Il libro Attraversare Le Emozioni curato da Diana Fosha, Daniel Siegel e Marion Solomon si fa portavoce e sostenitore dei recenti modelli teorici e clinici nell’ambito della tradizione cognitivista, che riconoscono e rivendicano “le emozioni al punto di incontro tra pensiero ed azione, tra sé e altro, tra persona e ambiente, tra biologia e cultura”, riconoscendo quindi il primato delle emozioni corporee come causa potenziale di patologia, come vero agente del cambiamento e come strumento attraverso il quale è possibile l’incontro, la connessione e la costruzione di legami con l’altro.
Questi modelli bottom-up promuovo nuovi interventi psicoterapeutici corporeo-esperienziali che si contrappongo ai modelli cognitivi classici di tipo top-down, che per lungo tempo hanno riconosciuto un primato alle cognizioni non solo nell’idea che contenuti, processi e strutture cognitive influenzino le emozioni e il comportamento, ma nella convinzione che la psicopatologia sia il frutto di prodotti del pensiero disfunzionali e che di conseguenza la cura rappresenti un processo in cui l’insight cognitivo rappresenta in un certo senso ciò che produce cambiamento.
L’obiettivo ambizioso che si pongo gli autori è quello di comprendere la totalità dell’esperienza dell’emozione attraverso l’analisi dei legami di interconnessione esistenti tra i diversi livelli strutturali gerarchici dell’emozione stessa: emozione come evolutivamente organizzata nel cervello, emozione come processo fisiologico, emozione come stato di coscienza, emozione come frutto dell’attaccamento, emozione come integrazione e infine emozione come agente di connessione tra le persone, capace di generare allo stesso tempo malessere e benessere.
Questo è ciò che secondo gli autori permette infatti di attraversare le emozioni, che significa incontrarle, sperimentarle primariamente nel corpo, nominarle, quindi comprenderle nei molteplici significati che esse veicolano e utilizzarle come strumenti di consapevolezza di sé, dell’altro, della relazione, della malattia e della salute.
L’impresa degli autori è riuscita, grazie al congiunto apporto del contributo di esperti provenienti da diversi ambiti del sapere psicologico che danno consistenza e coerenza all’intera opera, sebbene questa operazione di aggregazione non fosse di facile realizzazione.
Le emozioni ci vengono quindi raccontate partendo dal punto di vista delle Neuroscienze Affettive, della Psicologia dello Sviluppo, della Neurobiologia Interpersonale, della Teoria dell’Attaccamento, della Psicoterapia e della Mindfulness.
L’edizione italiana ripropone il testo in due volumi, il primo dei quali propone il lavoro di cinque autori, Jaak Panksepp, Stephen Porges, Colwyn Trevarthen, Ed Tronik, Allan Schore e Daniel Siegel che ci raccontano le emozioni arricchendo costantemente le loro argomentazioni di riferimenti alla letteratura scientifica internazionale più recente, mai dimenticando di evidenziare con puntualità ed attenzione le dirette implicazioni in ambito clinico e psicoterapeutico.
Questi affetti emotivi del processo primario – primario nei termini dell’essere non solo il frutto dell’evoluzione neurobiologica della specie, ma pre-proposizionali, pre-linguistiche, pre-cognitive e prive di scopo – sono organizzate nel cervello in specifiche aree celebrali e si configurano nell’attivazione di definiti circuiti neuronali frutto dell’evoluzione della specie. Questi sistemi emotivi inter-mammiferi non sono quindi creati dall’esperienza ma possono essere modellati da essa nel contesto ambientale e relazionale in cui l’individuo vive, organizzandosi in forme più complesse e più o meno adattive. Ogni sistema emotivo viene precisamente descritto nella sua multicomponenzialità – neurostrutturale, neurofunzionale, corporea e cognitivo-affettiva -, suggerendo la necessità in ambito psicoterapeutico che i processi primari del paziente vengano esplicitati a partire dalla loro manifestazione corporea, con lo scopo ultimo di riconsolidare quelle memorie affettivo-cognitive causa di sofferenza. Ma i sistemi emotivi non sono solo connessi a uno specifico stato viscerale; regolazione neurale degli stati viscerali e l’interazione sociale sono in grado di alterare la reattività del sistema stesso, con la possibile comparsa di una sintomatologia clinica rilevante. La Teoria Polivagale (Porges S.W., 2007) sottolinea quindi come l’evoluzione ci abbia dotati di un sistema di coinvolgimento sociale, neuroanatomicamente organizzato, che se regolato è in grado di garantire l’interazione sociale, mentre se scarsamente regolato può esprimersi in stati fisiologico-emotivi disfunzionali, tipicamente osservabili in molteplici quadri psicopatologici. Questa prospettiva teorica apre la strada alla progettazione di nuove tipologie di interventi clinici, che agiscano al fine di innescare circuiti neurali che favoriranno comportamenti spontanei di coinvolgimento sociale, quindi di benessere psichico.
Le emozioni quindi regolano la vita sociale, ci rendono fin dalla nascita competenti e capaci di creare intersoggettività. Una intersoggettività che è scritta nel nostro cervello. Questa la ragione per cui il benessere emotivo non può essere raggiunto efficacemente in terapia attraverso l’istruzione o il “training” del comportamento ma piuttosto l’incoraggiamento empatico alla condivisione e all’interazione come strumento per apprendere nuovi significati. Se quindi siamo intrinsecamente degli animali emozionali e predisposti all’intersoggettività è attraverso essa che vecchie emozioni possono essere modificate o nuove emozioni create. La teoria dell’attaccamento riveste in questo scenario un ruolo chiave, nella misura in cui interazioni sicure del bambino con il proprio caregiver si sono dimostrate in grado di facilitare la maturazione di quelle stesse reti di circuiti neuronali che regolano le emozioni, favorendo quindi l’interazione e la formazione di legami sociali. L’emozione è quindi integrazione, la sensazione di sentirsi legato, sentirsi un’unica cosa con l’altro. E se la guarigione ha a che fare con l’integrazione allora la psicoterapia deve avere l’obiettivo di promuovere la guarigione attraverso la relazione diadica tra due persone.
Articolo Consigliato: Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
Il secondo volume del libro è interamente dedicato alla psicoterapia: gli autori dei cinque capitoli Diana Fosha, Pat Ogden, Marion Solomon, Susan Johnson e Dan Hughes, offrono il loro contributo all’applicazione in ambito terapeutico delle evidenze sperimentali e le conoscenze sulle emozioni proposte nel primo volume, arricchendole di casi clinici e trascrizioni commentate di momenti particolarmente significativi di sedute terapeutiche. Fosha propone una descrizione accurata del processo trasformativo basato sulle emozioni proprio dell’Accelerated Experiential Dynamic Psychoterapy (AEDP), entro la quale la psicopatologia è concepita come conseguenza dell’inibizione o dell’impossibilità di condivisione degli affetti. La terapia diventa quindi un processo di guarigione che parte dalla consapevolezza corporea degli stati emotivi bloccati o negati al fine di riconoscerli, comprenderne il significato e ricostruirli, integrando il nucleo centrale degli affetti del paziente. Il concetto di finestra di tolleranza affettiva proposto da Ogden identifica esattamente quella zona ottimale di attivazione fisiologica entro cui le emozioni possono essere di fatto processate. Ciò significa che stati di ipo- o iper- attivazione frequenti spesso in psicopatologia non consentono un corretto processamento e risoluzione degli stati emotivi. L’espansione dei confini di regolazione deve essere quindi obiettivo primario della terapia del trauma e dell’attaccamento, e può essere perseguito attraverso esperienze di empowering o di comportamenti interattivi che favoriscono l’attaccamento, il legame interpersonale. In questo contesto acquista un valore terapeutico rilevante, oltre alle psicoterapie esperienziali, la Mindfulness, che attraverso l’auto-osservazione consente la presa di contatto e consapevolezza delle proprie emozioni, così come favorire l’empowering.
Il lavoro sull’affettività viene approfondito da Solomon nell’ambito della relazione di coppia, all’interno delle quali possono ri-attivarsi emozioni dolorose sperimentate nel legame di attaccamento precoce infantile, rischiando di compromettere il legame di coppia. Lavorare con la coppia significa quindi aiutare i partner a riconoscere come i pattern sviluppati nell’infanzia si ripresentino nelle relazioni correnti, fino a ristabilire un livello di connessione intima affettiva che passi attraverso il dialogo, l’intimità e la condivisione affettive. Il lavoro sulle emozioni nella coppia viene descritto da Johnson con particolare riferimento alla Emotionally Focused Therapy (EFT) mentre il contributo di Hughes si focalizza sull’intersoggettività e la comunicazione emotiva all’interno della terapia familiare, in cui è compito del terapeuta accompagnare la famiglia entro un processo di esperienza e condivisione affettiva genuina.
I due volumi dell’opera offrono una sintesi sul tema delle emozioni adeguatamente sostenuta da un punto di vista scientifico, con riferimenti aggiornati e recenti. La bibliografia è corposa, ed offre sia ai clinici che ai non addetti ai lavori molteplici spunti di riflessione ed approfondimento. Il secondo volume offre in particolare agli psicoterapeuti di orientamento cognitivo e non solo una visione amplia dei setting diversi in cui il lavoro sulle emozioni può essere applicato, e trascrizioni di dialoghi in contesto clinico che rendono la lettura piacevole facilitando la comprensione anche delle fasi di processo terapeutico più complesse.
Il trattamento della depressione si è prevalentemente concentrato sui farmaci e sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale e ha dedicato poca attenzione agli effetti del movimento del corpo e della postura. Un recente studio ha esaminato come la postura del corpo durante il movimento influisce sul livello soggettivo di energia. Il professor Erik Peper e il suo team hanno scoperto che modificare la postura del corpo, assumendo una posizione più eretta, permette di migliorare sia l’umore che il proprio livello di energia.
110 studenti universitari hanno valutato il loro livello di energia prima di fare una camminata: la consegna era quella di procedere per qualche minuto in una posizione rilassata e di proseguire poi saltellando. Dopo entrambi i tipi di movimento, rilassato e saltellante, gli studenti erano invitati nuovamente a valutare il loro livello di energia.
Dopo la camminata rilassata, i partecipanti hanno sperimentato una diminuzione della loro energia personale, mentre dopo avere saltellato hanno sperimentato un aumento significativo di energia. Nella seconda parte del test venivano valutati anche i sentimenti e sintomi legati alla depressione dopo i due tipi di camminata. Anche in questo caso gli studenti hanno riferito di sentirsi più depressi dopo la camminata rilassata, mentre lo erano decisamente meno quando saltellavano.
In conclusione, cambiando posizione, il livello di energia soggettivo può essere diminuito o aumentato. Anche nella cura della depressione quindi è bene ricordare che, insieme a interventi farmacologici e psicoterapici, semplici accorgimenti come il cambio di postura mentre si cammina può essere un valido supporto al miglioramento del tono dell’umore e del senso di energia personale.
Cristina Ferrari, Centro di Psicologia Clinica USL di Modena
La Settimana della Salute Mentale a Modena
“Matto sarà, chi non capisce la pazzia“
Spesso, come tirocinante in Psicologia, mi ritrovo a rispondere a domande come “Ma sei proprio sicura di voler lavorare con i matti? Non hai paura di diventare matta anche te?“, “Ti andrà bene il lavoro di questi tempi con tutti i matti che ci sono in giro!“. E nella mia testa la risposta è sempre la stessa “Ma sapete cosa significa essere psicologo?“. In effetti spesso la gente non sa di cosa si occupa realmente lo psicologo, o meglio, non sa CHI si rivolge allo psicologo.
La tendenza comune è quella di basarsi sulla distinzione netta tra salute e malattia, tra sano e malato, senza valutare tutte le possibili sfumature che ci possono essere in mezzo, soprattutto per quanto riguarda il campo della salute mentale. Quindi sono i “matti-malati” ad andare dallo psicologo, non la gente “normale-sana”.
Articolo Consigliato: Giornata Mondiale della Salute Mentale
Non ci si rende conto che tutti possiamo inciampare nel corso della vita di fronte a situazioni che possono portarci a quella che chiamiamo “sofferenza psicologica“. Queste situazioni possono essere rappresentate da lutti, frustrazioni, situazioni difficili e stressanti, che putroppo capita a molti di dover affrontare e che ci portano ad essere più fragili e vulnerabili.
Non pensate che forse anche le persone che affrontano queste situazioni potrebbero rivolgersi ai servizi di Psicologia?! E che probabilmente queste persone non sono per forza da etichettare come “matte”?!
Forse è giunto il momento di andare oltre il solito pregiudizio del matto che va dallo psicologo. Anche perché è proprio questo pregiudizio verso i “matti” che spesso blocca la possibilità di crescita di questi, con il rischio di maggior segregazione dalla società.
Ma chi l’ha detto che uno psicotico, un depresso o un autistico non possono essere d’aiuto per un miglioramento della società? Non è certo “mettendoli in angolo” che si migliora la loro situazione e si risolve il problema.
L’obiettivo che ci si propone con la seconda edizione della Settimana della Salute Mentale a Modena è proprio quello di “avvicinarsi al pubblico con iniziative che puntano al superamento dei grandi pregiudizi che spesso portano all’esclusione o alla marginalizzazione delle persone affette da disturbi” come ci ricorda Fabrizio Starace, il direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Modena.
Evento Consigliato: Mese del Benessere Psicologico – 2012
La Settimana inizierà venerdì 19 presso l’auditorium “Marco Biagi” di Modena con un introduzione ai lavori, e fino a venerdì 26 si continuerà con dibattiti e conferenze, per addetti ai lavori e non, su temi che spaziano dalla genitorialità all’esperienza traumatica del terremoto, dagli OPG ai gruppi di Auto Mutuo Aiuto, ecc. La settimana comprende inoltre eventi artistici e culturali come mostre, concerti, spettacoli teatrali, film che ci faranno vedere da prospettive diverse cosa significa salute mentale.
L’EMDR permette al cervello di rielaborare in senso positivo il pensiero relativo al ricordo, quindi modifica l’idea di sé e del proprio valore; contemporaneamente diminuiscono le sensazioni corporee spiacevoli o dolorose e si attenuano le emozioni negative, fino alla scomparsa totale dei sintomi.
EMDR è un trattamento psicoterapeutico originariamente nato per desensibilizzare efficacemente i sintomi disturbanti legati ai ricordi traumatici. Nell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing grazie ai movimenti oculari si riducono gli effetti dei sintomi (desensibilizzazione) e si riattiva il fisiologico processo di elaborazione delle informazioni (riprocessamento).
L’efficacia del trattamento EMDR nella cura di diversi disturbi psicologici è evidence-based, scientificamente comprovata da numerosi studi scientifici* che ne descrivono anche i correlati neurobiologici e neurochimici (si veda la nota* per una bibliografia specifica su tali studi).
L’EMDR è un trattamento riconosciuto ufficialmente da diversi organismi internazionali quali l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, il Dipartimento della Difesa degli USA, l’Israeli National Council for Mental Health che, nelle loro linee guida per la pratica clinica, lo indicano come terapia d’elezione per la cura del disturbo post-traumatico da stress.
A livello europeo l’EMDR è riconosciuto come psicoterapia efficace dal Clinical Resource Efficiency Support Team (CREST) dell’Irlanda del Nord, dal Dutch National Steering Committee Mental Health Care, dal French National Institute of Health and Medical Research (INSERM), dal Medical Program Committee /Stockholm City Council, dal United Kingdom Department of Health) per il trattamento di numerose psicopatologie associate al trauma tra cui i disturbi d’ansia, la depressione e gli attacchi di panico (cit. in Fernandez I., et al., 2011).
Articolo Consigliato: Poche righe sull’orrenda storia del Bambino Trascinato via da Scuola
L’applicazione della tecnica EMDR è svolta sempre all’interno di un processo psicoterapeutico che ha come base teorica il modello AIP (Shapiro F., 1995), Adaptive Information Processing, cioè il modello dell’elaborazione adattiva dell’informazione. Tutti gli esseri umani possiedono un sistema fisiologico di elaborazione dell’informazione volto a fornire risoluzioni positive (adattive) di ciò che accade in ogni istante.
In condizioni normali, il sistema di elaborazione organizza le informazioni creando collegamenti adeguati con esperienze passate, risolvendo i problemi, riducendo lo stressemotivo, utilizzando costruttivamente l’esperienza e contribuendo a generare nuovi apprendimenti (Shapiro F., 2000).
Ad esempio, una bambina che può farsi male cadendo dall’altalena: andrà dalla mamma piangendo e si rassicurerà grazie al conforto e alle cure appropriate. La paura di tornare sull’altalena passerà e la bambina imparerà da questa esperienza ad andare in altalena in modo sicuro.
Il nostro cervello è dunque continuamente stimolato da informazioni che vengono immagazzinate in maniera più o meno conscia, in diversi modi, ma sempre in senso adattivo, utile per la persona. L’informazione viene cioè integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo, utile alla persona (Shapiro F., 1995).
Le informazioni si associano a pensieri, emozioni, sensazioni e vanno a formare un sistema fruibile e coerente per la comprensione di ciò che accade, una conferma di ciò in cui crediamo, un apprendimento per il futuro, un’idea di sé e del mondo. Insomma, vanno a costruire la mente stessa e la nostra identità; e forniscono agli individui gli strumenti per comprendere il mondo e le regole per agire.
Il trauma è definibile come evento dirompente, che sovrasta la capacità della mente di integrare ed elaborare i dati ad esso connessi.
Riprendiamo l’esempio della bambina caduta dall’altalena: può accadere che non trovando una soluzione adattiva, inizi a sperimentare ansiarispetto all’uso dell’ altalena e che il suo disagio non diminuisca. Il suo sistema di elaborazione ha immagazzinato l’esperienza ma non l’ha elaborata: rimane la paura di andare in altalena, disconnessa dal piacere di dondolare avanti e indietro. “L’evento rimarrà “congelato” nel tempo, associato alla paura e al dolore”. (Shapiro F., 2011)
Il trauma è un’informazione che la mente non riesce a metabolizzare, a rendere coerente con l’esperienza già immagazzinata; esso blocca il naturale processo di elaborazione dell’informazione sopra descritto perché è per sua natura impensabile, intollerabile.
Per trauma intendiamo sia “l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all’integrità fisica” (APA, 1994) e psichica dell’individuo sia l’assistere a eventi traumatici accaduti ad altri o essere esposti al rischio che tali eventi accadano ad un familiare o altra persona significativa. (APA, 1994).
Non dimentichiamo che “la definizione di trauma psicologico deve essere estesa a includere gli aspetti relazionali: minacce gravi non all’integrità fisica di un organismo ma al tessuto delle sue relazioni”. (Liotti G., Farina B., 2011).
Spesso accade che il trauma psicologico si verifichi anche in assenza di eventi dannosi ma che sia determinato dalla compromissione di relazioni fondamentali per la vita psichica delle persone.
La trascuratezza emotiva è uno dei traumi più frequenti e misconosciuti (in quanto trauma): negli USA è stato rilevato che dei bambini maltrattati quelli vittima di neglect (traducibile come abbandono, negligenza) sono il 60%, mentre i bambini vittime di abusi sono il 13%, quelli vittime di violenze fisiche il 10%, le vittime di abusi sessuali il 7% (Fairbank J.A., Fairbank D.W., 2009).La grave trascuratezza emotiva del bambino da parte del genitore o l’abbandono traumatico sono esperienze dannose per la psiche tanto quanto il maltrattamento fisico o l’abuso.
Se è facile comprendere come alcuni eventi possano essere traumatici per la maggior parte della popolazione (disastri naturali, incidenti gravi, morti, malattie, gravi danneggiamenti dell’integrità fisica o psichica) non è così automatico capire perché alcuni eventi siano traumatici solo per alcuni soggetti. Allo stesso modo ci si chiede come mai alcuni eventi apparentemente non traumatici possano essere veramente “indigeribili” per alcune persone.
La capacità di elaborazione del trauma è altamente soggettiva e dipende dalla compresenza al momento del trauma di diversi fattori di rischio e di protezione. L’età in cui avviene il trauma, la biologica predisposizione soggettiva, lo stile di attaccamentoe lo stile cognitivo della persona, la presenza o assenza di fattori di protezione, quali la rete sociale, la qualità delle relazioni interpersonali, la presenza di un supporto emotivo sicuro, la cura psicoterapeutica, sono i fattori che contribuiscono a bloccare (o al contrario favorire) il processo di elaborazione.
Inoltre, il complesso sistema della rappresentazione interna di sé e del mondo, proprio e specifico di ogni persona, contribuisce alla capacità del soggetto di far fronte all’impatto dell’evento traumatico.
La teoria del processamento delle informazioni e la psicotraumatologia presuppongono due principi fondamentali per la comprensione del funzionamento dell’EMDR e della sua efficacia.
Un presupposto è che la patologia attuale, ovvero il malessere che porta il paziente a richiedere l’aiuto terapeutico, è connessa con i traumi subiti e con l’idea di sé che la persona ha costruito nel corso delle sue interazioni interpersonali. L’evento traumatico può contribuire a formare un’idea di sé negativa oppure confermare un timore già presente.
Un secondo punto di partenza teorico è che la mente di ogni essere umano possiede la capacità di elaborare le informazioni e quindi tutti abbiamo un sistema di “auto-cura”, di riparazione dei danni causati dalle esperienza traumatiche.
Articolo consigliato: EMDR, Cardiopatia e Salute Psico-Fisica
L’EMDR dunque funziona perché permette alla mente bloccata di ricominciare il suo naturale processo di elaborazione.
La stimolazione bilaterale degli emisferi cerebrali attraverso i movimenti oculari permette di operare una riconnessione, che ha riscontri a livello neurobiologico (Solomon R., Shapiro F., 2008; Siegel D.J., Hartzell M., 2005), tra il ricordo dell’evento traumatico ed il resto dell’esperienza individuale.
Ogni ricordo è composto di immagini, sensazioni, emozioni e pensieri: l’EMDR permette al cervello di rielaborare in senso positivo il pensiero relativo al ricordo, quindi modifica l’idea di sé e del proprio valore; contemporaneamente diminuiscono le sensazioni corporee spiacevoli o dolorose e si attenuano le emozioni negative, fino alla scomparsa totale dei sintomi.
Il lavoro contemporaneo su tre livelli, corporeo, emotivo e cognitivo conduce all’integrazione delle informazioni fino a formare una nuova memoria: il fatto accaduto diventa un ricordo accessibile e gestibile, privo delle connotazioni sintomatiche e disturbanti che lo caratterizzavano: “dopo l’EMDR il paziente ricorda ancora l’evento ma sente che tutto ciò veramente fa parte del passato e il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adulta” (Fernandez I., Maslovaric G., Veniero Galvagni M., 2011)
Solomon R., Shapiro F. (2008), EMDR and the Adaptive Information Processing Model, Journal of EMDR Practice and Research, vol. 2, n. 4, pp. 315-322. (DOWNLOAD)
Hogberg G., Pagani M., Sundin O., Soares J., Aberg-Wistedt A., Tarnell B., Hallstrom T. (2007), Immediate outcome of EMDR treated PTSD Subjects remain stable in a 35 months follow-up, Accepted Psychiatric Research, Win2PDF at http//www.win2pdf.com
Avete mai pensato a cosa fare del vostro corpo una volta morti? Se siete indecisi tra cremazione e sepoltura è tempo di leggere Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri di Mary Roach e aprire la vostra mente a nuove interessanti opportunità. Ironica, brillante, a tratti comica, Mary Roach, ci trascina in un curioso viaggio alla scoperta delle numerose possibilità per uscire di scena in maniera originale e, perché no, socialmente utile.
Per esempio, potete scegliere di trascorrere un soggiorno presso la Body Farm di Alcoa Hwy, dove polizia scientifica e medicina legale studiano la decomposizione di corpi lasciati all’aperto in preda alle più diverse condizioni atmosferiche. Lo scopo? Migliorare sempre di più i metodi utilizzati per stabilire l’ora di decesso, procedura che in un’indagine investigativa ha indubbiamente la sua rilevanza.
Se preferite invece attività più adrenaliniche, perché non aiutare le case automobilistiche a rendere più sicure le automobili, diventando omini di crash test? Infatti i manichini utilizzati (i famosi dummies) sono tarati su corpi veri affinché la simulazione dei danni sia il più accurata possibile e si possano raggiungere livelli di sicurezza sempre più elevati.
Non dimentichiamo, naturalmente, il campo medico. A meno che non vogliate prestarvi al vostro prossimo ricovero come cavia per uno specializzando chirurgo, l’utilità della donazione di corpi alla scienza medica è innegabile, sia per la sperimentazione di nuove procedure che per la pratica sul campo.
Articolo Consigliato: Recensione: Cinquanta Sfumature di Grigio
Tra i programmi di donazione quello proposto dall’Institute for Plastination, con oltre 13000 donatori registrati, è probabilmente il più noto. Nato inizialmente con lo scopo di formare gli studenti di medicina, oggi ha un fine essenzialmente divulgativo: far conoscere al pubblico il funzionamento del corpo umano, mostrando anche gli effetti delle malattie e di uno stile di vita non salutare. E proprio dal 3 ottobre Milano ospita l’impressionante mostra Gunther von Hagens’ BODY WORLDS, che vanta oltre 34 milioni di visitatori in più di sessanta città del mondo. Un’occasione da non perdere per ammirare una mostra di anatomia che più realistica di così…si muore. Aggiratevi tra i padiglioni e rimarrete a bocca aperta di fronte a esseri umani costituiti esclusivamente da nervi oppure da vasi sanguigni o sistemati in pose sportive che ne mettono in evidenza l’attività del sistema muscolare. Quello che rende il tutto ancora più affascinante è che non si tratta di manichini, ma di persone vere che hanno deciso di donare il proprio corpo alla scienza.
Ma per quale motivo alcune persone scelgono di donare il proprio corpo alla scienza? Non per puro altruismo. Una ricerca condotta da Bolt e colleghi (2010) su un campione di 996 donatori iscritti nel database del Dipartimento di Anatomia del Centro Medico Universitario di Groningen ha individuato tre principali motivazioni: 1) il desiderio di essere utile dopo la morte e dare un significato alla propria fine, 2) l’espressione di gratitudine nei confronti della scienza medica e delle cure ricevute, 3) un atteggiamento negativo verso i funerali (non tutti apprezzano sepoltura e cremazione che, tra l’altro, sono anche economicamente dispendiose).
In uno studio successivo (2011) Bolt ha indagato il legame tra tali motivazioni e tratti di personalità utilizzando il Big Five Inventory, questionario che valuta la personalità su 5 principali dimensioni (coscienziosità, apertura mentale, amicalità, nevroticismo, estroversione). I risultati ottenuti sono alquanto interessanti. L’autrice ha infatti osservato che il voler essere utili dopo la propria morte correla con le dimensioni di coscienziosità e di amicalità.
La coscienziosità in un soggetto esprime il senso del dovere, di responsabilità e di auto-disciplina, nonché il vivere la propria vita secondo i propri principi; l’amicalità, invece, è associata in letteratura al comportamento pro-sociale, cioè al fare qualcosa volontariamente affinché altri possano trarne beneficio.
Articolo Consigliato: SITCC 2012 – Cinema e Letteratura come Strumenti Terapeutici
L’espressione di gratitudine è legata sia alla coscienziosità sia alla dimensione estroversione, indicativa di un maggior coinvolgimento nel mondo sociale. Infine l’avversione ai funerali correla con la dimensione nevroticismo, che sottende tratti quali tendenza a preoccuparsi, insicurezza, ansia, bassa autostima.
Donare il proprio corpo alla scienza non sembra quindi un gesto di puro e semplice altruismo: oltre al desiderio di aiutare gli altri entrano anche in gioco interessi personali come il senso di autorealizzazione e di auto-ricompensa, aspetti che un’efficace campagna di sensibilizzazione alla donazione non dovrebbe trascurare.
Se volete farci un pensierino, in Italia potete rivolgervi, per esempio, al Laboratorio per lo Studio del cadavere dell’Università di Torino oppure alla Sede di Anatomia Umana, Dipartimento di Medicina Molecolare, dell’Università degli Studi di Padova. La sepoltura e la cremazione? Che noia! Meglio donare il proprio corpo alla scienza e concedersi un’ultima botta di vita!
Ormai tutti lo chiamano “Il caso del bambino di Padova”. Eppure non è il piccolo ad essere il centro di tutto. Al centro di tutto, è unicamente la notizia. Nuda, cruda, cinica.
Un bambino, mentre era a scuola, viene portato via con la forza e con violenza dalla Polizia perche’ al centro di un divorzio e di una molteplicita’ di mediazioni non attuate.
Siamo giunti a questo punto, sotto le telecamere della zia che ha filmato la scena, dopo numerosi tentativi di far riavvicinare il bambino a un padre che sembra non vedere piu’ riconosciuto il suo ruolo.
Ci si chiede quindi se assistiamo ad un genitore abusante o se si tratti invece di una sindrome da alienazione parentale o PAS.
Per i non addetti ai lavori la PAS è l’acronimo di Sindrome da Alienazione Parentale, una controversa dinamica psicologica che, secondo le teorie dello psichiatra statunitense Richard Gardner, si attiverebbe in alcune situazioni di separazione e divorzio conflittuali non adeguatamente mediate.
Articolo Consigliato: Poche righe sull’orrenda storia del Bambino Trascinato via da Scuola
I detrattori sfruttano il fatto che non sia ancora presente nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali e che non sarà inserita nella prossima stesura in uscita a breve. Ma basta forse il buonsenso per comprendere che, in casi di estrema conflittualita’ e mancanza di mediazione fra i genitori, possano esserci casi limite come quelli del bambino di Padova.
Nella PAS, un genitore, solitamente quello affidatario o presso cui il bambino e’ collocato se in regime di affido condiviso, viene alienato dall’altro genitore. Vi e’ una supposta «programmazione» dei figli da parte di un genitore patologico, il cosiddetto alienante, che giunge sino far perdere ai figli il contatto con la realtà degli affetti, e ad esibire astio e disprezzo ingiustificato e continuo verso l’altro genitore, quello alienato per intenderci.
Come si vedrà dal filmato, siamo di fronte ad un bambino strattonato, maltrattato e che ci permette di gridare allo scandalo come sempre a fatto avvenuto. Questo caso ci apre gli occhi sul suo essere malamente conteso – come altre migliaia di bambini – da due genitori che, anch’essi, non lo hanno messo al centro di tutto, non ne hanno fatto il centro di tutto. Non possiamo sapere, né è importante sapere, torti e ragioni di madre e padre.
Ma la visione del filmato e della puntata del TGCOM24 in cui, in qualità di psicologo e giudice onorario minorile sono stato ospite, spero permetta di lanciare un messaggio. Noi addetti ai lavori, più di tutti, abbiamo il dovere di lanciarlo:
la bigenitorialità è un diritto del bambino, prima ancora che dei genitori.
Articolo consigliato: Alienazione Parentale: Aspetti psicologici di genitori e figli.
È un diritto di tutti i figli che subiscono il divorzio, che hanno timori dell’abbandono e vivono con naturale apprensione il nuovo “schema familiare” secondo il quale mamma e papà non vivono più sotto lo stesso tetto e non sono più un punto di riferimento costante, sempre a portata di mano.
Minuti, quelli del filmato, che il bambino fara’ fatica a dimenticare e che meriteranno attenzione da parte dei terapeuti che dovranno necessariamente prendere in carico il piccolo e che avrebbero dovuto accompagnare i genitori nella gestione del delicato momento della separazione e riorganizzazione familiare.
In quei minuti il bambino non riconosceva la figura del padre, non aveva accanto quella della madre e invocava l’aiuto di una zia che, per scelta personale, ha preferito videofilmare piuttosto che chinarsi per rincuorarlo, accudirlo, fargli una carezza. In quei momenti era solo contro il mondo, contro i pubblici ufficiali, contro le sue paure.
Articolo consigliato: Affidamento condiviso: figli più sicuri ed equilibrati.
Perché questo è un caso limite per la violenza pubblica subita, ma rispecchia la solitudine di molti suoi coetanei, costretti a sottostare a un mondo fatto di scontri tra genitori che si contendono i figli e li usano come arma di ricatto.
Situazioni in cui la mancanza di amore tra coniugi diventa mancanza di amore, di accudimento e di responsabilità verso chi non ha chiesto di nascere: bambini dimenticati, spesso “troppo voluti” e per questo dimenticati.
Gli eventi traumatici vengono elaborati a livello cognitivo dopo il successo della terapia EMDR, a supporto dell’evidenza che l’attivazione cerebrale di specifici pattern durante i BS è associata a un notevole alleviamento delle esperienze emotive negative.
Una ricerca tutta italiana, condotta dal CNR di Roma, mostra, per la prima volta in assoluto nella letteratura scientifica internazionale, le basi neurobiologiche di una psicoterapia. Lo studio evidenzia, tramite monitoraggio EEG, come l’EMDR provochi in seguito all’esposizione al trauma una spostamento dell’attivazione prevalente da aree a connotazione limbico emozionale ad altre prettamente cognitive, rivelando un rapporto causa-effetto tra la tecnica psicoterapica dell’EMDR e la neurobiologia del cervello.
Dieci pazienti con grave trauma psicologico sono stati esaminati durante la loro prima seduta EMDR (T0) e durante l’ultima (T1), eseguita dopo l’elaborazione del trauma (SUD 0, VOC 7) . Contemporaneamente sono stati somministrati test neuropsicologici. I confronti sono stati eseguiti tra EEG di pazienti a T0 e T1, e tra gli EEG dei pazienti e un gruppo di controllo sottoposto alla stessa procedura EMDR a T0.
I risultati indicano che durante la stimolazione oculare bilaterale (BS) delle sessioni EMDR, l’EEG ha mostrato un’attività significativamente più alta nella corteccia cingolata orbito-frontale, prefrontale anteriore nei pazienti a T0, che si è spostata verso sinistra nella regione temporo-occipitale a T1. Il confronto tra pazienti e controlli ha confermato la massima attivazione della corteccia limbica prima della trasformazione trauma. Questi cambiamenti sono correlati in modo significativo con quelli rilevati nei test neuropsicologici.
L’innovativa metodologia ha permesso in questo studio di vedere per la prima volta l’ attivazione di specifiche aree cerebrali associate alle azioni terapeutiche tipiche del protocollo EMDR. I risultati suggeriscono che gli eventi traumatici vengono elaborati a livello cognitivo dopo il successo della terapia EMDR, a supporto dell’evidenza che l’attivazione cerebrale di specifici pattern durante i BS è associata a un notevole alleviamento delle esperienze emotive negative.
Il Circolo Vizioso tra Geni, Temperamento e Famiglia
L’ ansia nel bambino rappresenta una sana reazione di adattamento e un elemento del normale sviluppo emotivo. Quando e perché diventa una condizione disfunzionale?
Le cause e i fattori di mantenimento di un quadro ansioso patologico sono molteplici e in continua interazione tra loro.
Secondo il modello di Hudson e Rapee (2004), i disturbi d’ ansia nel bambino derivano dall’incatenarsi di fattori genetici con quelli ambientali, fino a creare un vero e proprio circolo vizioso che concorre al mantenimento del disturbo.
Per gli autori, molti bambini con sintomatologia ansiosa hanno, a loro volta, genitori ansiosi (almeno uno dei due). Oltre ad un’ereditarietà ambientale, dovuta all’imitazione da parte del bambino del modello genitoriale, è possibile parlare anche di ereditarietà genetica.
In questi casi, i bambini presentano un temperamento ansioso, ovvero una naturale predisposizione alla preoccupazione eccessiva. Si tratta di bambini con Inibizione Comportamentale: tendenza temperamentale a mostrare paura e ritiro in situazioni non familiari. (Kagan, 1984).
Questo temperamento porterebbe ad una maggiore vulnerabiltà all’ ansia nel bambino, nonché ad una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia in fasi successive dello sviluppo.
Ma quando la vulnerabilità all’ansia nel bambino diventa ansia patologica? Perché si possa fare una diagnosi di disturbo d’ansia, è necessario che quest’ultima abbia un impatto sulla vita del bambino in termini di frequenza, durata e intensità, tale da diventare una vera e propria limitazione.
Ad esempio, sappiamo che uno dei tratti distintivi dell’ansia è l’evitamentodella situazione ritenuta pericolosa. Anche l’ ansia nel bambino è caratterizzata da evitamenti. Quando essi rappresentano un’interferenza nello svolgimento delle normali attività quotidiane, si deve procedere con l’iter diagnostico. Eppure, il temperamento ansioso di per sé non è un fattore sufficiente per lo sviluppo di un vero e proprio disturbo d’ansia. Ecco che entrano in gioco i fattori ambientali, ovvero gli eventi esterni stressanti per il bambino e lo stile genitoriale.
Articolo Consigliato: Interview with Ron Rapee
A volte, può succedere che la vulnerabilità all’ ansia del bambino /figlio, crei nel genitore l’idea che il bambino sia particolarmente sensibile e indifeso e per questo tenderà a sostituirlo e a limitare la propria autonomia. In altri termini, l’ ansia del bambino fa scaturire un atteggiamento iperprotettivo da parte dei genitori (spesso ansiosi a loro volta).
I genitori che adottano questo stile, tendono a rimuovere qualsiasi frustrazione nella vita del bambino, ingigantendo la portata di ogni minimo fastidio e sofferenza. In questo modo i bambini si sentono impreparati di fronte a reazioni diverse da quelle a cui sono abituati nell’ambiente familiare. Cominceranno, così, a considerare terribili le conseguenze di eventuali azioni sbagliate e a nutrire dubbi sul loro valore personale (Kendall, Di Pietro 1995).
Risulta evidente come questo meccanismo non faccia altro che alimentare e mantenere le risposte di evitamento, e quindi l’ ansia del bambino. Si può, quindi, ritenere che la parte fondamentale della vulnerabilità ansiosa, sia proprio il rinforzo dello stile di evitamento da parte dei genitori.
Ecco composto il complesso mosaico del circolo vizioso della vulnerabilità all’ ansia del bambino … dalla famiglia ai geni, dai geni al temperamento, dal temperamento alla famiglia.
BIBLIOGRAFIA:
Hudson, J. L., & Rapee, R. M. (2004). From anxious temperament to disorder: An etiological model of generalized anxiety disorder. In R.G. Heimberg, C. L. Turk, & D. S. Mennin (Eds.), Generalized anxiet disorder: Advances in research and practice. New York: Guilford Publications Inc.
Patologie della Personalita’ di Alto Livello – Recensione
Caligor E., Kernberg O.F., Clarkin J.F. “Patologie della personalita’ di alto livello”, Cortina Editore SCARICA IL BOOKTRAILER
Gli individui strutturano la propria vita psichica intorno a modelli relazionali interiorizzati che si sono forgiati nelle relazioni con le figure rilevanti dello sviluppo.
Il testo di Caligor, Kernberg e Clarkin esamina una classe di disturbi di personalità moderatamente gravi, associati a strutture di funzionamento psicologico le cui caratteristiche fondamentali sono: identità consolidata, predominio di difese basate sulla repressione, rigidità dei tratti, esame di realtà adeguato. Tale assetto di personalità viene definito di alto livello e corrisponde all’organizzazione nevrotica teorizzata da Kernberg; assumendo invece come riferimento i disturbi in Asse II del DSM-IV-TR, le categorie diagnostiche interessate dalle riflessioni sulla personalita’ di alto livello sono i disturbi evitante, dipendente, depressivo, ossessivo-compulsivo e istrionico, quest’ultimo ampliato e riformulato secondo le classificazioni a come disturbo isterico.
La Dynamic Psychotherapy for Higher level personality Pathology (DPHP) è un modello psicoanalitico che integra la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP) elaborata da Kernberg per il trattamento del disturbo borderline; entrambi gli approcci si fondano sulla teoria delle relazioni oggettuali, secondo cui gli individui strutturano la propria vita psichica intorno a modelli relazionali interiorizzati che si sono forgiati nelle relazioni con le figure rilevanti dello sviluppo.
La DPHP si avvale di tattiche, tecniche e strategie, ponendosi come finalità primaria il cambiamento della struttura di personalita’ attraverso l’individuazione delle relazioni oggettuali conflittuali che il paziente riproduce nella relazione col terapeuta.
Le tattiche e le tecniche – su tutte il transfert, l’ascolto, l’osservazione partecipante, l’interpretazione del conflitto inconscio, l’analisi di resistenze e difese – sono gli strumenti che il terapeuta utilizza per realizzare le quattro strategie cliniche della DPHP: il riconoscimento delle relazioni oggettuali più significative; l’analisi dei conflitti e dei meccanismi difensivi attivi nelle relazioni oggettuali dominanti; il restringimento del focus sugli obiettivi terapeutici; l’integrazione dei conflitti nel vissuto conscio del paziente.
Articolo Consigliato: In Studio con Otto Kernberg: l’importanza centrale del Transfert
Il terapeuta, avvalendosi della propria neutralità tecnica, si adopera per aiutare il paziente a far emergere le difese e i conflitti inconsci che si sono formati nelle relazioni oggettuali interiorizzate; la relazione terapeutica diventa il luogo figurato nel quale il soggetto ripropone le modalità difensive e i tratti disadattivi che hanno determinato l’insorgere della sua problematica. Il clinico ha la possibilità di osservare direttamente questi aspetti mostrando al paziente quale sia il suo funzionamento, quali le sue reazioni all’interno della relazione terapeutica e come questi elementi si intreccino con le rappresentazioni consce di sè e dell’altro; la ricostruzione di tali dinamiche si sviluppa attraverso l’individuazione dei contenuti comunicativi espliciti e impliciti, delle contraddizioni tra pensiero cosciente e attivazione emotiva, nonchè facendo preciso riferimento alle modificazioni che l’immagine del terapeuta subisce nella percezione del paziente durante l’evolversi della terapia.
Il setting clinico favorisce l’emergere dei conflitti inconsci e dei caratteri ripetitivi che il soggetto introduce nei propri contesti interpersonali, nella rappresentazione del mondo, nell’organizzazione mentale dell’esperienza; le difese messe in atto hanno la funzione di reprimere sentimenti ritenuti inaccettabili o avvertiti come troppo penosi, insieme a percezioni di sè sgradevoli o dissonanti se confrontate con un’immagine desiderata.
Questi contenuti possono essere descritti ed elaborati solo se vengono ricondotti alle tematiche da cui si sono originati, ossia alle relazioni oggettuali in cui il paziente ha esperito un sentimento di dolorosa inconciliabilità fra bisogni emotivi e qualità delle risposte affettive.
La seconda parte del volume è interamente dedicata alla descrizione degli aspetti pratici del trattamento; il taglio pensato dagli autori ha infatti ambizioni formative, pertanto l’idea è di proporre un manuale destinato principalmente ai clinici tirocinanti che vogliano sperimentare le tecniche dell’approccio psicodinamico nel trattamento delle patologie della personalita’.
Nella sezione dedicata alla valutazione del paziente si fa riferimento alla diagnosi strutturale di Kernberg e quindi alle tecniche per individuare le caratteristiche strutturali di personalità che potrebbero emergere durante la narrazione, in particolare il grado di integrazione dell’identità, le operazioni difensive e l’esame di realtà. Gli autori non mancano di sottolineare come un buon inquadramento diagnostico sia fondamentale per la pianificazione del trattamento, che secondo le indicazioni fornite dal modello ruota principalmente intorno a due dei cardini della teoria psicodinamica, ovvero la valutazione e l’esplorazione delle relazioni oggettuali e quelle dei meccanismi di difesa.
Articolo Consigliato: Incidenza dei Disturbi di Personalità a Milano.
Il modo in cui i pattern relazionali che il paziente ha acquisito nel corso della vita si ripresentano durante il trattamento e nelle relazioni quotidiane ricopre un’importanza cruciale rispetto all’intero processo terapeutico; lavorando sulle relazioni oggettuali, considerate il fulcro delle aree dolenti del funzionamento psicologico, il terapeuta può infatti condurre il paziente ad una rinuncia delle rappresentazioni caotiche, distorte o idealizzate delle proprie relazioni oggettuali difensive, a favore di una valutazione più realistica e tollerante delle persone e delle relazioni più significative.
Per quanto riguarda invece l’approccio alle resistenze, questo nuovo modello psicoanalitico tende a non considerare i meccanismi di difesa solo come strategie di gestione dei conflitti intrapsichici in una condizione psicopatologica, bensì come un processo di adattamento della persona al mondo esterno e alle pressioni esercitate dalle relazioni interpersonali quotidiane; in quest’ottica gli autori promuovono quindi una teoria psicoanalitica “moderna”, non più attenta solo ai fenomeni intrapsichici e ai tratti stabili della personalità bensì consapevole del ruolo cruciale che le relazioni interpersonali attuali giocano nel determinare la sofferenza psicologica o, al contrario, il buon adattamento del paziente.
Le fasi del trattamento sono illustrate nel dettaglio, dall’esplorazione delle prime resistenze alla gestione della conclusione della terapia, e nella trattazione i rimandi alla teoria psicoanalitica di riferimento si alternano a continui riferimenti a casi clinici ed esempi pratici di applicazione delle tecniche proposte; in questo emerge l’esigenza anche da parte dei terapeuti (clinici o ricercatori) psicodinamici di poter vantare non più solo un ricco background teorico, bensì anche solide competenze metodologiche e applicative.
Gaspare Palmieri e Cristian Grassilli (Psicantria) al Congresso SITCC di Roma
Tratto dal Simposio “Psicologia della musica e regolazione delle emozioni in psicoterapia cognitiva: teoria, ricerca, applicazioni cliniche”
Assistere ai simposi è un po’ come tornare dietro i banchi di scuola: lezioni frontali, presentazioni in power point, domande e risposte finali, discussioni più o meno accese, ma con un pubblico – si spera – più attento ed interessato di uno studente che faticosamente segue la lezione di psicometria.
Insomma, non è proprio scontato che finisca cantando e strimpellando chitarre! Ma questo simposio si è concluso esattamente così, tra l’ilarità ed il divertimento generale.
Christian Grassilli e Gaspare Palmieri sono riusciti nel loro lavoro ad unire la psicologia con la passione per la musica ed il risultato presentato è stato simpatico, interessante, divertente e a tratti anche un po’ commovente, quando ci hanno fatto ascoltare le canzoni composte da gruppi di loro pazienti con tanto di presentazione in stile sanremese.
Le slides del simposio:
La canzone è uno strumento terapeutico preziosissimo: ci si può soffermare sul significato che una canzone ha per un paziente (“Ci vuole un fisico bestiale” per resistere agli urti della vita), sulle differenti emozioni che uno stesso brano può suscitare in momenti diversi della propria esistenza o, ancora, si può avere la possibilità di raccontarsi attraverso la musica componendo un testo o scegliendo le canzoni maggiormente rappresentative di sè. Ecco che l’ABC musicale diventa un mezzo potente per indagare cosa una canzone ha suggerito a livello di immagini, emozioni e pensieri, e l’ascolto di un brano diventa “palestra del sentire”, occasione per imparare a dare un nome alle proprie emozioni.
Per chi fosse interessato Gaspare Palmieri consiglia due libri da non perdere: “La canzone in cui viviamo” di Vincenzo Incenzo sull’importanza a livello sociale della canzone e “Rock ‘n’ Roll Wisdom” dello psicologo americano Barry Farber sull’uso delle metafore della vita tratte da canzoni famose.
Invece noi vi segnaliamo “Psicantria”, libro-cd di psicopatologia cantata nato con lo scopo di far conoscere i disturbi psichici e lo “psicomondo” attraverso la canzone. Grassilli e Palmieri, chitarre e microfoni alla mano, hanno concluso il simposio con un divertente brano tratto proprio da questo loro progetto. Buon ascolto!
Nel video: la Psicantria al Congresso SITCC 2012 di Roma
Una combinazione di esperienze soggettive e mutamenti fisiologici è ciò che caratterizza l’ orgasmo femminile.
Le sensazioni riportate da ciascuna donna nel descrivere quanto si prova nel raggiungimento dell’acme del piacere sono quanto mai diverse e personali. Alcune parlano di “un accumulo di tensione che va via via dissolvendosi” altre di “continue contrazioni nell’area vaginale” altre ancora riferiscono “di provare una fortissima tensione cui segue un improvviso rilassamento”.
Vi sono delle modificazioni corporee che possono in qualche modo definire l’ orgasmo femminile, si parla infatti di contrazioni ritmiche di vagina, utero e sfintere rettale dei quali è stato addirittura identificato il ritmo (una ogni 0,8 secondi con una graduale diminuzione o variazione nell’intensità); continue contrazioni dei muscoli addominali e dei glutei, nonché un generale aumento del tono muscolare, crampi a mani e piedi, smorfie del viso. Pur essendo questi i più diffusi e riportati dalle donne non sono una condizione necessaria affinchè si verifichi l’orgasmo.
Tuttavia, ciò che emerge è che il disturbo dell’ orgasmo femminile, nonché quella che anticamente veniva chiamata anorgasmia, sono più diffusi di quanto si possa pensare.
Articolo consigliato: L’orgasmo femminile: ma le donne come funzionano?
E proprio in relazione al provare o meno un orgasmo vanno sottolineati diversi aspetti:
La fatidica dicotomia Orgasmo Femminile Vaginale Vs Orgasmo Femminile Clitorideo: Freud ai tempi parlò di Orgasmo Vaginale come l’unico veramente maturo che una donna adulta può provare, mentre quello clitorideo è immaturo e nevrotico. Attualmente possiamo dire che da un punto di vista fisiologico tale dicotomia non ha alcun senso di esistere. Orgasmo vaginale (o coitale) ed orgasmo clitorideo sono entrambi indotti in modo prevalente dalla stimolazione del clitoride. Un campione molto diffuso di donne riferisce infatti di non provare difficoltà nel raggiungere l’orgasmo attraverso la masturbazione, mentre più difficile è raggiungerlo attraverso movimenti coitali e questo non le farebbe sentire del tutto a loro agio. Ancora ad oggi pare infatti che pregiudizi e preconcetti culturali, accompagnati forse anche da una scarsa informazione, portano la donna a credere che il non riuscire a provare un orgasmo coitale rappresenti un problema, se non addirittura un’ incapacità di provare piacere. Non è assolutamente così, ed è importante sapere che raggiungere questo tipo di orgasmo femminile non é nè l’unica via nè una meta fondamentale.
Entrando nello specifico del Disturbo dell’ Orgasmo Femminile è emerso da numerosi studi che questo sia associato a problemi psicologici, emotivi e sociali piuttosto che a problematiche inerenti la sfera fisica.
A questo proposito riportiamo uno studio condotto da Andrea Burri e collaboratori, i quali testarono un campione di oltre 2000 donne inglesi. Il campione fu estratto dal Registro dei gemelli del Regno Unito e lo scopo della ricerca fu quello di indagare se normali variazioni dell’intelligenza emotiva fossero associate alla frequenza dell’ orgasmo femminile e durante il rapporto sessuale e durante la masturbazione.
La scelta di concentrarsi sull’intelligenza emotiva è legata alle ricerche fatte su tale costrutto, dalle quali è emerso che le persone differiscono per il modo in cui provano emozioni, per la capacità di differenziare fra queste ed inoltre, il sapere riconoscere ed utilizzare le informazioni emotive, pare abbia un impatto non solo nelle relazioni interpersonali ma anche a livello intrapersonale.
Queste capacità potrebbero infatti un’influenza diretta sul funzionamento sessuale della donna ma non solo, anche la capacità di comunicare i propri desideri al partner ne potrebbe risentire, andando così a rendere difficoltosa la comunicazione sessuale che è altrettanto importante quanto qualsiasi altro tipo di comunicazione all’interno della coppia.
Dai risultati ottenuti da Burri e dalla sua èquipe è emersa l’esistenza di una correlazione positiva fra la frequenza di orgasmi, sia durante la masturbazione che durante il coito, e l’intelligenza emotiva; e non solo che la correlazione fra intelligenza emotiva e orgasmi coitali seppur positiva è inferiore rispetto alla prima. Questo, come suggeriscono gli autori, mostra come sia importante, nel provare un orgasmo, non solo una maggiore conoscenza del proprio corpo, ma anche la sensazione di controllo e la possibilità di far coincidere il movimento fisico con le proprie fantasie.
In conclusione, ad oggi in base agli studi sul settore, ciò che risulterebbe importante per vivere appieno la propria sessualità godendone è una buona conoscenza delle proprie emozioni, che consente di guidare i propri pensieri e le proprie azioni permettendo anche una maggiore conoscenza del proprio corpo e forse influenzando anche positivamente la comunicazione col proprio partner.
Articolo Consigliato: Disfunzione Sessuale Femminile: la necessità di un cambio di prospettiva.
La possibilità di provare un orgasmo dipende, inoltre, anche dalla pratica sessuale, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e del proprio corpo, nonché la sperimentazione di diversi tipi di stimolazione, sono tutti fattori che consentono alla donna di avvicinarsi sempre più all’acme del piacere. Entrare in contatto con le proprie emozioni ed i propri pensieri senza averne paura, lasciarsi andare e dimenticare per un attimo il controllo, non temere di riferire i propri desideri e le proprie fantasie, dette così potrebbero sembrare banalità ma nella realtà a volte si può fare difficoltà a metterle in pratica, e quindi aggiungiamo un’altra variabile…provare a mettersi in gioco.
D’altronde come dice Woody Allen: “Fare sesso è come giocare a bridge. Se non hai un buon compagno è meglio che tu abbia una buona mano”, e non dimentichiamo anche un pizzico d’ironia.
Classificato all’interno delle disfunzioni sessuali, il disturbo dell’ orgasmo femminile può essere caratterizzato non solo dall’assenza, ma anche da un persistente e ricorrente ritardo del piacere, in seguito a quella che può essere definita una normale fase di eccitazione sessuale.
Quando si parla di questo disturbo va sempre tenuto in considerazione il fatto che l’ orgasmo può essere ottenuto attraverso diversi tipi di stimolazione, e che l’intensità e la durata dello stesso variano da persona a persona.
Le informazioni utili per fare diagnosi di tale disturbo sono quelle che consentono di dire al clinico che le capacità della donna di esperire un orgasmo sono minori di quanto ci si aspetterebbe in base ad età, esperienza sessuale e stimolazione ricevuta.
Va inoltre ricordato che tale inibizione dell’orgasmo deve causare nella donna difficoltà interpersonali o notevole disagio. Se presenti Disturbo dell’umore(es: Disturbo Depressivo) generalmente non viene fatta diagnosi aggiuntiva di Disturbo Dell’ Orgasmo in quanto problematiche legate alle sfera sessuale potrebbero dipendere dal primo. Lo stesso accade se i sintomi sono conseguenti all’utilizzo di sostanze, o possono dipendere da una condizione medica generale.
Ciò che va sottolineato è il fatto che la capacità di provare l’orgasmo può aumentare con la pratica sessuale e per tale motivo può essere più diffuso fra le donne giovani. L’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e del proprio corpo, nonché la sperimentazione di diversi tipi di stimolazione, sono tutti fattori che consentono alla donna di avvicinarsi sempre più all’acme del piacere.
Una volta che si è imparato come raggiungere l’orgasmo è difficile che venga meno questa capacità, salvo l’intervento di problematiche mediche, disturbi legati all’umore, esperienze traumatiche, problemi relazionali o insufficiente comunicazione sessuale col proprio partner. La maggioranza dei disturbi dell’ orgasmo femminile risultano essere, per queste ragioni, di tipo permanente (presenti fin dall’inizio dell’attività sessuale) piuttosto che acquisito (sintomi che compaiono in seguito, mentre prima si è sempre esperito l’ orgasmo). Va inoltre distinto se la problematica è legata a specifiche situazioni (nel caso in cui per esempio vi sia orgasmo nell’atto masturbatorio e non vi sia nell’atto sessuale col partner) o se è una condizione generale; se è dovuta per lo più a fattori psicologici o a fattori combinati (problematiche psicologiche connesse a condizione medica generale e/o uso di sostanze).
American Psychiatric Assaciation. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.
Definita per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come: “La capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il prorio pensiero e le proprie azioni”; il concetto di Intelligenza emotiva è stato ripreso da Daniel Goleman il quale, nel 1995, lo rese popolare con la seguente definizione: “ È la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.
Da questa definizione si può capire come l’intelligenza emotiva sia un mix di empatia, motivazione, autocontrollo, logica, capacità di adattamento e di gestione delle proprie emozioni, così da trovare e riuscire ad utilizzare i lati positivi di ogni situazione cui si va incontro. Goleman alla base dell’intelligenza emotiva individua due tipi di competenze e a ciascuna di queste attribuisce delle caratteristiche specifiche:
Competenza Personale: ossia il modo in cui controlliamo noi stessi; racchiude al suo interno:
– Consapevolezza di Sé, da intendersi come capacità di riconoscere le proprie emozioni, sapere quali sono i propri limiti e le proprie risorse ed avere sicurezza nelle proprie capacità;
– Padronanza di Sé, la quale richiede la capacità di saper dominare i propri stati interiori, saper guidare gli impulsi e sapersi adattare e sentirsi a proprio agio in nuove situazioni;
– Motivazione,caratteristica che spinge l’individuo a realizzare i propri obiettivi sapendo cogliere le occasioni che gli si presentano, impegnandosi e restando costante nonostante le possibili avversità.
Competenza Sociale: ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro; a questa fanno rifermento:
– Empatia, intesa come la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, mostrandosi pronti a soddisfare le esigenze dell’Altro, ed aiutarlo cercando di mettere in risalto quelle che sono le sue risorse. Ma anche la capacità di individuare e coltivare le opportunità che vengono offerte dall’incontro con persone di diverso tipo, e il saper interagire all’interno di un gruppo sulla base dell’interpretazione delle correnti emotive e dei rapporti di potere esistenti nel gruppo stesso.
– Abilità sociali, ossia tutte quelle abilità che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili. Si va dall’utilizzo di tattiche di persuasione efficienti, al saper comunicare in maniera chiara e convincente, così da saper guidare il gruppo sia in un eventuale cambiamento, sia nel risolvere eventuali disaccordi. Rientra inoltre nell’abilità sociale il cercare di favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.
L’Intelligenza Emotiva racchiude al suo interno quelle capacità di consapevolezza e padronanza di se, motivazione, empatia e abilità nelle gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano.