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Come già anticipato nella prima parte, il disputing della fobia sociale nasce da un’accurata raccolta dati. Occorre accertare attentamente le situazioni temute e solo dopo iniziare a valutare le basi empiriche dei timore della persona fobica sociale. Tra le varie situazioni sociali temute elenchiamo il chiedere un appuntamento a qualcuno/a, essere presentati a qualcuno/a, partecipare a feste, party, ricevere amici a cena, iniziare una conversazione, parlare al telefono, esprimere la propria opinione, affrontare un colloquio di lavoro, essere assertivi, restituire un acquisto, guardare negli occhi qualcuno/a, esprimere insoddisfazione per un acquisto, parlare con figure autorevoli, parlare in pubblico, fare sport in pubblico, partecipare a cerimonie pubbliche, cantare in pubblico, suonare in pubblico, recitare in pubblico, mangiare e/o bere in pubblico, usare bagni pubblici, scrivere in pubblico, commettere un errore davanti agli altri, camminare e/o correre in luoghi affollati, presentarsi ad altri, fare acquisti in negozi affollati, camminare davanti a un gruppo di persone.
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Una volta stabiliti i luoghi e le situazioni temute, si analizzano i pensieri che accompagnano e determinano il timore. È bene rendere consapevole il paziente che le sue difficoltà non derivano dalla situazione in sé, ma dalle sue valutazioni della situazione. Qual è il livello di ansia che le accompagnava? E cosa è accaduto davvero in quelle occasioni? Ma soprattutto, cosa ha pensato la persona? I pensieri più frequenti possono essere auto-valutativi (sono stupido/a, noioso/a, non amabile socialmente, inadeguato/a), focalizzati su comportamenti o reazioni proprie (ero arrossito/a, sudato/a, mostravo tremito) o altrui (hanno mostrato cenni di noia, disapprovazione, rifiuto; mi hanno esplicitamente disapprovato o perfino scacciato). Quanto volte è accaduto? Quando è accaduto l’ultima volta? E così via. Naturalmente occorre andarci cauti e non rischiare di umiliare il paziente, già di per sé sensibile all’argomento del giudizio.
Come è intuibile, la fobia sociale può essere particolarmente sensibile a un disputing empirico, cioè focalizzato sul fornire le prove di quel che è accaduto. Il paziente con fobia sociale è particolarmente soggetto a errori di malinterpretazione degli avvenimenti sociali, avvenimenti del resto già in sé mai facilmente decodificabili. A pensarci bene tutti noi siamo portatissimi a sopravvalutare e a generalizzare quelli che in fondo sono singoli episodi. È davvero possibile trascorrere una serata senza che capiti almeno una mezza gaffe, senza che almeno una nostra battuta che voleva esser spiritosa venga accolta non con risate ma con un benevolo (o sprezzante) silenzio, senza che almeno un nostro tentativo di prender la parola nella conversazione non vada a vuoto. Diamine, ma non mi ascoltano? Diciamo a noi stessi, avviliti per un attimo. E poi segue la terribile domanda: e perché mai non si sono voltati verso di me, e perché mai non hanno taciuto per darmi modo di raccontare la mia storiella? E infine segue la spiegazione, ancor più terribile: allora non sono simpatico/a, non sono apprezzato/a, non sono amabile, e così via.
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Siamo dunque tutti a rischio di una catena negativa. Incoraggiare a riflettere il paziente quanto sia empiricamente fondata questa catena è molto d’aiuto. Non si tratta semplicemente di correttezza logica. Il paziente con fobia sociale ha evidentemente difficoltà a comprendere l’altro. Indurlo a riflettere meglio su quanto siano fondate le sue inferenze su ciò che pensano gli altri è un modo per istradarlo verso un percorso di comprensione e accettazione della mente dell’altro.
Ma, come direbbe Fonagy, il paziente con fobia sociale ha anche problemi nell’accettare di non poter comprendere sempre, ad accontentarsi del fatto che non può sapere sempre cosa pensa l’altro e che questa opacità non significa necessariamente malevolenza. Il disputing potrebbe generare un percorso cognitivo di questo tipo, nel quale il paziente man mano che perde le sue certezze sulla malevolenza degli altri, prende atto dell’opacità del pensiero degli altri. Noi, per lo più, non sappiamo cosa pensano gli altri. Ma questo potrebbe essere alla base di un altro errore cognitivo del fobico sociale: egli potrebbe considerare questa opacità come prova di malevolenza. Errore logico che quindi richiede un disputing logico. Che relazione logica c’è tra opacità (non so cosa pensano gli altri) e malevolenza (gli altri pensano male di me)?
Insomma potremmo immaginare un modello di questo tipo.
Pensiero distorto: pensano male di me
Disputing empirico: in base a cosa ha pensato questo? Che prove ha?
Assunzioni distorte: perché sudo, balbetto, perché non sono simpatico, e così via.
Disputing: in che misura arrossiva, sudava o balbettava? Era percepibile questo disagio? E come può essere sicuro che gli altri la abbiano giudicato male per questo? Ma lei, ad esempio, sudava così copiosamente da creare imbarazzo? O balbettava così penosamente da bloccare la sua conversazione? E se anche fosse, che persone sono mai queste? Sono così malevole verso chi suda, balbetta, arrossisce?
Nuovi pensieri: forse non so davvero cosa pensano gli altri. Questo potrebbe iniziare a tranquillizzare il paziente, e aprire la possibilità a un supplemento di disputing logico: dunque lei non sapeva cosa pensassero gli altri, e proprio questo la portava a dedurre che pensassero male di lei? È possibile?
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A questo punto, se il paziente non ha propensione al controllo ossessivo potrebbe iniziare a pensare di poter tollerare la non conoscenza del giudizio altrui. L’obiettivo, infatti, più che costruire una buona autostima, dovrebbe essere sviluppare l’autonomia dal giudizio altrui fino ad arrivare a quella che Albert Ellis chiamava l’auto-accettazione incondizionata (Ellis, 2005).
I fattori cognitivi non si esauriscono qui. Accanto alle credenze, ci sono anche i processi di tipo attentivo. I principali errori processuali del fobico sociale sono l’attenzione anticipatoria focalizzata verso l’evento sociale durante i giorni che lo precedono e l’attenzione focalizzata sulle reazioni altrui e sulle proprie sensazioni di vergogna e imbarazzo durante l’evento sociale temuto.
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BIBLIOGRAFIA:
- Clark, D. M. & Wells, A. (1995). A cognitive model of social phobia. In R. Heimberg, M. Liebowitz, D. A. Hope, & F. R. Schneier (Eds.), Social phobia: Diagnosis, assessment and treatment. (pp. 69–93). New York: Guilford Press.
- Ellis, Albert (2005). The Myth of Self-Esteem. New York: Prometheus books.
- Heimberg, R. G., Liebowitz, M. R., Hope, D. A., & Schneier, F. (Eds.) (1995). Social phobia: Diagnosis, assessment, and treatment. New York: Guilford Press.