timore di furti e la commistione contagiosa tra le due utenze: angelica quella dei folli e demoniaca quella dei tossici.

Nel caso dei cugini Livani le resistenze furono superate da una disposizione del giudice che affidava Piero e Olly alle cure del CIM “in quanto il comportamento criminoso da loro posto in essere non era caratteristico dei soggetti dipendenti da sostanze e presentava evidenti elementi di stranezza e bizzarria”. I fatti che avevano richiesto l’intervento congiunto di carabinieri e polizia (era evidentemente un caso destinato a far collaborare chi tradizionalmente rivaleggia: carabinieri e polizia, sert e CIM) erano una violenta rissa con conseguenti rappresaglie tra i cugini Livani e gli “amici di Amedeo” una banda di delinquenti dediti allo spaccio promozionale. Termine usato per intendere il proselitismo di nuovi futuri assidui clienti che si ottengono spacciando sottocosto ai ragazzini delle scuole medie inferiori. Come tutte le campagne di marketing il costo iniziale a fondo perduto viene poi abbondantemente recuperato con la fidelizzazione dei consumatori negli anni a venire. In un primo tempo si pensò ad uno scontro tra bande rivali per accaparrarsi il mercato. Non era così.

I cugini avevano un loro privatissimo e rigido codice etico ed erano scesi in campo quando Carletto, un loro nipote tredicenne aveva ricevuto in dono delle pasticchette a base di cocaina. Paolo stava per compiere mezzo secolo di una vita vissuta spericolatamente tra agi ed eccessi di ogni genere. Il fisico che, seppur minuto, un tempo era reso tonico e potente da ogni tipo di pratica sportiva di combattimento, mostrava con una calvizia malcelata dai riporti e un avvizzimento precoce i segni degli anni. Paolo si muoveva con i gesti misurati di un pistolero e lo sguardo azzurro, guizzante, minaccioso e senza paura di un duro di periferia. Aveva ereditato la gioielleria che era stata dell’odiato padre Alfonso e prima ancora del capostipite Paolo, suo nonno, che aveva creato dal nulla una fortuna con traffici illeciti con il sud Africa. Sin da piccolo era stato designato a succedere alla guida dell’impresa e lo avevano indirizzato agli studi di chimica e mineralogia. Della chimica, però, era soprattutto interessato a quella delle sostanze stupefacenti. A 18 anni aveva avviato un commercio consistente che gestiva con competenza e spregiudicatezza. La calibro 9 regolarmente registrata per la gioielleria lo aiutava con i clienti morosi solo raramente. In genere la sua fama di duro era sufficiente. Aveva sperperato un patrimonio (a sua detta investito) in alcol, viaggi e belle donne. Intendiamoci non era mai stato con una escort, le donne voleva conquistarle e lo faceva stupendole. L’identificazione con il suo pisello era totale. Faceva sesso almeno due volte al giorno con una foga ed un’ energia che ora rimpiangeva. Il funzionamento sessuale era del tutto normale, anche oggi, ma l’assenza del craving costante di un tempo era per lui un vero e proprio lutto. Integrava il commercio di droghe con truffe assicurative. Non aveva nessuna remora a delinquere ma nessuno doveva soffrire delle sue azioni. Dietro l’aspetto da ganster si celava un animo tenero incline all’arte. Scriveva canzoni e poesie di buon livello, suonava numerosi strumenti e creava dei “corti d’autore molto apprezzati.

I cugini Livani dietro l’apparenza di banditi di periferia senza scrupoli nascondevano un’ anima da Robin Hood o da Zorro orientata alla giustizia e alla protezione dei deboli.Politicamente aveva militato in tutte le formazioni estremistiche. Nel tifo era un ultras. Ribelle verso ogni autorità era finito di frequente in galera dove pure non si era fatto mancare nulla dalle sostanze al rispetto dei compagni e delle guardie. Paolo era la persona che si vorrebbe come amico per attraversare un territorio pericoloso. Senza paura, deciso, generoso. Il cuginetto Olly aveva solo 25 anni ed era cresciuto sotto la sua protezione. Figlio di Annalisa, sorella di Alfonso, rappresentava il ramo cadetto della famiglia. La gioielleria non doveva essere divisa e Annalisa, vedova a 27 anni, era stata sistemata come infermiera in un grande ospedale per avere uno stipendio sicuro. Olly, la madre sempre in ospedale, aveva passato un’ infanzia di noia, solitudine e libertà senza controllo. A 15 anni aveva incontrato l’eroina, la grande consolatrice e ancora ne parlava con occhi da innamorato. Solo l’ero gli spegneva quel caotico trambusto interiore. Era stata la sua vera madre buona. Con Paolo condivideva la passione per l’alcool, le arti marziali e la ribellione contro ogni ordine costituito. Li univa anche l’odio per i prepotenti quale era stato il nonno Paolo e per le sostanze stimolanti che quest’ultimi utilizzavano. La loro distinzione era netta: le droghe buone erano quelle che producevano rilassamento, sedazione, pace (tra tutte alcool ed eroina ma anche le benzodiazepine e gli antichi barbiturici). Cattive quelle che stimolavano aggressività e iperattività (prima fra tutte la cocaina).

Persino tra le forze dell’ordine che dovevano perseguirli suscitavano simpatia e talvolta colpevole tolleranza. Venuti a conoscenza della campagna commerciale alle scuole medie del clan di Amedeo, erano intervenuti con metodi che le forze dell’ordine invidiavano ma ufficialmente non potevano permettersi. Se Paolo, nonostante il fisico minuto, aveva un aspetto da texano giustizierie pronto a tutto, Olly incuteva rispetto al solo sguardo. Nonostante una vita di eccessi, le sbronze quotidiane e i due ricoveri in extremis per overdose esibiva un corpo da atleta segnato qua e là da numerose cicatrici per i pestaggi subiti. L’anima, invece, non aveva ferite. Non conosceva la paura e sembrava andare alla ricerca dello scontro anche con avversari manifestamente più forti. Più impulsivo Olly non aspettò che il sole fosse calato per spedire in ospedale i due luogotenenti di Amedeo con prognosi riservata per le molteplici lesioni interne. I carabinieri chiusero volentieri un occhio. Non poterono però chiudere anche l’altro, quando sul fare di un’ alba resa più rossa dalle fiamme che si levavano dall’autosalone “Gaetano e figli”, il paese fu svegliato dalle sirene dei vigili del fuoco. Il problema non erano le Porsche e le Maserati alla brace, ma avevano rischiato anche innocenti delle abitazioni vicine.

Gli avvocati dei cugini Livani avevano subito chiesto al magistrato di turno l’incapacità di intendere e di volere. Olly e Paolo si ritrovarono periziandi al CIM. La loro irritazione era superata solo da quella degli operatori del CIM che dopo aver fatto di tutto per evitare di avere a che fare con i tossicodipendenti si trovavano affidati i due peggiori. Tali premesse potevano esitare in un immediato e conclusivo duello alla “mezzogiorno di fuoco” o in un grande amore come quando tra due adolescenti una antipatia pregiudiziale si trasforma in grande passione. Il primo impatto sarebbe stato decisivo. Biagioli prese per sé il compito più difficile. Gli spettava per età. Erano i due capi a doversi confrontare il resto sarebbe stato facile e Olly sarebbe stato affidato alla dottoressa Mattiacci. Appena entrato nella stanza di Biagioli, Paolo ebbe bisogno di far capire chi comandava, chiese se si potesse fumare e di aprire la finestra. Carlo lo invitò ad accomodarsi e senza appellarsi a regole e leggi gli chiese se poteva farcela a non fumare spiegandogli i suoi problemi di salute. Impegnato in un continuo lavorio per riaggiustare il ciuffo cadente sulla fronte troppo stempiata, Paolo suscitò un’ immediata simpatia in Carlo. Ebbe l’impressione di avere seduto di fronte, nel retrobottega di un saloon Tex Willer, il suo eroe dell’adolescenza, che avesse richiesto un colloquio per uno stato ansioso che facendogli tremare la mano minacciava la sua proverbiale mira. Dovette trattenere il sorrisetto che gli stava increspando il labbro superiore. Non si trattava di derisione ma di un sincero e inspiegabile moto d’affetto. Carlo sapeva riconoscere immediatamente il bambino spaurito e indifeso che spesso si celava dietro bulli e gradassi di ogni genere. Essendo stato un bambino fragile incapace di difendersi aveva imparato a discriminare i cani che abbaiano più per paura che per aggressività da quelli che mordono davvero e vanno evitati. Paolo apparteneva alla prima categoria. Più avanti avrebbero capito insieme che sulla negazione di questa paura aveva costruito l’intera sua esistenza. Per il momento le loro debolezze nascoste si limitarono a farsi l’occhiolino. Raramente un’ empatia così forte è a senso unico: Paolo sentiva di potersi fidare del dottore. Potevano abbassare l’artiglieria. Dai segnali distensivi per un cessate il fuoco si passò presto allo scambio di reciproche attenzioni, che si sarebbero potute definire protettive. Con uno scatto improvviso che fece sobbalzare Carlo, Paolo catturò un moscone che continuava a molestare Biagioli e lo liberò dal pugno chiuso fuori dalla finestra. In quella relazione il tempo era destinato ad accelerare in una mattinata. Mezz’ora dopo i due uomini in piedi vicino alla finestra singhiozzavano abbracciati e dividevano la stessa sigaretta interrompendo la mensile astinenza di Carlo.

Era stato Giovanni ad entrare correndo affannato nella stanza del colloquio per portare la notizia temendo che la faccenda non fosse terminata. Olly in attesa dell’arrivo della dottoressa Mattiacci che avrebbe fatto il turno pomeridiano era sceso al bar sottostante il CIM. Aveva avuto appena il tempo di scorgere nei ripiani a specchio dietro il barman l’ingresso di Amedeo a volto scoperto. Certi omicidi non è importante farli quanto firmarli perché si sappia a chi non è prudente fare torto. Un delinquente che perde la faccia o mostra paura è pronto per il pensionamento che in genere avviene per mano dei suoi stessi compari ed è definitivo. Lo stesso Amedeo dunque non aveva scelta. Prima di sparare chiamò Olly per nome, non gli piaceva sparare alle spalle. L’altro doveva vedere, tutti dovevano sapere. In un attimo fu l’inferno. Se Olly si fosse reso conto e se avesse sofferto furono i temi di cui parlarono Carlo e Paolo per il resto della mattinata. Paolo era una madre inconsolabile che non aveva saputo proteggere il figlio. Carlo una comare compassionevole che asciuga le lacrime, indirizza le colpe sulla crudeltà del destino e l’impossibilità umana a porvi rimedio e rassicura sulla bontà di un trapasso immediato e inaspettato.

La scena che gli avventori del bar continuavano a ripetere a polizia e carabinieri accorsi in massa non deponeva per un trapasso avvenuto serenamente in grazia di Dio ma non c’era bisogno che Paolo conoscesse i dettagli. Per le forze dell’ordine il problema era come impedire l’innescarsi di una guerra tra bande in tutta la provincia. Per Biagioli come impedire il naufragio in questo mare di dolore dello spavaldo cowboy entrato un’ora prima nella sua stanza ed ora raggomitolato sul fondo del grande divano di pelle viola. Così zuppo di lacrime e con il naso colante avvolto nel grande fazzoletto di stoffa che Biagioli aveva sempre con sé, sembrava ancora più minuto. Ora l’anima di bambino spaventato aveva abbandonato la corazza di sbruffone, si mostrava nuda e si acciambellava nel flusso caldo di protettiva tenerezza che le proveniva da Biagioli. Sentiva di non essere mai stato così autentico. Era al suo posto. Un bambino spaventato e solo. Biagioli si ricordò di essere uno psichiatra di fronte ad una reazione acuta da stress. Si fece portare una camomilla calda e gli diede 30 gocce di Lexotan. Lo coprì con la coperta che usava il medico per la reperibilità notturna. Accostò la sedia al divano e iniziò a parlargli con tono monotono, quasi ipnotico finchè non si addormentò. Poi riprese le vesti di responsabile del CIM e si dedicò agli operatori anch’essi sconvolti dall’accaduto e alle forze dell’ordine in cerca di testimonianze.

Su consiglio del capitano Ruffi che comandava i carabinieri di Monticelli non era prudente che Paolo Livani tornasse a casa per cui venne ospitato in tutta segretezza da una vecchia zia che viveva di poco fuori provincia. Essendo a soli 50 km da Monticelli avrebbe potuto proseguire il lavoro appena iniziato con Biagioli essendo evidente il legame creatosi immediatamente tra i due. Paolo Livani provava un sottile imbarazzo la prima volta che reincontrò Biagioli. Farsi vedere in difficoltà non gli era mai piaciuto. Una sigaretta offerta prontamente valse a superarlo. Ricordarsi di essere stati completamente nudi di fronte ad un altro, quasi estraneo, suscita nel ricordo, disagio ma rende, in qualche modo intimi soprattutto se l’altro ha saputo proteggere quella debole nudità. Il compito periziale richiesto dai magistrati divenne rapidamente marginale nei colloqui tra Carlo e Paolo. Nella sua precedente visione delle cose soltanto le donne insoddisfatte e i mezzi uomini potevano aver bisogno dello psicologo. Gli uomini veri risolvevano i problemi affrontandoli coraggiosamente a testa alta. I problemi erano sempre esterni mai interni e una spranga o una pistola molto più efficaci delle chiacchiere di uno psicoterapeuta. Biagioli tentò la carta della disperazione mentre montavano dentro di lui parimenti la paura e il senso del ridicolo per il tono solenne con cui pronunciò la frase, immaginando di essere il vecchio Kit Carson inseparabile compagno di Tex Willer: “a volte ci vuole più coraggio per guardarsi dentro che per fissare negli occhi il nostro killer” aveva sempre sognato di dire cose del genere con la voce da basso e il sottofondo di una colonna sonora. Poi, ripresosi, aggiunse che era evidente l’insoddisfazione esistenziale di Paolo e si sedette mentre l’altro continuava a passeggiare su e giù come la mattina dell’agguato. Paolo senza dare importanza ai suoi sentimenti, come se narrasse le vicende di un altro iniziò a narrare le sue insoddisfazioni. Per ora era aperto soltanto il cassetto della rabbia. Tristezze e paure erano prudenzialmente ben sigillate. Si avvicinava ai 50 anni e si accorgeva con sgomento di non essere più quello di un tempo. Non c’era droga che non avesse usato personalmente e commerciato ad alti livelli. Con il commercio delle sostanze, le truffe finanziarie e l’usura era venuto più volte in soccorso del padre nei momenti di difficoltà economica. Alfonso aveva ereditato dal padre Piero, fondatore del negozio e della dinastia il carattere violento, la bramosia per le donne e la bella vita ma non lo stesso talento per gli affari. Padre assente e marito esplicitamente fedifrago avevo concluso la sua esistenza all’età attuale di Paolo, 49 anni con un colpo di calibro nove in bocca nel laboratorio di oreficeria nel retrobottega. Mamma Lina aveva portato il lutto per tre mesi. Prima di compiere i 38 anni aveva deciso essere troppo presto per rinunciare ai piaceri forti dell’esistenza ed era sparita in Svizzera con un ebreo di Losanna grossista di diamanti. Paolo non aveva ancora compiuto 18 anni quando era andato a vivere dalla zia Annalisa madre da poco del piccolo Olly. Alla morte di Zio Alberto schiacciato dal suo camion mal frenato si era formata questa strana famiglia con la giovane vedova 27enne, Paolo nel ruolo di padre/fratello maggiore e Olly cucciolo da proteggere.

Per qualche anno la gioielleria era stata affittata ma i proventi non erano quelli sperati e Piero si era sentito in dovere di dismettere il suo abito di ribelle, rivoluzionario in odore di delinquenza e di indossare quello del capitano d’azienda gestendo in proprio la gioielleria. L’adrenalina della vita di strada, le risse, le droghe, le rivalità tra bande gli mancavano enormemente. Quella adrenalina celava l’enorme voragine della sua depressione abbandonica avrebbe voluto suggerire Biagioli ma non apprezzava le interpretazioni e si trattenne. A cinquant’anni aveva una crisi di identità. Per sostituire la strada aveva provato tutti gli sport estremi e per un po’ di tempo era stato meglio, poi la frattura di una caviglia durante una arrampicata libera lo aveva fermato. Era precipitato in una depressione cupa che diceva essere espressa bene solo dalla serie dell’urlo di Munch. Per due anni aveva guardato la calibro nove del padre , ma la presenza del piccolo Olly lo tratteneva. Una psicoterapia era incompatibile con il suo essere un uomo forte e gli psicofarmaci esclusi per gli effetti collaterali sul suo pisello la cui sfrenata compulsiva attività restava l’unica memoria della sua perduta identità. Ora la tragedia della morte di Olly e la necessità di trovare la forza per tendere una mano alla zia Annalisa in caduta libera verso l’oblio della demenza dopo l’assassinio del figlio gli permettevano una terapia con quello strano medico con cui si erano intesi da subito. Della rabbia, emozione maschia, ne parlava facilmente e volentieri. Verso il mondo criminale che, devastato dalla cocaina a buon mercato, non aveva più le buone regole di una volta. Verso il padre e la madre che in un modo o nell’altro se ne erano andati lasciandolo solo con un’ attività per cui non provava interesse. Verso tutti i prepotenti, gli incompetenti, i profittatori. Verso tutti e tutto quel mondo che non era come lui si era sognato da bambino. Rimasero sulle rabbie per oltre tre mesi. Il lavoro vivace e il tono dell’umore buono. La chiave che aprì il secondo cassetto della tristezza fu un ricordo infantile. Una giornata abbagliante di piena estate e l’ingresso della colonia di Camaiore in Versilia. La mano della suora lo trascina nell’assolato polveroso cortile. Il polso gli fa quasi male. Le ombre sono corte, sarà mezzogiorno. Si volta di tre quarti camminando e riesce ad intravedere per un istante il padre e la madre, oscuri in controluce che escono dal cancello per raggiungere un ristorante. Da quel momento e ancora oggi, il frinire delle cicale gli darà vertigini e nausea come stesse per svenire. Tutti i temi che visti come un torto subito, gli suscitavano la rabbia e la voglia di menar le mani per farsi da solo quella giustizia che nessun Dio nè istituzione garantiva, diventano altro. L’assenza della madre e del padre, i tradimenti degli amici, le spalle delle donne che si alzano dal letto e se ne vanno per sempre, il fisico che invecchia e non sta più al suo passo, persino il pisello traditore che necessita di mille attenzioni e stimoli per sollevarsi incerto, appaiono ora semplicemente come perdite, mancanze.

Paolo si immerge nella sua solitudine nella assoluta mancanza di senso. Biagioli non sa se lui stesso reggerà tanto inconsolabile dolore. Preoccupato del suicidio vorrebbe prescrivergli dei farmaci ma si rende conto che sarebbe un modo per allontanarlo a protezione di se stesso e per Paolo un altro abbandono, le soluzioni chimiche le ha già provate in proprio. Paolo ha bisogno che ci sia lui non una molecola che eccita o addormenta. Resterà al suo posto semmai chiedendo aiuto per sé al suo supervisore ma non ritirerà la mano cui Paolo è aggrappato. Pensando questo sente la colonna sonora e si avverte più forte. Non gli arresti domiciliari ma l’avanzare della demenza di zia Annalisa costringono Paolo a non muoversi da casa e Biagioli ottiene il permesso di continuare la terapia al domicilio nonostante sia persino fuori dal territorio della ASL e della provincia. La burocrazia per una volta perde la battaglia con il buon senso. Forse lo spettacolo del disfacimento della zia Annalisa, l’onda lunga della colpa per la mancata protezione di Olly o il disinteressato interesse nei suoi confronti che Carlo gli dimostra.

Paolo si sente per la prima volta al sicuro e può esprimere le sue sotterrate paure. Teme soprattutto di essere lasciato solo ed è per questo che trema all’idea della morte. La immagina come la colonia di Camaiore ma in una steppa desolata e gelata. L’aspetto più terribile della solitudine sta nel fatto che l’abbandono è dovuto alla sua inadeguatezza, il rifiuto è meritato e prova del suo disvalore. Tale timore di abbandono è talmente grande che Paolo ha sempre fuggito i legami profondi paventandone la straziante fine. Molte donne hanno provato ad amarlo veramente ma non gli ha permesso di andare oltre il suo pisello. Le schiene che si allontanano vanno evitate a tutti i costi. I social network permettono di scovare chiunque e si rimane in rete anche dopo morti. Dopo il clamore che la vicenda dei cugini Livani ha suscitato sui media si sono rifatte avanti molte donne che avevano adorato Paolo nella sua versione malavitosa. Lui si vergogna a mostrarsi invecchiato, sensibile, addirittura psicoterapeutizzato. Abbaia alla vecchia maniera, mostra autosufficienza e disprezzo e riesce a metterle in fuga quasi tutte. Quasi tutte perché Caterina resiste a tutti i dispetti, le provocazioni, i capricci che altro non sono che un esame per vedere se come tutti è pronta a voltarsi e andar via. Giunta a 42 anni dopo una esistenza on the road in stile Paolo mostra i segni del tempo su un corpo felino che aveva fatto impazzire Paolo, anzi il suo pisello (diceva lui), al punto da aver desiderato, unica volta nella sua vita, di vederlo gonfiare della vita nascente di suo figlio. Era durato sei mesi poi spaventato del suo stesso pensiero l’aveva cacciata in malo modo. Caterina si era gettata a capofitto nel suo lavoro di assistente sociale ma non aveva dimenticato Paolo perché si diceva citando la lettera di San Paolo ai Corinzi

“l’amore è paziente, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta e non verrà mai meno”.

Paolo non avrebbe mai potuto permettersi una convivenza e tanto meno un matrimonio. Però dovette cedere alle insistenze di Biagioli e all’evidenza che per zia Annalisa serviva una assistente che vivesse stabilmente con loro, lui doveva riprendere ad occuparsi della gioielleria. Alla funzione per ricordare un anno dalla morte di Olly. Paolo prese in disparte il suo vecchio terapeuta. Gli chiese se conosceva qualcuno di fidato, poco importava se fosse stato un suo paziente un po’ matto che potesse dar loro una mano nella gestione della zia Annalisa perché il pancione vietava a Caterina sforzi fisici.

 

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Violenza sulle donne, l’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia: serve una rete di aiuto

Violenza sulle donne, l’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia: serve una rete di aiuto. «La donna che subisce violenza necessita di interventi specialistici complessi e multidimensionali che vedono coinvolte diverse figure. Lo psicologo ha un ruolo centrale: deve avere competenze specifiche», ha detto il presidente Calvani nel convegno di formazione questa mattina a Udine

«Le donne che subiscono violenza necessitano una rete di sostegno. Gli psicologi hanno un ruolo importante: occorre essere formati per poter intervenire in modo adeguato, riconoscere chi ha subito violenza e sostenerlo nel modo più corretto».

Così  il presidente dell’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia Roberto Calvani ha aperto il convegno che si è svolto questa mattina – sabato 8 novembre – nella Sala Paolino d’Aquileia a Udine dal titolo “Violenza di genere e strategie di intervento”.

Un convengo dedicato agli psicologi perché «davanti ad un fenomeno in preoccupante crescita è importante avere specialisti con competenze specifiche», ha proseguito Calvani. L’iniziativa di formazione interna all’Ordine si è inserita in un percorso che l’Ordine degli Psicologi ha avviato la scorsa estate con la firma di un protocollo d’intesa con il Comune di Udine ed il servizio Zero Tolerance, al fine di garantire una consulenza gratuita alle donne vittime di violenza attraverso un professionista formato ed esperto del settore.

Qualche dato: la violenza di genere è un fenomeno purtroppo in espansione a livello mondiale. In Italia, nel 2013, 128 donne sono state uccise: nell’83% dei casi il delitto è avvenuto tra le mura domestiche; ma molte altre sono le donne che sopravvivono subendo violenze di tipo fisico, sessuale e psicologico. Inoltre, da una ricerca fatta dall’Unione Europea (Violence Against Women, 2014), in Italia il 19% delle donne ha subito nel corso della vita violenze fisiche o sessuali, il 38% delle donne ha subito abusi psicologici e il 9% delle donne ha subito stalking (quasi sempre dai loro ex). Il 62% dei maltrattamenti sulle donne sono avvenuti in presenza dei figli (Istat 2008).

Tra le violenze psicologiche, le forme più diffuse sono l’isolamento o il tentativo di isolamento, il controllo, la violenza economica, la valorizzazione e le intimidazioni. «Può non essere semplice distinguere e definire la violenza psicologica: si tratta spesso di atteggiamenti che si insinuano gradualmente nella relazione e finiscono per privare la vittima del proprio valore, riducendola ad un oggetto.

Questi atteggiamenti si insinuano lentamente e sono spesso difficili da cogliere e rilevare in modo chiaro: il maltrattamento procura sofferenza e corrode, influenzando l’autostima della vittima, manipolandone lo stato psichico, restringendone la libertà d’azione e spaventandola.

La donna che subisce una violenza necessita di interventi specialistici complessi e multidimensionali che vedono coinvolte diverse figure», ha proseguito il presidente Calvani. «Lo psicologo, in queste situazioni, ha un ruolo centrale: accoglie e accompagna la donna lungo tutto il suo percorso di uscita dalla violenza, dai meccanismi di controllo e manipolazione, nonché dal trauma.

Nell’intervento finalizzato all’autoprotezione e al benessere della donna maltrattata, lo psicologo deve avere delle competenze specifiche per riconoscere la violenza e i danni che essa provoca, non solo a se stessa, ma a tutto il contesto che la circonda ed in particolare ai figli. Nel caso in cui un genitore, di solito il padre, eserciti violenza sull’altro, infatti, i figli sono sempre colpiti dai danni da violenza assistita, che non è meno grave di quella diretta. Del resto, secondo i dati dell’Oms (2010) i bambini maschi che assistono o subiscono violenza nella famiglia d’origine hanno maggior probabilità di diventare violenti in età adulta».

Nell’ambito del convegno sono stati affrontati gli aspetti psico-sociali e giuridici della violenza di genere e sono stati approfonditi i possibili interventi terapeutici per le donne maltrattate. «Il ruolo dello psicologo nell’intervento con le donne vittime – ha sottolineato Calvani – punta a sostenere ed accompagnare la donna nel suo percorso di consapevolezza delle proprie risorse e capacità nell’uscita dalla situazione violenta, al fine di non ritrovarsi in situazioni simili o peggiori, come può accadere se non c’è rivisitazione critica della propria situazione. Lo psicologo non giudica, ma accompagna la donna nel proprio percorso di consapevolezza, in modo che essa stessa possa valutare gli estremi di una possibile denuncia».

L’Ordine degli Psicologi FVG vuole essere vicino alle persone, cercando attraverso le strutture territoriali, i convegni che organizza, la formazione dei propri iscritti e le informazioni ai cittadini di far crescere una cultura del benessere psicologico e della dignità della persona.

Violenza sulle donne: Convegno d Udine - OPL FVG

 

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RIFERIMENTI:

  • Ufficio stampa Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia – Eo Ipso
    Info: Marco Parotti – Tel. 0331.594166, mob. 340.9665279, [email protected]
    Carlo Tomaso Parmegiani –  mob. 342.57439
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