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Per quali motivi la corruzione è così diffusa e difficile da estirpare?

La corruzione è un fenomeno tristemente noto e che accompagna la storia dell’uomo da tempi molto antichi. Qualcuno dà e qualcuno prende, in cambio di qualche favore. Nonostante possa sembrare un processo molto semplice, il fenomeno è in realtà più complesso di quanto si pensi.

 

La portata dell’ammontare monetario che finisce per essere utilizzato ogni anno in operazioni di corruzione di qualsiasi natura è enorme, secondo la World Bank tale cifra si aggira intorno al miliardo di dollari.

Ma quali sono le cause e i motivi che spingono le persone ad accettare di essere corrotte?

Se si riuscisse a rispondere a questa domanda forse potremmo finalmente mettere in atto interventi in grado di modificare e ridurre tale fenomeno.

Lo studio

Alcuni ricercatori della Carnegie Mellon University (Gneezy, Saccardo & van Veldhuizen, 2019) hanno cercato di individuare qual è il motivo principale che si nasconde sotto i fenomeni di corruzione e spinge gli individui ad accettare di essere corrotti.

Nell’esperimento condotto dai ricercatori, veniva chiesto a due partecipanti di inventare delle barzellette da sottoporre poi al giudizio di un terzo soggetto sperimentale che avrebbe svolto il ruolo di giudice in questa gara. I partecipanti avevano inoltre la possibilità di cercare di corrompere sottobanco il giudice, offrendogli fino a 5 dollari.

I risultati di questo esperimento mostrano che, nel momento in cui il giudice poteva accettare solo una delle due mazzette avanzate dai partecipanti, nella valutazione di quale barzelletta premiare, la qualità della stessa veniva praticamente ignorata. Quasi tutti i giudici infatti preferivano prendere i soldi che gli venivano offerti piuttosto che valutare onestamente la qualità della barzelletta scritta dai partecipanti.

Quando invece ai giudici veniva offerta la possibilità di prendere entrambe le mazzette succedeva qualcosa di ben diverso: nell’84% dei casi veniva premiata la barzelletta più divertente anche se la persona che l’aveva scritta aveva presentato una mazzetta di un ammontare inferiore rispetto all’altro partecipante. In tale situazione la qualità della barzelletta tornava dunque ad essere importante.

Nella terza ed ultima situazione sperimentale, ai partecipanti è stato chiesto di aspettare due minuti prima di cercare di corrompere il giudice. Questo ha dato modo al giudice stesso di leggere e valutare le barzellette senza la pressione di un tentativo di corruzione. In questo caso lo scenario cambiava totalmente in quanto per i giudici era più difficile giustificare la propria disonestà ed accettare una mazzetta a fronte di una decisione, almeno mentalmente, già presa. Aumentando pertanto il costo morale della presa di decisione e trovando più difficile il giustificare una decisione presa solamente sulla base del denaro, i giudici hanno scelto la barzelletta migliore nel 81% dei casi.

In conclusione

Sulla base dei risultati appena riportati, secondo gli autori dello studio gli interventi miranti a ridurre l’incidenza della corruzione dovrebbero dunque puntare proprio sul cercare di rendere più salienti i costi morali dell’accettare una mazzetta; ad esempio si potrebbe esplicitamente chiedere alle persone che compiono una valutazione di qualsiasi genere di prenderla seguendo dei criteri oggettivi.

Quella volta che ho giocato a Fortnite con un paziente

Teo ha 14 anni, lo sguardo schivo e il sorriso amaro. È appassionato di informatica, videomaking e videogiochi. All’apparenza, è un tipico adolescente. Teo, però, ha qualcosa in più degli altri..

Vanessa Bottiglieri

 

Teo, quando ha troppa gente sconosciuta intorno, urla: “Ebrei, mi state uccidendo!”, scappa e si ripara sotto i tavoli. Quando non trova i tavoli, si rannicchia in un angolo o si nasconde sotto le sedie. Non c’è modo di fermarlo, non c’è verso di calmarlo, gli si ripete inutilmente di alzarsi in piedi. Teo si decontestualizza, va in blackout e torna tranquillo soltanto se lo ha deciso lui. Quando si diverte batte i pugni sul tavolo, arrossisce e affannato, comincia a sudare.

Fortnite: il modo per conoscere Teo

Quando si arrabbia potrebbe arrivare ad aggredire. Teo ha un discontrollo degli impulsi. Parla velocemente, spesso interrompe chi gli fa una domanda perché ha già capito, ha già risposto. Sa che l’alluminio deriva dalla bauxite e che il vetro si produce dalla sabbia. Ha un Q.I. superiore alla media. La vita di Teo non è stata semplice; un papà assente, una mamma infelice. Due volte Teo ha trascorso alcuni dei suoi giorni da bambino in una comunità e quando sua madre stava bene e andava a prenderlo, lo portava in case fatiscenti nelle quali Teo ha sentito tante parole d’odio e visto chissà cosa nascosto sotto a un tavolo.

Per fortuna, Teo ha una nonna tanto buona che lo ha portato a casa con sé, di notte lo abbraccia e ai compleanni gli fa le torte. Ogni tanto, esasperata, maledice il giorno in cui è andata a prenderlo, allora Teo la guarda, gli salta in collo e avvilito, le chiede: “Ma tu mi vuoi bene?”, poi la perdona. Teo sa che una nonna, a 84 anni, non si aspetta di dover crescere un ragazzino. Teo ha anche una brava terapeuta, l’unica persona alla quale confida che qualche volta si sente triste, l’unica persona che riesce veramente a leggerlo e che è capace di tirare fuori le unghie per i suoi diritti e parole gentili per le sue debolezze.

Ho conosciuto Teo a causa della fama di urlatore che si è guadagnato nel centro di riabilitazione in cui sto svolgendo un tirocinio. La prima volta che l’ho visto era seduto al bar del centro con altri tirocinanti e aveva la testa china su tre babà. Ho pensato subito che era l’unico bambino al mondo al quale piacessero i babà e gliel’ho anche detto, lui, senza guardarmi, ha sorriso ai babà e credo abbia pensato: “Ho 14 anni, mica 6”. Non è stato facile entrare in confidenza con Teo; molte volte mi ha spaventato con le sue urla e mi ha tirato oggetti contro, una volta, per gioco, mi ha chiusa a chiave in una stanza e un’altra volta ho dovuto raccogliere i pezzi di una scrivania che aveva spaccato in più parti. Al centro avevamo capito che, spesso, Teo andava in blackout quando gli si chiedeva di spegnere il computer, pensai, quindi, di avvicinarmi a lui proprio mentre era incollato allo schermo per capire cosa facesse. È così che Teo ha cominciato a parlarmi del suo canale YouTube nel quale pubblica video di giochi per il pc e la consolle, in gergo, i walkthrough, video in cui si registrano e si commentano intere sessioni di gioco, una pratica diffusissima tra youtuber. I video più ricorrenti nel canale di Teo riguardano Fortnite.

Fortnite: riflessività e pianificazione per Teo

Fortnite è un videogioco di successo senza eguali: a distanza di quasi un anno dall’esordio sul mercato, è riuscito a conquistare oltre 125 milioni di utenti sparsi in tutto il mondo.

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Fortnite quando un videogioco diventa prezioso per una terapia foto 2

La metà della popolazione mondiale dei 10-15enni gioca a Fortnite. In Fortnite sono presenti due diverse modalità di gioco: “Salva il mondo” che è ambientato sulla Terra, in uno scenario post-apocalittico in cui in modalità cooperativa fino a 4 giocatori si ha il compito di risolvere diverse missioni, dal procacciamento di risorse alla protezione dei sopravvissuti; e “Battaglia Reale”, che è la modalità di gioco che ha fatto la fortuna di Fortnite. In “Battaglia Reale” 100 giocatori sono catapultati su un’isola e hanno il compito di lottare per sopravvivere, da soli o in squadra. Non appena il numero di giocatori inizia a diminuire perché abbattuti dagli avversari in modi più o meno creativi con armi e trappole, la mappa del gioco inizia a restringersi, dando vita a battaglie intense, fino all’ultimo respiro.

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Fortnite quando un videogioco diventa prezioso per una terapia foto

Vince il giocatore che resta l’unico in vita. Mi fu subito chiaro che se avessi voluto conquistare la fiducia di Teo avrei dovuto imparare a giocare a Fortnite. Ho dimestichezza con i videogiochi e non è stato difficile cominciare quest’avventura, così, di settimana in settimana, raccontavo a Teo dei miei progressi, gli chiedevo consigli su come migliorare le mie prestazioni e ci confrontavamo sulle strategie più efficaci da adottare. La comunicazione con Teo migliorò di volta in volta, i suoi momenti di blackout quasi sparirono, addirittura ci scambiammo l’amicizia sui social e, ovviamente, quella su Fortnite. Teo era entusiasta del nickname che avevo scelto e subito mi scrisse anche il suo, in modo da connetterci. Così, una sera, lo trovai online e nonostante il timore che non mi avrebbe mai risposto, gli scrissi in chat. Difatti, non mi rispose. Quando ci vedemmo la volta successiva, caparbia, gli dissi di stare attento alla chat e ai miei messaggi e, la sera stessa, Teo ed io facemmo la nostra prima partita in modalità “a coppie”. Noi 2 contro 98 persone. L’incontro dei nostri avatar è stato emblematico: nello stesso istante, li abbiamo messi uno difronte all’altro e abbiamo avuto la stessa identica idea di fargli fare un balletto. In quel momento, ho pensato che fosse fatta: io e Teo stavamo facendo davvero amicizia. Non nascondo che all’inizio mi sono sentita in colpa: forse, invogliandolo a giocare, stavo alimentando la sua videodipendenza? Forse, giocando insieme a tarda serata, stavo indirettamente contribuendo alla sua insonnia?

Fortnite: perchè un videogioco può diventare una risorsa in terapia

Mi sono risposta che Teo trascorreva già la maggior parte del suo tempo al computer e che, già da un po’, aveva imparato a fare i conti con il poco sonno di cui ha bisogno, per questo, avere una compagna con la quale dividere tutto questo, a lui che è perennemente solo, poteva servire a potenziare le sue, quasi assenti, abilità sociali. Ho cominciato, quindi, a sfruttare quello che di costruttivo ha questo famigerato videogioco; Fortnite insegna la pazienza. Ogni partita di Fortnite, in modalità “Battaglia Reale”, inizia con i 100 giocatori che devono catapultarsi sull’isola lanciandosi da un autobus volante e, già in questa primissima fase, è indispensabile attendere e scegliere con tattica e prudenza il punto nel quale atterrare onde evitare di finire nel punto in cui sono atterrati tutti, rischiando di farsi uccidere più facilmente. Teo, da buon impulsivo, si lanciava dal bus in volo immediatamente ed è solo da quando gli ho spiegato che l’attesa è necessaria ai fini di una buona partita che aspetta 30 secondi prima di lanciarsi. Fortnite, infatti, è un videogioco stealth ossia una tipologia di videogioco d’azione basato sull’abilità del giocatore di evitare di farsi scoprire dai nemici e che costringe, quindi, ad adottare uno stile di gioco calmo e ponderato. In Fortnite, appunto, muoiono più velocemente i giocatori che affrontano i problemi con un approccio irruento. I videogiochi come Fortnite, quindi, enfatizzano, la precisione, la pianificazione, l’attenta osservazione e le abilità di risoluzione dei problemi invece che l’utilizzo di riflessi veloci.

Parlando con Teo, poi, ho scoperto che gli altri videogiochi di cui è patito sono, appunto, di questa tipologia. È proprio partendo dalla definizione di videogioco stealth, quindi, che si potrebbe agire sull’impulsività di Teo e, a piccole dosi, fargli capire l’importanza della riflessione e della lungimiranza come concetti da estendere alla vita al di fuori dello schermo. Molte ricerche (Resnick, 1986; Gardner, 1991; Clarke & Schoech, 1994), seppure diverse per quanto riguarda il campione, la metodologia e la modalità d’utilizzo dei videogiochi, hanno dimostrato come, nella pratica psicoterapeutica con i bambini e gli adolescenti, l’utilizzo dei videogiochi si rivela molto utile ai fini della costruzione della relazione con il clinico e che il videogioco può essere impiegato come strumento per valutare le competenze cognitive, la tolleranza alla frustrazione e la regolazione affettiva. Anche se basati su campioni esigui, grazie a questi studi, è possibile supporre che i videogiochi forniscono opportunità utili per la terapia con bambini e adolescenti, soprattutto nei casi in cui falliscono gli approcci tradizionali e che aiutano i giovani pazienti a diventare più cooperativi col terapeuta e più entusiasti del trattamento. Come conferma Tolga Atilla Ceranoglu, autrice di uno di questi studi:

Lo stile di gioco di un adolescente può offrire spunti rilevanti sui suoi conflitti intrapsichici e fornire del materiale utile per l’elaborazione di tali conflitti (Ceranoglu, 2010).

A oggi, il mio rapporto con Teo è in fase di crescita; quando ci vediamo, oltre che di Fortnite, parliamo di musica. Ho inquadrato il genere musicale che più gli piace e gli invio e-mail con titoli di canzoni che più potrebbero addirsi ai video del suo canale YouTube. Quasi tutti i giorni ci scriviamo in chat e mi sorprendo quando è lui, per primo, a cercare me. Al suo ultimo compleanno, anch’io gli ho portato una torta; grazie a Fortnite, Teo adesso ha un’altra persona sulla quale contare.

 

Instagram come lo specchio d’acqua di Narciso

L’utilizzo di Instagram sta radicalmente cambiando il modo in cui ci presentiamo al mondo e gestiamo le nostre relazioni. Cosa si nasconde dietro il crescente utilizzo di questo Social Media, soprattutto tra le nuove generazioni?

Francesca Livrieri

 

Specchiò il suo volto su quella levigata e pura superficie e subito l’amore per quell’immagine riflessa lo ammaliò fuori da ogni ragione: sentì di amare una seducente parvenza senza corpo: crede che un corpo sia, quello che è acqua soltanto (…) ammira le doti tutte, per cui egli stesso è oggetto di ammirazione. (…) Ignaro, brama se stesso; mentre loda, è da se stesso lodato; mentre desidera, è desiderato: parimenti causa e scopo della sua passione. Quante volte diede baci vani alla fonte ingannatrice! Quante volte dentro le acque immerse le braccia (…) ed in esse non riuscì a raggiungersi. (…) O creatura vana, perché cerchi inutilmente di afferrare labili parvenze? Quanto brami non esiste in luogo alcuno; volgiti e non vedrai più ciò che ami.

(Metamorfosi di Ovidio, libro III)

 

Chissà cosa racconterebbe Ovidio del Narciso ai tempi di Instagram, Facebook e Twitter.

Ormai numerosi studiosi hanno posto la loro attenzione alla relazione tra esseri umani e Social Media e a come tali strumenti stanno cambiando l’identità di sé, la propria essenza e quella delle relazioni sociali.

Negli ultimi anni, e sopratutto fra le nuove generazioni, abbiamo osservato l’ascesa di Instagram come Social Media di elezione per presentarsi al mondo e gestire le proprie relazioni online, usando un canale comunicativo molto semplice: immagini o brevi video (Lee, Lee, Moon & Sung, 2015) ed è proprio durante tale rivoluzione comunicativa che gli studiosi hanno rilevato un aumento dei tratti di personalità narcisista, sopratutto fra i Millennials (Twenge, Konrath, Foster, Cambell & Bushman, 2008).

Il tratto di personalità narcisistica si caratterizza per una grandiosa considerazione di sé che, entro certi limiti, può essere considerata fisiologica e funzionale ma che può trasformarsi in un quadro psicopatologico quando tali idee di grandiosità, il costante bisogno di ammirazione e la mancanza di empatia divengono caratteristiche fondanti la personalità.

Oltre alla definizione diagnostica del disturbo di personalità narcisistico del DSM-5 (Manuale Diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali), uno studioso ha descritto tre tipologie di personalità narcisista. La prima, ritenuta adattiva, si caratterizza per l’orientamento alle relazioni interpersonali, la seconda e la terza, di tipo disadattivo, sono maggiormente correlate ad un esito psicopatologico e si caratterizzano da una forte attenzione verso se stessi, da nevroticismo e da considerevoli scatti d’ira (Ackerman et al., 2011).

Instagram e Narcisismo

A partire da questa distinzione è stato condotto uno studio volto a valutare la relazione tra narcisismo e tutti quei comportamenti, definiti di autopromozione degli utenti Instagram. Nella fattispecie si parla di pubblicare selfie, aggiornare l’immagine del profilo e mantenere il collegamento all’applicazione durante gran parte della giornata.

Dalla ricerca è emerso che quasi la metà delle foto pubblicate e condivise su Instagram sono classificate come selfie (24,2%) o selfie con gli amici (22,4%).

Gli individui con tratti di personalità di tipo narcisistica pubblicano più selfie e aggiornano più di frequente la loro immagine profilo rispetto a individui che non presentano tale tratto di personalità. Inoltre i narcisisti valutano le loro immagini come fisicamente più attraenti e sono maggiormente preoccupati per il loro aspetto fisico rispetto agli altri e trascorrono più tempo su Instagram.

Nello specifico è emerso che gli individui che presentavano maggiori caratteristiche di narcisismo di tipo disadattivo mettevano in atto più comportamenti di autopromozione rispetto ai soggetti con narcisismo adattivo. Questo dato secondo Wright (2012) suggerisce che i soggetti con narcisismo disadattivo, in quanto deficitari di autostima cercano maggiormente di compensarla tramite comportamenti di autopromozione online, al contrario dei soggetti con narcisismo adattivo, i quali avendo un alto livello di autostima non hanno bisogno di mettere in atto tali comportamenti.

Adolescenti nelle relazioni. Generazioni che co-costruiscono la società-mondo (2018) di Fabio Vanni – Recensione del libro

Adolescenti nelle relazioni è un libro completo secondo vari punti di vista: Fabio Vanni espone innanzi tutto una prospettiva antropologica delineando come il cotesto sociale e adolescenziale si è evoluto nel tempo.

 

Il titolo di questo libro, Adolescenti nelle relazioni, potrebbe trarre un po’ in inganno: forse potrebbe indurci a pensare che tra le mani non abbiamo altro che un manuale volto ad illustrarci in che modo gli adolescenti di oggi si relazionano, tra loro o con altri. Già il sottotitolo però potrebbe in qualche modo chiarirci le idee.

Il termine “Generazioni” non fa altro che mettere in luce il fatto che l’autore di questo libro parte da molto più in là, dando al testo un’impronta quasi antropologica volta a spiegare al lettore come si è evoluto il cosiddetto modo di relazionarsi degli adolescenti, partendo da un’epoca preistorica fino ai giorni nostri.

A questo punto viene spontaneo a noi lettori chiederci: ma l’autore del libro dove vuole arrivare? Si tratta solo di un testo descrittivo avente lo scopo di illustrarci come le generazioni varie hanno fatto sì che le relazioni tra i giovani si evolvessero in un determinato modo?

Assolutamente no!

Con l’andare avanti delle pagine ci si rende ben conto che l’autore di Adolescenti nelle relazioni ha un scopo ben chiaro: far rendere conto a chi legge che il modo di relazionarsi degli adolescenti non è altro che il frutto di un’evoluzione ben precisa, determinato inoltre dal contesto e dell’educazione. Quindi, qualora si voglia prendere un intervento in merito, non bisogna far altro che tener conto della cultura e del contesto educativo in cui l’adolescente è vissuto.

Contesto ed educazione: come influenzano il modo di relazionarsi degli adolescenti

Bisognerebbe quasi tornare indietro nel tempo e analizzare le origini del processo di interazione adolescenziale, un po’ come ha fatto l’autore del libro. Fabio Vanni infatti esordisce illustrandoci dapprima il mondo preistorico, un’epoca in cui il soggetto umano non era altro che un individuo in balia del mondo che lo sovrastava.

I tempi però sono via via cambiati, e attualmente l’uomo rappresenta il dominio del mondo. Vanni ci illustra nel dettaglio come questo marcato cambiamento sia avvenuto, facendo riferimento alle più importanti teorie psicologiche e antropologiche, citando anche i preziosi contributi di Freud, Ellenberger e Bowlby. E dalla dimensione “macro” della socialità passerà inoltre ad illustrarci la dimensione “micro”.

Con l’andare avanti dei capitoli del testo Adolescenti nelle relazioni, Vanni porrà l’accento sul bambino in sé per sé e sull’adolescente. Il passaggio da età infantile a età adolescenziale è tutt’altro che semplice: l’adolescente ha tante paure e incertezza, soprattutto nell’affermarsi in quel mondo e quella società che egli stesso si vede impaziente di dominare. L’adolescenza è un’età di “metamorfosi”, sia in relazione alla sfera fisica e puberale, sia in relazione alla sfera emotiva e relazionale.

E l’autore non dimentica di illustrarci la condizione in cui si trovano gli adolescenti della società odierna, esponendoci i classici disagi esperiti dai ragazzi, ossia l’insoddisfazione corporea, la paura di non essere accettati dal gruppo, le cosiddette trasgressioni.

Fabio Vanni in qualche modo ci catapulta nell’universo adolescenziale facendoci un po’ percepire questo mondo con i loro occhi, il loro stile, il loro linguaggio.

La parte conclusiva del libro Adolescenti nelle relazioni è dedicata all’educazione e all’insegnamento dei giovani di oggi; anche in questo caso Vanni non dimentica l’importanza attribuita al contesto in cui si vive e alle trasformazioni individuali dovute soprattutto alla società e alla situazione genitoriale, che fa da sfondo alla vita relazionale dell’adolescente. Non dimenticherà di porre l’accento sull’adolescenza odierna, esponendo il contesto individuale, sociale e genitoriale dell’adolescente di oggi.

Concludendo

Possiamo dunque affermare che Adolescenti nelle relazioni è un libro completo secondo vari punti di vista: Vanni espone innanzi tutto una prospettiva antropologica delineando come il cotesto sociale e adolescenziale si è evoluto nel tempo.

Un’importanza fondamentale è da attribuire alle ultime pagine del libro, in quanto sono dedicate alle strategie e alle proposte di intervento rivolte a coloro che si trovano a relazionarsi con i giovani di oggi.

E anche stavolta il suggerimento sarà lo stesso: ci si educa nella reciprocità e nella contestualità concreta nella quale si vive.

Il significato dei rimpianti… secondo la scienza

Tutti hanno rimpianti, ma in genere si pensa sempre che quei rimpianti ruotino attorno a ciò che si è fatto, agli errori che si crede di aver commesso e alle decisioni che si sono prese dubitandone poi a posteriori. Un recente studio pubblicato su Emotion indica però che il vecchio detto non ci si pente di ciò che si fa, ma di ciò che non si fa” continua ad essere vero!

Adriano Mauro Ellena

 

In uno studio intitolato “The Ideal Road Not Taken”, alcuni psicologi della Cornell University hanno identificato tre elementi che sembrano influenzare in maniera significativa il proprio senso di sé: il sé reale, il sé ideale e il sé imperativo. Il sé reale consiste in qualità che si credono di possedere; il sé ideale è invece costituito dalle qualità che si desiderano avere; infine il sé imperativo viene identificato con la persona che si dovrebbe essere, in base agli obblighi e alle responsabilità personali.

Nel valutare le risposte di centinaia di partecipanti, i ricercatori hanno scoperto che, di fronte alla domanda su quali fossero i loro più grandi rimpianti nella vita, il 76% dei partecipanti ha parlato di qualcosa che non gli ha permesso di realizzare il proprio sé ideale.

Ma dunque, se il sé ideale si riferisce alle qualità che si desiderano avere e non a quelle che si credono di avere (sé reale) né tantomeno a quelle che dovremmo possedere (sé imperativo), questo ci suggerisce che potremmo avere un atteggiamento e una percezione imperfetti rispetto a ciò che è poi causa dei nostri rimpianti.

I rimpianti per il nostro Sé ideale

Viviamo in un mondo in cui ci viene detto che avremo una vita fantastica se seguiamo alcune precise “regole d’oro”, quindi si calcola che se si fanno tutte le cose che la società si aspetta che si facciano (come essere un buon cittadino, sposarsi al momento opportuno, fare abbastanza soldi per pagare le bollette, ecc.) ci si sentirà felici e soddisfatti della propria vita. Ma queste sono tutte qualità associate al sé reale e al sé imperativo, verso i quali, secondo lo studio, le persone hanno dei rimpianti “limitati”.

Piuttosto, è quando si tratta dei propri sogni e delle proprie aspirazioni (sé ideale) che le persone tendono a lasciarsi prendere dallo sconforto e quando sentono di non averli realizzati. Questo sembra essere ciò che realmente è causa di sofferenza e di rimpianti più tardi nella vita.

Conclusioni

I risultati dello studio ci suggeriscono dunque che non è sufficiente incoraggiare le persone a “fare la cosa giusta” perchè esse siano felici e vivano senza rimpianti. Ciò che è importante, invece, è aiutare le persone a stabilire ciò che è vitale per loro e spingerli ad agire in base alle proprie aspettative e ai propri sogni prima che sia troppo tardi, ricordando loro che non li aiuterà a stare bene e ad essere felici continuare a rimandare il raggiungimento dei propri sogni per un tempo spesso indefinito.

Nel breve periodo, le persone si pentono delle loro azioni più che della “non azione” – ha detto Gilovich, tra gli autori dello studio – ma a lungo termine emergono i rimpianti della “non azione” e questi durano più a lungo.

Smettiamo allora di inventare scuse per le “non azioni” della vita, che altro non sono che causa di durevoli e dolorosi rimpianti.

Quindi impara quella lingua che hai sempre voluto studiare. Intraprendi quel viaggio di cui parli da sempre. Scrivi quel libro che ti è girato in testa per anni. Qualunque cosa sia, grande o piccola, falla e basta. Non lasciarlo a domani. C’è solo oggi, quindi sarebbe meglio afferrare il toro per le corna, perché come dice il vecchio detto: i giorni sono lunghi, ma gli anni sono brevi.

 

Fidarsi dei pazienti (2016) di F. Gazzillo: i test del paziente secondo la Control Mastery Theory – Recensione

A volte un libro che richiede tanto tempo per essere letto è un pregio. Vuol dire che comprende tante informazioni da elaborare e assimilare. Fidarsi dei pazienti è il manuale di Francesco Gazzillo sulla Control Mastery Theory, una teoria degli anni 80 messa a punto da Joseph Weiss e Harold Sampson, psicoanalisti.

 

L’ho cominciato a leggere tipo kamikaze: mentre mangiavo, nei pochi minuti tra un paziente e l’altro, prima di addormentarmi, una volta perfino sulla cyclette in palestra. Poi ho dovuto rallentare perché ci voleva una certa quota di tempo e attenzione per leggere, comprendere e mettere insieme tutti i pezzi.

E forse dovevo concentrarmi anche sul ritmo delle mie pedalate.

Fidarsi dei pazienti: capire di cosa hanno bisogno

Lo studio di questa teoria è arrivato in una fase particolare della mia terapia con un paziente.

In vista dell’ultimo esame prima della laurea, che aveva già sostenuto più volte ma sempre con esito negativo, credevo fosse mio compito sostenerlo ed incoraggiarlo, soprattutto nelle settimane che avvicinavano sempre più la data della sessione. Ma più lo facevo, più il paziente si ritirava e si irritava. Parlava poco durante i nostri incontri, soprattutto dell’esame, era distante, una volta pare si sia dimenticato anche della nostra seduta. “Che strano”, pensai. Poi ragionai che in terapia niente è strano ma deve essere tutto letto in base al profilo interno del paziente e attraverso una piccola metacomunicazione, ho capito che stava succedendo.

Un test. Si eccolo, proprio quello di cui avevo sentito parlare durante una presentazione del libro a Napoli. Quello di cui due giorni prima stavo leggendo a letto, invece di dormire, a pagina 38. Il paziente mi stava testando. Ed io stavo fallendo.

Lui non voleva per nulla essere incoraggiato a dare l’esame. Cercava l’esatto opposto. Voleva sentire che io sarei stata dalla sua parte anche se avesse deciso di non di andare all’università quella mattina, anche se avesse fatto miseramente scena muta davanti al professore o all’assistente di turno. Voleva che facessi diversamente dai suoi genitori: accettarlo anche di fronte ad un fallimento. Non umiliarlo. E così fu. Non troppo stranamente, il paziente affrontò le giornate che precedevano l’esame con uno spirito diverso, si mise a studiare e provò ad impegnarsi organizzando al meglio le ore. Riprese dei vecchi appunti e si confrontava spesso con un collega per ripetere parti del programma.

A quanto pare il paziente si è sentito al sicuro e come è spiegato bene nel manuale, non esiste un modo per far sentire tutti i pazienti in questo modo perché ognuno di essi ha bisogno di cose diversi in tempi diversi, in funzione delle sue credenze e delle sue esperienze di vita.

I pazienti soffrono perché sono ostacolati dai raggiungimento di obiettivi sani e realistici da credenze patogene relative alla realtà e alla moralità; queste credenze fanno loro temere che, qualora provassero a realizzare quegli obiettivi, incorrerebbero in situazioni di pericolo. Non sarebbero al sicuro…queste credenze si formano nell’infanzia a partire da situazioni traumatiche reali da shock o da stress, in genere di natura interpersonali…i pazienti sono profondamente motivati a disconfermare, consciamente e inconsciamente, le loro credenze patogene perché esse sono costrittive e causa di dolore, ma al tempo stesso hanno paura di abbandonarle perché sono adattive, essendo state sviluppate per proteggersi dall’eventualità di nuovi traumi…Per capire in che misura possiamo sentirci al sicuro con una certa persona ed in una certa circostanza…noi mettiamo alla prova…la stessa cosa accade in psicoterapia. I pazienti fanno dei test ai loro terapeuti e se i pazienti li superano, disconfermando così le loro credenze patogene, si sentono più al sicuro nel realizzare i propri obiettivi e iniziano a muoversi in questa direzione… (Gazzillo, 2016, pag. 29).

Fidarsi dei pazienti.. e superare i loro test

Esistono tre tipi di test: test di transfert associati a compiacenza o ribellione nei confronti di genitori traumatici, test di capovolgimento da passivo ad attivo e test osservativi. Rimando al testo per un approfondimento e per leggere degli interessanti esempi clinici.

Nel mio caso, con il mio paziente, si tratta di un test di primo tipo perché la necessità era che io reagissi in modo diverso rispetto al genitore traumatico.

Gazzillo ha scritto un bellissimo testo, curioso e appassionato su una teoria che, ammetto, solo ora sto addentrandomi a scoprire meglio. Fa tanti esempi, pratici, reali. Sfido ogni collega a non ritrovarsi in situazioni simili e a non volere una cornice di riferimento che spieghi come raggirarli. Ed è un libro che consola quando sottolinea la natura errante e umana di noi terapeuti. Il paziente ci testa. Noi falliamo. Possiamo farlo. E se dovesse accadere, recuperiamo. E se non ci riusciamo, fa niente. Non esiste il momento giusto per la terapia efficace né il terapeuta giusto per tutti: l’esito di una terapia basata sulla relazione dipende da tanti elementi molti dei quali sono incontrollabili. Noi esseri umani siamo pezzi di puzzle che si incastrano. Paziente e terapeuti non sono esenti dalle variabili del gioco. Nella nostra mente saperi e teorie non ci salvano sempre da errori. Ma avere bene a mente il profilo del paziente e come esso agisce è un buon punto di partenza. Vale sempre la pena soffermarsi qualche seduta in più per raccogliere e valutare bene il funzionamento del paziente. La terapia deve essere caso-specifica indipendentemente dalla scuola teorica di appartenenza. E deve essere pro-plan, cioè aiutare il paziente nel dirigersi verso quello che vuole.

Fidarsi dei pazienti supera appieno i miei test.

Ah, alla fine, il mio paziente, andò a fare l’esame. E lo superò.

Consumo di cannabis in aumento: quali sono le conseguenze sulla salute mentale?

Da ogni componente della pianta Cannabis sativa originano i cannabinoidi esogeni. La molecola attiva si chiama D9-tetraidrocannabinolo (THC) ed il suo contenuto percentuale varia tra le varie porzioni della pianta, dai semi che ne contengono di meno, allo stelo, alle foglie, ai fiori che ne sono ricchissimi (Bertrand et al,2004).

 

Il THC raggiunge il picco ematico intorno ai 10 minuti dall’assunzione per via respiratoria e da allora declina rapidamente fino al 5-10% della quantità iniziale, in parte perché metabolizzato, in parte perché distribuito come THC non modificato nei tessuti adiposi. L’assunzione abituale dell’uso di cannabis comporta l’accumulo del THC nei tessuti lipidici; ciò conduce alla permanenza della sostanza nei liquidi organici per giorni ed anche per diverse settimane (Guelfi, 2015).

Cannabis: dati e numeri sull’uso

I derivati della cannabis, in base ai dati forniti dai principali organismi internazionali operanti nell’ambito del contrasto alla diffusione delle sostanze stupefacenti, costituiscono la prima droga d’abuso in Europa: 40 milioni di individui l’hanno utilizzata e in media, una persona su quattro, di età compresa tra i 15 ed i 34 anni l’ha provata (Schiavone,2002).

Nella Relazione europea sulla droga del 2018, pubblicata lo scorso 7 giugno dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA), viene riportato che l’Italia è il terzo paese dell’Unione Europea per uso di cannabis. I dati raccolti si riferiscono agli anni 2016-17, ed è stato stimato che la cannabis sia stata consumata da circa 24 milioni di persone con età compresa tra i 15 e i 64 anni, di cui 17,2 milioni con età compresa tra i 15 e i 34 anni.

Secondo dati provenienti da indagini condotte sulla popolazione, in media il 31,6% dei giovani adulti europei (15-34 anni) ha utilizzato la cannabis almeno una volta nella vita, mentre il 12,6% ne ha fatto uso nell’ultimo anno e il 6,9% nell’ultimo mese. Una percentuale ancora più alta di europei appartenenti alla fascia dei 15–24 anni ha utilizzato la cannabis nell’ultimo anno (15,9%) o nell’ultimo mese (8,4%) (Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, 2010).

I dati sul consumo di cannabis potrebbero cambiare ulteriormente se si tiene conto del boom di aperture dei grow shop, le attività commerciali dove si può vendere la cannabis legale.

Nel dettaglio la legge italiana vieta la vendita a scopi ricreativi di cannabis con un principio attivo di THC superiore allo 0,6%, poiché questa provoca degli effetti stupefacenti; è del tutto legittima invece la vendita dei prodotti derivati dalla canapa con un THC notevolmente inferiore alla suddetta soglia (Micocci, 2018).

Oggi si contano più di 600 punti vendita in tutta Italia, alcuni dei quali aperti giorno e notte (Scavo, 2018).

Cannabis: comorbilità con disturbi psichiatrici

Ma quanti conoscono le reali conseguenze del consumo assiduo e reiterato di questa sostanza? Esiste un legame tra l’utilizzo di cannabis e i diversi disturbi psichiatrici?

La comorbilità, o doppia diagnosi, è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come la coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro disturbo psichiatrico.

Il consumo di cannabis si è dimostrato essere associato ad un aumentato rischio di disturbi mentali. Gli effetti collaterali del consumo di cannabis dipendono dalla modalità di somministrazione, dalla dose ricevuta, dal tempo di utilizzo, dalle aspettative del consumatore e dalla sua personalità. Il rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici è molto alto: nei soggetti vulnerabili, comprese le persone che hanno usato cannabis durante l’adolescenza, nei soggetti che in precedenza avevano sperimentato sintomi psicotici e in quelli ad alto rischio genetico di disturbi psichiatrici (Iacucci, 2014).

L’assunzione di cannabis induce la comparsa di effetti psicoattivi che, generalmente, includono anche sensazioni piacevoli: calma, rilassatezza, euforia e emozioni amplificate. Tuttavia, alcuni soggetti possono sperimentare reazioni ben più spiacevoli: dispercezioni, distorsione temporale, depressione, paranoia, depersonalizzazione, derealizzazione, ansia o attacchi di panico, sensazione di perdita del controllo e paura di morire, che, seppur spesso transitorie, nei consumatori abituali possono persistere e ricorrere nel tempo (D’Souza et al, 2009; Thomas, 1993). Può indurre, inoltre, anche in soggetti sani, sintomi psicotici positivi e negativi, nonché deficit cognitivi analoghi a quelli della schizofrenia. Tali sintomi, in genere temporanei, possono comportare in individui vulnerabili successive, severe manifestazioni psichiche correlate alle sostanze (D’Souza et al, 2009).

Cannabis e insorgenza di psicosi

Ci sono due ipotesi che possono spiegare l’insorgenza di psicosi legato al consumo di cannabis. La prima sostiene che lo stato psicotico può verificarsi sia come risultato di uno specifico effetto farmacologico della sostanza, che come il risultato di esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione da cannabis.

La seconda ipotesi è che l’uso della stessa possa generare schizofrenia, o aggravarne i sintomi, in un individuo vulnerabile o predisposto. In particolare l’uso regolare e continuativo sembrerebbe quadruplicare il rischio di sviluppare un Disturbo Schizofrenico (Hautecouverture et al., 2006).

Alcuni studi, che hanno esaminato gli effetti del consumo di cannabis negli adolescenti, hanno rilevato una forte correlazione tra l’uso della sostanza e l‘insorgenza di molti disturbi psichiatrici, come: psicosi da cannabis, depressione e attacchi di panico. Si è rilevato, inoltre, un alto rischio di insorgenza di ideazione suicidaria e di tentativi di suicidio (Iacucci, 2014).

In uno studio longitudinale, condotto in Svezia, su 50.465 maschi svedesi, il follow up condotto dopo 15 anni, ha rilevato che coloro che avevano cominciato a consumare cannabis a 18 anni avevano una probabilità due volte e mezzo maggiore, rispetto ai non consumatori, di ricevere una diagnosi di schizofrenia (Andreasson et al., 1987).

Concludendo, gli studi revisionati hanno dimostrato che gli effetti della cannabis a lungo termine sono spesso sottovalutati e che la maggior parte dei consumatori non conosce i pericoli che un uso/abuso reiterato può causare.

Manuale clinico di mindfulness (2017) di F. Didonna: un sunto perfetto dello stato attuale della pratica e delle sue applicazioni cliniche – Recensione del libro

Alla stesura del Manuale clinico di mindfulness hanno dato il loro prezioso contribuito nomi di spicco del panorama scientifico internazionale, donando al testo un’impronta manualistica che i clinici non potranno far altro che apprezzare.

 

La mindfulness nella sua forma più aderente all’insegnamento di Jon Kabat-Zinn costituisce la più grande innovazione nelle pratiche psicologiche e mediche degli ultimi 40 anni. Oggi questo termine è entrato cosi tanto nel contesto socio culturale nel quale viviamo da essere adottato per descrivere tecniche e pratiche lontane da quelle a cui originariamente il termine si riferiva.

Il Manuale clinico di mindfulness di Fabrizio Didonna (alla sua ultima ristampa nel 2017) restituisce in maniera eccellente valore e significato al termine e alla pratica. Non è un caso che la prefazione del testo sia stata fatta proprio da Jon kabat Zinn in persona, il pioniere degli interventi mindfulness based.

Cosa significa Mindfulness?

Il termine mindfulness sostanzialmente si riferisce allo stato di presenza e consapevolezza che la pratica meditativa promette di sviluppare in chi la coltiva. Questo stato ha enormi implicazioni sul concetto di salute psico-fisica tali che negli ultimi decenni le pubblicazioni di ricerche scientifiche a riguardo sono aumentate in maniera esponenziale.

Il Manuale clinico di mindfulness costituisce un sunto perfetto dello stato attuale di questa pratica e delle sue applicazioni cliniche. Parlo di pratica poiché la mindfulness è una tecnica di meditazione che diversi modelli terapeutici hanno integrato, in particolar modo il mondo della terapia cognitivo-comportamentale. La lente attraverso la quale il testo affronta le varie tematiche è quella appunto delle scienze cognitive.

Struttura e contenuti del Manuale clinico di mindfulness

Alla stesura dell’opera hanno dato il loro prezioso contribuito nomi di spicco del panorama scientifico internazionale, donando al testo un’impronta manualistica che i clinici non potranno far altro che apprezzare.

Il Manuale clinico di mindfulness è suddiviso in quattro parti principali, la prima parte: “Teoria concettualizzazione e fenomenologia” affronta a mio parere un aspetto fondamentale e di enorme importanza, definire a cosa si fa realmente riferimento quando parliamo di mindfulness. Tutta la prima sezione del libro traccia una cornice storico, culturale, epistemologica, filosofica e scientifica dello stato dell’arte della mindfulness. Vengono in particolar modo discusse le origini della tecnica e le implicazioni terapeutiche, fenomenologiche e neurobiologiche che ad essa si accompagnano.

Nella seconda parte del libro, “Applicazioni cliniche: aspetti generali, rationali e fenomenologia”, si discutono le relazioni e le applicazioni specifiche della mindfulness alla psicoterapia. Il lettore comprenderà come concetti provenienti dal contesto culturale in cui la pratica meditativa si è sviluppata vengono applicati alla psicoterapia occidentale. Sono approfonditi concetti come l’accettazione e la compassione che sono tra gli elementi terapeutici più importanti legati alla tecnica. In conclusione l’attenzione viene posta su come è possibile operazionalizzare i concetti della mindfulness per renderli osservabili e misurabili e dare valore scientifico al processo, sostenendo così tutti gli interventi basati su essa.

La terza parte: “interventi basati sulla mindfulness per disturbi specifici”, è quella che il clinico di qualsiasi orientamento troverà non solo interessante ma estremamente utile, poiché essenzialmente costituisce una road map molto esaustiva dei diversi interventi mindfulness based sviluppati per specifici disturbi. L’aspetto interessante sta nel fatto che viene affrontata anche la modalità in cui specifiche caratteristiche della tecnica hanno un impatto terapeutico sullo specifico disturbo. Tutti gli interventi che in questa sessione del Manuale clinico di mindfulness vengono presentati sono supportati da una perfetta integrazione tra il linguaggio appartenente alle scienze cognitive ed quello più squisitamente legato alle pratiche meditative, offrendo cosi al lettore una visone d’insieme chiara ed esaustiva.

Nella quarta ed ultima parte: “Interventi basati sulla mindfulness per popolazioni e setting particolari”, vengono discusse e illustrate modalità di approccio differenti dei vari protocolli in contesti differenti dall’ambito prettamente clinico. In questa sezione l’enfasi è posta sulle applicazione della mindfulness in contesti come le case di riposo, le scuole gli ospedali, e i targhet ad essi associati quindi anziani, bambini e ricoverati. Vengono prese in esame le modalità, le difficoltà e le differenze con cui i vari protocolli vengono applicati a queste particolari fasce della popolazione.

Il manuale si conclude con due appendici, la prima dedicata ad accorgimenti tecnici finalizzati a dare le basi per sperimentare la pratica anche da soli. La seconda propone un elenco di centri italiani nei quali è possibile praticare e formarsi con questa tecnica.

In conclusione

Il Manuale clinico di mindfulness rappresenta un valido aiuto per il clinico che necessita di comprendere ed approfondire modelli mindfulness based. Tutto il manuale consentirà di accrescere in maniera profonda e dettagliata le proprie competenze riguardo alla terza ondata della terapia cognitiva.

Credo che un testo come questo debba essere preso in considerazione dai clinici e dagli studenti di psicologia e medicina, al di là della formazione di provenienza. La mindfulness rappresenta una modello di lavoro trasversale che può arricchire la persona del clinico in primis, la sua efficacia come terapeuta e la visone di quello che è lo stato di benessere ed equilibrio psico-fisico.

Come gestire il disturbo bipolare: l’importanza di intervenire con farmaci e psicoterapia

Il disturbo bipolare è un disturbo dell’umore a lungo termine che può influenzare il modo in cui una persona pensa, sente e si comporta. Senza un trattamento farmacologico il soggetto può sperimentare episodi di umore alterato.

Adriano Mauro Ellena

 

Le persone che soffrono di disturbo bipolare possono vivere un’alternanza tra periodi di forte attivazione, chiamati episodi maniacali, ed episodi depressivi, di bassa attivazione. Durante un episodio maniacale, una persona spesso si sente felice, ha molta energia ed è molto socievole. Durante un episodio depressivo invece può sentirsi triste, avere poca energia e ritirarsi socialmente.

Sebbene non esista una cura definitiva per il disturbo bipolare, in grado di garantirne la remissione permanente, le persone che vivono questa condizione possono sperimentare lunghi periodi durante i quali sono prive di sintomi. Con il trattamento farmacologico e l’autogestione dei sintomi è possibile mantenere uno stato dell’umore stabile per periodi prolungati.

Trattamento e possibilità di cura

Le opzioni di trattamento per il disturbo bipolare sono numerose ed ogni persona può rispondere in modo diverso al tipo di percorso proposto. Un trattamento sia farmacologico che psicoterapeutico è l’opzione che si è dimostrata più efficace nel trattamento di questa tipologia di disturbo.

I farmaci più utilizzati per la cura del disturbo bipolare sono:

  • Stabilizzanti dell’umore, come il litio;
  • Antipsicotici atipici che possono trattare sia gli episodi maniacali che depressivi e aiutano a stabilizzare l’umore;
  • Antidepressivi, anche se non tutti rispondono bene agli antidepressivi (infatti possono innescare episodi maniacali in alcune persone).

Una review del 2014 ha evidenziato che l’uso della psicoterapia combinata con i farmaci è più efficace della sola terapia farmacologica come trattamento per il disturbo bipolare.

Gestione a lungo termine e cura di sé

Una volta che una persona con disturbo bipolare ha trovato la modalità di trattamento più efficace per la sua persona, la coerenza nel seguire questo percorso è cruciale. Attenersi ad un piano di trattamento può ridurre la gravità e la ricorrenza degli episodi di variazione dell’umore.

La ricerca, inoltre, ha messo in evidenza anche l’importanza dell’uso di strategie di autogestione dei sintomi, tra cui:

  • creare un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata
  • costruire relazioni positive
  • avere una dieta salutare
  • fare esercizio fisico
  • dormire abbastanza

I cambiamenti di umore, infatti, potrebbero non essere sempre evitabili ma nel tempo una persona può imparare a riconoscere i primi segni di cambiamento dell’umore e sviluppare strategie per ridurne l’effetto. Strategie come lo yoga e la meditazione possono aumentare la consapevolezza rispetto i propri cambiamenti di umore. Anche altre attività tra cui fare il bagno, leggere, ascoltare musica o tenere un diario, possono aiutare a moderare i cambiamenti dell’umore prima che aumentino.

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo: i correlati neuroanatomici – Introduzione alla Psicologia

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), tra i disturbi d’ansia, è il più frequente all’interno della popolazione generale (Abramowitz, Taylor & McKay, 2009; Veale & Roberts, 2014). 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è composto da ossessioni, cioè pensieri intrusivi e ripetitivi o immagini che ricorrono costantemente e valutate dall’individuo come pericolose, e da compulsioni, ovvero rituali, comportamentali o mentali (rimuginio), utilizzate per alleviare l’ansia che deriva dall’esperire costantemente i pensieri intrusivi.

Succede che uno stimolo esterno attiva delle credenze, o dei pensieri, riguardanti il pericolo, il disagio emotivo e la sofferenza, e alla lunga finiscono per compromettere e tormentare la vita della persona che ne soffre. Più questi pensieri sono considerati, dalla persona, pericolosi più è necessario controllarli attraverso comportamenti compulsivi o tramite altri pensieri. Le persone che soffrono di Disturbo Ossessivo Compulsivo, dunque, presentano una serie di pensieri spaventosi, ovvero inaccettabili, per colui che li sperimenta, che si attivano anche quando non si vorrebbe averli. L’ansia e le altre emozioni negative che conseguono alla valutazione dei pensieri intrusivi, possono essere oggetto di interpretazioni negative. Tali risposte aumentano la probabilità di ulteriori intrusioni e una maggiore risposta emotiva d’ansia. Le compulsioni messe in atto dal paziente per controllare l’ansia alimentano il problema impedendo allo stesso di falsificare le credenze nelle valutazioni disfunzionali delle intrusioni.

In sostanza, nel DOC si verifica un errore logico di valutazione degli stimoli esterni e un’attribuzione di una sorta di potere magico ai rituali e ai propri comportamenti, che sono considerati come deterrente di catastrofi imminenti. In realtà, però, fungono semplicemente da trigger per la messa in atto del rituale successivo.

L’individuo che soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo, inoltre, ha ben definite anche una serie di aspetti emotivi e cognitivi legati al sintomo, come la responsabilità e la colpa nei confronti di terzi nel caso dovesse verificarsi il pensiero tanto temuto. Queste emozioni aggiuntive aumentano e amplificano lo stato emotivo, impedendone la guarigione.

Neuroanatomia nel DOC

Nonostante i dati presenti in letteratura siano ancora in evoluzione, si iniziano a delineare dei modelli sempre più definiti del Disturbo Ossessivo Compulsivo a livello neuro-anatomico.

Da un punto di vista anatomico è stato dimostrato che nei pazienti con DOC si ha una maggiore attivazione della corteccia orbito-frontale sinistra e del nucleo caudato bilaterale, che si associa ad una sovrastima delle conseguenze negative di una determinata azione, che sarebbe alla base dei pensieri ossessivi. Inoltre, la corteccia cingolata anteriore presenta un’attività accentuata nei pazienti con DOC e, di conseguenza, favorisce una maggiore interpretazione della verificabilità di conseguenze negative alla quale è associata una risposta ansiosa, sottesa dall’attivazione del sistema limbico.

Si attiva, anche, il giro temporale superiore di sinistra, il precuneo e la corteccia prefrontale dorso-laterale.

Il circuito fronto-dorso-parietale è implicato nei processi di formazione dei pensieri, nei processi di shifting attentivo e di inibizione dell’attenzione. Tutto questo potrebbe spiegare lo sforzo costante e fallimentari che i pazienti con DOC effettuano per ignorare i pensieri ossessivi e spostare l’attenzione da essi.

Quindi, i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo mostrano delle alterazioni funzionali del network fronto-sottocorticale e un aumento di interazione tra le regioni ventrostriatali e la corteccia orbito frontale mediale, la frontale anteriore, il cingolato anteriore e le regioni paraippocampali. Queste aree sono attivate da due vie: una diretta e una indiretta, e normalmente si bilanciano, ma nel DOC è presente uno sbilanciamento causato dall’iperfunzionamento della via diretta che causa un aumento dell’attività del circuito e delle strutture ad esso correlate. Questa iperattività potrebbe essere dovuta ad un’eccessiva attivazione della corteccia orbito-frontale, che determina un maggior controllo dello striato, ovvero mancanza di inibizione dei pensieri interferenti. Anche il sistema limbico e l’amigdala si attivano, poiché si registra una risposta emotiva di paura e ansia condizionate come reazione ai pensieri disturbanti. Quando si mettono in atto comportamenti compulsivi, si attiva il nucleo caudato e la corteccia orbito-frontale che svolge, in questo caso, una funzione inibitoria.

Da un punto di vista neuropsicologico le funzioni esecutive e la working memory, nei pazienti con DOC sono compromesse e si ha anche un deficit nello shifting attentivo, correlato all’attivazione dei circuiti della corteccia prefrontale laterale e ventro-laterale.

Inoltre, i pazienti con DOC presentano un numero maggiore di lipidi bioattivi: gli endocannabinoidi. Questi ultimi sono delle  sostanze chimiche prodotte naturalmente negli esseri umani e negli animali. I recettori degli endocannabinoidi si trovano lungo tutto il corpo e nel cervello. Il sistema endocannabinoide è implicato in una varietà di processi fisiologici, come: l’appetito, la sensazione di dolore, l’umore, la memoria e, soprattutto, i comportamenti abitudinari e ritualistici. I topi in cui era inibito un recettore degli endocannabinoidi, nel fascicolo neuronale che collega la corteccia orbito-frontale allo striato dorso mediale, non acquisivano comportamenti abitudinari.

Per concludere

I dati sono ancora oggetto di studio e per questo non è possibile affermare che il Disturbo Ossessivo Compulsivo sia un disturbo in cui vi sono implicazioni causali neuroanatomiche, perché le alterazioni riscontrate potrebbero sempre essere di tipo funzionale, e quindi solo correlati biologici di un disturbo psicologico.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Full Metal Jacket (1987) di S. Kubrick – Recensione del film

Kubrick nel 1987, a 14 anni dalla fine della guerra in Vietnam, dice la sua sulla disfatta americana, con uno splendido film dal titolo Full Metal Jacket.

Lorenzo Ricciuti

 

Siamo nella Carolina del sud, nella caserma di Perris Island, dove un battaglione di marines effettuerà il suo addestramento prima di partire per il Vietnam.

Full Metal Jacket: addestramento come disumanizzazione

I cinque minuti iniziali del discorso del sergente Hartman fanno parte della storia del cinema. La sua durezza, e la sua intransigenza faranno subito capire di che pasta è fatto. I suoi insulti, il cambiare nome ai suoi sottoposti sono l’antipasto del trattamento che riserverà alle sue reclute durante l’addestramento.

La sua spietatezza sarà rivolta contro il soldato semplice Leonard Lawrence. Questi è grasso e sembra avere anche qualche ritardo. Il sergente Hartman non avrà pietà per lui, avrà nei suoi confronti un atteggiamento persecutorio, fatto di insulti e offese, date le difficoltà fisiche di Palla di lardo (nome affidatogli dal sergente Hartman) nello svolgere gli esercizi per l’addestramento.

Infierire senza tatto e sensibilità sulle debolezze altrui. Questo è l’infame compito del sergente Hartman e l’impossibilità, dato il contesto militare, per Palla di Lardo di potersi ribellare. 

Kubrick in modo magistrale riesce a sottolineare questo accanimento disumano da parte del sergente Hartman. La disumanizzazione dei soldati deve avvenire prima dell’entrata in guerra. Si vogliono creare dei killer duri e spietati, pronti ad uccidere senza pietà.

Durante un’ispezione il sergente Hartman scoprirà che Palla di lardo ha rubato una ciambella dalla mensa. Come punizione tutti i soldati faranno le flessioni, eccetto Palla di lardo che, solo in mezzo a loro, sarà costretto a mangiare la ciambella.

I suoi compagni non ci stanno e si vendicano. Una notte lo colpiscono in pancia con delle saponette avvolte negli asciugamani mentre lui giace inerme nel sonno.

Full Metal Jacket: le contraddizioni di un’epoca

La misura è colma per Lawrence. Anche il suo sguardo cambia, inizia persino a parlare con il suo fucile. Tutto ciò fa presagire l’irreparabile, che avverrà durante l’ultima notte di addestramento.

Palla di lardo è in bagno con un fucile carico di pallottole full metal jacket. Il soldato Joker gli intima di tornare in stanza altrimenti saranno con la merda fino al collo. Palla di lardo risponde “Io ci sono già con la merda fino al collo”. All’arrivo del sergente Hartman, Palla di lardo spara colpendolo a morte e dopo decide di togliersi la vita.

L’esperienza nel Vietnam del soldato Joker non presenta particolari momenti di rilievo se non uno. Il soldato Joker porta una spilla della pace sulla sua tuta da soldato e sul cappello ha la scritta “Born to Kill”. Un suo superiore gli chiede spiegazioni e lui afferma che il simbolo e la scritta sono i due archetipi della dicotomia junghiana sull’istinto di Eros e su quello di Thanatos. O se vogliamo allargare lo sguardo ad un’altra interpretazione, i due archetipi fotografano le contraddizioni di quella generazione, dove da un lato del mondo regnavano l’amore libero e le istanze pacifiste, mentre nel Vietnam si continuava a combattere e uccidere.

Rimane esemplare la conclusione del film dove il soldato Joker torna a casa sano e salvo e traccia il suo bilancio

Vivo in un mondo di merda questo è vero, ma sono vivo e non ho più paura.

 

Gli stati modificati della coscienza. Neurofisiologia dell’insolito (2006) di Marco Margnelli – Recensione del libro

Ammetto che mi sono avvicinata alla lettura di questo libro forse spinta dalla mia provenienza da un piccolo paesino di provincia, uno di quelli in cui, d’estate, la nonna ti porta nella piazzetta vicino casa e intavola discussioni con le altre anziane del paese sedute su panchine dall’odore di ruggine.

 

Donne segnate dal tempo che trovano sollazzo nel discutere, a modo loro, di quanto la vita sia ancora un mistero da risolvere: e così, quasi in una gara a chi ne sa di più, riportano casi di amici di amici, conoscenti o lontani parenti che avevano vissuto strane esperienze al limite dell’inspiegabile, tra miracoli ed esperienze extracorporee.

Mi affascinavano i loro discorsi, mi piaceva vederle concitate nel cercare di dare spiegazioni a quei misteri da loro raccontati ed è così che il titolo del libro Gli stati modificati della coscienza. Neurofisiologia dell’insolito ha riacceso in me quell’interesse, misto alla voglia di conoscere la spiegazione scientifica da poter dare a quegli aneddoti.

Gli stati modificati della coscienza: un dialogo tra tanti

Il libro rientra nella collana “I dialoghi” che racconta, attraverso delle interviste, i personaggi scientifici, filosofi e matematici che hanno in qualche modo influenzato la scienza attraverso le loro scoperte o pensieri. Nella sezione in cui rientra Gli stati modificati della coscienza. Neurofisiologia dell’insolito, questi dialoghi vanno oltre: si tenta di intervistare personaggi del passato, recente o remoto, dando loro la forma di dialoghi “improbabili” ma al tempo stesso illuminanti.

L’intervistato di questo libro è il dott. Marco Margnelli, medico neurofisiologo e psicoterapeuta, uno dei pionieri nello studio degli stati modificati di coscienza. Ricercatore presso il Cnr, il Karl Ludwig Institut fur physiologie dell’Universita di Lipsia e l’Università del North Carolina, ha fondato il Centro studi e ricerche sulla psicofisiologia degli stati di coscienza a Milano. Marco Margnelli ci ha lasciato qualche anno fa. Nel libro, curato da Padre Emilio Alessandrini, viene data forma alle teorie e al pensiero di Margnelli, partendo dai suoi studi (rigorosamente riportati nella biografia del libro).

La caratteristica più notevole e attuale di Marco Margnelli è stata la sua curiosità scientifica per questioni inusuali e avvincenti (…) Ha imparato a non dare risposte prima di essersi posto con serietà le domande giuste – Spiega Padre E. Alessandrini – Marco Margnelli ha rappresentato una strana sintesi di scienza e mistero. Infatti ha studiato gli stati modificati di coscienza, come neurofisiologo, come addetto ai lavori, per cui quando smette di usare elettroencefalogrammi e dice quello che pensa, non smette di essere intelligente e critico, non parla a vanvera, le sue parole hanno un grande peso. Marco ha rappresentato un’affascinante sintesi di scienziato e bambino curioso

Gli stati modificati della coscienza guida il lettore alla scoperta, riga dopo riga, di temi misteriosi su cui ancora la scienza ha difficoltà a esprimersi e lo fa senza mai cadere in cialtronerie, ma dando una visione in cui si alternano neuroscienze, fisiologia, antropologia e psicologia.

Gli stati modificati della coscienza: la struttura del libro

La prima parte del libro si concentra sugli stati della coscienza così come oggi conosciuti, nonché risposta a una crisi epocale, caratterizzata da un malessere esistenziale generalizzato degli occidentali. Qui il contatto con se stessi è visto come via d’uscita, a volte sbagliando e ricorrendo alle modificazioni chimiche degli stati di coscienza (pensiamo ad esempio alle droghe) ma a volte positivamente, attraverso la meditazione ad esempio, riscoprendo le risorse interiori che ognuno ha dentro di sé.

Si passa poi alla storia della coscienza, quando si inizia a parlarne e a studiarla: ecco che viene presentato il riferimento alla storia della psicologia, della psicofisiologia e della psicoanalisi. Da Charcot a Janet, da Freud a Hofmann si delineano i passi avanti ma anche le lunghe battute d’arresto che lo studio sulla coscienza ha affrontato nel corso della storia.

Il libro si addentra poi nel vivo dei fenomeni più misteriosi di cui ancora oggi è difficile dare spiegazione. Il primo argomento è l’estasi religiosa: cosa succede in chi la vive? Si può parlare di una scarica emozionale di altissima intensità? Che ruolo ha l’amore e la devozione o la cultura di provenienza nel palesarsi di questo fenomeno?

La lettura prosegue sempre sul versante mistico, non dimentichiamo che Marco Margnelli ha a lungo studiato tali fenomeni, arrivando così ad affrontare il caso della comparsa di stigmate e di guarigioni miracolose. Sono riportati alcuni dei casi studiati da Margnelli, anche attraverso le moderne tecnologie e le conclusioni alle quali si è giunti.

Altre tematiche affrontate sono le OBE (out body experiences), ovvero le esperienze extra corporee e le NDE (Near Death Experiences): più oscure le prime, più riconosciute anche da scienziati e medici le seconde. E’ davvero possibile “staccarsi” dal proprio corpo e osservarsi dall’esterno, aleggiando nella stanza in cui ci troviamo?

Tra gli ultimi argomenti, ma comunque sempre ben analizzati, troviamo anche la pranoterapia e i sogni lucidi.

Gli stati modificati della coscienza:

Durante la lettura del libro in realtà molti perché restano sospesi, altrettanti interrogativi non trovano risposta. Un interrogativo tra tutti mi risulta più inappagato: perché non viene dato più spazio, nelle ricerche esposte e nei casi illustrati, anche alla storia di vita di chi manifesta certi fenomeni? Lontani dal patologizzare ma in virtù di uno sguardo più profondo, vien da chiedersi: quanto incide l’ambiente in cui questi individui sono vissuti? Qual è la loro storia di vita? Perché sull’argomento dissociazione non viene spesa qualche parola in più? Forse uno studio più approfondito delle ricerche di Mergnelli potrebbe darmi una risposta.

L’intervista, come abbiamo visto, tocca numerosissimi argomenti senza lasciare mai il filo logico che li lega l’un l’altro. Di notevole utilità è anche la scelta stilistica di chi ha curato il libro, di inserire delle domande volte a riassumere quanto scritto fino a quel momento, specie dopo aver toccato argomenti su cui il pensiero di Margnelli era molto ricco. Il lettore è così aiutato a destreggiarsi meglio tra i contenuti per poter poi proseguire con la lettura delle pagine.

Un libro grazie al quale perdersi tra rigore scientifico e questioni ancora aperte; una lettura per vedere con altri occhi argomenti spesso tabu per la ricerca; in fondo, pagine da sfogliare per riscoprire quanto sia piacevole, a volte, non avere una risposta a tutti i nostri perché.

Le potenzialità dell’intestino sulla salute mentale

Un approfondimento delle modalità di comunicazione tra intestino e cervello attraverso lo studio del microbiota intestinale potrebbe permettere di sviluppare nuove e promettenti terapie che usufruiscono di probiotici per il trattamento di alcuni disturbi come la depressione.

 

L’idea un tempo selvaggia secondo cui i batteri intestinali influenzino la salute mentale si è trasformata in un solido campo di ricerca grazie ad uno studio europeo, pubblicato recentemente su Nature Microbiology, che mette in luce il potenziale neuroattivo del microbioma in associazione alla qualità di vita e alla depressione in due coorti di popolazioni.

Le diverse associazioni tra sistema nervoso centrale e i miliardi di batteri nell’intestino, il microbiota, che hanno battezzato la loro denominazione in un unico asse, l’asse intestino-cervello, sono ora sotto gli occhi della ricerca scientifica che si è prefissa di investigare sempre più nel dettaglio i meccanismi causali attraverso i quali i microorganismi batterici che popolano l’intestino siano partecipi del funzionamento mentale e del comportamento sociale sia negli animali che negli esseri umani e di come questi potrebbero di conseguenza contribuire anche allo sviluppo di alcune condizioni patologiche quali la depressione (Jiang, Ling, Zhang et al., 2016).

Molto di quello che si sa a riguardo proviene prevalentemente da studi correlazionali che rimarcano la presenza di un’associazione tra specifici batteri intestinali e sindromi psicopatologiche, associazioni che però, sottolineano, non sono da intendersi di causa-effetto; un altro limite rappresentato dalle ricerche sull’asse intestino-cervello nella popolazione umana risiede nel fatto che i gruppi sperimentali utilizzati sono molto spesso di modeste dimensioni e pertanto questi studi potrebbero non isolare correttamente le variabili confondenti come diete alimentari insolite, l’uso di antibiotici o antidepressivi che determinano un’alterazione della flora batterica intestinale.

Nonostante ciò, la comunicazione bidirezionale tra i due sistemi suggerisce che il microbiota intestinale svolga un ruolo attivo non solo nella modulazione delle risposte immunitarie, ormonali e neurali dell’organismo che lo ospita, ma anche nella regolazione dell’epitelio intestinale, della permeabilità della barriera ematoencefalica e sia nel metabolismo o nella stimolazione che nella degradazione di componenti neuro attivi quali neurotrasmettitori (serotonina e GABA) e modulatori del sistema immunitario (e.s. acido quinolinico), che a loro volta ne modulano la crescita (Lyte & Brown, 2018).

Lo studio

Il nuovo studio di Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang e colleghi (2019) ha utilizzato sequenze di DNA per l’analisi delle “normali” variazioni del microbiota tramite campioni fecali in un gruppo di oltre mille individui reclutati in Belgio grazie al Belgium’s Flemish Gut Flora Project, confrontandoli con quelli provenienti da individui con una diagnosi di depressione o una bassa qualità di vita.

Il team di ricerca ha correlato differenti popolazioni microbiche con la qualità di vita e l’incidenza di sintomi depressivi utilizzando punteggi provenienti da self-report (The RAND-36 item Health survey e QoL questionnaire; Hays & Mazel, 1993) e diagnosi mediche sia autoriportate che certificate.

Le evidenze sono state ottenute tramite lo sviluppo di complesse metodologie e analisi che hanno consentito la profilatura delle diverse popolazioni microbiche, sia nei soggetti di controllo che in quelli patologici, potendo così generare un “catalogo” di 56 sostanze in grado di descrivere la capacità del microbiota di metabolizzare o degradare molecole cosiddette “neuroattive”, cioè interagenti con il sistema nervoso umano; in particolare due popolazioni di batteri, Coprococcus e Dialister, sono state associate ai campioni provenienti dagli individui affetti da depressione ma non a quelli con un’alta qualità di vita.

I risultati prodotti sulla popolazione belga sono stati validati tramite il confronto con le analisi microbiche provenienti da una popolazione danese reclutata grazie al progetto Dutch LifeLines DEEP trovando l’assenza delle due stesse specie di microrganismi nei soggetti danesi affetti da depressione.

Conclusioni e prospettive future

Nonostante lo studio di Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang e colleghi (2019) non stabilisca alcuna relazione causale, tuttavia costituisce un’associazione osservata su due popolazioni indipendenti e assai numerose. In aggiunta, i ricercatori hanno evidenziato una correlazione positiva tra qualità di vita e la potenziale capacità del microbioma intestinale nel sintetizzare un prodotto di degradazione della dopamina, l’acido 3-4 diidrossifenilacetico implicato nella depressione, che ha costituito il segnale più evidente di come il microbiota sia in grado di influenzare la salute mentale dell’organismo ospitante (Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang et., 2019).

A parere del team autore della ricerca, un solido approfondimento delle modalità di comunicazione tra intestino e cervello potrebbe aprire numerose e promettenti porte per nuove terapie che potrebbero usufruire di probiotici per il trattamento ad esempio della depressione o potranno aprire nuove prospettive metodologiche in grado di isolare all’interno del microbioma quei marker che potrebbero contribuire allo sviluppo di un profilo biologico sempre più accurato delle patologie mentali.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta (2018) di Silvia Albertazzi – Recensione del libro

Un libro che si intitola Manuale per vivere nella sconfitta non può non destare l’interesse di chi si occupa di salute mentale e di disagio psicologico.

 

D’altra parte nell’opera del leggendario e mitologico Leonard Cohen (sia opera scritta, che musicata) come viene spiegato dall’autrice, eminente esponente del mondo accademico letterario,

la bellezza dei perdenti e il valore della sconfitta sono esaltati attraverso un uso ipnotico e ammaliante della parola che imprigiona chi ascolta o legge in un cerchio magico da cui risulta impossibile uscire, una volta che se ne siano varcati i confini.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta: presentazione del libro

Nell’introduzione l’autrice racconta che per un bizzarro fenomeno, chi scrive di Leonard Cohen, persino a livello scientifico, finisce a parlare anche di sé. E ovviamente non posso sottrarmi a questa tradizione raccontando come, mossi da sentimenti un po’ onnipotenti, alcuni anni fa, con il caporedattore di questo web journal ci era venuta l’idea di provare a intervistarlo in occasione di uno degli ultimi concerti dal vivo in Italia. Ovviamente non fu possibile, per cui “ripiegai” su un articolo in cui ho raccontato della sua bellissima guarigione da una depressione cronica, avvenuta in tarda età dopo averle provate un po’ tutte, dal monastero al Prozac.

Il Manuale per vivere nella sconfitta si articola in tre sezioni: poesie, romanzi (tra cui spicca appunto Beautiful losers) e canzoni, approfondendo in modo assolutamente esaustivo la vastissima opera di Leonard Cohen, che ha preso forma in sessant’anni di attività (cominciò nel 1956 con le poesie per salutarci con un bell’album di canzoni del 2016). Viene analizzata la tripla anima di poeta, scrittore e cantautore di Cohen e viene evidenziato come il cantautore canadese (anche se lui si è sempre definito scrittore) sia riuscito a riconferire alla forma canzone la sua dignità letteraria di poesia orale. Nascendo come poeta, ha infatti

portato alla canzone la precisione linguistica e l’ossessione formale della poesia scritta.

Ispirandosi inizialmente alla tradizione della chanson francese, la canzone nobile di Leonard Cohen è poi passata veloce di bocca in bocca, fino a diventare un prodotto commerciale e usufruibile da milioni di persone. L’autrice analizza approfonditamente tutta l’opera letteraria di Cohen, soffermandosi sull’interpretazione e i significati e trascurando volutamente la biografia dell’autore perché

anche secondo Cohen, è chi ascolta a conferire significato a una canzone

al dì là della storia e delle intenzioni di chi scrive.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta: i personaggi, le canzoni

La narrazione di Leonard Cohen è popolata figure femminili fragili, solitudini, stranieri, immagini religiose e tanti altri elementi spesso impregnati di una “tristezza gentile”, più che da angoscia. In queste atmosfere cupe si può anche raccontare di un tentativo di suicidio come in Dress Reharsal Rags, benchè Cohen dichiarò di non avere mai avuto tendenze suicide, ma di aver conosciuto la vera depressione e aver tratto da essa ispirazione per diversi brani. Il cantautore racconta in un’intervista come per una sorta di particolare catarsi alcune persone che hanno attraversato questi tipi di “paesaggi depressivi”, abbiano riportato di aver addirittura tratto beneficio dalla bellezza di questo tipo di brani.

Anche la dimensione spirituale di brani come la celeberrima Halleluja può avere un effetto estremamente potente, in quanto, come ricorda l’autore esprime

il desiderio di affermare la fede nella vita, non in modo religioso formale, ma con entusiasmo, con emozione

come una sorta di preghiera laica.

Uno dei brani-capolavoro a mio avviso, che riesce a racchiudere allo stesso tempo disperazione, sensualità, spiritualità e speranza è Dancing me to the end of love, contenuto nell’album Various positions del 1984, in cui quell’immagine così forte del “burning violin” (che si riferisce alle terribili esecuzioni musicali cui erano costretti i musicisti ebrei nei campi di concentramento, per fare da colonna sonora all’ingresso dei compagni nelle camere a gas) viene amplificata dal malinconico coro di voci che si ripete in modo quasi ipnotico all’inizio e alla fine del brano.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta – le posie ed i romanzi

Ho parlato soprattutto di canzoni perché mi sento un po’ più ferrato nella materia, ma anche le parti sulle poesie e i romanzi sono interessantissime.

Per stimolare la curiosità mi limiterò a riportare la definizione che Leonard Cohen diede del proprio romanzo Beautiful losers cinquant’anni dopo la pubblicazione:

un’assurda collezione di riff jazzistici, di scherzi da pop art, di kitsch religioso e di preghiere soffocate…un colpo di sole, più che un libro

L’autrice sviluppa un’analisi eccellente di quest’opera visionaria, ricca di riferimenti storici e psicologici, in cui il “bello e perdente” si sostituisce in qualche modo al “bello e dannato”.

Un libro davvero illuminante ed esaustivo, da cui si riesce ad apprezzare l’enorme valore creativo di uno degli ultimi veri maestri della parola scritta e cantata, che è veramente riduttivo chiamare solo cantautore.

L’addio a Rodolfo de Bernart, tra i più noti esponenti della psicoterapia sistemico familiare

Una improvvisa e prematura scomparsa ha colpito il mondo della psicoterapia: è venuto a mancare, all’ età di 73 anni, Rodolfo de Bernart, psicoterapeuta direttore dell’Istituto di Terapia Familiare di Firenze.

 



Rodolfo De Bernart è nato a Roma nel 1947, si è laureato in Medicina a Firenze, specializzandosi successivamente in Psichiatria all’Università di Pisa.

Rodolfo de Bernart è stato un noto terapeuta Familiare Sistemico, eppure troviamo difficile poter racchiudere tutta la sua carriera in un’unica definizione: la sua vita professionale è stato un continuo costellarsi di traguardi e incarichi svolti in virtù della diffusione scientifica, della condivisione con colleghi e allievi e dell’attenzione verso i suoi pazienti.

Ha iniziato il suo percorso sotto la supervisione di grandi nomi, tra cui Fromm, Minuchin e Whitaker. Ha lavorato per anni nei servizi di psichiatria pubblica e ha collaborato anche in ambito accademico presso diverse università. Ha fondato nel 1981 con Cristina Dobrowolski, l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze (ITFF), di cui è stato direttore fino ai suoi ultimi giorni di vita.

È stato presidente della FIAP, Federazione Italiana Associazioni di Psicoterapia e membro dell’EAP, European Association of Psychotherapy, presidente dell’International Association for the Study of Attachment.

Ci uniamo al dolore dei suoi familiari e dei suoi colleghi che ieri hanno dato la notizia ufficiale sul sito dell’ITFF:

Con immenso dolore e costernazione l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze, con i suoi allievi, i suoi docenti, la segreteria ed i tirocinanti, si stringe attorno ai familiari del Professor Rodolfo de Bernart, per la sua improvvisa e prematura scomparsa.

 

Psicologia Clinica Perinatale: dalla teoria alla pratica (2018) – Recensione del libro

La Psicologia Perinatale, che si occupa dei fenomeni e dei processi evolutivi di neonati e bambini e del sistema di relazioni intorno a loro, lungo un continuum che va dalla fisiologia alla patologia, necessitava di un manuale così completo.

 

È un’opera di caratura internazionale curata da Rosa Maria Quatraro e Pietro Grussu che comprende i contributi di trentadue autori, esponenti di grande rilievo della Psicologia Perinatale.

Psicologia clinica perinatale: numeri e dimensione di un fenomeno a cui non si risponde adeguatamente

Viene messo immediatamente in risalto un aspetto fondamentale: in tutto il mondo esiste un’ampia diffusione dei disagi psicologici che possono colpire le donne nel periodo precedente e successivo alla nascita di un figlio; emblematico il caso del Regno Unito, in cui un quarto delle donne decedute entro il primo anno dopo il parto sono morte per cause legate alla salute mentale. Diversi report internazionali inoltre hanno messo in luce anche il peso economico a lungo termine delle psicopatologie del pre e del postpartum. Non va dimenticato, infatti, come queste problematiche abbiano un’impatto non solo sul singolo ma anche sulla famiglia e sull’intera società.

Nonostante questi dati, ci si ostina a trattare infertilità, poliabortività, lutti perinatali e complicazioni successive alla gravidanza prendendo in carico principalmente la salute fisica, continuando a perpetrare un’impostazione di dualismo mente-corpo e a sottostimare l’importanza degli interventi psicologici.

L’obiettivo del manuale è quello di offrire una panoramica su tutte le situazioni che nel periodo che precede e segue il parto possono creare una sofferenza emotiva alla donna, alla coppia e ai figli, quelli che già ci sono e quelli che verranno. Ogni capitolo tratta un aspetto specifico della Psicologia Clinica Perinatale, in cui gli autori hanno offerto sia una rassegna delle ricerche aggiornata che le principali modalità di intervento selezionate per prove di efficacia.

Psicologia clinica perinatale: la gravidanza e il parto

La prima parte del manuale Psicologia Clinica Perinatale tratta lo stress prenatale e i suoi effetti avversi sulla prole nello sviluppo neurobiologico, nella risposta allo stress nel corso della vita e nella salute fisica ed emotiva. Le ricerche che vengono esposte mostrano la necessità di valutare lo stress percepito durante la gravidanza e di supportare le donne con programmi per la sua gestione. In questa parte iniziale è presente anche un capitolo riguardante gli effetti sul feto dei disturbi psicologici della madre; si parla della necessità di effettuare una valutazione che comprenda l’anamnesi dei traumi e di seguire, eventualmente, dei trattamenti preventivi sia in ospedale che in coordinazione con professionisti esterni.

La seconda parte affronta tutte le principali problematiche del preconcepimento, della gravidanza e del parto: un capitolo è dedicato agli aspetti psicologici dell’infertilità e della sterilità di coppia, in particolare nei casi in cui vengono effettuati i trattamenti di PMA; si parla in particolar modo dell’impatto che tutto il processo ha su un piano intrapsichico, interpersonale e psicosessuale. Il capitolo successivo tratta le conseguenze psicologiche per la coppia genitoriale delle patologie fetali. Dopodiché ci si concentra sul tema complesso dell’aborto spontaneo, dell’IVG e del lutto perinatale, eventi potenzialmente traumatici ancora poco legittimati in diverse culture, ma che, per un’adeguata elaborazione, richiedono interventi psicoterapeutici e psicoeducativi. Infine, l’ultimo capitolo di questa parte affronta gli effetti “onda” negativi di un parto traumatico, tra cui il PTSD, le difficoltà nell’allattamento e lo stato d’ansia per i parti successivi, ma anche gli effetti positivi che si verificano in alcune donne, ossia la crescita post-traumatica.

Psicologia clinica perinatale: le criticità dopo la nascita

La terza parte del libro Psicologia Clinica Perinatale concerne il periodo postnatale. Vengono trattati i vissuti emotivi di questa delicata e intensa epoca di vita sia nelle situazioni fisiologiche che in quelle in cui il bambino attraversa un periodo di ricovero in Terapia Intensiva Neonatale.

Si parla altresì dell’importanza del supporto sociale e familiare per la diade madre-figlio e delle prime fasi dell’alimentazione del bambino. Viene ampiamente trattato come le problematiche nell’allattamento e nello svezzamento possono rappresentare l’occasione per esplorare aspetti profondi della relazione tra madre e figlio, come ad esempio la dipendenza e il processo di separazione. Nella quarta ed ultima parte vengono esposte le principali ricerche sulle psicopatologie perinatali (disturbi depressivi, disturbi ansiosi e psicosi post partum) e le relative modalità di prevenzione, screening, diagnosi e intervento. Viene dedicata particolare attenzione ai fattori di rischio che possono influire nello sviluppo di queste psicopatologie e agli strumenti per effettuare uno screening che possa permettere di intervenire tempestivamente prima che si cronicizzino.

In definitiva, Psicologia clinica perinatale: dalla teoria alla pratica è un’ottima risorsa non solo per psicologi, psicoterapeuti, ricercatori e dirigenti sanitari che lavorano quotidianamente nell’ambito perinatale, ma altresì per studenti, specializzandi e professionisti di discipline diverse che si vogliono affacciare alla scoperta di questa affascinante e fondamentale branca della psicologia, in continua evoluzione da 30 anni a questa parte. In questo volume si trovano spunti di riflessione, conoscenze aggiornate e stimoli per lavorare in maniera integrata e multidisciplinare (modus operandi imprescindibile in quest’area), nonché suggerimenti sugli interventi più efficaci.

È un testo che lancia delle importanti sfide per il futuro: la costruzione di un modello teorico e applicativo che integri la salute fisica con quella psicologica e la costruzione della consapevolezza che per intervenire davvero efficacemente in quest’ambito è necessario

che gli psichiatri e psicologi clinici siano formati sulle competenze che mancano loro e che imparino ad ascoltare le voci dei genitori che soffrono e i segnali dei loro bambini (Cox, pag.558).

Da non dimenticare, tuttavia, che molte donne e coppie vivono una gravidanza serena e si adattano in modo funzionale al passaggio di vita che richiede la nascita di un figlio: anche in questi casi l’attenzione al benessere psicologico è importante, in quanto va ad ottimizzare l’equilibrio mentale e il benessere non solo della madre ma di tutta la famiglia, con un impatto positivo saliente sulla salute a lungo termine, anche sulle generazioni future.

Dynamo Camp: campagna solidale 2019 – Comunicato Stampa

Debutta il 16 Febbraio la campagna di raccolta fondi con SMS e chiamate da rete fissa al numero solidale 45519 con cui si contribuisce a incrementare il numero di bambini con patologie gravi gratuitamente accolti a Dynamo Camp nel 2019.

Comunicato stampa

Dynamo Camp è la vita che non ho mai avuto (un bambino, sessione di Natale 2018)

Sabato 16 febbraio il debutto della campagna di raccolta fondi tramite SMS e chiamate da rete fissa, per contribuire a regalare una vacanza gratuita a Dynamo Camp a 450 bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni, con patologie gravi o croniche, nel 2019, e contribuire al numero di bambini con bisogni assistenziali complessi accolti dalla Onlus.

Per partecipare alla raccolta basta inviare un SMS al numero solidale 45519 o chiamare da rete fissa. Il valore della donazione sarà di 2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari Wind Tre, TIM, Vodafone, PosteMobile, iliad, Coop Voce e Tiscali. Sarà di 5 euro per le chiamate da rete fissa TWT, Convergenze e PosteMobile, di 5 e 10 euro da rete fissa TIM, Vodafone, Wind Tre, Fastweb e Tiscali. Il numero è permanente, attivo per tutto il 2019.

Nel 2019, nei programmi estivi per Soli Camper, per bambini al Camp in autonomia senza i genitori, Dynamo Camp incrementerà ulteriormente il numero di ospiti con patologie molto gravi o tali da richiedere volontari dedicati per tutta la durata della sessione, tra cui sordità, necessità di respirazione assistita, neurofibromatosi (nuove patologie 2018-2019), cecità, SMA 3, distrofia muscolare, spina bifida, MAR (Malformazioni ano-rettali), bambini con catetere venoso centrale, bambini con patologie oncoematologiche e altre patologie gravi e croniche. Nei programmi per Famiglie, dedicati a bambini con patologie neurologiche, saranno ospitati bambini con sclerosi tuberosa, autismo (nuove patologie 2018-2019), sindromi rare, tetra paresi, paralisi cerebrale infantile, esiti da ictus, sindrome di Rett, SMA 1 e 2 e altre patologie neurologiche gravi. In numerose sessioni, Dynamo Camp accoglie inoltre ex camper, che hanno compiuto i 17 anni, nel programma LIT (Leaders In Training), in un percorso dedicato che potrà portarli in futuro, se lo desiderano, a diventare volontari o staff. I destinatari del progetto, in particolare, sono ragazzi e ragazze costretti in carrozzina, con patologie come spina bifida o altre patologie neuromotorie.

Il periodo a Dynamo Camp ha l’obiettivo di far vivere una vera vacanza, in un ambiente naturale meraviglioso e protetto, dove gli ospiti possano godere di attività quali arrampicata, cavallo, piscina, tiro con l’arco, terapia con i cani e animali della fattoria, e altre attività, proposte in totale sicurezza, secondo la Terapia Ricreativa Dynamo®, con staff specializzato e formato per gestire le problematiche di bambini affetti da patologie gravi, e in totale sicurezza medica. Finalità ultima è contribuire a dare loro sollievo, e a far riacquisire fiducia in se stessi e benefici permanenti nella gestione della malattia e della vita.

Sostengono la campagna Mediafriends (24 febbraio – 2 marzo), Sky per il Sociale (17 febbraio-2 marzo), la7 (17 febbraio – 2 marzo), Discovery (16 febbraio – 3 marzo), Class Editori con Class TV e Telesia (16 febbraio – 3 marzo).

La campagna è supportata, per l’undicesimo anno consecutivo, da Radio DEEJAY, in particolare da Linus e Nicola Savino che all’interno della trasmissione DEEJAY chiama Italia dedicheranno una maratona radio con ospiti e approfondimenti (18-22 febbraio), e, per il nono anno consecutivo, da Radio Capital (25 febbraio-3 marzo), con spazi di comunicazione, appelli da parte dei conduttori e jingle realizzati in esclusiva per Radio Capital con i bambini di Dynamo Camp.

Concorre alla campagna un’asta, su ebay dal 24 febbraio al 2 marzo, organizzata da Associazione Dynamo Camp Onlus in collaborazione con Radio DEEJAY. Tra gli item in asta: 10 anelli targati Radio DEEJAY in edizione limitata realizzati da Nove25, 50 completi da ciclismo Castelli in edizione limitata,

10 fotocamere istantanee Leica Sofort per Radio DEEJAY in edizione limitata autografate da Linus e Nicola Savino e due experience uniche: una corsa di 10 km con Linus con partenza da Radio DEEJAY più tour della radio per 10 persone e un’uscita in bici per 10 persone con Linus e Nicola Savino.

Supporta la campagna Lega Serie A, con striscioni sui campi e spot sui maxischermi negli stadi della 25ª giornata di campionato (22-24 febbraio). Sostiene la campagna Clear Channel, con il suo circuito digitale nazionale dei centri commerciali.

Supportano la campagna radio web e radio locali sul territorio italiano, in particolare Radio Nostalgia, Radio Number One, Radio Babboleo, Radio Cuore, Radio Norba, Ciccio Riccio, Radio Atlanta Milano, Radio Dynamo.

Si ringrazia ANTEPRIMAVIDEO per il supporto nella realizzazione dello spot tv.

ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUSwww.dynamocamp.org

Associazione Dynamo Camp Onlus offre gratuitamente programmi di Terapia Ricreativa Dynamo a bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni, affetti da patologie gravi e croniche, alle loro famiglie e ai fratelli e sorelle sani. Le attività si svolgono presso Dynamo Camp, a Limestre (Pistoia), accogliendo bambini da tutte le regioni d’Italia, e, attraverso i Dynamo Camp Programs, nelle maggiori città italiane in ospedali, case famiglia e associazioni.

La Terapia Ricreativa Dynamo ha l’obiettivo dello svago e del divertimento ma anche e soprattutto di essere di stimolo alle capacità dei bambini, di rinnovare la fiducia e la speranza. Nei casi di patologie più gravi, accolte nei programmi per le Famiglie, Dynamo ha l’obiettivo di regalare “occasioni di vita” a bambini che hanno capacità motorie quasi nulle, possibilità di comunicazione legata a dispositivi esterni, aspettative di vita limitate.

Dal 2007, l’Associazione ha gratuitamente ospitato 7.607 bambini in programmi per Soli Camper, 7.269 bambini e genitori nei programmi per le famiglie a Dynamo Camp e ha raggiunto coi Dynamo Camp Programs 20.840 bambini nelle principali città italiane, offrendo così i propri programmi a oltre 35.000 persone. Il network di Dynamo Camp comprende oltre 158 ospedali e associazioni in tutta Italia. L’Associazione ha formato dal 2007 6.420 volontari e ha oggi 55 dipendenti e 81 persone di staff stagionale.

Dynamo Camp è situato a Limestre in provincia di Pistoia, in un’oasi di oltre 900 ettari affiliata WWF, Oasi Dynamo, e fa parte del SeriousFun Children’s Network di camp fondati nel 1988 da Paul Newman e attivi in tutto il mondo.

Conoscere il nostro patrimonio genetico potrebbe aiutarci a predire e prevenire la depressione

Poter misurare la propensione genetica degli individui alla depressione sarà di grande aiuto ai clinici per poter mettere in atto le migliori misure preventive possibili per le popolazioni più a rischio.

 

Il disturbo depressivo maggiore è una delle patologie psichiche più diffuse al mondo, secondi i dati del DMS IV si calcola una prevalenza del 10-25% nelle donne e del 5-12% negli uomini. Tali percentuali mostrano chiaramente quale sia la gravità del problema, inoltre i dati mostrano che tale prevalenza aumenterà col il passare degli anni.

L’incorrere in disturbi di tipo depressivo è una condizione molto comune e molto costosa sia per l’individuo che la vive, sia per la società. Riuscire ad identificare quali siano le persone più a rischio potrebbe essere di grande aiuto ai clinici per poter mettere in atto delle misure preventive in grado di contenere il fenomeno sul nascere e migliorare il benessere degli individui.

Il rischio poligenetico connesso alla depressione

Un recente studio danese dell’Università di Aarhus (Musliner et al., 2019) ha indagato se sia possibile identificare una predisposizione genetica per i fenomeni depressivi. Tale ricerca ha seguito da vicino circa 34.500 abitanti della Danimarca per circa 20 anni ed ha misurato il loro rischio genetico di sviluppare la depressione.

Gli studiosi danesi hanno misurato il rischio poligenetico connesso alla depressione in tali individui; per poligenetico si intende un rischio connesso non solo ad un gene, ma ad un insieme specifico di geni. Musliner ed i suoi collaboratori sono riusciti ad isolare questo insieme di geni, identificando l’insieme di geni maggiormente predittivo di sintomi depressivi in età adulta. Pertanto, attraverso il calcolo del rischio poligenetico connesso alla depressione, è possibile predire quali individui andranno incontro, nel corso della loro vita, a disturbi di tipo depressivo.

Questo studio rende possibile misurare direttamente la propensione genetica connessa con la depressione, superando il fatto di aver bisogno di affidarsi alla storia familiare come modo di predire la disposizione genetica alla depressione. In ogni caso lo studio in questione ha evidenziato anche come non sia possibile trovare il “gene della depressione” e come anche un individuo con una grande propensione genetica allo sviluppo di patologie depressive possa non arrivare a svilupparle nel corso della sua vita. Certo è che poter misurare la propensione genetica degli individui sarà di grande aiuto ai clinici per poter mettere in atto le migliori misure preventive possibili per le popolazioni più a rischio.

 

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