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La Terapia Metacognitiva Interpersonale alle Olimpiadi – Psicologia dello Sport

Vittoria Galasso

 

 

La Terapia Metacognitiva Interpersonale alle Olimpiadi. - Immagine: © Brian Jackson - Fotolia.com

Olimpiadi 2012: Molti atleti dei diversi team nazionali sono stati accompagnati dal proprio mental coach. Ed anche io ero tra questi.

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Le Olimpiadi di Londra 2012 sono un’esperienza ormai compiuta, per i protagonisti e per gli spettatori. Un caleidoscopio di emozioni, colori e sensazioni che fanno parte dei ricordi di tutti coloro che in qualche modo vi hanno preso parte. Parliamo di Olimpiadi, ovviamente, di quell’imponente giostra carica di ritualità e di imprevisti che anima lo scenario sportivo internazionale ogni quattro anni. E gli psicologi? Come al solito non sono stati a guardare! Molti gli atleti dei diversi team nazionali sono stati accompagnati dal proprio mental coach. Ed anche io ero tra questi. Una grande opportunità giunta a coronamento di quella che ormai è una lunga collaborazione con il CONI.

Questa esperienza è stata l’occasione per sperimentare un protocollo di intervento nato dalla fusione tra la psicologia dello sport e la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

Questo approccio è nato da una estemporanea esigenza: quali strumenti dell’agire psicologico utilizzare quando l’atleta è chiaramente portatore di una sofferenza soggettiva, riconducibile a specifiche caratteristiche di personalità che, pur riverberando nella prestazione, non ha in essa la sua sola origine o possibilità di risoluzione? È questo l’interrogativo che si è andato definendo nella mia mente all’incirca due anni fa all’inizio di questa avventura, quando mi sono trovata a dover intervenire su di un atleta che, pur provenendo da innumerevoli successi internazionali, sembrava, a seguito di una serie di eventi personali e sportivi, non riuscire più ad ingranare le marce per compiere delle scelte gratificanti.

Mental_Training. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
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“La prestazione prima di tutto!” È questo l’imperativo a cui mirare… ma questa volta era diverso. A non funzionare non era più solo la prestazione. L’Olimpiade non era poi così lontana e l’assessment iniziale aveva chiaramente lasciato emergere caratteristiche di personalità tali da non poter essere ignorate nella formulazione dell’intervento. Se infatti la prestazione sportiva è frutto dell’integrazione tra aspetti psicologici e fisiologici, tralasciare gli elementi di sofferenza soggettiva emersa, sarebbe equivalso ad invalidare la possibilità di accedere con successo, anche se solo in un secondo momento, al programma di allenamento mentale.

Perfezionismo, bassa autostima, alessitimia sono di fatto elementi ricorrenti nell’organizzazione di personalità degli atleti di alto livello e, di frequente , essi stessi attivatori dell’impegno agonistico. Quando però sopraggiungono fattori stressanti, come ad esempio l’esposizione protratta alla dinamica agonistica, questi stessi aspetti possono tradursi in elementi di rischio psicopatologico capace di determinare quadri sintomatologici che richiedono interventi terapeutici specifici, come quello TMI. L’atleta in questione presentava caratteristiche che motivavano un intervento di questo tipo.

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Emergevano nel colloquio emozioni intense e dolorose, unitamente ad una assoluta difficoltà di gestione delle stesse, con conseguente percezione di inefficacia personale. La vita di relazione risultava guidata da schemi impliciti che lo costringevano a reiterare dinamiche stereotipate.

Le capacità metacognitive erano fortemente sollecitate dall’impegno sportivo ma decisamente compromesse: gli veniva richiesto di organizzare il proprio comportamento in vista della meta (le olimpiadi), impegnando capacità di ragionamento finalizzate alla definizione di obiettivi, al compimento delle scelte, alla formulazione delle valutazioni. Il comportamento doveva essere costantemente monitorato ed adeguato all’andamento dell’allenamento e delle gare, gestendo nel contempo il proprio stato psicoemotivo e gli aspetti relazionali. Promuovere, attraverso gli interventi terapeutici, il processo di riflessione su di sé , avrebbe consentito di focalizzare l’attenzione sui fattori capaci di favorire il funzionamento, accrescendo anche la consapevolezza su quanto provoca disagio. Il lavoro sulle abilità metacognitive avrebbe poi consentito di intervenire sugli aspetti relazionali (particolarmente critici all’inizio dell’intervento), agevolando il potenziamento di quelle capacità che permettono di capire gli altri (compagni, avversari, allenatore, dirigenti sportivi), a tutto vantaggio dell’organizzazione strategica del proprio comportamento in gara e non solo (consapevolezza dei punti di forza e di debolezza di compagni e avversari).

 Alla luce di queste riflessioni iniziali si è dunque proposto all’atleta di avvalersi di un intervento gerarchicamente organizzato e sdoppiato in due momenti diversi. Ottenuta la piena condivisione e in un clima di collaborazione, il programma ha avuto avvio, con sedute settimanali, compatibilmente con le disponibilità legate alle trasferte.

Settimana dopo settimana si è giunti a conclusione del primo anno con la piena convinzione che si fossero ormai definite le condizioni necessarie e sufficienti ad implementare il secondo modulo: il lavoro sul campo. L’atleta aveva sviluppato strategie efficaci per la gestione delle emozioni dolorose e andava acquisendo consapevolezza dei propri schemi. La psicoterapia andava avanti, mentre le tecniche di mental training cominciavano ad essere strutturate in un programma di allenamento sistematico affidato ad una collega.

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Da lì a poco la qualifica olimpica. E poi una lunga cavalcata fino alla gara! A pochi giorni dall’evento la richiesta esplicita da parte dell’atleta: la presenza del nostro team di lavoro a Londra! L’obiettivo dichiarato e condiviso era quello di affrontare la gara con le condizioni mentali ottimali. I colloqui sarebbero serviti in quei giorni, oltre che a contenere l’ansia, ad agevolare il rapporto con l’allenatore (vera figura chiave di un pregara olimpico), attraverso interventi terapeutici che sostenessero l’atleta nel suo processo di lettura delle dinamiche relazionali. In questi frangenti di massima tensione, ogni particolare può diventare importante e una difficoltà con il proprio coach può essere cruciale … e poi a Londra ci si era arrivati tutti insieme e tutti insieme dovevamo gareggiare, così esclamò l’atleta nel fare la sua richiesta: e olimpiade fu!

Vasi comunicanti. il dialogo tra mente e corpo. - Immagine: © freshidea - Fotolia.com
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Di sicuro, un’esperienza particolare nel suo genere, proprio perché il lavoro con gli atleti di alto livello pone agli psicologi interrogativi assolutamente peculiari, tra il bisogno di favorire le prestazioni e la consapevolezza di esistenze spesso schiacciate tra sacrifici da palestra e luci dei riflettori. In tale contesto l’intervento di Terapia Metacognitiva Interpersonale sembra riuscire ad incidere sia su un piano strettamente individuale (favorendo la consapevolezza e la capacità di descrizione del proprio mondo interiore) che su quello relazionale (agevolando la capacità di comprensione di ciò che gli altri pensano e sentono). Sul piano individuale, dunque, un atleta che necessiti di un simile intervento avrà modo di riscoprire scopi e desideri personali laddove questi risultano spesso celati da una motivazione agonistica frequentemente mediatrice di bisogni relazionali di altra natura. Il miglioramento sul piano relazionale riverbera subito nel rapporto con l’allenatore ed i compagni a tutto vantaggio della prestazione.

Il cantiere di Olimpia 2016 è ormai già aperto. Dopo qualche settimana di riposo il mondo dello sport si riorganizza silenziosamente in vista della nuova meta. Speriamo di esserci, e buon viaggio a tutti!

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BIBLIOGRAFIA:

Solo poche righe sull’orrenda storia del bambino trascinato via dalla scuola

 

Poche righe sull’orrenda storia del Bambino Trascinato via da ScuolaSolo poche righe sull’orrenda storia del bambino trascinato via dalla scuola. Dove sicuramente non abbiamo tutti gli elementi per farci un’opinione, ma dove di certo sono stati commessi errori da parte delle forze dell’ordine.

TUTTI GLI ARTICOLI SU: BAMBINI 

Ma oggi vorrei parlare dei genitori, che mi sembrano la maggiore fonte di scandalo e di preoccupazione. Questi genitori di cui non sappiamo nulla, dal 2005 litigano sulla separazione e non trovano un accordo. O se lo trovano per via giudiziaria, lo infrangono. Portano via il bambino e impediscono all’altro coniuge di vederlo. (nel caso della madre con la solidarietà della famiglia d’origine, ahimè, nessuno in questa storia è saggio).

Qual è il punto più drammatico in questa vicenda? Che queste due persone non possono mai cambiare idea. Che rimangono davanti ai problemi reciproci per anni nella stessa posizione aumentando e migliorando soltanto le armi per la battaglia reciproca.

La madre per sempre vuole togliere al figlio il padre. Ma anche il padre per sempre vuole togliere e riavere per sé il figlio. Questa guerra dei Roses non è però una guerra in una coppia appesa a un lampadario ma una guerra in cui un bambino che oggi ha 11 anni ma ne aveva 5 quando il tutto è cominciato paga il costo della inflessibilità malata dei genitori. Ignari del danno per il figlio causato dalla loro incapacità di cambiare idea.

L'impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia - L'epidemia nascosta- (2012) GIovanni FIoriti Editore - Copertina
Articolo Consigliato: L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (2012). Giovanni Fioriti Editore

Un figlio che impara che non si può mai pensare cose nuove e affrontare nuove emozioni,. Dove nessuno è capace di mettersi nei panni dell’altro genitore e comprenderne il dolore, la sofferenza. Dove si è disposti a pagare qualsiasi prezzo per volgere la realtà a proprio favore. Che vede genitori completamente incapaci di uscire dal proprio punto di vista per un bene più generale.

ARTICOLI SU: EMPATIA

Ecco la gravità per il figlio, oltre al dolore dell’orrenda scena, e al dover sempre escludere almeno un genitore dalla propria scena esistenziale, è che impara che non si può mai cambiare idea in una ossessione terribile e ignara del rispetto per l’altro. Egli ha visto che i suoi genitori non sanno affrontare gli intoppi, le invalidazioni, i problemi, le emozioni di dolore, se non con strappi odiosi e schematici.

Ha visto che hanno continuato negli anni a pensare, fare, provare, soltanto una cosa, la rabbia e la vendetta e le strategie di guerra reciproca, comportamentale, emotiva, legale, giudiziaria.

Questa coppia malata dove si è malati in due ma ognuno è malato a modo proprio, senza l’autorità non è stata capace di risolvere nulla in un colloquio o magari un aspro confronto maturo che contemplasse il rispetto dell’altro e cedimenti reciproci alla saggezza per il bene dell’altro e del figlio.

ARTICOLI SU: RELAZIONI SENTIMENTALI –  TERAPIA DI COPPIA

Noi auguriamo a questo bambino di non assorbire tutto questo e che abbia la fortuna di incontrare nel suo viaggio qualcuno che sappia vedere le cose in modo diverso, laterale, inaspettato, nuovo. Che gli insegni che le emozioni di rabbia e ingiustizia si possono accettare in modo saggio e generoso insieme al dolore che esse comportano.

Queste figure a lui sono mancate e di questo nella sua storia evolutiva resterà una traccia dolorosa e potenzialmente pericolosa per le sue stesse emozioni e per il suo stesso modo di pensare. 

Noi pensiamo che entrambi genitori (e non solo il bambino) abbiano bisogno di un aiuto psicologico per un loro personale percorso di crescita.

 

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Nicotina: favorisce i Processi di Apprendimento e Memoria

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La Nicotina produce effetti positivi sulla possibilità dell’ippocampo di elaborare le informazioni favorendo i processi di memoria e l’apprendimento.

Dopo i cerotti alla nicotina per migliorare la memoria, ecco la conferma che questa sostanza gioca un ruolo importante nei processi di apprendimento e memoria.

(LEGGI L’ARTICOLOLa nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi

Un team di ricercatori della Uppsala University, insieme ai loro collaboratori brasiliani, ha scoperto un nuovo gruppo di cellule nervose che regolano i processi di apprendimento e memoria.

Queste cellule chimate gatekeeper, nella cui attivazione la nicotina sembra avere un ruolo importante, agiscono come custodi di un passaggio a livello  assegnando priorità di elaborazione nell’ippocampo alle informazioni provenienti dai circuiti locali e favorendo quindi il consolidamento dei ricordi.

L’ippocampo è una zona del cervello che è importante per il consolidamento delle informazioni in memoria e ci aiuta a imparare cose nuove. La recente scoperta di cellule nervose gatekeeper, chiamate anche cellule OLM-alfa2, fornisce una spiegazione di come il flusso di informazioni è controllato nell’ippocampo.

Psicologia & Dipendenze (Fumo): la Sicurezza che ci dà la Sigaretta. - Immagine: © dred2010 - Fotolia.com
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E ‘noto che la nicotina migliora i processi cognitivi compreso l’apprendimento e la memoria, ma questa è la prima volta che viene identificata una popolazione di cellule nervose è legata agli effetti della nicotina,” dice il professor Klas Kullander della Uppsala University.

Gli esseri umani pensano, apprendono e memorizzano grazie alle cellule nervose che scambiano segnali tra loro. Alcuni di questi segnali vengono inviati e ricevuti all’interno della stessa area cerebrale, altri invece raggiungono altre aree del cervello, più lontane. Alcuni circuiti nervosi locali dell’ippocampo processano le informazioni in entrata e trasformano alcune di queste in ricordi. Ma come funziona questo meccanismo? E come può la nicotina migliorarlo?

La ricerca getta letteralmente “nuova luce” su questo meccanismo intrigante: i ricercatori hanno utilizzato una nuova tecnologia denominata optogenetics, in cui la luce viene usata per stimolare le cellule nervose selezionate, e hanno scoperto che la luce attivante le cellule gatekeeper modifica il flusso di informazioni nell’ippocampo nello stesso modo in cui fa la nicotina.

 Attraverso la ricerca sui topi, gli scienziati hanno dimostrato che le cellule gatekeeper sono collegate alla cellula principale dell’ippocampo. L’attivazione delle cellule gatekeeper fa in modo che i segnali inviati alla cellula principale dal circuito locale abbiano la priorità, quando invece queste cellule sono inattive i segnali in entrata provengono da aree diverse e più lontane. La nicotina attiva le cellule gatekeeper, in questo modo assegna una priorità alla formazione dei ricordi attraverso i segnali locali.

Gli scienziati adesso vogliono verificare quali tipi di memoria e apprendimento possono essere selezionati per dall’attivazione di cellule gatekeeper. Grazie a questi dati, può essere possibile stimolare queste cellule nervose con mezzi artificiali, ad esempio selezionando farmaci simili alla nicotina, per migliorare la memoria e l’apprendimento nell’uomo; sfruttando perciò gli effetti positivi della nicotina sulla possibilità dell’ippocampo di elaborare le informazioni, senza però che si crei la dipendenza da nicotina tipica dell’assunzione della sostanza.

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BIBLIOGRAFIA:

Core Belief e Caratteristiche di Personalità in un gruppo di Donne con Disturbi Alimentari

Congresso SITCC 2012 Roma

 Core Belief e Caratteristiche di Personalità in un gruppo di Donne con Disturbi Alimentari

 LUCA CALZOLARI, C LA MELA, S MORI, M MAGLIETTA, S LUCARELLI

 

 GLI ARTICOLI SU DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTAREBELIEFS/CREDENZEGENDER STUDIES

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Partecipare per apprendere

Marcella Offeddu.

Partecipare:

Partecipare per apprendere - FIgura 1
Schema della Partecipazione

Se partecipare, nel senso più ampio dato dall’approccio della democrazia deliberativa al termine, è questo, allora come può essere utilizzato un approccio partecipativo?

1. Può essere utilizzato per il cambiamento organizzativo (change management): l’approccio partecipativo serve in momenti di cambiamento, o che richiedono di definire strategie specifiche, per garantire che le decisioni assunte si trasformino in azioni effettive. È utile dunque in questo ambito per superare i rischi legati al ‘falso consenso’ o alla non piena comprensione delle diverse prospettive e opzioni.

2. È ormai molto utilizzato per affrontare questioni rilevanti per la comunità. Da molti anni anche in Italia (cfr. in primis l’esperienza della Regione Toscana – cha ha istituito una vera e propria Autorità per la partecipazione e della Regione Emilia‐Romagna, tra altre) i metodi partecipativi vengono utilizzati per coinvolgere i cittadini in decisioni che hanno un elevato impatto sulla comunità locale (su tematiche come ad es. la costruzione di infrastrutture sul territorio).

Una riflessione più approfondita su metodi ed ambiti è rintracciabile nell’articolo Partecipazione e cittadinanza: uno sguardo metodologico. La proposta di questo articolo è quella di applicare alcune metodologie ed i principali assunti dell’approccio partecipativo al contesto della formazione. Ci porremo dunque due questioni fondamentali a cui rispondere in questa riflessione.

Partecipazione e Cittadinanza: uno Sguardo Metodologico. - Immagine: © AMATHIEU - Fotolia.com
Articolo consigliato: Partecipazione e Cittadinanza: uno Sguardo Metodologico

Perché l’approccio partecipativo nella formazione? Cosa dell’approccio partecipativo può essere utile in un contesto formativo, e a quali condizioni?

Rispetto alla prima domanda, l’approccio partecipativo è utile nella formazione perché consente di affrontare alcune problematiche storiche di tale ambito, tra le quali due fondamentali e tra loro connesse:

• La percezione di utilità: la formazione rappresenta un costo, dunque è importante per l’organizzazione che lo sostiene poter predire un certo ritorno dell’investimento (il ROI). Rispetto alla definizione e quantificazione di tale ‘ritorno’ al lavoratore e all’impresa, in termini di competenze e professionalità, si sollevano molte problematiche. Il ROI della formazione è infatti difficilissimo da quantificare. La domanda che si pone è: perché pagare un servizio che non so se mi è utile e rispetto ai cui esiti non possiedo parametri chiari di valutazione? Diverse tipologie di intervento formativo, sulla base della filiera in cui si collocano, del target, dei contenuti, dei metodi, hanno risposto in modo vario a tale domanda.

L’utilizzo dell’approccio partecipativo permette a mio avviso di rispondere: realizzo un percorso formativo perché l’applicazione di questo metodo mi garantisce che al termine otterrò un prodotto definito. Appiclare principi della partecipazione deliberativa implica in primo luogo che fin dalla fase di progettazione viene definita la tipologia di prodotto che ci si attende in esito al percorso. Il prodotto può consistere in una decisione, in linee guida, in proposte, ma può anche essere prodotto tangibile (cfr. esperienza UCMAN a seguire).

• L’effettività degli esiti. Gli esiti di un percorso partecipativo hanno un aspetto in comune, pur nella differenza di contenuti e interlocutori: sono sempre condivisi. Il metodo stesso è pensato per far emergere le diverse prospettive, tutte, e creare la migliore mediazione possibile tra esse, in modo da ottenere un risultato condiviso. Il fatto che il risultato/prodotto nasca dal contributo attivo di tutti i partecipanti aumenta esponenzialmente il livello di coinvolgimento di ciascuno rispetto ad esso. Non è un prodotto. È il mio prodotto, anche il mio. Sarà importante progettare, per percorsi formativi che utilizzino anche metodi partecipativi, momenti di follow up per verificare la persistenza nel tempo di tale coinvolgimento, e dunque l’effettività del cambiamento prodotto.

In merito alla seconda domanda, Cosa dell’approccio partecipativo può essere utile in un contesto formativo, e a quali condizioni?

Ritengo che i metodi partecipativi possano essere utili in ogni fase di un progetto formativo, e in particolare:

PArtecipare per apprendere. Tabella 1
CLICCA SULLA TABELLA PER VISUALIZZARE LA VERSIONE ESTESA

UN ESEMPIO:

Un esempio di utilizzo sperimentale di un metodo partecipativo nella formazione è dato dall’esperienza portata avanti nei primi mesi di quest’anno dall’Unione dei comuni modenesi (UCMAN) e dalla sua agenzia formativa Iride formazione, con mia consulenza (nell’anno precedente un intervento differente ma sempre realizzato con metodi partecipativi era stato portato avanti con la consulenza di A. Cacciani).

In questa occasione, il metodo è stato utilizzato prevalentemente nella fase centrale dell’erogazione formativa. Il prodotto/obiettivo finale era la co‐costruzione, con gli attori presenti sul territorio nei settori commercio e cultura, di un cartellone che comprendesse tutti gli eventi in previsione per il 2012 nei 9 Comuni dell’Area. Il committente aveva dunque chiaro fin dall’incontro preliminare il prodotto desiderato: anzi, la progettazione dell’intervento formativo e partecipativo è stata realizzata in vista di quel prodotto/obiettivo. Il lavoro di formazione e condivisione è servito per arrivare al prodotto e ‘riempirlo’ di contenuto.

L’esperienza presentata ci illustra come una condizione fondamentale perché tali metodi possano essere usati nella fase di erogazione della formazione è che il gruppo di apprendimento possieda già delle conoscenze/competenze in merito all’oggetto dell’approfondimento. In questo caso il metodo partecipativo permette di far circolare le conoscenze già presenti tra i partecipanti (eventualmente col supporto di esperti esterni, ma senza che il facilitatore della discussione entri nei contenuti oggetto del corso: il ruolo del facilitatore è proprio quello di far emergere dai partecipanti le opinioni e le riflessioni). Questa condizione non è necessaria invece nel caso in cui il metodo sia utilizzato per rilevare le aspettative dei partecipanti.

Infine, una seconda ed ultima condizione fondamentale è che il percorso formativo preveda effettivi ed ampi margini di libertà per il progettista: se l’analisi del fabbisogno è già stata realizzata, o gli obiettivi sono ormai definiti, utilizzare un metodo partecipativo solo come attivatore dell’attenzione rischia di farlo assomigliare ad un gioco. Perdendo dunque la componente metodologica, e molti dei risultati. Infatti, se un importante risultato dell’utilizzo di questi metodi è il coinvolgimento attivo dei partecipanti nelle decisioni assunte insieme, questo risultato decade laddove al termine dell’incontro partecipativo non si vedano esiti concreti (che si tratti della ridefinizione dei contenuti del corso, o delle strategie formative, o altro ancora…).

 

 

 

RIFERIMENTI PER APPROFONDIRE:

Fruits, Vegetables, Antioxidants and Popcorn?

 

 I recently received this notice and thought it was worthwhile to share with the State of Mind community.

Fruits, Vegetables, Antioxidants and Popcorn? - Immagine: © Frog 974 - Fotolia.com

Polyphenols are much more abundant in popcorn than in fruit and vegetables. The levels are similar to those found in nuts, and up to 15 times higher than quantities found in other whole-grain foods.

Many people are aware of the beneficial health effects of eating fruits and vegetables. One reason for this is that they are a good source of antioxidants called polyphenols. Research has shown that polyphenols are anti-inflammatory, anti-tumor and help prevent heart disease (Scalbert et al. 2005). While fruits and vegetables are high in these healthy antioxidants, did you know that popcorn is also loaded with polyphenols?

In an interesting presentation at the National Meeting & Exposition of the American Chemical Society, Chemistry Professor Joe Vinson, Ph.D., of the University of Scranton explained that popcorn is approximately 4 percent water, compared to 90 percent in most fruit and vegetables (Vinson, 2012). This means that polyphenols are much more diluted in the fruit and veggies compared to popcorn.

No recipes for treating eating disorders. Image: © kikkerdirk #27366320 -
Recommended Article: Science does not offer recipes for treating eating disorders.

The researchers found that polyphenols were much more abundant in popcorn than they had expected. They explained that levels were similar to those found in nuts, and up to 15 times higher than quantities found in other whole-grain foods. The team also found that popcorn hulls have the highest polyphenols concentrations and are rich in fiber.

In order to have a healthy diet, you cannot replace fresh fruits and vegetables with popcorn, Dr. Vinson stressed. Popcorn does not contain several other key nutrients present in fruit and veggies.

However, popcorn may be the perfect snack food, as it’s the only snack that is 100 percent unprocessed whole grain. One serving of popcorn will provide more than 70 percent of the daily intake of whole grain but it’s important to remember that everything is better in moderation. This study assumes you are eating a single serving of popcorn without salt or butter, leading to a mere 93 calories per serving.

How the popcorn is prepared can considerably alter the popcorn’s health benefits. Oil, butter and salt dilute the health benefits of popcorn by adding fat and even doubling its calories. Your best bet is air-popped popcorn made with a hot air popper without any oil, but if plain popcorn sounds too bland, consider adding spices or herbs to improve its flavor. Mist the popcorn with a touch of water or a healthy oil like olive or canola then toss in flavorings like chili powder, cinnamon, curry powder, dried dill or a teaspoon of grated parmesan cheese.

 

 

BIOGRAFIA:  

  • Scalbert, A., Johnson, I, T,. Saltmarch, M. (2005). Polyphenols: antioxidants and beyond. The American Journal of Clinical Nutrition, 81, 1, 2155-2175. DOWNLOAD
  • Vinson, J. (2012, March). The snack with even higher antioxidants levels than fruits and vegetables. Presentation at the 243rd National Meeting & Exposition of the American Chemical Society, San Diego, Calif.

 

Popcorn: The snack with even higher antioxidant levels than fruits and vegetables

Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. Psiche & Legge #1

PSICHE & LEGGE 

Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. #1

Psiche e Legge: la nuova Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

 

PSICHE & LEGGE   Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. #1Cosa si intende per sanità mentale (sotto il profilo penale) e cosa accade al criminale, se viene dichiarato non imputabile? 

La definizione di sanità mentale – seppur prettamente inerente al contesto medico-scientifico – assume un’estrema rilevanza anche nel mondo del diritto, ed in particolar modo, all’interno del processo penale. L’articolo 85 del nostro codice, infatti, prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile”, e che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

È evidente, dunque, come l’accertamento della salute psichica del presunto criminale – indagato, imputato, e dunque sospettato di aver commesso un reato – sarà perno di un quadro processuale ove dovrà decidersi se questi (in caso di accertata responsabilità penale) possa esser destinatario della sanzione prevista dal sistema giuridico. Tale rilievo fa presagire, anche ai non “addetti ai lavori”, la netta distinzione tra capacità penale, responsabilità penale e imputabilità.

State of MInd - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Giornata Mondiale della Salute Mentale – 10 Ottobre 2012

Nello specifico, la prima va intesa come capacità di essere considerati soggetti di diritto penale (propria di ogni individuo, a prescindere da fattori legati a età, stato mentale o immunità); la seconda, invece, indica l’attribuibilità di un determinato reato al suo autore, il quale – si badi – ne sarà ritenuto responsabile solo ove si accerti che l’azione delittuosa sia frutto di una sua condotta dolosa o colposa (artt. 42 e 43 c.p.). Occorrerà, allora – al fine di ritenere il reo penalmente responsabile del fatto commesso – far luce sul cd. animus necandi, posseduto al momento dell’atto criminale. L’azione o l’omissione integrante il crimine, andrà, perciò, rapportata alla coscienza e volontà dell’autore, e dunque, al concreto dominio dell’atto.

In via esemplificativa, dovrà valutarsi se il reato compiuto sia stato mosso da reale volizione. Si inserisce, in tale opera di analisi, l’indagine sulla sussistenza della responsabilità penale del reo. E ci si chiederà: quale “tipo” di volizione lo ha animato? Ha voluto l’evento e dunque ne risponderà a titolo doloso, o non l’ha intenzionalmente provocato, ma poteva prevederlo ed evitarlo, e dunque ne risponderà a titolo colposo, per aver agito con imprudenza, imperizia o negligenza?

Offrendo un responso a tali quesiti, balza agli occhi la struttura dell’iter criminis che, come insegna la dottrina penalistica, si snoda in quattro fasi:

  • Ideazione del reato nella psiche del soggetto; la Preparazione: studio delle modalità di realizzazione e reperimento dei mezzi;
  • Risoluzione: concretizzazione, con atti esecutivi, dell’idea criminosa;
  • Perfezione: il reato si compie;
  • Consumazione: il crimine raggiunge la massima gravità.

È palese che, se il reato consegue ad un impulso ideativo, andrà vagliato lo stato psichico posseduto dal soggetto in quel preciso istante, così da comprendere se la scelta di commettere il delitto sia stata formulata dal reo nella piena sanità mentale, o in un momento di follia.

Solo nel primo caso, l’“indagine sulla mente criminale” lo definirà “imputabile” (dunque “capace alla pena”). Imputabilità fondata, secondo i primi studiosi del diritto, sul libero arbitrio (Scuola Classica, che riteneva la pena una sorta di “castigo” per il male consapevolmente arrecato) o sul principio di causalità (Scuola Positiva, i cui dettami ravvisavano nel delitto il “risultato” di fattori antropologici, fisici e sociali).

ARTICOLI DI PSICOLOGIA & FILOSOFIA

Distante da ambo le tesi, è quella dell’odierno Codice che – a differenza del precedente testo Zanardelli, nel cui ambito la punibilità del reo coincideva con assenza di uno “stato di infermità di mente” tale “da toglierli la coscienza o la libertà dei propri atti” – abbraccia una più estesa definizione di imputabilità, intesa come capacità giuridica di soggiacere a pena e capacità sostanziale d’intendere e volere.

Ma quando la legge considera un uomo in grado di intendere e volere? La domanda trova agile risoluzione, ove si proceda a ritroso, soffermandosi sulle cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità: minore età, infermità mentale, sordomutismo, ubriachezza, cronica intossicazione da alcool o stupefacenti. In questa sede, però, ci soffermeremo solo sull’infermità psichica. La definizione di malattia di mente – che Ippocrate motivava con squilibri fisici – oggi si desume dalla più generale nozione di “salute” fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la disegna come “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità.

La descrizione dell’Uomo Sano, inerisce, dunque, ad uno status connotato da equilibrio dell’umore, integrità della sfera cognitiva e comportamentale, capacità di relazionarsi con l’esterno, esplicare le abilità cognitive ed emozionali, soddisfare le esigenze quotidiane, risolvere in maniera costruttiva eventuali conflitti interni. Così – se la patologia è alterazione della “norma” – l’attività diagnostica farà riferimento ai parametri di “normalità” inerenti la statistica, l’interazione fra la predisposizione allo sviluppo di un disturbo (diatesi) e un evento negativo o una particolare condizione ambientale/esistenziale che funga da agente scatenante (stress), o relativi alla presenza di patologie mentali, quali psicosi e nevrosi.

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.com
RUBRICA CONSIGLIATA: Un Giorno di Ordinaria Follia. Psichiatria Pubblica, Lettere dal Fronte.

È noto, poi, in sede valutativa, come il DSM IV (Diagnostic Statistic Manual) faccia riferimento a parametri descritti in cinque assi: Disturbi Clinici, Disturbi di Personalità e Ritardo Mentale, Condizioni Mediche Generali, Problemi Psicosociali e Ambientali, Valutazione Globale del Funzionamento. Senza pretesa di divulgare informazioni proprie della scienza medica – con cui il legale si rapporta quotidianamente nella predisposizione delle strategie processuali – si rilevi come i giudici si siano spesso divisi nel tratteggiare l’esatto ambito della malattia mentale, atta ad escludere o far scemare l’imputabilità. Del resto, Sigmund Freud insegnava che in ogni persona c’è un lato oscuro: ciascuno “ha istinti aggressivi e passioni primitive che lo portano allo stupro, all’incesto e all’omicidio e che sono tenute a freno in maniera imperfetta, dalle istituzioni sociali e dai sensi di colpa”. Non resterà, dunque, nel tracciare il profilo del non imputabile, che far tesoro degli insegnamenti mutuati dalla psichiatria forense. Se fino al XVII secolo, la medicina riteneva le patologie mentali delle possessioni diaboliche, fu solo nel Novecento che la psichiatria divenne scienza clinica, e la malattia mentale assunse un ruolo cardine in seno alla disciplina dell’imputabilità.

Si noti, inoltre, come la malattia mentale/infermità (termini adottati, rispettivamente, dalla psicopatologia forense e dal legislatore) vennero, nel tempo, prima collegate ad un modello nosografico (che ne ravvisò la sussistenza solo in costanza di catalogate patologie biologiche, del cervello o del sistema nervoso), e poi incardinate in letture psicologiche (con estensione dell’alveo a psicosi o nevrosi) o sociologiche (legate al contesto di vita del malato).

Tale evolversi della nozione scientifica di malattia mentale, improntò necessariamente le sentenze dei giudici in tema di imputabilità, che – sull’onda delle richiamate correnti – inizialmente riconobbero l’infermità mentale dell’indagato/imputato solo ove affetto da patologie riconosciute dalla cd. psichiatrica biologica, per poi valorizzare anche gli stati di indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica (Cass. n. 8483/74), ed i disturbi della personalità, tanto gravi da incidere sulla capacità d’intendere e volere del reo (Cass., Sez. Un., n. 9163/05).

L’anomalia mentale, dunque, anche se transitoria, potrà valere a rendere l’individuo non assoggettabile a pena – o destinatario di pena ridotta – solo ove l’alterata coscienza si sia elevata a rango di “vizio di mente” totale (il reo, nel commettere il delitto, era incapace d’intendere e volere. Egli non è imputabile) o parziale (lo stato d’infermità era tale da scemare nettamente la capacità, senza escluderla. Egli è imputabile, ma ha diritto a minor pena). Un discorso a parte, infine, dovrà dedicarsi all’influenza degli “stati emotivi e passionali (che, ai sensi dell’art. 90 c.p., “non escludono, né diminuiscono l’imputabilità”), sui quali ci soffermeremo nella prossima rubrica, quando tratteremo anche del disturbo borderline, della gelosia patologica e dell’incidenza di tali stati sulla condanna penale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Come la risposta cognitiva a situazioni di parziale successo influenza il tono dell’umore e la valutazione globale di sé: il Self-Discrepancy Monitoring

Congresso SITCC 2012 Roma

 

Come la risposta cognitiva a situazioni di parziale successo influenza il tono dell’umore e la valutazione globale di sé:
il ‘Self-Discrepancy Monitoring’

S.Sgambati, G. Caselli, A.Decsei-Rodu, F. Fiore, C. Manfredi, S. Querci, D. Rebecchi, G.M. Ruggiero, S. Sassaroli

ARTICOLI SU SELF DISCREPANCYDEPRESSIONE  

 

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Depressione & Uso di Internet negli Studenti Universitari

di Elena Lucchetti

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Associazione tra depressione e utilizzo di Internet in studenti universitari mediante l’impiego di autentici dati informatici.

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La depressione è una patologia dell’umore che affligge grande parte della popolazione. In particolar modo, l’incidenza di questo disturbo negli studenti universitari sta progressivamente aumentando. Negli Stati Uniti la percentuale varia dal 10% al 40%. Sebbene per la depressione vi siano trattamenti efficaci, chi ne è affetto spesso non riconosce i sintomi o è riluttante ad intraprendere la terapia, con gravi conseguenze per l’impatto sulla salute, come ad esempio la perdita dell’appetito, problemi di sonno, fatica, ansia e attacchi di panico. Inoltre, le conseguenze possono riguardare i risultati scolastici scarsi, la riduzione delle performance di lavoro e alti tassi di abbandono scolastico.

Alcuni studi hanno dimostrato che gli studenti con sintomi depressivi usano internet in quantità maggiori rispetto a coloro che non hanno sintomi, soprattutto quando le attività praticate erano di tipo ludico (ad esempio shopping, gioco d’azzardo online e chat).

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L’uso eccessivo di internet permette agli studenti di rimpiazzare le interazioni della vita reale con una socializzazione informatica, aumentando però l’isolamento sociale e l’ansia nel loro ambiente fisico.

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
Articolo Consigliato: I Mille Volti della Dipendenza

Il Missouri University of Science and Technology (Missouri University S&T) ha condotto, nel 2011, un esperimento della durata di un mese in cui era presa in considerazione l’associazione dei sintomi depressivi tra gli studenti universitari con i dati reali dell’utilizzo di Internet . I dati sono stati raccolti all’interno della rete del Campus, in forma riservata e in modo da preservare la privacy.

Il campione della ricerca è composto da 216 studenti appartenenti alla Missouri University S&T. Lo screening è stato fatto utilizzando la scala Center for Epidemiologic Studies Depression (CES-D), ideata e sviluppata da Leonore Radloff, il cui cut off ≥ 16 indica la presenza di sintomi depressivi. L’analisi statistica fatta ha messo in correlazione l’uso di internet con il punteggio al CES-D per la depressione.

Mentre, negli studi precedenti, i dati forniti sull’uso di Internet erano riferiti direttamente dagli studenti stessi, quindi l’autovalutazione era suscettibile a desiderabilità sociale e poneva limiti alla medesima ricerca, nell’esperimento attuale è stato risolto il problema mediante l’impiego del Cisco NetFlow Data ( un protocollo di rete per la raccolta di informazioni di traffico IP).

L’analisi successiva ha rivelato che diverse caratteristiche di utilizzo di Internet quali l’indirizzo IP di origine, indirizzo IP di destinazione, porta di origine, porta di destinazione, il protocollo, ottetti, pacchetti e durata mostrano una differenza statisticamente significativa nei valori medi tra i gruppi con e senza sintomi depressivi.

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 Per entrare nello specifico e dare un’interpretazione pratica dei risultati ottenuti si nota che giocare e guardare video on line siano comuni sintomi di una dipendenza da internet (Internet Addiction) e legati ai sintomi depressivi. Anche la condivisione di file musicali, film, foto e così via può condurre ad una dipendenza dallo strumento informatico e di conseguenza allo sviluppo di depressione. L’uso eccessivo di chat causa nei giovani l’isolamento sociale e la solitudine nel loro mondo. Tuttavia, le persone che soffrono di depressione usano le “Depression Chat Rooms” per ridurre i loro sentimenti di isolamento e questo potrebbe spiegare i livelli significativamente alti di utilizzo.

Inoltre, statisticamente è stato mostrato che il controllo e l’uso eccessivo dell’email è correlato a sintomi depressivi e alti livelli d’ansia; ciò può essere identificato in un disturbo di tipo impulsivo-compulsivo. Anche la difficoltà di concentrazione e di presa di decisioni sembra essere un sintomo di depressione tra gli studenti. Infine, il frequente cambio delle molteplici applicazioni può riflettere la ricerca di emozioni più forti quando sopraggiunge la noia e la disperazione: cercare qualcosa come un articolo interessante, una email o un video gradevole diviene un momentaneo momento di piacere e di umore più alto.

Lo studio può essere esteso ad altre disturbi mentali o alla progettazione di un intervento che utilizza Internet come mezzo contro la depressione stessa. 

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BIBLIOGRAFIA: 

  • Kotikalapudi, R, Chellappan, S., Montgomery, F., Wunsch, D. & Lutzen, K. (2012). Associating Depressive Symptoms in College Students with Internet Usage Using Real Internet Data. IEEE Technology and Society Magazine. (DOWNLOAD FULL ARTICLE PDF)

Intervista a Bruno Bara sul XVI Congresso Nazionale SITCC

 

 

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-ComportamentaleDirettamente dal XVI Congresso Nazionale SITCC, State of Mind intervista in esclusiva Bruno Bara.

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State of Mind: All’inaugurazione di questo XVI Congresso Nazionale si è parlato molto delle differenti correnti all’interno della SITCC. Secondo Lei sono un punto di forza o di debolezza per la Società?

Bara: Io sono tra quelli che sostengono che la forza della SITCC sta proprio nel fatto che noi abbiamo tutte queste diverse anime, questi diversi modi di fare terapia che sono sempre stati la nostra ricchezza. Mi sembra che tutte quante poi si riportino al principio base di cercare, almeno in linea di principio, un’evidenza empirica che supporti qualunque dichiarazione astratta e penso che siano tutte preziose. La forza nostra è sicuramente stata quella di aver resistito alla tentazione di fare microsocietà. 

 

State of Mind: Qual è lo stato attuale della ricerca, in Italia, per quanto riguarda le correnti costruttiviste?

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
Articolo Consigliato: L’infertilità di Coppia in un’Ottica Costruttivista -SITCC 2012

Bara: In Italia è difficile portare avanti  grandi exploit innovativi. Nel mondo invece, per esempio nella scienza cognitiva – che è ciò di cui mi occupo (mi occupo essenzialmente di mente e  cervello impegnati nella comunicazione) – nell’ambito costruttivista ci sono due grandi  filoni che si dividono il campo: quelli che studiano fenomeni oggettivabili (tipo registrazioni, testi scritti e simili) e quelli che studiano tutte le situazioni ecologiche di interazione umana. Tendenzialmente tutto l’approccio che lavora sull’ecologia usa uno stile, una modalità, un’epistemologia più legata al costruttivismo e da lì discendono tutta una serie di lavori che si applicano indirettamente anche alla clinica, perchè l’interazione tra le persone copre anche l’empatia, l’aspetto emotivo, etc.

Quindi in generale l’approccio costruttivista nel mondo rappresenta oggi, nell’ambito delle cose di cui mi occupo io, cioè la comunicazione normale e patologica, un buon 50% del lavoro. In Italia che ci occupiamo di queste cose in termini scientifici saremo una ventina di persone. 

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State of Mind: cosa ne pensa del Congresso? Come sta andando?

Bara: per me i Congressi SITCC sono un’occasione per vedere persone, i miei colleghi, i giovani che magari presentano…quindi non sono un buon testimone, sono affettivamente sbilanciato, mi diverto sempre tantissimo. Non è come quando vado ad un convegno all’estero, non assumo un atteggiamento critico. Certo si imparano cose nuove, ma più che l’aspetto culturale per me è forte questo aspetto di piacere.

 

State of Mind: qual è l’aspetto più interessante  dal punto di vista dei contenuti, che è emerso finora in questo Congresso?

Bara: per me è l’EMDR, il modo in cui i teorici dell’EMDR spiegano il processo e la correlazione tra questo fenomeno molto preciso, molto specifico, la tecnica che da questo deriva e l’ulteriore allargamento alla terapia. Ecco, io quell’ora lì [di sessione] l’avrei fatta diventare un’intera mattinata sull’argomento; sarebbe stato secondo me molto interessante. 

 

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L’impatto del Trauma Infantile sulla Salute e sulla Malattia. L’ Epidemia Nascosta – Recensione

 

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L'impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia-Copertina
L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (2012). Giovanni Fioriti Editore

 

Recensione dell’edizione italiana de L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia – L’epidemia nascosta (2012) di Lanius, Vermetten e Pain.

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Negli ultimi anni numerose ricerche cliniche ed epidemiologiche hanno mostrato con dati solidi e convincenti la frequenza incredibilmente alta di esperienze traumatiche vissute nel periodo dell’infanzia e della fanciullezza ed il peso del loro impatto sul successivo sviluppo della persona.

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Il concetto di trauma è stato ampiamente esplorato ed approfondito, dando origine a interessanti concettualizzazioni teoriche e ad una notevole mole di dati provenienti da vari ambiti, dalla biologia alla psicoterapia, dall’epidemiologia alla medicina internistica.

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Il libro di Lanius, Vermetten e Pain, di cui quest’estate è stata pubblicata la versione italiana, a cura di Giovanni Tagliavini e con prefazione di Giovanni Liotti e Benedetto Farina, rappresenta una rassegna aggiornata e completa delle recenti conoscenze su questo tema.

Merito degli autori, come viene anche sottolineato nella prefazione italiana, è certamente l’essere riusciti a mantenere unità e coerenza nella trattazione, pur nella varietà dei contributi e delle prospettive.

Suddiviso in 3 sezioni, ognuna della quali è composta da 2 parti, il libro analizza, infatti, in maniera approfondita gli aspetti storici ed epidemiologici del trauma, i suoi effetti sulla salute mentale e fisica, gli esiti psicobiologici nei bambini e in età adulta, fino ad arrivare alle prospettive cliniche di valutazione e cura dei disturbi dello spettro traumatico.

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Un punto importante, messo in evidenza anche dal sottotitolo, riguarda la necessità di ampliare e meglio specificare il concetto di trauma: oltre alle violenze fisiche, agli abusi sessuali e ai gravi maltrattamenti emotivi,un ruolo di primo piano nella genesi della psicopatologia è svolto dalle esperienze di negligenza grave (neglect), in cui il bambino è lasciato completamente solo e non protetto di fronte alle esperienze quotidiane di pericolo e sofferenza, dalle più piccole a quelle più importanti, che il bambino non è in grado di affrontare e gestire senza l’intervento ed il sostegno di un adulto.

42 - Gianni Liotti - STATE OF MIND & Studi Cognitivi - EABCT 2012 Genève. Pictures from the Congress - © 2011-2012 State of Mind All rights reserved
Articolo Consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Ricerche epidemiologiche rivelano che questo tipo di esperienze rappresentano più del 50% dei maltrattamenti subiti nel corso dello sviluppo, e che dunque ci troviamo di fronte ad una vera e propria “epidemia nascosta”.

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Fenomeni dissociativi, alterazione della regolazione emotiva, la presenza di ricadute pur dopo un periodo di miglioramento in seguito al trattamento, ed una prognosi negativa sono fra le maggiori conseguenze messe in evidenza da vari studi.

Punto di partenza importante di questa riflessione è certamente l’Adverse Childhood Experience (ACE) Study, che ha contribuito in maniera sostanziale a far emergere un fenomeno sempre più difficile da ignorare e ha il merito di aver sottolineato l’effetto negativo in particolare delle esperienze traumatiche cumulative. Questa indagine epidemiologica di vastissime proporzioni (con un campione di oltre 17000 soggetti) ha evidenziato, al di là di ogni dubbio, come tali storie di sviluppo costituiscano un fattore critico rispetto al manifestarsi ed alla prognosi di disturbi psichiatrici, malattie somatiche e comportamenti come l’abuso di sostanze e comportamenti sessuali a rischio.

Nei vari capitoli viene messo in evidenza come la presenza di traumi ripetuti durante il periodo dello sviluppo abbia un notevole impatto non solo a livello psicologico, ma anche a livello biologico con esiti negativi e profondi sullo sviluppo cerebrale, conducendo a disabilità sociali, emotive e cognitive, e sui sistemi neuroregolatori che mediano le malattie somatiche.

Le ferite restano nel corpo e gli autori ne mettono in evidenza le sequele in termini di malattie internistiche, senza contare le imponenti ricadute a livello sociale.

Le proporzioni di questo fenomeno sono tali da rappresentare una vera e propria emergenza sanitaria e sociale, anche in considerazione dei costi necessari per gestirne le conseguenze a breve e lungo termine.

L’ultima parte del volume è dunque dedicata ad alcune proposte di trattamento volte a ridurre l’impatto delle esperienze traumatiche precoci.

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Nonostante la specificità di ogni singolo modello di trattamento, Astrachan, Bernardes e Herman nella loro sintesi ben evidenziano come sia possibile rilevare alcune aree comuni.

Innanzi tutto è necessario affrontare il paradosso della sicurezza: al paziente viene richiesto di raggiungere un certo grado di sicurezza e fiducia nella relazione terapeutica, premessa indispensabile per ogni tipo di lavoro clinico, laddove è proprio la sicurezza nelle relazioni interpersonali ad essere stata pesantemente minata dalle loro pregresse esperienze traumatiche. 

Altro punto fondamentale riguarda il lavoro sulle emozioni: è necessario fare i conti con la pervasiva alterazione della capacità di regolazione emotiva di questi pazienti e dare spazio non solamente alla paura, ma anche ad altri tipi di emozioni, prima fra tutte la vergogna.

I diversi autori cercano di dare una risposta a queste e ad altre sfide del trattamento di pazienti con esperienze precoci traumatiche, adattando vari modelli terapeutici alle specificità di questa nuova sfida.

Per l’ampiezza di respiro, la completezza e l’impostazione evidence-based è un libro di fondamentale importanza non solo per chi si occupa di trauma, ma per tutti coloro che a qualunque titolo hanno a che fare con la salute di adulti e bambini, raccogliendo efficacemente una sfida sempre più pressante: ormai non possiamo più permettere che questa epidemia resti nascosta ed è necessario munirci di strumenti adeguati per far fronte alle numerose e specifiche difficoltà che presentano la prevenzione, la presa in carico e la cura di questi sviluppi traumatici.

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BIBLIOGRAFIA: 

Attento a come parli! L’Effetto Nocebo

 

Attento a Come Parli! Il Nocebo Effect. - Immagine: © T. L. Furrer - Fotolia.comInformare il paziente può nuocere gravemente alla salute.

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Ultimo di una serie di suggestivi contributi sull’argomento, arriva nel panorama scientifico un interessante articolo pubblicato su JAMA (Colloca, 2012), che ci spiega meglio il ruolo delle parole nella comunicazione clinico-paziente e i suoi effetti sulle nostre percezioni.

Sembrerebbe che aspettative negative sulla malattia, derivanti dalle spiegazioni di un clinico (medico, psicologo, infermiere,..) rispetto a sintomi, effetti collaterali, progressione del disturbo e così via, possano contribuire significativamente alla comparsa o al peggioramento dei sintomi stessi: il fenomeno è noto come Nocebo.

LEGGI L’EFFETTO PLACEBO E NOCEBO SULLA PSICOPEDIA DI STATE OF MIND 

Per Nocebo si intende dunque la comparsa di un sintomo indotto dalle aspettative negative del paziente stesso e/o da suggerimenti negativi (involontari) dati dallo staff medico, in assenza di un quadro clinico di oggettivo peggioramento o di altro tipo di trattamento. Un placebo al contrario, insomma, che può avere effetti negativi sulla qualità della vita dei pazienti, sull’aderenza alla malattia e sull’efficacia del trattamento ricevuto.

LEGGI GLI ARTICOLI SU LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

Pillole o Parole?
Articolo consigliato: Pillole o Parole?

I meccanismi psicologici sottostanti sembrano essere l’apprendimento tramite condizionamento pavloviano e l’ansia anticipatoria generata dalle aspettative negative, proprie o indotte dalla comunicazione del clinico. In uno studio sperimentale di qualche anno fa (Pfingsten, 2001), 50 pazienti affetti da dolore cronico sono stati divisi casualmente in due sottogruppi prima di un test di flessione della gamba: uno gruppo è stato informato che il test avrebbe prodotto un lieve incremento del dolore, l’altro ha ricevuto informazioni neutre sulla procedura. Risultati: il gruppo che ha ricevuto informazioni negative ha riportato un significativo aumento dell’intensità del dolore e una performance ridotta nella capacità di flessione della gamba. La potenza del nocebo, ha inoltre riscontro nel funzionamento cerebrale: i circuiti neurali coinvolti infatti riguardano il metabolismo della dopamina e degli oppioidi endogeni, entrambi coinvolti nella percezione del dolore, e centrali dunque sia nel nocebo che nel gemello più noto, il placebo. A conferma di questo dato le neuroscienze ci dicono che il cervello si attiva nello stesso identico modo sia durante la percezione di un dolore fisico intenso, sia quando questo dolore è solo rappresentato nella mente (Colloca, 2012): insomma chiudere il dito nella portiera della macchina o immaginare la scena, attivano le stesse aree cerebrali e l’esito, nel tempo, potrebbe essere la percezione del dolore in assenza dell’esperienza sensoriale vera e propria!

 In condizioni di minaccia o di paura, come succede quando si ha una qualche malattia, le informazioni negative vengono assorbite in modo più rapido e preciso rispetto a quelle positive, quindi un’eccessiva quantità di informazioni solo negative può peggiorare significativamente lo stato d’ansia del paziente e far aumentare dunque anche i sintomi. Il dolore cronico è una delle condizioni cliniche in cui il nocebo si manifesta in modo più evidente e costituisce spesso il meccanismo di base responsabile della cronicizzazione del dolore stesso.

Come superare dunque il dilemma etico legato all’indiscutibile diritto del paziente ad essere informato? Ecco alcuni suggerimenti negativi molto frequenti e da evitare nella comunicazione clinico-paziente (Hauser, 2012):

Con il paziente, evitare: 

  • Frasi che causano incertezza: “Il trattamento potrebbe funzionare”, “Proviamo questo farmaco!”
  • Espressioni gergali: “Durante l’esame (tomografia) il suo cervello sarà tagliato in piccole fettine e poi analizzato successivamente!”
  • Frasi ambigue: “Tra poco la faremo addormentare e non sentirà più nulla”
  • Enfatizzare aspetti negativi: “Deve assolutamente evitare di sollevare oggetti pesanti, se non vuole finire paralizzato!”
  • Focalizzare l’attenzione: “Alzi la mano se sente dolore!”, “Ha nausea?”
  • Negazione del sintomo: “Non deve preoccuparsi, sanguinerà solo un po’”

Una ricetta per tutti?..Dare il giusto peso alle parole!

 

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BIBLIOGRAFIA:

SITCC 2012 – Ruminazione e Craving nei disturbi da uso di Alcol: un disegno sperimentale

Congresso SITCC 2012 Roma

 Ruminazione e craving nei disturbi da uso di alcool: un disegno sperimentale

S.Querci*, A. Gemelli*, G. Caselli**, F. Canfora*, A. Lugli*, C.Annovi***, G.M.Ruggiero*, S.Sassaroli*, E.Watkins****

* Studi Cognitivi, Cognitive Psychotherapy School, Italy – ** London South Bank University, UK – *** AUSL Modena – ****University of Exeter

 ARTICOLI SU CRAVINGDIPENDENZEALCOLRIMUGINIO & RUMINAZIONE  

 

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Autismo & Comunicazione Referenziale nei Bambini: Quale Relazione?

di Marina Morgese

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

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Un recente studio mette in luce una relazione tra misure di comunicazione non verbale nei bambini di otto mesi di età e sintomi di autismo.

Secondo precedenti studi circa il 19% dei bambini con un fratello a cui è stato diagnosticato il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) sviluppa i sintomi a causa della genetica e dell’ambiente. Per questo motivo, gli psicologi dell’Università di Miami (UM) lavorano allo sviluppo di un metodo per prevedere nei primi anni di vita il presentarsi di ASD in bambini ad alto rischio.

In recente studio si è cercato di mettere in luce una relazione tra le misure di comunicazione non verbale nei bambini, di appena otto mesi di età, e i sintomi dell’autismo, che diventeranno poi evidenti entro il terzo anno di vita.

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa? COST Action project Enhancing the Scientific Study of Early Autism (ESSEA)
Articolo Consigliato: Che Trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa?

Prima di imparare a parlare, i bambini comunicano in modo non-verbale, attraverso il contatto con gli occhi e i gesti, tramite una comunicazione di tipo referenziale. Queste abilità sono già presenti all’età di otto mesi. I deficit di comunicazione referenziale sono caratteristici dei bambini più grandi con ASD, spiega Caroline Grantz, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia presso l’Università di Miami.

Nella ricerca in questione, un team di psicologi ha testato due gruppi di bambini: un gruppo composto da bambini ad alto rischio per ASD (con fratelli con diagnosi di autismo) e un gruppo composto da bambini a basso rischio. Le sessioni valutative hanno avuto una durata di 15-20 minuti e sono state effettuate a 8, 10, 12, 15 e 18 mesi di età dei bambini. Il team ha misurato lo sviluppo di tre forme di comunicazione non verbale:

  • Iniziativa di Attenzione Congiunta – il modo in cui un bambino mostra ad un partner l’interesse per un oggetto o un evento (ad esempio, puntando lo sguardo verso un giocattolo);
  • Avvio Richieste Comportamentali – il modo in cui un bambino richiede l’aiuto di un partner per ottenere un oggetto (per esempio raggiungendo, indicando, o dando all’esaminatore un giocattolo desiderato);
  • Risposta all’Attenzione Congiunta – il modo in cui i bambini rispondono e seguono il comportamento di un partner (ad esempio, l’esaminatore punta il dito verso qualcosa e il bambino segue con lo sguardo). 

 I risultati mostrano che bassi livelli di Iniziativa di Attenzione Congiunta e di Avvio Richieste Comportamentali tra gli 8 ei 18 mesi sono predittivi della gravità dei sintomi di ASD per i bambini che hanno un fratello con autismo. In particolare, i bambini con i più bassi tassi di Iniziativa di Attenzione Congiunta ad 8 mesi hanno mostrato minore impegno sociale con un esaminatore a 30 mesi.

Un tale risultato, sebbene meriti di essere avvalorato da ulteriori ricerche, si può considerare un grande passo avanti per la terapia dei bambini con autismo: lo stesso Daniel Messinger, professore di Psicologia presso l’università di Miami e uno degli autori dello studio, specifica “Per i bambini ad alto rischio di sviluppare un ASD, interventi specifici orientati alla comunicazione nel corso dei primi anni di vita possono ridurre la gravità dell’impatto dell’autismo”.

Non sorprende dunque che lo studio sia stato finanziato dal National Institute of Child Health and Human Development, restiamo comunque in attesa di ulteriori ricerche.

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BIBLIOGRAFIA:

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