Interview with Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy
SITCC 2012 Roma
State of Mind Interviews Prof. Marcel van den Hout
on EMDR and Psychotherapy
THE MIND CHANNEL, IL CANALE VIDEO DI STATE OF MIND
THE MIND CHANNEL, IL CANALE VIDEO DI STATE OF MIND
Questo articolo di Vittorio Lingiardi da spazio e visibilità al grande tema dell’efficacia e alla scientificità della psicoterapia su un grande mezzo di diffusione, l’inserto domenicale del Sole 24ore.
L’articolo parla da sé e lo fa così bene e concisamente che presentarlo significa rassegnarsi a riassumerne il contenuto. Lingiardi fa finalmente sapere a molti che la psicoterapia non è solo un’arte, ma anche una pratica ben definita e di provata efficacia, e che la ricerca scientifica ha definitivamente dimostrato che la psicoterapia funziona, e proseguono le ricerche che ne esplorano il meccanismo.
Dunque la psicoterapia funziona. Ma è altrettanto vero che, di fronte a questa realtà, i finanziamenti riservati alla ricerca sulla psicoterapia sono scandalosamente limitati. Il fiume di denaro che sostiene la ricerca farmacologica diventa un ruscelletto quando si tratta di finanziare gli studi sulla psicoterapia. Il ritorno appare meno immediato e più aleatorio. Lingiardi scrive che ormai tutto questo è solo pigrizia e pregiudizio. È bene che la sua voce sia ascoltata.
LEGGI ANCHE:
BIBLIOGRAFIA:
Storie di Terapie
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Ho visto Nicoletta in due differenti momenti della sua vita.
La prima volta dopo una telefonata allarmata di una mia allieva e collega di Bologna, che l’aveva incontrata qualche volta insieme al suo ex compagno, nel momento burrascoso della loro separazione.
Predisposi l’animo ad ascoltare le lamentele e le sofferenze di una giovane donna abbandonata, affetta semplicemente dal mal d’amore non ricambiato, esperienza comune che non trova posto nelle nosografie psichiatriche. Per esso, dunque, non esistono protocolli empiricamente validati né psicofarmaci eccellenti; gli unici protocolli sono prescientifici e già applicati dalle nostre bisnonne.
LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCELTA DEL PARTNER
I passaggi fondamentali in cui si articolano sono riassumibili nei concetti: “chi non ti vuole non ti merita” e “morto un papa se ne fa un altro”. Tradotto in linguaggio più scientifico si tratta di:
A queste consolazioni, per così dire di pronto soccorso, che non sono appannaggio esclusivo dello psicoterapeuta ma anche di amici e parenti, tendo ad aggiungere, in successione temporale, altri obiettivi che giustifichino il fatto di essere pagato per un lavoro specialistico.
In primo luogo, mi sembra utile fornire consapevolezza sulle caratteristiche del partner che attraggono fatalmente il paziente, soprattutto quando le scelte sbagliate si sono ripetute più volte. Per far questo bisogna attaccare la credenza circa la sfortuna negli incontri e il non aver ancora incontrato l’anima gemella, che rivelo subito essere come la Befana e Babbo Natale.
In secondo luogo, aiuto a rendere consapevoli circa i modi che si utilizzano per tenersi vicino l’oggetto amato che, evidentemente, non brillano per efficienza se si sta lì a leccarsi le ferite per l’ennesima volta.
Ma Nicoletta arriva non con la coda tra le gambe e le orecchie basse come un cane abbandonato sul ciglio dell’autostrada il giorno di Ferragosto, sembra piuttosto un’aquila che ha appena visto un puma sottrargli un piccolo dal nido. L’aggressività appare, sanamente e totalmente, eterodiretta; l’emozione sottostante, meno vistosa, è la sorpresa, lo stupore assoluto.
Da un punto di vista psicopatologico, come si vedrà in seguito, questo è l’aspetto più interessante: Nicoletta non si aspettava assolutamente questa conclusione improvvisa, per la verità ancora stenta a crederci come chi, colpito da lutto improvviso e inatteso, spera che, da un momento all’altro, tutto torni al proprio posto; Stefano con lei, ovviamente per tutta la vita. Non si può interrompere qualcuno che ha subito un trauma, lo deve narrare mille volte da mille diverse prospettive: Nicoletta è un fiume in piena ed io la valle dove esondare.
LEGGI GLI ARTICOLI SULLE RELAZIONI SENTIMENTALI
Stefano è il grande amore. l’uomo cui è stata destinata e con cui passerà tutta la vita (usa il presente e il futuro come se nulla fosse successo e un brivido corre lungo la mia schiena). Entrambi romani, si sono trasferiti a Bologna per l’incarico universitario da lui ottenuto e hanno iniziato una convivenza in atto ormai da quattro anni. Intesa perfetta che non richiede parole per comunicare, sessualità stellare, identità assoluta di idee, gusti, visione del mondo. Quando ne parla sembra descrivere una sola persona. Solo molti anni dopo sarà possibile per Nicoletta rendersi conto che si trattava, in effetti, di una persona sola, Stefano, cui lei aderiva completamente, rinunciando a se stessa.
Nicoletta si riconosce il ruolo di promotrice della coppia: era lei ad aver voluto il loro fidanzamento prima e la convivenza poi, lei metteva l’entusiasmo, decideva e quando Stefano esponeva le sue perplessità le minimizzava e andava avanti.
Stefano aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad assistere una madre gravemente alcolista, rispetto alla quale mostrava un attaccamento rovesciato; perciò, non riusciva a resistere alle richieste di un altro, soprattutto se lo vedeva debole e bisognoso.
La crisi si era manifestata, violenta e improvvisa, il giorno in cui dovevano andare dal notaio a firmare per il rogito di acquisto di una casa. Nicoletta aveva provveduto ad ottenere i mutui dalle banche per entrambi, trovato l’appartamento, fatto il compromesso e ordinato i mobili.
La mattina del notaio, Stefano aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina con su scritto “non me la sento, mi rifarò vivo io” ed era andato a Trieste da una sua amica.
LEGGI GLI ARTICOLI SU: ATTACCAMENTO
Nicoletta aveva vissuto una specie di abbandono sull’altare, la casa comune era, infatti, il punto supremo della loro unione poiché Stefano aveva in precedenza chiarito di essere contrario al contratto matrimoniale e ancora di più alla genitorialità.
Certamente Nicoletta mostrava una dipendenza da Premio Nobel, vivendo in simbiosi assoluta con Stefano che, però, da parte sua, non era mai riuscito a mettere un freno all’invasività di lei, salvo darsi fisicamente alla fuga quando era giunto ad un passo da un passaggio in qualche modo definitivo.
In prima battuta sentivo di empatizzare con il dolore e la rabbia di quella povera ragazza, abbandonata senza una spiegazione. Successivamente mi resi conto che spiegazione non c’era stata perché sarebbe stata inascoltata, oppure completamente ribaltata e trasformata in un’ ulteriore prova dell’amore assoluto tra i due e del loro destino di vita in comune che Nicoletta dava assolutamente per scontato. Se non fosse stato che i due erano effettivamente stati insieme per quattro anni avrei pensato di trovarmi di fronte ad un evidente delirio erotomanico che, nel tempo, si complicò con uno stalking massiccio: qualsiasi cosa facesse Stefano era da lei considerata una prova lampante del loro legame inscindibile.
Se arricchiva con foto di donne il suo sito su Facebook era un chiaro rimando alla canzone “Dieci ragazze per me” di Lucio Battisti che significava, appunto, che solo una contava per lui.
Se eliminava il suo indirizzo di posta elettronica e non era più raggiungibile, i significati possibili erano evidenti e di due tipi: “senza di lei è come se fossi morto e non esisto più” oppure “non voglio che nessuno più mi raggiunga tranne lei”. Mediamente Nicoletta telefonava tre volte al giorno a Stefano, gli inviava quindici mail e trenta sms quotidiani.
Il ragazzo, sentendosi minacciato e temendo per la salute mentale di Nicoletta, spinto dalla paura e con l’intento di calmarla, le rispondeva, ogni tanto, per placare la rabbia della donna, cercare di spiegarsi, ottenere comprensione. Sempre allo stesso scopo, accetta due volte di incontrarla, seppure in luoghi pubblici, dove si sentiva più protetto da possibili agiti impulsivi. Un primo incontro si consuma a Trieste nei primi sei mesi dopo la separazione. Iniziato al castello di Miramare si conclude in un motel della zona. Nicoletta ne esce con la convinzione rafforzata del loro eterno amore e tre mesi dopo si presenta a Oslo, dove lui sta facendo un dottorato di ricerca. In questa seconda occasione, Stefano decide con fermezza di non concedere margini all’ambiguità e si rifiuta di avere rapporti sessuali con lei tuttavia, convinto che abbia ormai capito come stanno le cose e non sopportando di vederla triste, si concede quattro ore di sesso orale che lei ricorderà negli anni come la sequenza più prolungata e soddisfacente di orgasmi che abbia mai avuto.
Tornata in Italia, le arrivano messaggi più o meno espliciti da parte di amici comuni sulla necessità di intraprendere una cura psichiatrica. Ciò non viene letto da Nicoletta in termini offensivi, quanto come un segno dell’interessamento e dell’amore che il ragazzo nutre per lei.
Stefano si trasferisce negli Stati Uniti per partecipare ad una importante ricerca universitaria. Una mattina di dicembre scende nel giardinetto innevato antistante la villetta dove abita e sale in macchina; sul sedile posteriore c’è Nicoletta che gli chiede solo un chiarimento. Lui si spaventa, la getta sulla strada, lei si divincola e lo picchia. Stefano chiama la polizia che la accompagna al distretto dove passa una notte. Nei giorni seguenti Stefano paga la cauzione per la sua libertà e, dopo due giorni di sesso fulltime (a scopo di tranquillizzare), la riaccompagna in aeroporto comunicandole che ha intenzione di sposarsi con una collega americana. Questo chiarisce tutto a Nicoletta: il suo Stefano è sempre stato contrario al matrimonio e dunque solo apparentemente è lui, quello che ha di fronte è un essere controllato da una volontà aliena che ne decide i comportamenti.
Tornata in Italia con la certezza di dover aspettare che la fattura fatta su Stefano cessi il suo effetto, Nicoletta riprende in mano la propria vita, si iscrive a giurisprudenza ed inizia a lavorare in un importante studio legale. Ai suoi occhi tutte queste sono attività preparatorie per renderla migliore e più attraente per il momento in cui Stefano, disintossicato dalla fattura, tornerà per non lasciarla più.
Questo piano di preparazione e mantenimento è a trecentosessanta gradi: anche come femmina vuole mantenersi in forma e, nei successivi quattro anni, ha altrettante storie rilevanti con degli uomini che hanno in comune il fatto di chiamarsi Stefano (le sembrerebbe un tradimento cambiare nome). Con nessuno fa dei progetti a lunga scadenza, la loro funzione è mantenerla in forma perfetta per il ritorno di Stefano.
Si noti che, al di fuori di questa sorta di delirio incistato sull’imperituro amore, la sua vita procede normalmente, ricca di rapporti sociali e affettivi e con rilevanti successi professionali.
E’ buona pratica ricostruire attentamente l’anamnesi personale di ciascun paziente anche quando, come Nicoletta, l’emergenza è attuale come l’abbandono sull’altare. La storia di Nicoletta era scritta nel suo corpo: viso dispettoso e intelligente da prima della classe, occhi vispi e continuamente saettanti a non perdere nulla, capelli neri a caschetto a denunciare le origini sarde, vistoso sovrappeso al confine con l’obesità, in sintesi una ragazza graziosa, ma resa sgraziata da un andatura gravemente claudicante che la fa oscillare ad ogni passo, come sul punto di cadere. Immagino una tetra paresi spastica infantile ma non è così. L’incidente, così lo chiama, è accaduto all’età di diciassette anni.
La famiglia di Nicoletta è composta dal padre Gervaso, dalla madre Clotilde e da una sorella, Valeria, più giovane, bella, brillante e studentessa di medicina. Gervaso, impiegato delle poste, di origini sarde, è orgoglioso, severo, convinto che volere è potere. E’ un omino basso e testardo che Nicoletta sente come un giudice implacabile di cui conquistare l’approvazione. Gervaso, certo non bello nè ricco, ha conosciuto la bellissima Clotilde durante una vacanza dalla nonna in Sardegna, quando si facevano tre mesi di villeggiatura, da giugno a ottobre. Clotilde, figlia di uno dei maggiori possidenti terrieri del paese del campidano, ha accettato di sposarla perché anche lei ha un difetto nascosto: era una figlia su ordinazione. Il padre Don Rinaldo non riusciva ad avere eredi dalla ormai matura consorte Donna Carla. Il patrimonio non poteva andare disperso e, così, Carla stessa scelse per il marito una sana e giovane popolana con cui avrebbe fatto un figlio che loro avrebbero allevato come fosse proprio.
Clotilde crebbe con l’amore dei genitori iperprotetta e viziata, ma la fortuna venne meno quando aveva nove anni: Don Rinaldo divorziò da Donna Carla e fece altri tre figli con la popolana, con cui evidentemente doveva essersi trovato piuttosto bene. Quella diventò la sua nuova famiglia e i due figli maschi i suoi eredi. Clotilde invece restò a vivere con Donna Carla che iniziò ad odiarla, considerandola causa della fine del suo matrimonio e della vergogna che li aveva colpiti. Pur se lei non aveva nessuna colpa, si sentiva additata come responsabile di qualcosa di sporco e di disonesto.
Se Donna Carla la odiava, altrettanto faceva il padre e la sua nuova moglie, in quanto rappresentava il legame con il passato ed era la prova vivente del loro scellerato e ingannevole patto.
Stando così le cose, non le parve vero mollare tutto e seguire il piccolo impiegato postale Gervaso nella capitale, dove nessuno la conosceva. Clotilde, dunque, non sapeva molto bene il mestiere di madre amorevole e verso la piccola primogenita nutriva una certa soggezione, si sentiva sempre inadeguata e temeva il momento in cui la figlia avrebbe conosciuto la sua storia.
Nicoletta fu cresciuta secondo valori molto rigidi: nella vita occorre una onestà cristallina, in modo che nessuno possa sparlare alle spalle, tutto va conquistato con l’impegno e la fatica e nulla arriva gratuitamente. A Roma un sardo è comunque in terra straniera e per ottenere gli stessi successi dei continentali deve fare almeno il doppio; se poi è donna un ulteriore doppio che fa il quadruplo.
LEGGI ARTICOLI SULLA GENITORIALITA’
Nicoletta era sempre stata la prima della classe, i suoi sforzi ottenevano riconoscimenti scolastici e questi l’amore orgoglioso dei genitori. Per offrire alla figlia le migliori opportunità l’avevano iscritta ad un liceo classico di religiosi da dove usciva la futura classe dirigente. Il quarto ed il quinto ginnasio erano stati una cavalcata trionfale. Con il cambio dei docenti le cose erano cambiate e, prima della pagella del primo trimestre del primo liceo, aveva già collezionato insufficienze in greco, storia e matematica. La risposta di Nicoletta a questa difficoltà fu quella che conosceva: impegnarsi di più, studiare giorno e notte, eliminare le amicizie e anche solo il pensiero di un fidanzatino ma, nonostante gli sforzi e le rinunce, i risultati non arrivavano. Allora, ritenne di essere oggetto di una discriminazione in quanto sarda, provava un rabbioso senso di ingiustizia che riconobbe, anni dopo, identico nella separazione da Stefano. Sentirsi maltrattata e impotente la mandava al manicomio perché la strategia che conosceva per fronteggiare le difficoltà (volere e potere e volere ancora di più) non funzionava.
Pensò che le professoresse che le avevano dato le insufficienze fossero state condizionate dal preside, Don Nazareno che, a suo parere, non le aveva perdonato di aver rifiutato l’offerta di lezioni private di recupero ed era mosso, sempre secondo lei, da un insano interesse sessuale nei suoi confronti e le ripetizioni erano una trappola. A riprova di ciò, raccontava che, un giorno, il preside le aveva fatto i complimenti per l’eleganza con cui indossava la gonna a pieghe blu, divisa della scuola: evidentemente le guardava i fianchi e le gambe.
Per circa un mese fu tormentata da pensieri ossessivi intrusivi riguardanti gli organi sessuali del preside e le possibili acrobazie erotiche. Pensò di parlarne con i genitori prima dell’arrivo della pagella natalizia ma temette che non le avrebbero creduto, immaginò il padre deriderla e dirle che era un modo per non prendersi le sue responsabilità e attribuire agli altri le conseguenze del suo scarso impegno.
Era in una situazione senza via d’uscita, la vergogna della famiglia per quella pagella e lo sarebbe stata ancora di più se avesse raccontato le sue certezze sul complotto del preside satiro. La settimana prima di Natale i genitori decisero di andare a sciare: la gita prevedeva partenza all’alba, con attrezzatura da neve rimediata da amici e parenti. Di tuta impermeabile ne fu trovata una sola, così il padre decise che sarebbe andata Valeria, che era migliore a scuola e Nicoletta sarebbe rimasta a casa a studiare per recuperare. Nicoletta pensò che aveva fallito nel tentativo di far felici i suoi genitori, che nessuno l’avrebbe mai voluta e che non meritava nulla, la vita le sembrò una strettoia in salita sempre più soffocante e intollerabile.
Scelse il cortile interno convinta che avrebbe sentito meno freddo, perché più riparato dal vento e che avrebbe sporcato di meno. Non era ancora del tutto giorno quando la camicia da notte le si arrotolò sotto le braccia e dietro la testa mentre precipitava dal quinto piano.
Nel cadere, si ricordò la formula della quantità di moto studiata per fisica la sera prima ed equivalente a massa per velocità. Si disse anche che, prima di morire, si fanno proprio pensieri sciocchi e che non è vero che si rivede tutto il film dell’esistenza. Ricorda perfettamente lo spalancarsi delle finestre interne, le grida soffocate dalla coltre di nebbia invernale, l’accorrere del portiere con una coperta militare per proteggerla dal freddo in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, l’odore del sangue impastato alla terra, la voglia di vomitare. In ambulanza capì che aveva fallito un’altra volta e che, d’ora in poi, sarebbe stata Nicoletta la matta, vergogna di tutta la famiglia. Pregava di morire perché le sembrava di averla combinata grossa, peggio delle insufficienze in pagella, ma la morte non sta ai nostri desiderata nè per allontanarla nè per chiamarla e sopravvisse. Ricoveri, operazioni, terapie, psicoterapie, fisioterapie, si scatenò il gioco delle colpe. Clotilde additava la severità di Gervaso per non vivere l’accaduto come la drammatica conferma di quello che dentro aveva sempre sentito: essere una madre inadeguata. Valeria si sentiva in colpa per essere la sorella di successo, pesante confronto per Nicoletta. La famiglia stava per disintegrarsi, se non fosse stato per la necessità di fornire assistenza a Nicoletta che, forse, non avrebbe più camminato da sola per tutta la vita.
Andarono insieme in terapia familiare e la diagnosi tranquillizzò tutti: Nicoletta aveva un disturbo borderline di personalità, che significava che stava in bilico tra la normalità e la follia. Era una questione di carattere, non sarebbe mai cambiata e avrebbe reso burrascose le relazioni con gli altri. Per conto loro non potevano far altro che camminare per la loro strada senza farsi intralciare dai tentativi di Nicoletta di richiamare l’attenzione, come aveva fatto con il tentato suicidio. Se non era morta evidentemente non ne aveva intenzione e voleva solo farli sentire in colpa, se avessero concesso maggiori attenzioni avrebbero involontariamente rafforzato questi comportamenti clamorosi e isterici.
LEGGI GLI ARTICOLI SUL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’
La ragazza lentamente si era ripresa e, pur non avendo mai smesso la fisioterapia, riusciva a camminare senza bastone.
Trova lavoro prima in un call center e poi come segretaria in uno studio medico e viene sempre apprezzata. Lo scarso movimento causa, negli anni successivi, un sensibile sovrappeso che offusca la sua fresca e discreta bellezza.
Per Nicoletta tutto ciò faceva parte di un’ anamnesi patologica della quale non amava parlare e che ricordava come “l’incidente”, una parentesi chiusa e senza significato.
Anch’io mi sentivo come un curioso non autorizzato, un voyer, a occuparmi di quegli eventi passati che pure mi sembravano importanti. Peraltro, superato il trauma dell’inaspettata separazione, Nicoletta è tutt’altro che una persona cupa e triste: appare sorridente, con una grande facilità ad istaurare rapporti positivi che possono essere cordiali e superficiali, ma anche profondi.
La prima terapia con Nicoletta si concluse felicemente e di comune accordo quando lei era giunta alla soglia dei trent’anni. Aveva cessato tutti i comportamenti di stalking nei confronti di Stefano, che continuava a vivere negli Stati Uniti, si era laureata in giurisprudenza e collaborava presso uno studio legale, aveva molte amicizie, viaggiava molto e non le mancavano relazioni affettive significative, né una soddisfacente vita sessuale.
Sembrava convinta che la storia con Stefano fosse stata meravigliosa, ma davvero finita.
Per alcuni anni il ricordo di Nicoletta lo riposi nel cassetto delle terapie concluse con successo in cui vado a scartabellare quando le cose non vanno troppo bene e viene il dubbio di essere un incapace. Quando mi richiamò temetti di doverle cambiare cassetto e ciò mi procurò fastidio. Era guarita, ora cos’altro c’era? In realtà era in un’altra fase di vita, aveva trentotto anni e si preoccupava di non riuscire ad avere un figlio.
Mentre per me stava nel cassetto dei “casi risolti”, aveva avuto tre storie importanti e, finalmente, anche con nomi diversi da Stefano, ma si trattava sempre di uomini che non potevano darle dei figli: Roberto era sposatissimo con due figli piccoli, Mauro un compagno di lavoro, la amava ma non riusciva a prendere nessuna più piccola decisione per la sua vita e Alfredo aveva persino frequentato la famiglia di Nicoletta mostrando le più serie intenzioni ma, con imbarazzo di tutti, aveva messo incinta Valeria e ora conviveva con lei ed il piccolo Luca di due anni. Numerosi erano gli uomini che ne decantavano le doti, aspiravano ad una relazione e avevano una sistematica vita sessuale con lei, ma non mostravano nessuna intenzione matrimoniale o di genitorialità condivisa. Convinta Nicoletta che la teoria della sfortuna e, dunque, di aspettare l’anima gemella non ci avrebbe condotto da nessuna parte, iniziammo a considerare come andavano le cose.
I motivi apparvero subito di due tipi. In primo luogo, quello evidente anche nella relazione con me: Nicoletta si era sempre sentita indegna e di poco valore ed oggi ancora di più a motivo dell’handicap di cui colpevolmente soffriva. Per questo, non poteva pretendere nulla dal partner, l’unico modo che aveva per tenerselo almeno un po’ vicino era di non fare richieste e di assecondarlo in tutti i desideri, accettare ogni condizione e non porne alcuna.
Manifestava un quadro maestoso di un disturbo dipendente di personalità, per certi versi ricordava “Agrado”, il transessuale protagonista del film “Tutto su mia madre” di Almodovar che ha, nel nome, il destino di far contenti gli altri chiunque essi siano e a qualsiasi condizione. Semplicemente il desiderio di maternità non lo aveva mai espresso.
LEGGI GLI ARTICOLI SUL DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITA’
Ci si potrebbe chiedere perché però non fosse mai venuto in mente ai suoi partner e qui emerge il secondo tema, che mette in dubbio la collocazione nel cassetto da me fatta: lei si era sempre scelta degli uomini inaffidabili, spaventati dalle responsabilità o già impegnati, forse per senso di indegnità e per punirsi? Peggio. Con un certo imbarazzo, che il mio sguardo lampeggiante non deve aver diminuito, Nicoletta ammette: finchè non mi lego definitivamente è sempre possibile che Stefano lasci la moglie e torni da me. Il figlio di un altro sarebbe un intralcio, del resto che i figli di altri costituiscano un ostacolo insormontabile fa parte della storia familiare di Nicoletta.
Quando mi elenca le prove certe, che ha, del prossimo fallimento del matrimonio americano di Stefano è delirante e contemporaneamente parzialmente critica. Il mio sguardo, che unisce pena per lei e frustrazione per me, sottolinea i bias confermazionisti e lei capisce e annuisce come a dirsi “me la racconto vero?”. La produzione scientifica di Stefano è diminuita a riprova dei problemi che sta attraversando, non ha ancora un figlio, il che certifica l’assenza di rapporti sessuali e, in tutti questi anni non si è mai fatto vivo perché sente che, anche un contatto fugace, manderebbe all’aria la sua esistenza americana. Nel suo blog parla di ecologia, che era un argomento di cui erano appassionati insieme, l’elezione di Obama è un segno che lui le ha mandato per dirle che negli USA c’è spazio per tutti e anche lei sarà ben accolta, quando lo raggiungerà. La madre di Stefano, sempre di ostacolo alla loro relazione, è finalmente morta e, anche in quest’occasione, Stefano non è tornato in Italia per sfuggire alla tentazione che lei rappresenta.
Senza indugi apro il cassetto e le prescrivo dei neurolettici, mentre le spiego che è davvero troppo matta e spero che le medicine possano ciò che la psicoterapia non ha potuto. E’ come se le avessi dato una testata sul naso, in fondo lo farei volentieri, odio i pazienti che non “mi” guariscono e, peggio, quelli che sembravano guariti e non lo sono.
Decido di riesaminare passo per passo il rapporto con Stefano.
Questa sarà per lei la parte più straziante della terapia e più volte ho temuto un suicidio. Nicoletta, già con la prima terapia, aveva rinunciato all’idea di tornare con Stefano ma non ad un’ idea ancora più importante e narcisistica: lei e Stefano avevano vissuto la storia d’amore più grande che il mondo avesse mai conosciuto e questa esperienza, unica e assoluta, nessuno poteva mai togliergliela anche se non fossero più stati insieme. Partimmo alla ricerca delle ragioni per cui Stefano non aveva mai detto nulla delle sue difficoltà fino al giorno del rogito; non diceva nulla perché aveva paura delle reazioni di lei, Stefano era un bambino spaventato da una madre che minacciava di uccidersi se lui non avesse obbedito.
Con questa chiave di lettura rilesse tutta una serie di avvenimenti della loro storia in cui il forte disaccordo tra i due veniva seppellito fingendo una falsa alleanza per evitare il conflitto e la temuta separazione, intollerabile per la abissale dipendenza di entrambi che nulla aveva a che fare con un effettivo amore. Pensò che Stefano doveva averla profondamente odiata e doveva essersi sentito perseguitato non solo durante lo stalking, seguito alla separazione, ma anche durante la convivenza.
Contemporaneamente Nicoletta ebbe accesso a ricordi sgradevoli della loro relazione che non erano mai emersi prima. Trovava insopportabile Stefano quando elencava agli amici tutto ciò che faceva per aiutarla nel suo handicap, era irritata dal suo occuparsi della cucina solo in presenza di estranei, non tollerava che fosse a totale disposizione dei capricci della madre e che non la difendesse mai quando la vecchia ubriacona risollevandosi dalle pozzanghere di vomito in cui cadeva accusava “quella povera infelice sciancata” di essere la causa di tutti i suoi dispiaceri e del conseguente ricorso all’alcool, provava disgusto per le approssimative abitudini igieniche di Stefano e per l’abitudine di masturbarsi ripetutamente mentre stava a letto con lei.
Avere accesso a questi contenuti demolì l’idea narcisistica di “storia d’amore unica e perfetta” che aveva voluto mantenere anche dopo aver perduto Stefano. Il suo umore cadde in picchiata, ma mi trattenni dal prescrivere antidepressivi, quell’infinita tristezza era il deserto che andava attraversato per raggiungere la terra promessa della normalità, lasciandosi alle spalle le narcisistiche cipolle d’Egitto.
LEGGI GLI ARTICOLI SUI FARMACI
Nessuna delle successive relazioni erano state paragonabili a quella con Stefano, che risultava sempre vincente. Ora, invece, iniziava ad apprezzare relazioni in cui non ci fosse una sola persona ma due, che potevano anche essere in disaccordo, scontrarsi e persino allontanarsi un po’. Non credo per principio alla significatività delle coincidenze, ma restammo colpiti quando in una delle ultime sedute scoprimmo che il neurochirurgo che miracolosamente e contro ogni aspettativa le aveva salvato la vita dopo il volo dal quinto piano, era lo stesso che si era occupato del mio cervello, nella pausa intercorsa tra la prima e la seconda psicoterapia.
Ho rimesso Nicoletta nel cassetto dei casi risolti.
Il fatto di averla nuovamente sentita in occasione del battesimo di suo figlio, che porta il mio nome, mi conferma che sia la collocazione giusta.
LEGGI LE ALTRE STORIE DI TERAPIE
LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCELTA DEL PARTNER – RELAZIONI SENTIMENTALI – ATTACCAMENTO – GENITORIALITA’ – DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITA’ – FARMACI
– FLASH NEWS –
Di Elena Lucchetti.
Questa proprietà della sostanza era già conosciuta da circa un decennio, ma solo recentemente Ronald e collaboratori dell’Università di Yale, ne hanno compreso i meccanismi d’azione. Questo evento è di notevole importanza in quanto la ketamina, che spesso è stata adottata come “droga da strada”, può dare dipendenza e a dosi elevate può provocare sintomi psicotici.
ARTICOLI SU: DROGHE E ALLUCINOGENI – DIPENDENZE – PSICOSI
I farmaci antidepressivi di nuova generazione agiscono, mediante l’inibizione della recaptazione della serotonina, per alleviare i sintomi e la loro azione comincia in genere 2-3 settimane dopo l’inizio della cura. E’ un arco di tempo lungo per chi soffre e mette in atto comportamenti che mettono a repentaglio la propria salute. Con la ketamina, invece, l’effetto antidepressivo si manifesterebbe dopo ore e non dopo giorni. O anche solo dopo 40 minuti.
In uno studio condotto dal Zarate jr veniva somministrata la ketamina per via endovenosa a 18 pazienti malati di depressione maggiore resistente ai farmaci e dando ad altrettanti depressi un placebo. Il tono dell’umore si alzò nei primi 18 nel giro di due ore e durò fino a una settimana, cosa che non avvenne con il placebo.
In un’altra ricerca, Duman a Aghajanian, hanno messo in luce come la ketamina induca il rilascio del neurotrasmettitore glutammato, il quale, a sua volta, stimola la crescita delle connessioni sinaptiche (neuro genesi) specialmente nel giro dentato e nell’ippocampo.
ARTICOLI SU: NEUROSCIENZE – NEUROPSICOLOGIA
Tuttavia non è sempre certo che la perdita di funzionalità o l’atrofia delle cellule nervose porti alla depressione, e non sempre lo stress inibisce la neurogenesi, quindi si pone l’esigenza di comprendere meglio le relazioni fra diversi fattori e processi che la influenzano, per mettere a punto degli antidepressivi sempre più efficaci e sicuri.
Di questo aspetto si sono occupati Eisch e Petrik, dell’University of Texas Southwestern Medical Center, con uno studio sul complesso dei processi endocrini e dei percorsi di segnalazione neurochimica che controllano la neurogenesi e i loro rapporti con il comportamento. Il modello mette in luce l’importanza dei processi di regolazione locale di neurogenesi e in particolare nell’ippocampo, l’area cerebrale responsabile, se danneggiata, delle difficoltà di memoria, dei problemi di apprendimento e l’abbassamento dell’umore che si presentano congiuntamente nella depressione.
Le attuali ricerche si scontrano con problemi etici e pratici dovuti alle limitazioni dello studio della depressione in soggetti umani. Il sostitutivo utilizzo dei modelli animali non potrà mai essere soddisfacente, in quanto gli animali rispondono ai farmaci antidepressivi in modo differente e, quindi, vi è un’ incapacità di cogliere la complessità di questa malattia. Inoltre, occorre individuare il peso dei fattori genetici e ambientali.
Il contributo degli studi sulla ketamina è importante perché mette in luce che non solo la serotonina e la dopamina sono coinvolte per il tono dell’umore, ma vi sono altre sostanze e altri processi. I risultati ottenuti aprono nuove vie di ricerca del disturbo depressivo nelle differenti fasi di evoluzione del disturbo e nelle diverse fasi della terapia.
La ricerca potrebbe estendersi anche al campo delle psicosi.
ARTICOLI SUI DISTURBI DELL’UMORE
BIBLIOGRAFIA:
Il motivo principale per cui ho deciso di parteciparvi era per avere un’idea più chiara di un modello, ascrivibile alla terza ondata della terapia cognitiva, e capirne le sue applicazioni cliniche.
TERAPIE DI TERZA ONDATA: MINDFULNESS – TERAPIA METACOGNITIVA – ACT (ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY) – DBT (DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY) – CFT (COMPASSION FOCUSED THERAPY)
La CFT, o Terapia basata sulla Compassione, è stata sviluppata dallo psicoterapeuta Paul Gilbert , professore di Psicologia Clinica all’Università di Derby (UK). Il concetto cardine è proprio quello di compassione che possiamo definire come una particolare sensibilità verso noi stessi e verso gli altri.
La difficoltà ad accedere a questa dimensione per alcuni pazienti è per Gilbert la conseguenza di esperienze precoci con figure di attaccamento caratterizzate da trascuratezza o abusi.
“Non è colpa vostra” si spiega proprio nell’aiutare i pazienti, soprattutto quelli che hanno come temi problematici la vergogna e l’autocritica, a vedere come certi aspetti dolorosi della propria vita siano emersi senza che loro potessero farci nulla. L’obiettivo è quello di accompagnare la persona ad aprirsi a sensazioni di calore umano e vicinanza, le stesse che in un determinato periodo della sua vita sono state continuamente criticate ed invalidate.
Per far questo Gilbert ricorre a studi di neurofisiologia in cui vengono descritti tre sistemi di regolazione emotiva. Il primo è formato da emozioni “negative”, funzionali a proteggerci dalla minaccia (ansia e rabbia per esempio), che quando vengono attivate inducono una iper focalizzazione dell’attenzione e una serie di cambiamenti a livello cognitivo, comportamentale e neurovegetativo.
ARTICOLI DI NEUROSCIENZE NEUROPSICOLOGIA
Oltre a questo sono presenti i due sistemi responsabili delle emozioni “buone”, molto meno sviluppati nei pazienti rispetto a quello delle emozioni negative; il primo è orientato verso le emozioni attivanti (ad esempio eccitamento) e l’altro, vero bersaglio della TFC, è contraddistinto da emozioni legate alla calma, all’empatia, alla rassicurazione e sintonia con gli altri e con sé.
Il razionale della terapia è quello di costruire una relazione in cui punto centrale sia la compassione verso quei temi di vergogna ed autocritica in modo che il paziente possa interiorizzarla ed utilizzarla verso di sé. Questo punto assomiglia sotto vari aspetti a quello di reparenting di Young, come il grande ricorso alle tecniche immaginative oltre che un attenzione particolare per la Mindfulness che caratterizza l’esperienza del sé compassionevole.
Come per la Schema Therapy un aspetto del trattamento mi lascia dubbioso, cioè il rischio che si corre nel riattivare l’attaccamento all’interno della relazione terapeutica proprio in quei pazienti con alle spalle relazioni d’attaccamento estremamente dolorose e traumatiche.
TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHE – ATTACCAMENTO
L’attenzione da parte di Gilbert alle esperienze traumatiche nell’attaccamento mostra come queste terapie di nuova generazione sottolineano l’importanza del ruolo delle relazioni precoci, di fatto cercando di proporre un modello clinico più articolato rispetto alla singola suggestiva tecnica. La sensazione che però ho avuto è la mancanza di un integrazione tra i vari aspetti che possa permettere di avere chiaro nella mente un modello strutturato per poter lavorare con la complessità del paziente.
GLI ARTICOLI SULLE TERAPIE DI TERZA ONDATA: MINDFULNESS – TERAPIA METACOGNITIVA – ACT (ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY) – DBT (DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY) – CFT (COMPASSION FOCUSED THERAPY)
BIBLIOGRAFIA:
Psiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista
E allora perché tornare a discuterne anche ora, scrivendo queste righe? Un motivo c’è. Ristabilire gli equilibri in maniera asettica, o meglio, tecnica. Far luce su alcuni aspetti, probabilmente “oscuri” per internauti, lettori o spettatori dei talk show, estranei al mondo della legge.
Basta fare zapping per ascoltare termini giuridici (prelievo coattivo del minore, decadenza dalla potestà) talora poco comprensibili per i non addetti ai lavori. L’intento di questo breve intervento, dunque, non sarà quello di supportare il partito della madre, del padre, delle forze dell’ordine, della zia materna che ha filmato il video “dell’esecuzione”, o dei giornalisti che lo hanno diffuso.
Del resto, non se ne conoscono le carte processuali, e qualsiasi presa di posizione sarebbe superficiale e, probabilmente, inesatta. Così, senza alcuna pretesa di entrare nel merito della vicenda, della quale solo le parti in causa conoscono ogni minimo risvolto, ci si limiterà a fornire le chiavi di “lettura giuridica” del caso, tentando di chiarirne gli snodi principali, primo fra tutti, quello inerente la Sindrome da Alienazione Parentale (nota come Pas).
Ebbene, sorvolando sugli aspetti clinici di tale dinamica psicologica – affrontati, su questo giornale, da altri autori esperti in materia – ci si chiede: quando la condotta di uno dei genitori, dal punto di vista legale, è qualificabile come Pas? E che peso avrà nelle dinamiche processuali? Ove accertata, se accertabile, a quali soluzioni si potrà ricorrere?
Partiamo da un dato di base. L’ordinamento giuridico italiano, in virtù della Legge n. 54/06 (resa in attuazione dei principi presenti in ambito europeo, nonché della Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989, e resa esecutiva in Italia con Legge n. 176/91) prevede oggi l’affidamento condiviso come regime ordinario.
Ciò vuol dire che, salvo casi particolarissimi – in cui il giudice ritenga, all’esito di un attento vaglio, che l’affidamento condiviso possa recare pregiudizio al minore – il bimbo sarà affidato ad entrambi i genitori. L’affido condiviso, però, non significherà, come molti erroneamente pensano, che la prole dovrà necessariamente trascorrere pari spazi temporali con la mamma ed il papà.
Una tale scelta, va da sé, riserverebbe al minore una vita “da pacco postale”, destinato a spostarsi senza sosta, fino alla maggiore età, da un genitore all’altro. Per questo motivo, anche in caso di affidamento condiviso, il figlio sarà stabilmente collocato presso l’uno o l’altro dei genitori. La novità di rilievo, pertanto, risiede nel fatto che – nell’innovato sistema – non solo ciascuno dei genitori ha pari doveri e pari diritti nei confronti della prole, ma diventa legge il diritto del minore alla bigenitorialità. Espressione, questa, che va intesa come diritto dei figli a mantenere rapporti sani ed equilibrati con ciascun genitore.
Quel che si vuole garantire al minore, dunque, è la stabilità affettiva, la possibilità di continuare – anche a seguito della separazione o cessata convivenza dei genitori – a vivere, seppur non fisicamente, in un tessuto familiare improntato sulla presenza emozionale di entrambe le figure, materna e paterna.
Purtroppo, fa male constatarlo, la coppia che decide di lasciarsi, a volte dimentica che diventare “ex” non deve e non può significare trasformarsi in “genitori a metà”. Genitori si è al cento per cento, e tali si deve restare per sempre, a prescindere dai motivi che hanno provocato la fine del rapporto, o dai torti e dalle ragioni sbandierati da due persone che non si amano più.
Mio malgrado, però, i fascicoli che riposano nel mio archivio, o che fremono decisioni, posati sul tavolo di studio, di sovente, attestano il contrario. Rammarica riscontrare che, troppo spesso, le carte processuali parlano di minori “usati” come armi di ricatto, come bottini da difendere a tutti costi. Già. Perché il figlio, ahimè, anziché frutto dell’amore, diviene sinonimo di assegno, di casa familiare, di benefici. Certo, non sempre, ma quanto basta perché nasca l’esigenza di rispondere con fermezza a condotte “disattente”, poste in essere da genitori troppo concentrati sulle proprie esigenze, sul proprio desiderio di riscatto e di vendetta per la fine della loro storia, da disinteressarsi dei bisogni più reali del minore.
Di qui, la condanna per ogni forma di coinvolgimento dei figli nelle battaglie “dei grandi”, indice d’inadeguata capacità genitoriale e fonte di inevitabili negative ripercussioni sul percorso di crescita della prole, lesa nella serenità e nello sviluppo dell’autostima. Condizione, quella descritta, che si aggrava quando allo svilimento del ruolo del genitore non convivente con la prole, si affianchi una vera progettualità ideata dall’affidatario o collocatario, che elabori un piano ben preciso, teso ad escludere l’altro dal percorso di vita del figlio, denigrandolo, ridicolizzandolo, e vestendolo dei panni di “cattivo genitore”.
Genitore, quello alienato, dal quale è un bene fuggire, che è deleterio incontrare. Un clima, in cui il minore viene manipolato, istruito ad accusare malore o stanchezza in occasione degli incontri con il genitore non convivente, o, ciò che più duole, indotto a rifiutarne “volontariamente” le visite, alleandosi al “genitore buono”. In tali circostanze si parla di Pas, che la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha riconosciuto come abuso (cfr. Linee guida in tema di abuso sui minori, redatte su indicazioni contenute nel Piano Sanitario Nazionale, nel Progetto Obiettivo Materno Infantile e nel Progetto Obiettivo Salute Mentale).
Linee, che racchiudono sia le definizioni di abuso dell’O.M.S., che le classificazioni delle varie forme abusanti, nel cui ambito la Sindrome di Alienazione Genitoriale compare come abuso psicologico, ovvero come “alienazione di una figura genitoriale da parte dell’altra”. Ad ogni modo, a prescindere dalla dibattuta questione sulla preferibile elisione del termine Sindrome in favore dell’espressione “Alienazione Parentale” – di probabile introduzione nel DSM V, tra i “Disturbi Relazionali” – resta il fatto che a tali atteggiamenti il sistema giuridico deve rispondere in maniera forte, stanti gli incontrovertibili rischi per la salute mentale del minore.
ARTICOLI SU: BAMBINI & ADOLESCENTI
Ed ecco che, ostacolare i rapporti del figlio con l’ex, può costare persino la decadenza dalla potestà genitoriale, intesa come il potere che la legge attribuisce ai genitori, tenuti (nel rispetto del dovere di mantenere, istruire ed educare la prole) ad esercitarlo esclusivamente nell’interesse dei figli. Per le spiegate ragioni, nell’ipotesi in cui il genitore venga meno, in maniera gravissima, a detti doveri, morali e patrimoniali, trascurando/abusando del minore, decadrà dalla potestà.
Questo, in sostanza, è quanto accaduto a Cittadella. Ma cosa vuol dire esattamente “decadere”? Di certo, non vuol dire che il giudice decida di troncare ogni rapporto tra il minore e il genitore, che non riesca o non voglia attendere al suo ruolo. Se così fosse, non solo si finirebbe per traumatizzare ulteriormente il bimbo, ma si sottovaluterebbe la concreta possibilità che il decaduto possa comprendere gli errori commessi, lavorare su se stesso – magari con il sostengo di una mirata psicoterapia – e riconquistare il naturale potere di decidere per il figlio, o di vederlo liberamente.
ARTICOLI SU TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHE
Decadenza, dunque, significherà “controllare” il comportamento del genitore, affiancarlo nei momenti di contatto con la prole, obbligarlo al rispetto di una serie di indicazioni che il Giudice avrà studiato a tutela del minore. È evidente, allora, come un tale provvedimento – emesso dal Tribunale, ma reclamabile in Appello – proprio perché teso al benessere del piccolo e, perché no, al recupero di un sano rapporto con il genitore decaduto, sarà revocabile e modificabile in ogni tempo.
Tuttavia, fino a “contrordine” dell’autorità, disposto a seguito di un’attenta revisione della situazione familiare, la sentenza che abbia dichiarato la decadenza dalla potestà deve essere rispettata ed eseguita. Questo va annotato e precisato, anche e soprattutto con riferimento alla vicenda padovana, caso in cui il mancato rispetto della decisione giudiziale si protraeva da ben tre anni! Ma cosa accade se i genitori, anziché collaborare con le istituzioni, preparare il figlio al distacco, o consegnarlo spontaneamente, si oppongano all’esecuzione del provvedimento del giudice? Accade che saranno i Servizi Sociali, e le Forze dell’Ordine in loro ausilio, a dover scendere in campo, e fare in modo che la sentenza sia attuata (cfr. Linee guida per i processi di sostegno e di allontanamento del minore).
LEGGI ANCHE: Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.
Il punto di vista, da Presidente Territoriale A.M.I. (Associazione Matrimonialisti Italiani). Nell’indicata veste, non posso che aderire alle puntuali e perspicaci perplessità sollevate dal Presidente Nazionale, stimato Avv. Gian Ettore Gassani. Concordo con il Collega, quando si chiede il perché, durante il prelievo, vi fosse la presenza dei genitori del minore e di alcuni parenti materni, e il perché gli stessi, a fronte delle resistenze opposte, non siano stati allontanati o arrestati data la flagranza dei reati in concorso di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.
Il punto di vista, da Giornalista. La mia professione di Avvocato, convive da anni con quella di Giornalista iscritta nell’albo dei pubblicisti. Ebbene, ricordo che proprio in sede di esame, fui chiamata a parlare della Carta di Treviso, un documento appositamente scritto per garantire la privacy dei minorenni. Rinviando gli interessati alla lettura della Carta, basterà qui annotare, in via estremamente esemplificativa che, a mezzo di tale protocollo – firmato da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono Azzurro – si è voluta tessere una rete di protezione dei diritti dell’infanzia, a tutela della sua riservatezza.
In effetti, se è vero che la Carta costituzionale sancisce il diritto di cronaca, è anche vero che nel fornire le notizie, i mezzi d’informazione sono tenuti ad attenersi al rispetto di “regole” ben precise. Si esige, ad esempio, che “nessun bambino dovrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegali nella sua privacy né ad illeciti attentati al suo onore e alla sua reputazione”, alla luce del “presupposto che la rappresentazione dei loro fatti di vita possa arrecare danno alla loro personalità. Questo rischio può non sussistere quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando”.
È gravissimo, pertanto, che, ancora una volta, si assista ad una palese violazione di un apparato cristallino, che non tollera pericolose intromissioni nella sfera privata del minore, e che obbliga il giornalista all’osservanza di tutte le disposizioni penali, civili e amministrative che regolano l’attività di informazione e di cronaca giudiziaria in materia di minori, specie se coinvolti in procedimenti giudiziari. E se va garantito l’anonimato del minore coinvolto in fatti di cronaca – anche non aventi rilevanza penale, ma lesivi della sua personalità – va altresì “evitata la pubblicazione di tutti gli elementi che possano con facilità portare alla sua identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo dell’abitazione o della residenza, la scuola, la parrocchia o il sodalizio frequentati, e qualsiasi altra indicazione o elemento: foto e filmati televisivi non schermati, messaggi e immagini on-line che possano contribuire alla sua individuazione”.
Anonimato da garantirsi, si badi, anche nei casi di affidamento o adozione, o inerenti genitori separati o divorziati, così evitando – si legge nell’atto – “sensazionalismi”. Ebbene, non credo occorrano altre parole per rendersi conto di quanto sia sconcertante la vicenda di Padova, ove si pensi alla diffusione mediatica del video. E allora mi domando. Prima che l’esecuzione in sé (contestabile o meno, anche alla luce degli esposti rilievi) di un provvedimento emesso dalla magistratura minorile – in linea con il benessere psicofisico del minore – non è forse l’aver filmato e messo in onda il “prelievo” a ledere, più di tutto, la serenità del bambino? Per quanto tempo si parlerà ancora del piccolo Leonardo? Quanti salottini televisivi riproporranno quelle immagini, peraltro filmate da parenti?
Sappiamo bene che passeranno mesi, prima che possa finalmente calare il sipario su tanto squallore. Senza contare, che la sete di spiare la vita degli altri, di accendere l’occhio del “grande fratello” sui drammi del “vicino di casa”, purtroppo, non farà che alimentare sterili discussioni su fatti di cui, a ben vedere, nulla o poco sappiamo. Ma se una familiare arriva al punto di “portare in TV” lo strazio di un minore, siamo giunti al capolinea del buon senso nel momento in cui il sistema mediatico ne divulga il video senza remora.
Il punto di vista, da Socio Fondatore della Camera Minorile distrettuale. A chiusura di questo modesto intervento, richiamo la posizione dell’Unione Nazionale Camere Minorili, con il cui Presidente concordo quando, riferendosi alla vicenda di Padova, parla di “grave violazione a livello giornalistico della normativa a tutela del diritto alla privacy dei minori”. È vero. Come avvocato, ma soprattutto come giornalista, è doloroso ammetterlo, ma è così. Le immagini, che tutti conosciamo, sono state divulgate e arricchite con dati che rendono estremamente agevole risalire all’identità del bambino. Nel comunicato, che si invita a visionare, si pone, inoltre, l’accento sull’elaborata proposta di modifica del Codice Deontologico Forense, che esorta gli avvocati, nel relazionarsi con la stampa in ordine a procedimenti familiari e minorili, ad adottare estrema cautela, anche sensibilizzando gli assistiti a tenere indenne il minore da pregiudizievoli esposizioni mediatiche.
PER APPROFONDIMENTI:
TUTTI I REPORTAGES DALLA SITCC 2012
Confronto molto interessante quello che ha visto come protagonisti Giuseppe Nicolò, Giorgio Rezzonico e Lucio Sibilia e moderati da Sandra Sassaroli. I tre relatori, è ormai noto, rappresentano tre poli importanti della terapia cognitiva all’interno della SITCC. Sicuramente uno dei simposi più importanti del Convegno.
Nella bellissima Sala 2 dell’Angelicum di Roma apre le danze Giuseppe Nicolò. Il tema dei processi di cambiamento in terapia cognitiva viene sviluppato prendendo come riferimento il modello del Terzo Centro di Roma sulla Metacognizione.
Nella relazione, vengono identificati quali dovrebbero essere i fattori di cambiamento da prendere in considerazione per valutare il processo terapeutico e la sua efficacia: tali mediatori dovrebbero avere un effect-size misurabile ed essere specifici. La proposta di Nicolò sarebbe quella di considerare, ad esempio, alcuni mediatori di cambiamento che riflettano le capacità metacognitive del paziente, come ad esempio misure come la RF Scale (che misura la funzione riflessiva), TAS (che misura la disregolazione affettiva) e la nota SvAM (che misura le componenti della metacognizione).
In psicoterapia, viene considerato fondamentale chiarire e disporre di una cornice chiara e definitiva che includa un razionale del modello terapeutico e del cambiamento, obiettivi specifici e chiari (che possano essere misurati e vagliati quantitativamente), strumenti precisi che promuovano il cambiamento di tali mediatori e infine stabilire in modo chiaro quali siano i mediatori del cambiamento che si vogliono prendere in cosiderazione.
LEGGI GLI ARTICOLI SU: “IN TERAPIA”
L’intervento di Giorgio Rezzonico si concentra sui fattori di cambiamento nella prospettiva costruttivista. Il tema centrale della relazione è il seguente: “più ci si concentra sugli aspetti specifici, più si rischia di perdere il senso d’insieme della psicoterapia“. La proposta di Rezzonico è quella di utilizzare “protocolli modificati”, ampliando gli interventi con gli aspetti specificamente costruttivisti. E visto che, secondo Rezzonico, “non possiamo insegnare niente alle persone, bensì creare palestre di allenamento relazionale“, è necessario dotarsi di misure di cambiamento che siano indirette e complesse.
Il suo punto di vista sull’uso delle tecniche in terapia, invece, riflette la necessità di integrarle all’interno di una visione più complessa e ampia della psicoterapia. Il focus del modello costruttivista, però, non è certo quello delle tecniche, bensì la costruzione condivisa di un significato e l’attenzione al cambiamento degli stati mentali del paziente, che evolve in quanto agente e co-protagonista di esperienze nuove, create o elicitate nella relazione terapeutica.
LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCIENZE COGNITIVE
L’ultimo intervento, ad opera di Lucio Sibilia, inizia da una constatazione, cioè che “moltissimi approcci cognitivo-comportamentali hanno fondamenti empirici e spiegano il cambiamento ma nessuno di loro rende conto di tutti i fattori clinici“. Questo porta allo sviluppo “esponenzialmente divergente” tra modelli differenti che, pur riferendosi ad una cornice epistemologica (più o meno) comune, non ha portato ad una teoria unificante.
La tesi discussa da Sibilia è interessante: (parafrasando) se io faccio un buon caffè, voi lo bevete e siamo tutti contenti. Ma per costruire una scienza del caffè devo fondarla su dati empirici.
Il problema delle divergenze teoriche, e della loro spiegazione empirica, potrebbe essere colmato, o almeno ridotto, prendendo in considerazione il modello del “determinismo reciproco”, teoria secondo la quale esistono quattro elementi chiave che potrebbero, se inclusi nelle teorie, spiegare LE terapie cognitivo-comportamentali. Tale aspetti sono i contenuti e i processi cognitivi, le risposte emotivo/affettivo-viscerali (che rappresentano il soggetto, la sua “esperienza interna”) e i comportamenti motori e gli stimoli e le condizioni ambientali (che rappresentano, invece, il mondo esterno, l’ambiente).
Quali sono i fattori di cambiamento? secondo Sibilia tutti, a seconda del livello di analisi cognitiva che si intende prendere in considerazione.
LEGGI GLI ARTICOLI SUL COSTRUTTIVISMO
Sicuramente il simposio è stato molto stimolante, ha arricchito le mie conoscenze e ha confermato che esistono differenze teoriche e cliniche sostanziali che è difficile integrare. Credo, però, che sia più utile concentrarsi sugli aspetti integrabili e di confronto piuttosto che sulle differenze, che prendono il via da storie personali, formazione, esperienze e visioni della clinica e del mondo temporalmente ormai lontani.
E per farlo, prendo spunto dalla discussione di Sandra Sassaroli a termine del Simposio.
Il fatto che la terapia cognitiva abbia da sempre posto attenzione all’indagine sistematica e empirica della psicoterapia che facciamo con i nostri pazienti rappresenta un patrimonio importante della Terapia Cognitiva, che non va assolutamente sprecato né sminuito. Esso infatti ha contribuito a portare la TCC dove ora si trova. E questo è un fatto.
Prendo al volo la bella metafora utilizzata da Sassaroli durante la discussion: I Puffi.
Molti di noi sono dei puffi con i pazienti, nel senso che abbiamo uno stile relazionale “caldo” e accogliente, che utilizza anche l’umorismo e la risata come strumento terapeutico.
Si può, quindi, benissimo essere “aspecifici”, cioè dare molta attenzione ai fattori aspecifici della terapia (più complessi e “costruttivisti” se mi passate il termine) continuando però a fare tentativi di misura di quello che facciamo.
Esortazione quindi non è quella di essere super-specifici e avere un atteggiamento “blind” che perda il senso globale e complesso dell’esperienza e del percorso terapeutico. Si può farlo tentando e continuando a cercare i mediatori di cambiamento che ci permettono e legittimano ad essere anche “aspecifici”. Se no, il rischio di autoreferenzialità è davvero alto.
Insomma, si può essere creativi e Puffi al tempo stesso misurando e questo ci rende più forti e consapevoli con i pazienti, con gli allievi e con il mondo scientifico internazionale, che troppo spesso relega il patrimonio cognitivista italiano a un ruolo eccessivamente marginale, per quanto consistente e brillante esso possa essere.
Quindi… “Siate pure Puffi, ma misurate quello che fate!”.
TUTTI GLI ARTICOLI SU SITCC 2012 – ROMA
Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero
ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA
di Emma Fadda
ACQUISTA ONLINE: VOLUME 1 – VOLUME 2
TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND
Il libro Attraversare Le Emozioni curato da Diana Fosha, Daniel Siegel e Marion Solomon si fa portavoce e sostenitore dei recenti modelli teorici e clinici nell’ambito della tradizione cognitivista, che riconoscono e rivendicano “le emozioni al punto di incontro tra pensiero ed azione, tra sé e altro, tra persona e ambiente, tra biologia e cultura”, riconoscendo quindi il primato delle emozioni corporee come causa potenziale di patologia, come vero agente del cambiamento e come strumento attraverso il quale è possibile l’incontro, la connessione e la costruzione di legami con l’altro.
ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA
Questi modelli bottom-up promuovo nuovi interventi psicoterapeutici corporeo-esperienziali che si contrappongo ai modelli cognitivi classici di tipo top-down, che per lungo tempo hanno riconosciuto un primato alle cognizioni non solo nell’idea che contenuti, processi e strutture cognitive influenzino le emozioni e il comportamento, ma nella convinzione che la psicopatologia sia il frutto di prodotti del pensiero disfunzionali e che di conseguenza la cura rappresenti un processo in cui l’insight cognitivo rappresenta in un certo senso ciò che produce cambiamento.
L’obiettivo ambizioso che si pongo gli autori è quello di comprendere la totalità dell’esperienza dell’emozione attraverso l’analisi dei legami di interconnessione esistenti tra i diversi livelli strutturali gerarchici dell’emozione stessa: emozione come evolutivamente organizzata nel cervello, emozione come processo fisiologico, emozione come stato di coscienza, emozione come frutto dell’attaccamento, emozione come integrazione e infine emozione come agente di connessione tra le persone, capace di generare allo stesso tempo malessere e benessere.
Questo è ciò che secondo gli autori permette infatti di attraversare le emozioni, che significa incontrarle, sperimentarle primariamente nel corpo, nominarle, quindi comprenderle nei molteplici significati che esse veicolano e utilizzarle come strumenti di consapevolezza di sé, dell’altro, della relazione, della malattia e della salute.
LEGGI GLI ARTICOLI SULLA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO
L’impresa degli autori è riuscita, grazie al congiunto apporto del contributo di esperti provenienti da diversi ambiti del sapere psicologico che danno consistenza e coerenza all’intera opera, sebbene questa operazione di aggregazione non fosse di facile realizzazione.
Le emozioni ci vengono quindi raccontate partendo dal punto di vista delle Neuroscienze Affettive, della Psicologia dello Sviluppo, della Neurobiologia Interpersonale, della Teoria dell’Attaccamento, della Psicoterapia e della Mindfulness.
L’edizione italiana ripropone il testo in due volumi, il primo dei quali propone il lavoro di cinque autori, Jaak Panksepp, Stephen Porges, Colwyn Trevarthen, Ed Tronik, Allan Schore e Daniel Siegel che ci raccontano le emozioni arricchendo costantemente le loro argomentazioni di riferimenti alla letteratura scientifica internazionale più recente, mai dimenticando di evidenziare con puntualità ed attenzione le dirette implicazioni in ambito clinico e psicoterapeutico.
Questi affetti emotivi del processo primario – primario nei termini dell’essere non solo il frutto dell’evoluzione neurobiologica della specie, ma pre-proposizionali, pre-linguistiche, pre-cognitive e prive di scopo – sono organizzate nel cervello in specifiche aree celebrali e si configurano nell’attivazione di definiti circuiti neuronali frutto dell’evoluzione della specie. Questi sistemi emotivi inter-mammiferi non sono quindi creati dall’esperienza ma possono essere modellati da essa nel contesto ambientale e relazionale in cui l’individuo vive, organizzandosi in forme più complesse e più o meno adattive. Ogni sistema emotivo viene precisamente descritto nella sua multicomponenzialità – neurostrutturale, neurofunzionale, corporea e cognitivo-affettiva -, suggerendo la necessità in ambito psicoterapeutico che i processi primari del paziente vengano esplicitati a partire dalla loro manifestazione corporea, con lo scopo ultimo di riconsolidare quelle memorie affettivo-cognitive causa di sofferenza. Ma i sistemi emotivi non sono solo connessi a uno specifico stato viscerale; regolazione neurale degli stati viscerali e l’interazione sociale sono in grado di alterare la reattività del sistema stesso, con la possibile comparsa di una sintomatologia clinica rilevante. La Teoria Polivagale (Porges S.W., 2007) sottolinea quindi come l’evoluzione ci abbia dotati di un sistema di coinvolgimento sociale, neuroanatomicamente organizzato, che se regolato è in grado di garantire l’interazione sociale, mentre se scarsamente regolato può esprimersi in stati fisiologico-emotivi disfunzionali, tipicamente osservabili in molteplici quadri psicopatologici. Questa prospettiva teorica apre la strada alla progettazione di nuove tipologie di interventi clinici, che agiscano al fine di innescare circuiti neurali che favoriranno comportamenti spontanei di coinvolgimento sociale, quindi di benessere psichico.
LEGGI GLI ARTICOLI SULL’APPROCCIO COGNITIVO-EVOLUZIONISTA
Le emozioni quindi regolano la vita sociale, ci rendono fin dalla nascita competenti e capaci di creare intersoggettività. Una intersoggettività che è scritta nel nostro cervello. Questa la ragione per cui il benessere emotivo non può essere raggiunto efficacemente in terapia attraverso l’istruzione o il “training” del comportamento ma piuttosto l’incoraggiamento empatico alla condivisione e all’interazione come strumento per apprendere nuovi significati. Se quindi siamo intrinsecamente degli animali emozionali e predisposti all’intersoggettività è attraverso essa che vecchie emozioni possono essere modificate o nuove emozioni create. La teoria dell’attaccamento riveste in questo scenario un ruolo chiave, nella misura in cui interazioni sicure del bambino con il proprio caregiver si sono dimostrate in grado di facilitare la maturazione di quelle stesse reti di circuiti neuronali che regolano le emozioni, favorendo quindi l’interazione e la formazione di legami sociali. L’emozione è quindi integrazione, la sensazione di sentirsi legato, sentirsi un’unica cosa con l’altro. E se la guarigione ha a che fare con l’integrazione allora la psicoterapia deve avere l’obiettivo di promuovere la guarigione attraverso la relazione diadica tra due persone.
LEGGI GLI ARTICOLI SULL’ALLEANZA TERAPEUTICA
Il secondo volume del libro è interamente dedicato alla psicoterapia: gli autori dei cinque capitoli Diana Fosha, Pat Ogden, Marion Solomon, Susan Johnson e Dan Hughes, offrono il loro contributo all’applicazione in ambito terapeutico delle evidenze sperimentali e le conoscenze sulle emozioni proposte nel primo volume, arricchendole di casi clinici e trascrizioni commentate di momenti particolarmente significativi di sedute terapeutiche. Fosha propone una descrizione accurata del processo trasformativo basato sulle emozioni proprio dell’Accelerated Experiential Dynamic Psychoterapy (AEDP), entro la quale la psicopatologia è concepita come conseguenza dell’inibizione o dell’impossibilità di condivisione degli affetti. La terapia diventa quindi un processo di guarigione che parte dalla consapevolezza corporea degli stati emotivi bloccati o negati al fine di riconoscerli, comprenderne il significato e ricostruirli, integrando il nucleo centrale degli affetti del paziente. Il concetto di finestra di tolleranza affettiva proposto da Ogden identifica esattamente quella zona ottimale di attivazione fisiologica entro cui le emozioni possono essere di fatto processate. Ciò significa che stati di ipo- o iper- attivazione frequenti spesso in psicopatologia non consentono un corretto processamento e risoluzione degli stati emotivi. L’espansione dei confini di regolazione deve essere quindi obiettivo primario della terapia del trauma e dell’attaccamento, e può essere perseguito attraverso esperienze di empowering o di comportamenti interattivi che favoriscono l’attaccamento, il legame interpersonale. In questo contesto acquista un valore terapeutico rilevante, oltre alle psicoterapie esperienziali, la Mindfulness, che attraverso l’auto-osservazione consente la presa di contatto e consapevolezza delle proprie emozioni, così come favorire l’empowering.
LEGGI GLI ARTICOLI SULLA MINDFULNESS
Il lavoro sull’affettività viene approfondito da Solomon nell’ambito della relazione di coppia, all’interno delle quali possono ri-attivarsi emozioni dolorose sperimentate nel legame di attaccamento precoce infantile, rischiando di compromettere il legame di coppia. Lavorare con la coppia significa quindi aiutare i partner a riconoscere come i pattern sviluppati nell’infanzia si ripresentino nelle relazioni correnti, fino a ristabilire un livello di connessione intima affettiva che passi attraverso il dialogo, l’intimità e la condivisione affettive. Il lavoro sulle emozioni nella coppia viene descritto da Johnson con particolare riferimento alla Emotionally Focused Therapy (EFT) mentre il contributo di Hughes si focalizza sull’intersoggettività e la comunicazione emotiva all’interno della terapia familiare, in cui è compito del terapeuta accompagnare la famiglia entro un processo di esperienza e condivisione affettiva genuina.
LEGGI GLI ARTICOLI SULLA COPPIA
I due volumi dell’opera offrono una sintesi sul tema delle emozioni adeguatamente sostenuta da un punto di vista scientifico, con riferimenti aggiornati e recenti. La bibliografia è corposa, ed offre sia ai clinici che ai non addetti ai lavori molteplici spunti di riflessione ed approfondimento. Il secondo volume offre in particolare agli psicoterapeuti di orientamento cognitivo e non solo una visione amplia dei setting diversi in cui il lavoro sulle emozioni può essere applicato, e trascrizioni di dialoghi in contesto clinico che rendono la lettura piacevole facilitando la comprensione anche delle fasi di processo terapeutico più complesse.
ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA, TEORIA DELL’ATTACCAMENTO,
APPROCCIO COGNITIVO-EVOLUZIONISTA, ALLEANZA TERAPEUTICA, MINDFULNESS, COPPIA
Gabriele Caselli – Giancarlo Dimaggio
Moderatore Giovanni M. Ruggiero
Discussant: Barbara Comerci
ARTICOLI SU: METACOGNIZIONE – TERAPIA METACOGNITIVA
TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE
– FLASH NEWS –
LEGGI GLI ARTICOLI SU: DEPRESSIONE – POSTURA
Il trattamento della depressione si è prevalentemente concentrato sui farmaci e sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale e ha dedicato poca attenzione agli effetti del movimento del corpo e della postura. Un recente studio ha esaminato come la postura del corpo durante il movimento influisce sul livello soggettivo di energia. Il professor Erik Peper e il suo team hanno scoperto che modificare la postura del corpo, assumendo una posizione più eretta, permette di migliorare sia l’umore che il proprio livello di energia.
LEGGI GLI ARTICOLI SU: ATTIVITA’ FISICA
110 studenti universitari hanno valutato il loro livello di energia prima di fare una camminata: la consegna era quella di procedere per qualche minuto in una posizione rilassata e di proseguire poi saltellando. Dopo entrambi i tipi di movimento, rilassato e saltellante, gli studenti erano invitati nuovamente a valutare il loro livello di energia.
Dopo la camminata rilassata, i partecipanti hanno sperimentato una diminuzione della loro energia personale, mentre dopo avere saltellato hanno sperimentato un aumento significativo di energia. Nella seconda parte del test venivano valutati anche i sentimenti e sintomi legati alla depressione dopo i due tipi di camminata. Anche in questo caso gli studenti hanno riferito di sentirsi più depressi dopo la camminata rilassata, mentre lo erano decisamente meno quando saltellavano.
In conclusione, cambiando posizione, il livello di energia soggettivo può essere diminuito o aumentato. Anche nella cura della depressione quindi è bene ricordare che, insieme a interventi farmacologici e psicoterapici, semplici accorgimenti come il cambio di postura mentre si cammina può essere un valido supporto al miglioramento del tono dell’umore e del senso di energia personale.
LEGGI GLI ARTICOLI SU: DEPRESSIONE
LEGGI GLI ARTICOLI SU: ATTIVITA’ FISICA
BIBLIOGRAFIA:
Cristina Ferrari, Centro di Psicologia Clinica USL di Modena
Spesso, come tirocinante in Psicologia, mi ritrovo a rispondere a domande come “Ma sei proprio sicura di voler lavorare con i matti? Non hai paura di diventare matta anche te?“, “Ti andrà bene il lavoro di questi tempi con tutti i matti che ci sono in giro!“. E nella mia testa la risposta è sempre la stessa “Ma sapete cosa significa essere psicologo?“. In effetti spesso la gente non sa di cosa si occupa realmente lo psicologo, o meglio, non sa CHI si rivolge allo psicologo.
La tendenza comune è quella di basarsi sulla distinzione netta tra salute e malattia, tra sano e malato, senza valutare tutte le possibili sfumature che ci possono essere in mezzo, soprattutto per quanto riguarda il campo della salute mentale. Quindi sono i “matti-malati” ad andare dallo psicologo, non la gente “normale-sana”.
Non ci si rende conto che tutti possiamo inciampare nel corso della vita di fronte a situazioni che possono portarci a quella che chiamiamo “sofferenza psicologica“. Queste situazioni possono essere rappresentate da lutti, frustrazioni, situazioni difficili e stressanti, che putroppo capita a molti di dover affrontare e che ci portano ad essere più fragili e vulnerabili.
Non pensate che forse anche le persone che affrontano queste situazioni potrebbero rivolgersi ai servizi di Psicologia?! E che probabilmente queste persone non sono per forza da etichettare come “matte”?!
Forse è giunto il momento di andare oltre il solito pregiudizio del matto che va dallo psicologo. Anche perché è proprio questo pregiudizio verso i “matti” che spesso blocca la possibilità di crescita di questi, con il rischio di maggior segregazione dalla società.
Ma chi l’ha detto che uno psicotico, un depresso o un autistico non possono essere d’aiuto per un miglioramento della società? Non è certo “mettendoli in angolo” che si migliora la loro situazione e si risolve il problema.
L’obiettivo che ci si propone con la seconda edizione della Settimana della Salute Mentale a Modena è proprio quello di “avvicinarsi al pubblico con iniziative che puntano al superamento dei grandi pregiudizi che spesso portano all’esclusione o alla marginalizzazione delle persone affette da disturbi” come ci ricorda Fabrizio Starace, il direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Modena.
La Settimana inizierà venerdì 19 presso l’auditorium “Marco Biagi” di Modena con un introduzione ai lavori, e fino a venerdì 26 si continuerà con dibattiti e conferenze, per addetti ai lavori e non, su temi che spaziano dalla genitorialità all’esperienza traumatica del terremoto, dagli OPG ai gruppi di Auto Mutuo Aiuto, ecc. La settimana comprende inoltre eventi artistici e culturali come mostre, concerti, spettacoli teatrali, film che ci faranno vedere da prospettive diverse cosa significa salute mentale.
SCARICA IL PROGRAMMA COMPLETO DELLA SETTIMANA DELLA SALUTE MENTALE –
E-BOOK: LE PAROLE DELLA SALUTE MENTALE – GLI AFORISMI
La salute mentale non sarà solo “roba da matti”
Giada Piraccini
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULL’EMDR
EMDR è un trattamento psicoterapeutico originariamente nato per desensibilizzare efficacemente i sintomi disturbanti legati ai ricordi traumatici. Nell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing grazie ai movimenti oculari si riducono gli effetti dei sintomi (desensibilizzazione) e si riattiva il fisiologico processo di elaborazione delle informazioni (riprocessamento).
ARTICOLI SU: TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHE
L’efficacia del trattamento EMDR nella cura di diversi disturbi psicologici è evidence-based, scientificamente comprovata da numerosi studi scientifici* che ne descrivono anche i correlati neurobiologici e neurochimici (si veda la nota* per una bibliografia specifica su tali studi).
L’EMDR è un trattamento riconosciuto ufficialmente da diversi organismi internazionali quali l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, il Dipartimento della Difesa degli USA, l’Israeli National Council for Mental Health che, nelle loro linee guida per la pratica clinica, lo indicano come terapia d’elezione per la cura del disturbo post-traumatico da stress.
A livello europeo l’EMDR è riconosciuto come psicoterapia efficace dal Clinical Resource Efficiency Support Team (CREST) dell’Irlanda del Nord, dal Dutch National Steering Committee Mental Health Care, dal French National Institute of Health and Medical Research (INSERM), dal Medical Program Committee /Stockholm City Council, dal United Kingdom Department of Health) per il trattamento di numerose psicopatologie associate al trauma tra cui i disturbi d’ansia, la depressione e gli attacchi di panico (cit. in Fernandez I., et al., 2011).
LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: SISST – SOCIETA’ ITALIANA PER LO STUDIO DELLO STRESS TRAUMATICO
L’applicazione della tecnica EMDR è svolta sempre all’interno di un processo psicoterapeutico che ha come base teorica il modello AIP (Shapiro F., 1995), Adaptive Information Processing, cioè il modello dell’elaborazione adattiva dell’informazione. Tutti gli esseri umani possiedono un sistema fisiologico di elaborazione dell’informazione volto a fornire risoluzioni positive (adattive) di ciò che accade in ogni istante.
In condizioni normali, il sistema di elaborazione organizza le informazioni creando collegamenti adeguati con esperienze passate, risolvendo i problemi, riducendo lo stress emotivo, utilizzando costruttivamente l’esperienza e contribuendo a generare nuovi apprendimenti (Shapiro F., 2000).
Ad esempio, una bambina che può farsi male cadendo dall’altalena: andrà dalla mamma piangendo e si rassicurerà grazie al conforto e alle cure appropriate. La paura di tornare sull’altalena passerà e la bambina imparerà da questa esperienza ad andare in altalena in modo sicuro.
Il nostro cervello è dunque continuamente stimolato da informazioni che vengono immagazzinate in maniera più o meno conscia, in diversi modi, ma sempre in senso adattivo, utile per la persona. L’informazione viene cioè integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo, utile alla persona (Shapiro F., 1995).
Le informazioni si associano a pensieri, emozioni, sensazioni e vanno a formare un sistema fruibile e coerente per la comprensione di ciò che accade, una conferma di ciò in cui crediamo, un apprendimento per il futuro, un’idea di sé e del mondo. Insomma, vanno a costruire la mente stessa e la nostra identità; e forniscono agli individui gli strumenti per comprendere il mondo e le regole per agire.
Il trauma è definibile come evento dirompente, che sovrasta la capacità della mente di integrare ed elaborare i dati ad esso connessi.
Riprendiamo l’esempio della bambina caduta dall’altalena: può accadere che non trovando una soluzione adattiva, inizi a sperimentare ansia rispetto all’uso dell’ altalena e che il suo disagio non diminuisca. Il suo sistema di elaborazione ha immagazzinato l’esperienza ma non l’ha elaborata: rimane la paura di andare in altalena, disconnessa dal piacere di dondolare avanti e indietro. “L’evento rimarrà “congelato” nel tempo, associato alla paura e al dolore”. (Shapiro F., 2011)
Il trauma è un’informazione che la mente non riesce a metabolizzare, a rendere coerente con l’esperienza già immagazzinata; esso blocca il naturale processo di elaborazione dell’informazione sopra descritto perché è per sua natura impensabile, intollerabile.
Per trauma intendiamo sia “l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all’integrità fisica” (APA, 1994) e psichica dell’individuo sia l’assistere a eventi traumatici accaduti ad altri o essere esposti al rischio che tali eventi accadano ad un familiare o altra persona significativa. (APA, 1994).
Non dimentichiamo che “la definizione di trauma psicologico deve essere estesa a includere gli aspetti relazionali: minacce gravi non all’integrità fisica di un organismo ma al tessuto delle sue relazioni”. (Liotti G., Farina B., 2011).
Spesso accade che il trauma psicologico si verifichi anche in assenza di eventi dannosi ma che sia determinato dalla compromissione di relazioni fondamentali per la vita psichica delle persone.
La trascuratezza emotiva è uno dei traumi più frequenti e misconosciuti (in quanto trauma): negli USA è stato rilevato che dei bambini maltrattati quelli vittima di neglect (traducibile come abbandono, negligenza) sono il 60%, mentre i bambini vittime di abusi sono il 13%, quelli vittime di violenze fisiche il 10%, le vittime di abusi sessuali il 7% (Fairbank J.A., Fairbank D.W., 2009).La grave trascuratezza emotiva del bambino da parte del genitore o l’abbandono traumatico sono esperienze dannose per la psiche tanto quanto il maltrattamento fisico o l’abuso.
LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA
Se è facile comprendere come alcuni eventi possano essere traumatici per la maggior parte della popolazione (disastri naturali, incidenti gravi, morti, malattie, gravi danneggiamenti dell’integrità fisica o psichica) non è così automatico capire perché alcuni eventi siano traumatici solo per alcuni soggetti. Allo stesso modo ci si chiede come mai alcuni eventi apparentemente non traumatici possano essere veramente “indigeribili” per alcune persone.
La capacità di elaborazione del trauma è altamente soggettiva e dipende dalla compresenza al momento del trauma di diversi fattori di rischio e di protezione. L’età in cui avviene il trauma, la biologica predisposizione soggettiva, lo stile di attaccamento e lo stile cognitivo della persona, la presenza o assenza di fattori di protezione, quali la rete sociale, la qualità delle relazioni interpersonali, la presenza di un supporto emotivo sicuro, la cura psicoterapeutica, sono i fattori che contribuiscono a bloccare (o al contrario favorire) il processo di elaborazione.
LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO
Inoltre, il complesso sistema della rappresentazione interna di sé e del mondo, proprio e specifico di ogni persona, contribuisce alla capacità del soggetto di far fronte all’impatto dell’evento traumatico.
La teoria del processamento delle informazioni e la psicotraumatologia presuppongono due principi fondamentali per la comprensione del funzionamento dell’EMDR e della sua efficacia.
Un presupposto è che la patologia attuale, ovvero il malessere che porta il paziente a richiedere l’aiuto terapeutico, è connessa con i traumi subiti e con l’idea di sé che la persona ha costruito nel corso delle sue interazioni interpersonali. L’evento traumatico può contribuire a formare un’idea di sé negativa oppure confermare un timore già presente.
Un secondo punto di partenza teorico è che la mente di ogni essere umano possiede la capacità di elaborare le informazioni e quindi tutti abbiamo un sistema di “auto-cura”, di riparazione dei danni causati dalle esperienza traumatiche.
L’EMDR dunque funziona perché permette alla mente bloccata di ricominciare il suo naturale processo di elaborazione.
La stimolazione bilaterale degli emisferi cerebrali attraverso i movimenti oculari permette di operare una riconnessione, che ha riscontri a livello neurobiologico (Solomon R., Shapiro F., 2008; Siegel D.J., Hartzell M., 2005), tra il ricordo dell’evento traumatico ed il resto dell’esperienza individuale.
Ogni ricordo è composto di immagini, sensazioni, emozioni e pensieri: l’EMDR permette al cervello di rielaborare in senso positivo il pensiero relativo al ricordo, quindi modifica l’idea di sé e del proprio valore; contemporaneamente diminuiscono le sensazioni corporee spiacevoli o dolorose e si attenuano le emozioni negative, fino alla scomparsa totale dei sintomi.
Il lavoro contemporaneo su tre livelli, corporeo, emotivo e cognitivo conduce all’integrazione delle informazioni fino a formare una nuova memoria: il fatto accaduto diventa un ricordo accessibile e gestibile, privo delle connotazioni sintomatiche e disturbanti che lo caratterizzavano: “dopo l’EMDR il paziente ricorda ancora l’evento ma sente che tutto ciò veramente fa parte del passato e il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adulta” (Fernandez I., Maslovaric G., Veniero Galvagni M., 2011)
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULL’EMDR
BIBLIOGRAFIA:
Studi sull’evidenza scientifica dell’EMDR:
LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND
Avete mai pensato a cosa fare del vostro corpo una volta morti? Se siete indecisi tra cremazione e sepoltura è tempo di leggere Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri di Mary Roach e aprire la vostra mente a nuove interessanti opportunità. Ironica, brillante, a tratti comica, Mary Roach, ci trascina in un curioso viaggio alla scoperta delle numerose possibilità per uscire di scena in maniera originale e, perché no, socialmente utile.
Per esempio, potete scegliere di trascorrere un soggiorno presso la Body Farm di Alcoa Hwy, dove polizia scientifica e medicina legale studiano la decomposizione di corpi lasciati all’aperto in preda alle più diverse condizioni atmosferiche. Lo scopo? Migliorare sempre di più i metodi utilizzati per stabilire l’ora di decesso, procedura che in un’indagine investigativa ha indubbiamente la sua rilevanza.
Se preferite invece attività più adrenaliniche, perché non aiutare le case automobilistiche a rendere più sicure le automobili, diventando omini di crash test? Infatti i manichini utilizzati (i famosi dummies) sono tarati su corpi veri affinché la simulazione dei danni sia il più accurata possibile e si possano raggiungere livelli di sicurezza sempre più elevati.
Non dimentichiamo, naturalmente, il campo medico. A meno che non vogliate prestarvi al vostro prossimo ricovero come cavia per uno specializzando chirurgo, l’utilità della donazione di corpi alla scienza medica è innegabile, sia per la sperimentazione di nuove procedure che per la pratica sul campo.
LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: LETTERATURA
Tra i programmi di donazione quello proposto dall’Institute for Plastination, con oltre 13000 donatori registrati, è probabilmente il più noto. Nato inizialmente con lo scopo di formare gli studenti di medicina, oggi ha un fine essenzialmente divulgativo: far conoscere al pubblico il funzionamento del corpo umano, mostrando anche gli effetti delle malattie e di uno stile di vita non salutare. E proprio dal 3 ottobre Milano ospita l’impressionante mostra Gunther von Hagens’ BODY WORLDS, che vanta oltre 34 milioni di visitatori in più di sessanta città del mondo. Un’occasione da non perdere per ammirare una mostra di anatomia che più realistica di così…si muore. Aggiratevi tra i padiglioni e rimarrete a bocca aperta di fronte a esseri umani costituiti esclusivamente da nervi oppure da vasi sanguigni o sistemati in pose sportive che ne mettono in evidenza l’attività del sistema muscolare. Quello che rende il tutto ancora più affascinante è che non si tratta di manichini, ma di persone vere che hanno deciso di donare il proprio corpo alla scienza.
Ma per quale motivo alcune persone scelgono di donare il proprio corpo alla scienza? Non per puro altruismo. Una ricerca condotta da Bolt e colleghi (2010) su un campione di 996 donatori iscritti nel database del Dipartimento di Anatomia del Centro Medico Universitario di Groningen ha individuato tre principali motivazioni: 1) il desiderio di essere utile dopo la morte e dare un significato alla propria fine, 2) l’espressione di gratitudine nei confronti della scienza medica e delle cure ricevute, 3) un atteggiamento negativo verso i funerali (non tutti apprezzano sepoltura e cremazione che, tra l’altro, sono anche economicamente dispendiose).
LEGGI ANCHE: DELLA MORTE E DEL MORIRE
In uno studio successivo (2011) Bolt ha indagato il legame tra tali motivazioni e tratti di personalità utilizzando il Big Five Inventory, questionario che valuta la personalità su 5 principali dimensioni (coscienziosità, apertura mentale, amicalità, nevroticismo, estroversione). I risultati ottenuti sono alquanto interessanti. L’autrice ha infatti osservato che il voler essere utili dopo la propria morte correla con le dimensioni di coscienziosità e di amicalità.
La coscienziosità in un soggetto esprime il senso del dovere, di responsabilità e di auto-disciplina, nonché il vivere la propria vita secondo i propri principi; l’amicalità, invece, è associata in letteratura al comportamento pro-sociale, cioè al fare qualcosa volontariamente affinché altri possano trarne beneficio.
L’espressione di gratitudine è legata sia alla coscienziosità sia alla dimensione estroversione, indicativa di un maggior coinvolgimento nel mondo sociale. Infine l’avversione ai funerali correla con la dimensione nevroticismo, che sottende tratti quali tendenza a preoccuparsi, insicurezza, ansia, bassa autostima.
Donare il proprio corpo alla scienza non sembra quindi un gesto di puro e semplice altruismo: oltre al desiderio di aiutare gli altri entrano anche in gioco interessi personali come il senso di autorealizzazione e di auto-ricompensa, aspetti che un’efficace campagna di sensibilizzazione alla donazione non dovrebbe trascurare.
Se volete farci un pensierino, in Italia potete rivolgervi, per esempio, al Laboratorio per lo Studio del cadavere dell’Università di Torino oppure alla Sede di Anatomia Umana, Dipartimento di Medicina Molecolare, dell’Università degli Studi di Padova. La sepoltura e la cremazione? Che noia! Meglio donare il proprio corpo alla scienza e concedersi un’ultima botta di vita!
LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND
LEGGI ANCHE: DELLA MORTE E DEL MORIRE
BIBLIOGRAFIA:
Emanuel Mian, Psicologo e Giudice Onorario Minorile
LEGGI ANCHE: SOLO POCHE RIGHE SULL’ORRIBILE STORIA DEL BAMBINO TRASCINATO VIA DA SCUOLA
Un bambino, mentre era a scuola, viene portato via con la forza e con violenza dalla Polizia perche’ al centro di un divorzio e di una molteplicita’ di mediazioni non attuate.
Siamo giunti a questo punto, sotto le telecamere della zia che ha filmato la scena, dopo numerosi tentativi di far riavvicinare il bambino a un padre che sembra non vedere piu’ riconosciuto il suo ruolo.
Ci si chiede quindi se assistiamo ad un genitore abusante o se si tratti invece di una sindrome da alienazione parentale o PAS.
Per i non addetti ai lavori la PAS è l’acronimo di Sindrome da Alienazione Parentale, una controversa dinamica psicologica che, secondo le teorie dello psichiatra statunitense Richard Gardner, si attiverebbe in alcune situazioni di separazione e divorzio conflittuali non adeguatamente mediate.
I detrattori sfruttano il fatto che non sia ancora presente nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali e che non sarà inserita nella prossima stesura in uscita a breve. Ma basta forse il buonsenso per comprendere che, in casi di estrema conflittualita’ e mancanza di mediazione fra i genitori, possano esserci casi limite come quelli del bambino di Padova.
GLI ARTICOLI SU GRAVIDANZA E GENITORIALITA’
Nella PAS, un genitore, solitamente quello affidatario o presso cui il bambino e’ collocato se in regime di affido condiviso, viene alienato dall’altro genitore. Vi e’ una supposta «programmazione» dei figli da parte di un genitore patologico, il cosiddetto alienante, che giunge sino far perdere ai figli il contatto con la realtà degli affetti, e ad esibire astio e disprezzo ingiustificato e continuo verso l’altro genitore, quello alienato per intenderci.
ARTICOLI SU BAMBINI E ADOLESCENTI
Come si vedrà dal filmato, siamo di fronte ad un bambino strattonato, maltrattato e che ci permette di gridare allo scandalo come sempre a fatto avvenuto. Questo caso ci apre gli occhi sul suo essere malamente conteso – come altre migliaia di bambini – da due genitori che, anch’essi, non lo hanno messo al centro di tutto, non ne hanno fatto il centro di tutto. Non possiamo sapere, né è importante sapere, torti e ragioni di madre e padre.
Ma la visione del filmato e della puntata del TGCOM24 in cui, in qualità di psicologo e giudice onorario minorile sono stato ospite, spero permetta di lanciare un messaggio. Noi addetti ai lavori, più di tutti, abbiamo il dovere di lanciarlo:
la bigenitorialità è un diritto del bambino, prima ancora che dei genitori.
È un diritto di tutti i figli che subiscono il divorzio, che hanno timori dell’abbandono e vivono con naturale apprensione il nuovo “schema familiare” secondo il quale mamma e papà non vivono più sotto lo stesso tetto e non sono più un punto di riferimento costante, sempre a portata di mano.
Minuti, quelli del filmato, che il bambino fara’ fatica a dimenticare e che meriteranno attenzione da parte dei terapeuti che dovranno necessariamente prendere in carico il piccolo e che avrebbero dovuto accompagnare i genitori nella gestione del delicato momento della separazione e riorganizzazione familiare.
In quei minuti il bambino non riconosceva la figura del padre, non aveva accanto quella della madre e invocava l’aiuto di una zia che, per scelta personale, ha preferito videofilmare piuttosto che chinarsi per rincuorarlo, accudirlo, fargli una carezza. In quei momenti era solo contro il mondo, contro i pubblici ufficiali, contro le sue paure.
ARTICOLI SU: TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHE
Perché questo è un caso limite per la violenza pubblica subita, ma rispecchia la solitudine di molti suoi coetanei, costretti a sottostare a un mondo fatto di scontri tra genitori che si contendono i figli e li usano come arma di ricatto.
Situazioni in cui la mancanza di amore tra coniugi diventa mancanza di amore, di accudimento e di responsabilità verso chi non ha chiesto di nascere: bambini dimenticati, spesso “troppo voluti” e per questo dimenticati.
ARTICOLI SU: ACCUDIMENTO – FAMIGLIA
LO SPECIALE DEL TGCOM SUL BAMBINO DI PADOVA. OSPITE IN STUDIO: EMANUEL MIAN, PSICOLOGO E GIUDICE ONORARIO MINORILE
In studio, il dott. Mian insieme ad altri ospiti ed alla madre del bimbo in collegamento telefonico, cerca di dare una spiegazione a questo episodio.
BIBLIOGRAFIA:
LEGGI ANCHE: SOLO POCHE RIGHE SULL’ORRIBILE STORIA DEL BAMBINO TRASCINATO VIA DA SCUOLA
Francesca Lavorini, Claudia Fiorini, Matteo Giovini. Studi Cognitivi
ARTICOLI SU: MINDFULNESS – PSICOLOGIA DEL LAVORO – STRESS
C. Fiorini, S. Bucci, F. Lavorini, G. Caselli, M. Giovini
ARTICOLI SU: MINDFULNESS – PSICOLOGIA DELLO SPORT
– FLASH NEWS –
L’ EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è riconosciuto come trattamento efficace per il trauma psicologico. Tuttavia le sue basi neurobiologiche devono ancora essere pienamente rivelate.
LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS
Una ricerca tutta italiana, condotta dal CNR di Roma, mostra, per la prima volta in assoluto nella letteratura scientifica internazionale, le basi neurobiologiche di una psicoterapia. Lo studio evidenzia, tramite monitoraggio EEG, come l’EMDR provochi in seguito all’esposizione al trauma una spostamento dell’attivazione prevalente da aree a connotazione limbico emozionale ad altre prettamente cognitive, rivelando un rapporto causa-effetto tra la tecnica psicoterapica dell’EMDR e la neurobiologia del cervello.
Dieci pazienti con grave trauma psicologico sono stati esaminati durante la loro prima seduta EMDR (T0) e durante l’ultima (T1), eseguita dopo l’elaborazione del trauma (SUD 0, VOC 7) . Contemporaneamente sono stati somministrati test neuropsicologici. I confronti sono stati eseguiti tra EEG di pazienti a T0 e T1, e tra gli EEG dei pazienti e un gruppo di controllo sottoposto alla stessa procedura EMDR a T0.
LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: NEUROPSICOLOGIA
I risultati indicano che durante la stimolazione oculare bilaterale (BS) delle sessioni EMDR, l’EEG ha mostrato un’attività significativamente più alta nella corteccia cingolata orbito-frontale, prefrontale anteriore nei pazienti a T0, che si è spostata verso sinistra nella regione temporo-occipitale a T1. Il confronto tra pazienti e controlli ha confermato la massima attivazione della corteccia limbica prima della trasformazione trauma. Questi cambiamenti sono correlati in modo significativo con quelli rilevati nei test neuropsicologici.
L’innovativa metodologia ha permesso in questo studio di vedere per la prima volta l’ attivazione di specifiche aree cerebrali associate alle azioni terapeutiche tipiche del protocollo EMDR. I risultati suggeriscono che gli eventi traumatici vengono elaborati a livello cognitivo dopo il successo della terapia EMDR, a supporto dell’evidenza che l’attivazione cerebrale di specifici pattern durante i BS è associata a un notevole alleviamento delle esperienze emotive negative.
BIBLIOGRAFIA: