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Fattori genetici implicati nelle capacità attentive e nello sviluppo di ADHD

FLASH NEWS

I deficit dell’attenzione riguardano solo il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) oppure è possibile rintracciare in tutta la popolazione un’ampia gamma di funzionamento delle capacità attentive?

La risposta a questa domanda potrebbe avere importanti ripercussioni sia sulla diagnosi psichiatrica sia sulla società più in generale.

Uno studio condotto da alcuni ricercatori della Cardiff University School of Medicine dell’Università di Bristol e pubblicato su Biological Psychiatry sembra suggerire l’esistenza di una grande varietà nel grado di funzionamento delle capacità attentive, dell’iperattività, dell’impulsività e delle capacità linguistiche, all’interno della società.

Specifici deficit di queste capacità sono risultati associati in varia misura ad un cluster di geni collegato con il fattore di rischio per l’ADHD. Guardare a queste funzioni come dimensioni o tendenze è tuttavia in contrasto con la visione tradizionale dell’ADHD, inteso come una categoria di disturbo.

Per rispondere alla domanda iniziale, il gruppo di ricercatori guidato dalla Dott.ssa Anita Thapar ha utilizzato informazioni sui dati genetici di pazienti con diagnosi di ADHD e dati provenienti da uno studio longitudinale condotto sempre presso l’Università di Bristol che ha coinvolto 14.500 famiglie residenti nell’area di Bristol allo scopo di valutare il peso dei fattori genetici e ambientali sullo sviluppo di genitori e bambini (Avon Longitudinal Study of Parents and Children, ALSPAC).

I ricercatori hanno creato dei punteggi di rischio poligenico – un punteggio composito degli effetti genetici in base al quale descrivere un indice di rischio genetico – di ADHD per 8,229 soggetti che hanno preso parte allo studio ALSPAC. In questo modo è stato trovato che il fattore di rischio poligenico per l’ADHD era positivamente associato con più alti livelli di iperattività/impulsività e di deficit di attenzione all’età di 7 e 10 anni nella popolazione generale. Tale fattore è inoltre risultato negativamente associato con le abilità di linguaggio pragmatico e l’abilità di usare appropriatamente il linguaggio in condizioni sociali. Dice Thapar:

I nostri ricercatori hanno trovato che un set di geni identificati come fattore di rischio in pazienti UK con una diagnosi clinica di ADHD durante l’infanzia è in grado di predire anche alti livelli di difficoltà di sviluppo in un gruppo di bambini della popolazione in generale, nel ALSPAC.

Joanna Martin aggiunge

I nostri risultati supportano l’esistenza di un livello genetico nel suggerire che la diagnosi di ADHD rappresenta la parte più estrema dello spettro di queste difficoltà. I risultati sono inoltre importanti in quanto suggeriscono che lo stesso set di geni, considerati come fattore di rischio, contribuisca a differenti aspetti dello sviluppo infantile che sono caratteristiche peculiari di disordini del neurosviluppo di disturbi quali ADHD o disordini dello spettro autistico.

Secondo il Dr. John Krystal potrebbe essere il caso di pensare che ad un certo punto i punteggi di rischio poligenico potrebbero aiutare, in associazione con altre informazioni cliniche, l’identificazione di bambini che avranno difficoltà nella scuola e in altri contesti a causa di difficoltà attentive. Obiettivo di questo tipo di identificazione precoce è quello di aiutare bambini a rischio di sviluppare queste difficoltà in modo da fornire loro un supporto che possa prevenire il disagio che incontreranno all’interno del contesto scolastico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

Il Partito Democratico tra narcisismo e dissociazione

Il problema è che qualcuno decide, da sinistra, chi è di sinistra. Pretesa narcisistica. Salvo poi dissociarsi e cambiare idea.

Unire psicologia e divulgazione non è facile. È stata questa l’ambizione di State of Mind fin dall’inizio, e speriamo di esserci riusciti. Abbiamo tentato sempre di parlare di argomenti di interesse comune e di legarli a dati scientifici solidi. Qualche volta abbiamo parlato di costumi sociali, qualche altra volta di fatti di cronaca, altre volte ancora di eventi artistici. Raramente di eventi politici.

In questi giorni un collega aveva lanciato l’idea di tentare di scrivere qualcosa sulle afflizioni e i tormenti del partito democratico, ma l’entusiasmo non ha infiammato la redazione. Il rischio di banalizzare eventi storici e politici complessi e la difficoltà di mantenere una posizione imparziale in un campo che è invece dominato dalla passione delle fazioni non invitano i redattori a esporsi. Sta di fatto che il suggerimento si estinse.

Però qualche giorno dopo mi cade l’occhio su una dichiarazione di Matteo Renzi. E leggendola penso che forse essa è in grado di ispirarmi un commento (spero) non banale, in termini psicologici. Nelle furibonde polemiche sull’articolo 18 Renzi ha dichiarato che questo articolo

[blockquote style=”1″]è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato[/blockquote]

 

Possibile? L’articolo 18 non votato dalla sinistra? E allora da chi?

Beh, sappiamo che l’articolo 18 fu votato dai partiti di governo di allora. Ovvero, se non erro, da uno dei tanti governi all’epoca presieduti da Mariano Rumor e sostenuto da una coalizione politica costituita dalla Democrazia Cristiana (DC), dal Partito Repubblicano Italiano (PRI), dal Partito Socialista Unitario (PSU) e dal Partito Socialista Italiano (PSI) (Link). Quel governo approvò l’articolo 18 nell’ambito dello statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Il Partito Comunista Italiano (PCI), in quanto partito di opposizione, si astenne.

 

Rumor, DC, PSI, PRI. Ma anche PCI. Nomi e sigle di un lontano passato, non so quanto comprensibile ai giovani di oggi. E poi quel PSU, che pochi possono ricordare. Era il nome che all’epoca aveva il PSDI, il Partito Socialista Democratico Italiano. Ma temo che anche questa sigla, PSDI, dica poco ai più giovani. Nomi inghiottiti dal tempo, a me però familiari sebbene all’epoca fossi minorenne, perché i miei genitori, come molti genitori di allora appassionati e impegnati di e in politica, parlavano precocemente e frequentemente di politica con i figli. Un’altra epoca, in cui tutto era impregnato, troppo impregnato, di passione e di ossessione politica.

 

Ma torniamo all’articolo 18. Il PCI si astenne, essendo all’opposizione. Però al governo c’erano il PSI e il PSU. PSI e PSU erano entrambi partiti socialisti, sia pure divisi dalla diversa posizione verso Marx: il PSU lo aveva pienamente ripudiato, mentre il PSI manteneva una posizione più ambigua. Né piena adesione al marxismo come il PCI, né ripudio come il PSU.

E già qui temo che il lettore si sia confuso e annoiato di queste cose passatissime e si chieda: due partiti socialisti? Che casino. E che c’entra tutto questo con la psicologia? La tentazione di deporre la penna (ancora il passato; in realtà dovrei spegnere il computer) fa capolino. Chi me lo fa fare di scrivere di politica? Oppure no. Forse tutta questa confusione merita anche uno sguardo psicologico.

Si potrebbe dire allora che non è vero, che Renzi si sbaglia, che la sinistra votò l’articolo 18. Lo votarono PSI e PSU, i due partiti socialisti. Dunque Renzi confuso e ignorante? Non so. Io ci andrei cauto nel deridere Renzi. Renzi è un frutto della sinistra cattolica, proviene da una forte tradizione politica toscana che risale a Giorgio La Pira (1904-1977), sindaco di Firenze e poi terziario francescano. Basti pensare che Renzi si è laureato in giurisprudenza con la tesi “Firenze 1951-1956: la prima esperienza di Giorgio La Pira Sindaco di Firenze”.

 

Con i cattolici di sinistra occorre sempre stare attenti

Sembrano bonari e innocui. Non assumono mai pose ieratiche alla Berlinguer e men che meno esprimono la iattanza di un D’Alema. È facile sottovalutarli. A differenza dei progressisti di provenienza comunista, non si atteggiano a intellettuali e non nutrono le alterigie o la stizzosità narcisistiche di coloro che ritengono di aver capito come cambiare il mondo dopo aver letto da giovani il Capitale di Marx. Questi cattolici di sinistra, essendo sgobboni, il Capitale lo hanno letto anche loro, insieme a molti altri libri che però si guardano bene dal citare, per non sembrare saputi. Sono maestri della conquista del consenso politico. Così è che governano da decenni, dapprima sotto il nome di democrazia cristiana e poi sotto il nome di partito democratico, con Prodi e ora con Renzi. Ed è così che non hanno fatto la fine di Occhetto e D’Alema: reprimendo con freddezza ogni narcisismo sussiegoso.

Ma dov’è la psicologia? Adesso arriva. Temo che Renzi, più che essere confuso, abbia creato volutamente confusione alla sua sinistra, al fine di scompaginarne ulteriormente le fila già sbandate. Dicendo che la sinistra non votò l’articolo 18 ha messo il dito su una piaga, anzi su due piaghe che torturano la sinistra italiana fin dalla fine della seconda guerra mondiale: la piaga della narcisismo e quella della dissociazione.

Narcisismo

La piaga narcisistica consiste nel fatto che il partito comunista, nel 1970 ancora affascinato da un’orgogliosa e auto-referenziale ideologia rivoluzionaria di assoluta opposizione a qualunque sviluppo politico occidentale, finiva per respingere -o almeno per non votare- anche le iniziative politiche più progressiste e sostanzialmente di sinistra, bollandole come truffe ai danni della classe lavoratrice. Come l’articolo 18 nel 1970. In questa logica i partiti democratici, socialdemocratici o laburisti tedeschi, scandinavi e dei paesi anglo-sassoni erano etichettati come partiti non di sinistra (incredibile, no?), falsi progressisti in realtà servi del capitale.

La conseguenza, paradossale ma reale non solo in Italia ma anche in altri paesi latini, è che le riforme a favore dei lavoratori le facevano i partiti non di sinistra ma di centro allora al governo: democristiani in Italia, gollisti e liberali in Francia. La sinistra comunista era confinata all’opposizione, sognando la rivoluzione e finendo per non votare le leggi a favore dello stato sociale. Come l’articolo 18.

Nei paesi nordici, invece, i partiti di sinistra, avendo smesso da tempo di sognare la rivoluzione, facevano il loro mestiere, ovvero costruivano lo stato sociale. In Germania per esempio fin dal 1959, anno della svolta di Bad Godesberg in cui Marx fu ripudiato. E non riesco a immaginare nulla di più narcisistico di un partito all’opposizione che sdegnosamente decide di togliere la patente di partiti di sinistra ai gloriosi partiti socialdemocratici scandinavi e tedeschi che governando costruivano lo stato sociale nei loro paesi. Narcisismo.

Dissociazione

La seconda piaga è dissociativa, e consiste in quel citare quel partito socialista li, al governo, come esempio da rinfacciare a Renzi per dimostrargli che la sinistra aveva votato a favore dell’articolo 18. Ora, sappiamo che, secondo una certa vulgata, il partito socialista avrebbe misteriosamente smesso di essere di sinistra negli anni ’80. Di qui la confusione, anzi la dissociazione: i socialisti sono o non sono di sinistra? Boh. Nel migliore dei casi, dipende dalle convenienza polemica del momento. Se si tratta di dare dell’ignorante a Renzi, i socialisti sono di sinistra. In altri casi, i socialisti non lo sono più. Senza contare che la precedente rimozione dei socialisti dalla sinistra costringe comunque a una riabilitazione a posteriori che confonde i più giovani. E poi ci sono quelli che forse non sanno nemmeno più che in Italia un tempo c’era un partito socialista. Insomma, sembra di parlare di guelfi e ghibellini. In questa nebbia sopravvive solo il termine anodino di “sinistra”, col risultato che tutti hanno ragione: la sinistra votò e non votò l’articolo 18. Possibilissimo, dato che Berlinguer diceva che il PCI era un partito di lotta e di governo. E così la confusione aumenta.

Però è vero che negli anni ’70 i socialisti quando votarono a favore dell’articolo 18 erano considerati ancora di sinistra. O almeno così avevano deciso quelli che erano più a sinistra di tutti. Se fosse così, non ci sarebbe dissociazione.

O quasi di sinistra. O forse no, già negli anni ’70 non erano più considerati di sinistra. Chi era nelle fila della sinistra italiana prima ancora degli anni ’80 sa bene che la lenta espulsione ideologica del partito socialista dalla sinistra iniziò fin da quando questo partito entrò, negli anni ’60, nel governo a costituire i cosiddetti governi di centro-sinistra. Governi democristiani e socialisti, dunque, che attuarono riforme socialdemocratiche, ovvero le riforme del welfare tipiche degli anni ’60 in tutto l’occidente, anni in cui perfino in USA ci si lanciò nel grande esperimento quasi-socialdemocratico della “Great Society” merito del presidente Lyndon B. Johnson (altro interessante caso di politico progressista ideologicamente “espulso” dalla sinistra).

Un momento. Abbiamo detto: riforme socialdemocratiche? Ovvero proprio le riforme bollate come falsa sinistra dall’intero gruppo dirigente comunista italiano? Come si vede, l’espulsione del PSI dalla sinistra era già iniziata.

E il problema è sempre quello: che qualcuno decide, da sinistra, chi è di sinistra. Pretesa narcisistica. Salvo poi dissociarsi e cambiare idea. Tra narcisismo e dissociazione c’è di che perdere la testa.

Forse è meglio non scrivere articoli di politica.

 

Sul narcisismo consigliamo “Metacognizione e psicopatologia: Valutazione e trattamento“ di Giancarlo Dimaggio e Paul Lysaker, sulla dissociazione “Sviluppi Traumatici” di Gianni Liotti e Benedetto Farina (2011)

 

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PSICOLOGIA & POLITICA

BIBLIOGRAFIA: 

Adulti Asperger inclini a pensieri suicidi: che influenza ha la società?

Il quadro clinico di depressione secondaria negli Asperger è imputabile all’isolamento sociale, alla mancanza di servizi di qualità e alla difficoltà che questi adulti riscontrano nel mantenere una soddisfacente vita lavorativa oltre che affettiva.

Uno studio di coorte condotto dall’University of Cambridge ha evidenziato la maggior presenza di pensieri suicidi negli Asperger piuttosto che nella popolazione neurotipica. Una conclusione piuttosto scontata per chi vive questa condizione di neurodiversità e forse anche per le persone a lui più vicine.

La sindrome di Asperger, menzionata per la prima volta nel DSM IV e non più presente nel DSM V, si differenzia dal quadro clinico di Autismo per l’assenza di ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, delle capacità d’autonomia e del comportamento adattativo pur presentando le caratteristiche tipiche di difficoltà nell’interazione sociale e la tendenza a comportamenti ripetitivi o a sviluppare interessi ristretti.

E’ gia strato dimostrato come questa condizione si correli frequentemente alla depressione ma pochi studi fino ad ora avevano indagato la presenza di ideazione suicidaria in questi soggetti.

Illustri nomi in materia di autismo, la dott.ssa Cassidy ed il Prof. Baron-Cohen, hanno sottoposto un questionario a 374 soggetti diagnosticati Asperger da adulti tra il 2004 e il 2013 nel Regno Unito, con l’intenzione di verificare la presenza, nel corso della loro vita, di depressione, ideazione suicidaria, piani e tentativi di suicidio.

I risultati sono stati ovviamente comparati con i dati riguardanti l’ideazione suicidaria tra la popolazione generale neurotipica ed i pazienti psicotici.

I ricercatori hanno riscontrato che ben il 66% degli intervistati Asperger ha riferito di aver pensato al suicidio, contro il 17% della popolazione generale e il 59% degli psicotici. Di questo 66% inoltre, il 35% ha dato seguito a questi pensieri pianificando o addiritura tentando il suicidio.

La presenza di depressione nella storia di vita dell’adulto Asperger è risultata essere un fattore determinante nel promuovere pensieri e comportamenti suicidari. Nel dettaglio chi ha una storia di depressione è quattro volte più a rischio di imbattersi in pensieri suicidari ed è due volte più probabile che pianifichi o tenti il suicidio.

Il Prof. Baron-Cohen sottolinea opportunamente che il quadro clinico di depressione secondaria negli Asperger è imputabile all’isolamento sociale, alla mancanza di servizi di qualità e alla difficoltà che questi adulti riscontrano nel mantenere una soddisfacente vita lavorativa oltre che affettiva. In attesa che ulteriori studi confermino la presenza di altri fattori coinvolti nella predisposizione all’ ideazone suicidaria, faremmo bene a prendere atto di questi primi dati.

Noi tutti potremmo, per esempio, ridurre il nostro egocentrismo, iniziare a considerare la neurodiversità una disabilità perchè in relazione con un mondo che abbiamo plasmato a nostro uso e consumo, governato da regole sociali che promuovono l’esclusione di chi ad esse non sa naturalmente aderire.

In questo scenario le proposte di aiuto per la popolazione Asperger, sin dall’infanzia, risultano troppo spesso un violento tentativo di nascondere la neurodiversità sotto un buon programma di addestramento neurotipico, pensato da neurotipici, per una società neurotipica che non contempla la possibilità di ristrutturarsi per accogliere la neurodiversità e svincolarla dal preconcetto di disabilità.

Perchè molto spesso, ciò che rende depresso e a rischio di suicidio un Asperger, non è la sua condizione neurobiologica ma una realtà sociale che imputa ad essa la responsabilità di una condizione psicologica come la depressione e di conseguenza non è in grado di offrire un servizio di sostegno psicoterapeutico adeguato.

Solo recentemente si sta cercando di adattare la terapia cognitivo-comportamentale alle caratteristiche di funzionamento autistico ma anche in questo caso il grosso limite di cui tener conto è che sono ancora una volta i neurotipici a farlo.

Tutto ciò crea un enorme sbilancio culturale a cui dovremmo porre rimedio perchè, ad oggi, questi individui hanno fatto molti più passi nella nostra direzione di quanti ne abbiamo fatti noi e forse anche questa è la ragione per cui ci ritroviamo a leggere gli spiacevoli esiti di ricerche come queste.

 

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Autismo: chi sono le persone Asperger? Risponde il prof. Tony Attwood

 

BIBLIOGRAFIA:

Boyhood (2014) di Richard Linklater: Ciak, si cresce!

L’innovazione di questo progetto cinematografico sta nell’aver deciso di seguire sul serio la crescita del protagonista anno dopo anno, andando di pari passo con la crescita degli attori: le riprese, infatti, sono cominciate nel 2002, quando appunto l’interprete principale eras solo un bambino e sono durate 12 anni.

La trama racconta la vita ordinaria della famiglia di Mason: secondogenito di genitori ancora troppo giovani, vive con la madre, che, dopo la separazione, riprende gli studi per diventare insegnante; è una donna energica, ma sola, affascinata da uomini con un ruolo gonfio di carisma (un professore universitario prima, un ufficiale dell’esercito americano poi), soliti a lasciarsi affogare nell’alcool. Il padre, invece, troppo perso per stare così presto in quel ruolo genitoriale, si arrabatta tra una vita ancora provvisoria e i weekend spesi con i figli. Sullo sfondo un pezzo di America negli anni della guerra afgana e l’elezione di Obama, dell’evoluzione della tecnologia e delle mode musicali.

La vita di Mason si inserisce in questo scenario e racconta, dal suo punto di vista, un susseguirsi di trasferimenti e nuove dimensioni familiari, i successivi matrimoni fallimentari della madre e la nuova relazione del padre. Ma soprattutto disegna in maniera puntuale il suo cammino di crescita, dell’infanzia e dell’adolescenza, fino al collage, declinandone emozioni, cambiamenti e scossoni. Mason si affaccia al mondo destreggiandosi con stile tra giochi di bambino e prime conflittualità, amori e delusioni, passioni e prime volte.

Il film colpisce senza scadere nella scontata retorica che le dinamiche che si susseguono possono insinuare. È una fotografia in movimento di un percorso evolutivo e familiare che scorre tra gioie e sofferenze. È un’epopea formativa che ben delinea l’importanza e la ricchezza degli anni che precedono l’età adulta.

Si riflettono dallo schermo emozioni pure, sane e autentiche, specchio di quel mondo giovanile descritto dallo sceneggiatore in maniera mirabile e precisa, reso tale dallo spessore e dalla caratterizzazione di ciascun personaggio.

Grazie alla protezione della madre da una precarietà relazionale in cui tende ad infilarsi, ma allo stesso tempo da cui esce con determinazione, alla genuinità di un padre che tra patatine fritte e testi di canzoni gli insegnerà quanto basta, e grazie a tutte le figure che ruotano intorno a lui, nel corso del tempo, Mason riuscirà a cogliere ogni attimo che il percorso di crescita gli offrirà, rendendolo un neoadulto pronto per girare una nuova scena della sua vita.

Il film offre una rappresentazione fedele di un imprescindibile periodo di vita, uguale per tutti, ma per tutti differente, la cui qualità orienta e condisce l’itinerario di sviluppo (cognitivo, emotivo e relazionale) che conduce verso un sano e coerente sé adulto.

 

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Donnie Darko (2001): un prototipo di adolescente americano – Recensione

Ipersensibilità del sistema immunitario come fattore di rischio per lo sviluppo della depressione

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Differenze individuali del sistema immunitario di ciascun individuo possono essere considerate fattori di rischio per sviluppare sintomi legati a depressione o ansia.

Il livello di sensibilità allo stress può aumentare il rischio di sviluppare la Depressione. Secondo uno studio condotto presso la Scuola Icahn di Medicina Mount Sinai, preesistenti differenze individuali del sistema immunitario di ciascun individuo, possono essere considerate fattori di rischio per sviluppare sintomi legati a depressione o ansia.

Studi precedenti avevano riscontrato una forte associazione, ancora poco chiara, tra presenza di elevati livelli di molecole infiammatorie nel sangue e maggior numero di globuli bianchi con la presenza di depressione ed ansia negli individui. 

Gli autori hanno misurato sia i livelli di leucociti nel sangue che livelli di citochina IL-6 in topi non aggressivi prima e dopo l’esposizione a provocazioni sociali da parte di un topo aggressivo. Entrambi i valori misurati sono risultati essere elevati in topi più vulnerabili allo stress già prima di essere esposti a situazioni stressanti.

I ricercatori hanno poi convalidato l’aumento dei livelli di IL-6 in due gruppi distinti di pazienti umani con diagnosi resistente al trattamento Disturbo Depressivo Maggiore. Gli autori sostengono che il sistema immunitario può diventare ipersensibile ad un agente stressante e portare alla disregolazione cronica di processi infiammatori che alla fine causano la malattia.

I topi particolarmente vulnerabili allo stress, manifestano comportamenti molto simili al Disturbo Depressivo (per esempio l’evitamento sociale), a differenza di altri topi che mostrano invece una risposta resiliente alla fonte stressante. In individui che presentano maggiore vulnerabilità allo stress, la presenza di alti livelli della proteina Interleuchina-6 può portare a sviluppare sintomi riconducibili a disturbo depressivo e disturbo d’ansia.

Gli autori suggeriscono di utilizzare i risultati raggiunti dalla presente ricerca, per pensare a nuove forme di trattamento anche farmacologico, come per esempio l’uso di inibitori della proteina IL-6 che può ridurre il rischio di recidive per il Disturbo Depressivo maggiore.

I disturbi da stress e molti processi infiammatori sono insieme associati ad aumento della prevalenza di molte altre malattie croniche, come le malattie cardiache e ictus che sono altamente in comorbilità con disturbi emotivi, questi risultati possono fornire anche indicazioni per trattamenti per diverse malattie.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Developmental Psychopathology: origini storiche e prospettive

Armando Biamonte

La Psicopatologia dello Sviluppo è una disciplina scientifica il cui scopo è quello di chiarire come l’interazione tra gli aspetti biologici, psicologici, sociali e ambientali possa determinare lo sviluppo normale e anormale durante tutta la vita, e muovendosi proprio sul confine di interazione tra normale e patologico, attraverso questo costante confronto, fornisce il quadro teorico di riferimento per la prevenzione e l’intervento dei disturbi psicopatologici.

Con il termine “Developmental Psychopathology” si identifica una disciplina scientifica che ha origine negli Stati Uniti e che possiamo provare a tradurre in italiano con il termine “Psicopatologia dello Sviluppo”, un termine che in realtà in Italia viene utilizzato in modo più ampio, ma che identifica un ambito di studi ben preciso che si sta diffondendo nel resto dell’Europa e ormai anche in Italia.

La Psicopatologia dello Sviluppo è una disciplina scientifica il cui scopo è quello di chiarire come l’interazione tra gli aspetti biologici, psicologici, sociali e ambientali possa determinare lo sviluppo normale e anormale durante tutta la vita, e muovendosi proprio sul confine di interazione tra normale e patologico, attraverso questo costante confronto, fornisce il quadro teorico di riferimento per la prevenzione e l’intervento dei disturbi psicopatologici.

Per la Psicopatologia dello Sviluppo l’interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione può influenzare il processo evolutivo. Per esempio, se vari fattori di rischio si sono dimostrati estremamente dannosi per il funzionamento normale, interagendo tra di loro e moltiplicandosi, sarà altrettanto importante considerare sia i fattori di protezione, che possono influire sull’azione degli stessi fattori di rischio, che l’interazione tra i fattori di rischio e i fattori protettivi, in quanto processi simili sono alla base di disturbi anche diversi.

La psicopatologia dello sviluppo ha il merito di aver integrato gli approcci teorici derivanti da diverse discipline, che troppo spesso sono tenute in considerazione solo se isolate tra di loro, come la Psicologia Clinica, la Psichiatria e la Psicopatologia, promuovendo così un nuovo sapere scientifico e un netto progresso delle nostre conoscenze.

La psicopatologia dello sviluppo sostiene che per ogni singolo individuo esista un percorso di sviluppo specifico, e di conseguenza ogni esperienza traumatica avrà degli effetti specifici che dipenderanno dalla vulnerabilità e dalla resilienza della persona: semplicemente, la psicopatologia dello sviluppo sottolinea l’importanza di una valutazione dell’individuo e dell’unicità del suo percorso evolutivo, in quanto considera tutti i disturbi psicopatologici in generale non come una malattia, ma come un esito evolutivo proprio della storia di quell’individuo.

In quest’ottica la psicopatologia può considerarsi come l’espressione di un fallimento della capacità di adattamento al proprio ambiente e nella regolazione dei compiti evolutivi, ma anche come un processo esteso nel tempo.

Un importante aspetto del paradigma della psicopatologia dello sviluppo è rappresentato dalla prospettiva relazionale dell’adattamento. Infatti, secondo questa prospettiva, quando sono presenti disturbi psicologici, è molto probabile che siano presenti anche dei disturbi relazionali.

La rivoluzione che la psicopatologia dello sviluppo comporta nello studio delle relazioni sta nel fatto che più che considerare i disturbi relazionali come fattori di rischio, li considera come veri e propri precursori della psicopatologia individuale.

In questo ambito teorico la ricerca ha preso avvio dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby che rappresenta il pilastro concettuale, attraverso il quale la psicopatologia dello sviluppo sottolinea come i problemi evolutivi non possano essere considerati solo come problemi del bambino ma dovranno essere sempre considerati come problemi della relazione tra un bambino e le caratteristiche del proprio ambiente che non fornisce al bambino la necessaria esperienza di regolazione per adattarsi al contesto.

Esiste un’associazione tra una grave patologia della personalità e un’esperienza infantile di maltrattamenti e violenza: se i bambini sono maltrattati, ma hanno la possibilità di sperimentare una relazione d’attaccamento significativa che fornisce la capacità di elaborare l’evento traumatico, questi saranno in grado di elaborare positivamente la loro esperienza e l’abuso non sfocerà in un disturbo grave della personalità, al contrario dei soggetti con una relazione di attaccamento disfunzionale, che hanno minori probabilità di superare l’esperienza dell’abuso e maggiori probabilità di sviluppare una psicopatologia.

Le perturbazioni relazionali, soprattutto nelle primissime fasi dello sviluppo, possono indicare una condizione evolutiva a rischio in cui si verificano in modo ripetitivo interazioni incoerenti e insensibili, che, nel caso perdurassero potrebbero evolvere verso una psicopatologia individuale o relazionale.

Nell’ambito di questo inquadramento teorico si è voluto approfondire come viene trattata una classe di disturbi ancora molto controversa come quella dei disturbi dello spettro autistico, sui quali manca ancora l’accordo non solo sulle cause, ma anche sulle terapie. Approfondire come questo nuovo approccio affronti il disturbo autistico, risulta interessante per evidenziare cosa può offrire di nuovo nel campo delle psicopatologie in generale.

La psicopatologia dello sviluppo riesce a fornire una visione molto ampia e articolata dei disturbi psicopatologici, come, appunto, i disturbi dello spettro autistico, che per eccellenza rappresentano la disfunzione del sistema relazionale, ma sottolinea come bambini con una stessa diagnosi possano presentare enormi differenze tra loro, così come bambini con diagnosi diverse possano presentare profili molto simili.

Per esempio, un bambino può ricevere una diagnosi di autismo perché presenta delle difficoltà nel relazionarsi con gli altri, quando in realtà i suoi problemi specifici riguardano la difficoltà nell’elaborare le informazioni verbali e una iper-reattività ai suoni acuti. Di conseguenza, le parole di chi gli sta intorno potrebbero diventare confuse e aggressive provocando un disagio emozionale contro cui il bambino potrebbe mettere in pratica un meccanismo di difesa che lo porta ad isolarsi.

Detto ciò, le prospettive evolutive, sottolineano come la sindrome autistica rispecchi una sequenza generale, delle tappe, evidenziando cioè le manifestazioni sintomatologiche che emergono nelle diverse fasi dello sviluppo.

Questo approccio potrebbe essere interpretato come un tentativo di generalizzare le stesse manifestazioni sintomatiche, evidenziando cioè tutte le caratteristiche comuni sia rispetto al disturbo e sia rispetto alla singola persona che ne risulta affetta: è bene ricordare che la psicopatologia dello sviluppo sottolinea come sia importante un costante confronto tra il normale e il patologico,  ma anche di come sia importante confrontare i dati specifici ed individuali riguardanti il singolo caso clinico con i dati generali della patologia, e di come la stessa psicopatologia debba essere concepita come un processo esteso nel tempo, perché proprio da questi elementi sarà possibile ricostruire le diverse linee di sviluppo di una storia individuale, sia del disturbo e sia dell’individuo.

La psicopatologia dello sviluppo ha come obiettivo principale quello di prevedere lo sviluppo psicopatologico, quindi, anche nei confronti delle sindromi dello spettro autistico,  diventa necessario valutare quali siano le manifestazioni precoci dei disturbi destinate a consolidarsi e strutturarsi nel tempo e riconoscere le trasformazioni a cui vanno incontro questi disturbi durante lo sviluppo.

Per esempio: uno dei segni sintomatologici caratteristici della sindrome autistica, è il mancato aggancio dello sguardo che emerge già nel primo periodo di vita del bambino, cioè entro i primi sei mesi di vita, fino a diventare evitamento dello sguardo entro il primo anno.

Individuare la presenza di una difficoltà emotiva o comportamentale in età precoce, soprattutto nella sua fase di organizzazione, e intervenire tempestivamente, costituisce un importante fattore di protezione rispetto al rischio di una strutturazione di un disturbo più radicato e complesso.

Secondo la psicopatologia dello sviluppo, per meglio comprendere la sindrome autistica è importante partire da una concezione multifattoriale e considerarla come una perturbazione generalizzata e grave del processo di sviluppo che assume caratteristiche specifiche in relazione alla persona che ne è affetta.

I benefici di questa nuova prospettiva sono evidenziabili non solo nel processo di diagnosi ma anche nell’approccio terapeutico, e possiamo citare una tecnica d’intervento chiamata TMA, ovvero Terapia Multisistemica in Acqua, che utilizza gli assunti teorici della psicopatologia dello sviluppo, partendo dal pilastro rappresentato dalla teoria dell’attaccamento, che viene utilizzata proprio nel trattamento delle sindromi autistiche.

È un particolare approccio terapeutico che si svolge in un setting rappresentato dalla piscina, altamente individualizzato volto ad influenzare i disturbi del comportamento e relazionali, con mezzi prettamente psicologici ed educativi, attivando prima di tutto il sistema relazionale.

Il contributo nuovo di questa disciplina è da rintracciare proprio nel concetto “multifattoriale”, perché accanto agli elementi biologici, genetici, psicologici, sociali e ambientali, questo approccio evidenzia anche la dimensione temporale, la dimensione individuale e la dimensione relazionale, andando cioè ad affrontare un qualsiasi quadro psicopatologico utilizzando il maggior numero di prospettive, senza limitarsi ad individuarne una sola causa e soprattutto senza dover generalizzare le manifestazioni sintomatologiche e, ponendo l’accento sul carattere fondamentalmente evolutivo, individuale  e relazionale del comportamento deviante, rappresenta una valida alternativa agli approcci tradizionali.

Possiamo renderci conto, in conclusione, di quante variabili potranno intervenire e interferire con le linee di sviluppo e di come da esse potranno derivare percorsi evolutivi patologici diversi: individui diversi potranno sviluppare lo stesso disturbo mentale seguendo percorsi diversi, i disturbi mentali potranno essere causati da diversi fattori e non da una sola causa; potranno inoltre esistere diverse manifestazioni sintomatologiche per uno stesso disturbo e identificare un fattore di rischio potrà solamente far luce su un aspetto di un quadro molto più complesso.

 

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 European Society for Trauma and Dissociation – Report dal congresso 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’addio silenzioso di Clotilde. Di fronte al suicidio di un paziente – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.14 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #14

L’addio silenzioso di Clotilde 

 

 

– Leggi l’introduzione –

Nonostante la discrezione di Clotilde nell’andarsene come se si trattasse di uno sfortunato incidente Biagioli si rendeva conto che quel corpo sul tavolo di marmo indicava inesorabilmente che qualcosa non aveva funzionato. I meccanismi consolatori dell’autoinganno stentavano ad attivarsi, quella morte lo pervadeva e lo accusava.Era la terza volta nella sua carriera ma la prima durante una psicoterapia così lunga.

Il senso di colpa, la rabbia, la tristezza e persino un po’ di ansia si mescolavano nella sua testa in quella domenica pomeriggio tutta sbagliata. Era confuso. Il dottor Biagioli non avrebbe mai creduto di assistere personalmente a quello che Clotilde aspettava da tutta una vita, sul quale tanto avevano lavorato insieme: il riconoscimento da parte della madre.

Non era ciò che avevano auspicato. Non era quello il riconoscimento tanto inutilmente agognato. La fredda luce al neon non rendeva giustizia all’ambrato della sua pelle, ai suoi riccioli biondi con iniziali spruzzate d’argento. I tratti del volto irrigiditi e taglienti la assomigliavano ai profili decisi di certi eroi greci nelle illustrazioni dell’Iliade su cui Carlo aveva preparato la stentata maturità. Aveva l’impressione che gli sorridesse beffarda con una complicità che escludesse la madre che cantilenava singhiozzi, domande tardive e maledizioni all’universo intero e inumidiva di lacrime il maglione di Carlo cui aggrappata voleva estorcere un assoluzione delegata e tardiva.

Era lui ora a custodire i segreti che credeva indicibili. Biagioli dal momento che a casa aveva appreso la notizia per la solerzia di un infermiere del pronto soccorso che conosceva la vicenda per aver sostituito al CIM per tre mesi Luisa Tigli in maternità era certo che si trattasse di un suicidio. Clotilde in un’estrema attenzione per non disturbare e creare imbarazzo, forse soprattutto a lui, aveva scelto quel metodo inconsueto, incerto nel risultato (verrebbe da dire pericoloso, se non suonasse comico, dal punto di vista di un candidato al suicidio) per archiviare la sua dolorosa esistenza. Si era semplicemente esposta lungamente al pericolo correndo a manetta con la sua Honda 750 sulla pedemontana via dei laghi, contando sul fatto che la statistica prima o poi fa giustizia dei comportamenti estremi. Il contachilometri era fracassato sui 180km/h.

Per ironia della sorte involontari complici del progetto furono i signori Pace che riaccompagnavano la nonna Assunta alla casa di riposo dopo la libera uscita domenicale. Quest’ultima, seduta a fianco del figlio conducente, fu la più contrariata al pensiero fuggevole che la accompagnò, prima ancora di Clotilde dinanzi a San Pietro, della soddisfazione che avrebbe regalato alla odiata nuora con il risparmio della retta dell’ospizio. Il pensiero estremo di Clotilde era stato invece per Carlo, l’ultimo dei numerosi psichiatri che avevano cercato di raddrizzare la sua indole storta. Un altro che avrebbe deluso, era la sua specializzazione. Un altro che aveva idealizzato e disprezzato. Povero Carlo(aveva imposto il “tu” dalla prima seduta) in quasi tre anni di psicoterapia era stato un amorevole e rispettoso compagno di viaggio sopportando le sue intemperanze, gli dispiaceva essere un suo fallimento e ciò era la prova di quanto poco fosse guarita.

Clotilde era tecnicamente una borderline. Donna del tutto o niente. Di grandi passioni: amori estremi ed altrettanto assoluti e improvvisi odi. Il contatto con il CIM era avvenuto 5 anni prima dopo un ricovero in SPDC per avere, completamente ubriaca e strafatta di cocaina, quasi ucciso di botte la sua coinquilina, una ventottenne calabrese, rea di aver lasciato il formaggio scartato nel frigo o, più probabilmente, di averla provocata per poi negarsi all’ultimo momento.

 

Quella pericolosa dinamica relazionale che Eric Berne chiama il gioco di “violenza carnale”. Si, perchè il difetto essenziale di Clotilde era la sua omosessualità confinante e sconfinante con un disturbo dell’identità di genere. Era fallata sin dalla nascita, un pezzo di seconda scelta da gettare o svendere. Tutti i quarantacinque anni dell’esistenza di Clotilde erano stati un continuo tentativo di essere accettata, riconosciuta e amata nonostante questo difetto originario che lei stessa non riusciva a nominare. Nonostante le numerose terapie che aveva fatto sin da bambina per i problemi più diversi quel suo desiderio rimaneva inconfessabile e ribaltato nella coscienza in una intransigente omofobia.

Dopo le sue tre sorelle maggiori la sua nascita era stata una vera delusione. Il corredino preparato era rigidamente azzurro e “Massimo” il nome scelto per colui che avrebbe dovuto dare prosecuzione al glorioso cognome dei Visani. Invece la sua presenza nefasta aveva dato l’avvio alle disgrazie. Il padre Ottavio, burbero e stimatissimo professore di greco al liceo classico di Terni era morto d’infarto prima che lei compisse un anno,forse per il dolore del maschio mancato. La sorella maggiore si era fatta mettere incinta da un figlio dei fiori e viveva in casa con i due gemellini dei fiori. La madre era dovuta andare a lavorare alle poste per sfuggire all’assedio della miseria. Coltivava un rancore ovviamente inconfessabile per quelle figlie che l’avevano costretta a lasciare il suo piccolo regno casalingo. In particolare per Clotilde, quel maschio mancato che, anche secondo lei, aveva ucciso Ottavio.

Ufficialmente non sapeva dell’omosessualità della figlia ma non perdeva occasione per vomitare disprezzo verso tutte le diversità e specificamente verso gay e lesbiche ( meglio un figlio morto che frocio era il suo slogan, quando veniva a conoscenza di una di queste situazioni). Clotilde aveva corso tutta la vita per riscattarsi fino alla curva in cui aveva incontrato l’incolpevole mercedes dei signori Pace.

Nella famiglia materna le apparenze sociali contavano più di tutto. Da grande si rese conto che ciò era probabilmente dovuto al fatto che la nonna materna ricca e temuta moglie del podestà aveva messo al mondo due figli, la madre e suo zio, che tutti sapevano essere bastardi, figli del farmacista cui somigliavano come due gocce d’acqua. L’importante signora dunque se ne andava impettita e altezzosa per il corso del paese con quei due ragazzini per mano che per i loro 4 anni di differenza di età testimoniavano una cornificazione tutt’altro che passeggera del signor eccellentissimo podestà.

In quella famiglia l’immagine sociale era tutto e la vergogna da fuggire a tutti i costi. Ci mancava sola una figlia lesbica! Fino alla pubertà molti la scambiavano per un maschietto per l’aspetto e gli interessi che coltivava..Mai un vestito o una gonna, sempre sudata per i giochi sfrenati e polverosi. Aveva imparato a fare pipì stando in piedi e ricercava lo scontro fisico con i coetanei, esclusivamente maschi con cui giocava. Con lo sviluppo puberale aveva assistito disgustata alla femminilizzazione del suo corpo. Quei rigonfiamenti che lievitavano di mese in mese non le appartenevano e li camuffava in tutti i modi con abiti informi. A tredici anni era stata iniziata all’amore saffico dalla sua insegnante di pianoforte, una sessantenne amica della madre che le confesso, forse per eccitarla, i particolari di una relazione sessuale con suo padre. Di quel pomeriggio estivo ricordava la confusa miscela di vergogna, colpa, piacere e soprattutto la sensazione di essere finalmente arrivata a casa. Aveva incontrato la sua identità: non era un maschio, era lesbica. Da quel momento, forte di una bellezza ambigua tra l’eroe omerico e la femminilità botticelliana si avventurò con il fragile battello del suo animo alla ricerca di quell’amore che non l’aveva accolta al suo arrivo in questo mondo. Desiderava le donne con un impeto assolutamente maschile.

Tra i 18 e i 22 anni visse quella che avrebbe chiamato con una nostalgia inestinguibile “la mia scintillante primavera”. Pur rimanendo nascosta conobbe tutto l’universo gay del paese avviando alla loro vera natura che intuiva infallibilmente , come un espertissimo talent scout, numerosissime ragazzine, senza disdegnare le donne mature e persino le vecchie. Diceva che quello era stato il suo periodo bulimico.

Le passioni si avvicendavano rapidamente sempre con la cifra della drammaticità. Clotilde era infatti convinta di dare il meglio di sé nella fase del corteggiamento e traeva sollievo dal conquistare. Ancora non erano conclusi i festeggiamenti per il successo che già batteva in ritirata per evitare una sconfitta che sentiva sicura. Le altre che si innamoravano di lei o si sbagliavano. o non la vedevano realmente,o erano stupide. In questo modo riusciva a mantenere saldamente deficitaria la sua autostima Era certa che ad una intimità più stretta e duratura il bluff che sentiva di essere non avrebbe retto. Lasciava o, più spesso, faceva in modo di essere lasciata per non correre il rischio di vedere sul viso dell’altra quella delusione che, nonostante i suoi sforzi non era mai riuscita a cancellare dal volto della madre e che immaginava essere stata l’espressione che l’aveva accolta in questo mondo.

Di sforzi ne aveva fatti moltissimi. Diplomatasi all’istituto tecnico per geometri con il massimo dei voti, aveva iniziato a lavorare da subito nei cantieri contribuendo al mantenimento della famiglia. Si era fatta strada in un ambiente tipicamente maschile. Biagioli, di fronte alla preoccupazione che la sua omosessualità venisse scoperta le aveva suggerito l’ipotesi che fosse un segreto di pulcinella considerate le sue frequentazioni esclusivamente femminili, il suo abbigliamento militare e i suoi hobby (motociclismo, pugilato).

Parlarne con la madre, obbiettivo primo di tutti i suoi sforzi di essere accettata, era improponibile e persino in seduta usava giri di parole per non usare la parola “omosessualità”. Cosa avrebbe detto oggi se avesse visto la madre salutare Biagioli stringendogli le mani unite tra le sue e dicendogli con fare consolatorio “dottore, non se ne faccia una colpa….non aveva mai accettato la sua omosessualità”. Effettivamente era lei la prima a non accettarsi e proiettava questo rifiuto sugli altri.

Dopo il primo episodio per cui era stata ricoverata c’erano stati altri agiti di di impulsività incontrollata, una costanza di abuso di sostanze e numerosi gesti autolesivi soprattutto a carattere dimostrativo. Insomma quanto basta per una diagnosi di borderline ed una presa in carico. Questi ultimi con tagli e bruciature di sigarette,si manifestavano in seguito alla rottura dei legami affettivi, anche se da lei stessa provocati. In un caso al dolore assoluto si mescolava umiliazione e rabbia. Nell’altro colpa e autodenigrazione. Non sapeva dire quale fosse peggiore.

 

In quelle situazioni Biagioli si sentiva impotente, schiacciato da un dolore che riconosceva fin troppo anche suo per esserne la cura. Ora avvertiva la colpa di non essersi fatto aiutare. Clotilde precipitava in uno stato simile alla morte. Senza un altro che le rimandasse un immagine di sé positiva si percepiva disgustosa, indegna di esistere e tutti gli appetiti vitali si assopivano. Gli richiamava alla mente l’immagine dell’urlo di Munch. Un dolore assoluto, eterno ed inconsolabile come di madre che vede il figlio morire e implora di scambiare di posto. Smetteva di mangiare, trascurava la sua persona e se non fosse stata per la solerzia con cui le infermiere del CIM l’accudivano, si sarebbe trasformata in una barbona inavvicinabile. Quell’essere disgustoso era l’immagine di se stessa che aveva se uno specchio esterno non gliene rimandava un altra. Da sola ogni istante doveva convivere con quel mostro che era se stessa. Da sé non si può andare in vacanza diceva disperata.

Nonostante la discrezione di Clotilde nell’andarsene come se si trattasse di uno sfortunato incidente Biagioli si rendeva conto che quel corpo sul tavolo di marmo indicava inesorabilmente che qualcosa non aveva funzionato. I meccanismi consolatori dell’autoinganno stentavano ad attivarsi, quella morte lo pervadeva e lo accusava.Era la terza volta nella sua carriera ma la prima durante una psicoterapia così lunga.

Seduto nella panchina del cortile antistante la sala settoria rifletteva sugli errori senza neppure il conforto di quelle sigarette che aveva di recente ripudiato (un fioretto di cui, da razionalista militante, si vergognava moltissimo). Forse era stato presuntuoso a non condividere la gestione di un caso così grave con la dottoressa Mattiacci che avrebbe potuto seguire l’aspetto farmacologico e costituire un altro punto di riferimento soprattutto nei momenti in cui l’alleanza con lui vacillava esposta alle tempeste borderline. Si chiedeva cosa, in fondo, avesse fatto e soprattutto dove avesse sbagliato. La prima accusa era di non aver condiviso con gli altri, di non essersi confrontato.

Ora quel cadavere era soltanto suo, del dottor Biagioli definito ironicamente “ghe pensi mi” per l’incapacità a delegare. Si sforzò di riordinare le idee. Il filone principale della terapia era stato il sostegno all’autostima o, meglio, la stabilizzazione di una identità personale che non dipendesse esclusivamente dalle incostanti conferme altrui. L’accettazione del mancato riconoscimento materno non attribuendosene la responsabilità. Non colpevole ma vittima di una madre distratta dal lutto del marito. Si chiese se non avesse avuto paura di entrare davvero in quel dolore esistenziale assoluto che terrorizzava anche lui e se non l’avesse lasciata sola con lui.

Forse si era disperso troppo su quei problemi che rendevano difficile la quotidianeità di Clotilde ed inerivano le grandi strategie che metteva in atto per ottenere riconoscimento e, magari, amore. La prima l’aveva imparata tornando a casa alle elementari con la lode sul quaderno o la coccarda tricolore che suscitava abbracci e sorrisi soddisfatti. Si era dunque prefissata di essere semplicemente perfetta in tutto. La cura dei dettagli era meticolosa. Su ogni piccolo compito si giocava tutto il suo valore trasformandolo in una montagna da scalare ed allungando enormemente i tempi. Aveva ben chiaro quanto il “meglio fosse nemico del bene”, ma per lei il meglio ed anzi la perfezione era il minimo che dovesse fare (nient’altro che il suo dovere, come diceva la madre). C’era sempre un amichetta che poteva essere presa da modello che aveva fatto meglio. Un passetto in più era sempre possibile, non bisogna mai accontentarsi.

Una seconda strategia consisteva nell’essere totalmente accondiscendente alle richieste dell’altro. I suoi diritti sembravano non esistere, solo quelli degli altri contavano. A furia di non ascoltare i suoi bisogni non si rendeva più conto di averli ed anche in seduta era difficilissimo farle esprimere una preferenza figuriamoci un desiderio. Aveva smesso di volere appaltando all’altro il compito. Aveva sviluppato una capacità naturale di percepire i desideri dell’altro prima che li esprimesse, li assecondava spontaneamente mettendo ciascuno a proprio agio. L’altro fatalmente era indotto ad approfittare di questa sua disponibilità fino a quando Clotilde, magari per un particolare secondario e irrilevante, non si vedeva oggetto di un sopruso ed esplodeva violentemente. Si era conquistata l’etichetta di matta imprevedibile. Il lavoro fatto, soprattutto attraverso la relazione terapeutica, era orientato all’assertività con l’indispensabile premessa dell’ascolto dei propri bisogni e desideri.

La terza strategia, già in precedenza accennata, era la fuga dall’intimità per evitare che fosse scoperto quel bluff che sentiva di essere. Questa dinamica più volte evidenziata nelle relazioni affettive e professionali non era stata purtroppo presa sufficientemente in considerazione nella relazione terapeutica. Anche con lui era stata agita. Forse questo era stato l’errore più grave, rimuginava Biagioli sulla panchina.

Lei era una paziente perfetta e faceva di tutto per accontentare il suo terapeuta che, a sua volta, la gratificava. Si rispecchiavano vicendevolmente. Forse aveva pensato di non poter rovinare questo idillio con la merda che sentiva di avere dentro. E lui l’aveva lasciata fare per paura di affogare in quell’oceano livido di dolore. Anche con lui l’intimità si era arrestata per non deluderlo.

Aveva preferito stare al servizio dei presunti bisogni di Carlo piuttosto che dei suoi. E lui non se ne era accorto. Perchè non parlargli dei suoi propositi suicidi se non per non disturbare come faceva con tutti? Perchè altrimenti scegliere quel modo camuffato e discreto per andarsene. Carlo la immaginò che stesse scusandosi con la vecchia Assunta Pace che aveva trascinato con sé a miglior vita e forse si sarebbe scusata anche con i gestori dell’al di là per l’arrivo anticipato causa di disagi organizzativi.

Tra poco, nonostante fosse domenica di campionato, lo avrebbero raggiunto gli altri colleghi del CIM per portare conforto, come si usa in questi casi, al curante come se fosse un familiare. Sarebbero state dette le solite frasi “era un caso gravissimo”, “non potevi fare altro”, “e’ il nostro lavoro”, “non c’erano segnali evidenti, non potevi prevederlo”, “se volessimo star tranquilli dovremmo ricoverare tutti”, “non è detto sia un suicidio”.

Quando la madre di Clotilde lo raggiunse, per rassicuralo a sua volta, aveva gli occhi umidi di pianto e ciò gli valse il riconoscimento di quella grande sensibilità umana che Clotilde, diceva la madre. Gli aveva sempre accreditato e ne aveva fatto il suo terapeuta più importante, ma anche l’ultimo. Quando, visto il circolo singhiozzante dei signore Pace, si sentì attanagliare da un ulteriore senso di colpa per la dipartita della vecchia nonna ruppe gli indugi e chiese una sigaretta alla madre. Lui, in fondo, non credeva ai fioretti.

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Disturbo da lutto prolungato: ridurre i sintomi con l’intervento integrato tra CBT e tecnica dell’esposizione

FLASH NEWS

La terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento del disturbo da lutto prolungato (PGD) può dare risultati più efficaci se integrata con la tecnica dell’esposizione. 

Il PGD coinvolge un persistente desiderio per la persona cara perduta associato a dolore emotivo persistente, la difficoltà di accettazione della perdita, il senso di vuoto, l’amarezza e la difficoltà a riprendere le proprie attività quotidianamente. Per la diagnosi di disturbo da lutto prolungato i sintomi devono durare almeno sei mesi; a differenza della depressione, la preoccupazione invalidante della persona con PGD è il desiderio bramoso verso la persona cara perduta.

Gli autori dello studio hanno sottoposto per due ora a settimana e per 10 settimane gli 80 paziente con diagnosi di PGD, alla terapia di gruppo CBT; i pazienti poi sono stati sottoposti anche a quattro sessioni di terapia individuale con la tecnica dell’esposizione oppure con la sola CBT . Nella terapia con esposizione, i pazienti rivivono attraverso i ricordi l’esperienza della morte della persona amata perduta. I criteri di efficacia della terapia sono: livelli della depressione, valutazioni cognitive e di funzionamento nel follow-up a sei mesi.

I risultati hanno dimostrato che un trattamento integrato di terapia cognitivo- comportamentale e di tecnica dell’esposizione ha favorito la riduzione di indici di depressione, e ha portato miglioramenti rispetto alle valutazioni cognitive e di funzionamento nel follow-up.

Inoltre i risultati hanno mostrato una riduzione del numero di pazienti che soddisfano i criteri per il PGD.

In conclusione lo studio evidenzia come il rendere accessibili ricordi ed emozioni legate alla perdita di una persona cara può promuovere l’adattamento verso la perdita della stessa e migliorare la qualità della vita della persona a rischio di PGD.

 

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Ma dove sono tutti questi bambini iperattivi? Incidenza di ADHD quindici volte inferiore alle attese

COMUNICATO STAMPA – IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri

Da una capillare ricerca della Regione Lombardia, sulla base dell’affinamento dei metodi diagnostici, risulta che l’ADHD è quindici volte inferiore a quella riportata come media nazionale e internazionale.

La sovravalutazione della patologia può concorrere a determinare sia l’abuso nella prescrizione di psicofarmaci, sia il ricorso a errate terapie.

IRCCS Mario Negri - LogoMilano, 3 Novembre 2014 – Secondo la letteratura mondiale i bambini e gli adolescenti iperattivi, affetti da una vera e propria patologia (ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder), sarebbero il 5,3% della popolazione tra 5-17 anni.

            I dati raccolti dal Registro dell’ADHD della Regione Lombardia, pubblicato sul numero 179 della rivista Ricerca&Pratica in distribuzione. (www.ricercaepratica.it), frutto di una capillare e dettagliata indagine, tuttavia la smentiscono clamorosamente. In Lombardia la prevalenza del disturbo è del 3,5 per mille, quindici volte inferiore a quella riportata come media mondiale.

            Il Registro, istituito nel 2011 nell’ambito di uno specifico progetto regionale di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e sostenuto dalla Direzione Generale Salute , con la finalità principale di garantire un’adeguata valutazione e terapia dell’ADHD ad ogni bambino e adolescente fin dal sospetto o segnalazione del disturbo, ha l’obiettivo di stimare la prevalenza del disturbo, definire percorsi diagnostico-terapeutici condivisi, intensificare la formazione e l’aggiornamento degli operatori e informare i cittadini.

            I risultati dello studio documentano che al 65% dei bambini e adolescenti (5-17 anni) che accedono ai 18 Centri Regionali di Riferimento per l’ADHD della Regione Lombardia per sospetto ADHD viene confermato il disturbo. Corrispondono a circa 400 nuovi casi ogni anno, con un picco attorno agli 8 anni d’età, in maggioranza maschi (2 a 1); in un terzo dei casi era presente familiarità e nella maggioranza dei pazienti almeno un altro disturbo psicopatologico. Solo il 15% ha ricevuto un trattamento psicofarmacologico, mentre la quasi totalità uno psicologico.

            Risultati, dunque, inattesi e lontani da quelli riportati in precedenti studi nazionali e internazionali.

            “La forza e unicità di questo studio – sostiene Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica dell’IRCCS Mario Negri di Milano e responsabile del Registro regionale -. sono rappresentate dalle dimensioni: tutta la popolazione di un’intera Regione coinvolta; dalla metodologia applicata: Registro, formazione, informazione; dalla durata nel tempo: il Progetto è ancora attivo. Dai dati raccolti dal Registro e da quelli dei database amministrativi sanitari regionali (prescrizioni, ricoveri, visite ambulatoriali) i bambini e adolescenti (5-17 anni) che presentano ADHD in Lombardia risultano essere 4200 di cui 378 in terapia psicofarmacologica (9%): una prevalenza del disturbo del 3,5 per mille, quindici volte inferiore a quella riportata come media mondiale (5,3% )”.

           

Gli utenti che giungono ai 18 Centri Regionali di Riferimento sono solo quei pazienti che hanno un disturbo medio-grave, con maggiore comorbidità – dice Antonella Costantino, Presidente della SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) e responsabile della UONPIA della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano –, mentre i casi lievi e che non necessitano di trattamento psicofarmacologico sono gestiti direttamente dalle altre 14 UONPIA regionali. Tuttavia anche stimando di triplicare la prevalenza per includere anche i casi lievi, i pazienti con ADHD in Regione Lombardia sarebbero comunque molto pochi rispetto all’atteso”.

            “Il Progetto ha attivato progressivi e significativi miglioramenti nella pratica clinica, garantendo un’efficiente e omogenea qualità delle cure. – conclude Edda Zanetti, responsabile della UONPIA dell’A.O. Spedali Civili Presidio Ospedale dei Bambini di Brescia, e coordinatrice del Progetto – . Un Progetto che necessiterebbe di essere prorogato per l’ADHD e generalizzato anche ad altri disturbi rilevanti di neuropsichiatria dell’età evolutiva”.

 

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ADHDDSABAMBINIAPPRENDIMENTO

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Per ulteriori informazioni: Sergio Vicario (Mob. 348 98 95170)
Ufficio Stampa – IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’

Quando l’amore fa male: sindrome di Münchhausen per procura

Sara Costi, Irene DeSimoni, Giorgia Righi
OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Per Sindrome di Münchhausen s’intende un disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono una malattia fisica o un trauma psicologico per attirare attenzione, simpatia e compassione verso di sé.

Erano gli sgoccioli degli anni Novanta quando Bruce Willis sbancava il botteghino con “il Sesto Senso”, film triller drammatico il cui colpo di scena finale è passato alla storia insieme alla battuta del piccolo protagonista che tutt’oggi rimane impressa nella memoria quasi al pari del monologo conclusivo di Blade Runner.

Nel film, il bambino, grazie alla sua capacità paranormale di comunicare con i defunti, riesce a vendicare una bambina smascherandone l’assassino, non il classico uomo nero, sconosciuto e cattivo, ma l’amorevole madre, la quale, fingendo di occuparsi della piccola malata, in realtà la avvelenava lentamente tutti i giorni fino ad ucciderla. Un applauso al regista per la trovata cinematografica d’effetto, purtroppo però, il personaggio della madre non è un’invenzione degna dei migliori sceneggiatori, ma rappresenta un disturbo chiamato Sindrome di Münchhausen per procura.

Il nome di questa sindrome deriva da un personaggio effettivamente esistito, per l´appunto il barone di Münchhausen, che visse in Germania nel XIX sec ed era noto per i suoi racconti estremamente fantasiosi e avvincenti, ma soprattutto umoristici.

Nel 1951, Richard Asher fu il primo a descrivere un tipo di autolesionismo, in cui il soggetto s’inventava segni e sintomi di particolari patologie acute al fine di ricevere cure attraverso ospedalizzazioni (M. Godfryd, 1994). Per Sindrome di Münchhausen s’intende un disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono una malattia fisica o un trauma psicologico per attirare attenzione, simpatia e compassione verso di sé. Questi disturbi fittizi spesso non sono immediatamente individuati dal medico, ma vengono scoperti solo dopo aver escluso una lunga serie di possibili diagnosi. La sindrome di Munchhausen va differenziata dagli atti di simulazione, in cui i sintomi sono sempre prodotti intenzionalmente, ma hanno uno scopo connesso alle circostanze ambientali (per es. sono prodotti per evitare obblighi legali, per evitare di sottoporsi a prove etc.); in questo caso la motivazione è il bisogno psicologico di assumere il ruolo di malato. La Sindrome di Münchhausen per procura (Münchhausen Syndrome by Proxy – MSP) è un’altra sfaccettatura di questo tipo di disturbo, nel quale la figura di accudimento arreca un danno fisico al figlio/a per attirare l’attenzione su di sé. Tipicamente la vittima è un bambino ancora piccolo e il responsabile è, nella maggior parte dei casi rinvenuti, la madre (90% dei casi) (Lasher, R.J., 2004).

Un sottotipo di MSP è stato individuato nella Sindrome di Münchhausen “seriale”, vale a dire che si ripete con più figli della stessa famiglia. Spesso nei casi di MSP seriale i figli “si ammalano” uno per volta, di solito intorno alla stessa età del fratello precedente, ma sono riportati casi in cui tutti i figli venivano ricoverati nello stesso momento (Rosemberg, 1987).

La natura cronica e “bizzarra” di questa forma di abuso lascia senza risposte molte domande sull’impatto che questo avrà sulla crescita del bambino, soprattutto sul piano psichico.

I dati più rilevanti sono stati ottenuti da studi di vecchia data di McGuire e Feldman (1989) i quali hanno evidenziato la presenza in sei bambini di disturbi di alimentazione, problemi di comportamento in età prescolare e sintomi di conversione, soprattutto nei bambini più grandi. Roth (1990), Bools, Neale e Meadow (1993) hanno sottolineato che molti bambini mostrano problemi di concentrazione e partecipazione a scuola e difficoltà emotive e comportamentali. A volte, i piccoli, pur di ottenere cure e considerazione dall’adulto, simulano uno stato di malattia che diventa un modo per superare la paura dell’abbandono o del rifiuto. Le vittime di MSP, in linea con le altre che subiscono forme di abuso di natura diversa, spesso compiono tentativi di suicidio e soprattutto in fase adolescenziale mettono in atto condotte a rischio come l’abuso di alcol e fumo, problemi di delinquenza e in età adulta difficoltà di attaccamento, d’autostima e d’identità. Mostrano, inoltre, una forte paura del futuro, ansie e vissuti di malattia, di isolamento ed emarginazione oltre a ipocondrie e fobie, e turbe sessuali (Merzagora Betsos, 2003). In alcuni casi s’istaurano personalità di tipo borderline (Herman, Perry e Van der Kolk, 1989) o personalità multipla (Withman e Munkel, 1991). Anche a distanza di molti anni nei bambini si evidenziano difficoltà di apprendimento e concentrazione, incubi notturni, difficoltà emotivo-comportamentali, nei rapporti con gli altri a casa e a scuola.

Contrariamente alle teorie correnti, Lawlor e Kirakowski, (2004) sostengono che la motivazione che porta queste madri all’abuso sui figli è cosciente e non inconscia e che le caratteristiche di coloro che sono affetti da MSP sarebbero congruenti con quelle associate alla dipendenza (Lawlor A., Kirakowski J., 2014).

Judith Libow e Herbert Schreirer del Children’s Hospital Medical Center di Oakland hanno classificato la MSP secondo le tipologie dei genitori:

– cercatori di aiuto. Sono casi solo apparentemente simili a quelli della MSP. Normalmente si ha un unico episodio di malattia immaginaria piuttosto che una lunga serie di esperienze mediche. L’inganno le consente di cercare le cure mediche per sé esplicitando il bisogno di aiuto psicologico;

– responsabili attivi. Sono i casi da manuale della MSP, in cui un genitore direttamente e attivamente provoca i sintomi nel bambino tramite soffocamento, iniezioni o avvelenamento;

– medico-dipendenti. In questi casi di MSP l’inganno si limita ad un falso resoconto dei precedenti clinici del bambino. Non c’è alcun intervento diretto sulla sintomatologia. Le madri sono convinte che i figli siano realmente malati e si risentono se medici e personale ospedaliero non confermano le loro convinzioni. I bambini di questo gruppo sono in genere più grandi mentre le madri sono tendenzialmente più ostili, paranoiche ed esigenti.

Recentemente in Italia, precisamente a Torino, si è verificato un episodio di MSP, dove la madre, un’infermiera professionista di 42 anni, è stata filmata nella camera dell’ospedale mentre iniettava insulina al figlio di quattro anni; una dose sufficiente per farlo stare continuamente male, senza però ucciderlo. Ora la donna è indagata per tentato omicidio nei confronti del figlio. Il padre del piccolo difende la compagna sostenendo che il piccolo “è sempre stato di natura cagionevole e lei voleva solo aiutarlo”. Nella MSP il ruolo del padre è misterioso e incerto. Il più delle volte è assente dalla vita familiare o resta lontano da casa per la maggior parte del tempo cosa che facilita la messa in atto degli abusi da parte della madre. Il fatto curioso, tuttavia, è che quando la donna viene scoperta e messa di fronte agli abusi perpetrati, non di rado il marito la sostiene e può persino rendersi complice dei suoi inganni, facilitando tacitamente il suo comportamento. La peculiarità della Sindome di Münchhausen per procura è il fatto che chi manifesta la sindrome non è la vittima.

La sindrome di Munchhausen però non sarà più descritta all’interno del DSM-V, a riprova dello scarso interesse per questa tipologia di disturbo, probabilmente anche a causa della difficoltà nel diagnosticarlo. Ad oggi non si hanno dati soddisfacenti sulle percentuali della popolazione che ne è affetta e le ricerche a riguardo sembrano essere arrivate ad un punto morto. Si ritiene, quindi, che una maggiore informazione su questa sindrome possa aiutare i vari operatori sanitari a riconoscere i casi sospetti cercando così di ampliare i dati per possibili studi e per sventare eventuali decessi dei minori dovuti a questa forma di abuso.

 

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Un precoce intervento educativo per migliorare la vita dei bambini

FLASH NEWS

Risulta fondamentale promuovere un sistema educativo che riduca gli effetti dello svantaggio economico. Ma con quali modalità sarebbe possibile intraprendere una strada di questo genere?

Lo studio condotto dai ricercatori della University of Adelaide’s School of Population Health in collaborazione con i colleghi della University of Bristol in Inghilterra, dovrebbe portare ad un ripensamento del sistema educativo, in direzione di un miglioramento generale della società ma anche delle vite di molte persone.

Non è una novità, infatti, che lo svantaggio economico familiare sia un fattore di rischio per l’educazione dei bambini, con tutto ciò che ne consegue. Infatti, suggerisce la Dottoressa Chittleborough, “una condizione di svantaggio socioeconomico nell’infanzia è correlata a ridotte capacità di trarre benefici dall’istruzione, esiti educativi peggiori, una più bassa tendenza a continuare gli studi e meno probabilità di successi lavorativi”. Inoltre, suggerisce la studiosa, “un basso livello di educazione porterebbe ad una maggiore dipendenza dal Welfare State, a più basse capacità lavorative e salari inferiori, alimentando il circuito vizioso dello svantaggio”.

Alla luce di tutti questi argomenti, risulta allora fondamentale promuovere un sistema educativo che riduca gli effetti dello svantaggio economico. Ma con quali modalità sarebbe possibile intraprendere una strada di questo genere?

In uno studio longitudinale pubblicato sul giornale Child Development, i ricercatori dell’University of Adelaide e della University of Bristol hanno studiato quali sono gli esiti di interventi educativi precoci mirati a incrementare le capacità scolastiche.

Il campione era composto da 12.000 bambini inglesi in età precoce (meno di 5 anni), su cui poi si verificava l’effetto dell’intervento tramite un follow up all’età di 16 anni. Secondo i risultati ottenuti, il livello di istruzione della popolazione può aumentare del 5% e lo squilibrio socioeconomico legato all’educazione dei ragazzi può diminuire addirittura del 15%.

Questa è una scoperta importante, specialmente se si considera che nel 2012 in Inghilterra c’erano all’incirca 620.000 ragazzi di età compresa tra i 15 e i 16 anni iscritti alla scuola secondaria. Un incremento del 5% negli esiti educativi significa che 13.500 studenti avrebbero una prestazione migliore. Questo avrebbe un impatto significativo nelle loro future possibilità lavorative e professionali, e di conseguenza sulle loro capacità di contribuire al benessere economico della società.

In definitiva, come sottolinea la Dottoressa Chittleborough, “fornendo un adeguato supporto educativo, potremmo contribuire a migliorare significativamente le vite di molti bambini”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Interview with Elisabeth Messina – APA 2014, Washington DC

Giovanni Maria Ruggiero interviews Elisabeth Messina

at the APA 2014 Congress in Washington DC

 

 

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Congresso APA 2014

LE INTERVISTE

Piccoli geni: è davvero più semplice il mondo?

Milvia Spinetta OPEN SCHOOL

In Italia, il mondo della plusdotazione rappresenta oggi un argomento poco conosciuto e poco studiato dalla ricerca scientifica, eppure sembra che il talento sia sotto i nostri occhi più di quel che crediamo, riguardando circa il 5% della popolazione mondiale (Renati e Zanetti, 2012).

Numerose credenze, miti e stereotipi sull’argomento richiamano l’idea che il bambino plusdotato sia ben regolato, indipendente e auto efficace. Infatti, la maggior parte delle persone considera il bambino ad alto potenziale come un genio che mostra di avere un’intelligenza più viva e brillante rispetto agli altri e che, forte dei suoi talenti, ha tutti i motivi per considerarsi fortunato.

D’altronde, chi non ha mai stimato o desiderato la genialità musicale del grande compositore Beethoven, la brillante intuitività dell’astrofisico Albert Einstein o dell’eclettico Leonardo da Vinci? Eppure, avere un’intelligenza sopra la media può portare forti problematicità, accompagnate da fatica, incomprensioni, isolamento e solitudine. Il concetto di cui parliamo può essere metaforizzato dall’immagine di una medaglia che esprime gli aspetti positivi e negativi attraverso le sue due facce, essi apparentemente sembrano escludersi a vicenda, ma fanno in realtà parte della stessa persona.

La plusdotazione, o giftedness per i colleghi americani, significa avere un dono, una potenzialità che renda il singolo speciale, differente rispetto ai pari. Secondo le ricercatrici Morrone e Renati, il bambino gifted possiede talenti straordinari e bisogni speciali, differenziandosi anche dai soggetti brillanti per la sua attitudine innata a imparare più velocemente, precocemente e in maniera qualitativamente differente (2012).

Vi è quindi un’importante differenza tra bambino brillante e bambino ad alto potenziale. Il primo segue infatti traiettorie di sviluppo normative, rimanendo nei limiti della normodotazione: trattasi di soggetti curiosi, che si esprimono attraverso un vocabolario consono al loro sviluppo, che utilizzano strategie di apprendimento tipiche e che, posti di fronte a un problema, percorrono ogni tappa dei processi mentali per risolverlo. I secondi presentano invece caratteristiche qualitativamente differenti, atipiche rispetto al loro sviluppo, andando così ben oltre la linea di confine della normalità. Harrison (2003) definisce il bambino ad alto potenziale come

colui che manifesta performance, o ne ha il potenziale per, a un livello significatamente superiore rispetto ai pari e le cui abilità e caratteristiche uniche richiedono un apporto speciale e un supporto sociale ed emotivo da parte di famiglia, comunità e contesto socio-educativo.

In letteratura, vi è un certo grado di accordo nel far coincidere la plusdotazione a un quoziente intellettivo pari o superiore a 130, ma la misurazione del QI non dovrebbe essere l’unico paradigma per determinare l’alto potenziale: vi sono infatti manifestazioni di tipo emotivo, corporeo, comportamentale, artistico, morale tipiche che vanno oltre il concetto tradizionale di intelligenza.

La complessità del bambino gifted pone le sue abilità in compresenza a caratteristiche tipiche di questa categoria, tra cui la sovra-eccitabilità nelle sue cinque forme, la sensibilità emotiva, l’intensità, il perfezionismo e l’asincronia. Per sovra-eccitabilità si intende la tendenza del bambino di elevarsi da una situazione di crisi e un livello più elevato di funzionamento intellettivo (Dabrowski e Piechowski, 1977).

Secondo gli autori, le cinque forme sono:

  • Sovra-eccitabilità psicomotoria: presuppone eloquio accelerato, attività atletiche intense, incapacità di stare fermi e reazione immediata agli impulsi;
  • Sovra-eccitabilità dei sensi: è il bisogno di contatto fisico, di ricevere carezze o di essere al centro dell’attenzione;
  • Sovra-eccitabilità immaginativa: incremento delle associazioni di immagini e impressioni, dell’inventiva, visualizzazione vivida e animata. Si manifesta anche attraverso i sogni, gli incubi e alternanza di finzione e realtà;
  • Sovra-eccitabilità intellettuale: tendenza a porre domande, voler conoscere in modo incessante, porre l’accento sull’analisi, sul pensiero teorico, sul rispetto della logica;
  • Sovra-eccitabilità emotiva: comprende inibizione emotiva, come timidezza o vergogna, preoccupazione per la morte, ansie, paure, vissuti depressivi, sentimenti di solitudine e preoccupazione per gli altri.

La sensibilità emotiva è la tendenza ad essere sensibili, talvolta iper-sensibili, di fronte a minimi cambiamenti nell’ambiente circostante e a manifestare una percettività elevata (Fornia e Frame, 2001). Ciò può causare malessere nel bambino perché il modo in cui egli percepisce la realtà è qualitativamente differente e non semplice da comprendere per le altre persone.

La studiosa Ruf osserva inoltre una spiccata tendenza a esprimere intensità (2005). Questo aspetto si riferisce alla profondità dei sentimenti, comportamenti, della creatività o conoscenza del bambino plusdotato: è una spiccata tendenza a esprimere in maniera intensa tutto ciò che egli fa o dice. Ad esempio, di fronte allo stesso evento negativo, un bambino empatico può provare un lieve sgomento per la sofferenza altrui, mentre un bambino plusdotato potrebbe manifestare turbamento per ore o giorni, riflettendo su quanto sia ingiusto il mondo e la vita, esprimendo talvolta veri e propri sfoghi o reazioni depressive.

Il perfezionismo, spesso accompagnato da un senso di fallimento, è la tendenza a dover esprimere sempre a pieno le proprie abilità, raggiungendo la perfezione in ogni ambito. Ciò può generare un senso di fallimento in quanto spesso il bambino gifted ha la sensazione che ogni suo sforzo per raggiungere la dimensione ideale non sia mai sufficiente (Orange, 1997). Dall’altra parte, le figure genitoriali, gli insegnanti e le figure di riferimento, data le elevate potenzialità, hanno la tendenza ad avere aspettative grandiose sulle sue performance, ciò è motivo di frustrazione per il bambino e talvolta di underachievement, che porta ad eseguire una performance molto al di sotto delle proprie capacità (Renati e Zanetti, 2012) .

Maureen Neihart (2011) fa una distinzione importante tra perfezionismo buono – tentativo equilibrato di dare il massimo in base ai propri tempi e modi – e perfezionismo cattivo, o disfunzionale, ovvero l’ansia esagerata di raggiungere la perfezione, che troverebbe correlazione con lo stress (Adderholdt e Goldberg, 1999; Parker e Mills, 1996). Circa il 20% dei bambini plusdotati manifestano quest’ultimo tipo di perfezionismo (Renati e Zanetti, 2012).

Infine, l’asincronia è un’asimmetria nello sviluppo del bambino dal punto di vista emotivo ed intellettivo, in cui si manifesta un livello cognitivo sopra la media accompagnato da una non-corrispondente maturità emotivo-relazionale e da scarsa capacità di giudizio (Fornia e Frame, 2001). Ad esempio, un bambino di cinque anni con elevatissime capacita nell’ambito delle scienze potrebbe avere paura del buio o ancora bisogno del suo pupazzo preferito per addormentarsi.

Altre caratteristiche che possono manifestarsi nel bambino ad alto potenziale sono specifiche paure – di atti di violenza, di morte, di guerre, di stragi nucleari, di epidemie, del buio, di rapimenti, dei suoni strani, dei fallimenti scolastici, degli incubi, delle creature immaginarie- più frequenti e intense rispetto a quelle dei bambini normodotati (Tippey e Burnham, 2009; Derevensky e Coleman, 1989). Egli può inoltre avere particolare interessamento nei confronti dei temi della giustizia e onestà, provando intolleranza verso ipocrisia e inequità; ciò li porta a voler negoziare le regole e le decisioni con genitori, insegnanti e i pari, al fine di far valere il proprio punto di vista (Fornia e Frame, 2001; Renati e Zanetti, 2012).

Le modalità di apprendimento e i processi di risoluzione dei problemi del bambino plusdotato sono inoltre atipici. Egli può aver bisogno di utilizzare tecniche cinestesiche, manuali, musicali o immaginative per imparare; nelle strategie di problem solving egli può inoltre saltare alcuni passaggi usuali dei processi mentali o utilizzare vie di risoluzione complesse e molto difficili da comprendere per i pari normodotati (Silverman, 2002). Ciò rende difficile il suo apprendimento in ambito scolastico, dove le lezioni sono condotte tradizionalmente e sempre attraverso le stesse modalità.

Queste sono le principali caratteristiche attraverso cui un bambino gifted esprime il suo essere speciale. Come già accennato, spesso sono più evidenti le qualità di spicco rispetto alle fragilità che il bambino inevitabilmente porta con sé, ciò avviene sia in ambito familiare che in ambito scolastico. Sarebbe dunque importante indirizzare l’informazione e la ricerca scientifica verso questo ambito ancora poco diffuso ma indubbiamente affascinante e ricco, al fine di sostenere e accrescere nella maniera più idonea la consapevolezza e la libertà di espressione del potenziale.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Intelligenza fluida ed intelligenza cristallizzata – Psicologia

BIBLIOGRAFIA:

  • Adderholdt, M.; Goldberg J. (1999) Perfectionism: what’s bad about being too good? (rev. Ed.) Minneapolis, MN: Free Print. ACQUISTA
  • Derevensky, J.; Coleman E. B.(1989) Gifted children’s fears Gifted Child Quarterly, Vol. 33 pp.65-68
  • Dabrowski, K.; Piechowski, M.M. (1977) Theory of level of emotional development: Vol. 1B. Multilevelness and positive disintegration. Oceanside, New York: Dabor Science
  • Fornia, G.L.; Frame, M.W. (2001) Giftedness in parental counseling: a new perspective. The Family Journal, Vol. 4, pp. 360-385
  • Harrison, C. (2003) Giftedness in early childwood, Kensington, NSW: GERRIC
  • Keating, D.P. (2009) Developmental science and giftedness: an integrated life-span framework, Washington DC: American Psychological Association, pp.189-208
  • Morrone, C.; Renati, R. (2012) Dal quoziente intellettivo ai profili degli studenti ad alto potenziale. In Psicologia dell’Educazione, Vol. 6, No. 3, pp. 343-356
  • Neihart, M. (2011) Catch and Release: Assessing Dangerousness in Gifted Students. National Association for Gifted Children (ED.) The Annual Conference of the National Association for Gifted Children.
  • Orange, C. (1997). Gifted students and perfectionism. Roeper Review, Vol. 20 pp. 39-41
  • Parker, G.L.; Mills, F. (1996) A comparison between intellectually gifted and tipical children in their coping responses to a school and a peer stressor. Roeper Review, Vol. 26, pp. 105-111
  • Pfeiffer, S. I. (2012) Serving the gifted: evidence based clinical and psycho-educational practice. New York: Routledge
  • Phillipson, S.N.; McCann, M. (2007) Conceptions of giftedness: sociocultural perspectives, Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates
  • Renati, R.; Zanetti, M.A. (2012) L’universo poco conosciuto della plusdotazione, Psicologia e Scuola, 23. pp. 18-24
  • Ruf, D. L. (2005) Five Levels of Giftedness: school issues and educational options. Tucson: Great Potential Press Inc. ACQUISTA
  • Silverman, l.K. (2002) Upside-down brilliance: The visual spatial learner, Denver: DeLeon Tippey e Burnham, 2009; ACQUISTA
  • Winstanley C. (2009) Too cool for school? Gifted children and homeschooling. Theory and Research in Education Vol. , p.347

The Unsaid- Sotto Silenzio – Cinema & Psicoterapia n.31

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  n.31

The Unsaid – Sotto Silenzio (2001)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Hunter dopo la morte del figlio divorzia e perde l’affetto della figlia. Tre anni dopo incontra una sua ex-studentessa che gli propone un caso. Il paziente gli ricorda suo figlio, ma nasconde un torbido passato.

 

Info

Diretto da Tom McLoughlin., con Andy Garcia, Teri Polo, Vincent Kartheiser, Linda Cardellini, Samuel Bottoms. Thriller. USA-CANADA 2001.

 

Trama

Michael Hunter è uno psicologo di successo. Il figlio adolescente cade in depressione e il padre lo invia ad un collega per curarsi. Il figlio si suicida per l’impossibilità di sopportare il peso delle violenze sessua­li fatte dallo psicologo. Hunter dopo la morte del figlio divorzia e perde l’affetto della figlia. Tre anni dopo incontra una sua ex-studentessa che gli propone un caso. Il paziente gli ricorda suo figlio, ma nasconde un torbido passato. Michel è coinvolto in una catena di omicidi.

 

Motivi di interesse

I temi di questo thriller sono molteplici e offrono spunti di riflessio­ne su argomenti che si incontrano spesso in terapia.

L’incomunicabilità tra il padre psicologo e il figlio è rappresentata simbolicamente dalla porta sbattuta in faccia da Kyle a Michael, che traccia un solco di distanza incolmabile tra i due. La violazione riprovevole del setting del collega di Hunter che rende insopportabile la vergogna del ragazzo e lo porta al suicidio. 

Le accuse mosse dalla madre e dalla sorella al padre che si assume tutta la responsabilità dell’accaduto vivendone il senso di colpa.  Le risonanze del dottor Hunter, sollecitate da Tommy che assomiglia in modo sinistro a Kyle. Il riaccendersi dell’interesse del professionista che non può rimane­re indifferente al caso sottopostogli da una sua ex-allieva. 

Gli atteggiamenti di Tommy, influenzati da avvenimenti della sua storia di vita e il suo disagio che affonda le radici in un contesto fami­liare in cui le violazioni e l’abuso sono la vera ragione del disturbo.

I temi sono scottanti e il film non si sottrae dal proporli offrendo una ottima traccia da utilizzare per la loro elaborazione.

 

Indicazioni per l’utilizzo

Utile per i terapeuti e per i pazienti in una fase molto avanzata della psicoterapia, quando è possibile integrare i percorsi cognitivi extra riflessivi con il pensiero logico-riflessivo per elaborare i vissuti attraver­so modalità complesse.

 

Trailer

Si segnala anche: 

  • Reign Over Me. Un film di Mike Binder. Interpretato da Adam Sandler, Don Cheadle, Liv Tyler, Saffron Burrows, Donald Sutherland. USA 2007. Drammatico.
  • Gente Comune (Ordinary People). Un film di Robert Redford. Con Donald Sutherland, Timothy Hutton, Mary Tyler Moore, Judd Hirsch. Drammatico, USA 1980. Vincitore di quattro premi Oscar. Tratto dal romanzo di Judith Guest.
  • Maternity Blues – Il bene dal male. Un film di Fabrizio Cattani, con Andrea Osvart, Daniele Pecci, Monica Barladeanu, Chiara Martegiani, Marina Pennafina. Drammatico. Italia, 2011. 

 

 LEGGI ANCHE:

Rubrica Cinema & Psicoterapia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

 

Troppi caregivers bambini si prendono cura dei familiari

FLASH NEWS

 

I “caregiving bambini” sono una popolazione nascosta e a rischio di insuccesso scolastico e cattive condizioni di salute, a causa dello stress fisico ed emotivo cronico per le eccessive responsabilità che devono sostenere.

Uno studio di questo fenomeno allarmante, presentato all’American Academy of Pediatrics (AAP) National Conference & Exhibition di San Diego, nasce dalla collaborazione tra il team di ricercatori della University of Miami Miller School of Medicine e l’American Association of Caregiving Youth (AACY) e ha lo scopo di comprendere meglio l’esperienza quotidiana dei giovani caregivers e studiare l’impatto dei servizi forniti da AACY. 

Attualmente negli Stati Uniti, ci sono più di 1,3 milioni di bambini iper-responsabilizzati nella cura di familiari malati, feriti, anziani o disabili.

 

I ricercatori hanno analizzato circa 550 casi di caregivers giovanili: il 62% dei caregivers erano ragazze; 38% erano maschi. L’età media era di 12 anni.

I caregivers riferiscono di spendere nella cura dei familiari una media di 2,5 ore ogni giorno, quattro durante i week-end. Queste attività includono l’assistenza ai familiari per muoversi, mangiare, vestirsi, andare in bagno, l’igiene personale e la cura dell’incontinenza; ma anche il sostegno emotivo, il pulire la casa, fare la spesa, e la somministrazione di farmaci.

“Questo studio è un passo importante verso la sensibilizzazione sul problema dei giovani caregiving”, ha detto il dottor Belkowitz, “L’AACY sta sviluppando collaborazioni in tutta la nazione per capire meglio questa popolazione di giovani ed espandere il programma di assistenza e sostegno di cui questi giovani hanno assolutamente bisogno.”

 

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BIBLIOGRAFIA:

Confusi e felici (2014): psicoanalisi o cabaret? – Recensione

Confusi e Felici (2014) un film di Massimiliano Bruno. Nelle sale italiane dal 30 Ottobre 2014.

 

Dimenticate la psicoanalisi. Dimenticate storie di terapeuti e pazienti reali. “Confusi e felici” è una commedia comica, non ironica. Iniziamo dalla sua dote più apprezzabile: fa ridere. Per tutto il resto, meglio ripassare un’altra volta.

Claudio Bisio è un analista gaffeur, del tutto non credibile nel suo ruolo ma forse la creazione di un personaggio veritiero non apparteneva agli intenti del film; i suoi pazienti sono macchiette, nulla di più. La segretaria, molto bella e molto poco segretaria.

Confusi e felici” pesca a piene mani nella comicità romana, meglio dire nel cabaret: battute rapide, traccianti che vanno dritti al bersaglio, epiteti caustici capaci di definire l’unione tra un volto e uno stereotipo. C’è il ciccione mammone, lo spacciatore rude ma incline al sentimento impacciato, la ninfomane seguace del capezzolo maschile, la moglie trascurata e il marito impotente scolpiti dal linguaggio di borgata.

L’ARTICOLO CONTINUA CONTINUA DOPO IL TRAILER

 

La chiave interpretativa del film è sperare che l’esasperazione dei caratteri sia voluta, che il disegno narrativo non sia tracciare l’ardito profilo di una psicoanalisi che non si prende sul serio bensì allontanarsi per principio dalla realtà.

Il cabaret romanesco è a tratti irresistibile, le scene in cui obiettivamente si ride non sono poche; manca però il sorriso, l’ironia imprevedibile e con essa la capacità di variare dai binari di una psicologia predefinita in cui il paziente è matto e bizzarro, il terapeuta assai vicino alla crisi di nervi che vuole scongiurare e gli strumenti terapeutici, individuali o di gruppo, riassunti dentro scenette di maniera.

Se l’intento è dissacrare, fallisce l’impatto con la sostanza. Se al contrario si vuole liberare l’energia di una risata senza filtri e per questo paradossalmente anche arguta – non sempre – il film risulta anche godibile. La trama, quasi pleonastica vista la struttura dichiarata dei rapporti fra i personaggi, racconta un percorso di malattia nel quale l’analista affronta il primo vero terremoto della sua vita; i pazienti, dopo la forzata chiusura della terapia, lo affiancano nel viaggio, alla scoperta dei limiti comuni e dei limiti privati senza trovare granché alle spalle dei cliché universali.

La guarigione o la vittoria della malattia non rappresentano un bivio rilevante, la retorica della vita nuova che si genera nel dramma non viene certo scansata con impegno, mentre la trasformazione dei pazienti abbandonati che diventano stampella empatica, stella polare del proprio mentore esistenziale è tanto irreale quanto funzionale a sostenere l’intreccio comico.

Lo sviluppo degli eventi non riserva particolari sorprese, la sensazione è che sostituendoli con altre infinite e impossibili vicende non se ne avrebbe alcun cambiamento semantico visibile. I dialoghi fra le macchiette divertono per la loro aderenza ad una spontaneità già vista e digerita che con passo caracollante riesce anche a mantenere un buon livello di energia.

I consigli per non uscire dal cinema con l’impronta del tempo perso sono dimenticare i significati complessi che il film non trova mai, valorizzare il colore viscerale e unico in Italia del cabaret di borgata, apprezzare alcuni aspetti minori ma non irrilevanti come la sostanziale assenza di volgarità, mai scontata nel cinema contemporaneo.

Questo è o quantomeno appare “Confusi e felici“, titolo scarsamente comprensibile che i maligni potrebbero attribuire alla confusione delle idee espresse. Ma la malignità non si addice a questi film, non serve.

 

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Dalla concettualizzazione del caso al piano educativo per persone con autismo – Report dal Congresso IESCUM

Gli specialisti del settore sono tutti concordi nel ritenere la formulazione del caso la premessa essenziale per un buon progetto educativo rivolto anche alla popolazione autistica ma mancano indicazioni precise sul da farsi. Una cosa è chiara: per essere efficace essa deve essere breve, focalizzata sulle variabili di interesse e utile a giudicare il trattamento.

Peter Sturmey è professore di Psicologia presso il Queens College and the Graduate Center della City University of New York (CUNY). Da 30 anni si occupa di ritardi dello sviluppo e ne sono testimonianza un centinaio di pubblicazioni tra manuali e articoli.

In questa giornata di formazione dichiara l’intenzione di trasferirci una serie di informazioni che possano poi tradursi in competenze pratiche da spendere nella nostra attività clinica e indubbiamente mantiene la promessa.

Buona parte del suo intervento si focalizza sulla case formulation (concettualizzazione del caso), che negli ultimi anni sta ricevendo l’attenzione che merita essendo il primo passo verso un piano di intervento veramente individualizzato, a garanzia di un trattamento in cui il metodo, qualunque esso sia, non soffochi l’individuo e l’espressione delle sue esigenze particolari.

Gli specialisti del settore sono infatti tutti concordi nel ritenere la formulazione del caso la premessa essenziale per un buon progetto educativo rivolto anche alla popolazione autistica ma mancano indicazioni precise sul da farsi. Una cosa è chiara: per essere efficace essa deve essere breve, focalizzata sulle variabili di interesse e utile a giudare il trattamento.

Il Prof. Sturmey ci offre la possibilità di sperimentare questo percorso analizzando i nostri casi clinici in una sorta di esercitazione di gruppo. I comportamenti problema vengono messi sotto una lente di ingrandimento e analizzati negli aspetti di rinforzo (sociali e non) che contribuiscono a mantenerli, senza perdere di vista il contesto ambientale in cui si palesano.

Non a caso ci presenta un questionario destinato ad ogni persona coinvolta a vario titolo nella vita del bambino o ragazzo, questo non solo per garantire una visione del problema da più angolature e quindi più accurata ma soprattutto per coinvolgere anche queste figure nel piano educativo del minore.

Da ciò deriva la necessità di implementare nella nostra pratica clinica anche lo staff e parent training, attività obiettivamente ancora molto marginali in Italia. Il professore, che spende molte parole a proposito di questi interventi, li ritiene di importanza cruciale per il buon successo terapeutico perchè non sono solo i bambini autistici ad avere problemi a generalizzare le proprie competenze ma anche i membri dello staff che si occupano di loro così come i vari caregiver.

Anzi, forse è proprio la mancanza di una buona condivisione di prassi di intervento e relazione col minore, a produrre spesso le sue difficoltà di adattamento comportamentale ai vari contesti di vita. In una ricerca di Lafasakis e dello stesso Sturmey è per esempio emerso che indirizzare un trattamento comportamentale ai genitori per migliorare le loro capacità di insegnamento (Discrete Trial Teaching) migliora l’apprendimento dei figli.

Se questo significa uscire dalla logica di una terapia a tavolino che promuove l’osservazione e il trattamento dei soli aspetti problematici dell’autistico a favore di una presa in carico globale che coinvolga famiglia, scuola e anche noi terapisti, non si può che essere d’accordo.

Non resta che darsi da fare affinchè anche in Italia l’ovvio venga messo in pratica.

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BIBLIOGRAFIA:

Bambini ed Emozioni: 5 consigli utili per i genitori

Conoscere in quali momenti dello sviluppo emergono le emozioni dei propri figli è di fondamentale importanza, non solo per verificare che il loro percorso di crescita rispetti gli auspicabili parametri di normalità, ma anche per consentire agli adulti che interagiscono con loro di farlo nel rispetto delle possibilità dei bambini.

Non c’è genitore che non sappia a che età il suo bambino probabilmente comincerà a muovere i primi passi o a pronunciare le prime parole. Le tappe fondamentali del suo sviluppo emotivo sono invece sconosciute alla maggior parte di loro.

Conoscere in quali momenti dello sviluppo emergono le emozioni dei propri figli è invece di fondamentale importanza, non solo per verificare che il loro percorso di crescita rispetti gli auspicabili parametri di normalità, ma anche per consentire agli adulti che interagiscono con loro di farlo nel rispetto delle possibilità dei bambini. Sarebbe infatti insensato aspettarsi risposte empatiche da un bambino di un anno e ancor più sbagliato giudicarlo negativamente per l’assenza di esse.

Una delle più accreditate e recenti teorie dello sviluppo emotivo, la Teoria della Differenziazione (Sroufe, 2000), ritiene che le emozioni si originino differenziandosi da uno stato iniziale di eccitazione indifferenziata.

Tale percorso è reso possibile dal parallelo sviluppo cognitivo con il quale mantiene un costante rapporto di reciproca influenza ed è condizionato da fattori sociali e culturali. Ecco perchè approfondire la conoscenza dei genitori rispetto a questo tema, significa anche renderli capaci di esercitare una buona influenza sullo sviluppo emotivo dei propri figli.

Seguire questi semplici consigli potrebbe essere un buon inizio.

1. Attenti alle emozioni

Dedicate allo sviluppo emotivo dei vostri figli la stessa attenzione che rivolgete ad  aspetti più facilmente osservabili della sua crescita, come per esempio lo sviluppo motorio. Espressione, comprensione e regolazione emotiva sono le tre componenti base della competenza emotiva, che riveste un ruolo fondamentale nella promozione di un sano sviluppo psicologico.

2. Nominate le emozioni

Aiutare i bambini a dare un nome ai propri vissuti interni migliora la loro competenza emotiva e li indirizza verso una corretta gestione delle loro emozioni. Confondere per esempio la tristezza con la fame, non solo è indice di difficoltà nell’espressione emotiva ma può indurre il bambino a cercare consolazione nel cibo, piuttosto che nel rapporto con se stesso e con gli altri.

3. Non colpevolizzate le emozioni

E’ importante trasmettere ai propri figli una piena accettazione di tutti i vissuti emotivi di cui fa esperienza. Ciò che può essere invece messo in discussione è la modalità prescelta dal bambino per esprimere le proprie emozioni.

Se vostro figlio si arrabbia, cercate di non dirgli che non dovrebbe essere arrabbiato ma aiutatelo ad esprimere la rabbia nel modo più corretto, rimproverandogli semmai la scelta di condotte inappropriate. Tale eventualità potrebbe verificarsi tanto meno quanto più vi dimostrate capaci di riconoscere e rispondere alla sua rabbia anche in assenza di comportamenti sbagliati.

4. Rassicurate le loro paure, non generatele

Sapere che mamma e papà sono in grado di accogliere senza giudicare le loro paure è già di per sè una buona ragione per non averne. Ciò che spesso accade è che però i figli siano indotti ad attribuire un giudizio di pericolosità ad uno stimolo o ad una situazione da indizi forniti dai genitori. Se quando mettete a letto vostro figlio lo fate sorvegliare da una dozzina di pupazzi e gli fornite un ciuccio luminoso affinchè, non sia mai, lo smarrisca nella notte, è probabile che questo momento della giornata venga temuto più che desiderato.

5. Lasciate vivere le emozioni spiacevoli

Vedere soffrire un figlio, anche per il più banale dei motivi, è sempre un’esperienza sgradevole per i genitori ma solo concedendogli questa possibilità gli restituiremo un’immagine di loro stessi come individui capaci di sopravvivere anche alla tristezza. Inoltre, come insegna Il Piccolo Principe “si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere le farfalle… Dicono siano così belle!”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Sroufe, L. A. (2000). Lo sviluppo delle emozioni. Milano, Raffaello Cortina. ACQUISTA ONLINE
  • Saarni, C. (1999). The development of emotional competence. New York, Guilford Press.
  • Grazzani Gavazzi, I., Ornaghi, V., Antoniotti, C. (2011). La competenza emotiva dei bambini. Proposte psicoeducative per le scuole dell’infanzia e primaria. Erickson. ACQUISTA ONLINE
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