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Capacità Genitoriali: Una Guida Metodologica – Il Protocollo di Milano

 

Capacità Genitoriali Post-Separazione: Una Guida Metodologica. - Immagine: © yuryimaging - Fotolia.comGuida Metodologica alla Valutazione delle Capacità Genitoriali dopo separazione dei genitori. 

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Lo scopo del seguente articolo è quello riportare ed esaminare alcuni principi che stanno alla base del Protocollo di Milano, un documento scritto da un gruppo di psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, avvocati e magistrati (Camerini, Gulotta, Lopez et al.2012), avente l’obiettivo di fornire una serie di linee guida per la consulenza tecnica in materia di affidamento dei figli a seguito della separazione dei genitori.

Nel momento in cui  un consulente tecnico d’ufficio (ctu: psicologo, neuropsichiatra infantile o psichiatra) viene convocato dal giudice per indagare una situazione familiare egli dovrà effettuare una valutazione psicologica e relazionale degli individui della famiglia, della coppia e del sistema nel suo complesso. Ciascuna parte in causa, ovvero ciascun genitore potrà avvalersi di un proprio consulente tecnico di parte (Ctp).

Il consulente tecnico di ufficio nel rapportarsi con il magistrato che l’ha convocato e con gli avvocati delle parti deve mantenere la propria autonomia professionale e scientifica, soprattutto nello scegliere le tecniche, i metodi e gli strumenti che ritiene utili per la valutazione.

Allo stesso tempo anche i rispettivi consulenti di parte dovranno mantenere una propria autonomia cercando di salvaguardare in primis l’interesse del minore, rispetto a quello del genitore loro cliente. Ci si trova spesso di fronte a situazioni genitoriali fortemente conflittuali e quindi lo scopo dei consulenti di parte, non è quello di allearsi con il proprio cliente ma è proprio quello di lavorare con i rispettivi genitori per aiutarli ad uscire dal conflitto, favorendo la presa di coscienza dei propri errori e delle proprie responsabilità e cercando di fare capire il punto di vista dell’altro genitore, in modo tale da favorire collaborazione e comunicazione tra le parti in causa.

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Alienazione Parentale: Aspetti psicologici di genitori e figli. - Immagine: ©-chamillew-Fotolia.com
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Generalmente è bene che il Ctu effettui uno studio del fascicolo processuale e poi proceda con i primi colloqui valutativi. Buona prassi è quella di effettuare colloqui sia congiunti, dove sono presenti entrambi i coniugi, sia individuali; durante i colloqui congiunti si chiederà a ciascun coniuge di riportare la propria versione dei fatti e il motivo per il quale si è giunti ad una consulenza d’ufficio. Spesso durante questo tipo di colloquio i coniugi forniscono opinioni contrastanti e tendono a riproporre il consueto circuito conflittuale che caratterizza la loro relazione, in questo modo sia il Ctu che i Ctp riescono ad avere un primo quadro delle dinamiche di coppia e dei motivi che stanno alla base dei litigi familiari.

Si procede poi con colloqui individuali che il consulente d’ufficio effettuerà con ciascun genitore, in modo tale da raccogliere l’anamnesi personale, familiare e la storia di sviluppo del bambino descritta dal punto di vista di entrambi i genitori. Se si ritiene necessario, l’analisi può essere approfondita attraverso una specifica valutazione testistica, volta ad esplorare eventuali patologie e le caratteristiche psicologiche di ognuno. In questi casi il ruolo specifico del consulente è quello di valutare le capacità genitoriali e stabilire se queste sono sufficienti per la crescita adeguata di un bambino, e non quello di definire le caratteristiche psicopatologiche del genitore, o meglio, tali caratteristiche dovranno essere prese in considerazione solo nel caso in cui rischiano di andare ad interferire con lo svolgimento di un’adeguata funzione genitoriale.

 Quindi è importante indagare il profilo di personalità del genitore ma è sbagliato valutare la funzione genitoriale sulla base del solo profilo psicopatologico (vi sono madri depresse che, se ben compensate e trattate, presentano un’adeguata capacità genitoriale).

Questo è un punto cruciale in materia di valutazione delle capacità parentali ed un aspetto che ancora oggi molti esperti non comprendono in pieno. Molto utile da questo punto di vista è l’Assessment of Parental Skill-Interview (Camerini et al. 2011), si tratta di uno strumento che si propone si effettuare un assessment non tanto del profilo di personalità del genitore, ma dei comportamenti che definiscono le “funzioni di base” legate all’esercizio concreto della genitorialità.

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La consulenza procede attraverso incontri individuali con il minore, secondo modalità operative che variano in base alla sua età. Lo scopo è quello di valutare il funzionamento cognitivo, affettivo e sociale del bambino e la sua rappresentazione di ciascun genitore e della coppia genitoriale, con una specifica attenzione alle capacità riflessive (la “funzione riflessiva”, secondo la definizione di Fonagy è la capacità di comprendere gli stati mentali altrui e propri). Si predilige l’osservazione durante il gioco ed il disegno quando il bambino è piccolo, per poi passare ad un colloquio/dialogo con bambini più grandi e pre-adolescenti. Seguono incontri di osservazione della relazione genitore/minore e coppia genitoriale/minore in modo tale da poter valutare le dinamiche familiari e relazionali e il posizionamento affettivo del minore in presenza dei genitori. Utili strumenti possono essere il Trilogue Play Test Clinico e il disegno congiunto.

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L’analisi di questi incontri consente all’esperto di constatare l’eventuale presenza di fenomeni di alleanza del minore con un genitore e discapito dell’altro e di comprendere i meccanismi che stanno alla base di questa dinamica conflittuale. L’esperto deve cercare di concentrare i colloqui con il minore, in modo tale da ridurre al minimo lo stress subito dal bambino, facendo attenzione alle eventuali influenze esercitate da uno e dall’altro genitore e le informazioni da questi veicolate. Si osservano situazioni fortemente conflittuali dove il genitore, nel portare avanti la propria campagna denigratoria nei confronti dell’ex coniuge, finisce con il manipolare i bisogni e le necessità del figlio. L’esperto cercherà di intervenire, quando è possibile, per provare a stemperare queste dinamiche in modo tale da ridurre il clima conflittuale nel quale il minore vive.

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Terminata la fase degli incontri, il lavoro dell’esperto prevede la stesura di un documento scritto nel quale verrà sintetizzato quanto è emerso dalle operazioni peritali, nonché le risposte ai quesiti formulati dal giudice. Il consulente dovrà in primis definire il proprio approccio teorico-metodologico e poi esplicitare gli strumenti utilizzati per la valutazione. Nell’analizzare e descrivere le dinamiche osservate è bene distinguere gli elementi descrittivi ed informativi dalle valutazione ed interpretazioni dei dati. Nel rispondere al quesito il consulente dovrà indicare le proposte ritenute più idonee, nel rispetto dell’affidamento condiviso, rispetto alla modalità di custodia dei figli, al loro collocamento prevalente e alla frequentazione dell’uno o dell’altro genitore. Potrà inoltre indicare eventuali interventi ritenuti necessari per il bene del minore e dei genitori (terapia, sostegno educativo, parent traning), ovviamente tenendo conto delle risorse presenti sul territorio di riferimento, in ambito pubblico o privato.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Camerini, G., Gulotta, G., Lopez, G., et al. (2012) Protocollo di Milano, Linee guida per la consulenza tecnica in materia di affidamento dei figli a seguito di separazione dei genitori: contributi psico-forensi. (DOWNLOAD PDF)
  • Camerini, G., Volpini, L., Lopez, G., (2011) Manuale di valutazione delle capacità genitoriali, Scienze psicologiche e diritto, Maggioli Editore.

Quali differenze nelle spiegazioni dell’errore terapeutico? – SITCC 2012 – Slides

Congresso SITCC 2012 Roma

Quali differenze nelle spiegazioni dell’errore terapeutico?

Dott.ssa Simona Errico. 
Coautori: Montali Arianna, Ruocco Fabiana, Lissandron Susanna, 
Boldrini Maria Paola, Ricchi Chiara  

 

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Violenza Domestica: Quando i Pregiudizi Condizionano il Verdetto

di Marina Morgese

FLASH NEWS 

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Violenza Domestica & Pregiudizi: La donna che uccide il suo abusante, se carina e curata, avrà più probabilità di essere giudicata colpevole.

Gli episodi di violenza domestica oggigiorno sono purtroppo molto frequenti, questi portano spesso numerose donne a subire in silenzio i maltrattamenti dei compagni e a tacere dinnanzi alle umiliazioni. Vi sono tuttavia donne che reagiscono alla violenza, alle volte con reazioni estreme, fino ad uccidere i propri compagni violenti.

La colpevolezza di queste donne rimane dubbia: possono essere condannate per omicidio o assolte per legittima difesa? Esiste una caratteristica che le rende, agli occhi della giuria, più accusabili?

In realtà una risposta positiva a quest’ultima domanda ci viene data da un recente studio condotto presso l’Università di Granada. Tale ricerca nasce dopo l’analisi di varie indagini di polizia, dalle quali è emerso che, nei reati di violenza domestica, se la donna che uccide il suo abusante è più indipendente e curata fisicamente, avrà più probabilità di essere giudicata colpevole, piuttosto che di essere assolta per legittima difesa.

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Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Il campione utilizzato ai fini dello studio è composto da 169 agenti di polizia (153 uomini e 16 donne) delle Forze di sicurezza dello Stato spagnolo. I partecipanti scelti provengono da diverse città della Spagna. Ai fini della ricerca sono stati inventati due diversi racconti di azioni legali. In entrambi i racconti però l’imputato è una donna accusata di aver ucciso il marito e la sua difesa legale punta sull’aver subito una storia prolungata di violenza domestica, e quindi l’uccisione del compagno è avvenuta per legittima difesa. In metà delle storie però l’imputata è giovane, poco attraente e molto fragile, ha figli ed è economicamente dipendente dal suo partner. Nelle altre storie la donna è senza figli, lavora come consulente finanziario, è stata sposata per 10 anni e durante il processo viene descritta come ben vestita e tranquilla nelle sue interazioni con il giudice e gli avvocati. I ricercatori hanno chiesto ai soggetti di assumere il ruolo della giuria e di rispondere a una serie di domande relative alla percezione di credibilità, alla responsabilità e al controllo sulla situazione delle donne descritte.

È stata, inoltre, indagata l’ideologia sessista dei partecipanti.

Dalla ricerca è emerso che una delle variabili con il maggiore effetto sulla percezione della criminalità della donna è la sua vicinanza allo stereotipo della donna maltrattata (fragile, fisicamente malconcia, economicamente dipendente). I risultati hanno dimostrato infatti che quando si descrive un non-prototipo di donna maltrattata (e dunque più indipendente e fisicamente più curata), questa è considerata più capace di gestire la situazione.

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Un’altra variabile legata alla sentenza della giuria sul caso sembra essere il livello di ideologia sessista dei partecipanti. A questo proposito, chi ha raggiunto punteggi più alti di sessismo ha percepito l’imputata come più capace di controllare la situazione.

 

 A detta dei ricercatori, quando una donna è percepita in grado di controllare la situazione, questa è vista automaticamente anche in grado di controllare le sue reazioni verso l’abusante e, dunque, di non ucciderlo. Le donne meno conformi al prototipo di donna maltrattata, avrebbero dunque, da un punto di vista giuridico, un più elevato grado di colpa nel processo.

Gli autori concludono lo studio con un utile suggerimento, che sarebbe bene riportare: “Nonostante i suoi possibili limiti, questo studio sottolinea la necessità di aumentare la formazione per le forze dell’ordine sulla gestione dei casi di violenza domestica. Il loro lavoro è infatti fondamentale ai fini del processo e, come abbiamo visto, tale lavoro può essere condizionato da variabili esterne, come l’aspetto fisico o altre convinzioni stereotipate su chi subisce violenza domestica “.

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BIBLIOGRAFIA: 

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Happy Birthday! – Un anno di State of Mind –

 

Happy Birthday! - Un anno con State of Mind

Oggi festeggiamo, festeggiamo un anno dalla nascita del webjournal State of Mind.

Ci sembra che sia evidente a tutti il meraviglioso lavoro e l’impegno di moltissimi blogger, di molti colleghi che generosamente contribuiscono con contenuti originali e idee nuove, della redazione, del webmaster, del direttore editoriale, degli informatici che ci assistono,  della struttura tutta che ogni giorno inventa il giornale.

L’abbiamo molto voluto, era una scommessa bizzarra, un journal che fosse molto scientifico e servisse ad informare sulle ultime novità, e al contempo fosse capace di ospitare interviste, punti di vista sull’attualità sociale e politica, vignette, video, musica, insomma un intero mondo letto con gli occhiali psicologici.

Ci sembra che oggi possiamo festeggiare: i lettori sono enormemente cresciuti e hanno portato occasioni di incontro, di scambio, intorno a SoM comincia a esistere una rete di rapporti che ha una funzione importante nella nostra società.

Sarebbe bello ora, in questo secondo anno, fare un ulteriore salto con un opera di networking tra diverse realtà, online e non, per far confluire dentro State of Mind energie e idee dai diversi ambiti della psicologia e psicoterapia. 

Molti sono i progetti nuovi: tra questi la nuova piattaforma di e-publishing, l’ingrandimento della redazione in lingua inglese, e anche il lancio di un servizio di pubblicità interna sul sito.

Questa di State of Mind è una bella avventura e speriamo che sia anche utile, noi ci siamo divertiti a costruirlo e a portarlo avanti e continueremo a farlo. 

Grazie a voi lettori che frequentate il nostro giornale, grazie del sostegno e dell’incoraggiamento, tra mail, commenti e chiacchiere faccia a faccia nel mondo reale. Grazie per le critiche posate e i consigli utili a cambiare e migliorare, per le nuove idee e i contributi freschi. 

Buon compleanno State of Mind! 

 

 

Corvi vs bambini. Che la sfida abbia inizio! – Psicologia dello Sviluppo

 

Corvi vs Bambini. - Immagine: © Gennadiy Poznyakov - Fotolia.com

Gli uccelli “sono adatti per conoscere questo mondo”, ma “i bambini sono adattati per conoscere molti mondi possibili.”

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Un giorno d’estate un corvo, quasi morto di sete, trovò una brocca.  Quando infilò il becco nella brocca si accorse che vi era rimasto soltanto un po’ d’acqua sul fondo. Provò e riprovò, ma inutilmente, e alla fine fu preso da disperazione. Gli venne un’idea e, preso un sasso, lo gettò nella brocca. Poi prese un altro sasso e lo gettò nella brocca. Ne prese un altro e gettò anche questo nella brocca. Piano piano vide l’acqua salire verso di sé, e dopo aver gettato altri sassi riuscì a bere e a salvare la sua vita (Esopo). 

Lucy Cheke e i ricercatori del gruppo del dott. Nicola Clayton dell’università di Cambridge, hanno condotto diversi esperimenti per scoprire se i corvi sono veramente in grado di risolvere questo problema.  Gli scienziati hanno sottoposto ai corvi tre problemi:

– nel primo sono stati presentati ai corvi due tubi, uno con dell’acqua e uno con della segatura. Gli uccelli dovevano decidere all’interno del quale far cadere delle biglie per riuscire ad avere il verme all’interno;

– nel secondo, è stato presentato un solo tubo riempito d’acqua. Per raggiungere il verme i corvi dovevano scegliere fra una palla di sughero o una biglia da porre all’interno del tubo;

– nel terzo esperimento è stato presentato un apparecchio con tre diversi tubi: due grossi ai lati, nei quali poteva passare la biglia, ed uno più stretto in mezzo, nel quale non entrava la biglia. La base dei tubi era nascosta per non svelare che in realtà il tubo centrale era connesso con uno dei tubi a lato formando una “U”. In questo terzo esperimento per raggiungere il verme i corvi avevano a disposizione una sola biglia. 

Sorprendentemente i corvi hanno imparato a risolvere i primi due esperimenti piuttosto velocemente. Guardare per credere:

La dott.ssa Cheke ha osservato inoltre che per risolvere gli esercizi gli uccelli procedevano per prove ed errori, poiché il loro sistema di apprendimento gli permetteva di risolvere solo compiti che richiedevano processi mentali molto lineari, che permettono loro di utilizzare, o addirittura creare, utensili per raggiungere il cibo.

È a questo punto della storia che parte la sfida: bambini tra i 4 e i 10 anni saranno in grado di essere altrettanto bravi? E per farlo useranno processi di apprendimento simili a quelli dei corvi? Al fine di rispondere a questa domanda il gruppo di Cheke ha collaborato con la dott.ssa Elsa Loissel, per somministrare, durante l’orario scolastico, gli stessi tre esperimenti ad 80 bambini. Nell’esperimento con i bambini gli indigesti vermi erano sostituiti da gettoni rossi, che successivamente i bambini avrebbero potuto scambiare con adesivi colorati. Così come i corvi, anche i bambini avevano cinque tentativi e solo 2 minuti risolvere i compiti. 

Se state pensando che i bambini hanno stracciato i corvi state per essere parzialmente delusi. Infatti al termine delle prime due prove troviamo che bambini e uccelli sono a pari merito, poiché entrambi riescono a risolvere senza problemi i compiti. Tuttavia al termine della terza prova i bambini battono decisamente gli uccelli, che non riescono proprio a padroneggiare un esercizio con una soluzione non evidente, anzi controintuitiva.

A partire da questi risultati Cheke ed i suoi colleghi hanno dedotto che la differenza fondamentale fra bambini e corvi è che i primi non si sono scoraggiati dall’apparente impossibilità del compito, ma sono andata avanti e hanno imparato a sollevare il gettone in ogni caso, anche se non c’erano prove di come questo stava accadendo o la soluzione non sembra avere un intuitiva. “I bambini iniziano senza una idea di ciò che è possibile e ciò che non è possibile”, dice Cheke. “Se lo facessero, non sarebbero mai in grado di imparare. Per questo motivo ai bambini piace la magia, ecco perché ti crederanno quando dirai loro ogni tipo di cose fantasiose”.

La Vulnerabilità all'ansia del bambino. - Immagine: © deber73 - Fotolia.com
Articolo Consigliato: La Vulnerabilità all’ansia del bambino

Alison Gopnik, un’esperta in psicologia dello sviluppo infantile presso l’Università di Berkeley, California, ha definito questo studio come “affascinante e illuminante”. La differenza principale tra gli uccelli ei bambini, dice Gopnik, è che i membri della famiglia dei corvi “hanno una conoscenza sofisticata ma specifica”, mentre i bambini “sembrano avere più ampia capacità di apprendimento e ad ampio raggio”. Di conseguenza, aggiunge Gopnik, gli uccelli “sono adatti per conoscere questo mondo”, ma “i bambini sono adattati per conoscere molti mondi possibili.”

Probabilmente questo studio non farà vincere il premio Nobel ai ricercatori che l’hanno condotto, ma di sicuro ha fornito un interessante aneddoto da raccontare a cena con gli amici.

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BIBLIOGRAFIA:

Intelligenza? Una Questione di Ormoni

Intelligenza? Una questione di Ormoni. - Immagine:© Yuri Arcurs - Fotolia.comL’intelligenza moderna è femminile

–  Philippe Starck –

La capacità di leggere la mente degli altri nei loro occhi è maggiore nelle donne che hanno un assetto fisico più tipicamente femminile caratterizzato da vita stretta e fianchi larghi. 

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A quanto pare la conformazione fisica tipicamente femminile caratterizzata da fianchi larghi e vita stretta discrimina un particolare tipo di intelligenza.

L’indice fisico prescelto per indagare questo rapporto è la relazione tra il giro vita e i fianchi (waist-to-hip ratio, WHR) e l’idea di Bremser & Gallup (2012) è nata da precedenti ricerche che hanno dimostrato come la conformazione a clessidra fosse correlata nelle donne a un aspetto più attraente agli occhi degli uomini intervistati e fosse in grado di predire la buona riuscita in compiti cognitivi (Lassek & Gaulin, 2008).

Orgasmo Femminile: Questiona di intelligenza emotiva?. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.com
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A partire da questi dati, gli autori hanno misurato i fianchi e la vita di 44 studentesse con un’età compresa tra 18 e 22 anni, sottoponendole poi a un test con la richiesta di attribuire un’emozione a una serie di fotografie scegliendo  tra 4 stati mentali distinti quello che, a loro parere, era espresso dagli occhi della persona fotografata. Le ragazze hanno poi  compilato due questionari che hanno valutato le loro capacità empatiche e la tendenza a ragionare in modo logico per relazioni causali del tipo “se…allora”. 

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A conti fatti, l’indice fisico del rapporto vita-fianchi (WHR) è stato in grado di spiegare per il 20% gli esiti nel compito di riconoscimento facciale e sembra andare di pari passo con le capacità empatiche delle fanciulle intervistate. Non è emersa invece nessuna correlazione tra il WHR e la tendenza a ragionare in modo logico/causale.

Cosa ci dicono concretamente questi risultati?

A quanto pare, la capacità di leggere la mente degli altri nei loro occhi è maggiore nelle donne che hanno un assetto fisico più tipicamente femminile caratterizzato da vita stretta e fianchi larghi. 

Se pensiamo che la conformazione a clessidra è causata da alti livelli di estrogeni (responsabili dell’accumulo adiposo sui fianchi) e bassi livelli di testosterone (che portano a una vita sottile), sembra proprio che la poca empatia che le donne tanto spesso lamentano negli uomini abbia in qualche modo un fondamento ormonale e biologico. Come dire, siamo di fronte a un conflitto tra i livelli di testosterone e alcune capacità cognitive.

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Precedenti studi (Schattman & Sherwin, 2007) hanno addirittura rilevato che all’interno dello stesso “sesso debole”,  le donne con la sindrome dell’ovaio policistico, con maggiori livelli di testosterone, hanno un esito più scarso in compiti cognitivi tipicamente appannaggio femminile (Lassek & Gaulin, 2008). 

Per quanto riguarda, invece, la capacità di ragionare razionalmente, per “se…allora” e secondo logica, non sembra esistere nessun rapporto tra i livelli ormonali e le performances.

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Articolo Consigliato: Cooperazione ed Evoluzione dell’intelligenza.

Contestualizzando i risultati della ricerca gli autori si lanciano in alcune interpretazioni. Un corpo femminile  a clessidra sembra essere maggiormente adattivo in termini di fertilità, salute e intelligenza emotiva, è ritenuto più attraente dagli uomini (Singh, Dixson, Jessop, Morgan, and Dixson, 2010) e queste donne sembrano avere più partner sessuali nell’arco della vita e essere più propense al tradimento (Hughes, Dispenza, and Gallup, 2004)

Di conseguenza, gli autori ipotizzano che, incontrando molti consensi tra gli uomini, la maggiore capacità delle donne con queste caratteristiche fisiche di leggere gli stati d’animo sia loro utile da un punto di vista evoluzionistico per poter discriminare tra un corteggiamento finalizzato al rapporto sessuale tout court e un corteggiamento che implichi anche un impegno da parte del maschio nell’allevamento della prole e nella costruzione di una famiglia. Con la speranza di trovare un partner con una buona mediazione tra testosterone e empatia.

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BIBLIOGRAFIA:

Una Nuova Figura: Lo Psicologo di Base

 

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Istituire l’assistenza psicologica attraverso la figura professionale dello psicologo di base, garantita dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), risulta utile per la salvaguardia della salute psico-fisica ed è un passo necessario da effettuare.

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L’articolo 32 della Costituzione Italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Appare chiaro che in una società in piena crisi, come quella in cui viviamo dove il disagio psicologico aumenta giorno per giorno, il diritto dei cittadini è rispettato solo in parte. Infatti se da un lato gli ambulatori sono aperti 24 ore su 24 come previsto dal ministro della Salute Renato Balduzzi, dall’altro lato manca il supporto psicologico di cui molti hanno bisogno. Ad esempio se un paziente non riesce a chiudere occhio per l’angoscia e va in ambulatorio lamentando l’insonnia, il medico prescriverà un sonnifero, eliminando il sintomo ma non risolvendo il problema.

Il Flash Mob davanti all’Ordine degli Psicologi del Piemonte
Articolo Consigliato: Il Flash Mob davanti all’Ordine degli Psicologi del Piemonte

Istituire l’assistenza psicologica attraverso la figura professionale dello psicologo di base, garantita dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), risulta utile per la salvaguardia della salute psico-fisica ed è un passo necessario da effettuare.

All’inizio del mese di Settembre 2012, nel Comune di Carmignano (Padova) è partita una sperimentazione in cui si istituisce la figura dello psicologo di base in collaborazione con i medici di famiglia. Si tratta di un ambulatorio con quattro psicologi, che per tre volte alla settimana ricevono gli utenti inviati dai medici di base. Questa esperienza è sostenuta dal Comune con 15 mila euro fino a dicembre, quando verrà rifinanziata e gode dell’appoggio dell’Usl 15 di Cittadella e della collaborazione con l’Ordine degli psicologi. I risultati verranno riferiti  alla Regione, in modo da appoggiare la diffusione del modello. 

Oltre all’assistenza psicologica, l’importanza di questa figura professionale sta nel contribuire alla prevenzione della depressione, dello stress e di altre patologie che possono portare a loro volta ad altri problemi quali l’abuso di alcolici o droghe, devianza giovanile, etc.

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Inoltre in questo modo il paziente verrebbe liberato dall’imbarazzo di passare in maniera obbligatoria per i Centri di igiene mentale nel caso in cui  richiede questo tipo di servizio. 

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Infine, sostenendo un approccio multidisciplinare alla salute e includendo la componente psichica come facente parte del disagio, si ha il risultato di migliorare la qualità delle cure (le quali sarebbero maggiormente finalizzate) e far risparmiare il sistema socio sanitario.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

Attaccamento: l’Importanza del Padre

“Il bambino si costruisce un modello interno di se stesso
in base 
a come ci si è preso cura di lui.” (John Bowlby)

 

Attaccamento. - Immagine: © BlueOrange Studio - Fotolia.com

L’amore paterno è fondamentale per lo sviluppo di una persona.

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Chi svolge il ruolo di base sicura per il proprio figlio, la madre o il padre? Da sempre si assume possa essere la madre a svolgere un ruolo chiave, ma una ricerca recente ne attesta il contrario. 

La teoria dell’attaccamento, avviata in modo originale da John Bowlby che ha introdotto per primo il termine “attaccamento” per identificare i comportamenti dei bambini nei confronti delle figure di accudimento, riconosce la presenza di una predisposizione innata nell’essere umano atta a ricercare e mantenere una condizione di accessibilità fisica e psicologica con la figura elettiva di riferimento.

Il comportamento di attaccamento, evocato da eventi allarmanti, si esplicita attraverso la ricerca attiva del caregiver e/o richiamando l’attenzione attraverso il pianto o l’appello verbale. L’allarme cessa quando hanno luogo la vicinanza o il ricongiungimento fisico e ciò consente al bambino di passare da emozioni di paura, ansia o tristezza a sentimenti di tranquillità e di felicità. L’attaccamento si compie attraverso alcune tappe e può essere di diverse tipologie infatti, grazie al contributo di Mary Ainsworth, possiamo identificare quattro diversi stili: Sicuro, Insicuro Evitante, Insicuro Ambivalente e Disorganizzato.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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 Da sempre il famigerato attaccamento è oggetto di contenzioso e critiche, perché in base allo stile mostrato è possibile sviluppare diversi tratti personologici che potrebbero portare a sviluppare diversi disagi psicologici. Questi ultimi hanno origine durante l’infanzia in relazione a momenti in cui il bambino se sente abbandonato dalla propria figura di attaccamento.

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Una ricerca su vasta scala, riguardante il potere del rifiuto e dell’accettazione dei genitori nel formare la personalità nei bambini, ha permesso di comprendere che l’amore del padre, al pari di quello della madre, contribuisce molto allo sviluppo di un bambino.

Ronald Rohner, professore presso l’Università del Connecticut, dopo aver analizzato le ricerche realizzate a livello internazionale nell’ultimo mezzo secolo, ritiene si possa affermare che l’esperienza del rifiuto, soprattutto da parte dei genitori, durante l’età pediatrica ha un effetto molto forte sullo sviluppo della personalità. Inoltre, i bambini e gli adulti, indipendentemente dalle differenze di cultura e genere, tendono a rispondere esattamente allo stesso modo quando hanno percepito loro stessi come respinti dai loro caregiver e dalle altre figure di attaccamento.

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Ronald Rohner e Abdul Khaleque, analizzando 36 studi in cui sono stati coinvolti più di 10.000 soggetti provenienti da tutto il mondo, hanno scoperto che i bambini, in risposta al rifiuto da parte dei genitori, non solo tendono a sentirsi più ansiosi e insicuri, ma risultano anche più ostili e aggressivi nei confronti degli altri. Il dolore del rifiuto tende a ripresentarsi in età adulta, rendendo più difficile instaurare relazioni sicure e fiduciose con i loro partner.

I risultati di ricerche svolte nell’ultimo decennio in psicologia e in neuroscienze rivelano che le parti del cervello che vengono attivate quando le persone si sentono respinte sono le stesse che si attivano durante l’esperienza del dolore fisico. Rohner afferma: “A differenza del dolore fisico, le persone possono psicologicamente rivivere il dolore emotivo del rifiuto più e più volte per anni”.

Quando si tratta l’argomento dell’impatto dell’amore di un padre rispetto a quello di una madre, i risultati provenienti da più di 500 studi suggeriscono che i bambini sperimentano l’influenza del rifiuto da parte del padre come superiore rispetto a quello della madre.

Un team di psicologi, provenienti da 13 nazioni che lavorano all’International Father Acceptance Rejection Project, ha sviluppato una spiegazione di questa differenza: i bambini e i giovani adulti tendono a fare maggiore attenzione a qualsiasi genitore che percepiscono avere una maggiore potenza interpersonale o di prestigio. Solitamente questo ruolo è relegato alla figura paterna, che da sempre svolge un ruolo fondamentale all’interno della famiglia. Non a caso tra i latini veniva annoverato col termine di Pater familias, inteso come il capo indiscusso di tutto il clan (parentado), a lui erano sottomessi la moglie, i figli, gli schiavi, le nuore. Su tutti aveva la patria potestas, potere che conservava vita naturale durante e che comportava amplissime facoltà insieme ad un potere punitivo che si estendeva fino al diritto di vita o di morte. Quindi, se un bambino percepisce suo padre come colui che ha maggior prestigio allora sarà proprio lui ad avere maggiore influenza nella vita del bambino, più di quanto potrebbe averne la madre. 

Il caso del bambino di Padova: Sindrome da Alienazione Parentale?
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Il messaggio di questa ricerca è che l’amore paterno è fondamentale per lo sviluppo di una persona. L’importanza dell’amore di un padre dovrebbe contribuire a motivare molti uomini ad essere più coinvolti nella promozione della cura del bambino. Inoltre, il riconoscimento dell’influenza dei padri sullo sviluppo della personalità dei propri figli dovrebbe favorire la riduzione dell’incidenza della atavica “colpa della madre” da sempre riconosciuta come totale fautrice dei un cattivo sviluppo psicologico della prole. La grande enfasi sulle madri e sulle cure materne in America hanno portato a una tendenza inappropriata a incolpare le madri per i problemi di comportamento e di disadattamento dei bambini quando, in realtà, i padri spesso sono implicati maggiormente rispetto alle madri nello sviluppo di problemi come questi. 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Trattamento EMDR con Pazienti Cardiopatici

 

Il trattamento EMDR e i Pazienti Cardiopatici. - Immagine: © iadams - Fotolia.com

Dopo un evento cardiaco grave, si può andare incontro a stati di ansia e depressione e sviluppare addirittura i sintomi tipici di un disturbo post traumatico da stress (PTSD).

La letteratura scientifica (Shemesh, E. et al., 2004; Ladwig KH, et al. 2008; Hemingway, H., Kuper, H. 1990) offre diversi spunti in favore dell’evidenza che la sofferenza psicologica ed emotiva, dovuta a depressione, ansia e isolamento sociale, può contribuire all’insorgere di malattie cardiache; d’altro canto anche sopravvivere ad eventi cardiaci gravi (infarto del miocardio, arresto cardiaco, chirurgia cardiaca, trapianti) influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute delle persone che ne sono vittime (Razzini C, et al., 2008, Kubzansky LD, et al. 2006; Shemesh, E. et al., 2004;). 

Dopo un evento cardiaco grave, si può andare incontro a stati di ansia e depressione (Berkman; Davidson, et al. 2010) e sviluppare addirittura i sintomi tipici di un disturbo post traumatico da stress (PTSD)(Mavros, N., et al., 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD il 19%-38% dei pazienti che hanno avuto un arresto cardiaco (Gamper et al., 2004; Ladwig et al., 1999; O’Reilly, Grubb, & O’Carroll, 2004), il 16%-22% di quelli che hanno avuto un infarto del miocardio  (Ginzburg, et al., 2006; Pedersen, Middel, & Larsen, 2003; Shemesh et al., 2006), 8%-18% dei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca  (Connolly, et al. 2004; Doerfler, Pbert, & DeCosimo, 1994; Schelling et al., 2003) e 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew et al., 1996, 1999, 2000, 2001).

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
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Non intervenire adeguatamente su questi aspetti psicologici ed emotivi può compromettere le possibilità di recupero sia psicologico che fisico del paziente (Shemesh, E. et al.,2004, Frasure-Smith N, Lespérance F., 2008), peggiorando anche la compliance con il personale medico.

La ricerca in questo campo (Davidson, et al. 2010) dimostra che uno stato depressivo minore dopo un infarto del miocardio può aumentare significativamente le probabilità di mortalità negli anni successivi. Secondo i dati presentati all’12th Annual Spring Meeting on Cardiovascular Nursing (Damen et al. 2012), che si è tenuto a Marzo 2012 a Copenhagen, in un campione di più di 1000 pazienti che hanno subito interventi alle coronarie il 26,3% va incontro a depressione, e nei 7 anni successivi è stata registrata una mortalità del 23,5% tra i pazienti depressi contro il 12,2% tra i pazienti non depressi; la depressione inoltre è risultata indipendentemente associata a tutte le cause di mortalità.

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Anche i sintomi di un PTSD hanno effetti a lungo termine nell’aumentare il rischio di mortalità, sia in pazienti a cui siano stati impiantati defribillatori (Ladwig KH, et al., 2008; Davidson, et al. 2010) sia in pazienti che hanno subito trapianti  (Ladwig KH, et al. 2008), aumentando anche il rischio di problemi cardiovascolari correlati (Shemesh, E. et al.,2004).

I dati di ricerca (Denollet, J. Et al., 2010; Razzini C, et al., 2008; Petersen e Denollet, 2003) suggeriscono inoltre che pazienti cardiopatici con una personalità di tipo D – caratterizzata da negatività, pessimismo e inibizione sociale – hanno tre volte il rischio, rispetto agli altri pazienti cardiopatici, di sviluppare ulteriori problemi cardiaci in futuro.  Tale tipo di personalità è pertanto associato a una prognosi cardiaca negativa. Il trattamento del disagio psicologico, oltre che indurre una riduzione dei sintomi depressivi, sembra migliorare gli esiti fisici di questi pazienti. 

Di fronte di questi dati intervento psicologico-psicoterapeutico appare molto indicato e può attuarsi a diversi livelli:

 Relazionale:

− Stabilire una comunicazione efficace tra il paziente ed i familiari

− Facilitare la collaborazione tra il paziente e la sua famiglia, e gli operatori sanitari 

− Migliorare la compliance del paziente 

Diagnostico e di ricerca:

Attraverso la somministrazione di alcune scale per valutare, e monitorare nel tempo, la severità di sintomi ansiosi e depressivi e l’intensità delle reazioni di evitamento, intrusività e iperarausal:  

CES-D (Radloff, L., S., 1977), è una scala validata per misurare la depressione negli adulti, nel caso di pazienti anziani si usa la GDS (Yesavage, J., A.; Brink, T., L.; Rose T., L. et al., 1983) ; 

STAI è una scala che permette di misurare sia l’ansia di stato che quella di tratto (Spielberger, Gorsuch, Lushene, 1968)

IES-R (Weiss & Marmar, 1997),  è uno strumento usato per monitorare l’intensità delle reazioni di evitamento, intrusività e iperarausal a seguito di eventi traumatici;

Terapeutico, riabilitativo, preventivo: 

Lavorare sui sintomi ansiosi e depressivi e sulla reazione allo stress traumatico (il trattamento prevede in media 10-15 sedute di EMDR)

L’EMDR (Eyes Movement Desensitization and Reprocessing) è un approccio terapeutico inventato nel 1989 da Francine Shapiro, psicologa di Palo Alto (California).

Nato per curare il PtSD (i primi pazienti sono stati i reduci dal Vietnam e vittime di stupro) ora viene applicato anche ad una vasta serie di disturbi psichici che hanno come fattore causale o scatenante un evento traumatico.

RICOMPORRE IL PUZZLE Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita - SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA - Immagine: Pablo Picasso, Girl with a boat.
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L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, elaborare e portare ad una risoluzione adattativa i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi attuali del paziente sotto forma di informazione immagazzinata in modo non funzionale. Nonostante il cervello abbia un sistema innato di elaborazione dell’informazione, secondo questo modello questa elaborazione a volte non avviene come dovrebbe in seguito a esperienze traumatiche e l’informazione rimarrebbe racchiusa in una rete neurale con le stesse emozioni, convinzioni, sensazioni fisiche che esistevano al momento dell’esperienza originale.

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L’esperienza in questi casi non viene immagazzinata nella memoria in modo integrato e funzionale; questo materiale immagazzinato in modo disfunzionale viene pertanto sollecitato dai vari stimoli dell’esperienza presente. Questo fattore è alla base dei pensieri intrusivi, dei flashback e di tutte le risposte a stimoli condizionati.

L’EMDR è un metodo terapeutico che attraverso la doppia focalizzazione (si chiede al paziente di pensare agli elementi più significativi del ricordo traumatico e contemporaneamente il terapeuta attua stimolazioni bilaterali degli emisferi cerebrali facendo muovere gli occhi del paziente da destra a sinistra e da sinistra a destra o tamburellando in modo alternato le mani o facendo ascoltare degli stimoli acustici alternati) permette una elaborazione accelerata dei ricordi traumatici (elaborazione adattativa della informazione).

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La desensibilizzazione del ricordo e il cambiamento di prospettiva in ambito cognitivo osservabili durante una seduta di EMDR riflettono l’elaborazione del ricordo dell’esperienza traumatica: il paziente per la prima volta “vede” il ricordo lontano, distante; modifica le valutazioni cognitive su di sé incorporando emozioni adeguate alla situazione ed eliminando le sensazioni fisiche disturbanti. Al termine di una seduta completa di EMDR il paziente è quindi in grado di pensare all’evento traumatico senza alcun disagio emotivo, facendo una valutazione positiva su di sé come persona e senza alcun disturbo a livello corporeo.

Il trattamento vero e proprio con l’EMDR inizia due/tre settimane dopo il trauma, bisogna infatti prima dare il tempo alla persona traumatizzata di uscire dallo stato dissociativo e di recuperare risorse emotive; le sedute effettuate durante le prime settimane sono sedute di supporto finalizzate alla creazione di una alleanza terapeutica e alla instaurazione di risorse emotive.

 La durata di ciascuna seduta può variare dai 45 ai 90 minuti.

In genere 3/6 sedute EMDR portano alla remissione di PTSD in vittime di traumi singoli tra il 77 e il 100%, invece sono necessarie 12 sedute per vittime di traumi multipli.

L’EMDR è insieme alla terapia comportamentale focalizzata sul trauma (Trauma Focused Comitive Behaviour Therapy) la più efficace per il PTSD (Bisson J. Et al., (2007). British Journal of Psychiatry, 198, 97.104).

L’EMDR è stato riconosciuto in ambito scientifico e accademico e dichiarato come uno dei metodi evidence based per il PTSD. 

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L’EMDR, che può essere effettuato solo da psicoterapeuti che si sono formati al metodo, è già usato in molte ASL, Aziende Ospedaliere e centri del servizio sanitario nazionale, tra cui Ospedale Sacco Milano, Ospedale Neurologico Besta Milano, Ospedale San Raffaele di Milano, Istituto Europeo Oncologico (IEO), Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Per una più approfondita analisi della letteratura anche riguardo all’adozione del metodo da parte di organismi istituzionali, negli Stati Uniti e in Europa: Isabel Fernandez, (2006)“EMDR: un approccio integrato e integrante” in “EMDR: uno strumento di dialogo per le psicoterapie”, Mac Graw-Hill, (2006).

 

Memorie Traumatiche e Ruminazione. - Immagine: © PZDesigns - Fotolia.com -
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EMDR  IN PAZIENTI SOPRAVVISSUTI A EVENTI CARDIACI GRAVI 

Sono già stati condotti due studi sperimentali in pazienti sopravvissuti ad eventi cardiaci gravi per testare l’efficacia del metodo nel trattare i sintomi di PTDS, ansia e depressione che si sono sviluppati nel periodo post operatorio. In entrambi gli studi (Arabia, E; Manca, M L; Solomon, R M. 2011; Shemesh et al., 2010) il trattamento (in media 10 sedute) si è dimostrato efficace nella riduzione della sintomatologia postraumatica, nel ridurre sia l’ansia di stato che quella di tratto e nel ridurre la sintomatologia depressiva; inoltre questo tipo di trattamento si è dimostrato superiore ad altre tecniche di trattamento usate, ad esempio le tecniche immaginative.


Il follow up a 6 mesi ha dimostrato il persistere dei benefici anche a lungo termine. Questi risultati replicano quelli di ricerche precedenti sull’efficacia dell’EMDR nel trattamento di sintomi ansiosi e depressivi (Raboni, Tufik, & Suchecki, 2006; Scheck, Schaeffer, & Gillette, 1998; Ironson, Freund, Strauss, & Williams, 2002; Marcus, Marquis, & Sakai, 1997; van der Kolk et al., 2007).

 

ARTICOLI SU: EMDR – ACCETTAZIONE DELLA MALATTIA

 

BIBLIOGRAFIA:

L’AIMIT e le sue applicazioni in Psicoterapia: dalla validazione dello strumento allo studio della relazione terapeutica, nella ricerca e nella didattica

Congresso SITCC 2012 Roma

L’AIMIT e le sue applicazioni in psicoterapia: dalla validazione dello strumento allo studio della relazione terapeutica, nella ricerca e nella didattica

Giovanni Fassone, Chiara Santomassimo, Paola Foggetti, Valeria Trincia, Antonella Ivaldi, Floriana Lo Reto, M. Rita D’Onofrio 
& Gruppo di Lavoro “Motivazione interpersonale, Relazione e Personalità” 

 

ARTICOLI SU: SISTEMI MOTIVAZIONALI 

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La Reputazione: Perchè è così importante?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La reputazione è così importante? Ebbene sì, se si vogliono stabilire scambi sociali positivi, basati sulla fiducia reciproca.

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Perché la reputazione è così tanto importante per noi e per la società? Perché sentiamo il bisogno di fidarci dell’altro e di punirlo se viola le regole? 

Secondo la “teoria di mantenimento delle norme gruppali”, la reputazione dipende dalla capacità di sostenere e mantenere nel tempo norme cooperative gruppali: in questo caso si valorizza il raggiungimento, attraverso la cooperazione, di obiettivi comuni al gruppo e si presume che vengano puniti coloro che violano norme che risultano vantaggiose per tutti i membri del gruppo; secondo la “teoria dello scambio sociale”, invece, una buona reputazione favorisce lo sviluppo di relazioni personali vantaggiose, basate sulla fiducia reciproca, e il raggiungimento di maggiori benefici personali; conseguentemente, si puniscono coloro che agiscono a discapito degli altri o che sono poco produttivi.

Cool! ma non più come una volta… Evoluzione del concetto di Coolness. - Immagine: Licenza Creative Commons 2.0 - Autore: Eliza Peyton
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Secondo Krasnow, Cosmides, Pedersen e Tooby, entrambe le teorie sono valide, ma hanno un diverso potere predittivo, a seconda delle circostanze. Ciascuna teoria, infatti, può spiegare, in situazioni diverse, quali siano le finalità auspicate attraverso la messa in atto di strategie cooperative e, dunque, perché sia importante conservare una buona reputazione.  

Gli autori hanno condotto due esperimenti attraverso i quali si sono proposti di verificare la validità di entrambe le teorie e l’assunto secondo il quale è possibile effettuare differenti predizioni, tenendo conto dell’una o dell’altra. Nel primo studio l’obiettivo era quello di validare la teoria dello scambio sociale e hanno preso parte alla ricerca 93 soggetti, mentre al secondo studio, teso a validare la teoria del mantenimento delle norme gruppali, hanno partecipato 119 soggetti. Ai partecipanti venivano proposti dei giochi cooperativi con dei partner, presenti nel network del computer e, in base alle proprie risposte, potevano guadagnare o perdere dei dollari. In realtà i soggetti interagivano con degli script standard che permettevano di simulare tutti i possibili comportamenti, in grado di testare entrambe le teorie di riferimento. I risultati hanno tenuto conto delle risposte di fiducia, cooperazione e punizione manifestate dai soggetti. 

ARTICOLI SU: SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

In entrambi gli studi, la reputazione è stata valutata attraverso le risposte fornite ad una serie di scenari ipotetici in cui i soggetti e i partner virtuali avevano la possibilità di collaborare o ingannare l’altro senza essere scoperti. Nel primo studio ciascun soggetto interagiva con 4 partner virtuali che riportavano 4 risposte differenti. Inoltre, i soggetti venivano informati sull’inclinazione del partner ad essere cooperativo o meno. In una prima fase, il partecipante decideva se fidarsi o diffidare del partner virtuale; quest’ultimo, in risposta, poteva cooperare o favorire se stesso e in quest’ultimo caso, il soggetto, a sua volta, poteva accettare la sua risposta oppure poteva punirlo. Nella seconda fase, i ruoli tra i partecipanti e i partner virtuali si invertivano.

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Anche nel secondo studio, ciascun soggetto interagiva con 4 partner virtuali differenti: uno che lo ostacolava, ma cooperava con un altro soggetto; un altro che cooperava con lui ma non con un altro soggetto; un altro che cooperava con entrambi e infine un altro che ostacolava entrambi. In questo caso, al partecipante venivano comunicate le risposte che il partner aveva fornito precedentemente ad altre persone: in questo modo si cerca di validare la teoria del mantenimento delle norme gruppali, in quanto si presume che, avendo a disposizione delle informazioni sul modo di comportarsi dell’altro in relazione a più persone, ognuno possa regolare le proprie risposte diversamente.

Tuttavia, in nessuno dei due studi è stata confermata la teoria del mantenimento delle norme gruppali, mentre la teoria dello scambio sociale è stata ampiamente supportata: dunque, la reputazione sarebbe associata prevalentemente alla promozione di relazioni personali vantaggiose e di scambi reciproci.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Dagli studi è anche emerso che, spesso, i soggetti regolano il proprio comportamento in base a quello messo in atto dal partner. Per quanto riguarda l’uso delle punizioni, questo sembra essere più in relazione con la teoria dello scambio sociale: infatti, quando i partecipanti sapevano che il partner era incline a violare le norme, non necessariamente essi decidevano di punire il partner quando questo li ostacolava. Dunque, non sempre si punisce l’altro se questo viola le norme gruppali della cooperazione.

E’ risultato, invece, importante considerare se il soggetto intende continuare la relazione con il partner o interromperla: nello studio se il soggetto intendeva continuarla, allora puniva il partner, nel momento in cui questo lo ostacolava e successivamente, quando i ruoli si invertivano, cooperava con lo stesso; se, invece, intendeva interrompere la relazione, allora non lo puniva, ma successivamente lo ostacolava. 

Dunque, la reputazione è così importante? Ebbene sì, se si vogliono stabilire scambi sociali positivi, basati sulla fiducia reciproca.

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SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Bilinguismo: i Bambini imparano da Intonazione e Durata del Discorso

FLASH NEWS

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I bambini in ambienti bilingue utilizzano gli spunti forniti dall’intonazione e dalla durata del discorso per discriminare tra le lingue che hanno un ordine di parole opposto.

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Secondo una nuova ricerca della University of British Columbia e della Université Paris Descartes, già a 7 mesi i bambini possono distinguere, e cominciare a imparare, due lingue con strutture grammaticali molto diverse.

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Pubblicato in questi giorni sulla rivista Nature Communications e presentato all’Annual Meeting of the American Association for the Advancement of Science (AAAS) tenutosi quest’anno a Boston, lo studio dimostra che i bambini in ambienti bilingue utilizzano gli spunti forniti dall’intonazione e dalla durata del discorso per discriminare tra le lingue che hanno un ordine di parole opposto.

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Nella lingua inglese, ad esempio, una parola funzione viene prima di una parola contenuto (il pane, le case, in coppia) e la durata della parola contenuto è maggiore, mentre in giapponese o Hindi, l’ordine è invertito, e l’intonazione delle parole di contenuto è più elevata.

Già in precedenti ricerche Janet Werker, psicologa della UBC, e Judit Gervain, linguista presso l’Université Paris Descartes, hanno dimostrato che i bambini usano la frequenza delle parole nel discorso per distinguerne il significato.

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Per esempio, spiegano le ricercatrici, in inglese the e with compaiono nel discorso con maggiore frequenza delle altre parole e per questo motivo il loro apprendimento avviene mediante il conteggio. Ai bambini bilingue però questo non può bastare e per questo sviluppano naturalmente e precocemente strategie aggiuntive che gli permettano di padroneggiare la complessità del linguaggio a cui sono esposti.

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BAMBINI – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – APPRENDIMENTO DEL LINGUAGGIO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Reality e la spettacolarizzazione del nulla: recensione del film di Matteo Garrone (2012)

 

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Reality (2012) di Matteo Garrone. Recensione di State of Mind
Locandina cinematografica di Reality (2012) di Matteo Garrone

Il film di Garrone mette in guardia lo spettatore rispetto alle nuove minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale

La visione di Reality, Grand Prix al Festival del Cinema di Cannes e ultima fatica dell’ottimo regista di Gomorra (2008), mi ha provocato un deja vù.

Nell’estate del 2009 mi trovavo in una discoteca del Salento (sì proprio quello di Nosignorano…di Biagio Antonacci) e all’improvviso ho visto la folla agitarsi, contenuta a fatica da giganteschi buttafuori: stava entrando Lele Mora accompagnato mi pare da tale Gianluca (ma potrei sbagliarmi), partecipante napoletano del Grande Fratello, che io colpevolmente manco conoscevo (l’unico che mi è rimasto impresso tra le varie saghe è il povero Taricone, pace all’anima sua). Mi ricordo il sorriso stampato di Gianluca, il look vagamente metrosexual, ma soprattutto l’entusiasmo dei fans in fila per un autografo, una stretta di mano, una benedizione.

SPOILER ALERT!! NELLA RECENSIONE VENGONO RIVELATE PARTI DELLA TRAMA DEL FILM

Reality inizia proprio con Enzo, il Gianluca di turno, che arriva come un capo di stato in elicottero a fare l’ospite in un hotel per matrimoni napoletano. E’ lì che il pescivendolo Luciano Ciotola viene folgorato dall’idea di poter concorrere a sua volta per inseguire la celebrità. Luciano è supportato in questo anelito da una grottesca famiglia fortemente sovrappeso, in cui il binge eating disorder (DSM-IV) di ispirazione consumistica assume verosimilmente aspetti di epidemia da centro commerciale americano.

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Recensione "I Territori dell'Incontro" di Coratti Lorenzini Scarinci Sagre.
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Il protagonista, un po’ guascone, tipo lo zio scemotto che c’è in tante famiglie che ama fare gli scherzetti durante i ritrovi per le feste comandate, insegue il sogno del reality fino a diventarne vittima. Passa le selezioni locali e arriva a quelle romane, dove parla per più di un’ora con lo psicologo, con l’effetto di amplificare le proprie aspettative rispetto all’essere selezionato. E’ nell’attesa della chiamata definitiva che mai si concretizzerà che si consuma il dramma psicopatologico di Luciano Ciotola.

L’evento stressante in una personalità predisposta, secondo il modello stress vulnerabilità (Zubin, 1977), è in questo caso il sogno della celebrità e l’occasione (seppur remota) di poterlo realizzare, con tutti i cambiamenti che può comportare nel fragile uomo qualunque. Il protagonista inizia a vivere la propria realtà quotidiana in maniera sempre più distorta, fino a sviluppare una franca ideazione paranoide, che lo induce a scelte assolutamente avventate come il vendere la pescheria, perché già sicuro del suo futuro nella Casa del Grande Fratello.

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Oltre all’appoggio della famiglia, Luciano riceve un potente rinforzo anche dall’ambiente circostante, che pare non aspettare altro, come riscatto sociale, che avere un proprio rappresentante tra quelli che vanno in televisione, che “ce l’hanno fatta“. Ma fatta a fare cosa? A realizzarsi pienamente solo come personaggio virtuale, prodotto di punta della società postmoderna (Cianconi, 2011).

A cercare la scorciatoia per essere in un battibaleno amato da tutti, invidiato da tutti, non per qualcosa che si è fatto o si sa fare, che si è costruito faticosamente, ma solo per l’essere Luciano, un simpatico uomo qualunque.

D’altra parte gli psicanalisti ci insegnano che più che il castrante Super-io, che andava forte agli inizi del secolo scorso quando fu concettualizzato da Freud, nel mondo di oggi è l’Ideale dell’Io (prima comparsa del concetto: nel 1914 in “Introduzione al narcisismo”) che detta le nostre leggi esistenziali. Come spiega Bolognini (2008) “in presenza di un eccesso di ideale dell’Io (o – il che non è lo stesso – con un’ideale dell’Io troppo elevato) l’individuo ha praticamente la garanzia di rovinarsi l’esistenza, alla perenne rincorsa di un sé stesso irrealizzabile”.

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L’Argent di Bresson
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Credo che il film di Garrone metta in guardia lo spettatore rispetto alle nuove minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale. Quei geniali “sociologi” delle Iene1 hanno parlato tra i primi di “depressione da reality”, di cui in letteratura non ho ancora trovato nulla, in cui il termine “depressione” include in realtà alcolismi e dipendenze varie, tentativi di suicidio, disturbi del comportamento alimentare e dismorfofobie con selvaggi interventi di chirurgia estetica.

ARTICOLI SU: PSICOLOGIA DEI NUOVI MEDIASOCIAL NETWORK 

 

Mi ha colpito in tal senso la storia di tale Paolo, che dopo una preoccupante crisi di nervi in diretta nella Casa del Grande Fratello, è finito in una casa meno accogliente che si chiama Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura e ora ha ritrovato un equilibrio facendo l’idraulico.

Reality, a mio avviso, va mostrato nelle scuole e propongo anche ai principali conduttori di talk show televisivi nazionali di invitare qualche vero idraulico in trasmissione. Almeno ogni tanto.

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BIBLIOGRAFIA:  

Dolore Cronico: Come lo Possiamo Affrontare e Gestire?

 

Dolore Cronico: Come lo Possiamo Affrontare e Gestire?. - Immagine:© olly - Fotolia.comSi può arrivare a vedere il dolore non più come incompatibile con una buona qualità di vita. Questo aiuterà il paziente a ridurre l’angoscia del dolore e la negatività ad esso associata.

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Non è semplice definire il dolore poiché si tratta di qualcosa che non possiamo né toccare né vedere. Si tratta di un’esperienza soggettiva che costituisce la base della nostra sopravvivenza. Il dolore non è semplicemente una risposta ben definita ad uno stimolo fisico registrato dal sistema nervoso centrale che ha come conseguenza una sensazione spiacevole. Lo stimolo nocicettivo si trasmette nel midollo spinale e nel cervello, ma il segnale non arriva ad un unico e specifico centro del dolore. Le informazioni infatti, si diramano a varie aree del cervello preposte a interpretazione, valutazione ed emozioni. Le cose perciò sono complesse poiché le passate esperienze di dolore, le paure a esso attribuite, la percezione di riuscire a farvi fronte, il sostegno sociale e molti altri fattori, determinano in maniera sconcertante il modo in cui il dolore viene vissuto e la nostra reazione. 

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Il dolore cronico è una condizione che persiste per 3 mesi o più, oltre il tempo necessario alla normale guarigione. Le principali patologie che possono comportare dolore cronico comprendono: nevriti periferiche (nervo trigemino, nervo pudendo ecc), lombosciatalgie, amputazioni degli arti, emicrania e patologie oncologiche.  Non più utile, tale dolore non fa altro che interferire con le attività quotidiane e con la vita in generale (Turk e Winter, 2006). Il dolore cronico è di norma costante, tuttavia può anche essere episodico o ricorrente, come nel mal di testa. La sua intensità può variare notevolmente ed essere influenzata da fattori fisici, ambientali, sociali e psicologici.

Schiena dritta! Come la Postura (nostra e degli altri) influenza la soglia del dolore. - Immagine: © Nelli Shuyskaya - Fotolia.com
Schiena dritta! Come la Postura (nostra e degli altri) influenza la soglia del dolore

Cercare di risolvere il problema del dolore cronico qualche volta non rappresenta una soluzione, bensì un problema in sé. Al contrario, recentemente gli esperti suggeriscono che insegnare a convivere con il dolore e a migliorare la qualità di vita nonostante il dolore, rappresenti il miglior approccio per aiutare le persone a vivere una vita felice. L’obiettivo, quindi, è quello di trasmettere ai pazienti migliori strategie adattive per la gestione del dolore. L’esito dei trattamenti di doloro cronico dipende dal grado di impegno profuso.

Ecco alcuni dei motivi di successo:

– Disponibilità ad accantonare rabbia e diffidenza

– Coinvolgimento attivo nel programma di trattamento

– Non affidarsi esclusivamente alla scomparsa del dolore come indice di successo terapeutico

– Disponibilità a prendere in considerazione una gestione comportamentale e psicologica del dolore

– Attivazione di passi per ridurre la paura del dolore e le sue conseguenze, affrontando convinzioni non produttive.

Associato al concetto di dolore traviamo quello di disabilità, essa indica il grado in cui non siamo più capaci di svolgere quello che prima facevamo. La disabilità è in parte collegata alla causa fisica del dolore, tuttavia ciò che possiamo o non possiamo fare è anche legato al nostro timore di ferirci nuovamente o di essere resi inabili dal dolore.

Ecco infatti alcuni dei fattori più frequentemente associati al livello di disabilità:paura del dolore o di farsi male nuovamente, stanchezza, causa fisica del dolore, effetti avversi dei farmaci, influenza degli altri e indisponibilità del posto di lavoro a venire incontro alle limitazioni fisiche.

Dal momento però che disabilità e sofferenza sono solo parzialmente collegate agli aspetti fisici del dolore, possono essere modificate anche se quest’ultimo persiste.

La sofferenza diminuisce cambiando il punto di vista sulle minacce associate al dolore. Strettamente legata al senso di minaccia è la sensazione di vulnerabilità: quando crediamo di non poter combattere il nostro dolore soffriamo di più, perché non riusciamo ad immaginare una positiva convivenza. Al contrario, quando abbiamo fiducia e sappiamo di poter contrastare i vari problemi che possono insorgere, il senso di minaccia diminuisce, e ciò riduce la vulnerabilità e la sofferenza. La depressione può essere una conseguenza del dolore cronico ed aggrava la sofferenza poiché acuisce il senso di vulnerabilità e alimenta la convinzione che le cose andranno inevitabilmente male. 

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Attento a Come Parli! Il Nocebo Effect. - Immagine: © T. L. Furrer - Fotolia.com
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Chi soffre di dolore cronico riferisce problemi di ansia e tende ad essere più timoroso rispetto alla popolazione generale (Craig 1994). La maggior parte degli studi mette in evidenza che quando le persone sono in preda al dolore evitano qualsiasi cosa che, a loro parere, le metterà in pericolo. Nel dolore acuto un certo evitamento è utile perché favorisce la guarigione, tuttavia nel dolore cronico esso rischia di rafforzare l’idea di possibile danno, andando ad alimentare un circolo vizioso. 

Diversi studi hanno evidenziato come la paura del dolore possa effettivamente contribuire ad alimentare il dolore nel tempo (Asmundson 1999) perciò è molto importante che la persona con dolore cronico venga guidata nel ridurre il senso di minaccia associato al dolore, affrontando gradualmente ciò che la mette a disagio. Questo non significa ignorare il dolore come se esso non esistesse, ma affrontare le attività che possono aumentare il dolore, facendolo però in modo che non vi siano riacutizzazioni. In questo modo si acquisisce un maggior senso di controllo personale, evitando di rafforzare la paura del dolore e le sue conseguenze. Si può in tal modo arrivare a vedere il dolore non più come incompatibile con una buona qualità di vita. Questo aiuterà il paziente a ridurre l’angoscia del dolore e la negatività ad esso associata.

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BIBLIOGRAFIA:

Lo Stile Cognitivo influenza la Fede in Dio?

 

Lo Stile Cognitivo influenza la Fede in Dio?. - Immagine: © GIS - Fotolia.comLe differenze individuali possono essere rintracciate nello stile cognitivo. Tale stile svolge un ruolo importante nel plasmare le convinzioni teologiche.

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Alcune settimane fa, inaspettatamente, ho ricevuto una mail di un vecchio amico che non vedevo da qualche anno. Contento che fosse riuscito a contattarmi e volesse incontrarmi, l’ho chiamato e abbiamo deciso di bere un caffè. Iniziamo la nostra conversazione domandandoci il motivo per cui non ci siamo più sentiti ma, come spesso accade in questi casi, non abbiamo trovato una risposta, semplicemente è andata così. Avevo parecchio da dire, in dieci anni accadono moltissime cose e comincio a raffica, per poi accorgermi di aver monopolizzato la conversazione. Mi fermo e gli chiedo di raccontarmi di sé. Mi parla del lavoro, dei genitori, della sua ex e poi, in un’atmosfera mista tra orgoglio e voglia di stupire, mi rivela: “Sono diventato cristiano, un vero cristiano!”. Ho pensato: “…folgorato sulla via di Damasco!”, effettivamente lui stesso mi dice di aver sempre pensato che la religione fosse l’oppio dei popoli. In ogni modo, mi descrive la sua esperienza di conversione ed io ne prendo atto, non giudico, mi limito a osservare il suo sguardo, che mi sembra cambiato da quando ha iniziato a parlare di Dio. La cosa importante per me è sapere che il mio vecchio amico sia sereno, realizzato, insomma la sua conversione non mi ha sconvolto e, soprattutto, non ha pregiudicato in alcun modo il mio legame di amicizia.

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Questa esperienza personale mi ha sollecitato a riflettere su alcuni temi importanti, quali la religione e la conversione, e ha stimolato il mio interesse di carattere psicologico riguardo la possibile relazione tra la fede e il modo in cui una persona organizza i propri pensieri.

Un sondaggio del 2007 del Pew Forum on Religion & Public Life (2008) ha evidenziato che il 92% degli americani crede in Dio e che il 71% degli stessi ritiene tale credenza una certezza assoluta; a livello mondiale si stima che circa il 90% della popolazione creda in un Dio (Zuckerman, 2007). Molti autori si sono occupati di questo argomento, alcuni hanno sostenuto che la fede in Dio è atto intuitivo, un prodotto naturale della mente umana, data dalla sua struttura cognitiva (Bering, 2011; Bloom, 2005; Preston & Epley, 2005) e dal contesto sociale di riferimento (Atran, 2002; Wilson, 2002).

Gli esseri umani possono avere un certo numero di tendenze cognitive, sviluppate precocemente ed eventualmente innate, che sostengono la fede in Dio o in altre entità soprannaturali. Altri hanno proposto che la fede in Dio può fornire spiegazioni utili a ridurre l’incertezza (Preston & Epley, 2005), e alleviare l’ansia relativa all’incertezza (Inzlicht, McGregor, Hirsh, & Nash, 2009; Inzlicht & Tullett, 2010).

Il differente grado di fiducia che le persone ripongono nella fede è stato analizzato attraverso il modello della trasmissione culturale, che si è concentrato in particolare su come le credenze degli individui siano influenzate dai contesti sociali piuttosto che sulle caratteristiche psicologiche distintive dei singoli credenti (Gervais & Henrich, 2010, Henrich, 2009). Senza negare che i modelli culturali di trasmissione della fede siano in grado di spiegare gran parte della variazione osservata, Aarnio e Lindeman (2007) affermano che le differenze individuali possano essere rintracciate nello stile cognitivo e che tale stile possa svolgere un ruolo importante nel plasmare le convinzioni teologiche.

Un aspetto rilevante dello stile cognitivo è il modo in cui gli individui formano i loro giudizi intuitivamente anziché attraverso la riflessione (Frederick, 2005). I giudizi intuitivi consentono di prendere delle decisioni con poco sforzo e attraverso processi automatici, mentre i giudizi riflessivi impongono all’individuo di soffermarsi a esaminare criticamente i dettami della sua intuizione, giungendo così a una conclusione meno intuitiva o controintuitiva; la riflessione è considerata tipicamente più faticosa dell’intuizione. I costrutti del pensiero intuitivo includono il pensiero automatico, associativo, olistico e l’euristica, mentre il pensiero riflessivo è correlato a processi analitici, di controllo, basati su regole, o al pensiero “razionale”.

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Una ricerca effettuata da Amitai Shenhav, David G. Rand e Joshua D. Greene (Harvard University) ha avuto come obiettivo quello di verificare se la credenza in Dio è davvero intuitiva, e se la fede possa essere influenzata dalla tendenza a fare affidamento sull’intuizione piuttosto che sulla riflessione. A tale scopo sono stati realizzati tre studi: nello Studio 1 è stata esaminata la correlazione tra le differenze individuali nello stile cognitivo (intuitivo vs riflessivo) e la fede in Dio; nello Studio 2 è stata indagata la stessa correlazione valutando inoltre la capacità cognitiva (QI) e la personalità; infine, nello Studio 3, è stata analizzata sperimentalmente la relazione causale tra lo stile cognitivo e la fede in Dio, inducendo atteggiamenti mentali che favorissero l’intuizione rispetto alla riflessione o viceversa. 

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Allo Studio 1 hanno partecipato 882 adulti americani; il campione era costituito dal 64% di donne e l’età media del campione era di 33 anni. Prima di effettuare i test, i soggetti hanno compilato on line una survey relativa alla loro fede in Dio. Il test era composto da problemi di matematica con risposte errate che sembravano intuitive. Per esempio, una domanda chiedeva: “Una mazza da baseball e una palla costano complessivamente $1.10. la mazza costa $1 in più della palla. Quanto costa la palla?” La risposta automatica o intuitiva è stata 10 centesimi, ma la risposta corretta era 5 centesimi. I partecipanti che hanno dato più risposte errate hanno mostrato un maggiore ricorso, nel loro stile di pensiero, all’intuizione piuttosto che alla riflessione.

Per quanto riguarda lo Studio 2, il quoziente di intelligenza è stato misurato attraverso il Shipley Vocabulary Test (Shipley, 1986) e il Wechsler Adult Intelligence Scale Matrix Reasoning test (Wechsler, 1997), mentre le variabili di personalità sono state valutate attraverso la Barratt Impulsiveness Scale (Patton, Stanford, & Barratt, 1995), il NEO Personality Inventory (Costa & McRae, 1992), e il Behavioral Inhibition/Activation Scales (BIS/BAS; Carver & White, 1994).

Allo Studio 3 hanno partecipato 373 persone, suddivisi in due gruppi. A un gruppo è stato chiesto di descrivere un momento della loro vita in cui l’intuizione o l’istinto ha portato un buon risultato, mentre al secondo gruppo è stato chiesto di scrivere un’esperienza positiva derivante dall’uso consapevole del ragionamento (stile riflessivo). Dopo l’esercizio di scrittura, i soggetti sono stati intervistati e i ricercatori hanno riscontrato che coloro i quali avevano riportato un’esperienza intuitiva di successo avevano più probabilità di riferire che erano convinti dell’esistenza di Dio, rispetto a chi aveva riportato un’esperienza di successo “riflessiva”.

La relazione osservata tra la fiducia sull’intuizione e la fede in Dio potrebbe derivare da molteplici fonti. 

In primo luogo, la fede in Dio potrebbe essere intuitiva per motivi legati a caratteristiche più generali della cognizione umana, condizione che può dare origine a tendenze verso il dualismo (Bering, 2011) e all’antropomorfismo (Waytz, 2010). Se la credenza in Dio è supportata da tendenze socio-cognitive di tipo intuitivo, allora si ha una spiegazione del motivo per cui uno stile cognitivo, che favorisce l’intuizione rispetto alla riflessione, porterebbe a una maggiore credenza in Dio. 

In secondo luogo, la fede in Dio può essere il risultato di processi di formazione di credenze intuitive ma può anche svolgere un ruolo di supporto a tali processi. La fede in Dio può consentire spiegazioni facilmente accessibili dando un senso a fenomeni altrimenti misteriosi, facendo ricorso a molteplici e smisurati poteri di Dio (Lupfer, 1996). Tali le spiegazioni assumerebbero così una qualità euristica, infatti, la ricerca suggerisce che le persone con stili cognitivi più intuitivi sono più propensi a fare affidamento su euristiche (Frederick, 2005).

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Così, le persone che sono attratte da spiegazioni intuitive possono arrivare a credere in Dio o a rafforzare la loro fede proprio perché il credere in Dio sostiene le spiegazioni intuitive di diversi fenomeni (Inzlicht & Tullett, 2010; Preston & Epley, 2009). La fede in Dio può quindi dare origine a un ciclo di feedback in cui soddisfare la richiesta di spiegazioni appellandosi a Dio rafforza lo stile cognitivo intuitivo che originariamente ha favorito la fede in Dio.

I risultati della ricerca hanno evidenziato che i soggetti con uno stile di pensiero intuitivo presentavano maggiori probabilità di diventare, nel corso della loro vita, più fiduciosi nella loro fede in Dio, indipendentemente dal fatto che avessero ricevuto in passato un’educazione religiosa. Gli individui con uno stile cognitivo riflessivo tendevano invece a mostrare meno fiducia nella loro fede in Dio. Lo studio ha anche mostrato che questo collegamento tra stili di pensiero differenti e livelli di fede non poteva essere spiegato da differenze di capacità di pensiero dei partecipanti o dal QI.

Inoltre, questi risultati sono particolarmente interessanti in quanto riescono a fornire un’interpretazione di un importante fenomeno sociale attraverso l’uso di tendenze cognitive di base. Come le persone giungono alla soluzione relativa ai prezzi delle mazze e delle palline (esempio Studio 1), riflette il loro modo di pensare e, in ultima analisi, le loro convinzioni circa l’ordine metafisico dell’universo.

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BIBLIOGRAFIA:

Stigma – Definizione

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

La parola stigma, di origine greca, significa marchio, impronta, segno, distintivo.

È utilizzata in diversi ambiti, dalla botanica alla musica. In particolare, gli espetti di salute mentale individuano con questo termine la discriminazione basata sul pregiudizio nei confronti del malato mentale. Di conseguenza per un malato mentale subire lo stigma significa vivere ogni giorno nell’esclusione, nel rifiuto, nella vergogna e nella solitudine.

Il pregiudizio nei confronti dei malati mentali si sviluppa in contesti in cui le informazioni sono accettate in maniera apparente e superficiale, e portano, di conseguenza, all’attuarsi di pregiudizi ed emarginazione nei confronti delle persone malate. Alla base si genera una mancanza di riconoscimento della sofferenza derivante dalla malattia mentale e una attribuzione di stabile invalidità nei confronti di queste persone, che se adeguatamente considerate e curate potrebbero recuperare parte delle proprie capacità sociali e intellettive.

Lo stigma consiste in una attribuzione di pregiudizio infondato che ha come conseguenza l’isolamento del malato e l’incurabilità. Se si considerasse il malato mentale come un comune malato colpito da una particolare sintomatologia allora si accetterebbe il concetto di cura e di soccorso. Solo se si intervenisse in questo modo sarebbe possibile aiutare il malato mentale ad affrontare adeguatamente la propria sofferenza, consentendogli di andare oltre la solitudine perché possibile trovare aiuto nella cura.

Stigma
STIGMA – Illustrazione di Lorenzo Recanatini – Alpes Editore

 

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