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Le espressioni facciali degli omini della Lego: il tempo li ha resi più infelici?

FLASH NEWS

Da una recente ricerca sembra che anche i famosissimi omini della LEGO siano diventati sempre più arrabbiati e meno felici nelle loro espressioni facciali.

LEGO è un colosso universale, venduto in più di 130 paesi e con una produzione annua di circa 36 billioni di mattoncini; si stima che ciascun uomo sulla terra possieda – in media- 70 mattoncini LEGO.

Gli omini LEGO apparvero sul mercato per la prima volta nel 1975 con la caratteristica pelle gialla e un sorriso enigmatico sul volto. Nel 1989 iniziò la differenziazione emotiva con diverse espressioni facciali delle emozioni, finché nel 2003 arrivarono anche diverse pigmentazioni del volto – oltre alla pelle gialla.

I ricercatori inglesi hanno ottenuto dalla LEGO le immagini di 3655 modelli di omini LEGO prodotti dall’azienda dal 1975 al 2010 e le hanno mostrate a un campione di circa 200 adulti. Ai partecipanti è stato chiesto di categorizzare l’emozione sul volto dei personaggi LEGO e di valutarne anche l’intensità.

Dal survey è emerso che i volti sono spesso valutati come ambigui in termini emotivi, anche se dei trend interessanti rivelano che l’espressione facciale riconosciuta come più frequente sarebbe la gioia, seguita dalla collera, e dalla tristezza; paura, disgusto e sorpresa sono state categorizzate sui volti della LEGO in misura nettamente minore.

E interessante è il trend temporale secondo cui con l’andare degli anni vi sarebbe un incremento delle espressioni facciali di rabbia e collera a scapito delle espressioni facciali di gioia e felicità.

 

LEGGI ANCHE:

Espressioni facciali – Facial Expression

 

BIBLIOGRAFIA:

C Bartneck, M Obaid, & K Zawieska (2013). Agents with faces – What can we learn from LEGO Minifigures? [pdf] Proceedings of the 1st International Conference on Human-Agent Interaction (iHAI 2013), Sappor, Japan. DOWNLOAD

 

CALL FOR PAPERS: IV Congresso Nazionale AIPPC

CALL FOR PAPER

SUBMISSION DEADLINE: 15 – 3 – 2015

IV CONGRESSO NAZIONALE

Firenze 15-17 maggio 2015

AIPPC 2015

I tesori della torre di Babele

I linguaggi della psicoterapia

 

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (Wittgenstein)

 

COMITATO SCIENTIFICO: Rita Ardito, Maria Armezzani, Bruno Bara, Gabriele Chiari, Lorenzo Cionini, Maurizio Dodet, Antonio Fenelli, Silvio Lenzi, Giorgio Rezzonico, Savina Stoppa Beretta, Cecilia Volpi
COMITATO ORGANIZZATORE: Anna Celli, Gabriele Chiari, Lorenzo Cionini, Stefano Giusti, Eleonora Gori, Lucia Mariotto, Clarice Ranfagni
 
 
Dall’ultimo congresso nazionale, l’AIPPC ha affrontato notevoli cambiamenti strutturali al fine di raggiungere un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo (attivando alcuni canali quali un blog e un gruppo facebook) e contemporaneamente migliorare sempre più i propri standard di qualità (la trasformazione della newsletter cartacea “Costruttivismi” in rivista scientifica online e peer-reviewed).

Una vera e propria metamorfosi che non ha però intaccato la sostanza che la anima fin dalla sua matrice originaria così come delineata nel 1997, anno della sua fondazione: uno spirito di confronto attivo tra modelli psicologici e psicoterapeutici diversi che si riconoscono in una comune epistemologia fenomenologica e costruttivista.
È in quest’atmosfera di rinnovamento che si aprono le porte del IV congresso nazionale dell’AIPPC, una nuova occasione di confronto e di dialogo, di approfondimento e di scambio.
Anche questa volta l’intento è di addentrarsi in maniera originale nel processo terapeutico, focalizzandosi non tanto sul parlare di psicoterapia quanto sul “come si parla in psicoterapia”, sul ventaglio di linguaggi comunicativi, espliciti e impliciti, che tessono o, per meglio dire, costruiscono attimo dopo attimo la trama narrativa dell’incontro clinico.
Quali sono i possibili linguaggi della psicoterapia? Quali presupposti guidano, momento per momento, la scelta di un linguaggio piuttosto che di un altro? Quali le implicazioni di una scelta linguistica rispetto a un’altra? Quale relazione sussiste tra linguaggio e processo di cambiamento?
Queste alcune delle domande che animeranno lo scambio e il confronto tra partecipanti e relatori di approcci diversi.
Il linguaggio delle parole, il linguaggio del corpo, il linguaggio delle metafore, il linguaggio del “come se”, il linguaggio del sintomo, il linguaggio del sogno, il linguaggio dell’incontro tra culture diverse, sono solo alcuni dei linguaggi della e nella psicoterapia.
Un ventaglio ampio ma non esaustivo, come il titolo del congresso, volutamente evocativo, suggerisce. Alla ricerca di quei confini che tra il polo del vincolo e il polo della possibilità delineano l’essenza profonda della psicoterapia, dove, proprio in coerenza con l’epistemologia costruttivista, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.

VAI ALL’EVENTO

CALL FOR PAPERS

La seconda giornata sarà dedicata a quattro Workshop e quattro Simposi, della durata di un’ora e 45 minuti ciascuno, che si svolgeranno in parallelo.

I Workshop dovranno prevedere, dopo un iniziale inquadramento teorico, momenti esperienziali che possano coinvolgere attivamente i partecipanti. Coloro che intendono proporre un workshop dovranno inviare all’indirizzo e-mail [email protected] un titolo e un abstract di circa 100 parole, entro e non oltre il 15 Marzo 2015. Le proposte saranno sottoposte a valutazione da parte del comitato scientifico del Congresso.

Simposi: un chair/discussant coordinerà, per ogni simposio, 3-4 relazioni su aspetti teorici, di ricerca o clinici. Le tematiche suggerite sono: Il linguaggio delle parole, del corpo, delle metafore, del “come se”, del sintomo, dei sogni, dell’incontro tra culture diverse.

Chi è interessato a presentare una relazione dovrà inviare un titolo e un abstract di circa 100 parole all’indirizzo e-mail [email protected] entro il 15 Marzo 2015. Sarà cura del comitato organizzatore comporre i simposi in modo da favorire il confronto tra prospettive teorico-cliniche diverse.

 

 

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

COSTRUTTIVISMO

 

La sospensione delle benzodiazepine porta a una migliore qualità di vita nei pazienti geriatrici?

Stefania Bonazza & Mariano Musci  

L’aumento generale dell’età media della popolazione è sotto gli occhi di tutti, presto dovremmo farne i conti e il nostro sistema sociale e politico deve iniziare fin da subito ad organizzare una strategia di intervento.

Tale strategia è forse meglio che inizi dal basso, ovvero dal riformare gli interventi terapeutici oggi utilizzati nella stragrande maggioranza delle nostre RSA. Primo tra tutti l’utilizzo, spesso inappropriato, degli psicofarmaci, come una grande mole di ricercatori suggerisce da ormai tanti anni (p.e. i criteri di Beers). Il primo dato importante da considerare è il fatto che l’emivita di un farmaco è spesso il doppio o triplo quando assunto da un anziano, il che deve portare ad una maggiore attenzione alle dosi somministrate. Soprattutto, molte ricerche, come quella che citeremo, mettono in evidenza come la sospensione di questi farmaci porti ad un generale miglioramento sia a livello cognitivo che motorio dell’anziano.

Tsunoda e colleghi hanno preso in esame gli effetti della sospensione della somministrazione delle benzodiazepine (abbassando la dose ogni settimana del 25% per tre settimane, seguita da 5 settimane di osservazione) su 30 soggetti anziani con diversi disturbi psichici (p.e. demenza, schizofrenia, disturbo bipolare) ed ha valutato il successivo livello di miglioramento cognitivo e psicomotorio mediante alcuni test.

In generale, i risultati dell’autore evidenziano come la sospensione delle benzodiazepine ha portato un miglioramento psicomotorio (diminuzione dell’ondeggiamento) e un miglioramento a livello cognitivo (mnemonico ed attenzionale).

Tali evidenze sono da considerarsi fondamentali, in quanto le benzodiazepine risultano essere uno dei farmaci più prescritti dai medici (non solo italiani). L’utilizzo di tali farmaci è quindi non solo dannoso a livello fisico per gli anziani, ma lo è anche indirettamente, aumentando il rischio di cadute e quindi fratture al femore e diminuzione delle capacità cognitive, soprattutto di memoria. Non solo, tali farmaci possono condurre a demenza indotta da farmaco.

Risulta dunque che l’utilizzo di questi farmaci possa aumentare il rischio sia diretto che indiretto di malattie e traumi nella popolazione anziana, il che condurrebbe ad un aumento sostanzioso dei costi di gestione che potrebbero essere prevenuti semplicemente utilizzando altre tecniche terapeutiche, come quelle psicosociali o alcuni farmaci di nuova generazione.

 

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La Stimolazione Cognitiva nella Demenza: una palestra per il cervello

BIBLIOGRAFIA:

Tsunoda, K., Uchida, H., Suzuki, T., Watanabe, K., Yamashima, T., Kashima, H. (2010). Effects of discontinuing benzodiazepine-derivative hypnotics on postural sway and cognitive functions in the elderly. International Journal Of Geriatric Psychiatry, 25(12), 1259-1265.

Archeologia della Mente di Jaak Panksepp e Lucy Biven – Recensione

Il libro di Panksepp e Biven offre una tassonomia evolutiva delle emozioni e degli affetti basata sul metodo sperimentale e una base neuroscientifica per il trattamento dei disturbi psichiatrici.

Nel 2012 Jaak Panksepp e Lucy Biven hanno pubblicato la summa del loro lavoro e del loro pensiero e nel 2014 è uscita la traduzione italiana: “Archeologia della Mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane”. Panksepp e Biven ci guidano in questo viaggio nell’affettività e nelle emozioni con il loro armamentario neuroscientifico, e riescono a farci comprendere con linguaggio piano e comprensibile i meccanismi neurali dell’espressione emotiva.

Il nocciolo del libro è l’identificazione di sette sistemi affettivi di base -ricerca, paura, collera, desiderio sessuale, cura, sofferenza e gioco– sette aree che definiscono sette bisogni di base che “sentiamo” in maniera irriflessiva e sui quali poi costruiamo la nostra vita mentale consapevole.

Il bisogno di esplorazione del mondo e di ricerca nel mondo, la paura del pericolo, la rabbia e la collera di fronte agli ostacoli, il desiderio sessuale, il bisogno di accudimento e di cura, lo stato di sofferenza, tristezza e panico quando non sono soddisfatti i nostri bisogni e, infine, il bisogno di gioco sociale. Questi sistemi sono spiegati nel loro funzionamento, nella loro localizzazione neurale e nella loro origine evolutiva.

La critica che in genere è fatta contro questo tipo di lavori è che in fondo siano solo delle descrizioni in un altro linguaggio di concetti già noti. Questo può essere in parte vero, ma anche ingeneroso.

Senza voler necessariamente idolatrare le neuroscienze, è vero che una base biologica consente di validare definitivamente varie intuizioni cliniche. Tutti i bisogni emotivi individuati da Panksepp e Biven erano stati già descritti in vari modelli clinici, da Freud a Erikson, da Jung a Beck. Tutti questi modelli, però avevano il torto di privilegiare un solo sistema emotivo, in genere a scapito degli altri che erano fatti derivare da quello preferito.

Migliore esempio di questa tendenza è la psicoanalisi freudiana che tentava di derivare tutto dal desiderio sessuale. La sistemazione neuroscientifica consente di dire che questi sono i sette sistemi definitivi, o quasi, senza che nessuna sia privilegiato.

Inoltre, la ricerca neuroscientifica consente di comprendere come interagiscono i sistemi emotivi con le funzioni consapevoli superiori, ovvero in che modo possiamo padroneggiare e integrare le varie funzioni e in che misura invece dobbiamo rassegnarci a un certo grado di incontrollabilità emotiva.

Si tratta delle funzioni auto-riflessive e metacognitive superiori e della loro maggiore o minore efficienza in rapporto alla storia personale. Soprattutto attaccamento, socializzazione e traumi sembrano in grado di rafforzare o danneggiare le capacità integrative superiori. Una relazione calda e protettiva con una figura di attaccamento affidabile, una socialità stimolante  continua e l’assenza di traumi gravi facilitano queste funzioni. Importante anche la possibilità di realizzazione personale e di oddisfazione affettiva nella maturità.

Insomma, il libro di Panksepp e Biven offre una tassonomia evolutiva delle emozioni e degli affetti basata sul metodo sperimentale e una base neuroscientifica per il trattamento dei disturbi psichiatrici.

 

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Intervista con Stephen Porges: la teoria polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Panksepp, J., Biven, L. (2012). The Archeology of Mind. New York. Neuroevolutionary Origins Of Human Emotions. W. W. Norton & Company. Tr. It. Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane. Milano, Cortina, 2014. ACQUISTA ONLINE

Omosessualità: perchè le Terapie Riparative sono inutili (e dannose)

Articolo di Pier Luigi Gallucci pubblicato il 14 Gennaio 2015 su Gallucci Psicologo Torino

L’omosessualità non è una malattia, nè una scelta: non c’è nulla di rotto, nulla da riparare. Lo studio dello psicologo può diventare il luogo per smettere di farsi le domande degli altri e individuare le proprie.

“L’impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta” (S. Freud, 1920)

C’è anche il logo di Expo2015 che sponsorizza l’ennesimo convegno ‘in difesa della famiglia tradizionale’ e propone l’idea che l’omosessualità sia una malattia e si possa curare, suscitando il dibattito e lo sdegno della stampa nazionale.

A parte l’imbarazzo per l’arretratezza dell’immagine politica, sociale e culturale che ne viene fuori, a livello internazionale per giunta, direi che, come psicologi, sulle terapie riparative per l’omosessualità non si può tacere e vale spendere qualche parola su cosa sono e come (non) funzionano.

Le terapie riparative (o di conversione) sono un metodo psicoterapeutico che mira a cambiare l’orientamento sessuale da omosessuale a eterosessuale, o quantomeno ridurre ed eliminare i desideri e i comportamenti omosessuali. I suoi sostenitori, come Joseph Nicolosi e Charles Socarides, ipotizzano che il “danno da riparare” sia avvenuto durante lo sviluppo evolutivo, nel periodo di separazione-individuazione, quando nel maschio omosessuale si determinerebbe un’identificazione con la madre. In più, la relazione disfunzionale col padre provocherebbe un deficit di mascolinità e assertività.

Secondo questi autori, la persona omosessuale cercherebbe di rafforzare temporaneamente la propria mascolinità attraverso il proprio partner, ma in modo insufficiente, determinando così la promiscuità che sarebbe tipica dello “stile di vita gay”. Questo tipo di approccio si basa su vecchie concezioni della psicoanalisi ortodossa (tra l’altro lo stesso Freud aveva una visione molto più aperta e avanzata), ma che è ormai superato dalla storia, un ramo morto della psicologia.

Per far fronte ai desideri e comportamenti omosessuali e incrementare quelli eterosessuali, una psicoterapia di tipo riparativo prevede per esempio: la tecnica della covert sensitization, con cui si insegna al paziente ad immaginare qualcosa di spiacevole per contrastare i desideri omoerotici indesiderati (per esempio contrarre l’HIV); l’uso di sexual surrogates del sesso opposto; la proibizione della masturbazione; incoraggiare la frequentazione di persone eterosessuali dello stesso sesso; la lettura della Bibbia e la preghiera.

Già da questa sintetica descrizione emerge come le terapie riparative si configurino come interventi parziali (si considerano solo uomini gay e non lesbiche o persone bisessuali), direttivi e suggestivi in cui gli aspetti ideologici, morali e religiosi prevalgono su quelli scientifici.

Le ricerche scientifiche internazionali hanno infatti rilevato l’inutilità, se non gli effetti negativi sull’equilibrio psichico dei pazienti che vi si sottopongono (depressione, bassa autostima, vergogna, difficoltà relazionali, disfunzioni sessuali e tentati suicidi). Il risultato al limite è che i soggetti diventano astinenti nel comportamento sessuale, acquisiscono strumenti per reprimere e dissociare le proprie pulsioni, ma non cambiano certo i loro desideri profondi, l’attrazione affettiva e sessuale che provano.

Le terapie riparative sono state identificate quindi come scientificamente infondate, inutili al cambiamento dell’orientamento sessuale, dannose per l’equilibrio psichico dei pazienti ed eticamente scorrette dalle principali associazioni dei professionisti della salute mentale a livello internazionale (ad esempio l’American Psychological Association nel 2009), e a livello nazionale dall’Ordine degli psicologi italiani (art. 4 del Codice deontologico) e dagli ordini regionali (ad esempio l’Ordine degli psicologi del Piemonte).

Recentemente le terapie riparative hanno subìto un’evoluzione 2.0, diremmo un approccio “post-riparativo”: non si afferma più che l’omosessualità sia una malattia (posizione ormai indifendibile), ma che, se vi sono persone che chiedono aiuto perchè soffrono a causa del proprio orientamento sessuale, prevale il principio di autodeterminazione del paziente.

E allora cogliamo l’occasione per capire quali sono gli obiettivi di una psicoterapia attraverso l’esempio di due situazioni.

Francesca, 30 anni, chiede consulto a un terapeuta perchè è stata lasciata da poco dal marito con cui conviveva e con cui progettava di avere dei figli. L’abbandono le giunge inaspettato, e dopo lo shock iniziale, si sente molto triste, arrabbiata e sola. La donna ha alcune amiche lesbiche con cui si confida quotidianamente e con cui dichiara di sentire profonda sintonia, comprensione e complicità. Dice di non avere più fiducia negli uomini e chiede di poter diventare lesbica.

Paolo è un uomo di 50 anni che è stato lasciato dal suo compagno con cui conviveva da molti anni. Afferma che le relazioni gay si basano solo sul sesso, che i gay pensano solo a quello. Secondo lui, se fosse eterosessuale, sarebbe diverso: potrebbe finalmente vivere una relazione stabile, avere una vita serena, una famiglia vera. E chiede al terapeuta di poter diventare eterosessuale.

Cosa fa a questo punto un terapeuta riparatore? Perchè è più auspicabile la seconda situazione rispetto alla prima? Dipende dal principio di autodeterminazione del paziente o dal (pre)giudizio del terapeuta?

Le terapie riparative sono un tipo di trattamento direttivo-suggestivo in cui il terapeuta rinuncia alla sua posizione di neutralità, diventando mero esecutore di una richiesta (indotta) e propugnatore di norme esterne: un tecnico che prende la domanda così com’è e la agisce direttamente. Ma il conflitto interno del paziente non si elabora eliminando una delle parti e alleandosi nel disprezzo dell’altra (collusione).

Le terapie riparative non funzionano perchè:

– incoraggiano i pazienti a fondare su un’autorità esterna le proprie scelte di vita, anzichè svilupparne di proprie;

– rinforzano solo un polo del conflitto del paziente e lo agiscono, anziché esplorarlo, nella relazione terapeutica;

– non producono l’attesa “riconversione”, ma, anziché coltivare una maggiore consapevolezza e accettazione di sé, spesso peggiorano le condizioni psichiche della persona.

Il principale strumento del terapeuta è la domanda, non la risposta. Il terapeuta non può ridursi a essere un tecnico che cambia i comportamenti, ma ha la funzione di un esploratore di domande e prospettive, aiuta a ricercare il senso della sofferenza, mentre la persona costruisce le sue di risposte. Senza necessariamente pensare che debbano essere certe, chiare, definitive, ma anzi tollerando inevitabili gradi di frustrazione, incertezza, confusione.

Il lavoro psicologico non mira solo e primariamente alla soppressione del sintomo, ma alla conoscenza della sua funzione nel sistema emotivo, cognitivo e relazionale del paziente. Il primo compito di un terapeuta è quindi quello di capire in quale contesto (personale, familiare, sociale e culturale) nasce la domanda di cura del paziente. Quello di considerare la sofferenza come un aspetto non tanto da eliminare, correggere, riparare, quanto da esplorare nel suo senso, funzione e significato nella vita di quella persona.

I terapeuti riparativi hanno degli obiettivi ortopedici, di riparare qualcosa di rotto, di riportare il paziente dentro i confini di un modello pre-stabilito considerato “normale” e desiderabile (dalla persona stessa, dallo psicologo, dal contesto sociale e culturale più ampio). Se invece il terapeuta si pone nell’ottica di analisi della domanda, si pone degli obiettivi di sviluppo autentico della persona. E la psicoterapia non è più riparativa, ma diventa affermativa.

L’omosessualità non è una malattia, nè una scelta: non c’è nulla di rotto, nulla da riparare. Lo studio dello psicologo può diventare il luogo per smettere di farsi le domande degli altri e individuare le proprie.

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Recensione: Rigliano, Ciliberto & Ferrari (2012) – Curare i gay?

Lo Stress aumenta il desiderio di ottenere ricompense ma non il piacere di per sè

FLASH NEWS

Essere stressati può portare a desiderare molto e a faticare per soddisfare il desiderio – ad esempio uscire nel freddo della sera per recuperare cioccolato o un drink alcolico- ma al momento della soddisfazione  l’aspetto del piacere sembra svanire.

Dunque lo stress aumenta il desiderio di crogiolarsi nel piacere ma ciò non comporta necessariamente l’aumento del piacere dell’esperienza in sé.

In un esperimento pubblicato su Journal of Experimental Psychology: Animal Learning and Cognition un gruppo di amanti del cioccolato sono stati testati riguardo questa ipotesi.

Avendo indotto lo stress mediante specifiche procedure sperimentali, la ricerca ha dimostrato che gli individui amanti del cioccolato, quando sottoposti a rilevanti condizioni di stress, investivano ingenti risorse psicofisiche per aumentare l’odore di cioccolato nella stanza; tuttavia il piacere provato nell’odorare l’aroma del cioccolato non corrispondeva per quantità al precedente desiderio di sentire tale odore.

Se pensiamo alle psicopatologie legate all’addiction – dal cibo alle sostanze psicoattive – e al ruolo che lo stress e la vulnerabilità emotiva giocano nelle ricadute in tali disturbi è evidente come sia fondamentale chiarire la relazione tra stress e ricerca della ricompensa come meccanismo distinto rispetto all’esperienza del piacere esperito nell’hic et nunc: volere e piacere appartengono in realtà a due sistemi e a due mondi fenomenologici differenti.

 

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Contagio da stress: quando lo stress altrui diventa nostro

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Pool, E., Brosch, T., Delplanque, S., Sander, D. (2014). Stress Increases Cue-Triggered “Wanting” for Sweet Reward in Humans. Journal of Experimental Psychology: Animal Learning and Cognition, DOI: 10.1037/xan0000052. DOWNLOAD

Bulimia Nervosa – Definizione Psicopedia

 LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Nel loro aspetto esteriore le persone bulimiche sembrano normali, solitamente magre. Sono ben curate e ambiziose. È difficile notare che hanno dei problemi e che hanno bisogno di aiuto.

Caratteristiche della bulimia

  • Il comportamento alimentare è controllato quando si è in pubblico
  • Si scelgono prodotti ‘light’ e a basso contenuto di grassi per i cibi che vengono consumati “ufficialmente” e trattenuti all’interno del corpo
  • Si distingue tra cibi concessi e cibi proibiti
  • Si acquistano grandi quantità di cibi di scarsa qualità e facili da consumare per le abbuffate
  • Ci si ingozza durante le abbuffate
  • Nello stesso tempo si accumulano cibi e si è preoccupati per avere il cibo in casa
  • Non si hanno orari regolari per i pasti
  • Osservati da fuori tutto funziona perfettamente, la facciata è positiva
  • La bulimia causa emozioni di vergogna e è segreta
  • Disgusto per se stessi, sensazione di essere anormali
  • Isolamento sociale, trascurare i propri interessi, umore depresso
  • Molta attività sportiva

Possibili indicatori diagnostici

  • Costante esagerata preoccupazione per la propria forma e il proprio peso
  • Paura patologica di ingrassare
  • Limite di peso personale molto basso e definito nettamente
  • Almeno due abbuffate a settimana per più di tre mesi
  • Allo stesso tempo, assunzione veloce di grandi quantità di cibi principalmente facili da consumare e ricchi di calorie
  • Sensazione di perdita di controllo sul comportamento alimentare durante le abbuffate
  • In seguito tentativi di annullare l’assunzione di calorie:
  • Inducendosi il vomito
  • Abusando di farmaci (per es., lassativi, diuretici …)
  • Seguendo una dieta ferrea / periodi di digiuno
  • Facendo eccessivo esercizio fisico

Questi schemi di comportamento possono comparire singolarmente o in parallelo.

Le conseguenze fisiche dannose variano in rapporto ai metodi utilizzati per compensare alle abbuffate: battito cardiaco irregolare, problemi circolatori, danno allo smalto dentale, squilibrio degli elettroliti (carenza di potassio/magnesio) e/o danni renali.

Il ciclo mestruale potrebbe fermarsi, i capelli cadere, il sonno o la concentrazione potrebbero avere delle interruzioni.

Le conseguenze psicologiche includono comportamento ambivalente, pensiero ipotetico (Se, allora…), pensare in termini di bianco o nero, perfezionismo, svalutazione di se stessi fino all’odio per se stessi e alla depressione. Spesso il disturbo alimentare è negato e le persone che ne sono affette si sforzano di mantenere una facciata di normalità. Possono essere presenti sentimenti di vergogna e la tendenza all’isolamento.

Possono essere presenti dipendenze multiple da alcool, droghe, farmaci o shopping compulsivo, oltre a comportamenti autolesionistici.

Lo sapevi?

La bulimia si presenta più frequentemente tra i 20 e i 30 anni.

Le persone bulimiche solitamente abbuffano due volte a settimana, spesso anche una volta al giorno. Questi attacchi durano per un tempo che va da 15 minuti a 4 ore. Vomitando o con altri metodi di compensazione (lassativi, eccessivo esercizio fisico, digiuno, etc.) le persone bulimiche credono di poter raggiungere la loro forma ideale e di poter allo stesso tempo soddisfare la loro necessità di cibo.

Le persone anoressiche possono diventare bulimiche nel corso del loro disturbo alimentare. I passaggi sono sfocati.

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Come si adatta il cervello al recupero della vista?

COMUNICATO STAMPA  – MONTREAL (Canada) e TRENTO (Italia), Gennaio 19, 2015 

 

 

La riorganizzazione cerebrale dovuta a una lunga deprivazione sensoriale non è completamente reversibile

Oggi, grazie ai recenti avanzamenti della ricerca, è possibile un parziale recupero della vista anche in chi è stato cieco dalla nascita. Tuttavia, un gruppo di scienziati dell’Università di Montreal in Canada e del Centro Mente/Cervello dell’Università degli Studi di Trento, ha scoperto che la riorganizzazione funzionale che ha luogo nel cervello di chi per un lungo periodo ha vissuto una deprivazione sensoriale potrebbe impedire un completo recupero della visione.

«Abbiamo avuto la fortuna di studiare un caso raro di una paziente, ipovedente dalla nascita, che in età adulta ha riacquistato la visione in modo repentino in seguito ad un intervento di impianto di una cheratoprotesi, ovvero un trapianto di cornea artificiale, una Keratoprothesis Boston, nell’occhio destro» Da una parte, i nostri risultati indicano che la corteccia visiva mantiene un certo grado di plasticità – la capacità del cervello di modificarsi in funzione dell’esperienza – anche in una persona adulta ipovedente dall’infanzia. Dall’altra, abbiamo scoperto che, anche a distanza di molti mesi dall’intervento, la corteccia visiva non recupera totalmente il suo normale funzionamento» 

ha spiegato Giulia Dormal dell’Università di Montreal, che ha condotto lo studio. Si chiama corteccia visiva quella parte del lobo occipitale del cervello che elabora gli impulsi elettrici provenienti dagli occhi.

E’ noto che in caso di cecità la corteccia occipitale diventa sensibile anche agli stimoli provenienti da altri organi sensoriali, come l’udito e il tatto, compensando così la perdita della vista.

«Questa riorganizzazione cerebrale, pur importantissima, rappresenta tuttavia una sfida al recupero della vista da parte di chi subisce un trapianto, perché la corteccia – dopo essere andata incontro a riorganizzazione – potrebbe non esser più in grado di elaborare gli stimoli visivi».

Per capire l’importanza di questo fenomeno, i ricercatori hanno sottoposto la paziente, una donna canadese di 50 anni, ad un serie di test, comportamentali e neurofisiologici. Prima e dopo l’intervento, hanno monitorato i cambiamenti della vista e dell’anatomia cerebrale, così come la risposta cerebrale a stimoli di natura visiva e sonora. Per questo, i ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale per registrare le attivazioni cerebrali della donna nel corso dell’esecuzione di alcuni compiti visivi e uditivi e le hanno poi confrontate con quelle di individui vedenti e di ciechi dalla nascita, impegnati negli stessi compiti.

«Abbiamo visto che, prima dell’intervento, presentava una riorganizzazione strutturale e funzionale delle aree occipitali tipica di una deprivazione sensoriale di lunga durata. Quindi, abbiamo dimostrato la possibilità di un parziale ripristino delle precedenti funzioni, in seguito all’acquisizione della vista in età adulta. Dati gli importanti avanzamenti recenti nelle soluzioni tecnologiche che consentono il recupero della vista, questi risultati hanno importanti implicazioni cliniche nel predire l’eventuale esito di un impianto nei pazienti candidati all’ intervento» ha spiegato Olivier Collignon, neuroscienziato del CIMeC responsabile della ricerca.

Lo studio suggerisce che la chirurgia oculare possa avere dei risultati positivi, anche negli adulti con severa incapacità visiva dall’infanzia. Con un importante avvertimento:

«Il recupero osservato nella corteccia visiva, in termini di una minor risposta agli stimoli uditivi e un aumento graduale della risposta a quelli visivi e della densità della materia grigia, non è completo. Infatti, a sette mesi di distanza dall’ intervento chirurgico, alcune aree continuano a rispondere debolmente agli stimoli uditivi, pur reagendo simultaneamente a input di natura visiva. E proprio in tale sovrapposizione potrebbe risiedere la ragione del fatto che alcuni aspetti della visione, nonostante i miglioramenti graduali, si mantengano al di sotto della norma anche dopo sette mesi dall’ impianto» spiega Dormal.

Duplici le implicazioni cliniche:

«I risultati del nostro studio aprono la strada ad un uso clinico sistematico della risonanza magnetica prechirurgica come strumento di prognosi dell’efficacia dell’impianto. Inoltre, aprono la strada anche allo sviluppo di programmi di riabilitazione specifici in seguito ad interventi di recupero della vista», ha commentato Collignon.

 

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NEUROSCIENZENEUROPSICOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Lo studio “Tracking the evolution of crossmodal plasticity and visual functions before and after sight-restoration” di Giulia Dormal, Olivier Collignon e colleghi   è stato pubblicato sulla rivista Journal of Neurophysiology il 17 dicembre 2014.

La ricerca è stata finanziata da Canada Research Chair Program, Canadian Institutes of Health Research, Saint-Justine Foundation, the European Research Council (lo starting grant MADVIS di Olivier Collignon), Veronneau Troutman Foundation, Fonds de recherche en ophtalmologie de l’Université de Montréal, PAI/UIAP grant PAI/33 e il Belgian National Fund for Scientific Research.

 

Media contact:
William Raillant-Clark
International Press Attaché
University of Montreal (officially Université de Montréal)
Tel: 514-343-7593 | [email protected]

 

Nicla Panciera
Media relations
Center for Mind/Brain Sciences – University of Trento
Tel: 339 8618331 – [email protected]

Intervista con Dacia Maraini: la raccoglitrice di storie

 

Una raccoglitrice di storie, così si è definita una volta Dacia Maraini. A cominciare dalla sua, che ha raccontato con la passione dell’indagatrice in Bagheria. In questa intervista, che ha voluto sottolineare “è molto intima”, la scrittrice va oltre, e accetta di parlare del sé più interiore. Le paure, le ansie, anche i momenti di depressione. E analizza il senso di inadeguatezza con cui devono fare i conti molte donne, anche lei.

 

In un’intervista “a tema” come questa, ha difficoltà a parlare di se stessa, ad aprire il suo mondo interiore?

Ma no, lo faccio continuamente. Sembra un paradosso, per una persona timida come me, ma scrivere vuol dire mettersi a nudo.

 

Nel suo libro Amata scrittura, si legge: “Scrivere è come andare in analisi”. La scrittura per lei è stata terapeutica?

Certo, terapeutica. Ho capito, scrivendo, molte cose di me e dei miei rapporti col mondo. Mi ha tenuta lontana dalle nevrosi che appartengono al nostro tempo, anche se qualche periodo di depressione l’ho patito.

 

Ci può parlare di quei periodi?

Quando ho sofferto di depressione, di panico, non dormivo più. Mi sentivo mancare l’aria e mi girava la testa. Ho consultato un medico che mi ha subito prescritto degli ansiolitici. Li ho presi ma dopo un poco mi sono stancata. Ho una istintiva antipatia per i farmaci. Li prendo per un po’ ma poi smetto. Al massimo mando giù un tranquillante per dormire. Ho sempre sofferto di insonnia. Il che ha giovato alle mie letture, ma non al mio riposo.

 

Ha mai avuto esperienze di psicoterapia?

Ho consultato un medico molto simpatico di Salerno, consigliatomi da una amica. Ma non ho fatto analisi, solo qualche chiacchierata. Lo scrivere in effetti mi aiuta a superare i momenti difficili, che poi sono quelli della vita quotidiana: una sorella morta troppo presto, un uomo amato che muore di leucemia.

 

Le succede di avere crisi d’ansia, addirittura di panico?

Sì, mi è successo qualche anno fa. Lì per lì ho avuto paura. Pensavo che fosse il cuore. Ho fatto tutte le analisi e non è venuto fuori niente. Ho capito che era depressione quando ho cominciato a leggere sui sintomi e sul fatto che è una malattia molto comune . E’ allora che ho parlato con il medico di Salerno. L’ho visto in tutto cinque o sei volte. Per fortuna poi le cose si sono sistemate da sole.

 

Cosa intende quando dice che le cose si sono sistemate da sole?

Vuol dire che non ho più avuto attacchi d’ansia e non ho più preso gli ansiolitici

 

Rabbia, aggressività, sono sentimenti con cui le capita di dovere fare i conti?

Per fortuna ho un carattere tollerante. Non mi arrabbio facilmente e sono quasi sempre disposta a capire l’altro. Anzi, quello è proprio il mio problema. Mi metto troppo nei panni degli altri. Tanto che, come un famoso personaggio di Calvino, tendo a cadere dentro l’altro. Probabilmente è un processo che conoscono gli scrittori, o forse anche gli attori, cercando di raccontare e immedesimarsi nei personaggi.

L’aggressività, credo di averla sublimata, come succede a tante donne. La storia ha insegnato alle donne come sublimare. Era un loro dovere a cui non potevano sottrarsi. La sublimazione è proprio questo: trasformare l’aggressività in attenzione verso l’altro, comprensione, cura. Certo qualche volta questo processo non funziona. E la rabbia diventa rabbia. Ma sinceramente non ho mai sofferto di crisi di aggressività.

La rabbia me la suscitano le ingiustizie. E le donne ne subiscono molte. Ma cerco, scrivendo, di trasformarla in buone forze di denuncia, di comprensione del problema, e cerco il modo di risolvere le cose, soprattutto creando rete, creando solidarietà. L’aggressione è sempre fine a se stessa. E di solito rifiuta il ragionamento e ogni progetto per il futuro.

 

Può dirci che cosa la fa più soffrire? Mi spiego, quasi tutti dobbiamo fare i conti con una parte di noi che ci provoca dolore, per esempio “mi sento orfano”, “non sono all’altezza”, “non sono amato”…

Come tutte le donne – o per lo meno la maggioranza di esse – mi sento spesso inadeguata, incapace, insufficiente.

 

Che cosa le provoca questo senso di inadeguatezza?

Inadeguatezza vuol dire non sentirsi all’altezza del compito che ci siamo prefissi, sia professionalmente che sentimentalmente. Vorrei fare di più ma mi sembra di non riuscirci. Qualche volta vengo smentita dalle reazioni degli altri e allora capisco che avevo esagerato nel buttarmi giù. Ma istintivamente – però forse dovrei dire culturalmente, perché è un atteggiamento storicamente acquisito soprattutto dalle donne che si sono        sempre sentite dire che erano inferiori, erano colpevoli, erano impure, erano pericolose, erano dannose, eccetera – tendo a criticarmi severamente e sentirmi incapace.

 

Quando arriva la sofferenza, mette in atto una reazione difensiva?

Di fronte a qualsiasi sofferenza, penso di scriverne, per capire meglio e forse anche per superarla.

 

Negli anni come si è modificata questa reazione difensiva?

Con l’età, credo di avere imparato a prendere le distanze forse meglio di prima. Mi aiuta la curiosità verso l’altro, l’ironia, il giudizio.

 

Il dolore, nelle sue diverse manifestazioni, ansia, depressione, rabbia, se accolto e riconosciuto, può diventare un punto di forza?

Credo che non si possa sfuggire al dolore. Ciascuno si crea delle strategie per superarlo. La cosa più sbagliata è cacciare la testa sotto la sabbia. Le cose vanno affrontate. Con sincerità, per lo meno verso se stessi.

 

Secondo lei le donne riconoscono e affrontano il dolore in maniera diversa dagli uomini?

Sì, ma non per una tendenza naturale. Io credo che gli esseri umani nascano uguali, nel senso della natura, ma poi ci pensa la cultura a modificarli, suggerendo, anzi forzandoli a entrare dentro dei ruoli che a volte stanno stretti, sia agli uomini che alle donne.

Ma i ruoli, sono ancora molto vivi, sotto la crosta dell’emancipazione. Le donne infatti hanno imparato a soffrire con più interiorità e pudore degli uomini. E questo alle volte è una forza. Alle volte invece diventa una debolezza, ovvero si trasforma in incapacità di reagire, di difendere i propri diritti. Nelle forme estreme, diventa puro masochismo.

 

La parola malinconia cosa le suggerisce?

Un quadro di Dürer, con una donna seduta, che appoggia la testa sulla mano, e tiene il gomito appoggiato al ginocchio sollevato. La donna ha due ali piegate ma molto gonfie che si capisce molto adatte per i lunghi voli. Porta una coroncina in testa, e ha l’aria più scocciata che malinconica. Ma Dürer mi piace molto e trovo che quell’angelo imbronciato si adatti bene alla parola malinconia.

Albrecht Durer - Melancholia I - 300px
Albrecht Dürer – Melancholia I

 

E la parola felicità?

La parola felicità mi rallegra. Ma so che è rarissima la felicità e di solito ci si accorge di essere stati felici dopo che è passato il momento.

 

Possono convivere questi due sentimenti?

Felicità e malinconia? Direi proprio di no: La felicità è un sentimento in movimento, qualcosa di proiettato verso il futuro. Anzi direi che la felicità viene da un senso di leggerezza verso un presente che vede davanti a sé un futuro aperto. Mentre la malinconia è un sentimento di limite. C’è un muro davanti, come sembra vedere l’angelo di Dürer, e ci si chiede se riusciremo mai ad abbatterlo.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Maraini D. (1993). Bagheria. Rizzoli Editore, Milano.
  • Maraini D. (2002). Amata Scrittura. Rizzoli Editore, Collana Bur La Scala, 320 p. 

Strategie e consigli utili per fare coming out in famiglia

Il compito di gestire una relazione omosessuale, in una società prevalentemente eterosessuale, richiede forza e sostegno emotivo, ecco perché è necessario che il coming out sia efficace, perché ciò facilita la piena accettazione di sé e la felicità di coppia.

Il termine coming out è ormai entrato a far parte del linguaggio comune per indicare lo svelamento del proprio orientamento omosessuale. Pochi però sanno che l’etimologia completa del termine è coming out of the closet, dove con closet si indica armadio, ripostiglio, quel posto privato in cui si tengono generalmente le cose riservate, fuori dalla vista degli altri (Westheimer e Lopater, 2004).

Già da questa definizione si comprende come dichiarare apertamente la propria omosessualità non sia un compito facile. Da un lato, infatti, tale dichiarazione arriva di solito alla fine di un lento e complesso processo di costruzione di un’identità sessuale, fatto di scoperte, sperimentazioni e non di rado conflittualità; dall’altro, in una società in cui essere omosessuali è ancora motivo di vergogna, il pregiudizio rende spesso doloroso il momento in cui rivelarsi. C’è poi da considerare che non esiste un momento preciso in cui la consapevolezza della propria omosessualità conduce al desiderio di fare coming out. Tale presa di coscienza può avvenire tanto nell’adolescenza, quanto in età adulta, anche se è più comune che i gay facciano coming out più precocemente delle lesbiche (Butler, 2010).

A prescindere dal momento, è indubbio che le risposte ricevute possano essere determinanti nello sviluppo della scoperta di sé come omosessuale, soprattutto quando ciò implica un cambiamento nelle relazioni con genitori, amici, colleghi di lavoro, o con la propria moglie o compagna.

E’ comune nascondere la propria sessualità per il timore delle conseguenze negative conseguenti alla scoperta da parte dei familiari. E’ da tenere in conto che le loro reazioni possono essere cariche di ostilità, magari perché permeate esse stesse dai pregiudizi della società e dalla preoccupazione della ghettizzazione in cui il/la proprio/a figlio/a sarà esposto/a. Se la società non è ancora pronta ad accettare l’omosessuale, l’omosessuale, da parte sua, non sceglie di diventare tale, semmai si ritrova con il problema di dover giustificare una sessualità che sente semplicemente come parte naturale di sé.

Il compito di gestire una relazione omosessuale, in una società prevalentemente eterosessuale, richiede forza e sostegno emotivo, ecco perché è necessario che il coming out sia efficace, perché ciò facilita la piena accettazione di sé e la felicità di coppia.

Non bisogna sottovalutare il fatto che fare coming out innesca spesso una crisi a livello familiare, imperniata su alcune tipiche risposte, come Stai dicendo questo solo per metterti contro di noi oppure E’ solo una fase: vedrai che poi ti piaceranno le donne o ancora E’ colpa nostra se sei gay.

Dietro a ognuna di queste risposte si nasconde una paura, cui si può controbattere in modi che restituiscano la propria dignità e serenità.

Innanzitutto, è utile rassicurare i propri genitori, dicendo che si vuole solo essere onesti con loro, che la sincerità è espressione di amore e non potrà che migliorare il rapporto.

E’ opportuno sottolineare, con calma, ma fermezza, che non si tratta di un alcun modo di una situazione temporanea. Sempre con calma si deve rispondere a quegli attacchi manipolatori del tipo Mi farai morire dal dispiacere, oppure Che abbiamo fatto di male per meritare questo?. Più facile, a dirsi che a farsi, in molti casi! In generale, però, è sempre un’ottima arma non rispondere agli scoppi emotivi dei tuoi genitori, gridando a propria volta. Se c’è il rischio di essere colpevolizzati e si vive una sensazione di disagio insostenibile, si può prendere una pausa per pensare meglio a mente lucida.

Ancora, se il genitore si sente in colpa se il figlio è gay, è bene assumersi personalmente la responsabilità del proprio orientamento. Una tattica che i genitori apprezzeranno. Potrebbe a tal proposito essere utile leggere testimonianze di altre famiglie di omosessuali, così da diminuire il loro senso di colpa e vergogna.

In ogni caso, è necessario sempre mettere i propri sentimenti al primo posto. Perché si può essere responsabili solo delle proprie emozioni e delle proprie decisioni, non di quelle degli altri. I genitori non devono tanto capire, quanto accettare, e possono sempre scegliere di essere fieri del proprio figlio, non devono per forza sentirsi infastiditi o nascondersi dalla società che non capirebbe.

Anche chiedere aiuto a qualcuno della famiglia di cui ci si fida e a cui si è già fatto coming out è una buona strategia, soprattutto se questi ha un’influenza positiva sulla famiglia e può aiutarla a riconsiderare la sua posizione.

Solo la perseveranza e la dignità nello svelarsi può condurre gli altri all’accettazione della propria sessualità. E anche se, dopo sforzi ripetuti, i genitori si rifiutassero comunque di comprendere, si dovrebbe cercare supporto altrove. Senz’altro sarebbe meglio se in famiglia regnassero mutuo rispetto e tolleranza, ma se questo non fosse possibile, è necessario proseguire la propria strada e non lasciarsi intimorire nel perseguire la propria realizzazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Butler, C., O’ Donovan, A., e Shaw, E. (2010). Sex, Sexuality and Therapeutic Practice. New York: Routledge/Taylor & Francis Group
  • Sanderson, T. (1997). Assertively Gay. How to build gay self-esteem. London: The other Way Press
  • Westheimer, R.H., e Lopater, S. (2004). Human Sexuality. A Psychosocial perspective. Philadelphia: Lippincott Williams & Wilkins

Disturbo Ossessivo-Compulsivo: dipende da scopi e rappresentazioni o da deficit cognitivi?

Nel 4° Meeting del SIG on OCD EABCT tenuto ad Assisi nel 2014 e organizzato da Barbara Barcaccia, si è svolto un confronto tra le due posizioni. I due paper, assieme ad altre presentazioni di grande interesse, sono state pubblicate nel Numero di Dicembre 2014 di Clinical Neuropsychiatry, tutto dedicato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini.

Il cognitivismo clinico, vale a dire l’approccio cognitivista ai disturbi mentali, include due settori, uno dedicato alla ricerca di terapie efficaci per i diversi disturbi e l’altro, la Experimental Psychopathology, allo studio  sperimentale dei processi che generano e mantengono la psicopatologia.

Nell’ambito della Experimental Psychopathology possiamo distinguere due ulteriori  orientamenti. Il primo intende spiegare genesi e mantenimento dei disturbi, o almeno di alcuni di essi e principalmente dei disturbi d’ansia, dell’umore, del disturbo ossessivo compulsivo e dei disturbi di personalità, utilizzando due categorie concettuali basiche: scopi (desideri, valori, bisogni, timori) e rappresentazioni (rappresentazioni mentali, sensoriali, credenze, intuizioni).

Le emozioni negative, le condotte, gli atteggiamenti e i flussi di pensiero che caratterizzano i pazienti, sono considerati dello stesso genere di quelli che si riscontrano in tutte le persone, le differenze sono quantitative; ad es., tutti soffrono se si rendono conto di aver fatto una brutta figura, cioè di aver compromesso lo scopo di dare una buona immagine di sé agli altri, ma, nel caso dei fobici sociali, la sofferenza appare esagerata e gli evitamenti e le altre soluzioni che il paziente mette in atto risultano anche dannosi e controproducenti. Questo primo orientamento include le cosiddette Appraisal Theories, e dunque riconduce la psicopatologia ai contenuti della mente del paziente.

Il secondo orientamento preferisce spiegazioni che non fanno riferimento al contenuto, agli  scopi del paziente, ai suoi piani, alle sue convinzioni, in una parola, ai suoi significati personali, ma fanno riferimento a distorsioni o deficit di alcune funzioni cognitive o metacognitive. Ad es., nel caso del disturbo ossessivo compulsivo sono stati proposti diversi deficit di alcune funzioni esecutive, come il deficit di inibizione, per cui le compulsioni dipenderebbero da una incapacità del paziente di inibire l’atto compulsivo e le ossessioni sarebbero una conseguenza delle compulsioni o una loro razionalizazzione.

Oppure l’oscillazione drammatica tra stati mentali opposti e incompatibili e la difficoltà a conciliarli, tipica del paziente Borderline, sarebbe dovuta, secondo alcuni, a un deficit della capacità di integrare stati mentali opposti. Oppure la depressione si mantiene e si aggrava per un eccesso di ruminazione su temi depressivi.

Questo secondo approccio è in risonanza con un più generale trend della psichiatria verso una interpretazione neurologica delle cause dei disturbi mentali. Infatti e ad esempio, la tesi che il DOC dipenda da un deficit di inibizione, o di altre funzioni esecutive, o della memoria, si concilia con l’idea che il DOC sia una malattia neurologica molto di più della tesi che il DOC dipenda dallo scopo assoluto di prevenire una colpa.

Nel cognitivismo clinico e più in generale nella Experimental Psychopathology  troviamo dunque due approcci fondamentali: Appraisal Theories (AT) e Deficit Theories (DT). Questi due approcci sono ben presenti nello studio del DOC.

Nel 4° Meeting del SIG on OCD EABCT tenuto ad Assisi nel 2014 e organizzato da Barbara Barcaccia, si è svolto un confronto tra le due posizioni. I due paper, assieme ad altre presentazioni di grande interesse, sono state pubblicate nel Numero di Dicembre 2014 di Clinical Neuropsychiatry, tutto dedicato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini: Advances in the understanding and treatment of Obsessive-Compulsive Disorder (SCARICA TUTTI GLI ARTICOLI).

Anholt e Kalanthroff hanno presentato una relazione (“Do we need a cognitive theory for Obsessive-compulsive disorder?”) in cui hanno argomentato contro le spiegazioni del DOC in termini di scopi e rappresentazioni, cioè di contenuti della mente del paziente, e a favore della teoria del deficit, in particolare del deficit di inibizione.

L’argomento principe contrario alle spiegazioni contenutistiche del DOC è che, da ricerche correlazionali svolte con questionari,  risulta che alcuni pazienti ossessivi hanno una propensione ai cosiddetti obsessional beliefs maggiore di altri tipi di pazienti, o addirittura di non pazienti, e che alcuni non ossessivi hanno una siffatta propensione maggiore dei pazienti ossessivi. A favore del deficit di inibizione hanno portato alcuni dati sperimentali, sostanzialmente in compiti di tipo go-no go i pazienti ossessivi tendono a commettere più errori quando si tratta di inibire la risposta.

Al contrario, Mancini e Barcaccia (“Do we need a cognitive theory of obsessive-compulsive disorder? Yes, we do”), in conformità a dati rigorosamente sperimentali, contestano le argomentazioni contrarie alle Appraisal Theories,. Innanzitutto, contrariamente a quanto sostenuto da Anholt e Kalanthroff , le AT  non prevedono che nei pazienti ossessivi vi sia una maggiore propensione ai cosiddetti obsessional beliefs. Infatti, non è raro il caso di pazienti, ossessionati dalla contaminazione di specifiche sostanze, ad esempio, lo zucchero o alcuni insetti come i pidocchi, ma che  non provano disgusto per altri tipi di contatto che sono però citati nei questionari che misurano la propensione al disgusto. In questi casi non stupisce che la propensione al disgusto possa essere bassa pur essendo il timore di contaminazione il contenuto delle ossessioni e la ragione delle compulsioni.

Non solo, ma diversi esperimenti dimostrano, ad esempio, che lo scopo di prevenire una colpa è una condizione necessaria e sufficiente per avere sintomi ossessivi. Ciò rende superfluo il ricorso a eventuali deficit come spiegazione del DOC. Inoltre, le ricerche sui deficit nel DOC hanno portato a risultati contraddittori, senza contare che spesso ciò che potrebbe apparire come conseguenza di un deficit in realtà è conseguenza degli stati mentali del paziente, ad esempio le funzioni esecutive possono essere disturbate dallo scopo, tipicamente ossessivo, di evitare errori, infatti, la performance dei pazienti scade se si mette loro fretta.

Altro esempio ben noto riguarda il presunto deficit di memoria. Un numero consistente di esperimenti ha dimostrato che nei pazienti ossessivi, ma anche in soggetti non clinici, se si attiva una forte motivazione a prevenire colpe connesse a mancati controlli o a performance scadenti, ne consegue una tendenza alla ripetizione che a sua volta implica sfiducia nel proprio ricordo, pur essendo il ricordo valido. È più corretto, quindi, parlare di valutazione della propria memoria che di deficit di memoria. Abbiamo un esempio quindi di come performance che possono apparire conseguenza di un deficit siano, a volte, conseguenza di scopi e rappresentazioni del paziente.

Il fatto che nel DOC le AT appaiano, allo stato attuale delle conoscenze, più euristiche delle Deficit Theories, non implica che per altri disturbi debba essere lo stesso. Ad esempio per spiegare l’autismo, sembra necessaria e sufficiente una teoria del deficit.  Nemmeno va sottovalutata la possibilità che, in alcuni disturbi, siano necessarie entrambe le spiegazioni e che nessuna delle due, da sola, sia sufficiente. Ma in questo caso, è indispensabile mostrare come deficit e contenuti interagiscono,  mentre sarebbe ingenuo contentarsi di identificare qualche correlazione e qualche mediazione statistica lasciando oscuri i processi psicologici della interazione fra deficit e contenuti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Anholt, G.E., & Kalanthroff, E. (2014). Do we need a cognitive theory for obsessive-compulsive disorder? Clinical Neuropsychiatry, 11 (6), 194-196. DOWNLOAD
  • Mancini, F., & Barcaccia, B. (2014). Do we need a cognitive theory of obsessive-compulsive disorder? Yes, we do. Clinical Neuropsychiatry, 11(6), 197-203. DOWNLOAD

Perchè gli estroversi sono più felici?

FLASH NEWS

Gli estroversi riportano più felicità rispetto agli introversi durante attività faticose ma gratificanti (ad esempio esercizio fisico e sport). Invece non vi sarebbero differenze significative tra introversi ed estroversi riguardo la felicità esperita durante attività piacevoli ma a basso sforzo.

Gli estroversi sono più felici? E perché? Una delle ipotesi – testate da una recente ricerca – è che gli estroversi si godono meglio le attività piacevoli nella quotidianità. Ma di quali attività si tratta?

Lo studio ha confrontato individui introversi ed estroversi nell’esperire felicità in diverse attività durante la giornata. Circa mille soggetti hanno costituito il campione ed è stato loro chiesto di completare un diario retrospettivo dei giorni precedenti: in particolare è stato utilizzato il “Day Reconstruction Method” che richiede ai partecipanti di ricordarsi delle attività effettuate nella giornata precedente in ordine cronologico descrivendo aspetti spazio-temporali (dove, con chi, quando,etc) ed emotivi (quali emozioni provavano durante ciascuna attività descritta).

Dai dati è risultato che gli estroversi riportano più felicità rispetto agli introversi durante attività faticose ma gratificanti (ad esempio esercizio fisico e sport). Invece non vi sarebbero differenze significative tra introversi ed estroversi riguardo la felicità esperita durante attività piacevoli ma a basso sforzo (guardare la TV oppure fare shopping).

Un dato controintuitivo e differente riguarda la lettura: non sarebbero gli introversi a provare più piacere leggendo un libro ma appunto gli estroversi.

Il pattern che si delinea per gli estroversi è dunque non una maggiore edonia di per sé, ma una propensione a provare in misura maggiore emozioni positive – rispetto agli introversi- nelle attività gratificanti ma anche faticose. Di conseguenza, sono gli estroversi che impiegano più tempo in tali attività rispetto agli introversi, indipendentemente dal fatto che siano in compagnia o da soli. E’ pur vero però, secondo lo studio, che gli estroversi hanno picchi di piacere molto alti quando a faticare per poi sentirsi ricompensati non sono da soli ma in compagnia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia al Telefono: un trial clinico randomizzato per Adolescenti con OCD

Il numero di dicembre della rivista scientifica Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry ha pubblicato i risultati di un trial clinico randomizzato che confronta la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) erogata tradizionalmente, con la stessa psicoterapia erogata attraverso il telefono, in bambini e adolescenti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (OCD).

 

ABSTRACT:

Objective: Many adolescents with obsessive-compulsive disorder (OCD) do not have access to evidence-based treatment. A randomized controlled non-inferiority trial was conducted in a specialist OCD clinic to evaluate the effectiveness of telephone cognitive-behavioral therapy (TCBT) for adolescents with OCD compared to standard clinic-based, face-to-face CBT. Method: Seventy-two adolescents, aged 11 through 18 years with primary OCD, and their parents were randomized to receive specialist TCBT or CBT. The intervention provided differed only in the method of treatment delivery. All participants received up to 14 sessions of CBT, incorporating exposure with response prevention (E/RP), provided by experienced therapists. The primary outcome measure was the Children’s Yale–Brown Obsessive- Compulsive Scale (CY-BOCS). Blind assessor ratings were obtained at midtreatment, post- treatment, 3-month, 6-month, and 12-month follow-up. Results: Intent-to-treat analyses indicated that TCBT was not inferior to face-to-face CBT at posttreatment, 3-month, and 6-month follow-up. At 12-month follow-up, there were no significant between-group differ- ences on the CY-BOCS, but the confidence intervals exceeded the non-inferiority threshold. All secondary measures confirmed non-inferiority at all assessment points. Improvements made during treatment were maintained through to 12-month follow-up. Participants in each condition reported high levels of satisfaction with the intervention received. Conclusion: TCBT is an effective treatment and is not inferior to standard clinic-based CBT, at least in the midterm. This approach provides a means of making a specialized treatment more accessible to many adolescents with OCD. Clinical trial registration information–Evaluation of telephone-administered cognitive-behaviour therapy (CBT) for young people with obsessive-compulsive disorder (OCD); http://www.controlled-trials.com; ISRCTN27070832. J. Am. Acad. Child Adolesc. Psychiatry, 2014;53(12):1298–1307. Key Words: OCD, psy- chotherapy, CBT, telehealth

 

Psicoterapia al telefono? Sì, ma a breve termineConsigliato dalla Redazione

L’evoluzione della cosiddetta telemedicina, ossia dell’erogazione di servizi sanitari a distanza, attraverso mezzi tecnologici che possono andare dalla telefonata alla videoconferenza, fino ad arrivare alla gestione di interventi chirurgici attraverso robots teleguidati, non si arresta neanche in campo psichiatrico/psicologico (…)

Tratto da: Medicitalia.it

 

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Che grande questo piccolo Hans! di Lorenzo Recanatini – Recensione del libro

Innovativo e leggero, Recanatini nel libro è stato in grado di parlare di psicoanalisi con un linguaggio semplice e lineare senza usare, se non in casi specifici, termini e costrutti psicoanalitici.

Che grande questo piccolo Hans! (2014) L. Recanatini
Che grande questo piccolo Hans! (2014) L. Recanatini

Per gli addetti ai lavori la storia del piccolo Hans risulta essere un ritorno del rimosso, usando il gergo psicoanalitico, poiché studiato più e più volte per diversi esami universitari e molto citato come caso clinico in diversi ambiti.
Il libro di cui parleremo oggi, dunque, propone uno degli antesignani dei casi clinici, in ambito psicoanalitico e non solo, attraverso uno stile narrativo differente: il fumetto. E così comincia l’avventura: Che grande questo piccolo Hans! Proprio questo è il titolo di uno degli ultimi libri di Lorenzo Recanatini edito da Alpes. Si tratta di una grande opera, un’impresa nuova e di particolare coinvolgimento rispetto alle numerosi pubblicazioni che trattano questo caso. Innovativo e leggero, Recanatini nel libro è stato in grado di parlare di psicoanalisi con un linguaggio semplice e lineare senza usare, se non in casi specifici, termini e costrutti psicoanalitici.

 Ha presentato il piccolo Hans con umorismo e spensieratezza, sempre rispettando il rigore clinico, attraverso domande e quesiti formulati in maniera semplice e leggera che permettono anche ad un pubblico non espero di carpire il significato più intrinseco, inconscio, del complesso di Edipo. Si tratta, sostanzialmente, di una estrema sintesi fumettistica del complesso di Edipo, narrandolo per concetti essenziali che portano ad evidenziare, oltre alla risoluzione dell’Edipo, il processo che determina la formazione della fobia specifica di cui era affetto il piccolo Hans. Chiaramente, il complesso di Edipo funge da spiegazione al formarsi della fobia, e diventa, dunque, lo snodo che determinerà e segnerà le scelte di vita future dell’individuo, non solo sessuali ma anche relazionali.

La peculiarità della narrazione consiste nel riuscire a far evincere in maniera netta il passaggio dal simbolo alla parola, conoscenza esplicita, che traduce in fatti i comportamenti paterni e materni vissuti dal protagonista.

Recanatini parte dalla tragedia di Sofocle, usata per spigare l’Edipo inteso come fase cruciale dello sviluppo della vita di Hans, e arriva a esplicitare il ruolo delle fantasie e degli interrogativi che riguardano la sessualità, focus dell’elaborazione freudiana, usata per spiegare la fobia specifica presentata da Hans. Attraverso la funzione svolta dal padre, presupposto del mito di Edipo, si dimostra come questo complesso sia importante nel percorso di sviluppo della propria soggettività. Se non risolto, l’Edipo diventa il centro da cui si originano e si generano i così detti sintomi nevrotici, esattamente come succede per il piccolo Hans.

Recanatini presenta molto bene attraverso il fumetto, sia con le parole che con le espressioni, quanto avviene in questa vicenda e come si risolve la stessa.

La lettura di questo libro è molto divertente e accattivante, è stato un piacevole ritorno del rimosso!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Discalculia – Definizione Psicopedia

 Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 La discalculia riguarda l’abilità di calcolo, sia nella componente dell’organizzazione della cognizione numerica (intelligenza numerica basale), sia in quella delle procedure esecutive e del calcolo.

Nel primo ambito, la discalculia interviene sugli elementi basali dell’abilita numerica: il riconoscimento immediato di piccole quantità, i meccanismi di quantificazione, la seriazione, la comparazione, le strategie di composizione e scomposizione di quantità, le strategie di calcolo a mente. Nell’ambito procedurale, invece, la discalculia rende difficoltose le procedure esecutive per lo più implicate nel calcolo scritto: la lettura e scrittura dei numeri, l’incolonnamento, il recupero dei fatti numerici e gli algoritmi del calcolo scritto vero e proprio. 

 

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La nostra memoria: molto più di un semplice magazzino

Dedichiamo un momento di riflessione alla memoria: accantoniamo le ben conosciute teorie che la catalogano come magazzini a breve e lungo termine, stazioni di lavoro al servizio di altre funzioni psicologiche, e con l’aiuto dell’articolo pubblicato da Jens Brockmeier, superiamo l’idea riduttiva di memoria come archivio.

La memoria è una delle funzioni psicologiche più affascinanti essendo l’essenza della nostra identità e dell’esistenza di ciascuno. Quanto terrore all’idea delle patologie che colpendo la memoria vanno al cuore del nostro essere in quanto individui non puramente biologici ma anche culturali.

Dunque dedichiamo un momento di riflessione alla memoria: accantoniamo le ben conosciute teorie che la catalogano come magazzini a breve e lungo termine, stazioni di lavoro al servizio di altre funzioni psicologiche e con l’aiuto dell’articolo pubblicato da Jens Brockmeier, superiamo l’idea riduttiva di memoria come archivio.

La crisi della memoria come archivio e magazzino passa da studi che ne evidenziano la scarsa stabilità e l’ incoerenza (Young, 2008) a ricerche cliniche sulla False Memory Syndrome (Conway, 1997) sottolineando la malleabilità, la plasticità e il carattere interattivo-dialogico dei nostri ricordi.

La memoria è qualcosa di più, memoria sono le pratiche sociali e culturali della nostra quotidianità, ricordare e dimenticare significa non replicare ma ricostruire e ricostruire di nuovo le nostre esperienze. Inoltre la memoria non è solo affare psicologico.

Nell’articolo si evidenziano altri campi di studio che ne mettono in crisi la semplicistica nozione di archivio: dalle scienze storiche alla tecnologia fino alle scienze neurobiologiche. Nell’ambito storico si osserva lo studio di nuovi generi di memorie narrative collettive e politiche (Andrews, 2007) che portano il concetto di memoria strettamente interdipendente con le pratiche sociali e culturali di un certo momento storico. La tecnologia e i nuovi media: il fenomeno globale della rivoluzione digitale è di fatto  una rivoluzione della memoria e della comunicazione umana che presenta una serie di conseguenze e implicazioni psicosociali sul processo mnestico in sé, sulle pratiche e sulle azioni del ricordare e dimenticare nonché sulla modificazione delle nostre funzioni cognitive (Dijck, 2007).

Da non trascurare l’influenza degli studi di psicologia cross-culturale: se la memoria è dialogica e narrativa (Nelson, 2007), se la conversazione e il narrare seguono le convenzioni e le pratiche culturali, allora le memorie avranno aspetti di variazione culturale: nelle culture ad alta contestualizzazione – come ad esempio il Giappone-la temporalità nella memoria autobiografica è concepita in modo ciclico, a differenza dei paesi occidentali a bassa contestualizzazione in cui il tempo nelle nostre menti e  nelle narrazioni è tipicamente lineare (Yamada e Kato, 2006).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Andrews, M. (2007). Shaping history: Narratives of political change. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Brockmeier, J. (2011). After the Archive: Remapping Memory. Culture and Psychology, vol.16-1, 5-35
  • Bartlett, F.C. (1932). Remembering. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Conway, M.A. (1997). Recovered memories and false memories. Oxford: Oxford University Press
  • Dijck, J.V. (2007). Mediated memories in the digital age. Stanford, CA: Stanford University Press.
  • Nelson, K. (2007). Developing past and future selves for time travel narratives. Behavioral and Brain Sciences, 30, 327–328.
  • Yamada, Y., & Kato, Y. (2006). Images of circular time and spiral repetition: The generative life cycle model. Culture & Psychology, 12, 143–160.
  • Young, M. (2008). The texture of memory: Holocaust memorials in history. In A. Erll & A. Nünning (Eds.), Cultural memory studies: An international and interdisciplinary handbook (pp. 357–365). Berlin & New York: de Gruyter.

 

Bando ricerca: Clinical Neuropsychiatry Award 2015

Bando per la Ricerca:

Clinical Neuropsychiatry Award 2015

Clinical Neuropsichiatry Award 2015

Giovanni Fioriti Editore is pleased to announce the first Clinical Neuropsychiatry Award. The prize –2000 Euros – is to be awarded to the author (-s) of a paper submitted to the journal in the period Nov 1, 2014 – May 31, 2015, who has made an outstanding contribution to psychiatric clinical practice.

Rules

Aims

The winner (-s) will be selected amongst the research articles submitted for publication in CN with the highest impact on clinical psychiatry.

Procedure

Submitting a research paper for the Clinical Neuropsychiatry award.

Everybody can participate in the award competition by simply submitting original, not previously published research articles for publication; send the paper to http://www.fioriti.it/autori/loadArticle.php

Send articles as usual and in agreement with CN instructions for authors in the period Nov 1, 2014 – May 31, 2015.
Within July 2015, the award committee will complete the evaluation procedure and announce the winner. The prize will be awarded in September 2015.

Evaluation

The evaluation committee is composed of the president Donatella Marazziti (editor-in-chief),  Alessandro Grispini, Alessandro Serretti, Laura Mandelli, Michele Poletti, Adriano Schimmenti, Giuseppe Craparo, Leandro Malloy-Diniz, Alfonso Troisi.
During the evaluation procedure even the referees could recommend an article for the award.
Each member of the evaluation committee will choose articles suitable for the competition and discard those unsuitable articles (e. g.: review articles, editorial, research articles not related to clinical procedure etc.), as all articles submitted to CN are judged by referees, but not all have the characteristics to participate in our award.
A work judged acceptable only by one member of the evaluation committee will be excluded.
A work judged acceptable by two members of the evaluation committee will be discussed.

After this initial stage all works suitable for the award will be assigned a score from 1 to 10 by each evaluator while keeping in mind the aims of the competition.

Importance of the clinical impact of a research paper conducted with a stringent, scientific method and being original.

Each evaluator will assign a score according to his/her own personal knowledge and fields of interest.

The decisions made by the evaluating committee are final and can not be contested at all.

 

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Le difficoltà degli psicoanalisti

In ambito SITCC c’è un po’ la preoccupazione che la psicoanalisi sia alle porte, impegnata in una battaglia culturale e mediatica che ci possa sottrarre allievi, influenza, rilevanza scientifica e pazienti. L’impressione è che le cose non siano proprio così. In realtà, gli psicoanalisti se la passano piuttosto male, molto peggio di quello che pensiamo… almeno negli USA.

Questo è lo scritto di un tipo che da anni si porta la meritata nomea del più psicoanalista tra i cognitivisti. Mi trovo spesso a difendere le terapie psicodinamiche da attacchi ingiusti e fuorvianti e soprattutto dalla tendenza a trascurare il molto di buono che abbiamo appreso e apprendiamo da questa disciplina. Però di questi tempi ci sono altre riflessioni da fare. In ambito SITCC c’è un po’ la preoccupazione che la psicoanalisi sia alle porte, impegnata in una battaglia culturale e mediatica che ci possa sottrarre allievi, influenza, rilevanza scientifica e pazienti. L’impressione è che le cose non siano proprio così. In realtà, gli psicoanalisti se la passano piuttosto male, molto peggio di quello che pensiamo… almeno negli USA.
 
Che succede? Leggo l’articolo di Barber e Sharpless, On the future of psychodynamic therapy research, early online su Psychotherapy Research.

 Gli autori fanno una disanima di quello che accade nel mondo americano. La situazione appare loro drammatica. Drammatica innanzitutto per la ricerca in psicoterapia in generale. In tempi grami economicamente la nostra ricerca è sempre meno finanziata, al contrario, ahimé, di quella sulle terapie farmacologiche (forse il vero avversario è lì, o almeno nella tendenza a dirigere i finanziamenti in tutto quello che abbia un sapore di neurobiologico). E questo è un guaio per tutti.

Il quadro per le psicoterapie dinamiche appare invece decisamente disastroso. I programmi di specializzazione in psicologica clinica completamente CBT crescono e quelli in cui l’insegnamento di teorie psicodinamiche è inesistente… crescono pure! Negli USA tra gli istituti di formazione in psicoanalisi più di un terzo è sull’orlo del fallimento.
 
Gli autori poi espongono le loro riflessioni su come potrebbero fare i ricercatori psicodinamici (almeno negli states) a fare le nozze con i fichi secchi, ovvero ricerca su processo ed efficacia con pochi fondi. Questo ci interessa meno, ad eccetto di un punto: notano l’importanza della collaborazione tra avversari, ovvero ricercatori di orientamenti opposti che fanno un trial insieme, in modo da evitare il cosiddetto allegiance effect (in parole povere: uno fa il tifo per il proprio orientamento e… ops… i risultati vengono proprio bene). Nel contesto del loro lavoro suona un po’ come un grido disperato, una richiesta di soccorso proprio a chi è in questo momento in posizione (percepita da loro) dominante, ovvero la CBT. Siamo nelle sabbie mobili, ci date una mano? Difficile che l’aiuto venga proprio da chi ha interesse ad affondarli, però scientificamente hanno ragione.
 
Ho trovato divertente che invece si lamentino dell’esposizione della psicoanalisi nei media (mi ricorda un po’ quello che scriviamo noi cognitivisti nei nostri dialoghi all’interno della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Sostanzialmente dicono che l’immagine della psicoanalisi è quella dei film di Woody Allen e dei Sopranos e si potrebbe fare di meglio. In verità peccano di ignoranza mediatica, perché lo spettatore moderno è scafato e si è visto In treatment e quello è uno psicoanalista moderno, che fa parecchi errori ma non è proprio scemo.
 
In parallelo, cosa che non facevo da tempo, mi sono spulciato le ultime uscite dell’International Journal of Psychoanalysis. E qui c’è da rabbrividire e i ricercatori psicoanalitici seri dovrebbero un po’ preoccuparsi di essere affiancati a certe teorie. Però, se non sei psicoanalista praticante (appunto, come chi scrive), più che da rabbrividire viene da sorridere.

Un breve florilegio di letteratura scientifica (per modo di dire) recentissimamente apparsa su questa rivista.

Tale Juan Francisco Artalotyia, spagnolo, propone una metapsicologia per la schizofrenia. Per fortuna leggo l’abstract da seduto, altrimenti il mio laptop, affettuosamente poggiato sulle ginocchia, avrebbe fatto una brutta fine! Ma come, ancora la metapsicologia? Non dicevano tutti che non esisteva più? Parla di un  paziente che sente le voci e si sente osservato e quindi, come Freud sosteneva, si delinea un circuito per la parola e uno per l’immagine, entrambi bloccati. Che vuol dire??? Però il paziente migliora. Meno male.
 
Bruce Reis parla di attaccamento e psicoanalisi. Qui possiamo tirare un sospiro di sollievo, l’argomento è sensato.
 
Gli italiani non ci deludono. A proposito, fateci caso, ci sono tanti psicoanalisti italiani che pubblicano su riviste internazionali. Colleghi: svegliatevi! Sono più attivi di noi!

De Masi (mi pare uno influente) e colleghi parlano di allucinazioni negli stati psicotici (a quanto pare non hanno mollato sulle spiegazioni psicoanalitiche della schizofrenia). Oh, questa è gente che non scherza. Gli autori postulano (ma si può dire postulano sulle riviste scientifiche?) che i fenomeni allucinatori rappresentino l’esito di un uso psicotico distorto della mente per lungo tempo. Nello stato allucinatorio la parte psicotica della personalità (sì, la chiamano così) usa la mente per generare sensazioni autoindotte e per raggiungere una particolare sorta di piacere regressivo. Qui mi viene da urlare: nooo! Ma come, un povero disgraziato che ha allucinazioni persecutorie se le fabbrica per provare piacere. E dai!

Poi il colpo gobbo: le allucinazioni visive si può dire che originino dal vedere con gli occhi della mente, le allucinazioni uditive dal sentire con le orecchie della mente. Io non ci sarei mai arrivato, troppo intelligenti per me. La conclusione dell’abstract è un’opera d’arte: Con il processo psicotico allucinatorio la mente può modificare il lavoro di un organo somatico come il cervello. Cartesio, ti fischiano le orecchie? Ci fai sapere?
 
Florent Poupart – che nome, già di suo meritava la pubblicazione – di Tolosa, ci parla dell’organizzazione isterica. Fa sempre interesse, diciamolo. La novità teorica sconvolgente è che l’essenza dell’isteria è l’ambivalenza verso la penetrazione nella sua forma passiva (desiderio vaginale). Una fantasia di penetrazione incorporea (sic) porta all’orgasmo e salva dall’ansia della distruzione dello spazio interno e dall’ansia di colpa che segue al climax desiderato. Sessuologi cognitivisti: vi volete svegliare!? La conclusione dell’abstract è deliziosa: il teatro privato nella nevrosi, così come l’occupazione e il condizionamento della mente nella psicosi (delirio di controllo) fungono da figurazioni psichiche della vagina. Propongo un premio erogato dalla SITCC a chi riesce a spiegarne il significato.
 
Sebastian José Kohon – non sembra ma è di Londra – scrive di Bion. Questo non riesco neanche a riassumerlo. Parla di barriera di contatto (conscio inconscio), elementi beta e pulsioni. Semplicemente incomprensibile.
 
Ora, sperando di avere mosso qualche sorriso, non mi sembra che da quelle parti siano messi bene.

C’è un mondo psicoanalitico di teorici, ricercatori e clinici svegli e intelligenti – mai fatto mistero del fatto che ne condivido molti punti e per me sono fonte di continua ispirazione, che in questo momento sono al verde.

Le istituzioni si indeboliscono. Nel mainstream si alternano lavori teorici interessanti – ho saltato in modo del tutto intellettualmente disonesto molti articoli pubblicati nell’International Journal of Psychoanalysis che sono interessanti e sensati. Alcuni scritti da gente che fa pure buona ricerca, tipo quelli che testano i modelli psicodinamici per la cura dei disturbi alimentari – dicevo, si alternano lavori interessanti a delle robe fuori dal tempo che in certi momenti pensavo non esistessero più.
 
La domanda che mi faccio è: abbiamo davvero un, chiamiamolo così, avversario politico-culturale-economico, così potente minaccioso e influente, come lo poteva essere vent’anni fa. Oppure siamo un po’ nel clima del Deserto dei tartari di Buzzati, ci aspettiamo un assedio che non avverrà mai?
 
O forse il problema è che si danno pacchi di soldi per finanziare tutto quello che includa studi di neuroimmagini (che costano un botto) e ne basterebbe un decimo per finanziare studi di ricerca in psicoterapia che ai nostri pazienti servirebbero molto di più?

In ogni caso, a me sembra più interessante continuare a diffondere un paradigma cognitivista aperto, intelligente, scientificamente fondato sulla ricerca in psicoterapia, sulla conoscenza della psicopatologia sperimentale e della psicopatologia generale, mantenere le orecchie aperte al mondo esterno imparando da quello che le altre scuole ci possono insegnare – certo se stavamo a sentire Salkovskis, Wells, Clarke e non so chi altro l’importanza della relazione terapeutica e dei processi intersoggettivi ce la potevamo bellamente scordare – e fare ricerca attivamente, con minor timore che i ladri ci rubino in casa.
 
Poi da colleghi come Bateman, Fonagy, Kernberg, Barber, Leichsenring, Lingiardi, Colli, Gazzillo, Stern, Safran, Muran, abbiamo tanto da imparare.

 

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