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La Depressione e la Biologia all’SPR 2014 – Copenhagen

Si è appena svolto a Copenhagen il 45° meeting annuale della SPR, uno dei panel ha approfondito il ruolo degli aspetti biologici nei disturbi depressivi.

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 07 Lug. 2014

REPORT DAL 45esimo MEETING ANNUALE DELLA SOCIETY FOR PSYCHOTHERAPY RESEARCH

 

Si è appena svolto a Copenhagen  il 45esimo meeting annuale della Society for Psychotherapy Research (SPR) che raccoglie terapeuti e accademici di diversi approcci e da tutto il mondo pronti a condividere uno sguardo sul tema della ricerca in ambito psicoterapeutico.

Dopo una giornata di workshop pre-congressuali, il convegno è entrato nel vivo e ha visto alternarsi simposi di argomento affine, presentazioni libere, discussioni su un tema specifico e sessioni plenarie.

Un’apertura che sembra di buon auspicio, con una plenaria che ha raccolto quasi tutti i past president di SPR e una linea di ampio respiro, pronta a integrare approcci differenti e a porsi interrogativi a tratti scomodi.

Così, per esempio, abbiamo potuto assistere a un’intera sessione che approfondiva la difficile domanda: In tutti questi studi di esito e di processo, dove li mettiamo i pazienti che non solo non rispondono al trattamento, ma addirittura peggiorano?. Ora, ovviamente una risposta univoca non esiste, e sono stati mostrati risultati preliminari su studi piccoli e in divenire, ma è interessante già la volontà di puntare i riflettori non solo su quello che conferma quanto la psicoterapia sia efficace (più, meno, meglio, peggio del farmaco), ma anche sulle situazioni in cui il terapeuta può sperimentare un senso di impotenza o può addirittura peggiorare il quadro. In qualche modo, un passo scomodo ma necessario per richiamare anche alla mente tutti i limiti che gli interventi psicologici portano con sé.

Proseguendo nel programma, sono stati toccati molti argomenti, suddivisi sulla base del target di osservazione (terapia con bambini piuttosto che terapia di coppia), dell’approccio di riferimento (cognitivo, psicodinamico, neurobiologico), della sintomatologia interessata oppure dei processi osservati.

Così, uno dei panel a mio avviso più interessanti ha approfondito il ruolo degli aspetti biologici e maturativi nei disturbi psicopatologici, con un particolare riferimento ai disturbi di tipo depressivo.

Il gruppo di Santiago, che fa capo al Dr. Botto, ha presentato due revisioni sistematiche della letteratura, che approfondivano il ruolo della componente genetica nei disturbi dell’umore. Intanto, hanno sottolineato come spesso negli studi, davanti a questa dicotomia mente/cervello (che purtroppo cerchiamo di combattere ma contemporaneamente portiamo nel nostro bagaglio e nel nostro modo di vedere alle cose) ci sia la tendenza a sottolineare, quando si parla di ambiente, solo quelle caratteristiche che rendono difficoltoso uno sviluppo sano (genitori dismissing, un ambiente sociale stigmatizzante, difficoltà economiche), tralasciando il ruolo che un ambiente positivo può avere, fino a ostacolare l’espressione di un corredo biologico sfortunato.

Purtroppo, il gruppo cileno sottolinea come in questi studi manchi la considerazione degli eventi di vita recenti, e come questi valutino il modo in cui l’ambiente viene percepito, e non quello che oggettivamente è. Infine, si sente la mancanza di studi cross-culturali, che possano confrontare fra loro ambienti massivamente diversi, non solo con riferimento al livello sociale o famigliare, ma anche culturale in un senso più ampio (religioso, etico, morale, etc.).

Allora, nello studio della depressione e dei geni, si sottolinea come questa sia una patologia tendenzialmente ricorrente e cronica e con una prevalenza dell’8-12% nella popolazione generale (Andrade et al., 2003). Per quanto riguarda la biologia, il genoma e l’ambiente sono in relazione e i geni sembrano moderare l’effetto dell’ambiente sulla salute mentale. A quanto pare, due esseri umani condividono più del 99% del DNA. Che significa che tutte le differenze fenotipiche che possiamo osservare guardandoci attorno stanno in meno di un 1% di DNA, assieme a caratteristiche ambientali e esperienze di vita diverse.

In particolare, la letteratura ha finora approfondito il ruolo che nei disturbi depressivi hanno la serotonina, la dopamina e l’ossitocina. Mentre la prima ha a che fare con i sintomi depressivi tout-court (ed è stata indagata, appunto, in associazione a eventi di vita negativi), la seconda ha a che fare con i comportamenti e la terza sia con l’umore depresso che con la cognizione sociale,
intervenendo anche nella risposta allo stress.

 

 Ci sono diverse teorie che associano biologia e depressione. Mentre secondo la teoria aminergica la depressione sarebbe causata da una diminuzione di serotonina o norepinefrina, studi più recenti sostengono che i circuiti serotoninergici includerebbero strutture che controllano i sintomi depressivi, nonostante questa associazione biologia-depressione non abbia i criteri perché si possa parlare di causalità.

Per quanto riguarda infine la plasticità neurale, si sottolinea come un trattamento antidepressivo cronico produca un adattamento nel modo in cui le cellule comunicano, il che facilita l’espressione di determinati geni. In particolare, il BDNF (Brain-derived neurotrophic factor, fattore neurotrofico cerebrale) è un gene associato alla plasticità neurale il cui livello viene alterato anche da altre patologie, non solo dalla depressione. Secondo altri autori, la causa biologica della depressione sarebbe un aumento degli agenti infiammatori che possono portare a un cambiamento nella struttura cerebrale.

Tuttavia, altri autori hanno osservato come la depressione predica i futuri livelli di citochine (molecole proteiche che permettono alle cellule di comunicare), ma i livelli di citochine non predicano i futuri sintomi depressivi.

Come unire allora tutte queste informazioni? Sappiamo che ci sono molte evidenze dell’associazione tra eventi di vita stressanti e depressione e che lo stress cronico è un predittore maggiore di depressione rispetto allo stress acuto.

In più, molti studi hanno trovato un’associazione tra depressione e disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Il gruppo cileno allora ha utilizzato una procedura longitudinale misurando i livelli di cortisolo, l’ansia e i sintomi depressivi prima e dopo uno stress sociale. Quello che emerge è una correlazione significativa tra cortisolo e ansia, ma non tra cortisolo e depressione.

Va comunque specificato che, utilizzando un campione non clinico, si corre il rischio di appiattire i dati riferiti all’umore depresso (gli studenti universitari, in altre parole, erano troppo poco depressi per poter trarre conclusioni affidabili su questo dato). Per ricavare dati più chiari, l’intenzione è di fare uno studio in cui misureranno il cortisolo in un dato momento (T1) e il cortisolo, il BDNF, e i sintomi depressivi 6 mesi dopo (T2), per valutare se i livelli di cortisolo al T1 possono predire gli altri livelli e la depressione al T2.

A prescindere dai risultati e dalla metodologia utilizzata, è degno di nota il fatto che in un congresso sulla psicoterapia si dia così ampio spazio ai correlati biologici delle patologie, che possono aiutarci a capire meglio da una parte i sintomi che la depressione porta con sé, dall’altra la totalità dell’individuo.

Potrebbe essere insomma un altro passo, più pratico e meno ipotizzato solo in teoria, della voglia di considerare mente e cervello una sola entità. Fill the gap between mind and brain più che uno slogan sta diventando una necessità. 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

La ricerca in psicoterapia: dove si impara, dove si fa. SPR URBINO 2013

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Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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