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Sindrome da separazione da iPhone: quando lasciare lo smartphone causa ansia e prostrazione psicologica

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’importanza sempre maggiore dell’utilizzo degli Smartphone nella vita di noi tutti sarebbe confermata da un nuovo studio dell’ Università del Missouri. Secondo tale ricerca, separarsi dall’ iPhone avrebbe effetti negativi sul nostro benessere psicologico, primi tra tutti ansia e difficoltà di concentrazione. 

 

 

This study uniquely examined the effects on self, cognition, anxiety, and physiology when iPhone users are unable to answer their iPhone while performing cognitive tasks. A 2 x 2 within-subjects experiment was conducted. Participants (N = 40 iPhone users) completed 2 word search puzzles. Among the key findings from this study were that when iPhone users were unable to answer their ringing iPhone during a word search puzzle, heart rate and blood pressure increased, self-reported feelings of anxiety and unpleasantness increased, and self-reported extended self and cognition decreased. These findings suggest that negative psychological and physiological outcomes are associated with iPhone separation and the inability to answer one’s ringing iPhone during cognitive tasks. Implications of these findings are discussed.

The Extended iSelf: The Impact of iPhone Separation on Cognition, Emotion, and Physiology Consigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Negative psychological and physiological outcomes are associated with iPhone separation and the inability to answer one’s ringing iPhone during cognitive tasks. (…)

 

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SLA ed Emozioni: Impairment dell’espressività o deficit di capacità?

Domenico Mauro

La pratica clinica quotidiana, da quattro anni, in contesto degenziale per disturbi neuromuscolari ha indotto l’autore a ipotizzare una possibile correlazione tra la compromissione del funzionamento della muscolatura coinvolta nell’espressione mimica delle emozioni e la ridotta capacità di provare le stesse da parte degli ammalati in fase avanzata di S.L.A

Introduzione

Il presente lavoro nasce dall’esperienza maturata dall’autore in ambiente clinico-riabilitativo per soggetti affetti da disturbi neuromuscolari, in particolare dal lavoro con persone affette da S.L.A. che, nel corso di circa quattro anni, si sono avvicendate nel ricovero in contesto residenziale, raggiungendo il numero di 43 unità. L’osservazione longitudinale di tali pazienti, tutti collocabili in stadi avanzati di malattia, rivela un particolare dato clinico: una peculiare compromissione della attivazione dei muscoli facciali coinvolti nelle espressioni emotive.

L’ipotesi del presente lavoro, supportata dall’indagine anamnestica diretta condotta sui pazienti osservati, è che esista una correlazione tra la perdita della suddetta funzionalità ed una diminuita capacità di provare emozioni. A sostegno di quanto supposto si fa riferimento al complesso teorico relativo all’attività dei neuroni specchio, ed in particolare ai concetti di “consonanza intenzionale” e “simulazione incarnata” (Gallese, V., 2003). Gli effetti conseguenti alla drastica riduzione dell’espressione mimica coinvolgono ed influenzano attivamente l’interlocutore, nella misura in cui, come è stato possibile osservare, determina in quest’ultimo una diminuzione dell’espressione e della comunicazione empatica di ritorno verso l’emittente.

Dal punto di vista psicologico, del resto, diversi studi, tra i quali quello di Lule D. et al. (2005), hanno rilevato un cambiamento nella risposta emotiva dei pazienti, da una maggiore verso una minore reattività a stimoli emozionali intensi con l’avanzare della malattia, fenomeno che è stato ipotizzato correlare con l’attivazione di sistemi di compensazione cognitiva intercorsi ovvero, in un’ottica più neurobiologica, con vere e proprie modifiche neuroplastiche (Ferullo C.M. et al., 2009).

Metodi

Il metodo utilizzato fa riferimento fondamentalmente all’osservazione ed ai colloqui psicologici con 43 soggetti, aventi età media di 59,74 anni, tutti affetti da SLA già pervenuta alle fasi di compromissione delle funzioni respiratoria e fonatoria.  La ricerca attuale rimanda ad eventuali steps di approfondimento, successivi e multidisciplinari, per gli intuibili aspetti non indagabili con metodo empirico, aspetti extra-osservazionali. Occorre precisare che gli interventi e le stesse interlocuzioni con gli interessati sono stati resi attuabili grazie all’ausilio dello strumento comunicatore a puntatore ottico in loro dotazione.

I contenuti del trattamento clinico

Nel corso dei colloqui periodici effettuati dall’autore con i soggetti affetti da SLA, tutti ricoverati in contesto degenziale full-time, sono emersi importanti dati in linea con l’ipotesi per cui la severa condizione di impairment della funzionalità muscolare, oltre ad inibire l’espressione della espressività mimica (minus ampiamente atteso in virtù della centralità dell’impatto della sclerosi sulla funzionalità dell’apparato muscolare nella sua globalità), possa compromettere la capacità di provare emozioni: in particolare il dato che sembra emergere con chiarezza è che, se non la capacità di provare in toto le emozioni, si verificherebbe una riduzione dell’autopercezione in ordine alla quali/quantità della risonanza della sfera emozionale in risposta a stimoli emotigeni esterni. Frequenti sono state in tal senso le asserzioni raccolte nel corso delle interlocuzione con i pazienti esaminati; una fra tante: “è come se badassi meno a certe emozioni”; “riesco a sentirne solo alcune … quelle più forti”; “certi stimoli non mi fanno più lo stesso effetto di prima…”

La dimensione inconscia

Il malato affetto da S.L.A. si trova a dover elaborare diversi e ripetuti “lutti” legati alla progressiva perdita di fondamentali funzioni e dimensioni esistenziali. Esiste un gamma riconoscibile di reazioni cui vanno incontro, mano mano che si instaurano e si consolidano le diverse inabilitazioni multiapparato e prende forma la prospettiva di un’aspettativa di vita limitata, reazioni che possono essere osservate in successione nello stesso individuo, in stretta relazione alla progressione del processo di consapevolizzazione che, dal rifiuto (non sono io), la rabbia (perché proprio io), il compromesso (si, io però vorrei), la depressione (sono disperato), conduce all’accettazione (riposo finale) (S.I.A.A.R.T.I., 2011).

Coerentemente con la teoria di Elisabeth Kübler-Ross (1969), si rilevano in sostanza i cinque stadi di reazione alla prognosi mortale:

1.    diniego

2.    rabbia

3.    negoziazione

4.    depressione

5.    accettazione.

L’utilizzo massiccio di difese quali la negazione e l’isolamento, attutirebbe, in questi pazienti, l’impatto emotivo devastante e destrutturante della malattia (Averill, A., J., et al., 2007). La riduzione della percezione delle emozioni, qualora fosse dimostrata, sarebbe coerente con la messa in campo di istanze difensive inconsce presenti, in particolare, nelle fasi di maggiore consapevolezza.

Il modello psicofisiologico di Ruggieri

Secondo Vezio Ruggeri (1988), autore dell’apprezzato omonimo modello psicofisiologico delle emozioni, l’individuo percepisce uno stimolo esterno o interno (ricordi, immagini, rappresentazioni mentali etc.) che, agendo su alcuni particolari centri nervosi (ipotalamo e sistema limbico) determina un’attività che impegna contemporaneamente il sistema muscolare ed il sistema neurovegetativo. Il sistema nervoso centrale, dunque, in risposta allo stimolo emotigeno, invia impulsi ai muscoli ed al sistema viscerale. Muscoli e visceri, a loro volta, segnalano al sistema nervoso centrale, mediante informazioni di ritorno, la presenza dell’attività prodotta dal sistema nervoso medesimo. Esso ordina tali informazioni di attività mettendo in atto un processo di “sintesi”.

In altri termini, la raccolta dell’informazione proveniente dalla periferia del corpo (muscoli e visceri), in questo caso, non rappresenta la base per operazioni percettive di tipo analitico ma per una sintesi unificante, globale, dell’esperienza sensoriale. Quando si parla di informazioni sensoriali ci si riferisce, oltre che alle informazioni sensoriali cutanee, visive o uditive, anche alle c. d. informazioni propriocettive, cioè alle informazioni provenienti dai muscoli e dai tendini.

Quando l’informazione di ritorno proveniente dall’attività di diverse aree corporee (diversi distretti muscolari) è stata sintetizzata, si produce quel particolare vissuto coincidente con il sentimento. Il sentimento è l’elemento essenziale del processo di risposta emotiva: esso rappresenta la fase terminale dell’intera sequenza ed ha il ruolo di auto segnale (Ruggieri, 2002).  In questo caso non è importante per il soggetto riconoscere la provenienza corporea delle informazioni sensoriali che generano il sentimento ma vivere un’esperienza unitaria di piacere o di dolore da collegare con lo stimolo o la situazione stimolo che l’ha provocata. In virtù dei meccanismi fisiologici dell’emozione, uno stimolo esterno è stato in qualche modo “trasformato” in un complesso di eventi corporei che assumono il significato di segnale. In altri termini il soggetto “legge” ciò che lo stimolo ha provocato realmente in lui.

Tali costrutti teorici sembrano proprio la giusta cornice per l’ipotesi, al momento sospettabile sul piano osservazionale, secondo cui, in soggetti con S.L.A. avanzata, il coinvolgimento della funzionalità muscolare appare in stretta relazione con quantità e qualità delle emozioni.

Cenni sulla Teoria dei Neuroni Specchio

I neuroni specchio sono, come è ormai noto, una particolare popolazione di neuroni la cui esistenza è stata documentata per la prima volta verso la metà degli anni ’90, ad opera del gruppo di lavoro del Prof. Giacomo Rizzolatti, presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma. Scoperti nei macachi, i ricercatori osservarono che alcuni gruppi di neuroni si attivavano non solo quando gli animali compivano una determinata azione, ma anche quando osservavano un altro soggetto compiere la medesima azione.

Studi successivi, effettuati nell’uomo con tecniche non invasive, hanno dimostrato la presenza di sistemi simili: sembra che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio, e costituiscano una componente fondamentale della complessa ed articolata base anatomo-funzionale della capacità dell’uomo di porsi in relazione con altri individui. Nel nostro cervello, nel momento in cui viene osservata una determinata azione, si attivano gli stessi neuroni che entrano in gioco quando si è in prima persona a compierla; in questo l’individuo può comprendere con facilità le azioni dei suoi simili (meccanismo comparativo con analoghe azioni compiute in passato).

Lo stesso riconoscimento delle emozioni si basa su questo “meccanismo a specchio”: è stato dimostrato sperimentalmente, infatti, che quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione (percepiamo quindi la stessa emozione di chi la sperimenta in prima persona). Ormai è certo dunque che questo sistema ha tutto il potenziale necessario per fornire un meccanismo di comprensione delle azioni e per l’apprendimento attraverso l’imitazione e la simulazione del comportamento altrui.

Come afferma Gallese (2006b) l’individuo non è estraneo al significato delle azioni, emozioni, o sensazioni esperite dal proprio simile, in quanto gode di – come viene definita dall’autore – una “consonanza intenzionale” col mondo altrui. Ciò è reso possibile, continua l’autore, non solo dal fatto che con gli altri condividiamo le modalità di azioni, sensazioni o emozioni, ma anche perché, condividiamo alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni; grazie ai meccanismi di rispecchiamento e simulazione, l’altro è vissuto come un “altro se”. È stato evidenziato da studi del gruppo di Rizzolatti (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Gallese 2006) che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni ed emozioni, esperite in prima persona, sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri.

Il meccanismo di simulazione appare essere, quindi, una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsivoglia relazione interpersonale. La psicologia sociale ha descritto e studiato il cosiddetto “effetto camaleonte” (Chartrand e Bargh 1997): mimiamo inconsapevolmente il comportamento non verbale altrui, e il mimarsi reciproco aumenta quanto più stretta è la relazione con l’altro, ciò a conferma dell’ipotesi che l’empatia è generata dal sistema dei neuroni specchio (come afferma ancora Gallese, da un certo punto di vista la simulazione incarnata può essere considerata come il correlato funzionale dell’empatia), il cui compito sarebbe quello di interpretare le emozioni altrui, facendo provare, di conseguenza, quelle stesse emozioni o sensazioni al soggetto in relazione.

I meccanismi di simulazione (che, nel caso in cui riguarda funzioni condivise con l’altro – una condivisione, cioè, di azioni, sensazioni o emozioni tra individui che interagiscono tra di loro – viene denominata simulazione incarnata), quindi, rappresentano lo “strumento” atto alla condivisione, a livello esperienziale, degli stati mentali altrui. Il concetto di consonanza intenzionale generata dai processi di simulazione incarnata sarebbe funzionale all’ipotesi, formulata nel presente lavoro, per la quale, venendo meno la capacità del soggetto con S.L.A. avanzata di operare adeguati livelli di simulazione dell’espressioni emotive (a causa della mancata funzionalità muscolare per la riproduzione della mimica), possa ridursi anche l’attitudine a sperimentare le stesse emozioni.

Il coinvolgimento dell’interlocutore

Gli effetti della mancata risonanza intenzionale si ripercuotono anche nella dinamica con l’interlocutore coinvolto nella relazione col paziente ammalato di S.L.A.: sovente è emerso, all’osservazione delle dinamiche relazionali nel contesto residenziale, una rilevante difficoltà a sostenere gli scambi conversazionali con tali soggetti oltre che per le intuibili “barriere” fonatorie, anche in relazione a componenti extrafonatorie.

Tale difficoltà si genera nell’interlocutore in parte in ragione della necessità di adattamento, non sempre agevole, a forme di comunicazione alternativa, per altri versi, conseguenza di alterati giochi di feedback con il paziente. Si osserva, infatti, un atteggiamento apparentemente disponibile da parte del collocutore che, tuttavia, è di fatto “distante” emotivamente, presente com’è la difficoltà a mettersi in “sintonia” con l’altro, a comprenderne, cioè, lo stato d’animo e a condividerne, quindi, gli stati emotivi. Interagire con una persona che non presenta espressioni mimiche, equivale, a livello della percezione istintiva, ad interfacciarsi con una persona che è senza emozioni: seppur la razionalizzazione subentri in tempi brevi, inevitabilmente la risposta empatica ne resta condizionata in senso negativo.

Conclusioni

Nel presente lavoro è stato approfondito, secondo una metodologia di indagine osservazionale e perciò adatta ad un primissimo livello di ricerca, il delicato tema delle emozioni in un campione di pazienti degenti ammalati di SLA in fase avanzata.

La pratica clinica quotidiana, da quattro anni, in contesto degenziale per disturbi neuromuscolari ha indotto l’autore a ipotizzare una possibile correlazione tra la compromissione del funzionamento della muscolatura coinvolta nell’espressione mimica delle emozioni e la ridotta capacità di provare le stesse da parte degli ammalati in fase avanzata di S.L.A. A supporto dell’ipotesi citata, si è fatto riferimento alla teoria dei neuroni specchio – con i concetti di “consonanza intenzionale” e “simulazione incarnata” – per mettere in evidenza il coinvolgimento della capacità di imitazione della mimica emotiva nel processo di sperimentazione intrapsichica delle emozioni. È stato illustrato, inoltre, il modello psicofisiologico delle emozioni di Ruggieri, al fine di sottolineare  l’implicazione della funzionalità muscolare nei processi emozionali. Nell’ultima parte del lavoro è stato posto l’accento sugli “effetti” della amimia dei pazienti con SLA sull’interlocutore, frequentemente esitanti in una riduzione della risposta empatica in quest’ultimo.

L’auspicio è che le parzialissime conclusioni su tali ipotesi sensibilizzino verso un maggiore approfondimento dell’inquadramento della relazione tra impairment muscolare ed impairment emotivo in corso di S.L.A., ai fini delle intuibili ricadute nella conoscenza del grave disturbo, nonché della maggiore finalizzazione dei programmi e degli interventi terapeutico-riabilitativi in questa popolazione di utenti, con particolare riguardo agli aspetti inerenti la qualità di vita di persone che devono convivere con uno dei maggiori “drammi” in sanità.

“Le emozioni sono il colore della vita” recita Giampaolo Perna nel suo libro “Le emozioni della mente” (Perna, 2010); in una vita dove prevale il “grigio” della sofferenza in tutte le sue possibili declinazioni, è doveroso tentare di reinfondere un po’ di “colore”.

Un ringraziamento speciale al dott. Valerio Lamberti, quale fondamentale collaboratore in termini di suggerimenti, pareri e riflessioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Averill, A.J., Kasarskis, E.J., Segerstrom, S.C. (2007). Psychological health in patients with amyotrophic lateral sclerosis. Amyotrophic Lateral Sclerosis. 8(4): 243-254
  • Chartrand T.L. and Bargh J.A. (1999).The chameleon effect: The perception-behavior link and social interaction. Journal of Personality and Social Psychology, 76: 893-910
  • Ferullo C.M., Mascolo M., Ferrandes G., Caponnetto C. (2009). Sclerosi Laterale Amiotrofica: rilevazione dei bisogni in un gruppo di pazienti e di caregiver della regione Liguria. Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia. Pavia. PI-ME.
  • Gallese, V. (2006b). La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività. In: Autismo. L’Umanità nascosta (a cura di S.Mistura). Torino. Einaudi Ed.
  • Gallese, V., Keysers, C. and Rizzolatti, G. (2004). A unifying view of the basis of social cognition. Trends in Cognitive Sciences, 8: 396-403.
  • Lulè D, Kurt A, Jurgens R, Kassubek J, Diekmann V, Kraft E, Neumann N, Ludolph AC, Birbaumer N, Anders S. (2005). Emotional responding in amyotrophic lateral sclerosis. J Neurol,  252(12): 1517-24.
  • Kübler-Ross, E., (1969). On death and dying. New York. Macmillan.
  • Rizzolatti G., Sinigaglia C., (2006). So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE
  • Ruggieri, V., (1988). Mente corpo malattia. Roma. Il pensiero Scientifico Editore.
  • Ruggieri, V., (2002). L’esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per un’educazione estetica. Roma. Armando Editore. ACQUISTA ONLINE
  • Perna, G., (2010). Le emozioni della Mente. Biologia del cervello emotivo. Milano. Edizioni San Paolo.
  • Societa Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva Gruppo di Studio di Bioetica (2011). Cure palliative dei pazienti con patologie respiratorie croniche avanzate non oncologiche. Documento approvato dal Consiglio Direttivo S.I.A.A.R.T.I. Todi, 5 marzo 2011

Disgrafia e Disortografia – Definizione Psicopedia

Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 Il disturbo specifico di scrittura si definisce disgrafia o disortografia, a seconda che interessi rispettivamente la grafia o l’ortografia. La disgrafia fa riferimento al controllo degli aspetti grafici, formali, della scrittura manuale, ed è collegata al momento motorio-esecutivo della prestazione.

Essa si manifesta in una minore fluenza e qualità dell’aspetto grafico della scrittura.
La disortografia riguarda invece l’utilizzo, in fase di scrittura, del codice linguistico in quanto tale ed è all’origine di una minore correttezza del testo scritto. Entrambe, naturalmente, sono definite in rapporto alle prestazioni attese per l’età anagrafica dell’alunno.
In particolare, la disortografia si può definire come un disordine di codifica del testo scritto, che viene fatto risalire ad un deficit di funzionamento delle componenti centrali del processo di scrittura, responsabili della transcodifica del linguaggio orale nel linguaggio scritto.

 

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Le persone che rimuginano sono più intelligenti?

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Una ricerca pubblicata su Personality and Individual Differences sottolinea che vi sarebbe una correlazione statisticamente significativa positiva tra la tendenza a preoccuparsi e i livelli di intelligenza.

Generalmente vediamo e- proviamo sulla nostra pelle- la preoccupazione e l’ansia, spesso confondendole come sinonimi, come qualcosa di negativo e di spiacevole, giudicandole negativamente.

Non dimentichiamo però che ciascuna emozione – anche la preoccupazione- può avere una sua funzione evolutiva, tra cui anticipare e prepararsi ad affrontare le minacce e i pericoli.

Una ricerca pubblicata su Personality and Individual Differences sottolinea che vi sarebbe una correlazione statisticamente significativa positiva tra la tendenza a preoccuparsi e i livelli di intelligenza. I soggetti coinvolti hanno compilato una batteria di test self-report riguardanti ansia, rimuginio, ruminazione, depressione, e intelligenza verbale e non verbale.

Il risultato chiave dello studio è che gli individui con una maggiore tendenza al rimuginio ansioso (di solito mi preoccupo sempre di qualcosa) e/o alla ruminazione (cosa ha fatto per meritarmi questo?) presentavano anche punteggi maggiori ai test di intelligenza verbale della WAIS.

Invece, una tenenza a ruminare su eventi sociali già passati è correlata negativamente all’intelligenza non verbale, con punteggi minori nelle prove di quoziente intellettivo non verbale.

La spiegazione di questi due risultati apparentemente contradditori proposta dai ricercatori è che le persone con una maggiore intelligenza verbale sarebbero in grado di considerare eventi passati e futuri con maggiore precisione, mentre gli individui con una maggiore intelligenza non verbale sarebbero più in grado – plausibilmente essendo meno impegnati in rimuginio e ruminazione- di processare e affrontare meglio le esperienze e le performance nel momento presente. E’ d’obbligo ricordare cautela nell’interpretare e generalizzare questi risultati che sono ad oggi ancora preliminari, facendo riferimento a un campione limitato e non clinico.

 

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Genetica del comportamento: Quanto e come geni ed ambiente influenzano il nostro comportamento?

Il testo, aggiornato con le ultime ricerche pubblicate in letteratura e con ben 85 pagine di bibliografia, nella prima parte descrive i concetti base della genetica (dalle leggi sull’ereditarietà al DNA all’identificazione dei geni) ed illustra i differenti approcci utilizzati nello studio delle influenze genetiche ed ambientali sul comportamento.

Ogni volta che sento discutere di politica, da che ho memoria, una delle frasi più ricorrenti che viene strillata con grande incazzatura e malcelato disprezzo è: “E QUALCUNO L’HO HA PURE VOTATO, MA COME SI FA?!!” Come se votare per un candidato fosse una scelta razionalmente calcolata al 100%, determinata dall’educazione e dal contesto in cui siamo cresciuti. Invece il nostro orientamento politico, così come il nostro atteggiamento per esempio verso la religione, è in parte influenzato anche dal nostro assetto genetico (Funk et Al., 2013), il che, ammettiamolo, è sorprendente!

Ormai nessuno si stupisce più che i geni giochino un ruolo rilevante nello sviluppo di disturbi come la schizofrenia o la depressione o l’autismo, ma che lo stesso discorso valga anche per alcuni nostri atteggiamenti non è per nulla banale.

Alcuni costrutti psicologici su cui modelliamo le nostre percezioni, preferenze e scelte affondano, infatti, le proprie radici non solo nelle influenze ambientali, ma anche nei geni; in altre parole, se è vero che “Differenti istituzioni culturali – famiglia, chiesa, libri, televisione – offrono proposte differenti, le scelte che una persona compie riflettono sia quello che le viene offerto sia le sue inclinazioni ” (Loehlin, 1997). Diventa pertanto scontato che chi si occupa di comprendere il comportamento (psicologi, psichiatri, ricercatori…) debba considerare non solo gli aspetti ambientali, ma anche quelli genetici, mandando definitivamente in pensione la diatriba tra natura e cultura.

La sesta edizione del volume Genetica del comportamento di Plomin e DeFries, edito da Raffaello Cortina (2014), si pone proprio l’obiettivo di introdurre alla genetica del comportamento gli studenti di scienze biologiche, sociali e comportamentali.

Il testo, aggiornato con le ultime ricerche pubblicate in letteratura e con ben 85 pagine di bibliografia, nella prima parte descrive i concetti base della genetica (dalle leggi sull’ereditarietà al DNA all’identificazione dei geni) ed illustra i differenti approcci utilizzati nello studio delle influenze genetiche ed ambientali sul comportamento (dagli studi sulle adozioni e sui gemelli ai più recenti approcci combinati di analisi dei figli di gemelli o di coppie di fratelli non gemelli); inoltre, spiega le strategie di cui si avvalgono le ricerche sui modelli animali e umani, le tecniche utilizzate per quantificare quanto geni e ambiente influenzano il comportamento e come geni e ambiente interagiscono tra di loro.

Nella seconda parte invece il testo presenta lo stato della ricerca attuale su temi quali la capacità e la disabilità cognitiva, la schizofrenia, i disturbi dell’umore e dell’ansia, i disturbi da uso di sostanze e la psicopatologia dell’età evolutiva (ADHD, Autismo, etc.).

Particolarmente interessante è il capitolo “Personalità e disturbi di personalità” in cui, oltre ad affrontare i disturbi che sono stati studiati sistematicamente a livello genetico (Disturbo Schizotipico, Disturbo Ossessivo-Compulsivo e Disturbo Antisociale), vengono prese in esame le ricerche genetiche nell’ambito della psicologia sociale che si sono occupate di stimare il contributo di geni e ambiente nelle relazioni interpersonali (relazione genitore-figlio, tra pari, relazioni amorose e orientamento sessuale), nell’autostima, nell’economia comportamentale e nelle attitudini.

“Genetica del comportamento” rappresenta la sintesi di più di trent’anni di ricerca nel campo delle scienze del comportamento, nonché il punto di partenza per chiunque voglia dedicarsi allo studio del comportamento umano in quanto, come sottolineano gli autori, in ambito psicologico e psichiatrico sempre più ricercatori hanno incorporato strategie tipiche della genetica nei loro studi e sempre più ricerche di genetica del comportamento verranno condotte da studiosi che non sono in primo luogo dei genetisti.

Poiché il riconoscimento dell’importanza delle influenze genetiche è in continua crescita, ora più che mai è necessario ribadire con forza che sì, “i geni svolgono un ruolo sorprendentemente importante in molti tratti comportamentali”, ma “le differenze individuai nei tratti comportamentali complessi sono dovute a influenze ambientali almeno tanto quanto a influenze genetiche”.

I geni non sono il nostro destino, bensì predisposizioni probabilistiche. Essere portatori di un particolare assetto genetico ad alto rischio per una data malattia non significa quindi che automaticamente ci si ammalerà di tale malattia, e conoscere i fattori genetici in gioco permette di sviluppare misure preventive o interventi ambientali efficaci. Allo stesso modo non è detto che se siamo particolarmente tradizionalisti, automaticamente alle prossime elezioni il nostro sarà un voto conservatore, in quanto anche l’influenza dei determinanti ambientali farà la sua parte: vota Antonio vota Antonio Vota Antonio…

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Funk, C. L., Smith, K. B., Alford, J. R., Hibbing, M. V., Eaton, N. R., Krueger, R. F., Eaves, L. J., et al. (2013). Genetic and Environmental Transmission of Political Orientations. Political Psychology, 34(6), 805-819.
  • Lohelin, J.C. (1997). Genes and environment. In Magnusson, D. (a cura di), The Lifespan Development of Individuals: Behavioral, Neurobiological, and Psychological Perspectives: A synthesis. Cambridge University Press, New York
  • Plomin et Al. Genetica del comportamento (2014).  Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Battaglia M. (2002.) Genetica del comportamento e sviluppo: cause, occasioni, rischi e casualità lungo i processi di adattamento. Tratto da Personalità, sviluppo e psicopatologia di Maffei C., Battagia M. e Fossati A. (2002) Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Dislessia – Definizione Psicopedia

Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 Da un punto di vista clinico, la dislessia si manifesta attraverso una minore correttezza e rapidità della lettura ad alta voce rispetto a quanto atteso per età anagrafica, classe frequentata, istruzione ricevuta.

Risultano più o meno deficitarie la lettura di lettere, di parole e non-parole, di brani.
In generale, l’aspetto evolutivo della dislessia può ricordare un semplice rallentamento del processo di sviluppo. Tale considerazione è utile per l’individuazione di eventuali segnali anticipatori, fin dalla scuola dell’infanzia.

 

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E’ mancato il Professor Luigi Boscolo (1932-2015)

Luigi Boscolo - Psichiatra e Psicoterapeuta
LUIGI BOSCOLO (1932 -2015)

 

Il Centro Milanese di Terapia della Famiglia ha annunciato con grande tristezza la scomparsa del professor Luigi Boscolo avvenuta il giorno 12 gennaio 2015.

 

CURRICULUM E PUBBLICAZIONI

1960: Termina gli studi di Medicina e Pediatria all’Università di Padova

1961-1967: Negli Stati Uniti si specializza in Psichiatria e Psicoanalisi presso il New York Medical College e Metropolitan Hospital di New-York.

1967: Ritorna in Italia stabilendosi a Milano, dove apre uno studio per esercitare l’attività di psicoanalista. Nello stesso tempo collabora con Mara Selvini Palazzoli alla fondazione del Centro Per lo Studio della Famiglia.

1967-1970: Periodo Psicoanalitico.
Membro di una équipe di psicoanalisti diretta da Mara Selvini svolge attività di ricerca e terapia con famiglie e coppie, utilizzando il modello psicoanalitico.

1971-1975: Periodo Strategico-Sistemico.
Una nuova équipe formata da Selvini, Boscolo, Cecchin, Prata addotta un nuovo modello di terapia familiare, di terapia breve ispirato al modello di Terapia Strategico-Sistemica di Palo Alto. Le modalità di lavoro e i risultati di questo periodo sono descritti nel libro “Paradosso e Controparadosso”.

1975-1980: Periodo Sistemico.
Tale periodo è caratterizzato dallo studio approfondito delle idee e delle esperienze di G.Bateson, in particolare dell’applicazione della sua epistemologia cibernetica al nostro lavoro con le famiglie. Il testo più significativo di questo periodo è, senza dubbio, “Ipotizzazione, Circolarità, Neutralità: Tre Principi per la Conduzione della seduta” che da molti è stato considerato il più importante contributo del Gruppo di Milano.

1980: L’equipe del Centro viene Sciolta. Boscolo e Cecchin fondano un nuovo Centro, denominato Centro Milanese di Terapia della Famiglia, e ne diventano i Co-direttori.

Dal 1980: Il Centro Milanese, oltre all’attività clinica e di ricerca, cominciò a svolgere una intensa attività formativa rivolta specialmente agli operatori dei servizi sanitari e sociali pubblici. In seguito l’attività formativa si estese anche all’estero, dall’Europa alla America, all’Australia. Venne anche condotto da Boscolo e Cecchin un corso estivo annuale di formazione al modello sistemico di Milano. Boscolo in tutti questi anni svolge attività di didatta e supervisore non solo al Centro ma anche altrove. Diventa socio fondatore della S.I.P.R. di Roma e della S.I.R.T.S. di Milano. E’ stato membro della A.F.T.A. (American Family Therapy Association) e della A.A.M.F.T.(American Association for Mariage and Family Therapy), nonché del’ E.F.T.A. (Associazione Europea di Terapia della Famiglia).

 

Principali pubblicazioni scientifiche

LIBRI:

  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F., and Prata, G. (1975), “Paradosso e Controparadosso”, Feltrinelli, Milano.
  • Boscolo, L., Cecchin G.F., Hoffmann, L., Papp, P.(1987), “Milan Systemic Family Therapy” – Basic Books, New-York.
  • Boscolo, L., Bertrando, P., “I Tempi del Tempo. Una Nuova prospettiva per la Consulenza e la Terapia Sistemica”, Bollati Boringhieri – Torino, 1993.
  • Boscolo, L., Bertrando, P. “Terapia Sistemica Individuale” Cortina – Milano 1995.

 

ARTICOLI PRINCIPALI:

  • Boscolo, L., Cecchin, G.F., (1982) “Training in Systemic Therapy at the Milan Center”, in “Family Therapy Supervision: recent developments in practice”, London, Academy Press.
  • Boscolo, L., Bertrando, P., Fiocco, P.M., Palvarini R.M., e Pereira, J., ” Linguaggio e Cambiamento. L’uso di parole chiave in terapia”, Vol.37, 41-53 (1991).
  • Boscolo, L., “The Systemic Approach to the Therapy of Schizophrenia” in C. Eggers (Ed.). “Schizophrenia and Youth” Springer-Verlag, Berlin Heidelberg 1991.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F. and Prata, G. (1974) “The Treatment of Children Through the Brief Therapy of their Parents” – Family Process, Vol.13, N4.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F. and Prata, G. (1977) “Family Rituals: A Powerful Tool in Family Therapy” Family Process, Vol. 4 N3.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F. and Prata, G. (1978) “A Ritulaized Presription in Family Therapy: odd days and even days”, Journal of Marriage and Family Conseling, Vol.4 N3.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F.,and Prata, G. (1980) “The Problem of the Referring person”, Journal of Marital and Family Therapy, Vol. 6, N1.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo L.,Cecchin, G.F., and Prata,G. (1980) “Hypothesizing – Circularity – Neutrality: Three Guidelines for The Conduction of the Session”, Family Process, Vol.19 – N1.
  • Boscolo, L., Bertrando, P., “Terapia Sistemica e Linguaggio” – Connessioni – N1 (13-25) 1997.
  • Boscolo L., Terapia Familiare e Mediazione Familiare: Una Conversazione – Connessioni – N4 (145-155), 1998.

Se i bambini mentono…la responsabilità è dei genitori!

FLASH NEWS

Un nuovo studio rivela che la punizione è un metodo educativo inefficace contro le bugie e può addirittura rendere i nostri figli più bugiardi.

Al contrario l’incoraggiamento all’onestà come valore, o alla peggio come un modo di compiacere l’adulto, ha dimostrato di essere un metodo molto più efficace di quello punitivo.

L’esperimento, condotto dalla psicologa Victoria Talwar, prevedeva che un bambino si trovasse in una stanza con alle spalle un giocattolo sonoro, e che un ricercatore, anch’esso nella stanza, gli chiedesse due volte di indovinare da quale giocattolo provenisse il suono. Poi il ricercatore aggiungeva un nuovo e sconosciuto giocattolo sonoro e si allontanava dalla stanza prima della seconda fase del test, chiedendo al bambino di non sbirciare il nuovo giocattolo durante la sua assenza pena una serie di conseguenze, più o meno punitive, o il semplice ammonimento che dire la verità è la cosa giusta da fare, che questo l’avrebbe fatto stare bene e che l’adulto ne sarebbe stato contento. Al suo ritorno il ricercatore chiedeva al bambino se aveva sbirciato o no.

I bambini osservati tramite la videoregistrazione durante l’assenza dello sperimentatore erano 372, con un età compresa tra i 4 e gli 8 anni. Due terzi dei bambini hanno infranto la regola e due terzi di questi hanno mentito: è interessante notare che la maggior parte dei bambini che ha mentito era anche stato minacciato di incorrere in una punizione, mentre chi ha detto la verità era stato incoraggiato a farlo in quanto comportamento approvato dal ricercatore o comportamento giusto, che li avrebbe fatti sentire bene. I più piccoli erano più inclini alla compiacenza dell’adulto, mentre i più grandi interiorizzavano più facilmente la norma come valore positivo.

L’idea di fondo è che la minaccia di una punizione non aiuta a scegliere di dire la verità, ma anzi può avere l’effetto opposto e ridurre la probabilità che i bambini siano sinceri con noi.

Si tratta di informazioni utili per tutti i genitori e gli insegnanti che cercano di incoraggiare i bambini alla comunicazione sincera e a comportamenti onesti.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

A chi la racconti? Il rapporto dei bambini con le bugie e le mezze verità

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Analizzare i LIKE su Facebook per comprendere la personalità

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

I ricercatori dell’Università di Cambridge e della Stanford University descrivono la scoperta come una “dimostrazione enfatica” della capacità dei computer di scoprire i tratti psicologici di un individuo attraverso la pura analisi dei dati. “In futuro, i computer potrebbero essere in grado di dedurre i nostri tratti psicologici e reagire di conseguenza, cosa che porterebbe alla nascita di macchine emotivamente intelligenti e con abilità sociali”, afferma Wu Youyou, di Cambridge. “In questo contesto, le interazioni uomo-computer rappresentate in film di fantascienza come ‘Her’ sembrano essere alla nostra portata”.

Ma questi risultati, avvertono i ricercatori, potrebbero sollevare preoccupazioni per la privacy degli utenti. Anche perché non occorre seminare nel web una mole spropositata di dati per svelare se stessi: nello studio il computer si è rivelato in grado di descrivere la personalità di un soggetto con maggiore precisione rispetto a un collega di lavoro analizzando solo dieci ‘mi piace’; con 70 ‘like’ supera un amico o un compagno di stanza, spiazza un membro della famiglia con 150, e rivaleggia con il coniuge se ha 300 ‘mi piace’ da esaminare. Dato che un utente medio di Facebook accumula circa 227 ‘mi piace’, secondo i ricercatori questo tipo di intelligenza artificiale ha il potenziale per conoscerci meglio dei nostri amici più stretti…

I ‘like’ su Facebook sono come un test di personalitàConsigliato dalla Redazione

Un gruppo di scienziati ha sviluppato un modello computerizzato in grado di analizzare carattere e inclinazioni dell’internauta in base ai ‘mi piace’ cliccati sul social network. Una traccia digitale che sembra leggerci dentro meglio di quanto riescono a fare amici e familiari. Solo il partner può batterla (…)

Tratto da: Adnkronos

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Nella pratica clinica: lo svuotamento identitario e il “terapeuta killer”

Roberto Lorenzini, Valeria Valenti, Marika Ferri

 

L’esperienza dello “svuotamento identitario” con il vissuto emotivo di angoscia di perdita di identità e di rabbia verso l’altro che ce la fa provare è sperimentabile in ogni sistema motivazionale interpersonale quando l’interlocutore non ci riconosce il ruolo in cui ci siamo identificati che sia di amante, di competitor, di accudente o di accudito (si pensi alle rabbie e alle angosce di separazione di un piccolo il cui ruolo di oggetto di cure non viene riconosciuto).

Nella pratica clinica capita spesso di sentir narrare l’angoscia che alcuni provano a non sentirsi amati o peggio a non sentirsi rappresentati nella mente dell’altro significativo. Non c’è soltanto il timore di perdere l’oggetto amato e dunque di fallire uno scopo giudicato importante quanto piuttosto il timore di perdere se stessi. Poiché il soggetto si vede soltanto all’interno di tale relazione, se la relazione viene a mancare è il soggetto stesso a scomparire. In effetti la cifra emotiva che viene esperita non è lungo la dimensione della tristezza quanto piuttosto dell’angoscia, un angoscia che chiameremo di “svuotamento identitario”.

Lo svuotamento è avvertito come una implosione  dei propri centrali pilastri identitari con il contemporaneo collasso della gerarchia degli scopi. Quello che risulta più evidente nel racconto del soggetto è la paralisi, la sospensione di tutto il sistema motivazionale e dunque il vissuto premortale della noia: “se non c’è lei nella mia vita….allora nulla ha più senso…..non so cosa fare…. non desidero niente. Il rapporto con l’altro è la porta per ritrovare se stesso e dare un senso al mondo. Tutte le cose che avevano significato per la funzione che potevano avere all’interno del rapporto perdono qualsiasi importanza, si svuotano di ogni interesse. Senza l’altro il mondo è vuoto.

L’angoscia sperimentata non è dunque simile alla minaccia per il fallimento di uno scopo e la perdita di un oggetto esterno, quanto piuttosto, come nell’angoscia psicotica, simile alla perdita della propria soggettività, identità, agentività. Il soggetto sente di restare mutilato e tale condizione può risultare così insopportabile da preferire di sopprimere la parte rimasta in vita perché non abbia a rendersi conto  della condizione dimezzata e cessi di soffrirne. Emozione associata è di frequente l’ostilità verso chi ci cancella e ci priva di noi stessi. Il danno che ci procura è irreparabile, è il più grande possibile, ci fa perdere, ci deruba noi stessi.

Questa esperienza è frequente in due situazioni prototipiche che hanno dato origine alle pagine forse più belle dell’arte mondiale di tutti i tempi: la fine dell’amore romantico e l’esperienza del lutto, entrambe accomunate dalla perdita dell’oggetto d’amore e, come detto sopra, insieme a lui di noi stessi. Tali sentimenti sono talmente diffusi e socialmente approvati che vengono facilmente riconosciuti, espressi e condivisi. Trascriviamo in proposito il funeral blues di Auden per la perdita del suo compagno omosessuale :

Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,

fate tacere il cane con un osso succulento,

chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato

portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù

e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,

allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,

i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,

la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,

il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;

pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;

imballate la luna, smontate pure il sole;

svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;

perché ormai più nulla può giovare.

Quanto detto fin qui, per la sua ovvietà, non meritava certamente il tempo impiegato per farlo. Cercherò dunque di giustificare tale investimento ampliando il concetto di “svuotamento identitario” ed estendendolo ad altri sistemi interpersonali (gli SMI liottiani). Questa operazione in genere poco feconda di ampliamento di un concetto con forte potere euristico a zone più ampie del suo focus originario con il risultato di annacquarlo e renderlo generico e banale, nasce dall’esperienza clinica ed in particolare dalla constatazione di un errore, ghiotta occasione per imparare.

Mi capita di osservare di frequente personale dedito a professioni di aiuto, quali medici, infermieri o assistenti sociali, ma anche psicoterapeuti, dei quali si dà ingiustamente per scontata una lucida consapevolezza di sè, diventare francamente ostili e persecutori nei confronti dei propri assistiti.

Tale disastroso fenomeno scatta quando il paziente, nonostante gli sforzi del curante non migliora come questo si aspetterebbe: il suo continuare a star male è una ferita grandissima all’identità del curante posta tutta nel ruolo di accudente e la sofferenza del malato gli fa sperimentare l’esperienza intollerabile dello svuotamento identitario scatenando la sua ostilità. Qualcosa del genere può spiegare gli agiti di violenza, anche drammatici, di un caregiver verso un bambino piccolissimo che si dimostra inconsolabile nonostante tutte le cure.

Il paziente che nonostante tutti gli sforzi e la dedizione del suo psicoterapeuta non guarisce o peggiora o vuole interrompere la relazione è come se gli mandasse il messaggio che il terapeuta è un accudente impotente e questo in modo esplicito o peggio camuffato scatena la sua rabbia e il tentativo di colpevolizzare il paziente per l’esito non soddisfacente del lavoro svolto, ad esempio recuperando il concetto consolatorio di resistenza e di vantaggio secondario. Questo rischio di evoluzione iatrogena della relazione è tanto più presente quanto più il curante pone la sua identità nel suo lavoro e non lo considera un semplice mestiere per guadagnarsi la vita. Sono quelli che hanno la vocazione ad essere i più pericolosi: i migliori possono diventare i peggiori.

Per concludere, quello che sosteniamo, è che l’esperienza dello “svuotamento identitario” con il vissuto emotivo di angoscia di perdita di identità e di rabbia verso l’altro che ce la fa provare è sperimentabile in ogni sistema motivazionale interpersonale quando l’interlocutore non ci riconosce il ruolo in cui ci siamo identificati che sia di amante, di competitor, di accudente o di accudito (si pensi alle rabbie e alle angosce di separazione di un piccolo il cui ruolo di oggetto di cure non viene riconosciuto).

Insomma ogni sistema motivazionale se non viene riconosciuto dall’interlocutore cui viene proposto e tanto più quanto più si pone in esso gran parte dell’identità, genera l’angosciante esperienza dello svuotamento identitario come perdita di se stesso e rabbia verso il partner non riconoscente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La relazione terapeutica nella Schema Therapy: una carta vincente

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti G. (2001). Le opere della coscienza. Raffaello Cortina Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Liotti G. , Monticelli F. (2008). I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Raffaello Cortina Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Liotti G. Farina B.  (2011). Sviluppi Traumatici. Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • R.Lorenzini, S.Sassaroli. (2000).  La mente prigioniera: strategie di terapia cognitiva. Ed. Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • S.Sassaroli, R.Lorenzini, G.Ruggiero. (2006). La psicoterapia cognitiva dell’ansia. Ed. Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • R. Lorenzini, B. Coratti. (2008). La dimensione delirante. Ed. Raffaello Cortina Milano. ACQUISTA ONLINE

Neuroscienze e Pensiero Politico

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Da qualche anno le neuroscienze hanno cominciato a osservare la politica, o meglio hanno continuato a osservare cervelli considerandone caratteristiche e attività, e connettendole con gli orientamenti politici dei proprietari dei cervelli medesimi.

Gli studi sono agli inizi e non è ancora ben chiaro se le strutture cerebrali che mediano gli orientamenti politici ne siano la causa o l’effetto. È anche possibile che questo sia uno dei tanti casi di coevoluzione (il fenomeno A alimenta il fenomeno B, che a sua volta accresce il fenomeno A, e così via).

Comunque, vi invito sia a premettere un ideale “sembra che…” alle affermazioni che leggete in seguito, anche se sono tutte state pubblicate su riviste di ottima reputazione, sia a trarre qualche conclusione provvisoria sì, ma suggestiva…

Cervelli politici – Annamaria TestaConsigliato dalla Redazione

Da qualche anno le neuroscienze hanno cominciato a osservare la politica, o meglio hanno continuato a osservare cervelli considerandone caratteristiche e attivita’ , e connettendole con gli orientamenti politici dei proprietari dei cervelli medesimi… (…)

Tratto da: Internazionale

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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I disturbi specifici dell’ apprendimento (DSA) – Definizione Psicopedia

Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 I disturbi di apprendimento rappresentano una condizione clinica evolutiva di difficoltà di apprendimento della lettura, della scrittura e del calcolo che si manifesta con l’inizio della scolarizzazione. Sono pertanto escluse le patologie di apprendimento acquisite (successive ad esempio a traumi cranici).

I riferimenti internazionali utilizzati nella definizione e classificazione dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) sono:
• ICD-10 (F81 Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche)
• DSM IV TR (315 Disturbi dell’apprendimento).
Si tratta di disturbi che coinvolgono uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici.
Sulla base del deficit funzionale vengono comunemente distinte le seguenti condizioni cliniche:
• dislessia, cioè disturbo nella lettura (intesa come abilità di decodifica del testo);
• disortografia, cioè disturbo nella scrittura (intesa come abilità di codifica fonografica e competenza ortografica);
• disgrafia, cioè disturbo nella grafia (intesa come abilità grafo-motoria);
• discalculia, cioè disturbo nelle abilità di numero e di calcolo (intese come capacità di comprendere e operare con i numeri).

Il DSA è un disturbo cronico, la cui espressività si modifica in relazione all’età e alle richieste ambientali: si manifesta cioè con caratteristiche diverse nel corso dell’età evolutiva e delle fasi di apprendimento scolastico. La sua prevalenza risulta maggiore nella scuola primaria e secondaria di primo grado. L’espressività clinica varia inoltre in funzione della complessità ortografica della lingua scritta. Con il termine “complessità ortografica” ci si riferisce a quella caratteristica che differenzia le lingue “opache” (per esempio l’inglese), caratterizzate da una relazione complessa e poco prevedibile tra grafemi e fonemi, dalle lingue “trasparenti” (per esempio l’italiano), caratterizzate da una relazione prevalentemente diretta e biunivoca tra fonemi e grafemi corrispondenti (al suono della singola lettera o parola corrisponde cioè il modo in cui la si scrive). Tale caratteristica condiziona i processi utilizzati per leggere, gli strumenti di valutazione clinica e i percorsi riabilitativi, non consentendo un diretto e totale trasferimento dei dati scientifici derivati da studi su casistiche anglofone.
La definizione di una diagnosi di DSA avviene in una fase successiva all’ inizio del processo di apprendimento scolastico. È necessario infatti che sia terminato il normale processo di insegnamento delle abilità di lettura e scrittura (fine della seconda classe della primaria) e di calcolo (fine della terza classe della primaria).
Un’anticipazione eccessiva della diagnosi aumenta in modo significativo la rilevazione di falsi positivi. Tuttavia, è possibile individuare fattori di rischio (personali e familiari) e indicatori di ritardo di apprendimento che possono consentire l’attuazione di attività e interventi mirati e precoci e garantire una diagnosi tempestiva.
Una caratteristica rilevante nei DSA è la comorbilità. È frequente, infatti, accertare la compresenza nello stesso soggetto di più disturbi specifici dell’apprendimento o la compresenza di altri disturbi neuropsicologici (come l’ADHD, disturbo dell’attenzione con iperattività) e psicopatologici (ansia, depressione e disturbi della condotta).

I DSA mostrano una prevalenza che oscilla tra il 2,5 e il 3,5% della popolazione in età evolutiva per la lingua italiana, dato confermato dai primi risultati di una ricerca epidemiologica tuttora in corso sul territorio nazionale.
Di fatto, anche se ancora non esiste uno specifico osservatorio epidemiologico nazionale, le informazioni che provengono dai Servizi di Neuropsichiatria Infantile indicano che i DSA rappresentano quasi il 30% degli utenti di questi servizi in età scolare e il 50% circa degli individui che effettuano un intervento riabilitativo. I DSA sono attualmente sottodiagnosticati, riconosciuti tardivamente o confusi con altri disturbi.
I DSA hanno infine un importante impatto sia a livello individuale (frequente abbassamento del livello curriculare conseguito e/o prematuro abbandono scolastico nel corso della scuola secondaria di secondo grado), sia a livello sociale (ridotta realizzazione delle potenzialità sociali e lavorative dell’individuo).
Sono in aumento le prove scientifiche sull’efficacia della presa in carico e degli interventi riabilitativi nella riduzione dell’entità del disturbo e/o nel rendimento scolastico (misura del funzionamento adattivo in età evolutiva), nonché nella prognosi complessiva (psichiatrica e sociale) a lungo termine. La precocità e la tempestività degli interventi appaiono sempre più spesso in letteratura tra i fattori prognostici positivi.
Al raggiungimento di questi obiettivi devono contribuire più figure professionali e istituzioni, che rivestono un ruolo di rilievo nei diversi momenti dello sviluppo e dell’apprendimento e il cui coinvolgimento varia in base alle espressioni sintomatiche con cui il disturbo può rendersi evidente. Il pediatra tiene conto degli indicatori di rischio alla luce dei dati anamnestici, accoglie i segnali di difficoltà scolastiche significative riportate dalla famiglia e la indirizza agli approfondimenti specialistici. Gli insegnanti, opportunamente formati, possono individuare gli alunni con persistenti difficoltà negli apprendimenti e segnalarle alle famiglie, indirizzandole ai servizi sanitari per gli appropriati accertamenti, nonché avviare gli opportuni interventi didattici. I servizi specialistici per l’età evolutiva (per esempio i Servizi di Neuropsichiatria Infantile) sono attivati per la valutazione e la diagnosi dei casi che pervengono a consultazione e predispongono un’adeguata presa in carico nel caso in cui sia confermato il quadro clinico di DSA.

L’implementazione di prassi cliniche condivise per la diagnosi, che prevedano l’utilizzo di protocolli di valutazione basati su prove standardizzate a livello nazionale, così come di modalità di trattamento scientificamente orientate, può consentire un livello di assistenza più efficace e omogeneo per i soggetti con DSA. Questo permette, inoltre, di rilevare a livello nazionale quali siano le procedure diagnostiche e terapeutiche necessarie per questi disturbi (in termini di risorse umane ed economiche) e di avviare un percorso di ricerca sistematica sull’efficacia e l’efficienza degli interventi terapeutici nella popolazione di lingua italiana. L’adozione di criteri diagnostici evidence based può contribuire inoltre a distinguere i DSA dalle altre difficoltà scolastiche aspecifiche, connesse di solito a fattori relativi al contesto familiare, ambientale e culturale dello studente, nonché dalle difficoltà di apprendimento che sono conseguenza di ritardo mentale o deficit neurologici, sensoriali o motori.

ARTICOLO CONSIGLIATO

Disturbi specifici dell’apprendimento – Intervista ad Elena Simonetta

BIBLIOGRAFIA:

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Anti-depressivi o Pro-depressivi: perché a volte, in fase iniziale, gli SSRI peggiorano i sintomi della depressione?

FLASH NEWS

Una nuova ricerca aiuta a spiegare l’effetto paradossale di alcuni antidepressivi, che possono in alcuni casi peggiorare i sintomi prima di aiutare i pazienti a sentirsi meglio (normalmente dopo un paio di settimane dall’inizio dell’assunzione regolare del farmaco).

I risultati di questo studio potrebbero aiutare i ricercatori a risolvere il problema dell’effetto paradosso di questi farmaci e a creare nuove classi di farmaci per il trattamento della depressione.

Gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono la classe di farmaci antidepressivi più prescritta e funzionano aumentando i livelli di serotonina, il più importante regolatore del tono dell’umore.

I neuroni della serotonina trasmettono un doppio segnale che consiste nel rilascio di serotonina e glutammato, la componente serotoninergica del doppio segnale è stata collegata alla motivazione e la componente glutammato è stata collegata al piacere e all’apprendimento; i ricercatori sostengono che l’SSRI può influenzare queste due componenti del doppio segnale in modi diversi. Fischer, ricercatore a capo dello studio, spiega: 

Mentre la componente serotoninergica è immediatamente amplificata in seguito alla somministrazione di SSRI, la componente glutammato viene soppressa in fase acuta e si normalizza solo dopo diversi giorni di trattamento farmacologico queste differenze possono aiutare a spiegare il paradosso che si manifesta in fase precoce di assunzione degli SSRI e che scompare invece con l’assunzione prolungata

La scoperta del doppio segnale aiuta a spiegare perché l’efficacia clinica degli SSRI risulta ritardata e perchè questo effetto paradossale non è evidente con altri farmaci antidepressivi che invece colpiscono i recettori del glutammato. Delineare i fattori che contribuiscono a determinare ogni aspetto del doppio segnale permette di definire nuovi bersagli farmacologici per ridurre il ritardo nell’efficacia degli SSRI o addirittura per produrre nuovi tipi di antidepressivi.

 

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Psicologo/a

Terre des Hommes nell’ambito del progetto FARO “Supporto psicologico e psicosociale ai minori stranieri non accompagnati ed alle famiglie con bambini, in arrivo in Italia, via mare” è alla ricerca di uno psicologo/a da inserire nella propria equipe in Sicilia per lo svolgimento dell’attività clinica di ascolto e supporto psicologico alla persona.

Mansioni:
Il/la candidato/a entrerà a far parte dell’equipe impegnata nel progetto FARO in Sicilia.

Il/la candidato/a avrà il compito di: identificare casi di soggetti vulnerabili e bisognosi di supporto; prendere in carico la persona attraverso colloqui ripetuti ove necessario; stilare certificazioni cliniche per ciascun paziente in carico; riportare i casi urgenti all’attenzione del Servizio Pubblico di Salute mediante apposta segnalazione e alle altre ONG presenti in loco per eventuali problematiche di rispettiva competenza.

Il/la candidato svolgerà le sue funzioni in autonomia relativamente alla parte strettamente tecnico clinica, ma nel rispetto delle disposizioni dettate dal coordinatore progetto FARO in sede a Milano e in stretta collaborazione con gli altri membri dell’equipe impegnati nelle attività psicosociali.

Il referente locale di progetto sarà identificato alla firma del contratto e/o a inizio attività.

Al candidato così come a tutta l’equipe sarà fornita una supervisione tecnica per tutto l’arco del contratto.

Requisiti: Laurea in psicologia, con preferibile conoscenze di etno – psicologia. Minimo due anni di esperienza in contesti legati all’accoglienza dei migranti, specialmente dei minori stranieri non accompagnati.

Conoscenza del funzionamento del sistema italiano di accoglienza relativamente agli aspetti funzionali allo svolgimento della propria attività e dei processi specifici che attengono all’accoglienza del minore straniero non accompagnato.

Conoscenza lingua inglese e/o francese (preferibile entrambe le lingue).

Preferibile residenza in Sicilia.

Uso corrente di pc: word, excel e di skype.

Patente B

Luogo di lavoro: Sicilia, (provincia di Siracusa, Agrigento o Ragusa).

Durata: 12 mesi

Avvio progetto: febbraio 2015

Tipologia contratto: contratto collaborazione a progetto

Facility: alloggio e auto sono messe a disposizione dal progetto

Termine invio candidature: 15 gennaio 2015

Inviare il cv a [email protected]

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Disabilità e Assistenza Sessuale: L’accarezzatrice di Giorgia Würth (2014) – Recensione

Disabilità e Assistenza Sessuale – Recensione del libro “L’accarezzatrice” di Giorgia Würth (2014)

 

Parlare di sessualità e disabilità in Italia rappresenta ancora oggi un gigantesco tabù. Questo romanzo abbatte con semplicità e autenticità le barriere architettoniche più difficili da superare, quelle costituite da pregiudizio e ipocrisia. Un argomento così delicato e nascosto, da decenni sottoposto all’attento esame di genitori ed esperti, che la scrittrice Giorgia Würth scioglie con maestria nella storia della protagonista Gioia, una giovane infermiera costretta a fare i conti con la crisi economica dopo aver perso il suo posto di lavoro in ospedale.

 

Le riflessioni della protagonista, insieme ai colpi di scena racchiusi nella sua storia, portano in superficie questioni e criticità in cui è facile imbattersi quando si parla della sessualità di persone disabili. L’autrice passa in rassegna con straordinaria trasparenza tutte le obiezioni riservate alla figura dell’assistente sessuale, figura professionale ancora non riconosciuta in Italia, almeno non ufficialmente. La trama di questa storia infatti si realizza al confine con la Svizzera, dove invece sembra ormai assodato che ogni essere umano abbia diritto a vivere e sentire il proprio corpo, assecondandolo nei suoi richiami, concedendosi il piacere delle carezze, ricevendo aiuto quando questo aiuto è prima di tutto una necessità.

L’assistente sessuale non è una prostituta. Forse per qualcuno è più facile pensarla in questi termini, ma la lettura di questo libro, una sessione dopo l’altra, incuriosisce e spiega come al contrario questa figura professionale (già riconosciuta in gran parte di Europa e Stati Uniti) si posizioni proprio agli antipodi della prostituzione. Se una prostituta è generalmente chiamata a soddisfare nel minor tempo possibile il proprio cliente dando risoluzione al suo desiderio sessuale, un assistente sessuale, uomo o donna che sia, è un vero e proprio terapeuta senza paziente (perché il desiderio sessuale non genera pazienti, fa parte di noi per natura, utilizzo il termine terapeuta proprio in virtù della formazione specifica che questo professionista deve possedere) che attraverso una buona relazione col proprio cliente è in grado di aiutarlo a percepire ed esplorare il proprio corpo, offrendo a sua volta un corpo (non un corpo in vendita) come luogo di incontro intimo e speciale, mittente e destinatario di piacere condiviso, perché anche una persona disabile può offrire piacere.

Provate a chiedere a down, paraplegici, spastici, infermi, a tutte quelle persone che non sono totalmente libere di accoppiarsi, che cos’è una vita senza sesso. Che cosa significa ritirarsi (quando è possibile) nella malinconia di un piacere solitario o nella frustrazione della completa incapacità di provarlo senza l’aiuto di qualcuno. Si finisce per disprezzare il proprio corpo perché sembra che tutti lo disprezzino. La vita diventa un inferno, e infatti qualcuno se la toglie. Il diritto a vivere la propria sessualità è sacrosanto per tutti. Anche per i disabili. Gli assistenti sessuali offrono a queste persone la possibilità di esplorare il proprio corpo attraverso scambi di tenerezze, abbracci, massaggi, esperienze intime e sensuali fino a giochi erotici e masturbazione. L’obiettivo è quello di far sì che un corpo abituato alla sofferenza e al disagio possa ritrovare, attraverso l’esperienza sensoriale del piacere, la sensibilità e la gioia di vivere.

 

La possibilità di godere del piacere sessuale si trasforma così in autodeterminazione, consapevolezza del proprio esserci e dello stare al mondo, diventa addirittura fonte di autostima e incrementa la percezione di autoefficacia nelle relazioni interpersonali. Le dimensioni di una sessualità negata sbocciano e prendono forma in età adulta, quello che è in origine un mero istinto riproduttivo evolve in gioco e ricerca, curiosità ed esplorazione, acquisendo lentamente un senso e un significato nell’esperienza interpersonale, rafforzando e nutrendo la dimensione sociale della sessualità umana. È così che nasce una storia d’amore e questo è un libro che riesce benissimo a parlare di sesso traboccando amore da ogni sua pagina.

Le questioni più delicate legate alla sessualità delle persone disabili vengono esplicitate nel corso del romanzo, attraverso le storie di vita delle persone che Gioia incontra facendo l’assistente sessuale. La Würth narra del disagio di una madre costretta a masturbare la persona che ha messo al mondo, narra la sofferenza di persone disabili omosessuali che quotidianamente vivono un doppio stigma legato ai pregiudizi sociali, narra della fragilità di persone che come tutti gli esseri umani possono innamorarsi, possono innamorarsi della propria assistente sessuale e soffrire per questo amore.

Ma proprio alla luce della complessità intrinseca a questi argomenti, se è vero che l’assistente sessuale è un operatore del benessere, che promuove un’assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità per le persone con disabilità, può essere di per sé sufficiente alla presa in carico totale di sfere così profonde ed importanti per il benessere di ogni individuo? Per contro, anni e anni di dibattiti, conferenze e articoli come quello che avete letto fino a questo momento, sono riusciti a tradurre in pragmatica il desiderio di queste persone di fare sesso? Senza nulla togliere alla teoria sembra arrivato il momento di passare alla pratica, non dimenticando però che fra teoria e prassi esiste un ponte invisibile dove chi decide di prendere in carico la sessualità di una persona disabile, fisica o intellettiva, si preoccupa prima di tutto di lavorare all’interno di un’équipe di professionisti della salute, a tutela della sicurezza e del benessere biopsicosociale della persona. Ovviamente in Italia siamo ancora lontani da tutto questo e qualcuno comincia (giustamente) ad essere stufo.

Insomma questo romanzo è una storia commovente e disarmante che tutti dovrebbero leggere, non solo genitori e professionisti, non solo psicologi e sessuologi, non solo educatori e insegnanti, non solo le persone disabili, se non altro perché disabili lo siamo tutti, solo che la disabilità di qualcuno è più visibile della disabilità di qualcun altro.

 

 

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LoveAbility. L’assistenza sessuale per le persone con disabilità (2014) – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Würth, G. (2014). L’accarezzatrice. Mondadori Editore

LoveAbility. L’assistenza sessuale per le persone con disabilità (2014) – Recensione

 

Nel libro l’assistente sessuale viene definito dagli autori come un “operatore del benessere, che promuove un’assistenza all’emotività, all’ affettività, alla corporeità e alla sessualità per le persone con disabilità“.

“Immagina di avere sete. Molta sete. E di essere seduto davanti a un tavolo su cui è riposto un bicchiere colmo di acqua fresca. Tu però, da solo, non riesci ad afferrarlo. Perché meccanicamente non sei in grado di arrivarci, oppure perché mentalmente non sai come farlo. La sete aumenta, fino a diventare insostenibile. Se non bevi, impazzisci. Se non bevi, muori. Hai bisogno di aiuto. Di qualcuno che prenda quel bicchiere e ti consenta di bere, o di qualcuno che ti spieghi come farlo. Ecco chi è l’assistente sessuale: […]”

Chi è l’assistente sessuale? Che cosa fa? Che ruolo ha nei confronti delle persone con disabilità? E nel concreto, nel quotidiano, quali sono le mansioni che svolge? E’ un figura riconosciuta in Italia? Questi e molti altri sono i punti interrogativi che tutti si pongono quando si parla di assistenza sessuale. Per la prima volta, grazie a questo libro innovativo ed unico in Italia, è possibile avere una risposta chiara ed esaustiva a queste domande che riguardano appunto la figura dell’assistente sessuale, una figura che nel nostro paese è quasi sconosciuta per svariati motivi, siano essi culturali, etici e/o religiosi.

Nel libro l’assistente sessuale viene definito dagli autori come un “operatore del benessere, che promuove un’assistenza all’emotività, all’ affettività, alla corporeità e alla sessualità per le persone con disabilità” (Quattrini e Fulcheri, 2014). Nello specifico, gli assistenti sessuali sono operatori che consentono alle persone con disabilità di avere dei contatti erotici, sensuali e sessuali. Essi lavorano attraverso massaggi, carezze, contatti corpo a corpo, ma soprattutto ponendosi come guide nell’educazione alla sessualità e all’affettività, ed arrivano all’insegnamento della masturbazione, quando possibile. E’ una professione questa che pone chi la pratica di fronte a numerose e continue difficoltà e sfide, sia dal punto di vista personale, (fisicamente ma ancor prima psicologicamente) ma anche dal punto di vista relazionale. E’ infatti importante sottolineare come chi svolge questa professione sia a forte rischio di discriminazione da parte di familiari, amici e potenziali partner, ma non solo, come in generale chi la pratica sia soggetto al giudizio dell’opinione pubblica con tutto ciò che ne può conseguire.

Come accennato in precedenza, in Italia la figura dell’assistente sessuale non è riconosciuta mentre attualmente lo è in alcuni Stati europei tra i quali Olanda, Germania, Danimarca e Austria. Tuttavia, l’assistente sessuale italiano ha caratteristiche fondamentalmente differenti rispetto a quello europeo, dove è in linea generale assimilato a qualsiasi altra tipologia di sex worker. Innanzitutto l’assistente sessuale italiano è specificatamente formato nel suo campo. In secondo luogo, i training educativo-riabilitativi che offre si articolano in un continuum che va dagli aspetti informativi ed educativi fino alla sessualità vera e propria vissuta con la promozione del piacere orgasmico, e gli incontri vengono fissati in un numero tra i 5 e 10 al massimo per non rischiare un eccessivo coinvolgimento emotivo/sentimentale. Inoltre, ultima fondamentale differenza con l’assistente sessuale europeo, non sono contemplate esperienze sessuali di tipo coitale come la penetrazione, nè di tipo orale; e questo per rimarcare ulteriormente la differenza con altre tipologie di lavoro nel campo sessuale.

E’ stata quindi creata in Italia l’Associazione Loveability con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica del nostro paese al fine di raccogliere consenso e adesioni ma ancora prima, consapevolezza. Il 24 aprile 2014 è stato presentato in Senato il disegno di legge 1442. Ancora, grazie al lavoro dell’associazione, è partito il progetto “Lovegiver”: si tratta di un progetto per la formazione degli operatori dell’assistenza sessuale con i primi corsi che partiranno nei primi mesi del 2015. E’ stato inoltre istituito l’Osservatorio Nazionale sull’Assistenza Sessuale, guidato dal dott. Fabrizio Quattrini. Infine, a breve verrà istituito un numero verde di ascolto, consulenza e informazione sui temi dell’assistenza sessuale.

Si tratta di una lettura molto interessante per i suoi contenuti innovativi ma anche chiarificatori: le numerose testimonianze presenti nel testo sono il modo migliore per spiegare questo universo di concetti così poco conosciuti da chi non li vive nella sua quotidianità. E’ questo un libro che invita a riflettere su temi ai quali non tutti sono abituati a pensare, dalle reali difficoltà degli individui e delle famiglie, alle spinose questioni etiche… e come queste ultime in molti casi si possono scontrare con la nuda e cruda realtà del vivere quotidiano.

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Disabilità e Assistenza Sessuale: L’accarezzatrice di Giorgia Würth (2014) – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

  • Ulivieri, M. (2014). LoveAbility. L’assistenza sessuale per le persone con disabilità. Centro Studi Erickson: Trento.  ACQUISTA ONLINE

Musica e linguaggio nei bambini: chi suona uno strumento presenta migliori abilità linguistiche

FLASH NEWS

I bambini che frequentano regolarmente corsi di musica e che mostrano una partecipazione attiva riportano punteggi più alti nelle abilità di elaborazione del discorso e nelle capacità di lettura rispetto ai loro coetanei che si sono mostrati meno coinvolti.

Una formazione musicale, ormai è noto, è importante per il cervello in via di sviluppo, ma una nuova ricerca della Northwestern University rivela che a fare la differenza è il livello di coinvolgimento attivo del bambino: i bambini che frequentano regolarmente corsi di musica e che mostrano una partecipazione attiva riportano, a due anni di distanza, punteggi più alti nelle abilità di elaborazione del discorso e nelle capacità di lettura rispetto ai loro coetanei che si sono mostrati meno coinvolti.

La ricerca, apparsa su Frontiers in Psychology, ha anche dimostrato che i benefici a livello neurale derivanti dalla partecipazione attiva ai corsi di musica si sono verificati nelle stesse aree del cervello che sono tradizionalmente deboli nei bambini provenienti da ambienti svantaggiati. Piccole variazioni nel coinvolgimento si sono dimostrate significative anche in classi di studenti almentamente motivati, sottolinea Nina Kraus, prima autrice dello studio; inoltre anche il tipo di classe di musica è importante: l’elaborazione neurale in studenti che hanno suonato degli strumenti è stata maggiore rispetto a quella di bambini che si sono limitati ad ascoltare la musica.

La ricerca precedente, pubblicata a settembre sul Journal of Neuroscience, ha indicato che l’educazione alla musica può letteralmente rimodellare il cervello di un bambino in un modo che migliora l’elaborazione del suono.

I bambini provenienti da famiglie a basso livello socioeconomico elaborano i suoni in modo meno efficiente, in parte a causa di ambienti rumorosi e in parte a causa della deprivazione linguistica, cioè il non essere abituati a sentire parole, frasi e concetti complessi. Questo li espone a un maggior rischio di fallimento e abbandono scolastico.

Un adeguata formazione musicale può essere un modo per migliorare il modo in cui il cervello elabora il suono e rimuovere l’interferenza: l’efficienza dell’elaborazione vocale, infatti, è strettamente legata alla lettura, che richiede la capacità di segmentare il parlato in unità sonore individuali.

Insomma, suonare uno strumento ha un profondo effetto sul nostro sistema nervoso, migliora le nostre abilità linguistiche e può addirittura ridefinire le conseguenze dovute a contesti socioculturali ad alto rischio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Kraus, N., Slater, J., Thompson, E.C., Hornickel, J., Strait, D.L., Nicol, T., White-Schwoch, T. (2014). Auditory learning through active engagement with sound: biological impact of community music lessons in at-risk children. Front. Neurosci. 8:351. doi: 10.3389/fnins.2014.00351 

 

 

Un libro per riflettere su Charlie Hebdo? “Grandi Dei” di Ara Norenzayan (2013)

Non è facile recensire “Grandi Dei” di Ara Norenzayan in questi giorni dell’attentato fondamentalista di Parigi contro Charlie Hebdo. Anche Norenzayan, l’autore del libro che recensisco, è una vittima dell’odio religioso.

Ara Norenzayan oggi insegna psicologia alla University of British Columbia in Canada, ma è nato e cresciuto nel Libano a Beirut, città cosmopolita e raffinata fino al 1975, e poi preda di una guerra infinita tra fazioni religiose, politiche ed etniche rivali. La famiglia di Norenzayan è cristiana ortodossa armena e abbandona la città, ormai invivibile, nel 1990. Malgrado ciò, Norenzayan studia la psicologia delle religioni con occhio critico e scientifico, ma senza condannarle. Anzi, sviluppa una complessa teoria del ruolo nella società e nella storia umana, teoria che ora appare in questo libro. Teoria non nuova, almeno in sociologia, teoria che Norenzayan applica alla psicologia sociale e che sviluppa in termini psicologici.

La teoria è che le religioni svolgano un ruolo prosociale, permettendo la costruzione di società complesse che vadano al di là del legame di sangue immediato.

Il dato di partenza è quello che Norenzayan chiama l’enigma dei grandi gruppi. La capacità umana di costruire società di grandi dimensioni i cui membri non siano legati tra loro da legami di parentela. Secondo il principio di Hamilton, dice Norenzayan, i comportamenti prosociali altruistici sono presenti negli animali in maniera proporzionale alla vicinanza genetica, ovvero di sangue. L’uomo, che pure è definito l’animale più crudele, è anche al tempo stesso l’animale di gran lunga più sociale.

Nessun animale è in grado di costruire società su larga scala come gli stati e le nazioni umane, in cui si coopera tra estranei e perfino tra persone che non si incontrano mai. Vero è che molti stati, soprattutto quelli antichi, avevano leggende di fondazione con un eroe che costituisce un gruppo iniziale di tipo tribale, basato in parte sul sangue. Ma non del tutto. Romolo raggruppa una banda di spostati ed emarginati e fonda Roma, Teseo un gruppo di villaggi separati e fonda Atene, e così via. E siamo ancora al livello della città antica, entità non troppo espanse che in una certa misura permettevano che tutti conoscessero tutti, o quasi. In questo stadio, in cui ci si conosce per nome un po’ tutti (e ci si controlla, aggiunge Norenzayan), il contatto diretto reciproco consente di stabilire regole di comportamento riconosciute e rafforzate dall’incontro quotidiano diretto.

Quando di passa alle metropoli e ai grandi stati e imperi l’anonimato di massa incombe e la religione, scrive Norenzayan, acquista un nuovo peso.

La necessità di coordinare grandi masse d’individui che non si conoscono rende la religione necessaria, mancando ancora la mentalità moderna fondata sul rispetto reciproco basato su un calcolo razionale che rende l’altruismo utilitaristicamente conveniente.

Per la precisione acquistano peso le religioni etiche monoteistiche o tendenzialmente monoteistiche. Non a caso queste religioni diventano religioni di stato nelle prime forme governative di grandi dimensioni. L’Impero Romano dapprima con l’evoluzione ellenistica in direzione monoteistica del politeismo greco-romano e poi del cristianesimo da Costantino in poi, L’Impero Indiano di Osaka o il Califfato islamico sono tra gli esempi più noti. Il rispetto della legge s’instaura non attraverso un contratto sociale ma obbedendo alla credenza in un ente sovrannaturale che è capace di vedere non solo i comportamenti, ma anche le intenzioni nascoste delle persone e quindi di indurre interiormente l’adesione a un codice sociale condiviso con estranei, ovvero individui senza rapporti di parentela. Naturalmente, però, le società religiose implicano un livello di controllo sociale sull’individuo pervasivo e pesante, con grave limitazione della libertà individuale.

Questa sezione del libro è la più corposa e interessante e rappresenta l’applicazione alla psicologia di concetti che nella sociologia sono già diffusi da tempo, a partire almeno dagli studi delle religioni di Max Weber. Il lavoro di Norenzayan svela i meccanismi psichici corrispondenti ai processi sociali già esplorati dai sociologhi. Leggere questo libro è un’avventura intellettuale gratificante, l’esposizione chiara ed esaustiva.

Un possibile difetto è la scelta dell’autore di non differenziare tra le varie religioni. Tutte sono trattate come sostanzialmente omologhe, senza approfondire le differenze. Le religioni orientali, buddismo, confucianesimo e taoismo, sono diverse da quelle occidentali perché prevedevano un’entità soprannaturale in qualche modo monoteista ma non personale. I tre monoteismi abramitici non sono distinti tra loro nelle varie differenze storiche e sociali. Perché l’ebraismo è stato la religione di un gruppo che non si è mai organizzato in un Impero? Perché il cristianesimo è stato un monoteismo imperfetto (la divinità è una e trina) e anti-politica per tre secoli? È l’inattesa e improvvisa adozione da parte di Costantino che lo trasforma (quasi) in una notte in religione di stato adatta al modello teorico di Norenzayan. L’Islam sembra aderire meglio al modello di Norenzayan della religione come strumento politico-sociale fin dalla sua nascita. Ma funziona solo per un paio di secoli, poi sembra assonnarsi. E oggi come strumento prosociale non sembra svolgere brillantemente la sua funzione.

La sezione finale, più magra e limitata a un solo capitolo, esplora invece le moderne società laiche in cui il contratto morale e sociale funziona in assenza dello stimolo religioso. Sono le società secolari, le società in cui il rapporto morale con l’altro avviene senza l’imperativo e il controllo di un’entità sovrannaturale in grado di vedere le intenzioni nascoste. Le conclusioni di Norenzayan sulle società secolari sono un misto di ottimismo e perplessità.

L’ottimismo riguarda la capacità delle società secolari di contemperare necessità sociali e libertà individuali. Un maggiore ricorso al pensiero critico permette alle società moderne di ritagliare un più ampio spazio di libertà per le persone singole. Al tempo stesso, però, Norenzayan ci avverte che questo equilibrio moderno si basa su due punti deboli. Il primo è che l’equilibrio sociale secolare si basa non solo sul progresso civile, ma anche su quello economico. La capacità di rispetto dell’altro nella società secolare è legata al benessere.

Riusciamo a rispettare l’altro perché, in generale, lo sviluppo economico ci permette di vivere bene, di sperare di vivere sempre meglio e ci sottrae alla tentazione della sopraffazione. Il problema è però la gestione delle situazioni di crisi, in cui l’incremento di benessere non è più garantito. Una situazione che –come purtroppo sappiamo- si sta presentando in Occidente negli ultimi anni; anni in cui, per la prima volta dopo decenni, non vi è più la garanzia di un maggiore benessere per le generazioni future. Riusciremo a conservare la nostra società secolare in presenza di un benessere materiale che si deteriora invece di aumentare?

Il secondo problema è che, nella società secolare l’etica si basa su un ragionamento utilitaristico. Anche nelle sue declinazioni più progressiste e “liberal”, la visione laica rifiuta di mettere l’etica sopra ogni cosa e la appoggia su forze economicistiche e materialistiche. Lo stesso Marx riteneva che tutto fosse solo economia. Come abbiamo scritto prima, la mentalità moderna fonda il rispetto reciproco non su una legge etica, ma su un calcolo razionale che rende l’altruismo utilitaristicamente conveniente. Un egoismo intelligente.

Questo determina un grande paradosso.

All’umanità in fondo conviene una società etica, però al tempo stesso laicamente rifiuta ogni formulazione etica universale, pena la ricaduta in una visione religiosa, sia pure senza ipotizzare un’entità sovrannaturale che ci controlla.

Un bene relativo che però –come scrive Norenzayan- abbisogna di un minimo di rigidità non relativistica per funzionare decentemente. Riusciremo a risolvere questa moderna aporia? Norenzayan non risponde a questa domanda.

 

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RELIGIONI & PENSIERO RELIGIOSOETICA & MORALE

 

BIBLIOGRAFIA:

Norenzayan, A. (2013). Big Gods. Tr. Italiana, Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo. Milano: Cortina Editore.

 

VIDEO: Researching Religion and Prosociality | Dr Ara Norenzayan | CERC Plenary Meeting 4 May 2013

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