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La Reputazione: Perchè è così importante?

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La reputazione è così importante? Ebbene sì, se si vogliono stabilire scambi sociali positivi, basati sulla fiducia reciproca.

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Perché la reputazione è così tanto importante per noi e per la società? Perché sentiamo il bisogno di fidarci dell’altro e di punirlo se viola le regole? 

Secondo la “teoria di mantenimento delle norme gruppali”, la reputazione dipende dalla capacità di sostenere e mantenere nel tempo norme cooperative gruppali: in questo caso si valorizza il raggiungimento, attraverso la cooperazione, di obiettivi comuni al gruppo e si presume che vengano puniti coloro che violano norme che risultano vantaggiose per tutti i membri del gruppo; secondo la “teoria dello scambio sociale”, invece, una buona reputazione favorisce lo sviluppo di relazioni personali vantaggiose, basate sulla fiducia reciproca, e il raggiungimento di maggiori benefici personali; conseguentemente, si puniscono coloro che agiscono a discapito degli altri o che sono poco produttivi.

Cool! ma non più come una volta… Evoluzione del concetto di Coolness. - Immagine: Licenza Creative Commons 2.0 - Autore: Eliza Peyton
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Secondo Krasnow, Cosmides, Pedersen e Tooby, entrambe le teorie sono valide, ma hanno un diverso potere predittivo, a seconda delle circostanze. Ciascuna teoria, infatti, può spiegare, in situazioni diverse, quali siano le finalità auspicate attraverso la messa in atto di strategie cooperative e, dunque, perché sia importante conservare una buona reputazione.  

Gli autori hanno condotto due esperimenti attraverso i quali si sono proposti di verificare la validità di entrambe le teorie e l’assunto secondo il quale è possibile effettuare differenti predizioni, tenendo conto dell’una o dell’altra. Nel primo studio l’obiettivo era quello di validare la teoria dello scambio sociale e hanno preso parte alla ricerca 93 soggetti, mentre al secondo studio, teso a validare la teoria del mantenimento delle norme gruppali, hanno partecipato 119 soggetti. Ai partecipanti venivano proposti dei giochi cooperativi con dei partner, presenti nel network del computer e, in base alle proprie risposte, potevano guadagnare o perdere dei dollari. In realtà i soggetti interagivano con degli script standard che permettevano di simulare tutti i possibili comportamenti, in grado di testare entrambe le teorie di riferimento. I risultati hanno tenuto conto delle risposte di fiducia, cooperazione e punizione manifestate dai soggetti. 

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In entrambi gli studi, la reputazione è stata valutata attraverso le risposte fornite ad una serie di scenari ipotetici in cui i soggetti e i partner virtuali avevano la possibilità di collaborare o ingannare l’altro senza essere scoperti. Nel primo studio ciascun soggetto interagiva con 4 partner virtuali che riportavano 4 risposte differenti. Inoltre, i soggetti venivano informati sull’inclinazione del partner ad essere cooperativo o meno. In una prima fase, il partecipante decideva se fidarsi o diffidare del partner virtuale; quest’ultimo, in risposta, poteva cooperare o favorire se stesso e in quest’ultimo caso, il soggetto, a sua volta, poteva accettare la sua risposta oppure poteva punirlo. Nella seconda fase, i ruoli tra i partecipanti e i partner virtuali si invertivano.

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Anche nel secondo studio, ciascun soggetto interagiva con 4 partner virtuali differenti: uno che lo ostacolava, ma cooperava con un altro soggetto; un altro che cooperava con lui ma non con un altro soggetto; un altro che cooperava con entrambi e infine un altro che ostacolava entrambi. In questo caso, al partecipante venivano comunicate le risposte che il partner aveva fornito precedentemente ad altre persone: in questo modo si cerca di validare la teoria del mantenimento delle norme gruppali, in quanto si presume che, avendo a disposizione delle informazioni sul modo di comportarsi dell’altro in relazione a più persone, ognuno possa regolare le proprie risposte diversamente.

Tuttavia, in nessuno dei due studi è stata confermata la teoria del mantenimento delle norme gruppali, mentre la teoria dello scambio sociale è stata ampiamente supportata: dunque, la reputazione sarebbe associata prevalentemente alla promozione di relazioni personali vantaggiose e di scambi reciproci.

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Dagli studi è anche emerso che, spesso, i soggetti regolano il proprio comportamento in base a quello messo in atto dal partner. Per quanto riguarda l’uso delle punizioni, questo sembra essere più in relazione con la teoria dello scambio sociale: infatti, quando i partecipanti sapevano che il partner era incline a violare le norme, non necessariamente essi decidevano di punire il partner quando questo li ostacolava. Dunque, non sempre si punisce l’altro se questo viola le norme gruppali della cooperazione.

E’ risultato, invece, importante considerare se il soggetto intende continuare la relazione con il partner o interromperla: nello studio se il soggetto intendeva continuarla, allora puniva il partner, nel momento in cui questo lo ostacolava e successivamente, quando i ruoli si invertivano, cooperava con lo stesso; se, invece, intendeva interrompere la relazione, allora non lo puniva, ma successivamente lo ostacolava. 

Dunque, la reputazione è così importante? Ebbene sì, se si vogliono stabilire scambi sociali positivi, basati sulla fiducia reciproca.

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BIBLIOGRAFIA:

Bilinguismo: i Bambini imparano da Intonazione e Durata del Discorso

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I bambini in ambienti bilingue utilizzano gli spunti forniti dall’intonazione e dalla durata del discorso per discriminare tra le lingue che hanno un ordine di parole opposto.

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Secondo una nuova ricerca della University of British Columbia e della Université Paris Descartes, già a 7 mesi i bambini possono distinguere, e cominciare a imparare, due lingue con strutture grammaticali molto diverse.

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Pubblicato in questi giorni sulla rivista Nature Communications e presentato all’Annual Meeting of the American Association for the Advancement of Science (AAAS) tenutosi quest’anno a Boston, lo studio dimostra che i bambini in ambienti bilingue utilizzano gli spunti forniti dall’intonazione e dalla durata del discorso per discriminare tra le lingue che hanno un ordine di parole opposto.

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Nella lingua inglese, ad esempio, una parola funzione viene prima di una parola contenuto (il pane, le case, in coppia) e la durata della parola contenuto è maggiore, mentre in giapponese o Hindi, l’ordine è invertito, e l’intonazione delle parole di contenuto è più elevata.

Già in precedenti ricerche Janet Werker, psicologa della UBC, e Judit Gervain, linguista presso l’Université Paris Descartes, hanno dimostrato che i bambini usano la frequenza delle parole nel discorso per distinguerne il significato.

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Per esempio, spiegano le ricercatrici, in inglese the e with compaiono nel discorso con maggiore frequenza delle altre parole e per questo motivo il loro apprendimento avviene mediante il conteggio. Ai bambini bilingue però questo non può bastare e per questo sviluppano naturalmente e precocemente strategie aggiuntive che gli permettano di padroneggiare la complessità del linguaggio a cui sono esposti.

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BIBLIOGRAFIA:

Reality e la spettacolarizzazione del nulla: recensione del film di Matteo Garrone (2012)

 

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Reality (2012) di Matteo Garrone. Recensione di State of Mind
Locandina cinematografica di Reality (2012) di Matteo Garrone

Il film di Garrone mette in guardia lo spettatore rispetto alle nuove minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale

La visione di Reality, Grand Prix al Festival del Cinema di Cannes e ultima fatica dell’ottimo regista di Gomorra (2008), mi ha provocato un deja vù.

Nell’estate del 2009 mi trovavo in una discoteca del Salento (sì proprio quello di Nosignorano…di Biagio Antonacci) e all’improvviso ho visto la folla agitarsi, contenuta a fatica da giganteschi buttafuori: stava entrando Lele Mora accompagnato mi pare da tale Gianluca (ma potrei sbagliarmi), partecipante napoletano del Grande Fratello, che io colpevolmente manco conoscevo (l’unico che mi è rimasto impresso tra le varie saghe è il povero Taricone, pace all’anima sua). Mi ricordo il sorriso stampato di Gianluca, il look vagamente metrosexual, ma soprattutto l’entusiasmo dei fans in fila per un autografo, una stretta di mano, una benedizione.

SPOILER ALERT!! NELLA RECENSIONE VENGONO RIVELATE PARTI DELLA TRAMA DEL FILM

Reality inizia proprio con Enzo, il Gianluca di turno, che arriva come un capo di stato in elicottero a fare l’ospite in un hotel per matrimoni napoletano. E’ lì che il pescivendolo Luciano Ciotola viene folgorato dall’idea di poter concorrere a sua volta per inseguire la celebrità. Luciano è supportato in questo anelito da una grottesca famiglia fortemente sovrappeso, in cui il binge eating disorder (DSM-IV) di ispirazione consumistica assume verosimilmente aspetti di epidemia da centro commerciale americano.

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Recensione "I Territori dell'Incontro" di Coratti Lorenzini Scarinci Sagre.
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Il protagonista, un po’ guascone, tipo lo zio scemotto che c’è in tante famiglie che ama fare gli scherzetti durante i ritrovi per le feste comandate, insegue il sogno del reality fino a diventarne vittima. Passa le selezioni locali e arriva a quelle romane, dove parla per più di un’ora con lo psicologo, con l’effetto di amplificare le proprie aspettative rispetto all’essere selezionato. E’ nell’attesa della chiamata definitiva che mai si concretizzerà che si consuma il dramma psicopatologico di Luciano Ciotola.

L’evento stressante in una personalità predisposta, secondo il modello stress vulnerabilità (Zubin, 1977), è in questo caso il sogno della celebrità e l’occasione (seppur remota) di poterlo realizzare, con tutti i cambiamenti che può comportare nel fragile uomo qualunque. Il protagonista inizia a vivere la propria realtà quotidiana in maniera sempre più distorta, fino a sviluppare una franca ideazione paranoide, che lo induce a scelte assolutamente avventate come il vendere la pescheria, perché già sicuro del suo futuro nella Casa del Grande Fratello.

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Oltre all’appoggio della famiglia, Luciano riceve un potente rinforzo anche dall’ambiente circostante, che pare non aspettare altro, come riscatto sociale, che avere un proprio rappresentante tra quelli che vanno in televisione, che “ce l’hanno fatta“. Ma fatta a fare cosa? A realizzarsi pienamente solo come personaggio virtuale, prodotto di punta della società postmoderna (Cianconi, 2011).

A cercare la scorciatoia per essere in un battibaleno amato da tutti, invidiato da tutti, non per qualcosa che si è fatto o si sa fare, che si è costruito faticosamente, ma solo per l’essere Luciano, un simpatico uomo qualunque.

D’altra parte gli psicanalisti ci insegnano che più che il castrante Super-io, che andava forte agli inizi del secolo scorso quando fu concettualizzato da Freud, nel mondo di oggi è l’Ideale dell’Io (prima comparsa del concetto: nel 1914 in “Introduzione al narcisismo”) che detta le nostre leggi esistenziali. Come spiega Bolognini (2008) “in presenza di un eccesso di ideale dell’Io (o – il che non è lo stesso – con un’ideale dell’Io troppo elevato) l’individuo ha praticamente la garanzia di rovinarsi l’esistenza, alla perenne rincorsa di un sé stesso irrealizzabile”.

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L’Argent di Bresson
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Credo che il film di Garrone metta in guardia lo spettatore rispetto alle nuove minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale. Quei geniali “sociologi” delle Iene1 hanno parlato tra i primi di “depressione da reality”, di cui in letteratura non ho ancora trovato nulla, in cui il termine “depressione” include in realtà alcolismi e dipendenze varie, tentativi di suicidio, disturbi del comportamento alimentare e dismorfofobie con selvaggi interventi di chirurgia estetica.

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Mi ha colpito in tal senso la storia di tale Paolo, che dopo una preoccupante crisi di nervi in diretta nella Casa del Grande Fratello, è finito in una casa meno accogliente che si chiama Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura e ora ha ritrovato un equilibrio facendo l’idraulico.

Reality, a mio avviso, va mostrato nelle scuole e propongo anche ai principali conduttori di talk show televisivi nazionali di invitare qualche vero idraulico in trasmissione. Almeno ogni tanto.

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BIBLIOGRAFIA:  

Dolore Cronico: Come lo Possiamo Affrontare e Gestire?

 

Dolore Cronico: Come lo Possiamo Affrontare e Gestire?. - Immagine:© olly - Fotolia.comSi può arrivare a vedere il dolore non più come incompatibile con una buona qualità di vita. Questo aiuterà il paziente a ridurre l’angoscia del dolore e la negatività ad esso associata.

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Non è semplice definire il dolore poiché si tratta di qualcosa che non possiamo né toccare né vedere. Si tratta di un’esperienza soggettiva che costituisce la base della nostra sopravvivenza. Il dolore non è semplicemente una risposta ben definita ad uno stimolo fisico registrato dal sistema nervoso centrale che ha come conseguenza una sensazione spiacevole. Lo stimolo nocicettivo si trasmette nel midollo spinale e nel cervello, ma il segnale non arriva ad un unico e specifico centro del dolore. Le informazioni infatti, si diramano a varie aree del cervello preposte a interpretazione, valutazione ed emozioni. Le cose perciò sono complesse poiché le passate esperienze di dolore, le paure a esso attribuite, la percezione di riuscire a farvi fronte, il sostegno sociale e molti altri fattori, determinano in maniera sconcertante il modo in cui il dolore viene vissuto e la nostra reazione. 

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Il dolore cronico è una condizione che persiste per 3 mesi o più, oltre il tempo necessario alla normale guarigione. Le principali patologie che possono comportare dolore cronico comprendono: nevriti periferiche (nervo trigemino, nervo pudendo ecc), lombosciatalgie, amputazioni degli arti, emicrania e patologie oncologiche.  Non più utile, tale dolore non fa altro che interferire con le attività quotidiane e con la vita in generale (Turk e Winter, 2006). Il dolore cronico è di norma costante, tuttavia può anche essere episodico o ricorrente, come nel mal di testa. La sua intensità può variare notevolmente ed essere influenzata da fattori fisici, ambientali, sociali e psicologici.

Schiena dritta! Come la Postura (nostra e degli altri) influenza la soglia del dolore. - Immagine: © Nelli Shuyskaya - Fotolia.com
Schiena dritta! Come la Postura (nostra e degli altri) influenza la soglia del dolore

Cercare di risolvere il problema del dolore cronico qualche volta non rappresenta una soluzione, bensì un problema in sé. Al contrario, recentemente gli esperti suggeriscono che insegnare a convivere con il dolore e a migliorare la qualità di vita nonostante il dolore, rappresenti il miglior approccio per aiutare le persone a vivere una vita felice. L’obiettivo, quindi, è quello di trasmettere ai pazienti migliori strategie adattive per la gestione del dolore. L’esito dei trattamenti di doloro cronico dipende dal grado di impegno profuso.

Ecco alcuni dei motivi di successo:

– Disponibilità ad accantonare rabbia e diffidenza

– Coinvolgimento attivo nel programma di trattamento

– Non affidarsi esclusivamente alla scomparsa del dolore come indice di successo terapeutico

– Disponibilità a prendere in considerazione una gestione comportamentale e psicologica del dolore

– Attivazione di passi per ridurre la paura del dolore e le sue conseguenze, affrontando convinzioni non produttive.

Associato al concetto di dolore traviamo quello di disabilità, essa indica il grado in cui non siamo più capaci di svolgere quello che prima facevamo. La disabilità è in parte collegata alla causa fisica del dolore, tuttavia ciò che possiamo o non possiamo fare è anche legato al nostro timore di ferirci nuovamente o di essere resi inabili dal dolore.

Ecco infatti alcuni dei fattori più frequentemente associati al livello di disabilità:paura del dolore o di farsi male nuovamente, stanchezza, causa fisica del dolore, effetti avversi dei farmaci, influenza degli altri e indisponibilità del posto di lavoro a venire incontro alle limitazioni fisiche.

Dal momento però che disabilità e sofferenza sono solo parzialmente collegate agli aspetti fisici del dolore, possono essere modificate anche se quest’ultimo persiste.

La sofferenza diminuisce cambiando il punto di vista sulle minacce associate al dolore. Strettamente legata al senso di minaccia è la sensazione di vulnerabilità: quando crediamo di non poter combattere il nostro dolore soffriamo di più, perché non riusciamo ad immaginare una positiva convivenza. Al contrario, quando abbiamo fiducia e sappiamo di poter contrastare i vari problemi che possono insorgere, il senso di minaccia diminuisce, e ciò riduce la vulnerabilità e la sofferenza. La depressione può essere una conseguenza del dolore cronico ed aggrava la sofferenza poiché acuisce il senso di vulnerabilità e alimenta la convinzione che le cose andranno inevitabilmente male. 

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Chi soffre di dolore cronico riferisce problemi di ansia e tende ad essere più timoroso rispetto alla popolazione generale (Craig 1994). La maggior parte degli studi mette in evidenza che quando le persone sono in preda al dolore evitano qualsiasi cosa che, a loro parere, le metterà in pericolo. Nel dolore acuto un certo evitamento è utile perché favorisce la guarigione, tuttavia nel dolore cronico esso rischia di rafforzare l’idea di possibile danno, andando ad alimentare un circolo vizioso. 

Diversi studi hanno evidenziato come la paura del dolore possa effettivamente contribuire ad alimentare il dolore nel tempo (Asmundson 1999) perciò è molto importante che la persona con dolore cronico venga guidata nel ridurre il senso di minaccia associato al dolore, affrontando gradualmente ciò che la mette a disagio. Questo non significa ignorare il dolore come se esso non esistesse, ma affrontare le attività che possono aumentare il dolore, facendolo però in modo che non vi siano riacutizzazioni. In questo modo si acquisisce un maggior senso di controllo personale, evitando di rafforzare la paura del dolore e le sue conseguenze. Si può in tal modo arrivare a vedere il dolore non più come incompatibile con una buona qualità di vita. Questo aiuterà il paziente a ridurre l’angoscia del dolore e la negatività ad esso associata.

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BIBLIOGRAFIA:

Lo Stile Cognitivo influenza la Fede in Dio?

 

Lo Stile Cognitivo influenza la Fede in Dio?. - Immagine: © GIS - Fotolia.comLe differenze individuali possono essere rintracciate nello stile cognitivo. Tale stile svolge un ruolo importante nel plasmare le convinzioni teologiche.

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Alcune settimane fa, inaspettatamente, ho ricevuto una mail di un vecchio amico che non vedevo da qualche anno. Contento che fosse riuscito a contattarmi e volesse incontrarmi, l’ho chiamato e abbiamo deciso di bere un caffè. Iniziamo la nostra conversazione domandandoci il motivo per cui non ci siamo più sentiti ma, come spesso accade in questi casi, non abbiamo trovato una risposta, semplicemente è andata così. Avevo parecchio da dire, in dieci anni accadono moltissime cose e comincio a raffica, per poi accorgermi di aver monopolizzato la conversazione. Mi fermo e gli chiedo di raccontarmi di sé. Mi parla del lavoro, dei genitori, della sua ex e poi, in un’atmosfera mista tra orgoglio e voglia di stupire, mi rivela: “Sono diventato cristiano, un vero cristiano!”. Ho pensato: “…folgorato sulla via di Damasco!”, effettivamente lui stesso mi dice di aver sempre pensato che la religione fosse l’oppio dei popoli. In ogni modo, mi descrive la sua esperienza di conversione ed io ne prendo atto, non giudico, mi limito a osservare il suo sguardo, che mi sembra cambiato da quando ha iniziato a parlare di Dio. La cosa importante per me è sapere che il mio vecchio amico sia sereno, realizzato, insomma la sua conversione non mi ha sconvolto e, soprattutto, non ha pregiudicato in alcun modo il mio legame di amicizia.

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Questa esperienza personale mi ha sollecitato a riflettere su alcuni temi importanti, quali la religione e la conversione, e ha stimolato il mio interesse di carattere psicologico riguardo la possibile relazione tra la fede e il modo in cui una persona organizza i propri pensieri.

Un sondaggio del 2007 del Pew Forum on Religion & Public Life (2008) ha evidenziato che il 92% degli americani crede in Dio e che il 71% degli stessi ritiene tale credenza una certezza assoluta; a livello mondiale si stima che circa il 90% della popolazione creda in un Dio (Zuckerman, 2007). Molti autori si sono occupati di questo argomento, alcuni hanno sostenuto che la fede in Dio è atto intuitivo, un prodotto naturale della mente umana, data dalla sua struttura cognitiva (Bering, 2011; Bloom, 2005; Preston & Epley, 2005) e dal contesto sociale di riferimento (Atran, 2002; Wilson, 2002).

Gli esseri umani possono avere un certo numero di tendenze cognitive, sviluppate precocemente ed eventualmente innate, che sostengono la fede in Dio o in altre entità soprannaturali. Altri hanno proposto che la fede in Dio può fornire spiegazioni utili a ridurre l’incertezza (Preston & Epley, 2005), e alleviare l’ansia relativa all’incertezza (Inzlicht, McGregor, Hirsh, & Nash, 2009; Inzlicht & Tullett, 2010).

Il differente grado di fiducia che le persone ripongono nella fede è stato analizzato attraverso il modello della trasmissione culturale, che si è concentrato in particolare su come le credenze degli individui siano influenzate dai contesti sociali piuttosto che sulle caratteristiche psicologiche distintive dei singoli credenti (Gervais & Henrich, 2010, Henrich, 2009). Senza negare che i modelli culturali di trasmissione della fede siano in grado di spiegare gran parte della variazione osservata, Aarnio e Lindeman (2007) affermano che le differenze individuali possano essere rintracciate nello stile cognitivo e che tale stile possa svolgere un ruolo importante nel plasmare le convinzioni teologiche.

Un aspetto rilevante dello stile cognitivo è il modo in cui gli individui formano i loro giudizi intuitivamente anziché attraverso la riflessione (Frederick, 2005). I giudizi intuitivi consentono di prendere delle decisioni con poco sforzo e attraverso processi automatici, mentre i giudizi riflessivi impongono all’individuo di soffermarsi a esaminare criticamente i dettami della sua intuizione, giungendo così a una conclusione meno intuitiva o controintuitiva; la riflessione è considerata tipicamente più faticosa dell’intuizione. I costrutti del pensiero intuitivo includono il pensiero automatico, associativo, olistico e l’euristica, mentre il pensiero riflessivo è correlato a processi analitici, di controllo, basati su regole, o al pensiero “razionale”.

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Una ricerca effettuata da Amitai Shenhav, David G. Rand e Joshua D. Greene (Harvard University) ha avuto come obiettivo quello di verificare se la credenza in Dio è davvero intuitiva, e se la fede possa essere influenzata dalla tendenza a fare affidamento sull’intuizione piuttosto che sulla riflessione. A tale scopo sono stati realizzati tre studi: nello Studio 1 è stata esaminata la correlazione tra le differenze individuali nello stile cognitivo (intuitivo vs riflessivo) e la fede in Dio; nello Studio 2 è stata indagata la stessa correlazione valutando inoltre la capacità cognitiva (QI) e la personalità; infine, nello Studio 3, è stata analizzata sperimentalmente la relazione causale tra lo stile cognitivo e la fede in Dio, inducendo atteggiamenti mentali che favorissero l’intuizione rispetto alla riflessione o viceversa. 

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Allo Studio 1 hanno partecipato 882 adulti americani; il campione era costituito dal 64% di donne e l’età media del campione era di 33 anni. Prima di effettuare i test, i soggetti hanno compilato on line una survey relativa alla loro fede in Dio. Il test era composto da problemi di matematica con risposte errate che sembravano intuitive. Per esempio, una domanda chiedeva: “Una mazza da baseball e una palla costano complessivamente $1.10. la mazza costa $1 in più della palla. Quanto costa la palla?” La risposta automatica o intuitiva è stata 10 centesimi, ma la risposta corretta era 5 centesimi. I partecipanti che hanno dato più risposte errate hanno mostrato un maggiore ricorso, nel loro stile di pensiero, all’intuizione piuttosto che alla riflessione.

Per quanto riguarda lo Studio 2, il quoziente di intelligenza è stato misurato attraverso il Shipley Vocabulary Test (Shipley, 1986) e il Wechsler Adult Intelligence Scale Matrix Reasoning test (Wechsler, 1997), mentre le variabili di personalità sono state valutate attraverso la Barratt Impulsiveness Scale (Patton, Stanford, & Barratt, 1995), il NEO Personality Inventory (Costa & McRae, 1992), e il Behavioral Inhibition/Activation Scales (BIS/BAS; Carver & White, 1994).

Allo Studio 3 hanno partecipato 373 persone, suddivisi in due gruppi. A un gruppo è stato chiesto di descrivere un momento della loro vita in cui l’intuizione o l’istinto ha portato un buon risultato, mentre al secondo gruppo è stato chiesto di scrivere un’esperienza positiva derivante dall’uso consapevole del ragionamento (stile riflessivo). Dopo l’esercizio di scrittura, i soggetti sono stati intervistati e i ricercatori hanno riscontrato che coloro i quali avevano riportato un’esperienza intuitiva di successo avevano più probabilità di riferire che erano convinti dell’esistenza di Dio, rispetto a chi aveva riportato un’esperienza di successo “riflessiva”.

La relazione osservata tra la fiducia sull’intuizione e la fede in Dio potrebbe derivare da molteplici fonti. 

In primo luogo, la fede in Dio potrebbe essere intuitiva per motivi legati a caratteristiche più generali della cognizione umana, condizione che può dare origine a tendenze verso il dualismo (Bering, 2011) e all’antropomorfismo (Waytz, 2010). Se la credenza in Dio è supportata da tendenze socio-cognitive di tipo intuitivo, allora si ha una spiegazione del motivo per cui uno stile cognitivo, che favorisce l’intuizione rispetto alla riflessione, porterebbe a una maggiore credenza in Dio. 

In secondo luogo, la fede in Dio può essere il risultato di processi di formazione di credenze intuitive ma può anche svolgere un ruolo di supporto a tali processi. La fede in Dio può consentire spiegazioni facilmente accessibili dando un senso a fenomeni altrimenti misteriosi, facendo ricorso a molteplici e smisurati poteri di Dio (Lupfer, 1996). Tali le spiegazioni assumerebbero così una qualità euristica, infatti, la ricerca suggerisce che le persone con stili cognitivi più intuitivi sono più propensi a fare affidamento su euristiche (Frederick, 2005).

Il paradosso di Monty Hall. - Immagine: © briel - Fotolia.com
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Così, le persone che sono attratte da spiegazioni intuitive possono arrivare a credere in Dio o a rafforzare la loro fede proprio perché il credere in Dio sostiene le spiegazioni intuitive di diversi fenomeni (Inzlicht & Tullett, 2010; Preston & Epley, 2009). La fede in Dio può quindi dare origine a un ciclo di feedback in cui soddisfare la richiesta di spiegazioni appellandosi a Dio rafforza lo stile cognitivo intuitivo che originariamente ha favorito la fede in Dio.

I risultati della ricerca hanno evidenziato che i soggetti con uno stile di pensiero intuitivo presentavano maggiori probabilità di diventare, nel corso della loro vita, più fiduciosi nella loro fede in Dio, indipendentemente dal fatto che avessero ricevuto in passato un’educazione religiosa. Gli individui con uno stile cognitivo riflessivo tendevano invece a mostrare meno fiducia nella loro fede in Dio. Lo studio ha anche mostrato che questo collegamento tra stili di pensiero differenti e livelli di fede non poteva essere spiegato da differenze di capacità di pensiero dei partecipanti o dal QI.

Inoltre, questi risultati sono particolarmente interessanti in quanto riescono a fornire un’interpretazione di un importante fenomeno sociale attraverso l’uso di tendenze cognitive di base. Come le persone giungono alla soluzione relativa ai prezzi delle mazze e delle palline (esempio Studio 1), riflette il loro modo di pensare e, in ultima analisi, le loro convinzioni circa l’ordine metafisico dell’universo.

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BIBLIOGRAFIA:

Stigma – Definizione

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

La parola stigma, di origine greca, significa marchio, impronta, segno, distintivo.

È utilizzata in diversi ambiti, dalla botanica alla musica. In particolare, gli espetti di salute mentale individuano con questo termine la discriminazione basata sul pregiudizio nei confronti del malato mentale. Di conseguenza per un malato mentale subire lo stigma significa vivere ogni giorno nell’esclusione, nel rifiuto, nella vergogna e nella solitudine.

Il pregiudizio nei confronti dei malati mentali si sviluppa in contesti in cui le informazioni sono accettate in maniera apparente e superficiale, e portano, di conseguenza, all’attuarsi di pregiudizi ed emarginazione nei confronti delle persone malate. Alla base si genera una mancanza di riconoscimento della sofferenza derivante dalla malattia mentale e una attribuzione di stabile invalidità nei confronti di queste persone, che se adeguatamente considerate e curate potrebbero recuperare parte delle proprie capacità sociali e intellettive.

Lo stigma consiste in una attribuzione di pregiudizio infondato che ha come conseguenza l’isolamento del malato e l’incurabilità. Se si considerasse il malato mentale come un comune malato colpito da una particolare sintomatologia allora si accetterebbe il concetto di cura e di soccorso. Solo se si intervenisse in questo modo sarebbe possibile aiutare il malato mentale ad affrontare adeguatamente la propria sofferenza, consentendogli di andare oltre la solitudine perché possibile trovare aiuto nella cura.

Stigma
STIGMA – Illustrazione di Lorenzo Recanatini – Alpes Editore

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Senso di Umiliazione: Cosa Comporta?

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Tra le emozioni della rabbia, della tristezza, della vergogna e dell’umiliazione quest’ultima è sicuramente quella che chiunque non vorrebbe mai provare, ma quali sono le caratteristiche emotive dell’umiliazione, che effetti ha questa esperienza sulle relazioni sociali e che cosa distingue l’umiliazione dalla rabbia e dalla vergogna?

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Per dare una risposta a questi quesiti è stato condotto uno studio da Leidner, Sheickh e Ginges che si propone di investigare le esperienze di umiliazione, rabbia e vergogna in un contesto intergruppale e di valutare se questi stati emozionali siano associati alle sensazioni di offesa (rabbia provocata dalla percezione di una violazione di uno standard personale o universale), colpa (sensazione di essere responsabili di un evento) e impotenza (mancanza delle abilità necessarie per fronteggiare un problema). 

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Gli autori hanno definito 3 ipotesi: 

1) l’umiliazione è sicuramente uno stato emotivo simile alla vergogna, in quanto sono entrambe emozioni sociali che coinvolgono la sensazione di sentirsi inferiori rispetto agli altri; tuttavia, solitamente, la vergogna si associa ad una sensazione di meritarsi quello stato emotivo, mentre nel caso dell’umiliazione, si pensa di non meritare ciò e questo ci porta a supporre che l’umiliazione si accompagni meno alla sensazione di colpa, rispetto alla vergogna

2) un’altra differenza tra l’umiliazione e la vergogna riguarda gli aspetti situazionali: mentre la vergogna si può provare sia in situazioni pubbliche che private, l’umiliazione può essere esperita solo in situazioni pubbliche in cui è presente un pubblico e un’asimmetria di potere tra chi umilia e chi viene umiliato; questa considerazione ci induce a supporre che l’umiliazione sia caratterizzata da una sensazione maggiore di impotenza e di inferiorità rispetto alla vergogna

3) la terza ipotesi riguarda le differenze tra umiliazione e rabbia: sia la rabbia che l’umiliazione sono esperite quando riceviamo delle azioni ingiuste da parte di altri; tuttavia, si suppone che nel momento in cui si è umiliati ci si senta inferiori e impotenti e questo ci porterebbe a preferire l’inerzia al confronto, cosa che invece non accadrebbe quando si è arrabbiati. 

Allo studio hanno partecipato 213 soggetti di età compresa tra i 19 e i 63 anni, appartenenti a differenti etnie e minoranze sociali ed essi sono stati assegnati, in modo random, ad una delle 3 condizioni: rabbia, vergogna e umiliazione. Ai partecipanti è stato chiesto di ricordare e di descrivere una situazione emblematica, in cui si sono sentiti umiliati o arrabbiati o si sono vergognati per qualcosa. Successivamente è stato chiesto loro di descrivere le loro sensazioni ed emozioni, scegliendo tra alcune parole che consentivano agli autori di cogliere le sensazioni di colpa, offesa e impotenza. 

I risultati hanno messo in evidenza una chiara sovrapposizione tra l’umiliazione, la vergogna e la rabbia; tuttavia, si tratta di emozioni differenti. L’umiliazione è risultata associata a bassi livelli di colpa e alti livelli di offesa (come nel caso della rabbia, ma a differenza della vergogna) e alti livelli di impotenza (come accade per la vergogna, ma non per la rabbia): dunque, in caso di umiliazione, non ci si sente in colpa per l’accaduto, ma ci si sente offesi, inferiori ed impotenti rispetto agli altri. Inoltre, i risultati dello studio hanno confermato che l’umiliazione è spesso causa di inerzia; dunque, non genera né comportamenti antisociali (violenza) né prosociali (riconciliazione).

Ma come si gestisce, di solito, l’umiliazione e perché spesso i ricordi di questi eventi restano impressi nella memoria? La ricerca futura potrebbe dare una risposta a questi interrogativi. 

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BIBLIOGRAFIA:

Report dal 3° CONVEGNO INTERNAZIONALE AUTISMI LE NOVITA’ SU DIAGNOSI, INTERVENTO E QUALITA’ DELLA VITA

Report dal 3° CONVEGNO INTERNAZIONALE AUTISMI

LE NOVITA’ SU DIAGNOSI,

INTERVENTO E QUALITA’ DELLA VITA

15-16 OTTOBRE 2012, Palazzo dei Congressi, Riva del Garda (TN)

 

3° Convegno Internazionale AUTISMI Le novità su diagnosi, intervento e qualità di vita. Riva del Garda (Trento), 15 e 16 ottobre 2012 - anteprima

In linea con l’interesse già dimostrato da State Of Mind nei confronti del tema autismo, abbiamo partecipato con interesse a queste due giornate di convegno, suddivise in due sessioni plenarie e in  21 workshop di approfondimento.

ARTICOLI SU: DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO

Consapevoli dell’impossibilità di accennare a tutti i temi trattati cercheremo di riassumere ciò che più siamo state in grado di assimilare.

Michele Zappella, direttore scientifico di Autismo e disturbi dello Sviluppo, dà  il via alla prima giornata del convegno descrivendolo come un’occasione di confronto pubblico a 10 anni dalla nascita della rivista.

Gli interventi a seguire dei colleghi italiani ed internazionali, vertono su alcuni punti cardine:

Il cambiamento di definizione  da “autismo” a “autismi”, per sottolineare la distribuzione eterogenea e peculiare dei tratti autistici nei diversi soggetti.  Per questa ragione si preferisce parlare di una “dimensione autistica che rende la diagnosi non più dicotomica ma definibile lungo un continuum che considera i fattori di gravità, la combinazione di sintomi core, la comorbilità con disturbi psichiatrici e lo stadio di sviluppo;

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa? COST Action project Enhancing the Scientific Study of Early Autism (ESSEA)
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il progressivo aumento dell’incidenza dei disturbi dello spettro autistico nella popolazione europea e internazionale, con un’attenzione particolare alla necessità di standardizzare le misurazioni quantitative a livello internazionale;

l’interesse crescente nei confronti delle basi neurali e il neuroimaging nell’autismo. Il progresso dei metodi e strumenti di indagine delle aree cerebrali permettono di parlare di modello “developmental disconnection” (underconnectivity), quindi di un deficit del “sistema cervello” che consiste nel mancato sviluppo delle normali connessioni tra le diverse aree cerebrali;

ARTICOLI SU: NEUROSCIENZE NEUROPSICOLOGIA

– il progresso degli studi che indagano la relazione tra genetica e manifestazione dell’autismo. Ai fattori di rischio già ampiamente conosciuti, si aggiungono le mutazioni genetiche, le condizioni cliniche della madre, le cure di fertilità e i livelli di ossitocina al momento del parto;

– la valutazione di efficacia degli  interventi precoci ed intensivi ABA nei casi di ASD.
Christopher Gillberg, professore di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e Dirigente medico presso la Clinica di Neuropsichiatria infantile del Queen Silvia Children’s Hospital, presenta uno studio naturalistico in condizioni cliniche normali condotto su 208 bambini “autistici”, con sintomi che ricadono nella grande categoria E.S.S.E.N.C.E (Early Sympthomatic Syndroms Eliciting Neurodevelopmental Clinical Examination). Nonostante si tenda a pensare che un intervento intensivo e precoce possa dare i risultati migliori, le conclusioni dello studio affermano che non vi è una differenza significativa tra il gruppo di bambini trattati precocemente e con un training intensivo rispetto al gruppo di bambini trattati, sì precocemente, ma con un training di meno di 15 ore settimanali; i fattori che sembrano determinanti per un trattamento efficace sono la diagnosi precoce e la specificità del trattamento più che la sua intensità;

uno sguardo critico verso gli interventi psicoeducativi per l’autismo a scuola. Alla luce dei lavori presentati due anni fa , la situazione all’interno dell’istituzione scuola non sembra cambiata di molto e non in meglio. A fronte di una buona legislazione (L. 104/92), ciò che sembra essere il punto nodale è la mancanza di una formazione adeguata per coloro che si trovano ad interagire con il bambino con ASD all’interno della scuola.
Si ha poca familiarità con la costruzione di programmi individualizzati, con la considerazione del lavoro nel piccolo gruppo come risorsa e co-costruttore di apprendimento e con la consapevolezza che il bambino autistico non è un bambino con minori capacità ma un bambino con capacità diverse. In questo quadro poco incoraggiante, l’esperienza dell’Università di Trento, presentata da Paola Venuti rischia di rimanere una delle tante ottime prassi isolate.

Ed è proprio per diffondere il buon esempio che, tra i vari workshop a cui abbiamo partecipato, abbiamo deciso di dare spazio proprio a quello presentato dalla Prof.ssa Venuti dal titolo:

 “Alunni con disturbi generalizzati dello sviluppo e qualità inclusiva nella scuola”.

Il workshop presenta alcune esperienze che possono essere definite “buone prassi” che riguardano interventi psicoeducativi all’interno della scuola e fuori da essa. Le parole chiave attorno alle quali si snodano gli interventi presentati all’interno del workshop sono: inclusione, integrazione e formazione.

Inclusione poiché, come stabilito dalla legislazione vigente, si deve lavorare in un’ottica inclusiva cioè promuovendo interventi ed iniziative che  includano” il soggetto con DGS all’interno della realtà scolastica. Integrazione, poiché il soggetto con DGS ha il diritto di essere messo nella condizione concreta di integrarsi all’interno del contesto classe. Formazione del personale scolastico, di coloro che interagiscono con il bambino con DGS poichè da essa dipende la garanzia di successo degli obiettivi sopra citati.

Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca?
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Si tratta di tematiche importantissime che meritano un approfondimento che vada al di là delle sole etichette linguistiche. Perché si possa parlare di vera inclusione e integrazione è necessario avere chiara la cornice teorica di riferimento. Gli interventi devono avere l’obiettivo di favorire un maggior adattamento del bambino con DGS partendo dalle sue potenzialità e quindi sviluppando un progetto psicoeducativo che tenga conto della sua peculiarità. Non solo è fondamentale lo sviluppo dell’intervento ad hoc, ma è altresì importante l’adattamento del contesto classe al bambino con DGS; il lavoro con la scuola, con i compagni stessi è un punto cardine per l’efficacia di un progetto psicoeducativo.

Tutto ciò non sarebbe possibile se parallelamente non ci fosse una formazione professionale adeguata degli insegnanti. Tale formazione si focalizza sulle caratteristiche del singolo bambino con DGS e si sviluppa attraverso il lavoro con esperti che garantiscono un’adeguata supervisione nel corso di tutto l’anno scolastico.

La Prof.ssa Venuti conclude il workshop con una frase che ne riassume i contenuti : “Si parla di integrazione, declinata in diversi modi, come punto di partenza per l’apprendimento, di qualunque tipo esso sia; si può parlare quindi di miglioramento della qualità della vita”.

 

La plenaria di chiusura dei lavori, presieduta dal Dott. Arduino, Responsabile del Centro Autismo e Sindrome di Asperger di ASL CN1 a Mondovì, si propone di ridefinire gli argomenti trattati nelle due giornate di convegno, sottolineando i nuovi punti di arrivo e quindi i propositi degli interventi e della ricerca per il futuro.

 Tra le conquiste attuali a favore del trattamento dell’autismo, vengono presentate le Linee Guida Nazionali, frutto della tavola rotonda sull’autismo tenutasi da maggio 2007 a maggio 2008. Tale guida rappresenta il punto di partenza per modificare la pratica clinica e raccoglie i lavori di maggior forza dal punto di vista scientifico e detta i principi generali per l’erogazione dei servizi.

Le prospettive future riguardano sicuramente la ricerca scientifica e l’ambizione a sviluppare protocolli sempre più significativi sul piano scientifico e clinico.

Un altro obiettivo da perseguire deve essere quello di promuovere l’insegnamento di buone prassi, soprattutto in ambito scolastico dove sembra davvero mancare un’indicazione, anche solo generica, riguardo a come garantire inclusione e integrazione ai soggetti con ASD.

Il settore delle nuove tecnologie sembra essere in rapida evoluzione e promette nuove risorse da impiegare nella didattica e nel trattamento.

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Linee Guida per l'Autismo: cosa sì e cosa no. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
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Si percepisce invece uno stallo per quanto riguarda il trattamento dell’autismo nei soggetti ormai adulti, una sfida decisamente impegnativa che ci si augura possa stimolare i professionisti impegnati in questo settore.

Vogliamo concludere con una frase di Stephen Shore, diagnosticato all’età di 18 mesi come paziente con “sviluppo atipico con forti tratti autistici” e attualmente educatore di bambini con autismo:

If you have seen a person with autism, you have seen a person with autism

Questa dovrebbe essere, a nostro parere, la chiave di lettura di qualsiasi cosa venga detta a proposito dell’autismo.

 

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Impulsivita’ & Controllo dei Pensieri

 

Impulsività & Controllo dei Pensieri. - Immagine: © olly - Fotolia.comImpulsività & Controllo dei Pensieri. Tutti noi agiamo con impulsività. Quando ciò caratterizza il nostro agire quotidiano è un problema. 

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A tutti noi può capitare di agire impulsivamente e di avere difficoltà di autocontrollo, ma quando questi aspetti caratterizzano il nostro normale agire quotidiano possono costituire un vero problema spesso associato a difficoltà psicologiche.

L’autocontrollo può essere definito come la capacità di regolare i propri pensieri, emozioni, impulsi e comportamenti; difficoltà in quest’ambito comportano distraibilità cognitiva, instabilità emotiva ed un comportamento poco efficace in quanto prematuramente espresso, eccessivamente rischioso o inadeguato alle circostanze. Una bassa capacità di autocontrollo può manifestarsi in differenti forme e modalità, tra cui i pensieri intrusivi che sono all’origine delle ossessioni; queste idee, sebbene in parte simili alle normali preoccupazioni, si distinguono da esse in quanto sono più dirompenti, rapide ed indesiderate. I pensieri intrusivi sono ravvisabili in un gran numero di stati psicopatologici, per esempio, nei disturbi d’ansia (come ansia generalizzata, fobie, disturbo ossessivo compulsivo), nell’insonnia e in alcune forme di depressione (Clark e Rhyno 2005; Julien et al 2007).

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Nonostante le somiglianze evidenti tra impulsività e pensieri intrusivi, le loro reciproche relazioni sono state poco studiate e le ricerche condotte hanno spesso portato risultati ambivalenti. Uno dei motivi è la complessità del costrutto impulsività, proprio per questo Whiteside e Lynam (2001) hanno provato a delineare le componenti di tale costrutto individuando quattro dimensioni principali (1) l’urgenza negativa, definita come la tendenza ad agire in maniera avventata, soprattutto in situazioni caratterizzate da intense emozioni negative, (2) la premeditazione, ovvero la tendenza a pianificare e a considerare le conseguenze di un’azione prima di intraprenderla, (3) la perseveranza, definita come la capacità di rimanere concentrati su un compito che può essere anche noioso o difficile, e (4) la ricerca di sensazioni, intesa come la tendenza ad impegnarsi in attività emozionanti, divertenti  e l’apertura verso nuove esperienze.

Un recente studio (Gay, Schmidt e Van der Linden, 2011) ha rilevato che gli aspetti dell’impulsività più strettamente connessi a forme clinicamente rilevanti di pensiero intrusivo sono l’urgenza negativa e la mancanza di perseveranza, confermando i risultati di precedenti studi (d’Acremont e Van der Linden, 2007; Schmidt e Van der Linden2009; Schmidt et al. 2010). In particolare si è visto che l’urgenza negativa può riguardare pensieri intrusivi persistenti e accompagnati da emozioni indesiderate, al contrario, la mancanza di perseveranza può essere più legata ai timori transitori, le preoccupazioni di tutti i giorni, mente che vaga e pensieri distraenti.

Riguardo invece i rapporti intercorrenti tra impulsività e pensieri intrusivi, si sono trovate prove a sostegno di una influenza tra i due elementi in ambo le direzioni: Li e Chen (2007, p. 135) ritengono che “gli uomini che hanno dubbi frequenti e pensieri intrusivi tendono a non essere in grado di mantenere l’attenzione sull’attività in corso”. In modo simile, Selby et al. (2008) hanno proposto che la ruminazione intensa può provocare comportamenti impulsivi, il che contribuirebbe a distogliere l’attenzione dalla ruminazione. Gay e colleghi (2011) hanno quindi preso in considerazione una visione circolare delle relazioni tra ruminazione e urgenza negativa, per cui la ruminazione e i pensieri intrusivi possono condurre ad atteggiamenti impulsivi che possono a loro volta diventare oggetto di una successiva ruminazione e così via, provocando una cascata emotiva con comportamenti disregolati.

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BIBLIOGRAFIA

 

Intervista al suicidologo Maurizio Pompili

  

Intervista a Mauruzio Pompili.Intervista al suicidologo Maurizio Pompili, in occasione della Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio

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Esattamente un mese prima della Giornata Mondiale della Salute Mentale, il 10 settembre di ogni anno si svolge la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Nel nostro paese, dove i tassi di suicidio sono decisamente più bassi di altri paesi europei, l’evento passa spesso in sordina, ma a Roma c’è un gruppo di ricercatori dell’UOC. di Psichiatria dell’Ospedale S. Andrea che già da alcuni anni organizza un evento scientifico che coinvolge i maggiori suicidologi italiani e stranieri e che si impegna in iniziative divulgative sempre improntate alla prevenzione.

Quest’anno ho avuto l’onore insieme ai miei amici musici di suonare le canzoni di Psicantria, in un simpatico dopocena postcongressuale, dove ho incontrato il Dr. Maurizio Pompili, vero deus ex machina dell’iniziativa.

Maurizio Pompili è Professore di Suicidologia presso l’Università La Sapienza di Roma, responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio dell’Ospedale Sant’Andrea e rappresentante per l’Italia dell’International Association for Suicide Prevention (IASP). A meno di quarant’anni è autore di oltre 300 (si avete capito bene…) lavori scientifici pubblicati sulle maggiori riviste internazionali, nel 2008 è stato insignito del Shneidman Award dall’American Association of  Suicidology. Insomma, un ricercatore con gli attributi, prova vivente del fatto che non è necessario essere un cervello in fuga per fare ricerca di alto livello.

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Intervista a Maurizio Pompili

GP: Ciao Maurizio, innanzitutto complimenti per le tue iniziative e per l’alta qualità della tua ricerca. Sei davvero uno dei pochi in Italia che riesce ad occuparsi ad alto livello di questo delicatissimo argomento. Come è andato il convegno? Ha soddisfatto le tue aspettative?

MP: Grazie infinite, tutti hanno apprezzato il vostro contributo e sono senza dubbio soddisfatto. Il convegno è andato bene oltre le aspettative.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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GP: Grazie a te dell’invito! Il titolo del convegno era La prevenzione del suicidio nel mondo: rafforzare i fattori protettivi e infondere speranza. E’ emersa qualche novità interessante in tema di fattori di protettivi e sul come eventualmente potenziarli?

 MP: La cosa principale che a me sembra fondamentale è che si sviluppi in ciascun individuo e/o ciascun operatore una cultura sul dramma che vive il soggetto che desidera la morte. Si può comprendere la loro sofferenza solo sul piano umano. Molti contributi tralasciano che in primis c’è l’individuo e poi le statistiche, i fattori di rischio, ecc.

GP: Cosa può infondere speranza oggi alle persone a rischio di suicidio e ai familiari che hanno subito una perdita in modo così devastante?

MP: Una cosa importante è che si parla sempre di più di suicidio e ci si sforza di fare qualcosa per prevenirlo sebbene non sempre in modo funzionale. Un Servizio per la Prevenzione del Suicidio come quello di Roma è sicuramente un passo in avanti di grande impatto. Infatti sempre più soggetti a rischio e familiari che hanno perduto un caro per suicidio si rivolgono a noi e facciamo di tutto per assisterli ed infondere speranza.

GP: Alcuni studiosi di questo argomento che ho conosciuto hanno scelto di occuparsene perché hanno avuto esperienze personali e dirette con il suicidio (parenti, amici, pazienti…). Anche nel tuo caso è stato così?

 MP: E’ una domanda ricorrente… Mi sono trovato più volte nella mia vita a disbrigarmi con la sofferenza estrema ma non ho mai avuto propositi di suicidio. Tuttavia proprio in virtù delle mie esperienze personali forse riesco a comprendere i soggetti a rischio di suicidio che vivono proprio un dolore psicologico insopportabile e che alla fine pensano al suicidio.

GP: Ci racconti del tuo incontro con Shneidman?

MP:L’incontro con Edwin Shneidman è stato uno dei momenti cruciali della mia vita e mi ha arricchito notevolmente. Ho intrattenuto con lui anni di conversazioni telefoniche per poi incontrarlo a Los Angeles. Alcuni anni fa lanciata una nuova rivista di psichiatria, decisi di ospitare un contributo di Shneidman che ci sorprese accettando l’invito. Poi, mentre ero a Boston per un periodo di ricerca, gli avevo scritto offrendo il mio aiuto per fargli giungere la bozza di stampa (non usava l’email). Fui sorpreso una mattina gelida quando arrivando presso il McLean Hospital trovai un suo messaggio nella segreteria telefonica del mio telefono. Con voce entusiasta mi proponeva di richiamarlo. Lo feci subito ignorando in quel momento che a Los Angeles era ancora notte e dunque svegliandolo. Fu amore a prima vista! Passammo un’ora al telefono e poi per anni dall’Italia all’incirca a mezzanotte lo chiamavo quasi tutte le settimane. Incontrarlo fu emozionante; forse per certi aspetti lui lo era più di me. Mi vedeva come colui che poteva continuare la sua opera e dunque ci fidavamo tantissimo l’uno dell’altro. Ricevetti lo Shneidman Award dall’American Association of Suicidology e poi volai a Los Angeles. Shneidman è il padre della suicidologia e mi considero fortunato di aver ascoltato, oltre a tanti insegnamenti, anche tutti gli sviluppi di questa disciplina che lui fondò negli anni cinquanta.

 GP: Come psichiatra purtroppo ho sperimentato sulla mia pelle il suicidio di un paziente ed è stata un’esperienza terribile. Vi occupate anche di questi aspetti di sostegno ai terapeuti che “perdono” un paziente? Che consigli ti sentiresti di dare ai colleghi in questo senso?

MP: Si, è effettivamente un problema trascurato che cerco di illuminare tentando di fornire elementi che possano sostenere i medici che perdono un paziente per suicidio. Ci sono linee guida e suggerimenti per evitare il grande impatto dell’evento sulla vita personale e professionale dello psichiatra.

GP: Mi ha colpito vedere al tuo congresso diversi familiari di pazienti che hanno commesso il suicidio e che ora partecipano attivamente insieme a voi a campagne di prevenzione come il Miki Monte Dj Contest (una competizione per dj organizzata dalla mamma di un ragazzo diciassettenne appassionato di musica e suicidatosi lo scorso anno). Come nascono queste collaborazioni? Immagino siano fondamentali per ridare un senso alla vita di chi sopravvive al suicidio di un famigliare… 

MP: Tutte queste iniziative sono importantissime e non mi sottraggo mai nel sostenerle come intervenire anche solo al telefono rivolgendomi a tutti i presenti nella discoteca oppure riunendo le madri proprio in queste occasioni. Non dimentichiamo che c’è anche la Giornata Mondiale dedicata ai survivors, il 21 novembre di ogni anno e il nostro centro è il referente per l’Italia.

 GP: Ci racconti qualcosa dell’iniziativa Race for Life?

Nasce dal voler portare il messaggio della prevenzione del suicidio tra la gente con strumenti quali il linguaggio dello sport emulando altre iniziative simili in varie parti del mondo. Il numero degli interessati cresce ogni anno e il tema del suicidio, una volta alla luce del sole, non fa poi così tanta paura.

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GP: Il vostro Centro di Prevenzione del Suicidio rappresenta un’avanguardia a livello nazionale. Quali difficoltà ci sono nell’inserire a livello istituzionale questo tipo di Servizio?

 MP: Il Servizio per la Prevenzione del Suicidio nasce con sforzi pioneristici, senza soldi né strumenti ma con la buona volontà di molti collaboratori. Decisi che volevo essere rappresentato da un vero servizio che avesse una helpline e che promuovesse la prevenzione del suicidio. Ricordo che le mie psicologhe mi raggiungevano prima dei turni di notte quando c’era più calma per stilare i capisaldi della nostra attività. Ci sono veramente tante soddisfazioni nell’aiutare chi è in crisi e nel fare ricerca. Purtroppo non ci sono sostegni e molti di coloro che sono coinvolti sono spesso tirocinanti, volontari, ecc. che vengono addestrati ma non hanno vere garanzie.

GP: Dal punto di vista epidemiologico, l’Italia continua a mantenere i bassi tassi di suicidio tipici dell’area mediterranea o le cose stanno cambiando?

 MP: Ci sono circa 4000 suicidi ogni anno in Italia. L’ISTAT ha recentemente emanato una circolare chiarendo che i dati in suo possesso sono solo frutto dei report dei Carabinieri e dunque incompleti, mettendo in discussione la cifra inesatta dei 3000 suicidi annui in Italia. Purtroppo, recentemente si è registrato un aumento statisticamente significativo nella fascia di età tra i 25 e i 69 anni, ovvero la fascia in attività lavorativa.

 GP: Un’ultima domanda…come hai fatto a incontrare il Papa?

MP: Incontrare il Papa è un privilegio frutto, suppongo, della grande dedizione alla causa per la prevenzione del suicidio. Una serie di contatti preliminari con autorità del Vaticano hanno poi portato all’incontro. Si tratta di un momento unico e di grande significato e che è accompagnato da un cerimoniale estremamente rigido. Gli dissi che mi occupo di prevenzione del suicidio e dopo un momento di esitazione ebbe un sorriso rassicurante, due mani piene di calore. Esclamò, dopo la mia richiesta di aiuto, “Che Dio benedica la prevenzione del suicidio”.

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nota: Edwin Shneidman (1918-2009) è stato uno psicologo statunitense, che viene considerato il padre della suicidologia. 

L’analisi dei sistemi motivazionali nello studio del processo: un confronto fra AIMIT e CCRT

Congresso SITCC 2012 Roma

  L’analisi dei sistemi motivazionali nello studio del processo: un confronto fra AIMIT e CCRT

A.De Coro, M.Brasini, C.Ardovini, E.Gregni, G.Mantione, F.Monticelli, S.Proietti, F.Valcella

 

Sistemi Motivazionali e Funzione Riflessiva – Gruppo Ricerca AIMIT –

Congresso SITCC 2012 Roma

Sistemi Motivazionali e Funzione Riflessiva

Gruppo Ricerca AIMIT

(L. Tombolini, M. Brasini, C. Ardovini, C. Di Manna, R. Esposito, C. Iannucci, G. Mantione, A. Muscetta F. Monticelli, L. Pancheri, E. Pietropaoli, F. Scarcella, F. Valcella)

 

 

Adolescenti & Gambling Online – Psicologia dei New Media

 

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Adolescenti & Gambling Online: Quando l’uso di internet diventa un problema

LEGGI GLI ARTICOLI SUL GAMBLING – GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

“Come avresti fatto a far sparire in due giorni l’intera paghetta dello scorso weekend?”

Alzi la mano chi, da adolescente, non ha mai sentito pronunciare queste parole dai propri genitori.  Attenzione però, perché la risposta potrebbe rivelare problemi ben più grossi di un semplice “eccesso di shopping”: scoprire che il proprio figlio pratica il gioco d’azzardo (Gambling) su internet (con conseguente perdita di grosse somme di denaro, oltre che di tempo) è al giorno d’oggi un duro colpo per molti genitori.

LEGGI GLI ARTICOLI SULLE DIPENDENZE

Fattori come la facile accessibilità e disponibilità della connessione ad internet, la possibilità di giocare in anonimato e le sempre più diffuse promozioni dei cosiddetti giochi “a scommessa” si sono rivelati deleteri negli ultimi dieci anni, contribuendo ad un aumento dei comportamenti di gambling (“gioco d’azzardo”) anche tra i più giovani (Griffiths, 2003; Griffiths & Barnes, 2008). Il gambling negli adolescenti costituisce un fenomeno preoccupante oltre che potenzialmente dannoso, dal momento che questo sottogruppo di persone risulta particolarmente vulnerabile allo sviluppo di comportamenti di addiction. Diversi studi hanno dimostrato l’esistenza di una elevata tendenza negli adolescenti ad adottare comportamenti a rischio, tendenza dovuta sia alla percezione di se stessi come “invulnerabili”, sia all’ignoranza rispetto alle potenziali conseguenze negative del gambling (Derevensky et al., 2003).  Come se ciò non bastasse, ulteriori studi hanno associato l’insorgenza precoce di comportamenti di gambling ad un maggiore rischio di sviluppare problemi di dipendenza, specialmente da internet (Internet Addiction).

Artemis Tsitsika e colleghi (Tsitsika, Critselis, Janikian, Kormas, & Kafetsis, 2010) hanno condotto uno studio trasversale su 484 adolescenti (età media: 14.88 anni) allo scopo da una parte di valutare la prevalenza di gambling praticato su internet ed i suoi effetti sull’emotività e sul comportamento, dall’altra di verificare l’ipotesi che esista una associazione tra internet gambling e uso di internet problematico.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Depressione & Uso di Internet negli Studenti Universitari

Apriamo una breve parentesi: per essere definita “patologica” o “problematica”, la navigazione in rete deve presentare le tre seguenti caratteristiche:

  • Essere percepita come incontrollabile dal soggetto
  • Provocare distress e significativo dispendio di tempo, con conseguenti difficoltà sociali, occupazionali e/o economiche
  • Essere presente non solo durante episodi di mania o ipomania (Shapira et al., 2000).

Tutti i partecipanti hanno compilato un questionario anonimo online, fornendo informazioni demografiche e indicazioni sulla frequenza di comportamenti di internet gambling, sulla frequenza d’uso di internet e sugli scopi della navigazione. Tramite il Young Internet Addiction Test (Young, 1998) è stata valutata l’occorrenza di un uso di internet problematico (persistenti preoccupazioni quando si è offline, uso compulsivo, problemi comportali in termini di reazioni a distrattori esterni durante la navigazione, cambiamenti emotivi ed impatto sul funzionamento sociale).

Lo Strenghts & Difficulties Questionnaire (Goodman, 1999) ha infine fornito indicazioni sull’adattamento psicologico e sociale conseguente all’uso di internet, e più nello specifico su sintomi emotivi, problemi della condotta, iperattività, problemi coi pari e prosocialità.

Il risultato forse più sconcertante è che ben il 15.1 % (n = 73) degli adolescenti esaminati praticava il gambling online (seppur con frequenza diversa: il 54.8% da 1 a 4 volte a settimana, il 45.2% almeno 5 volte a settimana). La frequenza del gambling tra i maschi risultava 2.86 volte maggiore rispetto a quanto riportato dalle femmine. I gamblers riferivano, in media, maggiori problemi di condotta e più alti punteggi alla sottoscala “problemi coi pari” rispetto al gruppo di controllo. Riguardo all’associazione con un uso di internet generalmente problematico, circa un quarto degli adolescenti gamblers superava il punteggio di cutoff per questa variabile.

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 Sebbene il contesto socio-culturale possa aver influenzato i risultati osservati (tutti i soggetti dello studio erano studenti greci, frequentanti le scuole del distretto urbano di Atene), si tratta di un tasso di prevalenza molto simile a quello riportato dagli adolescenti americani (Petry & Weinstock, 2007). Anche il fatto che il gambling fossero in prevalenza una pratica maschile concorda coi risultati di studi precedenti (Dickinson, Derevensky, & Gupta, 2002; Griffiths, Wardle, Orford, Sproston, & Erens,2009).

Data la presenza di una correlazione tra internet gambling e uso problematico della rete, resta da chiarire se esista una relazione causale tra le due variabili o meno. Mentre è possibile che, da una parte, il gambling possa facilitare lo sviluppo di altri tipi di dipendenze “online” (Griffiths, 1999, 2003), dall’altra è altrettanto probabile che adolescenti con preesistenti problemi di dipendenza da internet si ritrovino a prediligere la rete come mezzo per giocare.

Ci affidiamo a futuri studi per chiarimenti su questa relazione.

 

ARTICOLI SU: GAMBLING – GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – DIPENDENZE – ADOLESCENTI – INTERNET ADDICTION

 

BIBLIOGRAFIA:

Uno Studio di Esito e di Processo Terapeutico attraverso il metodo AIMIT in un Caso di Pedofilia

Congresso SITCC 2012 Roma

 Uno Studio di Esito e di Processo Terapeutico attraverso il metodo AIMIT in un Caso di Pedofilia

 La Rosa C. ,  Mantione  M.G., Muscetta A. , Pancheri L., Tombolini L., Brasini M., Ambrosio T.,

CENTRO CLINICO DE SANCTIS

 

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Van den Hout: Ecco come funziona l’ EMDR – SITCC 2012

 

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Van den Hout: Ecco come funziona l’EMDR - SITCC 2012
Prof. Marcel van den Hout nell’intervista rilasciata a State of Mind durante il Congresso SITCC 2012 di Roma.

SITCC 2012 – Van den Hout: Ecco come funziona l’ EMDR

L’Eye Movement Desensitization Reprocessing, meglio conosciuto con l’acronimo EMDR è uno degli approcci terapeutici che ha riscosso maggior successo negli ultimi anni. Questo è dovuto all’ormai consolidata mole di ricerche che ne mostrano l’efficacia nel trattamento delle forme di trauma patologico, in particolare per il Disturbo Post-Traumatico da Stress.

L’ipotesi centrale della terapia EMDR è che la stimolazione bilaterale dei due emisferi, attraverso rapidi movimenti oculari destra/sinistra, possa favorire la rielaborazione di ricordi traumatici altrimenti non elaborati, cioè ‘congelati’ nella loro forma altamente emotiva originaria.

ARTICOLI SU TRAUMA ED ESPERIENZE TRAUMATICHE – DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS

Nonostante le prove di efficacia, il meccanismo che determina i risultati dell’EMDR è stato oggetto di dibattito per molti anni, principalmente per la difficoltà nell’operazionalizzare i costrutti di ‘congelamento’ e ‘rielaborazione’. A questo si aggiunga che recenti review della letteratura scientifica internazionale hanno evidenziato come risultati tra terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e EMDR non risultino significativamente differenti (National Institute of Clinical Excellence, 2005; Seidler & Wagner, 2006) nel trattamento dei disturbi legati al trauma.

 

SITCC 2012 Roma State of Mind Interviews Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy - 1
Articolo consigliato: Interview with Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy

Gli autori suggeriscono la necessità di spostare l’attenzione dalla semplice efficacia alla comprensione dei mediatori del cambiamento, vale a dire quei meccanismi che vengono effettivamente modificati dall’intervento terapeutico e che determinano la risoluzione del disturbo.

ARTICOLI SU: EMDR

E veniamo alla plenaria del congresso SITCC 2012, affidata ai sapienti neuroni e alla spietata logica di Marcel A. van den Hout, ricercatore di fama internazionale, che negli ultimi anni assieme a numerosi colleghi ha affrontato e testato una dopo l’altra tutte le ipotesi inerenti il meccanismO di funzionamento della terapia EMDR. Ne emerge una sintesi di grande valore scientifico che permette di chiudere alcune strade e aprirne delle nuove.

Sintetizziamo alcuni punti.

1. L’EMDR e altri interventi efficaci sul trauma sembrano agire attraverso la riduzione della vividezza dei ricordi traumatici (Engelhard et al., 2010). La forza immaginativa del ricordo traumatico viene offuscata e questo significa una minor sensazione di realtà imminente, minor attivazione emotiva, maggior capacità di riflessione e rielaborazione del ricordo. Questa riduzione della vividezza potrebbe essere il mediatore comune dei diversi interventi efficaci sul trauma.

2. Il meccanismo con cui avviene la riduzione della vividezza non è l’abituazione, non basta esporsi più volte al ricordo o ripetutamente riviverlo perché questo perda le proprie caratteristiche immaginative.

3. Il meccanismo non è la sincronizzazione dei due emisferi, la riconnessione tra gli stessi, il passaggio dell’informazione tra un emisfero e l’altro. Infatti non si hanno variazioni nell’elettroencefalogramma (Samara et al., 2011) ma soprattutto la stimolazione verticale ottiene i medesimi risultati di quella orizzontale.

4. Il meccanismo sembra essere un processo di appesantimento della memoria di lavoro durante il recupero del ricordo traumatico (van den Hout et al., 2011). Stimolando la memoria di lavoro (working memory) che ha capacità limitate attraverso un secondo compito (es: seguire il movimento delle dita) questa non sarebbe più in grado di recuperare le informazioni traumatiche con la stessa vividezza. Si aprirebbe così lo spazio a un’elaborazione più distaccata del materiale mnestico comunque rievocato.

ARTICOLI SU: MEMORIA DI LAVORO – MEMORIA

La terapia con EMDR. - Immagine: © Marianne Mayer - Fotolia.com
Articolo consigliato: La terapia con EMDR.

5. L’ipotesi del working memory taxing è confermata dal fatto che altri esercizi che notoriamente appesantiscono la memoria lavoro, come l’esecuzione di alcuni compiti matematici che richiedono la memorizzazione di una serie di numeri, ottengono gli stessi effetti in termini di riduzione della vividezza dei ricordi negativi.

6. Un’altra interessante conclusione riguarda l’utilizzo dei beep (rumori alternati), piuttosto che dei movimenti oculari. I beep non appesantiscono la memoria di lavoro. E in effetti un recente studio (van den Hout et al., 2012) mostra come ottengano risultati significativamente inferiori all’uso dei movimenti oculari, anche se considerati una stimolazione bilaterale. Quindi la sostituzione della stimolazione oculare con quella uditiva è sconsigliata e prematura.

7. Infine, il protocollo di intervento EMDR prevede l’uso delle stimolazioni bilaterali per rinforzare immaginazioni e ricordi positivi. Questa procedura avrebbe senso clinico se si potesse sostenere l’ipotesi che la sincronizzazione degli emisferi favorisce l’elaborazione del ricordo. Ma non è così (vedi punto 3). Nel paradigma del working memory taxing sostenere un immaginazione positiva durante una stimolazione oculare, cioè durante l’appesantimento della memoria lavoro, significa rendere più difficile il mantenimento di un immagine vivida nella memoria. Insomma, ostacola proprio l’obiettivo che si propone. Conclusione: è inutile, se non controproducente.

La sintesi finale di van den Hout non è certo una sintesi contro la terapia EMDR. Anche perché la terapia EMDR non è solo questo. La lezione magistrale rappresenta invece un atteso chiarimento circa i meccanismi che stanno alla base di questa tecnica, consolidando il suo valore scientifico e offrendo spunti per ulteriori sviluppi.

D’altronde il razionale che ne emerge è limpido: modalità che appesantiscono la memoria lavoro durante il recupero di ricordi traumatici ne favoriscono la rielaborazione. E questa è una strada ancora tutta da percorrere.

ARTICOLI SU: EMDR – DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS 

 

Prof. Marcel van den Hout: Plasticity of memory in the etiology and treatment of Post Traumatic Stress Disorder – SITCC 2012

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BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale – Parte II

 

LEGGI LA MONOGRAFIA: IL DISPUTING IN PSICOTERAPIA   LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

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Psicoterapia. Il Disputing dellòa Fobia Sociale - Parte 2. - Immagine: © Manuel - Fotolia.com

Come già anticipato nella prima parte, il disputing della fobia sociale nasce da un’accurata raccolta dati. Occorre accertare attentamente le situazioni temute e solo dopo iniziare a valutare le basi empiriche dei timore della persona fobica sociale. Tra le varie situazioni sociali temute elenchiamo il chiedere un appuntamento a qualcuno/a, essere presentati a qualcuno/a, partecipare a feste, party, ricevere amici a cena, iniziare una conversazione, parlare al telefono, esprimere la propria opinione, affrontare un colloquio di lavoro, essere assertivi, restituire un acquisto, guardare negli occhi qualcuno/a, esprimere insoddisfazione per un acquisto, parlare con figure autorevoli, parlare in pubblico, fare sport in pubblico, partecipare a cerimonie pubbliche, cantare in pubblico, suonare in pubblico, recitare in pubblico, mangiare e/o bere in pubblico, usare bagni pubblici, scrivere in pubblico, commettere un errore davanti agli altri, camminare e/o correre in luoghi affollati, presentarsi ad altri, fare acquisti in negozi affollati, camminare davanti a un gruppo di persone.

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Una volta stabiliti i luoghi e le situazioni temute, si analizzano i pensieri che accompagnano e determinano il timore. È bene rendere consapevole il paziente che le sue difficoltà non derivano dalla situazione in sé, ma dalle sue valutazioni della situazione. Qual è il livello di ansia che le accompagnava? E cosa è accaduto davvero in quelle occasioni? Ma soprattutto, cosa ha pensato la persona? I pensieri più frequenti possono essere auto-valutativi (sono stupido/a, noioso/a, non amabile socialmente, inadeguato/a), focalizzati su comportamenti o reazioni proprie (ero arrossito/a, sudato/a, mostravo tremito) o altrui (hanno mostrato cenni di noia, disapprovazione, rifiuto; mi hanno esplicitamente disapprovato o perfino scacciato). Quanto volte è accaduto? Quando è accaduto l’ultima volta? E così via. Naturalmente occorre andarci cauti e non rischiare di umiliare il paziente, già di per sé sensibile all’argomento del giudizio.

Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale - Parte I. - Immagine: © Edyta Pawlowska - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale – Parte 2

Come è intuibile, la fobia sociale può essere particolarmente sensibile a un disputing empirico, cioè focalizzato sul fornire le prove di quel che è accaduto. Il paziente con fobia sociale è particolarmente soggetto a errori di malinterpretazione degli avvenimenti sociali, avvenimenti del resto già in sé mai facilmente decodificabili. A pensarci bene tutti noi siamo portatissimi a sopravvalutare e a generalizzare quelli che in fondo sono singoli episodi. È davvero possibile trascorrere una serata senza che capiti almeno una mezza gaffe, senza che almeno una nostra battuta che voleva esser spiritosa venga accolta non con risate ma con un benevolo (o sprezzante) silenzio, senza che almeno un nostro tentativo di prender la parola nella conversazione non vada a vuoto. Diamine, ma non mi ascoltano? Diciamo a noi stessi, avviliti per un attimo. E poi segue la terribile domanda: e perché mai non si sono voltati verso di me, e perché mai non hanno taciuto per darmi modo di raccontare la mia storiella? E infine segue la spiegazione, ancor più terribile: allora non sono simpatico/a, non sono apprezzato/a, non sono amabile, e così via.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SUI RAPPORTI INTERPERSONALI

Siamo dunque tutti a rischio di una catena negativa. Incoraggiare a riflettere il paziente quanto sia empiricamente fondata questa catena è molto d’aiuto. Non si tratta semplicemente di correttezza logica. Il paziente con fobia sociale ha evidentemente difficoltà a comprendere l’altro. Indurlo a riflettere meglio su quanto siano fondate le sue inferenze su ciò che pensano gli altri è un modo per istradarlo verso un percorso di comprensione e accettazione della mente dell’altro.

 Ma, come direbbe Fonagy, il paziente con fobia sociale ha anche problemi nell’accettare di non poter comprendere sempre, ad accontentarsi del fatto che non può sapere sempre cosa pensa l’altro e che questa opacità non significa necessariamente malevolenza. Il disputing potrebbe generare un percorso cognitivo di questo tipo, nel quale il paziente man mano che perde le sue certezze sulla malevolenza degli altri, prende atto dell’opacità del pensiero degli altri. Noi, per lo più, non sappiamo cosa pensano gli altri. Ma questo potrebbe essere alla base di un altro errore cognitivo del fobico sociale: egli potrebbe considerare questa opacità come prova di malevolenza. Errore logico che quindi richiede un disputing logico. Che relazione logica c’è tra opacità (non so cosa pensano gli altri) e malevolenza (gli altri pensano male di me)?

Insomma potremmo immaginare un modello di questo tipo.

 

Pensiero distorto: pensano male di me

Disputing empirico: in base a cosa ha pensato questo? Che prove ha?

Assunzioni distorte: perché sudo, balbetto, perché non sono simpatico, e così via.

Disputing: in che misura arrossiva, sudava o balbettava? Era percepibile questo disagio? E come può essere sicuro che gli altri la abbiano giudicato male per questo? Ma lei, ad esempio, sudava così copiosamente da creare imbarazzo? O balbettava così penosamente da bloccare la sua conversazione? E se anche fosse, che persone sono mai queste? Sono così malevole verso chi suda, balbetta, arrossisce?

Nuovi pensieri: forse non so davvero cosa pensano gli altri. Questo potrebbe iniziare a tranquillizzare il paziente, e aprire la possibilità a un supplemento di disputing logico: dunque lei non sapeva cosa pensassero gli altri, e proprio questo la portava a dedurre che pensassero male di lei? È possibile?

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Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

A questo punto, se il paziente non ha propensione al controllo ossessivo potrebbe iniziare a pensare di poter tollerare la non conoscenza del giudizio altrui. L’obiettivo, infatti, più che costruire una buona autostima, dovrebbe essere sviluppare l’autonomia dal giudizio altrui fino ad arrivare a quella che Albert Ellis chiamava l’auto-accettazione incondizionata (Ellis, 2005).

I fattori cognitivi non si esauriscono qui. Accanto alle credenze, ci sono anche i processi di tipo attentivo. I principali errori processuali del fobico sociale sono l’attenzione anticipatoria focalizzata verso l’evento sociale durante i giorni che lo precedono e l’attenzione focalizzata sulle reazioni altrui e sulle proprie sensazioni di vergogna e imbarazzo durante l’evento sociale temuto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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