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Attualità in Psicoterapia in tema di Disturbo Bipolare – Report dal convegno – Firenze, 31 Ottobre 2014

Marco Baldetti – Scuola Cognitiva Firenze

Il 31 ottobre si è svolto a Firenze un convegno riguardante l’attualità in tema disturbi bipolari patrocinato dall’Università degli Studi di Firenze. Il convegno si è articolato in due parti, una sul versante psichiatrico ed una sul versante psicoterapico.

La rilevanza crescente data al trattamento psicoterapico per il disturbo bipolare si rispecchia quindi anche nello spazio che questo tipo di interventi acquista in un convegno sull’ argomento.

Il disturbo bipolare, nelle sue differenti forme, rimane una sfida clinica tra le più complesse, perché costituisce un disturbo cronico con cui l’individuo deve confrontarsi per tutta la vita e che coinvolte inevitabilmente la sua famiglia e il proprio ambiente in modo significativo e spesso drammatico. Il disturbo bipolare oltre a incidere fortemente sulla qualità della vita, è caratterizzato da una elevata mortalità suicidaria, che pone ulteriori pressioni anche sull’equipe terapeutica di riferimento.

Questa grave malattia deve essere quindi fronteggiata prima di tutto attraverso un trattamento farmacologico basato sull’uso di stabilizzatori dell’umore, primo tra tutti il litio. L’introduzione di questa categoria farmacologica ha inizialmente portato ad un certo ottimismo dal momento che le prime ricerche risalenti agli anni ’70 mostravano una efficacy elevata (cioè i risultati clinici ottenuti con pazienti selezionati). Successivamente, la ricerca sul campo, ha tuttavia mostrato una effectiveness (cioè l’efficacia clinica nel contesto di cura reale con pazienti non selezionati) minore, legata prima di tutto alla scarsa aderenza al trattamento mostrata dai pazienti.

Proprio la scarsa aderenza al trattamento dei pazienti bipolari è stato l’aspetto che per molto tempo ha assunto un ruolo centrale nei trattamenti psicosociali di questo disturbo: aiutare queste persone ad assumere in modo corretto e regolare i farmaci.

Non fa eccezione, quindi, l’intervento psicoeducativo a cui è stato dedicato il primo intervento tra quelli riguardanti le psicoterapie. Colom e Vieta sono i due autori che da anni, a Barcellona, studiano e praticano interventi di gruppo dal forte accento psicoeducativo con pazienti bipolari, secondo un modello altamente strutturato e organizzato in incontri settimanali.

Una delle sfide di questo intervento è quella di ridurre la frequenza delle ricorrenze, cioè del ripresentarsi di stati maniacali o depressivi, e di renderne l’impatto meno distruttivo, con una diminuzione del numero dei ricoveri e dei giorni totali passati in ospedale.

L’intervento psicoeducativo di Colom ha mostrato come una delle cause per le quali molti pazienti hanno una scarsa compliance verso la terapia farmacologica, e di conseguenza un decorso peggiore, non risiede primariamente nell’ impatto degli effetti collaterali dei farmaci, ma nelle poche informazioni che hanno in merito ad essa e in merito alla propria malattia: molti pazienti semplicemente non sanno perché devono continuare a curarsi.

Molti pazienti, infatti, tendono a credersi guariti dopo la fine del primo episodio ed un ritorno ad un umore normale. Non sono adeguatamente informati sul fatto che avranno inevitabilmente delle ricorrenze e quindi smettono progressivamente di assumere la terapia. Un intervento fortemente psicoeducativo ha allora la possibilità di rendere un paziente alleato della terapie perché informato, accedendo ad una aderenza consapevole, diversa da una compliance che asseconda semplicemente l’autorevolezza del curante.

La specifica sequenza di argomenti che vengono affrontati nel corso degli incontri di gruppo di Colom e Vieta, persegue diversi livelli di obiettivi:

  • livello I: coscienza di malattia, riconoscimento precoce dei sintomi e dei prodromi, aderenza al trattamento;
  • livello II: gestione dello stress, interruzione dell’uso di sostanze; regolazione dello stile di vita, prevenzione del suicidio;
  • livello III: conoscenza e fronteggiamento delle conseguenze degli episodi acuti; miglioramento del funzionamento interpersonale; fronteggiamento dell’eventuale deterioramento cognitivo.

Il primo livello di obiettivi è quello che trova maggior spazio all’ interno degli incontri. I partecipanti hanno spesso per la prima volta il tempo di affrontare in dettaglio la natura del loro disturbo, conoscendone cause, caratteristiche e decorso. Viene affrontato l’impatto di una diagnosi da cui non si guarisce, ma per la quale ci si può curare. Viene inoltre dato molto spazio all’educazione sui farmaci, il loro corretto uso, i loro effetti collaterali e le interazioni con altre sostanze. Tutto ciò aumenta in modo significativo la responsabilità dei partecipanti verso la propria terapia e verso il proprio stile di vita.

Un secondo aspetto fondamentale del protocollo è quello dedicato ai prodromi. Ogni partecipante, ripercorrendo la storia dei suoi periodi sintomatici, verrà aiutato ad indentificare una lista altamente personalizzata di comportamenti quotidiani tipicamente collegati all’avvicinarsi del suo scompenso. Questo esercizio costituisce l’aspetto più centrale di tutto l’intervento, perché permette ad ognuno di avere una lista di segni con i quali poter correre ai ripari prima ancora che i sintomi veri e propri si manifestino.

L’utilità dell’approccio psicoeducativo rende evidente come un trattamento psicoterapico sia fondamentale in un disturbo così complesso. Gli interventi effettuabili in gruppo sono replicabili anche in un contesto individuale, più familiare a degli psicoterapeuti di formazione cognitivo-comportamentale. Bisogna tuttavia sottolineare quanto si sia reso evidente, nel lavoro di Colom e Vieta, il valore aggiunto di un setting di gruppo per la potenza con la quale può ridurre lo stigma di malattia e anormalità che ogni paziente con disturbo bipolare rischia di vivere.

Un ultimo aspetto importante della psicoeducazione consiste nel coinvolgimento delle famiglie in incontri ad hoc, mirati alla riduzione dello stigma intrafamiliare e dell’emotività espressa.

Qual è allora il ruolo della CBT standard all’interno di un trattamento per questo disturbo? Le classiche tecniche di ristrutturazione cognitiva, riconoscimento dei bias, valutazione dei pro e contro e abilità di problem solving, sono risorse che possono essere utilizzate in affiancamento al bagaglio psicoeducativo così fondamentale per il DB. La terapia cognitiva infatti, può aiutare la persona a ridurre l’impatto dello scompenso, almeno fino a quando i livelli di eccitazione rimangono all’interno del range ipomaniacale. Durante le fasi intercritiche, inoltre, può essere utilizzata per pianificare la regolazione dello stile di vita, promuovendo l’abitudine a ritmi regolari e prevedibili capaci di conciliare il bisogno di una vita piena e soddisfacente con il controllo di una falsa felicità di natura patogena e distruttiva.

 

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A scuola di cucina quando si è a dieta: Emotifood e il Foodcoaching

Emotifood presenta un approccio innovativo al cibo e alla cucina attraverso il “FoodCoaching”: chi ha detto che, se si è a dieta, in cucina non si possa essere creativi?

“Vuoi che muoro?!” Che vi divertiate a guardare un disgustato Bastianich strigliare il povero malcapitato che ha reso la bistecca una sola, o vi stiate barcamenando con gli avanzi della sera precedente per creare il pranzo della domenica con Benedetta Parodi, o abbiate appena postato su Facebook la foto del gateau di patate appena sfornato (che sia su food porn o su cucinaremale fa lo stesso), converrete con me che viviamo nell’era dell’edonismo culinario: cibo appetitoso ovunque che però, spesso, non possiamo o vogliamo mangiare perché “siamo a dieta”.

Ogni giorno spuntano nuove diete più o meno discutibili che additano a turno a mostro i grassi, i carboidrati, le proteine, etc: cibo proibito ovunque. Novelli Carlo Cracco, da una parte ci improvvisiamo chef tra i fornelli e dall’altra rifuggiamo certi nutrienti come se fossero la peste. Forse è necessario rivedere il nostro rapporto con il cibo e abbracciare l’idea che dieta non deve coincidere per forza con privazione, semmai con stile di vita.

Da questa osservazione parte l’idea del progetto Emotifood della dietista Emanuela Russo e dello psicoterapeuta Emanuel Mian. Un progetto molto interessante che coniuga psicoterapia e psicoeducazione alimentare, rivolto a chi soffre di disturbi alimentari (Anoressia, Bulimia ed Obesità Psicogena), ma anche un progetto di “formazione per professionisti e di prevenzione e sensibilizzazione per il pubblico (genitori, caregivers, professionisti della salute) riguardo tutte le tematiche inerenti il cibo, il corpo e la crescita personale.”

Emotifood presenta un approccio innovativo al cibo e alla cucina attraverso il “FoodCoaching”: chi ha detto che, se si è a dieta, in cucina non si possa essere creativi? Quante volte avete gettato nel cestino in ufficio l’ennesimo pranzo a base di insalatina e petto di pollo ai ferri scondito per gettarvi su qualcosa di più appagante, ma foriero di sensi di colpa, all’urlo di “da domani mi rimetto in riga!”?

In realtà anche l’insalatina e il petto di pollo possono diventare più gustosi se si imparano modi differenti per cucinarli! Ecco quindi l’idea di organizzare corsi di cucina tenuti da abili chef su come imparare a preparare piatti sani e appetitosi, affiancati da una dietista che educhi ad una corretta alimentazione bilanciata.

E poiché è bene cominciare sin da piccoli, Emotifood tiene corsi di cucina anche per bambini (in italiano e inglese) in cui i piccoli possono divertirsi a manipolare gli ingredienti, costruire un nuovo rapporto con il cibo e imparare quali nutrienti sono contenuti nei diversi cibi, mentre per i genitori è previsto un intervento psicoeducazionale che li aiuti a gestire in maniera sana l’alimentazione a casa, non solo nei casi in cui siano presenti casi di disturbi alimentari in famiglia.

Insomma, sia che abbiate un rapporto patologico con il cibo, sia che rientriate nella categoria dei perennemente a dieta (da lunedì o da sempre), sia che siate alla ricerca di uno stile alimentare sano, il punto di partenza potrebbe essere proprio in cucina ed un corso che vi riappacifichi con il cibo in modo che i vostri pasti non siano più un enorme diludendo.

 

 

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FLASH NEWS

Secondo studi scientifici, la solitudine comporta una serie di rischi per la salute delle persone: insonnia, pressione alta, declino cognitivo e fisiologico precoce e, infine, maggiori probabilità di morte prematura.

Ma perché avviene ciò? La spiegazione più diffusa è quella per cui persone che vivono socialmente isolate non hanno nessuno che suggerisca loro uno stile di vita sano e le tenga lontane da comportamenti a rischio.

Se fosse così, probabilmente sarebbe sufficiente una cura a base di prediche e buoni consigli per migliorare la vita di molti individui. Troppo facile e, in effetti, questa non può essere tutta la storia ma, al limite, la punta di un iceberg. E’ stato d’altra parte dimostrato che non è a rischio la salute di soggetti con carattere introverso e una rete sociale non troppo ampia; allo stesso modo, soggetti con una vita sociale oggettivamente piena soffrono frequentemente di solitudine e del malessere ad essa associato.

Un recente articolo suggerisce che per gli 800.000 cittadini inglesi che sperimentano sentimenti di solitudine, sarebbe essa stessa il problema e non qualche variabile o conseguenza ad essa associata. In pratica, la solitudine stessa sarebbe da definirsi come un disturbo: altera la nostra percezione, i nostri pensieri e, in senso stretto, la struttura e il funzionamento del nostro cervello. Gli autori, John Cacioppo, sua moglie Stephanie e il loro collega John Capitanio, avanzano tale ipotesi a partire dalla ricerca psicologica e neuroscientifica, nonché da studi condotti su animali, andando in questo modo a dimostrare che la solitudine è davvero la causa, e non solo la conseguenza, di determinate malattie.

L’articolo avanza l’idea secondo cui le persone che soffrono di solitudine sarebbero iper-sensibili alle esperienze sociali negative, mentre le loro risposte al coinvolgimento sociale sarebbero particolarmente deboli. Indagini svolte tramite neuroimmagine funzionale, mettono in luce come tali soggetti rispondano più velocemente a parole-stimolo che si riferiscono a degli outcome sociali di tipo negativo; allo stesso modo, essi reagiscono più velocemente a volti che presentano espressioni spiacevoli. Inoltre, tale studio di neuroimmagine funzionale evidenzia che le persone che soffrono di solitudine hanno una risposta neurale debole a stimoli di tipo sociale, la quale riduce l’eccitazione di tali soggetti di fronte alla possibilità di contatto con un’altra persona. Essi hanno, inoltre, un’attività cerebrale scarsa nelle aree dedicate a comprendere cosa gli altri pensano: potrebbe trattarsi di un meccanismo di difesa basato sull’idea che è meglio non saperlo. Tutto ciò rientra in ciò che gli autori definiscono un “istinto di conservazione sociale”.

A ciò si aggiungono gli studi effettuati sugli animali, che aiutano a comprendere le basi biologiche e neurali associate alla solitudine. Animali mantenuti in condizioni di isolamento mostrano una diminuzione della crescita di nuovi neuroni nelle aree del cervello imputate alla comunicazione e alla memoria, mentre periodi ad alto impatto sociale come la primavera presentano un pronunciato aumento di tali neuroni. Altri studi mostrano che topi in isolamento hanno una riduzione dell’attività elettrica nel cervello, soprattutto delle Onde Delta prodotte in fase di sonno profondo. Cambiano inoltre le loro reazioni di tipo infiammatorio: in una ricerca, tre su cinque topi mantenuti in condizioni di isolamento sono morti in seguito all’induzione artificiale di un ictus, mentre tutti gli altri topi testati sono sopravvissuti allo stesso trattamento. Ancora, l’isolamento riduce la mielinizzazione, processo vitale per il mantenimento della plasticità cerebrale. Questo potrebbe spiegare il ritiro sociale e la rigidità mentale osservata in tali animali e probabilmente influenza anche l’espressione genetica correlata ai comportamenti ansiosi.

Insomma, la ricerca è chiara nell’ evidenziare che la solitudine ha conseguenze dirette sulla salute. E’ necessario, pertanto, fare tutto il possibile per aiutare le persone ad uscire dalla loro condizione di emarginazione sociale. In questa direzione, Cacioppo e colleghi suggeriscono alcuni approcci che potrebbero rivelarsi utili e interessanti: esiste per esempio l’Associazione Nazionale Banche del Tempo (presente in Inghilterra ma anche in Italia), in cui le persone “danno in prestito” il loro tempo, in cambio di quello di qualcun altro in una situazione differente, un processo che potrebbe essere utile nella costruzione di nuove reti sociali. Gli autori parlano anche della Campaign to End Loneliness e soluzioni tecnologiche quali il RSA’s Social Mirror project, un’applicazione che informa le persone in merito ai gruppi sociali locali e alle attività che questi propongono. Questo può assumere anche la forma di una sorta di “prescrizione medica”: succede spesso che un medico informi i propri pazienti di quali siano i gruppi sociali presenti sul territorio, delle loro attività e di come dovrebbero cogliere queste occasioni di incontro e scambio. Una cosa è certa: al di là di tutte le attività istituzionali a cui è possibile partecipare, non dimentichiamoci che qualche volta la sola cosa di cui abbiamo bisogno è mettere il naso fuori di casa.

 

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Attualità in Psichiatria in tema di Disturbo Bipolare – Report dal convegno – Firenze, 31 Ottobre 2014

Massimiliano Rossi – Scuola Cognitiva Firenze

Il 31 ottobre si è svolto a Firenze un convegno riguardante l’attualità in tema disturbi bipolari patrocinato dall’Università degli Studi di Firenze. Il convegno si è articolato in due parti, una sul versante psichiatrico ed una sul versante psicoterapico.

La prima parte del convegno è stata dedicata ad un excursus storico del disturbo bipolare nel quale a partire ad Areteo di Cappadocia nel I secolo a.C. e passando per i lavori di Farlet e Baillarger di metà ‘800 si arriva alle geniali intuizioni di Emil Kraepelin di fine ‘800 il quale riunisce i disturbi affetti nella malattia maniaco-depressiva distinguendola dall’ altrettanto ormai famosa per quanto semanticamente desueta dementia praecox. La cornice storica si completa con i lavori di Meyer con l’introduzione del disturbo maniaco-depressivo nella prima versione del DSM e di Leonhard, Angst e Perris che tra gli anni ’60 e ‘70 per primi effettuano una suddivisione in bipolare di tipo I e II.

In maniera molto critica e talvolta anche provocatoria, il prof. Faravelli mostra come nei decenni a seguire le sottoclassificazioni del disturbo bipolare siano andate moltiplicandosi (disturbo ciclotimico, disturbo bipolare NAS, disturbo dell’umore indotto da sostanze) non solo da un punto di vista prettamente nosografico. Anche da una prospettiva più fenomenologica infatti troviamo sottoclassificazioni specifiche (delirius, delusional congruent o non congruent mood, nonpsichotic mania, hypomania, ciclotimia, etc.) e di come a tutt’oggi risulti molto difficile riuscire a fare diagnosi di Disturbo Bipolare soprattutto con i nuovi criteri del DSM V all’interno del quale i criteri a e b per Episodi Maniacali siano facilmente sovrapponibili con numerose altre patologie tanto da rendere labile il confine della mania da altre psicopatologie.

Ad oggi si sta sempre più rivalutando la definizione di depressione melanconica di Kreapeliana memoria, che se nel tempo è stata confinata ad una sottoclassificazione del più generico spettro delle sindromi depressive , sembra più che mai attuale l’intuizione di Kreapelin che individuava in questo tipo di depressione quell’aspetto così specifico del disturbo bipolare differenziandosi per esempio dalle depressioni caratteriologiche o nevrotiche.

Altro aspetto che rende difficile fare diagnosi sono i cosiddetti Bipolari mascherati ovvero tutti quei casi che rappresentano il 50% dei casi di esordio in cui non sono presenti aspetti maniacali o ipomaniacali; in contrapposizione e sicuramente non d’aiuto ritornano ad essere i criteri del DSM V nel quale i pattern bipolari DMI (con una depressione ad aprire l’oscillazione) siano trattati come depressione senza far diagnosi di disturbo bipolare.

Infine, relativamente ai farmaci, è stato discusso se e quanto gli stabilizzanti dell’umore siano realmente utili tanto da essere identificati come il trattamento psicofarmacologico d’eccellenza o se dipende piuttosto dalla gravità degli episodi al fine di poter garantire ai nostri pazienti la miglior qualità di vita (riporto volentieri un esempio critico del Dott. Galassi che pone questa domanda ad una paziente 26enne ben compensata: Preferisci ingrassare e non fare sesso ma non aver sbalzi d’umore o preferisci fare la tua vita e quando hai qualche picco ci vediamo e sistemiamo farmacologicamente di volta in volta?).

Altre critiche al DSM V arrivano dalla Dott.ssa Carmassi del gruppo di Pisa riguardo alla distinzione tra spettro bipolare e lo spettro autistico mostrando come nel nuovo manuale non esista più una vera suddivisione tra alcuni specifici disturbi quali la sindrome di Asperger che viene inclusa nei disturbi dello spettro autistico.

Il prof. Pallanti ha invece portato al convegno l’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica (TMS) nei casi di depressione moderatamente resistente; si tratta di una metodologia innovativa riconosciuta dalla food and drug administration ed è possibile studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello, provocando uno squilibrio piuttosto ridotto e transitorio a differenza dell’elettroshock classicamente usato nei casi di depressione resistente.

La TMS, per mezzo di campi magnetici, agisce sul cervello in modo non invasivo, inducendo una corrente a livello del tessuto neuronale e causando una depolarizzazione. Lo staging rappresenta invece una metodica di intervento che prende in considerazione non solo e non tanto le fasi acute ma valuta attentamente gli interventi da eseguire sia nelle fasi prodromiche che in quelle successive alla fase acuta.

 

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Be trusting, be healthy

Sono numerosi gli studi e le teorie che nel corso degli anni hanno cercato (e trovato) collegamenti tra particolari tratti della personalità o caratteristiche caratteriali e il rischio di sviluppare specifici problemi psicologici e medici.

A partire degli anni ’50 si è a lungo parlato della correlazione tra le problematiche cardiovascolari (come infarto e ictus) e la personalità di Tipo A, caratterizzata da agonismo, tensione, lotta continua per raggiungere i propri obiettivi, tendenza a dominare e soprattutto ostilità che emerge soprattutto quando il desiderio di controllo totale viene frustrato andando incontro alle situazioni della vita reale, inevitabilmente incontrollabili. Chiamata anche “personalità coronarica” per le ricadute mediche a cui espone e “personalità del manager”, per capirci.

Un recente studio pubblicato online su Neurology ha analizzato la correlazione tra la sfiducia/cinismo in tarda età e l’incidenza di demenza e mortalità. La ricerca si colloca all’interno di un’ampia raccolta di dati che si è sviluppata in Finlandia a partire dal 1998 dal nome “Cardiovascular Risk Factors, Aging and Dementia Study” (CAIDE) e che ha coinvolto 2000 persone all’inizio dello studio in età avanzata (con in media 71 anni). Il CAIDE ha definito una serie di fattori che secondo la letteratura aumentano il rischio di demenza e ha seguito per 20 anni i partecipanti per registrare l’andamento longitudinale della loro salute e del loro stile di vita con riferimento a questi fattori.

Nello specifico, lo studio più ristretto con a capo la Dr.ssa Tolppanen ha analizzato la relazione tra la sfiducia cinica e la demenza in 622 soggetti (di cui 46 con diagnosi di demenza secondo i criteri DSM-IV) e la relazione tra sfiducia e mortalità in 1146 persone (di cui 361 decedute).

I partecipanti hanno compilato un questionario che indagava la fiducia nel genere umano come costrutto generale e non rispetto a specifiche persone, con domande come “è più sicuro non fidarsi di nessuno” e “penso che la maggior parte delle persone mentirebbe per i propri interessi”. Sulla base delle risposte fornite i partecipanti sono stati poi categorizzati come a bassa, media e alta fiducia.

Inoltre, all’avvio dello studio e 8 anni dopo i partecipanti hanno compilato un test per valutare il livello di demenza.

Prendendo in considerazione anche altri fattori sia medici che socioeconomici come la pressione sanguigna e la familiarità, i risultati hanno mostrato che le persone ad alto livello di cinismo avevano tre volte più probabilità di sviluppare demenza rispetto alle persone con basso livello di cinismo.

Rispetto agli eventi di morte, invece, una volta inseriti nelle analisi le caratteristiche mediche e socioeconomiche, il collegamento tra cinismo e morte non è risultato significativo.

Ovviamente, non si può parlare di relazione causale, quindi non si può neanche pensare che “insegnando la fiducia” si possano tutelare le persone dal rischio di sviluppare demenza o malattie degenerative.

Una spiegazione proposta dall’autrice presuppone che le persone più ciniche e meno pronte a fidarsi degli altri arrivino come conseguenza a intrattenere meno rapporti sociali, e che questa ridotta socialità possa aumentare il rischio di demenza a causa di una deprivazione sociale e di minori stimoli ambientali.

Vicino a questa ipotesi che vede le caratteristiche di personalità facilitare o al contrario disincentivare attività positive per la salute fisica e psicologica, un’altra ipotesi tutta da testare ma che si sta facendo strada anche grazie ai nuovi metodi di indagine neurologica e funzionale lega le caratteristiche psicologiche direttamente alle malattie, secondo un processo bottom-up che a partire all’ambiente esterno (e dalle reazioni che questo suscita in noi) facilita determinati cambiamenti a livello neuronale e fisico. In un certo senso, dal software all’hardware.

In definitiva, nonostante sia fondamentale raccogliere ulteriori dati a riguardo e ampliare la rosa delle variabili analizzate, questo studio sottolinea l’importanza di tenere in considerazione anche i fattori psicologici e la personalità, oltre allo stile di vita più o meno sano (rispetto all’alimentazione, al sonno, etc.), come predittori di disturbi neurologici e fisici che possono compromettere davvero molto la vita delle persone e dei caregiver.

 

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Dalla genetica all’autismo in età adulta: report dal convegno Autismi- Rimini, 14 e 15 novembre 2014- II parte

SESSIONE PLENARIA DEL SABATO

Il 14 e 15 novembre si è tenuto a Rimini il convegno Autismi, nel quale sono state affrontate tematiche quali le novità dalla ricerca scientifica nel campo dell’autismo, i percorsi di formazione specifica per i vari operatori e le proposte operative per scuole e servizi. 

La seconda giornata è aperta da Fred Volkmar, Neuropsichiatra e Professore alla Yale University, che esordisce con un racconto che vede protagonista un suo paziente per farci riflettere sulle possibilità di miglioramento di molti ragazzi autistici grazie alla diagnosi ed al trattamento precoci. Presenta poi i contenuti del suo ultimo libro edito da Erickson dal titolo La diagnosi di autismo da Kanner al DSM-5, dai primi approcci diagnostici, allo sviluppo della ricerca, all’evolversi dei metodi di trattamento fino agli interventi utili a favorire un buon percorso scolastico ed un adeguato inserimento lavorativo. Fortunatamente i dati raccolti evidenziano un progressivo aumento di autistici con un buon livello di adattamento e indipendenza.

E’ il turno di Chiara Picinelli, una giovane e appassionata Biologa che ci offre una panoramica degli studi genetici più attuali riguardo all’autismo. Genetica, ambiente e genere sessuale sono i tre fattori coinvolti secondo diversi pattern nell’espressione fenotipica dell’autismo. Questa condizione neurobiologica è infatti esito di un’anomalia genetica semplice solo nel 20% dei casi.

Tra le possibili cause prenatali le ultime ricerche ipotizzano il ruolo delll’età dei padri. Risulta cioè un dato significativo l’età della paternità dei papà ma anche quella dei nonni, allargando l’attenzione quindi alla dimensione trigenerazionale. In epoca postnatale il fenotipo è modificabile dall’ambiente solo in presenza di anomalie neuroanatomiche. La dott.ssa Picinelli accenna al tanto discusso legame tra vaccini ed autismo ribadendo ciò che è da tempo ormai noto in ambito scientifico: non esiste ad oggi alcuna ricerca che abbia evidenziato una correlazione tra i due fattori.

Davanti ad una platea più o meno scandalizzata, il Prof. Ianes intervista Giorgia Würth, autrice del libro L’accarezzatrice. La scrittrice si è avvicinata al tema della sessualità dei disabili in Svizzera, laddove la figura dell’assistente sessuale è una figura professionale riconosciuta che interviene a supporto di disabili che, pur desiderandolo, non hanno le capacità motorie o mentali per soddisfare, nemmeno da soli, i propri desideri sessuali. In Italia l’argomento è ancora trattato come un tabù e temo che così sarà ancora per molto tempo.

Giovanni Valeri, Neuropsichiatra presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, ci offre una veloce panoramica dei trattamenti rivolti alla popolazione autistica, specificando che non esiste un trattamento evidence-based che curi l’autismo ma molti trattamenti si sono dimostrati utili nel produrre miglioramenti in diverse aree dello sviluppo, soprattutto se si tratta di interventi precoci e intensivi ( 25 ore a settimana di occasioni di apprendimento sotto gli 8 anni).

La vera sfida per i professionisti sarà pensare a interventi in grado di puntare direttamente alla cognizione sociale, il cui anomalo sviluppo costituisce il cuore della sintomatologia autistica.

Donata Vivanti, Vice-Presidente vicaria della Federazione Italiana Superamento Handicap (FISH) e madre di due ragazzi autistici, chiude il convegno denunciando una scarsa attenzione al benessere degli adulti in condizione autistica, parlando di servizi, diritti e forme di tutela. 

Un convegno decisamente ricco di contenuti rivolto ad una platea di 900 persone.

Un altro passo avanti nella diffusione di buone informazioni riguardo una condizione neurobiologica che interessa una popolazione sempre più ampia.

 

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La personalità e i suoi disturbi di Lingiardi e Gazzillo (2014) – Recensione

Un libro completo fatto per chi desiderare esplorare il campo della personalità sotto ogni punto di vista.

“La personalità e i suoi disturbi” di Vittorio Lingiardi e Francesco Gazzillo (2014) appena pubblicato da Raffello Cortina Editore è un libro di testo pensato per gli studenti delle facoltà di Psicologia e delle scuole di specializzazione in Psicologia Clinica e Psicoterapia. Un libro completo fatto per chi desiderare esplorare il campo della personalità sotto ogni punto di vista. Un libro articolato in tre parti, ognuna dedicata a una tema specifico.

Nella prima parte i concetti di personalità, carattere e temperamento sono trattati nei termini dei maggiori paradigmi psicologici, dalla psicoanalisi alle neuroscienze passando per le scienze cognitive, sistemiche e le teorie umanistiche.

Dopo le grandi teorie, anche i dati empirici sono passati in rassegna, con le ricerche sul ruolo del trauma e dell’ambiente, sull’influenza della relazione di attaccamento sugli stati dissociativi, sulle funzioni metacognitive e di mentalizzazione sulla regolazione emotiva.

Dopo questo salto nella contemporaneità gli autori tornano su un tema più antico, i meccanismi di difesa, però attualizzandolo. Seguono alcuni capitoli più specialistici sull’identità e la disforia di genere, gli strumenti di valutazione, la tecnica del colloquio e infine i sistemi di classificazione nosografica.  

Nella seconda parte si passa a considerare la personalità patologica. Dapprima si elencano le principali teorie cliniche e si analizza come ognuna di queste concepisce il rapporto tra personalità sana e patologica. Di nuovo si assiste alla processione dei principali paradigmi: psicodinamico, cognitivo, sistemico e umanistico, fino ad arrivare ai moderni teorici della personalità borderline: Fonagy, Kernberg, Linehan e Paris. Si passa poi alle diagnosi di disturbo di personalità e poi alle terapie, descritte nei loro aspetti teorici e tecnici.

La seconda parte si appresta a concludersi tratteggiando i nuovi concetti di relazione e alleanza terapeutiche nel loro rapporto con la personalità e infine termina con l’influenza dei fattori sociali e culturali sui disturbi di personalità.

La terza parte, infine, esamina le diagnosi psichiatriche non appartenenti all’area dei disturbi di personalità: psicosi, ansia, depressione e altri. Si tratta di disturbi emotivi e psichici che, pur non concepiti come legati alla personalità e alle sue deviazioni, in qualche modo implicano un tratto caratteriale. In qualche modo, pensano gli autori, esistono delle componenti  temperamentali in un paziente ansioso o depresso.

Il libro termina con una nota un po’ più leggera: un capitolo sul cinema e su come i vari topi caratteriali sono rappresentati sullo schermo. Intrattenimento, ma anche cultura.

 

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Recensione di “La confusione è precisa in amore” di Vittorio Lingiardi

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Lingiardi, V., & Gazzillo, F. (2014). La personalità e i suoi disturbi. Valutazione clinica e diagnosi al servizio del trattamento. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE

Elsevier Presenta un Report sullo Stato della Ricerca Neuroscientifica Mondiale

Anche se il 70% della ricerca nel campo delle neuroscienze avviene in USA e Europa, la Cina è il paese più produttivo per il settore e quello in cui le neuroscienze sono in maggiore crescita.

Washington DC, 14 novembre, 2014 – Con una persona su quattro al mondo che soffre di disordini neurologici e del cervello, Elsevier, casa editrice internazionale, leader nel settore dei servizi e dei prodotti d’informazione scientifica, tecnica e medica, ha annunciato il lancio di un report globale rivoluzionario sullo stato della ricerca neurologica: Brain Science: Mapping the Landscape of Brain and Neuroscience Research.

Lo studio è stato condotto da Elsevier, con il contributo della Commissione Europea, della Federazione delle Società Europee di Neuroscienze (FENS), del Progetto Cervello Umano (HBP), della Fondazione Kavli e dell’ Istituto RIKEN per le Scienze del Cervello (BSI). Lo studio è finalizzato ad individuare di dati di riferimento sullo stato attuale della ricerca neurologica globale, allo scopo di fornire spunti sulle priorità future di ricerca e di finanziamento.

Lo studio si basa sui quasi 2 milioni di articoli scientifici sulle neuroscienze archiviati in Scopus e pubblicati tra il 2009 e il 2013 e incorpora gli abstract degli studi finanziati dagli Istituti Nazionali di Sanità (NIH) e dal Settimo Programma Quadro della Commissione Europea per la Ricerca e lo Sviluppo Tecnologico (FP7) per lo stesso lasso di tempo.

Le scoperte più importanti presentate dal report includono:

  • Produttività della ricerca: nel periodo in considerazione, sono stati prodotti 1,79 milioni di articoli nel campo delle neuroscienze, vale a dire il 16% della produzione scientifica mondiale. Complessivamente, nel 2013, i ricercatori europei e statunitensi hanno prodotto più del 70% della ricerca neuroscientifica mondiale. In termini di volumi di pubblicazione, USA, UK, Cina, Germania e Giappone si sono classificati nella top-five dei paesi più prolifici nel settore. La crescita maggiore è stata però sperimentata dalla Cina, sia in termini di ricerca prodotta, sia in termini del numero di articoli sul totale mondiale, rispettivamente l’11,6% e il 7,5%.
  • Impatto della ricerca: nel 2013 la misura ponderata dell’impatto delle citazioni per il settore di riferimento (FWCI) è stata 1,14. Ciò vuole significare che tali articoli sono stati citati il 14% in più della media di tutte le aree tematiche.
  • Collaborazione: l’impatto delle citazioni (FWCI) degli articoli statunitensi elaborati in collaborazione con autori internazionali è stato maggiore del 56% rispetto all’impatto prodotto da articoli collaborativi pubblicati da autori provenienti da singole istituzioni.
  • Mobilità interdisciplinare: circa il 60% dei ricercatori nelle neuroscienze ha prodotto pubblicazioni anche in altre discipline, tra cui: anatomia, scienze cognitive, informatica, psicologia e etica. Il 16% dei suddetti scienziati, inoltre, è rimasto attivo su tali discipline alternative per più di due anni.
  • Tendenze emergenti: confrontando i temi più popolari (c.d. top concepts) e quelli rapidamente in ascesa (c.d. burst concepts) è emerso che i secondi riguardavano principalmente questioni metodologiche, mentre i primi affrontavano temi come le malattie mentali e lo sviluppo di farmaci.
  • Analisi dei finanziamenti: se le ricerche finanziate dall’Istituto di Sanità (NIH) statunitense hanno riguardato principalmente l’impatto delle metanfetamine, della cannabis e della nicotina, quelle sovvenzionate dalla Commissione Europea hanno riguardato soprattutto l’uso dei farmaci antipsicotici nel trattamento della schizofrenia.

I risultati prodotti si basano su analisi bibliometriche tradizionali e sulle misure della mobilità e della collaborazione tra gli scienziati. In aggiunta, il report fornisce alcuni spunti di riflessione provenienti da interviste con eminenti esperti della ricerca neuroscientifica, tra cui Monica Di Luca, FENS; Susumu Tonegawa, BSI e Richard Frackowiak, HBP.

Sono tempi particolarmente entusiasmanti per le neuroscienze” ha detto Nick Fowler, Managing Director Research Management per Elsevier. “Con le nuove tecnologie disponibili per comprendere i circuiti cerebrali funzionali, le nuove e rilevanti opportunità di finanziamento presenti in tutti i paesi del mondo e la sempre maggiore influenza e interconnessione tre le discipline, le neuroscienze sono pronte per affrontare una grande sfida: comprendere le funzioni e le disfunzioni del cervello umano. Con questo report siamo lieti di fornire nuovi spunti che arricchiscano il dibattito in questo importante campo scientifico.

Il report e le sue principali scoperte sono stati presentati dai membri delle Global Academic Relations di Elsevier e dal team Analytical Services alla Society for Neuroscience 2014 Conference, il 15 novembre a Washington DC. Il team di Elsevier è stato affiancato da un panel di illustri esperti delle neuroscienze, provenienti da Stati Uniti, Unione Europea e Giappone, per condividere opinioni sullo stato corrente e sulle più nuove tendenze della ricerca neurologica globale.

 

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Tra diagnosi e interventi intensivi precoci: report dal convegno Autismi- Rimini, 14 e 15 novembre 2014- I parte

SESSIONE PLENARIA DEL VENERDI’

Il 14 e 15 novembre si è tenuto a Rimini il convegno Autismi, nel quale sono state affrontate tematiche quali le novità dalla ricerca scientifica nel campo dell’autismo, i percorsi di formazione specifica per i vari operatori e le proposte operative per scuole e servizi. 

La plenaria di venerdì si apre con il contributo di Selene Colombo, autrice, regista e produttrice di Ocho pasos Adelante, un documentario che racconta la storia di 5 bambini argentini autistici, attraverso le parole dei familiari e la ripresa di vari momenti del percorso terapeutico che li coinvolge. Il film ha lo scopo principale di sensibilizzare le famiglie, i pediatri e gli educatori di nido, circa l’importanza di una diagnosi precoce, resa possibile da semplicissimi questionari di screening, come la M-CHAT, rivolti a bambini di soli 18 mesi. Scena madre del documentario è infatti quella in cui soggetto della checklist è una bambina neurotipica di un anno e mezzo per sottolineare ulteriormente quanto già a questa età i profili di sviluppo si differenzino a tal punto da rendere possibile effettuare una diagnosi di autismo.

Il Professor Zappella, direttore scientifico della rivista Autismo e disturbi dello sviluppo, introduce un secondo contributo in merito a valutazione e diagnosi, sottolineando l’importanza di un approccio dinamico che segua il percorso di crescita dei bambini e la necessità di offrire un contesto di valutazione facilitante poiché gli autistici hanno un’enorme sensibilità nei confronto dell’ambiente. I test diagnostici peccano a suo parere proprio di eccessiva staticità e possono delineare profili poco attendibili. In linea con queste premesse anche i video del bambino effettuati dai genitori assumono un ruolo centrale nel percorso di valutazione e diagnosi. Anomalie nel funzionamento del SNC sono infatti già ipotizzabili osservando i movimenti degli arti di neonati (general movements).

Lucio Cottini, Presidente della Società Italiana di Pedagogia Speciale, organizza il suo discorso intorno a 4 concetti chiave fondamentali per una scuola inclusiva: programmazione, organizzazione, didattica speciale e compagni di classe.

In primo luogo ogni alunno autistico merita una programmazione educativa che sia orientata all’inclusione e sia in linea con il percorso valutativo e riabilitativo del minore. La rigidità organizzativa della scuola ostacola spesso la qualità dell’apprendimento di un alunno autistico. Sarebbe utile non solo prevedere un adattamento del materiale didattico secondo le specifiche esigenze ma anche un’organizzazione dell’ambiente fisico della classe che preveda lo spazio per il lavoro individuale e quello per le attività nel piccolo gruppo.

Ad oggi sono moltissime le risorse della didattica speciale a cui attingere. Supporti come il video modeling si stanno dimostrando utili nel facilitare l’apprendimento. La scuola dovrebbe mostrarsi più flessibile nell’accogliere nuovi strumenti educativi.

Infine, affinché i compagni di classe siano effettiva risorsa, gli insegnanti devono impegnarsi per garantire un clima positivo e non competitivo, promuovere un insegnamento cooperativo che preveda anche momenti di tutoring tra pari.

Marco Bertelli, Psichiatra e Direttore Scientifico del CREA (Centro Ricerca E Ambulatori), ci illustra il problema della diagnosi differenziale tra autismo e disabilità intellettiva. Quest’ultima andrebbe considerata come un raggruppamento metasindromico e l’autismo come una condizione con disfunzioni cognitive specifiche. Ne deriva la necessità di rivedere il concetto di QI come criterio diagnostico per puntare a valutazioni quanto più possibile mirate alle diverse abilità cognitive. Ad oggi gli strumenti diagnostici risultano carenti proprio in questo.

L’importanza di valutazioni più mirate è dettata anche dal fatto che le debolezze cognitive determinano una specifica vulnerabilità psicopatologica. L’autismo per esempio è a rischio maggiore rispetto alla popolazione neurotipica per depressione, mania, e disturbi alimentari.

Un’accurata caratterizzazione del soggetto può quindi costituire un fattore protettivo e può altresì permettere di individuare punti di forza e ambiti di soddisfazione personale nell’ottica di una promozione globale del benessere della persona.

La parola passa poi a Filippo Muratori, Ricercatore presso l’IRCCS Fondazione Stella Maris, che dedica il suo intervento all’importanza di una diagnosi precoce, dal momento che l’espressione comportamentale che conduce spesso un bambino all’osservazione neuropsichiatrica emerge a seguito di una condizione neurobiologica preesistente. Saper individuare quanto prima gli indizi di uno sviluppo atipico permetterebbe un intervento così precoce da sfruttare al meglio la plasticità neuronale che caratterizza un cervello nei primi anni di crescita.

Anche prima dei 18 mesi è infatti possibile ricavare dati significativi osservando il pianto, la motricità e lo stile di interazione. Raggiunto il traguardo dell’anno e mezzo è obbligo sanitario saper riconoscere bambini con possibile DSA. Strumenti di screening come il questionario M-Chat, a cui si è gia accennato, unitamente ad accurati colloqui con i genitori, dovrebbero essere più che sufficienti a garantire questo scopo. I trattamenti che si mostrano più efficaci sono infatti quelli precoci, unitamente all’inclusione in classi regolari ed al coinvolgimento attivo della famiglia nel percorso terapeutico. Chiude l’intervento denunciando percorsi troppo lunghi e tortuosi dal momento della diagnosi all’accesso ad un percorso terapeutico, ritardando così l’età di presa in carico.

Giacomo Vivanti, Psicologo e Ricercatore alla Trobe University, ci parla di Autismo come un disturbo dell’apprendimento sociale e ci mostra con orgoglio il risultato di anni di ricerche in questo campo.

Le difficoltà dei bambini autistici ad apprendere non dipendono solo da ragioni motivazionali ma soprattutto da un modo diverso di elaborare e quindi interagire con la realtà. Per esempio a loro manca la propensione ad imitare spontaneamente quello che fanno gli altri. Il ricercatore ne offre una spiegazione mostrandoci, grazie all’eye-tracking, i diversi percorsi dello sguardo di un bambino autistico rispetto a quelli di un neurotipico. Mentre quest’ultimo segue naturalmente lo sguardo altrui, un autistico tende a dirigere la propria attenzione visiva verso elementi meno salienti del contesto. Segue anche un breve video di un momento di terapia che lo vede coinvolto con una bimba secondo il modello dell’ESDM (Early Start Denver Model).

Chiude la mattinata di convegno Gianluca Nicoletti, giornalista e padre di Tommy, un ragazzo autistico che denuncia la difficoltà di rendere tutto ciò di cui si è parlato fino ad ora significativo in termini di efficienza istituzionale.

 

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Fantasie sessuali: quali sono le più diffuse?

FLASH NEWS

I risultati indicano che le fantasie sessuali della popolazione generale sono molteplici, cioè poche fantasie possono essere considerate statisticamente rare, insolite, o atipiche.

Parlando di fantasie sessuali è difficile definire cosa è normale e cosa no. E anche in ambito psicodiagnostico non c’è chiarezza su cosa siano le fantasie “atipiche” che caratterizzano le parafilie, cioè pulsioni erotiche connotate da fantasie o impulsi intensi e ricorrenti che coinvolgono un partner non consenziente, inducono dolore, o che sono assolutamente necessarie per il raggiungimento della soddisfazione sessuale.

La quinta edizione del DSM-5 parla di fantasie “anomale”, mentre L’Organizzazione Mondiale della Sanità le definisce “insolite”. Ma esattamente cosa è una fantasia sessuale insolita? Questo è quanto ha cercato di definire uno studio pubblicato in questi giorni sul Journal of Sexual Medicine.

Per scoprirlo i ricercatori canadesi hanno condotto un’indagine all’interno della popolazione generale con l’obbiettivo di specificare cosa è “la norma” in ambito di fantasie sessuali, un passo essenziale, secondo loro, nella definizione di ciò che è patologico.

Dal momento che la maggior parte degli studi sulle fantasie sessuali sono stati condotto sugli studenti universitari, i ricercatori hanno deciso, questa volta, di concentrarsi sugli adulti. Il campione composto da 1.517 adulti (799 uomini e 718 donne, età media 30 anni) ha risposto a un questionario che permettesse di descrivere dettagliatamente le loro fantasie sessuali, e la loro fantasia preferita.

I risultati indicano che le fantasie sessuali della popolazione generale sono molteplici, cioè poche fantasie possono essere considerate statisticamente rare, insolite, o tipiche.

Tuttavia, lo studio conferma che gli uomini hanno più fantasie e le descrivono in modo più vivido rispetto alle donne. Lo studio ci dice anche che una percentuale significativa di donne (dal 30% al 60%) evoca temi connessi con la sottomissione (ad esempio, essere legate, sculacciate, costrette ad avere rapporti sessuali). Nelle donne, inoltre, a differenza che negli uomini, si è riscontrata una netta differenza tra fantasia e desiderio; cioè molte donne che esprimono fantasie estreme di sottomissione (ad esempio essere sopraffatte da uno sconosciuto) non desiderano assolutamente che queste fantasie si avverino.

Alla maggior parte degli uomini, invece, piacerebbe che le fantasie si trasformassero in realtà (ad esempio il sesso a tre). Come atteso poi, la presenza di un altro significativo è considerevolmente più forte nelle fantasie femminili che nelle fantasie maschili. In generale, infatti gli uomini, anche se in coppia, fantasticano molto di più su relazioni extraconiugali rispetto alle donne.

Uno dei risultati più interessanti ha a che fare con il numero significativo di fantasie sessuali presenti solo negli uomini, per esempio, fare sesso con un transessuale, il sesso anale eterosessuale, e il guardare la propria partner fare sesso con un altro uomo.

I ricercatori stanno attualmente conducendo analisi statistiche con gli stessi dati per dimostrare l’esistenza di sottogruppi omogenei di individui sulla base di combinazioni di fantasie. Ad esempio, le persone che hanno fantasie di sottomissione spesso riportano fantasie di dominazione. Questi due temi non si escludono a vicenda, al contrario, appaiono come due facce della stessa medaglia.

 

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RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO UN ARTICOLO DEL PORTALE EDARLING

 

Errori e frottole dei profili online:

  • Un recente studio rivela a cosa fare attenzione quando completiamo il nostro profilo online.
  • Per prima cosa controlliamo l’età dei nostri contatti. Foto modificate e allusioni sessuali sono gli errori più comuni sui social network.
  • Secondo la Psicologia mentire sui siti di dating ed esagerare i propri dati è inutile e controproducente.

Sui social e sui siti di incontri si mente per mostrare il lato migliore di sé. Si mente con tutte le buone intenzioni ma spesso non funziona e si viene smascherati. eDarling ha stilato le statistiche più interessanti riguardo gli errori e le bugie dei nostri profili online, grazie alle risposte di 332 intervistati (50% uomini/50% donne, tra i 18 e i 65 anni).

Tutti abbiamo almeno un profilo su un social network e i single probabilmente ne hanno uno anche su un sito di incontri. Ogni volta che riceviamo un nuovo contatto per prima cosa ci soffermiamo a leggere le informazioni personali contenute sul profilo. Perché? Per capire chi sono, a cosa si interessano, come si descrivono o come vogliono mostrarsi agli altri. Vi siete mai chiesti su cosa si concentrano maggiormente i vostri contatti leggendo il vostro profilo?

Anche online le bugie hanno le gambe corte_Profilo online_Graf1

 

Cosa ne pensi di un profilo senza foto? Per il 59% degli intervistati non è interessante e comunque non lo accetterebbe tra i suoi contatti. Senza foto è difficile connettersi con gli altri poiché, non potendo visualizzare volto ed espressioni facciali, non riusciamo a farci un’idea della loro personalità. L’immagine del profilo è una parte integrante dei nostri biglietti da visita virtuali ossia i social network per amicizia, per incontri sentimentali, per lavoro, i blog e i forum. Le foto sono ciò che guardiamo subito di un profilo, per questo devono rispondere allo scopo e alle intenzioni sulla pagina. Volete sapere quali sono le peggiori?

 Anche online le bugie hanno le gambe corte_Profilo online_Graf2

Un’altra questione spinosa riguarda le affermazioni e gli errori che troviamo nelle informazioni personali dei nostri contatti. Se per un colloquio di lavoro oppure durante un appuntamento romantico ci presentiamo facendo attenzione a ciò che diciamo e a come ci esprimiamo, perché non dovremmo farlo per il nostro profilo? Qual è la vostra reazione quando vi capita di dubitare della veridicità di alcune affermazioni o di inorridire di fronte agli spropositi grammaticali di un contatto? Normalmente i profili ambigui, superficiali e trascurati vengono ignorati. Ecco ciò che proprio non ci piacere leggere sui profili dei nostri contatti:

Anche online le bugie hanno le gambe corte_Profilo online_Graf3

 

Ci sono poi tutta una serie di dati che tendiamo a esagerare, abbellire o falsare. Secondo più del 50% degli intervistati lo scopo è di mostrare la parte migliore di noi, ma ciò di solito avviene impulsivamente sia su un profilo online sia nella vita offline di tutti i giorni. Per il 45% dei rispondenti invece lo facciamo per poca autostima o per paura di non apparire abbastanza interessanti e affascinanti. Su cosa mentiamo maggiormente nei nostri profili online? Scopritelo in questo grafico:

Anche online le bugie hanno le gambe corte_Profilo online_Graf4

 

Per quale motivo mentiamo online? Secondo il 56% degli intervistati, internet ci aiuta a sentirci più liberi e ci offre la possibilità di mostrare la nostra parte migliore. Sul web possiamo parlare di noi senza impedimenti e ciò è percepito come un’opportunità per descriverci nel miglior modo possibile.

 

Eppur mentiamo! Ciò è particolarmente controproducente per chi è iscritto su un sito di incontri visto che le informazioni sul profilo permettono il primo contatto tra due persone.

Recentemente si è molto parlato del dating online e delle disavventure di chi dal vivo non ha incontrato la stessa persona che sul sito si presentava e descriveva in maniera differente.

 La psicologa e coach relazione Sam Owen ci ha detto al riguardo:

Nel dating online rimaniamo fortemente delusi se scopriamo le menzogne delle persone con le quali entriamo in contatto poiché investiamo tempo, energie e speranze durante la conoscenza. Ci si aspetta infatti che i profili parlino veramente della persona che c’è dietro poiché lo scopo principale è la ricerca di una relazione sentimentale. Se i membri di un sito di incontri si descrivessero onestamente, lasciando che gli altri si facciano un’idea chiara e reale della loro personalità, avrebbero sicuramente maggiori possibilità di trovare ciò che cercano. La prima impressione di un profilo online è quella che conta, meglio fare in modo che gli altri abbiano il piacere di conoscerci per ciò che siamo e avremo maggiori possibilità di incontrare le persone giuste!

Alla luce di queste considerazioni in campo comportamentale e relazionale forse è proprio il caso di dirlo: anche online le bugie hanno le gambe corte!

FONTE:  http://www.edarling.it/

 

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Disturbo da Alimentazione Incontrollata: La Storia di Carmela

Carmela è una persona con Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Era una bambina paffuta. Veniva consolata, premiata e viziata con il cibo. Oggi per lei questa è una sensazione familiare. Mangia per la rabbia, per la tristezza o per la noia, senza sentirsi affamata.

Carmela non conosce la sensazione di sentirsi piena. Carmela è grassa e indifesa. Soprattutto le persone che le sono più vicine non lo vedono. È la collega più servizievole, l’amica paziente, la madre che si sacrifica. Generalmente è molto apprezzata.

Nella sua vita personale ha un trattamento iniquo – ma non quando mangia, e questo ha delle conseguenze. Soprattutto di sera, quando è sola, il frigorifero la invita. Anche se ha tempo, mangia in fretta e spesso direttamente nell’incarto. Distoglie semplicemente lo sguardo! In seguito si sente sempre di più e sempre più spesso nauseata e viene assalita dai rimproveri. Inizia ad avere la coscienza sporca, perché in fondo Carmela è consapevole della sua responsabilità. Cerca senza successo una risposta che le spieghi perché si lasci andare così, pur essendo consapevole delle conseguenze. Spesso si sente come se qualcun altro la stesse controllando, qualcuno che la terrorizza.

Dopo numerosi tentativi di dieta ha gettato la spugna. A volte ha funzionato, quando Carmela riusciva davvero a tenersi “sotto controllo”. E per quanto tempo? Mesi di disciplina per avere per due settimane il peso dei suoi sogni? Carmela ha rinunciato a cercare di nascondere il suo corpo sotto i vestiti. Tanto tutto sembra una tenda. E se qualcuno la ama, allora dovrebbe accettarla per quello che è. Ma ultimamente non c’è niente da segnalare in questo campo.

Una donna “corazzata” spaventa anche il più forte degli uomini, e oltretutto c’è questo maledetto ideale di bellezza. Carmela oscilla tra il disprezzo e la tristezza, la rabbia e l’impotenza. Carmela sente sempre più il bisogno di fare qualcosa per se stessa. Il suo medico le conferma che è in sovrappeso e le consiglia di chiedere qualche consiglio sull’alimentazione. Lei esita, sa già tutto. Sul giornale trova la pubblicità di una clinica per i disturbi alimentari. Tenterà la sorte? Cosa ha da perdere?

Durante l’incontro di consulenza, le risulta evidente quanto la sua speranza in una soluzione veloce e senza problemi sia utopistica. Tuttavia si sente compresa e inizia a affrontare alcune cose. L’idea di riconoscere la funzione compensatoria del cibo, di sviluppare una nuova relazione con esso e il rischio si modificano passo dopo passo… Carmela è piena di dubbi, come le altre donne nel suo gruppo di auto-aiuto.

Solo dopo alcune settimane impara davvero a essere più paziente con se stessa e a abbandonare il suo precedente motto – Meglio un’infelicità conosciuta che una felicità sconosciuta. Accarezza l’idea di richiedere anche un aiuto terapeutico o di trovare un posto in una clinica. Nel centro di consulenza Carmela riceve anche le informazioni più aggiornate sul trattamento del Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Lì viene indirizzata nella giusta direzione rispetto ai tipi di sport che sono adatti a lei. Esercizio fisico – Mente – Alimentazione – Carmela ora si prenderà cura di queste tre aree. Si prenderà il suo tempo perché aggiustare il suo stile di vita è un obiettivo sia eccitante che stressante.

 

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Interazioni disorganizzate e sintomi clinici nella media infanzia

 

L’analisi dei child-reports e dei parent-reports di bambini classificati come disorganizzati ha confermato che l’attaccamento disorganizzato è associato a sintomi clinicamente significativi di depressione, di fobia sociale e di problemi di pensiero e di attenzione.

Non c’è epoca nella vita che non sia segnata da relazioni di attaccamento e da vicende di separazione, più o meno felicemente elaborate, che contribuiscono a costruire nell’ individuo il senso di possedere fiducia in se stesso e una base sicura (Gorrese, 2005).

Il termine attaccamento è stato introdotto in seguito a numerose ricerche sullo sviluppo per riferirsi ad un legame specifico costruito tra madre e bambino. Sin dalle prime teorizzazioni sull’ evoluzione sociale dell’uomo, queste precocissime interazioni sono state oggetto di profonda riflessione per la loro potenza sullo sviluppo e la regolazione di quelle future.

Dal grado di armonica rispondenza tra i sistemi comportamentali di madre e bambino, l’esperienza di attaccamento evolve in condotte che rivelano differenti gradi di sicurezza, ansietà, resistenza, disorganizzazione (Bucolo & Accursio, 2007).

Le connotazioni assai specifiche di questo sistema sono state scoperte anche attraverso il ricorso al paradigma sperimentale della Strange Situation, che ha reso possibile la distinzione di tre stili di attaccamento: sicuro, insicuro-evitante e insicuro-resistente. L’adattamento alla vita futura è stato definito da questo momento in poi segnato dall’ influenza predominante dell’attaccamento insicuro.

È interessante notare come differente attenzione sia stata riservata all’ attaccamento disorganizzato. Questa categoria identificata solo in un secondo momento è affascinante per le sue peculiari tendenze comportamentali. In essa disposizioni di avvicinamento si mescolano a quelle di allontanamento in maniera bizzarra e conflittuale. Si ipotizza una loro comparsa quando comportamenti attivati all’interno dell’infante competono per l’espressione. Il rifiuto di avvicinarsi alla figura primaria si accompagna al dondolio sulle ginocchia e può essere seguita dal pianto o dall’ improvvisa immobilizzazione nel movimento di accostarsi al genitore. Tali tendenze non possono che costituire la testimonianza di una relazione parentale disorientante e contraddittoria.

Tra gli studi interessati ad esplorare un sistema tanto conflittuale, emerge quello dei ricercatori M. J. Crowley, L. C. Mayes, D. H Davis dell’Università di Yale e la ricercatrice Jessica Borrelli dell’Università del Claremont. Questa ricerca ha il pregio di aver spostato il focus attenzionale da altre fasi di sviluppo alla media infanzia, indagandone il legame con i sintomi clinici, poiché proprio in questa fase e nell’ adolescenza si riscontra un aumento ripido dell’incidenza di disturbi psichiatrici.

In precedenza, il pattern disorganizzato era stato associato a problemi d’internalizzazione, di reticenza nelle situazioni sociali e a difficoltà di pensiero e attenzione.

Sulla scorta di questi studi la ricerca ha preso in esame un campione di novantasette bambini di 8-12 anni di ceto medio-basso dell’area circostante New Heaven, ricorrendo a strumenti che hanno analizzato sia i modelli del discorso narrativo delle relazioni di attaccamento, sia la frequenza dei vari comportamenti indagati in più contesti.

Più precisamente, durante la prima sessione, è stata indagata l’esperienza presente e passata dei bambini con i caregivers primari, mentre i genitori hanno completato questionari per la valutazione dei problemi di pensiero e di attenzione e del disturbo depressivo maggiore e della fobia sociale.

Durante la seconda sessione di studio, sono state misurate le caratteristiche comportamentali, cognitivo-emotive e fisiologiche della depressione ed è stata valutata la timidezza, attraverso la compilazione di questionari da parte dei bambini.

L’analisi dei child-reports e dei parent-reports di bambini classificati come disorganizzati ha confermato che l’attaccamento disorganizzato è associato a sintomi clinicamente significativi di depressione, di fobia sociale e di problemi di pensiero e di attenzione.

Tali conclusioni sottolineano la necessità per la ricerca futura di una esplorazione più profonda del legame tra l’attaccamento disorganizzato e i sintomi di psicopatologia, attraverso il ricorso a batterie di valutazione più ampie e estendendo l’indagine anche a svariate popolazioni.

 

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La diagnosi in psichiatria: ripensare il DSM-5 di Allen Frances – Recensione

Il libro pone in evidenza la necessità di un uso corretto e utile della diagnosi e della sua integrazione con gli obiettivi che essa consente di conseguire in termini di conoscenza del paziente e adeguatezza degli interventi intesi a ridurne la quantità/qualità della sofferenza.

Fin dalla sua fase preparatoria il DSM-5 è stato a gran voce criticato da Allen Frances, Coordinatore della task force del DSM-IV. Le critiche mosse dall’autore riguardano l’abbassamento delle soglie diagnostiche e l’aggiunta di nuovi disturbi da lui considerati speculativi e inutilmente medicalizzanti.

Il DSM-5 introduce il concetto di “spettro” che è strettamente legato all’approccio dimensionale che si va a contrapporre all’approccio categoriale che ha caratterizzato il DSM-III e il DSM-IV e che era ritenuto meno adeguato a descrivere la realtà clinica.  Il volume di Frances evidenzia come l’utilità di una diagnosi consiste nella sua capacità di rispondere a requisiti di specificità e generalizzabilità.

L’autore non inserisce all’interno del libro tutti i disturbi mentali presenti nel DSM-5 e la sequenza è differente, è basata sulla frequenza di comparsa dei diversi disturbi in un contesto clinico e sull’interesse diagnostico. Per ciascun disturbo viene inoltre riportato il codice ICD-9-CM e dove possibile anche il codice ICD-10-CM.

Il libro fornisce una descrizione prototipica di ogni diagnosi invece di criteri diagnostici difficili da ricordare e un elenco delle condizioni che devono essere escluse ai fini della diagnosi differenziale. Nella rilettura del DSM-5, Frances, inserisce i “Riquadri di Avvertenza” sui cambiamenti introdotti.

Il DSM-5 ha introdotto i requisiti sintomatologici per la diagnosi di DDAI negli adulti e ha aumentato l’età di esordio richiesta a 12 anni; la diagnosi da disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, per descrivere i bambini soggetti a frequenti scoppi di ira; la nuova categoria diagnostica di disturbo neurocognitivo lieve per identificare le persone con problemi neurocogitivi che al momento non soddisfano i criteri per la diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore; il disturbo da binge-eating.

Ha eliminato la clausola di “esclusione del lutto” che discriminava i sintomi del lutto da quelli del disturbo depressivo maggiore, viene però inclusa una nota che cerca di discriminare tra i sintomi. Ha riunito le categorie precedentemente separate di abuso di sostanze e dipendenza da sostanze, il disturbo da uso di sostanze.

La sezione sui disturbi correlati a sostanze e da addiction include il gioco d’azzardo patologico e introduce il concetto di dipendenza comportamentale.

Infine, a seguire, si trovano alcune linee guida per giungere ad una diagnosi efficace alla base di una buona pratica clinica: la relazione con il paziente deve essere al primo posto, la diagnosi è uno sforzo comune; i giudizi diagnostici devono essere continuamente riesaminati durante tutto il lavoro clinico; la guida nella formulazione della diagnosi e nell’indicazione del trattamento è la valutazione dei costi e dei benefici.   

Il libro pone in evidenza la necessità di un uso corretto e utile della diagnosi e della sua integrazione con gli obiettivi che essa consente di conseguire in termini di conoscenza del paziente e adeguatezza degli interventi intesi a ridurne la quantità/qualità della sofferenza. Si utilizzi pure il DSM-5 per fare una diagnosi facendo precedere un ragionamento diagnostico che ci permetta di non cadere in errore.

 

GUARDA L’INTERVISTA AD ALLEN FRANCES:

Intervista Allen Frances - SLIDE

 

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Primo, non curare chi è normale. Di Allen Frances – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Frances, A. (2014). La diagnosi in psichiatria: ripensare il Dsm-V. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE

Il binge drinking adolescenziale produce danni cerebrali permanenti

FLASH NEWS

Bere alcol ha effetti negativi sullo sviluppo fisico dei percorsi neurali nella corteccia prefrontale, una delle ultime regioni del cervello a maturare.

Il binge drinking in adolescenza può avere effetti duraturi sui circuiti cerebrali che sono ancora in via di sviluppo. A sostenerlo sono i ricercatori della University of Massachusetts Amherst e della Louisiana State University sulla base di uno studio condotto su un modello di bing-drinking adolescenziale effettuato sui roditori: il cervello di ratti adolescenti sembra infatti essere sensibile all’esposizione episodica all’alcol.

Questo è il primo studio a dimostrare che bere alcol ha effetti negativi sullo sviluppo fisico dei percorsi neurali nella corteccia prefrontale, una delle ultime regioni del cervello a maturare.

Negli esseri umani, l’esordio precoce del consumo di alcol è stato collegato a problemi di memoria, impulsività e un aumento del rischio di alcolismo in età adulta. Poichè l’adolescenza è un periodo in cui la corteccia prefrontale matura, è possibile che l’esposizione all’alcol possa alterare il corso dello sviluppo cerebrale.

La corteccia prefrontale è il centro del processo decisionale e regola le emozioni e gli impulsi. In particolare, i ricercatori hanno esplorato il danno fisico alle guaine mieliniche che avvolgono e isolano gli assoni, i “fili” che trasmettono le informazioni da un neurone all’altro. La mielina aumenta la velocità con cui gli impulsi elettrici viaggiano lungo gli assoni, migliorando l’elaborazione delle informazioni e le prestazioni cognitive.

Come gli adolescenti, i topi amano le bevande dolci e sono disposti a impegnarsi per ricevere questo premio premendo una leva in una scatola. Questo approccio ha sostenuto lo sviluppo di un circuito di rinforzo comportamentale e ha generato una quantità elevata di consumo volontario di alcol durante la prima fase dello sviluppo adolescenziale dei ratti. 
I ricercatori hanno esaminato la mielina alla fine del periodo di binge drinking adolescenziale e hanno scoperto che si era ridotta nella corteccia prefrontale.

In un secondo esperimento, hanno esaminato la mielina alcuni mesi più tardi e hanno scoperto che bere alcol ha causato una significativa perdita di materia bianca e danneggiamento della mielina nella corteccia prefrontale del topo adulto. Gli effetti dell’alcol sugli adolescenti erano paragonabili a quanto osservato dopo la dipendenza da alcol in età adulta. Questo dimostra che già nel cervello adolescente può essere accresciuta la sensibilità all’alcol.

I ricercatori sperano che le loro scoperte portino a nuove strategie terapeutiche nel trattamento dell’abuso di alcol e nuovi approcci per le famiglie e i professionisti che lavorano con gli adolescenti. Inoltre, i risultati di questo lavoro, concentrandosi sulla corteccia prefrontale, potrebbero aiutare a capire meglio la funzione della mielina e come deficit di mielina possono contribuire ad altre patologie psichiatriche associate con i danni prefrontali, come l’impulsività, la sindrome di Tourette e la schizofrenia.

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CBT: il risveglio della bella addormentata

Incontro a Padova tra esponenti della psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia

La terapia cognitiva e comportamentale –ovvero la CBT (cognitive behavioural therapy)- in Italia è una bella addormentata. Se ne sta rinchiusa nel suo castello e si accontenta delle sue formidabili mura fortificate, che si chiamano “rigore scientifico”, “provata efficacia clinica”, “successo internazionale” e “modernità”. E dorme. Illudendosi che basti attendere e un principe azzurro verrà a liberarla, consegnandole le chiavi del regno della psicoterapia.

Il principe azzurro, però, appartiene a un’altra favola, quella di Biancaneve, e non comparirà in questo racconto. Sarebbe ora che la CBT si desse una mossa e la smettesse di illudersi che bastino rigore scientifico e provata efficacia per diffondersi nella pratica clinica italiana. Accanto alla Scienza esiste anche la Storia con le sue leggi altrettanto rigorose, seppur meno prevedibili. E tra queste regole c’è quella che dice che i profeti disarmati fanno poca strada. Occorre organizzarsi, porsi degli obiettivi, muoversi.

Per fortuna qualcuno lo sta facendo. Forse un principe azzurro in fondo c’è, deciso a risvegliare la principessa dai suoi sogni. E questo principe potrebbe essere Ezio Sanavio, professore di psicologia a Padova e figura storica dello sviluppo della CBT in Italia. La settimana scorsa Sanavio ha invitato a incontrarsi i direttori di alcune tra le più importanti scuole di specializzazione in CBT. L’incontro è avvenuto a Padova venerdì 14 novembre nell’aula “Cesare Musatti” del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova.

Sanavio desidera compattare le forze del cognitivismo e comportamentismo clinico italiani, movimento che in Italia non ha avuto ancora il pieno successo di cui gode all’estero. La CBT, è, al giorno d’oggi, la psicoterapia che più di ogni altra può aspirare al titolo di cura scientificamente efficace. I suoi meccanismi di azione e la sua capacità di generare benessere in pazienti di vari disturbi psicologici sono stati testati in studi rigorosi (vedi tabella), il cui standard scientifico è paragonabile a quello rispettato per provare scientificamente l’efficacia dei farmaci chimici e gli interventi chirurgici raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Che infatti raccomanda anche la CBT.

 

Protocolli CBT efficaci per disturbi psicologici

Abuso di sostanze Beck, Wright, Newman e Liese (1993)
Accumulo patologico (hoarding) Frost, Krause e Steketee (1996)
Ansia Beck e Emery (1985)
Ansia sociale

 

Clark e Wells (1995); Heimberg (1997); Rapee (1997)
Disturbi alimentari Fairburn (1981); Fairburn, Shafran e Cooper (1999)
Disturbo d’ansia generalizzato Wells (1995); Dugas (1998)
Disturbo d’ansia per la salute Salkovskis (1985)
Disturbo bipolare Basco e Rush (2005)
Disturbo dismorfofobico Veale (2002)
Disturbo ossessivo compulsivo Salkovskis (1985); Rachman (2002)
Disturbi di personalità Beck, Freeman e collaboratori (2003)
Disturbo post-traumatico da stress Ehlers e Clark (2000); Brewin (2001)
Gestione delle crisi Dattilio e Freeman (1994)
Insonnia Harvey (2003)
Problemi di coppia Beck (1988)
Psicosi

 

Beck, Grant, Rector e Stolar, (2008); Chadwick (1998)
Rabbia Beck (1999)
Tic O’Connor (2003)

 

Malgrado questo, oggi la CBT è poco diffusa in Italia. È praticata in studi privati e in alcuni centri specialistici pubblici e privati. La sua presenza nel servizio pubblico è a macchia di leopardo: in alcune zone sporadica, in altre meno. Non esiste un piano generale di diffusione, la sua presenza sul territorio è affidata all’eventuale passione dei singoli operatori. Eppure per alcuni disturbi, come le varie forme di ansia, è il trattamento di elezione, come potrebbe esserlo l’aspirina per alcuni stati infiammatori. Immaginiamo un servizio pubblico che prescrive l’aspirina ina base alle convinzioni dei singoli medici che presidiano un certo territorio. Una situazione intollerabile.

Le colpe non sono solo della scarsa informazione del governo politico, ma anche della poca coordinazione degli esponenti della CBT in Italia. E per questo Sanavio si è mosso, invitando alcuni di questi esponenti a Padova per parlare, confrontarsi e iniziare a disegnare una linea d’azione.

La redazione di State of Mind era presente ufficialmente all’evento, con l’incarico di raccontarlo.

L’incontro prevedeva una serie di relazioni, una libera discussione e una conclusione che convenisse su una qualche preliminare linea d’azione. Per prima ha parlato Antonella Montano del Beck Institute di Roma, che ha difeso una concezione omogenea della CBT come terapia scientifica e pragmatica. Ha aggiunto che in Italia occorre migliorare il contributo originale alla ricerca e alla validazione empirica del modello CBT. La parte più interessante è stata quando la Montano ha raccomandato un forte controllo sull’aderenza dei terapeuti italiani ai protocolli CBT validati, lasciando da parte la tendenza alla personalizzazione creativa dei trattamenti.

Dopo la Montano, Carlo Ricci dell’Istituto Walden di Roma ha difeso gli standard formativi italiani e proposto la costituzione di un’agenzia che garantisca il rispetto degli standard di aderenza. Che gli standard italiani siano elevati e tra i più severi d’Europa grazie alla legge fondante delle scuole di terapia è vero. Al tempo stesso, però, sono carenti nel fornire un percorso di formazione continua che vada al di là degli anni iniziali. Inoltre, è sembrato che la proposta di Ricci di un’agenzia rischi di generare solo nuovi organi e nuova burocrazia.

Lucio Sibilia del Centro per la Ricerca in Psicoterapia ha parlato con franchezza di un altro problema che danneggia la diffusione della CBT in Italia: la frammentazione teorica e clinica che sta iniziando a investire la CBT, anche all’estero. Difficile diffondere un paradigma che sta iniziando a dividersi. Per questo Sibilia proporne la formazione di un vocabolario comune che unisca le differenti correnti. Il rischio però sarebbe la produzione di un tentativo eclettico e poco capace di svilupparsi.

Silvio Lenzi della scuola bolognese di psicoterapia cognitiva a indirizzo costruttivista ed evolutivo è esponente di una delle correnti che si stanno differenziando dal tronco centrale della CBT e quindi ha difeso questo processo di differenziazione come una ricchezza e uno sviluppo. Lenzi inoltre non ha negato il bisogno che anche questa corrente si misuri con la ricerca. Parere forse di parte, ma che ha diritto di parola. Certo, si spera che la differenziazione di sotto-paradigmi non diventi un caotico gioco fine s stesso.

Sandra Sassaroli della Scuola Studi Cognitivi di Milano ha invece difeso la centralità della CBT e dell’aderenza ai protocolli, pur lasciando spazio alla possibilità di integrare sviluppi collaterali costruttivisti ed evolutivi. Sassaroli ha inoltre condiviso con forza la necessità di costruire una associazione che tuteli le scuole cognitivo comportamentali verso le istituzioni.

Paolo Moderato professore di Psicologia Generale presso la Libera Università IULM di Milano e direttore di IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano) ha parlato dei recenti sviluppi di terza ondata come una possibilità di riunificazione e non di frammentazione; questi sviluppi danno attenzione ai processi clinici, sui quali si può trovare un accordo scientifico.

Roberto Anchisi dell’Accademia di Scienze Comportamentali e Cognitive di Parma ha insistito sulla necessità di un trattamento olistico, che non restringa la psicoterapia cognitiva alla cura del sintomo. Antonino Tamburello dell’Istituto Skinner di Roma ha raccomandato la necessità di un’azione concreta.

Infine, Francesco Mancini ha parlato della centralità della ricerca sperimentale come base scientifica della CBT. Nella discussione successiva hanno parlato Maria Grazia Strepparava dell’Università di Milano Bicocca e Paolo Michielin dell’Università di Padova, entrambi invocando azioni concrete. In particolare Michielin ha evocato lo spettro della consunzione che colpisce tutti i movimenti che non riescono a montare sul treno del successo quando passa.

Tra le relazioni emergevano alcune differenze, tra le quali la maggiore era tra chi spingeva per protocolli di cura focalizzati e scientificamente rigorosi e chi invece desiderava una concezione della CBT che sapesse unire aspetti umanistici alla scientificità.

Il risultato più confortante, però, è il desiderio concreto di far nascere una Consulta che raccolga le personalità più influenti della psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia e sappia rappresentare i suoi interessi presso gli organi ministeriali e governativi. La fine della giornata ha visto la costruzione di un piccolo gruppo di partecipanti che si occuperà di costruire il primo statuto della consulta da proporre alla prima riunione che si terrà a Padova i primi di febbraio.

Binge Eating Disorder: Disturbo da Alimentazione Incontrollata – Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è un disturbo alimentare con una causa psicologica (psicogeno), spesso correlato a sovrappeso e obesità.

Caratteristiche del Disturbo da Alimentazione Incontrollata

La differenza essenziale tra il Disturbo da Alimentazione Incontrollata e la Bulimia è la mancanza, nel primo caso, di contromisure dopo le abbuffate: per esempio non ci sono comportamenti di compensazione come l’eccessivo esercizio fisico, il digiuno o il vomito.

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è un disturbo alimentare con una causa psicologica (psicogeno), spesso correlato a sovrappeso e obesità. Questo però non significa che tutte le persone che sono in sovrappeso soffrono di Disturbo da Alimentazione Incontrollata. È altrettanto vero che il Disturbo da Alimentazione Incontrollata può presentarsi anche in persone normopeso.

Tra i disturbi alimentari con origine psicogena il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è quello meno studiato. Non c’è ancora una definizione universalmente accettata dei criteri diagnostici.

Caratteristiche del Disturbo da Alimentazione Incontrollata:

•    Frequenti attacchi di fame vorace, che porta a consumare grandi quantità di cibo

•    Comportamento alimentare disturbato tra un’abbuffata e l’altra

•    Pasti irregolari

•    Iniziare e smettere frequentemente diete

•    Scarsa consapevolezza del senso di fame e del senso di sazietà

•    Poco movimento fisico e poca attività sportiva

•    Preferenza per interessi sedentari nel tempo libero come la televisione e i giochi al computer

•    Repressione delle emozioni (noia, rabbia, tristezza, felicità)

Possibili Indicatori Diagnostici:

•    Ricorrenti episodi di fame vorace (almeno due volte alla settimana per sei mesi). Questi episodi sono percepiti dalla persona come compulsivi e non controllabili. Le persone con attacchi di fame divorano enormi quantità di cibo in un periodo di tempo relativamente breve. In seguito la loro sicurezza di sé, già danneggiata, viene tormentata da senso di colpa, depressione e autoaccusa.

•    Le abbuffate sono caratterizzate da almeno 3 dei seguenti sintomi:

1.    Mangiare in modo troppo veloce, ingozzandosi

2.    Mangiare fino a sentirsi troppo pieni

3.    Mangiare grandi quantità di cibo senza sentire fisicamente fame

4.    Mangiare da soli per la vergogna

5.    Dopo aver mangiato, emozione di disgusto, umore depresso e senso di colpa

•    Il cibo che viene consumato durante le abbuffate viene trattenuto in corpo, senza fare niente per espellere le calorie o consumarle con l’esercizio fisico.

Le conseguenze fisiche dannose in caso di obesità (BMI>30) comprendono disturbi cardiaci e circolatori (alta pressione sanguigna, ictus, attacchi cardiaci), dolori articolari, lesioni alla colonna vertebrale, diabete mellito. Alcuni farmaci, per esempio quelli per la pressione alta o gli antidepressivi, rendono molto difficile perdere peso. Quando si desidera perdere peso si deve consultare uno specialista.

Le conseguenze psicologiche comprendono rassegnazione, mancanza di energia, depressione, odio per il proprio corpo, evitamento degli specchi, problemi nel definire i propri limiti. Inoltre, possono essere coinvolti anche abuso di alcool, attacchi d’ansia, odio per se stessi, e pulizia e lavaggi compulsivi.

Lo sapevi?

•    Le persone con Disturbo da Alimentazione Incontrollata hanno iniziato molte diete. In totale, circa il 75% delle donne ha già provato a fare una dieta

•    2 persone in sovrappeso su 3 hanno raggiunto il loro peso iniziale dopo sette mesi di dieta prescritta dal proprio medico

 

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TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Ambiente e benessere. L’educazione ambientale come educazione alla salute

Keywords: Ambiente, Inquinamento, Ecosistema, Salute

Abstract

Nell’ultimo periodo si è assistito ad un’attenzione maggiore per l’ambiente, in quanto il mantenimento della salute e l’implementazione del benessere passano attraverso la salubrità dell’habitat in cui si vive.
Alla luce di ciò, l’educazione alla salute deve legarsi all’educazione ambientale, vista come paradigma fondante di un nuovo modo di essere che congiunge la qualità della vita alla qualità dell’ambiente.

Gli ecosistemi

Da tempo sono noti gli effetti nocivi che l’inquinamento produce sull’ organismo umano. Lo studio di questi effetti è divenuto l’archetipo di una scienza, l’epidemiologia ambientale. In pratica, essa si occupa di stabilire le relazioni che intercorrono fra la salute dell’uomo e gli elementi che costituiscono il suo ambiente di vita, ovvero gli elementi fisici, chimici e biologici (Terracini, 2014).
Il benessere dell’uomo è assicurato dalla biodiversità presente sul globo terrestre. Questa molteplicità biologica è alla base degli ecosistemi. Per ecosistema, come Viaroli (2014, pag. 2) fa notare, si intende

“un sistema complesso e dinamico costituito da comunità vegetali, animali e microbiche che interagiscono fra di loro e con l’ambiente abiotico come un’unica unità funzionale”.

È proprio da questa interazione equilibrata fra gli elementi che costituiscono i vari ecosistemi che dipende la salute dell’intero pianeta terra.
Nella storia recente, a causa di politiche dissennate che hanno avuto come epicentro ideologico la cultura del profitto, i vari ecosistemi sono stati alterati o distrutti, causando degli effetti catastrofici che hanno avuto il loro riverbero sul clima, sull’ ambiente idrogeologico e sulla salute degli esseri viventi.

L’inquinamento delle acque e la salute

Le conseguenze più grandi di tali variazioni si possono compendiare nel fenomeno dell’inquinamento, che, sempre più, ha un ruolo fondamentale nell’ insorgenza di molte malattie che interessano l’uomo.
Relativamente all’ ecosistema marino, è in atto un processo di degrado ambientale, che è alla base di alterazioni di notevole portata. Nel mare, in ogni parte del mondo, sono versate le acque di rifiuto provenienti dagli agglomerati urbani, dalle industrie, dagli allevamenti di bestiame e dall’ agricoltura. Questi prodotti frequentemente non subiscono nessun processo di depurazione, per cui scaricano in mare delle quantità enormi di funghi e batteri, che impoveriscono l’acqua di ossigeno.
Altrettanto avviene per le acque dolci destinate all’ uso umano (fiumi, falde acquifere, laghi di acqua dolce). Esse, di sovente, appaiono inquinate da nitrati, arsenico, metalli pesanti, pesticidi, fertilizzanti ecc. A titolo di esempio si riportano gli effetti di due elementi chimici molto diffusi nelle acque potabili.
I nitrati, provenienti dall’agricoltura e dagli allevamenti, sono considerati degli agenti cancerogeni, per cui svolgono un ruolo importante nell’ insorgenza dei tumori.
L’arsenico, secondo le direttive della Organizzazione Mondiale della Sanità, non deve essere presente nelle acque potabili. È ammesso, eventualmente, un contenuto massimo di 5 microgrammi per litro. In Italia, per esempio, ci sono alcune acque per uso umano che contengono valori decisamente più alti.
Questa sostanza chimica è considerata un potente agente cancerogeno e può provocare il cancro al polmone, alla vescica, al rene, alla pelle, al fegato e al colon. Inoltre, provoca malattie a carico del sistema cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del sangue, della pelle, dell’apparato neurologico e riproduttivo (Litta, 2014, pag. 3).
Molti composti chimici inquinanti, presenti nelle acque potabili, sembrano essere alla base di patologie molto diffuse.

L’inquinamento dell’aria e la salute

È palese che l’aria che si respira è ricca di sostanze inquinanti. Tali composti possono essere suddivisi in gassosi, volatili e solidi. “…Secondo un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la qualità della salute respiratoria e cardiovascolare è inversamente proporzionale ai livelli di inquinamento atmosferico…” (Di Ciaula, 2014, pag. 2).
Durante l’età pediatrica, l’inquinamento dell’aria svolge un ruolo fondamentale nell’insorgenza dell’obesità, della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2.
Fra gli inquinanti gassosi sono da ricordare gli ossidi di azoto, zolfo e carbonio. Essi determinano malattie dell’apparato respiratorio (bronchiti, asma, cancro ai polmoni, ecc.).
Gli inquinanti volatili rientrano nella categoria dei microinquinanti. Fra di essi è da menzionare prevalentemente il benzene, che causa malattie tumorali e quadri clinici a carico del sistema nervoso, dell’apparato endocrino, del sistema immunitario e degli organi riproduttivi (Di Ciaula, op. cit., pag. 5).
Le sostanze solide sono rappresentate dai particolati. Con questo termine si intende una miscela costituita da carbonio, metalli pesanti e sostanze organiche.
“Il particolato è responsabile nel breve termine di incrementi di morbilità e mortalità per cause cardiocircolatorie (infarti, ictus, scompensi cardiaci e aritmie) e respiratorie (riacutizzazione di broncopatie croniche, asma) e nel lungo termine del cancro del polmone” (Di Ciaula, op. cit., pag. 3).

L’educazione ambientale

Se si vuole modificare la distruzione sistematica dell’ambiente bisogna educare le nuove generazioni al rispetto della natura.
In ambito scolastico, il concetto che va perseguito è quello di abituare i bambini, come futuri cittadini, a farsi portatori di uno sviluppo socio – economico sostenibile, ovvero uno sviluppo che si basi sulla sostenibilità ambientale “…intesa come conservazione del capitale naturale e dei servizi ecologici a esso connessi, soprattutto la produzione di risorse e l’abbattimento degli inquinanti…”.
Per questa ragione, l’educazione alla salute, che si deve perseguire in ogni contesto e a qualsiasi età, deve legarsi all’ educazione ambientale, vista come paradigma fondante di un nuovo modo di essere che congiunge la qualità della vita alla qualità dell’ambiente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Di Ciaula, A. (2014). Inquinamento atmosferico. Milano: Zadig Editore.
  • Litta, A. (2014). Acqua e salute (le principali problematiche sanitarie derivanti dal degrado e dall’inquinamento delle acque destinate a consumo umano). Milano: Zadig Editore.
  • Terracini, B. (2014). L’epidemiologia ambientale e l’ISDE. Milano: Zadig Editore.  DOWNLOAD
  • Viaroli, P. (2013). Biodiversità a rischio per gli ecosistemi acquatici. Ecoscienza. Vol. n. 5  DOWNLOAD
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