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Report dal 3° Congresso Mondiale di NeuroMusicologia Clinica (Day 2)

Report della seconda giornata del Congresso di Neuromusicologia di Brescia

Gaspare Palmieri e Stavros J Baloyannis Congresso Neuromusicologia - Brescia
Da sinistra: L’inviato di State of Mind, Gaspare Palmieri e Stavros J Baloyannis al Congresso Neuromusicologia – Brescia

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Dopo una simpatica distrazione che mi ha portato a un concerto mattutino di musica lirica al Teatro Grande di Brescia (sede del primo giorno di congresso), invece che all’Aula Magna della Facoltà di Medicina e Chirurgia (il luogo in cui sarei dovuto andare…), sono riuscito a prendere posto al Congresso, giusto prima del coffee break (non essendo il congresso “foraggiato” dalle case farmaceutiche, si trattava di un coffee break abbastanza sobrio, ma nel complesso soddisfacente. Voto personale: 7). Sono stato subito colpito dalla platea un po’ scarna, considerato il livello piuttosto alto dei contributi scientifici, anche internazionali e questo mi è dispiaciuto molto.

Nella prima relazione a cui ho assistito i neurologi Bertaina e Sandrini dell’IRCSS Fondazione Istituto Neurologico Nazionale C. Mondini di Pavia hanno affrontato il tema dell’uso della musicoterapia attiva (quella in cui il paziente è coinvolto nel fare musica, anche semplicemente battendo le mani ad esempio) nella riabilitazione motoria e emotiva del Morbo di ParkinsonI ricercatori hanno sottolineato come la musicoterapia possa integrarsi alla normale terapia fisica (utilizzata soprattutto per la rigidità) per migliorare gli aspetti della bradicinesia, delle autonomie di base e dell’umore, in linea con precedenti studi (Pacchetti, 2000). Stimolazioni acustiche attraverso appositi metronomi vengono usate in questo disturbo anche per migliorare la marcia. 

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Successivamente è toccato alla Dr.ssa Giovagnoli dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano mostrare i benefici che la musicoterapia attiva nei pazienti con deterioramento cognitivo lieve (mild cognitive impairment: con punteggi al Mini Mental State Examination compresi tra 20 e 24). Rispetto alla riabilitazione cognitiva, che ha maggiori effetti sulla memoria, la musicoterapia in questi pazienti migliora l’umore e la socializzazione. Non è stato rilevato alcun effetto della musicoterapia sulla Theory of mind (l’abilità di comprendere i processi mentali altrui), mentre studi precedenti avevano mostrato un miglioramento degli aspetti afasici del linguaggio(Brotons, Koger, 2000).

Creatività Musicale & Psicopatologia: Quei geni skizzati del Bebop - Immagine: Licenza Creative Commons, Autore: Tom Palumbo
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Un musicoterapeuta dell’Istituto Geriatrico Golgi Radaelli di Milano ha evidenziato come la musicoterapia nella Demenza di Alzheimer possa stimolare la memoria autobiografica e la risposta emotiva, migliorare la comunicazione non verbale e la qualità della vita. Dove la parola non arriva più, arriva infatti la musica

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Successivamente è stato il turno della Dr.ssa Galbiati dell’Istituto Tumori di Milano, che ha illustrato i benefici dell’arteterapia integrata alla musicoterapia su pazienti trattate per tumore al seno. I percorsi di arteterapia nel paziente oncologico si ispirano al lavoro della celebre arteterapeuta Paola Luzzato che ha svolto per tanti anni la professione presso il Memorial Sloan-Kattering Cancer Center di New York. Le pazienti attraverso queste terapie sono incoraggiate a esprimere i propri stati d’animo sulla malattia, soprattutto mediante l’uso di simboli e metafore.

Lo studio osservazionale condotto ha evidenziato che le pazienti coinvolte nella terapia integrata mostravano un miglioramento delle relazioni interpersonali, dell’immagine e della percezione corporea.

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Anche il networking lunch è stato all’insegna di una sana sobrietà e mi ha portato a un singolare incontro con una simpatica collega bulgara neurologa, cantante e reporter (siamo una grande famiglia evidentemente…), che mi ha mostrato una sua versione di I will survive su Youtube. 

Il congresso è poi ripreso con l’intervento del professor Stavros J Baloyannis, in assoluto una delle presentazioni più insolite e interessanti a cui abbia mai assistito in vita mia. Baloyannis (con cui non ho resistito a farmi fare una foto), persona coltissima, è un religioso della Chiesa Greco Ortodossa, neurologo e professore presso l’Università Aristoteleliana di Thessaloniki. E’ autore di 625 papers che trattano di neurologia, filosofia, musicologia, e antropologia.

 Il titolo della sua relazione era “La filosofia della musica nella Chiesa Ortodossa”. Tutta la presentazione ha avuto in sottofondo un suggestivo coro ortodosso dall’effetto ipnotico, che si integrava ottimamente con la voce soffusa del relatore. Le origini della liturgia bizantina e ortodossa, risalgono al 527 d.C. con l’elezione di Giustiniano I a imperatore dell’impero d’Oriente, ufficiosamente, anche se le radici risalgono a tempi ancora più remoti. Si tratta di una musica solo vocale e monodica.

La finalità di questi canti è quella di indurre uno stato di apatia (non da intendersi in senso clinico psichiatrico), una sorta di serenità caratterizzata dall’assenza di passioni. Questo aspetto si può apprezzare anche nell’iconografia sacra, dove i volti dei santi sembrano trasfigurati, fuori dal tempo, ormai lontani dalle passioni carnali terrene. Baloyannis ha accennato ad alcuni concetti religiosi relativi alla sofferenza come sentimento universale o non individuale (che possiamo trovare anche nel buddismo) e ha poi spiegato come la diffusione di questa musica nei reparti  riduca l’aggressività e potenzi l’attività mentale dei pazienti affetti da Demenza di Alzheimer. 

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Ha infine presentato i dati di uno studio longitudinale su una comunità monastica del Monte Athos in cui non è stato rilevato un solo caso di demenza sugli oltre 2000 monaci seguiti nel tempo. Si può ipotizzare che questo risultato straordinario sia ascrivibile a una serie di fattori tra cui: la dieta mediterranea, l’ambiente fisico privo di senza stress sociali, l’apatia e la liberazione dalle passioni ottenute anche attraverso il canto della musica bizantina, la vita spirituale con meditazione e preghiera e le aspettative metafisiche sulla vita eterna.

Molto interessante anche il lavoro di Lucia e Michele Cavallari, entrambi musicisti diplomati al conservatorio e musicoterapeuti di Ferrara (www.musicoterapiaferrara.it). Hanno raccontato la propria esperienza nell’ambito della riabilitazione neurologica con pazienti affetti da afasie, disturbi cognitivi e stati vegetativi.

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com
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Si tratta di pazienti veramente complessi con estreme difficoltà di comunicazione, per cui l’intervento musicoterapico, o meglio suonoterapico, viene adattato al singolo caso per favorire l’interazione col mondo esterno e il recupero delle funzioni perse. Hanno sottolineato l’importanza di suonare con il paziente in modo attivo e non per il paziente, mostrando anche un video in cui il suonare impediva a un paziente di succhiarsi il dito come riflesso regressivo. 

Il Dr. Nuara del San Raffaele di Milano ha illustrato infine il possibile utilizzo della Stimolazione Magnetica Transcranica (Tms), che è stata studiata anche per il trattamento della depressione resistente, nella Sclerosi Multipla.

Nello specifico ha presentato un caso di un pianista di 39 anni, affetto dalla malattia che in seguito al trattamento ha migliorato le performance motorie e la destrezza manuale nel suonare il piano. Sembra che il meccanismo d’azione riguardi il ribilanciamento di fenomeni maladattati di plasticità neuronale e il rinforzo circuiti sensori motori associati al controllo motorio della mano.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

Report dal 3° Congresso Mondiale di NeuroMusicologia Clinica (Day 1)

 

Parlando di Musica: Report del Congresso di Neuromusicologia di Brescia

Report del Congresso di Neuromusicologia di Brescia. - Immagine: © olly - Fotolia.comLEGGI IL REPORT SULLA SECONDA GIORNATA DEL CONVEGNO di GASPARE PALMIERI (Day 2)

La musica ci fa stare meglio. È certo. E con sempre più entusiasmo le grandi menti che sostengono quest’idea si incontrano per spiegare le loro teorie e mostrare i risultati del loro lavoro.

Il 21 e 22 settembre al Congresso di Neuromusicologia di Brescia, sono intervenuti neurologi, sociologi, psicologi, psichiatri che si sono espressi sul valore della musica come sostegno per recuperare le abilità perdute. Sono intervenuti scienziati da tutto il mondo come Ryo Noda, che, presentando la sua ricerca “Effect of the musico-kinetic therapy” (MKT), ha voluto dimostrare che movimento e musica (o meglio, movimento a tempo di musica), riescono a restituire capacità motorie perdute a causa del Parkinson. 

Della stessa idea è anche C. Jola che, con “The neuronal processes of dancing experiences”, spiega come la musica sia capace di stimolare quegli stessi neuroni-specchio che si attivano osservando un danzatore, creando già uno schema mentale di movimento. 

Non sono mancati gli interventi sugli aspetti comunicativi e cognitivi della musica, come quello di T. Fritz, che ha spiegato in modo molto chiaro come il linguaggio musicale sia convenzionalmente deciso dalle popolazioni che ne fruiscono. Vale a dire che se proponessimo l’ascolto di un brano di musica occidentale ad un membro della tribù dei Mafa, in Cameroon (questo era il suo esempio), questi ne riconoscerebbero la struttura musicale, ma non il messaggio, convenzionalmente inteso e assorbito da noi, che siamo ormai abituati ad interpretare schemi fissi di melodie, armonie e ritmi.

Sinead O'Connor
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Per quanto riguarda il carattere psicoterapeutico della musicoterapia, sono stati molto interessanti gli ultimi tre interventi della prima giornata, quelli di Rita Formisano, “Music therapy in patients with disorders of consciousness”, A.L.Christiensen, “The influence in rehabilitation of individual human skills in music, literature or mathematics to ensure reconstruction after brain injury” e quello della prof.ssa Licia Sbattella che, con la sua ricerca “The orchestral texture of the mind: harmonization and modulation of self”, ha presentato i risultati raggiunti in ambito sociale e cognitivo, chiudendo inoltre il congresso con un concerto dell’orchestra di Esagramma, composta da ragazzi con problemi cognitivi, sindromi degenerative e problemi sociali. 

La musica, ancora una volta, ha dimostrato di essere in grado di mettere insieme gruppi umani, attraverso la partecipazione a eventi musicali.

In un clima di grande entusiasmo e cordialità, è stato bello assistere a tante manifestazioni di rispetto per il lavoro l’uno dell’altro. Gli esperti partecipavano con grande entusiasmo e si facevano domande reciprocamente, davanti a tutti durante gli interventi, affinché tutti potessero godere dell’approfondimento.

La neuromusicologia è una nuova branca delle neuroscienze. Questa nasce dalla acquisita consapevolezza del potere del linguaggio sul nostro cervello e sul suo corretto funzionamento, ma soprattutto dalla consapevolezza dell’enorme relazione tra linguaggio e musica, per la loro organizzazione tematica, temporale, per la loro vicinanza al movimento e alla respirazione.

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Per quel che concerne il potere terapeutico della musica riporto qui un interessante intervento del fondatore della Società Internazionale di Neuro Musicologia e organizzatore del Congresso, Giorgio Brunelli: “Nel cervello ci sono particolari strade o sentieri: Il sentiero del ‘dove’, del ‘come’, del ‘cosa’, che vanno dai punti di  entrata delle sensazioni fino ai lobi frontali. Quando il cervello è distaccato dal mondo esterno, i suoni musicali che entrano nell’orecchio e trovano nel cervello queste strade, possono seguirle, anche passivamente, e in questo modo riattivare quei percorsi che c’erano prima della malattia.”.

Giuliano Avanzini (neurofisiologo, primario emerito dell’istituto neurologico Carlo Besta di Milano), ha parlato del rapporto tra neuroscienza e musica. La neurologia, che ai propri esordi si è occupata di studiare la struttura del linguaggio nel nostro cervello, non si è mai occupata di studiare la musica nello stesso modo, eppure, musica e linguaggio hanno innumerevoli punti in comune. Infatti sono sistemi di comunicazione presenti in tutte le culture umane. Si è scoperto in tempi recenti che l’area del cervello che si occupa di elaborare il linguaggio è molto importante anche per elaborare la struttura musicale, rendendola di senso compiuto. Dà quindi un’organizzazione sintattica.

La musica è una terapia utile a tante malattie neurologiche. Si svolge nel tempo e crea un “tempo”, ossia un’organizzazione temporale. La musica riesce a restituire una capacità di dare un ritmo al movimento (alcuni pazienti riescono a ritrovare una camminata regolare grazie alla musica. Senza questa ci riescono difficilmente).

Naturalmente però la musica non fa solo questo. La musica ci unisce, ci stimola, ci fa riflettere su noi stessi e sugli altri.

La musica chiama altra musica. Imparando ad ascoltarla, potremmo anche imparare a sentirci meglio.

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Giornata Mondiale della Salute Mentale – 10 Ottobre 2012

Ogni epidemia è un prodotto
del suo tempo (M. Bounan)

 

LA PAZZIA, QUESTA SCONOSCIUTA.

State of MInd - Il Giornale delle Scienze PsicologicheOggi 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale, un concetto che è sempre stato definito per differenza. La persona “sana” è quella “non malata”.

La salute mentale, la così tanto agognata “normalità” è fondamentalmente l’assenza di patologia. Ma allora, che cos’è questa cosa di cui oggi festeggiamo l’assenza? Che cos’è la pazzia?

Nel corso dei secoli sono state date diverse interpretazioni all’evidenza della malattia mentale, della “follia”; citando due esempi, l’interpretazione illuminista, rappresentata da Diderot, attribuisce la follia al corpo; al contrario, la tradizione romantica, attraverso le parole di Schelling, afferma: «L’essenza più profonda dello spirito umano, […] se esso viene considerato nella separazione dall’anima, quindi da Dio, è la follia. La base della ragione stessa è dunque la follia. Quindi la follia è un elemento necessario, che però non dovrebbe manifestarsi […]. Ciò che chiamiamo ragione […] è propriamente null’altro che follia regolata». [1]

Arrivando a secoli più vicini al nostro, negli anni 20 del ‘900 si assiste all’opposizione surrealista alla psichiatria tradizionale. Appoggiandosi alle scoperte freudiane, Breton e colleghi cercano di esplorare il mondo dell’inconscio e del sogno e si interessano a stati, quali l’automatismo psichico, la follia e l’ipnosi, per descriverne i dati. Propugnando la libertà (sociale e individuale), questi autori sostituiscono la ricerca sperimentale scientifica con la filosofia e la psicologia ed esaltano la figura del “folle”, considerato come persona in grado di vedere ed interpretare i fatti del mondo in una chiave particolare, scevra dai limiti e dai confini imposti dalle leggi della società borghese, e quindi più vera e più reale. [2]

Gli anni ’30 vedono l’introduzione di pratiche mediche controverse utilizzate per curare la malattia mentale, inclusa l’induzione di coma tramite elettrochoc, insulinoterapia o altri farmaci, l’asportazione di parti del cervello (leucotomia o lobotomia). Oltre agli evidenti problemi etici, si nota subito quanto la patologia psichica fosse assimilata a quella fisica, arrivando a “curare” la prima con metodi che incidono sulla seconda.

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Negli anni ’50 si sviluppano i primi farmaci, in particolare l’antipsicotico clorpromazina, e lentamente il loro uso soppianta le precedenti “terapie”. Contemporaneamente, oltre al problema degli effetti collaterali, aumenta l’opposizione all’uso degli ospedali psichiatrici e si fanno strada tentativi di riportare le persone alla comunità attraverso gruppi collaborativi autogestiti.

Nel periodo contemporaneo, si dibatte ancora su una contrapposizione di idee e teorie che ha avuto origine in un movimento nato negli anni 60: l’Antipsichiatria.

Rappresentata in America da Goffman e Szasz e in Italia da Basaglia, questo indirizzo si basa sul presupposto secondo cui nella maggioranza dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato non di malattie o disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali o di contraddizioni sociali. Alla base c’è la premessa teorica del carattere esclusivamente sociogenetico delle malattie psichiche, quindi il conseguente rifiuto di tutte le teorie e terapie dettate dalla psichiatria classica (in particolare dall’indirizzo medico – biologico). Questa è infatti tacciata di riduzionismo, pertanto viene richiesto un mutamento radicale nell’approccio al problema dei disturbi mentali, per esempio con l’applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi degli stessi. Inoltre la psichiatria tradizionale viene accusata di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici.

In Italia, in particolare, figure di assoluta importanza per quanto riguarda questo filone teorico sono Basaglia e Jervis (anche se quest’ultimo non volle mai essere incluso esplicitamente in questa corrente). Entrambi concentrarono le loro forze nel tentativo di combattere e sradicare la visione psichiatrica tradizionale della malattia mentale, riproponendo il problema su un piano sociologico: “La follia – afferma lo stesso Jervis – è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni del vivere sociale”. [3] La diagnosi psichica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed avrebbe l’unica conseguenza di etichettare le persone in base a due grandi classificazioni: il “normale” ed il “patologico”. Lo stesso autore si spinge poi oltre, ipotizzando un’origine del disagio psichico nell’oppressione che da sempre la società perpetua sull’uomo, a cominciare dalla “famiglia nucleare”, per poi proseguire nella scuola e nella fabbrica.

L’altro esponente italiano di questo attacco alla tradizione psichiatrica è Franco Basaglia; partendo dalla sua esperienza personale all’interno di manicomi negli anni ’60 (al tempo caratterizzati dalla massima detenzione, dalla camicia di forza e dall’elettroshock), egli sosteneva che «Un malato di mente entra nel manicomio come “persona” per diventare una “cosa”. Il malato, prima di tutto, è una “persona” […]. Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone».

La rivoluzione concreta attuata applicando le idee basagliane si ebbe per la prima volta a Gorizia, dove il manicomio diventò una “comunità terapeutica”, con cancelli aperti e una nuova concezione di follia. Scrive Basaglia: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla». [4]

Tutto ciò si concretizza con la legge del 13 maggio1978 (legge 180) presentata e proposta dallo stesso Basaglia. [5] In questa riforma, lo psichiatra sottolinea la necessità di «rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura». Questa legge, che confluirà poi quasi per intero nella legge n° 833 del 23 dicembre 1978 con cui verrà istituito il Servizio Sanitario Nazionale, porta al graduale superamento degli ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici ed alla loro trasformazione in strutture diverse, non più coercitive e segregative, ma di aiuto e di appoggio per il malato, quasi come delle strutture che lo accompagnino nel passaggio dalla malattia al reinserimento nel mondo sociale. Sono infatti previsti “Servizi di diagnosi e cura”, ma anche “appartamenti protetti” ed altre strutture d’appoggio per ex degenti manicomiali o per nuovi utenti dei servizi psichiatrici.

Osteggiata in mille modi e mai finanziata, la legge 180 viene applicata solo in alcune zone d’Italia ed ha una grave dimenticanza: non tratta minimamente la situazione dei vecchi “manicomi criminali” (oggi Ospedali Psichiatrici Giudiziari – Opg – , 6 in Italia), lasciandoli sostanzialmente immutati.

La corrente denominata Antipsichiatria, quindi, rappresenta una svolta epocale per il trattamento dei malati pschichici e per i presupposti che proponeva: da una concezione di custodia e controllo, in cui i “folli” venivano rinchiusi in quanto pericolosi, incurabili e nocivi per la società, si passò ad una nuova concezione clinica e terapeutica, tipica del sistema sanitario.

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In questi stessi anni si ebbero dei movimenti popolari contro alcuni criteri psichiatrici: il movimento degli omosessuali si oppose alla classificazione dell’omosessualità come malattia mentale, e in un clima di acceso dibattito nel 1973/1974 l’ American Psychiatric Association (APA) decise con una piccola maggioranza (58%) di rimuoverla dalle categorie nosografiche; ciononostante l’omosessualità egodistonica rimase fino al 1987.

Contemporaneamente alla nascita e al crescente uso di psicofarmaci, nacquero polemiche e correnti che criticavano la psichiatria per la sua eccessiva focalizzazione sull’indagine biochimica circa la malattia mentale. I critici affermarono infatti che le assunzioni biochimiche della psichiatria maggioritaria non erano supportate da prove ed erano solo giudizi parziali. Questo intervento massiccio sul paziente con psicofarmaci era interpretato come un tentativo di sedarlo e di drogarlo, al fine di renderlo il meno pericoloso possibile ed il più possibile standardizzato ed omologato alle persone cosiddette “normali”. Bounan, nel 1991 scrive: «Si drogano i depressi e i folli, li si rende presentabili. Almeno tacciono, e si può sempre distogliere gli occhi dal loro viso idiota». [6]

Ancora una volta, quindi, si perpetua la contrapposizione tra psichiatria e senso comune, tra cause biochimiche o genetiche e cause sociali, tra la cura isolata ed il reinserimento sociale.

Ancora una volta, il “pazzo” è definito dai “normali” per contrapposizione, per differenza, per il rispetto delle norme che gli stessi “normali” hanno costruito.

Ancora una volta si impone la classificazione degli “altri”, di quelli che non sentono voci o non vedono il mondo diversamente dalla maggioranza.

Ancora una volta si danno nomi, si etichettano cose e persone in tutta la sicurezza che questo comporta, ché noi siamo diversi, noi riusciamo a ragionare e a utilizzare la razionalità, noi non siamo come loro.

Ancora una volta tante persone tra i “non addetti ai lavori” sostengono che “alla fine tutte queste malattie mentali hanno una base scientifica, biologica… così ci nasci e non puoi guarire”, che per contro significa che chi non è “nato pazzo” non rischia di diventarlo, che è al sicuro.

Eccola qui la pazzia, che nella quotidianità significa emarginazione, derisione, giudizio degli altri. La paura che la follia provoca nei “normali” è incredibilmente placato dal definire dei limiti immutabili: quello dei “pazzi” è un gruppo con confini impermeabili (pazzi si nasce, non si diventa e dalla pazzia non si guarisce); la differenza di status all’interno della società tra questo gruppo e quello dei “normali” è stabile (i folli non potranno mai arrivare al potere) e legittima (non sarebbero in grado di governarsi da soli: è giusto che noi ci prendiamo cura di loro fissando delle leggi). Allora perché cambiare la situazione? Perché forse non è così. Perché dalla cosiddetta “pazzia” si può guarire (tranne qualche eccezione). Perché differenza non è sinonimo di patologia. Perché almeno si deve provare a reinserire il malato nella società, per fargli riacquisire le sue relazioni e le sue capacità comunicative.

Quanto questa visione immutabile della pazzia sia rassicurante lo si può notare anche nell’uso comune di questo concetto relativamente alla cronaca nera, che ogni giorno impressiona ed insieme appassiona tutti i cittadini. Quante volte ci si nasconde dietro a un “è sicuramente pazzo e malato” per spiegarsi la condotta di un pedofilo, di un assassino? Quante volte si cerca di catalogare le persone tra chi commette reati e chi “non lo farebbe mai”? Le persone partecipano copiose ed interessate alle varie cronache, un po’ per curiosità e un po’ perché pensano di stare osservando qualcosa di altro, di diverso da sé. Quando si legge della madre che ha ucciso il figlio, è più facile dire “è una bestia”, piuttosto che “subito dopo il parto anche io avrei ammazzato mio figlio per quanto piangeva”. Ci sono addirittura dei tabù, degli argomenti che non si possono mettere in discussione; primo fra tutti quello, appunto, che chi commette certi tipi di crimini deve avere per forza qualcosa che non va. Che sorpresa, poi, quando il reo viene giudicato “capace di intendere e di volere”: si affaccia l’ipotesi che una persona sana di mente abbia deciso serenamente dall’oggi al domani di compiere certi reati, e questo per la mentalità di tanta gente non è possibile. Scrivono Fornari e Ponti: «È solo un’illusione quella che accompagna la maggior parte delle persone nella vita: che cioè si possa stabilire una netta linea di demarcazione tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male, tra l’angelico e il diabolico, tra la normalità e la follia, tra il delinquente e chi le norme le rispetta, e così via». [7] Però è un’illusione che rassicura tantissimo e che ci mette al sicuro, una volta posizionataci da una determinata parte della linea, che per quel parametro non potremo cambiare mai.

Verso la psicopatologia si crea così una condizione di paura mista a curiosità per qualcosa che «proprio come il divino, affascina e insieme terrorizza per la sua totale diversità» (Mauro Covacich). L’uomo è attratto dal differente da sé, ma allo stesso tempo non può mostrare interesse per qualcosa di così “sbagliato”: «La gente si tira un po’ indietro come per mostrare che in realtà voleva solo rendersi utile, che non è interessata al male degli altri – sarebbe peccato – e che comunque non è giusto che succedano queste cose, bisognerebbe seguire di più le persone malate (c’è chi dice “controllare”, c’è chi dice anche “sorvegliare”) ». [8]

In fondo si può dire che la paura della pazzia (e lo stesso vale per la paura di impazzire) sia uno dei tanti timori dell’uomo nei confronti di qualcosa che non conosce, quasi come si nutre paura e insieme curiosità nei confronti dell’Aldilà. Per cercare di fronteggiare la dissonanza cognitiva tra questi due sentimenti e per cercare di spiegarsi l’origine del fenomeno, l’uomo crea teorie ingenue sulla pazzia, come del resto ha sempre fatto nel corso della storia, coerenti con i valori preponderanti del momento. Per questo il pazzo è stato visto, nei vari periodi storici, come incarnazione del demonio, stregone, pericolo per la società da rinchiudere, persona con disfunzioni cerebrali etc.

Per lo stesso motivo anche in un medesimo periodo, vi sono diverse interpretazioni della malattia mentale e di conseguenza del malato mentale: al giorno d’oggi si possono ritrovare diverse teorie di riferimento per altrettante tipologie di interventi terapeutici (paradigma biologico, paradigma psicoanalitico, paradigma dell’apprendimento, paradigma cognitivo, etc.).

Magrezza non è Bellezza. I Disturbi Alimentari (e-book) & Booktrailer
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Quello che dovrebbe far riflettere è che l’uomo ha paura di impazzire anche per il tipo di vita che questo comporterebbe (l’emarginazione, l’etichettamento, i pregiudizi), quando è proprio lui che, giorno dopo giorno, perpetua questi atteggiamenti mentali nei confronti dei malati psichici. L’uomo rischia così di rimanere intrappolato in un una gabbia che lui stesso si è costruito o almeno ha contribuito a rafforzare presso la società in cui vive. Nessuno si fa problemi nel categorizzare le persone come “diverse”, senza però pensare mai di poter un giorno ricadere nei parametri che definiscono questa categoria. L’uomo ha paura che impazzendo potrebbe perdere i suoi diritti e la sua libertà, ma non si fa scrupoli a togliere questi diritti e questa libertà ad altre persone ritenute “pericolose” per la società.

Il cittadino si aspetta quindi che la legislazione che lo riguarda lo protegga dalle figure ritenute pericolose per se stesso e per gli altri. A questo proposito, l’Italia è rimasta oggi l’unica nazione in Europa dove alla diagnosi di vizio totale o parziale di mente dell’imputato, al momento in cui ha commesso il delitto, il reo rimanga ancora in ambito penale. In pratica, quando un malato psichiatrico commette un reato, le possibilità sulla sua sorte sono tre:

  • Se viene riconosciuto il vizio totale di mente (art. 88 CP) e se viene giudicato non socialmente pericoloso (artt. 203 – 133 CP), viene prosciolto e rimesso in libertà (artt. 529 – 530 CP)

  • Se viene riconosciuto il vizio totale di mente (art. 88 CP) e se viene giudicato socialmente pericoloso (artt. 203 – 133 CP), viene prosciolto ed internato in un OPG per 2, 5 o 10 anni (artt. 215 – 222 CP)

  • Se viene riconosciuto il vizio parziale di mente (art. 89 CP), viene condannato (ad una pena minore), ma prima di entrare in carcere (art.656 CP) trascorre un periodo di 1 – 3 anni in un OPG, per il trattamento della patologia di mente (artt. 215 – 219 CP).

Si pone però a questo punto una domanda: non essendo l’OPG una struttura terapeutica, ma solo custodialistica, per la maggior parte degli internati l’etichetta del socialmente pericoloso come potrebbe scomparire?

Inoltre vale la pena notare un dato statistico, che probabilmente allarmerebbe tutte le persone che si spiegano i reati più gravi e “mostruosi” come messi in opera da un malato mentale: statisticamente i malati mentali che commettono reati rappresentano, rispetto alla popolazione di tutti i malati mentali, la stessa percentuale di quelli che commettono reati e sono sani di mente, rispetto a tutta la popolazione dei sani di mente. Sono infatti pochissime le patologie psichiatriche a rischio di comportamenti aggressivi ed eterolesivi (possono esserlo soprattutto i paranoidei ed i “borderline”).

Sembra quindi di dover modificare la nozione originaria di “follia omicida” o di “pazzo criminale” verso una rappresentazione del malato mentale connotata meno negativamente.

La follia, la devianza, la psicopatologia è quindi qualcosa che ci appartiene. Come società e come singoli. Sta a noi decidere come gestirla quotidianamente, a prescindere dalla legislazione. Sta a noi decidere di accettare che la pazzia sia fondamentalmente sofferenza e che il sofferente sia uno di noi.

Per commettere un crimine
Ci vuole il suo coraggio
Ma per voltar la testa
Basta la debolezza
Sono tutti complici
E non te ne vorrebbero
Ti giustificherebbero, giustificando loro
(V. Capossela)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

1) SCHELLING, F.W. (1974), Opere Filosofiche. Laterza, Bari.

2) BRETON, A. (1997), Manifesti del Surrealismo. Einaudi, Torino.

3) JERVIS, G. (1975), Manuale critico di psichiatria. Feltrinelli, Milano.

4) BASAGLIA, F. (1981), Scritti 1. Einaudi,

5) LEGGE 180. Gazzetta Ufficiale, 16 maggio 1978.

6) BOUNAN, M. (1991), Le temps du Sida. Allia, Paris.

7) PONTI, G., FORNARI,U. (1999), Il fascino del male. Raffaello Cortina, Milano.

8) COVACICH, M. (2007), Storia di pazzi e di normali. Laterza, Bari.

 

Obesità ed Emotional Eating. Une Liaison Dangereuse

Congresso SITCC 2012 Roma

Obesità ed Emotional Eating. Une Liaison Dangereuse

DR.SSA ANNALISA DA ROS, DR PIERGIUSEPPE VINAI, DR.SSA SILVIA CARDETTI, DR NICOLA GENTILE

AMBULATORIO DCA, ULSS13 MIRANO (VENEZIA) – GNOSIS

 

ARTICOLI SUL BINGE EATING DISORDER (BED)ARTICOLI SUI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE 

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Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. State of Mind Edizioni Elettroniche
Articolo Consigliato: Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. Sassaroli, Ruggiero, Fiore – Edizioni Elettroniche State of Mind – 2012

Empatia & Sbadigli: esiste davvero una relazione?

di Alessandra Piccolini

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

LEGGI GLI ARTICOLI SULL’EMPATIA

Ogni coinvolgimento in relazioni interpersonali ha, per gli esseri umani, basi emotive, e dipende dalla quella capacità di condividere e comprendere le emozioni che noi chiamiamo empatia. Vi chiederete ora cosa c’entri questo tipo di capacità con gli sbadigli. Tutti sappiamo che si tratta di fenomeni contagiosi: sentiamo l’irrefrenabile bisogno di sbadigliare non solo quando vediamo qualcun altro farlo, ma anche quando lo immaginiamo, ne sentiamo il suono, o addirittura quando leggiamo qualcosa sull’argomento (se state sbadigliando leggendo questo articolo, almeno sappiamo che non è – necessariamente – perché vi state annoiando).

Esistono vari indizi di tipo clinico, neuropsicologico e psicologico che suggeriscono l’esistenza di un legame tra il “contagio” di sbadigli e l’ empatia. Questo fenomeno particolarmente curioso inizierebbe infatti a manifestarsi tra i 4 e i 5 anni di età, nel momento cioè in cui i bambini sviluppano l’abilità di identificare le emozioni altrui in modo appropriato (Singer, 2006; Saxe, Carey, & Kanwisher, 2004). A livello neurobiologico, le aree cerebrali che si attivano quando vediamo qualcuno sbadigliare (il cingolato posteriore, il precuneo e la corteccia prefrontale ventromediale) sono le stesse che si attivano durante le interazioni empatiche (Schurmann, Hesse, Stephan, Saarela, Zilles, et al., 2005)

Sbadigliare - Immagine: © Eric Isselée - Fotolia.com
Articolo consigliato: Perché non possiamo fare a meno di sbadigliare?

L’attivazione dell’amigdala supporterebbe inoltre l’ipotesi sull’esistenza una relazione tra sbadigli contagiosi e “l’analisi emozionale” del volto dell’altro, tipica delle interazioni faccia a faccia (Nahab, Hattori, Saad, & Hallett, 2009). Ultimi, ma non per importanza, i “neuroni specchio”: nel caso degli sbadigli, si tratta di particolari neuroni situati nel giro frontale postero-inferiore destro che si attivano durante la visione delle azioni svolte da un partner, prima ancora che queste vengano effettivamente imitate (Arnott, Singhal, & Goodale, 2009). Gli studi sui neuroni specchio svolti nel corso degli ultimi anni ne hanno sottolineato l’importanza per la comprensione delle azioni altrui, un prerequisito dell’ empatia (Rizzolatti, & Craighero, 2004).

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Il primo studio di tipo naturalistico sul legame tra empatia e sbadigli contagiosi è stato invece condotto da Ivan Norscia e Elisabetta Palagi e riportato nell’articolo “Yawn Contagion and Empathy in Homo sapiens” (2011). Gli autori hanno osservato il comportamento di 109 adulti (53 maschi) di nazionalità diverse (europei, asiatici, africani e nord-americani), inconsapevoli dell’osservazione in atto.

Lo studio ha dimostrato che il legame sociale, associato all’ empatia, è in grado di influenzare il contagio di sbadigli in termini di occorrenza, frequenza e tempo di latenza (cioè il tempo trascorso tra il primo sbadiglio e lo sbadiglio di “risposta”). Il primo dato interessante è che queste variabili non erano invece affatto influenzate né dal contesto sociale, né dalla nazionalità dei soggetti. Anche la “modalità sensoriale” (vedere una persona sbadigliare vs sentire il suono dello sbadiglio vs entrambi) non aveva alcun effetto sul “contagio”.

L’importanza del legame sociale nel determinare il tipo di “scambio di sbadigli” si è rivelata invece determinante, a dimostrazione del fatto che l’ empatia gioca un ruolo fondamentale in questo tipo di fenomeno. Non solo il contagio era maggiore se i soggetti coinvolti si conoscevano, ma seguiva anche una sorta di “gradiente empatico”. In altre parole, il contagio minore era quello che si poteva osservare in due soggetti sconosciuti l’uno all’altro, mentre quello maggiore tra persone della stessa famiglia, passando attraverso i due gradi intermedi di “conoscenti” e “amici”.

Si tratta della conferma “comportamentale” di ciò che studi clinici, neurobiologici e psicologici hanno suggerito durante gli scorsi dieci anni. È possibile che la percezione dello sbadiglio altrui attivi reti neurali complesse connesse anche all’imitazione motoria, al comportamento sociale e all’ empatia, e che, di conseguenza, le regioni cerebrali che mappano queste reti vengano sovra-stimolate dalla percezione dello sbadiglio di una persona a cui teniamo. Una tale sovra-stimolazione porterebbe ad una sorta di risposta “potenziata”, coerentemente col fatto che proviamo maggiore empatia nei confronti delle persone a cui siamo più legati.

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BIBLIOGRAFIA:

SITCC 2012 – L’integrazione Scolastica dei Disabili in Russia. Indagine sugli Atteggiamenti di Insegnanti Regolari e di Special Educators

Congresso SITCC 2012 Roma

L’integrazione Scolastica dei Disabili in Russia. Indagine sugli Atteggiamenti di Insegnanti Regolari e di Special Educators 

Margherita Rampioni, Viviana Langher

Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Università degli Studi “La Sapienza”

 

SITCC-Rampioni poster. L'integrazione Scolastica dei disabili in Russia 

 

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SITCC 2012 – La Ruminazione Rabbiosa nel comportamento aggressivo del Disturbo Borderline di Personalità

Congresso SITCC 2012 Roma

 

La Ruminazione Rabbiosa nel comportamento aggressivo del Disturbo Borderline di Personalità

 Martino F., Caselli G., Menchetti M., Berardi D., Sassaroli S.   

 Istituto di Psichiatria, Università di Bologna

 Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione  e Centro di Ricerca

 Centro di Salute Mentale, Ausl Bologna 

 

 ARTICOLI SU RUMINAZIONE E RIMUGINIOARTICOLI SU DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’

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Stili di Attaccamento. Metacognizione e Sistemi Motivazionali: uno Studio Correlazionale – SITCC 2012

Congresso SITCC 2012 Roma

Stili di Attaccamento. Metacognizione e Sistemi Motivazionali: uno Studio Correlazionale

Cafari Maurizio, Calabrò Gabriella, Castaldo Giovanna, Gallo Emanuela, Ganucci Cancellieri Uberta, Giordano Francesca, Impiduglia Giovanna, Mangano Piera, Marino Iolanda, Minutolo Fabiana, Montesanti Marzia, Morabito Simona, Patti Luciana, Pitasi Antonia, Sarcone Fiorella, Timpano Francesco, Zaccone Sabrina.

Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Reggio Calabria

 

ABSTRACT: 

ll presente lavoro vuole analizzare la correlazione fra stili di attaccamento e metacognizione fornendo quindi un contributo all’approfondimento dei temi sopra citati.

Il campione della ricerca è costituito da 30 soggetti di entrambi i sessi, di età compresa tra i 25 e i 60 anni. Ad ogni soggetto sono stati somministrati i seguenti strumenti di indagine:SCL-90; ASQ per valutare le differenze individuali nell’attaccamento adulto; SVaM (V 4.0), una scala di valutazione della metacognizione e l’AAI che è stata utilizzata come trascritto su cui valutare le funzioni metacognitive.

L’analisi dei dati è stata condotta in due fasi e con diverse modalità.

Nella prima fase sono stati presi in considerazione i soggetti che avevano ottenuto valori maggiori di 60 nelle singole dimensioni patologiche; l’analisi della varianza evidenzia una correlazione positiva tra punteggi elevati delle suddette dimensioni e maggiore insicurezza nelle relazioni di attaccamento.

Per quel che riguarda le correlazioni significative tra funzioni metacognitive e sintomatologia, nei soggetti con sintomi di tipo ansioso e depressivo risulta maggiormente ingaggiata la funzione “autoriflessività-monitoraggio”. (Non sono emerse invece correlazioni significative tra metacognizione e stili d’attaccamento).

In seconda analisi è stata eseguita una bivariata condotta su tutti i 30 soggetti senza considerare il cut-off della prima ottenendo una sostanziale conferma dei risultati.

I trascritti AAI sono stati successivamente codificati utilizzando l’Aimit al fine di correlare la variabilità delle funzioni metacognitive con i sistemi motivazionali. 

 

ARTICOLI SULLA METACOGNIZIONE

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Psico-educazione Emotiva: La Paura

 

Psico-educazione emotiva: la paura. - Immagine: © afxhome - Fotolia.comLa paura è una delle emozioni fondamentali degli esseri viventi, ci mette in guardia dai pericoli e ci spinge alla sopravvivenza.

“Dentro faceva più freddo. La pelle del morto era sudicia, incrostata di fango e merda. Era nudo. Alto come me, ma più magro. Era pelle e ossa. Le costole gli sporgevano. Doveva avere più o meno la mia età. Gli ho toccato la mano con la punta del piede, ma è rimasta senza vita. Ho sollevato la coperta che gli copriva le gambe. Intorno alla caviglia destra aveva una grossa catena chiusa con un lucchetto. La pelle era scorticata e rosa. Un liquido trasparente e denso trasudava dalla carne e colava sulle maglie arrugginite della catena attaccata a un anello interrato. Volevo vedergli la faccia. Ma non volevo toccargli la testa. Mi faceva impressione. Alla fine, tentennando, ho allungato un braccio e ho afferrato con due dita un lembo della coperta e stavo cercando di levargliela dal viso quando il morto ha piegato la gamba. Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il terrore mi ha afferrato le palle con una mano gelata. Poi il morto ha sollevato il busto come fosse vivo e a occhi chiusi ha allungato le braccia verso di me. I capelli mi si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto indietro e sono inciampato nel secchio e la merda si è versata ovunque. Sono finito schiena a terra urlando. Anche il morto ha cominciato a urlare. Mi sono dimenato nella merda. Poi finalmente con uno scatto disperato ho preso la corda e sono schizzato fuori da quel buco come una pulce impazzita. Pedalavo, mi infilavo tra buche e cunette rischiando di spezzarmi la schiena, ma non frenavo. Il cuore mi esplodeva, i polmoni mi bruciavano. Ho preso un dosso e mi sono ritrovato in aria. Sono atterrato male, ho strusciato un piede a terra e ho tirato i freni, ma è stato peggio, la ruota davanti si è inchiodata e sono scivolato nel fosso a lato della strada. Mi sono rimesso in piedi con le gambe che mi tremavano e mi sono guardato. Un ginocchio era sbucciato a sangue, la maglietta era tutta sporca di merda, una striscia di cuoio del sandalo si era spezzata. Respira, mi sono detto. Respiravo e sentivo il cuore placarsi, il fiato tornare normale e improvvisamente mi è venuto sonno.”(N. Ammaniti, Io non ho paura, pp. 52-53).

Come curare l'ansia del bambino. - Immagine: © altanaka - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Come curare l’ansia del bambino

La paura è una delle emozioni fondamentali degli esseri viventi, ci mette in guardia dai pericoli e ci spinge alla sopravvivenza.

Di fronte a un pericolo, infatti, il nostro corpo produce un ormone – la ben nota adrenalina – che induce cambiamenti fisici e mentali e che ci prepara all’azione: fuggo o rimango immobile (flight or fight). Se facciamo un salto indietro ai nostri antenati riusciamo a capire come questa emozione li abbia protetti da animali selvaggi o da vicini ostili.

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Attualmente, almeno nelle società occidentali, gli stimoli che ci inducono paura non sono più leoni o invasioni vicine, quanto piuttosto la perdita di un lavoro, un cambiamento di vita o il sommarsi di problemi quotidiani. Ma i cambiamenti corporei, il pensiero e le reazioni comportamentali rimangono le stesse dei nostri antenati. Così come la paura, ansia e preoccupazioni che spesso i nostri pazienti ci chiedono di curare (anzi, di eliminare!), sono estremamente utili e diventano un problema solamente quando vengono vissute in maniera esagerata o fuori contesto.

I cambiamenti corporei

“Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il terrore mi ha afferrato le palle con una mani gelata…Il cuore mi esplodeva, i polmoni mi bruciavano…Le gambe che mi tremavano”

Reazioni corporee della paura includono: bocca secca, aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, motilità intestinale, tensione muscolare, aumento della sudorazione. Il nostro corpo si sta preparando a una reazione immediata. Senza tali cambiamenti, infatti, saremmo del tutto inadeguati di fronte al pericolo.

Proviamo a pensare a un atleta a una finale olimpica: i sintomi ansiosi elevati possono essere paragonati a quelli della paura, senza i quali il nostro atleta non sarebbe pronto a reagire immediatamente al fischio di inizio e a dare il meglio di sè.

I cambiamenti psicologici

“Poi finalmente con uno scatto disperato sono schizzato fuori come una pulce impazzita”

La reazione psicologa a stimoli pericolosi o ansiogeni risulta in un cambiamento nel modo in cui noi pensiamo e che diventa adattivo in quel contesto, in quanto ci prepara a far fronte alla minaccia. Per esempio, quando siamo sotto particolari stress diventiamo più focalizzati sul problema, ci concentriamo più a lungo e incrementiamo le nostre capacità di problem-solving. Similmente, avvertiremo anche un cambiamento in ciò che proviamo, come l’essere più irritabili o tesi. 

I cambiamenti comportamentali

“I capelli mi si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto indietro…Pedalavo, mi infilavo tra buche e cunette rischiando di spezzarmi la schiena, ma non frenavo…Ho preso un dosso e mi sono ritrovato in aria. Sono atterrato male, ho strusciato un piede a terra e ho tirato i freni, ma è stato peggio, la ruota davanti si è inchiodata e sono scivolato nel fosso a lato della strada. Mi sono rimesso in piedi…”

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Verbalizzare ed Esplicitare le proprie Emozioni di Paura aiuta a controllare l’Ansia.

Le reazioni comportamentali alla paura consistono sostanzialmente nello scappare o nell’evitare. Se al parco mi accorgo che un ramo di un albero mi sta cadendo addosso, troverò la forza di fare un salto indietro all’improvviso e allontanarmi. Senza questo tipo di risposta, mi troverei schiacciato dal ramo. Sotto la spinta della paura, siamo in grado di fare cose che non avremmo mai pensato di riuscire a compiere.

I cambiamenti corporei, cognitivi e comportamentali fanno parte della natura delle emozioni, in particolare della paura, non solo per fare fronte agli stress ma, in ultimo, per garantirci la sopravvivenza. Si tratta, perciò, di esperienze vitali e necessarie. 

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Le cose cambiano quando lo stress diventa cronicamente intenso e slegato da stimoli contingenti. Nella seconda parte di questo articolo vedremo come i cambiamenti legati alla paura da adattivi diventano disadattivi, originando molti dei più comuni disturbi psicologici.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

ProYouth: presentazione della piattaforma Web per la Promozione della Salute Mentale nei Giovani

Congresso SITCC 2012 Roma

Chiara Manfredi, Gabriele Caselli, Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli

 

ProYouth: Promotion of young people’s mental health

through technology-enhanced personalization of care

 

 

 VISUALIZZA L’ARTICOLO DI PRESENTAZIONE DI PROYOUTH

 

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Idealizzazione del Partner e Soddisfazione di Coppia: Illudersi Aiuta?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Alessandra Piccolini

I soggetti che percepiscono il proprio partner come corrispondente ai propri ideali risultano più resilienti e tolleranti nei suoi confronti. 

È opinione piuttosto diffusa che l’idealizzazione del partner e successive più o meno profonde delusioni vadano a braccetto. In effetti, non si tratta semplicemente di una teoria ingenua, ma di un concetto più volte confermato in letteratura: dopo un primo “idilliaco” periodo post-matrimoniale, l’amarezza nel constatare che la persona con cui intendiamo passare il resto della vita non corrisponde esattamente alle nostre aspettative sopraggiunge inevitabile. Le conseguenze? Insoddisfazione e deterioramento del rapporto (Huston, Caughlin, Houts, Smith, & George, 2001).

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Ma è davvero sempre così? Sandra Murray, studiosa dell’Università di Buffalo, e colleghi hanno deciso di dare una “seconda possibilità” alla tendenza, frequente in molte coppie, a crearsi un’immagine ideale del partner, più o meno fedele alla realtà (Murray, Griffin, Derrick, Harris, Aloni, & Leder, 2011). Gli autori hanno condotto uno studio longitudinale al fine di testare se l’idealizzazione del partner portasse realmente ad un deterioramento del rapporto oppure, al contrario, fungesse da fattore protettivo dall’insoddisfazione di coppia.

soddisfazione matrimoniale- chi trova un marito, trova un tesoro. - Immagine: © Nuvola - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Soddisfazione matrimoniale- chi trova un marito, trova un tesoro

Lo sappiamo tutti: il tempo è nemico delle relazioni, in particolare di quelle matrimoniali. Gli anni passano, aumentano i conflitti e i difetti dell’altro ci sembrano più evidenti e difficili da tollerare. Il presupposto da cui gli autori sono partiti è che vedere il partner sotto una luce positiva possa aiutare ad affrontare in modo più efficace questi conflitti. 

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Sono state perciò create due misure, una correlazione “percepito-ideale” (tra la valutazione data da un soggetto al suo partner e la caratterizzazione, data dal soggetto sulla base di 20 qualità prestabilite, di un ipotetico partner ideale) ed una correlazione “reale-ideale” (tra la caratterizzazione data dal soggetto dell’ipotetico partner ideale e una auto-caratterizzazione creata dal partner sulle stesse 20 qualità predeterminate). In questo modo è stato possibile da una parte identificare un “bias da idealizzazione”, e dall’altra osservare in che modo questo bias fosse relato alla soddisfazione di coppia. È stato poi valutato in che modo questa relazione variasse nel tempo (i soggetti sono stati testati sette volte, con distanza di sei mesi da un test all’altro).

Come previsto, i soggetti che percepivano il proprio partner come corrispondente ai propri ideali risultavano anche più resilienti e tolleranti nei suoi confronti. In tutti i momenti temporali in cui i soggetti sono stati testati, a maggiore idealizzazione corrispondeva maggiore soddisfazione.

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Così, al contrario, i partecipanti allo studio che riportavano un basso livello di soddisfazione alla prima misurazione erano soggetti ad un maggior declino della stessa nel corso dei mesi. Come se non bastasse, l’idealizzazione aveva effetti benefici anche sul partner “idealizzato”, promuovendo anche la sua soddisfazione all’interno del rapporto. 

Resta da chiarire perché “illudersi” funziona, e sono state sviluppate diverse ipotesi a riguardo. Innanzitutto, le persone hanno il potere di determinare il loro “destino di coppia” tramite il comportamento. In altre parole, sia i comportamenti che promuovono una relazione (ad esempio, essere supportivi) sia quelli che solitamente la indeboliscono (essere iper-critici) sono controllabili. Credere che le caratteristiche del partner riflettano i propri ideali rinforzerebbe l’ottimismo necessario ad affrontare in modo positivo ed efficace le sfide che una relazione inevitabilmente comporta (Murray & Holmes, 2011).

È anche possibile, sostengono gli autori, che sia una questione di flessibilità: se il tempo ha il potere di rivelare quanto il partner possa essere deludente, avranno più successo nelle relazioni quegli individui capaci di “aggiustare” i propri ideali, rendendoli in qualche modo sovrapponibili alle caratteristiche percepite nell’altro e rimanendo conseguentemente soddisfatti nonostante le delusioni (Kunda, 1990).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia: Il Disputing del Panico – Parte IV

 

LEGGI PARTE I  – PARTE II –  PARTE III        LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

Psicoterapia: il Disputing del Panico - parte IV. - Immagine: © Andreas Gradin - Fotolia.com

La mancanza di senso è ciò che rende il panico un’emozione così terrorizzante.

Occorre incoraggiare il paziente a trovare spiegazioni alternative per la propria vulnerabilità al panico, pensando al contesto sia della situazione che generale.

Riflettere quindi se si era in uno stato particolare affaticamento di stress o in un stato generale di fatica, sconforto esistenziale e perfino dolore. Il paziente panicoso, infatti, ha una particolare difficoltà a collegare le emozioni alle situazioni. Di qui la sua propensione a vivere le emozioni dolorose in maniera terrifica, proprio perché non cerca di trovare spiegazioni, ma le vive come stati di terrore insensato e inspiegabile.

Panic Attack - © Scanrail - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Attacchi di Panico: Il Protocollo di Andrews

Aiutarlo a comprendere invece che si può essere in una situazione di vulnerabilità generale legata a un evento problematico può aiutarlo a ristrutturare il panico in maniera meno terrificante. Ad esempio, il paziente può stare vivendo una separazione, un cambio di lavoro o di residenza, o qualunque altra situazione problematica e stressante che lo può rendere più facilmente predisposto a emozioni intense. Una volta che il paziente impara a dare un significato alle proprie emozioni potrà soffrire in maniera diversa. Riconoscere di essere tristi o ansiosi per la fine di una storia sentimentale o per un cambio di lavoro potrà aiutare la trasformazione del panico in uno stato di disagio maggiormente tollerabile perché dotato di senso. La mancanza di senso è ciò che rende il panico un’emozione così terrorizzante.

Riflettere sulla storia di vita e sulla situazione di vita del soggetto può aiutare a rivelare nuove convinzioni cognitive riguardanti la relazione con gli altri. Come abbiamo potuto già leggere, nella sintomatologia DSM del panico, infatti, troviamo spesso la convinzione che il panico sia meno probabile in presenza di figure affettive rassicuranti. Tuttavia con queste figure il paziente può intrattenere una relazione difficile, fatta di dipendenza e al tempo stesso di sofferenze e controllo reciproci. Esplorare a fondo queste relazioni può far emergere delle credenze di dipendenza.

Può essere necessario quindi analizzare a fondo la crescita del nostro paziente, il suo modo di relazionarsi con gli altri e in particolare con le figure affettivamente significative. È possibile che questa persona non riesca a concepire i legami affettivi in maniera flessibile, ma che sia incatenata a relazioni controllanti in cui egli o lei tendano a richiedere vischiosamente la presenza dei partner al loro fianco, pena lo scatenamento del panico stesso. Si tratta quindi di legami con uno sfondo ricattatorio. Non a caso, secondo David Winter, questi soggetti hanno molto a cuore il tema del tradimento e dell’abbandono.

Il partner va tenuto al guinzaglio proprio con il ricatto della necessità di essere accuditi.

Si crea quindi una relazione ambigua, in cui sia l’individuo con il panico che il suo partner condividono una soffocante schiavizzazione reciproca. Essi si costringono a vicenda a non potersi allontanare e a non poter curare spazi propri. La libertà è temuta come minacciosa, ma al tempo stesso il legame reciproco è così chiuso e controllante da essere vissuto con disagio, sconforto e dolore. E anche con rabbia, sia pure latente e poco espressa.

Oltre alla ristrutturazione cognitiva della interpretazione catastrofica si possono aggiungere degli esercizi comportamentali e meditativi che diminuiscono al sensazione di perdita di controllo.

 

LEGGI PARTE I  – PARTE II –  PARTE III        LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

SITCC 2012 – I Mille Volti della Dipendenza

SITCC 2012, Simposio: I MILLE VOLTI DELLA DIPENDENZA

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-ComportamentaleNegli ultimi anni l’ambito delle dipendenze patologiche è diventato sempre più ampio poichè non include più solo la dipendenza da sostanze ma  sta cominciando a prendere in considerazione una vasta gamma di comportamenti che in passato non esistevano o non venivano classificati come tali (internet addiction, love addiction, gioco d’azzardo patologico).

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Questo simposio si è focalizzato sulla descrizione di diverse forme di dipendenza, vediamone alcune nel dettaglio.

Il simposio inizia con l’intervento della dr.ssa Cimmino, psicologa-psicoterapeuta del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Napoli. La Dr.ssa si occupa in modo specifico della cosidetta love addiction o dipendenza affettiva. La Love Addiction non viene considerata una vera e propria dipendenza, anche se presenta molte caratteristiche simili alla dipendenza da uso di sostanze. 

La persona che soffre di dipendenza affettiva vive costantemente nell’ansia di poter perdere la persona amata, ha bisogno di continue rassicurazioni da parte del partner e può sviluppare con il tempo anche un fenomeno di vera e propria “astinenza affettiva” nel momento in cui il partner è assente. Si tratta di una condizione relazionale negativa caratterizzata da una mancanza cronica di reciprocità nella vita di affettiva e di coppia.

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Roberto Lorenzini @ SITCC 2012 Roma
Articolo Consigliato: SITCC 2012 – Cinema e Letteratura come Strumenti Terapeutici

Per comprendere i meccanismi che stanno alla base di tale fenomeno è di notevole importanza la teoria dell’attaccamento. Diversi studi in letteratura sembrano infatti dimostrare come gli individui con attaccamento insicuro (spesso insicuro-ambivalente) siano più vulnerabili e suscettibili a questa forma di dipendenza. L’adulto con un attacamento insicuro non è in grado di attivare, in situazioni particolari e stressanti, adeguati meccanismi di regolazione interna e tende ad avvalersi di ausili esterni per gestire le difficoltà (esempio: alcol, droga e nel caso della love addiction una vera e propria persona). 

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È importante specificare la differenza tra la dipendenza affettiva e la fase iniziale dell’innamoramento, la cosidetta “luna di miele”.

L’innamoramento è presente in tutti gli esseri umani di tutte le culture ed ha una durata diversa che può andare da qualche settimana a due anni circa. Trascorso questo periodo di tempo, l’amore non finisce ma si trasforma in qualcosa di diverso poiché entrano in gioco altri fattori, tra cui la condivisione e la pianificazione di un futuro insieme. Una persona che soffre di dipendenza affettiva  non riesce ad accettare proprio questo tipo di cambiamento che caratterizza il rapporto d’amore ed inizia ad entrare in un elevato stato di allarme, interpretando qualsiasi atteggiamento del partner come una mancanza di affetto o  come carenza di amore. Questo stato di allarme lo porta a ricercare il proprio compagno/a  in modo sempre più frequente e ossessivo.

Durante tale fase si verifica uno shift dalla condizione piacevole di “luna di miele” ad un vero e proprio inferno, il dipendente affettivo vive un perenne stato d’angoscia e si instaura un meccanismo simile a quello dell’overdose da sostanze (se prima  bastavano tre messaggi al giorno per sentirsi rassicurato/a ora ne sono necessari 10).

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 Spesso le persone che soffrono di love addiction presentano tratti di personalità che rientrano nel cluster B  ovvero tratti narcisistici, istrionici e border ed hanno un attaccamento ambivalente o disorganizzato. Il loro partner è generalmente un soggetto rifiutante, sfuggente che loro rincorrono pensando di poterlo cambiare, redimere. 

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Dal punto di vista terapeutico in questi casi è sicuramente importante fornire al paziente una relazione terapeutica sicura, costante e prevedibile. Possono inoltre essere utili le tecniche immaginative e la  disintossicazione relazionale ovvero l’allontanamento del partner per un certo periodo di tempo, in modo tale da poter fare ripartire la persona in modo funzionale. Importante è inoltre la ritrutturazione cognitiva  e il dialogo socratico poiché spesso il motto di queste persone è “meglio essere male accompagnati piuttosto che rischiare di rimanere da soli”.

 Altro intervento interessante è stato quello della Dr.ssa Barba, psicoterapeuta del centro di psicoterapia di Napoli,  relativo al Gioco d’azzardo Patologico. Il gioco in generale può essere definito come un’attività ludica, divertente e di svago che per alcuni però diventa una vera e propria malattia psichiatrica, riconosciuta per la prima volta nel 1980 dall’American Psychiatric Association e definita Gioco d’azzardo Patologico (Gambling). 

Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
Articolo consigliato: Gioco d’Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile.

In base agli studi presenti in letteratura è possibile classificare il giocatore d’azzardo in tre differenti tipologie: 1) il giocatore occasionale, il quale gioca saltuariamente ma ha un elevato controllo del proprio comportamento, scomette somme di denaro prefissate e limitate; 2) il soggetto problematico, che inizia l’attività come giocatore occasionale ma comincia a perdere il controllo della situazione (litigate con il partner, primi problemi sul lavoro ecc); 3) il soggetto patologico caratterizzato da una vera e propria diagnosi.

Ma, chiediamoci, come si comincia a giocare d’azzardo? 

Generalmente la persona che comincia a giocare lo fa con intento ricreativo, di svago. Nel momento in cui arrivano le prime vittorie elevate acquisisce erroneamente un forte senso di autoefficacia, si sente sempre più abile. Quando inziano invece a presentersi le perdite, si attiva nella persona un meccanismo automatico che la porta a giocare ripetutamente, per cercare di riacquistare quello che ha perduto e per ripristinare quel senso di abilità provato durante le vittorie. Dopo questa fase il giocatore entra in uno stato di disperazione vera e propria, passa la maggior parte del tempo giocando o recuperando soldi per poter giocare, le relazioni sociali e l’attività lavorativa né risentono fortemente. La quarta ed ultima fase è caratterizzata dalla totale perdita di speranza, il soggetto può sviluppare depressione, pensieri suicidari e richiedere aiuto.

Da quali meccanismi dipende il gioco d’azzardo e quali sono i trattamenti più efficaci?

 Alla base del gioco d’azzardo vi sono sicuramente meccanismi di condizionamento classico e di condizionamento operante. Questo significa che il soggetto associa il gioco ad una serie di stimoli sia esterni (persone, situazioni) che interni (depressione, solitudine, rabbia) e quando tali stimoli si presentano insieme la persona ritorna a giocare. Vi è inoltre la forte componente del rinforzo positivo intermittente dato dal denaro. Si possono osservare anche meccanismi di modellamento, ovvero di apprendimento per osservazione, spesso il giocatore ha amici e parenti che giocano. Da non dimenticare sono le credenze cognitive erronee come la sovrastima di un evento casuale o la fallacia del giocatore (se un evento è molto tempo che non si verifica allora la sua probabilità attuale che si verifichi è maggiore).

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Il trattamento che si è constatato essere efficace con questo tipo di disturbo è il trattamento cognitivo-comportamentale. Prima di incominciare la terapia vera e propria è importante raccogliere infomzioni dettagliate sulla persona chiedendo quando ha iniziato a giocare, per quanto tempo lo fa, quanto pensava di vincere e di perdere. Queste domande possiedono una rilevante salienza poiché verranno utilizzate per effettuare un confronto tra situazione idealizzata di vincita e situazione reale, si costruisce perciò un grafico dove si mostra al paziente la sua tendenza a sovrastimare le vincite e sottovalutare le perdite. Si procede poi con il chiedere alla persona di porre su un ipotetico piatto della bilancia gli aspetti positivi e negativi del gioco d’azzardo, in modo tale da poter indagare la consapevolezza del paziente.

Queste tecniche comportamentali vengono generalmente associate a tecniche di ristrutturazione cognitiva. Nel caso si verifichi una ricaduta, il terapeuta aiuterà il paziente ad interpretare quell’evento non come una sconfitta ma come una situazione dalla quale poter apprendere che cosa è stato tralasciato e cosa modificare per evitare che si ripeta.

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SITCC 2012 – Il trattamento del Disturbo Borderline secondo Shelley McMain

Sessione Plenaria di Shelley McMain – “Improving Psychotherapy for Borderline Personality Disorder”

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-ComportamentaleShelley McMain presenta un lavoro molto interessante sul Disturbo Borderline di Personalità, che da una parte, mette in discussione i risultati del modello DBT e dall’altra ne propone una rilettura.

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Venerdì al Convegno SITCC ho avuto la possibilità di seguire un intervento molto stimolante ad opera di Shelley McMain sul Disturbo Borderline di Personalità. La McMain è una terapeuta ricercatrice dell’Università di Toronto, formata al modello DBT direttamente da Marsha Linehan. 

La relatrice presenta un lavoro molto interessante che da una parte, mette in discussione i risultati del modello DBT e dall’altra ne propone una rilettura, una specificazione molto interessante che riflette non solo l’interessa di McMain per diffondere in modo critico il modello, ma anche una notevole onestà intellettuale. 

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington http://faculty.washington.edu/linehan/
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Il dato rilevante che sviluppa la prima parte dell’intervento ci concentra su una recente ricerca svolta dal gruppo di McMain in cui viene mostrato che, ad un follow-up di due anni, non hanno trovato differenze significative di outcome tra l’intervento DBT e la GPM (General Psychiatric Management). 

Questo ha sollevato molti interrogativi nel gruppo ricerca e sembra che abbiamo sfruttato tali dati per riflettere in modo più approfondito sulle applicazione del modello DBT. 

Infatti, la seconda parte della presentazione di McMain si concentra su una riflessione clinica, a mio parere, molto importante: Sarebbe forse opportuno specificare gli interventi DBT in modo più preciso, a seconda delle caratteristiche cliniche dei pazienti? 

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Tale domanda potrebbe sembrare, ad una prima lettura, banale (tutti risponderemmo “ma certo!” o forse no?), però credo sia nata dalla constatazione che, talvolta, la DBT viene applicata in modo formalmente ineccepibile ma in una forma un po’ “blind”, seguendo il manuale e il protocollo Linehan, senza preoccuparsi troppo degli outcome. E’ vero che la mole di ricerche presenti in letteratura sul modello Linehan ormai è ingombrante e sull’efficacia di tale protocollo pochi discutono. Però, e questa è la riflessione di McMain, va sempre considerato che il focus dell’intervento debba “variare”, ad esempio centrato sul funzionamento relazionale oppure sulla gestione della rabbia o ancora sui sintomi specificamente borderline, a seconda delle caratteristiche cliniche dei pazienti. 

La terza ed ultima parte della sessione plenaria di McMain si concentra sugli aspetti clinici. In particolare, riprendendo brillanti lavori recenti (Livesly, 2012; Stoffers et al., 2012), vengono indicati e descritti diversi aspetti non specifici di trattamento con i paziente con Disturbo Borderline di Personalità. 

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 Tali aspetti riescono, a mio parere, a rappresentare una “guideline” di trattamento per l’atteggiamento relazionale del terapeuta che si trova a svolgere percorsi psicoterapici con pazienti borderline. 

Gli elementi sottolineati da McMain sono i seguenti: 

– Il Terapeuta deve avere in mente una cornice teorica coerente, precisa e chiara;

– E’ opportuno esplicitare la struttura del trattamento con il paziente;

– Lavorare sulla relazione terapeutica, seguendo linee chiare e uno stile terapeutico basato su un atteggiamento aperto, paziente, attivo e proattivo e promuovente la self-agency del paziente; 

– Bilanciare il focus del trattamento seguendo i due poli della validazione e del cambiamento (che fa eco ai principi della ACT, grande assente, a mio parere, del Convegno SITCC);

– Focalizzarsi su obiettivi specifici e precisi; 

– Promuovere nel paziente un atteggiamento di comprensione di sé e dei propri stati mentali;

– Infine, McMain ricorda che i terapeuti che lavorano con questi paziente necessitano di un equipe e di un supporto dai colleghi. Il suo consiglio è quindi quello di limitare al massimo le barriere e gli ostacoli alla richiesta di supporto da parte del terapeuta. 

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Insomma, l’intervento della McMain è riuscito a unire in modo stimolante, intelligente e utile, ricerca, riflessione e clinica.  

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