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L’ Ipnosi Riduce i Sintomi della Menopausa?

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La terapia di rilassamento ipnotico è in grado di ridurre le vampate di calore dell’80 %, e di indurre un miglioramento nella qualità della vita e una diminuzione di ansia e depressione.

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Secondo un nuovo studio condotto da ricercatori della Baylor University’s Mind-Body Medicine Research Laboratory l’ipnosi clinica può efficacemente ridurre le vampate di calore e sintomi associati alla menopausa.

I risultati dello studio indicano che la terapia di rilassamento ipnotico è in grado di ridurre le vampate di calore dell’80 %, e di indurre un miglioramento nella qualità della vita e una diminuzione di ansia e depressione.

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Il campione, composto da 187 donne, è stato seguito per un periodo di cinque settimane durante il quale sono stati considerati sia i sintomi fisici delle vampate di calore, che le valutazioni soggettive da parte delle donne. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a sedute settimanali di ipnosi e hanno anche praticato l’auto-ipnosi grazie a registrazioni audio e video.

Secondo Gary Elkins, Ph.D., professore di psicologia e neuroscienze al Baylor’s College of Arts & Sciences e direttore del Mind-Body Medicine Research Laboratory, l’uso dell’ipnosi ha permesso non solo una variazione nella capacità di tollerare o far fronte ai sintomi, ma una vera e propria diminuzione delle vampate di calore. Oltre a diminuire in frequenza, le vampate di calore sono diventate anche più lievi.

Per essere clinicamente significativa, la riduzione deve essere del  50 % o più: nello studio in questione già alla quarta sessione le vampate di calore sono diminuite di circa il 70% e nel follow-up a tre mesi si è registrata una  diminuzione media dell’80%; alcune donne hanno riferito addirittura una quasi totale scomparsa delle vampate di calore. 

Sul lungo termine, l’intervento ha il vantaggio di ridurre gli effetti collaterali dei normali trattamenti e i costi di assistenza sanitaria; i trattamenti comunemente usati prevedono l’impiego di ormoni – estrogeni o progestinici – che sono efficaci con un intervallo da 90 a 100% di riduzione delle vampate, ma sono anche associati ad un aumentato rischio di cancro al seno o malattie cardiache, gli antidepressivi, con una diminuzione nella gamma di 45 a il 60 %, ma con possibili effetti collaterali come secchezza delle fauci e calo del desiderio sessuale, e i rimedi a base di erbe, in genere risultano essere di benefici poco più che un placebo.

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I prossimi passi dei ricercatori saranno per determinare se l’intervento possa essere effettuato grazie all’impiego di registrazioni audio e video, in tal caso si potrebbe raggiungere un ampio utilizzo e potenzialmente aiutare milioni di donne. Altri studi dovranno essere fatti per vedere se questo tipo di trattamento possa essere benefico anche per il sistema immunitario e prevenire le malattie.

I risultati della ricerca sono in accordo con i risultati di un precedente studio di Baylor che ha utilizzato l’ipnosi per ridurre le vampate di calore in donne sopravvissute al cancro al seno.

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BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia: Il Disputing delle Idee Ossessive e delle Compulsioni

 

MONOGRAFIA: IL DISPUTING IN PSICOTERAPIA   LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com

Pare che gli ossessivi si considerino responsabili di qualsiasi evento negativo sul quale abbiano anche un remotissimo potere d’influenza sia nel determinarlo che nel prevenirlo.

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La letteratura scientifica ci dice che il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo deve prevedere una significativa componente comportamentale, ovvero di esposizione prevenzione della risposta (exposure and response prevention, ERP).

Il titolo indica due interventi che corrispondono ai due elementi della psicopatologia ossessiva. Il primo elemento sono le idee ossessive vere e proprie, pensieri e idee vissute dalla persona affetta da questo disturbo come estranee e intrusive, il che vuol dire che i pazienti giudicano i contenuti delle ossessioni senza senso e totalmente estranei al loro sistema di valori e ai loro princìpi morali.Queste idee sono percepite anche come incoercibili dai pazienti, i quali non riescono, malgrado si sforzino, a distogliere la loro mente da tali pensieri, che si impongono nella loro mente contro la loro volontà e senza alcuna possibilità di controllo. Infine queste idee ritornano continuamente ad occupare lo scenario mentale del paziente (Westphal, 1878).

Accanto alle idee ossessive troviamo i comportamenti compulsivi, comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il paziente deve obbligatoriamente mettere in atto in risposta ad un’ossessione, seguendo regole rigide, allo scopo di prevenire o ridurre il disagio o alcuni eventi o situazioni temuti; i comportamenti o le azioni mentali sono eccessivi o non sono collegati in modo realistico a ciò che devono neutralizzare o prevenire.

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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Torniamo ora ai due elementi dell’ERP. Il primo elemento è l’esposizione alla situazione temuta rappresentata nell’idea ossessiva. Il secondo elemento è la prevenzione della risposta, e non è altro che l’astensione dal comportamento compulsivo. Appare chiaro però come esposizione e prevenzione della risposta siano strettamente collegati. Non ci può essere esposizione senza prevenzione della risposta, infatti.

Le compulsioni hanno proprio la funzione illusoria di impedire al paziente ossessivo di andare incontro allo scenario temuto. Alcune compulsioni hanno un legame sensato e pratico con le loro ossessioni: ad esempio, la compulsione di lavaggio evita che alla persona capiti, come teme, di contaminarsi e di sporcarsi. Molti rituali agiscono per invece grazie alla logica del pensiero magico: compio una certa sequenza di comportamenti perché essa mi permetterebbe di non ammalarmi di una certa malattia o di non compiere una certa azione malvagia. La situazione temuta può essere un danno concreto (l’esposizione a un agente contaminante, sporco) oppure, secondo la teoria cognitiva clinica di Paul Salkovskis, una credenza cognitiva di responsabilità esagerata: inflated responsibility.

Pare quindi che gli ossessivi si considerino responsabili di qualsiasi evento negativo sul quale abbiano anche un remotissimo potere d’influenza sia nel determinarlo che nel prevenirlo (Salkovskis, 1996; Salkovskis et al., 1997). Siccome le connessioni tra gli eventi se si vuole le si possono sempre trovare, per gli ossessivi diventa praticamente sempre possibile scoprire una spiegazione anche remotissima, a volte anche bizzarra, che riguardi la relazione tra sé e l’evento.

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L’esagerato senso di responsabilità non riguarda solo le azioni ma anche le eventuali omissioni, per cui non sforzarsi al massimo per prevenire un certo evento equivale a esserne ugualmente responsabili per omissione. Il profondo senso di responsabilità è accompagnato dal timore per una colpa che l’ossessivo immagina talmente grave da non essere affrontabile e sopportabile, se l’evento temuto si dovesse verificare. 

 È chiaro allora che qui è posizionato il primo aggancio per l’intervento più puramente cognitivo, ovvero il disputing delle idee ossessive. La domanda d’esordio del disputing

T.: Qual è il problema di cui vogliamo parlare?

Si adatta sia alle idee ossessive che alla compulsioni. Naturalmente nel primo caso la catena di pensieri negativi va verso la terribilizzazione.

P.: Vorrei parlare di certe idee che mi vengono in mente

T.: Quali, in particolare?

P.: Per esempio, cammino insieme a mio padre e mi viene in mente che potrei colpirlo.

Oppure:

P.: Ho mio figlio piccolo in braccio e mi viene in mente che potrei sbatterlo contro il muro

In questi casi l’evento negativo è chiaro. Il processo cognitivo che lo sostiene è la cosiddetta fusione pensiero-azione. Rachman (1993) è l’autore che ha sottolineato l’importanza di questo elemento. In questa modalità di pensiero il fatto di pensare qualcosa significa automaticamente farla, oppure assumersene la responsabilità. Come nell’esempio, pensare a una possibile disgrazia capitata al proprio figlio significa aumentare le probabilità che questo accada o meglio essere in parte responsabile del fatto che questo evento possa realmente accadere poiché, avendolo pensato, tale evento diventa più probabile di quanto sarebbe potuto essere se non fosse stato mai pensato. Analogamente l’aver pensato di aver investito qualcuno mentre si guida l’auto è quasi equivalente ad averlo realmente fatto. Ciò rappresenta una tipica credenza dei soggetti ossessivi  convinti che: “pensare una cosa equivale a farla”. 

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Nei casi del timore di avere pensieri blasfemi o di pensare bestemmie la qualità tutta mentale delle preoccupazioni dell’ossessivo è ancora più evidente. Una bestemmia mentale, più che un timore di qualcosa di negativo, è in sé qualcosa di negativo da evitare. Di qui la pretesa  di assoluto controllo dei propri pensieri ed il tentativo irrealistico di non pensare quelli cattivi. Per gli ossessivi pensare un pensiero cattivo comporta la stessa responsabilità dal punto di vista morale di aver compiuto l’azione o di non aver fatto di tutto per evitare l’evento che ne conseguirebbe. La fusione pensiero-azione rappresenta una estensione del pensiero magico. 

La risposta del paziente ossessivo a cosa potrebbe accadere può essere quindi immediata. Il problema non è tanto che potrebbe accadere qualcosa. Il fatto di avere pensato già prova che il fatto accadrà.

T.: Quindi il suo problema è che potrebbe fare del male al suo bambino. Ma come fa a dire che lo farà.

P.: Beh, l’ho pensato e quindi potrei farlo.

Applicando l’equazione di Salkovskis, i parametri da valutare sono la tollerabilità del fatto e la reale probabilità. È chiaro che non è raccomandabile pensare di tollerare di fare del male al proprio bambino. Anzi, occorre essere cauti. Il paziente ossessivo, infatti, può raccontare di avere già tentato di mettere alla prova quanto una cosa sia probabile che avvenga, spesso in modi bizzarri.

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T.: Capisco che avere il pensiero di fare del male al proprio bambino è sgradevole. Però pensarlo non significa farlo davvero e tantomeno volerlo fare.

P.: Beh, l’ho pensato…

 T.: D’accordo, lo ha pensato. Ma ha anche pensato di volerlo fare? Ci pensi bene: pensare di fare una cosa è lo stesso che pensare di volerla fare?

Insistendo su questa strada occorre mettersi d’accordo che ciò che è da temere è qualcosa di solo mentale.

T.: Il suo problema non è fare del male, ma pensare di fare del male. Su questo occorre lavorare.

Ma prima di arrivare qui quasi sempre occorre liberarsi delle compulsioni. Occorre disputarle, ovvero mettere in discussione l’utilità (il paziente ossessivo pensa che seguendole terrà a bada i suoi pensieri ossessivi) e poi dichiarare con chiarezza che solo l’astensione dalle compuslioni fa andare avanti il trattamento.

T.: A che le serve toccare in sequenza questi oggetti? 

Spesso la compulsione è talmente automatizzata che il paziente ha letteralmente dimenticato perché la fa.

P.: Non saprei, devo farlo e basta. Se non lo faccio sono a disagio.

 In questi casi si può chiedere cosa accadrebbe se non lo facesse.

T: Per comprendere perché facciamo qualcosa possiamo pensare a che le serve. Nel caso di un’emozione d’ansia, cosa vuole evitare che accada facendolo.

In alcuni casi il paziente sostiene che ha la sensazione che facendolo prova sollievo e che i suoi timori non si avvereranno.

P.: Non so, mi sembra che se lo faccio non avverrà nulla di male a chi voglio bene.

T.: Ma che prove ha che sia proprio così?

P.: Non so. Ma non voglio correre il rischio.

Oppure più semplicemente:

P.: non so cosa temo, ma so che se lo faccio mi sento tranquillo. Devo farlo.

Più che rassicurare il paziente che non accadrà nulla, occorre convincerlo che conviene privarvi (??) per poter stare meglio.

T.: Capisco. Tuttavia a questo punto del trattamento è conveniente che lei si astenga dalle sue ossessioni. La terapia prevede proprio che lei apprenda a sopportare il malessere che si realizza. 

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Insomma, in tutti i tre casi (ovvero, che il collegamento tra compulsioni e ossessioni sia 1) nullo, ovvero semplicemente sto bene se la faccio; 2) magico, ovvero se lo faccio non accade; 3) o –a suo modo- logico, ovvero mi lavo le mani ed elimino il rischio di contaminarmi) si arriva a un punto in cui si prescrive l’astensione dalla compulsione e si disputa la base emotiva dei sintomi, sia compulsivo che ossessivo: la convinzione di non poter tollerare il malessere legato all’ossessione e all’astensione dalla compulsione. 

Il passaggio fondamentale è sempre identico: sfrondare tutte le possibilità concrete negative impossibili o almeno altamente improbabili, e poi accompagnare il paziente verso l’accettazione di un livello di frustrazione o di dolore morale significativo, anche intenso, ma non mai veramente insopportabile. Si persegue la riformulazione in termini sopportabili della sofferenza, la trasformazione dell’etichetta di “evento (o idea, nel caso dell’ossessivo) catastrofico insopportabile” in “evento negativo ma sopportabile”.

MONOGRAFIA: IL DISPUTING IN PSICOTERAPIA   LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disturbo Borderline di Personalità (DBP): lettura magistrale di John Gunderson

Francesca Martino.

 

Disturbo Borderline di Personalità: dalle linee guida alla pratica clinica, 18-19 ottobre Cesenatico

Lettura magistrale di John Gunderson in video conferenza da Boston

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Prof. Gunderson - Disturbo Borderline di Personalità. 18 ottobre 2012. Cesenatico.LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’

Il comune di Cesenatico ospita la 5 edizione del Convegno Regionale sul Disturbo Borderline di Personalità che quest’anno vede intervenire John Gunderson, Psichiatra direttore del Centro per i Disturbi di Personalità presso il McLean Hospital dell’università di Harvard di Boston. La sessione è stata coordinata da Maria Elena Ridolfi, psichiatra presso la ASUR di Fano e allieva del professore durante la sua formazione negli Stati Uniti.

Il Prof. Gunderson ha diviso il suo intervento in 4 parti: la diagnosi, l’eziopatogenesi, il decorso clinico e il trattamento. 

1- La diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità. Nel primo segmento, Gunderson ha fatto un accenno alla diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità, prevista nel DSM-5. Il nuovo manuale fornirà ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantirà, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato. 

Il Disturbo Borderline di Personalità sarà determinato da un criterio nucleare (A) definito da (1) una compromissione del funzionamento del sé, ovvero da un’immagine di sé instabile, sentimenti di vuoto/solitudine, instabilità negli scopi e assenza di progettualità e da (2) una compromissione del funzionamento interpersonale costituito dalla difficoltà di “vicinanza affettiva”caratterizzata da una pervasiva preoccupazione di essere rifiutati e abbandonati e allo stesso tempo dal timore che l’eccessiva intimità possa essere “minacciosa”.

XVI CONGRESSO NAZIONALE SITCC Roma 4 – 7 Ottobre 2012
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Il secondo criterio (B), indagato solo se viene soddisfatto il primo, riguarda: (1) affettività negativa, ovvero la labilità emotiva e la sintomatologia ansiosa e depressiva; (2) disinibizione, espressa con la tendenza all’impulsività e con i comportamenti rischiosi;  (3) antagonismo, ovvero la tendenza pervasiva all’ostilità.

Tali tratti devono  inoltre essere relativamente stabili nel tempo (C), non imputabili a caratteristiche socio-culturali (D) o all’alterazione dovuta all’effetto di sostanze (E). 

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La sessione si chiude con delle raccomandazioni cliniche. Gunderson sottolinea l’importanza di comunicare la diagnosi al paziente, in quanto quest’ “azione terapeutica” contribuisce a ridurre il senso di alienazione, il biasimo e la critica da parte dell’ambiente, a preparare le basi per un’alleanza di lavoro, primo passo nella cura dei pazienti “difficili”.  

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Come comunicare la diagnosi? chiedono dal pubblico. “Potremmo utilizzare un approccio più descrittivo, leggendo al paziente i criteri e chiedendogli quanto si sente rispecchiato da tale fotografia o seguire un approccio più narrativo spiegando che esistono delle persone più “sensibili” agli eventi interpersonali, dunque possiedono bisogni maggiori che necessitano di attenzioni particolari per essere soddisfatti, e che spesso l’ambiente non è in grado di comprendere tali bisogni e quindi di fornire le attenzioni richieste”.

2- L’eziopatogenesi del Disturbo Borderline di Personalità. Gli studi che si sono concentrati sul ruolo della componente genetica nello sviluppo di un Disturbo Borderline di Personalità ne hanno sostenuto una parziale ereditarietà, del 50% circa. Recentemente (Distel 2012) è stata ipotizzata invece la trasmissibilità solo di alcune componenti, come l’impulsività, ma non del disturbo nel suo complesso. Altri autori si sono invece soffermati sull’ impatto decisivo della variabile socio-ambientale nello sviluppo del disturbo. Da questa concezione si snodano una serie di orientamenti teorici che individuano l’ “origine” del disturbo nella presenza di un’esperienza traumatica precoce (Kernberg, 1994), nell’interazione di una vulnerabilità biologica e un ambiente invalidante (Linehan 1993), in una relazione di attaccamento fallimentare (Fonagy 2000).

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I modelli teorici individuano rispettivamente il core del disturbo in una mancanza di integrazione di componenti scisse dell’io, in una disregolazione emotiva o in una scarsa capacità di mentalizzazione. 

Gunderson sottolinea la robustezza teorica ed empirica di questi modelli, senza marcare una superiorità di uno sull’altro o ipotizzare una linea di integrazione degli stessi. Conclude con un commento personale: “A mio avviso, l’aspetto nucleare del Disturbo Borderline di Personalità sta nella “iper-sensibilità interpersonale”, ovvero nella  tendenza a interpretare i comportamenti come atteggiamenti di rifiuto e allontanamento e a reagire in maniera eccessiva alle risposte dell’altro”.

E’ interessante notare come il core evidenziato da Gunderson, che richiama il criterio nucleare proposto nel DSM-5,  ponga un certo accento sull’interpretazione cognitiva pervasiva e disadattiva del paziente e sulla sua conseguente risposta emotiva “eccessiva”.

3- Il decorso clinico del Disturbo Borderline di Personalità. Il terzo spazio si apre con la presentazione del Collaborative Longitudinal Personality Disorder Study (Gunderson 2011) dal quale si evidenzia come il Disturbo Borderline di Personalità vada incontro ad un significativo tasso di remissione sintomatica, pari al 45% dopo 2 anni dalla diagnosi e dell’85% dopo 10, con un tasso di ricadute del 15%. Nonostante gli esiti clinici favorevoli, però, i pazienti continuavano a presentare un funzionamento sociale scarso.Dallo studio si evidenzia inoltre che, a prescindere dal trattamento che il Disturbo Borderline di Personalità riceveva, si andava comunque incontro ad un miglior esito nel corso del tempo. La prognosi relativamente favorevole sostenuta dallo studio ha radicalmente cambiato, nella comunità clinica e scientifica, la visione di una condizione “cronica”, dunque stabile nel tempo e difficilmente trattabile.

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La raccomandazione con la quale Gunderson conclude la sessione dedicata al decorso è rivolta dunque ai clinici, spesso sfiduciati nei confronti di questi pazienti. “Di fronte ad un paziente che non migliora nel corso dei primi mesi del trattamento chiedetegli qual è la sua percezione dell’andamento della terapia e quali possono essere le difficoltà dovute allo scarso miglioramento e soprattutto interrogatevi sulla vostra motivazione a lavorare con quel paziente e sulle aspettative che avete su di lui… Non esistono pazienti intrattabili, esistono però quelli che noi non riusciamo a trattare”.

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4- Il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. In ultimo Gunderson ha fatto un’overview sui modelli di trattamento evidence-based per il Disturbo Borderline di Personalità. Le tecniche, manualizzate e studiate in RCT, come la DBT (Linehan 1993), l’ MBT (Bateman 2004) e la TFP (Clarkin 1999) si sono dimostrate generalmente efficaci nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. E’ però vero che, ad oggi, esiste una sostanziale sovrapponibilità dei modelli e l’assenza quindi di una superiorità di uno sull’altro (Gabbard 2004).

La comunità scientifica si sta muovendo da qualche anno verso il tentativo di individuare quali potrebbero essere gli aspetti che accomunano questi modelli e che rappresenterebbero dunque gli elementi chiave nel determinare l’efficacia nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità.  Sembra ormai esserci un certo accordo, condiviso anche dalle linee guida inglesi del National Institute for Clinical Excellence (NICE 2009), sull’assunto che il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità debba essere costituito da (1) alta strutturazione degli interventi erogati dall’équipe che prende in carico il paziente (2), coerenza degli approcci teorici adottati dai professionisti (3), supervisioni regolari dell’équipe (4), contratto terapeutico per la definizione di regole e obiettivi condivisi (5), atteggiamento empatico e supportivo, ma attivo e orientato al problem solving. 

Il Prof. Gunderson ci presenta brevemente il suo modello di lavoro al McLean Hospital che segue i punti sopra elencati e le indicazioni delle linee guida americane (APA 2001). “Il General Psychiatic Management (GPM) è costituito da diversi interventi, generalmente di matrice psicoeducativa e psicodinamica, erogati da professionisti con esperienza sul disturbo, ma senza un orientamento tecnico specifico. Il GPM si articola in: interventi psichiatrici e farmacologici, psicoterapie individuali e gruppali, case management infermieristico, gruppi psicoeducativi sui familiari, altri interventi tagliati ad hoc per il paziente.

Gunderson rimarca dunque gli elementi comuni che sembrano avere una generale efficacia nel lavoro su questi pazienti, ma non fa accenno a quelli che potrebbero essere i fattori che mediano tra una tale organizzazione “strutturata, coerente e supportiva” e l’outcome positivo sul paziente. Lo stato dell’arte sembra aver dunque individuato abbastanza chiaramente la “struttura” che un buon trattamento debba avere, ma ancora poche informazioni ci vengono date sugli elementi chiave che potrebbero avere un impatto diretto sull’efficacia. 

Il collegamento si chiude con la domanda della coordinatrice “Cosa ti ha fatto scegliere di lavorare con questi pazienti e cosa ti restituisce questa esperienza di lavoro?

Bhè devo ammettere che non è stata una mia scelta! Dopo le prime esperienze ho iniziato ad essere “famoso” nel campo e quindi hanno iniziato a contattarmi e riferirsi a me come “esperto” nel settore, ancor prima che io avessi potuto scegliere con “certezza” se lavorare con il Disturbo Borderline di Personalità. Mi sono appassionato via via a questi pazienti, che continuano a restituirmi giornalmente gratificazioni a livello professionale e personale. In generale, credo che lavorare con i Borderline ti tenga continuamente “attivo” per il grado di iper-coinvolgimento che portano con loro… è un’altalena tra il tentativo cauto di avvicinamento e quello più affannoso di “difendersi” dall’inondazione delle loro richieste alle quali è necessario porre dei limiti. Credo che quando  impari a trattare un Borderline hai le armi per poter trattare chiunque”.

Salutiamo e ringraziamo il Prof. J. Gunderson con un lungo e caloroso applauso finale. 

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BIBLIOGRAFIA:

Dubbi Pre-Matrimoniali e Soddisfazione Coniugale

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Il nervosismo pre-matrimoniale può essere segno di guai in vista nel futuro della coppia.

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Secondo i risultati di una ricerca condotta all’Università di Alberta le coppie in procinto di sposarsi dovrebbero prestare attenzione ai dubbi che le assillano prima del matrimonio. Questi dati sono in accordo con quelli di un altra ricerca pubblicata su Journal of Family Psychology nel  settembre 2012, secondo la quale il nervosismo pre-matrimoniale può essere segno di guai in vista nel futuro della coppia. 

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Lo studio, pubblicato di recente su Family Process, ha utilizzato tre gruppi dati di ricerca relativi un campione di 610 coppie eterosessuali appena sposate (1220 individui) per studiare il rapporto tra la fiducia coniugale, il tempo passato insieme e la soddisfazione di coppia; i dati sono stati raccolti ad intervalli di 18 mesi per un periodo di 4 anni. 

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I risultati indicano che le coppie che erano più sicure mentre si scambiavano i voti passavano anche più tempo insieme nei 18 mesi successivi al matrimonio e risultavano felicemente sposate tre anni dopo; inoltre la fiducia coniugale ha correlato positivamente con la quantità di tempo passato insieme a tre anni dal matrimonio, e questa a sua volta era associata alla soddisfazione coniugale rilevata nell’ultima tappa del periodo di osservazione.

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In un momento in cui il divorzio è molto comune, mettere da parte per un attimo il romaticismo e occuparsi dei problemi relazionali prima del grande passo sembra essere fondamentale; secondo gli autori, infatti, la tentazione di ignorare le preoccupazioni e “tirare avanti” è forte, ma le coppie hanno bisogno di riflettere sui dubbi che hanno, perchè questi sono indicatori importanti di qualcosa che non va e vanno ascoltati prima che sia troppo tardi.

In quest’ottica la consulenza pre-marimoniale può essere per le coppie una buona occasione per confrontarsi apertamente e onestamente con ciò che le preoccupa e per testare la loro fiducia nella capacità di affrontare le sfide future.

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BIBLIOGRAFIA:

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale

PSICHE & LEGGE #3

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale

 

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale. - Immagine: © jedi-master - Fotolia.comPsiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

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“Un’altra donna uccisa: è allarme femminicidio”. “In vertiginoso aumento, la violenza omicida maschile”. Così, purtroppo, titolano, sempre più spesso, le cronache italiane. Ed è vero. Si tratta di un fenomeno in costante aumento.

Le percentuali che inducono a parlare di femminicidio. Le vittime sono per la gran parte donne, non c’è dubbio, ma sono stata chiamata ad occuparmi esclusivamente dei risvolti legali di un fenomeno tragico, come quello cui si assiste quotidianamente. Da avvocato, dunque, non userò il termine femminicidio – propriamente riferibile all’uccisione di un soggetto, motivata esclusivamente dall’appartenenza ad un determinato genere sessuale – ma, più tecnicamente, di omicidio d’impeto e passionale, seppur commesso, nell’80% dei casi, in ambito domestico, familiare, e nei confronti di vittime di sesso femminile.

Mi sia consentito, da donna, marcare quanto possa far male pensare che l’uomo di cui ci si innamora, al quale si rivolgono attenzioni e pensieri, con cui si condividono emozioni, o che si rende padre, possa poi inveire così crudelmente sulla partner o, ancor peggio, maturare nel tempo tanto rancore, rabbia o immotivata voglia di vendetta, da divenirne, un giorno, il carnefice. Così, la persona cui ci siamo affidate, si trasforma (in momenti di crisi del legame affettivo, o in fase di separazione/divorzio) in quella da cui difendersi e fuggire. E se la responsabilità, è stata attribuita talora alla società che esaspera la coppia, talaltra alle difficoltà economiche legate alla frattura di un matrimonio (dimenticando che le “morti rosa” avvengono in qualsiasi contesto socio-culturale), non si può non riflettere come il gesto omicida – prima che da fattori esterni – si formuli e si definisca nella “mente criminale”.

La Psicologia del Femminicidio. - Immagine: Unos Cuantos Piquetitos 1935 - Frida Kahlo. Collection of Dolores Olmedo Patiño Mexico City, Mexico
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Indaghiamo, dunque, su cosa accade nella psiche del reo nel momento in cui compie un gesto efferato. Quale è la differenza, sotto il profilo strettamente legale, tra raptus e omicidio passionale? Quanto incide, se incide, sull’imputabilità, l’aver agito in preda ad uno “stato emotivo e passionale”? Quanto pesa sulla condanna l’aver progettato l’omicidio? E quali sono le circostanze che potrebbero aggravare o alleggerire la pena?

Non c’è dubbio, che gli omicidi commessi in famiglia, nei confronti di una persona cui si è, o si è stati legati, si differenziano dagli assassinii freddi (scaturiti, ad esempio, a moventi venali) per la particolare crudeltà di esecuzione, indice del forte coinvolgimento personale.

Si parla, così, indifferentemente, di delitti commessi in preda a “raptus” e di “omicidi passionali”. Dal punto di vista giuridico, però, non va fatta confusione. A ben vedere, si tratta di delitti nettamente diversi tra loro. Ciò che li distingue, è il momento ideativo del crimine.

Ma andiamo per ordine. È evidente che nel tracciare la distinzione tra le due figure, non mi tratterrò, non avendone le competenze scientifiche, sugli aspetti prettamente medico-psichiatrici della questione.

 Mi limiterò, pertanto, a spiegare cosa – nell’ambito di un processo per omicidio – si intende per “delitto emotivo” e cosa, invece, vuol dire “delitto passionale” (contemplati entrambi dall’art. 90 del Codice Penale, su cui ci soffermeremo più avanti). Lo stato emotivo viene definito come stato mentale permeato dall’emozione, reazione transitoria ed intensa ad un determinato stimolo, fattore scatenante del cosiddetto raptus di follia. Il delitto emotivo, quindi, si ravvisa nel gesto omicida caratterizzato da impeto, impulsività e mancanza di premeditazione, solitamente legato al movente della gelosia (su cui torneremo).

La scena del delitto parlerà chiaro: ogni particolare sarà indice di scatti d’ira, disorganizzazione, assenza di complici, e nessuna tentata dissimulazione. Potrebbe essere accaduto, ad esempio, che il soggetto, intenzionato solo a minacciare o terrorizzare la vittima, l’abbia poi uccisa, mosso da una parola di troppo, o da una psicotica reazione dovuta all’evolversi della discussione.

Diversamente, lo stato passionale – dal greco “pathos”, sofferenza – è frutto di un’emozione che si cronicizza, che perdura nel tempo ed esplode nell’atto estremo. Tanto è vero, che omicidi del genere sono in qualche modo annunciati da una costellazione di fattori spia: gelosia ossessiva, bisogno compulsivo dell’altro, molestie, episodi di stalking.

Gli omicidi passionali, inoltre, si contraddistinguono per il luogo del crimine. Per lo più, avvengono in auto, in casa, e comunque in ambienti chiusi e “intimi”, teatro di un confronto (solitamente concordato per definire la fine di una relazione affettiva) che, troppo spesso, spegne per sempre lo sguardo alla vita della vittima. Gesto che, nella mente del reo, può assumere persino il significato del giusto “prezzo” pagato dalla donna che l’ha abbandonato, tradito o che, semplicemente, ha smesso di amarlo.

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Voglia di rivalsa, dunque, che accomuna sia l’omicida emotivo che quello passionale, e che si evince anche dalla modalità dell’aggressione, di sovente frontale, come attestato, in sede di ricostruzione del crimine, sia da specifiche indagini scientifiche che dall’impressionante concentrazione dei segni della colluttazione, sulle mani e sulle braccia della vittima, ad indicare il disperato tentativo di difendersi, proprio da un attacco frontale. Altro punto di contatto, parrebbe essere il profilo dell’omicida (soggetto apparentemente rassicurante, senza precedenti penali e ignoto alle forze dell’ordine) e il comportamento successivo al reato (egli è solito non opporre resistenza all’arresto, o confessare l’accaduto, seppur in maniera confusa).

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Tanto rilevato, ciò che interessa puntualizzare, è la differenza – a livello legale – tra omicidio emotivo e omicidio passionale, legata alla diversità dell’elemento soggettivo del reato. Può affermarsi, difatti, che nel caso del raptus, il soggetto sia mosso da dolo d’impeto, mentre il delitto passionale, in qualche maniera progettato, fa pensare ad un dolo di premeditazione.

Ma quale è l’esatto significato di tali termini? Come messo in luce nel  #1 di questa mia Rubrica, l’autore di un reato ne sarà ritenuto responsabile, solo ove si accerti che la sua azione sia frutto di condotta dolosa o colposa. Quanto al delitto doloso, oggi d’interesse, il Codice Penale, all’art. 43, lo definisce come reato commesso “secondo l’intenzione” del soggetto agente e, dunque, da questi preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.

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Sarà necessario, perciò – non solo accertare la volontarietà dell’omicidio commesso – ma anche il “grado” di intenzione che abbia animato la mano assassina, chiedendosi “quanto” intensamente il criminale abbia voluto quel delitto. Analisi da compiere, prestando particolare attenzione alla fase dell’Ideazione del crimine nella psiche del reo, e a quella della Preparazione, intesa come organizzazione del reato, ravvisabile solo in relazione agli omicidi intenzionalmente commessi, vuoi per dolo d’impeto, vuoi per l’ancor più grave dolo di premeditazione.

La programmazione del crimine indica, difatti, una lucida pianificazione del gesto omicida che potrà, come rilevato, assumere i connotati del reato d’impeto o di quello premeditato. Nel primo caso, la decisione di compiere il crimine è improvvisa, o quasi immediata rispetto allo stimolo esterno. Nel secondo, più intenso, il reo disegna con accuratezza le modalità esecutive del delitto,  solitamente posto in essere trascorso un certo lasso di tempo dall’ideazione.

Di qui, l’esigenza di appesantire la pena per l’omicida che abbia agito con premeditazione, giacché colpevole non solo di aver formulato l’intento criminale, ma di averlo altresì mantenuto nel tempo, rafforzandolo nel suo animo.

Chiarita la distinzione tra delitto emotivo e passionale, occorre fare un passo in più e domandarsi: se in entrambe le tipologie di omicidio, il reo sarà punito (perché mosso dalla volontà di uccidere), l’alterazione dovuta ad uno stato emotivo e passionale, ne escluderà o diminuirà la capacità di intendere e volere? In linea di massima no.

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Del resto, l’art. 90 del Codice Penale parla chiaro quando recita che gli stati emotivi e passionali “non escludono, né diminuiscono l’imputabilità”. La logica seguita dal legislatore è: l’emozione e la passione sono condizioni psicologiche – e non psicopatologiche – che fanno parte del patrimonio di ciascuno. Non sarebbe, pertanto, accettabile l’idea di giustificare la condotta di chi, pur capace di controllare i propri sentimenti, se ne sia invece lasciato trasportare. Su quali basi scientifiche si fonderebbe una dichiarazione giudiziale di incapacità d’intendere e volere, atta a qualificare il reo come non imputabile (dunque non assoggettabile a pena) o parzialmente imputabile (destinatario di pena ridotta)?

Lo stesso art. 90 c.p., a ben vedere, venne introdotto nel sistema penale, come insegna la dottrina, proprio per stimolare il dominio della nostra volontà sulle emozioni e sulle passioni che proviamo. Ed ecco che detti stati, al più, potranno valere ad attenuare la pena inferta all’assassino, ove il giudice ravvisi un nesso tra l’insorgenza dell’emozione/passione, e la provocazione della vittima. I rilievi finora svolti circa l’ininfluenza degli stati emotivi e passionali sull’imputabilità, non devono però fuorviare. Occorre distinguere, in effetti, due diverse ipotesi:

a)    il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali “normali”, la cui intensità, pur variando da individuo ad individuo, rientra nel range della sana emozione e passione. Il reo, a fini penali, sarà ritenuto capace d’intendere e volere, e assoggettato alla pena prevista, per l’omicidio, dall’art. 575 c.p., salvo il riconoscimento dell’attenuante prima indicata. Usualmente, difatti, il reo che agisce sotto l’influenza di stati emotivi (alterazioni psichiche di breve durata) o passionali (rancore, vendetta, gelosia) non patologicamente rilevanti, mantiene intatta la sanità mentale, restando, per l’occhio della legge, un lucido omicida;

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b)    Il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali connotati da un’intensità e morbosità tali, da integrare una vera e propria infermità mentale: l’alterata coscienza diviene “vizio di mente” totale o parziale del reo. Ma l’improvviso turbamento della personalità può anche derivare da una “reazione a corto circuito”, che si traduce in un’azione incontrollabile, aliena da quelle che annoveriamo come normali, dunque patologica e riconducibile nell’ambito delle infermità penalmente rilevanti.

In altre parole, se gli stati emotivi e passionali, in linea di massima, sono ininfluenti sulla condanna penale – trattandosi di alterazioni dell’affettività inerenti un soggetto psicologicamente “normale” –  non può dirsi altrettanto in relazione ad una psiche malata. Non può escludersi, dunque, che – in capo a soggetti mentalmente instabili o affetti da disturbi psichiatrici – i medesimi stati emotivi e passionali, assumano la forma di patologie psicotiche atte a incidere sulla capacità d’intendere e volere del reo, che verrà dichiarato affetto da vizio, totale o parziale, di mente. Viene da sé l’esigenza che – in sede processuale penale – il criminale sia sottoposto ad apposita perizia, tesa ad accertare se il riscontrato stato emotivo e passionale, non sia, in realtà, rivelatore di un’infermità mentale.

 In via di principio, dunque – per vagliare l’incidenza di tali stati sull’imputabilità – si avrà riguardo alla concreta attitudine degli stessi a compromettere la capacità di percepire il disvalore del fatto commesso, e il significato del trattamento punitivo. Qualche parola in più, ritengo debba spendersi circa il movente principe degli omicidi emotivi e passionali: la “gelosia”, sete di malato possesso dell’altro.

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Memori di quanto appena affermato, è evidente che la gelosia pura e semplice, seppur radicata o fortemente sofferta, non inciderà sulla capacità d’intendere e volere dell’Otello di turno, che conserverà – nel processo, e ai fini della condanna – la veste di freddo criminale.

Sappiamo, però, che la Cassazione (a mezzo della nota sentenza n. 9163/05, emessa dalle Sezioni Unite Penali) ha cristallizzato la regola per cui i disturbi della personalità possono essere valutati quali causa di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, purché di consistenza e intensità tali, da aver inciso sulla capacità di autodeterminazione del reo. Così, ove la gelosia abbia oltrepassato i confini degli stati emotivi e passionali, ed assunto le caratteristiche di una vera e propria psicopatologia, la stessa potrà rilevare – previo accertamento peritale – quale vizio di mente.

Il riferimento, è ovvio, è alla sola gelosia catalogata come Disturbo Delirante di tipo Geloso, recante tratti comuni con il Disturbo Ossessivo Compulsivo. E se, come sosteneva Rochefoucauld, “il y a dans la jalousie plus d’amour-propre que d’amour», allora l’uccidere, per il Geloso delirante, sarà l’unica soluzione atta a tamponare la sete di rivalsa per la perdita della persona amata, o meglio, per la perdita di un “possesso”.

Il geloso compulsivo, in sostanza, si delinea come un soggetto calato in una sua personale realtà costruita dapprima su una rete di dubbi e d’incertezze sulla fedeltà del partner, e, di seguito, su una visione parallela del reale, basata non più su sospetti tradimenti, bensì sull’irremovibile certezza che l’infedeltà sia stata già consumata.

Nosografia del Femminicidio. - Immagine: © Photo_Ma - Fotolia.com
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Ad aggravare il quadro clinico, concorreranno altri disturbi, legati al sentimento di abbandono, alla perdita delle abilità sociali, o ad un sopraggiunto stato confusionale, nella cui ottica i ricordi si mescolano alle fantasie e l’immaginato – nella mente dello psicotico – diviene un doloroso vissuto. Un vissuto da rimuovere, se necessario, anche “eliminando” fisicamente la causa di tanto malessere. In costanza di una gelosia patologica, dunque, sarà possibile tentare la via di una perizia tesa a vagliare la consistenza del disturbo e la sua eventuale riconducibilità nell’alveo delle malattie consacrate dal DSM-IV.

Parimenti, potrà concludersi per il disturbo borderline di personalità, definito nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali come una “modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’affettività con impulsività notevole, comparsa entro la prima età adulta e presente in vari contesti”.

Ebbene, se la personalità del borderline si caratterizza per disturbi dell’umore, manie di persecuzione, alternarsi di atteggiamenti remissivi e violenti, percezioni di buona autostima seguite da sentimenti di svalutazione, sarà evidente che – a fronte di eventi stressanti, come separazioni e abbandoni affettivi – il soggetto possa spingersi fino a perpetrare condotte auto ed etero distruttive, quali il suicidio o l’omicidio passionale.

Anche in tal caso, sulla falsariga di quanto avviene per i disturbi della personalità, per le gelosie morbose o le nevrosi, anche la personalità del borderline influirà sulla capacità d’intendere e volere, ove abbia assunto una consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla sanità mentale dell’assassino.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Ferracuti, F. (1988), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol.7, Giuffrè, Milano.
  • Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
  • Lusa, V., Pascasi, S. & Borrini, M., Sanity and Insanity in a Criminal Trial: The European Experience Seeks the American Experience, Proceedings 64th Annual Scientific Meeting of American Academy of Forensic Sciences, Global Research: The Forensic Science Edge, Atlanta-Georgia, February 20-25, 2012.

Nosografia del Femminicidio

 

Nosografia del Femminicidio. - Immagine: © Photo_Ma - Fotolia.com

 

Femminicidio: Nel concetto di raptus c’è una debolezza: Si pensa che gli uomini uccidano in momenti di follia improvvisi e imprevedibili.

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Il Femminicidio Paranoideo

Abbiamo deciso di parlare di “diagnostica o nosografia del femminicidio” perché non ci piace affatto che nei giornali si parli, quando vengono descritti episodi di femminicidio, di “raptus”. È vero che ormai il termine è virgolettato trattandosi spesso delle dichiarazioni auto-giustificatorie dell’aggressore. Però è anche vero che è bene non abbassare la guardia.

Nell’enciclopedia Treccani troviamo questa definizione di raptus: 

In psichiatria, impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti (fuga, aggressione, suicidio, atti distruttivi, ecc.): in preda a un r. omicida ha aggredito l’amico.

Inoltre la definizione di raptus secondo wikipedia è:

Il raptus è un improvviso impulso di forte intensità che può portare ad uno stato ansioso e/o alla momentanea perdita della capacità di intendere e di volere. Il raptus può spingere il soggetto ad effettuare gesti violenti od aggressivi, autolesivi o lesivi verso altri. Vi è anche una forma di raptus cosiddetto “ansioso”. Si palesa con una breve ed intensa manifestazione di profonda ansia e può spingere il soggetto a gesti imprevedibili quali il suicidio o, più di rado, l’aggressione. Il raptus può essere riconosciuto, nell’ambito del diritto penale, come condizione di momentanea incapacità di intendere e volere (cosiddetto “vizio di mente”), e quindi come attenuante per la commissione di gravi reati.

Come si vede nel concetto di raptus usato così spesso nei giornali c’è una debolezza: di solito si pensa che gli uomini uccidano per momenti di follia improvvisi e imprevedibili. Ma non è sempre così. I giornali usano una terminologia molto specifica che (1) implicitamente de-responsabilizza l’assassino, in parte lo giustifica, o comunque rischia di “ammorbidire” la sua posizione rispetto all’atto orribile che ha appena commesso, come quando viene tirata in ballo la gelosia o presunte mancanze della donna che è stata appena uccisa; e che (2) in molti casi è semplicemente non vera: moltissimi femminicidi sono premeditati o comunque non sono commessi durante un ‘raptus’, quindi i giornalisti commettono un errore nell’informazione dovuto a una certa superficialità e a mancanza di approfondimento.

La Psicologia del Femminicidio. - Immagine: Unos Cuantos Piquetitos 1935 - Frida Kahlo. Collection of Dolores Olmedo Patiño Mexico City, Mexico
Arrticolo consigliato: La Psicologia del Femminicidio.

Vorremmo, negli articoli di State of Mind dedicati al femminicidio, occuparci di quegli aspetti più strettamente legati a problemi psicologici e psichiatrici, lasciando quindi da parte,volutamente, valutazioni sociali e politiche.

Partiamo dall’ennesimo caso di questi giorni: un ragazzo di 23 anni uccide la sorella della sua ex fidanzata, e ferisce lei con decine e decine di coltellate. Poi scappa.

Questa forma di femminicidio possiamo chiamarla: Paranoidea, lucida, intenzionale in un quadro persecutorio: ‘ho un piano di assassinio preparato da giorni: aspetto la mia ex donna che mi ha lasciato dietro un cespuglio, lei arriva e io l’ammazzo’. In termini legali: Dolosa.

Il commento dell’Ansa:

“(…) ha detto di aver agito in preda ad un raptus e di avere ”perso la testa”. Caruso non si sarebbe rassegnato alla fine della storia d’amore con la ex fidanzata e l’avrebbe perseguitata per settimane. Ieri l’ha aspettata sotto casa e l’ha accoltellata. Carmela ha cercato di mettersi in mezzo ed ha avuto la peggio (…)”

Chiamare “raptus” un atto che viene dopo che una ragazza è stata perseguitata per settimane, e attesa per del tempo con un coltello pronto, e poi accoltellata (in questo caso, è morta la sorella che ha tentato di difenderla) è falso, superficiale e può indurre fraintendimento: questo tipo di delitto è molto diverso dai delitti impulsivi. In queste storie troviamo una strategia ben organizzata, un lungo inseguimento, un’attesa, la fredda decisione di uccidere l’altro (e a volte anche di uccidere se stessi).

Ma quale è lo stato mentale di queste persone? La diagnostica psichiatrica parla di disturbo paranoideo. Detto in modo più semplice, il paranoico è una persona che pensa continuamente che le intenzioni dell’altro siano malevole, si vede costantemente vittima di macchinazioni, persecuzioni, fregature. Nella storia di questi assassini non troviamo impulsività, ma spesso è presente ruminazione rabbiosa e rabbia fredda, che solo al momento dell’omicidio può talvolta divenire calda e impulsiva. Se queste persone vengono lasciate, se la storia si chiude, non sono capaci di accettare questo evento, con il dolore che comporta, ma lo vedono come un fatto di cui sono vittime. L’altro è una persona crudele che ha tradito, deluso, attaccato, che si è approfittato della propria ingenuità o buona fede o generosità.

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Il coniuge che lascia ha dato una fregatura intenzionalmente. La risposta violenta e ben organizzata è vista come una vendetta, una punizione, il rimettere le cose a posto. Sostituisce nella testa di queste persone l’accettazione che porta sempre con sé il dolore. E’ evidente la povertà sentimentale ed emotiva all’origine di questa attitudine, che implica il sentirsi sempre minacciati e il pensare la violenza come unica uscita da un sentimento intollerabile di fragilità personale. Molti femminicidi sono originati da sensazioni intollerabili di vulnerabilità, umiliazione.

 Ma le modalità con cui si uccide sono ben diverse. Tornando al concetto iniziale del raptus, una cosa è l’improvvisa esplosione di rabbia incontrollata (più tipica della personalità borderline, che però raramente arriva all’aggressione omicida a conferma che questi atti estremi non sono frutto di raptus), una cosa è la costruzione paranoidea strategicamente pianificata a lungo termine della persecuzione dell’altro e della vendetta. Entrambe queste strategie servono ad allontanarci dal dolore volgendo lo sguardo sulla crudeltà dell’altro che va punito o cancellato, ma si esprimono in modo diverso. Entrambe queste strategie, pur essendo legate alla sofferenza mentale non sono un segno di follia, ma di una personalità che non riesce a fare i conti con la realtà, pur rimanendo vigile.

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Occorre anche riflettere sul riconoscimento di eventuali segni preliminari così da potersi difendere prima che le tragedie accadano.

Le donne devono, per esempio, guardarsi da chi descrive la propria vita come una collezione di fregature e tradimenti che altri hanno procurato. Chi racconta questa storia non vede se stesso e il proprio ruolo di coprotagonista nelle storie finite male. Poi bisogna essere consapevoli che le condizioni di benessere di una personalità paranoidea sono molto strette e limitate. Si sentono bene se hanno accanto una persona subordinata che acconsente sempre ed è sempre d’accordo con loro, che acconsente a dimenticare o ad allontanare la propria vita passata.

Donne che non lasciano il partner violento. - Immagine: © Warren Goldswain - Fotolia.com
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Questi uomini sono isolati, e tendono a isolare la donna dagli altri, i familiari, le amiche, il passato. Essi sostengono che la propria diffidenza è giustificata da brutte esperienze di vita. Che gli uomini sono tutti mascalzoni e le donne tutte inaffidabili. Che la diffidenza è il risultato di molte cattive esperienze. Ruminano depressivamente su tutto, sono pessimisti, controllanti, spesso presentano tratti ossessivi. In sintesi, alcuni campanelli di allarme possono essere: se si ha accanto un uomo che ha sempre ragione, che vede sempre intenzioni malevole nell’altro, che fa fatica a comprendere il punto di vista degli altri, che è sempre sulle difensive, cupo e isolato, che chiede fedeltà assoluta e ha gelosie su tutto, che tende a isolare e a volte diviene violento e insultante. Queste sono persone con le quali non ci si deve mai fidanzare.

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Se invece è già accaduto, se si viene perseguitate al telefono, sotto casa, con mail spedite ossessivamente, con sms, tra il vittimistico, l’amorevole estremo e l’accusatorio, allora occorre muoversi rapidamente con la propria rete familiare, con i centri antiviolenza, avvisare le forze dell’ordine che lentamente stanno divenendo maggiormente sensibili ai casi di violenza contro le donne, occorre una struttura forte e decisa a fare rete intorno alla donna minacciata, per salvarle la vita.

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– DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Autism in DSM-5

 

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Autism in DSM-5. - Immagine: © Pixel Memoirs Fotolia.comThe release of DSM-5 is right around the corner and some sections will see significant changes. One area subject to alterations is autism. In this article I will briefly explain how autism is currently defined in the DSM-IV and the proposed changes that will be implemented in DSM-5.  The main subject matter of this article is a letter submitted by the Autism Speaks Organization stating the concerns of the autistic community.

Currently autism is separated into three symptom categories including social interaction, communication and behavioral issues. Within each of these categories there are four individual symptoms, making a total of 12. In order to be diagnosed with autism an individual must show at least six of the 12 behaviors encompassed in a triad of symptoms. At a minimum, two symptoms from the social interaction category and at least one from the communication and the behavioral category must be shown.

DSM-5 collapses social interaction and communication into to a separate category.  The concern of the autistic community is that this change will exclude autistic people with fewer or milder symptoms. This exclusion may result in some people missing out on treatment options which may have otherwise been available.

Below is the letter stating the concerns of the Autism Speaks Organization:

 

Dear members of the DSM-5 Neurodevelopmental Disorders Work Group,

Autism Speaks is the world’s leading autism science and advocacy organization, representing hundreds of thousands of individuals and families affected by autism. We recognize the need for diagnostic criteria for autism spectrum disorders (ASD) that reflect our current scientific understanding and progress and define the wide range of symptom expression associated with this disorder. In the end, however, these are criteria about people who have symptoms that can be helped considerably by services aimed at improving their ability to function in the world. Thus, any revision of the diagnostic criteria must be made with great care. 

There is great concern by many members of the autism community, including parents and individuals with ASD, that some individuals with ASD might “lose” their diagnosis based on the revised criteria. Another concern is the impact of changes in diagnostic criteria on prevalence estimates and the ability to have accurate estimates of changes in prevalence over time. A number of published studies have reported that a percentage (ranging from 13-39%) of individuals, mostly with higher IQs and less severe symptoms, would no longer meet the criteria for ASD under the new DSM-5 guidelines. For the most part, these studies have used a retrospective design, with reexamination and review of charts from different sources. Field trials, which involve face to face evaluation, have not demonstrated such a disparity. Although the field trials are encouraging, the sample size used for the field trials is relatively small (N = 83 children with ASD) and only involved pediatric populations. Additional prospective research based on larger samples, diverse ethnic backgrounds, and a wider age range is clearly needed to provide more definitive answers. In this letter, we raise several issues which we respectfully ask the committee to consider:

         1.        Need for additional prospective data comparing DSM-IV and DSM-5 criteria.  Additional prospective data based on larger samples, diverse ethnic backgrounds, and wider age ranges are clearly needed to provide more definitive answers. We have very little information about the impact of the new DSM-5 criteria on diagnosis of very young children, adults, and individuals with different ethnic backgrounds.  The current criteria should be considered provisional and open for future revision until more definitive research is conducted. 

        2.        Need for clear guidance re: retention of previous ASD diagnosis of symptoms. We request that the committee make it clear that it is the opinion of the American Psychiatric Association (APA) and the Neurodevelopmental Disorders Work Group that all individuals who currently have a diagnosis of ASD (including all subgroups of DSM-IV pervasive developmental disorders) should retain their diagnosis for purposes of qualifying for needed clinical and educational services.

        3.        Need for clear guidance re: continued use of the diagnosis of Asperger syndrome. The committee has noted in previous communications that people with a current diagnosis of Asperger syndrome will be able to have that diagnosis indicated in their medical/educational record as part of the list of “specifiers.” This will allow persons to retain their identity as persons with Asperger syndrome and facilitate continued research on such individuals. We request that the APA and the Neurodevelopmental Disorders Work Group make it clear that this option is possible for people with Asperger syndrome. 

        4.        Need for more information for clinicians on use of specifiers. The clinical specifiers have enormous potential to be used to describe specific subtypes of ASD, including those with limited language function and intellectual disability, known etiologies, history of regression, and medical co-morbidities, such as seizures and GI disorders. We urge the committee to provide more specific instructions for clinicians on how specifiers should be defined and recorded. Without additional guidance, clinicians may not use these important specifiers that have clinical implications for persons with ASD.

        5.        Concern that the criteria are overly strict and may exclude those with an existing diagnosis. Multiple studies have reported the excellent construct validity of using a two “factor” model for autism symptoms, rather than the DSM-IV three “factor” model. However, we remain concerned that the requirement of three symptoms in the social communication category and two symptoms in the restricted repetitive behavior category may be overly strict and result in exclusion of persons with ASD. Studies in which specificity and sensitivity were evaluated indicate that relaxing the number of observed symptoms in either category has minimal effects on specificity while increasing sensitivity. For very young children, in particular, the requirement for two symptoms in the restricted repetitive behavior domain may be problematic. We request that the committee consider relaxing the criteria. We recommend that these criteria be considered provisional until more data has been collected to examine their impact on diagnosis.

        6.        Need for monitoring of the impact of the DSM-5 criteria in real world settings. As described above, there is a clear need for more information about the way that the DSM-5 will affect people’s lives in real world settings. We request that the committee recommend ways in which information regarding the impact of the DSM-5 on diagnosis and access to services can be broadly tracked. The ultimate reason for diagnostic criteria is to improve the lives of people with ASD. It is crucial that the impact of the proposed changes be closely monitored and assessed.

On behalf of people affected by autism and their families, we urge you to consider these issues in your deliberations as you finalize the revised criteria for diagnosis of autism spectrum disorder.

Sincerely,

Geraldine_Dawson_Autism_dsm_5 

 

 

Geraldine Dawson, Ph.D.

Chief Science Officer, Autism Speaks

 

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Cyberbullismo e Suicidio Adolescenziale: Esiste davvero una Relazione?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

di Marina Morgese

Il termine Cyberbullismo è utilizzato per indicare il fenomeno che avviene quando bambini e/o adolescenti si avvalgono dell’utilizzo di internet, dei telefoni o di altri tipi di tecnologia per maltrattare e molestare ripetutamente i propri coetanei.

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Il verificarsi di episodi di Cyberbullismo è stato spesse volte positivamente correlato con gli aumentati tassi di suicidio adolescenziale.  

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Una recente ricerca ha cercato di studiare meglio il fenomeno del suicidio adolescenziale e se effettivamente l’associazione cyberbullismo – suicidio adolescenziale sia statisticamente significativa quanto si crede. Ai fini della ricerca, guidata da Wood e recentemente presentata ad un convegno organizzato dall’Associazione Americana di Pediatria (AAP), sono stati selezionati su Internet vari rapporti di suicidi adolescenziali in cui è menzionata la presenza di episodi di Cyberbullismo. Sono state inoltre raccolte informazioni demografiche sui protagonisti dei rapporti e sono state analizzate l’incidenza di malattia mentale pre-esistente negli adolescenti, la co-presenza di altre forme di bullismo e le caratteristiche dei mezzi elettronici associati a ciascun caso di suicidio.

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Lo studio ha identificato in totale 41 casi di suicidio (24 femmine, 17 maschi) avvenuti in un’ età compresa tra i 13 e i 18 anni,  negli Stati Uniti, in  Canada, nel Regno Unito e in Australia. Lo studio ha fatto luce su diversi aspetti del suicidio adolescenziale:

Il 24 per cento dei ragazzi è stato vittima di bullismo omofobico (di cui solo il 12 per cento è identificato come realmente omosessuale).

L’incidenza dei casi di suicidio, inoltre, è notevolmente aumentata nel corso del tempo: il 56 per cento dei suicidi si è  verificato dal 2003 al 2010, il restante 44 per cento si è verificato nel breve periodo dal gennaio 2011 all’aprile 2012.

Secondo lo studio, il 78 per cento degli adolescenti che hanno commesso suicidio sono stati vittime di bullismo sia a scuola che on-line, mentre solo il 17 per cento sono stati esclusivamente vittime di cyberbullismo.

– Malattie mentali pre-esistenti sono state rilevate: disturbi dell’umore sono stati riportati nel 32 per cento dei ragazzi, mentre sintomi depressivi sono presenti in un ulteriore 15 per cento.

Gli autori dello studio hanno così concluso che il Cyberbullismo è un fattore presente in alcuni suicidi, ma quasi sempre ci sono altri fattori come la malattia mentale o la presenza di altre forme di bullismo, come quello faccia a faccia. Il Cyberbullismo in genere rientra nel contesto del normale bullismo.

Oltre ad aver dimostrato la scarsa correlazione, sostenuta invece da tanti, tra cyber bullismo e suicidio adolescenziale,  lo studio in questione ha anche il merito di aver evidenziato le modalità più frequenti in cui avviene il Cyberbullismo: Formspring e Facebook specificamente sono i mezzi più utilizzati per molestare i coetanei, così come sms ed mms. 

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Conoscere il nemico è il primo passo per poterlo affrontare e, grazie anche a questa ricerca che ha fatto luce su numerosi aspetti del suicidio adolescenziale, potremmo avere in mano strumenti preziosi per capire cosa porta gli adolescenti a un atto così disperato.

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BIBLIOGRAFIA: 

  • LeBlanc, J. C. (2012). Cyberbullying and Suicide: A Retrospective Analysis of 41 Cases. Paper presented at the American Academy of Pediatrics (AAP) National Conference and Exhibition in New Orleans.

Il Drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare

di Alessia Zoppi,  Chiara Spinaci

Il-Fenomeno-del-drop-out-nei-DCA-un-Aspetto-da-Non-Sottovalutare!. - Immagine: © Tommaso Lizzul - Fotolia.com

Che cosa succede in terapia con pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare che li porta a “droppare” la terapia?

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Questo articolo intende analizzare il fenomeno del drop-out come aspetto rilevante nel trattamento terapeutico dei Disturbi del Comportamento Alimentare. All’interno di queste patologie il fattore “rischio d’abbandono terapeutico” è una realtà importante, che si manifesta spesso nelle primissime sedute. Con il termine drop-out ci si riferisce al fenomeno di interruzione precoce non concordata della terapia da parte del paziente.

Garfield (1994) identifica il fenomeno in quei casi in cui i pazienti hanno sostenuto almeno una seduta e hanno interrotto il trattamento di propria sponte non presentandosi alle successive sedute, attese dal terapeuta. Il problema del drop-out è molto sentito a livello pubblico e nei servizi psichiatrici: il fenomeno sembra essere presente a livello internazionale con una variabilità molto ampia, e viene classificato come “precoce” (early, very early drop-out), se avviene nelle prime fasi di contatto, o “tardivo” (late drop-out), se avviene dopo molto tempo dall’inizio della terapia.

Con pazienti che sono trattati da tempo la percentuale si riduce drasticamente. In una ricerca di Mazzotti et al. (2001) l’entità del fenomeno è stata stimata intorno al 13%. I motivi dell’interruzione del trattamento erano stati: l’insoddisfazione per il trattamento clinico e/o farmacologico (34%); una storia di numerosi trattamenti precedenti (24%); una diagnosi di disturbo borderline di personalità(24%); il ritenere di non aver più bisogno di trattamento (10%). 

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Le cause del fenomeno sono molte. Il drop-out precoce secondo alcuni autori sarebbe legato all’imprinting, ovvero al primo impatto avuto con il terapeuta e la terapia, e alla mancanza di fattori motivazionali e relazionali positivi, come la mancanza di un legame capace di contenere le ansie e i timori del paziente (Giusti & Sica, 2006). Il drop-out tardivo sembrerebbe maggiormente correlato all’instaurarsi di fenomeni legati alla tecnica o a errori terapeutici. 

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Garfield (1994) lo associa a fattori soggettivi come sesso, età, razza e scolarità, oltre che alla diagnosi psichiatrica. È inoltre accertata la tendenza di pazienti con alcune patologie psichiatriche ad uscire dalla terapia tramite drop-out. In uno studio di Fassone et al. (2003) si è riscontrato che i pazienti con gravi disturbi di personalità, soprattutto se con doppia diagnosi di disturbo borderline di personalità e disturbi di abuso di sostanze o alimentare, sarebbero maggiormente soggetti a tale fenomeno. Questi pazienti tenderebbero ad un fenomeno di drop-out precoce. Anche lo studio di Zanetti et al., (2005) conferma il fenomeno per soggetti con Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Sharf e colleghi (2010) hanno analizzato la correlazione tra alleanza terapeutica e drop-out per identificare i fattori che incidono su tale relazione. Lo studio includeva più di mille partecipanti. Le variabili che sono emerse,  correlate al fenomeno drop-out in situazioni di debole alleanza terapeutica, sono diverse: la storia educativa dei clienti, la lunghezza della terapia, il setting di trattamento, il livello di scolarità del soggetto. 

Le variabili che sembrano essere associate al drop-out sono dunque molte e possono riguardare paziente, terapeuta, relazione terapeutica; sembra però esistere una certa correlazione tra aspetti psicopatologici e tendenza al drop-out. Tra le tipologie di pazienti tendenti al drop-out troviamo anche i soggetti con Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Che cosa succede in terapia con pazienti Disturbi del Comportamento Alimentare che porta questi a “droppare” la terapia?

 Fassino et al. (2009) attraverso una revisione della letteratura clinica analizzano quali fattori promuovono l’abbandono e il manifestarsi del drop-out durante la cura di pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare. Fassino et al. in questa revisione riprendono varie e precedenti pubblicazioni presenti in letteratura clinica. La premessa che viene fatta dagli autori è che il trattamento, di qualsiasi tipo, nei Disturbi del Comportamento Alimentare è una questione complessa e di interesse multidisciplinare e il fenomeno drop-out sarebbe un elemento predominante che caratterizzerebbe queste patologie più di altre. Ad incidere in maniera rilevante, aumentando i tassi e la frequenza del fenomeno, sarebbero due elementi: il rapporto con il corpo, protagonista assoluto e padrone della “legge del divieto” nell’Anoressia Nervosa, e l’evoluzione del trattamento.

Sono individuate due forme di drop-out in relazione al tempo: una forma “precoce” e una forma “tardiva”. La prima vede l’interruzione del trattamento da parte del soggetto Anoressico e Bulimico dopo già 2/3 sedute o entro il primo mese; mentre la seconda forma di drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare si presenta dopo il primo mese di trattamento.

Analizzando questi pazienti in diversi studi si è potuto vedere che in generale i pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare rispondono molto meglio alla terapia quando seguono un trattamento di tipo ospedaliero (tasso di abbandono che varia dal 20.2% al 51%) rispetto al trattamento ordinario esterno di tipo ambulatoriale (tasso di abbandono dal 29% al 73%) (Fassino et al. 2009).

Neurobiologia dell’Intersoggettivita’: Neuroni Specchio ed Empatia - SITCC 2012
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In particolar modo nella Bulimia Nervosa, la bassa autostima e la presenza di una severa sintomatologia auto-distruttiva, oltre che aspetti impulsivi, non aiuterebbero a far si che si instauri un’alleanza terapeutica; mentre nell’Anoressia Nervosa l’eventuale presenza del fenomeno “binge eating” e pratiche altamente rigide di purificazione fanno si che la paziente attui d’innanzi alla terapia una barriera difensiva riducendo motivazione e interesse.

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La stessa rabbia è un’emozione da dover tenere conto con pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare: riconoscerla, monitorarla e dare al paziente gli strumenti per gestirla fa si che essa non sfoci in aggressività verso il terapeuta e il trattamento stesso.

Un altro studio che sembra essere molto interessante è quello svolto da Kelly et al. nel 2012. Lo studio analizza il drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare, soffermandosi su stati emotivi autodiretti, quali l’ auto-compassione e la paura di auto-compassione. In particolar modo la ricerca indaga come questi interagiscono e ci permettano di prevedere come il paziente reagirà al trattamento. Ciò che emerge dalla ricerca è che l’auto-compassione e la paura di questa influenza la risposta al trattamento fino a compromettere in via definitiva la terapia, causando sentimenti di colpa e associandosi maggiormente con gli aspetti psicopatologici. Queste emozioni, in particolar modo la paura e la vergogna, renderebbero il paziente Disturbi del Comportamento Alimentare altamente vulnerabile all’abbandono terapeutico non riducendo la sintomatologia. Inoltre dalla ricerca è emerso che soggetti con una basso livello di auto-compassione sono quelli che tendono ad avere una soglia di autocritica molto elevata e presentano tassi elevati di vergogna, mostrandosi verso i propri confronti intransigenti e poco empatici. 

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Zanetti, et al., (2005), hanno indagato un campione di pazienti con Anoressia Nervosa che hanno abbandonato il percorso terapeutico; queste sono state ricontattate telefonicamente e intervistate sulla loro scelta. Gli Autori sostengono, infatti, che il fenomeno del drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare ha avuto poca attenzione da parte dei ricercatori, ma questo ha invece un peso rilevante sulla patologia: “Infatti, i pazienti con drop-out sono più a rischio di diventare pazienti cronici e quindi più difficilmente trattabili, con una alta frequenza di gravi complicanze organiche e mortalità. Gli studi indicano, infatti, che un abbandono precoce della terapia costituisce un fattore di rischio per una ricaduta precoce e a sua volta una ricaduta precoce è il predittore principale di un decorso cronico” (p.150). Gli Autori differenziano il drop-out non per il momento in cui si manifesta (precoce/tardivo), quanto in rapporto al miglioramento rispetto al sintomo (aumento o meno di peso). 

Tra le variabili predittive del drop-out esisterebbero alcuni fattori primari. Nei soggetti che abbandonano dopo un miglioramento del peso, sono significativi:  

 – Comportamenti auto-aggressivi di tipo compulsivo e maggiore livello di depressione: il tratto della compulsione come fattore predisponente è comprensibile se si pensa al problema del controllo in queste pazienti; non è di facile comprensione invece il tratto della depressione, poiché secondo gli autori normalmente questo favorisce il trattamento. Considerando che il drop-out avviene dopo miglioramento, si può ritenere che una volta migliorate le pazienti perdano la motivazione iniziale al trattamento. 

 – Minore tendenza alla somatizzazione.

 Nei soggetti che abbandonano senza miglioramento è significativo:

  – Maggiore ostilità: questo dato conferma il peso dell’impulsività e della rabbia come fattori precipitanti rispetto alla terapia, e verranno indicati anche da Fassino et al. (2009). 

Indagate le cause dell’abbandono, i fattori predisponenti risultano essere (p.152): 

 – Incomprensione con il terapeuta 25%

 – Non accordo con il tipo di terapia 18%

 – Miglioramento 15%

 – Non volontà di guarire 15%

 – Ferie o cambiamento del terapeuta 9%

 – Distanza dall’ambulatorio 9%

 – Inefficacia della terapia 9%

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Sia, dunque, l’atteggiamento verso la malattia che verso la terapia hanno un peso rilevante: l’atteggiamento del paziente verso la malattia porta a fenomeni di drop-out e di resistenza al trattamento per via del rapporto che esiste tra sintomo e soggetto:

1- difendono fortemente il sintomo; 

2- vivono egositonia verso il sintomo e agiscono con negazione della malattia; 

3- non hanno consapevolezza della gravità della malattia. 

L’atteggiamento verso la terapia invece è ambivalente: infatti le pazienti dichiarano di aver abbandonato perlopiù per “incomprensioni con il terapeuta e non accordo verso la terapia” sia rispetto ad aspetti tecnici, la compilazione del diario alimentare (32%), che relazionali, la freddezza e il distacco del terapeuta (26%).  Riconoscono invece l’aspetto più positivo del trattamento proprio nella disponibilità e nell’interesse del terapeuta (nel 52% dei casi). Questo deve far pensare al fatto che le pazienti, pur fortemente difese nel sintomo, cercano uno spazio in cui poter proprio sperimentare una “comunicazione efficace che permetta di esprimere e verbalizzare le difficoltà, la delusione di aspettative e le resistenze al trattamento” (Zanetti, et al., 2005, p.155).

Il clinico che approccia questi disturbi dovrà dunque ripensare al peso di alcune variabili nel rischio di drop-out e considerare come iniziale obiettivo del trattamento la creazione di una relazione sufficientemente contenitiva entro la quale creare una forte alleanza e in cui sarà, poi, possibile intervenire con tecniche dirette a specifici obiettivi terapeutici.

Nei primi mesi sarà necessario lavorare proprio sull’esperienza soggettiva del paziente rispetto alla terapia, al sintomo, alla sua resistenza al trattamento per poi accedere, in un secondo momento, ad altri contenuti emotivi e narrativi. 

 

ARTICOLI SU: IN TERAPIA  

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Ambientale & Identità Ecologiche

 

Psicologia Ambientale & Identità Ecologiche. - Immagine: © Minerva Studio - Fotolia.comPsicologia Ambientale & Entità Ecologiche: Un ponte verso nuovi orizzonti sostenibili

«Si fa un gran parlare di come aiutare il nostro pianeta cambiando ciò che facciamo: usare la bicicletta al posto dell’automobile, montare le nuove lampadine fluorescenti a risparmio energetico, riciclare le bottiglie e adottare altri facili accorgimenti» (D. Goleman, p. 17).

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Sostenibilità e comportamenti ecologici sembrano argomenti sulla bocca di tutti ma, dopo anni di campagne informative, promozioni ed incentivi, la maggioranza degli italiani si è limitata ad incrementare la raccolta differenziata e a mangiare più cibi biologici (FISE – UNIRE, 2010; Coldiretti, 2012). Sicuramente meglio di niente ma la strada per diminuire le emissioni di carbonio è ancora lunga.

La paura di perdere il voto dei cittadini impedisce ai responsabili delle politiche per l’ambiente di operare soluzioni drastiche. Perciò, al momento, la ricerca si concentra sullo studio di nuovi meccanismi, non troppo invasivi, in grado di produrre cambiamenti ecologici sostanziali nella vita delle persone. Per esempio, in Inghilterra, il DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs) ha promosso delle indagini sui cosiddetti “comportamenti catalizzatori” (catalyst behaviours), prendendo come punto di riferimento un modello teorico sociale classico secondo cui l’adozione di un certo comportamento (per esempio, il riciclo) aumenta la probabilità che un soggetto ne accolga un altro simile (per esempio, il compostaggio) (Whitmarsh, 2010).

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Alcuni gruppi di psicologi studiano già da qualche anno questi comportamenti che vanno “a braccetto”. Barr e colleghi, per esempio, hanno identificato tre gruppi distinti di azioni ecologiche: “decisioni di acquisto” (shopping, compostaggio e riutilizzo), “abitudini” (risparmio domestico di acqua ed energia) e “riciclo”, che sembrano essere collegate a diversi stili di vita (come, per esempio, specifiche caratteristiche socio-demografiche o valori).

Quando le intenzioni non bastano: Il ruolo dei valori. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Quando le intenzioni non bastano: Il ruolo dei valori

Tuttavia, la maggior parte di queste ricerche non è in grado di estendere i risultati alla totalità dei comportamenti sostenibili: le persone non agiscono in modo coerente e non sembrano esistere motivazioni comuni per le loro azioni ecologiche. Inoltre, gli studi non sono ancora capaci di spiegare fenomeni opposti come lo spill-over effect, per il quale l’assunzione di un certo comportamento comporta l’esclusione di un altro ad esso associato (per esempio, riciclo e prevenzione dello spreco). In particolare, sembrano essere sistematicamente esclusi i comportamenti legati al trasporto e alle politiche energetiche, per i quali, probabilmente, influiscono maggiormente i fattori esterni, come la disponibilità economica o l’esistenza di alternative accessibili.

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Lo scrittore ambientalista Derrick Jensen (2006) scrive che non è possibile creare una cultura della sostenibilità senza possedere un’anima ecologica. Da un punto di vista psicologico, questa affermazione racchiude uno spunto interessante. L’identità “green”, più che l’anima, potrebbe essere un valido punto d’appoggio per costruire un certo livello di coerenza nei nostri atteggiamenti e nelle nostre azioni. Quello che unisce una certa identità con la messa in atto di un particolare comportamento, infatti, è l’esistenza di significati comuni ai due elementi. In relazione ad una certa identità di sé, i comportamenti che condividono con l’identità in questione una serie di significati sociali hanno una probabilità maggiore di essere messi in atto. Per esempio, è possibile che coloro che si considerano dei “consumatori verdi” acquistino del cibo biologico, in quanto quest’azione è coerente, in termini di significato, con l’identità di sé come consumatori verdi (Sparks, Shepherd, 1992).

In particolare, sembra che ci siano almeno due livelli in cui identità può operare: rinforzare un comportamento ecologico specifico (per esempio l’identità del tipico riciclatore) o stimolare, in modo generico, una serie di sotto-azioni ecologiche (per esempio promuovere l’“eco-shopping”). Secondo gli studi più recenti, la prima potrebbe essere utile per spiegare la persistenza nell’eseguire uno specifico comportamento pro-ambientale (e quindi sarà strettamente legata al comportamento passato), mentre la seconda può chiarire le ragioni dell’effetto spillover (Whitmarsh, 2010).

 

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L’identità si qualifica quindi come ponte tra vari comportamenti ecologici, sottolineando la necessità di stimolare aspetti rilevanti di quest’ultima (ad esempio, attraverso informazioni mirate), o mirare a specifici gruppi (per esempio, tramite la segmentazione della popolazione), per ottenere dei cambiamenti durevoli nel tempo.

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DOCUMENTI PER APPROFONDIMENTI:

 

BIBLIOGRAFIA:

Tratti di Personalità & Suicidio

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Tratti di Personalità & Suicidio – Differenze tra atto tentato e compiuto. Ogni 40 secondi una persona nel mondo pone fine alla propria vita.

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I comportamenti suicidari costituiscono un problema decisamente non irrilevante al giorno d’oggi, a livello individuale, familiare e di sistema sanitario pubblico. A livello mondiale, negli ultimi vent’anni il tasso di suicidi è aumentato, a seconda del paese, da un minimo del 5% ad un massimo del 62%: ogni 40 secondi, una persona da qualche parte nel mondo pone fine deliberatamente alla propria vita (World Health Organization, 2012).

Intervista a Mauruzio Pompili.
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Il tentato suicidio (“un atto auto-distruttivo accompagnato dall’intento più o meno forte di procurarsi la morte”) viene stimato, in generale, come dalle 10 alle 40 volte più frequente dell’omicidio compiuto, ed è uno dei predittori più forti di suicidio conseguente (Tidemalm, Langstrom, Lichtenstein, & Runeson, 2008). Diversi studi hanno dimostrato come il tentato piuttosto che il compiuto suicidio, nonché la scelta del “mezzo”, possano differire in base a genere ed età (e.g. Hawton, 2000).

A partire da queste premesse Hirvikoski e Jokinen, dal Karolinska Institute di Stoccolma, hanno condotto uno studio longitudinale dal duplice scopo: indagare quali tratti di personalità potessero essere rilevati in soggetti che riportavano tentato suicidio a confronto con soggetti che sono successivamente deceduti per comportamenti suicidari, e valutare se i tratti di personalità trovati, i “mezzi” utilizzati ai fini del suicidio e il successo o meno degli atti stessi differissero in funzione del genere di appartenenza (Hirvikoski & Jokinen, 2011).

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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I ricercatori hanno reclutato in un periodo compreso tra il 1993 e il 2005 un totale di 181 pazienti (67 uomini, età media = 35,45 anni) della Suicide Prevention Clinic dell’Ospedale dell’Università di Karolinska, Stoccolma. Il principale criterio di inclusione nel campione prevedeva che i soggetti avessero compiuto recentemente un tentativo di suicidio (non più di un mese prima). Ogni paziente è stato intervistato tramite somministrazione di SCID I e SCID II (First, Spitzer, Robert, Gibbon, & Williams, 1996; First, Spitzer, Gibbon, Williams, & Benjamin, 1997) in modo che fosse possibile stabilire una diagnosi secondo il DSM-IV (APA, 1994).

È stato così rilevato che il 91% del campione riportava un disturbo in Asse I (75% disturbi dell’umore), mentre il 33% riportava un disturbo in Asse II (17% disturbo borderline di personalità).

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Al fine di identificare i tratti di personalità dei soggetti esaminati, è stato loro chiesto di compilare un questionario, il Karolinska Scales of Personality (Schalling & Edman, 1993), i cui item sono stati raggruppati in quattro aree di personalità: Neuroticismo (socializzazione, ansia somatica, ansia psicologica, tensione muscolare, psicastenia, inibizione dell’aggressività, irritabilità e colpa), Psicoticismo (distacco, diffidenza), Anticonformismo (desiderabilità sociale negativa, aggressività indiretta, aggressività verbale) e Estroversione (impulsività, evitamento della monotonia).

Tutti i pazienti sono stati seguiti dal momento del reclutamento al 2009; i pazienti deceduti nel corso di questo periodo sono stati registrati e sono state identificate le cause del decesso. In totale, 11 pazienti (4 donne e 7 uomini, 6% del campione) hanno commesso suicidio  nel periodo di follow-up.

 Ecco i risultati: gli uomini riportavano tentativi di suicidio di tipo più violenti (es. tramite arma da fuoco, impiccagione, salto da un luogo particolarmente alto) rispetto alle donne (che prediligevano metodi “meno rischiosi”, come l’overdose di farmaci). Era inoltre maggiore la probabilità che gli uomini, piuttosto che le donne, ritentassero con successo il suicidio in seguito ai primi tentativi. Si tratta di un risultato coerente coi dati epidemiologici relativi al fenomeno indagato, per cui gli uomini commettono più frequentemente il suicidio rispetto alle donne mentre quest’ultime riportano maggiori tentativi non riusciti, secondo un rapporto 2:1 (World Health Organization, 2012).

Per quanto riguarda i tratti di personalità, i soggetti che avevano utilizzato mezzi più violenti riportavano anche valori più alti di “psicoticismo”. Le donne riportavano punteggi lievemente più alti relativamente a questo tratto rispetto agli uomini, mentre gli uomini riportavano valori di “estroversione” significativamente maggiori. Infine, mentre gli uomini deceduti per suicidio riportavano livelli maggiori di “estroversione” rispetto agli uomini sopravvissuti, le donne decedute ne riportavano livelli minori rispetto alla controparte femminile (si tratta, in quest’ultimo caso, di dati da considerare con precauzione dato l’esiguo numero di donne decedute nel periodo di follow-up).

Si tratta di uno studio particolarmente interessante, poiché pochissime ricerche di follow-up sono state svolte in passato riguardo ai tratti di personalità di soggetti che hanno poi effettivamente commesso il suicidio. Sicuramente, studi futuri su campioni più ampi contribuiranno a chiarire il valore predittivo di alcuni tratti rispetto ad altri, magari anche approfondendo il ruolo (tuttora poco definito) di fattori genetici e ambientali.

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BIBLIOGRAFIA:

Le perversioni vanno curate? L’omofobia e il pericolo delle parole

 

TUTTI GLI ARTICOLI SU: LESBIAN GAY BISEXUAL TRANSGENDER (LGBT)

le perversioni vanno curate.
Lo striscione omofobo appeso dai militanti di Forza Nuova a Bologna.

“Le perversioni vanno curate”: riporto la frase balzata sulle pagine della cronaca dei giorni scorsi. Ho deciso di riportarla perché credo che la gravità dell’affermazione fatta e rivendicata da un noto gruppo politico, imponga una riflessione.

Tante per la verità. La questione è politica, sociale, morale, culturale, religiosa e, ovviamente, psicologica e per ognuna sarebbe necessario un intervento preciso e su molti livelli.

Tra le molte cose che colpiscono vi è il dubbio che leggendo una frase del genere può assalire le menti dei passanti e l’immediata reazione ad esso: sentirsi vittima e colpevole, cercare prove del contrario, non avere risposte pronte e inespugnabili, pensare alla “natura” e ai suoi piani riproduttivi, non pensare affatto.

Disgusto o Umanità? Contro l'omofobia.
Articolo consigliato: Disgusto o umanità? Contro l’Omofobia

Tutte queste ed altre reazioni possibili, sono espressione del clima culturale e sociale in cui respiriamo, clima che forma e talora “forgia” in modo indelebile le credenze che noi tutti abbiamo su noi stessi, sugli altri e sul mondo.

“Le perversioni vanno curate” è un pensiero, una credenza negativa, niente di più.

Scriverla su di un muro di una città è un comportamento, una reazione che a quell’idea è legata. Le emozioni note sono di chi passa lì davanti, di chi è vittima, mentre ci mancano quelle degli autori: prezioso anello mancante di questa catena. Il termine omofobia, certo, ci dà qualche indizio.

ARTICOLI SU: LESBIAN GAY BISEXUAL TRANSGENDER (LGBT) 

Nella letteratura scientifica, è molto presente e documentato l’effetto che comportamenti discriminanti sulla base degli orientamenti sessuali hanno avuto in passato e hanno tuttora sul benessere psichico di chi vive un’orientamento diverso dall’eterosessualità.

Una meta-analisi (Katz-Wise, Hyde, 2012) condotta tra il 1999-2009 su 500.000 partecipanti, ci dice che per gli individui LGB la presenza di episodi di vittimizzazione segnalati è sostanziale (e.g., 55% di molestie verbali e il 41% di comportamenti discriminatori).

Inoltre le persone LGB mostrano livelli di vittimizzazione più alti dei soggetti eterosessuali testati a parità di età e condizioni socio-economiche, e in particolare gli uomini sembrano subire in maniera maggiore delle donne alcuni tipi di violenze (e.g. aggressione con arma da fuoco, essere derubati).

Il panorama mondiale delle violenze e dei diritti violati è ben nota e consultabile sul sito dell’International Lesbian, Gay, Trans and Intersex Association (ILGA), in cui viene descritta la partecipazione o meno della maggior parte dei paesi del mondo, alla costruzione dei diritti delle persone LGBT.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Molti stati prevedono ancora la pena di morte per aver compiuto atti omosessuali, molti di più considerano l’omosessualità illegale. Solo una minoranza di stati inizia a riconoscere le unioni gay, a consentire la possibilità di sposarsi e di adottare figli. Qualcuno in più ha finalmente delle leggi che puniscono invece atti discriminatori verso persone omosessuali, mentre molti ormai hanno leggi che puniscono la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale nei luoghi di lavoro. Ecco che finalmente compare l’Italia nella mappa.

Al di là degli infiniti e grandi temi correlati a questo episodio, sembra tuttavia interessante una ricerca pubblicata quest’anno sull’utilizzo nel linguaggio comune del termine gay (o di tutte le altre sue declinazioni), spesso con accezione negativa (Nicolas, Skinner, 2012).

ARTICOLI SU LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Sebbene l’uso sia molto diffuso, in contesti anche molto lontani da quelli esplicitamente omofobi, i ricercatori hanno dimostrato che l’utilizzo frequente di tali espressioni possa nel lungo periodo incrementare i bias cognitivi legati a credenze anti-gay e “lavorare” così nella nostra coscienza su un piano implicito, ma spesso molto evidente negli atteggiamenti più comuni che emergono.

 

ARTICOLI SU BIAS – EURISTICHE

Insomma, come spesso accade le parole ripetute molto spesso tendono a perdere il loro significato originario, ma insieme ad esso si rischia di perdere forse anche un po’ di consapevolezza su quello che stiamo in effetti dicendo.

E’ possibile dunque che questi writers, superficie di un movimento sotterraneo e ben più radicato, siano stati loro stessi vittima di un drammatico bias cognitivo: poco chiaro alla loro coscienza e men che mai alla loro mano?

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BIBLIOGRAFIA:  

 

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Autore del libro: Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità

Intervista a RIgliano. - SLIDESHOW
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La precarieta’: una Nuova Nevrosi?

 

La precarietà- nuova nevrosi?. - Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.comCrisi e precarieta’ … sono queste le parole più usate e, verrebbe da dire, abusate in questi ultimi tempi. Vocaboli che incutono angoscia, spengono sorrisi, speranze e che troppo spesso paralizzano, demotivano.

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Come bene evidenziato da Michael Benasayang e Gèrard Schmit nel testo “L’epoca delle passioni tristi”, sembra che in questi anni si sia passati da un “futuro-promessa” a un “futuro-minaccia”, eppure “le diverse istituzioni deputate a educare, a trasmettere e a curare ciò che va male agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se ci fossero solo delle difficoltà da superare, con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà”. Ed è proprio questa “disattenzione istituzionale” che, a mio avviso, rende il precario ancora più vittima della sua precarieta’.

La crisi economica in cui versa il nostro Paese, per quanto terribile ciò possa apparirci, non passerà rapidamente e molto probabilmente trasformerà del tutto il nostro tessuto sociale. E allora che fare? Utile forse sarebbe uscire dal circolo vizioso della sterile lamentela, in cui facile è cadere soprattutto per le giovani generazioni, per cercare di intravedere nella precarieta’ delle possibilità.

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.com
Articolo consigliato: Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione.

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Non è questo un invito a un ottimismo insensato e sconclusionato, ma è un appello alla riflessione.

Quando penso all’etichetta di “precario”, penso alle etichette con cui sovente i pazienti si rivolgono a noi psicologi: “depresso”, “ansioso”, “anoressico”, “bulimico” ecc. Questi alcuni degli epiteti con cui i pazienti si presentano al clinico, nella speranza che quell’esemplificativa classificazione funga da viatico per una rapida “guarigione”.  Che significa essere un “depresso”? Che significa essere “ansioso”?  Non è senz’altro un’etichetta che ci aiuta a comprendere la storia di un individuo, a cogliere la sua unicità, la sua complessità, piuttosto, il suo utilizzo può essere alquanto invalidante perché rischia di appiattire il nostro sguardo non facendoci afferrare, con curiosità, la singolarità di quella persona. 

E con l’etichetta di “precario” come siamo messi? Non è che anche l’utilizzo di quest’ultima rischia di portarci verso punti ciechi che non ci fanno intravedere possibili sviluppi? 

In molti sono ad esempio i giovani che oggi, di fronte alla disastrosa condizione economica in cui versiamo, gettano la spugna. “E’ in crescita un fenomeno allarmante: nel 2009, segnala l’Istat, poco più di due milioni di giovani, ossia il 21,2 per cento degli under 29, risulta fuori dal circuito formazione-lavoro: in pratica non studia e non lavora. È il fenomeno chiamato ‘Neet’, ossia ‘Not in education, employment or training’, che si arricchisce di anno in anno con la progressiva uscita dei giovani dal mercato del lavoro. Tra il 2008 e il 2009 i giovani tra i 20 e i 24 anni classificabili come ‘Neet’ sono aumentati del 13 per cento, e nel sud sono il 30,3%.” I “neet” sono dunque giovani che sembrano slacciarsi da un sogno, da un’aspirazione, dall’idea del domani.

Diversa nella forma ma non nella sostanza è poi la situazione di quei giovani “iperspecializzati” che, impegnati in una formazione perenne, svolgono lavori sottopagati e gratuiti. Costoro, sconfortati e avviliti, rischiano di dimenticare chi sono, il percorso formativo e professionale che hanno intrapreso e da quale storia provengono, proprio come succede al paziente che si definisce “depresso” nello studio del clinico.

Altro aspetto della faccenda è poi quel “voglio tornare come prima”, espressione con cui spesso il paziente condisce i colloqui psicologici e che mi sembra caratterizzi, purtroppo, anche lo sguardo con cui il precario guarda il suo presente, nel costante desiderio di rivivere un passato che non c’è più. Insomma il precario rischia, proprio come farebbe un paziente nevrotico, di andarsene in giro con la sua bella etichetta, lamentandosi del suo sintomo con la sterile speranza che alla fine le cose tornino “come prima”. 

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Perché invece non utilizzare anche in questo caso la crisi come un’occasione di cambiamento, di rinnovamento, di crescita? Il precario, proprio come il paziente designato, fa il sintomo e si fa portavoce di un malessere che ha origini ben più allargate, ben più lontane, in sistemi di convivenza che sono probabilmente falliti. Come suggerisce Franco Del Moro nel testo “Riposare nel cuore della tempesta” “Non possiamo capire le ragioni del disagio che è in noi se nel contempo non ci occupiamo anche del disagio che è intorno a noi e lontano da noi … le soluzioni, siano esse corali o individuali, agiscono in un punto preciso dello spazio, ma la loro eco arriva a tutti i livelli”.

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E’ certo, però, che i sistemi di convivenza sono senz’altro co-costruiti: ognuno ha la propria responsabilità in questa disfatta. Ho, però, l’impressione che il precario, come farebbe un qualsiasi nevrotico, sta cercando di far fronte alla sua problematicità proprio come l’ubriaco protagonista della famosa storiella narrata da Watzlawick: “Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa ha perduto. “La mia chiave”, risponde l’uomo, e si mettono a cercare tutti e due. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì. L’altro risponde: “No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio”.

Temo, dunque, che il precario, come il nevrotico, afflitto dal suo problema, stia cercando di raggiungere una soluzione là dove è sicuro di non trovarla e che stia effettuando le sue ricerche sempre nello stesso modo.

E se invece conducessimo il precario, ubriaco della sua problematicità, a sperimentare metodi alternativi ed efficaci di ricerca, non facendogli dimenticare quante risorse ha a disposizione per fronteggiare la sua situazione? 

Tempo fa, intervistata dalla giornalista Rai Isabella Mezza, mi trovai a definire il precario come un funambolo che, costretto a camminare su un filo nel vuoto, in continua tensione e alla ricerca sempre di nuovi equilibri, allena muscoli che non tutti sanno utilizzare. Il precario, come il funambolo, è nel vuoto ma non vi casca perché sa camminare su un filo e (cavolo!) questo non è da tutti!

 Iniziare a fare luce proprio su risorse e possibilità potrebbe indurre il precario a circoscrivere la sua insicurezza e a cercare nuovi percorsi da intraprendere ed è questa, a mio avviso, anche una responsabilità sociale dello psicologo.

Come ? Attraverso l’attivazione di spazi condivisi di riflessione su tale controversa questione che, se ignorata e trattata solo per gli evidenti e scontati aspetti di negatività, rischia davvero di diventare (se già ciò non è accaduto) una nuova grave forma di disagio psicologico e sociale.

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BIBLIOGRAFIA:

 

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Gruppi Gay di Auto Aiuto: Alcune Riflessioni

 

Gruppi Gay di Auto Aiuto. Alcune riflessioni. - Immagine: © Viorel Sima - Fotolia.comGruppi Gay di Auto Aiuto: quanto sono utili? In che misura raggiungono gli obiettivi che si prefiggono? Generano rappresentazioni distorte?

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Recentemente mi sono imbattuto in una realtà che non conoscevo, i gruppi gay di auto aiuto.

E mi sono posto alcune domande: quanto sono utili? In che misura possono raggiungere gli obiettivi che si prefiggono? E’ possibile che generino rappresentazioni distorte in coloro che li frequentano?

La comunità gay afferma, credo giustamente, di essere tuttora discriminata sebbene le dichiarazioni di principio (di facciata?) della maggior parte delle persone lo escludano con fermezza; in questi casi la natura dei pensieri reali non è data da ciò che si dice sugli omosessuali – “io non ho nulla contro di loro!” – ma da come si reagisce alla loro vicinanza, al loro successo, ai loro incarichi politici, Vendola docet.

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Tuttavia non sono convinto che istituire gruppi gay dal significato sostanzialmente clinico, se con questa espressione intendiamo l’elaborazione di specifiche difficoltà emotive, sia un’operazione priva di rischi.

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E’ possibile infatti, a mio modo di vedere, che nella rappresentazione soggettiva di alcuni partecipanti questi gruppi gay si trasformino in percorsi terapeutici come se davvero esistesse la necessità di curare un disturbo, un’anomalia nell’adattamento all’ambiente. Da un lato è evidente che promuovere queste iniziative abbia il valido scopo di creare un contesto empatico nel quale i gay possano confrontare le proprie esperienze, raccontare situazioni familiari spesso estremamente complesse se non addirittura apertamente ostili, discutere su scelte di vita delicate come la creazione di una famiglia; dall’altro però, l’esigenza di predisporre un setting e di garantire la reciproca accettazione, il reciproco riconoscimento mi fa pensare ad una difesa nei confronti della società e delle sue chiusure culturali.

Forse l’interrogativo che dobbiamo porci è perché, in un mondo che si definisce sviluppato, essere gay induca ancora oggi ad aggregarsi all’interno di un microcosmo nel quale affrontare il vissuto problematico della propria diversità.

“Diversi da chi?”, mi chiedo, auspicando che in un futuro non troppo lontano i gruppi di auto aiuto siano rivolti solo alle persone che davvero presentano una patologia, e ricordando che l’omosessualità è un deficit non di chi la vive ma di chi, incapace forse di gestire i conflitti della propria identità, si protegge individuando una minaccia esterna.

 

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Depressione Materna: Il Lavoro e il Partner possono Aiutare a Vincere la Depressione

FLASH NEWS 

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Le mamme che lavorano, sposate e con un partner accanto non depresso hanno maggiori probabilità di andare incontro alla remissione.

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Il disturbo depressivo maggiore è uno dei disturbi mentali più comuni, che colpisce, annualmente, più di 13 milioni di individui solo negli Stati Uniti e genera, spesso, una serie di limitazioni nello svolgimento delle attività della vita quotidiana. Ma se la depressione colpisce le mamme, allora è evidente che gli effetti appaiono ancora più gravi, visto che i bambini non ne escono indenni, anzi spesso riportano disturbi cognitivi e comportamentali che possono persistere anche in età adulta. Le madri depresse infatti, di solito, manifestano atteggiamenti ostili e negativi nei confronti dei bambini e questo crea un ambiente familiare che viene percepito come stressante. 

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A questo punto potremmo chiederci: quali fattori potrebbero favorire la persistenza della depressione nelle mamme e quali, invece, potrebbero fungere da fattori di protezione e generare una remissione?

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Per fornire una risposta a questi interrogativi, Kristin Turney ha condotto uno studio longitudinale coinvolgendo 4.898 coppie. Entrambi i genitori sono stati intervistati subito dopo la nascita del bambino e successivamente sono stati nuovamente intervistati, quando i bambini avevano compiuto 1, 3, 5 e 9 anni. Nella fase iniziale della ricerca, l’82% delle mamme erano coniugate, mentre l’87% non erano sposate. Tuttavia, non tutte le mamme che inizialmente hanno preso parte alla ricerca, hanno fornito il proprio contributo in tutte le fasi dello studio; per questo, sono state considerate solo le mamme (N=4.366) che hanno partecipato ad almeno 2 sessioni consecutive, escludendo la baseline, ossia il momento subito dopo la nascita del bambino. La depressione materna è stata rilevata attraverso la CIDI-SF, quando i bambini  avevano 1, 3, 5 e 9 anni: alle mamme è stato chiesto se nell’anno precedente avessero esperito sintomi di disforia o anedonia.

 Le variabili prese in considerazione dall’autrice come potenziali fattori, in grado di innescare un cambiamento nel decorso della depressione o di inibirlo, sono le seguenti: nazionalità, età, educazione, stato civile, impegno lavorativo, presenza di altri bambini e depressione nel partner. Dai risultati è emerso che la depressione è un problema molto comune tra le donne non coniugate: circa il 16% delle mamme era depresso quando il bambino aveva 1 anno, il 21% era depresso dopo 3 anni dalla nascita del bambino, il 17% quando il bambino aveva 5 anni e il 17% quando il bambino aveva compiuto 9 anni. Inoltre, circa il 38% del campione complessivo ha riportato sintomi depressivi almeno una volta nel periodo preso in considerazione dalla ricerca, il 31% ha riportato una depressione intermittente e il 7% una depressione persistente. Rispetto alla variabile della nazionalità, è emerso che le donne non ispaniche, sia bianche che nere hanno maggiori probabilità di sviluppare una depressione persistente rispetto alle donne ispaniche; mentre, rispetto alla variabile dell’età, la depressione è risultata più diffusa tra le donne più giovani dei 25 anni.

Inoltre, la depressione materna è più comune tra le donne che hanno un partner depresso, col quale sono sposate o coabitano; nel caso in cui i due genitori non coabitano o non hanno più alcun tipo di relazione, la presenza di depressione del partner non incide sulla depressione materna.

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Per quanto riguarda le caratteristiche demografiche, l’educazione e l’impegno lavorativo possono essere determinanti per la depressione intermittente delle mamme, ma non per la depressione permanente, evidenziando come le cause dell’esordio della depressione siano diverse da quelle responsabili della sua permanenza. Altro fattore di rischio per la stabilità della depressione riguarda la presenza di altri bambini in casa: le mamme con depressione intermittente o permanente spesso hanno più bambini.  

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Ma quali potrebbero essere, invece, i fattori in grado di modificare il decorso della depressione materna? Dai risultati è emerso come potrebbero fungere da fattori di protezione rispetto alla cronicità della depressione l’impegno lavorativo, la relazione coniugale e la mancanza di depressione nel partner: mamme che lavorano, sposate e con un partner accanto non depresso hanno maggiori probabilità di andare incontro alla remissione.

Conoscere i fattori di rischio e di protezione della depressione materna può essere sicuramente funzionale ad una maggiore prevenzione e ad un miglior trattamento del disturbo.

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BIBLIOGRAFIA:

Autolesionismo e Adolescenza: “Non Potevo Farci Nulla”

Autolesionismo-e-Adolescenza-“Non-Potevo-Farci-Nulla”. - Immagine: © Eky Chan - Fotolia.comChi utilizza l’autolesionismo sostiene che farsi del male li riporti in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.

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“Cominci a prendere a calci la porta. Butti la roba in giro per la stanza, fuori dalla finestra. Non riesci a calmarti. Non sai neppure che cosa ti abbia ridotto in questo stato. Ti pianti le unghie nella pelle del polso. Non senti niente. É come se stessi guardando un film su qualcun altro, non sei tu. Ti togli la camicia, ti guardi allo specchio. Odio, disgusto, frustrazione, rabbia, rimorso. Quasi come in un rituale, senza nemmeno pensare a quel che fai, prendi la lametta… sangue che gocciola. Ci sfreghi su qualcosa di antisettico, lo rifai, fino a quando sei calmo, soddisfatto. Spalmi sangue in giro. É brutto, ma il sangue è reale, è umano, ti fa sentire bene! Al tempo stesso, provi dolore, te lo meriti. Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.”

Dal libro Un urlo rosso sangue di Marilee Strong.

Hikikomori- la ribellione silenziosa?. - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
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Chiamato da alcuni autori autolesionismo intenzionale (deliberate self-harm, DSH, Favazza 1996), l’autolesionismo si riferisce a una serie di comportamenti che l’individuo mette in atto intenzionalmente per recare danni o lesioni al proprio corpo o ad alcune parti di esso. Secondo Armando Favazza (Favazza, 1996), che per primo ha identificato tali comportamenti come una sindrome con caratteristiche simili al Disturbo del Controllo degli Impulsi NAS, l’autolesionismo presenta alcune specifiche componenti:  pensieri ricorrenti di danneggiare il proprio corpo, incapacità di resistere agli impulsi di danneggiarlo, da cui deriva la distruzione o la alterazione del tessuto corporeo; crescente senso di tensione prima di mettere in atto condotte autolesionistiche, sensazione di gratificazione e di benessere successiva all’atto.

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Attualmente in Italia viene segnalato un tasso di incidenza che oscilla intorno al 30% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica, contro il 60% circa tra i malati psichiatrizzati. Ferirsi con tagli e ustioni sono le più comuni forme di autolesionismo tra i giovanissimi, alcuni degli altri metodi includono l’avvelenamento e l’overdose in età più adulta. L’autolesionismo è stato associato a depressione e ansia, a comportamenti antisociali e, soprattutto, all’uso di alcool (il rischio è raddoppiato), all’uso di cannabis e al fumo (Cerutti & Manca, 2009; Cerutti et al, submitted).

Una delle maggiori difficoltà connesse a questo disturbo è che i comportamenti autolesivi sono spesso sottostimati poiché vengono messi in atto in condizione di segretezza e sono frequentemente accompagnati da sentimenti di vergogna. Coloro che si autoferiscono, infatti, quasi sempre tendono a isolarsi e a nascondere le proprie ferite soprattutto per il timore di essere giudicati.  Ricordo E., 14 anni, che chiusa in bagno con il rasoio in mano si tagliava e guardava il sangue scorrere e cadere sul pavimento e intanto le lacrime le segnavano il viso. Sapeva di avere bisogno di aiuto ma in quella circostanza i suoi unici pensieri erano: “Che cosa penserà la gente di me? Penseranno che sono matta? Che cosa andranno in giro a dire quando lo sapranno? Penseranno che ho qualcosa che non va… Penseranno che lo faccio solo per attirare l’attenzione”.

Le ragioni per cui le persone si feriscono sono molteplici, ma va scardinato lo stereotipo dell’adolescente turbato, emotivamente labile e ribelle che compie gesti estremi come e che quindi può anche autolesionarsi. Questo è, a mio parere, solamente uno stereotipo, uno stigma che serve alle persone a ignorare la malattia mentale, ancora oggi vissuta con grande segreto e forse, come segno di debolezza.

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington http://faculty.washington.edu/linehan/
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L’autolesionismo non è un modo per attirare l’attenzione, né un tentativo di suicidio. Prendiamo ancora le parole di chi l’ha vissuto: F. ha 30 anni ora. Nel 1992, quando ha cominciato, non aveva mai sentito parlare di autolesionismo. “Non era la sensazione del dolore stesso, ma la reazione del corpo”, ha detto. “Una sorta di sensazione intorpidita. Quando mi facevo male mi sentivo completamente calma, la mia mente si concentrava sul dolore e la ferita e tutti gli altri pensieri e problemi sconvolgenti abbandonavano la mia mente nel frattempo. C’è un equivoco in base al quale l’autolesionismo sarebbe un tentativo di morire”, dice. “E ‘davvero l’esatto contrario. A volte, quando ho sentito che non volevo più vivere, mi facevo del male e mi sentivo più viva. E’ stato un meccanismo di sopravvivenza”.

Molte persone si fanno del male perché sono invase dalle loro emozioni, come la tristezza o l’ansia o forti stress e recare danno al proprio corpo rappresenta un modo per gestire queste emozioni vissute come intollerabili. Chi utilizza l’autolesionismo in questo modo sostiene che farsi del male li riporta in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo. Ci sono poi tutta una serie di altri motivi connessi a patologie psichiatriche che portano una persona a farsi del male (come purificarsi o tentare di espiare una colpa di un trauma subito), che qui non stiamo ad analizzare. Ciò che forse si può generalmente dire è che l’autolesionismo può essere meglio capito come un meccanismo maladattivo di coping che funziona – almeno al momento (Klonsky, 2007; DiLazzero, 2003).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

SITCC 2012 – Emozioni in Gravidanza. di Ciccioli, Bagalini, Morelli & Pirocchi

Congresso SITCC 2012 Roma

Emozioni in gravidanza.

Superare lo stereotipo sociale per identificare e prevenire la “tristezza” delle mamme. 

T.Ciccioli, B. Bagalini, K. Morelli & V. Pirocchi .

Studi Cognitivi, Sede di San Benedetto del Tronto

 

 

La gravidanza va intesa come un evento che comporta una significativa modificazione biopsicologica di fronte alla quale è necessario che la donna reagisca con un nuovo aggiustamento interiore, è quindi una fase della vita a rischio per la comparsa della depressione (PPD).  La Depressione post partum va distinta dalla Maternity blues e dalla psicosi puerperale per incidenza, sintomatologia e decorso. Ha un’incidenza del 10% e 15% sulle donne in seguito alla gravidanza. La PPD si articola in una serie di sintomi determinanti una grave limitazione rispetto al funzionamento globale e alla qualità di vita della donna con ricadute importanti sulle dinamiche relazionali tra mamma e bambino (Rossi Monti,1996).

ARTICOLI SU: PSICOPATOLOGIA POST-PARTUM/PERINATALE

Il presente studio ha lo scopo di individuare, a fronte della vasta letteratura sull’argomento, alcuni soggetti potenzialmente a rischio e nel contempo assolvere ad un ruolo di prevenzione attraverso un intervento psicoeducazionale rivolto non solo alla donna, ma anche al partner. L’importanza dell’individuazione consente di poter intervenire attraverso una psicoterapia breve individuale e di coppia, in considerazione anche della limitazione dell’uso di farmaci antidepressivi in gravidanza. 

Il campione (N= 80), diviso in gruppo sperimentale e gruppo di controllo, è formato da donne afferenti al Punto Nascita e ai corsi di preparazione al parto e alla genitorialità, seguite a partire dall’ultimo trimestre di gravidanza.

ARTICOLI SU: GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

Ad esse sono stati somministrati dei questionari allo scopo di identificare la presenza di sintomi depressivi e ansiosi ed un questionario volto ad indagare il supporto percepito dalla futura madre nel periodo del preparto.

I dati ottenuti confermano l’ipotesi dalla quale aveva preso avvio il nostro studio e cioè che il ruolo sociale e le relazioni interpersonali sono in relazione sia con la percezione del supporto sociale, che con alti punteggi al BDI e all’EPDS.

I risultati ottenuti inoltre confermano i dati presenti in letteratura che vedono la gravidanza come un processo di riorganizzazione cognitiva (Isola L., Mancini F., 2007) in cui il cambiamento di ruolo (da figlia a madre) e le relazioni interpersonali sono determinanti in uno specifico contesto di vita e a fronte della propria resilienza.

A scopo preventivo, si è pensato di introdurre interventi psicoeducazionali che permettono alla donna, ancor prima che madre, di arginare eventuali problematiche rispetto a tali ambiti.

Attualmente stiamo conducendo uno studio sui retest, che intende monitorare ed indagare più approfonditamente il rischio segnalato nel corso della suddetta ricerca.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

 

Stoner di John Wiliams – Recensione

                                                         

Stoner_di_John_Williams - Copertina
Stoner (2012) di John Williams. Copertina

Così William Stoner, professore universitario di letteratura e figlio di agricoltori risulta, in società, persona piuttosto insignificante e grigia. Lui stesso ha di sè un’ opinione modesta, convinto che nessuno possa provare per lui alcun interesse.

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Anche le persone timide provano intense emozioni e profondi affetti, ma l’idea che hanno di sè e del mondo, in qualche misura la loro filosofia di vita, ne inibisce la visibilità.

Segreto desiderio, anzi, è quello di sparire alla vista altrui per non rischiare di sentirsi in alcun modo deludenti, o ridicoli o, se va bene, poco interessanti. 

Così William Stoner, professore universitario di letteratura e figlio di agricoltori risulta, in società, persona piuttosto insignificante e grigia. Lui stesso ha di sè un’ opinione modesta, convinto che nessuno possa provare per lui alcun interesse.

stecchiti. le vite curiose dei cadaveri.
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In realtà, noi che leggiamo il libro, siamo catturati dalla storia di questa apparente insignificanza e partecipiamo ai sentimenti che via via prendono forma.

Il forte innamoramento per Edith, la moglie, di aspetto bello e delicato, in realtà una donna amara, imprevedibile e piuttosto isterica.

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Prima l’idealizzazione, la donna angelo arrivata a salvare William, poi la cocente delusione, la rabbia, ma soprattutto lo stupore per la fine rapida del loro legame.

Allora William  si consola per il fallimento del suo matrimonio dedicandosi alla figlia Grace, con cui  instaura un rapporto di profonda fiducia e intimità, almeno fino a quando la moglie/strega non deciderà di allontanarli con la forza.

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Educato all’obbedienza e alla passiva accettazione dei rigori dell’esistenza, automaticamente si sottomette alle violente intrusioni degli altri come se fosse ovvio chinare la testa e tirare avanti.

Si abitua alla disperazione: il fallimento coniugale, le ingiustizie sul lavoro, la perdita di persone care tra cui soprattutto la donna con cui vivrà un’intensa storia d’amore, perfino la malattia che lo colpirà senza chiedere permesso.

Nella sua acquiescenza troviamo tutta l’eredità della famiglia d’origine, agricoltori abituati a sopportare fame, privazioni, dolori; educato a sottomettersi senza neppure mostrare i segni della ribellione, causa una forma di orgoglio che lo porta a mostrarsi inespressivo, spento, quasi superficiale. 

l libro è essenziale, la scrittura precisa e diretta; chi legge piange per William, che invece non piange, si arrabbia al posto suo per i soprusi, spera che si ribelli, prima o poi, ma lui obbedisce, sempre e comunque, con quel distacco tipico di chi non crede di avere alternative.

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E’ un libro sul pudore e sull’obbedienza e su quell’orgoglio triste  che non permette di chiedere aiuto mai a nessuno e apre la strada alla solitudine.

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BIBLIOGRAFIA: 

  • Williams, J. (2012), Stoner, Fazi Editore
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