La Campania promuove la Proposta di Legge “Psicologo del Territorio”
Di Roberta De Martino
La Settimana per il Benessere Psicologico della Campania nasce proprio con l’intento di promuovere tale professionalità affinché possa essere diffusamente utilizzata come importante risorsa per la promozione del benessere individuale e sociale.
Un prete confessore, un mago, un amico, un confidente, uno strizzacervelli, un matto… queste alcune delle rappresentazioni che la gente comune ha dello psicologo. Ed è anche per tale ragione che l’Ordine degli Psicologi della Campania ormai da ben tre anni si sta impegnando attivamente per promuovere la professionalità dello psicologo con l’iniziativa “Città Amiche del Benessere Psicologico” che, giunta alla terza edizione, quest’anno si svolgerà dal 19 al 24 novembre. Tale iniziativa vuole rappresentare, infatti, un’ulteriore occasione per avvicinare i cittadini agli psicologi e per invitarli a ritagliarsi del tempo da dedicare alla coltura del benessere proprio e altrui.
“Gli psicologi sono considerati tipi strani” (Moderato, Rovetto, 2006, pag. 12), così ironicamente Felice Perussia e Renata Viano parlano della professione psicologica, per poi aggiungere: “lo psicologo professionista è una figura difficile da descrivere con esattezza, specie per quanto riguarda gli elementi che lo distinguono chiaramente da altre figure di professionisti i quali, pur utilizzando appunto costrutti che fanno parte della tradizione psicologica, si qualificano in termini differenti. L’insieme di tali attori, molto simili agli psicologi, comprende almeno due grandi categorie generali di professionisti: quelli che godono di credibilità sociale (ma non nel campo specifico della psicologia) e quelli maggiormente discussi come figure professionali. Al primo gruppo appartengono, per esempio, i sacerdoti, i medici, i counselor. Nel secondo gruppo si collocano invece, per esempio, gli astrologi, i chiromanti e in genere gli studiosi e gli utilizzatori della parapsicologia” (Moderato, Rovetto, 2006, pag 20-21).
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Nonostante di acqua sotto i ponti ne sia passata da quando Wihelm Wundt ha fondato il primo laboratorio di psicologia a Lipsia nel 1879, sancendo il riconoscimento della psicologia come disciplina scientifica, in effetti ancora molta confusione aleggia intorno alla figura professionale dello psicologo. La Settimana per il Benessere Psicologico della Campania nasce dunque proprio con l’intento di promuovere tale professionalità affinché possa essere diffusamente utilizzata come importante risorsa per la promozione del benessere individuale e sociale.
A tale scopo l’Ordine campano quest’anno ha coinvolto più di 150 comuni nelle sue iniziative che prevedono duecento conferenze di interesse scientifico e culturale gratuite su tutto il territorio regionale e quattrocento studi di psicologi professionisti aperti tutta la settimana per un primo colloquio di consultazione gratuita per chiunque fosse interessato. (l’elenco è consultabile sul sito www.psicamp.it).
Altra novità importante di quest’anno è la proposta di legge regionale per l’istituzione della figura professionale dello psicologo del territorio per promuovere il pieno e armonico sviluppo psicologico dell’individuo in relazione ai suoi contesti di vita. Fino al 22 novembre in Campania è possibile, infatti, recandosi presso l’Ufficio del segretario comunale del proprio comune di appartenenza, apporre la propria firma per sostenere tale proposta di legge a iniziativa popolare.
“E’ iniziata una raccolta di firme capillare in circa cento comuni campani per avanzare, nei primi giorni di dicembre, al consiglio regionale della Campania una proposta di legge che preveda come obbligatoria nei Servizi Sociali la figura dello psicologo”, spiega Raffaele Felaco, il vulcanico presidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania che, spalleggiato da altri appassionati consiglieri, ha dato vita in questi ultimi tre anni del suo mandato, a importantissime iniziative tutte tese a promuovere il benessere dei cittadini nei sistemi di convivenza, fronteggiando e prevenendo il disagio relazionale in famiglia, scuola e comunità il tutto con un linguaggio fortemente duttile e comunicativo (basti pensare che, tra le tante cose, ha dato vita ad un’ applicazione per gli smartphone per rendere ancora più diretta la comunicazione tra cittadini e professionisti).
Un’altra interessante iniziativa è, poi, quella delle “Isole del Benessere”, luoghi concreti d’incontro tra cittadini e psicologi in cui sarà possibile, in questa settimana, caldeggiare la su citata proposta di legge, raccogliere informazioni su quanto in programma durante la Settimana del Benessere e dire la propria sulla “precarietà”, parola oggi spesso abusata e poco pensata e che forse, per tale ragione, tanto malessere sta producendo nei cittadini campani e non solo.
A scegliere il tema delle “Isole” è stata Antonietta Bozzaotra, vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania, che da tempo si sta battendo in modo attivo per allestire contesti in cui riflettere in gruppo sul lavoro precario, argomento di grande drammatica attualità. Le Isole, veri e propri inviti alla riflessione, saranno attive nei comuni di Poggiomarino, Caserta, San Giuseppe Vesuviano e a Napoli su iniziativa dell’Ordine degli Psicologi della Campania e in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale “Pensare Più”.
“Brave”. La Principessa Ribelle e il Capro Espiatorio – Recensione
Brave (2012). Locandina
Il multistrato -quanto odio questa parola!- era il tema del capro espiatorio, del sacrificio e dell’orda sanguinaria che trova soluzione ai feroci conflitti interni trovando un nemico esterno da ammazzare.
SPOILER ALERT! NELL’ARTICOLO VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA DEL FILM
Come capita a molti genitori, accompagno i miei figli piccoli al cinema e mi costruisco un’estesa competenza sui film per bambini. Film di animazione, disegni o pupazzi (ma anche qualche volta “film a persone vere” come dicono i miei bambini). L’ultimo che abbiamo visto era “Brave” della Pixar.
La Pixar è stimata per la qualità dei suoi film, per la capacità di proporre più strati di lettura. Per la verità, a me degli strati multipli importa abbastanza poco. Mi basta che il film funzioni e piaccia ai bambini. E piaccia anche a me nella sua semplicità infantile, senza stare a raccontarmi che, come adulto, voglio vedere un film multistratificato e complesso. Ma chi se ne frega.
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Però devo ammettere che il multistrato di “Toy Story 3”, col pupazzo sadico rosa e la scena drammatica del quasi incenerimento dei giocattoli, mi era piaciuto. Già meno mi era garbato “Wall•e”, roba d’avanguardia noiosa e intellettuale da grandi rifilata ai piccoli (e infatti i miei bimbi a metà film si alzarono e se ne andarono, e fecero bene). Molto meglio “Cars”, efficiente e senza tante sofisticherie. Però con “Cars 2” la Pixar aveva fatto un film davvero troppo semplice, così semplice che anche i miei bambini lo avevano completamente dimenticato in men che non si dica. Nei giorni successivi nemmeno un commento, una rievocazione di una scena. Completamente cancellato, come se non l’avessero mai visto.
Andiamo a vedere “Brave”, con la critica cinematografica che già ci aveva ammaestrato in precedenza sul multistrato polisemantico e plurisignificante che ci attendeva inquietante: finalmente l’eroina donna invece che maschio e così via, il solito genere di cose che già conoscete tutti e bene, che siate maschi o femmine, è inutile aggiungere altre chiacchiere.
“Brave” è una principessa a cui piace la caccia e il tiro con l’arco, per niente contenta del destino che la aspetta: essere scelta in sposa da uno dei rampolli dei tre feudatari del padre, il re di un ridente e verde regno scozzese. La ragazza litiga con la madre, che le ricorda il suo dovere (politico) di principessa e inoltre la avverte che questi matrimoni combinati mantengono la pace nel regno. Ridente e verde il regno, ma pronto a incrudelirsi di stragi e farsi colorato in rosso. I feudatari son lì, desiderosi di imparentarsi col re ma anche pronti a scalzarlo. Il re è un simpatico panzone ed è anche un po’ un cazzone inconsapevole delle minacce che lo circondano. Dopo un po’ diventa chiaro che è la regina la vera mente politica che tiene tutto insieme il regno. E sua figlia, “Brave” che ama passare il tempo cacciando con l’arco nella foresta, ancora non ha capito nulla di tutto questo. Comprensibile il fastidio della ragazza per i matrimoni combinati, ma vediamo come va a finire.
Guardiamo “Brave”. Il film funziona, con qualche lentezza nella parte centrale. Chi lo dice? I miei bambini, che commentavano: “che noia questa parte”. Ed è la parte un po’ triste in cui la regina, madre della principessa, è stata tramutata da un incantesimo in orsa ed è costretta a nascondersi nella foresta, minacciata e inseguita dagli abitanti del castello in cui abitava e regnava. Inseguita anche dal marito, il re, disperato perché non la trova più (il poveraccio la ama e non vive senza di lei) e che la pensa morta ammazzata dall’orsa (la regina stessa!) che ha trovato nella sua camera.
Insomma è lei, la regina, il vero protagonista del film. Film che davvero mette al centro una donna, ma questa donna non è “Brave”, la principessa ribelle. Ribelle si, ma anche un po’ idiota. Perché è “Brave” che fa scattare idiotescamente l’incantesimo. Perché è “Brave” che casca nel tranello di una strega e fa mangiare alla madre il dolcetto che la tramuta in orso (“faglielo mangiare e tua madre farà quel che tu vuoi” dice più o meno la strega, cito a memoria). E passi, non lo sapeva. Ma la superficialità asinina con cui “Brave” minimizza e non capisce l’enormità di quel che accade dopo è raggelante: la madre tramutata in orsa e inseguita nella foresta dal marito e i suoi guerrieri per ucciderla, convinti –terribile equivoco- che l’orsa abbia ammazzato la regina! E il realismo psicologico (merito della Pixar) con cui è resa la tragedia della madre intrappolata nel corpo dell’orsa rende tutto ancora più sbalorditivo. A questo punto l’atteggiamento della principessa “Brave” è davvero incomprensibile: sembra solo infastidita da quel che accade. Roba da prenderla a schiaffi (e qui i miei bambini sbadigliavano alla grande, impossibilitati a identificarsi con una tale cretina; semmai erano in pena per la madre).
È stato a questo punto ho sospettato che lo sceneggiatore fosse un cripto-maschilista. Solo un misogino poteva aver concepito quello che era la principessa “Brave” a metà film: semplicemente una stupida sciocca viziata.Anzi, una vera cogliona. Vero è che anche i maschi guerrieri erano dipinti come una massa di assoluti imbecilli. Misantropo oltre che misogino, dunque, lo sceneggiatore. A questo punto mi chiedevo perché avevo portato i miei bimbi a vedere un film così nichilista. Maledizione al multistrato della Pixar. Era meglio “Cars”, e che i multistrato intellettuali vadano a farsi benedire.
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Dopo un po’, i maschi guerrieri del castello catturano la regina-orsa e per poco non la fanno fuori. Legata con mille corde al centro di un orribile e antichissimo cerchio sacrificale di pietre e circondata da un’orda urlante di guerrieri inferociti (mentre “Brave”, la piccola idiota, ha finalmente capito la gravissima portata della tragedia in atto) sembrava un agnello portato al macello. Una scena terribile.
A questo punto ho compreso dove fosse il multistrato. Ed era ben nascosto, per fortuna, e meno scontato e risaputo della quota rosa riservata all’eroina invece che all’eroe. Anche perché fino a quel momento l’eroina “Brave” aveva fatto la figura dell’idiota; parità si, ma nell’idiozia, che poi è il femminismo migliore. Il multistrato -quanto odio questa parola!- era il tema del capro espiatorio, del sacrificio e dell’orda sanguinaria che trova soluzione ai feroci conflitti interni trovando un nemico esterno da ammazzare (e poi da divinizzare in un totem: l’orsa; ovvero in una costellazione: l’orsa maggiore e minore). E infatti l’orda dei guerrieri era già segnata da conflitti interni che si erano infine scatenati in una rissa al castello. Come ho già scritto prima, il re è in difficili rapporti con i suoi tre vassalli, ognuno dei quali vorrebbe al tempo stesso imparentarsi con lui e sostituirlo.
Insomma, quelli della Pixar non sono stupidi. Un po’ tromboni e intellettuali, ma non stupidi. Si sono letti René Girard (1982) e Giuseppe Fornari (2006), i due grandi antropologi e studiosi della teoria del capro espiatorio. E ne ho la conferma a casa, leggendo il mito greco di Callisto (ahimè, lo leggo su Wikipedia e non in Ovidio) tramutata in orsa da Artemide, la dea della caccia che evita gli uomini e che è sdegnata perché Callisto è incinta e quindi ha violato la regola dell’orda delle terribili ninfe cacciatrici (tra le quali la stessa Callisto) che accompagnano la dea: che mai conoscano uomo e mai facciano prole. Una banda di femministe scatenate, immagine speculare dei maschilistissimi eroi greci.
La regina è Callisto. Chi è, infatti, la regina di “Brave” se non una donna che invece ha scelto di conoscere un uomo, quell’imbecille, ma simpatico e innamorato, di suo marito? E, particolare raggelante, chi è “Brave” se non Artemide, una donna che non vuole conoscere uomo e che passa le giornate dei boschi da sola a cacciare? Dunque Callisto è la madre di Artemide? E “Brave” è Artemide che ha voluto tramutare sua madre in orsa affinché fosse uccisa e sacrificata? Un Edipo donna. Forse si. Beh, il film è davvero complesso (anche se i miei bimbi però continuano a rimanere perplessi e un po’ annoiati di fronte a tanta cultura; meglio “Cars”).
Insomma, l’orda dei maschi può essere anche un’orda di femmine altrettanto crudeli e schiave di regole e pregiudizi. Lo sceneggiatore è davvero uno tosto che non fa sconti a nessuno, maschi o femmine che siano. Altro che quote rosa o quote azzurre. Non ce ne è per nessuno. Misogino e misantropo.
Però uno sconto lo fa: alla madre, regina e orsa. Che è quindi la vera grande protagonista, un Cristo donna destinata al linciaggio.
Poi, per fortuna, tutto si risolve. Sia pure a prezzo dell’uccisione di un altro orso. Intendiamoci, non un povero orso che passava di lì, ma una personificazione del male (e chi è questo qui? Ma non posso mica spiegarvi tutto, andate a vedervi il film!) E alla fine “Brave” finalmente rinsavisce e comprende le enormi sciocchezze che ha commesso per tutto il film. Ed è questa sua consapevolezza che fa sparire l’incantesimo e fa riprendere alla regina la sua forma umana. Per fortuna, perché è evidente che senza di lei il regno va a scatafascio.
Il divorzio è diventato un fenomeno talmente diffuso da passare quasi sotto il velo della normalità. In effetti, la percentuale di famiglie composte da un solo genitore è aumentata considerevolmente negli ultimi decenni, ed il divorzio genitoriale costituisce, in tutto il mondo, la causa principale di questo sorprendente aumento. In Italia, secondo i dati ISTAT, il 18.% delle coppie ha divorziato nel 2010, il doppio rispetto al 1995: parlando con bambini ed adolescenti, ad esempio nelle scuole, sembra quasi difficile trovarne uno non costretto allo (spesso estenuante) andirivieni tra casa materna nei giorni feriali e casa paterna nel weekend.
Le conseguenze? Esperienze stressanti, come la rottura del legame con il genitore che si vede di meno (accompagnata spesso dalla sensazione di aver perso un supporto emotivo), la rottura del legame con amici e compagni di classe per traferirsi in altre città, nonché la perdita dei contatti con insegnanti conosciuti e coi nonni (Amato, 2000). Naturalmente, non sempre la situazione è così tragica: vi è una grande diversità individuale nella capacità di affrontare le situazioni difficili, e di certo non mancano bambini e adolescenti che hanno raggiunto buon adattamento psicosociale nonostante il divorzio dei genitori (Amato, 2000; Isohanni et al., 2000; Rutter, 1987).
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Gli studi sulle ripercussioni del divorzio sui figli sono proliferate negli ultimi anni, parallelamente alla diffusione del fenomeno. Ma quali sono, se ci sono, gli effetti a lungo termine? Pochi studi si sono soffermati sull’analisi dell’adattamento psicosociale di soggetti adulti con genitori divorziati, e sappiamo perciò ancora poco a riguardo. Huurre e colleghi (2006), del National Public Health Institute di Helsinki, Finlandia, hanno condotto uno studio longitudinale partendo dall’ipotesi che l’impatto negativo del divorzio sui figli potesse persistere anche in età adulta. Secondo gli autori, era probabile che l’esperienza di divorzio genitoriale vissuta da bambini potesse avere conseguenze negative sul soggetto adulto in termini di salute psicologica, comportamenti funzionali o disfunzionali, status socioeconomico e relazionale, e qualità della relazione col partner (o del matrimonio).
Il primo campione di soggetti, reclutati nel 1983, era composto da 2194 studenti di 16 anni. È stato loro chiesto di compilare dei questionari in modo da raccogliere informazioni su salute psicologica e somatica, comportamenti funzionali, background familiare (divorzio genitoriale, morte genitoriale e status socio-economico), caratteristiche personali, relazioni sociali ed eventi di vita. 1471 soggetti appartenenti al campione iniziale sono stati contattati via mail e ritestati 16 anni dopo (età media: 32 anni, 317 con genitori divorziati), tramite questionari molto simili a quelli utilizzati nella prima fase, riadattati all’età. Sono state aggiunte alcune scale al fine di valutare il benessere psicologico (sintomi psicosomatici, depressione e distress psicologico).
I risultati sono i seguenti. All’età di 32 anni, il gruppo di donne con genitori divorziati riportavano più sintomi psicosomatici rispetto alle donne con genitori ancora insieme. Riferivano anche livelli di depressione più alti e maggior presenza di disturbi psichiatrici “minori”. Al contrario, i soggetti maschi provenienti da famiglie divorziate o meno non riportavano differenze significative. Relativamente alle situazioni di vita, i figli di divorziati (maschi e femmine) riportavano livelli di educazione più bassi e un tasso maggiore di disoccupazione, un tasso maggiore di separazione divorzio dal coniuge (a loro volta) e comportamenti a rischio più frequenti, come dipendenza da fumo e abuso di alcol.
Per quanto riguarda i risultati sul sopporto sociale e sui rapporti interpersonali, le figlie di genitori divorziati riportavano un numero minore di famigliari, parenti, amici ed altri conoscenti importanti, e si ritenevano meno soddisfatte del supporto pratico e dell’assistenza finanziaria ricevuti. I figli maschi di genitori divorziati riportavano minore soddisfazione rispetto ai figli di genitori ancora sposati solo relativamente all’assistenza finanziaria. Infine, il punteggio relativo alla presenza di eventi di vita negativi era maggiore per i figli dei divorziati (principalmente per le donne).
Il motivo per cui il divorzio dei genitori avrebbe effetti peggiori sulle donne rimane ancora da chiarire. È possibile che il tipo di relazione instaurato col partner e la qualità più bassa delle relazioni intime facciano la loro parte, mediando gli effetti a lungo termine del divorzio genitoriale. È forse ancora più probabile che il divorzio dei genitori, insieme ai conflitti che lo precedono e lo seguono, costituisca una “base di vulnerabilità”, un fattore di rischio per i figli, in grado di aumentare la probabilità che questi si ritrovino ad affrontare un divorzio una volta adulti, nonché la probabilità di sviluppare depressione (Rogers, 1994). Ma occorrono ulteriori ricerche che chiariscano il ruolo di mediatori e fattori di rischio/protezione, nonché le disparità di genere.
Rutter, M. (1987). Resilience in the face of adversity. Protective factors and resistance to psychiatric disorder. British Journal of Psychiatry, 147, 598–611.
Psicologia a Teatro: Eduardo de Filippo tra teatro e realtà.
State of Mind presenta:
PSICOLOGIA A TEATRO
La nuova rubrica di State of Mind, a cura di Roberta De Martino
Eduardo De Filippo (1900-1984), drammaturgo, attore, regista e poeta italiano.
“Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”. Eduardo de Filippo e la sensibilità di un genio indiscusso.
Questa semplice ma loquace espressione di Eduardo de Filippo racchiude, a mio avviso, tutta la complessità e la sensibilità di un genio indiscusso che con la sua penna ha saputo tratteggiare sapientemente spaccati di umanità. Ed è proprio la sua voce che torna in scena in questi giorni al Teatro Nuovo di Napoli in “Tà-Kài-Tà (Eduardo per Eduardo)”, spettacolo di Enzo Moscato, in scena fino al 4 novembre.
Sulle tavole del palcoscenico una strepitosa e intensa Isa Danieli accompagna Moscato nel racconto di un artista che, sensibile osservatore, ha amato talmente tanto la vita da soffrirne.
“Tà-Kài-Tà” letteralmente significa “un po’ questo e un po’ quello» e, a mio avviso, tale vocabolo ben racchiude il senso di questo riuscito testo teatrale che, potendo contare su due appassionati e bravi interpreti, con pochi elementi scenici, riesce a restituire tutta la complessità di un grande personaggio, severo quanto generoso, sensibile quanto duro.
La vita di Eduardo non è stata, infatti, per nulla semplice, inquieto e malinconico, il grande drammaturgo ha dovuto affrontare, durante la sua esistenza, numerosi dolori: il collegio, il rapporto controverso con il padre Scarpetta e con i fratelli Titina e Peppino (che per fargli uno sberleffo lo chiamavo spesso “o’ direttore”), fino alla morte, in tenera età, di Luisa, la sua secondogenita. Ed è proprio intorno a quest’ultimo dolore che ruota tutto lo spettacolo di Moscato sia nella scenografia che nei contenuti: alla luce della narrazione di tutti questi infelici avvenimenti, lo spettatore da ancora più vivo senso ai celebri versi delle commedie di de Filippo, rievocati in più di un’occasione dai due protagonisti delle pièce.
E’ nel teatro, infatti, che quest’animo inquieto ha forse trovato quella serenità e “serietà” che tanto cercava nel quotidiano. Eduardo ha, infatti, da sempre visto nella finzione teatrale una maggiore verità di quanto riusciva a vederne nella vita ove spesso, incastrati nel portare tante maschere, si vive (per dirla alla Erich Fromm) più nell’ “avere” che nell’”essere”.
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In effetti nella vita di tutti i giorni, bloccati in etichettamenti e ruoli ben definiti, finiamo con il non portare in scena tutte le parti più autentiche di noi stessi, e questo alla lunga, se esasperato, può portare alla separazione, alla patologia.
“I fantasmi non esistono. I fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili”, affermava a tal proposito Eduardo.
Paradossalmente, invece, il teatro, attraverso l’utilizzo di dichiarate maschere o ruoli, consente all’attore di potersi sperimentare in tutte le sfaccettature del proprio essere senza troppe difese o filtri e ciò gli consente di sentirsi maggiormente integro, intero, sano. Edward de Bono in “Sette cappelli per pensare” a tal proposito asserisce: “Recitare la parte di qualcun altro consente all’Io di oltrepassare i frequenti limiti della propria immagine. Nella vita di tutti i giorni gli attori sono spesso gente timida. La parte concede libertà … dato un ruolo ben definito possiamo godere della nostra abilità nel recitare tutte queste parti, senza che il nostro Io ne risulti danneggiato” (de Bono, 1997, p. 24). Viene così da pensare ai vari Domenico Soriano, Gennaro Jovine, Luca Cupiello, Sik, Sik da de Filippo prima immaginati e poi incarnati … La protezione di un ruolo formale consente all’interprete di esplorare parti di sé che altrimenti sarebbe più difficile mettere in gioco perché l’io smette di difendersi: “indossare un costume da pagliaccio ci autorizza a fare i pagliacci.” (de Bono, 1997, p. 32).
La “maschera del personaggio” consente all’attore di lasciarsi andare e dare maggiore spazio ad aspetti di sé che probabilmente, difficilmente mostra sul “palco della vita”. Del resto anche Luigi Pirandello aveva saggiamente affermato: “Il teatro è il luogo ove si gioca a fare sul serio”.
Il teatro, come la psicoterapia, è dunque il luogo della possibilità: nell’atto stesso in cui un attore, guidato da un copione, interpreta un personaggio abita, attraverso quel ruolo, parti di sé che nella vita di tutti i giorni esplora raramente. Non è un caso, infatti, che tanti attori asseriscono di fare teatro perché ciò consente loro di vivere più vite, espressione che tra l’altro credo che, in qualche misura, ben si addice anche alla professione dello psicoterapeuta: perché cos’è la psicoterapia se non un modo di esplorare infinite storie possibili?
E’, dunque, forse necessario ricordarsi di portare sempre nuovi ruoli “in scena” nella propria esistenza se non si vuol rischiare, come affermava Denis Diderot, di “morire oscuri perché non si ha avuto un diverso teatro”. E questo rischio non l’ha corso senz’altro Eduardo perché lui ha avuto un suo diverso teatro, teatro da cui continua a comunicare con i suoi meravigliosi testi che gli hanno permesso di conquistare senza ombra di dubbio quella “pace senza morte” che tanto cercava in una sua nota poesia, perché di morto non vi è nulla in quest’uomo il cui pensiero e le cui emozioni continuano a vibrare tra un sipario e un altro tutti i giorni anche attraverso il riuscito lavoro di Moscato che, al calar della tela, riceve un fragorosissimo e prolungato applauso.
James Marshall Hendrix, detto “Jimi” (1942-1970) di Seattle (come Kurt Cobain con cui condivide un posto nel “club dei 27”, giovani idoli musicali deceduti a 27 anni per suicidio, overdose o morti violente), il più grande chitarrista di tutti i tempi secondo la rivista Rolling Stone (2011), ha dato un contributo fondamentale all’evoluzione del rock attraverso un’inedita fusione di blues, rhythm and blues/soul, hard rock, psichedelia e funky. La sua versione distorta del tema di The Star-Spangled Banner (inno nazionale degli Stati Uniti) proposta al festival di Woodstock del 1969 è da molti considerata come il simbolo di uno straordinario periodo musicale e socioculturale. Oltre al suono inconfondibile e a un innovativo uso degli effetti, è sicuramente impresso nell’immaginario collettivo il rapporto morboso e originalissimo con lo strumento musicale. Nelle immagini dell’epoca si vede il musicista suonare la chitarra elettrica dietro la schiena o coi denti, mimarvi rapporti sessuali e persino incendiarla.
Quasi tutti sanno che Jimi Hendrix suonava la chitarra da mancino, ma in realtà era ambidestro (in inglese mixed-handed), in quanto scriveva, mangiava e telefonava con la destra, mentre si pettinava e fumava con la sinistra. E’ stato ipotizzato che potesse essere stato costretto a imparare a scrivere con la destra, pratica abbastanza in voga per i mancini nelle scuole degli anni 50. Fin dalla prima infanzia i bambini mostrano infatti una predilezione per l’utilizzo di una mano (in inglese strong handed) piuttosto che per l’altra. Questa predilezione istintiva si osserva nel novanta per cento dei casi. Ci sono però delle eccezioni: persone che non mostrano nessuna spiccata preferenza per l’utilizzo della mano destra in confronto alla sinistra.
Durante l’infanzia, dai trentasei mesi ai quattro anni circa, nel cervello umano si ha la specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali, la cosiddetta lateralizzazione. Negli ambidestri permane la bilateralizzazione, cioè la non laterizzazione degli emisferi cerebrali. Le cause di questo fenomeno non sono ancora state chiarite, anche se comunque è stata verificata una predisposizione ereditaria. Sebbene il cervello abbia una struttura simmetrica, con due emisferi dotati di aree motorie e sensoriali corrispondenti, alcune funzioni intellettive sono limitate a un solo emisfero. In ogni individuo l’emisfero dominante presiede al linguaggio e alle operazioni logiche, mentre l’altro controlla le emozioni, le capacità artistiche e la percezione spaziale. In quasi tutti i destrorsi e in molti mancini l’emisfero dominante è il sinistro.
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Il cervello delle persone ambidestre è caratterizzato da una maggiore interazione e integrazione tra i due emisferi (Propper et al., 2005), a causa delle dimensioni aumentate del corpo calloso, l’ammasso di fibre nervose che collega le due metà dell’encefalo.
Come si può immaginare l’essere ambidestri è alquanto diffuso tra i musicisti di strumenti a corde (per gli strumenti come il piano è preferibile invece una maggiore autonomia tra le due mani ed eccellono di più gli strong handed), proprio perché favorisce la sincronicità dei movimenti (Cristman, 1993).
Uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti lo stile chitarristico di Jimi Hendrix, evidentissimo in album come Electric Ladyland (1968), è stato proprio legato alla sua abilità ad utilizzare in modo simultaneo la mano destra per premere le note sulla tastiera e la sinistra per pizzicare le corde e variare il suono utilizzando i controlli del volume, del tono, del pickup e la leva. In questo è stato anche favorito dall’utilizzo di una chitarra per destri usata al contrario (invertendo anche l’ordine delle corde), in cui i comandi e i controlli si trovavano nella parte superiore della cassa, consentendo un loro utilizzo più comodo durante la pennata.
Le sviluppatissime connessioni interemisferiche dell’artista potrebbero aver influenzato anche il suo songwriting. Essendo noto che i centri per l’elaborazione del linguaggio e del ritmo hanno sede nell’emisfero sinistro, mentre quelli deputati alla creazione di melodia e armonia sono in quello destro (Gates e Bradshaw, 1977), si potrebbe ipotizzare che gli ambidestri siano avvantaggiati nell’integrare i testi con le musiche, riuscendo cioè a inserire le parole giuste sulle melodie giuste, in modo tale che gli aspetti sintattici ed emotivi del testo si sposino nel modo migliore con i fraseggi melodici. Potrebbe non essere una casualità che il brano All along the watchtower, il singolo più gettonato del disco, fosse stata scritto da Bob Dylan, altro musicista considerato ambidestro.
Lo stile di scrittura di Hendrix è molto libero e naturale, le parole cantate con una semplice spontaneità che ricorda il linguaggio quotidiano. La particolare voce, caratterizzata da una grande espressività ritmica ed emotiva, potrebbe a sua volta risentire dell’influenza della forte interazione interemisferica.
Dal momento che è noto che il linguaggio è controllato dall’emisfero sinistro, mentre il canto dall’emisfero destro (Gordon e Bogen, 1974), si potrebbe ipotizzare che gli ambidestri, sempre per via della maggiore comunicazione tra i due emisferi, siano più portati per uno stile canoro in cui c’è un’alternanza tra vocalizzi e parlato, simile a quella sorta di approssimazione melodica che nella musica classica Arnold Schoenberg definiva Sprechstimme.
Un’altra specificità che troviamo nei brani del chitarrista è il frequente uso di intercalari come ‘yeah’, ‘well, all right’, ‘mm mm’, ‘hey’, che contribuiscono a conferire ritmicità e aumentare l’impatto emotivo, e che sembrano originare dall’emisfero destro (non quindi dal sinistro sede del centro del linguaggio). Si può quindi affermare che Jimi Hendrix cantasse davvero con entrambe le parti del cervello!
Gli ambidestri presentano una maggiore capacità di accesso conscio a processi mentali che hanno sede nell’emisfero destro, dove vengono elaborati anche i suoni ambientali non verbali. Diversi esempi di utilizzo di suoni non prettamente musicali si ritrovano in canzoni come And the gods make love o 1983…(A Merman I Should Be), entrambe contenute in Electric Ladyland.
Per quanto riguarda i testi, le canzoni di Hendrix sono caratterizzate da una struttura metrica spesso irregolare e non ingabbiata rigidamente in modo da seguire alla perfezione la linea melodica, come succede nella maggior parte dei brani pop-rock. In canzoni come Voodoo chile (1968), ad esempio, è la linea melodica ad essere subordinata al fraseggio del testo, suggerendoci come le parole e i ritmi prodotti dall’emisfero sinistro si integrino in modo dinamico con le melodie prodotte dall’emisfero destro.
I contenuti dei brani sono ricchi di elementi magici e visionari, come quelli di molti altri autori di canzoni del periodo (talvolta aiutati anche dall’uso di allucinogeni che si andavano diffondendo), in linea con alcuni studi che hanno mostrato come gli ambidestri abbiano una maggior propensione a sviluppare il pensiero magico, che comprende credenze in causalità paranormali, percezioni extrasensoriali, forme di vita extraterrene (Barnett e Corballis, 2002). Questo è testimoniato anche dalle credenze alle pratiche Voodoo che hanno contraddistinto tutta la breve vita di Jimi Hendrix, a partire dall’infanzia trascorsa dai parenti in Georgia. Viene riportato anche che il chitarrista dichiarò di essere stato salvato da un UFO a Woodstock. Come sappiamo l’emisfero sinistro è responsabile per il mantenimento delle nostre credenze razionali rispetto al mondo, mentre il destro può agire come “avvocato del diavolo” che tenta di sconfessarle, cercando contraddizioni e incoerenze e soprattutto aggiornamenti (Ramachandran,1995). In queste persone la maggiore interazione tra i due emisferi può comportare una maggiore flessibilità e una certa tendenza al pensiero divergente e laterale, cioè a pensare “out of the box”, come dicono gli americani. Certi studi hanno anche evidenziato come queste persone siano più credulone, persuasibili e comunque aperte a nuove idee (Christman et al,2008).
Alcuni esempi di elementi fantasiosi nei testi di Electric Ladyland di Hendrix sono: “…sto in piedi vicino a una montagna e la frantumo con il bordo della mia mano” (Voodoo child), “…una nave gigantesca atterrava dallo spazio con una grazia sinistra e veniva a portarsi via i morti” (House burning down), “…riesco a sentire Atlantide piena di applausi” (Moon Turn The Tides…gently, gently away).
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Gli ambidestri risultano inoltre più tolleranti rispetto all’ambiguità (Garvey & Niebauer, 2003) e possiamo trovare diversi esempi di questa attitudine sia nei testi che nelle musiche di Jimi Hendrix. Si consideri ad esempio il titolo del brano del 1968 “If 6 was 9” (se 6 fosse 9), mentre a livello musicale possiamo citare il cosiddetto “accordo di Jimi Hendrix”, un Mi7#9, che contiene un intervallo di terza maggiore e minore, che conferiscono una caratteristica ambiguità tonale. Anche il look vagamente androgino del chitarrista poteva contribuire a conferire una certa ambiguità sessuale, soprattutto per l’epoca.
Si potrebbe anche ipotizzare che questo particolare assetto cerebrale possa avere contribuito alla fragilità psicologica del nostro compianto chitarrista. Da alcuni studi è emerso infatti come gli ambidestri mostrino una maggiore prevalenza di disturbi psicotici (Chapman e Chapman, 1987). Sicuramente anche gli eventi di vita del periodo infantile possono avere avuto un certo peso nell’indurre Hendrix da adulto ad abusare di sostanze stupefacenti e psicofarmaci, fino a morire soffocato nel proprio vomito in seguito a un’ ingestione incongrua in un hotel di Kensington. Secondo una biografia (Shapiro e Glebbeek, 2010), nei primi tre anni di vita il piccolo Hendrix fu sballottato tra parenti e conoscenti a causa dello scarso accudimento da parte della giovane madre, che usciva spesso di casa a divertirsi e sbronzarsi, abbandonando il bambino. La nonna materna affidò poi il nipote a una famiglia che stava in California. Un’altra vittima innocente di un attaccamento disorganizzato? La storia di Jimi Hendrix è l’ennesimo esempio di come per un individuo la dotazione di un grandissimo talento funzionale sul piano artistico, in questo caso identificabile anche con un particolare assetto neuroanatomico, possa avere come rovescio della medaglia la vulnerabilità sul piano psicologico. Vi confesso che mi piace pensarlo mentre suona sorridente, magari accompagnato da una band extraterrestre, in qualche galassia dove la destra e la sinistra non sono poi così importanti…
Garvey K, Niebauer CL (2003). Cerebral laterality and ontological sophistication: Strength of handedness predicts cognitive complexity. Paper presented at the 2003 Meeting of the American Psychological Society, Atlanta, GA.
Numerose coppie oggigiorno incontrano, purtroppo, una notevole difficoltà nell’avere figli, cosa questa che porta i partner alla decisione di intraprendere lunghi percorsi medici per avere un bambino, attraverso soprattutto il ricorso alle moderne tecniche di Fecondazione in Vitro (IVF). Sebbene spesso tali percorsi si concludono con esiti positivi e con l’arrivo del bambino tanto desiderato, per altre coppie la vita prende una piega diversa e, dati i fallimenti della fecondazione in vitro, si giunge ad un bivio: rinunciare o adottare?
Un recente studio ha voluto mettere a confronto la qualità della vita di coppie che decidono di adottare con la qualità della vita di coppie che, per diversi motivi, non hanno preso in considerazione l’idea di adottare un bambino.
Il gruppo di ricerca è composto da ostetriche e medici dell’Università di Göthenburg che hanno analizzato la qualità della vita in uomini e donne (in totale 979 partecipanti) a distanza di cinque anni dal trattamento IVF. I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi sperimentali: coppie con IVF non andato a buon fine (senza figli), coppie con IVF andato a buon fine (con figli), coppie senza problemi di fertilità e coppie che, ha causa dell’insuccesso dell’IVF, hanno deciso di adottare un bambino. La qualità della vita è stata misurata attraverso l’utilizzo del Psychological General Well Being (PGWB) e del Sense of Coherence (SOC), strumenti che misurano rispettivamente il benessere psicologico generale e il senso di coesione familiare. Sono state, inoltre, raccolte, attraverso ulteriori questionari, informazioni demografiche, socio-economiche e sanitarie.
Dai risultati è emerso che le coppie che decidono di adottare un bambino dopo il fallimento del trattamento IVF vanno incontro a una migliore qualità della vita, sia rispetto alle coppie senza figli che rispetto alle coppie senza problemi di fertilità. La qualità di vita peggiore risulta appartenere alle coppie il cui trattamento IVF è fallito e che sono ancora senza figli.
“Questo dimostra che la qualità della vita è fortemente legata all’avere dei bambini, indipendentemente dal fattoche questi siano il dono di gravidanze spontanee, di adozioni o di IVF andate a buon fine“, dice il professor Marie Berg della Sahlgrenska Academy dell’Università di Götheborg, che ha lavorato allo studio, e continua “I risultati mostrano che per le coppie può essere importante prendere presto in considerazione l’adozione oltre che a cercare l’aiuto del medico per l’infertilità, soprattutto ora che sappiamo che l’adozione migliora la qualità della vita“.
Dallo studio svedese possiamo ricavare un importante messaggio: genitorialità non è sempre riproduttività, si può essere degli ottimi genitori anche quando il dono di un bambino ci viene dato in altri modi, diversi da quello riproduttivo, e la cosa più bella che lo studio ci conferma è che, oltre ad aver aiutato nostro figlio, abbiamo aiutato anche noi stessi.
Manoscritti scovati per caso a Basilea – PRIMA PARTE
Manoscritti scovati per caso a Basilea
INTRODUZIONE
Un mio amico vescovo, uomo di grande cultura e superiore generosità, approfittando della sua conoscenza delle principali lingue moderne e di quelle classiche, ama viaggiare, nei periodi di tregua dell’attività pastorale, per l’Europa alla ricerca di testi introvabili.
Di ritorno dalle sue incursioni nelle città europee non porta agli amici parannanze tipiche dei luoghi, gadget con i monumenti locali o prodotti alimentari tipici che risulterebbero provati dal viaggio e comunque destinati ad un rapido decadimento. Lui ritiene che solo la cultura sopravviva al tempo e ama regalare libri antichi, talvolta prime rarissime edizioni talvolta persino manoscritti.
La scelta del dono, naturalmente è attenta agli interessi del ricevente. Quest’anno a me sono toccati due fascicoletti, ciascuno di una dozzina di pagine. Li ha scovati in un robivecchi di Basilea che glieli ha dati in cambio di una benedizione speciale ai suoi locali dove si dice certo alberghino dispettosi fantasmi degli autori irritati per l’ingloriosa fine delle loro fatiche .
Sono di argomento psicologico scritti a mano in tedesco ed è stato lui a tradurmeli. Portano entrambi la firma di un certo Karl ma a me la calligrafia pare assolutamente diversa. Invece la data li colloca vicini nell’inverno del 1923. Dopo che ho avuto la traduzione integrale mi sono reso conto di avere in mano solo due bozze, poco più che pensierini sparsi, ma di grande valore.
Il primo dal titolo traducibile sommariamente in “Il mondo è bello perché è vario” è, a mio avviso la scaletta vergata da Karl Gustav Jung in vista della stesura di “Tipi Psicologici”.
L’altro Karl invece credo sia Jaspers e lo scritto dal titolo “Continuiamo così facciamoci del male…” ritengo essere degli appunti in vista del suo capolavoro “Psicopatologia generale”.
Ho pensato che questi due tesoretti non potessero restare nella mia biblioteca e meritassero un dibattito tra i più importanti studiosi della materia che si confrontano quotidianamente sulle pagine virtuali e virtuose di “State of mind”. Ecco il primo testo:
Il mondo è bello perché è vario
Psichiatri e psicologi hanno sempre cercato di classificare gli esseri umani. La smania classificatoria è connaturata all’uomo e lo aiuta ad orientarsi in un mondo altrimenti caotico ed imprevedibile. Piante. animali, minerali e quant’altro sono stati suddivisi in specie, razze, famiglie e via via aggregati sempre più piccoli fino ad arrivare al singolo individuo inconsapevole delle sue appartenenze multiple.
Lo stesso furore classificatorio si è abbattuto anche sui prodotti umani e non naturali. Si pensi al linguaggioe all’analisi logica e grammaticale. Ai numeri (razionali, irrazionali, interi, primi) alle figure geometriche e anche alle opere d’arte(espressionismo, classicismo, cubismo e via discorrendo). Quasi tutte le classificazioni seguono il criterio categoriale. Cercano di far ordine tra gli oggetti della realtà distribuendoli in cassetti discreti ben distinti tra loro. All’interno di un cassetto più grande esistono poi altri cassetti più piccoli che operano ulteriori sottodistinzioni. Nel grande cassetto che include i viventi e dal quale sono esclusi gli oggetti e gli elementi naturali inanimati esistono due grandi sottocassetti: le piante e gli animali. Nel sottocassetto delle piante si è sbizzarrito Linneo. Gli esseri umani stanno nell’altro insieme a leoni, pipistrelli, zanzare, armadilli, pitoni, batteri.
Il guaio è iniziato al momento di suddividere ulteriormente il cassetto degli uomini. I biologi hanno iniziato a distinguere le varie razze appartenenti alla stessa specieHomo sapiens sapiens. Gli psicologi si sono avventati sulla mente del sapientone (sapiens sapiens) per distinguerne i vari tipi. Qui sono nate le classificazioni psichiatriche. Le varie nosografie le malattie mentali.
Parallelamente gli umani nella vita di tutti i giorni usavano categorie più semplici ma efficaci per orientarsi. Simpatico- antipatico. generoso- egoista, intelligente- stupido, sincero- bugiardo, forte- debole. La differenza tra i due modi di ordinare la realtà sta nel fatto che quello scientifico è appunto categoriale. a cassetti discreti e discontinui. Quello naive è dimensionale per cui si può essere in un punto qualsiasi del continuum tra simpatico ed antipatico. Si può esserlo più o meno.Tentare una classificazione dimensionale scientifica è sfida cui non sottrarsi al termine di una vita di studio della mente umana e dunque mi avvio al compito. Volontariamente non utilizzerò la distinzione categoriale tra maschi e femmine pur utilissima nella vita quotidiana.
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La prima distinzione fondamentale che non è una duplice categoria ma una dimensione è quella dell’intelligenza vs stupidità.
L’intelligenza è la capacità di cambiare il proprio assetto di fronte alle mutate contingenze ambientali. Intelligenza è sinonimo di elasticità, adattabilità, cambiamento. Va spesso associata alla curiosità. Gli intelligenti sono vivaci, mai noiosi, divertenti. Spesso anche belli. La stupidità da l’idea dell’inanimato del non vitale. E’ stabilità, fermezza, solidità rocciosa. Gli stupidi tendono a fuggire le novità, sono conservatori, temono il cambiamento. Siccome non capiscono la realtà ne hanno paura. Sono noiosi, lamentosi, aggresivi. Esteticamente hanno una prevalenza di sviluppo in orizzontale, bassi e larghi.
La seconda dimensione ha come due estremi gli ombelicali (che vedono solo il proprio ombelico) e gli sbalconati (sempre protesi verso gli altri).
Gli ombelicali pensano di essere la misura e il centro dell’universo. Ciò che è bene per loro è il bene assoluto. Ciò che reputano giusto è la giustizia assoluta. Gli sbalconati al contrario perdono il baricentro proprio mettendosi nei panni degli altri. Si immedesimano talmente da non sapere più chi sono e cosa vogliono.
Gli ombelicali si piacciono e si curano fisicamente ma attraggono poco perchè non trasmettono interesse per l’altro, esca fondamentale dell’innamoramento. Gli sbalconati sono in genere trascurati non preoccupandosi di sé stessi e sempre impegnati a fare regali agli altri. Loro hanno senso in quanto strumento al servizio dell’altro come invece per gli ombellicali gli altri sono solo oggetti di servizio o al massimo specchi di sè.
Non è una dimensione che ha a che fare con l’egoismo e l’altruismo ma semmai con qualcosa di più basilare come l’egocentrismo. Per essere degli efficienti egoisti è utile non essere del tutto egocentrici. Per utilizzare gli altri, manipolarli, ingannarli, occorre mettersi nei loro panni. Quest’ultima dimensione non coincide a sua volta con la tradizionale e infantile distinzione tra buono e cattivo. L’egoista persegue il suo interesse e attacca l’altro se rappresenta un ostacolo al suo successo. Il cattivo fa del male gratuitamente, anzi talvolta investendoci delle risorse. Per questo il cattivo puro spesso è anche stupido. Inutile aggiungere che gli ombelicali pensano di avere sempre ragione e vivono in un mondo di certezze assolute mentre gli sbalconati sono amleticamente dubbiosi e incerti.
Ancora gli esseri umani possono essere schienati o vedette.
Gli schienati vivono rivolti al passato gonfi di rimorsi, rimpianti e nostalgie che dispensano a piene mano agli ex (compagni di scuola, compagni di battaglione, compagni di sventura, coniugi, amici) tutto purchè ex. Sono persone che ricercano la continuità, il ripetersi, i film cult da vedere e rivedere. Spesso la loro vita è la replica ripetuta alla noia dello stesso atto unico.
Le vedette sembrano uscite dall’uovo di Pasqua. Sono appena arrivate ed hanno tutto il futuro davanti. Sono uomini di progetto, di speranze, “have a dream” e di paure. Tendono ad essere rivoluzionari a rompere con le tradizioni. Considerano la novità un valore aggiunto in sé indipendentemente da ciò che sia. In questo sono come dei bambini entusiasti; al contrario degli schienati che sembrano vecchi centenari che tutto hanno già visto e non conoscono più sorpresa e meraviglia.
Solo apparentemente più superficiale è la dimensione lepre – tartaruga.
Le lepri vanno di fretta, si avvantaggiano “perchè non fare subito una cosa che comunque andrà fatta”.Le Tartarughe assaporano il cammino e se c’è un sol motivo per dilazionare lo fanno di certo.
Le lepri avvantaggiandosi con tutto si spicciano presto anche con la morte e sistemano presto la questione. le tartarughe notoriamente invecchiano a lungo. Entrambi sono insofferenti con la polarità opposta.
Decisamente più sostanziale è la dimensione viscerale- meningeo.
Il viscerale sa di avere un corpo, ne va fiero e lo cura. Sente il freddo e il caldo, la fame, la sete e il sonno e i piaceri connessi al corpo. Gode dei sapori, degli odori, dei colori e apprezza l’esercizio delle pratiche connesse alla riproduzione, anche destituite di tale scopo.
Il meningeo utilizza il corpo solo come sostegno del cervello. La realtà in cui vive e per cui si emoziona è una rappresentazione della realtà. Non si sporca con le cose ma lotta con le idee. Non fa sesso ma sessuologia. Non vive ma parla della vita, spesso con maestria e competenza. Ha disgusto della materialità. Gli organi di senso sono atrofici E’ cittadino del mondo platonico delle idee. Amabile conversatore, è inadatto alla sopravvivenza fuori da un’aula o da un salotto. L’aspetto del meningeo è trasandato quanto curato il suo eloquio.
Tra le dimensioni più importanti c’è quella talebano – romano.
Il talebano prende tutto maledettamente sul serio. Fa le cose fino in fondo, ci crede veramente. E’ tutto d’un pezzo. Non scherza con le cose serie che per lui sono tutte. Se è di sinistra farà il brigatista. Se è cattolico si accoppia secondo le indicazioni vaticane. Se ha un vizietto diventa drogato all’ultimo stadio e poi convertitosi farà l’operatore nelle comunità per tossici più intransigenti e severe.Non è uomo dalle mezze misure. E’ sempre in buona fede ed in nome di ciò può commettere i crimini più orrendi a posto con la sua coscienza. E’ geneticamente un estremista e un intollerante. Applica ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione. Anche qui fa parte di gruppuscoli estremisti che hanno vaste categorie di cibi vietati. Il rigore è elemento essenziale quale che sia la scelta in questione.
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Il romano se ne frega, non prende niente sul serio. E’ incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppo, ha una saggezza da sampietrino e lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè.
L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio e l’indignazione. Il romano misura le sue scelte operative in termini di fatica che costano e la regola decisionale è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano ma in compenso non rompe le palle agli altri “vive e lascia vivere”. Si badi che il romano non è un abitante di Roma ma una categoria dello spirito. Tuttavia è innegabile che l’amministrazione pubblica è il suo habitat naturale per cui innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una elementare o l’usciere al ministero.
Ancora gli umani possono essere retti o seghettati.
I retti sono coerenti, prevedibili, conseguenti, evolvono secondo un percorso in linea retta. I seghettati cambiano continuamente orientamento, sono mutevoli, indecidibili, inaspettati, sorprendenti. Seppure la retta seghettata ha complessivamente una direzione il percorso è frastagliato cangiante. Affettivamente i retti sono fedeli e affidabili, hanno inventato l’indissolubilità del matrimonio. I seghettati hanno vinto il referendum sul divorzio. Anche loro hanno la direzione orientata ad un rapporto stabile e proprio per questo fanno molti tentativi per scegliere il meglio. Sono criticati dai retti a loro volta derisi dai seghettati. I seghettati cambiano spesso pur non cambiando mai radicalmente. I retti non cambiano apparentemente mai. Poi un giorno nello specchio del bagno non si riconoscono più e coerentemente sparano in bocca all’intruso.
Sempre per restare in ambito geometrico gli uomini si dividono in perimetrali o superficiali e centrali.
I perimetrali badano all’esteriorità, a ciò che appare e si vede da fuori. I centrali sono interessati alle essenze al nocciolo duro, al profondo. Spesso fanno gli psicoanalistio gli speleologi e si occupano di faccende serissime. I perimetrali possono fare gli stilisti, i creativi pubblicitari o i cognitivistied hanno sempre un senso di inferiorità rispetto ai centrali perchè le loro cose non sono mai essenziali, non è mai questione di vita o di morte ma al massimo di qualità della vita. In un certo senso si invidiano reciprocamente e se condividono l’esistenza possono fare cose importanti divertendosi. I centrali vanno subito all’essenziale e per ciò sessualmente sono trascurati rispetto alla periferia dell’atto sia precedente che seguente. La sigaretta post è oggetto di violento rimprovero da parte del perimetrale che invece è molto attento al prima e al dopo.
Completamente diversa è la dimensione che va dai piloti ai passeggeri.
I piloti ritengono di avere la piena e totale responsabilità di quanto gli accade. Sono i protagonisti, gli artefici della loro vita. Sentono un fortissimo senso di responsabilità che genera spesso tracotante orgoglio, talvolta penosa colpa. Sentono che tutto dipende da loro. Al contrario i passeggeri sono in balia di un destino che li determina rispetto al quale sono assolutamente impotenti. Tutto dipende dal caso, dal destino, dagli dei, dalla fortuna.
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L’emozione di fondo è l’ansia di chi è in balia di forze incontrollabili. La responsabilità non esiste sopraffatta dall’impotenza. La storia della loro vita è il prodotto di ripetuti scontri con gli eventi esterni. Tutto avviene fuori di loro. La colpa o il merito è sempre degli altri. Loro sono spettatori del loro invecchiare senza infamia ne lode. I piloti anche di fronte alle malattie più maligne combattono convinti onnipotentemente che l’esito dipenda dalla loro determinazione a non morire e rappresentano i pazienti ideali dei medici dediti all’accanimento terapeutico e soprattutto economico. Al contrario i passeggeri che ritengono fermamente che sarà quel che deve essere si lasciano divorare da sparuti gruppetti di batteri o da poche cellule cancerogene che trovano nel loro atteggiamento non interventista un inaspettato alleato.
Voraci e anoressici possono anche essere chiamati stitici e diarroici.
I voraci diarroici scambiano molto con l’ambiente sia in entrata che in uscita. Danno e prendono molto. Non passano inosservati agli altri con cui si mischiano facilmente fino a trasformarsi e trasformare l’interlocutore. Il Vorarroico tende sempre a fare un gran baccano, è un po’ sguaiato, evidente, notato. L’anostitico invece sta sulle sue, basta a se stesso. Non ha bisogni da soddisfare con oggetti esterni, vive in un’autarchica autosufficienza. E’ riservato ed elegante, inappuntabile quando si sta con lui si ha l’impressione di essere soli. L’ideale sessuale è la frigidità. Quando la morte lo solleva per portarselo spesso lo lascia perchè si sente gelare, quindi campa moltissimo. Tuttavia anche il vorarroico sopravvive a lungo perchè intrattiene gioiosamente la morte che finisce per dimenticarsi cosa fosse venuta a fare.
Persino scontata, abusata e banale la distinzione tra formiche e cicale.
Le prime portate coattamente all’accumulo per un domani di cui non v’è certezza conducono una vita arida che non si capisce perchè dovrebbero preoccuparsi di prolungare. Se il gelo invernale e la conseguente carestia ponesse fini alle loro sofferenze sarebbe una liberazione per tutti. Per loro il bello viene sempre dopo. Oggi è il tempo del sacrificio, ma domani…. La scuola è dura ma l’università…Si aspetta il lavoro… e poi la gioia arriverà con la pensione. Quando si accomodano nel ligneo contenitore vellutato si dispiacciono soprattutto di non sapere cosa aspettarsi di bello domani. Gli manca un motivo per sacrificarsi oggi.
Le cicale invece, modello negativo da additare per il danno che comportano alle banche a ai custodi dei granai si assaporano il presente e quando arriverà il gelo moriranno cantando a pancia piena. Le cicale affettivamente godono relazioni intense e brucianti e stanno su montagne russe emotive. Le formiche hanno matrimoni duraturi che si consumano lentamente e strangolerebbero il partner secondino. La sessualità cicala è precipitevole, quella formica soporifera e misurata Gli unici ad avvantaggiarsi del fare formichico sono gli eredi. E’ ben noto infatti che le scaltre cicale tentino, e spesso con successo, di farsi adottare dalle formiche.
Gli umani si distinguono ancora lungo il percorso che va dai solisti ai coristi la cui differenza è intuitiva dal nome stesso.
I solisti vanno per proprio conto, dettano le mode, non si guardano intorno, non si preoccupano del giudizio degli altri, l’appartenere non è un loro problema. Sono piuttosto impegnati a distinguersi a differenziarsi. La bizzarria è un pregio, la vergogna ignorata. I coristi pensano di non avere nulla di originale da dire. Sono maestri nel camuffamento, nello scomparire. Non vogliono essere figura ma sfondo, pastore non bambinello. Seguono le mode, si fanno consigliare. Vogliono far parte. Il loro godimento è la tranquillità della perdita di una identità identificabile. In tutto ciò non c’è alcunchè di scelto, è così e basta: è la sindrome del camaleonte. I coristi criticano i solisti per il loro protagonismo con un livore amaro d’invidia. I solisti invece disprezzano apertamente i coristi, presi come sono dal demone della prima fila.
Ad ogni bambinosi insegna precocemente a non dire le bugie. Tuttavia la dimensione sincero – bugiardo non è poi così scontata. Stante che non c’è una realtà oggettiva che si impone necessariamente ma tante costruzioni soggettive della stessa realtà il confine diventa labile, incerto, mendace. I sinceri sono dei fotografi che ritengono sinceramente di riportare la realtà così com’è e non come appare loro.Poco importa l’angolatura da dove prendono l’immagine, la luce che scelgono, la sensibilità della pellicola, la carta usata per la stampa, ciò che mettono al centro o ai lati. Quella non è la loro fotografia, quella è la realtà.
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I bugiardi non sono fotografi ma pittori. La realtà è uno spunto che siano classici, impressionisti o cubisti. I bugiardi manipolano consapevolmente. Non vogliono comunicare all’altro una cosa esterna senz’anima ma la loro realtà. Chi prova una grande emozione ha bisogno di esagerare nell’esprimere altrimenti l’altro non capirebbe. Lo immaginate un innamorato che dica all’amata: “mia cara provo per te un sentimento non ben chiaro ma certamente significativo, è possibile che in questo momento sia tendenzialmente e transitoriamente innamorato di te”. No il termine giusto è “sono innamorato perdutamente di te dal momento che ti ho visto, come non lo sono mai stato. E quest’amore assoluto sarà eterno, per sempre ti amerò come oggi”. Sinceri e bugiardi sono complementari come ingegneri e architetti. Senza ingegneri i palazzi crollerebbero, ma senza architetti crollerebbero le anime degli inquilini. A volte i sinceri mentono e quelle sono proprie le bugie che fanno piangere Gesù perchè non sono artistiche: sono i tentativi decorativi degli ingegneri.
Abbiamo visto come ogni dimensione abbia le sue emozioni caratteristiche e contrapposte nelle due polarità estreme. Esiste tuttavia una dimensione ulteriore e trasversale che esprime la capacità di provare emozioni più o meno intense. Ad un estremo troviamo i drammatici e all’altro i sordinati .
I drammatici non solo manifestano in modo vistoso e istrionico le emozioni ma le provano anche in maniera forte. Nella loro anima non si passa senza necessariamente fare un gran rumore: non ci sono frusci ma solo schianti. Le foglie che cadono fanno un rumore assordante, disastroso segnale della caducità della vita. Un fiore che sboccia è un fuoco d’artificio dirompente che festeggia l’eterna rinascita. I sordinati hanno il volume emotivo quasi azzerato. Si nasce, ci si ama, ci si perde, si muore, con estrema discrezione, senza clamori. Non si piange, si inumidiscono gli occhi. Non si gioisce, si è soddisfatti. I sordinati guardano con disprezzo e superiorità i drammatici. Solo un pizzico d’invidia se ci fanno l’amore ma si ricompongono subito. I sordinati tuttavia si preparano una vita per fare la loro gran bella figura al momento conclusivo e non fare una piega di fronte alla morte. Per loro è una questione di principio un traguardo decisivo non dare soddisfazione alla vecchiaccia e mostrare disinteresse e distacco mentre i drammatici che godevano sguaiati sui letti dell’amore, tremeranno di paurae piangeranno dal dolore. Ma la vecchia che conosce l’animo umano e vuole far da padrona si attrezza. I drammatici se li porta nel sonno inconsapevoli per non sentire strepiti. I sordinati li tortura per mesi con dolori incoercibili, con piaghe purulente e ne umilia in tutti modi la dignità, ne offende la mente, rosicchia il corpo. Loro fanno finta di niente e lei furiosa si accanisce. Sempre più colpi ai fianchi e al volto ma mai il decisivo K.O. Poi quando i sordinati confidano all’orecchio dell’amico che non ne possono più. Quando una goccia salata tracima dal ciglio inferiore sul naso affilato. Allora, solo allora, conclude il lavoro, liberandosi del noioso cliente.
Ancora il paziente è contrapposto a l’intollerante.
Il paziente è divino nel suo rapporto con il tempo, vive in una dimensione di eternità. Nel suo eterno presente può aspettare, nulla sfugge. La sua grandezza è la capacità di incassare senza turbarsi. Nei momenti difficili riesce a dissociarsi. Si assenta e ritorna quando gli altri hanno finito. La assenza dissociativa è una sorta di stato mistico. il corpo non sente più niente e la mente dorme. Sa che prima o poi la nottata deve finire e lui resiste con un sorriso ironico che sbeffeggia il nemico che avanza.
Nel loro rapporto con il tempo gli uomini si distinguono anche lungo la dimensione puntualità – ritardatari.
Si tratta di caratteristiche assolutamente genetiche e dunque immodificabili dall’esperienza. Il ritardatario ha vinto il tempo, ne ignora il potere, inizia a fare le cose nel momento in cui ha promesso che le avrebbe concluse. Se deve andare ad un appuntamento esce di casa all’ora esatta dell’appuntamento. Si potrebbe pensare che sia disinteressato al disagio dell’altro ma non è così. Non ignora l’altro ma il tempo. Non riesce ad accettare che le sue azioni siano estese nel tempo, che durino. Per lui sono istantanee. Pensiero e azione durano egualmente zero. Il puntuale vuole l’assoluto controllo e calcola tutti i possibili inciampi, ritardi, contrattempi. Il tempo è da lui dominato. Non lo può sprecare ma non è chiaro per cosa risparmiarlo. Che farne. Il tempo peraltro è difficile da conservare, non ci sono contenitori che lo intrappolino. Il tempo corre sempre via e finisce. Il ritardatario lo sa e se ne frega arrendendosi a questa ineluttabile realtà. Il puntuale si ribella e cerca di controllarla. il tempo scodinzola a entrambi beffardo e fugge via.
La psicologia di gruppo si è arrovellata a descrivere le relazioni sociali degli umani in gruppo e la distinzione più utilizzata è quella che distingue i capi dai gregari.
Il capo è tale in un gruppo di lavoro, in una assemblea di condominio, nel gruppetto alla fermata dell’autobus, nella tavolata al ristorante. Il capo è tale non perchè bada ai suoi interessi ma perchè coglie al volo quelli degli altri, li sa unire e promuovere. Il capo è generoso, lui ha un solo interesse, comandare, tutto il resto è per gli altri. Il gregario invece non vuole decidere, fugge le responsabilità e conserva solo il diritto di lamentarsi con il suo capo. Non è affatto inferiore al capo, spesso per molti aspetti è più in gamba. E’ solo disinteressato al comando e a tutti gli impicci che comporta.
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La distinzione tra capi e gregari è qualcosa di simile seppure non sovrapponibile a quella tra mamme e figli. La mammità è una dimensione che ha al suo estremo opposta la figlitudine.
Le mamme, che siano maschi o femmine è lo stesso, sono accudenti si mettono nei panni del figlio, ne sanno bisogni e desideri ed hanno il loro piacere nel soddisfarli. Hanno uno strabismo congenito che gli consente di vedere il mondo dalla prospettiva del figlio. Il figlio al contrario vede esclusivamente se stesso. Per sopravvivere se ne strafrega dei possibili bisogni degli altri. Il suo compito è affermarsi a discapito degli altri: è violentemente impegnato nella lotta per la sopravvivenza. Le mamme lo guardano compiaciute per la sua forza e la determinazione mentre le fa a pezzi per crescere sano e forte. In questa crudele macchina da guerra loro intravedono il loro successo genetico e ne gioiscono. Mamme e figli si attraggono e non riescono a staccarsi se non quando le mamme muoiono, contente di far spazio su questa terra ai loro cuccioli.
Nei gruppi gli uomini si dilettano in due possibili giochi: la guerra e le costruzioni. Questi due giochi corrispondono a due opposte tendenze dell’animo umano.
La guerra esprime la tendenza a competere, a sopraffare l’altro a ordinare il mondo in una scala in cui chi sta più in alto ha più diritto e campa meglio di chi sta sui gradini più bassi. Già tra i cuccioli c’è chi è meno interessato a fare a botte con gli altri e si raccoglie con i compagni per innalzare costruzioni, per costruire attrezzi e giocarci insieme. Questi esprimono la tendenza alla cooperazione, al fare insieme. la storia del mondo è stata sempre segnata da grandi imprese collettive, nella dimensione dell’”insieme” e da grandi guerre, nella dimensione del “contro”. I guerrieri restano un po’ più stupidi perchè non imparano a fare le cose. Loro se ne appropriano dagli altri che le sanno fare. I costruttori non portano armi di cui hanno paura e sono laboriosi e cordiali.Per fare a botte serve meno cervello che per collaborare. I costruttori debbono ricordarsi come siano i loro compagni e cosa aspettarsi da loro. I
guerrieri è sufficiente che picchino alla cieca. Per il successo di una società servono sia i costruttori che i guerrieri che non sono, in genere ostili gli uni con gli altri avvertendo la reciproca complementarietà. Tuttavia il successo di una società dipende fortemente dalle leggi che la governano.
Nel rapporto con le regole c’è un’ulteriore significativa differenza tra gli uomini che possono essere miopi o presbiti.
I miopi tendono ad osservare e far osservare le regole minuziosamente e identiche in ogni circostanza. Non ricordano più perchè quelle regole fossero state fissate, non gli interessa la loro utilità. Ci sono e vanno rispettate. Le tavole della legge non vanno sottoposte a referendum confermativo. Il rispetto della regola è un valore assoluto in sè. I miopi trovano persino irrispettoso qualsiasi quesito sull’opportunità di questa o quella regola. L’apparato normativo è come la mamma. Senza di lei non ci saremmo e dunque va amata e rispettata quale che sia. I miopi sanno adattarsi meravigliosamente ai cambiamenti anche radicali del sistema di regole. L’importante è che le regole ci siano, non quali siano. Esse sono come la piantina della città nelle mani di un viaggiatore straniero smarrito nella sconosciuta metropoli, indicano ad ogni incrocio la strada da seguire. Guidano ogni passo tenendo a riposo il discernimento personale. Cancellano il dubbio, fugano le responsabilità.
I presbiti, al contrario, traguardano l’orizzonte. Si chiedono qual’è sia la metà che quella regola addita e ci vanno seguendo una loro personalissima strada. Attenti allo spirito e non alla legge che lo incarna si sentono superiori ai miopi e spesso confondono lo spirito della legge con il proprio. L’interesse collettivo con quello personale. Forti del fatto di essere i detentori dello spirito giusto guardano sicuri verso l’orizzonte trascurando cosa calpestino nell’immediato. Per loro il fine giustifica sempre i mezzi. Hanno qualche difficoltà a distinguere l’interesse personale da quello collettivo. Da unti del Signore sono in grado di compiere i crimini più atroci. Cadono dalle nuvole quando gli viene fatto notare perchè le loro intenzioni erano ottime. Per loro contano le intenzioni, appunto, e non i fatti. Miopi e presbiti possono cimentarsi per ore in discussioni sull’opportunità o meno di una certa condotta senza avvicinarsi di una spanna: partono da presupposti opposti.
Le società umane come gli stessi uomini nascono, vivono per un certo periodo e poi muoiono.
La nascità è connessa alla riproduzione consistente nel gioioso mescolarsi dei geni. Gli individui si avvistano alla distanza e si scelgono sommariamente. poi manovrano avvicinamenti, si odorano, si strofinano, si assaporano come esperti sommelier. Infine si tuffano l’uno nell’altro e, per alcuni istanti perdono i propri confini. Alla fine dei giochi la ragione ce l’ha chi ha più successo riproduttivo. Chi fa più figli vince e popola la terra.
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Il corteggiamento non è dunque faccenda marginale, svago del sabato sera, distrazione dagli importanti impegni della quotidianeità. Al contrario tutto il restante affacendarsi è finalizzato ad esso. E’ nella corsa senza esclusione di colpi degli spermatozoi verso l’ovocito che tutto trova significato. Nelle curve tubariche si gioca il palio della vita. La ragione e la verità in realtà si stabilisce a maggioranza e chi ha più elettori vince. Il corteggiamento dunque è faccenda estremamente seria. Anzi l’unica seria.
Sarebbe banale ricordare che maschi e femmine hanno due diverse mercanzie da vendere al gran bazar della riproduzione ma un accenno è utile. Per le femmine è più importante la bellezza segno di una salda capacità riproduttiva: fianchi larghi per partorire e seno florido per allattare. Per gli uomini la capacità di poter proteggere e mantenere la prole e dunque la forza e il potere. Il più preciso indicatore del potere di un uomo è la bellezza della sua compagna e viceversa.
Stante la diversità delle merci da scambiare al gran bazar le strategie per conquistare il mercato possono essere diametralmente opposte : ci sono gli espositori e i celanti.
Gli espositori mettono in mostra la loro merce vi fanno splendere sopra il sole. Richiamano con grida l’attenzione degli avventori, invitano alla prova. Ritengono che la pubblicità sia il fondamento del successo e che la quantità sia più importante della qualità. Sono le donne in bikini succinti o con le piume di struzzo e i gioielli, i rossetti vistosi e i profumi assordanti. Sono gli uomini con le auto di lusso, con i servitori intorno, con divise altezzose o moderni scettri e corone, rolex e imbarcazioni e soprattutto una moltitudine di altri intimoriti: l’uomo potente incute timore. La paura negli occhi degli altri è una misura certa del suo potere. Gli espositori maschi e femmine si attraggono reciprocamente. L’uno diventa per l’altro oggetto da esporre: i tacchi a spillo ticchettano gioiosi al seguito di pesanti stivali, le calze a rete si imprimono volentieri sui sedili di pelle morbida delle maserati.
I celanti invece hanno una innata tendenza a nascondere. Vogliono che sia l’altro ad impegnarsi in una faticosa ricerca del tesoro che sanno essere in loro. Ritengono che la qualità della loro merce sia così superiore da non necessitare di alcuna pubblicità. Scelgono un basso profilo che non esprime autentica modestia quanto piuttosto smisurato orgoglio. Le donne sono acqua e sapone, scarpe basse, gonna castigata o persino pantaloni senza ammiccamenti. Indaffarate in altre faccende, apparentemente disinteressate all’effetto che fanno sui portatori di gameti complementari. Attente a ricomporre i lembi della gonna che risalgono le ginocchia e lascerebbero spiragli tra la coscia e la poltrona. Avvezze a raccogliere gli oggetti flettendo le ginocchia e accucciandosi verso terra piuttosto che a piegarsi con il busto in avanti estroflettendo il sedere che sanno avere l’effetto di uno starter sui partecipanti al palio della vita.
Gli uomini celanti apparentemente disinteressati al potere, spesso di sinistra, gentili e talvolta un po’ femminili, miti, pacati, comprensivi, porgenti l’altra guancia. Odiano le divise e prediligono le uniformi che non sono la stessa cosa. Le prime dividono, distinguono. Le seconde assimilano, omogenizzano Anche i celanti sanno riconoscersi e si attirano tra loro ma soprattutto fuggono con repulsione dagli espositori per i quali provano sincero disgusto. Quando si incontrano il loro scambio, in quanto apparentemente non cercato e casuale, quasi disinteressato, è ancora più esplosivo e travolgente. Le cosce avvezze alla chiusura monastica e i seni normalmente celati da addobbi quaresimali intonano festosi canti pasquali al momento dell’incontro con il loro paziente scopritore. Lo speleoarcheologo gioisce nell’intimo del suo ritrovamento ma vuole tenere lontani i curiosi. La sua gioia è tanto più grande quanto più resta intima e privata.
Tra il momento della nascita a quello della morte c’è un periodo più o meno lungo che consiste nella vita. Questa parentesi può essere vissuta come carnevale o piuttosto come quaresima.
I carnevaleschi si permettono di tutto, sghignazzano, ridono e si divertono per ogni sciocchezza. Non prendono nulla sul serio, scherzano sulla vita e sulla morte. Sono disordinati e caotici. Afferrano ciò che desiderano senza temere le conseguenze. Sembrano non avere nulla da perdere, sono orgogliosi e non si scusano mai. Spesso arroganti e volgari. Agli occhi dei quaresimali sono dissoluti e tristi. I quaresimali invece si trattengono. rinunciano in vista di un bene maggiore. Il piacere è sempre rimandato al futuro ed è frutto di un premio, di una concessione. Sono artisti della frenata, si esaltano nel digiuno e nell’astinenza. Si regalano cilici e penitenze raffinate in attesa della conquista del premio. I migliori arrivano pure a rinunciare all’attesa della ricompensa finale. La rinuncia da strategia si fa scopo. Hanno il timore di scoprire alla fine che il grande arbitro sia un enorme clown.
Come in un quadro di Caravaggio i tenebrosi e i solari si dividono la scena della vita. Gli uni senza gli altri non risalterebbero scomparirebbero in una insignificante tonalità di grigio.
I solari hanno larghi sorrisi, pensieri che traspaiono sui volti, movimenti ampi e inequivoci. Sono di una decisione che viene scambiata per forza e persino per bontà.La gente tende a fidarsi di loro dimentica che Lucifero era uno di loro, spendente e al centro della scena.
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I tenebrosi sanno che ogni astro luminoso ha una faccia nascosta più affascinante e meno svergognata. Nel quadro sanno di avere il ruolo di sfondo su cui far risaltare il solare di turno. Si dispiacciono solo quando vengono identificati con il losco, la cattiveria, la cupezza. Allora possono giungere a fare molto male ma solo per rivendicare il loro ruolo di servi della luce. Nel caso di questa dimensione gli estremi si attraggono con una certa frequenza. Ognuno ha bisogno dell’altro per risaltare. Molte coppie sono formate da un solare e un tenebroso, ognuno al servizio dell’altro.
E’ evidente anche ai non addetti ai lavori che molte delle dimensioni finora descritte si presentano in associazione tra loro con indici di correlazione più o meno forti. Il loro intrecciarsi con delle ripetitività è alla base dei nostri pregiudizi ed anche della possibilità di fare previsioni sugli esseri umani.
Così per alcuni se si è intelligenti molto probabilmente si sarà anche vedette, centrali, lepri, romani, sordinati, celanti, costruttori e presbiti. Per altri invece i piloti saranno anche retti e solari. Le combinazioni possibili sono tante quante gli stessi esseri umani ed è questo il motivo per cui l’insufficienza di qualsiasi classificazione categoriale ci ha spinto a questo incompleto e parziale tentativo di classificazione dimensionale.
BED: Emotional Eating, Risposte allo Stress o Soluzioni di Personalità?
Il BED è una sindrome precisa con chiare manifestazioni nosografiche, che può essere spiegata in base ad aspetti emotivo-comportamentali (ad esempio: incapacità a gestire le emozioni e lo stress) e personologici (temperamento e carattere).
Nella nuova possibile organizzazione nosografica del DSM-5 la classe dei DCA verrà probabilmente trasformata nella classe dei Feeding and Eating Disorders e tra questi appariranno, oltre che AN e BN (già presente in DSM-IV-TR e ICD-10), nuove sindromi tra le quali il BED (Binge Eating Disorder o Disturbo da Alimentazione Incontrollata). Questo disturbo alimentare è attualmente classificato nel DSM-IV-TR nell’area EDNOS (ovvero in appendice tra i disturbi non altrimenti specificati) ed è presente in ICD-10 tra Disturbi della alimentazione (F 50), come Iperalimentazione associata con altri disturbi psicologici (F 50.4).
La scelta del DSM-5 va nella linea di considerare questa patologia non come secondaria ad un altro disturbo psicologico o a esso associata, ma come una patologia di Asse I con chiare manifestazioni sindromiche.
Fig.1 Criteri del DSM-5 per il BED
Di diverso avviso è la categorizzazione dell’ICD, che sostiene che tanto l’Iperalimentazione dovuta a fattori psicologici quanto l’Obesità siano fenomeni reattivi a un disagio primario (F38: sindrome affettiva di altro tipo; F41.2: sindrome mista ansioso-depressiva, etc.).
Mentre la nosografia si interroga sul fatto che il BED sia un quadro clinico a se stante o l’effetto di un altro disturbo psicologico, la ricerca cerca di capire quali siano i fattori che scatenano il sintomo. Alcune teorie sulla manifestazione BED sono state proposte: una prima teoria, la “Restraint Theory”, sottolinea una correlazione tra maggiore restrizione per le diete e un aumento dell’impulsività alimentare (Howard, Porzelius, 1999, cit. in Ricca, Castellini, Favarelli, 2009, p.133); secondo il modello dell’ “Avoidance-Coping” questi soggetti hanno acquisito modalità di reazione (coping) disadattiva-evitante per la gestione di eventi negativi: nello specifico l’atto di BED avrebbe la funzione di ridurre l’autocoscienza negativa (Compare, Grossi, et all., 2012).
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Una certa letteratura in merito valuta il BED come una sindrome che può essere effetto, più che di un altro quadro patogeno, di una modalità di reazione a emotività ed eventi di vita. Questa posizione fa rientrare il BED tra le sindromi Emotional Eating o Stress correlate (Ricca, Castellini, Faravelli, 2009; Compare, Grossi, Germani, et all., 2012).
Questa teoria considera la presenza di una suscettibilità emotiva nei soggetti con BED che giustifica il comportamento alimentare incontrollato. Ad esempio, per Compare et all., 2012 questa sindrome assume una funzionalità specifica nel soggetto affetto, ovvero rispondere con l’atto alimentare a stati emotivi non gestibili o addirittura non riconosciuti, come avviene notoriamente in quadri di somatizzazione: l’iperalimentazione sarebbe un modo per eliminare emozioni negative come rabbia, paura, noia, tristezza e solitudine. Lo spostamento e la somatizzazione tipica del quadro clinico avrebbero funzione difensiva, tanto che non solo il soggetto si troverebbe a mangiare in eccesso, ma anche sceglierebbe alimenti che gratifichino o correlino con lo stato affettivo momentaneo:“Alcuni pazienti sono in grado di descrivere le sensazioni provate durante l’abbuffata e addirittura di scegliere il cibo in base al proprio stato d’animo. I cibi salati, corposi sembrano predominare nei momenti d’ansia, mentre i cibi dolci, caldi, teneri o liquidi prevalgono in condizioni di tristezza.” (Ricca, Castellini, Favarelli, 2009, p.124).
Due modelli molto interessanti che seguono questa supposizione sono l’Affect-driven Models (Masheb, Grilo, 2006) e il modello Trade-off Theory (Stice, Presnell, Bearman, 2001): secondo questi il paziente sostituirebbe grazie all’atto alimentare incontrollato un’emozione negativa insopportabile, ad esempio la rabbia, con una per lui più gestibile, ad esempio la colpa per l’abbuffata.
Questo modello è strettamente legato alla teoria dei circoli patogeni che si innescano nei quadri DCA. Infatti, l’atto dell’abbuffata produrrebbe anch’esso un’emozione sgradevole che però, secondo questo modello, non solo manterrebbe il meccanismo patogeno di funzionamento su una personalità soggetta a stati depressivi, ma anche salverebbe il soggetto dall’esperire emozioni ancora più dolorose.
Come dire: “meglio continuare a sapere che sono io colpevole, sbagliato, perdente, che non provare altro!”. Per Malagoli Togliatti et al. (2008): “Il BED diventa una strategia, seppur disfunzionale, per modulare il versante emotivo tramite la perdita della capacità di autoregolarsi sul versante comportamentale” (p.45). Molti pazienti in effetti raccontano che prima dell’abbuffata si sentono in un certo stato emotivo, che nel tempo imparano a riconoscere come determinante nel meccanismo alimentare e che scompare momentaneamente schiacciato dagli effetti dell’abbuffata e dalle emozioni ad essa associate. Secondo Malagoli Togliatti et al. (2008) è proprio attraverso la scarsa capacità di gestione dell’alimentazione che i pazienti riescono a gestire stati emotivi particolarmente negativi, che possono per il soggetto essere fonte di stress maggiore.
Il ruolo giocato dallo stress nell’insorgenza di disturbi alimentari psicogeni è stato confermato dalla revisione di un ampia letteratura di riferimento da Lo Sauro, Ricca, Batini et al., (2006).
I fattori primari considerati come eventi stressanti per il soggetto e presenti nella storia dei pazienti con DCA sono: eventi precoci traumatici che colpiscono il soggetto (abuso e violenza); eventi familiari che possono essere fonte di stress per il soggetto (lutti, separazioni, genitori patologici, insuccessi scolastici, etc.).
Il peso dell’organizzazione famigliare sul successivo sviluppo di BED è confermato da Malagoli Togliatti et al. (2008, p.41) che definiscono la famiglia del soggetto con BED come: rigida, controllante, molto conflittuale, che limita l’autonomia del soggetto, tendenzialmente socialmente isolata, poco coesa, poco espressiva se non per alti livelli di rabbia e ostilità.
Sembra inoltre sussistere una correlazione biologica tra sistema HPAA, storia di eventi stressanti e DCA: nello specifico si è dimostrata un’ iperattivazione nel rilascio del cortisolo (ipercortisolemia legata ad aumento del CRH) e presenza di storia traumatica in soggetti con DCA, fattori a loro volta associati con impulsività e tratti borderline(Lo Sauro, Ricca, Batini, et all., 2006, p.8). La patologia stessa sarebbe però determinate nell’alterazione del sistema HPA, tanto che non è ad oggi possibile comprendere la causalità precisa tra questi due aspetti. Un evento traumatico precoce avrebbe un ruolo rilevante nell’alterazione di questo sistema e nel successivo modo di gestire altri eventi rilevanti di portata stressogena.
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Allo stesso tempo è stato dimostrato che soggetti affetti da DCA hanno una particolare suscettibilità e sensibilità rispetto agli eventi di vita: tendono infatti a percepire gli eventi non eccessivamente stressanti dando un’accezione maggiormente stressogena. Questo sentimento di stress, nel BED, si accompagna a sensazioni emotive negative e viene infatti colta una correlazione tra stress-obesità e depressione (Compare et all., 2012).
Nei BED stati di forte stress possono generarsi rispetto scelte importanti, separazioni, lutti, novità, e possono indurre il soggetto ad esperire questo senso di incontrollabilità, che sfoga nell’atto alimentare (Compare et all., 2012). È stato anche riscontrato che, a differenza di quanto accade nei soggetti normopeso, nei soggetti obesi sia stati positivi che negativi possono indurre un aumento dell’alimentazione (Lo Sauro, Ricca, Batini et all., 2006). Questa teoria toglie il primato delle emozioni negative come causanti l’abbuffata, sottolineando piuttosto come qualsiasi evento ingestibile possa essere fonte di stress per questi soggetti, a prescindere dalla valenza positiva/negativa dello stesso.
Il fatto che un evento positivo possa essere fonte di stress ci porta però a pensare che più che l’evento o il tipo di emozione, sia rilevante la personalità del soggetto di fronte agli eventi di vita: Cosa produce nel soggetto questa ingestibilità emotiva e comportamentale?
Proviamo a scendere nella struttura di personalità stessa di questi soggetti (Leombruni e Fassino, 2009). Non si intende cogliere quelle che sono le più comuni comorbilità tra personalità e DCA, quanto indagare tratti di personalità rilevanti nella manifestazione e mantenimento della patologia. Leombruni e Fassino (2009) analizzano i tratti di personalità partendo da una revisione della letteratura e da ricerche compiute con il TCI, strumento che indaga le dimensioni e le caratteristiche di personalità secondo il modello Cloninger.
Nei pazienti emergeva un incrocio dimensionale caratterizzato da alta “ricerca di novità”, alto “evitamento del danno”, “autodirettività inadeguata”.
Queste dimensioni andavano a spiegare alcuni aspetti psicopatologici dei soggetti con BED: l’alto evitamento del danno, dimensione temperamentale tipica dei BED, attiene allo spettro depressivo, più volte riconosciuto come caratteristica dei pazienti; questo aspetto spiegherebbe la tendenza alla deflessione del tono dell’umore, maggior rischio suicidario, peggiore qualità della vita (aspetti evidenti nei soggetti obesi-BED).
La dimensione della ricerca di novitàspiegherebbe la continuità impulsività-compulsività altrettanto tipica dei pazienti BED e che determina l’atto di abbuffata come risposta a eventi stressogeni o emotivamente ingestibili e le emozioni negative di colpa e di vergogna secondariamente esperite.
L’indicatore più rilevante, secondo gli Autori, è però la dimensione dell’autodirettività inadeguata: immaturità e fragilità, irresponsabilità e inaffidabilità, mancanza di propositività, inerzia, povertà di risorse, comportamenti non indirizzati a obiettivi a lungo termine, etc. (p.164). Questa dimensione può addirittura condizionare l’andamento della terapia. Questo aspetto infatti indicherebbe una mancanza di giudizio di sé, una debole strutturata identità e impulsività/instabilità che spiegherebbero le oscillazioni timiche e comportamentali, in mancanza di sane risorse personali.
Questi tratti emergono e persistono anche allo scomparire della sintomatologia clinica, che ha invece una funzione organizzativa per queste caratteristiche del soggetto, consentendo al soggetto di gestire con il gesto alimentare la forte emotività e instabilità personale.
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L’attenzione data all’aspetto del temperamento e del carattere ripropone l’importanza, nello sviluppo di queste patologie, di una organizzazione psico-biologica che interagisce con una sistemica e con eventi di vita. In quest’ottica il BED è di certo una sindrome precisa con chiare manifestazioni nosografiche, che può essere spiegata anche in base ad aspetti emotivo-comportamentali (ad esempio: incapacità a gestire le emozioni e lo stress) e personologici (temperamento e carattere); essa può anche essere letta come la soluzione sviluppata del sistema-soggetto nell’intreccio rispetto a fattori organizzativi interni ed esterni.
Cogliere le dimensioni personologiche, oltre al sintomo nosografico, può aiutare a comprendere e leggere la patologia come una risposta comportamentale che funge da “stampella” psicopatologica in un soggetto non dotato di altre soluzioni.
Compare, A., Grossi, E., Germani, E., et al. (2012). Emotional Eating e Binge Eating: Stress e disturbi del comportamento alimentare. In Compare, A., Grossi, E., (Eds.), Stress e disturbi da somatizzazione, Springer, Milano, pp. 203-230
Leombruni, P., Fassino, S. (2009). Personalità e Binge Eating Disorder. Noos, Aggiornamenti in Psichiatria, 15, (2), pp. 161-174.
Lo Sauro, C., Ricca, V., Batini, S., et al. (2006). Stress e disturbi alimentari psicogeni. Giornale Italiano di Psicopatologia, 12, pp. 5-19.
Malagoli Togliatti, M., Micci, A., Di Benedetto, R., (2008). Binge Eating Disorder: analisi di una storia clinica. Giornale di Psicologia, 2, (1-2), pp. 39-46. (DOWNOLAD)
Nell’infanzia vengono svolte una serie di attività che fanno emergere i tratti di personalità del futuro individuo.
Il gioco, lo svolgere compiti insieme (ad esempio chi fa copiare e chi, invece, si rifiuta), fare uno sport, aiutarsi, litigare, inserirsi in un nuovo ambiente, affrontare insieme una frustrazione, etc. sono una metafora della vita che permettono di rivelare l’indole di una persona.
Quest’ultima viene intuita al meglio dai propri coetanei grazie alla quantità e all’intensità del tempo trascorso insieme.
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In uno studio canadese conosciuto come il Concordia Longitudinal Risk Project, sono stati monitorati i tratti della personalità di oltre 700 persone, sia da bambine sia da adulte.
La ricerca è stata iniziata nel 1976 da Alex Schwartzman e Jane Ledingham del Dipartimento di Psicologia della Concordia University. Attualmente è portata avanti da Lisa Serbin e Alexa Martin-Storey.
In una prima parte, i giovani volontari sono stati sottoposti a questionari in cui veniva chiesto di formulare un auto-valutazione sui loro principali tratti di personalità (aggressività, lealtà, timidezza, ambizione, socievolezza) e successivamente veniva domandato di esprimersi in merito alle stesse caratteristiche sui compagni di scuola e di giochi. Per più di vent’anni i ricercatori hanno poi continuato a seguire gli intervistati, monitorandone le esperienze di vita, delineando la loro realtà e ripetendo i questionari nel tempo. A conclusione dello studio, tra il 1999 e il 2003, i ricercatori hanno attribuito un punteggio ad alcuni tratti della personalità dei volontari, prendendo in esame l’estroversione, l’affidabilità, la socievolezza, la correttezza, le nevrosi e la coscienziosità. In totale i ricercatori hanno collezionato 30 anni di dati per concludere che le valutazioni date dal gruppo di coetanei erano strettamente associate con gli eventuali esiti nell’età adulta, a scapito delle proprie percezioni di personalità effettuate durante l’ infanzia.
Ad esempio, i bambini che sono percepiti come socialmente ritirati dai coetanei, crescendo e divenendo adulti, sviluppano livelli più bassi di estroversione. Dai risultati è emerso che quest’ultimo aspetto è un’associazione più accurata rispetto alle altre.
Concludendo, i bambini hanno maggiori occasioni di frequentazione, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, inoltre non hanno ancora sviluppato le sovrastrutture proprie dell’età adulta. Ciò permette l’immediatezza e l’istintività dei comportamenti senza ricorrere a filtri, facendo così emergere la vera natura dell’individuo: la timidezza, la propensione al successo, la socievolezza, l’aggressività. Tutto questo si rivela soprattutto con i nostri compagni di infanzia che localizzano i punti forti e deboli, presenti e futuri con giudizi veritieri e vicini alla realtà della persona adulta.
Alla luce degli studi sulle nuove dipendenze, la Love-addiction evidenzia la complessità della relazione con l’altro, un partner spesso sfuggente e critico che tuttavia si insegue spasmodicamente poiché oggetto di dipendenza (Giddens, 1992) e che, come tale, presenta le caratteristiche di “ebbrezza” (sensazione conseguente allo stare insieme al partner) e “dose” (quantità di tempo sempre maggiore da spendere all’interno della coppia).
Recenti ricerche mostrano come alcuni comportamenti genitoriali, caratterizzati da una particolare tipologia di rimprovero, possano avere delle ripercussioni sullo sviluppo della personalità dei figli. In particolare, un costrutto relazionale caratterizzato da un atteggiamento intrusivo e poco rispettoso, quale è il criticismo, tende a minare fortemente l’autostima del soggetto criticato, che mostra una certa tendenza a costruire l’identità e la stima di se sull’ opinione degli altri (Apparigliato, Ruggiero, Sassaroli, 2007).
Tale elemento potrebbe, in qualche modo, essere correlato con il bisogno ossessivo di sicurezza e di aspettative non realistiche, che si manifesta nel bisogno continuo di rassicurazioni, mai appaganti del tutto, nei confronti del proprio compagno. Tali aspettative vengono mantenute dal pensiero di fondo che vede il partner come “colui che arriva a salvare”, lo scopo dell’esistenza, qualcosa di cui non si può più fare a meno nell’illusione che colmi una paura schiacciante.
Ma quale caratteristica di personalità tende a correlare maggiormente con la Love-Addiction? E in che modo la quantità e la forma delle critiche subite contribuiscono all’insorgere dell’amore patologico?
Per rispondere a questi quesiti è stato preso in esame un gruppo di 80 soggetti facenti parte della popolazione generale ai quali sono stati somministrati dei questionari self report. Dallo studio effettuato è possibile affermare che vi è una particolare caratteristica di personalità, l’evitamento del danno (secondo la teoria di Cloninger), che è collegata al criticismo, e che a loro volta, predicono la dipendenza affettiva.
In particolare è la quantità più che la forma della critica a spostare l’attenzione all’esterno e a dirigere le proprie preoccupazioni verso l’oggetto che più evidenza le mancanze e l’inadeguatezza del soggetto dipendente. Si innesca una sorta di ciclo che porta alla ricerca continua e sempre maggiore del partner ideale.
Apparigliato M., Ruggiero G.M., Sassaroli S. (2007), “Il Perceived Criticism Inventory (PCI): un nuovo strumento di valutazione del criticismo genitoriale”, Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, vol.13-n.3, Edizioni Erickson, Trento.
Gabriele Melli commenta gli studi presentati, i quali chiariscono il ruolo della colpa e del disgusto nel Disturbo Ossessivo Compulsivo.
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un disturbo caratterizzato da ossessioni e compulsioni. Le prime sono pensieri, immagini o impulsi che si presentano ripetutamente, sono intrusive, fuori dal controllo di chi li sperimenta e da lui giudicate come preoccupazioni eccessive, infondate e insensate; sono spesso accompagnate da emozioni quali paura, disagio, disgusto. Le compulsioni sono invece comportamenti ripetitivi (es. lavarsi le mani) o azioni mentali (es. contare) volte a ridurre il disagio causato dalle ossessioni. (Melli, 2003)
Tra le ossessioni più diffuse troviamo il timore della contaminazione, ovvero “un’intensa e persistente sensazione di essere stato contaminato o infetto o messo in pericolo come risultato di un contatto, diretto o indiretto, con una persona, un luogo o un oggetto percepito come sporco, impuro, infetto o dannoso” (Rachman, 2004). La contaminazione può essere fisica, in cui il contaminante è percettibile (es. germi), oppure mentale, cioè una sensazione interna di sporco; entrambe suscitano il bisogno di lavarsi, ma solo nel primo caso si ottiene sollievo, seppur a breve termine.
Zhong & Liljenquist (2006) hanno osservato che esiste un’associazione tra pulizia fisica e morale: l’esposizione a eventi immorali attiva una minaccia alla propria purezza morale che induce la necessità di lavarsi. Curiosamente la contaminazione mentale può essere indotta in laboratorio come conseguenza di un evento immaginato: suscitando nei soggetti sperimentali sentimenti interni di sporco si induce in loro un bisogno di lavarsi; è il cosiddetto Effetto Lady Macbeth (Elliott & Radomsky, 2009; 2012).
Partendo da tali osservazioni Francesco Bulli ha illustrato lo studio condotto presso l’IPSICO (Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva) di Firenze nel tentativo di comprendere quale ruolo giochi la contaminazione mentale nella sintomatologia Disturbo Ossessivo Compulsivo, in particolare nei pazienti con rituali di lavaggio. Dallo studio è emerso che la contaminazione mentale correla molto bene con il timore di contaminazione e funge da mediatore significativo nella relazione tra colpa e rituali di lavaggio e anche nella relazione tra propensione al disgusto e sintomi ossessivi.
Considerando che la contaminazione mentale può essere generata da eventi traumatici o dal ricordo di eventi negativi, e che le emozioni di colpa e disgusto paiono essere degli “affect without recollection”, ovvero emozioni intense scatenate da stimoli associati ad un trauma di cui non si ha memoria, in analogia con il Disturbo Post Traumatico da Stress la contaminazione mentale sembra essere un problema di memoria e di difficoltà nell’elaborazione di eventi passati. Ciò ha un’importante implicazione clinica: si potrebbe integrare l’EPR (Esposizione e Prevenzione della Risposta, tecnica elettiva nel trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo) con l’EMDR o l’Imagery Rescripting con l’obiettivo di elaborare eventi traumatici precipitanti ed integrare nella memoria autobiografica del paziente l’evento critico che ha scatenato la sensazione interna di sporco e l’idea negativa di sé, aumentando così l’efficacia della tecnica.
Come suggerisce Mancini, forse si dovrebbe parlare di disgusto morale più che di contaminazione mentale: il timore di aver commesso atti immorali e il conseguente senso di colpa suscitano pensieri e sensazioni di sporco morale (ed emozione di disgusto) e il desiderio di pulizia fisica per ripristinare il benessere.
Il senso di colpa appare quindi centrale nel Disturbo Ossessivo Compulsivo. Ma di quale senso di colpa stiamo parlando? In letteratura si distingue tra colpa altruistica (che nasce dalla credenza di aver creato un danno ad un altro o di non averlo aiutato) e colpa deontologica (che nasce dalla credenza di non aver rispettato l’autorità morale e le sue regole). “Il comportamento ossessivo sembra essere guidato dallo scopo di prevenire e neutralizzare la possibilità di essere colpevole” afferma Francesca D’Olimpo “e nei pazienti Disturbo Ossessivo Compulsivo sembra sia la colpa deontologica, più che un senso di colpa generale, a giocare un ruolo importante”.
In linea con queste considerazioni, Barbara Basile ha mostrato i risultati ottenuti da uno studio fMRI volto ad indagare i correlati neurali coinvolti nell’elaborazione del senso di colpa in pazienti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo. Dallo studio è emerso che “i pazienti Disturbo Ossessivo Compulsivo mostrano una risposta cerebrale anomala durante l’elaborazione della colpa, in particolare della colpa deontologica (ma non di quella altruistica), notoriamente associata all’aumentato senso di responsabilità e alla sensibilità al regret, comunemente coinvolte nell’esordio e nel mantenimento del Disturbo Ossessivo Compulsivo”.
Abbiamo chiesto a Gabriele Melli, chairman del simposio, un commento ai rigorosi studi scientifici presentati che hanno tentato di chiarire il ruolo delle emozioni di colpa e disgusto nella patogenesi del Disturbo Ossessivo Compulsivo. Concordiamo con lui sul fatto che è stato un simposio ricco di stimoli, a tal punto che il tempo a disposizione si è rivelato purtroppo nettamente insufficiente.
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Lo ringraziamo nuovamente per la disponibilità e vi riportiamo qui di seguito la sua dichiarazione in esclusiva per State of Mind.
“Dagli studi presentati sono emerse importanti conferme rispetto all’importanza di indagare il ruolo che nel singolo paziente affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo riveste la moralità e di approfondire la raccolta della storia di vita per individuare quegli eventi che possono aver intaccato il senso di sé come persona degna e moralmente integra, innescando lo scompenso ossessivo. La riduzione del senso di colpa di tratto e la rielaborazione emotiva di esperienze “traumatiche” che possono aver minato il senso di dignità morale della persona sembrano essere ingredienti essenziali del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo, soprattutto del sottotipo con rituali di lavaggio resistente ai tradizionali interventi di esposizione e prevenzione della risposta.”
Ci auguriamo che le interessanti evidenze scientifiche presentate alla SITCC forniscano nuovi spunti in ambito clinico per migliorare sempre di più l’efficacia del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo andando ad intervenire anche sui fattori causali della sofferenza psicologica, per esempio lavorando sulla riduzione del senso di colpa per diminuire la frequenza dei rituali compulsivi di lavaggio.
T. Cosentino, B. Basile, F. Mancini, G. Romano, & D. Capobianco. Il disturbo ossessivo-compulsivo in relazione al timore di colpa ed al disgusto
F. Bulli, C. Carresi, E. Stopani, & G. Melli. Contaminazione mentale, colpa, propensione al disgusto: quale relazione con i sintomi ossessivo-compulsivi?
F. D’Olimpo, F. Mancini, G. Romano, & A. Saliani. Rituali di lavaggio e sensi di colpa: alcune colpe sono più lavabili di altre?
B. Basile, M. Bozzali, E. Macaluso & F. Mancini. Substrato neurale dell’elaborazione delle emozioni di colpa nel disturbo ossessivo-compulsivo
Molte specie animali trasmettono informazioni tramite segnali chimici, ma il ruolo che questi hanno nella comunicazione umana e nella sintonizzazione emotiva ancora non è chiaro.
Un nuovo studio condotto all’Università di Utrecht ha cercato di scoprire se gli esseri umani sono in grado di provocare sintonizzazione emotiva attraverso segnali chimici.
È noto che l’espressione delle emozioni (e la sintonizzazione emotiva) ha diverse funzioni: i segnali di paura, per esempio, non solo aiutano a mettere in guardia gli altri dal pericolo ambientale, ma sono anche associati a comportamenti che conferiscono un vantaggio di sopravvivenza attraverso l’acquisizione sensoriale; è dimostrato infatti assumere un espressione spaventata induce a respirare di più attraverso il naso, migliora la percezione e accelera i movimenti oculari in modo da poter individuare obiettivi potenzialmente pericolosi più rapidamente. I segnali di disgusto, invece, permettono di avvertire gli altri di evitare le sostanze chimiche potenzialmente nocive e sono associati con il rifiuto sensoriale, facendoci abbassare le sopracciglia e arricciare il naso.
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I ricercatori hanno voluto esaminare il ruolo dei segnali chimici nella comunicazione sociale, partendo dall’ipotesi che le sostanze chimiche contenute nelle secrezioni corporee, come per esempio il sudore, avrebbero attivato processi simili sia nel mittente che nel destinatario, in una sorta di sincronia emotiva, portando ad una sintonizzazione emotiva.
Per verificare questa ipotesi, gli sperimentatori hanno raccolto il sudore di alcuni uomini mentre guardavano film in grado di suscitare paura o disgusto. Gli uomini hanno seguito un rigido protocollo per evitare possibilità di contaminazione: nei due giorni antecedenti l’esperimento, non gli era permesso fumare, praticare esercizio fisico eccessivo, consumare cibi speziati o alcool, e profumi per il corpo.
Un gruppo di donne è poi stato esposto ai campioni sudore prelevati, mentre eseguiva un compito di ricerca visiva, durante il quale le loro espressioni facciali venivano registrate e i movimenti oculari tracciati.
Come previsto, sia i segnali chimici di paura che quelli di disgusto hanno indotto, nelle donne che vi erano state esposte, espressioni facciali corrispondenti e comportamenti di l’acquisizione o il rifiuto sensoriale coerenti con l’emozione evocata.
Questi risultati sono importanti perché sono una prova del fatto che la comunicazione umana non avviene esclusivamente attraverso il linguaggio e riferimenti visivi, ma anche grazie alla trasmissione di segnali chimici in grado di provocare sintonizzazione emotiva tra mittente e destinatario, al di là della loro consapevolezza.
Questo tipo di meccanismo potrebbe essere alla base del fenomeno di contagio emotivo che si verifica in una densa folla di persone.
Dimensione Sociale e Affettività del WEB 2.0: Rischi e Risorse
Di Emma Fadda
Ecco quindi il lato oscuro di internet, noto anche come Cybercrime, che come sottolineano gli esperti è in costante aumento in Italia, prendendo le vesti dei sempre più noti fenomeni di cattura dei dati sensibili, accesso abusivo (phishing), grooming on-line, cyberbulling, cyberstalking, ricatti ed estorsioni, frodi on-line, gioco d’azzardo e spaccio di droga on-line, pedopornografia e Social Engineering.
Viviamo ormai nell’ “Era di Internet”, o meglio nell’Era del “Web 2.0”. Ci troviamo di fronte a un fenomeno di grandissima portata, che ha avuto un effetto e influenzato la vita di molti, non solo i giovanissimi ma anche gli adulti over 40 e 50 che si sono lanciati nel mondo virtuale e sembrano non riuscire a vivere più senza.
Oltre il nostro pc si apre un vero e proprio mondo, una dimensione parallela a quella reale, fatta di scopi, regole, simboli e norme tutte sue, dove l’intenzione comunicativa, l’espressione emotiva e la costruzione di legami avvengono in assenza della presenza corporea, passando attraverso parole, immagini, simboli ed emoticon.
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Ma che cosa è il web 2.0 e perché ci piace tanto? Ma soprattutto, quali sono le risorse e i pericoli ad esso connessi? Questo è il tema a cui le ACLI -Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani- della città di Cagliari, in collaborazione con l’Associazione A.Doc, hanno dedicato il Congresso tenutosi a Cagliari lo scorso 26 Ottobre, dal titolo “Reati informatici. Risorse e pericoli della comunicazione in rete”, nel corso del quale è stato possibile apprezzare il contributo di professionisti esperti nel settore quali gli Avvocati Francesco Paolo Micozzi e Giovanni Battista Gallus, l’Ispettore capo della Polizia di Stato, Sezione Polizia Postale e delle Comunicazioni, Roberto Manca e la Professoressa Marina Mura, Ricercatrice di Psicologia Sociale presso l’Università degli Studi di Cagliari.
Ma partiamo da alcune definizioni. Con il termine Web 2.0 si indica di solito uno stato dell’evoluzione del World Wide Web, rispetto a una condizione precedente: l’insieme cioè di tutte quelle applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione tra il sito web e l’utente, ottenute tipicamente attraverso opportune tecniche di programmazione Web afferenti al paradigma del Web dinamico in contrapposizione al così detto Web statico, o Web 1.0.
La grande innovazione che ha portato questo nuovo modo di concepire il web risiede nella sua filosofia di base, quella cioè di valorizzare al massimo la dimensione sociale, della condivisione, dell’interazione, della possibilità da parte dell’utente non solo di usufruire di un servizio ma di poterne creare e modificare i contenuti multimediali.
Motori di ricerca come Google, siti come Youtube e Wikipedia, le Chat, i Forum, i Social Network come Facebook, Twitter e Linkedin non sono solo facilmente accessibili e fruibili da tutti ma si fanno portatori di una logica orientata alla valorizzazione della dimensione sociale. Ma c’è molto di più. Il nuovo web non solo rappresenta il nuovo mondo dello svago e la moda del momento (per cui non avere un profilo facebook è considerato “out”), ma rappresenta anche una vera e propria vetrina utilizzata da molti soggetti privati ed aziende a scopo professionale e lavorativo.
Internet piace tanto perché di fatto rappresenta uno straordinario mezzo di comunicazione, che ci permette di interagire con altre persone, di socializzare, di costruire e mantenere nel tempo legami sociali che superano le barriere della distanza fisica.
Nel web controlliamo i nostri conti e facciamo velocemente e con facilità operazioni bancarie; nel web facciamo shopping, troviamo qualunque genere di cosa, a qualunque prezzo. Con internet lavoriamo, basti pensare all’utilità della posta elettronica e alle piattaforme aziendali costruite ad hoc per finalità lavorative. E infine internet risponde perfettamente al bisogno tutto umano di conoscenza, di esplorazione, di soddisfazione delle nostre curiosità: su internet possiamo scoprire tutto ciò che vogliamo, solamente con un click.
Questo il volto buono del web, questo, come ha sottolineato l’ Avv. Micozzi, il volto buono dell’hacking che, a differenza di quanto molti pensano, nasce negli anni ’50-’60 con una accezione positiva. Dal verbo inglese to hack, che significa aprire, fare a pezzi, l’hacking nasce come quell’insieme di metodi e tecniche utilizzate al fine di scoprire, conoscere, accedere e modificareun certo sistema.
L’ hacker, solitamente giovanissimo e dotato di spiccate doti in ambito matematico e informatico, si contraddistingueva quindi per la smania di mettersi alla prova, di risolvere enigmi, di esplorare illimitatamente al fine di arrivare a una approfondita conoscenza del sistema su cui interveniva, per poi essere in grado di accedervi o adattarlo alle proprie esigenze. È solo negli anni 2000 che il termine hacking acquista la connotazione negativa con cui oggi lo conosciamo, ovvero identifica una tipologia di operazioni e comportamenti del tutto illegali volti a “rompere, distruggere”, danneggiare l’altro.
Ma cosa è cambiato da ieri ad oggi? E’ cambiata di fatto la motivazione dell’hacker, il suo sistema degli scopi: la dimensione ludica ha lasciato spazio alla sete di denaro, il bisogno di esplorare alla possibilità di danneggiare l’altro, il rispetto della legalità all’illegalità.
La Norton by Symantec, casa di software famosa per il celebre antivirus, ne da la più recente dimostrazione attraverso la realizzazione di una ricerca molto specifica circa i crimini informatici avvenuti in tutto il mondo nell’anno 2012. Il Norton Cybercrime Reportcondotto su 13.000 adulti dai 18 ai 64 anni in 24 Paesi analizza in dettaglio la natura e l’impatto delle azioni degli hacker e dei pirati informatici a danno degli utenti consumer.
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Emerge quindi che l’Italia non se la passa bene. I risultati hanno mostrato come, rispetto allo scorso anno, i casi direttamente associabili ai social network e ai dispositivi mobili siano in aumento, con circa il 21% del campione degli intervistati vittima di un attacco scagliato attraverso gli smartphone o i profili di Facebook e Twitter.
“Ciò che più balza all’occhio del rapporto sono i numeri relativi ai costi diretti, ovvero gli oneri finanziari subiti a causa di frodi, furti e riparazioni di device, generati dalle attività dei cybercriminali negli ultimi 12 mesi: 110 miliardi di dollari a livello globale e poco meno di 2,5 miliardi di euro a livello italiano”. Ciò significa che in Italia sono 8.9 milioni le persone rimaste vittime di crimini informatici nell’ultimo anno, con una perdita stimata dei 275 Euro (Rusconi G., 2012).
Ecco quindi il lato oscuro di internet, noto anche come Cybercrime, che come sottolineano gli esperti è in costante aumento in Italia, prendendo le vesti dei sempre più noti fenomeni di cattura dei dati sensibili, accesso abusivo (phishing), grooming on-line, cyberbulling, cyberstalking, ricatti ed estorsioni, frodi on-line, gioco d’azzardo e spaccio di droga on-line, pedopornografia e Social Engineering.
Se quindi gli hacker sono riusciti ad utilizzare il web per fini per così dire “poco legali” ciò significa che probabilmente questi stessi strumenti non sono sempre sicuri, per cui si stima che circa una persona su 10 abbia subito un “furto di identità” dal proprio profilo e il 10% dei maggiori frequentatori di social network sia rimasto vittima di link fraudolenti o contraffatti.
Secondo la ricerca e come riportato dalle testimonianze degli esperti la scarsa attitudine degli utenti ad utilizzare misure di protezione sul web è la principale causa dei continui attacchi. Il Report sottolinea che solo il 33% degli utenti utilizza effettivamente un software di protezione dei propri dati e ben il 44% degli italiani non utilizza password complesse di accesso alla propria casella di posta o ai propri profili sui social network e cambia le proprie parole chiave frequentemente. Ecco che quindi gli internauti, un po’ per ignoranza e un po’ per disattenzione si mettono a rischio nel mondo del web, diventando prede appetibili per i cybercriminali.
Per questo motivo, come sottolinea l’Ispettore Manca, la prevenzione in questo ambito deve iniziare con l’informazione, quindi l’acquisizione di semplici regole di navigazione che rendano gli utenti consapevoli quando si muovono nel mondo di internet dei rischi a cui possono andare incontro. E questo non vale solo per gli adulti, ma soprattutto per i giovanissimi e gli adolescenti, maggiori fruitori del web, che non solo molto spesso non hanno consapevolezza circa i rischi in cui possono incorrere nel web ma neanche di quelli che sono i confini tra legalità e illegalità.
E quando parliamo di adolescenti non possiamo non soffermarci su un altro grave rischio che le nuove evoluzioni del web, in particolare dei social network, portano con se. Come ha sottolineato la Prof.ssa Mura, un uso inadeguato del web si pone come ostacolo alla costruzione dell’identità nell’adolescente, da intendersi come vero e proprio compito di sviluppo.
Se infatti i social network consentono di entrare in relazione, rispondendo quindi al bisogno tutto umano di esprimere la nostra identità, tale espressione non può che avvenire solo in modo frammentario, flessibile, precario e incerto, dando vita ad identità fluide che si esprimono attraverso parole, frasi, emoticon frammentarie.
Internet diventa un mondo virtuale, che pur avendo tutte le sembianze di quello reale, consente comunque ai giovani adolescenti di essere e non essere quello che vogliono e di incarnare le identità più disparate. Tutto ciò in un ambiente che loro percepiscono come “protetto”, dove l’assenza del corpo garantisce l’anonimato. Tutto ciò a un caro prezzo, ovvero che non solo la comunicazione non può passare attraverso il corpo, ma che l’incontro con l’altro (dove la corporeità assume un ruolo centrale) non consente di coglierne l’intenzionalità, la dimensione emotiva, il sistema degli scopi, delle credenze e dei desideri, elementi chiave al fine di costruire una Teoria della Mente dell’altro, che guidi la costruzione di sani legami affettivi.
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Offendere, criticare e danneggiare l’altro diventa più facile nel web proprio perché l’altro non è visto, le emozioni sono ovattate e perdono di consistenza. In questa dimensione di analfabetismo emotivo e di appiattimento dell’intensità emotiva diventa quindi chiaro come fenomeni di minaccia, violenza e diffamazione quali il bullismo, lo stalking e il fanatismo trovino sempre più spazio e diffusione.
Si apre quindi una nuova e difficile sfida per noi psicologi e psicoterapeuti che ci troviamo a lavorare con gli adolescenti di oggi, che ci obbliga a calarci in una dimensione complessa fatta di compiti di sviluppo, limiti e risorse individuali e nuovi e vecchi scopi e bisogni che devo trovare funzionalmente espressione e soddisfacimento stando al passo con un mondo, quello della tecnologia e delle comunicazioni, che velocemente fa passi da gigante, proiettandoci in un mondo tanto affascinante quanto a tratti oscuro.
È qui che i “nativi digitali” rappresentano la categoria di individui più a rischio, rispetto ai quali il contesto socio-culturale, scolastico e familiare si troverà nei prossimi anni ad affrontare la sfida educativa più ardua, che non potrà fare a meno di fondarsi sull’avvicinamento dei giovani al piacere per le forme di interazione sociale e relazionalità più vere e genuine fondate sulla presenza, sull’ascolto, la condivisione e la cura reciproca dell’emotività.
Skyfall – James Bond e la Depressione del Narcisista – Recensione –
…finché ferve la lotta, finché siamo circondati da interni edesterni nemici, è sacro dovere il rimanere uniti e sacrificare ogni secondaria e privata considerazione,
alla causa cui ci siamo dedicati, al bene del paese, che ci ha affidato le sue sorti… Camillo Benso Conte di Cavour, Lettere.
Skyfall (2012). Locandina
James Bond è davvero solo un uomo che sta faticando a fare un passaggio generazionale?
SPOILER ALERT! NELL’ARTICOLO VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA DEL FILM
Il film è bello con alcune scene nella prima mezz’ora che lasciano sbalorditi in una Singapore di neon e vetri che ci fa sentire antichi e obsoleti. Si il mondo è cambiato e il nemico non è più fuori, dai russi, e neanche dagli asiatici, ma all’interno, nella follia, nel dolore e dentro la stessa struttura. Combattere nel cyberspazio che i nemici hanno a disposizione è più difficile, i computer fanno esplodere bombe, rintracciano le persone in corso di inseguimento, inventano minacce per svuotare interi ambienti, e tutto diviene fluido, in real time, difficilmente comprensibile.
In questo mondo conta più un hacker ventenne geniale che le vecchie sapienze dei servizi. E l’uomo? Serve ancora l’uomo che fa connessioni mentali, ha muscoli e testa e sentimenti? James Bond serve ancora all’Inghilterra? E conta ancora l’Inghilterra in questo mondo cinese, asiatico, tutto diverso dal mondo in cui Bond ha imparato il mestiere di 007?
La nuova tecnologia annulla le vecchie abilità che la corona inglese ha costruito nel corso della guerra fredda? E se i nemici sono ormai dentro di noi, vuol dire che non c’è più tragedia che arrivi dall’esterno? In questo film il cattivo è anche un personaggio in fondo vittima e capace di farci identificare con lui. Ci fa paura ma allo stesso tempo è terribilmente umano nelle sue ossessioni.
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E James Bond come può cambiare? I vecchi James Bond erano uomini a tutto tondo, sempre belli, a posto, eleganti. Il loro mondo affettivo era anestetizzato, il narcisismo elegante e un po’ blasé, la loro seduttività si esibiva con le donne più belle del mondo che non avevano un anima complessa ma erano soprattutto ornamentali. Buone o cattive, ma soprattutto ornamentali. E in quel mondo i cattivi erano veramente cattivi e i buoni interamente buoni. Bond difendeva il mondo dei buoni contro il mondo dei cattivi. Ma ormai non è più così.
James Bond in questo film rimane il vecchio narcisista che era, ma ha avuto un tradimento ed è invecchiato, acciaccato, triste e sfiduciato. Ha avuto un incidente, si dubita delle sue competenze. Forse lascia, va via, rinuncia. Il film è pieno di dilemmi morali, sparare a due persone che si picchiano su un treno in corsa sapendo che si può uccidere l’amico e il collega, inseguire il nemico non soccorrendo il vecchio amico che sta morendo. Avere colpe, dubbi, depressione. Tutta questa complessità morale e sentimentale fa bene al caro vecchio James Bond?
Certo gli rimangono le certezze morali, la sua resistenza al sostegno delle sue idee e della causa della corona inglese anche in momenti in cui tutto lo porterebbe a tradire. La sua resistenza, la sua forza sono basate sulla tenuta a un trauma infantile che poteva ucciderlo o renderlo un vinto ma lo ha reso invece più fiducioso in se stesso. La sua casa sono i servizi segreti, la sua unica casa, ed M, il suo capo donna, è la figura di riferimento sia sentimentale che morale. Al di là di tutti i dubbi, le durezze, i tradimenti.
Questo Bond malinconico, autoconsapevole dei suoi limiti, consapevole anche della relatività dei valori, disincantato e assuefatto alle seduzioni di donne sirene, che forse cominciano ad annoiarlo, ci piace perché ha fatto i conti con i suoi traumi e il suo passato (forse in modo un po’ troppo alcolico, ma qualche ausilio, diamine lasciamoglielo).
Ma ci lascia qualche perplessità, proprio per questo. Come andrà a finire con Moneypenny? L’umanizzazione di Bond lo farà fermare, si accaserà? Sarà capace di amare, grazie alla consapevolezza della morte e del dolore? Ma non diventerà troppo umano, non farà bambiniguardando la televisione la sera mentre lei gli dice: svuota la lavatrice per favore? E noi come faremo senza il sogno della sua onnipotenza?
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Oppure Bond riuscirà a rimanere forte perché è capace di integrare il nuovo con la tragica consapevolezza della relatività di tutto. Alla fine due sono i fattori fondamentali del suo successo: il primo è la forza morale che lo fa vincere perché è la bussola che lo conduce ad affrontare in modo acuto e innovativo i momenti di crisi anche nelle relazioni con i suoi capi; il secondo è la capacità di affrontare in modo flessibile il suo trauma e i suoi problemi, una forza che si fa flessibile per adeguarsi al nuovo che altrimenti lo schiaccerebbe.
In questo film tutti i buoni vincono perché sono flessibili, non perché sono unicamente buoni. Un certo coraggio morale insieme alla fedeltà ai vecchi principi che ammiriamo, e una flessibilità consapevole molto adatta alla modernità. Dopo avere superato la depressione del narcisista, James Bond ridiventa il superuomo che era e ci fa di nuovo sognare.
Il livello di testosterone nelle prime fasi di vita del feto influenza la successiva sensibilità di regioni cerebrali correlate all’elaborazione della ricompensa.
Secondo uno studio, condotto da Michael Lombardo e Simon Baron-Cohen dell’Università di Cambridge, il livello di testosterone nelle prime fasi di vita del feto influenza la successiva sensibilità di regioni cerebrali correlate all’elaborazione della ricompensa, influenzando in questo modo la tendenza individuale ad attuare comportamenti, che in condizioni estreme, sono correlati a diverse condizioni neuropsichiatriche che colpiscono un sesso più dell’altro.
Anche se presente a livelli bassi nelle donne, il testosterone è uno degli ormoni sessuali che esercita un’influenza rilevante sull’emergere delle differenze tra maschi e femmine.
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Negli adulti e negli adolescenti, un livello elevato di testosterone ha dimostrato di ridurre la paura, indurre minore sensibilità alla punizione, aumentare il rischio, e migliorare l’attenzione alla minaccia.
Questi effetti interagiscono con il contesto nell’influenzare il comportamento sociale, in particolare l’equilibrio tra i comportamenti di avvicinamento e di evitamento, che sono intensificati negli anni dell’adolescenza e appaiono estremi in molte malattie neuropsichiatriche, tra cui disturbi del comportamento, la depressione, l’abuso di sostanze, l‘autismo, e la psicopatia.
Gli scienziati sanno da tempo che le differenze sessuali influenzano molti aspetti dei disturbi psichiatrici, tra cui l’età di esordio della malattia, l’incidenza e la suscettibilità individuale. Ad esempio, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la depressione è due volte più comune nelle donne rispetto agli uomini, mentre la dipendenza da alcol mostra la tendenza inversa. Oltre a molti altri fattori, i livelli degli ormoni sessuali possono essere fattori importanti che contribuiscono alle differenze di sesso in psicopatologia.
La ricerca fino ad oggi si è focalizzata principalmente sui livelli degli ormoni sessuali durante l’adolescenza e l’età adulta, cioè quando sono più alti; tuttavia anche durante i periodi critici dello sviluppo del cervello del feto i livelli degli ormoni sessuali sono accentuati, nonostante questo poca attenzione è stata dedicata all’impatto di questi picchi ormonali in fase prenatale sul cervello adulto e sullo sviluppo comportamentale successivo.
Questo studio è il primo a esaminare se il testosterone nello sviluppo fetale è in gradi di predire comportamenti sociali di avvicinamento in adolescenza o in età adulta (ad esempio, il cercare divertimento, l’impulsività, la risposta alla ricompensa) e anche come può influenzare il successivo sviluppo del cervello legato a questi comportamenti.
I ricercatori hanno testato un gruppo di bambini di 8 anni, il cui livello di testosterone era stato misurato precedentemente nel liquido amniotico a 13 settimane di gestazione. I bambini sono stati esaminati con la risonanza magnetica funzionale per valutarne i cambiamenti nell’attività cerebrale durante la visualizzazione di immagini di volti con espressioni negative (paura), positive (felicità), neutre, o scrambled (strapazzate???).
I risultati indicano che a più elevati livelli di testosterone fetale corrisponde una maggiore reattività del sistema di ricompensa verso i target facciali positivi, rispetto a quelli a valenza negativa; questa corrispondenza non è stata invece osservata nel caso di livelli bassi di testosterone fetale. I livelli fetali di testosterone non sono risultati essere correlati ai comportamenti di evitamento.
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Un innalzamento dei livelli di testosterone fetale, attraverso la sua influenza sul sistema di ricompensa del cervello, prevedeva anche una maggiore tendenza all’avvicinamento nel corso della vita. Secondo Lombardo “Questo lavoro mette in evidenza come il testosterone nello sviluppo fetale agisca come un meccanismo di programmazione per modellare sensibilità del sistema di ricompensa del cervello nel corso della vita e per prevedere poi la tendenza a impegnarsi in comportamenti correlati. Queste intuizioni possono essere particolarmente rilevanti per una serie di condizioni neuropsichiatriche caratterizzate da perversioni sessuali e che influenzano il comportamento di avvicinamento legato e sistema di ricompensa del cervello. “
Dalla famiglia di origine alla scelta del partner: sistemi rigidi e potenziale evolutivo della coppia
Giorno per giorno, dalla nascita, i contesti in cui siamo inseriti, sia come attori che come spettatori, i contenuti delle interazioni, le modalità relazionali usate all’interno della famiglia modellano costantemente la nostra attività percettiva, imprimendo una direzione alla nostra attenzione selettiva.
Mito e mandato familiare sono due concetti chiave di questo processo: il mito è un immagine idealizzata che funge da modello di interpretazione della realtà e ha una funzione prescrittiva in merito a i ruoli da ricoprire, i valori da perseguire, modalità di comportamento relazionale e le scelte da fare (tra cui la scelta del partner), definisce cioè il mandato familiare che ogni individuo è implicitamente chiamato a portare avanti (M Andolfi, 1987).
La scelta del partner è il risultato di una mescolanza tra il mito (con il suo relativo mandato) e ricerca di soddisfacimento di bisogni più personali; il prevalere dell’uno o dell’altro dipenderà dalla forza di ciascuno di questi elementi e dalla relazione che una persona ha con la sua famiglia di origine (C Angelo, 1999).
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Il mito serve quindi anche a connotare, a volte mistificandola, la qualità del legame con le persone importanti, crea cioè delle aspettative rispetto a come una relazione dovrà, o potrà, evolvere e prescrive i comportamenti possibili in accordo con queste aspettative.
L’attenzione selettiva indotta dalla storia familiare all’ambiente esterno, diretta a cogliere specifici elementi di interesse nell’aspetto o nel comportamento dell’altro, si accompagna a una disattenzione, altrettanto selettiva, per tutti quegli aspetti dell’altro che potrebbero rendere problematica la relazione o contrastare con il mandato familiare. Quanto più il mito è articolato e ricco tanto più saranno le possibilità di sviluppo e scelta per i membri della famiglia; quando invece una componente tende a prevalere sulle altre questa avrà un peso nell’indirizzare la scelta in un’unica o in poche direzioni; questo elemento è in rapporto al grado di differenziazione raggiunto dall’individuo e alla sua capacità di elaborazione del mito stesso, cioè con il suo grado di autonomia e individuazione.
Come già detto la costruzione di una nuovo legame inizia nel luogo e nel tempo della separazione dalla relazione precedente, per questo ricerchiamo, nel nuovo rapporto, sia qualcosa che ce la ricordi sia qualcosa che la differenzi; la ricerca di somiglianze e di differenze non è mai casuale ma dipende dalla forma dei legami passati, è vincolata ad essi. Infatti accanto a caratteristiche ripetitive (e rassicuranti) è importante che il rapporto si dimostri adattabile ad accogliere fantasie compensatorie idealizzate, o che faccia sperare di riprendere le fila di una storia interrotta prematuramente o che non ha dato le risposte di sicurezza desiderate. È proprio la presenza di questi elementi di somiglianza con il passato che permette l’elaborazione delle aree di dipendenza relative ai rapporti originari: tanto più la relazione è condizionata da questi elementi tanto più costringerà al confronto con il problema originario, nel tentativo di risolverlo o trasformarlo.
Per Weiss e Sampson (Weiss, 1993) la coazione a ripetere non rappresenta un arresto dello sviluppo, ma il tentativo, ripetuto e strategicamente inefficace, di trovare una via di uscita alle difficoltà relazionali incontrate: l‘altro viene testato (dalle aree più sicure fino a quelle più insicure e pericolose) per verificare la correttezza delle proprie aspettative negative e soprattutto per trovare una via di uscita all’impasse; la disconferma delle aspettative da parte dell’altro permette il superamento del test e, nel migliore dei casi, un passaggio evolutivo verso una forma di legame diversa dalle precedenti.
Quanto più un legame significativo sopravvive sulla base di bisogni in parte o del tutto insoddisfatti, tanto più tenderà a ripetersi immodificato nei confronti delle nuove figure di riferimento, diventando un elemento di forte unione tra i partner; questo conferisce rigidità al legame, in quanto l’altro acquista valore e importanza per il ruolo e la funzione che assolve rispetto a bisogni e aspettative da soddisfare.Infatti quanto più una relazione deve garantire quella protezione e sicurezza di base che è mancata all’interno delle relazioni originarie, tanto più forte è il legame di dipendenza che si sviluppa tra i partner, tanto maggiore è la minaccia percepita rispetto a qualunque situazione lo metta in discussione.
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La confusione dei confini generazionali all’interno della coppia stessa è un problema comune a molte coppie che arrivano in terapia; in questi casi la relazione di coppia somiglia più a una relazione genitore-figlio che a una relazione tra adulti alla pari. In questi casi la (presunta) immaturità di uno dei partner è compensata dall’assunzione del ruolo genitoriale da parte dell’altro partner (comunemente un figlio già genitorializzato all’interno della sua famiglia di origine). Una relazione così strutturata su ruoli e funzioni complementari e rigide può andare avanti a lungo senza che insorgano motivi di crisi. La nascita di un figlio però può far esplodere il problema, perchè richiede una ristrutturazione dei ruoli che sia funzionale all’accudimento del bambino e questo è in conflitto con la relazione di accudimento che già esiste tra i due partner.
In altri casi la relazione di accudimento tra i partner è reciproca: ciascun partner cerca nell’altro ciò che pensa di non avere, dando vita a una relazione di mutuo soccorso e assistenza. L’unione è spesso molto salda, ma due metà incomplete non fanno una persona intera e il rapporto è chiaramente molto penalizzante sia per la crescita di coppia che per quella individuale. Alla nascita di un figlio può succedere che la ricerca di sicurezza, rimasta chiaramente inappagata a livello di coppia, venga proiettata sul figlio assegnandogli un ruolo genitoriale nei confronti della coppia.
Il reciproco di questo tipo di relazione simmetrica è rappresentato dalla coppia in cui entrambi i partner sono figli genitorializzati: in questi casi la relazione e la vita di coppia si regge sull’imponente sistema di doverizzazioni che entrambi hanno eletto a sistema di valori, come conseguenza della posizione di funzionamento assunta all’interno delle rispettive famiglie di origine. Il sistema può andare in crisi nel confronto con le problematiche evolutive dei figli, in particolare nel periodo dello svincolo: l’eccessiva rigidità e l’adesione a modelli astratti di comportamento impedisce una funzionale sintonizzazione affettiva con i loro bisogni. (Berrini e Cambiaso, 2001)
Altre coppie ancora arrivano al deterioramento del rapporto perchè non hanno saputo difendere lo spazio di coppia dalle invasioni delle rispettive famiglie di origine; a tal proposito è bene sottolineare che è sempre una dipendenza eccessiva dell’adulto e la sua incapacità a separarsi dalla famiglia di origine che ne facilita e permette l’”intrusione” nella vita della coppia. Spesso sono proprio i bambiniad essere usati come compenso affettivo nella relazione tra gli adulti e i loro genitori: piuttosto che assumere una posizione di confronto maturo con i genitori, i figli vengono dati in “ostaggio” ai nonni, mantenendo inalterata la dipendenza affettiva dei genitori alla famiglia di origine (Andolfi, 2006).
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In altri casi la dipendenza affettiva dell’adulto dalla sua famiglia di origine ha l’effetto di permettere “l’adozione” della coppia da parte di una delle due famiglia di origine dei partner: a monte c’è l’idea, da tutti condivisa, che la coppia si troppo immatura per farcela da sola; i motivi possono attribuiti alle difficoltà economiche o ai bisogni della terza generazione, in ogni caso il mancato svincolo degli adulti non permette alla coppia di costruire un confine funzionale alla strutturazione dell’alleanza di coppia.
A volte l’intensità del legame è data proprio dai contenuti problematici provenienti dalle precedenti relazioni e separarsi dal passato, facendo qualcosa di nuovo e diverso, può voler dire veder svuotare di significato il legame attuale. Questo elemento è spesso causa di drop-out delle terapie di coppia, ma anche di quelle individuali che vanno a lavorare i problemi relazionali del paziente. È però solo accettando questo rischio la relazione può evolvere, senza che nessuno debba rinunciare a parti vitali di sé per assolvere a ruoli e funzioni rigidi.
Gunther Von Hagens’ Body Worlds: alcune riflessioni.
Giocare con la morte (o con i suoi aspetti figurati), fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.
Gunther Von Hagens’ Body Worlds – il vero mondo del corpo umano dal 3 Ottobre 2012 è approdato alla Fabbrica del Vapore di Milano.
Con più di 34 milioni di visitatori, di cui 11 milioni solo in Europa, i Korpsewelten (in inglese Body Worlds) del padre della plastinazione fanno capolino in un’altra tappa italiana, dopo quella record delle Officine Farneto a Roma lo scorso febbraio.
In cosa consiste, effettivamente questa mostra tanto visitata quanto controversa?
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Nel 1977, Von Hagens mise a punto, all’Università di Heidelberg, un procedimento innovativo, in grado di conservare perfettamente tessuti e organi, sostituendo ai liquidi corporei dei polimeri di silicone che rendono gli elementi organici rigidi, inodore e ne mantengono vividi i colori.
Un po’ come se, detto in parole povere, la formaldeide in cui all’epoca erano immersi i resti del corpo umano, venisse iniettata all’interno, consentendo così ai tessuti e alle parti del corpo di conservarsi senza l’utilizzo di barattoli.
Al di là del procedimento medico, sicuramente interessante ma che esula dalle competenze e dall’argomento dell’articolo, vale la pena soffermarsi a riflettere su un dato: dal 1982 l’Institute for Plastination cura il programma di donazione dei corpi, utilizzati per la realizzazione della mostra, e al momento conta oltre 13 mila donatori registrati. Un link all’Istituto e al modulo necessario per lasciare il proprio corpo nelle mani del team diretto da Von Hagens è reperibile direttamente sul sito italiano della mostra.
Un altro aspetto, altrettanto interessante, è lo spartiacque che l’invenzione dell’anatomopatologo ha creato all’interno del mondo scientifico: Von Hagens, infatti, ha sdoganato l’anatomia tradizionale, aprendola al grande pubblico (come dimostra l’elevato numero di visitatori, che l’ha resa l’esibizione scientifica più visitata al mondo).
Lo scopo della plastinazione – sostiene il medico – “E’ stato fin dal principio scientifico, ossia la formazione di studenti di medicina”, ma i suoi preparati sono usciti dalle aule di anatomopatologia per entrare nelle sale dei musei, in quelle cinematografiche (una scena di 007 Casinò Royale è stata girata all’interno della mostra) e persino in case private: i plastinati, infatti, sono venduti – a quanto pare – a cifre anche piuttosto sostenute.
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La mostra Body Worlds, oltre a fornire un punto di vista preciso, puntuale e realistico (per ovvie ragioni) del nostro corpo “sottopelle”, consente anche di riflettere sulla morte e su come l’essere umano da sempre, in realtà, cerchi di contrastarla e di conservare in qualche modo non solo il ricordo, ma anche il corpo del defunto.
Molteplici tecniche di conservazione delle salme, infatti, si sono succedute nel mondo e in periodi storici differenti. In Australia, Nuova Guinea, Oceania e Africa i corpi erano esposti al sole ed essiccati. In Melanesia e Polinesia si usava esporre il cadavere in zone di marea per provocarne una mineralizzazione attraverso il sale. Presso i cinesi vi era l’usanza di riempire con il miele le cavità delle salme, mentre i colombiani usavano una resina vegetale specifica. La mummificazione – molto diffusa anche nell’America andina – raggiunse il massimo livello di perfezionamento presso gli antichi egizi.
Intervistato sulla ragione per cui così tante persone (si calcola una media di 5 donazioni al giorno) avrebbero donato il proprio corpo alla fondazione Von Hagens, per diventare delle “opere d’arte”, lo scienziato risponde così: «Per molti la plastinazione è il modo per secolarizzare la propria sepoltura e attenuare l’angoscia di perdere la vita, attraverso la possibilità di estendere la propria esistenza fisica dopo la morte».
Secondo i dati presentati, il 22% donerebbe il proprio corpo per la pubblica utilità; il 19% per il fascino della tecnica da lui messa a punto; il 13% per il desiderio di non essere né cremati né interrati. Lo stesso anatomopatologo ha dichiarato di voler fare del proprio corpo l’ultima sua opera, una volta che il Parkinson, malattia della quale soffre, avrà fatto il suo corso.
Von Hagens non è l’unico, certamente, a rendere in qualche modo la morte un’opera d’arte.
Anche l’artista Damien Hirst sembra aver scelto l’antitesti della vita come nucleo centrare delle sue esibizioni, che includono – tra gli altri – teschi umani coperti di diamanti.
Un’altra mostra che ha raccolto numerosi visitatori a Chicago è “Morbid Curiosity”, allestita da Richard Harris, che ha collezionato più di 500 oggetti provenienti da tutto il mondo riguardanti l’iconografia della morte, compresi tavoli a forma di teschio, candelabri fatti di ossa. Il collezionista sembra mosso dall’idea di riavvicinare l’uomo moderno al concetto di morte, umanizzandola, e rendendola in qualche modo meno spaventosa se vissuta negli oggetti utilizzati quotidianamente.
Una teoria in qualche modo avvallata anche dalla psicologa americana Carolyn Kaufman, che si interroga sulla grande passione che la gente comune sembra avere per Halloween e i suoi personaggi, a cui – in qualche modo – si potrebbero avvicinare i plastinati di Von Hagens.
La dottoressa sostiene che Halloween (esattamente come film e libri horror) consenta un “confronto sicuro” con le nostre paure esistenziali più profonde (quelle riguardanti la morte, per l’appunto, ma anche i nostri “lati oscuri” o aggressività che dir si voglia), senza metterci o farci sentire in pericolo.
Giocare con la morte (o con i suoi aspetti figurati), fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.
Un altro meccanismo psicologico aiuta a comprendere come mai ciò che è terrifico o spaventoso a volte diviene una vera e propria passione. La così detta formazione reattiva consente di ribaltare un sentimento negativo (la paura) nel suo contrario positivo (la gioia). Tale meccanismo di difesa ci aiuta a fare i conti con ciò che non siamo in grado di affrontare perché, appunto, ci mette in difficoltà. Allontanando le emozioni negative trasformandole nel loro contrario, siamo in grado di maneggiarle e in qualche modo affrontarle.
Body Worlds, però, aggiunge un tassello: dal 1995 (anno della prima esposizione in Giappone) infrange il tabù del corpo funebre, di ciò che resta dopo la morte, conservandolo ma al contempo mettendolo a disposizione di tutti.
Qualcuno potrebbe pensare ad un lavoro macabro o morboso, ma la mostra – in realtà – sembra rendere tridimensionali gli studi di Leonardo Da Vinci sul corpo umano (a cui, per altro, si ispira liberamente uno dei soggetti della mostra: Cavallo impennato con cavaliere).
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Le creazioni di Von Hagens sembrano inserirsi nel discorso moderno del “mettere in mostra” qualcosa che sino ad una decina di anni fa era rigorosamente appannaggio di ambienti o settori specifici. Ha quindi il pregio di aver aperto le porte dell’anatomia all’uomo di strada.
Sulla linea della divulgazione, sembra anche prestare il fianco ad una società in cui ormai l’informazione – se si vuole e la si ricerca – è reperibile ovunque e approfondita “sino all’osso” (per rimanere in tema).
E ancora, come sostengono Vincenzo Esposito e Simona Chiappero, del Dipartimento di Medicina Pubblica, Clinica e Preventiva della Seconda Università degli Studi di Napoli – i Körperwelten (Body Worlds) sembrano essere uno dei tanti tentativi di narrazione performativa del corpo – e delle sue esperienze – da parte dell’immaginario collettivo.
La società moderna, definita da S. Bauman “liquida” (proprio perché non più incanalata, contenuta e gestita da grandi istituzioni quali la Famiglia, lo Stato e la Chiesa) registra un aumento dell’alterazione dell’immagine corporea, sia a livello di vissuti patologici (anoressia, bulimia ad esempio) o di espressione di vissuti agiti tramite e sul corpo (piercing, tatuaggi, body modification).
Credo anche si possa associare la mostra al discorso di una società in cui i limiti vengono sempre spostati “al di là”: che siano limiti fisici o psicologici, la mostra consente di vedere ciò che in realtà per tutta una vita rimane nascosto. Si ha la possibilità quasi di toccare con mano il proprio spazio fisico interiore, sia sano che malato. Si ha la possibilità di dare un nome e un’immagine a ciò che in realtà sono solo fantasmi o parole difficili da comprendere, ma che in qualche modo condizionano la nostra vita (le diagnosi). Forse non è un caso che Il 63% dei visitatori ha indicato che l’autenticità dei preparati esposti ha esercitato un influsso sostanziale sulla loro acquisizione di cognizioni che prima risultavano poco comprensibili.
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Sempre per rimanere in tema di dati, vale la pena riportare ciò che sostiene Von Hagens: “La mostra è un mezzo per divulgare al grande pubblico la complessità del corpo umano, educando sui temi della salute. Il successo è dimostrato dal fatto che, alla fine della visita delle mie esposizioni, il 68% dei visitatori intervistati ha ammesso di aver deciso di prestare maggiore attenzione alla propria salute, il 10% smette di fumare e il 30% diventa donatore di organi”.
Possiamo sicuramente pensare che il plastinato attivi il riconoscimento di noi stessi, del nostro funzionamento e della complessità del corpo umano; un riconoscimento e un rispecchiamento maggiore di quello attivato dall’illustrazione di polmoni malati di cancro sui pacchetti di sigarette.
In conclusione, credo che l’esibizione possa essere letta da angolature differenti: c’è chi potrebbe etichettarla come una macabra spettacolarizzazione del corpo umano, chi una trovata economica che ha trasformato un esperimento medico in arte, chi ancora una mostra- manifesto del nostro tempo, attaccato visceralmente all’immagine, al corpo e al suo voyeurismo.
Indipendentemente dagli occhiali che si usano per visitarla, o dalla lettura che una volta conclusa la mostra se ne darà, penso valga la pena visitarla, per dare uno sguardo più da vicino a ciò che siamo e a ciò che, in fondo, in qualche modo ci determina.
Cyberbullismo nel luogo di lavoro – Otto lavoratori su dieci subiscono comportamenti di cyberbullismo, almeno una volta in sei mesi.
Fino ad oggi lo studio del cyberbullismo – l’uso delle moderne tecnologie di comunicazione, come email, testi o post, per compiere abusi sulla persona – si è principalmente focalizzato sui giovani in ambienti scolastico, piuttosto che sui lavoratori adulti. Tuttavia, il cyberbullismo sembra nascondersi insidiosamente anche nei luoghi di lavoro.
Ad illuminarci sull’argomento sono i risultati di uno studio, che ha coinvolto ricercatori della University of Sheffield e della Nottingham University e che saranno presentati al Economic and Social Research Council’s (ESRC) annual Festival of Social Science che si terrà a novembre.
Lo studio ha incluso tre indagini distinte, effettuate sui i dipendenti in diverse università del Regno Unito, a cui veniva chiesto di parlare delle loro esperienze di cyberbullismo. Ai partecipanti allo studio è stato dato un elenco di ciò che può essere classificato come bullismo – come l’essere umiliato, ignorato o vittima di pettegolezzi – e gli è stato chiesto se avessero vissuto un esperienza simile e con quale frequenza.
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Delle 320 persone che hanno risposto al sondaggio, circa otto su dieci aveva vissuto uno dei comportamenti elencati come cyberbullismo almeno una volta negli ultimi sei mesi. I risultati hanno anche mostrato che un 14-20 per cento li ha vissuti almeno una volta alla settimana – con un’incidenza simile al bullismo tradizionale.
Il team di ricerca ha esaminato anche l’impatto del cyberbullismo sull’affaticamento mentale dei lavoratori e sul loro benessere. In generale, coloro che erano state vittime di cyberbullismo tendevano ad essere più affaticati mentalmente e ad avere minore soddisfazione professionale; addirittura in uno dei sondaggi, questa condizione è apparsa peggiore in seguito a cyberbullismo rispetto al bullismo convenzionale.
Il team di ricerca ha anche scoperto che essere testimoni di atti di cyberbullismo non provoca le stesse reazioni che sono state documentate nei casi di bullismo tradizionale, infatti mentre chi osserva atti di bullismo normalmente sperimenta un disagio e un calo del benessere personale, chi assiste a cyberbullismo rimane per lo più indifferente. I ricercatori ipotizzano che la “lontananza” del ciberspazio possa limitare la capacità delle persone di entrare in empatia con le vittime di cyberbullismo; questo influenzerebbe anche la reazione dei testimoni e le probabilità che arrivino a denunciare gli abusi osservati.
I ricercatori dispensano consigli su come datori di lavoro dovrebbero affrontare e prevenire il cyberbullismo sul posto di lavoro, convinti che questo tema diventerà sempre più importante vista la continua evoluzione e diffusione delle tecnologie di comunicazione.