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Il lato vivo di The Walking Dead – Psicologia e TV series

The Walking Dead è una serie che si presta a molte riflessioni sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe.

Di Francesca Boccalari

Pubblicato il 06 Mar. 2014

Aggiornato il 09 Gen. 2017 12:50

 

 

Il lato “vivo”di The Walking DeadThe Walking Dead è sicuramente una serie che si presta a molte riflessioni… sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe, anche se a fatica, per poi essere annientato da una via di mezzo, sconosciuta, per la quale (per ora) non ha trovato soluzioni praticabili e risorse spendibili.

SPOILER ALERT! ATTENZIONE, VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA

Per quei pochi di voi che non la conoscono, The Walking Dead è una serie televisiva americana di enorme successo, a dire il vero la più vista di sempre, che narra le avventure di un gruppo di sopravvissuti a un’epidemia letale… o quasi. L’intero genere umano è infatti affetto da una malattia che trasforma i morti in non morti, esseri incapaci di parlare o pensare e privi di qualsiasi volontà, se non quella di nutrirsi selvaggiamente di carne umana.

Detta così suona un po’ come uno di quegli horror splatter americani, girati con poco budget e altrettanta scarsa fantasia, in realtà ci ritroviamo nel mezzo di una narrazione che, tra colpi di scena e psicologia non troppo spiccia, tiene incollati allo schermo.

The Walking Dead è sicuramente una serie che, come fu anni fa per Lost, si presta a molte riflessioni… sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe, anche se a fatica, per poi essere annientato da una via di mezzo, sconosciuta, per la quale (per ora) non ha trovato soluzioni praticabili e risorse spendibili.

Tuttavia, nonostante i protagonisti appaiano effettivamente senza speranza, il tema della resilienza, la capacità dell’essere umano di riprendersi da un trauma o da traumi cumulativi, si impone al telespettatore dalla prima puntata. Rick, il protagonista, si sveglia da solo in una stanza di ospedale, i fiori appassiti sul comodino, un silenzio surreale nei corridoi, una porta sprangata sulla quale qualcuno segnala “non aprite, morti all’interno”.

Già solo per questo alcuni di noi mollerebbero la spugna, aprirebbero la suddetta porta, e getterebbero al vento il proprio istinto di sopravvivenza. Ma non Rick, e come lui molti altri, vedovi, vedove, madri senza figli e figli senza madri, persone rimaste sole al mondo, che continuano a lottare, a sopravvivere.

Ed è qui che nasce in me la prima di tante domande: cosa fa la differenza tra quelli che decidono di resistere e quelli che si sparano un colpo in testa e la fanno finita subito? Seppure nel mio piccolo, penso che una parte della risposta possa trovarsi in quelle che Ellis chiamerebbe tolleranza alla frustrazione e all’incertezza , ovvero le capacità che ci permettono di sopportare e gestire sentimenti negativi e disturbanti e di accettare il rischio che deriva dall’assenza di controllo.

Detto in soldoni, mi viene da pensare che se tu, umano post-apocalittico, tolleri di avere costantemente paura, di doverti guardare giorno e notte le spalle, di poter perdere tutto da un momento all’altro e di non sapere se arriverai fino a domani… beh, sopravvivi.

The Walking Dead fa riflettere sull’umanità delle persone, che si dividono in pietosi e spietati, quelli che ti salvano e quelli che ti uccidono, a seconda, nella maggior parte dei casi, della via più sicura per la sopravvivenza.

Ci fa pensare poi ad una società, quella americana ovviamente, che, nonostante infarcita di idee di appartenenza e condivisione, di invincibilità e “yes we can”, si sgretola e perde la sua identità poche settimane dopo il contagio. La società post-apocalittica che The Walking Dead descrive è fatta di piccoli gruppi, uniti solo dal bisogno di sopravvivere e dalle stesse idee sul come farlo, o, al massimo, di rari e superficiali tentativi di aggregazione, guidati e puntualmente portati al fallimento da singole identità, fattesi troppo forti o troppo disturbate per lasciare spazio ad altro e ad altri.

In questo scenario, probabilmente solo per esigenze narrative, si ricava uno spazio l’amore, che risorge più forte di prima e al quale i protagonisti si aggrappano, forse per  mantenere in vita la speranza, forse per crearne di nuova quando tutto è perduto. A questa forza i protagonisti non sanno resistere, nonostante significhi mettere in gioco sentimenti tanto forti quanto la morte li rende fragili, dimostrando che, sebbene sicuramente “NON bastiamo a noi stessi”, in due possiamo fare già qualcosa.

Tra questi piccoli spunti di riflessione, frutto della mia passione ormai pluriennale per il telefilm, ne sorge ora un ultimo e più recente. Esistono ancora gli eroi? La società che ha partorito Spiderman, Superman, Batman e tanti altri, può pensare un telefilm privo di eroi, proprio quando ce ne sarebbe tanto bisogno? Ormai alla quarta stagione, il telefilm non presenta a tutti gli effetti questa figura. È vero, c’è Rick, ma la sua missione non è salvare l’umanità, bensì portare al sicuro il suo ristretto gruppo di amici, che spesso si sgretola senza troppi problemi.

E al genere umano, quindi, chi ci pensa? In “Io sono leggenda”, film per molti versi simile a questa serie tv, Will Smith si rintana in casa finchè non trova una cura e riesce a farla arrivare, tra mille peripezie e al costo della vita, al centro di accoglienza in cui, ordinatamente, la società americana resiste.

The Walking Dead ci presenta uno spaccato di vita molto diverso, in cui l’obiettivo è semplicemente sopravvivere, piuttosto che tornare a vivere, e questo, a dirla tutta, ci deprime un po’, perché si sa che, in fondo, i sogni sono più affascinanti della cruda realtà.
Nonostante tutto questo, nella puntata del 24 febbraio si apre una speranza: il Sergente Ford, apparso di recente nella trama, ha la missione, forse altruistica, di portare in salvo un medico che conosce le cause del contagio. Che altro dire, quindi, se non “Forza Sergente Ford”!?!

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