Negli ultimi anni le ore di sonno si sono progressivamente ridotte. Ad essere coinvolti sono soprattutto i giovani i quali restano maggiormente incollati ad internet per navigare in rete o per chattare su social network come Facebook.
A conferma di ciò, una ricerca del 2009 di cybersentinel.co.uk aveva messo in luce che gli adolescenti inglesi navigavano sul Web per ben 31 ore, mentre un’analoga indagine dell’European Interactive Advertising Association (2011) ha rivelato che il 57% degli europei va regolarmente online e che l’82% dei giovani dai 16 ai 24 anni utilizza internet da 5 a 7 giorni a settimana.
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Pertanto il dato più allarmante è che le ore tolte al sonno per navigare in internet sembrano favorire l’insorgenza di patologie psichiche in età adulta. Una ricerca dell’Università di Sidney (Australia), diretta dal professor Nicholas Glozier e pubblicata sulla rivista “Sleep”, ha esaminato salute ed abitudini di 20.000 giovani, tra i 17 ed i 24 anni. L’indagine ha mostrato come i soggetti che dormivano meno di 5 ore a notte avevano il triplo del rischio, rispetto a coloro che avevano un sonno regolare, di sviluppare problemi psicologici l’anno successivo: ogni ora di riposo persa era legata ad un 14% in più di pericolo per la salute.
Il Dott. Glozier, professore di psichiatria e medicina del sonno al sonno al Sydney’s-Woolcock Institute a al Brain and Mind Research Institute, dichiara che i disturbi del sonno, e in particolar modo l’insonnia, in seguito possono sviluppare patologie come l’ansia e depressione.
Inoltre se è vero da un lato che molti ragazzi possono soffrire di insonnia come risultato di patologie precedenti, dall’altro ci sono adulti che tendono a soffrire di ansia e di problemi sonno-veglia che possono poi sfociare in patologie bipolario in depressione grave.
Dormire poco non conduce soltanto a disturbi come la depressione per i giovani, ma potrebbe sfociare anche in problemi alimentari quali l’obesità.
Questa tesi è sostenuta da una ricerca condotta dal Brigham and Women’s Hospital and Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, che ha monitorato 240 ragazzi dai 16 ai 19 anni monitorando per alcuni giorni il loro sonno (mediante actigrafo, uno strumento che misura l’attività motoria) e indagando le loro abitudini alimentari, con particolare attenzione al consumo di snack.
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Dai risultati emerge che dormendo al di sotto delle otto ore regolari si consumano molti più snack e si ha la tendenza a mangiare ad orari insoliti, privilegiando molto spesso spuntini veloci e poco salutari. Tutto questo potrebbe essere dovuto, secondo la ricercatrice Susan Redline, a un’alterazione del metabolismo conseguente a una variazione nei livelli degli ormoni che regolano l’appetito come la leptina e la grelina, ma anche al semplice fatto che si hanno più opportunità per mangiare.
Tutto ciò porta ad un evidente aumento eccessivo del peso corporeo. Viceversa, per ogni ora in più di sonno, le calorie assunte attraverso gli snack si riducono mediamente del 21%.
Infine, il Dott. Glozier afferma che la correzione dell’equilibrio sonno-veglia, dell’insonnia e di altri disturbi può essere effettuata con una cura a base di luce (light therapy), ma anche con ormoni come la melatonina.
Teenagers ‘spend an average of 31 hours online’ . The Telegraph, 10 Febbraio 2009. European Interactive Advertising Association European Mobile Internet Use. Rapporto Mediascope Europe (2011).
Congresso SIPNEI: IV giornata studio – La relazione che cura
Dalla IV Giornata Studio – Spinei – Sessione Emilia Romagna:
LA RELAZIONE CHE CURA E LE RISPOSTE PSICOENDOCRINOIMMUNOLOGICHE
La relazione come strumento di cura è stato il leitmotiv della giornata, i vari contributi ne hanno portato alla luce aspetti e sfaccettature diverse analizzando il processo relazionale da un punto di vista psicologico, fisiologico, sociologico ed antropologico.
A Ravenna il 27 ottobre si è tenuta la IV giornata studio della SIPNEI, sezione Emilia Romagna. Tema della giornata “La relazione che cura e le risposte pscioendocrinoimmunologiche”.
Giornata davvero molto interessante non solo per gli pscicoterapeuti presenti in sala ma per tutte le figure socio sanitarie che si occupano in un qualche modo della cura e della presa in carico del paziente. La relazione come strumento di cura è stato il leitmotiv della giornata, i vari contributi ne hanno portato alla luce aspetti e sfaccettature diverse analizzando il processo relazionale da un punto di vista psicologico, fisiologico, sociologico ed antropologico.
La giornata si apre con una citazione di Benedetti (2012) “ un individuo che è capace di far terminare il dolore al semplice contatto con altri individui, ha certamente un vantaggio evolutivo, rispetto a coloro che non posseggono tale capacità”
Particolarmente interessante per noi psicologi l’intervento del Dott. Franco Baldoni “il paradigma dell’attaccamento nella pratica terapeutica”. In primo luogo ha invitato i presenti a considerare i proprio pazienti non come malati ma come “non adattati”, vedendo il sintomo espresso dal paziente come qualcosa che svolge una funzione difensiva di fronte al pericolo.
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Ritorna il concetto di attaccamento, modelli operativi interni e comportamento di attaccamento (ricerca di vicinanza e protesta per la separazione). Molto interessante il portare la teoria dell’attaccamento nella relazione terapeutica e come gli stili di attaccamento di terapeuta e paziente che si incontrano nella terapia possano modificarne l’efficacia. In particolare un clinico con attaccamento evitante avrà con pazienti con attaccamento A un approccio rigidamente tecnico, ipercognitivo, e le emozioni negative o gli aspetti problematici saranno aree spesso inesplorate.
Un clinico con attaccamento C e un paziente tendenzialmente preoccupato avranno una relazione basata su una forte enfasi emotiva, che però spesso si traduce in un eccesso di aspettativa e in una relazione terapeutica che finisce per essere simmetrica.
Un clinico con attaccamento A e un paziente con attaccamento C o un clinico con attaccamento C e un paziente con attaccamento A avranno una relazione parzialmente positiva ma dove possono essere frequenti le difficoltà di comprensione. Il buon terapeuta dovrebbe un attaccamento B, ancora meglio se un “B guadagnato”.
Il Dott. Baldoni Chiude il suo intervento con i “consigli” di Bowlby per una buona relazione terapeutica:
Il terapeuta deve essere per il paziente una base sicura;
Deve aiutare il paziente a riconoscere le modalità attuali di entrare in relazione con l’altro;
Deve aiutare a riconoscere le modalità di relazione con il terapeuta e l’influenza che i modelli operativi interni hanno;
Deve aiutare a riconoscere come la propria infanzia influenzi il modo di percepire e agire oggi nel mondo;
Deve aiutare a riconoscere come le proprie rappresentazioni guidino spesso inconsapevolmente e oggi possano non risultare adeguate.
A seguire l’intervendo del Dott. Bottaccioli che si è concentrato sugli effetti neurobiologici delle relazioni di cura e di autocura. Partendo da una prospettiva storica e sociale di come il concetto di cura abbia cambiato nel tempo la propria forma partendo da Platone “anche il medico impara dal malato” passando per la medicina riduzionistica arrivando ai giorni nostri. Arricchisce il suo contributo portando dati di ricerca che evidenziano come la valutazione dell’evento malattia da parte del paziente cambi notevolmente il modo stesso di viverla. Come la mente sia un potente modulatore dell’evento traumatico, e come la valutazione del dolorepossa effettivamente cambiare la percezione dello stimolo doloroso attivando le specifiche aree cerebrali.
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Introduce l’importanza della buona comunicazione di una diagnosi e di una buona comunicazione medico paziente parlando dell’effetto nocebo. Porta i dati di una recente ricerca effettuata su 242 medici di medicina generale di Parma e sui rispettivi pazienti 20961 da cui emerge che vi è una relazione significativa tra l’empatia del terapeuta e il rischio di complicanze metaboliche acute nei pazienti con malattia cronica, tanto maggiore e l’empatia tanto minore sarà il rischio.
Interessante i dati presentati di Groopman “Come pensano i medici” dove viene visto come le euristiche e gli errori cognitivi dei terapeuti possano influenzare il processo di cura. Il paziente può esserci simpatico o antipatico e questo può esporci a possibili bias di sottovalutazione o evitamento; il senso di fallimento del clinico può far rinunciare quando la malattia è difficile; la paurae l’ansia del dover essere sempre competenti può portare ad un troppo veloce etichettamento del sintomo presentato…
Chiude il suo intervento con una citazione di Gabbard “la ricerca ha ripetutamente dimostrato che il ruolo della relazione terapeutica è più importante di ogni tecnica specifica nel produrre un out come terapeutico favorevole”
Altri nel corso della giornata gli interventi interessanti sulla presa in carico globale del paziente considerando la malattia come un fenomeno multifattoriale. Molti gli interventi più strettamente “medici” in cui vengono introdotti concetti come carico allostatico, comportamenti alimentari come prevenzione e cura, processi infiammatori. Viene anche trattato il tema dello stress come core patogenetico comune nello sviluppo di malattie croniche quali ipertensione, patologie cardiovascolari, patologie oncologiche e metaboliche. Rimane aperto e sempre in evoluzione il campo della ricerca in questo settore ed è con questa spinta rispetto a temi da approfondire e dati di ricerca da aspettare che lascio Ravenna. Con già in testa la prossima giornata a cui partecipare!
Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa con la Sua Noia
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Non tutti i pazienti suscitano le stesse emozioni e, con l’esperienza, si impara a tener a freno anche emozioni negative con le quali ha ben poco a che vedere il paziente, quanto piuttosto il mondo interno del terapeuta.
Un’emozione che ho imparato a temere più delle altre è il disinteresse. Non la paura, la rabbia, il disgusto o la tristezza ma, più di tutte, è il disinteresse che si ammanta di noia a preavvisare di una terapia mal condotta. Se mi annoio, vuol dire che non sono riuscito ad andare oltre le apparenze; l’esterno degli uomini è spesso ripetitivo, scontato, banale. L’interno invece è sempre stupefacente, sorprendente nella sua grandezza o nella sua miseria. Ormai l’ho capito per cui, quando mi viene da dire tra me “questo non ha niente, cosa viene a fare a farmi perdere tempo”, mi fermo un attimo e penso che sono vittima dell’inganno del brutto anatroccolo, che devo guardare meglio alla sostanza di cui quella persona è fatta e non ai cliché con cui si presenta in società. La noia poi la si sperimenta quando ci si trova in un contesto in cui non si hanno scopi attivi; quando mi sento così, mi sto valutando impotente di produrre qualsiasi cambiamento ed è prodromo di fallimento terapeutico.
Marisa ha tutte le caratteristiche apparenti per suscitare il mio disinteresse. Non presenta sintomi clamorosi, ma solo una noia esistenziale, un infrangibile disinteresse per tutto e per tutti, esclusi i suoi due figli di cinque e otto anni. Non lavora perché non ne ha bisogno, ma anche (se si oltrepassa la buccia) perché si ritiene incapace di qualsiasi attività.
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Viene da una famiglia ricca e persino nobile, estremamente attenta alla forma e all’apparenza, è amatissima dal marito verso il quale non prova nulla e che è stato solo un appoggio per liberarsi della sua famiglia d’origine.
Dall’età di quattordici anni ha sviluppato un disturbo alimentare e, tuttora, abbuffa e vomita di nascosto da tutti. E’ normopeso. Circondata da servitori indiani e filippini, non fa nulla tutto il giorno, in poche parole la si potrebbe definire un parassita dell’umanità, ricca, viziata e annoiata dal benessere.
La accolgo con interesse solo per l’inviante, simpatico e per l’aspetto fisico. Tutto il resto è noia! L’inviante è suo cugino che è stato, in passato, mio paziente e che ricordo come persona brillante, intelligente e simpatica. Siccome lui era davvero squinternato, immagino che anche la cugina debba esserlo e, dunque, mi impongo di prestarle attenzione.
Inoltre, Marisa è una trentottenne alta un metro e ottantacinque di una bellezza scultorea. La immagino come la polena di una nave vichinga per la maestosità imponente del suo corpo e la decisione, solo apparente, con cui si impone. Ogni volta che entra nello studio, sento che devo esercitare autodisciplina per non soffermarmi ad ammirare le parti più esibite di quel corpo che, consapevole del suo effetto, si lascia ammirare. Lo stile non è mai volgare, piuttosto fintamente trascurato. Grandi maglioni contengono a stento un seno elegante, dove fanno bella mostra vivaci e stravaganti collane che tentano, senza bisogno, di richiamarvi l’attenzione. Marisa, che si accorge dell’effetto che fa, quasi a scusarsi, dice immediatamente che il seno è stato rifatto ben tre volte, a motivo di incredibili complicazioni operatorie. Le tuniche dall’aspetto monacale, con le quali nasconde il suo fisico slanciato e robusto da ragazza di buona famiglia che ha fatto sport (equitazione, polo, scherma, golf, tanto per intenderci) sin da piccolissima sono, come una tela di Fontana, squarciate su un lato fino a una dozzina di centimetri dall’inguine.
Lo sguardo azzurro intenso, che compare e scompare dietro un siparietto oscillante di capelli biondi, racconta però una tristezza abissale. O meglio, qualcosa di peggio, la noia. Marisa non ha apparentemente problemi. Il marito la adora ed ha accettato di non essere ricambiato, chiedendo in cambio solo una notte di amore sfrenato, indotto dalla cocaina, con frequenza circa quindicinale. I figli vanno bene a scuola e promettono bene a golf, polo, equitazione e scherma. Il padre ha tolto il disturbo due anni fa, eliminando problemi di assistenza che un’incipiente demenza poteva far temere. La madre continua a rimproverarla per ogni cosa che fa e le dice che non combinerà mai nulla di buono, ma è un disco rotto a cui non bada più. Le sue giornate si dividono fra visite alle amiche con pettegolezzi incrociati, shopping militante e naufragio dolce, con dosi massicce di cannabis, che le consente di staccare il pensiero.
Quando non è staccato, il pensiero si avvita su due temi.
Cosa penseranno gli altri di me è la domanda che si pone in presenza ed in assenza degli altri, durante tutto lo stato di veglia. Si badi bene che la questione cruciale non è cosa potrebbe avvenire nella relazione con l’altro, a seconda del giudizio più o meno positivo, ma chi sia effettivamente Marisa. Cerca nel giudizio dell’altro una risposta, che lei non ha, circa chi lei sia, cosa voglia, cosa tema.Il giudizio negativo cui è sin da piccola abituata non la spaventa quanto l’assenza del giudizio stesso, il terrore è che lo specchio non rifletta nulla e venga certificata la sua inesistenza.
E qui si verifica il paradosso della bellezza: è evidente che si accorga di essere notata e oggetto di apprezzamenti positivi, indubbiamente ne è contenta, ma ciò non cambia niente, non le dà alcuna consistenza identitaria, non è lei ad essere notata ma il suo corpo. Anche quando l’interesse è rivolto ad altri aspetti di lei, scatta implacabile la maledizione della bellezza, “si interessano a me solo per il mio fisico e non si accorgono neppure che esisto”, un modo per non riconoscersi nessun valore che non sia quello estetico.
L’altro pensiero costante è quello del cibo. Vive sotto la tirannia delle calorie, resiste a qualsiasi introduzione calorica e si impegna in defatiganti attività ginniche per eliminarle. La sua ha il connotato di una sfida mistica, una lotta contro il demonio e le sue tentazioni. Si esalta nella prospettiva della vittoria, ma basta un piccolo cedimento che tutta la linea di difesa crolla: i primi sono i dolci, la cioccolata e i crackers. Senza mezze misure, che tanto tutto è perduto, fa incursioni nella dispensa e stermina merendine dei figli e pacchi formato famiglia di biscotti. Quando la dispensa è svuotata, attacca nel frigo formaggi, salumi, maionese e ketchup. A questo punto, in uno stato confusionale che è quasi una trance, prova un gonfiore opprimente allo stomaco che le ostacola il respiro. Solo raramente ha violato la porta del freezer e si è ritrovata seduta per terra, in cucina, a succhiare i bastoncini di merluzzo per ammorbidirli, prima di riuscire a spezzarli e ingoiarli in grossi pezzi. Fino circa ad un anno fa, l’episodio si concludeva con Marisa avvolta in un plaid sul divano, tracimante di cibo e di sensi di colpa e con un po’ di preoccupazione all’idea di poter morire soffocata.
Poi, in un giorno di particolari eccessi, le avvenne di vomitare una slavina rosa sul tappeto della nonna. Fu terribile, perché rese impegnativo l’occultamento della sua abitudine di abbuffare. Da allora, per evitare il ripetersi dell’incidente, iniziò ad andare in bagno e scoprì che bastava inginocchiarsi di fronte alla tazza del cesso e immaginarsi due o tre cose, che aveva scoperto essere dei formidabili trigger, per vomitare tutto senza difficoltà e senza tracce, tranne un odore di acido che, sempre di più, stava impregnando il suo bagno. Naturalmente Marisa è perennemente a dieta e nessuno sospetta il problema, essendo il suo fisico ineccepibile. Immagina che nessuno potrebbe capirla e prova vergogna per quanto le capita.
In verità, il fatto che nessuno si avveda di quanto le accada, è una sicurezza nel presente ma un dolore lontano.
Seconda di tre figli, in mezzo a due fratelli geniali e di grande successo, è sempre stata trasparente agli occhi dei genitori. Ricorda che a nove anni andava a scuola con l’abbigliamento e il trucco che sarebbero stati eccessivi e volgari per una prostituta, senza che nessuno le dicesse nulla. Portava a casa numerosa refurtiva, sottratta ai compagni, con lo stesso risultato. Queste disattenzioni genitoriali le sono particolarmente evidenti e motivo di rabbia, ora che è lei ad essere nel ruolo di mamma. Racconta che già a quindici anni aveva l’aspetto fisico attuale e non stento ad immaginare l’effetto che poteva fare a compagni e professori.
Pur non studiando quasi nulla riuscì ad essere sempre promossa, in parte per il cognome altisonante che portava e che i genitori facevano valere, al momento buono, in parte per le ripetizioni che alcuni professori si offrivano di darle gratuitamente. Faceva ripetizioni, infatti, sempre dopo la disastrosa pagella del primo trimestre, con tutte le materie più importanti: il Marucci, terrore dell’italiano e del latino, la riceveva due ore a settimana, il Grigno, settantenne scienziato matematico, con aspirazioni da Nobel e gobba da Quasimodo, le dedicava un’ora al bisogno prima dei compiti in classe, il professore di scienze Gangemi, trentottenne siciliano in trasferta a Roma senza la famiglia al seguito, si recava addirittura a casa sua.
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I genitori non si chiesero mai perché i professori si prestassero a lavorare così assiduamente ed entusiasticamente gratis per una giovane sfaticata, indisponente e nient’affatto brillante; in verità le ripetizioni non erano affatto gratis, ma retribuite fantasiosamente senza il ricorso al denaro. Marisa ne ricavò la convinzione di poter ottenere tutto senza impegno e solo imparando a capire al volo e soddisfare i desideri degli altri. Ancora si chiede come i genitori non si interrogassero sul perché ogni anno la prima pagella fosse disastrosa, facendo scattare il bisogno delle ripetizioni, che poi conducevano ad una conclusione dell’anno brillante. Poi l’anno successivo tutto ricominciava da capo, come se a nulla fossero valse le ripetizioni. I professori erano particolarmente severi nel primo trimestre, per rendere necessarie le ripetizioni, a fine anno, invece, dovevano essere particolarmente generosi per compensare le insufficienze che comunque Marisa accumulava nelle materie a gestione femminile. Perdere per strada una tale studentessa sarebbe stato un vero peccato per il Marucci, il Grigno e il Gangemi.
Negli ultimi tre anni del liceo abortì clandestinamente due volte, senza dir nulla neppure ad Eugenio, che era il suo ragazzo di allora, una specie di bullo malavitoso che l’aveva scelta solo perché il capo deve avere la donna più bella come simbolo del suo potere. La invidiava e la umiliava per il suo stato sociale e non era raro tornasse a casa con vistosi ematomi sul volto e la famiglia scherzava sulla sua proverbiale disattenzione per gli spigoli.
Durante questo periodo Marisa sviluppò sia una notevole maestria nelle faccende di sesso, che le conferì prestigio nella comunità scolastica maschile e invidia malevola in quella femminile, sia una sorta di distaccata anestesia sessuale. Le rutilanti prestazioni da tigre del sesso andavano di pari passo ad un godimento tenue e spaventato, come un micetto inseguito da un mastino infuriato e bavoso. Tuttora, nelle defatiganti nottate in cui con l’ausilio della cocaina si paga con interessi da usura il debito coniugale, Marisa è una sorta di attrice non protagonista che assiste dal di fuori, spinta dalla droga in una smania febbricitante alle esaltate evoluzioni del marito.
Il momento che più si connota di piacere è dopo le abbuffate: con lo stomaco in tensione, il cervello annebbiato dalla cannabis, il tepore della coperta in cui si avvolge, stringe forte il cuscino di velluto tra le cosce e dopo un po’ avverte pulsare in basso, al ritmo cardiaco, un gocciolante rapido godimento.
Quando l’attuale marito ha bussato alla porta per chiederla per fidanzata e poi sposa, i genitori sono stati ben contenti di sistemare questa figlia senza qualità e senza speranze, che rappresentava solo un costo. Si aggiunga che Riccardo, assolutamente privo di qualsiasi tratto nobiliare e di raffinatezza, aveva però un’ottima attività ed un traboccante conto in banca e Marisa avrebbe avuto un futuro assicurato, nonostante la sua scontata incapacità. Sapeva di non amare quell’uomo, ma iniziava anche a chiedersi se, semplicemente, non fosse proprio incapace di amare. Almeno era ricco e completamente al servizio della sua bellezza, che immaginava non sarebbe durata per sempre, meglio realizzare subito il dono di madre natura prima che si deteriori.
Per sette anni si era rifiutata di fare figli, convinta di essere incapace a crescerli. Per tutto questo periodo aveva pensato seriamente al suicidio come ad una liberazione dalla noia. Non aveva mai progettato il gesto coscientemente, ma aveva preso sistematicamente ad utilizzare il phon immersa nella vasca, oppure a guidare sotto l’effetto di forti dosi di cannabis.
Da quando è diventata madre ha accantonato l’idea, pur continuando ad augurarsi una morte improvvisa per cause naturali.
I figli sono stati voluti da Riccardo che ha deciso per entrambi e di questo lei lo ringrazia. Dopo i due allattamenti si è fatta ritoccare il seno.
Il principe dei chirurghi plastici le ha messo una protesi esplosa, in seguito, sotto la pressione della cintura di sicurezza. Sono seguite altre tre operazioni tutte incredibilmente con complicazioni, alla fine è residuata una orribile cicatrice che vorrebbe a tutti i costi mostrarmi.
Con il principe dei chirurghi ha avuto una relazione iniziata un anno prima del nostro incontro e che è motivo di sofferenza: i due si scambiano messaggini di contenuto erotico, con lo scopo dichiarato dell’incentivo alla solitaria contemporanea masturbazione. Entrambi non sembrano interessati ad una traduzione pratica delle fantasie, il piano fantastico preserva dai guai coniugali e soprattutto dalle delusioni.
Quando il principe non si fa vivo per parecchio tempo, lei sprofonda in quello stato di perdita dell’identità che conduce alle abbuffate. Lo stesso non avviene se è lei a interrompere i contatti; non le serve averlo, non sa che farsene, le serve pensare che lui la voglia, la desideri, la pensi, uno come lui che ha visto nude le donne più belle del mondo.
Marisa sembra non avere desideri, né interessi di alcun genere.
Una sola volta ha tentato di lavorare come contabile nell’impresa del marito ma non capiva quello che doveva fare, anche perché non glielo avevano spiegato, certi che non ne sarebbe stata in grado. Tutto ciò la fa sentire sempre inferiore agli altri.
Il circolo vizioso in cui è infilata è di questo tipo: siccome non so fare niente, non mi cimento in nessuna attività per evitare fallimenti. Non facendo nulla, non scopro se certe attività siano piacevoli, nè se siano alla mia portata. Non avere interessi e competenza è una ulteriore prova della mia incapacità.
Insomma, non è la mancanza di interessi e, dunque, di esperienze a generare il senso di inefficacia, ma esattamente il contrario, è l’inefficacia a generare la paralisi operativa.
Andiamo a frugare nel suo lontano passato per scoprire se, prima dell’istaurarsi di questo sentimento di inefficacia, ci fossero state delle tendenze, passioni o talenti. In verità, seguo un’intuizione avuta dal primo incontro: Marisa sembra una natura artistica costretta a vivere un’esistenza non sua, una poderosa quercia mutilata e costretta a diventare un bonsai. Riemerge dalla prima infanzia una passione per il disegno e il piacere di giocare con il pongo e la plastilina. Questa sua passione fu considerata una perdita di tempo e, perciò, la ragazza fu avviata allo sport ed allo studio della musica che, insieme alla danza, più si confaceva al suo status sociale. Nel ritornare ai primi anni della sua vita, anche attraverso foto di famiglia utilizzate per ricostruire il genogramma, ci avvediamo dei volti tristi che i genitori mostrano sempre. E’ in questa occasione che Marisa rammenta tre gravi eventi luttuosi che hanno marcato la sua infanzia e io ne immagino immediatamente la connessione con il suo senso di indegnità e la colpa del sopravvissuto che le impedisce di godersi la vita, anche se Marisa non vede alcun nesso con la sua situazione di cronica insoddisfazione.
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Il primo evento ha preceduto di qualche anno la sua nascita: un fratellino, Vittorio, di tre anni, fu ritrovato morto nel lettino la mattina del primo dell’anno. I genitori provarono un dolore straziante, aggravato dal senso di colpa per il fatto di aver bevuto troppo la sera di Capodanno; immaginarono di non aver sentito i richiami del figlio agonizzante e di averlo lasciato morire da solo. Secondo Marisa la madre non si è più ripresa da questo lutto e, ancora oggi, odia tutti i viventi per il solo fatto di essere tali.
Il secondo evento è contemporaneo alla nascita di Marisa. La gravidanza, iniziata due anni e tre mesi dopo la morte di Vittorio, si presenta gemellare e tutto procede bene fino al sesto mese. Poi, lo sviluppo dei due feti diventa asimmetrico e, al momento della nascita la femmina, Marisa, è vivace e ben sviluppata, il maschietto nasce morto. Il ginecologo spiega che la bambina ha prevalso e battuto il fratello nella competizione per le risorse e per la vita. Per questo, Marisa si porta per cinque anni il soprannome de “la cannibala” : diviene una sorta di aneddoto familiare che lei abbia sempre fame e divori tutto ciò che ha intorno.
Infine la morte del nonno. Quando Marisa compie sette anni, viene iscritta ad un corso pomeridiano di fisarmonica cui l’accompagna nonno Gino, sessantatreenne appena andato in pensione, perché la custodia con dentro lo strumento è pesante. Nell’attraversare viale Manzoni, la bambina sfugge al nonno e si mette a correre, lui avverte il pericolo del tram che sopraggiunge e balza in avanti, ce la fa a spingere Marisa oltre le rotaie e anche lui sembra in salvo ma il tram ha montati sui fianchi dei portabandiera per il giorno successivo, ventuno aprile, Natale di Roma. Il supporto aggancia la cinghia della custodia della fisarmonica e trascina Gino per una dozzina di metri sotto le ruote. Quando il tranviere, disperato, riesce a fermare il mezzo Marisa, sdraiata sul nonno morente, è intrisa di sangue ma illesa. Il sacrificio del nonno non è stato inutile. E’ morto per lei.
Nessuno l’ha mai apertamente rimproverata dell’accaduto, solamente anni dopo alcune critiche hanno iniziato a manifestarsi, sul suo modo di fare “troppo impulsivo”, sul suo “gettarsi in ogni situazione senza riflettere”. Marisa ha iniziato a pensare che doveva essere più calma, più prudente, ricorda che immaginava che, se restava immobile dentro il letto, non avrebbe fatto danni.
Così passava moltissimi pomeriggi dopo il ritorno da scuola, con il solo conforto del cuscino stretto tra le gambe. Ora che li ricorda, quei pomeriggi assomigliano moltissimo ai suoi ritiri odierni sul divano e sotto il plaid, con le canne dopo le abbuffate.
Lavorammo su questo tema di indegnità e colpa, che le aveva impedito di vivere una vita, la sua, che era costata tre vittime innocenti. Il proprio godimento era sentito come una offesa a quei morti, cui ogni piacere era precluso per sempre. Provammo a ristrutturare diversamente il modo di vedere la cosa: se lei viveva una vita bella, il loro sacrificio acquistava un senso e non era stato inutile, lei aveva il dovere di vivere anche per loro.
Fece un sogno in cui era incinta e cercava di raggiungere di notte, a piedi, l’ospedale ma si perdeva su degli oscuri sentieri di montagna. Stremata, credendo di non farcela, si sdraiava per terra. Un cerbiatto luminescente balzava fuori dalla sua vagina e le indicava la strada. Proseguiva ancora il cammino, ma le forze le mancavano di nuovo: accasciata per terra, partoriva di nuovo un essere informe che restava per terra al suo fianco. Per rianimarlo iniziava a plasmarlo e ne faceva una specie di piccolo bronzo di Riace, ma con un morso lo evirava perché voleva finalmente una femmina.
Genericamente e con poca convinzione da parte mia, convenimmo che il sogno significava che era giunto per lei il momento di vivere e fare ciò che davvero voleva, che da lei sarebbero uscite cose belle e luminose. Si trattava di un generico incoraggiamento a darsi da fare e prendere in mano la propria vita, che non era finita con quelle tre morti prima ancora di cominciare.
Non so dunque a cosa attribuire quello che accadde nei successivi sei mesi. Marisa interruppe la relazione virtuale con il principe dei chirurghi e ne iniziò una, molto più concreta e soddisfacente, con il padre di un compagno di scuola del figlio maggiore, che conobbe al consiglio di classe dove si era candidata come rappresentante. Con questo amante sperimentò i suoi primi orgasmi senza cocaina e senza cuscino.
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Frequentò un corso di arte orafa ed iniziò a fabbricare gioielli bizzarri, ma molto apprezzati, con materiali poveri.
Iniziò a rifiutarsi ai cocaina party di Riccardo, che rimase molto sconcertato e attribuì il cambiamento al pessimo influsso della psicoterapia.
La bulimia sembrò spostarsi dal cibo ai corsi ed alle attività, temetti persino un viraggio maniacale. Fece un corso di ikebana, un corso di teatro sperimentale e uno di sommelier e diventò volontaria di diverse associazioni.
Un piccolo sintomo era rimasto: alla sera, quando riepilogava dentro di sé tutte le attività della giornata, doveva concludere l’elenco ripetendo trentatre volte, senza errori pena la ripetizione la formula, “per la salute di Ginorio”, che capimmo essere la forma contratta di per Gino e per Vittorio. Nonostante la persistenza di Ginorio, quando ci rendemmo conto che aveva difficoltà a trovare un’ora per la psicoterapia tra tutti i suoi vari impegni, decidemmo di concludere.
Tre anni dopo mi telefonò per dirmi che avrebbe gradito la mia partecipazione al suo nuovo matrimonio.
Amore per Se Stessi e Amore per gli Altri: Quale Predomina?
Amore per se stessi e amore per gli altri: quale è più importante per gli uomini? Solitamente si preferisce proteggere se stessi o salvaguardare le persone care, come un figlio, il partner o il migliore amico?
La filosofia e le scienze del comportamento sociale hanno cercato di fornire una risposta a questi quesiti, dai tempi di Aristotele, filosofo che ha coniato i termini di “self-love” e “other love”. La ricerca psicologica, in seguito, ha evidenziato che le decisioni prese a proprio vantaggio o a beneficio degli altri possono essere espresse ad un livello implicito ed ad uno esplicito: nel primo caso, le decisioni sono automatiche, spontanee ed impulsive; nel secondo caso, invece, appaiono coscienti, riflessive e ragionevoli.
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Partendo da questo presupposto, Gebauer, Goritz, Hofmann e Sedikides hanno proposto un “Modello Dissociativo della Preferenza” e hanno ipotizzato che le preferenze per se stessi o per gli altri possano essere differenti se espresse ad un livello implicito o esplicito: si presume che ad un livello esplicito si agisca soprattutto a vantaggio degli altri e questo atteggiamento risulterebbe adattivo da un punto di vista evolutivo, in quanto si dimostra agli altri di prendersi cura delle persone care, mentre ad un livello implicito prevarrebbero azioni a vantaggio personale e anche questo atteggiamento risulterebbe adattivo, in quanto favorirebbe l’auto-protezione nelle situazioni quotidiane, soprattutto in quelle in cui si è in pericolo ed è necessario proteggere la propria vita.
Per validare questo modello, gli autori hanno condotto uno studio su un campione di 1519 volontari tedeschi di differente età, occupazione e situazione familiare. Inizialmente, i partecipanti hanno fornito il nome della persona, per la quale provano sentimenti molto positivi. In questa prima fase, solo 42 soggetti hanno risposto facendo riferimento a se stessi e sono stati esclusi dallo studio. Successivamente, ai partecipanti è stato chiesto di rispondere a delle domande per valutare a livello implicito ed esplicito le preferenze per se stessi o per gli altri.
I risultati hanno validato il modello? Ebbene sì, i risultati sono in linea con le due ipotesi iniziali: i partecipanti, a livello esplicito, preferiscono favorire gli altri rispetto a se stessi, mentre implicitamente tendono a proteggere e favorire i propri interessi. Inoltre, le preferenze esplicite sono risultate più consistenti rispetto a quelle implicite, probabilmente per la diversa natura delle misure implicite ed esplicite.
A questo punto potremmo chiederci: ci sono differenze rispetto alle preferenze esplicite ed implicite a seconda dell’età e del genere? E il proprio figlio, il partner e il migliore amico sono favoriti in egual misura o emergono delle differenze rispetto al ruolo che rivestono nella propria vita? La risposta alla prima domanda è negativa. Tutti gli individui, indipendentemente dall’età e dal genere, sembrerebbero agire nello stesso modo, preferendo se stessi a livello implicito e gli altri a livello esplicito.
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Rispetto alla seconda domanda, invece, dallo studio è emerso che si cerca di proteggere e soddisfare maggiormente le preferenze del proprio figlio, rispetto a quelle del partner e del migliore amico. Da un punto di vista evolutivo, possiamo confermare che il desiderio di soddisfare i bisogni ed interessi personali diminuisce quando emergono quelli del proprio figlio, con il quale è presente anche un legame genetico, a differenza di quanto accade con il partner o col migliore amico.
Ma quali sono i meccanismi che determinano questi comportamenti e in che misura il grado di familiarità con l’altro può essere decisivo? A voi le ipotesi per una futura ricerca.
Il Potere Trasformativo del Legame con la Famiglia d’origine
Il fenomeno della famiglia lunga, a dispetto della connotazione negativa spesso attribuitagli, rappresenta una sorta di “laboratorio” di sperimentazione di strategie e modalità di funzionamento.
Nella società attuale, la transizione da parte del giovane adolescente alla vita adulta è una fase lunga rispetto al passato ed ai modelli di riferimento del passato. Il tempo lungo della transizione, in accordo con Cigoli(1995) diluisce il passaggio in numerose tappe e scelte, spesso reversibili: ciò che predomina non è la transizione bensì “il transitorio”. La transizione alla vita adulta comporta una doppia transizione; dalla fase adolescenziale a quella del giovane adulto e da quella del giovane adulto a quella piena dell’età adulta.
Quindi, rispetto al passato, non si parla più di due transizioni forti, bensì la prima costituisce, quasi, una fase preparatoria (microtransizione) per la transizione vera e propria (macrotransizione) che il giovane compirà nella fase successiva.
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E’ un tempo dominato sia dalla ricchezza delle possibilità che dall’incertezza (Modell, Goodman, 1990; Sherrod, 1996). Il giovane si trova ad oggi a dover rispondere a molteplici richieste che provengono dai diversi ambiti a cui appartiene. I marcatori di passaggio di questa fase sono l’entrata nel mondo del lavoro, momento caratterizzato da difficoltà e insicurezza, e la costituzione di una nuova famiglia, impresa sempre più tardiva e in cui la famiglia d’origine riveste un ruolo preponderante.
Infatti la famiglia ha oggi, più che in passato, un ruolo centrale nella vita dei giovani, perché si vive più a lungo in famiglia e perché sono spesso assenti figure di riferimento adulte esterne alla famiglia. Ricerche recenti, hanno posto in luce la restrizione ai soli genitoridel network relazionale costituito dalle figure adulte di riferimento importanti per i tardo-adolescenti contemporanei (Lanz, Iafrate, Marta, Rosnati, 1999; Tonolo,1999).
La transizione adulta, quindi, è sempre più una impresa evolutiva congiunta di genitori e figli (Cigoli, 1985; Younni, Smollar, 1985; Sroufe, 1991; Scabini, 1995). A differenza del passato, essa non si configura più come una rottura di legami preesistenti quanto piuttosto come una trasformazione di questi (Younnis, 1983; Lutte, 1987; Collins, 1997). Questo rappresenta l’esito soprattutto di una rinegoziazione delle relazioni intergenerazionali (Grotevant, Cooper, 1983). Quindi, il fenomeno della famiglia lunga, a dispetto della connotazione negativa spesso attribuitagli, rappresenta una sorta di “laboratorio” di sperimentazione di strategie e modalità di funzionamento.
Cigoli, V.,(1985) Adolescenza, progresso e degrade del processo di individuazione familiare. In Scabini, E. a cura di L’organizzazione famiglia tra crisi e sviluppo. Franco Angeli, Milano.
L’età della prima esperienza sessuale in adolescenza è in grado di prevedere il futuro “romantico” dell’adulto, come ad esempio la scelta di convivere o sposarsi, il numero di partner, e la soddisfazione di coppia?
La precocità delle esperienze sessuali degli adolescentiè una delle maggiori preoccupazioni dei genitori di tutte le epoche. Ma in che modo la precocità delle prime esperienze sessualiinfluisce sulle relazioni sentimentaliin età adulta?
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Lo psicologo ricercatore Paige Harden dell’Università del Texas ha voluto verificare se l’età della prima esperienza sessuale in adolescenza è in grado di prevedere il futuro “romantico” dell’adulto, come ad esempio la scelta di convivere o sposarsi, il numero di partner, e la soddisfazione di coppia.
Harden ha utilizzato i dati, forniti dal National Longitudinal Study on Adolescent Health, di 1659 coppie di fratelli dello stesso sesso che sono stati seguiti dai 16 ai 29 anni. Ogni fratello è stato classificato rispetto all’età della prima esperienza sessuale: precoce (meno di 15), nella norma (età 15-19), o in ritardo (di età superiore a 19).
Come previsto, il ritardo nella prima esperienza sessuale, paragonato a esperienze precoci o nella media, è risultato associato con un livello d’istruzione e reddito familiare più elevato, con minore probabilità di essere sposati e un minor numero di partner romantici in età adulta. Inoltre tra i partecipanti sposati o conviventi in età adulta, il ritardo nella prima esperienza sessuale è stato associato con livelli significativamente più bassi di insoddisfazione relazione in età adulta. La correlazione è rimasta uguale anche dopo avere considerato l’effetto di fattori genetici e ambientali e non poteva essere spiegata da differenze nei livelli di istruzione, reddito, o religione degli adulti, o da differenze nell’adolescenza relative al peso o all’essere attraenti.
Questi risultati suggeriscono che l’età della prima esperienza sessuale è in grado di prevedere la qualità e la stabilità delle relazioni sentimentali in età adulta.
Anche se la ricerca si è spesso concentrata sulle conseguenze della prima esperienza sessuale, gli adolescenti precoci e quelli nella norma in questo studio sono stati in gran parte indistinguibili. I dati suggeriscono che un inizio precoce non è un fattore di “rischio”, ma che un inizio tardivo è un fattore di “protezione” nel plasmare il futuro romantico dell’adulto.
Secondo Harden, ci sono diversi possibili meccanismi che potrebbero spiegare questo rapporto: è possibile, ad esempio, che gli adolescenti “tardivi” siano influenzati da altri fattori come per esempio la sicurezza dell’attaccamento, questo potrebbe portarli ad essere più esigenti nella scelta di partner romantici e sessuali, con conseguente riluttanza ad entrare in relazioni intime a meno che non siano molto soddisfacenti.E ‘anche possibile che il ritardo nelle prime esperienze sessuali protegga dall’incontro con l’aggressività relazionale o la vittimizzazione che ha effetti negativi sulla qualità delle relazioni romantiche successive.
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Infine secondo Harden avere raggiunto una maturità cognitiva ed emotiva al momento delle prime relazioni sessuali è sicuramente un elemento in grado di favorire lo sviluppo di capacità relazionali efficaci, al contrario di quanto avviene nelle esperienze sessuali precoci dove l’apprendimento di comportamenti sessuali non è supportato da un impalcatura cognitiva ed emotiva adeguata.
In studi precedenti, Harden e i suoi colleghi hanno però scoperto che i rapporti sessuali precoci non sempre sono associati a esiti negativi. Ad esempio, utilizzando lo stesso campione della National Longitudinal Study of Adolescent Health, hanno scoperto che gli adolescenti che hanno avuto il loro primo rapporto sessuale in età precoce, in particolare quelli che avevano una relazione sentimentale stabile, avevano anche minori problemi comportamentali delinquenziali.
Preparare alla Scuola Il Bambino con Autismo – Recensione
Recensione del Libro
Al-Ghani, K.I., & Kenward, L. (2012) Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo. Strategie e materiali per un ingresso sereno alla primaria. Trento: Edizioni Erickson.
Cominciamo male, il titolo del libro non mi piace!Da professionista che si occupa da anni di autismo avrei aperto più volentieri un testo intitolato “PREPARARE LA SCUOLA AL BAMBINO CON AUTISMO” dal momento che le difficoltà maggiori si riscontrano proprio nel preparare l’ambiente, il personale e, perchè no, anche i compagni di classe alle esigenze di un bambino autistico.
Il libro l’ho letto comunque perchè, per fortuna, di cose da imparare ce ne sono, visto che è stato scritto da una pedagogista e madre di un bambino autistico e da un’educatrice che si occupa prevalentemente dello sviluppo di risorse per alunni con disturbi dello spettro autistico.
Il libro è di fatto un manuale pratico, non ci sono riferimenti ad approcci teorici, anche se le soluzioni pratiche proposte rientrano nell’ambito di strategie riconosciute efficaci dalla comunità scientifica. Si tratta soprattutto di interventi che utilizzano le immagini a supporto della verbalità e a sostegno della promozione di comportamenti adeguati.
Ecco a grandi linee le buone idee proposte nei vari capitoli del libro.
Il primo capitolo fa il suo esordio ricordando che i genitori sono i maggiori esperti dei propri figli e, in quanto tali, dovrebbero fornire un profilo dettagliato del bambino e non delegare questo aspetto alla documentazione del neuropsichiatra, altrettanto preziosa, ma non in grado di fornire dati di quotidiana importanza quali i giochi preferiti o le fonti di disturbo sensoriale.
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Partendo dal presupposto che un approccio visivo e strutturato della giornata scolastica possa più o meno aiutare ogni bambino autistico a scuola, è bene che tale strategia venga utilizzata anche a casa per garantire continuità e coerenza con quanto proposto dall’ambiente scolastico. Si chiarisce così da subito l’esigenza di una stretta alleanza tra scuola e famiglia come presupposto ad una buona integrazione scolastica del bambino.
In linea con questa premessa, nel secondo capitolo le autrici invitano i genitori alla costruzione de “il libro per iniziare la scuola”, una raccolta di immagini che ritraggono il nuovo ambiente scolastico e le persone che ne faranno parte.
Si suggerisce, se possibile, di far scattare le fotografie necessarie al bambino durante le visite a scuola che precedono il suo ingresso per poi completare l’opera una volta che la sua frequenza si fa regolare. Nel capitolo 7 si sottolinea l’esigenza di estendere, con il consenso dei genitori, le informazioni del figlio anche a tutto il personale scolastico non docente così come agli altri alunni. Non è chiaro però quale figura professionale, e incaricata da chi, debba farsi carico di tali interventi.
Nel capitolo 3, dedicato alle procedure di inserimento, le cose si fanno interessanti poichè il suggerimento è quello di permettere al bambino delle visite nella futura scuola subito dopo l’iscrizione e di incontrare tutte le persone che avranno un ruolo nella sua vita scolastica. È proprio in tale occasione che si provvederebbe alla costruzione del libro di cui ho accennato prima. Peccato che “da noi” tale prassi sia tutt’altro che consolidata. Il professionista privato e ancor più i genitori da soli fanno molta fatica ad ottenere dalla scuola il permesso ad attuare un progetto di inserimento scolastico che consenta a loro e al bambino di visitare con largo anticipo gli ambienti scolastici e fare la conoscenza delle insegnanti fuori dall’orario delle lezioni non è cosa da dare per scontata, per non parlare poi dell’impossibilità di conoscere l’insegnante di sostegno che spesso arriva in classe quando ormai il periodo critico dei primi giorni di scuola è già storia passata.
Il capitolo 4 scende nel dettaglio metodologico e offre una serie di immagini fotocopiabili utili a organizzare svariati supporti visivi quali l’orario visivo della giornata scolastica, etichette visive che descrivono gli ambienti, tabelle motivazionali e molto altro, secondo le esigenze specifiche del minore. Ancora una volta non viene esplicitata la figura professionale che dovrebbe occuparsi di introdurre tali supporti a scuola e di spiegarne ragioni e modalità di utilizzo al personale scolastico. In Italia non è certo possibile dare per scontato che gli insegnanti posseggano già la formazione necessaria per attuare tale intervento.
Anche il capitolo 10 si occupa di supporti visivi presentando lo strumento delle storie descrittive, utili anch’esse a sostenere la comprensione del bambino rispetto a ciò che avviene nei diversi ambienti e momenti scolastici.
Nel quinto capitolo viene descritto invece lo strumento dei “treni per cambiare”, utile ad anticipare e spiegare con un linguaggio chiaro e un supporto visivo, i tanti cambiamenti che avvengono nel corso della giornata scolastica, mentre il “diario delle cose ben fatte” (capitolo 6) rivolge l’attenzione all’incremento dell’autostima nei bambini con Disturbi dello Spettro Autistico e potrebbe, a mio parere, rivelarsi utile anche per promuovere negli insegnanti un atteggiamento di rinforzo dei comportamenti positivi e sfavorire l’etichettamento di questi alunni attraverso i loro comportamenti giudicati bizzari o inadeguati.
Molto utile anche il questionario presentato nel capitolo 8 rivolto agli insegnanti. Soltanto una risposta positiva a tutte le domande potrebbe infatti garantire il contesto più idoneo per la prevenzione di eventuali problemi comportamentali.
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Il capitolo 9 ricorda agli insegnanti specializzati che la specificità dell’autismo richiede accorgimenti educativi particolari non chiarendo però a sufficienza che ogni bambino con autismo ha delle caratteristiche personali che richiedono sempre un intervento estremamente individualizzato a prescindere dalla diagnosi. Le stesse “quattro R” (Routine, Rituali, Ripetizione, Risorse), che vengono indicate come bisogno basilare di questi bambini, potrebbero paradossalmente ostacolare l’apprendimento di alcuni bambini autistici. Un eccessivo ancoraggio alla routine, potrebbe, per esempio, causare panico qualora si presentassero inevitabili imprevisti, così come potrebbe disincentivare il bambino dalla comunicazione di esigenze diverse.
L’ultimo capitolo è dedicato alla descrizione di situazioni problematiche tipiche che i docenti si possono trovare a dover affrontare (il momento della ricreazione, il cambiamento di personale, la partecipazione alle attività sportive,…). Per ognuno di tali scenari viene suggerito come far uso degli strumenti presentati nelle pagine precedenti, il materiale occorrente e i possibili problemi da affrontare in ogni situazione.
Indubbiamente un libro molto pratico, alla portata di tutti, ma la sfida più grande, nel contesto della scuola italiana, rimane a mio avviso il consolidamento di una buona prassi di inserimento scolastico di questi bambini, che costituisce il primo passo per la garanzia del diritto di integrazione di tutti gli alunni. La mia impressione è che la preoccupazione di come affrontare questo momento delicato sia quasi interamente sulle spalle dei genitori, che da soli faticano a promuovere strategie utili come quelle descritte in questo testo.
All’interno del National Substance Abuse Prevention Month, il National Institute on Drug Abuse (NIDA) ha lanciato Family Checkup, una risorsa online che aiuta i genitori ad equipaggiarsi con competenze di base necessarie alla lotta contro la droga.
La ricerca finanziata dal NIDA mostra come i genitori abbiano un ruolo fondamentale nel prevenire l’uso di droga nei loro figli. Il questionario pone domande ai genitori su come interagiscono con i loro figli, mettendo in evidenza le capacità genitoriali che sono importanti nel prevenire l’inizio o la progressione del consumo di droga tra i giovani.
Lo strumento include video e altre informazioni, mostrando esempi positivi e negativi delle tecniche di genitorialità. Gli strumenti sono stati sviluppati da Child and Family Center della University of Oregon.
La prevenzione mira ad anticipare l’azione negativa esercitata da eventuali fattori di rischio sullo sviluppo dell’individuo, con lo scopo di evitare l’insorgenza di comportamenti disadattivi o patologici. Generalmente, vengono distinti tre livelli di prevenzione – primario, secondario e terziario – ad ognuno dei quali corrispondono obiettivi, caratteristiche, metodi e destinatari differenti.
Attraverso la programmazione e l’attuazione di interventi di prevenzione primaria si vogliono individuare e promuovere le risorse personali ed ambientali, la cui azione può tutelare la salute ed il benessere del singolo e della famiglia.
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Nello specifico, la prevenzione primaria favorisce percorsi evolutivi resilienti, mediante la promozione di competenze specifiche, quali, ad esempio, quelle comunicative, socio-relazionali e emotivo-affettive. In sostanza, si tratta di interventi proattivi, rivolti a tutti gli individui, e, più precisamente, a quella fascia della popolazione che, seppur caratterizzata da una bassa probabilità di psicopatologia, può potenzialmente manifestare un disagio.
In ambito clinico, un esempio di prevenzione primaria può essere rappresentato da un ciclo di incontri informativi relativo alle modalità dicomunicazione efficace, che promuove nei partecipanti l’apprendimento e l’attivazione di competenze specifiche, con il fine di prevenire possibili disturbi della comunicazione nell’ambito delle relazioni interpersonali.
Il ricorso ad interventi di prevenzione secondaria si rivela necessario, invece, nei casi in cui viene precocemente identificata o diagnosticata una condotta sintomatica, ma prima che questa degeneri in un disturbo psichiatrico. In quest’ottica, la prevenzione secondaria mira a riconoscere gli indici predittivi del disagio, e a progettare interventi finalizzati a ridurre l’impatto dei fattori di rischio sullo sviluppo dell’individuo. Tale livello di prevenzione può essere definito para-attivo, in quanto avviene accanto ad attività proattive, tipiche della prevenzione primaria, e ad altre reattive, caratteristiche, invece, della prevenzione terziaria. Un esempio concreto di questo tipo di intervento è rappresentato da progetti rivolti ad adolescenti devianti, e finalizzati, da un lato, a promuovere la conoscenza delle abilità prosociali e dei relativi comportamenti, e dall’altro, a favorire la consapevolezza della propria condotta e a guidare l’apprendimento delle nuove conoscenze.
La prevenzione terziaria, infine, mira alla riabilitazione di individui problematici, il cui disagio richiede un intervento terapeutico specifico. Il trattamento dei disturbi d’ansia, depressivi, alimentari e di tutti gli altri quadri psicopatologici, rientra in questo livello di prevenzione.
Giusti, E., Montanari, C., Iannazzo, A. (2000). Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti con interventi a breve, medio e lungo termine. Milano: Masson. (LEGGI SU GOOGLE BOOKS)
Lettera a uno Studente – Psicoterapia: la Persona e la Scienza
Credo che fare scienza non significhi ridurre l’essere umano a un numero. Fare scienza equivale a scegliere un percorso di pensiero critico che procede per approssimazioni successive, formula ipotesi (anche creative), trova il modo di metterle in discussione, accetta di affermare teorie entro i limiti di ciò che può misurare.
Mi capita qualche volta di ricevere lettere di studenti appassionati a questioni teoriche e tecniche della psicoterapia. Talvolta mettono in evidenzia controversie centrali per il mondo scientifico internazionale, e nutrono la (vana) speranza che il sottoscritto possa avere una risposta definitiva. Questa è una risposta, opportunamente rielaborata, a uno studente che si interroga sulla terapia metacognitiva e cognitivo-comportamentale, chiedendosi se non sia poco attenta alla persona, critica professata da alcuni suoi insegnanti.
Gentile studente,
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mi trovo in viaggio e come spesso accade, questo è uno di quei momenti di pausa in cui posso liberamente fermarmi a scrivere, per questa ragione colgo con sincero interesse i suoi quesiti. Si pone domande e questa è una buona prassi per i giovani studenti che entrano, spesso da uno spioncino, nel caotico e vasto mondo della psicologia clinica e delle opinioni che lo attraversano.
La questione che solleva è complessa per essere riassunta in una lettera. Ci sono molte prospettive in campo e offrono esiti differenti. E le certezze sono spesso cibo avariato. In questo contesto è facile per gli amanti dell’ermeneutica criticare gli approcci scientifici di scarsa attenzione alla persona, così come è facile per le correnti cognitivo-comportamentali standard o di terza generazione tacciare i primi di psicosofia e scarsa attenzione alla tecnica e ai risultati che il progresso della scienza ci offre. In questa lotta ci si mette l’ambiguità della nostra disciplina che non è facilmente declinabile in misure assolute.
Credo che fare scienza non significhi ridurre l’essere umano a un numero. Fare scienza equivale a scegliere un percorso di pensiero critico che procede per approssimazioni successive, formula ipotesi (anche creative), trova il modo di metterle in discussione, accetta di affermare teorie entro i limiti di ciò che può misurare. Quest’ultimo aspetto non significa che dimentichi tutto il resto. E veniamo al confronto sul tema che lei propone. Quando si guarda alla scienza occorre sempre leggere entro quali contesti e criteri sono validi gli assunti che vengono proposti.
La terapia metacognitiva (MCT, Wells, 2008), è una terapia tecnica e meno attenta ai contenuti rispetto altri approcci. Anzi sostiene che un’eccessiva attenzione ai contenuti personali possa essere uno dei fattori di mantenimento dei disturbi emotivi attraverso il supporto a una forma di pensiero interpretativo, vago e astratto come la ruminazione mentale, le cui conseguenze deleterie hanno ormai consolidato sostegno scientifico (es: Caselli et al., 2011). La MCT ha lo scopo ‘dichiarato’ di ottenere il massimo risultato possibile con il minor costo (es: numero di sedute) colpendo le componenti più nucleari del disturbo psicologico. I risultati sono molto promettenti (van der Heiden, Muris & van der Molen, 2012) ovviamente in rapporto a pazienti selezionati e peculiari disturbi psicologici.
Ovvio, una critica può essere “la realtà dei pazienti è molto diversa e multisfaccettata di quelle di un trial clinico”. Vero. Però si può anche sostenere che, a fronte di una realtà multisfaccettata, sia preferibile e parsimonioso (per non dire etico) adattare in modo flessibile un approccio che almeno su una selezione di pazienti ha supporto di evidenza.Soprattutto se l’alternativa diventa inventarsi un nuovo approccio, magari più attento ai contenuti, che però non ha alcun credito se non quello dell’autorità di chi lo ha promulgato. Poi, vero è che i trial clinici randomizzati hanno dei limiti ma innanzi a questi considero preferibile cercare di migliorarli ‘per approssimazioni successive’ piuttosto che rifiutare il pensiero critico o la verifica del campo. Questa scelta è più dura, più frustrante, più lenta. Forse non compirà passi rivoluzionari nel corso di una vita professionale. Ma grazie a questa scelta oggi abbiamo approcci in grado di offrire sostegno a persone con disturbi psicologici con un buon grado di confidenza rispetto i risultati che si possono ottenere.
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Spesso avverto nei dibattiti di psicologia clinica un profumo di romanticismo adolescenziale che può strizzare troppo l’occhio alla filosofia o volgere le spalle alla sofferenza e alla cura. La maturità della psicologia e della psicoterapia la vedo nel cercare il romanticismo attraverso il rigore della scienza. Sorrido quando ascolto gente che professa la psicoterapia come arte, come se l’arte non si fondasse profondamente nella disciplina, come se grandi pittori creativi non fossero prima di tutto assoluti padroni delle tecniche.
Ma basta divagare e torniamo al punto. La terapia metacognitiva è l’applicazione di una teoria validata scientificamente a partire dagli anni ’90. Da questi cardini teorici (il modello S-REF, l’uso dell’esperienza per modificare le conoscenze e il controllo sui propri piani mentali) è nata una terapia disegnata (allo stato attuale) per i disturbi d’ansia e la depressione.Visto che questi disturbi emotivi possono essere trattati efficacemente in breve tempo, non emerge la necessità di maggiore spesa, maggior durata o minor garanzia di efficacia.
Ciò non vieta che una volta affrontato il sintomo nella modalità più efficace a disposizione si possano aggiungere moduli clinici di intervento su altri aspetti più ampi di vulnerabilità (con radici evolutive e prospettive esistenziali) che abbiano in sé maggiore libertà di esplorazione per la coppia terapeutica. Ciò è vero soprattutto nel contesto privato, certamente più disponibile alla condivisione e definizione di un percorso di trattamento e dei suoi obiettivi. Poi esistono i casi complessi, i disturbi di personalità, i pazienti gravi e difficili che non hanno consapevolezza piena del loro problema.
Non credo che si risolva tutto dicendo ‘son tutti pazienti gravi, quelli semplici esistono solo nelle ricerche’ perché non è così, è una scusa troppo facile per non migliorarsi, non mettersi in discussione, non usare la fatica del pensiero critico. Però è vero. Ci sono anche quelli. E per quelli io credo che (1) non si possa prescindere dalla storia di vita e da una comprensione della dinamica evolutiva del dolore emotivo e dei piani per regolarlo, (2) la terapia metacognitiva potrebbe svilupparsi per applicare gli stessi cardini teorici in nuovi interventi adatti a questi pazienti, (3) esistono anche altri approcci che hanno già sostegno scientifico per intervenire su pazienti di questo tipo, la MCT non può e non deve essere la risposta onnicomprensiva. Non può essere questo l’obiettivo della scienza psicoterapeutica.
Il consiglio che posso dare? Un’opinione personale: rimboccarsi romanticamente le maniche e scavare nel fango della scienza perché in fondo, lo dobbiamo ai nostri pazienti.
Caselli, G., Giovini, M., Giuri, S. & Rebecchi, D. (2011). Psicopatologia Cognitiva della Ruminazione. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 17(2), 173-185
I neuroni specchio rappresentano un punto di svolta per la comprensione del funzionamento interpersonale e dei fondamenti della intersoggettività favorendo lo sviluppo delle capacità empatiche.
Le numerose e recenti acquisizioni che provengono dalle ricerche nel campo delle neuroscienze impongono una riflessione su come queste siano integrabili con il modello teorico del cognitivismo, alla ricerca di un supporto biologicamente fondato al modello cognitivo di funzionamento mentale e di conseguenza ad una coerente teoria della cura.
Il contributo della psicologia cognitiva a questa riflessione è quello di ipotizzare dei modelli psicologici che aiutino ad interpretare i dati che provengono dalle neuroscienze così come il contributo delle neuroscienze è quello di fornire un substrato biologico a supporto di tali modelli.
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A questa prospettiva di integrazione porta un contributo fondamentale il dato che lo sviluppo e l’organizzazione funzionale del cervello umano si modula, sin dalla nascita e lungo tutto l’arco della vita, attraverso un continuo rapporto di influenza reciproca tra il patrimonio geneticamente determinato e l’ambiente in cui il soggetto vive, rappresentato dalle sue esperienze sociali e relazionali.
Questo presupposto supera la contrapposizione tra una posizione riduzionista neuroscientifica, che vede nella espressività genica il fondamento del funzionamento mentale, e modelli psicologici che indicano invece nella unicità e insondabilità individuale la natura profonda dell’essere umano.
Sempre più evidenti sono i dati a conferma che l’ambiente relazionale, in cui il bambino cresce, è in grado di interferire, con tempi e modi diversi, sul processo di neurogenesi, differenziazione, arborizzazione, apoptosi e sinaptogenesi.
Una delle scoperte della ricerca neuroscientifica più importanti per le implicazioni che può avere per comprendere meglio il funzionamento mentale degli esseri umani riguarda l’identificazione di una particolare popolazione di neuroni definiti “neuroni specchio”.
L’attività di questi neuroni e dei circuiti neuronali a loro collegati sono alla base del fenomeno dell’empatia.
E’ da questa prospettiva che i neuroni specchio rappresentano a nostro avviso un punto di svolta per la comprensione del funzionamento interpersonale e dei fondamenti della intersoggettività favorendo lo sviluppo delle capacità empatiche.
La scoperta dei neuroni specchio, delle loro funzioni, dei circuiti ad essi correlati, e dei fattori che influenzano la loro formazione e sviluppo, dà delle risposte fondamentali al problema della comprensione della mente dell’altro e alla modalità con la quale avviene l’integrazione di informazioni emotive e cognitive in rappresentazioni di sé, che permettono la modulazione e la regolazione degli stati emotivi, favorendo e modulando in maniera efficace il comportamento sociale.
Queste nuove acquisizioni rappresentano i presupposti per la definizione di interventi terapeutici che mirino ad attivare o riattivare integrazioni e associazioni tra aree cerebrali.
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Durante l’ultimo Congresso SITCC che si è svolto a Roma, si è tenuto il Simposio dal titolo “Neurobiologia dell’intersoggettività” che ha affrontato queste tematiche. Si è cercato di approfondire questi temi e illustrare i principali dati provenienti da aree diverse della ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive sociali.
Le quattro presentazioni si sono focalizzate sulle scoperte relative ai neuroni specchio e ai circuiti neuronali che evidenziano un loro coinvolgimento:
(a) sulla comprensione degli altri
(b) sulla conoscenza di sé
(c) sulla capacità di regolazione delle emozioni
(d) e sui processi che avvengono nell’interfaccia tra la comprensione di sé e degli altri.
Nello specifico, l’intervento introduttivo del dr. La Mela si è concentrato sulle evidenze sperimentali che confermano l’importanza dell’intersoggettività nella costruzione neuroanatomica e funzionale della mente e quindi come fattore fondamentale e imprescindibile per la comprensione del funzionamento mentale e per il trattamento dei disturbi mentali.
La relazione della dr.ssa Masetti ci ha fornito una prima evidenza scientifica di tali aspetti, mostrando, attraverso l’illustrazione di recenti esperimenti, come i neuroni specchio siano implicati nel fenomeno dell’empatia. Nello specifico è stato illustrato, partendo dalla conosciuta ipotesi del feedback facciale, la scoperta del circuito neuronale dell’empatia che vede appunto coinvolti i neuroni specchio.
A seguire la dr.ssa Viviani ha illustrato come i neuroni specchio, oltre a rappresentare la radice neurobiologica dell’empatia, rappresentino anche la base biologica della relazione di accudimento/attaccamento tra madre e bambino e come quindi la rappresentazione di sé nasca dall’intersoggettività.
La dr.ssa Tarantino infine, a partire da queste osservazioni, si è focalizzata su come tali acquisizioni provenienti da neurobiologia, neuroetologia e neuropsicologia possano orientare la terapia cognitiva, sia nelle sue tecniche (come l’alfabetizzazione emotiva o strategie di mastery volte alla modulazione di stati problematici), sia nel setting, sia nel programmare il timing degli interventi.
In particolare la relazione terapeutica diventa non solo contesto ma uno specifico strumento di terapia, volto a creare le basI biologiche, i neuroni specchio, necessarie per poi costruire una possibile rappresentazione di sé e dell’altro, abilità metacognitive ed empatiche, un alfabeto emotivo condiviso e comportanti sociali congrui con l’emozione percepita in sé e nell’altro.
I risultati di questo studio – riportati nell’ultima edizione del Journal of Sexual Medicine – influenzeranno la probabilità che l’ipersexual disorder venga incluso nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Lo scopo dello studio era quindi verificare che i criteri proposti fossero validi e affidabili nell’aiutare i professionisti della salute mentale a diagnosticare con precisione la dipendenza sessuale.
Un team composto da psichiatri, psicologi, assistenti sociali e terapeuti di coppia e della famiglia, guidati da Rory Reid, ricercatore ricerca e assistente professore di psichiatria al Semel Institute of Neuroscience and Human Behavior at UCLA, ha testato una serie di criteri proposti per la definizione del ipersexual disorder, noto anche come dipendenza sessuale, per il nuovo DSM-5.
I risultati di questo studio – riportati nell’ultima edizione del Journal of Sexual Medicine – influenzeranno la probabilità che l’ipersexual disorder venga incluso nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5).Lo scopo dello studio era quindi verificare che i criteri proposti fossero validi e affidabili nell’aiutare i professionisti della salute mentale a diagnosticare con precisione la dipendenza sessuale.
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I criteri definiscono una serie di sintomi che devono essere presenti: fantasie sessuali ricorrenti, impulsi e comportamenti per un periodo di sei mesi o più, che non siano causati da altri problemi, come ad esempio l’abuso di sostanze, un’altra condizione medica o episodi maniacali associati al disturbo bipolare.
Inoltre, gli individui che potrebbero essere diagnosticati con questo disturbo devono mostrare uno schema di attività sessuale in risposta a stati d’animo spiacevoli, per esempio il sentirsi depressi, o uno schema ripetitivo di comportamenti che utilizzi il sessocome modalità di risposta allo stress. I comportamenti sessuali messi in atto devono inoltre essere fonte di disagio per chi li attua, tanto da interferire con le relazioni, il lavoro o ad altri aspetti importanti della vita personale; per questo i criteri includono i tentativi compiuti dal soggetto al fine di ridurre o interrompere le attività sessuali sentite come problematiche.
Al fine di valutare i criteri per la dipendenza sessuale, Reid e i suoi colleghi hanno testato e intervistato 207 pazienti in diverse cliniche di salute mentale in tutto il paese. Tutti i pazienti avevano cercato aiuto per mancanza di controllo del comportamento sessuale, abuso di sostanze o un’altra condizione psichiatrica, come la depressione o l’ansia.
I ricercatori hanno scoperto che i criteri proposti per l’ ipersexual disorder classificavano accuratamente 88% dei pazienti con una dipendenza sessuale; i criteri sono stati anche accurati nell’identificare risultati negativi nel 93% dei casi. In altre parole, i criteri sembrano adatti a discriminare tra i pazienti che soffrono di dipendenza sessuale e i pazienti che cercano aiuto per altre condizioni di salute mentale come l’abuso di sostanze, l’ansia o la depressione.
Un altro dato significativo dello studio è che i pazienti che hanno soddisfatto i criteri per ipersexual disorder hanno sperimentato conseguenze negative significativamente maggiori a causa della loro attività sessuale,
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rispetto agli individui che facevano abuso di sostanze o soffrivano di una condizione medica generale; infatti dei 207 pazienti esaminati, il 17 % aveva perso il posto di lavoro almeno una volta, il 39% ha terminato una relazione affettiva, il 28% ha contratto un infezione a trasmissione sessuale e il 78% ha avuto interferenze con la normale attività sessuale.
Lo studio ha mostrato inoltre che l’aumento della dipendenza sessuale, che nel 54% dei casi aveva iniziato ad essere problematica prima dei 18 anni e nel 30% dei casi tra i 18 e i 25 anni, era legato a maggiori disturbi emotivi, impulsività e incapacità di gestire lo stress.
Questi dati fanno pensare che la dipendenza sessuale sia un disturbo che emerge in adolescenza o comunque in età giovanile e che sia quindi importante sviluppare strategie di intervento precoce e di prevenzione.
Rory C. Reid, Bruce N. Carpenter, Joshua N. Hook, Sheila Garos, Jill C. Manning, Randy Gilliland, Erin B. Cooper, Heather McKittrick, Margarit Davtian, Timothy Fong. Report of Findings in a DSM-5 Field Trial for Hypersexual Disorder. The Journal of Sexual Medicine, 2012; DOI: 10.1111/j.1743-6109.2012.02936.x
Psicoeducazione emotiva: quando la paura diventa uno stress a lungo termine.
I problemi nascono nel momento in cui non riusciamo a spegnere le nostre reazioni corporee e mentali di fronte a una minaccia che non è più presente né imminente, così che la risposta allo stress, da adattiva, si trasforma in cronica o eccessiva.
“Sono sempre stata una persona attiva e positiva verso me stessa, mi davo da fare in tutto e con tutti, di certo non mi mancavano le energie e le idee…Ma ho perso tutto da quando è incominciata questa crisi…Da quando ho questi problemi sul lavoro, tutto è iniziato da lì. Ora devo davvero sforzarmi di fare qualunque cosa, anche la più banale, mi sento sempre stanca e affaticata. Anche quando riesco a portare a termine qualcosa, non riesco a trarne soddisfazione né piacere. E questa cosa non vede una fine perché anche quando vado a casa non riesco a smettere di preoccuparmi per il lavoro e per ciò che ho fatto e devo fare. Per quanto mi sforzi, non riesco a togliermi questi pensieri dalla testa, così alla fine non mi interessa più neanche provare ad avere una vita sociale. Spesso mi capita di non sentirmi bene, senza contare che non dormo bene oramai da mesi. Non riesco a capire come possa sforzarmi così tanto, ripetermi di farmi forza eppure mi sembra di non andare da nessuna parte”.
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Come spiegato nella prima parte, i cambiamenti del nostro corpo elicitati da eventi stressanti ci sono utili nel breve termine perché ci preparano fisicamente all’azione e mentalmente ci focalizziamo al problema; tali modificazioni svaniscono non appena lo stimolo minaccioso sparisce. Diventa chiaro, a questo punto, che i problemi nascono nel momento in cui non riusciamo a spegnere le nostre reazioni corporee e mentali di fronte a una minaccia che non è più presente né imminente, così che la risposta allo stress, da adattiva, si trasforma in cronica o eccessiva.
Le sensazioni corporee iniziano a diventare più fastidiose. La tensione muscolare, fondamentale per la risposta di attacco o fuga, si trasforma in malessere che pervade tutto il corpo: mal di testa, dolori alle spalle e al petto, sintomi gastrointestinali, debolezza delle gambe. Ecco così che il respiro affannoso ci può portare a sensazioni di nausea o di mancanza del respiro; l’attenzione focalizzata al battito cardiaco non fa altro che aumentare la pressione sanguigna e farci avvertire un senso di svenimento, una visione offuscata e fischi alle orecchie.
A livello psicologico la persona inizia a focalizzarsi esclusivamente su ciò che teme, generalmente preoccupandosi che un problema non abbia soluzione o catastrofizzandolo. Si sviluppa, col tempo, un tipo di pensiero negativistico verso se stessi e il mondo circostante, percepito come fonte di minacce sempre possibili. Tale forme di ragionamento negativo formano un circolo vizioso con i cambiamenti corporei, come ad esempio: “Ho un dolore al petto, devo avere qualcosa che non va con il cuore”, oppure: “questa sensazione/emozione è insopportabile, non c’è niente che possa fare”. In questo modo lo stress rimane costantemente elevato, portando a un aumento del disagio e delle preoccupazioni, fattore che induce le persone a focalizzarsi sugli eventi negativi e insolubili piuttosto che su quelli positivi.
I cambiamenti comportamentali
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I cambiamenti comportamentali, se persistenti, non fanno altro che aumentare le difficoltà. In preda all’ansia e alle preoccupazioni, ad esempio, la maggior parte delle persone aumenta la quantità di sigarette fumate, mangia in maniera non equilibrata e smette di fare esercizio fisico. Tutto ciò incrementa il senso di non sentirsi bene e di essere cronicamente stanchi e meno capaci di fare fronte allo stress. Ricordiamoci che la risposta più comune allo stress è l’evitamento delle situazioni che ci fanno paura o dagli oggetti minacciosi. Tuttavia, il sollievo che si ricava dall’evitare gli stimoli stressanti è solo temporaneo e incrementa il senso di sfiducia personale, così che l’evento tanto temuto appare sempre più impossibile da fronteggiare.
Qualunque sia il trigger ansiogeno (sia esso reale o immaginario), ciò che mantiene la risposta allo stress anche dopo che lo stimolo è esaurito, è l’attivazione del circolo vizioso appena menzionato e che accomuna tutti i problemi di rimuginio, paura e ansia.
Le prospettive più interessanti giungono dal Nord Europa, dove già da diversianni vengono ideati e proposti programmi di psicoterapia online rivolti a diverse fasce di età e destinati al trattamento di differenti disturbi.
In letteratura ricorrono alcuni elementi comuni ai programmi di supporto e psicoterapia online:
Il materiale self help, solitamente organizzato in moduli settimanali inviati al paziente, consiste in schede informative sui sintomi del disturbo trattato e sulle tecniche CBT applicabili autonomamente dai pazienti;
Oltre al materiale informativo e psicoeducativo, vengono assegnati ai pazienti compiti settimanali (homework), con lo scopo di aiutare gli utenti ad applicare le tecniche della terapia cognitivo comportamentale (come la stesura di un diario, la compilazione dell’ABC, …) e monitorare i progressi fatti. Vengono quindi svolti e inviati al terapeuta, che li valuta e ne restituisce un feedback;
Spesso è presente un forum volto a favorire la condivisione sociale e offrire spunti di riflessione agli utenti;
La chat costituisce uno spazio privato di confronto tra gli stessi utenti o tra utenti e terapeuta;
L’e-mail è lo strumento preferenziale per mantenere i contatti con il clinico, solitamente a scadenza settimanale.
I programmi possono anche usufruire di altri supporti e mezzi di comunicazione attraverso cui raggiungere i pazienti per favorire la continuità del percorso di psicoeterapia. È molto comune l’utilizzo di sms di notifica, per ricordare agli utenti la pubblicazione di nuovo materiale sulla piattaforma o la scadenza per la consegna degli homework.
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Cosa ne è dell’alleanza terapeutica e della relazione con il paziente? I dati dimostrano che nella psicoterapia online l’alleanza terapeutica non è deficitaria rispetto alla psicoterapia tradizionale. (Andersson, Paxling, Wiwe, Vernmark, Bertholds Felix,et al., 2012).
Probabilmente è anche meno determinante, alla luce del fatto che la maggior parte dei programmi di psicoterapia online si basa sull’utilizzo del materiale self – help e su un lavoro svolto in gran parte autonomamente dal paziente. In ogni caso, gli utenti si ritengono generalmente soddisfatti del supporto ricevuto.
L’efficacia di questo tipo di programmi è stata scientificamente supportata: il miglioramento del quadro sintomatico presentato alla baseline risulta significativo e viene mantenuto nel tempo (Ruwaard, Lange, Schrieken, Dolan & Emmelkamp, 2012.) Ma questo non è l’unico aspetto positivo della psicoterapia online. Poter usufruire di un percorso terapeutico da casa è vantaggioso sia per chi ha difficoltà negli spostamenti (in Olanda è stato diffuso un programma per adulti con sintomi depressivi affetti da SM) sia per chi ha problemi di orario e non trova modo di recarsi da un professionista.
Inoltre, la garanzia dell’anonimato è assicurata e i costi sono ridotti. Il terapeuta, d’altro canto, può facilmente offrire il proprio supporto a più pazienti, con un evidente risparmio in termini di tempo.
Occorre, tuttavia, considerare alcune problematiche a cui è difficile fare fronte quando si parla di psicoterapia online. L’assenza totale di un contatto visivo con il paziente può causare delle difficoltà soprattutto in fase di diagnosi: pazienti con problematiche gravi necessiterebbero di un supporto psicoterapico tradizionale, la cui efficacia rimane indubbiamente superiore.
Inoltre, questo tipo di programmi sono solitamente indirizzati al trattamento di sintomi specifici di un disturbo in particolare ed escludono così il trattamento di ulteriori sintomi teoricamente estranei al disturbo, ma che il paziente potrebbe lamentare.
L’Italia comincia ora a muovere i primi passi in questa direzione: il primo programma impostato su queste linee guida è costituito dal Progetto ProYouth, ma molte sono le prospettive offerte da questo campo su cui è necessario investire.
Le famiglie attuali tendono ad essere monogame o poligame?Naturalmente sono tutte ligie alla monogamia, almeno apparentemente!
A quanto pare tutto dipende dal comportamento delle donne, che nel tempo hanno deciso di scegliere uomini che provvedessero al loro sostentamento rimanendovi fedeli e di conseguenza, rendendoli fedeli, si spera.
Avere una famiglia, o ambire ad averne una, stabile nel tempo e, soprattutto, dedita alla fedeltà, è un concetto frutto di una evoluzione nel tempo. In passato la società era caratterizzata da rapporti basati sulla promiscuità, tutto era finalizzato all’accaparrarsi più prede femminili possibili. Infatti, i maschi tendevano a procacciare le femmine del villaggio, e questo comportamento era considerato un indice di forza e di mascolinità.
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Ma tra gli ominidi la promiscuità poligama ad un tratto ha ceduto il passo alla monogamia.
Secondo gli studi di Sergey Gavrilets, biologo evoluzionista e matematico dell’ Università del Tennessee (Usa), il passaggio da una visione poligama ad una monogama si ebbe in seguito alla creazione di una sorta di compromesso che avvenne tra sessi.
In un suo recentissimo studio pubblicato su Pnas, l’autore mostra che i maschi meno virili, non in grado di battere i più forti, capirono che l’unico modo per assicurarsi una prole e una famiglia era garantire alla donna e al figlio, sostentamento, cure, cibo. Le femmine, d’altra parte, si resero conto che avere vicino un partner che in qualche modo provvedesse alla loro sopravvivenza era molto utile e vantaggioso per loro stesse e per i propri figli. Così capirono che l’unico modo per tenerli legati a loro stesse era rimaner loro fedeli. Quindi, la relazione creatasi tra cura della famiglia da parte dell’uomo e fedeltà da parte della donna ha indotto alla creazione del mito della famiglia unita e monogama.
Facendo luce su quanto accaduto durante l’evoluzione della specie, si deduce che sarebbe stato merito della donna puntare alla monogamia della coppia. La dimostrazione è stata ottenuta dalla realizzazione di una serie di modelli matematici dinamici applicati a un gruppo di ominidi (con una struttura sociale rigidamente gerarchica e in cui gli accoppiamenti non sono casuali). Da questo modello deriverebbe il bisogno da parte delle madri di curare i piccoli, la necessità dei maschi di sorvegliare la partner e accudire la propria prole. Questi comportamenti presi singolarmente non predicono il fattore famiglia, ma se interagissero tra loro avrebbero come esito la costruzione di una famiglia unita.Articolo consigliato: Infedeltà emozionale ai tempi del web 2.0.
Il modello matematico usato nello studio ha dimostrato che il fattore evolutivo fondamentale è stato la scelta del partner da parte della donna, e soprattutto la sua fedeltà al compagno. Queste due mosse della donna hanno spostato le strategie maschili di accoppiamento dalla competizione con gli altri maschi a una maggior cura nel procurare cibo e protezione alla propria compagna. Quindi, i maschi non dominanti, invece di mettersi a lottare con gli altri, hanno cercato di ottenere i favori delle donne con la tecnica che gli scienziati chiamano “cibo per sesso”.
Le donne hanno apprezzato molto questo tipo di corteggiamento e, più i maschi si davano da fare per loro, più le donne diventavano fedeli. L’addomesticare i maschi selvatici ha dato la possibilità di porre le basi per la creazione di nucleo familiare “fedele”.
Un team di psicologi ha esaminato 82 bambini, dei quali 60 affidati a genitori eterosessuali e 22 a genitori omosessuali gay o lesbiche (15 con genitori maschi e 7 con i genitori femmine). Tutti i bambini avevano diversi fattori di rischio al momento dell’adozione, tra cui la nascita prematura, l’esposizione prenatale a sostanze, abuso o negligenza, e precedenti affidi. L’età dei bambini variava da 4 mesi a 8 anni, con un’età media di 4 anni, mentre i genitori adottivi avevano un’età compresa tra 30-56, con un’età media di 41. il 68% dei genitori erano sposati o conviventi.
Gli psicologi hanno studiato i bambini due mesi, un anno e due anni dopo che erano stati collocati presso una famiglia. I bambini sono stati sottoposti ad una valutazione cognitiva da uno psicologo clinico tre volte durante il corso dello studio, i genitori hanno completato questionari standard per il comportamento dei bambini in ciascuno dei tre periodi di valutazione.
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I risultati evidenziano pochissime differenze tra i bambini in tutte le valutazioni effettuate a due anni dal collocamento nella famiglia di genitori omosessuali o eterosessuali. In media, tutti i bambini hanno registrato miglioramenti significativi nel loro sviluppo cognitivo, mentre il livello di problemi comportamentali è rimasto stabile. Il punteggio QI è aumentato in media di 10 punti, da circa 85 a 95, cioè con un forte incremento da funzionamento medio-basso verso il funzionamento medio.
Un dato interessante riguarda il fatto che i bambini adottati da genitori omosessuali avevano più fattori di rischio al momento della loro collocazione, rispetto ai bambini adottati da genitori eterosessuali, ma nonostante questo a due anni dall’adozione i loro progressi cognitivi sono paragonabili a quelli degli altri bambini del campione.
Dal momento che decine di migliaia di bambini adottivi non hanno case stabili e le preoccupazioni circa l’idoneità dei genitori adottivi gay e lesbiche limitano il pool di potenziali genitori, lo studio indica che i genitori omosessuali sono in grado di offrire un nucleo accogliente che si prenda cura di questi bambini in modo analogo a quella dei genitori eterosessuali. “Non vi è alcuna base scientifica per discriminare contro i genitori gay e lesbiche”, ha detto Peplau, professore di ricerca in psicologia presso la UCLA e co-autore dello studio.
Alla domanda se i bambini hanno bisogno di una madre e di un padre, Jill Waterman ha dichiarato: “I bambini hanno bisogno di persone che li amano, a prescindere dal sesso dei loro genitori”.
I principali errori processuali del fobico sociale sono l’attenzione anticipatoria, focalizzata verso l’evento sociale durante i giorni che lo precedono, e l’attenzione focalizzata sulle reazioni altrui e sulle proprie sensazioni di vergogna e imbarazzo durante l’evento sociale temuto.
Il trattamento degli errori cognitivi di tipo processuale privilegia l’intervento di tipo esperienziale e comportamentale piuttosto che il disputing cognitivo vero e proprio che rischia di essere troppo astratto ed emotivamente distaccato. L’esposizione alle situazioni temute, reale o virtuale che sia, non va effettuata come un semplice esercizio di assuefazione alla fobia, ma va guidata in modo che la persona affetta da fobia sociale apprenda quali siano gli atteggiamenti mentali dannosi e quali quelli utili e produttivi. Si tratta, quindi, di proporre alla persona tre atteggiamenti mentali, due patologici e uno sano.
Il primo atteggiamento consiste nel focalizzarsi su di sé e sulle proprie emozioni e reazioni. Concentrando la propria attenzione sui segnali provenienti da se stessi il fobico sociale finisce per percepire segnali di vergogna o d’imbarazzo, che sono prontamente decodificati come segnali di fallimento: la mia prestazione sociale sta andando male. Il foglio di autovalutazione proposto da Clark e Beck (2010) sugli atteggiamenti di auto-focalizzazione (self-focusing) mostra quattro colonne verticali (più una utilizzata per datare gli episodi analizzati).
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia
Nella prima ci sono le situazioni ansiose temute.
Nella seconda una valutazione soggettiva del grado di auto-focalizzazione, da 0 a 100.
Nella terza il bersaglio delle auto-focalizzazioni: voce, rossori, sudorazioni, balbettii o altro.
La quarta colonna è quella decisiva: in essa si chiede quali siano le conseguenze negative di queste auto-focalizzazioni.
Questi fogli di autovalutazione di Beck non vanno sottovalutati. Possono apparire banali, ma in realtà incoraggiano con semplicità i pazienti a distaccarsi dai propri automatismi. In questo foglio il paziente è incoraggiato a non considerare le proprie sensazioni come segnali che provano la sua incapacità sociale. Al contrario, essi possono essere invece degli ostacoli che, se sopravalutati, generano il cattivo esito dello stare insieme agli altri (Clark e Beck, 2010, pag. 387).
Il secondo atteggiamento consiste nel porre attenzione alle reazioni altrui. In questo caso l’effetto depressivo è dato dal fatto che è sufficiente un indizio negativo per rovinare il giudizio sull’intero episodio. Anche in questo caso è possibile costruire un foglio di valutazione che incoraggi il paziente a considerare i supposti segnali di rifiuto da parte degli altri non come prove che dimostrino con certezza la propria incapacità di stare in mezzo agli altri, ma come semplici accadimenti che sta a noi gestire in maniera fruttuosa o dannosa.
Il terzo atteggiamento è, invece, quello di concentrarsi in maniera non giudicante su ciò che accade o su quel che si vuol e/o deve dire o fare.
Naturalmente anche in questo c’è un rischio d’interpretazione e valutazione negativa. Tuttavia dati empirici confermano che quest’ultimo atteggiamento è quello meno soggetto a esiti di tipo ansioso.
Clark, D. M. & Wells, A. (1995). A cognitive model of social phobia. In R. Heimberg, M. Liebowitz, D. A. Hope, & F. R. Schneier (Eds.), Social phobia: Diagnosis, assessment and treatment. (pp. 69–93). New York: Guilford Press.
Dott. Riccardo Dalle Grave, Medico Psicoterapeuta, al Congresso SITCC 2012
SITCC 2012 – Disturbi dell’alimentazione, progressi e sfide future: l’intervento del dott. Riccardo Dalle Grave
Il DSM-IV distingue i Disturbi della Condotta Alimentare (DCA) in Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) e Disturbi dell’Alimentazione non altrimenti specificati (NAS), suggerendo che tali disturbi siano tra loro distinti. In realtà, però, presentano molte caratteristiche comuni e in ambito clinico si osserva spesso nel decorso di queste malattie una migrazione da una diagnosi all’altra.
Alla luce di ciò Christopher Fairburn, autorità di fama internazionale sui DCA, propone che tali disturbi vengano considerati come un’unica categoria. Fairburn (2010) ha pertanto sviluppato una specifica terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla psicopatologia dei DCA, flessibile, cucita su misura per il paziente e volta al trattamento di BN, AN e DCA NAS: la Terapia Cognitivo-Comportamentale Transdiagnostica (CBT-E), l’ultima versione del principale trattamento empiricamente fondato per i Disturbi dell’Alimentazione (la CBT-BN, che però fu ideata per pazienti con BN).
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Alla SITCC il dott. Dalle Grave ha illustrato in anteprima due interessanti studi in fase di pubblicazione sull’applicazione della CBT-E in adulti (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy for Adults with AN: a UK – Italy Study) e adolescenti (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy for Adolescents with AN: An Alternative to Family Therapy) con Anoressia Nervosa.
Da questi studi emerge che la CBT-E è ben accettata anche dai pazienti affetti da AN ed ottiene un esito soddisfacente in termini di aumento del BMI, di riduzione della psicopatologia e di mantenimento del peso nel tempo. Si osserva però una difficoltà nell’agganciare le pazienti alla terapia: un terzo infatti non completa il trattamento; il BMI non pare essere predittivo del drop-out delle pazienti, a differenza, invece, della psicopatologia specifica del DCA: più elevata risulta essere la psicopatologia, maggiore è la probabilità che il trattamento non venga completato.
Accertata l’efficacia della CBT-E, le sfide future di certo non mancano.
Secondo Dalle Grave innanzitutto è necessario comprendere meglio i meccanismi d’azione di questa terapia e a tal proposito sono in corso studi che ne stanno valutando i potenziali mediatori del cambiamento, ovvero la procedura della misurazione settimanale del peso, del mangiare in modo regolare, dell’affrontare le regole dietetiche e il check della forma del corpo.
In secondo luogo bisogna potenziarne l’efficacia e migliorare il tasso di riposta valutando il trattamento di eventuali problemi coesistenti con il DCA (es. depressione) o valutando la possibilità di intensificare il trattamento sia a livello ambulatoriale (es. pasti assistiti, aumento del numero di sedute di psicoterapia settimanali) che ospedaliero.
In ultimo, si deve “disseminare il trattamento”; “pochi terapeuti utilizzano la CBT-E e tra questi non tutti la applicano in modo rigoroso”. Ecco perché sono in corso di valutazione diverse strategie come la stesura di manuali per i terapeuti, l’organizzazione di corsi di formazione intensiva sulla CBT-E, la creazione di un progetto di formazione CBT-E online (Oxford Study) e la supervisione a distanza (via Skype).
In conclusione la CBT-E è un trattamento efficace empiricamente supportato, transdiagnostico, nonché l’intervento evidence-based di prima scelta da consigliare ad adulti affetti da DCA. Auspichiamo che sempre più terapeuti ne vengano a conoscenza e la applichino in maniera corretta sia a livello ambulatoriale che ospedaliero.