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Senso di Umiliazione: Cosa Comporta?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Tra le emozioni della rabbia, della tristezza, della vergogna e dell’umiliazione quest’ultima è sicuramente quella che chiunque non vorrebbe mai provare, ma quali sono le caratteristiche emotive dell’umiliazione, che effetti ha questa esperienza sulle relazioni sociali e che cosa distingue l’umiliazione dalla rabbia e dalla vergogna?

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Per dare una risposta a questi quesiti è stato condotto uno studio da Leidner, Sheickh e Ginges che si propone di investigare le esperienze di umiliazione, rabbia e vergogna in un contesto intergruppale e di valutare se questi stati emozionali siano associati alle sensazioni di offesa (rabbia provocata dalla percezione di una violazione di uno standard personale o universale), colpa (sensazione di essere responsabili di un evento) e impotenza (mancanza delle abilità necessarie per fronteggiare un problema). 

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Gli autori hanno definito 3 ipotesi: 

1) l’umiliazione è sicuramente uno stato emotivo simile alla vergogna, in quanto sono entrambe emozioni sociali che coinvolgono la sensazione di sentirsi inferiori rispetto agli altri; tuttavia, solitamente, la vergogna si associa ad una sensazione di meritarsi quello stato emotivo, mentre nel caso dell’umiliazione, si pensa di non meritare ciò e questo ci porta a supporre che l’umiliazione si accompagni meno alla sensazione di colpa, rispetto alla vergogna

2) un’altra differenza tra l’umiliazione e la vergogna riguarda gli aspetti situazionali: mentre la vergogna si può provare sia in situazioni pubbliche che private, l’umiliazione può essere esperita solo in situazioni pubbliche in cui è presente un pubblico e un’asimmetria di potere tra chi umilia e chi viene umiliato; questa considerazione ci induce a supporre che l’umiliazione sia caratterizzata da una sensazione maggiore di impotenza e di inferiorità rispetto alla vergogna

3) la terza ipotesi riguarda le differenze tra umiliazione e rabbia: sia la rabbia che l’umiliazione sono esperite quando riceviamo delle azioni ingiuste da parte di altri; tuttavia, si suppone che nel momento in cui si è umiliati ci si senta inferiori e impotenti e questo ci porterebbe a preferire l’inerzia al confronto, cosa che invece non accadrebbe quando si è arrabbiati. 

Allo studio hanno partecipato 213 soggetti di età compresa tra i 19 e i 63 anni, appartenenti a differenti etnie e minoranze sociali ed essi sono stati assegnati, in modo random, ad una delle 3 condizioni: rabbia, vergogna e umiliazione. Ai partecipanti è stato chiesto di ricordare e di descrivere una situazione emblematica, in cui si sono sentiti umiliati o arrabbiati o si sono vergognati per qualcosa. Successivamente è stato chiesto loro di descrivere le loro sensazioni ed emozioni, scegliendo tra alcune parole che consentivano agli autori di cogliere le sensazioni di colpa, offesa e impotenza. 

I risultati hanno messo in evidenza una chiara sovrapposizione tra l’umiliazione, la vergogna e la rabbia; tuttavia, si tratta di emozioni differenti. L’umiliazione è risultata associata a bassi livelli di colpa e alti livelli di offesa (come nel caso della rabbia, ma a differenza della vergogna) e alti livelli di impotenza (come accade per la vergogna, ma non per la rabbia): dunque, in caso di umiliazione, non ci si sente in colpa per l’accaduto, ma ci si sente offesi, inferiori ed impotenti rispetto agli altri. Inoltre, i risultati dello studio hanno confermato che l’umiliazione è spesso causa di inerzia; dunque, non genera né comportamenti antisociali (violenza) né prosociali (riconciliazione).

Ma come si gestisce, di solito, l’umiliazione e perché spesso i ricordi di questi eventi restano impressi nella memoria? La ricerca futura potrebbe dare una risposta a questi interrogativi. 

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BIBLIOGRAFIA:

Report dal 3° CONVEGNO INTERNAZIONALE AUTISMI LE NOVITA’ SU DIAGNOSI, INTERVENTO E QUALITA’ DELLA VITA

Report dal 3° CONVEGNO INTERNAZIONALE AUTISMI

LE NOVITA’ SU DIAGNOSI,

INTERVENTO E QUALITA’ DELLA VITA

15-16 OTTOBRE 2012, Palazzo dei Congressi, Riva del Garda (TN)

 

3° Convegno Internazionale AUTISMI Le novità su diagnosi, intervento e qualità di vita. Riva del Garda (Trento), 15 e 16 ottobre 2012 - anteprima

In linea con l’interesse già dimostrato da State Of Mind nei confronti del tema autismo, abbiamo partecipato con interesse a queste due giornate di convegno, suddivise in due sessioni plenarie e in  21 workshop di approfondimento.

ARTICOLI SU: DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO

Consapevoli dell’impossibilità di accennare a tutti i temi trattati cercheremo di riassumere ciò che più siamo state in grado di assimilare.

Michele Zappella, direttore scientifico di Autismo e disturbi dello Sviluppo, dà  il via alla prima giornata del convegno descrivendolo come un’occasione di confronto pubblico a 10 anni dalla nascita della rivista.

Gli interventi a seguire dei colleghi italiani ed internazionali, vertono su alcuni punti cardine:

Il cambiamento di definizione  da “autismo” a “autismi”, per sottolineare la distribuzione eterogenea e peculiare dei tratti autistici nei diversi soggetti.  Per questa ragione si preferisce parlare di una “dimensione autistica che rende la diagnosi non più dicotomica ma definibile lungo un continuum che considera i fattori di gravità, la combinazione di sintomi core, la comorbilità con disturbi psichiatrici e lo stadio di sviluppo;

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa? COST Action project Enhancing the Scientific Study of Early Autism (ESSEA)
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il progressivo aumento dell’incidenza dei disturbi dello spettro autistico nella popolazione europea e internazionale, con un’attenzione particolare alla necessità di standardizzare le misurazioni quantitative a livello internazionale;

l’interesse crescente nei confronti delle basi neurali e il neuroimaging nell’autismo. Il progresso dei metodi e strumenti di indagine delle aree cerebrali permettono di parlare di modello “developmental disconnection” (underconnectivity), quindi di un deficit del “sistema cervello” che consiste nel mancato sviluppo delle normali connessioni tra le diverse aree cerebrali;

ARTICOLI SU: NEUROSCIENZE NEUROPSICOLOGIA

– il progresso degli studi che indagano la relazione tra genetica e manifestazione dell’autismo. Ai fattori di rischio già ampiamente conosciuti, si aggiungono le mutazioni genetiche, le condizioni cliniche della madre, le cure di fertilità e i livelli di ossitocina al momento del parto;

– la valutazione di efficacia degli  interventi precoci ed intensivi ABA nei casi di ASD.
Christopher Gillberg, professore di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e Dirigente medico presso la Clinica di Neuropsichiatria infantile del Queen Silvia Children’s Hospital, presenta uno studio naturalistico in condizioni cliniche normali condotto su 208 bambini “autistici”, con sintomi che ricadono nella grande categoria E.S.S.E.N.C.E (Early Sympthomatic Syndroms Eliciting Neurodevelopmental Clinical Examination). Nonostante si tenda a pensare che un intervento intensivo e precoce possa dare i risultati migliori, le conclusioni dello studio affermano che non vi è una differenza significativa tra il gruppo di bambini trattati precocemente e con un training intensivo rispetto al gruppo di bambini trattati, sì precocemente, ma con un training di meno di 15 ore settimanali; i fattori che sembrano determinanti per un trattamento efficace sono la diagnosi precoce e la specificità del trattamento più che la sua intensità;

uno sguardo critico verso gli interventi psicoeducativi per l’autismo a scuola. Alla luce dei lavori presentati due anni fa , la situazione all’interno dell’istituzione scuola non sembra cambiata di molto e non in meglio. A fronte di una buona legislazione (L. 104/92), ciò che sembra essere il punto nodale è la mancanza di una formazione adeguata per coloro che si trovano ad interagire con il bambino con ASD all’interno della scuola.
Si ha poca familiarità con la costruzione di programmi individualizzati, con la considerazione del lavoro nel piccolo gruppo come risorsa e co-costruttore di apprendimento e con la consapevolezza che il bambino autistico non è un bambino con minori capacità ma un bambino con capacità diverse. In questo quadro poco incoraggiante, l’esperienza dell’Università di Trento, presentata da Paola Venuti rischia di rimanere una delle tante ottime prassi isolate.

Ed è proprio per diffondere il buon esempio che, tra i vari workshop a cui abbiamo partecipato, abbiamo deciso di dare spazio proprio a quello presentato dalla Prof.ssa Venuti dal titolo:

 “Alunni con disturbi generalizzati dello sviluppo e qualità inclusiva nella scuola”.

Il workshop presenta alcune esperienze che possono essere definite “buone prassi” che riguardano interventi psicoeducativi all’interno della scuola e fuori da essa. Le parole chiave attorno alle quali si snodano gli interventi presentati all’interno del workshop sono: inclusione, integrazione e formazione.

Inclusione poiché, come stabilito dalla legislazione vigente, si deve lavorare in un’ottica inclusiva cioè promuovendo interventi ed iniziative che  includano” il soggetto con DGS all’interno della realtà scolastica. Integrazione, poiché il soggetto con DGS ha il diritto di essere messo nella condizione concreta di integrarsi all’interno del contesto classe. Formazione del personale scolastico, di coloro che interagiscono con il bambino con DGS poichè da essa dipende la garanzia di successo degli obiettivi sopra citati.

Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca?
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Si tratta di tematiche importantissime che meritano un approfondimento che vada al di là delle sole etichette linguistiche. Perché si possa parlare di vera inclusione e integrazione è necessario avere chiara la cornice teorica di riferimento. Gli interventi devono avere l’obiettivo di favorire un maggior adattamento del bambino con DGS partendo dalle sue potenzialità e quindi sviluppando un progetto psicoeducativo che tenga conto della sua peculiarità. Non solo è fondamentale lo sviluppo dell’intervento ad hoc, ma è altresì importante l’adattamento del contesto classe al bambino con DGS; il lavoro con la scuola, con i compagni stessi è un punto cardine per l’efficacia di un progetto psicoeducativo.

Tutto ciò non sarebbe possibile se parallelamente non ci fosse una formazione professionale adeguata degli insegnanti. Tale formazione si focalizza sulle caratteristiche del singolo bambino con DGS e si sviluppa attraverso il lavoro con esperti che garantiscono un’adeguata supervisione nel corso di tutto l’anno scolastico.

La Prof.ssa Venuti conclude il workshop con una frase che ne riassume i contenuti : “Si parla di integrazione, declinata in diversi modi, come punto di partenza per l’apprendimento, di qualunque tipo esso sia; si può parlare quindi di miglioramento della qualità della vita”.

 

La plenaria di chiusura dei lavori, presieduta dal Dott. Arduino, Responsabile del Centro Autismo e Sindrome di Asperger di ASL CN1 a Mondovì, si propone di ridefinire gli argomenti trattati nelle due giornate di convegno, sottolineando i nuovi punti di arrivo e quindi i propositi degli interventi e della ricerca per il futuro.

 Tra le conquiste attuali a favore del trattamento dell’autismo, vengono presentate le Linee Guida Nazionali, frutto della tavola rotonda sull’autismo tenutasi da maggio 2007 a maggio 2008. Tale guida rappresenta il punto di partenza per modificare la pratica clinica e raccoglie i lavori di maggior forza dal punto di vista scientifico e detta i principi generali per l’erogazione dei servizi.

Le prospettive future riguardano sicuramente la ricerca scientifica e l’ambizione a sviluppare protocolli sempre più significativi sul piano scientifico e clinico.

Un altro obiettivo da perseguire deve essere quello di promuovere l’insegnamento di buone prassi, soprattutto in ambito scolastico dove sembra davvero mancare un’indicazione, anche solo generica, riguardo a come garantire inclusione e integrazione ai soggetti con ASD.

Il settore delle nuove tecnologie sembra essere in rapida evoluzione e promette nuove risorse da impiegare nella didattica e nel trattamento.

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Linee Guida per l'Autismo: cosa sì e cosa no. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
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Si percepisce invece uno stallo per quanto riguarda il trattamento dell’autismo nei soggetti ormai adulti, una sfida decisamente impegnativa che ci si augura possa stimolare i professionisti impegnati in questo settore.

Vogliamo concludere con una frase di Stephen Shore, diagnosticato all’età di 18 mesi come paziente con “sviluppo atipico con forti tratti autistici” e attualmente educatore di bambini con autismo:

If you have seen a person with autism, you have seen a person with autism

Questa dovrebbe essere, a nostro parere, la chiave di lettura di qualsiasi cosa venga detta a proposito dell’autismo.

 

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Impulsivita’ & Controllo dei Pensieri

 

Impulsività & Controllo dei Pensieri. - Immagine: © olly - Fotolia.comImpulsività & Controllo dei Pensieri. Tutti noi agiamo con impulsività. Quando ciò caratterizza il nostro agire quotidiano è un problema. 

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A tutti noi può capitare di agire impulsivamente e di avere difficoltà di autocontrollo, ma quando questi aspetti caratterizzano il nostro normale agire quotidiano possono costituire un vero problema spesso associato a difficoltà psicologiche.

L’autocontrollo può essere definito come la capacità di regolare i propri pensieri, emozioni, impulsi e comportamenti; difficoltà in quest’ambito comportano distraibilità cognitiva, instabilità emotiva ed un comportamento poco efficace in quanto prematuramente espresso, eccessivamente rischioso o inadeguato alle circostanze. Una bassa capacità di autocontrollo può manifestarsi in differenti forme e modalità, tra cui i pensieri intrusivi che sono all’origine delle ossessioni; queste idee, sebbene in parte simili alle normali preoccupazioni, si distinguono da esse in quanto sono più dirompenti, rapide ed indesiderate. I pensieri intrusivi sono ravvisabili in un gran numero di stati psicopatologici, per esempio, nei disturbi d’ansia (come ansia generalizzata, fobie, disturbo ossessivo compulsivo), nell’insonnia e in alcune forme di depressione (Clark e Rhyno 2005; Julien et al 2007).

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Nonostante le somiglianze evidenti tra impulsività e pensieri intrusivi, le loro reciproche relazioni sono state poco studiate e le ricerche condotte hanno spesso portato risultati ambivalenti. Uno dei motivi è la complessità del costrutto impulsività, proprio per questo Whiteside e Lynam (2001) hanno provato a delineare le componenti di tale costrutto individuando quattro dimensioni principali (1) l’urgenza negativa, definita come la tendenza ad agire in maniera avventata, soprattutto in situazioni caratterizzate da intense emozioni negative, (2) la premeditazione, ovvero la tendenza a pianificare e a considerare le conseguenze di un’azione prima di intraprenderla, (3) la perseveranza, definita come la capacità di rimanere concentrati su un compito che può essere anche noioso o difficile, e (4) la ricerca di sensazioni, intesa come la tendenza ad impegnarsi in attività emozionanti, divertenti  e l’apertura verso nuove esperienze.

Un recente studio (Gay, Schmidt e Van der Linden, 2011) ha rilevato che gli aspetti dell’impulsività più strettamente connessi a forme clinicamente rilevanti di pensiero intrusivo sono l’urgenza negativa e la mancanza di perseveranza, confermando i risultati di precedenti studi (d’Acremont e Van der Linden, 2007; Schmidt e Van der Linden2009; Schmidt et al. 2010). In particolare si è visto che l’urgenza negativa può riguardare pensieri intrusivi persistenti e accompagnati da emozioni indesiderate, al contrario, la mancanza di perseveranza può essere più legata ai timori transitori, le preoccupazioni di tutti i giorni, mente che vaga e pensieri distraenti.

Riguardo invece i rapporti intercorrenti tra impulsività e pensieri intrusivi, si sono trovate prove a sostegno di una influenza tra i due elementi in ambo le direzioni: Li e Chen (2007, p. 135) ritengono che “gli uomini che hanno dubbi frequenti e pensieri intrusivi tendono a non essere in grado di mantenere l’attenzione sull’attività in corso”. In modo simile, Selby et al. (2008) hanno proposto che la ruminazione intensa può provocare comportamenti impulsivi, il che contribuirebbe a distogliere l’attenzione dalla ruminazione. Gay e colleghi (2011) hanno quindi preso in considerazione una visione circolare delle relazioni tra ruminazione e urgenza negativa, per cui la ruminazione e i pensieri intrusivi possono condurre ad atteggiamenti impulsivi che possono a loro volta diventare oggetto di una successiva ruminazione e così via, provocando una cascata emotiva con comportamenti disregolati.

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BIBLIOGRAFIA

 

Intervista al suicidologo Maurizio Pompili

  

Intervista a Mauruzio Pompili.Intervista al suicidologo Maurizio Pompili, in occasione della Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio

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Esattamente un mese prima della Giornata Mondiale della Salute Mentale, il 10 settembre di ogni anno si svolge la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Nel nostro paese, dove i tassi di suicidio sono decisamente più bassi di altri paesi europei, l’evento passa spesso in sordina, ma a Roma c’è un gruppo di ricercatori dell’UOC. di Psichiatria dell’Ospedale S. Andrea che già da alcuni anni organizza un evento scientifico che coinvolge i maggiori suicidologi italiani e stranieri e che si impegna in iniziative divulgative sempre improntate alla prevenzione.

Quest’anno ho avuto l’onore insieme ai miei amici musici di suonare le canzoni di Psicantria, in un simpatico dopocena postcongressuale, dove ho incontrato il Dr. Maurizio Pompili, vero deus ex machina dell’iniziativa.

Maurizio Pompili è Professore di Suicidologia presso l’Università La Sapienza di Roma, responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio dell’Ospedale Sant’Andrea e rappresentante per l’Italia dell’International Association for Suicide Prevention (IASP). A meno di quarant’anni è autore di oltre 300 (si avete capito bene…) lavori scientifici pubblicati sulle maggiori riviste internazionali, nel 2008 è stato insignito del Shneidman Award dall’American Association of  Suicidology. Insomma, un ricercatore con gli attributi, prova vivente del fatto che non è necessario essere un cervello in fuga per fare ricerca di alto livello.

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Intervista a Maurizio Pompili

GP: Ciao Maurizio, innanzitutto complimenti per le tue iniziative e per l’alta qualità della tua ricerca. Sei davvero uno dei pochi in Italia che riesce ad occuparsi ad alto livello di questo delicatissimo argomento. Come è andato il convegno? Ha soddisfatto le tue aspettative?

MP: Grazie infinite, tutti hanno apprezzato il vostro contributo e sono senza dubbio soddisfatto. Il convegno è andato bene oltre le aspettative.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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GP: Grazie a te dell’invito! Il titolo del convegno era La prevenzione del suicidio nel mondo: rafforzare i fattori protettivi e infondere speranza. E’ emersa qualche novità interessante in tema di fattori di protettivi e sul come eventualmente potenziarli?

 MP: La cosa principale che a me sembra fondamentale è che si sviluppi in ciascun individuo e/o ciascun operatore una cultura sul dramma che vive il soggetto che desidera la morte. Si può comprendere la loro sofferenza solo sul piano umano. Molti contributi tralasciano che in primis c’è l’individuo e poi le statistiche, i fattori di rischio, ecc.

GP: Cosa può infondere speranza oggi alle persone a rischio di suicidio e ai familiari che hanno subito una perdita in modo così devastante?

MP: Una cosa importante è che si parla sempre di più di suicidio e ci si sforza di fare qualcosa per prevenirlo sebbene non sempre in modo funzionale. Un Servizio per la Prevenzione del Suicidio come quello di Roma è sicuramente un passo in avanti di grande impatto. Infatti sempre più soggetti a rischio e familiari che hanno perduto un caro per suicidio si rivolgono a noi e facciamo di tutto per assisterli ed infondere speranza.

GP: Alcuni studiosi di questo argomento che ho conosciuto hanno scelto di occuparsene perché hanno avuto esperienze personali e dirette con il suicidio (parenti, amici, pazienti…). Anche nel tuo caso è stato così?

 MP: E’ una domanda ricorrente… Mi sono trovato più volte nella mia vita a disbrigarmi con la sofferenza estrema ma non ho mai avuto propositi di suicidio. Tuttavia proprio in virtù delle mie esperienze personali forse riesco a comprendere i soggetti a rischio di suicidio che vivono proprio un dolore psicologico insopportabile e che alla fine pensano al suicidio.

GP: Ci racconti del tuo incontro con Shneidman?

MP:L’incontro con Edwin Shneidman è stato uno dei momenti cruciali della mia vita e mi ha arricchito notevolmente. Ho intrattenuto con lui anni di conversazioni telefoniche per poi incontrarlo a Los Angeles. Alcuni anni fa lanciata una nuova rivista di psichiatria, decisi di ospitare un contributo di Shneidman che ci sorprese accettando l’invito. Poi, mentre ero a Boston per un periodo di ricerca, gli avevo scritto offrendo il mio aiuto per fargli giungere la bozza di stampa (non usava l’email). Fui sorpreso una mattina gelida quando arrivando presso il McLean Hospital trovai un suo messaggio nella segreteria telefonica del mio telefono. Con voce entusiasta mi proponeva di richiamarlo. Lo feci subito ignorando in quel momento che a Los Angeles era ancora notte e dunque svegliandolo. Fu amore a prima vista! Passammo un’ora al telefono e poi per anni dall’Italia all’incirca a mezzanotte lo chiamavo quasi tutte le settimane. Incontrarlo fu emozionante; forse per certi aspetti lui lo era più di me. Mi vedeva come colui che poteva continuare la sua opera e dunque ci fidavamo tantissimo l’uno dell’altro. Ricevetti lo Shneidman Award dall’American Association of Suicidology e poi volai a Los Angeles. Shneidman è il padre della suicidologia e mi considero fortunato di aver ascoltato, oltre a tanti insegnamenti, anche tutti gli sviluppi di questa disciplina che lui fondò negli anni cinquanta.

 GP: Come psichiatra purtroppo ho sperimentato sulla mia pelle il suicidio di un paziente ed è stata un’esperienza terribile. Vi occupate anche di questi aspetti di sostegno ai terapeuti che “perdono” un paziente? Che consigli ti sentiresti di dare ai colleghi in questo senso?

MP: Si, è effettivamente un problema trascurato che cerco di illuminare tentando di fornire elementi che possano sostenere i medici che perdono un paziente per suicidio. Ci sono linee guida e suggerimenti per evitare il grande impatto dell’evento sulla vita personale e professionale dello psichiatra.

GP: Mi ha colpito vedere al tuo congresso diversi familiari di pazienti che hanno commesso il suicidio e che ora partecipano attivamente insieme a voi a campagne di prevenzione come il Miki Monte Dj Contest (una competizione per dj organizzata dalla mamma di un ragazzo diciassettenne appassionato di musica e suicidatosi lo scorso anno). Come nascono queste collaborazioni? Immagino siano fondamentali per ridare un senso alla vita di chi sopravvive al suicidio di un famigliare… 

MP: Tutte queste iniziative sono importantissime e non mi sottraggo mai nel sostenerle come intervenire anche solo al telefono rivolgendomi a tutti i presenti nella discoteca oppure riunendo le madri proprio in queste occasioni. Non dimentichiamo che c’è anche la Giornata Mondiale dedicata ai survivors, il 21 novembre di ogni anno e il nostro centro è il referente per l’Italia.

 GP: Ci racconti qualcosa dell’iniziativa Race for Life?

Nasce dal voler portare il messaggio della prevenzione del suicidio tra la gente con strumenti quali il linguaggio dello sport emulando altre iniziative simili in varie parti del mondo. Il numero degli interessati cresce ogni anno e il tema del suicidio, una volta alla luce del sole, non fa poi così tanta paura.

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GP: Il vostro Centro di Prevenzione del Suicidio rappresenta un’avanguardia a livello nazionale. Quali difficoltà ci sono nell’inserire a livello istituzionale questo tipo di Servizio?

 MP: Il Servizio per la Prevenzione del Suicidio nasce con sforzi pioneristici, senza soldi né strumenti ma con la buona volontà di molti collaboratori. Decisi che volevo essere rappresentato da un vero servizio che avesse una helpline e che promuovesse la prevenzione del suicidio. Ricordo che le mie psicologhe mi raggiungevano prima dei turni di notte quando c’era più calma per stilare i capisaldi della nostra attività. Ci sono veramente tante soddisfazioni nell’aiutare chi è in crisi e nel fare ricerca. Purtroppo non ci sono sostegni e molti di coloro che sono coinvolti sono spesso tirocinanti, volontari, ecc. che vengono addestrati ma non hanno vere garanzie.

GP: Dal punto di vista epidemiologico, l’Italia continua a mantenere i bassi tassi di suicidio tipici dell’area mediterranea o le cose stanno cambiando?

 MP: Ci sono circa 4000 suicidi ogni anno in Italia. L’ISTAT ha recentemente emanato una circolare chiarendo che i dati in suo possesso sono solo frutto dei report dei Carabinieri e dunque incompleti, mettendo in discussione la cifra inesatta dei 3000 suicidi annui in Italia. Purtroppo, recentemente si è registrato un aumento statisticamente significativo nella fascia di età tra i 25 e i 69 anni, ovvero la fascia in attività lavorativa.

 GP: Un’ultima domanda…come hai fatto a incontrare il Papa?

MP: Incontrare il Papa è un privilegio frutto, suppongo, della grande dedizione alla causa per la prevenzione del suicidio. Una serie di contatti preliminari con autorità del Vaticano hanno poi portato all’incontro. Si tratta di un momento unico e di grande significato e che è accompagnato da un cerimoniale estremamente rigido. Gli dissi che mi occupo di prevenzione del suicidio e dopo un momento di esitazione ebbe un sorriso rassicurante, due mani piene di calore. Esclamò, dopo la mia richiesta di aiuto, “Che Dio benedica la prevenzione del suicidio”.

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nota: Edwin Shneidman (1918-2009) è stato uno psicologo statunitense, che viene considerato il padre della suicidologia. 

L’analisi dei sistemi motivazionali nello studio del processo: un confronto fra AIMIT e CCRT

Congresso SITCC 2012 Roma

  L’analisi dei sistemi motivazionali nello studio del processo: un confronto fra AIMIT e CCRT

A.De Coro, M.Brasini, C.Ardovini, E.Gregni, G.Mantione, F.Monticelli, S.Proietti, F.Valcella

 

Sistemi Motivazionali e Funzione Riflessiva – Gruppo Ricerca AIMIT –

Congresso SITCC 2012 Roma

Sistemi Motivazionali e Funzione Riflessiva

Gruppo Ricerca AIMIT

(L. Tombolini, M. Brasini, C. Ardovini, C. Di Manna, R. Esposito, C. Iannucci, G. Mantione, A. Muscetta F. Monticelli, L. Pancheri, E. Pietropaoli, F. Scarcella, F. Valcella)

 

 

Adolescenti & Gambling Online – Psicologia dei New Media

 

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Adolescenti & Gambling Online: Quando l’uso di internet diventa un problema

LEGGI GLI ARTICOLI SUL GAMBLING – GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

“Come avresti fatto a far sparire in due giorni l’intera paghetta dello scorso weekend?”

Alzi la mano chi, da adolescente, non ha mai sentito pronunciare queste parole dai propri genitori.  Attenzione però, perché la risposta potrebbe rivelare problemi ben più grossi di un semplice “eccesso di shopping”: scoprire che il proprio figlio pratica il gioco d’azzardo (Gambling) su internet (con conseguente perdita di grosse somme di denaro, oltre che di tempo) è al giorno d’oggi un duro colpo per molti genitori.

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Fattori come la facile accessibilità e disponibilità della connessione ad internet, la possibilità di giocare in anonimato e le sempre più diffuse promozioni dei cosiddetti giochi “a scommessa” si sono rivelati deleteri negli ultimi dieci anni, contribuendo ad un aumento dei comportamenti di gambling (“gioco d’azzardo”) anche tra i più giovani (Griffiths, 2003; Griffiths & Barnes, 2008). Il gambling negli adolescenti costituisce un fenomeno preoccupante oltre che potenzialmente dannoso, dal momento che questo sottogruppo di persone risulta particolarmente vulnerabile allo sviluppo di comportamenti di addiction. Diversi studi hanno dimostrato l’esistenza di una elevata tendenza negli adolescenti ad adottare comportamenti a rischio, tendenza dovuta sia alla percezione di se stessi come “invulnerabili”, sia all’ignoranza rispetto alle potenziali conseguenze negative del gambling (Derevensky et al., 2003).  Come se ciò non bastasse, ulteriori studi hanno associato l’insorgenza precoce di comportamenti di gambling ad un maggiore rischio di sviluppare problemi di dipendenza, specialmente da internet (Internet Addiction).

Artemis Tsitsika e colleghi (Tsitsika, Critselis, Janikian, Kormas, & Kafetsis, 2010) hanno condotto uno studio trasversale su 484 adolescenti (età media: 14.88 anni) allo scopo da una parte di valutare la prevalenza di gambling praticato su internet ed i suoi effetti sull’emotività e sul comportamento, dall’altra di verificare l’ipotesi che esista una associazione tra internet gambling e uso di internet problematico.

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Articolo Consigliato: Depressione & Uso di Internet negli Studenti Universitari

Apriamo una breve parentesi: per essere definita “patologica” o “problematica”, la navigazione in rete deve presentare le tre seguenti caratteristiche:

  • Essere percepita come incontrollabile dal soggetto
  • Provocare distress e significativo dispendio di tempo, con conseguenti difficoltà sociali, occupazionali e/o economiche
  • Essere presente non solo durante episodi di mania o ipomania (Shapira et al., 2000).

Tutti i partecipanti hanno compilato un questionario anonimo online, fornendo informazioni demografiche e indicazioni sulla frequenza di comportamenti di internet gambling, sulla frequenza d’uso di internet e sugli scopi della navigazione. Tramite il Young Internet Addiction Test (Young, 1998) è stata valutata l’occorrenza di un uso di internet problematico (persistenti preoccupazioni quando si è offline, uso compulsivo, problemi comportali in termini di reazioni a distrattori esterni durante la navigazione, cambiamenti emotivi ed impatto sul funzionamento sociale).

Lo Strenghts & Difficulties Questionnaire (Goodman, 1999) ha infine fornito indicazioni sull’adattamento psicologico e sociale conseguente all’uso di internet, e più nello specifico su sintomi emotivi, problemi della condotta, iperattività, problemi coi pari e prosocialità.

Il risultato forse più sconcertante è che ben il 15.1 % (n = 73) degli adolescenti esaminati praticava il gambling online (seppur con frequenza diversa: il 54.8% da 1 a 4 volte a settimana, il 45.2% almeno 5 volte a settimana). La frequenza del gambling tra i maschi risultava 2.86 volte maggiore rispetto a quanto riportato dalle femmine. I gamblers riferivano, in media, maggiori problemi di condotta e più alti punteggi alla sottoscala “problemi coi pari” rispetto al gruppo di controllo. Riguardo all’associazione con un uso di internet generalmente problematico, circa un quarto degli adolescenti gamblers superava il punteggio di cutoff per questa variabile.

LEGGI GLI ARTICOLI SULLA INTERNET ADDICTION

 Sebbene il contesto socio-culturale possa aver influenzato i risultati osservati (tutti i soggetti dello studio erano studenti greci, frequentanti le scuole del distretto urbano di Atene), si tratta di un tasso di prevalenza molto simile a quello riportato dagli adolescenti americani (Petry & Weinstock, 2007). Anche il fatto che il gambling fossero in prevalenza una pratica maschile concorda coi risultati di studi precedenti (Dickinson, Derevensky, & Gupta, 2002; Griffiths, Wardle, Orford, Sproston, & Erens,2009).

Data la presenza di una correlazione tra internet gambling e uso problematico della rete, resta da chiarire se esista una relazione causale tra le due variabili o meno. Mentre è possibile che, da una parte, il gambling possa facilitare lo sviluppo di altri tipi di dipendenze “online” (Griffiths, 1999, 2003), dall’altra è altrettanto probabile che adolescenti con preesistenti problemi di dipendenza da internet si ritrovino a prediligere la rete come mezzo per giocare.

Ci affidiamo a futuri studi per chiarimenti su questa relazione.

 

ARTICOLI SU: GAMBLING – GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – DIPENDENZE – ADOLESCENTI – INTERNET ADDICTION

 

BIBLIOGRAFIA:

Uno Studio di Esito e di Processo Terapeutico attraverso il metodo AIMIT in un Caso di Pedofilia

Congresso SITCC 2012 Roma

 Uno Studio di Esito e di Processo Terapeutico attraverso il metodo AIMIT in un Caso di Pedofilia

 La Rosa C. ,  Mantione  M.G., Muscetta A. , Pancheri L., Tombolini L., Brasini M., Ambrosio T.,

CENTRO CLINICO DE SANCTIS

 

 ARTICOLI SU TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHEABUSI E MALTRATTAMENTISESSUALITA’

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Van den Hout: Ecco come funziona l’ EMDR – SITCC 2012

 

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Van den Hout: Ecco come funziona l’EMDR - SITCC 2012
Prof. Marcel van den Hout nell’intervista rilasciata a State of Mind durante il Congresso SITCC 2012 di Roma.

SITCC 2012 – Van den Hout: Ecco come funziona l’ EMDR

L’Eye Movement Desensitization Reprocessing, meglio conosciuto con l’acronimo EMDR è uno degli approcci terapeutici che ha riscosso maggior successo negli ultimi anni. Questo è dovuto all’ormai consolidata mole di ricerche che ne mostrano l’efficacia nel trattamento delle forme di trauma patologico, in particolare per il Disturbo Post-Traumatico da Stress.

L’ipotesi centrale della terapia EMDR è che la stimolazione bilaterale dei due emisferi, attraverso rapidi movimenti oculari destra/sinistra, possa favorire la rielaborazione di ricordi traumatici altrimenti non elaborati, cioè ‘congelati’ nella loro forma altamente emotiva originaria.

ARTICOLI SU TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHE – DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS

Nonostante le prove di efficacia, il meccanismo che determina i risultati dell’EMDR è stato oggetto di dibattito per molti anni, principalmente per la difficoltà nell’operazionalizzare i costrutti di ‘congelamento’ e ‘rielaborazione’. A questo si aggiunga che recenti review della letteratura scientifica internazionale hanno evidenziato come risultati tra terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e EMDR non risultino significativamente differenti (National Institute of Clinical Excellence, 2005; Seidler & Wagner, 2006) nel trattamento dei disturbi legati al trauma.

 

SITCC 2012 Roma State of Mind Interviews Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy - 1
Articolo consigliato: Interview with Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy

Gli autori suggeriscono la necessità di spostare l’attenzione dalla semplice efficacia alla comprensione dei mediatori del cambiamento, vale a dire quei meccanismi che vengono effettivamente modificati dall’intervento terapeutico e che determinano la risoluzione del disturbo.

ARTICOLI SU: EMDR

E veniamo alla plenaria del congresso SITCC 2012, affidata ai sapienti neuroni e alla spietata logica di Marcel A. van den Hout, ricercatore di fama internazionale, che negli ultimi anni assieme a numerosi colleghi ha affrontato e testato una dopo l’altra tutte le ipotesi inerenti il meccanismO di funzionamento della terapia EMDR. Ne emerge una sintesi di grande valore scientifico che permette di chiudere alcune strade e aprirne delle nuove.

Sintetizziamo alcuni punti.

1. L’EMDR e altri interventi efficaci sul trauma sembrano agire attraverso la riduzione della vividezza dei ricordi traumatici (Engelhard et al., 2010). La forza immaginativa del ricordo traumatico viene offuscata e questo significa una minor sensazione di realtà imminente, minor attivazione emotiva, maggior capacità di riflessione e rielaborazione del ricordo. Questa riduzione della vividezza potrebbe essere il mediatore comune dei diversi interventi efficaci sul trauma.

2. Il meccanismo con cui avviene la riduzione della vividezza non è l’abituazione, non basta esporsi più volte al ricordo o ripetutamente riviverlo perché questo perda le proprie caratteristiche immaginative.

3. Il meccanismo non è la sincronizzazione dei due emisferi, la riconnessione tra gli stessi, il passaggio dell’informazione tra un emisfero e l’altro. Infatti non si hanno variazioni nell’elettroencefalogramma (Samara et al., 2011) ma soprattutto la stimolazione verticale ottiene i medesimi risultati di quella orizzontale.

4. Il meccanismo sembra essere un processo di appesantimento della memoria di lavoro durante il recupero del ricordo traumatico (van den Hout et al., 2011). Stimolando la memoria di lavoro (working memory) che ha capacità limitate attraverso un secondo compito (es: seguire il movimento delle dita) questa non sarebbe più in grado di recuperare le informazioni traumatiche con la stessa vividezza. Si aprirebbe così lo spazio a un’elaborazione più distaccata del materiale mnestico comunque rievocato.

ARTICOLI SU: MEMORIA DI LAVORO – MEMORIA

La terapia con EMDR. - Immagine: © Marianne Mayer - Fotolia.com
Articolo consigliato: La terapia con EMDR.

5. L’ipotesi del working memory taxing è confermata dal fatto che altri esercizi che notoriamente appesantiscono la memoria lavoro, come l’esecuzione di alcuni compiti matematici che richiedono la memorizzazione di una serie di numeri, ottengono gli stessi effetti in termini di riduzione della vividezza dei ricordi negativi.

6. Un’altra interessante conclusione riguarda l’utilizzo dei beep (rumori alternati), piuttosto che dei movimenti oculari. I beep non appesantiscono la memoria di lavoro. E in effetti un recente studio (van den Hout et al., 2012) mostra come ottengano risultati significativamente inferiori all’uso dei movimenti oculari, anche se considerati una stimolazione bilaterale. Quindi la sostituzione della stimolazione oculare con quella uditiva è sconsigliata e prematura.

7. Infine, il protocollo di intervento EMDR prevede l’uso delle stimolazioni bilaterali per rinforzare immaginazioni e ricordi positivi. Questa procedura avrebbe senso clinico se si potesse sostenere l’ipotesi che la sincronizzazione degli emisferi favorisce l’elaborazione del ricordo. Ma non è così (vedi punto 3). Nel paradigma del working memory taxing sostenere un immaginazione positiva durante una stimolazione oculare, cioè durante l’appesantimento della memoria lavoro, significa rendere più difficile il mantenimento di un immagine vivida nella memoria. Insomma, ostacola proprio l’obiettivo che si propone. Conclusione: è inutile, se non controproducente.

La sintesi finale di van den Hout non è certo una sintesi contro la terapia EMDR. Anche perché la terapia EMDR non è solo questo. La lezione magistrale rappresenta invece un atteso chiarimento circa i meccanismi che stanno alla base di questa tecnica, consolidando il suo valore scientifico e offrendo spunti per ulteriori sviluppi.

D’altronde il razionale che ne emerge è limpido: modalità che appesantiscono la memoria lavoro durante il recupero di ricordi traumatici ne favoriscono la rielaborazione. E questa è una strada ancora tutta da percorrere.

ARTICOLI SU: EMDR – DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS 

 

Prof. Marcel van den Hout: Plasticity of memory in the etiology and treatment of Post Traumatic Stress Disorder – SITCC 2012

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BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale – Parte II

 

LEGGI LA MONOGRAFIA: IL DISPUTING IN PSICOTERAPIA   LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

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Psicoterapia. Il Disputing dellòa Fobia Sociale - Parte 2. - Immagine: © Manuel - Fotolia.com

Come già anticipato nella prima parte, il disputing della fobia sociale nasce da un’accurata raccolta dati. Occorre accertare attentamente le situazioni temute e solo dopo iniziare a valutare le basi empiriche dei timore della persona fobica sociale. Tra le varie situazioni sociali temute elenchiamo il chiedere un appuntamento a qualcuno/a, essere presentati a qualcuno/a, partecipare a feste, party, ricevere amici a cena, iniziare una conversazione, parlare al telefono, esprimere la propria opinione, affrontare un colloquio di lavoro, essere assertivi, restituire un acquisto, guardare negli occhi qualcuno/a, esprimere insoddisfazione per un acquisto, parlare con figure autorevoli, parlare in pubblico, fare sport in pubblico, partecipare a cerimonie pubbliche, cantare in pubblico, suonare in pubblico, recitare in pubblico, mangiare e/o bere in pubblico, usare bagni pubblici, scrivere in pubblico, commettere un errore davanti agli altri, camminare e/o correre in luoghi affollati, presentarsi ad altri, fare acquisti in negozi affollati, camminare davanti a un gruppo di persone.

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Una volta stabiliti i luoghi e le situazioni temute, si analizzano i pensieri che accompagnano e determinano il timore. È bene rendere consapevole il paziente che le sue difficoltà non derivano dalla situazione in sé, ma dalle sue valutazioni della situazione. Qual è il livello di ansia che le accompagnava? E cosa è accaduto davvero in quelle occasioni? Ma soprattutto, cosa ha pensato la persona? I pensieri più frequenti possono essere auto-valutativi (sono stupido/a, noioso/a, non amabile socialmente, inadeguato/a), focalizzati su comportamenti o reazioni proprie (ero arrossito/a, sudato/a, mostravo tremito) o altrui (hanno mostrato cenni di noia, disapprovazione, rifiuto; mi hanno esplicitamente disapprovato o perfino scacciato). Quanto volte è accaduto? Quando è accaduto l’ultima volta? E così via. Naturalmente occorre andarci cauti e non rischiare di umiliare il paziente, già di per sé sensibile all’argomento del giudizio.

Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale - Parte I. - Immagine: © Edyta Pawlowska - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale – Parte 2

Come è intuibile, la fobia sociale può essere particolarmente sensibile a un disputing empirico, cioè focalizzato sul fornire le prove di quel che è accaduto. Il paziente con fobia sociale è particolarmente soggetto a errori di malinterpretazione degli avvenimenti sociali, avvenimenti del resto già in sé mai facilmente decodificabili. A pensarci bene tutti noi siamo portatissimi a sopravvalutare e a generalizzare quelli che in fondo sono singoli episodi. È davvero possibile trascorrere una serata senza che capiti almeno una mezza gaffe, senza che almeno una nostra battuta che voleva esser spiritosa venga accolta non con risate ma con un benevolo (o sprezzante) silenzio, senza che almeno un nostro tentativo di prender la parola nella conversazione non vada a vuoto. Diamine, ma non mi ascoltano? Diciamo a noi stessi, avviliti per un attimo. E poi segue la terribile domanda: e perché mai non si sono voltati verso di me, e perché mai non hanno taciuto per darmi modo di raccontare la mia storiella? E infine segue la spiegazione, ancor più terribile: allora non sono simpatico/a, non sono apprezzato/a, non sono amabile, e così via.

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Siamo dunque tutti a rischio di una catena negativa. Incoraggiare a riflettere il paziente quanto sia empiricamente fondata questa catena è molto d’aiuto. Non si tratta semplicemente di correttezza logica. Il paziente con fobia sociale ha evidentemente difficoltà a comprendere l’altro. Indurlo a riflettere meglio su quanto siano fondate le sue inferenze su ciò che pensano gli altri è un modo per istradarlo verso un percorso di comprensione e accettazione della mente dell’altro.

 Ma, come direbbe Fonagy, il paziente con fobia sociale ha anche problemi nell’accettare di non poter comprendere sempre, ad accontentarsi del fatto che non può sapere sempre cosa pensa l’altro e che questa opacità non significa necessariamente malevolenza. Il disputing potrebbe generare un percorso cognitivo di questo tipo, nel quale il paziente man mano che perde le sue certezze sulla malevolenza degli altri, prende atto dell’opacità del pensiero degli altri. Noi, per lo più, non sappiamo cosa pensano gli altri. Ma questo potrebbe essere alla base di un altro errore cognitivo del fobico sociale: egli potrebbe considerare questa opacità come prova di malevolenza. Errore logico che quindi richiede un disputing logico. Che relazione logica c’è tra opacità (non so cosa pensano gli altri) e malevolenza (gli altri pensano male di me)?

Insomma potremmo immaginare un modello di questo tipo.

 

Pensiero distorto: pensano male di me

Disputing empirico: in base a cosa ha pensato questo? Che prove ha?

Assunzioni distorte: perché sudo, balbetto, perché non sono simpatico, e così via.

Disputing: in che misura arrossiva, sudava o balbettava? Era percepibile questo disagio? E come può essere sicuro che gli altri la abbiano giudicato male per questo? Ma lei, ad esempio, sudava così copiosamente da creare imbarazzo? O balbettava così penosamente da bloccare la sua conversazione? E se anche fosse, che persone sono mai queste? Sono così malevole verso chi suda, balbetta, arrossisce?

Nuovi pensieri: forse non so davvero cosa pensano gli altri. Questo potrebbe iniziare a tranquillizzare il paziente, e aprire la possibilità a un supplemento di disputing logico: dunque lei non sapeva cosa pensassero gli altri, e proprio questo la portava a dedurre che pensassero male di lei? È possibile?

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Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

A questo punto, se il paziente non ha propensione al controllo ossessivo potrebbe iniziare a pensare di poter tollerare la non conoscenza del giudizio altrui. L’obiettivo, infatti, più che costruire una buona autostima, dovrebbe essere sviluppare l’autonomia dal giudizio altrui fino ad arrivare a quella che Albert Ellis chiamava l’auto-accettazione incondizionata (Ellis, 2005).

I fattori cognitivi non si esauriscono qui. Accanto alle credenze, ci sono anche i processi di tipo attentivo. I principali errori processuali del fobico sociale sono l’attenzione anticipatoria focalizzata verso l’evento sociale durante i giorni che lo precedono e l’attenzione focalizzata sulle reazioni altrui e sulle proprie sensazioni di vergogna e imbarazzo durante l’evento sociale temuto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’efficacia del Terapeuta. Di Vittorio Lingiardi

 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuesto articolo di Vittorio Lingiardi da spazio e visibilità al grande tema dell’efficacia e alla scientificità della psicoterapia su un grande mezzo di diffusione, l’inserto domenicale del Sole 24ore.

L’articolo parla da sé e lo fa così bene e concisamente che presentarlo significa rassegnarsi a riassumerne il contenuto. Lingiardi fa finalmente sapere a molti che la psicoterapia non è solo un’arte, ma anche una pratica ben definita e di provata efficacia, e che la ricerca scientifica ha definitivamente dimostrato che la psicoterapia funziona, e proseguono le ricerche che ne esplorano il meccanismo.

Dunque la psicoterapia funziona. Ma è altrettanto vero che, di fronte a questa realtà, i finanziamenti riservati alla ricerca sulla psicoterapia sono scandalosamente limitati. Il fiume di denaro che sostiene la ricerca farmacologica diventa un ruscelletto quando si tratta di finanziare gli studi sulla psicoterapia. Il ritorno appare meno immediato e più aleatorio. Lingiardi scrive che ormai tutto questo è solo pigrizia e pregiudizio. È bene che la sua voce sia ascoltata.  

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BIBLIOGRAFIA: 

 

Storie di Terapie #14: L’ Amore di Nicoletta

Storie di Terapie 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –

 

Storie di Terapia. L' Amore di Nicoletta. - Immagine: © Paulius Brazauskas - Fotolia.comStorie di Terapie #14: L’ Amore di Nicoletta

 

Ho visto Nicoletta in due differenti momenti della sua vita.

La prima volta dopo una telefonata allarmata di una mia allieva e collega di Bologna, che l’aveva incontrata qualche volta insieme al suo ex compagno, nel momento burrascoso della loro separazione.

Predisposi l’animo ad ascoltare le lamentele e le sofferenze di una giovane donna abbandonata, affetta semplicemente dal mal d’amore non ricambiato, esperienza comune che non trova posto nelle nosografie psichiatriche. Per esso, dunque, non esistono protocolli empiricamente validati né psicofarmaci eccellenti; gli unici protocolli sono prescientifici e già applicati dalle nostre bisnonne.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCELTA DEL PARTNER

I passaggi fondamentali in cui si articolano sono riassumibili nei concetti: “chi non ti vuole non ti merita” e “morto un papa se ne fa un altro”. Tradotto in linguaggio più scientifico si tratta di:

  • Svalorizzare l’oggetto perduto, facendo attenzione a non innescare possibili auto svalutazioni per aver scelto e investito tanto su un oggetto così poco meritevole
  • Sostenere l’autostima, che può essere minacciata dal rifiuto dell’altro
  • Spostare la libido su altri oggetti

A queste consolazioni, per così dire di pronto soccorso, che non sono appannaggio esclusivo dello psicoterapeuta ma anche di amici e parenti, tendo ad aggiungere, in successione temporale, altri obiettivi che giustifichino il fatto di essere pagato per un lavoro specialistico.

In primo luogo, mi sembra utile fornire consapevolezza sulle caratteristiche del partner che attraggono fatalmente il paziente, soprattutto quando le scelte sbagliate si sono ripetute più volte. Per far questo bisogna attaccare la credenza circa la sfortuna negli incontri e il non aver ancora incontrato l’anima gemella, che rivelo subito essere come la Befana e Babbo Natale.

In secondo luogo, aiuto a rendere consapevoli circa i modi che si utilizzano per tenersi vicino l’oggetto amato che, evidentemente, non brillano per efficienza se si sta lì a leccarsi le ferite per l’ennesima volta

Ma Nicoletta arriva non con la coda tra le gambe e le orecchie basse come un cane abbandonato sul ciglio dell’autostrada il giorno di Ferragosto, sembra piuttosto un’aquila che ha appena visto un puma sottrargli un piccolo dal nido. L’aggressività appare,  sanamente e totalmente, eterodiretta; l’emozione sottostante, meno vistosa, è la sorpresa, lo stupore assoluto.

Da un punto di vista psicopatologico, come si vedrà in seguito, questo è l’aspetto più interessante: Nicoletta non si aspettava assolutamente questa conclusione improvvisa, per  la verità ancora stenta a crederci come chi, colpito da lutto improvviso e inatteso, spera  che, da un momento all’altro, tutto torni al proprio posto; Stefano con lei, ovviamente per tutta la vita. Non si può interrompere qualcuno che ha subito un trauma, lo deve narrare mille volte da mille diverse prospettive: Nicoletta è un fiume in piena ed io la valle dove esondare.

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Stefano è il grande amore.  l’uomo cui è stata destinata e con cui passerà tutta la vita  (usa il presente e il futuro come se nulla fosse successo e un brivido corre lungo la  mia schiena). Entrambi romani, si sono  trasferiti a Bologna per l’incarico universitario da lui ottenuto e hanno iniziato una convivenza in atto ormai da quattro anni. Intesa perfetta che non richiede parole per comunicare, sessualità stellare, identità assoluta di idee, gusti, visione del mondo. Quando ne parla sembra descrivere una sola persona. Solo molti anni dopo sarà possibile per Nicoletta rendersi conto che si trattava, in effetti, di una persona sola, Stefano, cui lei aderiva completamente, rinunciando a se stessa.

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Nicoletta si riconosce il ruolo di promotrice della coppia: era lei ad aver voluto il loro fidanzamento prima e la convivenza poi, lei metteva l’entusiasmo, decideva e quando Stefano esponeva le sue perplessità le minimizzava e andava avanti.

Stefano aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad assistere una madre gravemente alcolista, rispetto alla quale mostrava un attaccamento rovesciato; perciò, non riusciva a resistere alle richieste di un altro, soprattutto se lo vedeva debole e bisognoso.

La crisi si era manifestata, violenta e improvvisa, il giorno in cui dovevano andare dal notaio a firmare per il rogito di acquisto di una casa. Nicoletta aveva provveduto ad ottenere i mutui dalle banche per entrambi, trovato l’appartamento, fatto il compromesso e ordinato i mobili.

La mattina del notaio, Stefano aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina con su scritto “non me la sento, mi rifarò vivo io” ed era andato a Trieste da una sua amica.

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Nicoletta aveva vissuto una specie di abbandono sull’altare, la casa comune era, infatti, il punto supremo della loro unione poiché Stefano aveva in precedenza chiarito di essere contrario al contratto matrimoniale e ancora di più alla genitorialità.

Certamente Nicoletta mostrava una dipendenza da Premio Nobel, vivendo in simbiosi assoluta con Stefano che, però, da parte sua, non era mai riuscito a mettere un freno all’invasività di lei, salvo darsi fisicamente alla fuga quando era giunto ad un passo da un passaggio in qualche modo definitivo.

In prima battuta sentivo di empatizzare con il dolore e la rabbia di quella povera ragazza, abbandonata senza una spiegazione. Successivamente mi resi conto che spiegazione non c’era stata perché sarebbe stata inascoltata, oppure completamente ribaltata e trasformata in un’ ulteriore prova dell’amore assoluto tra i due e del loro destino di vita in comune che Nicoletta dava assolutamente per scontato. Se non fosse stato che i due erano effettivamente stati insieme per quattro anni avrei pensato di trovarmi di fronte  ad un evidente delirio erotomanico che, nel tempo, si complicò con uno stalking massiccio: qualsiasi cosa facesse Stefano era da lei considerata una prova lampante del loro legame inscindibile.

 

 Se arricchiva con foto di donne il suo sito su Facebook era un chiaro rimando alla canzone “Dieci ragazze per me” di Lucio Battisti che significava, appunto, che solo una contava per lui.

Se eliminava il suo indirizzo di posta elettronica e non era più raggiungibile, i significati possibili erano evidenti e di due tipi: “senza di lei è come se fossi morto e non esisto più” oppure “non voglio che nessuno più mi raggiunga tranne lei”. Mediamente Nicoletta telefonava tre volte al giorno a Stefano, gli inviava quindici  mail e trenta sms quotidiani.

Il ragazzo, sentendosi minacciato e temendo per la salute mentale di Nicoletta, spinto dalla paura e con l’intento di calmarla, le rispondeva, ogni tanto,  per placare la rabbia della donna, cercare di spiegarsi, ottenere comprensione. Sempre allo stesso scopo, accetta due volte di incontrarla, seppure in luoghi pubblici, dove si sentiva più protetto da possibili agiti impulsivi. Un primo incontro si consuma  a Trieste nei primi sei mesi dopo la separazione. Iniziato al castello di Miramare si conclude in un motel della zona. Nicoletta ne esce con la convinzione rafforzata del loro eterno amore e tre mesi dopo si presenta a Oslo, dove lui sta facendo un dottorato di ricerca. In questa seconda occasione, Stefano decide con fermezza di non concedere margini all’ambiguità e si rifiuta di avere rapporti sessuali  con lei tuttavia, convinto che abbia ormai capito come stanno le cose  e non sopportando di vederla triste, si concede quattro ore di sesso orale che lei ricorderà negli anni come la sequenza più prolungata e soddisfacente di orgasmi che abbia mai avuto.

Tornata in Italia, le arrivano messaggi più o meno espliciti da parte di amici comuni sulla necessità di intraprendere una cura psichiatrica. Ciò non viene letto da Nicoletta in termini offensivi, quanto come un segno dell’interessamento e dell’amore che il ragazzo nutre per lei.

Stefano si trasferisce negli Stati Uniti per partecipare  ad una importante ricerca universitaria. Una mattina di dicembre scende nel giardinetto innevato antistante la villetta dove abita e sale in macchina; sul  sedile posteriore c’è Nicoletta che gli chiede solo un chiarimento. Lui si spaventa, la getta sulla strada, lei si divincola e lo picchia. Stefano chiama la polizia che la accompagna al distretto dove passa una notte. Nei giorni seguenti Stefano paga la cauzione per la sua libertà e, dopo due giorni di sesso fulltime (a scopo di tranquillizzare), la riaccompagna in aeroporto comunicandole che ha intenzione di sposarsi con una collega americana. Questo chiarisce tutto a Nicoletta: il suo Stefano è sempre stato contrario al matrimonio e dunque solo apparentemente è lui, quello che ha di fronte è un essere controllato da una volontà aliena che ne decide i comportamenti.

Tornata in Italia con la certezza di dover aspettare che la fattura fatta su Stefano cessi il suo effetto, Nicoletta riprende in mano la propria vita, si iscrive a giurisprudenza ed inizia a lavorare in un importante studio legale. Ai suoi occhi tutte queste sono attività preparatorie per renderla migliore e più attraente per il momento in cui Stefano, disintossicato dalla fattura, tornerà per non lasciarla più.

Questo piano di preparazione e mantenimento è a trecentosessanta gradi: anche come femmina vuole mantenersi in forma e,  nei successivi quattro anni, ha altrettante storie rilevanti con degli uomini che hanno in comune il fatto di chiamarsi Stefano (le sembrerebbe un tradimento cambiare nome). Con nessuno fa dei progetti a lunga scadenza, la loro funzione è  mantenerla in forma perfetta per il ritorno di Stefano.

Si noti che, al di fuori di questa sorta di delirio incistato sull’imperituro amore, la sua vita procede normalmente, ricca di rapporti sociali e affettivi e con rilevanti successi professionali.

Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche. - Immagine: © Guido Vrola - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche.

E’ buona pratica ricostruire attentamente l’anamnesi personale di ciascun paziente anche quando, come Nicoletta, l’emergenza è attuale come l’abbandono sull’altare. La storia di Nicoletta era scritta nel suo corpo: viso dispettoso e intelligente da prima della classe, occhi vispi e continuamente saettanti a non perdere nulla, capelli neri a caschetto a denunciare le origini sarde, vistoso sovrappeso al confine con l’obesità, in sintesi una ragazza graziosa, ma resa sgraziata da un andatura gravemente claudicante che la fa oscillare ad ogni passo, come sul punto di cadere. Immagino una tetra paresi spastica infantile ma non è così. L’incidente, così lo chiama, è accaduto  all’età di diciassette anni.

La famiglia di Nicoletta è composta dal padre Gervaso, dalla madre Clotilde e da una sorella, Valeria, più giovane, bella, brillante e studentessa di medicina. Gervaso, impiegato delle poste,  di origini sarde, è orgoglioso, severo, convinto che volere è potere. E’ un omino basso e testardo che Nicoletta sente come un giudice implacabile di cui conquistare l’approvazione. Gervaso, certo non bello nè ricco, ha conosciuto la bellissima Clotilde durante una vacanza dalla nonna in Sardegna, quando si facevano tre mesi di villeggiatura, da giugno a ottobre. Clotilde, figlia di uno dei maggiori possidenti terrieri del paese del campidano, ha accettato di sposarla perché anche lei ha un difetto nascosto: era una figlia su ordinazione. Il padre Don Rinaldo non riusciva ad avere eredi dalla ormai matura consorte Donna Carla. Il patrimonio non poteva andare disperso e, così, Carla stessa scelse per il marito una sana e giovane popolana con cui avrebbe fatto un figlio che loro avrebbero allevato come fosse  proprio.

Clotilde crebbe con l’amore dei genitori iperprotetta e viziata, ma la fortuna venne meno quando aveva nove anni: Don Rinaldo divorziò da Donna Carla e fece altri tre figli con la popolana, con cui evidentemente doveva essersi trovato piuttosto bene. Quella diventò la sua nuova famiglia e i due figli maschi i suoi eredi. Clotilde invece restò a vivere con Donna Carla che iniziò ad odiarla, considerandola causa della fine del suo matrimonio e della vergogna che li aveva colpiti. Pur se lei non aveva nessuna colpa, si sentiva additata come responsabile di qualcosa di sporco e di disonesto.

Se Donna Carla la odiava, altrettanto faceva il padre e la sua nuova moglie, in quanto rappresentava il legame con il passato ed era la prova vivente del loro scellerato e ingannevole patto.

Stando così le cose, non le parve vero mollare tutto e seguire il piccolo impiegato postale Gervaso nella capitale, dove nessuno la conosceva. Clotilde, dunque, non sapeva  molto bene il mestiere di madre amorevole e verso la piccola primogenita nutriva una certa soggezione, si sentiva sempre inadeguata e temeva il momento in cui la figlia avrebbe conosciuto la sua storia.

Nicoletta fu cresciuta secondo valori molto rigidi: nella vita occorre una onestà cristallina, in modo che nessuno possa sparlare alle spalle, tutto va conquistato con l’impegno e la fatica e nulla arriva gratuitamente. A Roma un sardo è comunque in terra straniera e per ottenere gli stessi successi dei continentali deve fare almeno il doppio; se poi è donna un ulteriore doppio che fa il quadruplo.

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Nicoletta era sempre stata la prima della classe, i suoi sforzi ottenevano riconoscimenti scolastici e questi l’amore orgoglioso dei genitori. Per offrire alla figlia le migliori opportunità l’avevano iscritta ad un liceo classico di religiosi da dove usciva la futura classe dirigente. Il quarto ed il quinto ginnasio erano stati una cavalcata trionfale. Con il cambio dei docenti le cose erano cambiate e, prima della pagella del primo trimestre del primo liceo, aveva già collezionato insufficienze in greco, storia e  matematica. La risposta di Nicoletta a questa difficoltà fu quella che conosceva: impegnarsi di più, studiare giorno e notte, eliminare le amicizie e anche solo il pensiero di un fidanzatino ma, nonostante gli sforzi e le rinunce, i risultati non arrivavano. Allora, ritenne di essere oggetto di una discriminazione in quanto sarda, provava un rabbioso senso di ingiustizia che riconobbe, anni dopo, identico nella separazione da Stefano. Sentirsi maltrattata e impotente la mandava al manicomio perché la strategia che conosceva per fronteggiare le difficoltà (volere e potere e volere ancora di più) non funzionava.

Storie di Terapia #10 - Le bugie di Filippo. Immagine: © Stephen Coburn - Fotolia.com
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Pensò che le professoresse che le avevano dato le insufficienze fossero state condizionate dal preside, Don Nazareno che, a suo parere,  non le aveva perdonato di aver rifiutato l’offerta di lezioni private di recupero ed era mosso, sempre secondo lei, da un insano interesse sessuale nei suoi confronti e le ripetizioni erano una trappola. A riprova di ciò, raccontava che, un giorno,  il preside le aveva fatto i complimenti per l’eleganza con cui indossava la gonna a pieghe blu, divisa della scuola: evidentemente le guardava i fianchi e le gambe.

Per circa un mese fu tormentata da pensieri ossessivi intrusivi riguardanti gli organi sessuali del preside e le possibili acrobazie erotiche. Pensò di parlarne con i genitori prima dell’arrivo della pagella natalizia ma temette che non le avrebbero creduto, immaginò il padre deriderla e dirle che era un modo per non prendersi le sue responsabilità e attribuire agli altri le conseguenze del suo scarso impegno.

Era in una situazione senza via d’uscita, la vergogna della famiglia per quella pagella e lo sarebbe stata ancora di più se avesse raccontato le sue certezze sul complotto del preside satiro. La settimana prima di Natale i genitori decisero di andare a sciare: la gita prevedeva partenza all’alba, con attrezzatura da neve rimediata da amici e parenti. Di tuta impermeabile ne fu trovata una sola, così il padre decise che sarebbe andata Valeria, che era migliore a scuola e Nicoletta sarebbe rimasta a casa a studiare per recuperare. Nicoletta pensò che aveva fallito nel tentativo di far felici i suoi genitori, che nessuno l’avrebbe mai voluta e che non meritava nulla, la vita le sembrò una strettoia in salita sempre più soffocante e intollerabile.

Scelse il cortile interno convinta che avrebbe sentito meno freddo, perché più riparato dal vento e che avrebbe sporcato di meno. Non era ancora del tutto giorno quando la camicia da notte le si arrotolò sotto le braccia e dietro la testa mentre precipitava dal quinto piano.

Nel cadere, si ricordò la formula della quantità di moto studiata per fisica la sera prima ed equivalente a massa per  velocità. Si disse anche che, prima di morire, si fanno proprio pensieri sciocchi e che non è vero che si rivede tutto il film dell’esistenza. Ricorda perfettamente lo spalancarsi delle finestre interne, le grida soffocate dalla coltre di nebbia invernale, l’accorrere del portiere con una coperta militare per proteggerla dal freddo in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, l’odore del sangue impastato alla terra, la voglia di vomitare. In ambulanza capì che aveva fallito un’altra volta e che, d’ora in poi, sarebbe stata Nicoletta la matta, vergogna di tutta la famiglia. Pregava di morire perché le sembrava di averla combinata grossa, peggio delle insufficienze in pagella, ma la morte non sta ai nostri desiderata nè per allontanarla nè per chiamarla e sopravvisse. Ricoveri, operazioni, terapie, psicoterapie, fisioterapie, si scatenò il gioco delle colpe. Clotilde additava la severità di Gervaso per non vivere l’accaduto come la drammatica conferma di quello che dentro aveva sempre sentito: essere una madre inadeguata. Valeria si sentiva in colpa per essere la sorella di successo, pesante confronto per Nicoletta. La famiglia stava per disintegrarsi, se non fosse stato per la necessità di fornire assistenza a Nicoletta che, forse, non avrebbe più camminato da sola per tutta la vita.

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
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Andarono insieme in terapia familiare e la diagnosi tranquillizzò tutti: Nicoletta aveva un disturbo borderline di personalità, che significava che stava in bilico tra la normalità e la follia. Era una questione di carattere, non sarebbe mai cambiata e avrebbe reso burrascose le relazioni con gli altri. Per conto loro non potevano far altro che camminare per la loro strada senza farsi intralciare dai tentativi di Nicoletta di richiamare l’attenzione, come aveva fatto con il tentato suicidio. Se non era morta evidentemente non ne aveva intenzione e voleva solo farli sentire in colpa, se avessero concesso maggiori attenzioni avrebbero involontariamente rafforzato questi comportamenti clamorosi e isterici.

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La ragazza lentamente si era ripresa e, pur non avendo mai smesso la fisioterapia, riusciva a camminare senza bastone.

Trova lavoro prima in un call center e poi come segretaria in uno studio medico e viene sempre apprezzata. Lo scarso movimento causa, negli anni successivi, un sensibile sovrappeso che offusca la sua fresca e discreta bellezza. 

Per Nicoletta tutto ciò faceva parte di un’ anamnesi patologica della quale non amava parlare e che ricordava come “l’incidente”, una parentesi chiusa e senza significato.

Anch’io mi sentivo come un curioso non autorizzato, un voyer, a occuparmi di quegli eventi passati che pure mi sembravano importanti. Peraltro, superato il trauma dell’inaspettata separazione, Nicoletta è tutt’altro che una persona cupa e triste: appare sorridente, con una grande facilità ad istaurare rapporti positivi che possono essere cordiali e superficiali, ma anche profondi.

La prima terapia con Nicoletta si concluse felicemente e di comune accordo quando lei era giunta alla soglia dei trent’anni. Aveva cessato tutti i comportamenti di stalking nei confronti di Stefano, che continuava a vivere negli Stati Uniti, si era laureata in giurisprudenza e collaborava presso uno studio legale, aveva molte amicizie, viaggiava molto e non le mancavano relazioni affettive significative, né una soddisfacente vita sessuale.

Sembrava convinta che la storia con Stefano fosse stata meravigliosa, ma davvero finita.

Per alcuni anni il ricordo di Nicoletta lo riposi nel cassetto delle terapie concluse con successo in cui vado a scartabellare quando le cose non vanno troppo bene e viene il dubbio di essere un incapace. Quando mi richiamò temetti di doverle cambiare cassetto e ciò mi procurò fastidio. Era guarita, ora cos’altro c’era? In realtà era in un’altra fase di vita, aveva trentotto anni e si preoccupava di non riuscire ad avere un figlio.

Mentre per me stava nel cassetto dei “casi risolti”, aveva avuto tre storie importanti e, finalmente, anche con nomi diversi da Stefano, ma si trattava sempre di uomini che non potevano darle dei figli: Roberto era sposatissimo con due figli piccoli, Mauro un compagno di lavoro, la amava ma non riusciva a prendere nessuna più piccola decisione per la sua vita e Alfredo aveva persino frequentato la famiglia di Nicoletta  mostrando le più serie intenzioni ma, con imbarazzo di tutti, aveva messo incinta Valeria e ora conviveva con lei ed il piccolo Luca di due anni. Numerosi erano gli uomini che ne decantavano le doti, aspiravano ad una relazione e avevano una sistematica vita sessuale con lei, ma non mostravano nessuna intenzione matrimoniale o di genitorialità condivisa. Convinta Nicoletta che la teoria della sfortuna e, dunque, di aspettare l’anima gemella non ci avrebbe condotto da nessuna parte, iniziammo a considerare come andavano le cose.

I motivi apparvero subito di due tipi. In primo luogo, quello evidente anche nella relazione con me: Nicoletta si era sempre sentita indegna e di poco valore ed oggi ancora di più a motivo dell’handicap di cui colpevolmente soffriva. Per questo, non poteva pretendere nulla dal partner, l’unico modo che aveva per tenerselo almeno un po’ vicino era di non fare richieste e di assecondarlo in tutti i desideri, accettare ogni condizione e non porne alcuna.

Recensione di “La pelle che abito” di Pedro Almodovar. - immagine: locandina cinematografica
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Manifestava un quadro maestoso di un disturbo dipendente di personalità, per certi versi ricordava  “Agrado”,  il transessuale protagonista del film “Tutto su mia madre” di Almodovar che ha, nel nome, il destino di far contenti gli altri chiunque essi siano e a qualsiasi condizione. Semplicemente il desiderio di maternità non lo aveva mai espresso.

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Ci si potrebbe chiedere perché però non fosse mai venuto in mente ai suoi partner e qui emerge il secondo tema, che mette in dubbio la collocazione nel cassetto da me fatta: lei si era sempre scelta degli uomini inaffidabili, spaventati dalle responsabilità o già impegnati, forse per senso di indegnità e per punirsi? Peggio. Con un certo imbarazzo, che il mio sguardo lampeggiante non deve aver diminuito, Nicoletta ammette: finchè non mi lego definitivamente è sempre possibile che Stefano lasci la moglie e torni da me. Il figlio di un altro sarebbe un intralcio, del resto che i figli di altri costituiscano un ostacolo insormontabile fa parte della storia familiare di Nicoletta.

Quando mi elenca le prove certe, che ha, del prossimo fallimento del matrimonio americano di Stefano è delirante e contemporaneamente parzialmente critica. Il mio sguardo, che unisce pena per lei e frustrazione per me, sottolinea i bias confermazionisti e lei capisce e annuisce come a dirsi “me la racconto vero?”. La produzione scientifica di Stefano è diminuita a riprova dei problemi che sta attraversando, non ha ancora un figlio, il che certifica l’assenza di rapporti sessuali e, in tutti questi anni non si è mai fatto vivo perché sente che, anche un contatto fugace, manderebbe all’aria la sua esistenza americana. Nel suo blog parla di ecologia, che era un argomento di cui erano appassionati insieme, l’elezione di Obama è un segno che lui le ha mandato per dirle che negli USA c’è spazio per tutti e anche lei sarà ben accolta, quando lo raggiungerà. La madre di Stefano, sempre di ostacolo alla loro relazione, è finalmente morta e, anche in quest’occasione, Stefano non è tornato in Italia per sfuggire alla tentazione che lei rappresenta.

Senza indugi apro il cassetto e le prescrivo dei neurolettici, mentre le spiego che è davvero troppo matta e spero che le medicine possano ciò che la psicoterapia non ha potuto. E’ come se le avessi dato una testata sul naso, in  fondo lo farei volentieri, odio i pazienti che non “mi” guariscono e, peggio, quelli che sembravano guariti e non lo sono.

Decido di riesaminare passo per passo il rapporto con Stefano.

Questa sarà per lei la parte più straziante della terapia e più volte ho temuto un suicidio. Nicoletta, già con la prima terapia, aveva rinunciato all’idea di tornare con Stefano ma non ad un’ idea ancora più importante e narcisistica: lei e Stefano avevano vissuto la storia d’amore più grande che il mondo avesse mai conosciuto e questa esperienza, unica e assoluta, nessuno poteva mai togliergliela anche se non fossero più stati insieme. Partimmo alla ricerca delle ragioni per cui Stefano non aveva mai detto nulla delle sue difficoltà fino al giorno del rogito; non diceva nulla perché aveva paura delle reazioni di lei, Stefano era un bambino spaventato da una madre che minacciava di uccidersi se lui non avesse obbedito.

Con questa chiave di lettura rilesse tutta una serie di avvenimenti della loro storia in cui il forte disaccordo tra i due  veniva seppellito fingendo una falsa alleanza per evitare il conflitto e la temuta separazione, intollerabile per la abissale dipendenza di entrambi che nulla aveva a che fare con un effettivo amore. Pensò che Stefano doveva averla profondamente odiata e doveva essersi sentito perseguitato non solo durante lo stalking, seguito alla separazione, ma anche durante la convivenza.

 Contemporaneamente Nicoletta ebbe accesso a ricordi sgradevoli della loro relazione che non erano mai emersi prima. Trovava insopportabile Stefano quando elencava agli amici tutto ciò che faceva per aiutarla nel suo handicap, era irritata dal suo occuparsi della cucina solo in presenza di estranei, non tollerava che fosse a totale disposizione dei capricci della madre e che non la difendesse mai quando la vecchia ubriacona risollevandosi dalle pozzanghere di vomito in cui cadeva accusava “quella povera infelice sciancata” di essere la causa di tutti i suoi dispiaceri e del conseguente ricorso all’alcool, provava disgusto per le approssimative abitudini igieniche di Stefano e per l’abitudine di masturbarsi ripetutamente mentre stava a letto con lei.

Avere accesso a questi contenuti demolì l’idea narcisistica di “storia d’amore unica e perfetta” che aveva voluto mantenere anche dopo aver perduto Stefano. Il suo umore cadde in picchiata, ma mi trattenni dal prescrivere antidepressivi, quell’infinita tristezza era il deserto che andava attraversato per raggiungere la terra promessa della normalità, lasciandosi alle spalle le narcisistiche cipolle d’Egitto.

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Nessuna delle successive relazioni erano state paragonabili a quella con Stefano, che risultava sempre vincente. Ora, invece, iniziava ad apprezzare relazioni in cui non ci fosse una sola persona ma due, che potevano anche essere in disaccordo, scontrarsi e persino allontanarsi un po’. Non credo per principio alla significatività delle coincidenze, ma restammo colpiti quando in una delle ultime sedute scoprimmo che il neurochirurgo che miracolosamente e contro ogni aspettativa le aveva salvato la vita dopo il volo dal quinto piano, era lo stesso che si era occupato del mio cervello, nella pausa intercorsa tra la prima e la seconda psicoterapia.

Ho rimesso Nicoletta nel cassetto dei casi risolti.

Il fatto di averla nuovamente sentita in occasione del battesimo di suo figlio, che porta il mio nome, mi conferma che sia la collocazione giusta. 

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Ketamina: nuova strada per la cura della Depressione?

 

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Di Elena Lucchetti. 

Le ricerche sulla depressione sembrano aver individuato una nuova strada: l’utilizzo della ketamina, a bassi dosaggi, per alleviare i sintomi della depressione maggiore, resistenti ai trattamenti standard.

Questa proprietà della sostanza era già conosciuta da circa un decennio, ma solo recentemente Ronald e collaboratori dell’Università di Yale, ne hanno compreso i meccanismi d’azione. Questo evento è di notevole importanza in quanto la ketamina, che spesso è stata adottata come “droga da strada”, può dare dipendenza e a dosi elevate può provocare sintomi psicotici.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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I farmaci antidepressivi di nuova generazione agiscono, mediante l’inibizione della recaptazione della serotonina, per alleviare i sintomi e la loro azione comincia in genere 2-3 settimane dopo l’inizio della cura. E’ un arco di tempo lungo per chi soffre e mette in atto comportamenti che mettono a repentaglio la propria salute. Con la ketamina, invece, l’effetto antidepressivo si manifesterebbe dopo ore e non dopo giorni. O anche solo dopo 40 minuti

In uno studio condotto dal Zarate jr veniva somministrata la ketamina per via endovenosa a 18 pazienti malati di depressione maggiore resistente ai farmaci e dando ad altrettanti depressi un placebo. Il tono dell’umore si alzò nei primi 18 nel giro di due ore e durò fino a una settimana, cosa che non avvenne con il placebo.

In un’altra ricerca, Duman a Aghajanian, hanno messo in luce come la ketamina induca il rilascio del neurotrasmettitore glutammato, il quale, a sua volta, stimola la crescita delle connessioni sinaptiche (neuro genesi) specialmente nel giro dentato e nell’ippocampo.

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Tuttavia non è sempre certo che la perdita di funzionalità o l’atrofia delle cellule nervose porti alla depressione, e non sempre lo stress inibisce la neurogenesi, quindi si pone l’esigenza di comprendere meglio le relazioni fra diversi fattori e processi che la influenzano, per mettere a punto degli antidepressivi sempre più efficaci e sicuri.

Di questo aspetto si sono occupati Eisch e Petrik, dell’University of Texas Southwestern Medical Center, con uno studio sul complesso dei processi endocrini e dei percorsi di segnalazione neurochimica che controllano la neurogenesi e i loro rapporti con il comportamento. Il modello mette in luce l’importanza dei processi di regolazione locale di neurogenesi e in particolare nell’ippocampo, l’area cerebrale responsabile, se danneggiata, delle difficoltà di memoria, dei problemi di apprendimento e l’abbassamento dell’umore che si presentano congiuntamente nella depressione.

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Pillole o Parole?
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Le attuali ricerche si scontrano con problemi etici e pratici dovuti alle limitazioni dello studio della depressione in soggetti umani. Il sostitutivo utilizzo dei modelli animali non potrà mai essere soddisfacente, in quanto gli animali rispondono ai farmaci antidepressivi in modo differente e, quindi, vi è un’ incapacità di cogliere la complessità di questa malattia. Inoltre, occorre individuare il peso dei fattori genetici e ambientali.

Il contributo degli studi sulla ketamina è importante perché mette in luce che non solo la serotonina e la dopamina sono coinvolte per il tono dell’umore, ma vi sono altre sostanze e altri processi. I risultati ottenuti aprono nuove vie di ricerca del disturbo depressivo nelle differenti fasi di evoluzione del disturbo e nelle diverse fasi della terapia.

La ricerca potrebbe estendersi anche al campo delle psicosi.

ARTICOLI SUI DISTURBI DELL’UMORE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Paul Gilbert: “Non è colpa vostra”, Reportage dal seminario sulla Compassion Focused Therapy

Luca Calzolari.

Paul Gilbert & Luca Calzolari al Seminiario sulla Compassion Focused Therapy a Vicenza
Prof. Paul Gilbert e il Dott. Luca Calzolari al seminario sulla Compassion Focused Therapy del 13-14 ottobre 2012

Non è colpa vostra! Questa frase ripetuta come un mantra da Paul Gilbert ci ha accompagnato per tutto il seminario sulla Compassion Focused Therapy (CFT) organizzato da Isimind a Vicenza il 13-14 ottobre 2012.

Il motivo principale per cui ho deciso di parteciparvi era per avere un’idea più chiara di un modello, ascrivibile alla terza ondata della terapia cognitiva, e capirne le sue applicazioni cliniche.

TERAPIE DI TERZA ONDATA: MINDFULNESSTERAPIA METACOGNITIVAACT (ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY)DBT (DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY) – CFT (COMPASSION FOCUSED THERAPY) 

La CFT, o Terapia basata sulla Compassione, è stata sviluppata dallo psicoterapeuta Paul Gilbert , professore di Psicologia Clinica all’Università di Derby (UK). Il concetto cardine è proprio quello di compassione che possiamo definire come una particolare sensibilità verso noi stessi e verso gli altri.

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
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La difficoltà ad accedere a questa dimensione per alcuni pazienti è per Gilbert la conseguenza di esperienze precoci con figure di attaccamento caratterizzate da trascuratezza o abusi.

Non è colpa vostra” si spiega proprio nell’aiutare i pazienti, soprattutto quelli che hanno come temi problematici la vergogna e l’autocritica, a vedere come certi aspetti dolorosi della propria vita siano emersi senza che loro potessero farci nulla. L’obiettivo è quello di accompagnare la persona ad aprirsi a sensazioni di calore umano e vicinanza, le stesse che in un determinato periodo della sua vita sono state continuamente criticate ed invalidate.

Per far questo Gilbert ricorre a studi di neurofisiologia in cui vengono descritti tre sistemi di regolazione emotiva. Il primo è formato da emozioni “negative”, funzionali a proteggerci dalla minaccia (ansia e rabbia per esempio), che quando vengono attivate inducono una iper focalizzazione dell’attenzione e una serie di cambiamenti a livello cognitivo, comportamentale e neurovegetativo.

ARTICOLI DI NEUROSCIENZE NEUROPSICOLOGIA 

Oltre a questo sono presenti i due sistemi responsabili delle emozioni “buone”, molto meno sviluppati nei pazienti rispetto a quello delle emozioni negative; il primo è orientato verso le emozioni attivanti (ad esempio eccitamento) e l’altro, vero bersaglio della TFC, è contraddistinto da emozioni legate alla calma, all’empatia, alla rassicurazione e sintonia con gli altri e con sé.

 Il razionale della terapia è quello di costruire una relazione in cui punto centrale sia la compassione verso quei temi di vergogna ed autocritica in modo che il paziente possa interiorizzarla ed utilizzarla verso di sé. Questo punto assomiglia sotto vari aspetti a quello di reparenting di Young, come il grande ricorso alle tecniche immaginative oltre che un attenzione particolare per la Mindfulness che caratterizza l’esperienza del sé compassionevole.

Come per la Schema Therapy un aspetto del trattamento mi lascia dubbioso, cioè il rischio che si corre nel riattivare l’attaccamento all’interno della relazione terapeutica proprio in quei pazienti con alle spalle relazioni d’attaccamento estremamente dolorose e traumatiche

TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHEATTACCAMENTO 

EABCT 2011 Congress
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L’attenzione da parte di Gilbert alle esperienze traumatiche nell’attaccamento mostra come queste terapie di nuova generazione sottolineano l’importanza del ruolo delle relazioni precoci, di fatto cercando di proporre un modello clinico più articolato rispetto alla singola suggestiva tecnica. La sensazione che però ho avuto è la mancanza di un integrazione tra i vari aspetti che possa permettere di avere chiaro nella mente un modello strutturato per poter lavorare con la complessità del paziente.

 

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BIBLIOGRAFIA:  

  • Franco Angeli “La terapia basata sulla compassione” di Paul Gilbert curato da Nicola Petrocchi. SCARICA IL BOOKTRAILER 

 

Il caso del “Bambino di Padova”, tra etica giornalistica e risvolti legali

 

 PSICHE & LEGGE #2

Il caso del “Bambino di Padova”,

tra etica giornalistica e risvolti legali 

Psiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

 

RUBRICA PSICHE & LEGGE

Il caso del “Bambino di Padova”, etica giornalistica e risvolti legali #2Sul “caso di Padova” si è detto tutto. Si è detto troppo. Il circo mediatico si è messo in moto, l’inarrestabile meccanismo della tv e della rete non spegnerà presto i riflettori sulla delicatissima questione che vede come protagonista, suo malgrado, un minore.

E allora perché tornare a discuterne anche ora, scrivendo queste righe? Un motivo c’è. Ristabilire gli equilibri in maniera asettica, o meglio, tecnica. Far luce su alcuni aspetti, probabilmente “oscuri” per internauti, lettori o spettatori dei talk show, estranei al mondo della legge.

Basta fare zapping per ascoltare termini giuridici (prelievo coattivo del minore, decadenza dalla potestà) talora poco comprensibili per i non addetti ai lavori. L’intento di questo breve intervento, dunque, non sarà quello di supportare il partito della madre, del padre, delle forze dell’ordine, della zia materna che ha filmato il video “dell’esecuzione”, o dei giornalisti che lo hanno diffuso.

Del resto, non se ne conoscono le carte processuali, e qualsiasi presa di posizione sarebbe superficiale e, probabilmente, inesatta. Così, senza alcuna pretesa di entrare nel merito della vicenda, della quale solo le parti in causa conoscono ogni minimo risvolto, ci si limiterà a fornire le chiavi di “lettura giuridica” del caso, tentando di chiarirne gli snodi principali, primo fra tutti, quello inerente la Sindrome da Alienazione Parentale (nota come Pas).

Ebbene, sorvolando sugli aspetti clinici di tale dinamica psicologica – affrontati, su questo giornale, da altri autori esperti in materia – ci si chiede: quando la condotta di uno dei genitori, dal punto di vista legale, è qualificabile come Pas? E che peso avrà nelle dinamiche processuali? Ove accertata, se accertabile, a quali soluzioni si potrà ricorrere?

Partiamo da un dato di base. L’ordinamento giuridico italiano, in virtù della Legge n. 54/06 (resa in attuazione dei principi presenti in ambito europeo, nonché della Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989, e resa esecutiva in Italia con Legge n. 176/91) prevede oggi l’affidamento condiviso come regime ordinario.

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Ciò vuol dire che, salvo casi particolarissimi – in cui il giudice ritenga, all’esito di un attento vaglio, che l’affidamento condiviso possa recare pregiudizio al minore – il bimbo sarà affidato ad entrambi i genitori. L’affido condiviso, però, non significherà, come molti erroneamente pensano, che la prole dovrà necessariamente trascorrere pari spazi temporali con la mamma ed il papà.

Una tale scelta, va da sé, riserverebbe al minore una vita “da pacco postale”, destinato a spostarsi senza sosta, fino alla maggiore età, da un genitore all’altro. Per questo motivo, anche in caso di affidamento condiviso, il figlio sarà stabilmente collocato presso l’uno o l’altro dei genitori. La novità di rilievo, pertanto, risiede nel fatto che – nell’innovato sistema – non solo ciascuno dei genitori ha pari doveri e pari diritti nei confronti della prole, ma diventa legge il diritto del minore alla bigenitorialità. Espressione, questa, che va intesa come diritto dei figli a mantenere rapporti sani ed equilibrati con ciascun genitore.

Quel che si vuole garantire al minore, dunque, è la stabilità affettiva, la possibilità di continuare – anche a seguito della separazione o cessata convivenza dei genitori – a vivere, seppur non fisicamente, in un tessuto familiare improntato sulla presenza emozionale di entrambe le figure, materna e paterna.

Purtroppo, fa male constatarlo, la coppia che decide di lasciarsi, a volte dimentica che diventare “ex” non deve e non può significare trasformarsi in “genitori a metà”. Genitori si è al cento per cento, e tali si deve restare per sempre, a prescindere dai motivi che hanno provocato la fine del rapporto, o dai torti e dalle ragioni sbandierati da due persone che non si amano più.

Mio malgrado, però, i fascicoli che riposano nel mio archivio, o che fremono decisioni, posati sul tavolo di studio, di sovente, attestano il contrario. Rammarica riscontrare che, troppo spesso, le carte processuali parlano di minori “usati” come armi di ricatto, come bottini da difendere a tutti costi. Già. Perché il figlio, ahimè, anziché frutto dell’amore, diviene sinonimo di assegno, di casa familiare, di benefici. Certo, non sempre, ma quanto basta perché nasca l’esigenza di rispondere con fermezza a condotte “disattente”, poste in essere da genitori troppo concentrati sulle proprie esigenze, sul proprio desiderio di riscatto e di vendetta per la fine della loro storia, da disinteressarsi dei bisogni più reali del minore.

Di qui, la condanna per ogni forma di coinvolgimento dei figli nelle battaglie “dei grandi”, indice d’inadeguata capacità genitoriale e fonte di inevitabili negative ripercussioni sul percorso di crescita della prole, lesa nella serenità e nello sviluppo dell’autostima. Condizione, quella descritta, che si aggrava quando allo svilimento del ruolo del genitore non convivente con la prole, si affianchi una vera progettualità ideata dall’affidatario o collocatario, che elabori un piano ben preciso, teso ad escludere l’altro dal percorso di vita del figlio, denigrandolo, ridicolizzandolo, e vestendolo dei panni di “cattivo genitore”.

Genitore, quello alienato, dal quale è un bene fuggire, che è deleterio incontrare. Un clima, in cui il minore viene manipolato, istruito ad accusare malore o stanchezza in occasione degli incontri con il genitore non convivente, o, ciò che più duole, indotto a rifiutarne “volontariamente” le visite, alleandosi al “genitore buono”. In tali circostanze si parla di Pas, che la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha riconosciuto come abuso (cfr. Linee guida in tema di abuso sui minori, redatte su indicazioni contenute nel Piano Sanitario Nazionale, nel Progetto Obiettivo Materno Infantile e nel Progetto Obiettivo Salute Mentale).

Linee, che racchiudono sia le definizioni di abuso dell’O.M.S., che le classificazioni delle varie forme abusanti, nel cui ambito la Sindrome di Alienazione Genitoriale compare come abuso psicologico, ovvero come “alienazione di una figura genitoriale da parte dell’altra”. Ad ogni modo, a prescindere dalla dibattuta questione sulla preferibile elisione del termine Sindrome in favore dell’espressione “Alienazione Parentale” – di probabile introduzione nel DSM V, tra i “Disturbi Relazionali” – resta il fatto che a tali atteggiamenti il sistema giuridico deve rispondere in maniera forte, stanti gli incontrovertibili rischi per la salute mentale del minore.

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Ed ecco che, ostacolare i rapporti del figlio con l’ex, può costare persino la decadenza dalla potestà genitoriale, intesa come il potere che la legge attribuisce ai genitori, tenuti (nel rispetto del dovere di mantenere, istruire ed educare la prole) ad esercitarlo esclusivamente nell’interesse dei figli. Per le spiegate ragioni, nell’ipotesi in cui il genitore venga meno, in maniera gravissima, a detti doveri, morali e patrimoniali, trascurando/abusando del minore, decadrà dalla potestà.

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Questo, in sostanza, è quanto accaduto a Cittadella. Ma cosa vuol dire esattamente “decadere”? Di certo, non vuol dire che il giudice decida di troncare ogni rapporto tra il minore e il genitore, che non riesca o non voglia attendere al suo ruolo. Se così fosse, non solo si finirebbe per traumatizzare ulteriormente il bimbo, ma si sottovaluterebbe la concreta possibilità che il decaduto possa comprendere gli errori commessi, lavorare su se stesso – magari con il sostengo di una mirata psicoterapia – e riconquistare il naturale potere di decidere per il figlio, o di vederlo liberamente.

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Decadenza, dunque, significherà “controllare” il comportamento del genitore, affiancarlo nei momenti di contatto con la prole, obbligarlo al rispetto di una serie di indicazioni che il Giudice avrà studiato a tutela del minore. È evidente, allora, come un tale provvedimento – emesso dal Tribunale, ma reclamabile in Appello – proprio perché teso al benessere del piccolo e, perché no, al recupero di un sano rapporto con il genitore decaduto, sarà revocabile e modificabile in ogni tempo.

Tuttavia, fino a “contrordine” dell’autorità, disposto a seguito di un’attenta revisione della situazione familiare, la sentenza che abbia dichiarato la decadenza dalla potestà deve essere rispettata ed eseguita. Questo va annotato e precisato, anche e soprattutto con riferimento alla vicenda padovana, caso in cui il mancato rispetto della decisione giudiziale si protraeva da ben tre anni! Ma cosa accade se i genitori, anziché collaborare con le istituzioni, preparare il figlio al distacco, o consegnarlo spontaneamente, si oppongano all’esecuzione del provvedimento del giudice? Accade che saranno i Servizi Sociali, e le Forze dell’Ordine in loro ausilio, a dover scendere in campo, e fare in modo che la sentenza sia attuata (cfr. Linee guida per i processi di sostegno e di allontanamento del minore).

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Il punto di vista, da Presidente Territoriale A.M.I. (Associazione Matrimonialisti Italiani). Nell’indicata veste, non posso che aderire alle puntuali e perspicaci perplessità sollevate dal Presidente Nazionale, stimato Avv. Gian Ettore Gassani. Concordo con il Collega, quando si chiede il perché, durante il prelievo, vi fosse la presenza dei genitori del minore e di alcuni parenti materni, e il perché gli stessi, a fronte delle resistenze opposte, non siano stati allontanati o arrestati data la flagranza dei reati in concorso di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

 Il punto di vista, da Giornalista. La mia professione di Avvocato, convive da anni con quella di Giornalista iscritta nell’albo dei pubblicisti. Ebbene, ricordo che proprio in sede di esame, fui chiamata a parlare della Carta di Treviso, un documento appositamente scritto per garantire la privacy dei minorenni. Rinviando gli interessati alla lettura della Carta, basterà qui annotare, in via estremamente esemplificativa che, a mezzo di tale protocollo – firmato da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono Azzurro – si è voluta tessere una rete di protezione dei diritti dell’infanzia, a tutela della sua riservatezza.

In effetti, se è vero che la Carta costituzionale sancisce il diritto di cronaca, è anche vero che nel fornire le notizie, i mezzi d’informazione sono tenuti ad attenersi al rispetto di “regole” ben precise. Si esige, ad esempio, che “nessun bambino dovrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegali nella sua privacy né ad illeciti attentati al suo onore e alla sua reputazione”, alla luce del “presupposto che la rappresentazione dei loro fatti di vita possa arrecare danno alla loro personalità. Questo rischio può non sussistere quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando”.

È gravissimo, pertanto, che, ancora una volta, si assista ad una palese violazione di un apparato cristallino, che non tollera pericolose intromissioni nella sfera privata del minore, e che obbliga il giornalista all’osservanza di tutte le disposizioni penali, civili e amministrative che regolano l’attività di informazione e di cronaca giudiziaria in materia di minori, specie se coinvolti in procedimenti giudiziari. E se va garantito l’anonimato del minore coinvolto in fatti di cronaca – anche non aventi rilevanza penale, ma lesivi della sua personalità – va altresì “evitata la pubblicazione di tutti gli elementi che possano con facilità portare alla sua identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo dell’abitazione o della residenza, la scuola, la parrocchia o il sodalizio frequentati, e qualsiasi altra indicazione o elemento: foto e filmati televisivi non schermati, messaggi e immagini on-line che possano contribuire alla sua individuazione”.

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Anonimato da garantirsi, si badi, anche nei casi di affidamento o adozione, o inerenti genitori separati o divorziati, così evitando – si legge nell’atto – “sensazionalismi”. Ebbene, non credo occorrano altre parole per rendersi conto di quanto sia sconcertante la vicenda di Padova, ove si pensi alla diffusione mediatica del video. E allora mi domando. Prima che l’esecuzione in sé (contestabile o meno, anche alla luce degli esposti rilievi) di un provvedimento emesso dalla magistratura minorile – in linea con il benessere psicofisico del minore – non è forse l’aver filmato e messo in onda il “prelievo” a ledere, più di tutto, la serenità del bambino? Per quanto tempo si parlerà ancora del piccolo Leonardo? Quanti salottini televisivi riproporranno quelle immagini, peraltro filmate da parenti?

Sappiamo bene che passeranno mesi, prima che possa finalmente calare il sipario su tanto squallore. Senza contare, che la sete di spiare la vita degli altri, di accendere l’occhio del “grande fratello” sui drammi del “vicino di casa”, purtroppo, non farà che alimentare sterili discussioni su fatti di cui, a ben vedere, nulla o poco sappiamo. Ma se una familiare arriva al punto di “portare in TV” lo strazio di un minore, siamo giunti al capolinea del buon senso nel momento in cui il sistema mediatico ne divulga il video senza remora.

Il punto di vista, da Socio Fondatore della Camera Minorile distrettuale. A chiusura di questo modesto intervento, richiamo la posizione dell’Unione Nazionale Camere Minorili, con il cui Presidente concordo quando, riferendosi alla vicenda di Padova, parla di “grave violazione a livello giornalistico della normativa a tutela del diritto alla privacy dei minori”. È vero. Come avvocato, ma soprattutto come giornalista, è doloroso ammetterlo, ma è così. Le immagini, che tutti conosciamo, sono state divulgate e arricchite con dati che rendono estremamente agevole risalire all’identità del bambino. Nel comunicato, che si invita a visionare, si pone, inoltre, l’accento sull’elaborata proposta di modifica del Codice Deontologico Forense, che esorta gli avvocati, nel relazionarsi con la stampa in ordine a procedimenti familiari e minorili, ad adottare estrema cautela, anche sensibilizzando gli assistiti a tenere indenne il minore da pregiudizievoli esposizioni mediatiche.

 

 

PER APPROFONDIMENTI: 

SITCC 2012 – Nicolò, Rezzonico, Sibilia & Sassaroli sul Cambiamento in Terapia

 

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-ComportamentaleSimposio: “Processi di Cambiamento in Terapia Cognitiva: Modelli A Confronto” – SITCC 2012, Roma. 

Nicolò, Rezzonico, Sibilia – Chair: Carcione

Discussant: Sassaroli 

 TUTTI I REPORTAGES DALLA SITCC 2012

 

Confronto molto interessante quello che ha visto come protagonisti Giuseppe Nicolò, Giorgio Rezzonico e Lucio Sibilia e moderati da Sandra Sassaroli. I tre relatori, è ormai noto, rappresentano tre poli importanti della terapia cognitiva all’interno della SITCC. Sicuramente uno dei simposi più importanti del Convegno. 

Nella bellissima Sala 2 dell’Angelicum di Roma apre le danze Giuseppe Nicolò. Il tema dei processi di cambiamento in terapia cognitiva viene sviluppato prendendo come riferimento il modello del Terzo Centro di Roma sulla Metacognizione

Nella relazione, vengono identificati quali dovrebbero essere i fattori di cambiamento da prendere in considerazione per valutare il processo terapeutico e la sua efficacia: tali mediatori dovrebbero avere un effect-size misurabile ed essere specifici. La proposta di Nicolò sarebbe quella di considerare, ad esempio, alcuni mediatori di cambiamento che riflettano le capacità metacognitive del paziente, come ad esempio misure come la RF Scale (che misura la funzione riflessiva), TAS (che misura la disregolazione affettiva) e la nota SvAM (che misura le componenti della metacognizione). 

Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale
Articolo consigliato: Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale

In psicoterapia, viene considerato fondamentale chiarire e disporre di una cornice chiara e definitiva che includa un razionale del modello terapeutico e del cambiamento, obiettivi specifici e chiari (che possano essere misurati e vagliati quantitativamente), strumenti precisi che promuovano il cambiamento di tali mediatori e infine stabilire in modo chiaro quali siano i mediatori del cambiamento che si vogliono prendere in cosiderazione. 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: “IN TERAPIA”

L’intervento di Giorgio Rezzonico si concentra sui fattori di cambiamento nella prospettiva costruttivista. Il tema centrale della relazione è il seguente: “più ci si concentra sugli aspetti specifici, più si rischia di perdere il senso d’insieme della psicoterapia“. La proposta di Rezzonico è quella di utilizzare “protocolli modificati”, ampliando gli interventi con gli aspetti specificamente costruttivisti. E visto che, secondo Rezzonico, “non possiamo insegnare niente alle persone, bensì creare palestre di allenamento relazionale“, è necessario dotarsi di misure di cambiamento che siano indirette e complesse.

Il suo punto di vista sull’uso delle tecniche in terapia, invece, riflette la necessità di integrarle all’interno di una visione più complessa e ampia della psicoterapia. Il focus del modello costruttivista, però, non è certo quello delle tecniche, bensì la costruzione condivisa di un significato e l’attenzione al cambiamento degli stati mentali del paziente, che evolve in quanto agente e co-protagonista di esperienze nuove, create o elicitate nella relazione terapeutica.  

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCIENZE COGNITIVE

 L’ultimo intervento, ad opera di Lucio Sibilia, inizia da una constatazione, cioè che moltissimi approcci cognitivo-comportamentali hanno fondamenti empirici e spiegano il cambiamento ma nessuno di loro rende conto di tutti i fattori clinici. Questo porta allo sviluppo “esponenzialmente divergente” tra modelli differenti che, pur riferendosi ad una cornice epistemologica (più o meno) comune, non ha portato ad una teoria unificante.

La tesi discussa da Sibilia è interessante: (parafrasando) se io faccio un buon caffè, voi lo bevete e siamo tutti contenti. Ma per costruire una scienza del caffè devo fondarla su dati empirici.

Il problema delle divergenze teoriche, e della loro spiegazione empirica, potrebbe essere colmato, o almeno ridotto, prendendo in considerazione il modello del “determinismo reciproco”, teoria secondo la quale esistono quattro elementi chiave che potrebbero, se inclusi nelle teorie, spiegare LE terapie cognitivo-comportamentali. Tale aspetti sono i contenuti e i processi cognitivi, le risposte emotivo/affettivo-viscerali (che rappresentano il soggetto, la sua “esperienza interna”) e i comportamenti motori e gli stimoli e le condizioni ambientali (che rappresentano, invece, il mondo esterno, l’ambiente).

Quali sono i fattori di cambiamento? secondo Sibilia tutti, a seconda del livello di analisi cognitiva che si intende prendere in considerazione.

LEGGI GLI ARTICOLI SUL COSTRUTTIVISMO

SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
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Sicuramente il simposio è stato molto stimolante, ha arricchito le mie conoscenze e ha confermato che esistono differenze teoriche e cliniche sostanziali che è difficile integrare. Credo, però, che sia più utile concentrarsi sugli aspetti integrabili e di confronto piuttosto che sulle differenze, che prendono il via da storie personali, formazione, esperienze e visioni della clinica e del mondo temporalmente ormai lontani.

E per farlo, prendo spunto dalla discussione di Sandra Sassaroli a termine del Simposio.

Il fatto che la terapia cognitiva abbia da sempre posto attenzione all’indagine sistematica e empirica della psicoterapia che facciamo con i nostri pazienti rappresenta un patrimonio importante della Terapia Cognitiva, che non va assolutamente sprecato né sminuito. Esso infatti ha contribuito a portare la TCC dove ora si trova. E questo è un fatto.

Prendo al volo la bella metafora utilizzata da Sassaroli durante la discussion: I Puffi.

Molti di noi sono dei puffi con i pazienti, nel senso che abbiamo uno stile relazionale “caldo” e accogliente, che utilizza anche l’umorismo e la risata come strumento terapeutico.

 Si può, quindi, benissimo essere “aspecifici”, cioè dare molta attenzione ai fattori aspecifici della terapia (più complessi e “costruttivisti” se mi passate il termine) continuando però a fare tentativi di misura di quello che facciamo.

Esortazione quindi non è quella di essere super-specifici e avere un atteggiamento “blind” che perda il senso globale e complesso dell’esperienza e del percorso terapeutico. Si può farlo tentando e continuando a cercare i mediatori di cambiamento che ci permettono e legittimano ad essere anche “aspecifici”. Se no, il rischio di autoreferenzialità è davvero alto.

Insomma, si può essere creativi e Puffi al tempo stesso misurando e questo ci rende più forti e consapevoli con i pazienti, con gli allievi e con il mondo scientifico internazionale, che troppo spesso relega il patrimonio cognitivista italiano a un ruolo eccessivamente marginale, per quanto consistente e brillante esso possa essere.

 

Quindi… “Siate pure Puffi, ma misurate quello che fate!”.

 

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