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A beautiful mind (2001) – Cinema & Psicoterapia nr. 33

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC
 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #33

A beautiful mind (2001)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

La capacità di convivere con una malattia così grave e la speranza di avere una vita qualitativamente buona, come è stato per John Nash, possono essere uno stimolo importante, per i malati e i loro familiari.

Info:

Diretto da Ron Howard. Interpretato da Russell Crowe. Gran Bretagna 2001. Il film è ispirato all’omonima biografia di Sylvia Nasar.

Trama:

Il film racconta la storia di John Nash matematico, vincitore a soli diciannove anni di una borsa di studio alla Università di Princeton nel 1947, successivamente ricercatore al MIT di Boston e poi docente a Princeton, insignito nel 1994 del premio Nobel per l’economia in rela¬zione alle sue geniali intuizioni sulla “Teoria dei Giochi”.

I rapporti umani sono il tallone d’Achille del prestigioso matematico; nonostante ciò si sposa con Alicia, una giovane studentessa di Fisica. Nash ha solo un amico Charles, il suo compagno di stanza, che ha una nipote e passa il suo tempo con le formule matematiche.

Nella sua vita compare anche William Parcher un oscuro agente governativo che lo ingaggia per missioni segrete. In realtà i tre personaggi Charles, sua nipote e Parcher non sono nient’altro che allucinazioni: Nash, infatti è affetto da schizofrenia paranoide. Curato e assistito da sua moglie riesce a convivere con le allucinazioni, tornando anche all’attività accademica.

Motivi di interesse:

Il film mostra la sintomatologia negativa e positiva della schizofrenia in numerose scene. Un occhio attento riesce a distinguere le allucinazioni di Nash dallo sviluppo “realistico” del film, ma non è certo un compito semplice.

Questo dà il senso di quanto nella mente del malato i sintomi positivi siano vissuti come reali e quanto la sua vita si dispieghi lungo un mondo visto dall’esterno come immaginario, ma costrui¬to dallo schizofrenico su percezioni ritenute valide e inconfutabili.

In alcune scene si possono riscontrare queste differenze. Solo per fare un paio di esempi, possiamo citare la scena in cui la nipotina di Charles corre in mezzo ai piccioni che restano tranquilli e non si alzano in volo né si spostano, o ancora la scena in cui, dopo che John decifra un messaggio, si affaccia dalla finestra, vede Parcher e chiede chi sia quell’uomo senza ricevere risposta e venendo ignorato.

La capacità di convivere con una malattia così grave e la speranza di avere una vita qualitativamente buona, come è stato per John Nash, possono essere uno stimolo importante, per i malati e i loro familiari. Affrontare una patologia così grave non è certo facile e le conseguenze di una mancata consapevolezza possono essere molto invalidanti e in alcuni casi addirittura drammatiche.

La nostra esperienza clinica ci fa dire che ai pazienti stabilizzati la visione del film e di recenti interviste rilasciate dal Premio Nobel infondono coraggio e fiducia nella possibilità di gestire la malattia.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il film può essere uno strumento utile di psicoeducazione per i familiari, per i pazienti e per la comprensione della malattia per gli studenti.

Trailer

 

LEGGI ANCHE:

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Dove sta andando la Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale in Italia

Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale – DIRETTORE RESPONSABILE: EZIO SANAVIO – Dipartimento di Psicologia Generale Università di Padova – Padova, 14 novembre 2014

Dove sta andando la psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia

 

Aula ‘Cesare Musatti’, Università degli Studi di Padova.

Apre il Convegno alle ore 10.15 un benvenuto del prof. Giulio Vidotto, direttore del Dipartimento di Psicologia Generale che ha dato il proprio patrocinio e ospita l’incontro.

Il direttore della rivista, prof. Ezio Sanavio, ricorda che Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale non è un giornale di bandiera, ma che “scopo della rivista è diffondere i molteplici aspetti e le diverse ramificazioni della psicoterapia cognitiva e comportamentale italiana”.

Il convegno vuole celebrare venti anni di pubblicazioni regolari, che hanno comportato la pubblicazione di 120 articoli originali di ricerca, 60 rassegne critiche o contributi teorici, 45 articoli nella sezione ‘Brevi comunicazioni’, 41 articoli riproposti nella rubrica ‘Archivio storico’, 36 ‘casi clinici’, 34 protocolli di ricerca, 230 recensioni di volumi. In questi venti anni sono state pubblicate oltre 8000 pagine di contributi scientifici, oltre a tre volumi di abstracts di altrettanti convegni internazionali e un supplemento monografico. Nei venti anni trascorsi sono state stampate oltre 100.000 copie; l’ultimo numero è il terzo fascicolo del 2014, volume 20, ed è stato stampato in 2322 copie.

Al convegno sono stati invitati, oltre ai collaboratori della rivista, tutti i responsabili (direttori) di Scuole di specializzazione in psicoterapia ad orientamento cognitivo e/o comportamentale sulla base del sito ufficiale MIUR. Successivamente è stata inviata loro una griglia con sei quesiti al fine di meglio organizzare la discussione.

Alcuni responsabili impossibilitati a partecipare hanno inviato un proprio documento, quelli fisicamente presenti si sono alternati nei propri interventi. Segue quindi un’ampia discussione. Esauriti costruttivamente i vari temi, il convegno si è sciolto alle ore 15.45.

A seguito sono riportati i sei quesiti con relativa sintesi della discussione relativa.

  1. Psicoterapia cognitiva e comportamentale ha vent’anni. Focalizzandosi su questi ultimi vent’anni e sulla specifica realtà italiana, Lei ritiene che si possano riconoscere delle linee di sviluppo nel panorama CBT? Potrebbe cercare di rispondere alla domanda: dove sta andando la psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia?

 

Gli interventi hanno sottolineato come le linee di sviluppo recenti mostrino un panorama variegato, molto articolato e, per certi aspetti, frammentato. In questo momento non sono facilmente individuabili linee chiare di sviluppo futuro. Divergenze e frammentazione non vanno considerate un problema, ma piuttosto una ricchezza.

  1. Negli ultimi vent’anni,in Italia e nel mondo, la CBT ha avuto un’enorme crescita di prestigio tra la popolazione, i media, il mondo sanitario, il mondo accademico. Oggi il marchio CBT è un marchio di prestigio. Crede utili e possibili iniziative comuni atte a promuoverlo ulteriormente e/o tutelarlo da contraffazioni opportunistiche?

E’ stato espresso un accordo totale nel promuovere la qualità della CBT anche nel nostro Paese. Perplessità sono state invece espresse sull’ipotesi di qualche forma di agenzia di accreditamento.

  1. A caratterizzare la CBT sono sempre stati storicamente i riferimenti alla psicologia di base, l’enfasi sui riscontri empirici, l’attenzione per la ricerca e per la valutazione dei risultati (in contrasto con orientamenti psicoterapeutici che privilegiano il setting clinico, la relazione, l’ermeneutica, ecc.). Ritiene che anche in futuro saranno i suddetti riferimenti a fare da spartiacque tra approccio CBT e ‘resto del mondo’?

Si è discusso su come sia di fatto impossibile formulare un sistema di norme e regole classificatorie, ma sia invece possibile delineare una storia comune da cui trarre gli elementi costitutivi. E’ stato ampiamente sottolineato il rilievo e la centralità della ricerca scientifica costantemente aggiornata sugli ambiti rilevanti per modelli, metodi, ecc.

  1. Ritiene che esista una certa massa di conoscenze teoriche, di metodi di analisi psicodiagnostica, di procedure di trattamento, che costituiscano una sorta di minimo comun denominatore CBT? Ritiene possa essere riconosciuto come patrimonio condiviso di ogni psicoterapeuta CBT e come base dell’identità culturale e professionale?

Gli interventi hanno mostrato l’esistenza di un patrimonio condiviso dell’identità culturale comune. Si è parlato di un sistema permeabile che interagisce con altri sistemi e culture.

 

Si è detto che esiste un minimo comun denominatore, ma che viene oscurato proprio dal fatto che la CBT è diventata eccezionalmente vasta.

  1. E’ a conoscenza degli EABCT (European Association for Behavioral and Cognitive Therapies) Standards for the training and accreditation of Behavioural and Cognitive therapists? In caso affermativo, qual è la sua valutazione?

L’attenzione si è focalizzata sulla centralità e quantità di esperienza pratica richiesta agli alllievi e sull’esperienza pratica svolta in modo supervisionato. Sono state indicate le grandi differenze, a questo riguardo, che intercorrono tra le diverse scuole riconosciute in Italia e tra scuole private e sistema universitario.

  1. Focalizzandosi su quanto sa del panorama odierno delle scuole riconosciute d’area CBT, ritiene che le differenze tra di loro siano tali da sconsigliare una rete di dette scuole? Cosa pensa dell’ipotesi di una Consulta nazionale delle scuole CBT? Nel caso Lei fosse favorevole, potrebbe dare dei suggerimenti?

E’ stata unanimemente valutata opportuna la costituzione di una consulta delle scuole CBT. Funzione della consulta sarebbe promuovere e rappresentare l’approccio verso l’opinione pubblica e verso le diverse sedi istituzionali italiane, in primo luogo il MIUR, e verso le associazioni internazionali. E’ stato costituito un gruppo di lavoro col compito di identificare i criteri di costituzione e organizzazione di tale consulta e di predisporre un’agile bozza di statuto. Componenti del gruppo di lavoro sono Nicola Marsigli, Paolo Michielin, Paolo Moderato, Ezio Sanavio, Sandra Sassaroli, Lucio Sibilia. Tale gruppo farà circolare la bozza di statuto e convocherà tutti per una riunione fondativa a Padova in data 10 febbraio 2014.

LEGGI IL REPORT DALLA RIUNIONE DI PADOVA:

CBT: il risveglio della bella addormentata

Anoressia nervosa: anomalie nelle connessioni neurali

FLASH NEWS

I risultati dello studio hanno messo in evidenza come nei soggetti affetti da anoressia nervosa si possa osservare una generale diminuzione nell’attivazione delle connessioni neurali che hanno origine dal giro frontale inferiore (IFG) e un aumento nell’attivazione delle connessioni che arrivano a tale regione.

L’anoressia nervosa è un disturbo caratterizzato dal rifiuto di mantenere il proprio peso corporeo vicino o al di sopra del peso minimo normale rispetto a quanto previsto per età, sesso e statura (con una diminuzione al di sotto dell’85% rispetto al peso atteso).

Ciò che contraddistingue questo disturbo è un restringimento nel numero di calorie ingerite ed un rifiuto verso il cibo. Nei soggetti affetti da anoressia nervosa è frequentemente riscontrata anche un’iperattività motoria. Nonostante il ruolo centrale che questo sintomo sembra giocare sia nella patogenesi sia nella progressione del disturbo si tratta, tuttavia, di un aspetto ancora poco compreso.

L’attenzione ai correlati neurofisiologi associati a tale patologia potrebbe permettere una migliore comprensione del disturbo e fornire, inoltre, un importante contributo allo sviluppo del suo trattamento in quanto sia la somministrazione di farmaci sia la psicoterapia risultano essere solo parzialmente efficaci.

Stephanie Kullman insieme ad alcuni colleghi dell’Università di Tubingen ha recentemente pubblicato uno studio in cui è stata indagata la connessione cerebrale in dodici pazienti affette da anoressia nervosa. Attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) è stata riscontrata l’esistenza di alterazioni nelle connessioni tra diverse aree cerebrali in soggetti con anoressia nervosa rispetto a soggetti sani.

I risultati dello studio hanno messo in evidenza come nei soggetti affetti da anoressia nervosa si possa osservare una generale diminuzione nell’attivazione delle connessioni neurali che hanno origine dal giro frontale inferiore (IFG) e un aumento nell’attivazione delle connessioni che arrivano a tale regione.

Specificatamente, è emersa una diminuzione nell’attivazione delle connessioni che dall’area destra del IFG arrivano al cingolato ed un aumento nell’attivazione delle connessioni che hanno origine dal giro orbito-frontale bilaterale ed arrivano all’area destra del IFG e che dalla corteccia insulare bilaterale arrivano all’area sinistra del IFG.

Secondo gli autori, tali alterazioni riscontrate a livello della corteccia frontale inferiore, area implicata nel controllo delle funzioni esecutive, contribuirebbero a spiegare le condotte alimentari assunte dai soggetti con anoressia nervosa. L’incremento della connettività neurale è risultato, inoltre, riguardare regioni che intervengono nell’elaborazione della salienza degli stimoli. Un disturbo dell’equilibrio nella connessione tra il IFG e la corteccia insulare potrebbe, quindi, contribuire a spiegare l’insorgere, in questi soggetti, di uno stato di ansia e paura collegate a sensazione somatiche.

Infine, il presente studio ha messo in evidenza l’esistenza di un collegamento tra il livello di iperattività motoria delle pazienti con anoressia nervosa e le alterazioni riscontrate nella connettività neurale. Le pazienti con più alti livelli di attività fisica mostravano, infatti, una maggiore riduzione nell’attivazione delle connessioni a livello del IFG.

In una prospettiva futura potrebbe, quindi, essere interessante approfondire quanto emerso da questo studio indagando il grado di attivazione neurale in pazienti con anoressia nervosa anche nelle fasi successive al ricovero e al recupero di peso.

I risultati ottenuti da questo studio forniscono un importante punto di vista utile per la pianificazione di nuove modalità di trattamento nel disturbo di anoressia nervosa.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Aspetti neuropsicologici dell’anoressia nervosa e correlazioni con fattori ansiosi

BIBLIOGRAFIA:

  • Kullmann, S., Giel, K.E., Teufel, M., Thiel, A., Zipfel, S. & Preissl H. (2014). Aberrant network integrity of the inferior frontal cortex in women with anorexia nervosa. NeuroImage. Clinical, 4, 615-22.  DOWNLOAD

Creatività: Esiste un metodo o una ginnastica per allenarla?

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto dal blog di Annamaria Testa:

 

La mia amica Elena mi chiede se esiste una ginnastica per la creatività. La risposta breve sarebbe “sì, in senso lato. Non esattamente, in senso proprio, ma diverse cose interessanti si possono fare”. La risposta lunga, in due punti e sostenuta dalle fonti indispensabili per chi vuole verificare o approfondire, è qui sotto…

Metodo 70: una ginnastica per la creatività esiste? E funziona?Consigliato dalla Redazione

Si può allenare il cervello a ragionare meglio? C’è una ginnastica per la creatività? Vediamoci chiaro, tra proposte bizzarre, brain training, euristiche. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 

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Magra, più magra, la più magra: la storia di Emma – Anoressia Nervosa

Emma è estremamente magra e in continuo movimento. Con il suo abbigliamento voluminoso cerca di nascondere le sue gambe magre e le sue magre braccia. Emma è anoressica e vuole nasconderlo.

Ha perso il controllo del controllo stesso. È pallida e si mostra nervosa. Le sue mani sono arrossate. Ha sempre freddo. Anche se sembra infelice e bisognosa di protezione, rifiuta completamente qualsiasi offerta di aiuto.

La sua aspirazione a essere perfetta la porta a avere successo, nonostante la sua notevole debolezza fisica. Ma questo le sta richiedendo sempre più energia. Dove dovrebbe trovare questa energia? Emma ha limitato sempre più la sua alimentazione fino al minimo necessario – due mele e uno yogurt magro al giorno.

L’anoressia di Emma non viene notata dagli altri a un primo sguardo. È una studentessa eccellente, fa molto sport, al pomeriggio sta in cucina e cucina per tutta la famiglia. Nasconde in modo astuto il fatto che sta morendo di fame. Tutti sono stati fieri di lei quando la cicciottella ha fatto finalmente qualcosa per il suo peso e ha iniziato a mangiare in modo sano. Il fatto che continuasse a ridurre la sua alimentazione sempre di più, che il suo peso ideale fosse sempre più basso, che conteggiasse le calorie in modo compulsivo e, infine, che trovasse il suo corpo brutto, sono tutte cose accadute casualmente.

Se qualcuno le parla del suo comportamento insolito, diventa aggressiva e interrompe la conversazione. Sua madre spera che questa ossessione sia temporanea, a maggior ragione perché è stata lei a dare a Emma consigli su come perdere peso. Emma esagera sempre! Suo padre reagisce deridendola e ironizzando: Sei tutta pelle e ossa! Guarda la tua amica; lei ha tutto al posto giusto!

Quando un giorno la madre di Emma per caso la vede nuda, inizia la crisi familiare: orrore, paura, impotenza, rabbia e una lotta senza speranza contro il cibo determinano l’atmosfera in casa. La vita familiare armoniosa è finita. Le visite dal medico e dal ginecologo hanno confermano che Emma è anoressica. I farmaci sono inutili nel trattamento dell’anoressia. Per questo motivo, il suo medico le consiglia di prendere contatto con un programma di trattamento per i disturbi alimentari. Qui Emma e i suoi genitori trovano supporto e ricevono informazioni più dettagliate sulla sua malattia e sulle opzioni di trattamento appropriato.

Emma pesa solo 32 kg ed è alta 1,65 m. Dopo un incontro di consulenza e una richiesta urgente del medico, Emma decide di entrare in una clinica. Lì sarà curata sia dal punto di vista medico che psicologico. I suoi genitori trovano un aiuto in un gruppo di supporto per genitori di persone anoressiche e concordano una terapia familiare, che aiuterà a ricostruire la struttura della famiglia dopo la permanenza in clinica di Emma. Ora Emma e la sua famiglia hanno buone possibilità di sconfiggere l’anoressia.

 

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Anoressia Nervosa – Definizione Psicopedia

L’assertività e gli stili di comportamento – Parte terza

PARTE 3

Una condotta passiva porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali alla ricerca del compiacimento altrui.

Lo Stile passivo:  scopi,  credenze, fattori di mantenimento e limiti

Una condotta passiva porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali alla ricerca del compiacimento altrui. La risposta risulta essere inadeguata poiché generata da frustrazione, insicurezza, senso di colpa, ansia.

Tale comportamento può essere mantenuto da un dialogo interno disfunzionale che incide sulla paura di irritare gli altri, sulla paura di essere rifiutati o sul sentirsi responsabili dei sentimenti altrui, fino ad ipotizzarsi responsabili delle sofferenze altrui per aver ferito l’interlocutore con le proprie parole, non aver ricambiato i sentimenti o aver disatteso le sue aspettative, pervenendo difficilmente alle cause della sofferenza nel comportamento altrui.

Le principali caratteristiche di un individuo che prevalentemente utilizza uno stile comunicativo passivo sono:

– subisce gli altri;

– ha difficoltà nel fare o rifiutare richieste;

– ha difficoltà nel fare o accettare complimenti e nel comunicare i propri sentimenti;

– ha bisogno dell’approvazione altrui;

– dipende dal giudizio altrui;

– ha spesso paura di sbagliare;

– prova disagio alla presenza di persone estranee;

– ha difficoltà nel prendere decisioni;

– dopo avere aggredito una persona, sperimenta profondi sensi di colpa;

– giudica gli altri migliori di lui (bassa autostima);

Le motivazioni o scopi che sostengono un simile comportamento sono di solito quelli di essere accettati e giudicati positivamente dagli altri, quello di evitare abbandoni, quello di evitare i conflitti, per la convinzione di non saperli gestire o per il timore delle conseguenze; quello di evitare rimproveri, disprezzo e colpevolizzazioni; quello di evitare le responsabilità, quello di ottenere con più facilità la simpatia e l’approvazione da parte degli altri, ecc.

Le principali convinzioni e credenze che sostengono tale comportamento possono essere “non sono in grado di ottenere i risultati sperati”; “se perdo il controllo mi comporto in modo inappropriato”; “i desideri/bisogni altrui sono prioritari rispetto ai miei”.

Tutti i comportamenti vengono mantenuti da vantaggi, primari o secondari, altrimenti tendono ad estinguersi nel tempo se non soddisfano gli specifici bisogni della singola persona. Compito di ciascuno di noi è comprendere i nostri bisogni per poi creare un bagaglio comportamentale capace di permettere  la  scelta  del  comportamento  più  funzionale  nella  specifica situazione.

Di seguito vengono elencati alcuni vantaggi a breve termine responsabili del mantenimento del comportamento anassertivo passivo.

L’immediato vantaggio è quello di eludere situazioni potenzialmente ansiogene ed acquistare l’approvazione e la lode come persona molto gradita. A breve termine è presente il sollievo per essere riusciti ad evitare una situazione percepita come difficile e per aver neutralizzato il senso di colpa che talvolta si associa all’esprimere un’opinione od uno stato emotivo diversi o potenzialmente diversi dall’interlocutore.

Inoltre, attraverso tale comportamento a breve termine è possibile ottenere un “rinforzo sociale”, poiché la persona passiva appare come disponibile e rispettosa dell’altro, allo stesso tempo è autorinforzante, poiché si può avere la sensazione di essere venuti incontro o di aver fatto un piacere a qualcuno. Ancora, un comportamento passivo a breve termine può ridurre l’ansia di entrare in conflitto con l’interlocutore o di perderne la stima e l’affetto; riduce l’assunzione di responsabilità ed il loro carico sia fisico che emotivo.

A lungo termine, però, questo comportamento può comportare progressivamente la perdita della stima di sé e dell’autoefficacia, frutto della rinuncia prolungata a se stessi in favore dei bisogni altrui. Può, inoltre, comportare risentimento, frustrazione e rabbia verso desideri ed obiettivi non realizzati, irritazione, sensi di rabbia crescenti e percezione di repressione. In questi casi  difficilmente il soggetto è consapevole di quanto sia propria la responsabilità della percezione di repressione, potrà tendere a ricercarla altrove e/o possono insorgere varie patologie fisiche e/o di origine psicosomatica (cefalea, gastriti, etc.).

Può inoltre portare alla progressiva incapacità a prendere iniziative nella relazione, ad esprimere opinioni e bisogni. Inoltre, non si riesce ad evitare conflitti nel lungo periodo, non è possibile raggiungere sempre e con tutti

Il comportamento anassertivo passivo tende a comportare conseguenze anche sull’interlocutore che può non sentirsi stimolato da una conversazione in cui non vengono posti punti di vista alternativi o contrastanti, percependola come mancanza di partecipazione. L’interlocutore, inoltre, può sentirsi confuso dal mantenere una interazione con un soggetto che non esplica le proprie idee, opinioni e sentimenti o percepire sensi di colpa legati alla sensazioni di prevaricare l’altro.

Di solito lo stile educativo a cui le persone che usano prevalentemente uno stile passivo sono state sottoposte è stato quello tendente a dare valore agli aspetti formali, ad inibire l’espressione di bisogni e desideri, a colpevolizzare e a rendere precario il legame affettivo.

Anche il comportamento passivo può, in alcune circostanze, essere considerato assertivo, se utile e necessario e, quindi, se scelto e non automatico o derivante da emozioni incontrollate. Un  comportamento passivo conviene:

1. Se si ha poco tempo a disposizione per poter esporre le proprie opinioni. Es: supponiamo di voler affrontare una questione di estrema importanza con il nostro capufficio, che può dedicarci solo pochi minuti a causa di altri impegni di lavoro; è meglio allora rimandare ad un giorno in cui sappiamo avrà più tempo e di conseguenza, una migliore disposizione all’ascolto;

2. Se il proprio o altrui livello emotivo è inadeguato conviene rimandare ad un momento migliore. Es: se stiamo affrontando una discussione con un’altra persona su una questione per noi importante e i nostri sentimenti possono portarci a dire cose molto spiacevoli per noi stessi e per l’altro, è meglio rimandare il confronto in un momento di maggiore calma; anche la persona con cui stiamo parlando può avere uno stato d’animo che non favorisce il dialogo e l’ascolto (es. eccessiva rabbia, tensione, profonda tristezza); anche in questi casi conviene rimandare.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’assertività e gli stili di comportamento – Prima parte

L’assertività e gli stili di comportamento – Seconda parte

 

BIBLIOGRAFIA:

Donne con un cromosoma Y: le risposte cerebrali non cambiano

FLASH NEWS

Un recente studio pubblicato sulla rivista Hormones and Behaviour dimostra che il cromosoma Y, nelle donne, non altera le risposte cerebrali a stimoli sessuali visivi.

Il cromosoma Y è stato identificato come cromosoma determinante il genere degli individui già nel 1905: le donne hanno una coppia di cromosomi XX mentre gli uomini i cromosomi XY.

Tuttavia esiste una rara condizione in cui alcune donne nascono con un cromosoma Y senza che questo abbia però alcun effetto sul loro aspetto fisico che appare in tutto e per tutto femminile.

Questa condizione è nota come sindrome da completa insensibilità agli androgeni (CAIS) poiché chi ne è affetto non possiede i recettori neurali per gli androgeni quindi, nonostante il corpo produca questo ormone, non è in grado di rispondervi.

Se sul piano fisico questa sindrome è ben conosciuta, le implicazioni psicologiche suscitano ancora qualche domanda, motivo per cui un gruppo di psicologi dell’Emory University di Atlanta ha mostrato alcune foto di persone impegnate in attività sessuali a donne con la CAIS, donne non affette dalla sindrome e uomini per metterne a confronto le reazioni cerebrali.

I dati sull’attività neurale sono stati raccolti utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e i risultati hanno evidenziato una significativa differenza tra le risposte degli uomini rispetto alle donne, ma le risposte delle donne “tipiche” e delle donne con CAIS non differivano in alcun modo.

Questo dimostra che sono gli androgeni la chiave del comportamento maschile e non il cromosoma Y in sé e che le donne con la sindrome da completa insensibilità agli androgeni sono donne anche sul piano psicologico oltre che fenotipico, a prescindere dai loro cromosomi.

 

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 Donne e sessualità: tra soddisfazione e legami di attaccamento – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

Anoressia Nervosa – Definizione Psicopedia

 LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Nel loro aspetto esteriore, le persone anoressiche sono vistosamente magre. Sono spesso sensibili ai bisogni degli altri e sono brave a parlare con amici, conoscenti e familiari.

Tuttavia, hanno grandi difficoltà a accedere al loro mondo emotivo. Di conseguenza, è difficile per le persone che sono loro vicine comprenderle e supportarle a livello emotivo.

 

Caratteristiche dell’anoressia: 

  • Mancanza di contatto con il proprio corpo e con i bisogni del proprio corpo
  • Il corpo è vissuto come un nemico contro cui combattere
  • Continua misurazione del proprio peso e continua sensazione di essere grasse/i
  • È la mente che controlla e gestisce il resto
  • Il controllo dà una sensazione di autonomia e indipendenza
  • A volte eccessiva avarizia, senso della pulizia esagerato, rifiuto di ogni attività che dia piacere, modo di vivere molto stoico
  • Tendenza a isolarsi
  • Vedere le cose in termini di bianco e nero, tendenza alla depressione
  • Comportamenti alimentari ritualizzati
  • Alimentarsi in modo estremamente lento, mangiare cibo molto caldo o molto freddo
  • Mangiare cibo per bambini o per neonati e pappine
  • Preferenza per cibi e bevande a basso apporto calorico, solitamente scelta di cibi molto limitata
  • Fare finta di mangiare, masticare il cibo e poi sputarlo via
  • Cucinare, fare dolci, collezionare ricette e incoraggiare gli altri a mangiare
  • Fare molte attività in piedi
  • Esporsi al freddo
  • Impegno eccessivo negli sport
  • Portare borse e zaini pesanti
  • Per molto tempo rifiuto di ammettere di essere ammalate/i

 

Importante:

E’ fondamentale che i familiari e gli amici agiscano concretamente qualora le persone anoressiche reagiscano in modo apatico, parlino solo a voce bassa, non abbiano forza e rispondano piangendo a ogni minimo conflitto.

Questi sono segnali di allarme, che indicano la necessità di una visita medica. È inutile forzare le persone anoressiche a accettare assistenza terapeutica.

È importante che, quando le persone non realizzano che sono ammalate, i loro familiari cerchino consigli e aiuto.

 

Possibili indicatori diagnostici

  • Perdita del 20% del proprio peso in un breve (3-4 mesi) periodo di tempo, (es: quando una persona di 1 metro e 70 cm che pesa 60 kg perde 12 kg)
  • La perdita di peso è causata da un’alimentazione estremamente controllata e limitata, da eccessivo esercizio fisico, dall’induzione del vomito o dal forte utilizzo di lassativi
  • Pensieri continui e eccessivi relativi al cibo e all’immagine corporea
  • Estrema paura di prendere peso
  • Disturbo dell’immagine corporea (continua percezione del proprio corpo come grasso, anche quando è evidentemente sottopeso)
  • Perfezionismo
  • Iperattività
  • Mancata consapevolezza di essere ammalate/i
  • Assenza di ciclo mestruale

Tra le conseguenze fisiche dannose c’è un rallentamento del tempo di digestione, del battito cardiaco, della pressione sanguigna e della temperatura. Questo porta a fatica, percezione di freddo e costipazione. La pelle secca e i capelli fragili indicano i cambiamenti ormonali, che si esprimono tramite l’assenza del ciclo mestruale e, in casi estremi, la differente distribuzione dei peli superflui.

Se l’anoressia continua per alcuni anni, i cambiamenti ormonali possono portare a osteoporosi (riduzione della densità ossea).

Se si sta assumendo la pillola come contraccettivo, il ciclo mestruale può presentarsi lo stesso. In questo caso, nonostante le mestruazioni, la persona potrebbe comunque essere anoressica.

Tra le conseguenze psicologiche si annoverano: un confronto continuo e compulsivo con le altre persone, un forte bisogno di controllo, sentimenti di colpa quando si mangia qualcosa di buono, paura dei propri bisogni, odio per se stesse/i, avarizia, comportamenti compulsivi (lavarsi/pulire), ritiro sociale, umore depresso, a volte anche comportamenti autolesivi.

Lo sapevi?

C’è il rischio che l’anoressia possa diventare cronica. L’individuazione e il trattamento precoci sono associati a una maggiore probabilità di guarigione. Fino al 10% delle donne con anoressia nervosa potrebbe morire per cause relative all’anoressia. 

 

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L’assertività e gli stili di comportamento – Parte seconda

PARTE 2

Gli Stili di Comportamento

L’assertività viene descritta da vari autori lungo un continuum comportamentale che va dalla “passività” all’ “aggressività”, estremi indicati come negativi e disfunzionali, che rappresentano l’assenza di assertività.

Nell’ area intermedia viene individuata l’assertività quale comportamento sociale funzionale ed efficace (Anchisi, Gambotto Dessy, 1989; Campanelli, 1995).

La differenza basilare sta nel fatto che l’assertività è fondata sul rispetto e sull’ autoresponsabilità, mentre nella non-assertività questi due fattori sono assenti. Il soggetto con un comportamento assertivo è colui che è capace di avere un atteggiamento positivo verso se stesso e verso gli altri e di riconoscere, rispettare ed esprimere i propri bisogni nel rispetto di quelli altrui. Quando mancano, invece, la fiducia in sé e nell’ altro e il rispetto verso se stessi e gli altri, è molto più probabile che le persone reagiscano ad una particolare situazione con modalità non-assertive.

Comportarsi in modo assertivo vuol dire bilanciare i bisogni degli altri con i propri. È un gioco a due a variabile zero, in cui non c’è uno sconfitto e un vincente, ma entrambi gli interlocutori della relazione sono vincenti. I bisogni di entrambi vengono tenuti in considerazione e si può scegliere se dare la priorità alle necessità altrui o se considerare maggiormente le proprie necessità.

Comportamento:

Passivo

Quando si antepongono i bisogni degli altri ai propri.

Aggressivo

Quando si antepongono i propri bisogni a quelli altrui.

Assertivo

Quando si equilibrano i propri e gli altrui bisogni si agisce secondo le priorità che emergono.

Nell’ uso comune si definiscono le persone come assertive, passive o aggressive, ma è più corretto utilizzare l’espressione “stile di comportamento” assertivo, passivo o aggressivo. Sebbene le persone possano mettere in atto comportamenti assertivi, passivi o aggressivi, in realtà ciascuna di esse mostra una tendenza ad avere un certo stile di comportamento. Noi tutti ci comportiamo in maniera diversa a seconda delle situazioni: a volte siamo passivi, altre volte aggressivi, altre ancora assertivi (Hare, 1988).

Non esistono persone sempre assertive, ma solo comportamenti assertivi, che possono essere manifestati da tutti. Ciononostante, è vero che esistono persone che tendono ad essere aggressive, passive o assertive nella maggior parte delle situazioni” (Giannantonio, Boldorini, 2002).

Stili anassertivi

Nelle dinamiche interattive, quindi, è possibile delineare due modalità comunicative in netto contrasto l’una con l’altra, ma entrambe anassertive: quella passiva e quella aggressiva.

Sebbene le persone non siano mai sempre e solo aggressive, passive o assertive, ciascuno di noi protende verso un determinato stile relazionale o tende ad adottarlo in particolari circostanze esterne o interne.

Lo stile comunicativo stesso può differenziarsi sulla base di alcune variabili insite nella situazione specifica o relative allo stato psico-fisiologico della persona in un determinato momento. Un esempio di ciò può essere costituito dal silenzio, il cui valore assertivo, aggressivo o passivo è strettamente vincolato alla situazione specifica.

E’ pertanto da sottolineare che per rendere più agevole la comprensione dei concetti verranno illustrate esclusivamente le modalità comunicative poste ai poli del continuum relazionale, nonostante vi siano molte sfumature comportamentali e la stessa persona può adottare stili comportamentali diversi in contesti situazionali o psico-fisiologici diversi.

La stessa persona può essere, infatti, remissiva e passiva con i propri genitori, ma allo stesso tempo aggressiva con il partner o con i propri figli. I concetti a cui ci riferiamo, pertanto, si riferiscono a comportamenti e non a personalità ed essendo comportamenti possono essere appresi o modificati.

Per comodità espositiva si parla di un continuum che va dal comportamento passivo al comportamento aggressivo e nell’ area intermedia si situerebbe il comportamento assertivo.

 

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L’assertività e gli stili di comportamento – Parte Prima

 

BIBLIOGRAFIA:

  •  Galeazzi A. (1994), Personalità e competenza sociale. Pordenone, ERIP.
  • Anchisi, R., Gambotto Dessy, M. (1989). Non solo comunicare (teoria e pratica del comportamento assertivo). Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Bonenti, D., Meneghelli, A. (1992). Assertività e training assertivo. Franco Angeli. Milano ACQUISTA ONLINE
  • Campanelli, M. (1995). Affermatività ed abilità sociale – Repertori differenti e costitutivi della competenza sociale. Terapia del comportamento, 5, 3-16. 
  •  Giannantonio M., Boldorini A.L. (2002). Autostima, Assertività e Atteggiamento positivo. Ecomind, Salerno.  ACQUISTA ONLINE
  • Hare B. (1988). Be assertive, Optima, London.
  • Sanavio, E (1998) Psicoterapia cognitiva e comportamentale, Carocci ed.  ACQUISTA ONLINE

Marijuana: quali sono gli effetti a lungo termine sul cervello?

FLASH NEWS

Marijuana: i risultati mostrano che i consumatori cronici di marijuana presentano un volume cerebrale più ridotto della corteccia orbito-frontale (OFC), una parte del cervello comunemente associata alla dipendenza, ma mostrano anche un aumento della connettività.

Secondo una ricerca del Center for Brain Health dell’Università del Texas a Dallas, gli effetti dell’uso cronico della marijuana sul cervello dipendono dall’età in cui si comincia a consumare la cannabis e dalla durata di consumo della stessa.

La ricerca condotta da Filbey e dai suoi collaboratori, descrive le anomalie esistenti nelle funzioni e nelle strutture cerebrali a lungo termine nei consumatori di marijuana, indagate attraverso tre tecniche diverse di risonanza magnetica cerebrale.

I risultati mostrano che i consumatori cronici di marijuana presentano un volume cerebrale più ridotto della corteccia orbito-frontale (OFC), una parte del cervello comunemente associata alla dipendenza, ma mostrano anche un aumento della connettività.

Il campione della ricerca includeva 48 adulti consumatori cronici di marijuana confrontati con 62 soggetti non consumatori uguali per età e genere. Gli autori hanno controllato le variabili relative all’eventuale uso di tabacco e/o alcol. In media i partecipanti alla ricerca consumavano la marijuana per tre volte al giorno.

I test cognitivi mostrano che i consumatori di marijuana presentano un Q.I minore rispetto ai controlli  (con la stessa età e lo stesso genere) ma le differenze non sembrano essere correlate ad anomalie del cervello poiché non c’è una diretta relazione tra deficit del Q.I e volume della corteccia orbito-frontale ridotto. I risultati suggeriscono un aumento della connettività strutturale e funzionale cerebrale dal momento in cui si comincia a consumare regolarmente la cannabis.

L’aumento di connettività potrebbe aver compensato la perdita di materia grigia anche se l’uso prolungato della marijuana per oltre 6-8 anni potrebbe portare comunque ad un deterioramento della connettività.

I risultati dello studio suggeriscono che questi cambiamenti possono essere legati all’età di insorgenza e alla durata di utilizzo della marijuana, ma non si hanno dati definitivi.

Lo studio offre una prima indicazione sul fatto che la materia grigia nella OFC può essere più vulnerabile rispetto alla  sostanza bianca agli effetti del delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), il principale ingrediente psicoattivo della pianta di cannabis.

Secondo gli autori, lo studio fornisce la prova che l’uso cronico di marijuana avvia un processo complesso che permette ai neuroni di adattarsi e compensare il volume ridotto della materia grigia, ma sono necessari ulteriori studi per determinare se questi cambiamenti regrediscono con l’interruzione del consumo regolare della cannabis, se vi sono effetti simili nei consumatori occasionali di marijuana rispetto ai consumatori cronici e se questi effetti sono davvero un risultato diretto dell’uso di marijuana o determinati da un fattore predisponente.

 

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Uso di cannabis ed insorgenza di disturbi psichiatrici: quale relazione?

 

BIBLIOGRAFIA:

L’assertività e gli stili di comportamento

Una persona assertiva è in grado di esprimere le proprie opinioni, emozioni  e i propri punti di vista, facendo valere i propri diritti nel rispetto dei diritti altrui.

La parola assertività deriva dal latino ad serere, e significa «asserire» o anche affermare se stessi. Attualmente vi è un generale accordo sulla struttura multidimensionale dell’assertività. Dopo un’analisi della letteratura, Galeazzi (’94) indica le seguenti componenti:

1. l’assertività positiva, capacità di esprimere e ricevere approvazioni, stima e affetto;

2. l’assertività negativa, capacità di esprimere disapprovazioni e critiche agli altri;

3. difesa dei propri diritti, capacità di proteggere i diritti e rifiutare richieste che ledono la libertà personale;

4. l’assertività di iniziativa, ossia l’abilità nel risolvere problemi e soddisfare personali bisogni, che consiste anche nel saper avanzare richieste, favori, ecc.;

5. l’assertività sociale: quale capacità di interagire con le altre persone e di stabilire nuove relazioni, che si esprime nella padronanza relativa all’iniziare, continuare e concludere una conversazione nelle più diverse interazioni sociali, tanto con amici quanto con persone autorevoli o sconosciute;

6. la direttività: che concerne l’attitudine ad assumersi responsabilità e l’abilità nell’influenzare e guidare gli altri nelle situazioni interpersonali problematiche.

Sanavio (1998) descrive l’assertività come la capacità di far valere i propri diritti rispettando quelli degli altri, attraverso una comunicazione chiara, diretta e al tempo stesso, coerente e completa sul piano verbale e non verbale.

La comunicazione assertiva costituisce un metodo di interazione che si attua attraverso un  comportamento partecipe attivo e non in contrapposizione con l’altro; un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e negli altri; un comportamento completo che manifesta pienamente il proprio sé, funzionale all’affermazione dei propri diritti senza negare i diritti e l’identità dell’altro; un atteggiamento che non giudica e avulso da critiche non costruttive verso l’altro ovvero senza pregiudizi; la capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e diretta e onesta senza manifestare aggressività o essere minacciosi verso l’altro.

I capisaldi del comportamento assertivo sono impliciti nei diritti di ciascun essere umano che vengono di seguito riportati:

1. Essere trattato con rispetto, poiché ognuno ha il diritto di gestire la propria vita come desidera e di perseguire i propri scopi ed obiettivi, senza però danneggiare gli altri. Inoltre ognuno ha il diritto di essere trattato dagli altri con gentilezza e cortesia, a prescindere dalla propria posizione sociale; il rispetto e la dignità sono i prerequisiti di una società civile.

2. Esprimere le proprie opinioni ed i propri sentimenti, dato che ciascuno di noi ha il diritto di esprimere se stesso; il proprio punto di vista circa una situazione e i sentimenti che ne scaturiscono sono validi tanto quanto quelli degli altri. Se si nascondono le proprie opinioni ed i propri sentimenti, gli altri non avranno la possibilità di conoscerci o di capirci. In tal modo ci verrà negato il valore e la bellezza dell’amicizia vera.

3. Fissare i propri scopi ed i propri obiettivi, dal momento che tutti hanno il diritto di perseguire i propri scopi. Ciascuno ha il diritto di perseguire le priorità che ritiene essere più consone a se stesso, altrimenti si può avere la percezione di vivere la vita di altri.

4. Rifiutare una richiesta o dire di no, poiché ognuno ha il diritto di rifiutare.

5. Chiedere ciò che si desidera, dal momento che ognuno ha il diritto di esprimere i propri bisogni. Ciascuno ha delle necessità e desideri ed è utile esprimerli nelle relazioni.

6. Commettere degli errori; sbagli ed errori sono elementi essenziali dell’apprendimento.

7. Essere i giudici del proprio comportamento, indipendentemente dalla benevolenza degli altri, infatti ognuno ha il diritto di giudicare se stesso. Si può giudicare il proprio comportamento, senza avere bisogno dell’approvazione o delle critiche altrui.

8. Cambiare la propria opinione, dato che il cambiamento può essere associabile alla crescita ed allo sviluppo personale.

9. Decidere se far valere o meno i propri diritti, in conformità al diritto di scelta.

10. Decidere se dare spiegazioni e scuse per il tuo comportamento.

In ogni situazione le persone coinvolte hanno diritti particolari e correlati al contesto e alla cultura di appartenenza. Esistono, però, dei principi qualificabili come diritti inviolabili della persona che proprio in quanto tali, sono comuni a tutte le situazioni di relazione e non possono essere dimenticati.

FINE PRIMA PARTE

 

BIBLIOGRAFIA:

MisUse it and Lose it: affidarsi alla tecnologia è un danno

Daniela Beltrami, Vania Galletti, OPEN SCHOOL MODENA

Le tecnologie oggi disponibili rappresentano un traguardo importante che l’uomo ha conquistato con tempo e fatica, ma devono essere utilizzate con attenzione, non affidandosi ad esse, ovvero abbandonandosi completamente alle loro cure; il rischio è infatti quello di trasformare gli innegabili vantaggi derivanti dalla costante attività mentale richiesta dalle nuove tecnologie, in un potente strumento di demolizione delle abilità cognitive.

La “Tecnologia” (tékhne-loghìa), letteralmente “discorso sull’arte” (arte intesa come tecnica), avanza grazie all’intelletto umano; ma in questo ragionamento, oggigiorno, l’uomo è davvero contemplato, o la tecnica si discute da sé?

“Il problema è: non cosa possiamo fare noi con gli strumenti tecnici che abbiamo ideato, ma che cosa la tecnica può fare di noi“ (Galimberti, 2000).

Negli anni ottanta è stato introdotto il termine “Technostress”, espressamente coniato con l’intento di far riflettere sulle possibili ripercussioni di un uso scorretto (misuso) delle nuove tecnologie (allora principalmente Personal Computer); i sintomi più comunemente riportati erano: ansia e depressione, insonnia, mal di testa, ipertensione, calo della concentrazione, disturbi gastrointestinali, alterazioni ormonali, comportamentali e isolamento relazionale (Broad, 1984).

Negli ultimi trent’anni le cose sono cambiate notevolmente; oggigiorno dobbiamo confrontarci con una miriade di dispositivi diversificati per peso, funzione, forma e colore, che ci accompagnano in ogni ambito della quotidianità, dal risveglio alla buonanotte. Siamo costantemente rimbalzati da una tecnologia all’altra e, sempre più rapidamente, siamo costretti a districarci tra innumerevoli cambi di ruolo: dipendente impeccabile durante la videoconferenza Skype, genitore presente al cellulare durante una telefonata con il preside, amico affettuoso pronto a “mettere il like” su Facebook, amante premuroso che rapidamente concede la spunta azzurra su Whatsapp, e così via.

Viviamo un’esistenza frammentata, quasi schizofrenica, che facilmente ci impedisce di stare nel presente, di goderne senza pensare a cosa abbiamo fatto il giorno prima e cosa faremo nei minuti a venire; la Fear of Missing Out (FOMO), ovvero la paura di essere tagliati fuori soltanto per aver perso un post, un twit, una festa o un qualsiasi altro evento “importante” (Rosen, 2011; Przybylski et al., 2013), esprime perfettamente questo concetto. Non a caso le psicopatologie legate ad un misuso della rete comprendono atteggiamenti compulsivi, che prevedono la messa in atto di comportamenti ben riconosciuti come inutili e inadeguati ma dei quali non si riesce a fare a meno.

Le tecnologie oggi disponibili rappresentano un traguardo importante che l’uomo ha conquistato con tempo e fatica, ma devono essere utilizzate con attenzione, non affidandosi ad esse, ovvero abbandonandosi completamente alle loro cure; il rischio è infatti quello di trasformare gli innegabili vantaggi derivanti dalla costante attività mentale richiesta dalle nuove tecnologie, in un potente strumento di demolizione delle abilità cognitive.

Recentemente è stato condotto uno studio (One Laptop per Child, OLPC) che ha analizzato il comportamento di alcuni bambini Etiopi alla presentazione di tablet ancora impacchettati; “pensavo che i ragazzini avrebbero giocato con le scatole” riporta l’ideatore della ricerca “nel giro di pochi minuti, uno di loro non solo aveva aperto la scatola ma anche trovato il pulsante per accenderlo; dopo cinque giorni erano in grado di usare quarantasette applicazioni; dopo due settimane cantavano canzoncine con l’alfabeto inglese”.

La meraviglia parla da sé; ma pensiamo a quali ripercussioni potrebbero esservi in seguito ad un uso ripetuto e totalizzante di questa ed altre tecnologie: l’impatto delle luci blu degli schermi sul ritmo circadiano (forte tanto quanto una qualsiasi droga; Duffy & Czeisler, 2009), con conseguenti esiti negativi a livello affettivo e cognitivo (ansia, depressione, disfunzioni cognitive); la minor capacità di concentrazione dovuta al continuo bombardamento di informazioni che riduce le energie disponibili per attività statiche (come lo studio) e condiziona le abilità comunicativo-relazionali (i giovani “curano le amicizie sui social network e poi si chiedono se sono tra amici; sono connessi tutto il giorno ma non sono sicuri di avere davvero comunicato; hanno idee confuse sulla compagnia”; Turkle, 2012) e quelle di ragionamento (perché fermarsi a pensare quando la soluzione è disponibile su Google in alcuni millisecondi?); ed altri ancora.

Tisseron (2008) si scaglia duramente contro l’utilizzo delle tecnologie in tenera età proponendo la regola del “3-6-9-12”: nessuno schermo digitale fino a tre anni; nessun videogioco fino a sei; nessun accesso ad Internet prima dei nove e libero accesso solo dopo i dodici. Ammesso che tale posizione sia condivisibile, saremmo davvero in grado di scendere a compromessi? O la tecnologia è diventata molto, troppo confortevole?

Pensiamo al banale utilizzo del GPS: è stato dimostrato che un uso eccessivo del GPS (comodo e rapido) potrebbe condurre ad una graduale disattivazione della struttura neurologica deputata alla memoria visuo-spaziale, l’ippocampo (Robbins, 2010). Inutile dire che un’atrofia ippocampale non sarebbe una buona accoglienza dell’invecchiamento cerebrale. Purtroppo la società famelica nella quale viviamo ci impedisce di sentirci a nostro agio quando non sappiamo dove andare, e ci invoglia a prendere una scorciatoia; sviluppare una mappa cognitiva (tramite l’utilizzo di navigazione spaziale e strategie di stimoli e risposte) richiede risorse e tempo, ma è un investimento a lungo termine.

La memoria merita un capitolo a parte. Come già accennato la tecnologia facilita ogni cosa, anche l’acquisizione e l’immagazzinamento delle informazioni. È più semplice ed economico usare una “memoria esterna” capace di recuperare, modificare, cancellare episodi ed azioni a piacimento. Terrorizzati dal poter dimenticare esperienze contro la nostra volontà, evitiamo direttamente di viverle, fotografando e condividendo tutto (con ritmo bulimico); senza conservare nulla da sfogliare mentalmente in privato; nulla di cui ricordarsi all’improvviso con sorpresa, ed emozionarsi.

Un recente studio (Henkel, 2004) mostra che nel momento in cui ci accingiamo a scattare una fotografia siamo già predisposti a dimenticarla e a farne scivolare via le caratteristiche e i dettagli (photo-taking impairment effect): insomma, “più scatti, più scordi”. Un esempio pratico è offerto dai concerti, dove il parterre è colmo di spettatori che saltellano davanti al palco brandendo in aria lo smartphone come Mercurio agitava il suo caduceo. “It’s sad if you’re that excited about your (…) phone. (…) It’s annoying. It’s insulting to the band. (…)  You’re taking those moments away from the band and the people around you” (Chris Robinson – frontman Black Crowes, 2014).

Per concludere: l’innovazione tecnologica è straordinaria; scaturisce dall’inventiva dell’uomo e, in parte, ne stimola la creatività. Ma ricordiamo ch’essa dovrebbe essere al nostro servizio (non il contrario), e dovrebbe integrare e compensare quelle abilità che comunque devono essere stimolate e nutrite, in primis cogliendo ed apprezzando il presente.

[blockquote style=”1″]Meaning, not possessions, is the ultimate goal of (people’s) lives, and the fruits of technology (…) cannot alone provide this. People still need to know (…) that they are remembered and loved, and that their individual self is part of some greater design beyond the fleeting span of mortal years.[/blockquote]

Csikszentmihalyi et al., 1981

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 BIBLIOGRAFIA:

L’ansia infantile è correlata al nervosismo paterno

FLASH NEWS

I risultati suggeriscono chiaramente che i padri hanno un ruolo più significativo rispetto alle madri per quanto riguarda i livelli d’ansia dei propri figli, almeno nelle situazioni di tipo fisico.

I bambini, come gli adulti, sperimentano situazioni ansiogene che possono metterli in uno stato di agitazione. Eline Möller e un gruppo di ricercatori dell’istituto di educazione e sviluppo infantile presso l’università di Amsterdam si sono chiesti se e quale ruolo avessero i genitori nel modulare questa risposta ansiosa.

Per rispondere a questa domanda è stato condotto uno studio basato sul paradigma classico del “precipizio visivo”: alcuni bambini di un anno sono stati fatti gattonare su una superficie che presentava una zona trasparente in modo da apparire come interrotta, con un punto vuoto. Dal lato opposto al “buco” c’era uno dei genitori a cui era stato chiesto di incoraggiare il figlio ad attraversare la superficie trasparente.

I criteri di valutazione per l’ansia infantile sono stati il linguaggio corporeo del bambino, le sue espressioni facciali, l’eventuale pianto e/o l’evitamento del “precipizio”.

Dai risultati è emerso che le espressioni di incoraggiamento, verbali e non (es. battere le mani, sorridere), del genitore non hanno avuto alcun effetto sui livelli d’ansia del figlio o sulla sua audacia, al contrario posture, gesti, espressioni e frasi nervose che rivelano ansia nel genitore hanno implementato i livelli d’ansia nei bambini. Ma in particolare  è stato visto che l’ansia del bimbo correla di più con l’ansia del proprio padre che con quella della madre.

Sebbene non sia possibile individuare una relazione diretta di causa-effetto, i risultati suggeriscono però chiaramente che i padri hanno un ruolo più significativo rispetto alle madri per quanto riguarda i livelli d’ansia dei propri figli, almeno nelle situazioni di tipo fisico.

E in effetti questo risultato è coerente con la tesi evoluzionistica secondo cui al padre sia affidato il compito di insegnare alla progenie come affrontare le sfide esterne (estranei, posti nuovi), mentre la madre si occupi di sentimenti e rassicurazione.

Möller e colleghi si sono poi spinti oltre e hanno indagato l’ansia infantile anche da un punto di vista più generale, non soltanto legata alla situazione sperimentale, ed è emerso che tra i bambini più ansiosi il legame con il padre era ancora più forte e la fiducia paterna sembrava essere molto più importante rispetto a quella materna ad ulteriore conferma di quanto emerso in precedenza.

Le ricerche sul modo in cui i padri interagiscono con i figli sono rare e questo studio porta un contributo nuovo. Inoltre questi risultati possono avere anche delle implicazioni cliniche: se i padri giocano un ruolo nel modulare l’ansia dei propri figli, possono anche diventare un ammortizzatore contro l’ansia del bambino stesso.

 

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Disturbo d’ansia generalizzato nell’adolescente: un aiuto ai familiari

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia Sistemico-Relazionale: intervista ad Umberta Telfener

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

 

State of Mind intervista:

Umberta Telfener

Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale

 

State of Mind intervista Umberta TelfenerPsicoterapeuta, Didatta del Centro Milanese di Terapia della famiglia e Docente della Scuola di Specializzazione in Psicologia della salute, Università di Roma.

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Master Avanzato in Psicoterapia cognitivo-comportamentale dello Sviluppo

iescum

State of Mind segnala il Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-comportamentale dello Sviluppo, organizzato da IESCUM, partner del giornale. 

 

MAPS è un Master avanzato rivolto a psicoterapeuti specializzati o specializzandi (quarto anno) e neuropsichiatri infantili che padroneggino il modello cognitivo comportamentale e che conclusa la propria formazione nell’ambito della clinica dell’età adulta intendono:
  • potenziare e ampliare le competenze cliniche di base nell’ambito della psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza.
  • analizzare processi, principi e modelli teorici nella psicopatologia dello sviluppo
  • acquisire metodologie per l’assessment, la concettualizzazione del caso e l’intervento secondo i più recenti modelli di sviluppo delle terapie comportamentali e cognitive: Rational Emotive Behavior Therapy (REBT), Acceptance and Commitment Therapy (ACT), Functional Analytic Therapy (FAP).

iescum.org – Master MAPSConsigliato dalla Redazione

MAPS IESCUM MASTER AVANZATOLOCANDINA

IESCUM, Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-comportamentale dello Sviluppo (…)

Tratto da: IESCUM

 

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Intervista con Cristina Comencini: la vita tra osservazione ed autosservazione

Nella vita le cose non piacevoli ti capitano, ma ora ho un altro modo di guardarle, si sono staccate da me, non sono me. Le guardo, vedo che sta avvenendo quella roba che conosco molto bene, che va anche vissuta, ma non metto più in discussione me stessa. Quando avvengono fatti che riportano a galla sentimenti antichi, tu li vedi, riesci a creare uno spazio tra te e l’angoscia. 

 

Regista, il suo La bestia nel cuore si era guadagnato una candidatura all’Oscar, scrittrice, all’attivo una decina di romanzi, Cristina Comencini appartiene a una famiglia famosa del cinema. Il padre era Luigi Comencini, una delle sorelle, Francesca, è anche regista, un’altra, Paola, è scenografa. Laureata in Economia e Commercio con Federico Caffè, a 19 anni era madre, a 35 nonna. Ha tre figli e già molti nipoti.

Quanto le sue esperienze personali hanno influito, nel bene e nel male, sul suo lavoro?

Nella scrittura entra tutto, sia come eri da bambina che da adolescente nella famiglia d’origine, prima di fare le scelte di vita. Nel mio caso poi ha giocato un ruolo importante la mia non scelta, che poi le non scelte sono alla fine sempre delle scelte, di fare i figli molto presto. Affrontare precocemente la maternità, continuando però anche a studiare, fare le cose tutte insieme insomma, crea legami e conoscenze che ho poi potuto raccontare. Il personale conta tantissimo, anche se poi nell’arte il tutto è velato, perché nei personaggi che inventi c’è una parte di te, ma c’è anche un collage di pezzi di persone che hai incontrato o anche immaginato. In più, di te, rimane l’ispirazione più profonda, la necessità, quella sì solo tua, di scrivere quel racconto.

Questo presuppone un’attitudine all’osservazione degli altri non comune.

Penso sia una delle caratteristiche principali di uno scrittore e di un regista. E questa attitudine nasce molto dall’infanzia, una capacità di guardare un mondo che non sempre capisci. Io, per esempio, da bambina ero considerata anche un po’ tonta, non capivo molto le leggi della razionalità e dei concetti, guardavo questa famiglia, la mia, come fossi a teatro. Già lì facevo questo sport, di guardare gli altri, che poi è diventata abitudine. Anzi, a volte posso rischiare di essere invadente perché guardo molto le persone e non mi accorgo di guardarle.

E come si associa questa attitudine con il narcisismo che c’è un po’ in tutti gli artisti?

(Ride) Io sono egotica, ho sempre voglia di far bene, però non sono narcisista. Non amo le generalizzazioni, ma forse il narcisismo è più vicino all’artista uomo. Anche se fai un lavoro per cui sei esposta e riconosciuta, quando hai cresciuto quattro figli la sensazione dell’altro da te resta la parte principale. Anche se ci tengo a fare la cosa più bella del mondo non sono proiettata totalmente verso l’oggetto. E questa è una caratteristica di molte donne. Ogni tanto sogno di avere due identità, una col nome esterno e poi una mia, intoccabile.

Ha detto quattro figli, ma non sono tre?

Il quarto è una mia nipote. È nata contemporaneamente al mio ultimo figlio, l’ho cresciuta insieme a lui. Per molto tempo non me l’attribuivo, poi mi sono detta che è stata come un’adozione, perché la cura crea il legame. Che poi sia figlio o nipote non importa, lei mi chiama nonna, ma io me la sento come una figlia.

Ha mai avuto crisi di ansia, di panico?

Sì, certo, non a caso sono stata 11 anni in analisi. Il senso di angoscia a ognuno prende a suo modo, io avevo una malattia molto invasiva alle mani. Fin da bambina soffrivo di un fortissimo eczema alle mani che nessuno mi aveva mai saputo curare. Con l’analisi in un anno è sparito e non è mai ritornato. Mi sento una miracolata dall’analisi. L’ho cominciata non giovane, intorno ai 40 anni, per moltissimi anni ero convinta di stare benissimo, occultavo continuamente il malessere. Invece c’era, tanto che aveva somatizzato.

Le vengono ancora questi momenti di angoscia?

Beh nella vita le cose non piacevoli ti capitano, ma ora ho un altro modo di guardarle, si sono staccate da me, non sono me. Le guardo, vedo che sta avvenendo quella roba che conosco molto bene, che va anche vissuta, ma non metto più in discussione me stessa. Quando avvengono fatti che riportano a galla sentimenti antichi, tu li vedi, riesci a creare uno spazio tra te e l’angoscia. Ognuno ha il suo modo di fare l’analisi, di darsi degli obiettivi, per me è stata l’idea di non confondere più me stessa, e quindi tutti i sentimenti collegati a un fatto imprevedibile e magari spiacevole, con l’angoscia oppure la paura. Ma è molto difficile raccontare un’esperienza psicoanalitica, perché si compie come a teatro nel momento che si fa, i casi che uno racconta sono sempre molto astratti rispetto al dato mentale e corporeo che avviene nell’incontro e nella relazione.

Molti artisti guardano con sospetto la psicoterapia perché temono che limiti la loro capacità di inventare.

I cosiddetti “blocchi”, se ci sono, hanno radici patologiche. Al contrario imparare a guardarsi dentro potenzia enormemente la capacità creativa, perché non sei più annientato dai momenti di angoscia. E non è che non vivi più le emozioni, anzi forse le vivi più intensamente, però con un certo distacco. Riesci a guardarle.

Qual è per lei il luogo più doloroso del profondo, quello che le crea emozioni difficili da affrontare?

La disarmonia nel rapporto con i figli. In famiglia è normale nascano conflitti, ma se c’è incomprensione ancora faccio fatica, anche se va meglio di prima. Mi sembra sempre che con i figli bisognerebbe avere sempre il massimo dell’armonia, e questo è un po’ claustrofobico, perché invece è normale discutere.

Una conseguenza del suo essere figlia?

Penso di sì, penso sia legato da un desiderio di osmosi con mia madre. Con i figli ho difficoltà a creare quel distacco che dovrebbe essere salutare, quello che invece ho imparato ad avere col lavoro. Mi sforzo, e ci riesco anche, ma è un terreno che mi vede molto reattiva.

Ci sono altri momenti di fragilità che la fanno soffrire?

Forse l’abbandono, ma non è legato alla coppia. Ho una esperienza di vita matrimoniale molto lunga, e tra noi, con tutte le crisi che una coppia può attraversare, c’è molto equilibrio. E la mia figura di madre che a volte si vede abbandonata, Mi succede di sentirmi circondata dal deserto degli affetti. Che peraltro non c‘è, ma se l’immagino mi dà dolore. A parte il problema con i figli, io sono abbastanza forte. Nel lavoro, e il mio ti sottopone a esami continui, resisto bene. Perché in fondo sono per natura abbastanza ottimista, mi sento spesso serena col mondo. Diciamo che prima dell’esperienza dell’analisi avevo la pretesa di esserlo sempre, anche quando non lo ero. Quindi mettevo in atto una grande rimozione dei momenti di dolore e angoscia. Ora invece li vivo.

Continua l’analisi?

Col mio analista un mattino ci siamo salutati, ma io so che lui è lì, dovessi averne bisogno. L’analisi non finisce, è un metodo di lavoro su te stessa che hai sperimentato, che sai che può funzionare, e che continui da sola nei momenti di dolore e di angoscia. C’è una responsabilità nel far star bene gli altri, e io penso che chi sta bene fa star bene gli altri. Quando sono andata in analisi, a parte il problema delle mani, ero alla seconda mandata di figli, erano adolescenti e gli adolescenti ti rimettono tutto davanti. Penso sia stato importante che io l’abbia fatta, ho allentato un po’ la presa, oggi ho un atteggiamento meno rigido, sono più fluida, non giudicante, lascio a loro il distacco che serve.

Ha mai scritto nulla sulla sua esperienza psicanalitica?

Il mio nuovo libro, “Voi non la conoscete”, è la storia di una detenuta, però dentro, come sempre, c’è il racconto di una carcerazione non solo fisica. Sia come regista che come scrittrice, sono un’autrice molto amata dagli psicanalisti. Proprio quest’inverno sono stata invitata con un mio film, Il più bel giorno della mia vita, a Cinemente, la rassegna romana di psicanalisi e cinema al Palazzo delle Esposizioni. Nel mio lavoro, e questo accadeva già prima che io entrassi in analisi, c’è molta psiche.
Da sempre sono alla ricerca dei risvolti interni alle persone, delle loro contraddizioni. È la voglia di raccontare le emozioni del profondo, quel crinale, come è nel profondo, dove il bene e il male non si distinguono. Ma è perché sono un po’ matta.

Si sente matta?

Tutti più o meno lo siamo, però io lo sono in quel modo un po’ controllato che le ho detto. Anzi dovrei farla un po’ di più la matta, questo l’analisi non l’ha liberato.

L’ultima domanda, le pesa la solitudine di chi lavora con la scrittura?

Se scrivi una sceneggiatura ti confronti, discuti, fai un lavoro di equipe. Ma se scrivi un romanzo non può che avvenire così! Devi accettare il vuoto, devi stare ferma e aspettare. Ci sono mattine che ti viene una pagina, altre niente. Però è bella questa cosa del vuoto, la vita è sempre tanto piena. Prima ero più volontarista, ora se viene viene, sennò vado a fare una passeggiata.

 

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Perché le donne… hanno più naso degli uomini?

Le persone mostrano una grande variabilità individuale nella capacità di identificare profumi e odori e, generalmente, le donne sembrano avere più naso degli uomini, dimostrando maggiore sensibilità in molti test olfattivi.

Precedenti studi, che hanno indagato le radici biologiche della maggiore sensibilità olfattiva del sesso femminile, hanno usato metodi di imaging insoddisfacenti che hanno dato risultati grossolani e controversi, lasciando senza risposta la questione se le differenze di sensibilità olfattiva hanno radici biologiche o se rappresentino un mero sottoprodotto delle differenze sociali e cognitive tra i generi.

Il frazionatore isotropo, una tecnica veloce e affidabile, sviluppata da un gruppo di ricercatori dell’Universida de Federal do Rio de Janeiro, misura il numero assoluto di cellule in una data struttura cerebrale, in questo caso quelle del bulbo olfattivo, che è la prima regione del cervello a ricevere le informazioni olfattive catturate dalle narici.

Utilizzando questa tecnica, un gruppo di ricercatori guidati dal Prof. Roberto Quaresima ha finalmente trovato la prova biologica che può spiegare la differenza olfattiva tra i sessi. Il gruppo ha esaminato il cervello post-mortem di 7 uomini e 11 donne, tutti di età superiore ai 55 anni al momento della morte. Tutti gli individui erano neurologicamente sani e nessuno, in vita, ha svolto professioni che richiedono capacità olfattive eccezionali. Calcolando il numero di cellule nei bulbi olfattivi di questi individui, i ricercatori hanno scoperto che le donne hanno il in media il 43% di cellule in più rispetto agli uomini in questa struttura cerebrale. Contando i neuroni specifici la differenza ha raggiunto quasi il 50% in più nelle donne rispetto agli uomini. Ecco spiegata, secondo il prof. Quaresima, la differenza tra i sessi in materia di olfatto.

Inoltre il fatto che solo poche cellule vengono aggiunte al nostro cervello nel corso di una vita suggerisce che le donne nascano già con questa dotazione cellulare aggiuntiva. Ma perché ? Alcuni ritengono che questa capacità olfattiva sia fondamentale per i comportamenti riproduttivi, come legame di coppia e il riconoscimento parentale. Se questo è vero, allora la maggiore capacità olfattiva femminile è una caratteristica essenziale che è stato ereditata e mantenuta nel corso dell’evoluzione.

 

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Quando lo scienziato indica la cometa… La missione Rosetta e il fisico Matt Taylor: come varia la nostra capacità di comprendere un messaggio?

Ci concentriamo sul contenuto effettivo di una comunicazione quando riteniamo di avere le abilità e la motivazione per farlo.

Il fisico britannico Matt Taylor, dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), il 12 Novembre ha suscitato molte polemiche per la camicia con immagini di pin-up indossata mentre descriveva le fasi dell’atterraggio sulla cometa del lander Philae staccatosi dalla sonda Rosetta.

La camicia è stata considerata sessista, poco adatta ad una diretta televisiva internazionale, ed ha deviato l’attenzione delle persone e dei media che invece di soffermarsi sull’importanza della missione hanno cominciato a parlare e scrivere articoli sull’inadeguatezza dell’outfit. Alla fine il fisico ha chiesto scusa in lacrime per il suo abbigliamento eccentrico ma le voci ancora non si sono placate.

Cosa ha portato a questo? Perché un fatto apparentemente innocuo come la scelta del vestito, ha pregiudicato un importantissimo evento scientifico, ovvero il primo atterraggio su una cometa?

La psicologia sociale ci offre un modello che descrive in che modo può avvenire il cambiamento di atteggiamento verso una persona o evento. Secondo il modello di probabilità dell’elaborazione, le persone in alcune circostanze sono motivate ed in grado di prestare attenzione al messaggio trasmesso dalla comunicazione ed altre volte no. Tale modello serve a capire come certi aspetti della comunicazione, come la validità degli argomenti o l’autorità della fonte, hanno importanza e quando invece non ne hanno.

In ogni momento ci troviamo all’interno di un continuum di probabilità di elaborazione dove la vicinanza ad una delle 2 estremità (alta e bassa) determina i processi cognitivi che mettiamo in atto per pensare e comprendere i messaggi.

In base al modello, se ci troviamo all’estremità alta del continuum siamo in grado di prestare una profonda attenzione ai contenuti del messaggio: il nostro atteggiamento riguardo il contenuto della comunicazione segue quindi la via centrale dell’elaborazione e si basa sul pensiero controllato. Al contrario, se per qualsiasi ragione non siamo in grado di capire il contenuto del messaggio, allora l’elaborazione segue una via periferica e che si basa sul pensiero automatico.

La via centrale è attiva quando si hanno le capacità e la volontà di evocare ragionamenti in risposta al contenuto sostanziale di una comunicazione. L’elaborazione segue invece la via periferica quando la persona fonda i propri giudizi su elementi che non sono relativi al contenuto specifico di una comunicazione come, ad esempio, il contesto oppure l’abbigliamento del comunicatore.

In altre parole, ci concentriamo sul contenuto effettivo di una comunicazione quando riteniamo di avere le abilità e la motivazione per farlo. Il discorso in questione era una spiegazione molto tecnica delle fasi di atterraggio di una sonda su una cometa ed è quindi facile immaginare la difficoltà di comprensione per i non addetti ai lavori. Ciò ha fatto sì che l’informazione passasse per la via periferica, portando le persone a concentrarsi più sulla camicia che sulla missione.

 

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