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Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) L’importanza del conoscere le proprie emozioni – Recensione

Tenere a mente le emozioni racconta attraverso la storia di personaggi illustri il processo di mentalizzazione affettiva in psicoterapia e quale cambiamento è possibile raggiungere grazie allo sviluppo di questa capacità.

 

“Non mi è mai capitato un paziente che non mi abbia insegnato qualcosa di nuovo, o che non abbia suscitato in me nuovi sentimenti e nuovi treni di pensieri”.
Oliver Sacks

 

Elliot Jurist offre una lucida panoramica sulla mentalizzazione in psicoterapia. Integra teorie, illustrazioni cliniche e una straordinaria analisi di opere autobiografiche di personaggi famosi utili a dimostrare i benefici della consapevolezza emotiva.

Il volume Tenere a mente le emozioni accoglie le emozioni in tutta la loro complessità. L’autore inizia identificando una categoria data dall’assenza di consapevolezza di ciò che si sente, categoria a cui ha assegnato il nome di “emozioni aporetiche”, e conclude riferendosi al concetto di “affettività mentalizzata”, la capacità di riflettere sulle emozioni alla luce della memoria autobiografica.

Il tentativo mosso dall’autore è di ripensare alla psicoterapia come ad uno spazio in cui poter conoscere cosa si prova ed accettarne le conseguenze. Le “emozioni aporetiche” sono emozioni che albergano in noi sotto forma di stati mentali oscuri, misteriosi o confusi, ma è possibile superare la confusione che le caratterizza identificando, modulando ed esprimendo le emozioni stesse. La risposta alla domanda su come è possibile trascendere le emozioni aporetiche è: attraverso la loro mentalizzazione.

Tenere a mente le emozioni: il concetto di mentalizzazione

Il concetto di mentalizzazione agisce come un lume sull’azione terapeutica e sugli obiettivi della psicoterapia e l’intero successo di una psicoterapia dipende dal miglioramento del paziente come mentalizzatore.

La mentalizzazione si basa su una gamma di capacità che vanno coltivate in terapia; il suo esercizio promuove una modalità continua con cui affrontare la vita e le relazioni e, nel caso in cui vi sia una sofferenza, fornisce un modo di fronteggiarla in maniera ottimale. La mentalizzazione è assimilabile a un’apertura mentale in cui si sostiene un investimento attivo nella rivalutazione di sé e degli altri, che analizza il presente ripercorrendo il passato, facendo continuo riferimento agli episodi autobiografici.

La fonte dell’affettività mentalizzata si trova nella curiosità, nel desiderio di capire in che modo il proprio passato e la propria identità influenzino le esperienze emotive, e la realizzazione di tale capacità si manifesta attraverso l’amore per la verità e l’autenticità, cioè attraverso il desiderio di guardare a se stessi e agli altri nel modo più onesto possibile.

Struttura e contenuti del testo

Il volume Tenere a mente le emozioni è diviso in due macroparti, ognuna divisa in capitoli. La Parte I contiene tre capitoli.

Il Capitolo I si occupa dell’identificazione emotiva. Il fallimento della capacità di identificazione emotiva è un fattore determinante l’alessitimia, ossia l’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui, spesso correlata a diverse tipologie psicopatologiche. Identificare le emozioni, però, ci porta solo fino ad un certo punto del nostro viaggio. Percorrendo la direzione della comprensione delle esperienze emotive entriamo nel territorio della modulazione. L’autore fornisce vari esempi: pazienti che sono in grado di identificare alcune emozioni ma non altre; pazienti che tergiversano sulle emozioni e pazienti che tendono a non parlarne affatto.

La biografia portata come esempio è quella di Sarah Silverman, in particolar modo sulla sua esperienza dell’emozione di paura e sul modo in cui l’ha trasformata attraverso la performance sul palco, pur continuando ad avvertirne la gravosa presenza. L’enuresi dell’autrice, tema centrale della sofferenza della Silverman comporta ripetute esperienze di umiliazione che la portano infine a sviluppare una lunga depressione. Silverman ci ha raccontato nella sua opera il cui il titolo completo è “The Bedwetter: Stories of Courage, Redemption, and Pee” che in prima superiore ha perso tre mesi di scuola perché era “paralizzata dalla paura”. Col tempo è riuscita a identificare l’emozione di paura ma la interpretava come facente parte di un quadro più ampio, legato al crescere sentendosi confusa, sola e depressa. In seguito, attraverso la psicoterapia, ha descritto il suo trauma precoce come un dono, dal momento che quella paura paralizzante l’ha portata a essere coraggiosa e a sentirsi naturalmente a suo agio nell’esibirsi davanti agli altri.

La verità è che dentro non sono affatto cambiata, da quel momento a oggi. Posso aver cambiato guscio, posso essere arrivata ad abbracciare cose che prima mi spaventavano e mi turbavano, ma il luogo in cui tutto ha avuto origine è lo stesso. A un certo punto ho capito che sarebbe stato molto più efficace e molto più divertente abbracciare le cose più brutte e terrificanti del mondo – l’Olocausto, il razzismo eccetera. Per il bene della comicità e per la sanità mentale del comico, però, far ciò richiede una certa distanza emotiva […].
Trovo che sia un modo divertente di essere sinceri. Come quando si fa una serie di battute per prendere in giro qualcuno, la speranza è che il sentimento genuino – forse addirittura una sorta di bontà sottostante alla battuta (per quanto brutale) – emerga lo stesso.

Questa rivelatoria riflessione su di sé mostra come le emozioni problematiche non spariscano affatto una volta identificate, sebbene possano essere utilizzate così che non siano più perseguitanti ed essere anzi mosse in direzioni nuove, verso la libertà individuale e una maggiore connessione con gli altri. L’emozione primaria di paura di Silverman non si dissolve, la sua pericolosa influenza viene piuttosto tenuta a bada in modalità nuove e creative.

Il Capitolo II è dedicato alla modulazione emotiva. Qui vengono introdotti alcuni sviluppi recenti sul concetto di regolazione emotiva, descrivendo nello specifico il process model, che sottolinea l’importanza della rivalutazione cognitiva, e il modello della mindfulness, che, incoraggiando l’accettazione più che la trasformazione delle emozioni, pone alcuni argomenti critici rispetto al process model. Viene approfondita l’importanza della regolazione emotiva per lo sviluppo e vengono presi in esame studi che hanno mostrato come il fattore sottostante a molti tipi di psicopatologia sia la disregolazione emotiva.

Viene fatto riferimento all’autobiografia di Tracy K. Smith, che costituisce una riflessione sulla perdita della madre, morta quando l’autrice era piuttosto giovane. L’esempio che viene riportato avviene a seguito di un’esperienza deludente, vissuta mentre l’autrice giocava a “prendi la mela” a una festa di Halloween che la madre aveva aiutato a organizzare nonostante l’ambivalenza, dovuta a ragioni religiose, per la celebrazione di una festività tanto pagana. Mentre le due stanno tornando a casa in macchina, si verifica un meraviglioso momento di modulazione emotiva verso l’altro:

[…] vedere le sue mani calme ma ferme sul volante e il modo in cui di tanto in tanto mi guardava, lasciando che rivolgessi il sorriso verso il suo viso e ricambiandolo con vero calore, con un amore che riuscivo a vedere e a sentire – ero sicura che nel preciso momento in cui noi due eravamo insieme quello in cui credeva non importava, non quando eravamo solo Kathy e Tracy, solo le nostre due anime dentro la macchina che avanzava sicura verso casa, piena e intatta di qualcosa di più grande e più reale di qualsiasi domanda o convinzione che potessimo faticare a mettere in parole. Sapevo, in quell’esatto momento, che era contenta nel modo in cui è contenta ogni madre che fa felice la propria bambina.

Ciò che colpisce è come l’autrice capisca sua madre e si senta capita da lei. L’esperienza è reciproca.

Il Capitolo III è dedicato all’espressione emotiva. L’espressione emotiva può essere legittimamente riconosciuta come il coronamento dell’esperienza emotiva, rivelando il più ampio scopo delle emozioni come forma di comunicazione. L’autore traccia una distinzione tra espressione interna ed esterna delle emozioni e prende in esame alcuni esempi di comunicazione efficace e altri in cui essa appare non altrettanto efficace.

Viene citata l’opera autobiografica di Ingmar Bergman, in cui l’autore documenta la propria difficoltà a esprimere le emozioni, soprattutto agli altri, nonostante queste vengano ritratte in maniera brillante nei suoi film. L’autore è piuttosto specifico a proposito del modo in cui le proprie emozioni vengono generalmente inibite e non vengano espresse fluidamente. Riflettendo su questo tema, conclude:

C’era sempre un microsecondo a separare il mio vissuto intuitivo e la sua espressione emotiva.

La Parte II di Tenere a mente le emozioni consta di quattro capitoli, che approfondiscono il tema della mentalizzazione emotiva.

Il Capitolo IV esplora il concetto di mentalizzazione, la sua origine e il modo in cui può illuminare la nostra comprensione delle emozioni, il cui apice è rappresentato dalla “affettività mentalizzata”. Viene brevemente descritto lo strumento Mentalized Affectivity Scale. Obiettivo fondamentale di questo capitolo che ha un’impronta più teorica è di trasmettere l’importanza del costrutto della mentalizzazione, portato in psicoterapia attraverso il lavoro di Peter Fonagy e collaboratori.

Il Capitolo V sviluppa il concetto di affettività mentalizzata arricchendolo con illustrazioni cliniche.

I Capitoli VI e VII si concentrano sull’affettività mentalizzata in quanto azione terapeutica. L’espressione “azione terapeutica” sta a indicare l’idea secondo cui la psicoterapia può ispirare un continuo cambiamento nell’individuo, aspirando a un obiettivo più alto del mero sollievo sintomatico. L’affettività mentalizzata si basa sulla memoria autobiografica come strumento di sostegno nell’aiutarci a definire noi stessi in maniera continuativa nel tempo. Ci richiede di intraprendere un’esplorazione più profonda del significato delle esperienze emotive nella nostra vita, nella nostra storia e all’interno del nostro ambiente. L’affettività mentalizzata comporta l’apertura ad una conoscenza, revisione, correzione e strutturazione più articolata dell’esperienza emotiva. Tale articolazione può sicuramente stimolare un impegno verso la scrittura, la correzione e la riscrittura della propria storia autobiografica e delle proprie idee rispetto a sé.

Oliver Sacks: un esempio di come è possibile imparare a tenere a mente le emozioni

Un meraviglioso esempio di tale processo è mostrato dal lavoro di Oliver Sacks. Si passa, quindi, ad esaminare le due autobiografie scritte da Oliver Sacks, piuttosto diverse tra loro e l’impatto avuto dalla terapia, durata quasi cinquant’anni, con lo stesso psicoanalista. Sacks ha scritto una miriade di pezzi autobiografici pubblicati sul New York Times, una sorta di cronaca dei suoi pensieri finali, che insieme alle due autobiografie principali forniscono una straordinaria illustrazione dell’affettività mentalizzata. Oliver Sacks, formatosi come neurologo, è stato un clinico devoto e contemporaneamente ribelle.

Nel descrivere alcuni casi clinici particolari che ha incontrato nella sua esperienza in una casa di cura statunitense, è sempre riuscito a cogliere la componente umana di ogni storia, mentre l’analisi clinica non ha mai perso il suo vigore e rigore scientifico.
Non era un ricercatore e ha sempre raccontato i propri sforzi falliti in tal senso, ma ha sempre mantenuto una grande passione per la ricerca, tenendosi costantemente aggiornato sugli sviluppi neuroscientifici.

È stato inoltre l’autore di due autobiografie: Zio Tungsteno (2001) e In movimento (2015). Le due autobiografie sono state scritte a quattordici anni di distanza e coprono parti consecutive della vita di Sacks – Zio Tungsteno (ZT) dalla prima infanzia all’adolescenza, In movimento (IM) dalla prima età adulta alla vecchiaia. Molti degli interessi e delle occupazioni di Sacks sono rimasti gli stessi: “i metalli, le piante e i numeri” (ZT). C’è però qualcosa di straordinariamente diverso nei due libri.

In ZT, Sacks si descrive come un secchione appassionato di materie scientifiche in IM, incontriamo un’anima avventurosa: Sacks è emigrato in Nord America, viaggia in motocicletta da solo per l’America occidentale, vince gare di sollevamento pesi, comincia a seguire la propria vocazione per il mestiere di medico e di scrittore. Soprattutto, l’autore rivela di essere omosessuale e parla apertamente della sua lunga battaglia per stabilire un legame con gli altri, culmina nel raggiungimento, alla fine della sua vita, di una relazione amorosa appagante. La prima autobiografia, ZT, è scritta con grande autocontrollo e racconta di un giovane Oliver, studioso, innamorato della chimica e soprattutto della storia della chimica. Si racconta come solitario, ansioso, pieno di molteplici paure e poco disinvolto nelle relazioni sociali. La sua passione per il mondo naturale sembra direttamente correlata con il ritiro dal mondo sociale. La vocazione di Sacks per il mestiere di chimico però col tempo svanisce, dal momento che egli scopre di essere affamato di ciò che è umano, personale, ciò che gli era sfuggito, e rivolge il suo appassionato interesse alle narrazioni personali e ai diari.

Il secondo libro, IM, ha un carattere impetuoso, e racconta della ribellione dell’autore, che lo ha portato a trasferirsi negli Stati Uniti, e del suo lungo viaggio per divenire il narratore di un ampio ventaglio di fenomeni neurologici. Questa seconda autobiografia si conclude, in maniera commovente, con il racconto del primo innamoramento dell’autore.

Sacks è stato in psicoanalisi con lo stesso analista per quasi cinquant’anni. Forse la sua psicoterapia è il fattore in grado di spiegare la differenza tra le due opere autobiografiche nonché il progressivo aprirsi dello scrittore, il suo divenire se stesso? Secondo Jurist, si.

Tra le due opere vi è un chiaro incremento in termini di affettività mentalizzata. Il fatto che le sue emozioni siano libere di sgorgare rivela la capacità di Sacks di utilizzare l’affettività mentalizzata, dato che ormai egli ha elaborato il proprio passato, che dunque non costituisce più un ostacolo per le sue esperienze presenti e future. In un incantevole passo dell’ultima autobiografia l’autore cattura gli enormi cambiamenti che hanno accompagnato la sua vita:

Si imponevano cambiamenti profondi, quasi geologici; nel mio caso a dover cambiare erano le consuetudini di un’intera vita solitaria, insieme a una sorta di implicito egoismo e di eccessiva concentrazione su me stesso. Entravano nella vita nuove esigenze e nuove paure: il bisogno dell’altro, la paura dell’abbandono. Dovevano esserci profondi adattamenti reciproci.

Come l’autore di questo libro, anch’io sono particolarmente grata ad Oliver Sacks. Da medico ho sempre apprezzato il suo “uscire” dalla clinica, per comprenderne appieno il suo senso. Il suo sguardo rivolto ai pazienti ha sempre avuto una compente lucidamente scientifica alla Einstein e una più poetica e umana alla Borges. Come Jurist, ammiro Sacks soprattutto per aver protestato contro la divisione tra letteratura e scienza, per essersi rifiutato di accettarla.

Ho apprezzato molto il volume Tenere a mente le emozioni proprio per la scelta accurata delle autobiografie “illustri” che hanno reso tangibile il significato di concetti quali affettività mentalizzata e modulazione emotiva ma anche per i numerosi spunti da utilizzare nella mia pratica clinica.

 

LEGGI LE ALTRE RECENSIONI DEL LIBRO:

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) – Recensione del libro

 

Tenere a mente le emozioni (2018) di Elliot Jurist – Recensione del libro

Una scala attentiva per la dimensione degli oggetti

Uno studio di Collegio e colleghi, recentemente apparso su Nature Human Behaviour, mostra come l’inferenza, fatta dagli individui, circa la dimensione reale di un oggetto sia in grado di influenzare il modo in cui essi stessi allocano l’attenzione nello spazio in cui è presente un disegno dell’oggetto preso in considerazione.

 

Le modalità attraverso le quali interagiamo con i più svariati oggetti dipendono per la maggior parte dalle proprietà intrinseche di questi stessi oggetti; potremmo quasi dire che ci comporteremmo diversamente se ad esempio il mouse con il quale scorriamo il cursore sullo schermo del nostro computer avesse le stesse dimensioni di un vero topo, anziché quelle di una mano umana adulta o se il divano sul quale siamo seduti avesse le medesime dimensioni di una scatola.

Percezione delle dimensioni e retina

Le proprietà intrinseche di un oggetto quali il colore, la forma, la dimensione o le sue proprietà aptiche, cioè quelle che hanno a che vedere con il senso del tatto, in parte rappresentano i criteri attraverso i quali rappresentiamo gli oggetti stessi nella mente e che ci consentono di conseguenza la loro distinzione, manipolazione, il loro utilizzo e il loro controllo.

Mentre l’impatto di queste proprietà degli oggetti sulla percezione visiva e sulla loro capacità di attirare l’attenzione, è stato ampiamente approfondito e investigato con chiarezza, poche sono le informazioni che si hanno a disposizione circa il ruolo delle dimensioni, reali e inferite dagli individui, di questi oggetti nello schieramento delle risorse attentive nell’ambito della percezione dello spazio (Park, 2019).

La dimensione di un oggetto principalmente può essere catturata dalla retina o essere inferita, considerando però che la visione “retinica” potrebbe andare a modificare la dimensione stessa dell’oggetto: infatti la dimensione dovuta alla retina di una tazza di the sulla scrivania potrebbe essere diversa e apparire più grande rispetto a quella di un’automobile osservata da una finestra che appare più piccola a causa della profondità.

Percezione delle dimensioni: gli studi recenti

In questo contesto, è pertanto opportuno considerare che la dimensione “retinale” di un oggetto non sempre riflette in modo equivalente la dimensione reale dell’oggetto inferita.

Tale specificazione risulta di notevole interesse soprattutto nell’ambito della ricerca psicologica per quanto riguarda lo studio dell’attenzione e della percezione in quanto queste componenti dell’oggetto influiscono notevolmente sulle modalità attraverso le quali osserviamo, riconosciamo un oggetto e processiamo l’ambiente esterno.

A questo proposito, il nuovo studio di Collegio, Shomstein, Scotti e colleghi (2019), del dipartimento di psicologia della Geoge Washington University e dell’Ohio State University, ha mostrato, attraverso l’utilizzo di una variazione del paradigma attentivo di Posner in cinque esperimenti, come la dimensione reale inferita e non retinale di un oggetto influenzi in modo significativo l’allocazione dell’attenzione visiva spaziale.

Il task proposto consisteva nell’indicare se lo stimolo presentato in un font più ridotto fosse la lettera T o la L; poco prima che la lettera fosse presentata, i partecipanti avrebbero ricevuto un cue che avrebbe indicato la direzione spaziale più probabile in cui lo stimolo target sarebbe potuto apparire come nel classico paradigma attentivo di Posner (Posner, 1980).

La novità tuttavia consisteva nella sovrapposizione allo stimolo target di un disegno di un oggetto rappresentato con una linea tratteggiata, disegno che faceva si che la lettera, target dell’esperimento, potesse apparire nella metà superiore o inferiore dell’oggetto (Collegio, Shomstein, Scotti et al., 2019).

Il task era suddiviso in due condizioni la cui unica differenza risiedeva nelle dimensioni reali dell’oggetto rappresentato dal disegno tratteggiato: nella prima condizione, le dimensioni dell’oggetto erano ridotte come nel caso di una carta di credito o un telefono cellulare, nell’altra le dimensioni aumentavo notevolmente (es. una cabina telefonica o un tavolo da biliardo).

Percezione delle dimensioni: il risultato dello studio

I risultati dello studio hanno evidenziato come i partecipanti fossero maggiormente più veloci e accurati nelle risposte per l’identificazione di quei stimoli target a cui era stato sovrapposto un piccolo oggetto rispetto a quelli che apparivano soprapposti a oggetti di grandi dimensioni, mostrando così un effetto della dimensione reale dell’oggetto supposta dai soggetti nel modulare efficacemente la quantità e la densità del focus attentivo (Collegio, Shomstein, Scotti et al., 2019).

Le conclusioni della presente ricerca hanno delle notevoli implicazioni nella comprensione di come sistema visivo mantenga la costanza delle dimensioni: mentre le dimensioni “retiniche” dell’oggetto cambiano a seconda della prospettiva e della distanza dell’osservatore, quelle reali dell’oggetto sono minimamente toccate dalla “prospettiva retinale” e influiscono notevolmente nella modulazione dell’allocazione delle risorse attentive nello spazio.

Disturbo ossessivo-compulsivo e ansia nei bambini: come distinguerli

Ottenere la diagnosi giusta per i bambini con disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è già metà dell’opera, l’altra metà consiste nell’identificare il trattamento giusto.

 

È vero che il DOC può essere difficile da diagnosticare, specialmente nei bambini. I rituali sono una parte importante di un’infanzia sana, di conseguenza spesso è difficile capire quando dovrebbero essere motivo di preoccupazione.

DOC o GAD: ne soffrono anche i bambini

La diagnosi differenziale rimane difficile a causa dei confini non chiari tra disturbi e l’alta comorbilità. Questo è certamente vero per disturbo d’ansia generalizzato (GAD) e disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) poiché condividono molteplici processi cognitivi, come la ruminazione, l’intolleranza all’incertezza e un’attenzione crescente alla minaccia. Districare tali caratteristiche cognitive e, successivamente, i meccanismi sottostanti potrebbe servire a informare le pratiche di valutazione e trattamento e migliorare le prognosi.

Sebbene si possa riscontrare in maniera evidente se un bambino soffra d’ansia, non è sempre facile distinguere tra disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo d’ansia generalizzato (GAD). Entrambi possono essere caratterizzati da ruminazione, maggiore vigilanza e intolleranza all’incertezza. Gli esperti di disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi d’ansia dovrebbero essere in grado di distinguere tra i due, ma per altri può essere piuttosto difficile. Per rendere le cose ancora più confuse, i due disordini possono anche verificarsi insieme.

DOC e GAD: lo studio sui bambini

Lo studio pubblicato su Depression & Anxiety a ottobre 2018 mira a rendere più facile la diagnosi corretta di questi due disturbi (DOC e GAD).

Lo studio ha esaminato le capacità dei partecipanti in determinati domini cognitivi per determinare se queste informazioni potessero essere utili nella diagnosi di OCD e di GAD.

I bambini coinvolti nello studio presentavano o una diagnosi di OCD o di GAD oppure nessuna delle due, quest’ultimo era il gruppo di controllo. Nessuno dei soggetti presentava sia una diagnosi di GAD che di DOC.

I partecipanti allo studio erano 28 soggetti con diagnosi di DOC, 34 con diagnosi di GAD e 65 per il gruppo di controllo. Il gruppo di controllo erano bambini che rientravano nella via di sviluppo tipica (TDC).

Sono stati somministrati i test Cambridge Neuropsychological Automated Battery (CANTAB) per confrontare le seguenti performance cognitive:

  • Working memory
  • Memoria visuospaziale
  • Pianificazione delle abilità ed efficienza
  • Flessibilità cognitiva

DOC e GAD: i risultati dello studio

I risultati sono stati interessanti. I partecipanti con disturbo ossessivo-compulsivo hanno richiesto più turni complessivi per completare i problemi a più fasi rispetto agli altri due gruppi, mentre quelli con disturbo d’ansia generalizzato avevano più probabilità di commettere errori di inversione rispetto agli altri due. Quelli con GAD hanno anche impiegato più tempo ad identificare i modelli visivi.

Sebbene quelli con DOC e quelli con GAD hanno dimostrato un funzionamento cognitivo significativamente peggiore rispetto al gruppo di controllo, i deficit cognitivi dei bambini e le difficoltà con abilità specifiche dipendevano dal tipo di diagnosi che presentavano. I bambini con disturbo d’ansia generalizzato hanno avuto maggiori difficoltà con la flessibilità mentale e l’elaborazione visiva, mentre quelli con disturbo ossessivo-compulsivo hanno mostrato capacità di pianificazione peggiori.

Questi risultati possono fornire un aiuto nel diagnosticare il DOC e GAD nei bambini. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche in futuro.

Gli autori dello studio hanno suggerito l’uso di moduli per la segnalazione dei genitori e di moduli di auto-segnalazione. Sarebbe interessante vedere i risultati del neuroimaging e altri tipi di valutazioni che misurano le stesse capacità cognitive esaminate nello studio qui discusso.

Come molti sanno è importante diagnosticare il disturbo ossessivo compulsivo il prima possibile, poiché prima può essere trattato correttamente mentre successivamente risulta profondamente radicato nella persona. Lo stesso vale per il disturbo d’ansia generalizzato, prima è meglio è. Più risulta semplice distinguere questi due disturbi l’uno dall’altro, maggiori sono le possibilità di ottenere diagnosi tempestive.

Il Disturbo Bipolare in Sylvia Plath: una vita tra genio e follia

A Sylvia Plath bastarono 31 anni per riempire la sua vita di “tutto e del contrario di tutto”, dove inferno e paradiso si alternano capricciosamente e pericolosamente.

 

Tu stai alla lavagna, papà,
nella foto che ho di te,
biforcuto nel mento anziché nel piede,
ma diavolo sempre,
sempre un uomo nero che
con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te
A venti cercai di morire
E tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.

Questa poesia è un’opera di Sylvia Plath, nata negli Stati Uniti nel 1932 e morta suicida a Londra nel 1963.

La scrittrice, oltre ad aver perso precocemente il padre, per un diabete non curato ed aver esperito un dolore lancinante che traspare in questi versi, ha da sempre avuto un rapporto con quest’ultimo del tutto disfunzionale.

Infatti la dottoressa Ruth Beuscher, la psichiatra che la teneva in cura in seguito ad un tentativo di suicidio, ha definito il padre anaffettivo, prevaricatore, deludente, abbandonante ed amante crudele della figlia. Per quanto riguarda la madre, questa era, all’opposto, invadente, fusionale, che eterodirigeva la vita della Plath, le ambizioni e la sessualità.

Sylvia Plath: infanzia difficile e perfezionismo

La Beuscher sottolinea come nella fase edipica, tutto sia andato storto e per certi versi anche la stessa Plath ne prende atto. Tuttavia è una verità piuttosto scomoda ed ingombrante da accettare per cui tenta in tutti i modi possibili di sopprimerla, rimuoverla e nasconderla.

La vita della Plath, come precedentemente affermato, è costellata “dal tutto e dal contrario di tutto”. Ciò che l’autrice portava dentro di sé riusciva benissimo ad esplicitarlo nelle sue opere, nel suo modo di scrivere, nel suo aspetto esteriore e nel rapporto con il suo uomo e i suoi figli, riproducendo con questi ultimi quanto appreso da suo padre.

Da un lato la Plath poteva apparire affascinante, in quanto curava il suo aspetto fisico, utilizzava tinture biondo platino, il rossetto rosso fuoco, scriveva, studiava e manifestava una marcata ambizione al successo. Dall’altro lato, la Plath viveva una vita all’insegna dell’eccesso e dell’estremo, caratterizzata dalla ricerca della perfezione, dal narcisismo e dalla tendenza ad autodistruggersi.

In particolare, la psiche tormentata dell’autrice era caratterizzata da una disperata ricerca di consenso, da un’eccessiva sensibilità alle critiche, dall’estremo bisogno di catturare l’attenzione di chiunque, dall’ansia di essere sempre più la più bella e la più brava. Ricercava all’esterno le attenzioni che probabilmente suo padre non le aveva mai dato.

Mentre scriveva le sue opere aveva l’abitudine di utilizzare un vocabolario di sinonimi e contrari, perchè i suoi lavori dovevano ambire ed aspirare alla perfezione. Perfezione raggiungibile attraverso la ricerca scrupolosa di parole che si addicevano “perfettamente” ai suoi versi.

Sylvia Plath: la sofferenza del disturbo bipolare

Inoltre, sono stati anche presenti, durante la sua breve esistenza, episodi depressivi e numerosi tentativi di suicidio.

In particolare gli episodi depressivi furono descritti nero su bianco, in una delle sue opere più importanti: La Campana di Vetro. Nello specifico, l’autrice scrive:

Portavo ancora la blusa bianca e la gonnellina… Erano tutte spiegazzate, perché non le avevo mai lavate nelle mie tre settimane a casa. Il cotone sudato emetteva un acre e un amichevole odore. Non mi ero nemmeno lavata i capelli per tre settimane. Non avevo dormito per sette notti.

Mia madre mi disse che dovevo aver dormito, che era impossibile non dormire per tutto quel tempo, ma se avevo dormito lo avevo fatto con un occhio aperto…

La ragione per cui non avevo lavato i vestiti o i capelli era perché mi sembrava così stupido… mi sembrava stupido lavare qualcosa, quando avrei dovuto rilavare il giorno seguente.

Mi stancava solo il pensarci. Volevo fare tutto una sola volta per tutte e finirla.

L’autrice era affetta da ciò che i manuali diagnostici oggi definiscono come Disturbo bipolare, un disturbo caratterizzato dall’alternanza di episodi maniacali o ipomaniacali e depressivi.

Sylvia Plath: l’umore altalenante

Secondo l’ottica psicoanalitica la mania è una risposta difensiva nei confronti di forti sentimenti di incompetenza, perdita e abbandono.

Probabilmente i soggetti affetti da questo disturbo, come in questo caso la Plath, manifestano sentimenti di grandiosità e di esaltazione o un’enorme energia, come una difesa inconscia per non sentirsi in uno stato di completa malinconia, disperazione e senza speranza.

Sono stati rintracciati dei tratti di personalità narcisistici. Come nel caso della scrittrice, infatti, i soggetti narcisistici respingono le sensazioni di inadeguatezza, di inutilità e sono sensibili alle critiche, cercando di farsi vedere speciali, degni di lode e superiori alla norma.

Secondo la critica letteraria Rasy, il corpo letterario della Plath (i suoi versi, le sue prose, le lettere, i suoi diari) e il suo corpo carnale (passioni, desideri, tormenti e azioni), si sono incontrati e mescolati.

Il frutto di questo incontro e mescolamento ha dato, da un lato, la possibilità alla Plath di emergere e quindi di diventare una delle più importanti scrittrici del ‘900, dall’altro ha permesso di comprendere la sua tormentata psiche.

La sua psiche era caratterizzata sia da momenti di estrema positività sia da momenti di estrema negatività dell’umore, con annessi tentativi di suicidio.

Sylvia Plath: il Disturbo Bipolare e le emozioni

Rispetto ai tempi in cui è vissuta l’autrice, le ricerche inerenti il disturbo bipolare sono aumentate, infatti recentemente è stato indagato il ruolo della emozioni nel disturbo bipolare.

Tuttavia, la maggior parte delle ricerche si sono concentrate sull’incapacità dei soggetti di gestire le emozioni “negative”. Quest’incapacità produce un peggioramento del disturbo.

Per gestione delle emozioni si intendono i modi che i soggetti hanno a disposizione per influenzare le emozioni che vivono, come le sperimentano e le esprimono.

Recentemente, è stato scoperto che i soggetti con disturbo bipolare presentano un’enorme difficoltà di gestire le emozioni “positive” e quest’incapacità contribuisce al peggioramento del disturbo.

Secondo la Friedrickson la presenza di emozioni positive, in questo disturbo, può diventare problematico, in quanto può aumentare la distraibilità, i sintomi maniacali, la dipendenza da sostanze e di gioco d’azzardo, e il rischio di mortalità; in quanto i soggetti in risposta alle emozioni positive potrebbero mettere in atto dei comportamenti pericolosi per sè stessi e per gli altri.

Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato che i soggetti con disturbo bipolare non riescono a gestire in modo efficace le loro emozioni positive, infatti tendono ad amplificarle.

L’emozione amplificata persiste e rende gli individui incapaci di esprimerla in contesti appropriati e in modo equilibrato. Infatti, tendono a mostrarsi con un umore elevato in situazioni negative o neutre.

Il disturbo bipolare e la gestione delle emozioni

Nello specifico i soggetti con disturbo bipolare, facendo riferimento al modello di Gross, utilizzerebbero le seguenti strategie di gestione delle emozioni:

  • Selezione delle situazioni: ovvero le strategie dei soggetti per influenzare le loro emozioni attraverso la scelta di situazioni da vivere e da evitare. I pazienti con disturbo bipolare mostrano una tendenza a selezionare in modo eccessivo degli obiettivi irraggiungibili e sono alla continua ricerca del piacere. La continua ricerca del piacere è dovuta ad un’eccessiva sensibilità del sistema della ricompensa, a causa di alterazioni a livello dei sistemi dopaminergici.
  • Modifica delle situazioni: ovvero tutte le strategie utilizzate dai soggetti per modificare le caratteristiche emotive di una situazione per aumentare o ridurre l’intensità delle emozioni in tempi brevi o lunghi. I soggetti con disturbo bipolare tendono a concentrarsi esclusivamente sulle informazioni e sugli stimoli positivi per aumentare l’intensità delle emozioni positive.
  • L’attenzione: tutte quelle strategie che esercitano il loro impatto primario sui processi attenti. La strategia utilizzata dai soggetti con disturbo bipolare è la ruminazione positiva, che è una riflessione più attiva e focalizzata sull’alta attivazione di emozioni e sentimenti positivi.
  • Il cambiamento cognitivo, riguarda tutte le strategie che hanno come obiettivo quello di modificare la valutazione dell’individuo di una situazione. I soggetti con disturbo bipolare tendono ad utilizzare la rivalutazione cognitiva positiva con lo scopo di aumentare le loro emozioni positive o per valutare positivamente una situazione.
  • La modulazione della risposta, infine, riguarda tutte le strategie utilizzate dai soggetti per rispondere alle emozioni. I pazienti con disturbo bipolare tendono a ricorrere all’up-regulation, quindi tenderebbero a sovra-regolarla in modo eccessivo.

Un altro importante aspetto che è emerso dalle ricerche è che questi soggetti hanno un eccessivo ottimismo, nella fase maniacale e ipomaniacale, che produce un deterioramento ed un peggioramento dei sintomi.

Questa condizione si manifesta perché i soggetti hanno un’inflessibilità del pensiero o delle credenze, che produce, a sua volta, un’inflessibilità cognitiva, che li motiva ad attribuire dei significati e dei valori emotivi alle situazioni che vivono.

L’eccessiva fiducia nei confronti di se stessi e dell’ambiente circostante e l’aver esperito eventi di vita positivi, produce un aumento della ricerca degli obiettivi e l’attivazione del sistema di approccio comportamentale (BAS).

L’effetto dell’attivazione del BAS produce: un eccessivo comportamento diretto verso l’obiettivo, aumento di energia, diminuito bisogno di sonno, ottimismo ed euforia.

Il mancato raggiungimento degli obiettivi, potrebbe implicare la disattivazione del BAS, determinando la comparsa dei sintomi depressivi, come: diminuzione dell’attività diretta all’obiettivo, diminuzione di energia, perdita di interesse, mancanza di speranza, aumento del pessimismo, tristezza e aumento del rischio di suicidio.

La tendenza a perseguire obiettivi difficili da ottenere, in combinazione con l’elevata reattività dell’umore in risposta a stimoli di successo e di ricompensa, possono essere alla base del peggioramento del disturbo.

Per concludere è possibile affermare che l’incapacità di regolare sia le emozioni negative, sia quelle positive andrebbe a produrre un peggioramento del disturbo.

Cocaina: eliminare i ricordi associati all’uso riduce il comportamento di ricerca della sostanza

Una nuova ricerca della University of Pittsburgh School of Medicine ha identificato i circuiti cerebrali che formano memorie che associano i segnali ambientali all’uso di cocaina.

 

Trattare gli individui con disturbo da uso di sostanze è una sfida ardua e mirare a queste memorie può migliorare il successo della terapia di esposizione per la prevenzione alle ricadute.

Cocaina: la ricerca sui ricordi associati all’uso

La ricerca presente mostra, infatti, come distruggere i ricordi che associano i segnali ambientali all’uso della sostanza riduce in maniera significativa, nei ratti, il comportamento di ricerca della sostanza messo in atto in un setting controllato. Nonostante i setting di ricerca non siano totalmente generalizzabili alla realtà, il risultato è comunque una potenziale strada per sviluppare terapie più efficaci per la prevenzione alle ricadute.

A seguito degli esperimenti di Pavlov sul condizionamento classico nei cani, si è riconosciuto che il cervello associa indizi ambientali specifici con i comportamenti, come ad esempio l’odore del caffè appena fatto che fa venire voglia di berne una tazza; o la vista di un serpente che induce una maggiore risposta alla paura. Rompere il link tra i segnali e i ricordi è una strategia già nota nel trattamento di fobie e PTSD, strategia denominata “esposizione”. Nonostante ciò, tale metodo non risulta efficace nel trattamento delle dipendenze. Ma perché? Perché il contesto ha la sua importanza. Ciò vuol dire che: mentre la terapia espositiva potrebbe avere alcuni effetti positivi in un setting controllato quale può essere lo studio del professionista, nel momento in cui la persona con una dipendenza affronta gli stimoli nel mondo esterno, il cervello mette in moto gli stessi neuroni associati al comportamento di ricerca della sostanza.

Cocaina: come ridurre il craving

È risaputo che il cervello forma ricordi stimolo-associati. Nonostante ciò, non sono ancora stati chiaramente identificati i circuiti specifici. In questo studio, i ricercatori identificano un tassello centrale nel puzzle delle memorie stimolo-associate e, ancora più significativo, dimostrano che eliminando quel tassello, nelle dipendenze da sostanze, è possibile invertire i comportamenti simili alla ricaduta. Lo studio è stato condotto su dei ratti, utilizzando un modello di stimoli associati alla ricaduta: ovvero, quando i ratti pressavano una leva, ricevevano un’infusione di cocaina, accompagnata da un suono e una luce. Mentre si impegnavano in suddette azioni, i ratti hanno imparato ad associare l’indizio audio-visivo all’effetto piacevole della cocaina. Hanno, poi, esibito un comportamento di ricerca della sostanza simile al craving: i ratti premevano ripetutamente la leva.

Inoltre, dopo l’esperimento, i ricercatori hanno stimolato una terapia espositiva nei ratti, mostrando ripetutamente il suono e la luce senza provvedere all’infusione di cocaina. Ciò ha condotto, alla fine, ad una diminuzione del comportamento di ricerca della sostanza. Nonostante questi risultati, la terapia espositiva nei ratti, come negli esseri umani, non ha funzionato in maniera efficace quando è stata messa in atto in un ambiente diverso da quello del setting controllato. D’altro canto, l’utilizzo di registrazioni elettriche del tessuto cerebrale dei ratti ha portato i ricercatori a mostrare che le connessioni tra il nucleo genicolato mediale – il quadro elettrico del cervello per il suono – e l’amigdala laterale sono importanti per la formazione di memorie che associano il piacere dell’assunzione della cocaina a stimoli esterni.

Cocaina: il ruolo dell’amigdala nei ricordi

L’amigdala è, infatti, la parte del cervello in cui vengono formati i ricordi emotivi. Qui si ricevono gli input sensoriali che vengono associati all’emozione che proviamo quando gli stimoli si presentano a noi. Per mostrare una connessione causale tra i ricordi stimolo-associati e il comportamento di ricerca della sostanza, i ricercatori hanno utilizzato una tecnica nota come optogenetica, dove una luce pulsante è utilizzata per controllare le cellule geneticamente modificate e per controllare i neuroni dell’esperimento precedente (condizionamento nei ratti). I ratti che hanno subito una cancellazione optogenetica dei ricordi riguardanti l’associazione cocaina-stimolo, hanno poi premuto la leva molte meno volte nel momento in cui gli si presentava lo stimolo luce-suono. La cosa notevole è che, tale riduzione del comportamento di ricerca, continuava a presentarsi anche in ambienti diversi da quello sperimentale. A lungo termine, queste scoperte potrebbero essere utili nello sviluppo di farmaci o approcci come la stimolazione cerebrale profonda per indirizzare specificamente queste memorie rafforzate dall’uso di sostanze e migliorare il successo della terapia di esposizione per prevenire le ricadute.

Mindful Interbeing Mirror Therapy. Un metodo innovativo per un nuovo approccio terapeutico integrativo sulla personalità

Da cinque anni è stata creata e sviluppata la Mindful Interbeing Mirror Therapy da Alessandro Carmelita e Marina Cirio. Questa Terapia in questi anni è stata utilizzata con tantissimi pazienti dando risultati molto promettenti.

 

La Mindful Interbeing Mirror Therapy rappresenta un approccio integrativo delle parti di personalità, allo scopo di rafforzare una parte compassionevole, in relazione con la parte emotiva, sofferente, portatrice di esperienze traumatiche.

Alessandro Carmelita e Marina Cirio

 

Negli ultimi anni diversi approcci psicoterapeutici si sono interessati allo studio dello sviluppo della personalità, sottolineando il ruolo delle relazioni d’attaccamento, delle esperienze traumatiche precoci e della dissociazione nella costruzione del Sé. Molto risalto è stato dato alla definizione delle parti della personalità nei pazienti che hanno subito traumi e che presentano sintomatologie gravi, come i disturbi di personalità o il PTSD.

In linea con questi contributi, molti interventi terapeutici si focalizzano oggi sull’integrazione delle parti dissociate in un Sé coeso, e la relazione terapeutica assume un ruolo centrale nella riparazione degli stati dissociati conseguenti a traumi relazionali più o meno gravi e precoci.

La Mindful Interbeing Mirror Therapy (MIMT) può rappresentare un approccio innovativo nel panorama delle psicoterapie di ultima generazione, accomunate dalla focalizzazione sull’asse integrazione/dissociazione della personalità. Presentata per la prima volta al congresso internazionale di Schema Therapy ad Amsterdam nel maggio 2018, la Mindful Interbeing Mirror Therapy si caratterizza per il particolare metodo di intervento: paziente e terapeuta sono posti entrambi davanti allo specchio, e interagiscono attraverso la loro immagine riflessa. Ma oltre a questo, è definita da un modello teorico di riferimento specifico. Possiamo così sintetizzare i principi cardine di questo modello:

  • lo specchio come veicolo di ricostruzione del sé individuale e relazionale
  • la terapia come occasione di riparazione e ricostruzione del sé integrato
  • la compassione come ingrediente fondamentale nell’integrazione intrapsichica e relazionale
  • la dissociazione controllata come catalizzatore nell’attivazione delle parti

Costruzione del sé: il riconoscimento allo specchio nello sviluppo

Il riconoscimento della propria immagine allo specchio è associato al processo di costruzione dell’identità (per una rassegna, v. Moro, Pernigo, 2006). La capacità del bambino di riconoscere la propria immagine allo specchio, intorno ai due/tre anni, si sviluppa di pari passo con un senso di coerenza interna e con la costruzione di un senso di sé unitario e distinto dagli altri, favorito anche dallo sviluppo graduale della memoria autobiografica (Fivush e Graci 2017, Markowitsch e Staniloiu, 2011).

Il riconoscimento del proprio volto riflesso nello specchio, inoltre, attiva zone specifiche dell’emisfero destro, deputato al riconoscimento di sé, così come è implicato nel riconoscimento dei volti umani e nell’elaborazione del flusso di informazioni emotive presenti in una comunicazione interattiva (Schore, 2016). Se nello sviluppo individuale il processo di costruzione di sé parte dal riconoscimento allo specchio, possiamo pensare che lo specchio sia un ottimo campo da gioco per lavorare sull’integrazione delle parti di Sé, un modo efficace per ricostruire un sé completo, integrato e coeso al suo interno. Una psicoterapia indirizzata alla ri-costruzione del sé e al rafforzamento delle funzioni integrative di coscienza può migliorare la propria efficacia utilizzando lo specchio in modo consapevole, riattivando le aree coinvolte nel riconoscimento di sé e nel processo di costruzione della propria identità.

La dimensione relazionale nello specchio

Oltre a partecipare al processo di costruzione del sé, il riconoscimento allo specchio attiva nell’individuo una dimensione relazionale, in cui l’individuo è contemporaneamente oggetto e soggetto. Di fronte allo specchio realizziamo di esistere in uno spazio intersoggettivo, vedendoci come gli altri possono vederci, poiché si attivano le aree dell’emisfero destro coinvolte nel riconoscimento delle emozioni altrui (Schore, 2016 ).

L’osservazione del proprio volto, e delle proprie emozioni veicolate dalle espressioni facciali, sembra produrre una reazione inconscia e immediata di risposta empatica all’espressione facciale riflessa nello specchio. Come spiega l’ipotesi del “contagio emotivo” (Sonnby- Borgstrom, 2002; Caputo, 2010; Hsee, Hatfield, Carlsson e Chetomb, 1990), gli esseri umani tendono a mimare gli aspetti verbali, fisiologici e comportamentali dell’esperienza emotiva di un’altra persona, sperimentando così la stessa emozione. La mimica facciale rappresenta un aspetto fondamentale di questo fenomeno. Di fronte allo specchio, il fenomeno di contagio emotivo risulta amplificato, grazie ad un feedback continuo tra l’espressione del viso e l’immagine riflessa. La risposta connessa all’osservazione del proprio volto porta automaticamente e inconsapevolmente a modificazioni nella mimica che vengono riflesse nello specchio e producono una sorta di contagio emotivo in cui il soggetto si trova in un circuito chiuso di connessione empatica con la propria immagine riflessa (Caputo, 2010).

Lo specchio rappresenta quindi un contesto privilegiato in cui si attivano contemporaneamente, in modo amplificato, aspetti emotivi, neurofisiologici e cognitivi legati allo sviluppo del sé e alla dimensione relazionale, intersoggettiva dell’individuo. Una relazione terapeutica condivisa entro questa cornice può usufruire delle enormi potenzialità comprese nell’utilizzo di questi aspetti.

La relazione terapeutica: sintonizzazione momento per momento

A partire dagli studi di Porges (2014) sull’attivazione del sistema di ingaggio sociale nelle relazioni significative, e quindi anche nella relazione terapeutica, troviamo diversi dati a sostegno dell’importanza della connessione momento per momento tra gli stati emotivi del paziente e del terapeuta nel determinare l’esito di un processo terapeutico (Schore, 2016).

La capacità di esprimere le proprie emozioni, presente poche ore dopo la nascita (Meltzoff, Moore, 1977), unita alla scoperta dei neuroni specchio, danno sostegno all’ipotesi dell’intersoggettività come condizione intrinseca, incarnata dell’essere umano (Ammaniti, Gallese, 2014). Analogamente, Schore (2005) definisce la relazione terapeutica come una relazione tra emisferi destri, in cui il terapeuta svolge la funzione regolativa emotiva propria della madre nella relazione madre – bambino, vale a dire la sintonizzazione del proprio stato emotivo con quello dell’altro, e la riparazione interattiva per la regolazione degli stati emotivi negativi. I segnali relazionali non verbali sono veicolati dall’emisfero destro e si strutturano quindi ad uno stadio precoce di sviluppo, pre-linguistico e pre-cognitivo, definendo i contenuti della memoria procedurale implicita, vale a dire il nucleo del senso di un sé coerente, prerequisito per lo sviluppo dell’identità.

La relazione terapeutica è quindi una relazione emotivamente significativa, in cui la maggior parte degli scambi interpersonali avviene ad un livello implicito, emotivo, parallelamente alla comunicazione verbale, consapevole e narrativa. In quest’ottica, la comunicazione emotiva del terapeuta assume una rilevanza innegabile. Segnali come lo sguardo, l’espressione facciale, la mimica, le variazioni nella postura arrivano velocemente e non intenzionalmente al paziente, contribuendo alla creazione di una relazione più o meno sicura (Schore, 2016).

La capacità di comprendere lo stato emotivo di una persona attraverso l’imitazione delle espressioni facciali rappresenta la prima fase dell’attivazione dei neuroni specchio. La fase successiva è quella in cui la persona, avendo “acceso” in sé le stesse zone corticali e sperimentando un’attivazione emotiva e fisiologica simile, si pone in posizione di cura nei confronti dell’altro (Gallese, 2003).

La capacità di rispecchiare lo stato emotivo dell’altro viene sperimentata nella relazione d’attaccamento e condiziona il processo di costruzione del sé. Quando il caregiver non è in grado di rispecchiare efficacemente gli stati interni del bambino, il senso di sé che il bambino svilupperà sarà meno coeso e meno integrato. Per questo un intervento terapeutico efficace deve prevedere la riparazione al mancato rispecchiamento, a partire proprio dal contatto visivo. E il contatto visivo è uno degli elementi cardine della Mindful Interbeing Mirror Therapy.

La compassione nella relazione terapeutica e la self-compassion

La Mindful Interbeing Mirror Therapy permette al paziente di essere costantemente in una relazione consapevole e focalizzata con se stesso, e nello stesso tempo con il terapeuta, che svolge la funzione di contenimento, guida e ancoraggio emotivo nell’esplorazione delle diverse parti di sé e in relazione tra loro.

Lo stato emotivo che il paziente sperimenta nei confronti della propria immagine rappresenta la relazione che ha in quel momento con la propria idea di sé e la possibilità di sviluppare un sentimento di compassione rappresenta uno degli obiettivi del percorso terapeutico della Mindful Interbeing Mirror Therapy. Il terapeuta può essere lo strumento per favorire lo sviluppo della self-compassion, sempre attraverso la condivisione dello sguardo attraverso lo specchio. Il terapeuta, esprimendo autentica connessione con lo stato del paziente, lo aiuta ad entrare in una relazione compassionevole con la propria immagine riflessa, diventando veicolo e facilitatore del processo di integrazione tra una parte sana, compassionevole, e una parte emotiva, sofferente. Il paziente può sperimentare il passaggio emotivo fondamentale dal disgusto per la propria immagine alla tenerezza e amore per sé.

La maggior parte delle informazioni veicolate dall’emisfero destro nella comunicazione intersoggettiva passa attraverso le espressioni del viso e il contatto oculare, così come gli elementi preverbali del linguaggio sembrano attivare la memoria procedurale implicita connessa alla relazione d’attaccamento, rendendo sia il paziente che il terapeuta aperti e ricettivi rispetto a contenuti emotivi significativi. Utilizzare in terapia gli aspetti non verbali, soprattutto il contatto visivo, in modo molto più consapevole all’interno del percorso di cura rende più potenti e più veloci quei momenti di incontro tra paziente e terapeuta che rappresentano il fulcro della relazione terapeutica. E sono questi momenti di incontro a determinare i cambiamenti più profondi e duraturi nella regolazione emotiva del paziente.

La dissociazione controllata come strumento terapeutico

Un altro aspetto importante utilizzato nella procedura MIMT è il raggiungimento di uno stato di dissociazione controllata, in cui il soggetto osserva un punto specifico nello specchio per un certo periodo di tempo. Questo fenomeno è differente dai processi inconsci coinvolti nei disturbi dissociativi dell’identità. Come dimostra la pratica clinica, l’utilizzo di questa tecnica permette di accedere ad un livello di dissociazione controllata e consapevole in cui emergono contenuti relativi al sé che normalmente rimangono ad un livello sottocorticale, inconsapevole.

Lo specchio può produrre un senso di alienazione e favorire un certo grado di dissociazione, quindi, in cui l’individuo è soggetto e oggetto contemporaneamente, e questo stato di coscienza lievemente alterato può risultare molto produttivo in terapia (Caputo, 2014). Quando il paziente rimane entro la finestra di tolleranza, integra in modo più efficace stimolazioni interne ed esterne (Ogden, 2012; Siegel, 2013). Diventa più facile lavorare con le parti distinte della personalità del paziente, definendole e differenziandole, per poi integrarle in un sé più armonico e coeso, anche in virtù del fatto che il riconoscimento di sé allo specchio è collegato, a livello neuronale, al processo di costruzione del Sé.

La Mindful Interbeing Mirror Therapy rappresenta un approccio integrativo delle parti di personalità, allo scopo di rafforzare una parte compassionevole, in relazione con la parte emotiva, sofferente, portatrice di esperienze traumatiche.

La possibilità di visualizzare contemporaneamente paziente e terapeuta nello specchio può avere un effetto molto incisivo, poiché il paziente ha la possibilità di legare l’immagine di sé e del terapeuta all’esperienza emotivamente significativa rappresentata dalla seduta e dal percorso psicoterapeutico.

La procedura

Muovendosi lungo i binari degli aspetti menzionati prima, abbiamo costruito un protocollo di intervento strutturato e preciso, in cui il paziente viene guidato dal terapeuta nel percorso di fronte allo specchio, allenandosi ad entrare in uno stato di dissociazione controllata che favorisce l’emergere di contenuti inconsci, e focalizzandosi sulla relazione con la propria immagine nel qui ed ora. L’intervento terapeutico si struttura anche sullo sviluppo del sé, e quindi sul senso di appartenenza e di coerenza interna tra gli eventi di vita del passato, su cui il paziente ha costruito la propria identità, e il momento attuale, rappresentato dall’ immagine riflessa nello specchio.

Il protocollo MIMT prevede un intervento specifico e differenziato nei confronti delle diverse parti della personalità. È l’immagine riflessa del paziente che rappresenta l’attivazione e il passaggio da uno stato dell’io all’altro nel corso della seduta. Il terapeuta, insieme al paziente, osserva il cambiamento e registra l’attivazione delle diverse parti, favorendo l’accesso alla parte emotiva.
Ogni parte della personalità trova spazio all’interno della cornice dello specchio e il terapeuta, anch’egli all’interno della stessa dimensione, interviene in modo differenziato. Si lavora sull’attivazione momento per momento, ma si lavora anche sulla ricostruzione della propria storia, a partire dalle prime fasi di vita, sia ad occhi aperti che in immaginazione.

Obiettivo della terapia è la costruzione di una relazione compassionevole tra la parte sana del paziente e la parte sofferente, emotiva. Allo stesso modo, la capacità di provare compassione viene estesa alla dimensione relazionale, lavorando momento per momento sulla relazione terapeutica e, gradualmente, sulla generalizzazione alla vita del paziente.

Riteniamo che questo utilizzo dello specchio in terapia possa rappresentare un punto di svolta importante nel metodo di intervento terapeutico, proprio per le peculiarità sopra descritte. Ciò che ci rende forti e sicuri in questa convinzione non è tanto un’aprioristica adesione a modelli teorici, peraltro importanti e fondati, ma una pratica clinica sviluppata negli ultimi cinque anni, che ha portato a risultati per noi altamente promettenti.

Ehi Franco – L’omaggio musicale a Franco Basaglia del duo Psicantria

La canzone Ehi Franco è stata scritta dal duo Psicantria per raccontare e celebrare la figura di Franco Basaglia in occasione dei 40 anni della Legge 180. E’ un brano che racconta quello che Basaglia ha fatto e cosa ha rappresentato per la psichiatria, ripercorrendo le tappe salienti della sua storia e le sue battaglie. Contiene riferimenti anche al mondo di oggi dove siamo iperconnessi, ma purtroppo ancora pieni di pregiudizi. Il video è stato realizzato dal regista Lillo Venezia in collaborazione con Rosa Bianca (www.rosabiancaonlus.org), associazione modenese che si occupa dell’Inserimento Eterofamigliare Supportato di Adulti con disagio psichico (IESA).

 

Ehi Franco. Il testo della canzone

Ehi Franco sono stati 40 anni forti e intensi
Da quando hai fatto aprire quei cancelli
Saltando in sella a Marco Cavallo

Gorizia, non solo un’ospedale di frontiera
Un luogo di oppressione, una galera
Ma uno spazio per far crescere le idee

Franco e la passione per la filosofia
Lo sguardo più al malato che alla sua malattia
Le notti in bianco a scrivere su un’Olivetti azzurra

Heiddeger e Gramsci ma cos’è la psichiatria
Strumento di controllo o pura ideologia
Aprirsi ad un confronto con qualcuno che è diverso

Si sognava da svegli senza l’illusione

Che l’Italia vivesse una rivoluzione
Aria di libertà senza contenzione
Non era un delirio un’allucinazione

Caro Franco è la storia dicono a dare ragione
Ma la dignità ridata alle persone
E quel po’ di follia per cambiare le cose
Ce l’hai messa tu
Ce l’hai messa tu

E nel mondo finalmente per qualcosa siamo i primi
Non solo per spaghetti e mandolini
O per combinar grandi casini

Trieste il deserto si riempie di colori
Il silenzio lascia il posto a nuovi suoni
A una comunità che viene fuori

Franco e la battaglia sul pericolo sociale
Il matto ti spaventa può mandarti all’ospedale
Pensare alla violenza come attributo naturale

Tornare cittadini, il diritto di votare
Siamo tutti appesi a un filo, ma nessuno è da legare
Il diritto di curarsi e quello di star male

Si sognava da svegli senza l’illusione
Che l’Italia vivesse una rivoluzione
Aria di libertà senza contenzione
Non era un delirio un’allucinazione

Caro Franco è la storia dicono a dare ragione

Ma la dignità ridata alle persone
E quel po’ di follia per cambiare le cose
Ce l’hai messa tu
Ce l’hai messa tu

Hey franco
E oggi che chiunque può parlare
Tutti hanno un profilo da mostrare
Il silenzio è quasi fuori dal normale

Siam connessi
Sulla carta abbiamo fatto dei progressi
Ma in fondo Siam più soli e meno umani
Facciamo finta di essere più sani

Ma il pregiudizio quello purtroppo è ancora forte
La mente ha come delle grandi porte
Che qualcuno tiene chiuse bene a chiave
Che qualcuno tiene chiuse bene a chiave
E chissà se l’han buttata via la chiave

 


Credits

Testo e musica di Gaspare Palmieri e Cristian Grassilli
Arrangiamento: Lorenzo Mantovani
Regia: Lillo Venezia
Fotografia: Piernicola Arena
Animazioni: Riccardo Calabrese

Organizzatore generale: Francesco Neri

Contrastare il fenomeno del bullismo omofobico: il possibile ruolo della Psicologia della Salute

Il bullismo omofobico può manifestarsi in diversi modi: vi possono essere comportamenti di tipo verbale (deridere insultare, prendere in giro ripetutamente o minacciare una violenza fisica), prepotenze indirette (come escludere qualcuno dai gruppi di aggregazione), violenze fisiche a sfondo sessuale, fino a violenze sessuali di gruppo.

 

Secondo un’indagine effettuata dall’Agenzia Internazionale per i Diritti Fondamentali nel 2009, l’attuale situazione sociale per lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender (LGBT) rappresenta un problema per l’Unione Europea. Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender sono vittime di discriminazione, bullismo e molestie in tutta l’UE. Tutto ciò spesso si traduce in affermazioni umilianti, ingiurie, insulti, nell’utilizzo di un linguaggio offensivo nonché, cosa che suscita maggiori preoccupazioni, in aggressioni fisiche. Come hanno mostrato i risultati dell’indagine Eurobarometro sulla discriminazione, condotta nel luglio 2008, in media oltre la metà dei cittadini dell’UE ritiene che la discriminazione basata sull’orientamento sessuale sia diffusa nel proprio paese.

La discriminazione, l’omofobia e la transfobia incidono sull’esistenza e sulle scelte delle persone LGBT in tutti gli ambiti della vita sociale. Fin dai loro primi anni, gli epiteti dispregiativi utilizzati nei confronti di gay e lesbiche all’interno delle scuole insegnano loro a rimanere invisibili. Spesso sono vittime di molestie e discriminazione sul posto di lavoro; in molti paesi non hanno modo di tutelare giuridicamente il proprio rapporto di coppia; di rado si riscontrano rappresentazioni positive delle persone LGBT nei media; quando hanno bisogno di cure per se stessi o per il loro partner, esitano a rivelarsi in contesti in cui si dà per scontata l’eterosessualità; nelle case di riposo è scarsa la comprensione e la consapevolezza delle loro esigenze. E nel caso in cui si tratti di rifugiati in cerca di asilo dalla persecuzione che subiscono in paesi terzi a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere, le loro parole vengono spesso messe in dubbio o, cosa peggiore, vengono semplicemente respinti, anche se nel paese che hanno lasciato l’omosessualità costituisce un reato punito con la pena di morte.

In questo stesso report è stato messo in evidenza come in tutta l’UE si possano riscontrare episodi di bullismo e molestie nei confronti delle persone LGBT all’interno degli istituti scolastici. L’ omofobia e la transfobia verbali sono all’ordine del giorno e il termine “gay” è comunemente utilizzato in modo dispregiativo. Il bullismo e le molestie hanno conseguenze significative per i giovani LGBT, influenzandone il rendimento scolastico e il benessere. Tali esperienze possono condurre all’emarginazione sociale, a cattive condizioni di salute o all’abbandono della scuola. La ricerca esistente e le interviste con le ONG per i diritti delle persone LGBT, dimostrano che le autorità scolastiche in tutta l’UE prestano poca attenzione all’omofobia e al bullismo omofobico. La ricerca, inoltre, dimostra che gli insegnanti non possiedono la consapevolezza, gli stimoli, le abilità e gli strumenti per riconoscere e affrontare tali problemi.

L’obiettivo che qui ci proponiamo di perseguire, è l’analisi della condotta omofobica, del bullismo e delle possibiltà di contrasto a questi dilaganti fenomeni sociali, nella cornice teorico-applicativa della Psicologia della Salute.

Il bullismo omofobico

La parola “bullismo” rappresenta la traduzione letterale del termine “bullying”, comunemente utilizzato nella letteratura internazionale per descrivere il fenomeno delle prepotenze tra pari, in contesti di gruppo quali ad esempio quello scolastico. Il bullismo consiste in atti di aggressione perpetrati in modo persistente e organizzato secondo un determinato copione relazionale, ai danni di uno o più compagni di scuola che non hanno la possibilità di difendersi a causa dell’asimmetria di status o potere (Prati, Coppola & Saccà; 2010). Come l’aggressività, può manifestarsi mediante tre principali modalità: può essere, infatti, di tipo fisico, includendo atti di vessazione fisica, materiale o sottrazione di proprietà; di tipo verbale, che si sostanzia in modo diretto attraverso insulti di vario genere, derisione o diffusione di maldicenze; di tipo manipolativo/relazionale, volto cioè a colpire i rapporti di amicizia della vittima, con l’obiettivo di isolarla.

In linea generale, i ricercatori che si sono occupati dello studio di questo fenomeno, sono concordi sul fatto che si possa parlare di bullismo quando sono soddisfatti tre criteri (Fonzi, 1997; Fedeli, 2007): intenzionalità (permette di distinguere un comportamento involontario da un’aggressione deliberata), sistematicità (nella dimensione comportamentale tende a ripetersi con una certa organizzazione) e relazionalità (prima ancora che rapprasentare un insieme di comportamenti aggressivi, il bullismo è un atto relazionale per mezzo del quale il bullo soddisfa il proprio desiderio di vessazione nei confronti di uno o più coetanei). Attraverso queste tre modalità, il bullismo viene generalmente esercitato ai danni di persone appartenenti a gruppi socialmente stigmatizzati (persone affette da obesità, disabilità, appartenenti a minoranze sessuali o etniche).

Per quanto riguarda il contesto italiano, solo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso le scienze sociali e psicologiche hanno iniziato a guardare al fenomeno con una certa attenzione. Diverse sono state le indagini che hanno confermato la presenza di gravi fenomeni di prepotenza nella scuola italiana (Fonzi, 1997). Da uno studio condotto nel 2006 (Fonzi, 2006) sulle scuole di otto regioni italiane, è emerso che 4 alunni su 10 nella scuola elementare, e 8 alunni su 10 nella scuola media, sono stati vittime di bullismo da parte dei pari.

Le forme di bullismo basate sul disperezzo dell’omosessualità possono anch’esse manifestarsi in diversi modi: vi possono essere comportamenti di tipo verbale (deridere insultare, prendere in giro ripetutamente o minacciare una violenza fisica) o, in taluni casi, prepotenze indirette, come escludere qualcuno dai gruppi di aggregazione; vi possono essere violenze fisiche a sfondo sessuale, fino a violenze sessuali di gruppo (Prati Pietrantoni, Buccoleri & Maggi, 2010).

Il bullismo omofobico riguarda tutti gli atti di prepotenza e abuso che si fondano sull’ omofobia, rivolti a persone percepite come omosessuali o atipiche rispetto ai convenzionali ruoli di genere. Questo fenomeno riguarda in misura maggiore i maschi per due ragioni. Prima di tutto i maschi sono più omofobi, in quanto il ruolo di genere maschile è definito in modo più puntuale e le sue deviazioni sono maggiormente sanzionate nella nostra società. L’essere gay viene erroneamente associato al non essere uomini, per cui l’omosessualità va a costituire una minaccia all’identità sessuale maschile; in secondo luogo il bullismo, come fenomeno sociale più ampio, risulta essere prevalentemente presente all’interno del genere maschile (Prati, Pietrantoni & Saccinto, 2016). In generale le ricerche hanno mostrato che gli adolescenti omosessuali o bisessuali tendono a riportare di aver subito maggiori episodi di molestie e violenze rispetto ai pari eterosessuali (Prati et al., 2009; Prati et al., 2010). Per esempio, è emerso che tra gli studenti gay, lesbiche o bisessuali, l’81% aveva subito frequenti aggressioni verbali, il 38% minacce di violenza, il 16% molestie sessuali, il 15% aggressioni fisiche e il 6% aggressioni con un’arma (D’Augelli, 2002). Le vittime di bullismo omofobico nelle scuole italiane sembrano essere numerose. Un recente studio condotto su un campione di circa 900 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, di diverse parti d’Italia, ha mostrato che circa uno studente su 20 (in maggioranza maschi) è stato vittima di bullismo omofobico nei mesi precedenti la conduzione dell’indagine (Prati 2010).

In quest’ottica si delinea la centralità rivestita dall’istituzione scolastica nel creare le condizioni per un clima di rispetto e apertura nei confronti delle diversità sessuali. Non si tratta di una scelta improvvisata, quanto del risultato di un percorso che si concretizza nell’attuazione di specifiche linee politico-istituzionali ed educative.

Nelle scuole italiane gli interventi strutturati di prevenzione o riduzione del bullismo omofobico sono spesso inglobati all’interno di progetti più vasti che affrontano il bullismo in generale, l’educazione alle diversità, l’educazione sessuale o socio-affettiva. Prati e colleghi (2009) distinguono tre modelli di interventi educativi sulle tematiche dell’omosessualità/omofobia e del bullismo omofobico:

  1. il modello del silenzio, in base al quale l’omosessualità rimane un argomento tabù, troppo delicato, inaffrontabile (si assume che tutti siano eterosessuali);
  2. il modello dell’uguaglianza/diversità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con altri progetti sulle differenze e le diversità, volti ad aumentare l’inclusione sociale e l’equità (a volte anche nei rari percorsi di educazione sessuale);
  3. il paradigma della sicurezza/ legalità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con quelli volti a contrastare la violenza e il bullismo e a tutelare la sicurezza personale e la legalità.

Se il primo paradigma perpetua eterosessismo e omofobia, anche il secondo e il terzo possiedono punti di forza e punti di criticità. Gli interventi educativi ispirati al paradigma della diversità/uguaglianza potrebbero essere problematici perché con l’intento di “normalizzare”, evitano di menzionare la variabilità di pratiche, stili di vita e forme socializzative delle persone LGBT. Secondo gli autori, gli interventi educativi che si ispirano al paradigma della sicurezza/legalità potrebbero invece focalizzarsi sul ruolo di gay come vittime, trascurando la resilienza e le strategie di fronteggiamento attive intraprese da chi vive una condizione di marginalità e ostilità sociale.

La psicopromozione nella scuola

Negli anni ’70 del secolo scorso la Psicologia della Salute si afferma formalmente come disciplina con uno statuto autonomo, attraverso la nascita e la costituzione della divisione di “Health Psychology” all’interno dell’ American Psychological Association (APA). In quella stessa sede, nel 1980, ne fu data una definizione e chiariti scopi e obiettivi: “La psicologia della salute è l’ insieme dei contributi specifici (scientifici, professionali, formativi) della disciplina psicologica, miranti” (Bertini, 2012):

  • alla promozione e mantenimento della salute;
  • alla prevenzione e trattamento della malattia;
  • all’identificazione dei correlati eziologici, diagnostici della salute, della malattia e delle disfunzioni associate.

Il tema specifico della promozione, che rappresenta in linea generale l’impalcatura e la finalità massima del “Modello Salute”, viene così definito nella conferenza di Ottawa del 1986:

La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana e non come il fine della vita. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere.

Alla luce di quanto fin qui detto, potrebbe risultare utile chiedersi in che misura, e attraverso quali modalità, la Psicologia della Salute possa rispondere al complesso problema del bullismo omofobico nel contesto scolastico.

Secondo Mario Bertini (2012), docente della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università di Roma “Sapienza”, nonché massimo esponente della psicologia della salute nel contesto scientifico italiano:

[…] la scuola come dimensione contestuale complessa, dove passano indistintamente tutti i cittadini e in un arco di età relativamente significativa (…), offre migliori opportunità di affrontare il tema della promozione del benessere. A differenza degli interventi di terapia o di prevenzione, l’approccio sistematico di promozione veicola un messaggio di grande significato: un’assunzione di responsabilità della scuola nell’assecondare lo sviluppo individuale e sociale di tutti gli alunni, dalla “materna” alla “secondaria superiore”.

Nel corso degli anni, diverse agenzie internazionali in collaborazione con l’OMS, hanno stilato delle linee guida che connoterebbero a chiare lettere quelle scuole che potremmo definire ad approccio psicopromotivo. A livello europeo, i seguenti valori fondamentali sono stati riconosciuti come i valori alla base dell’approccio delle cosiddette Scuole che Promuovono Salute:

  • Equità. Un accesso equo per tutti all’istruzione e alla salute.
  • Sostenibilità. Salute, istruzione e sviluppo sono correlate tra loro, con attività e programmi implementati in modo sistematico nel lungo periodo.
  • Inclusione. La diversità viene valorizzata. Le scuole sono comunità di apprendimento nelle quali tutti si sentono accolti e rispettati.
  • Empowerment. Tutti i membri della comunità scolastica sono coinvolti attivamente.
  • Democrazia. Le Scuole che Promuovono Salute si fondano sul valore della democrazia.

Tendenzialmente, la promozione della salute nel contesto scolastico mira a due obiettivi fondamentali: migliorare il rendimento scolastico (studenti «in salute» hanno maggiori probabilità di imparare in modo più efficace) e facilitare l’attuazione di azioni in favore della salute, attraverso lo sviluppo di conoscenze e competenze in ambito cognitivo, sociale e comportamentale (gli studenti possono imparare a scuola stili di vita più salutari, abilità personali e sociali, che poi possono mettere in pratica, nella propria vita, per migliorare la propria salute).

In un clima sociale, come quello attuale, dove la cultura e l’istruzione si innestano in una dimensione esistenziale (individuale e sociale) ben più ampia della mera trasmissione delle conoscenze, promuovere la salute a scuola richiede un approccio globale, che includa:

  1. un’educazione alla salute di tipo partecipativo e orientata all’azione;
  2. lo sviluppo di politiche scolastiche che promuovano la salute e il benessere (documenti e prassi condivise da ogni singola scuola, che divengano parte integrante della sua identità);
  3. lo sviluppo di un sano ambiente scolastico fisico e sociale: edifici, aree verdi, relazioni tra il personale stesso e tra il personale e gli studenti, etc;
  4. lo sviluppo di competenze personali e sociali trasversali, comuni a tutti i possibili temi riguardanti la salute;
  5. lo sviluppo di competenze utili per la vita (life skills);
  6. la creazione di legami efficaci con la famiglia e la comunità (istituzioni, enti locali, associazioni, servizi sanitari, ecc…).

In questa rinnovata e attualissima cornice contestuale, fatta di nuovi bisogni e nuovi scenari, vanno ad inserirsi interventi di psicopromozione (o, per meglio dire, di salutogenesi) molto importanti ed efficaci, quali ad esempio le Life Skills Education.

Le “Life Skills Education” come intervento proprio della Psicologia della Salute: quale utilità per il contrasto al bullismo omofobico nelle scuole?

Agli inizi degli anni ’90, l’OMS definisce le Life Skills come “competenze di vita” e “per la vita” che consentono di gestire efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana, e possono quindi essere considerate alla radice di ogni processo di sviluppo e, quindi, di promozione della salute (Bertini, 2012).

Il termine Life Skills (LS) viene generalmente riferito ad una gamma di abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul piano individuale che sociale. Contiene un ancoraggio pragmatico, orientato all’operazionalità (skills), ma con un’apertura di orizzonte assai ampio (life) che consente di riflettere sul significato di queste abilità, rispetto alla loro matrice originaria e alla loro finalità biopsicosociale (Bertini, Braibanti & Gagliardi; 2006).

Nell’ ultimo ventennio, diversi studi hanno messo in luce la correlazione esistente tra le differenze socioeconomiche e la salute sociale e personale (Coburn, 2000; Wilkinson, 1999; Weick, 1999; Zani & Cicognani, 2000), segnalando inoltre che il rapporto tra reddito e salute risulta mediato dalla qualità delle relazioni sociali e da tutti quegli “strumenti” che permettono ai soggetti di accedere alle risorse sociali per la salute. Complessivamente, questo scenario ci induce a ritenere indispensabile un’attenzione formativa, da parte dell’istituzione scolastica, alle competenze psicosociali. Tale compito, nel panorama internazionale dell’istruzione, viene generalmente affidato alle Life Skills Education (LSE), che possono trovare nella scuola il contesto di implementazione più consono e fertile. Le LS trovano spazio e si possono esaminare in tutti i contesti di sviluppo e di relazione. Esse, tuttavia, sollecitano nei contesti di apprendimento un impegno specifico che mette in luce l’intreccio tra gli aspetti cognitivi e tutte le altre dimensioni psicosociali dello sviluppo.

Al di là della rappresentazione delle singole abilità nei processi educativi, l’approccio generale delle LS nella scuola trova fondamento nei recenti studi sulla socializzazione, secondo i quali l’attuale formulazione didattica non appare più adatta a sostenere i rapidi mutamenti della nostra società, mentre occorre riservare molto spazio allo sviluppo e alla capacità dei soggetti di rispondere come individui e orientarsi in modo adattivo e co-costruttivo ad un contesto di valori complessi e spesso contraddittori (Bertini, Braibanti & Gagliardi, 2006). La prospettiva delle LSE si basa su un dimensione educativa olistica che fa propri i pilastri teorico-applicativi della psicologia della salute, ovvero: l’approccio dinamico-evolutivo (cammino di sviluppo in cui domina il cambiamento), l’approccio sistemico (lo studente cresce nella misura in cui tutte le altre componenti crescono) e l’approccio co-costruttivo (riconoscimento delle competenze di ciascuna componente, diversamente motivata alla realizzazione degli obiettivi).

Nei programmi LSE, che possono essere sviluppati all’interno di interventi di promozione, protezione e prevenzione, vengono individuate 5 aree o competenze di vita:

  1. pensiero creativo e pensiero critico;
  2. comunicazione efficace e relazioni interpersonali;
  3. autoconsapevolezza e empatia;
  4. gestione delle emozioni e gestione dello stress;
  5. capacità di prendere decisioni e capacità di risolvere i problemi.

L’obiettivo dei programmi di intervento LSE è di aiutare ogni scuola ad elaborare una definizione di sviluppo personale e sociale nonché, una gamma equilibrata di attività e abilità multivalenti che dimostrino una coerente evoluzione interna e senso di continuità. Pertanto, per il raggiungimento di quest’ obiettivo, tali programmi propongono alle scuole di partire dalla piramide dei bisogni, di fare costantemente riferimento al modello di sviluppo LS e, in fase operativa, di ricorrere ai diversi materiali didattici, come guida essenziale e pratica per realizzare, all’ interno dell’ attività educativa, percorsi di sviluppo delle competenze psicosociali (Bertini, Braibanti & Gagliardi; 2006).

Nel modello “Competenze di vita” l’obiettivo può essere raggiunto, se tutte le componenti del sistema scolastico (studenti, insegnanti, organizzazione scolastica, famiglia e comunità) vengono coinvolte direttamente nel processo stesso, riconoscendone la piena importanza in qualità di agenti propositivi di cambiamento.

Sulla base di quanto fin qui detto, quello che in ultima istanza appare chiaro è che le LSE, nate come risposta flessibile e peculiare alla complessificazione dei bisogni della nostra società e dell’istituzone scolastica con tutti i suoi attori, risultano oggi uno degli strumenti di psicopromozione più adeguato per il contrasto al bullismo omofobico nel sistema scolastico. In tal senso quindi, non sarebbe del tutto illogico immaginare una Psicologia della Salute che, per mezzo dell’istituzione scuola e del modello LSE, possa assurgere all’arduo ma lungimirante compito di porre le basi per una società migliore, fatta di cittadini capaci di essere in armonia con se stessi e con gli altri, consapevoli del proprio ruolo e della propria importanza nel mondo.

I super eroi senza super poteri! L’idealizzazione della genitorialità

Idealizzare la genitorialità e i ruoli interni ad essa aumenta il senso di colpa nel caso in cui il nostro “super eroe” non risponda ad essi. Ma se è vero che i bambini imparano per imitazione, vogliamo davvero non insegnarli il valore della fragilità?

 

Essere genitore è un’impresa difficile, un’avventura a cui spesso si guarda, da fuori, come ad un “privilegio”, senza mai menzionare il reale impegno e la responsabilità che questo richiede.

Educare il proprio bambino, affrontare con lui le varie fasi di crescita, richiede per il genitore stesso una “rinascita” costante in cui fare appello a competenze diverse, a dinamiche emotive e relazionali, in continuo cambiamento.

Da totalmente oblativi e protettivi quali erano durante il primo anno di vita, ora incominciano a richiedere l’adeguamento ad alcune norme di comportamento (Oliviero Ferraris e Oliviero, 2002).

Tornare alla base sicura

A partire dai primissimi mesi di vita il quadro evolutivo della relazione genitori-figli, richiede un adeguamento costante bidirezionale: da parte del genitore verso il bambino, ma anche del bambino verso il genitore. La graduale crescita non cancella i bisogni emotivi del figlio, ma li cambia, nella sua espressione e nelle modalità di appagamento. Il crescente interesse per l’ambiente circostante fa si che il bambino compia “previsioni” su questo e diventi capace di neutralizzare alcune preoccupazioni con la certezza di essere oggetto di attenzione degli adulti, mamma e papà, che possono proteggerlo e accompagnarlo. Tornare alla “base sicura” quando si ha bisogno, per riempire il proprio bagaglio di cure ma anche di certezze sul come affrontare il mondo, per sperimentare dunque ciò che viene definito “attaccamento”.

L’attaccamento è un meccanismo connesso alla sopravvivenza in quanto l’essere umano non è autosufficiente (soprattutto nella prima infanzia) e dipende da chi si prende cura di lui (Oliviero Ferraris e Oliviero, 2002).

L’idealizzazione della genitorialità

La tendenza comune a idealizzare la maternità e la paternità, come un’esperienza unicamente positiva e totalizzante, spesso grava sui vissuti reali di stress, stanchezza fisica e fatica emotiva che i genitori in realtà sperimentano, accrescendo quel senso di colpa che delegittima i genitori dal potersi sentire tali.

La crescita del bambino fa sì che lo stesso segua le indicazioni che la famiglia gli indica, ma fa anche sì che si opponga a queste con tutte le sue forze, ascolti i genitori in una modalità che è piuttosto imitativa dell’adulto per riproporre ciò che vede, in una maniera maggiore rispetto a ciò che ascolta.

…osservando le persone di cui si fida e comunicando con loro, ha introiettato dei modelli di comportamento… (Oliviero Ferraris e Oliviero, 2002).

I super eroi senza super poteri!

Una recente rassegna della letteratura (Zavattini e Di Folco, 2014) evidenzia le diverse attitudini che definiscono il “parenting” materno e quello paterno, differenze, secondo i dati, imputabili ad aspetti biologici, ormonali e psicologici. Sebbene la letteratura in passato abbia descritto ampiamente, attraverso gli studi sull’attaccamento (Bowlby, 1989), gli aspetti che caratterizzano il legame madre-bambino, ovvero il calore affettivo, la sensibilità e la protezione; d’altra parte esistono caratteristiche del legame padre-bambino, che caratterizzando quest’ultimo, ci offrono un quadro della gestione “familiare” del bambino, complesso ma al contempo equilibrato. Viene infatti descritta una tendenza nel ruolo paterno a proporre al bambino attività che lo coinvolgono in momenti di gioco sia fisico che strumentale, ma che promuovono, al contempo, disciplina ed abilità competitive (Grossmann et al., 2002, 2008; Paquette, 2004).

La considerazione del diverso coparenting ci spinge ad osservare, in un’ottica triadica, le risorse reali che il bambino ritrova nel proprio nucleo familiare, ristabilendo un contributo equo che entrambi i genitori sono chiamati a mettere in atto nella relazione, nella gestione e nella responsabilità di cura verso il proprio bambino.

Idealizzare la genitorialità e i ruoli interni ad essa aumenta il senso di colpa nel caso in cui il nostro “super eroe” non risponda ad essi. Ma se è vero che i bambini imparano per imitazione, vogliamo davvero non insegnarli il valore della fragilità? Ci sono momenti in cui una mamma può sentirsi particolarmente stanca, aver voglia di un momento per sé. Ci sono momenti in cui un papà vorrebbe tornare a casa e poter dormire tranquillamente. Ci sono momenti in cui mamma e papà hanno bisogno di una serata da soli. La genitorialità è anche questo, il desiderio di continuare a coltivarsi come donna e come uomo con le proprie esigenze, non riducendo la propria vita ad una sola dimensione idealizzata. Vivere le proprie fragilità, le proprie esigenze e farsi promotore del saper chiedere aiuto è sicuramente uno tra gli insegnamenti più preziosi che possiamo lasciare ai nostri bambini.

Mamma e papà sono dei super eroi, ma senza super poteri!

A saltare gli appuntamenti dal medico è soprattutto chi soffre di disturbi mentali – Psicologia e Medicina

Vedere con regolarità il nostro medico di base non può che avere ottimi risultati sulla nostra aspettativa di vita ed in generale sulla qualità della stessa. Cosa succederebbe, però, se cominciassimo a saltare gli appuntamenti presi?

 

 

Per rispondere a questa domanda una équipe di ricerca dell’Università di Lancaster, Glasgow ed Aberdeen, nel Regno Unito, ha ideato e messo a punto una ricerca sperimentale nella quale sono stati esaminati i dati riguardanti circa 500.000 pazienti scozzesi seguiti per circa 3 anni (dal 2013 al 2016). Le informazioni sui pazienti riguardavano con che frequenza si presentavano o meno agli appuntamenti presi con il loro medico di base e tali dati sono poi stati collegati con la storia medica di tali pazienti e alle cause della loro morte.

Come ci si potrebbe aspettare, i pazienti che si ritrovavano a saltare più di due o tre appuntamenti all’anno andavano incontro a un rischio di morte prematura più alta rispetto alla popolazione generale. In particolar modo a vedersi aumentato il rischio di morte prematura erano quei pazienti che soffrivano di un qualche disturbo di natura psicologica.

I ricercatori hanno aggiunto che questi risultati sono inoltre congruenti con le osservazioni sul campo effettuate dai medici stessi, secondo i quali i pazienti più a rischio sono proprio quelli che soffrono di malattie mentali, dato che non è affatto inusuale che tale tipologia di pazienti cominci a non venire agli appuntamenti presi.

Un risultato scontato? Dipende da come lo usiamo..

Quello che è importante per quanto riguarda lo studio in questione non sono tanto le ipotesi che sono state confermate in quanto ad un pubblico generalista potrebbero apparire quantomeno scontate, ma gli interventi pratici che potranno essere messi in pratica, partendo da una base solida di risultati come quelli della presente ricerca, per cercare di ridurre il numero di appuntamenti mancati dai pazienti.

Ad esempio potrebbero essere resi più accessibili i servizi di salute mentale nel Regno Unito, oppure si potrebbe aiutare i pazienti a non dimenticarsi degli appuntamenti. Altro punto importante di questa ricerca è il fatto di aver individuato quale sia la popolazione più a rischio per quanto riguarda questo problema. Sapendo quali sono i pazienti più a rischio, i clinici potranno cercare di prestare maggiore attenzione a tale tipologia di pazienti diminuendo il rischio di morte prematura a cui vanno incontro.

Franco Basaglia: la forza di accogliere e ascoltare la malattia mentale – Introduzione alla Psicologia

Il più grande merito di Franco Basaglia è stato quello di restituire dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare, e non da recludere o da nascondere.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Franco Basaglia è uno dei più noti psichiatri moderni, le cui idee innovative sancirono la fine della vecchia concezione di psichiatria e, soprattutto, del vecchio concetto di cura psichiatrica. A Basaglia si deve la Legge 180, detta anche “Legge Basaglia”, che trasformò il vecchio ordinamento degli ospedali psichiatrici italiani, promuovendo un nuovo trattamento e cura dei disturbi mentali e, soprattutto, sostenendo il rispetto della persona umana.

Franco Basaglia: la vita

Franco Basaglia è uno psichiatra e neurologo, nato a Venezia l’11 marzo del 1924, in una famiglia benestante ed è il secondo genito di tre figli. Basaglia frequentò il liceo classico della sua città e successivamente, nel 1949, si laureò in medicina presso l’Università di Padova. In questi anni conobbe l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, sul quale baserà tutta la sua carriera psichiatrica, contrastando le idee di Lombroso, allora vigenti in ambito psichiatrico. Nel 1953 si specializzò in malattie nervose e mentali presso la facoltà della clinica neuropsichiatrica di Padova. Nello stesso anno sposò Franca Ongaro, da cui ebbe due figli. I due, oltre a essere marito e moglie, erano anche colleghi, per questo scrissero insieme diversi libri sulla psichiatria moderna.

Basaglia politicamente liberale militò nel partito “Sinistra Indipendente” e sedette in Parlamento a partire dal 1953. Successivamente, nel 1958, divenne docente di psichiatria presso l’Università di Padova. Da lì a poco, però, non godette più di una buona fama tra i colleghi, poiché le sue tesi furono giudicate rivoluzionarie e poco ortodosse rispetto al clima vigente in quel periodo. Franco Basaglia era una persona dall’indole progressista e per questo in netto contrasto con il periodo. Quindi, dopo aver subito ostilità e angherie, decise nel 1961 di lasciare l’insegnamento per trasferirsi a Gorizia con la famiglia, dove era stato nominato direttore dell’ospedale psichiatrico. Nella clinica psichiatrica di Gorizia, Basaglia entrò in contatto con la vera realtà custodialistica e psichiatrica dell’istituto, caratterizzata principalmente da trattamenti aberranti regolarmente inflitti ai malati, non considerati persone in difficoltà e da aiutare, bensì soggetti da controllare, reprimere, sedare e nascondere. Basaglia, ben presto, partendo dalla teoria di Sigmund Freud, cominciò a sostenere che il rapporto tra terapeuta e paziente dovesse basarsi su presupposti diversi da quelli vigenti, come a esempio il dialogo e non l’annientamento dell’altro. Per questo iniziò una battaglia per restituire a queste persone maggiore dignità e diritto alle cure.

In poco tempo, Basaglia, riuscì a modificare i metodi di cura applicati in quel periodo. In primo luogo fece eliminare la terapia elettroconvulsivante e incoraggiò un nuovo tipo di approccio relazionare da stabilire tra malato medico, o personale psichiatrico in generale. Quest’ultimo consisteva nel creare una relazione di maggiore vicinanza emotiva, più empatica, centrata sullo scambio umano, che fosse mediata dal dialogo e dal sostegno morale. Quindi, non una cura volta alla disumanizzazione dell’altro, ma interessarsi al paziente perché è una persona e non un malato pericoloso da nascondere agli occhi di tutti.

Dall’esperienza svolta in quel manicomio scaturì l’idea che portò alla realizzazione di uno dei suoi più celebri libri: “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, edito nel 1967. Basaglia in seguito divenne direttore anche dell’ospedale di Colorno e di quello di Trieste. Nel 1973 fondò un movimento chiamato Psichiatria Democratica, che prese spunto dalla corrente di pensiero dell’antipsichiatria, già vigente e largamente diffusa in Gran Bretagna. Basaglia continuò a sostenere la sua battaglia contro il sistema psichiatrico del tempo finché nel 1977 ottenne la chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Grazie alla sua opera, finalmente, nel 1978, si ratificò la legge 180 sulla riforma psichiatrica.

Franco Basaglia morì a Venezia, città natia, il 29 agosto del 1980 all’età di 56 anni a causa di una neoplasia al cervello.

Il pensiero di Franco Basaglia

Franco Basaglia è considerato il fondatore del concetto moderno di salute mentale e, ancora oggi, le sue teorie hanno un forte peso in ambito psichiatrico. Il suo approccio alla cura della malattia mentale, da lui stesso definito fenomenologico ed esistenziale, è in netta contrapposizione a quello positivistico della medicina tradizionale vigente all’epoca.

I manicomi nel Novecento erano regolati dalle norme sancite dalla sanità provinciale e gestiti da psichiatri e infermieri. Essi si ergevano in periferia, rispettando un’antica usanza secondo la quale il terrificante, il mostruoso, ovvero il malato di mente doveva essere nascosto agli occhi delle persone “sane”. Nelle istituzioni psichiatriche all’epoca esistenti erano normalmente usate le seguenti pratiche: elettroshock, lobotomie, docce gelate, camicie di forza e letti di contenzione. Per questo, il manicomio appariva a Basaglia come la somma espressione di una logica sociale volta all’annientamento dell’altro, poiché diverso/malato e per questo deve essere nascosto, celato, dimenticato. Franco Basaglia, dunque, inizia a sollevare la questione manicomiale facendo notare gli efferati metodi adottati e a sostenere sia importante restituire l’individualità e la dignità ai pazienti, che dovrebbero essere riconosciuti prima come esseri umani e poi come delle persone da riabilitare. La prima cosa da fare, secondo Basaglia, è sospendere ogni forma di giudizio e considerare l’individuo nella sua interezza, partendo dalla storia di vita, dal ruolo sociale svolto, dalle emozioni e dal malessere, per poi procedere con la diagnosi e la terapia, evitando stigmatizzazioni inutili.

Negli ambienti accademici, però, furono osteggiati i tentativi messi in pratica da Franco Basaglia per mettere in discussione l’ortodossia psichiatrica, nonostante ciò, ha continuato a portare avanti questa battaglia.

Basaglia partendo e utilizzando la sua formazione, medica-filosofica, voleva liberare i malati mentali dalle “celle di contenzione” nelle quali erano intrappolati, senza né personalità né dignità. In questo modo, Basaglia riuscì a convincere i poteri forti che delegittimare le persone con disturbi psichici non è la strada giusta da percorrere.

Le filosofie che hanno influenzato la pratica basagliana

Il pensiero di Franco Basaglia deriva da idee e concetti filosofici che possono essere ricondotti a diverse grandi correnti.

La prima, quella della fenomenologia e della psicologia di Jaspers, basata sulla ricerca del concetto di “essere” in quanto essere umano, da cui Basaglia prese spunto per iniziare la sua critica contro la psichiatria del tempo. Successivamente, conobbe il pensiero di Husserl, centrato sulla ricerca del ruolo svolto da ogni essere umano nel contesto sociale, che andò ad ampliare le prospettive teoriche già esistenti in Basaglia. Le teorie di Binswanger inoltre, volte ad analizzare la persona come formata da corpo e dalle espressioni messe in atto dallo stesso, in aggiunta alle precedenti, consolidarono il suo approccio fenomenologico alle psicosi.

La seconda area è quella rappresentata dalle filosofie esistenzialisti di Sartre e Merleau-Ponty, dalle quali Basaglia parte per costruire il suo concetto di libertà e di entità corporea, attribuendo a queste ultime maggiore valore e integrità.

L’ultima area di influenza filosofica è quella di Foucault, incentrato sulla critica al potere istituzionale e sulle analisi delle stesse, e il pensiero di Fanon che daranno a Franco Basaglia una maggiore e innovativa lettura sul tipo di relazioni che si potrebbero istituire nei manicomi. Inoltre, le teorie sull’incontro autentico con l’altro di Laing e il concetto di comunità e cura di Maxwell, consentirono di aggiungere valore delle parole utilizzate nell’incontro autentico con l’altro e in una situazione comunitaria.

Franco Basaglia, dunque, tradusse tutto questo in un’idea pratica del tutto innovativa che verteva nella trasformazione dei manicomi in comunità terapeutiche. In una comunità terapeutica, i medici, gli operatori e i pazienti possiedono pari dignità e pari diritti; i rapporti non sono più verticali, bensì orizzontali, ovvero, è privilegiata la collaborazione tra pari. Il malato, inoltre, non è considerato come un reietto, bensì come una persona da aiutare, recuperare e riabilitare. Inoltre, la terapia elettroconvulsivante fu definitivamente bandita, e quella farmacologica fu considerata solo un metodo per concedere la possibilità di riabilitarsi più velocemente. Quindi, in questo modo, al malato era concessa maggiore dignità e una migliore prospettiva di cura. Nel 1971, Basaglia mise in opera l’idea dei laboratori artistici di pittura e teatro per i pazienti: attraverso la produzione artistica, i malati riescono a rappresentare se stessi e il rapporto con l’altro, comunicano i propri disagi interiori e le insicurezze, ritrovano la propria identità e si relazionano meglio agli altri. Nacquero, dunque, le comunità attraverso la quale i pazienti possono svolgere lavori utili e anche socialmente condivisibili tra coloro che inizialmente avevano ripudiato e allontanato queste persone. Basaglia raggiunse lo scopo della reintegrazione sociale dei malati e fece notare a tutti l’inconsistenza di un processo volto alla discriminazione e disumanizzazione dell’essere umano.

Il 13 maggio 1978, esattamente quarant’anni fa e due anni prima della sua scomparsa, fu approvata la legge di chiusura delle istituzioni manicomiali, nota come Legge Basaglia, nonostante nel testo e nelle sue applicazioni successive, non siano rispettate pienamente le idee originarie e le sue possibili attuazioni. Da un punto di vista storico, però, la Legge Basaglia fu importante perché rese la psichiatria terapeutica e riabilitativa. A partire dai primi anni sessanta, di conseguenza, fu ridefinita l’intera concezione di malattia e cura psichiatrica.

La Legge 180, quindi, denunciò le istituzioni manicomiali fino a regolarne la chiusura. Furono istituiti, di conseguenza, negli ospedali dei reparti di Psichiatria, delle case d’aiuto e supporto alle famiglie, centri diurni e ambulatori gestiti da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, Si tratta di strutture e personale formate e abilitate alle cure e al trattamento dei pazienti psichiatrici. Tale legge, però, divenne operativa solo a metà degli anni Novanta, a causa di un sistema sociale troppo radicato e difficile da poter modificare in poco tempo.

Franco Basaglia, per concludere, restituisce dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare, e non da recludere o da nascondere.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

I pregiudizi sull’apprendimento nell’età evolutiva

In merito all’ apprendimento, i bambini hanno dei pregiudizi relativi alle modalità utilizzate per apprendere. In pratica, i piccoli hanno il preconcetto che si apprende più facilmente dalla televisione, computer o tablet piuttosto che dai libri.

 

I pregiudizi sono idee preconcettuali che prendono forma abbastanza precocemente. Già nelle prime fasi dell’età evolutiva si strutturano idee falsate sulla realtà, che i bambini mutuano dall’ambiente familiare, scolastico e dall’interazione con il gruppo dei pari.

Relativamente all’apprendimento, i bambini hanno dei pregiudizi relativi alle strumentalità utilizzate. In pratica, i piccoli pensano che si apprende più facilmente dalla televisione e dal computer piuttosto che dai libri. In realtà, dagli strumenti multimediali si apprende meno, in quanto il sistema simbolico utilizzato (immagini) e la velocità con cui le informazioni sono presentate non consentono l’elaborazione cognitiva personale, paradigma fondante dell’ apprendimento duraturo. Inoltre, i contenuti veicolati attraverso gli strumenti multimediali creano un notevole sovraccarico cognitivo che fa diminuire le performance dei bambini nei test di conoscenza lessicale e di comprensione.

Keywords: età evolutiva, pregiudizi, apprendimento, strumenti multimediali.

Pregiudizi e falsi miti dei bambini sull’ apprendimento

I pregiudizi sono idee preconcettuali che prendono forma abbastanza precocemente. Già nelle prime fasi dell’età evolutiva si strutturano idee falsate sulla realtà, che i bambini mutuano dall’ambiente familiare, scolastico e dall’interazione con il gruppo dei pari. I pregiudizi si esprimono con atteggiamenti che ipotecano negativamente la quotidianità degli individui. In ogni pregiudizio si riconoscono più componenti. Ogni pregiudizio è costituito da un polo cognitivo, che è rappresentato dal nucleo di idee e credenze aprioristiche, non basate sui dati di realtà. Inoltre, nel pregiudizio si riconosce un polo affettivo, che è formato dalle emozioni e dai sentimenti che le idee e le credenze producono. In ultimo, nel pregiudizio si riscontra un polo comportamentale, che è rappresentato dall’agire che tale insieme di idee attiva nel soggetto (Stevani, 2010).

Relativamente all’ apprendimento, i bambini hanno dei pregiudizi relativi alle strumentalità utilizzate. Sono ormai classiche le ricerche effettuate da Salomon negli anni Ottanta del secolo scorso. In pratica, i piccoli hanno il preconcetto che si apprende più facilmente dalla televisione che dai libri. La ricerca di Salomon (1984) stabilì che i bambini analizzati consideravano la TV un mezzo di apprendimento che richiede meno impegno e, quindi, una minore quantità di sforzo mentale investito, rispetto a quello occorrente quando lo strumento di apprendimento è il libro. Questo nucleo concettuale del pregiudizio ha come equivalente affettivo la nascita di emozioni positive, che accompagnano l’ apprendimento veicolato dagli strumenti multimediali, mentre l’ apprendimento effettuato attraverso i libri elicita emozioni negative. Il polo comportamentale del pregiudizio è rappresentato dal minore impegno dedicato all’ apprendimento, allorquando esso avviene in forma multimediale, perché considerato più facile.

In realtà, l’ apprendimento che si attua mediante l’utilizzo della televisione produce degli scarsi risultati, per via anche del minore impegno dedicato. Infatti, nella ricerca condotta da Salomon i bambini raggiungevano minori punteggi nei test di comprensione nel momento in cui l’ apprendimento si attuava per mezzo della televisione e punteggi maggiori allorquando l’ apprendimento si realizzava attraverso i libri. In pratica, per via del pregiudizio la quantità di sforzo mentale risultava decisamente inferiore quando l’ apprendimento avveniva mediante la TV. Il concetto di Salomon relativo alla televisione può essere applicato ai diversi media utilizzati nell’ apprendimento (computer, ebook, ipertesti) (Schwab e al., 2018). Secondo Singer (1980) dalla televisione si apprende meno, in quanto il sistema simbolico utilizzato (immagini) e la velocità con cui le informazioni sono presentate non consentono l’elaborazione cognitiva personale, paradigma fondante dell’ apprendimento duraturo. Inoltre, la ricerca di Bus e al. (2015) ha evidenziato che l’alfabetizzazione, che avviene utilizzando materiali multimediali, come, ad esempio, gli ipertesti, crea un notevole sovraccarico cognitivo che fa diminuire le performance dei bambini nei test di conoscenza lessicale e di comprensione.

Il costrutto di quantità di sforzo mentale investito (AIME)

Analizzando il costrutto di quantità di sforzo mentale investito (AIME), Salomon (1984) l’ha connotato come una funzione che dipende da più variabili, quali la natura del compito richiesto, il contesto nel quale avviene l’ apprendimento, l’autoefficacia personale percepita, concetto mutuato da Bandura (1982). In altri termini, ci si impegna di più allorquando si pensa che il compito proposto sia particolarmente difficoltoso, l’ apprendimento avviene in un contesto che è associato all’impegno, come può essere, ad esempio, l’ambiente scolastico e si ha la convinzione di essere in grado di affrontare i contenuti proposti.

Il costrutto di quantità di sforzo mentale investito è stato ulteriormente delineato da Cennamo (1993), che ha stabilito la stretta correlazione che esiste fra esso e alcuni fattori, come i simboli utilizzati (immagini o parole), natura del compito richiesto (attività di intrattenimento o di studio) e caratteristiche individuali (età, cultura personale dell’impegno). In altre parole, la quantità di sforzo mentale investita è inferiore nel momento in cui l’ apprendimento avviene mediante le immagini, è associato ad un’attività del tempo libero ed è fatto da persone che hanno una scarsa cultura dell’impegno.

Altri pregiudizi

Ci sono altri pregiudizi che accompagnano gli strumenti utilizzati per l’ apprendimento. I bambini attribuiscono maggiore veridicità alle informazioni veicolate dalla televisione piuttosto che a quelle lette in un libro (Cohen e Salomon, 1979). Inoltre, quando l’ apprendimento avviene attraverso i testi, il successo apprenditivo viene imputato a variabile interne all’individuo (capacità e impegno), mentre l’efficacia dell’ apprendimento multimediale dipende da cause esterne, quali la facilità o difficoltà del materiale proposto (Cohen e Salomon, 1979).

Un altro pregiudizio sull’ apprendimento presente nei bambini mette insieme i contenuti con gli strumenti utilizzati al fine di stabilire la validità di esso. In pratica, i bambini ritengono che le nozioni relative allo sport si apprendono meglio dalla televisione, mentre i contenuti riguardanti la lingua inglese e la matematica si imparano efficacemente dai libri (Beentjes, 1989).

Il pregiudizio relativo alla facilità dell’ apprendimento effettuato attraverso gli strumenti multimediali interviene anche nella ricerca delle informazioni. Secondo i bambini richiede meno quantità di sforzo mentale investito la ricerca di contenuti attraverso gli strumenti multimediali, piuttosto che quando la stessa ricerca viene compiuta utilizzando fonti bibliografiche (Rieh e al, 2012).

I pregiudizi determinano le autoprofezie che si avverano. Relativamente all’ apprendimento, i bambini apprendono meglio nella misura in cui ritengono la fonte dell’ apprendimento autorevole e questo si riflette sulle loro performance scolastiche, che migliorano quanto più la fonte dell’ apprendimento è considerata valida (Haimerl e Fries, 2010).

In conclusione

I bambini già nelle prime fasi della loro vita hanno dei pregiudizi. Uno di essi riguarda gli strumenti utilizzati per l’ apprendimento. In pratica, i piccoli pensano che si apprende più facilmente dalla televisione e dal computer piuttosto che dai libri. In realtà, come diverse ricerche dimostrano, dagli strumenti multimediali si apprende meno, in quanto il sistema simbolico utilizzato (immagini) e la velocità con cui le informazioni sono presentate non consentono l’elaborazione cognitiva personale e creano un notevole sovraccarico cognitivo che ipoteca negativamente l’ apprendimento.

Disturbi dello spettro autistico e ADHD: il digitale permette di andare oltre le classiche modalità di intervento nel trattamento

Che i videogiochi potessero essere una cura per alcune patologie lo si è sempre sperato, sia grandi che piccini. Un recente studio sembra dimostrare la validità di questa tipologia di intervento nel trattamento di bambini affetti da disturbi dello spettro autistico in comorbilità con sintomi ADHD.

 

Alcuni ricercatori del Children’s Hospital of Philadelphia hanno messo a punto un nuovo trattamento sperimentale che ha una natura digitale, si chiama “Project:EVO” ed è rivolto a bambini con disturbo dello spettro autistico (ASD) con comorbilità di sintomi di Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD). Tale programma fornisce stimoli motori e sensoriali attraverso l’esperienza di videogiochi d’azione.

Come nasce Project:EVO

Project:EVO è nato da uno studio pilota volto ad indagare gli effetti di questo programma su bambini con disturbi dello spettro autistico in comorbilità con sintomi ADHD ed è stato ideato e sviluppato da un team di ricercatori del CHOP che si occupano di ricerca sull’autismo, in collaborazione con alcuni esperti informatici.

Lo studio ha coinvolto 19 bambini di età compresa tra i 9 e i 13 anni con una diagnosi di ASD con comorbilità di sintomi ADHD, a cui sono stati somministrati dei trattamenti che prevedevano l’utilizzo di videogiochi d’azione o altre attività educative. In particolare, è stata valutata l’efficacia del programma in termini di capacità del bambino di pianificare e completare le attività proposte e miglioramento di alcune variabili cognitive misurate attraverso batterie di test.

Dallo studio risulta che i bambini hanno raggiunto alti tassi di attenzione circa le attività suggerite dai protocolli del trattamento, impegnandosi assiduamente per il 95% o più delle sessioni. Inoltre, sia i bambini che i genitori hanno riferito un’alta soddisfazione per il trattamento, consigliandolo come attività in grado di migliorare le capacità di un bambino nel prestare attenzione ai compiti a cui è sottoposto. Dai report dei genitori risulta un miglioramento generale dei sintomi di ADHD.

Limiti e Prospettive future

Essendo le dimensioni del campione piuttosto ridotte, i ricercatori stanno progettando nuove ricerche allo scopo di verificare i risultati ottenuti su un campione più ampio, pianificando anche uno studio follow-up.

Vivere ad alta quota non è solo fonte di benessere: la correlazione tra rischio suicidario e altitudine

Il suicidio è una delle prime 10 cause di morte negli Stati Uniti. Nei prossimi 20 anni si prevede che causerà più di 2 milioni di morti all’anno in tutto il mondo, classificandosi al 14° posto tra le cause di morte.

Roberta Carugati e Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Ci sono molti fattori noti che influenzano il rischio di suicidio. In numerosi studi americani è stato notato come, ad esempio, essere individui di sesso maschile (Denning et al., 2000) di età avanzata (DiNitto et al., 2017) di etnia bianca, divorziati (Curtin et al., 2016) a basso reddito (Bantjes et al., 2016), socialmente isolati o abusatori di sostanze (Pompili et al., 2010) aumenti il rischio di suicidio. Anche le malattie psichiatriche, i disturbi dell’umore (Simpson et al., 1999) e la mancanza di sostegno sociale sono fattori di rischio ampiamente riconosciuti.

Altitudine e salute

La vita ad alta quota è da sempre riconosciuta tra le condizioni che hanno un effetto benefico su numerose condizioni mediche; chi vive ad altitudini elevate, ad esempio, ha minori probabilità di essere colpito da ictus o malattie cardiovascolari (Mortimer et al., 1977; Faeh et al, 2009).

Tuttavia una recente revisione sistematica, pubblicata su Harvard Review of Psychiatry, ha portato risultati differenti, rilevando tra le persone che vivono in zone ad alta quota degli Stati Uniti tassi di suicidio e depressione superiori alla media (Kious, Kondo & Renshaw, 2018). In particolare i più alti tassi di suicidio appartenevano ad Arizona, Colorado, Idaho, Montana, Nevada, New Mexico, Utah e Wyoming, dove i tassi di suicidio aumentavano drammaticamente. I ricercatori hanno osservato che i tassi di suicidio aumentavano ad altitudini comprese tra 2000 e 3000 piedi, altezza che è stata definita come soglia nella valutazione del rischio di suicidio. Tra le varie ipotesi formulate, i ricercatori dell’Università di Salt Lake City (Kious et al., 2018) suggeriscono che la bassa pressione atmosferica ad alta quota potrebbe abbassare i livelli di ossigeno nel sangue, ciò avrebbe un effetto sull’umore e renderebbe quindi le persone che vivono a queste altitudini più suscettibili a pensieri suicidari, spiegano i ricercatori americani.

L’ altitudine sembrerebbe inoltre influenzare anche altre condizioni psichiatriche, come il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) in quanto è stato rilevato che la prevalenza di ADHD sembra diminuire con il crescere dell’ altitudine (Huber et al., 2015); secondo i ricercatori dell’Università dello Utah, una possibile spiegazione del perché l’ADHD tenda ad essere meno frequente con l’aumentare dell’altitudine è legata alla variazione dei livelli di dopamina come reazione all’ipossia ipobarica, la diminuzione dei livelli di dopamina sono infatti associati all’ADHD, quando i livelli dell’ormone aumentano con l’altitudine il rischio dell’insorgenza di questo disturbo tenderebbe a diminuire.

Un altro studio condotto da Ha e colleghi (2017), ha esaminato 3064 contee degli Stati Uniti per verificare la presenza di una correlazione tra altitudine e tassi di suicidio. I ricercatori hanno anallizzato i dati di suicidio elaborati dal National Centre for Health Statistics dal 2008 al 2014. Ha e colleghi hanno scoperto che, per ogni aumento di 100 metri di altitudine, i tassi di suicidio aumentavano di 0,4 per 100.000 abitanti. Le contee con tassi di suicidio più alti della media tendevano anche ad avere una percentuale inferiore di residenti afroamericani, una percentuale più alta di persone di 65 anni o più, una percentuale più alta di fumatori e punteggi più bassi per il sostegno familiare e sociale. I ricercatri hanno inoltre preso in considerazione le variabili relative a fattori socioeconomici, demografici e clinici, come il tasso di disoccupazione e il rapporto tra popolazione e medici di base. Questo tuttavia non ha cambiato i risultati della ricerca.

I risultati di altri studi condotti in Corea del Sud vanno nella medesima direzione, confermando che vivere ad alta quota sembra essere un fattore di rischio per il suicidio (Kim et al., 2011; Brenner et al., 2011; Kim et al., 2014). Nel 2011, Kim e colleghi hanno analizzato i tassi di suicidio in Corea del Sud in un periodo di quattro anni (2005-2008) e hanno riportato una forte associazione tra il tasso di suicidio e l’abitare ad alta quota. L’associazione positiva tra l’altitudine e il tasso di suicidio sono rimasti significativi anche esaminando il peso di altri fattori socioeconomici (reddito). L’aumentato rischio di suicidio associato al vivere ad alta quota può essere parzialmente spiegato da un aumento dei tassi di depressione, sebbene in generale la correlazione tra altitudine e suicidio è più forte di quello tra altitudine e depressione.

Non tutti gli studi tuttavia supportano l’ipotesi dell’esistenza di una correlazione tra altitudine e suicidio. In uno studio condotto da Selek e colleghi (2013) sui tassi di suicidio in Turchia tra il 2007-2008 non è emersa alcuna correlazione significativa con l’altitudine. Gli autori dello studio hanno però notato che poiché i tassi di suicidio in Turchia sono complessivamente bassi (3,97/100.000 abitanti) la mancanza di correlazione può essere il risultato di limitazioni di campione e dati.

Studi precedenti condotti negli Stati Uniti hanno evidenziato una forte correlazione tra l’aumento dei tassi di suicidio e il possesso di armi, ma in questa revisione, l’associazione tra suicidio e altitudine pare essere persino più forte del legame tra suicidio e possesso di armi (Kim et al., 2008; Miller et al., 2008.

Importante considerare che, sebbene l’80% dei suicidi negli Stati Uniti si verifichi in aree a bassa quota, la cifra può essere fuorviante poiché la maggioranza della popolazione vive vicino al livello del mare. Se invece si osservano i tassi di suicidio su 100.000 abitanti, le cifre indicano che il 17.7% dei suicidi si verificano tra le popolazioni che vivono ad alta quota, l’11.9% a media altitudine e il 4.8% a bassa quota. In uno studio del 2014 infatti, la percentuale di adulti con “seri pensieri di suicidio variava dal 3,3% in Connecticut (altitudine media 490 piedi) al 4,9% in Utah (altitudine media 6,100 piedi).

Perché dunque l’altitudine influisce sui tassi di suicidio?

Kious e colleghi suggeriscono che la risposta potrebbe essere l’ipossia ipobarica cronica, ovvero un basso livello di ossigeno nel sangue correlato alla bassa pressione atmosferica. Questa teoria è supportata da studi sugli animali e studi a breve termine sugli esseri umani. Gli autori suggeriscono due vie attraverso le quali l’ipossia ipobarica può aumentare i rischi di suicidio e depressione: alterando il metabolismo del neurotrasmettitore serotonina e/o attraverso i suoi effetti sulla bioenergetica del cervello.

Diversi studi, tra cui il lavoro di Renshaw e colleghi (2015), suggeriscono che l’altitudine sia un fattore di rischio indipendente per il suicidio, sottolineando come anche i tassi di depressione aumentino con l’altitudine e possano quindi contribuire all’aumento del rischio di suicidio. Secondo Renshaw, una potenziale causa di depressione in condizioni di elevata altitudine potrebbe essere la presenza di bassi livelli di serotonina. L’ipossia danneggerebbe un enzima coinvolto nella sintesi della serotonina, probabilmente con conseguente abbassamento dei livelli di serotonina che potrebbe portare alla depressione. Inoltre, il gruppo di Renshaw (2015) ha dimostrato che il metabolismo cellulare cerebrale può essere danneggiato dall’ipossia nei ratti e negli esseri umani. Questo deficit nella funzione cerebrale può contribuire a ciò che Renshaw chiama “The Utah Paradox”. Nonostante abbia il più alto uso di antidepressivi nel paese, lo Utah ha anche il più alto indice di depressione. Gli studi sugli animali indicano che gli SSRI potrebbero non funzionare quando i livelli di serotonina cerebrale sono bassi. Negli studi attuali, Kanekar e Renshaw stanno quindi valutando l’efficacia degli antidepressivi attualmente disponibili nell’ipossia ipobarica, con particolare attenzione agli SSRI, gli antidepressivi più comunemente prescritti negli Stati Uniti.

Conclusioni e prospettive future

Vi sono ancora diverse aree che necessitano di ulteriori ricerche e approfondimenti, compresi gli effetti dell’esposizione prolungata all’altitudine sul metabolismo della serotonina e sulla bioenergetica del cervello, tuttavia, se confermati da studi futuri, questi meccanismi suggeriscono alcuni possibili trattamenti per mitigare gli effetti dell’altitudine sulla depressione e sul rischio di suicidio: 5-idrossitriptofano supplementare (un precursore della serotonina) per aumentare i livelli di serotonina o la creatinina per influenzare la bioenergetica cerebrale.

L’elaborazione dell’informazione secondo i processi top down e bottom up, i risvolti sulla pratica psicoterapeutica

Anche nell’ambito della pratica psicoterapeutica si parla di processi top down e bottom up. I primi sarebbero quelli del pensiero esecutivo, consapevole, razionale e verbalizzabile. I processi bottom up invece sarebbero automatici, emotivamente carichi, associativi, inseriti nell’esperienza immediata e connessi con la sensorialità corporea.

La percezione consiste nell’elaborazione delle sensazioni elementari che vengono convogliate dagli organi di senso. Nel processo di elaborazione l’informazione viene codificata, organizzata, riconosciuta e interpretata.

Il processo di percezione può essere diviso in stadi:

  • lo stadio primario: attraverso i processi visivi primari vengono definite e descritte le caratteristiche fisiche dello stimolo visivo, senza però che ne siano determinati il significato, l’uso e la funzione. L’analisi e l’elaborazione delle caratteristiche fisiche permette di far emergere l’oggetto strutturato.
 È la psicologia della Gestalt ad aver approfondito proprio lo stadio primario della percezione.
  • lo stadio secondario: lo stimolo strutturato, attraverso il confronto con le conoscenze depositate in memoria, viene riconosciuto.

Le modalità di confronto sono definite bottom up (elaborazione dal basso verso l’alto), e top down (dall’alto verso il basso). Top down e bottom up quindi si riferiscono a due diversi modi di elaborare i dati sensoriali con cui entriamo in contatto. L’elaborazione dall’alto verso il basso, cioè top down, si basa su processi cognitivi che coinvolgomo attenzione e memoria, l’elaborazione sarebbe «guidata dai concetti», cioè basata sulle rappresentazioni contenute in memoria. L’elaborazione bottom up invece si basa principalmente sullo stimolo esterno e sulle sue caratteristice percettive, si fa riferimento quindi a una modalità di elaborazione «guidata dai dati», che parte dai dati sensoriali (le singole parti dello stimolo).

Elaborazione TOP DOWN

L’elaborazione top down è definita come lo sviluppo del riconoscimento di pattern attraverso l’uso di informazioni contestuali. Ad esempio, leggendo un paragrafo scritto con una grafia difficile, sarà più semplice capire cosa lo scrittore vuole trasmettere se leggiamo l’intero paragrafo piuttosto che concentrandoci sulle singole parole. Il cervello infatti, è in grado di percepire e comprendere l’essenza del paragrafo grazie al contesto fornito dalle parole circostanti.

Elaborazione TOP DOWN e la Teoria di Gregory

Lo psicologo Richard Gregory sostiene che l’elaborazione è un processo di tipo top down. 
Dato che noi non vediamo delle semplici configurazioni ma vediamo oggetti complessi, perché questo sia possibile è necessaria una attiva ricerca della migliore interpretazione possibile delle caratteristiche disponibili. Secondo Gregory tale interpretazione, definita «controllo delle ipotesi», non può che avvenire secondo un approccio top down grazie al quale «costruiamo» le nostre percezioni attraverso i nostri processi cognitivi [Gregory 1990].

Secondo Gregory quindi sono le nostre esperienze e conoscenze su uno stimolo, immagazzinate in memoria, che ci aiutano a fare inferenze. Creiamo cioè un’ipotesi percettiva sullo stimolo percepito, basata sulla sua memoria e sulle esperienze passate correlate ad esso. Per Gregory quindi la percezione consiste nel fare la migliore ipotesi su ciò che stiamo vedendo. In termini di percezione visiva, Gregory sostiene che circa il 90% delle informazioni visive viene perso dal momento in cui arriva al cervello per l’elaborazione. Nelle illusioni visive, come ad esempio il cubo Necker, secondo Gregory il cervello crea ipotesi errate, facendo diversi errori percettivi.

Elaborazione BOTTOM UP

Nell’approccio di elaborazione bottom up, la percezione inizia dall’input sensoriale, dallo stimolo. Pertanto, la percezione può essere descritta come basata sui dati. Ad esempio, c’è un fiore al centro del campo di una persona. La vista del fiore e tutte le informazioni sullo stimolo vengono trasportate dalla retina alla corteccia visiva nel cervello. Il segnale viaggia in una direzione.

Elaborazione BOTTOM UP e Teoria di Gibson

Secondo quanto sostiene Gibson ogni stimolo possiede informazioni sensoriali sufficientemente specifiche da renderne possibile il riconoscimento senza l’intervento dei processi cognitivi superiori (teoria ecologica). La percezione non è soggetta a ipotesi, ma è piuttosto un fenomeno diretto: “What you see is what you get”. Il nostro ambiente, secondo Gibson, può fornire sufficienti dettagli relativi allo stimolo (ad esempio dimensioni, forma, distanza, ecc.), e la percezione dello stimolo potrebbe non dipendere dalla conoscenza pregressa o dall’esperienza passata dello stimolo stesso.

Processi cognitivi quali la memoria per accedere all’esperienza passata non sarebbero quindi necessari per riconoscere lo stimolo, che avrebbe già un proprio «ordine interno» che ne consentirebbe una percezione diretta. L’ordine interno, costituito dalla distribuzione spaziale e temporale dello stimolo, permette una diretta «disponibilità» al suo riconoscimento.
 Gibson ha definito questa disponibilità dello stimolo «affordance». 
L’affordance sarebbe ciò che permette all’osservatore di estrarre le caratteristiche che definiscono l’uso e le finalità dell’oggetto percepito.

Sempre secondo la teoria della percezione diretta, l’affordance suggerita dall’oggetto all’osservatore si basa però non soltanto sui fattori fisici posseduti dall’oggetto, ma anche sullo stato psicologico e fisiologico dell’osservatore. 
Una delle critiche che vengono mosse alla teoria della percezione diretta di Gibson è quella che si riferisce alle illusioni ottiche, che dimostrerebbero che le sole caratteristiche dello stimolo non permettono una sua corretta percezione. Gibson ha risposto argomentando che gli stimoli a cui fa riferimento Gregory nelle illusioni ottiche sono immagini artificiali, non immagini che possono essere trovate nel normale ambiente visivo di una persona. La parallasse del movimento supporta questo argomento: la parallasse è il fenomeno per cui un oggetto sembra spostarsi rispetto allo sfondo se si cambia il punto di osservazione. Quando viaggiamo su un treno in rapido movimento, percepiamo che gli oggetti più vicini a noi scorrono più velocemente, mentre oggetti più lontani si muovono più lentamente. Quindi, siamo in grado di percepire la distanza tra noi e l’oggetto in base alla velocità con cui si sposta.

Top down o bottom up?

Non si hanno certezze sul tipo di elaborazione che viene più frequentemente impiegato, ma è stato dimostrato che l’utilizzo della modalità bottom up oppure di quella top down dipende in buona misura dal contesto in
cui è inserito l’oggetto percepito e dal grado di conoscenza che l’osservatore ne ha.

 Chi è a favore dell’ipotesi di elaborazione bottom up ammette che il processo finale, cioè la denominazione dello stimolo percepito, può essere raggiunto solo attraverso un confronto tra l’input sensoriale e la rappresentazione mentale dello stimolo. 
La differenza quindi si limita al fatto che nella elaborazione bottom up il processo di confronto parte dal basso e procede fino a quando lo stimolo viene strutturato nella sua interezza e può quindi essere verificata la corrispondenza con la rappresentazione interna dello stimolo.

Forse le due teorie descritte non sono del tutto opposte perché a ben vedere non c’è una netta contrapposizione tra il principio del controllo delle ipotesi proposto da Gregory e l’affordance dello stimolo oltre che lo stato psicologico e fisiologico dell’osservatore ipotizzato da Gibson.

Un’altra teoria della percezione è quella dell’analisi tramite sintesi formulata da Neisser (1976) che si colloca a metà strada tra la teoria diretta di Gibson e la teoria costruttivista proposta da Gregory. Neisser concilia le due posizioni estreme bottom up (elaborazione guidata dai dati) e top down (elaborazione guidata dalle conoscenze). I dati in memoria (credenze/aspettative, schemi anticipatori) guidano la nostra attività di esplorazione (top down), e i nuovi dati acquisiti provenienti dall’esplorazione a loro volta modificano le nostre aspettative e credenze (bottom up). Per Neisser percepire non è uguale ad assegnare un oggetto ad una categoria, ma costruire schemi adatti alle varie situazioni. Tali schemi possono subire continue modifiche in relazione alle nuove informazioni provenienti dall’ambiente. Questo meccanismo ha funzioni adattive. In questo ciclo percettivo hanno molta importanza le dimensioni del movimento e del tempo. Con il movimento del soggetto si hanno continui cambiamenti nella disposizione ottica degli oggetti e ciò rende più chiara la realtà che si sta osservando. Il tempo invece è fondamentale, perché ci vuole del tempo per percepire.

[FONTE: Psichepedia]

Anche la teoria della percezione di Marr (1982) prevede un livello di elaborazione di tipo bottom up ed un livello più avanzato che si baserebbe invece su processamenti top down.
 Secondo la teoria di Marr, la percezione inizia fin dall’immagine retinica dello stimolo che, attraverso stadi successivi, viene trasformata in una rappresentazione sempre più complessa. In particolare, per uno stimolo tridimensionale sarebbero necessari tre distinti stadi per arrivare ad una percezione completa:

  1. definito «schizzo primario bidimensionale 2-D» dello stimolo visivo che colpisce l’occhio. In particolare, nel primo stadio non è coinvolta la percezione cosciente; le caratteristiche di forma e grandezza simili vengono automaticamente accorpate.

  2. costituito da uno «schizzo a due dimensioni e mezzo» che aggiungerebbe al primo stadio gli indizi di profondità e orientamento. Nel secondo stadio lo stimolo comincia a delinearsi ma soltanto nelle sue parti visibili all’osservatore e, naturalmente, la rappresentazione cambia cambiando il punto di osservazione. In questo stadio quindi non ci formeremo la rappresentazione delle quattro gambe di un tavolo se non si trovano nel nostro campo percettivo e l’immagine del tavolo cambierà cambiando il nostro punto di osservazione. Allo stesso modo non ci formeremo la completa rappresentazione della superficie del tavolo se alcune sue parti sono coperte da fogli, libri o altro. Per questo motivo questo stadio viene anche definito «percezione centrata sull’osservatore».
  3. definito «modello tridimensionale 3-D» nel quale si ottiene la rappresentazione tridimensionale dello stimolo e le relazioni spaziali tra le sue varie parti. Nel terzo stadio si forma infine la rappresentazione tridimensionale dell’oggetto. In questa fase la rappresentazione precedente viene integrata dalle conoscenze acquisite nell’esperienza passata. 
Dato che Marr ha dimostrato che un modello di percezione visiva può essere specificato in maniera talmente dettagliata da poter essere simulato su computer, la sua teoria viene anche
definita «teoria computazionale» della percezione.

[FONTE: Opsonline]

Processi top down e bottom up in psicoterapia

Anche nell’ambito della pratica psicoterapeutica si parla di processi top down e bottom up. I primi sarebbero quelli del pensiero esecutivo, consapevole, volontario, dichiarativo e quindi immediatamente verbalizzabile e infine processabile dal pensiero razionale. I processi bottom up invece sarebbero automatici, emotivamente carichi, associativi, inseriti nell’esperienza immediata e connessi con la sensorialità corporea ma non sempre immediatamente controllabili volontariamente (Kahneman, 2011-2012; Martin & Sloman, 2013). La dicotomia top down e bottom up è sicuramente limitata e limitante e finisce per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico.

La psicoterapia dei Disturbi di Personalità è un ambito che richiede allo psicoterapeuta la capacità di abbracciare una complessità sia teorica, nella comprensione del funzionamento del paziente, che pratica, nella scelta degli strumenti clinici da utilizzare nel corso del processo psicoterapeutico. La psicoterapia dei Disturbi di Personalità prevede infatti oltre alla messa in discussione e la presa di distanza dagli schemi disfunzionali, anche la costruzione di parti di sé più funzionali (Livesley, 2003); questo secondo obiettivo è spesso il più difficile e richiede più tempo rispetto al precedente (Dimaggio et al., 2013).

Ogni psicoterapia con pazienti con Disturbi di Personalità non segue un andamento lineare e una volta arrivati ad alcuni obiettivi di realizzazione personale, di contatto relazionale e di solidità nell’immagine positiva di sé, il raggiungimento degli obiettivi successivi non è affatto scontato.
 Nell’attraversare durante il percorso di cambiamento stati di malessere i pazienti faticano nuovamente ad acquisire distanza critica dalle rappresentazioni patogene. Arrivati a questo punto della psicoterapia, il lavoro sulla consapevolezza, sugli schemi e sulla differenziazione è importante ma può fare da sfondo e da contenitore ad un lavoro più specifico: il lavoro sul corpo. In questa fase il lavoro sul corpo diventa centrale ed è finalizzato a sciogliere le memorie corporee legate agli schemi e ad ampliare gli stati mentali positivi per abitarli e renderli più stabili (Ogden, 2016; Van Der Kolk, 2015)
.

Sempre più clinici e ricercatori che si occupano di traumi propongono di integrare nelle terapie fondate su approcci bottom up (corpo-emozioni-pensiero), basati sul corpo, che non necessitano di funzioni superiori integre, ma che possono integrarle. Ad esempio, mentre nei processi top down l’intervento si focalizza in prima battuta sulle funzioni verbali e cognitive, legate alla corteccia frontale, per poi “scendere” ai processi emozionali (sistema limbico) e, infine, ai processi corporei, nella psicoterapia sensomotoria si parte dal “basso” (bottom), ossia dai vissuti corporei, per poi salire, progressivamente, alla consapevolezza emozionale e alle funzioni verbali e cognitive di attribuzione di senso.

La psicoterapia sensomotoria si viluppa negli anni ’80 dalle tecniche di mindfulness e progressivamente va a integrarsi con i contributi della psicoterapia psicodinamica, cognitivo-comportamentale, delle neuroscienze, della ricerca sull’attaccamento e sulla dissociazione, orientata specificatamente al trattamento delle esperienze traumatiche dello sviluppo (Fisher & Ogden, 2009; Ogden & Minton, 2000; Ogden, Minton & Pain, 2006; Ogden, Pain & Fisher, 2006). Obiettivo principale della psicoterapia sensomotoria è aiutare il paziente a regolare le funzioni neurovegetative alterate, modificando i sintomi somatoformi e alcune credenze patogene, soprattutto riguardanti il corpo (Liotti & Farina, 2011).

A seconda, quindi, delle diverse esigenze del paziente in un dato momento del processo psicoterpeutico si può spaziare dall’EMDR alla Terapia Sensomotoria, alla Mindfulness, a tecniche importate dalla Terapia Gestalt, in un’integrazione continua tra il cosiddetto lavoro top down e quello bottom up.

Cambiamenti metacognitivi e sintomatici nella terapia del disturbo borderline di personalità: risultati di uno studio di processo psicoterapeutico

Dopo le prime osservazioni di Fonagy (1991), è stato più volte rilevato empiricamente che i pazienti con disturbo borderline di personalità hanno difficoltà nel riflettere sugli stati mentali, ragionarci su e regolarli (Semerari et al., 2005; 2014).

 

Due ipotesi clinicamente rilevanti avanzate sono state che:

  1. la metacognizione migliori nei trattamenti di successo
  2. miglioramenti nella metacognizione siano collegati a sollievo sintomatologico (Semerari et al., 2005).

Maillard, il sottoscritto e collaboratori (2019) hanno studiato un campione di 37 pazienti con BPD, che hanno ricevuto un trattamento breve, 10 sedute, o di General Psychiatric Management (GPM) o di GPM con l’implementazione della cosiddetta Motive-Oriented Therapeutic Relationship (Caspar, 2007), ovvero un’attenzione ad effettuare gli interventi prestando attenzione alla relazione terapeutica a partire dalla formulazione individualizzata del funzionamento del paziente e dei suoi piani. Da notare che i trattamenti non erano cuciti attorno alle capacità metacognitive dei pazienti né avevano il miglioramento metacognitivo come obiettivo.

I trascritti delle sedute sono stati analizzati con la SVaM-R (Carcione et al., 2010). È emerso che sono migliorate la capacità di comprendere la mente degli, altri, di differenziare e un aspetto della mastery, ovvero l’uso di strategie comportamentali e attentive per fronteggiare i problemi. Al contrario delle ipotesi non si è osservato un legame tra il miglioramento metacognitivo e il cambiamento sintomatologico, ma è emerso un link tra il miglioramento metacognitivo e quello sintomatico al follow-up a 6 mesi.

I risultati sono in parte coerenti con le aspettative, anche se sia il progresso metacognitivo è limitato ad alcune funzioni e il legame con il miglioramento con i sintomi è emerso solo nel tempo.

Allo stesso tempo, appaiono coerenti:

  1. il fatto che il trattamento non fosse mirato a sviluppare la metacognizione, che quindi è aumentata solo parzialmente;
  2. il trattamento fosse breve, 10 sedute, mentre la metacognizione ha bisogno di più tempo per crescere e per esercitare i suoi effetti benefici a livello di sintomi e funzionamento.

In effetti, nello studio randomizzato pilota di Terapia Metacognitiva Interpersonale in Gruppo (Popolo et al., 2018), mirato primariamente ad aumentare la metacognizione della durata di 16 sedute, il miglioramento metacognitivo è stato decisamente più evidente.

Lo studio della metacognizione in psicoterapia sembra quindi promettere una maggiore comprensione del processo di cambiamento e di come esso sia differente a seconda del trattamento usato. Nel corso degli anni sarà importante investigare se in effetti promuovere le capacità metacognitive è necessario per un cambiamento ampio e stabile nella psicopatologia di tutti i disturbi di personalità e quindi è un fattore aspecifico di cambiamento e un aspetto che andrebbe affrontato in modo transdiagnostico in questi disturbi.

 

I sottotipi riguardanti il disturbo dell’insonnia

Secondo i ricercatori del Netherlands Institute for Neuroscience l’ insonnia può essere di 5 tipi diversi. Lo studio è stato pubblicato il 7 gennaio 2019 su The Lancet Psychiatry.

 

Il disturbo dell’ insonnia è considerato il secondo disturbo mentale più diffuso al mondo e il primo rischio di depressione. Quando si parla di insonnia è chiaro a tutti di cosa si sta parlando, tuttavia i dati provenienti dalla clinica e l’esistenza di biomarker non congruenti tra pazienti che soffrono di questo tipo di disturbo fanno presupporre che esiste un’importante eterogeneità nel disturbo dell’ insonnia e che spesso le diverse tipologie non vengono riconosciute.

In passato sono già state proposte nosologie che raccoglievano le diverse tipologie di insonnia ma nessuna di queste ha mai mostrato una buona validità scientifica. Recentemente, alcuni studiosi hanno provato ad ottenere dati più solidi che sostenessero l’ipotesi dell’esistenza di diverse tipologie di insonnia attraverso studi su larga scala in cui la raccolta di dati comprendeva sia tratti multidimensionali che biologici.

Lo studio del Netherlands Institute for Neuroscience

La Dott.ssa Tessa Blanken e un gruppo di colleghi del Netherlands Institute for Neuroscience è riuscita in particolare a dare una spiegazione del perché sia stato così difficile in questi anni identificare i meccanismi cerebrali sottostanti all’ insonnia ed afferma:

Anche se abbiamo sempre considerato l’ insonnia come un disturbo, essa rappresenta in realtà cinque diversi disturbi. I meccanismi cerebrali sottostanti possono essere molto diversi. In maniera simile, i progressi riguardanti lo studio della demenza sono stati fatti una volta che ci siamo resi conto che ne esistono di diversi tipi, come l’Alzheimer, oppure la demenza vascolare o la demenza frontotemporale.

I soggetti che hanno partecipato allo studio sono stati reclutati attraverso il Netherlands Sleep Registry, un database di volontari aventi un’età minima di 18 anni. Ciascuno di essi è stato poi seguito online per esaminare i tratti di personalità, la qualità del sonno, gli eventi di vita e il proprio stato di salute attraverso la somministrazione di diversi questionari selezionati.

I risultati ottenuti hanno permesso di ottenere dati aventi un’ampia validità clinica rispetto all’esistenza di diverse tipologie di insonnia e agli effetti sullo sviluppo di disturbi del sonno, di possibili disturbi in comorbilità (inclusa la depressione) e sulla risposta dei pazienti alla terapia con benzodiazepine. Nel caso di due specifici sottotipi di disturbo dell’ insonnia, si è anche valutata la rilevanza clinica di queste tipologie di insonnia mediante l’uso di un biomarker dell’elettroencefalogramma e l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale nel trattamento.

L’ insonnia oltre i disturbi del sonno

Sorprendentemente, i cinque tipi di insonnia non differivano affatto rispetto alla qualità del sonno valutata nei soggetti sperimentali, come ad esempio la difficoltà ad addormentarsi o di risvegliarsi al mattino. Studi precedenti avevano cercato di definire le diverse tipologie di insonnia concentrandosi proprio su queste differenze nella qualità del sonno e per questo motivo, secondo gli autori, non hanno avuto successo nella definizione delle differenti tipologie di insonnia.

Blanken e colleghi hanno invece classificato l’ insonnia andando oltre i disturbi del sonno e hanno valutato dozzine di questionari sui tratti di personalità, che sono noti essere radicati nella struttura e nella funzione della mente delle persone. Sulla base di queste differenze hanno dunque identificato i seguenti sottotipi di insonnia:

  • il tipo 1 ha punteggi elevati su molti tratti angosciosi, come il nevroticismo e il sentirsi giù o tesi;
  • i tipi 2 e 3 sperimentano meno angoscia e si distinguono per la loro alta e bassa sensibilità alla ricompensa;
  • i tipi 4 e 5 sperimentano ancora meno sofferenza e differiscono per il modo in cui il loro sonno risponde a eventi di vita stressanti: nel tipo 4, eventi di vita stressanti inducono insonnia grave e di lunga durata, mentre nel tipo 5 la qualità del sonno non sembra essere particolarmente influenzato da questi eventi.

Ricontattati dopo 5 anni e sottoposti nuovamente ai test già utilizzati nella prima fase dello studio, i soggetti sono risultati aver mantenuto lo stesso sottotipo di insonnia rilevato in precedenza, il che suggerisce l’esistenza di un ancoraggio nel cervello di questa tipologia di disturbo. In effetti, i soggetti con un diverso sottotipo di insonnia differivano anche nella loro risposta all’EEG agli stimoli ambientali.

Prospettive future

Le nuove metodologie e tecniche sviluppate per lo studio delle attività cerebrali, lascia sperare di poter raggiungere una maggiore comprensione dei meccanismi cerebrali sottostanti le diverse tipologie di insonnia individuate da Blanken e colleghi.

Classificare le diverse tipologie di insonnia è inoltre clinicamente rilevante dal momento che l’efficacia del trattamento con sonniferi o terapia cognitivo comportamentale, sempre sulla base dello studio sopra citato, sembra differire a seconda dello specifico sottotipo di insonnia di cui soffre il paziente.

Anche il rischio di sviluppare depressione variava drammaticamente a seconda del sottotipo di insonnia. Raggiungere quindi una buona classificazione delle diverse tipologie di insonnia consentirebbe un approccio più efficace alla prevenzione della depressione, allertando in particolare i soggetti con un rischio maggiore di svilupparla. Blanken e colleghi hanno avviato a questo scopo uno nuovo studio sulla prevenzione della depressione nelle persone con insonnia.

La speranza è che studi come questo facciano nascere l’interesse per un tema come l’ insonnia, promuovendo la spinta verso nuove scoperte oltre che sui meccanismi alla base di tale patologia anche sulle modalità di intervento più efficaci nel trattamento.

Gestione delle classi difficili: l’apporto che lo psicologo può offrire alla scuola

Dall’indagine effettuata dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica (2018) che ha coinvolto 440 docenti su tutto il territorio nazionale, è emerso che una delle maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano nel lavoro quotidiano è la gestione delle classi “difficili”

 

Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare.
La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia.
Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo,
è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. (Daniel Pennac)

 

Dall’indagine effettuata dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica (2018) che ha coinvolto 440 docenti su tutto il territorio nazionale, è emerso che una delle maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano nel lavoro quotidiano è la gestione delle classi difficili, segnalato dal 60,5% del campione. Per “classe difficile” si fa riferimento ad una classe con difficoltà relazionali, emotive e comunicative, considerando i rapporti con gli alunni, tra gli alunni e molto spesso, anche con i genitori.

Classi difficili: quali competenze servono per la gestione

Ma cosa significa esattamente gestire una classe? Questa espressione include le strategie che l’insegnante mette in atto per promuovere l’interesse e la partecipazione degli allievi nei confronti delle attività e per stabilire un ambiente di lavoro produttivo. Questo implica possedere delle competenze nella conduzione dei rapporti interpersonali e di gruppo, con l’obiettivo di promuovere negli alunni un atteggiamento positivo verso le relazioni e l’apprendimento; implica la capacità di coinvolgere, motivare e promuovere l’interesse degli alunni, riconoscere lo stile cognitivo e relazionale di ognuno e adottare le strategie più adeguate; significa saper gestire i conflitti, anche quando sfociano nella problematica del bullismo.

Chiunque abbia avuto a che fare con una classe scolastica concorderà nel ritenere questo compito estremamente difficile, sia con le classi funzionali che, a maggior ragione, con quelle che per vari motivi presentano delle disfunzionalità. E’ evidente come siano tante le variabili che intervengono in questo processo. Possiamo evidenziare le principali: le caratteristiche dei singoli alunni, le dinamiche di gruppo che si vanno a creare tra loro e tra alunni e insegnanti; le caratteristiche dei genitori, l’atteggiamento e le rappresentazioni della scuola che essi trasmettono ai loro figli; le modalità relazionali tra insegnanti e genitori, nonché tra gli insegnanti dell’équipe educativa con quella determinata classe; la personalità dell’insegnante, le sue esperienze di vita e la sua motivazione al lavoro.

Classi difficili: qualche indicazione per gestirle

In generale, quali indicazioni potrebbero essere utili ad un insegnante per gestire le classi difficili?

  • Avere uno stile educativo autorevole: è centrato sui bisogni degli allievi e risponde alla domanda: “cosa serve al mio allievo per trovarsi nella migliore condizione per apprendere?” Si fanno rispettare le regole perché servono ai ragazzi e se ne spiegano le motivazioni. I comportamenti scorretti non vengono presi sul personale, ma si chiedono i motivi per cui si sono verificati.
  • Costruire una buona relazione con ogni singolo alunno: ad esempio chiamandolo per nome, usando un linguaggio non verbale positivo, parlando spesso individualmente con i ragazzi, specie nei momenti non strutturati.
  • Utilizzare un linguaggio e una mimica complice, mantenendo il ruolo.
  • Comunicare con fermezza e chiarezza ma mai con rabbia; l’emotività dovrebbe essere il più possibile neutra. Se l’insegnante comunica in modo collerico mostra di aver vissuto la “trasgressione” dell’alunno su un piano personale.
  • Quando si può, cercare di sfruttare ciò che piace per fare lezione, informandosi sugli interessi personali di ogni alunno.
  • Proporre poche regole, espresse sempre in positivo e mai in negativo, formulate in maniera concreta.
  • Spiegare le regole: se non si riesce a spiegare il perché di una regola significa che è stata introiettata dai caregivers o dal contesto sociale e la si sta riproponendo senza capire se serve realmente.
  • Quando si riprende il comportamento scorretto si dovrebbe sempre esplicitare qual è il comportamento desiderato.
  • Comunicare la punizione con tono di tristezza piuttosto che con tono di vendetta e indignazione. Tenere presente che le punizioni incoraggiano l’indisciplina perché il colpito non si dà per vinto.

Classi difficili: lo Psicologo Scolastico come può essere d’aiuto?

Che contributo può offrire lo Psicologo Scolastico agli insegnanti nella gestione delle classi difficili?

La prima cosa da realizzare quando si viene chiamati ad intervenire è effettuare un’analisi della domanda e del contesto. A seconda del caso si deve capire se effettuare un intervento sui singoli alunni “problematici”, sul gruppo classe, sugli insegnanti, sui genitori o su tutti gli attori coinvolti, cosa che nelle situazioni più complesse ha certamente un’efficacia maggiore: è difficile infatti che un problema possa dipendere da una singola variabile; è molto più frequente che ci sia un’interconnessione di fattori che hanno portato all’instaurarsi di una situazione disfunzionale.

Gli interventi che si sono rivelati più utili, facendo riferimento alle prove di efficacia, sono:

  • Interventi di prevenzione e contrasto al bullismo: training per gli studenti centrati sulle Social Skills (empatia, autoconsapevolezza, comunicazione efficace, problem solving), circle time, laboratori sulle emozioni, role playing con focus sull’interazione empatica.
  • Metodo integrato per l’educazione socio-affettiva, che comprende: Metodo Gordon (ascolto attivo, messaggio-io e metodo senza perdenti), circle time ed esercizi psicomotori (Francescato et al., 1986; Francescato, 2004; Gordon, 2013).
  • Colloqui individuali con alunni, genitori e insegnanti, che permettono di lavorare sulle problematiche personali (se presenti); si valuta se dovrebbe essere effettuato un invio ad un altro servizio.
  • Seminari informativi/formativi con genitori su tematiche di psicologia dello sviluppo e sostegno alla genitorialità, scelte a seconda del bisogno emergente e delle specificità della situazione.
  • Formazione degli insegnanti sul riconoscimento precoce delle problematiche e le modalità per affrontarle, sulla gestione proattiva della classe, l’insegnamento interattivo, l’apprendimento cooperativo, l’uso del problem solving, la comunicazione efficace (Gordon, 2013).

E’ fondamentale non giudicare gli insegnanti e non farli sentire soli. Il compito dello Psicologo Scolastico è quello di creare una sinergia, fare rete, empatizzando col vissuto di difficoltà e talvolta di impotenza che si trovano a vivere gli insegnanti di fronte ad una situazione complessa e talvolta radicata nel tempo.

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