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Laureato o laureando in Psicologia del lavoro o della Formazione? Unisciti al team di Studi Cognitivi!

Sei laureato o stai per laurearti in Psicologia del lavoro o della formazione? Unisciti al team di Studi Cognitivi!

 

Stai per laurearti in Psicologia del lavoro o della formazione e vuoi scoprire come diventare un professionista. Unisciti al team di Studi Cognitivi. Sono disponibili due posti per il tirocinio nel prossimo semestre.

Sei laureato/a in Psicologia del lavoro o della formazione e vuoi unirti al team di Studi Cognitivi. Affiancherai il responsabile dell’organizzazione e dello sviluppo formativo in un percorso di crescita. La posizione è aperta anche per un tirocinio post laurea.

Che cosa ci aspettiamo da te?

  • Desiderio e curiosità di approfondire i temi che riguardano l’organizzazione (ruoli, competenze, performance, valutazione ecc.)
  • Interesse verso i temi della psicologia sociale applicata
  • Passione per la formazione in termini di metodologie e strumenti
  • Preparazione accademica adeguata a sostenere il ruolo potenziale
  • Solide competenze di analisi (capacità di leggere e interpretare dati quantitativi e qualitativi)
  • Capacità di auto organizzarsi e un rigoroso rispetto delle scadenze
  • Attenzione a migliorare e ricercare soluzioni sempre migliori

L’impegno è di 20 ore settimanali.

Che cosa non stiamo cercando…

  • Uno psicologo clinico che veda in questa offerta solo un lavoro… ma “tanto a me piace solo la clinica”
  • Qualcuno che non abbia mai conosciuto o esplorato, almeno accademicamente, tematiche formative o organizzative
  • Qualcuno che non sia disposto a studiare e continuare ad apprendere
  • Qualcuno che non conosca State of Mind …potremmo reagire molto peggio di Miranda Priestly!

Per candidarti puoi scrivere a [email protected] allegando il CV e un breve testo che ci aiuti a comprendere le tue motivazioni.

 

Parlami di te (2018): la storia di una rinascita, per riflettere con ironia sulle nostre fragilità – Recensione del film

Fabrice Luchini è un mostro sacro del cinema e del teatro francese e su Luchini il regista Mimram ha costruito il film Parlami di te, che è ispirato a una storia vera, quella di Christian Streiff, il grande manager della Peugeot che una decina di anni fa fu licenziato dalla guida della casa automobilistica nel giro di poche ore.

 

Fabrice Luchini è un mostro sacro del cinema e del teatro francese. Paragonabile per fama e tifoseria forse al nostro Toni Servillo.

Se seguite la serie di Netflix Chiami il mio agente, ambientata in un’agenzia francese per attori, avrete visto la puntata a lui dedicata e avrete capito di che mostro sacro parliamo. Pur di averlo come cliente ogni agente sarebbe disposto a vendere la madre…

Parlami di te – l’egocentrismo come aiuto e come ostacolo

Così anche i registi. Metti nel cast Luchini, che si pronuncia ovviamente alla francese con l’accento sulla i finale, e hai fatto il film. Pubblico assicurato. Questo deve avere pensato Hervé Mimram, regista di Parlami di te. Su Luchini il regista ha costruito il film, che è ispirato a una storia vera, quella di Christian Streiff, il grande manager della Peugeot che una decina di anni fa fu licenziato dalla guida della casa automobilistica nel giro di poche ore.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 1

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 2

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 3

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 4

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 5

Streiff qualche mese prima aveva avuto un’emorragia cerebrale, si era ripreso, ma non perfettamente. Soffriva di amnesie, faticava a parlare: ma il sistema industriale è spietato, non aspetta, se non sei efficiente al cento per cento vai fuori.

Anche Alain, il protagonista del film Parlami di te è un grande manager sempre sotto pressione – il titolo originale del film infatti è Un homme pressé – e quando si risveglia in ospedale fatica ad accettare la sua nuova condizione di malato. Il film è appunto la storia di una rinascita, resa più difficile in questo caso dal soggetto colpito dall’ictus. Che non è calmo e paziente come si addice a un convalescente, che anzi rifiuta la sua condizione di persona malata.

Alain è un uomo prepotente, sicuro di sé, abituato a comandare e ad avere tutto e subito. Lo aiuterà in questo cammino – nella realtà durato tre anni e Streiff racconta di essere ancora soggetto a tremori – Jeanne, una giovane logopedista.

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Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 6

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 7

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Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 9

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 10

Sulle prime il loro è un rapporto molto burrascoso: Alain, per descrivere il tipo, è famoso fra i suoi sottoposti per non dire mai grazie, uno che quando gli si chiede se sia stanco risponde bruscamente, “riposerò quando sarò morto”. Ovvio che sopporti malamente gli esercizi elementari che è costretto a fare per riacquistare correttamente la parola. Il regista punta moltissimo sul linguaggio e Lucchini lo aiuta offrendo allo spettatore un vero saggio di bravura. Il suo Alain è convinto di pronunciare bene le parole, non si rende conto che invece le storpia, che farfuglia, straparla. Il suo forte egocentrismo sicuramente gli è stato utile per costruire una brillante carriera, ma ora è un ostacolo. Le sedute con Jeanne gli sembrano tempo sprecato, sciocche e inutili le brevi frasi che dovrebbe ripetere svariate volte.

Parlami di te – scoprirsi fragili

L’altra figura che lo aiuta nel decorso della malattia è la figlia Julia, una ragazza deliziosa, ma succube anche lei degli umori del padre. Totalmente arido sul terreno degli affetti familiari anche con lei Alain ostenta insofferenza, finché dovrà cercare il suo aiuto
È la nemesi. Da forte che era, o che pensava di essere, il grande manager si scopre improvvisamente fragile.

Al di là delle cure specifiche, alla fine sarà lui stesso ad aiutarsi, a usare la malattia per ricostruire un nuovo Alain. Per farlo sarà necessario mettersi in cammino, zaino in spalla, per seppellire definitivamente chilometro dopo chilometro, tappa dopo tappa, il manager di ieri. Quello di oggi sarà semplicemente un uomo alla ricerca di se stesso sul Cammino di Santiago di Compostela, un pellegrino fra i pellegrini.

Parlami di te non è un film verità, non è il racconto di un dramma. No, Parlami di te è più semplicemente una commedia, forse il genere cinematografico in cui i francesi più eccellono. Una commedia che usa il dramma di un uomo colpito da una grave malattia per raccontarlo con garbo e per farci anche sorridere. Perché l’ironia, sembra dirci il regista, può essere un buon antidoto anche alle peggiori tragedie.

In Francia il film è uscito prima di Natale ed è stato campione di incassi, da noi sarà nelle sale da giovedì 21 febbraio. Dovrà puntare molto sul doppiaggio, perché non è facile rendere anche in italiano il saggio di bravura linguistico di Luchini. Ma si sa, gli italiani sono i migliori doppiatori del mondo.

 

PARLAMI DI TE – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

Disturbo narcisistico di personalità: grandiosità, vulnerabilità e comorbilità psichiatrica

In ambito clinico le descrizioni del Narcisismo patologico convergono su alcune caratteristiche tipiche..

 

Le caratterische tipiche sono l’egocentrismo smisurato, accompagnato da una preoccupazione eccessiva per il proprio valore personale, il bisogno smodato di riconoscimento da parte degli altri, la presenza di stati mentali di vuoto ed un generale impoverimento affettivo, la mancanza di un autentico interesse per gli altri e la scarsa capacità di costruire relazioni interpersonali.

Queste osservazioni hanno condotto alla definizione nel DSM III (APA, 1980) del Disturbo Narcisistico di Personalità, i cui elementi descrittivi si fondavano sulla palese manifestazione dell’auto-percezione di grandiosità, sulla mancanza di empatia e sull’attiva ricerca di ammirazione.

Narcisismo: ce ne sono 2 tipi principali

Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono ampliate le osservazioni cliniche e gli studi condotti su pazienti narcisisti che, pur essendo avvolti in fantasie grandiose e danneggiati nelle loro capacità di costruire relazioni intime a causa della mancanza di un genuino interesse verso gli altri, manifestavano la patologia in forme diverse da quella descritta dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Akthar & Thomson, 1982; Cooper & Romingstan, 1992; Gabbard, 1989; Gersten, 1991; Pincus & Lukowitsy, 2010).

Sulla base di tali dati si è pervenuti ad un sufficiente accordo nelle descrizioni di due principali sottotipi nel Narcisismo: il tipo grandioso ed il tipo vulnerabile.

Relativamente alla distinzione tra i due fenotipi del Narcisismo patologico, è stato rilevato come mentre nei soggetti classificabili nel sottotipo ‘Narcisismo grandioso’ prevalgono i sentimenti di superiorità e di disprezzo per le altre persone e la regolazione dell’autostima avviene mediante la creazione di un esagerato e ipertrofico senso di unicità e importanza, viceversa nel sottotipo ‘Narcisismo vulnerabile’ appaiono prevalenti le emozioni di vergogna, il senso di umiliazione e l’ipervigilanza rispetto al giudizio degli altri; entro tale sottotipo la tipica ricerca di ammirazione è sostituita dall’evitamento e dal ritiro dalle situazioni che potrebbero comportare fallimenti e rifiuti, mantenendo in tal modo la grandiosità al riparo dai rischi della vita reale, nel segreto delle fantasie.

A fronte di quanto esposto rispetto alle differenze intercorrenti tra i due fenotipi è necessario evidenziare che vari autori hanno rilevato come la maggior parte dei soggetti narcisisti presenta fluttuazioni tra manifestazioni di grandiosità e di vulnerabilità (Caligor et al., 2015; Dimaggio et al., 2003; Marissen et al., 2012; Pincus & Lukowitsky, 2010, Ronningstam, 2016); in tal senso, dunque, la sintomatologia narcisistica non risulta statica, immobile, bensì rappresenta l’espressione di processi dinamici e mutevoli sottesi ai patologici tentativi di regolazione dell’autostima.

Per ciò che concerne la comorbilità nel Narcisismo, le ricerche hanno rilevato come il Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) si presenta più frequentemente insieme ai Disturbi di Personalità Antisociale, Borderline, Istrionico, Passivo aggressivo e Schizotipico (Levy et al., 2009; Stinson et al., 2008).

Inoltre il DNP è presente nel 5% dei casi di Disturbo Bipolare (Vieta et al., 2000) e in comorbilità con abuso di sostanze.

Per quanto riguarda i sottotipi, è stata rilevata la frequente presenza di depressione e ansia nel sottotipo ‘vulnerabile’ (Ronningstam, 2005), mentre l’uso di sostanze è frequente nel sottotipo ‘grandioso’ (Caligor et al., 2015).

Narcisismo patologico: quando il narcisista chiede aiuto

In relazione ai disturbi presenti in comorbilità assume rilevanza evidenziare che, nella maggior parte dei casi, i soggetti affetti da Disturbo Narcisistico di Personalità richiedono un intervento psicoterapeutico non in virtù di una consapevolezza di malattia bensì nel momento in cui manifestano sintomi depressivi o ansiosi che non sono più in grado di sostenere.

I fattori scatenanti uno stato depressivo nel narcisista sono generalmente costituiti da relazioni interpersonali problematiche, da rifiuti o abbandoni, da mancati riconoscimenti nel contesto professionale, da un vissuto di insoddisfazione per la propria vita, da perdite o insuccessi che sminuiscono il fragile senso di grandiosità, generando nell’individuo una percezione di sconfitta e fallimento, e conseguenti emozioni di vergogna ed umiliazione.

Si rende possibile evidenziare, dunque, come la depressione narcisistica scaturisce dalla percezione di una profonda discrepanza intercorrente tra le aspettative idealizzate costruite dal soggetto e la realtà esterna.

In alcuni casi, inoltre, tale stato emotivo sfocia in un evitamento dei rapporti interpersonali fino all’estremo del ritiro sociale, al fine di proteggersi dal rischio di ricevere giudizi negativi altrui a causa della propria condizione di sofferenza emotiva.

Narcisismo: come si manifesta la sofferenza del narcisista

In relazione a quest’ultimo aspetto, infatti, le ricerche hanno rilevato che, parallelamente agli stati depressivi, i soggetti affetti da Disturbo Narcisistico di Personalità presentano frequentemente altri quadri sintomatologici e problematiche comportamentali, quali disturbo da ansia sociale e abuso di sostanze psicoattive.

L’ansia sociale, derivante dall’ipersensibilità al giudizio negativo degli altri sottesa alla millantata sicurezza in sé narcisistica, è manifestata prevalentemente nella forma di un’elevata preoccupazione per le critiche su presunti difetti nel corpo e nelle performances. Tale forma di ansia, dunque, mette in luce la fragilità di individui che nascondono dietro la facciata altezzosa un doloroso senso di inadeguatezza, facilmente slantetizzato e smascherato nella circostanza in cui l’ambiente esterno non fornisce l’ammirazione e l’approvazione attese.

Parallelamente l’abuso di sostanze stupefacenti (in particolar modo la cocaina) e di alcool consente al soggetto di ottenere un veloce, quanto effimero, senso di sollievo dagli stati d’animo negativi e facilita il ripristino o il mantenimento dello stato mentale di grandiosità.

Nei narcisisti la tipica convinzione di possedere abilità eccezionali conduce a negare la loro oggettiva dipendenza da sostanze, a credere di avere il pieno controllo sulla sostanza stessa, e di poterne interrompere l’uso semplicemente quando lo desiderano.

Infine, in alcuni casi i soggetti che presentano un Disturbo Narcisistico di Personalità intraprendono un trattamento psicoterapeutico a causa di un vissuto di grave rabbia, che talvolta sfocia in aggressività etero-diretta verbale o fisica. Tale stato emotivo può essere scatenato da un’ideazione paranoide basata sulla convinzione che gli altri, invidiosi della loro superiorità, siano intenzionati a danneggiarli, sminuendoli o disprezzandoli.

In tali circostanze, la tendenza dei narcisisti è quella di attribuire agli altri la responsabilità dei propri insuccessi, al fine di proteggere la fragile autostima gravemente minacciata dai fallimenti e dalle invalidazioni esterne.

Nonostante il livello di sofferenza emotiva sperimentata dai tali soggetti sia spesso elevato, per il narcisista è molto difficile sia decidere di richiedere l’aiuto terapeutico sia manifestare apertamente il proprio disagio; viceversa, spesso il narcisista assume un atteggiamento di rigido distacco rispetto alle problematiche emotive manifestate. Tale negazione appare inoltre aggravata dalla scarsa capacità, peculiare negli individui affetti da tale disturbo di personalità, di accedere ai propri stati interiori e di riconoscere le proprie emozioni, pensieri, bisogni e desideri.

Infine, alla luce di quanto sopra esposto in merito alla sintomatologia narcisista ed alla distinzione tra i fenotipi grandioso e vulnerabile, si rende necessario evidenziare la marcata variabilità nel livello di funzionamento di tali pazienti.

In tal senso si rileva come la diagnosi categoriale di DNP non consente di stabilire la gravità della sintomatologia di uno specifico paziente, in quanto le persone che condividono la diagnosi di Disturbo Narcisistico possono presentare livelli di gravità clinica, di funzionamento sociale e di difficoltà di trattamento profondamente diversi.

Rispetto a ciò, alcune ricerche hanno evidenziato che, più che la diagnosi categoriale, sono il numero totale di criteri soddisfatti nella somministrazione della SCID II ed il numero di co-diagnosi con altri disturbi a correlare con la gravità dei sintomi, la compromissione sociale e la prognosi peggiore.

Il danno psicologico ed esistenziale. Modelli di perizie, diagnosi, valutazione e calcolo – Intervista a Leonardo Abazia

Leonardo Abazia ci presenta in un’intervista il nuovo libro Il danno psicologico ed esistenziale. Modelli di perizie, diagnosi, valutazione e calcolo che offre al professionista psico-forense una guida alle buone prassi nella valutazione del danno non patrimoniale di natura psichica ed esistenziale.

 

Leonardo Abazia, psicologo giuridico e psicoterapeuta presso l’UOPC di Napoli, dedica un nuovo testo alla valutazione del danno non patrimoniale di natura psichica ed esistenziale offrendo un approfondimento teorico-pratico agli psicologi e ai medici che si destreggiano nel rispondere in prima persona ai quesiti del magistrato e alle istanze delle parti coinvolte nella controversia giudiziaria.

Non si devono giudicare gli uomini come si giudica un quadro o una statua, a un primo e unico sguardo; c’è un’interiorità e un animo che occorre approfondire.

Le parole di Jean de La Bruyère aprono il nuovo lavoro di Leonardo Abazia che, anche questa volta, si avvale della preziosa collaborazione di altri professionisti, in un lavoro corale e complesso.

Intervistatore (I): Da dove nasce l’urgenza di scrivere questo testo?

Leonardo Abazia (L.A.): Il libro nasce per raccogliere le esperienze maturate negli ultimi anni nel Centro Perizie dell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica. La diffusione delle problematiche relative al danno psicologico ed esistenziale ha fatto sì che sentissi l’esigenza di scrivere un testo che sapesse mettere bene in evidenza la specificità e l’importanza del lavoro dello psicologo giuridico, nella valutazione del danno.

Ritengo che ogni indagine sul danno non possa prescindere dall’accertamento delle condizioni psichiche e dalla valutazione delle dinamiche psicologiche che conseguono a un trauma. La nostra categoria professionale è sicuramente quella che, più di ogni altra, ha gli strumenti e le competenze, per approfondire gli aspetti legati alla psicodiagnosi. Purtroppo fino ad oggi queste valutazioni sono state effettuate dai Medici Legali o dagli Psichiatri Forensi. Dunque ho sentito la necessità, l’urgenza di comunicare agli altri colleghi, l’importanza di svolgere con sempre maggiore autonomia un lavoro i cui ambiti di intervento sono, per legge, ascrivibili prettamente al ruolo dello Psicologo. Un’ulteriore urgenza che ha spinto me ed i colleghi alla stesura del libro è legata al fatto di aver appreso che una Commissione Ministeriale stesse lavorando per ridefinire tutti gli ambiti e le categorizzazioni per le varie patologie, tra cui anche quelle psichiche.

Sentivamo l’esigenza di fornire un nostro contributo per ampliare e definire nuove categorizzazioni che permettessero un riconoscimento più specifico del danno psicologico. Tenga presente che ad oggi per i disturbi psicopatologici ne esistono solo 4 di categorie nelle classificazioni nel Codice delle Assicurazioni, 3 in quelle dell’Inail e 1 o 2 in quelle dell’INPS.

Nel lavoro svolto in questi anni, pur riconoscendo che non esiste una causalità lineare tra la natura di un danno e la comparsa di alcune sintomatologie, grazie all’ampia casistica osservata è stato possibile individuare alcuni quadri psicopatologici più frequentemente riscontrabili nel percorso peritale per la valutazione del danno psichico. Nel libro se ne descrivono circa 12. Grazie ad un collega psicologo interpellato dalla Commissione è stato possibile proporre l’ampliamento delle classificazioni e vi sono buone possibilità di riuscire ad ottenere ben 13 categorizzazioni per i disturbi psichici, con relative valorizzazioni percentuali, che attraverso la Commissione Ministeriale, potranno essere proposte nel nuovo Decreto Ministeriale. Ritengo che, se ciò sarà realizzato, permetterà ai professionisti di procedere ad un riconoscimento del danno più puntuale garantendo nel contempo un maggiore rispetto del diritto alla salute di ogni cittadino.

Il danno psicologico ed esistenziale - Intervista a Leonardo Abazia foto

Imm. 1 – LEONARDO ABAZIA

I: Quali sono le difficoltà più grandi con cui si impatta in ambito forense e che il suo libro aiuta ad affrontare?

L.A.: Le difficoltà più grandi, con cui, non solo lo Psicologo Giuridico, ma anche le altre categorie professionali come i Medici Legali e gli Psichiatri Forensi, devono fare i conti, possono essere sintetizzate in alcuni nodi problematici. Innanzitutto riuscire ad effettuare una corretta psicodiagnosi. L’iter psicodiagnostico si differenzia moltissimo da quello medico. E’ facilmente intuibile la diversità di approccio e di complessità nel valutare un osso rotto o un Disturbo post-traumatico. Un secondo nodo problematico riguarda l’individuazione del nesso di causalità. Non sempre è facile stabilire con certezza la connessione causale tra un determinato evento lesivo e il danno che ne consegue. Inoltre una volta individuata tale connessione è necessario che tali conseguenze siano rilevanti sul piano giuridico. Occorre procedere con un approccio metodologico molto rigoroso, seguendo dei criteri precisi, che abbiano una validità scientifica.

Un’ulteriore difficoltà concerne il grande problema della simulazione. Poiché le perizie prevedono il riconoscimento di un indennizzo monetario a seguito del riconoscimento del danno subito, molto comuni sono i tentativi di “inganno” sulla propria condizione psicopatologica. Nel libro tale tema viene trattato e sviscerato da vari punti di vista: sono riportati test specifici ed anche un approfondimento sul “Disturbo cognitivo simulato”.

I: Anche questa volta sceglie di collaborare con altri professionisti nella stesura del suo lavoro, in che modo tali collaborazioni sono avvenute e che valore aggiunto hanno portato al suo lavoro?

L.A.: La collaborazione con altri professionisti è un elemento costante del mio lavoro. Chi come me opera in un ambito complesso come quello della Psicologia Giuridica, non può esimersi dal confrontarsi con gli esperti del settore. Ritengo, infatti, che il confronto sia l’unico modo, non solo per crescere, ma soprattutto per fronteggiare con passione e competenza le sfide che questo ambito di intervento, richiede. Come è noto alla stesura del libro hanno partecipato non solo professionisti affermati che operano da tanti anni nel campo del danno non patrimoniale, quali Domenico Del Forno, Michele Lepore, Sara Pezzuolo (per citarne alcuni), ma anche, giovani professionisti che, nel corso di questi anni, hanno lavorato con me nell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica. In verità, trovo sempre molto stimolante il confronto con i giovani professionisti, poiché riescono, con la loro passione, con le loro idee e la loro curiosità a stimolare un dibattito fecondo su argomenti, che risultano essere spesso ostici.

I: Che tipo di obiettivo si è posto quando ha scritto il testo?

L.A.: L’obiettivo del libro, sin dalla sua progettazione, è stato quello di fornire una chiara descrizione del danno non patrimoniale attraverso un’impostazione prettamente psicologica. Esistono, infatti, molti manuali, su questa specifica materia, ma sono scritti, anche se molto bene, da professionisti diversi, non da Psicologi e questi lavori sono prevalentemente concentrati su aspetti medico legali e/o psichiatrici.

Inoltre volevamo offrire ai lettori una prospettiva psicologica dell’iter procedurale che porta alla valutazione del danno; credo sia utile a superare le sovrapposizioni e soprattutto a promuovere la tanto auspicata integrazione tra le diverse figure professionali che a diverso titolo sono coinvolte nel percorso. Dunque, come vede più che un obiettivo potremmo parlare di più obiettivi: superare la contrapposizione tra le parti, fornire ai colleghi un piccolo manuale che potesse essere da guida in tutti i passaggi che caratterizzano l’intervento peritale (diagnosi, classificazione e valutazione del danno). Nel testo ci sono non solo esempi di perizia svolti ma anche esempi di quesiti posti dai giudici.

I: Nella sua esperienza professionale quale episodio ricorda di maggiore difficoltà?

L.A.: L’episodio che ricordo essere stato particolarmente difficile, non riguarda la valutazione del danno, ma una valutazione complessiva della idoneità di un sottoufficiale del Ministero delle Finanze che sono stato chiamato a svolgere. Cosi come erano stati esposti i quesiti dal Giudice, hanno spinto il CTU ad indagare su tutta la metodologia posta in essere dall’istituzione per valutare l’idoneità. In quel caso, rispondere adeguatamente ai quesiti del Giudice ha significato mettere in discussione l’intero impianto selettivo dell’Amministrazione che, per certi versi, non solo risultava non adeguata ma non teneva in debito conto quanto previsto dalla legge rispetto alla figura professionale (ossia lo Psicologo) che può utilizzare dei test ai fini Psicodiagnostici. Come può immaginare, mettere in discussione tutta la procedura è stato fonte di grossa difficoltà.

I: Quello che da psicologo le è costato più fatica affrontare in ambito forense?

L.A.: Forse il caso più “faticoso” e difficile da un punto di vista psicologico è stata la valutazione del danno psicologico ed esistenziale di un anziano imprenditore a cui, era stato revocato per errore ed in modo improvviso il fido bancario di 200.000 euro. La Banca, inoltre, lo aveva, impropriamente inserito nell’elenco dei “cattivi pagatori”. Ovviamente questo errore lo aveva, letteralmente, ridotto sul lastrico nel giro di qualche mese. La persona si era depressa e sviluppato un disturbo post traumatico da stress. Nel corso della consulenza, le sue condizioni di salute si aggravarono repentinamente per il sopraggiungere di una malattia tumorale, e purtroppo è deceduto prima che riuscissimo a chiudere la CTU.

Il risarcimento del danno è stato riscosso dagli eredi, ma a me ed alla collega co-CTU questa esperienza ci ha segnato profondamente.

Tutti hanno dei limiti, anche i network biologici

Ancora non è chiaro quali siano i fattori che sottendono alla capacità di una rete o di un network biologico di svolgere più compiti contemporanemente. Certo, però, è importante interrogarsi sulla questione.

 

I sistemi complessi solitamente vengono concettualizzati come network, quindi anche in biologia possiamo assistere a questo processo. Questa modalità permette ai ricercatori di capire meglio come i sistemi biologici funzionano a livello elementare, potendo così rispondere a domande chiave di altri settori come la medicina o l’ingegneria.

Il flusso sanguigno è un esempio semplice della modellizzazione in network, infatti il sangue viaggia attraverso reti vascolari e può essere ridirezionato in specifiche zone dove il cervello ha più bisogno. Si pensa che il controllo di queste reti avvenga attraverso la capacità che una rete ha di sopportare un certo compito. Attualmente i fisici non hanno tuttavia ancora esplorato quanti compiti una singola rete può sopportare simultaneamente.

Quanti compiti può sopportare un singolo network biologico?

Alcuni ricercatori hanno indagato la composizione dei network biologici da un punto di vista connesso alla biologia, chiedendosi come la natura crei e mantenga il flusso delle reti, altri ancora hanno studiato i network sotto un profilo più “meccanico”, come ad esempio la disposizione degli amminoacidi che formano le proteine, e come questi possano essere cambiati in relazione alla performance di una specifica funzione biologica. Tali studi sono stati effettuati su due differenti tipologie di network, ma in entrambi i casi le informazioni ottenute sembrano essere utili per rispondere alla domanda iniziale circa le limitazioni delle operazioni svolte da un network.

I ricercatori, un team di fisici appartenenti a diverse Università statunitensi, ha descritto attraverso una serie di equazioni le reti in esame e hanno effettuato delle simulazioni facendo eseguire delle operazioni sempre più complesse a tali network biologici. È risultato che entrambi i network si comportavano allo stesso modo, anche se la fisica di base di entrambi è completamente diversa, assolvendo a svariate operazioni diverse e avendo cosi livelli simili di multitasking e controllabilità.

In conclusione

I ricercatori affermano come questo sia un passo in avanti per futuri studi in cui si cercherà di approfondire le capacità dei sistemi di network biologici poiché comprendendo appieno il funzionamento e i limiti circa le operazioni che una rete può sostenere, potranno essere apportate migliorie in alcuni settori come quello biomedico progettando così farmaci e trattamenti mirati.

La Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale si pronuncia su patentini e certificazioni

Pubblichiamo con piacere la dichiarazione della Consulta* delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale riguardante il valore legale dei vari tipi di certificati e patentini rilasciati dai molti corsi di addestramento in tecniche psicoterapeutiche post-specializzazione che stanno fiorendo sempre più frequentemente in Italia. Questa dichiarazione aspira a chiarire agli addetti alla psicoterapia quali potrebbero essere i pro -soprattutto l’incremento della diffusione delle competenze- e i contro -una certa confusione circa il valore legale e anche didattico di questi corsi- del fenomeno. Buona lettura.

 

Autorizzazione all’esercizio della psicoterapia,

all’utilizzo di specifici approcci e tecniche psicoterapeutici e obbligo di competenza

Documento approvato dal Consiglio Direttivo il 29.10.2018

Si sta diffondendo, anche nel nostro paese e nella nostra professione psicologica e psicoterapeutica, la pratica, possiamo pure dire la moda, delle certificazioni. Molti modelli di intervento psicoterapeutico, tutti nati negli Stati Uniti, propongono la loro certificazione come condicio sine qua non per applicare o insegnare quel particolare modello. La proposta è spesso formulata in modo ambiguo e usa i termini certificazione, abilitazione e autorizzazione quasi come sinonimi (mentre, come vedremo, nel nostro paese non lo sono).

Su questo punto hanno preso una chiara posizione anche le nostre due associazioni scientifiche di riferimento, AIAMC e SITCC.

Per capire il fenomeno, e contrastarne gli eccessi e le distorsioni, bisogna fare un salto negli Stati Uniti, dove il fenomeno ha origine. Il sistema formativo accademico negli SU è molto diverso da quello europeo e italiano in modo particolare. La differenza principale consiste nel fatto che in Italia i titoli di studio hanno valore legale. Laurearsi in psicologia o in medicina a Palermo o a Bologna (se sono università statali, o private riconosciute dallo Stato) non fa nessuna differenza in termini di valore formale del diploma di laurea: entrambe le lauree sono titolo necessario e riconosciuto per accedere all’esame di stato che abilita alle professioni (di psicologo o medico) e ai concorsi nella pubblica amministrazione e nel servizio sanitario nazionale (SSN).

Lo stesso discorso vale per i titoli post lauream, dottorato e specializzazione; quest’ultimo, lo ricordiamo, è titolo necessario per l’esercizio della psicoterapia e per l’accesso ai concorsi per dirigente psicologo nel SSN. Ricordiamo, inoltre, che l’articolo 21 del Codice deontologico vieta l’insegnamento dell’uso di strumenti e tecniche conoscitive e di intervento riservati alla professione di psicologo a persone estranee alla professione stessa. “Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici. È fatto salvo l’insegnamento di tali strumenti e tecniche agli studenti dei corsi di studio universitari in psicologia e ai tirocinanti. È altresì fatto salvo l’insegnamento di conoscenze psicologiche.

Negli Stati Uniti la situazione è molto diversa. Ogni università propone corsi anche molto differenti, per qualità e contenuti. I titoli di studio sono riconosciuti singolarmente dai singoli stati per le singole università. Ci sono università di fama, un nome per tutti Harvard, che sono riconosciute unanimemente, mentre forse l’università di Chattanooga non ha lo stesso trattamento.

Seconda grande differenza. Negli SU non esiste un sistema di welfare paragonabile a quello europeo. La sanità è largamente privata, e basata sulle assicurazioni, anch’esse private. Le assicurazioni, che coprono varie prestazioni, comprese quelle cliniche e la psicoterapia, stante la mancanza di valore legale del titolo di studio, per riconoscere il valore dell’intervento richiedono ai professionisti il possesso di una licensure, o, in assenza di questa, di una certificazione.
Una dettagliata descrizione delle caratteristiche e delle differenze tra licenza e certificazione si può trovare qui: https://internationalcredentialing.org/lic-cert/ .

Una certificazione è generalmente un processo volontario, ma può anche essere obbligatoria o richiesta per esercitare una professione in determinati stati. La certificazione viene per lo più fornita da organizzazioni private allo scopo di riconoscere e garantire i professionisti che hanno dimostrato di possedere i requisiti di stardard professionale minimo per svolgere la loro professione in modo competente.

Insomma, ogni stato si regola a modo suo, e le assicurazioni vogliono essere sicure di pagare per un servizio reso in modo competente. In effetti, la diffidenza delle assicurazioni ha le sue buone motivazioni. Per anni hanno pagato terapie lunghe e prive di efficacia, con fenomeni di prescrizione-erogazione obliqui e opachi. Poi, negli anni Novanta, è scoppiato il fenomeno autismo, e tutti si sono inventati “esperti” (senza avere la necessaria formazione) di Analisi Comportamentale Applicata (ABA), che risultava essere l’intervento più efficace e quindi più richiesto per l’autismo. Lo stesso sta succedendo da un po’ di anni anche in Italia.

Pertanto, la certificazione negli SU ha varie ragioni di esistere, ragioni che non si ritrovano però in Italia. Nel nostro paese, come detto all’inizio, lo stato certifica la competenza dei professionisti, attraverso vari passaggi; per gli psicologi e gli psicoterapeuti, e così pure per i medici, i passaggi sono laurea, tirocinio, esame di stato, scuola di specializzazione. Tutti i perfezionamenti successivi sono volontari, benvenuti, encomiabili, ecc. ma non obbligatori. Gli unici passaggi obbligatori sono gli aggiornamenti professionali noti come ECM ed il vincolo deontologico che obbliga ad “usare solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza”

Ogni professionista della salute è tenuto a esercitare la sua professione con scienza e coscienza, e di questo risponde davanti alla legge. Lo psicologo, o il medico, che ha ottenuto l’autorizzazione statale a esercitare la psicoterapia deve applicare questi principi. La metodica, il modello, la tecnica che decide in scienza e coscienza di applicare sul paziente fanno parte della sua libertà clinica di scelta. Paradossalmente: se io, psicoterapeuta CBT, decidessi che per il mio paziente la cosa migliore per lui sono le associazioni libere di freudiana memoria o il test di Rorschach li potrei legalmente applicare, assumendomi la responsabilità di essere in grado di farle, e nessun ente certificatore mi potrebbe impedire di farlo. Il professionista è tenuto ad aggiornarsi e a frequentare convegni, corsi e altri momenti formativi per migliorare la sua preparazione e apprendere nuove tecniche. Ma la disponibilità di un’ampia ed efficace letteratura sulle teorie cliniche e i modelli psicopatologici, la diffusione di manuali di trattamento chiari e ben strutturati, la disseminazione di Linee Guida e di protocolli di intervento che combinano tecniche di diversa matrice, il confronto e la collaborazione tra colleghi forniscono opportunità altrettanto preziose per migliorare le proprie competenze e per programmare un trattamento che risponda alle esigenze di quello specifico utente/paziente.

Per concludere: nessuna associazione tra quelle che propongono/impongono la certificazione (il patentino) per poter applicare le metodologie che afferiscono al loro modello, può in alcun modo impedire a un professionista, che sia in possesso dei necessari titoli legali di studio e che si senta preparato a farlo, di applicare qualsivoglia metodologia. Questo deve essere ben chiaro agli studenti e ai neo diplomati delle scuole di specializzazione in psicoterapia CBT, che sono i bersagli preferiti delle campagne di promozione/intimidazione. Lo stesso va detto per gli insegnanti: non serve nessun patentino per insegnare una metodica piuttosto che un’altra all’interno dei luoghi deputati all’insegnamento, facoltà, dipartimenti o scuole di specializzazione: serve averne la competenza documentata dal curriculum scientifico e professionale (e chi scrive cose non veritiere può incorrere in una denuncia per falso). Ricordiamo, ancora una volta, che gli insegnamenti, i perfezionamenti e gli aggiornamenti di tecniche psicoterapeutiche sono destinati esclusivamente a psicoterapeuti attivi o in formazione.

 

Consulta delle Scuole Italiane di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale
Sede Legale: Via E. De Amicis, 5 – 35123 Padova
Mail: [email protected]
C.F. 92270390286

 


Cos’è la Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

* La Consulta è una sede di coordinamento tra Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale e ha l’obiettivo di diffondere in Italia la conoscenza di questo orientamento terapeutico.

Al momento della pubblicazione di questo articolo il Consiglio Direttivo della Consulta è composto da:

Paolo Michielin (Presidente)
Gabriele Melli
Paolo Moderato
Giuseppe Romano
Giovanni Maria Ruggiero,
Carla Maria Vandoni
Cecilia Volpi

All’indomani della sentenza della Corte di Cassazione sull’uso personale (compreso il fumo) della cannabis light: il parere di un esperto

Il Dottor Giuseppe Di Placido, Primario in pensione di Anestesia e Rianimazione, specializzato in Tossicologia Medica, ci spiega quali possono essere gli effetti reali della cannabis sull’organismo umano, anche della cosiddetta cannabis legale o cannabis light.

 

Tutti, almeno una volta nella vita, hanno sentito parlare dell’erba che sballa e forse, anche più di una volta, molti l’hanno provata, se non altro per testare su di sé gli effetti ‘terapeutici’ di sballo e disinibizione. Niente di nuovo sotto il sole dunque. Infatti, la marijuana sembra fosse usata in Cina, per scopi terapeutici, già 2700 anni A.C. Eppure oggi parlare di cannabis ha una novità tutta particolare, soprattutto a seguito del proliferare di negozi che commercializzano prodotti della cosiddetta cannabis light, ossia le infiorescenze di canapa a contenuto legale di THC (tetraidrocannabinolo, il principio attivo), l’erba che ‘non’ sballa insomma. E a maggior ragione per la Circolare del Ministero dell’Interno che aveva autorizzato a trattare come una sostanza stupefacente quella cannabis light che contenga livelli di concentrazione di THC superiori allo 0,5%, una percentuale leggermente inferiore a quella in precedenza consentita (per la produzione).

Ad accendere nuovamente l’interesse sul tema ci ha pensato la recentissima sentenza della Corte di Cassazione, resa nota da pochi giorni, in cui si dichiara che se la commercializzazione è consentita ciò «non comporta che siano di per sé vietati altri usi non menzionati» come, ad esempio, il fumo.

Procediamo con ordine. La legge 242, approvata nel dicembre 2016, era stata accolta con grande esultanza dai produttori italiani, essa prevede la commercializzazione e la produzione di cannabis a condizione che il contenuto di THC non sia superiore allo 0,2%. È però previsto un limite superiore dello 0,6% entro il quale – per la coltivazione – è esclusa la responsabilità dell’agricoltore. Sull’onda dell’entusiasmo sono così nati negozi di cannabis light e, a oggi, si registra un vero e proprio boom di growshop! Si può comprare pane, pasta, olio, biscotti con l’ingrediente ‘magico’, prodotti diffusi anche grazie alla loro alta digeribilità e all’elevato contenuto proteico. Inoltre, la canapa legale trova utilizzo anche per capi d’abbigliamento e cosmetici.
La legge lasciava però una sorta di ‘vuoto normativo’ relativo all’utilizzo personale della cannabis legale, che sembrava non vietare né consentire.

Un’inversione di rotta è sembrata esserci, poi, con il parere formulato dal Consiglio Superiore della Sanità su richiesta del Ministero della Salute con la sua «non esclusione di pericolosità» dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa.
Alla luce, invece, di questa recentissima sentenza la Suprema Corte ha definitivamente dichiarato che la percentuale di THC sotto lo 0,6% non è ritenuta «produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti». Si deduce, in primis, che la vendita non è vietata. E sembra potersi dedurre, dunque, che anche l’uso personale della cannabis non sia vietato, compreso il fumo.

Cannabis legale e conseguenze sulla salute psichica e fisica: intervista al Dottor Di Placido

Visti i numerosi articoli di stampa nazionale che hanno riportato prepotentemente alla ribalta il tema dell’erba che non sballa e la diffusione degli headshop italiani di cannabis legale, ci si pone una domanda più strettamente specialistica. Sebbene, infatti, il tema sia stato terreno di scontro di varie associazioni, con differenti e contrapposte colorazioni politiche – a favore e contro la legalizzazione delle droghe leggere – la deontologia professionale spinge a cercar di far luce sulla reale incidenza che l’uso di tali sostanze può avere sulla salute sia psichica sia fisica, relativa all’uso di tali sostanze. E i growshop sono solo lo spunto per estendere la riflessione ad altri aspetti legati alla dipendenza da sostanze d’abuso e relative problematiche.

A tale scopo, sono state poste alcune domande al Dottor Giuseppe Di Placido, Primario in pensione di Anestesia e Rianimazione, specializzato in Tossicologia Medica, che da sempre ha rivolto – sono le sue stesse parole – “un vivo interesse verso gli aspetti tossicologici di xenobiotici, farmaci e sostanze chimiche varie”. Non a caso ha discusso la tesi di una delle sue specializzazioni proprio sulla tossicologia della marijuana. Come lui stesso ci tiene a sottolineare:

Oggi l’attenzione è rivolta alla persona che diventa il soggetto dell’azione di queste sostanze. Il medico, come tale, ha il dovere di focalizzarsi sul loro modo di agire, sul modo in cui è prodotta la sostanza, sul reperimento e sull’importanza tossicologica della sostanza stessa.

 

I (intervistatore): Dottor Di Placido, in base alla sua lunghissima esperienza, quali sono gli effetti reali della cannabis sull’organismo umano?

GDP (Giuseppe Di Placido): Va detto che, sicuramente, la cannabis ha effetti benefici per alcune patologie e di questo non c’è alcun dubbio, considerando per esempio la stimolazione dell’appetito, l’azione anti nausea, anti vomito, nei trattamenti chemioterapici. Proprio la scoperta di questi effetti ha portato a inserire tra i medicinali i cannabinoidi di sintesi (dronabinolo).

I: A proposito della cannabis light legale, coltivata in Italia con tecniche biologiche nel rispetto delle norme e delle leggi italiane, il Ministero dell’Agricoltura ha riconosciuto la produzione e il commercio delle inflorescenze di canapa, laddove vi siano livelli di concentrazione di THC inferiore allo 0,2%. Cosa pensa al riguardo? Ci sono comunque probabilità di rischio? E di che tipo?

GDP: Nella circolare ministeriale si legge che la coltivazione della canapa è consentita senza necessità di autorizzazione, a meno che non si trovi un tasso THC di oltre lo 0,2%, come previsto da regolamento europeo. Vede, per capire la portata del fenomeno faccio un esempio: la dose LD 50 – che significa 50% di mortalità per l’assunzione di questa dose – nel ratto è 40 mg di THC per kg. Nell’uomo medio di 70 kg questa quantità corrisponde a circa 3000 mg di THC, che è pari al contenuto di circa 23 sigarette con concentrazione di THC del 15% circa. Da questo punto di vista una concentrazione di tetraidrocannabinolo dello 0,2% è innocua, o meglio sarebbe innocua se un soggetto si ‘facesse una canna’. Poiché la canna viene inalata, circa il 50% si perde tra: la sigaretta che si consuma, l’inalato e l’espirato. Però se un soggetto si fa 100 canne il discorso cambia e ritorniamo sempre a Paracelso (1493-1547) secondo il quale nessuna e allo stesso tempo tutte le sostanze chimiche sono veleni, dipende dalla dose.

I: È possibile trovare in questi esercizi commerciali prodotti alimentari come ad esempio la pasta: anche in questo caso la pericolosità è correlata alla quantità di cannabis che si assume?

GDP: Paracelso, sempre Paracelso, ci offre la risposta: l’effetto dipende dalla dose assunta.

I: Il Consiglio Superiore di Sanità però afferma che il limite di THC non sia comunque trascurabile, ravvisando la possibilità che si producano degli effetti.

GDP: Se la quantità di cannabis è eccessiva, da light si passa a heavy, ovvero fortemente tossica; ha ragione il Consiglio Superiore.

I: Il consumo di cannabis legale può avere effetti pericolosi in relazione anche all’età del soggetto consumatore, immagino che ci siano maggiori controindicazioni nel caso di adolescenti, persone in fase di crescita. Cosa ne pensa?

GDP: La Dott.ssa Sara Beggiato dell’Università di Ferrara, ricercatrice del Dipartimento di Scienze della Vita Biotecnologia, in collaborazione con i professori del Research Center di Baltimora ha realizzato uno studio sull’assunzione di THC in organismi in via di sviluppo: questo lavoro è stato selezionato tra le 13.000 ricerche sull’oggetto. È stata presentata a San Diego nel novembre scorso: si sostiene che l’assunzione di THC in un’età della vita in cui il cervello si sta ancora sviluppando fa male ed espone al rischio di sviluppare malattie e psicosi, fatto per altro noto da tempo. L’originalità della ricerca non sta, dunque, nel ribadire la nocività della marijuana, quanto nel fatto che essa indica per la prima volta in modo chiaro qual è l’elemento facilitatore di determinate alterazioni. Si tratta appunto dell’acido chinurenico, una sostanza endogena che sembra essere coinvolta nello sviluppo di disturbi psichiatrici. Dobbiamo, quindi, prevedere un danno quando c’è un uso continuo.

I: L’utilizzo della cannabis può essere legata anche a patologie neurologiche, penso all’epilessia ad esempio?

GDP: C’è la possibilità che delle patologie latenti vengano portate in superficie, che esplodano con l’utilizzo di queste sostanze.

I: Non come causa?

GDP: Come causa no, ma come epifenomeno.

La mia vita per l’inconscio (2007) di Aldo Carotenuto – Recensione del libro

La mia vita per l’inconscio di Aldo Carotenuto è un testo del 1996, alla sua prima ristampa nel 2007: risulta quanto mai opportuna questa riedizione della vita di uno dei più grandi psicoanalisti italiani di sempre..

 

Per Aldo Carotenuto la vita di uno psicoterapeuta, i suoi tormenti, le passioni, i ricordi, le scelte culturali, non possono essere una variabile tra le tante: ma rappresentano – assieme al relativo potere della tecnica – quella sostanza difficilmente riproducibile in serie che conferisce spessore al lavoro psicologico. La disponibilità costante a trasformarsi nell’incontro con l’altra sostanza, portata dal paziente, è per l’autore la vera e unica possibilità di cambiamento e guarigione, che deve essere sempre reciproca, come rammenta Jung con il suo “mysterium coniunctionis”.

La mia vita per l’inconscio: protagonista del suo mondo

La casa di Aldo Carotenuto, nei pressi di Piazza Bologna a Roma, era una fucina di produzione culturale e intellettuale in costante produzione: sempre affollata di persone, intellettuali, letterati, medici, giovani tirocinanti intenti a sistemare l’indefinita vastità dei libri che ne riempivano ogni angolo, in lungo e in largo. Un mare di sapere, una dimora-biblioteca nella quale Carotenuto, con la maestria di un consumato navigatore a vela dell’era pre-web, aveva la capacità di rintracciare il testo esatto a vista e recuperare in esso il capoverso al quale riferirsi o ispirarsi a seconda del tema che si stava trattando in quel momento.

Quel districarsi agile tra volumi, manoscritti, opere e autori, contribuiva a renderlo ai nostri occhi di allievi, ancor più meritevole dell’attenzione che già sapeva catturare con quella fiducia nelle risorse di ciascuno che non mancava mai di esprimere: sempre delegante, stimolante, curioso, mai puntiglioso, costantemente disponibile nel valutare con interesse le proposte che gli venivano portate. Irriverente, poco incline ai rituali e alle formalità accademiche, prediligeva il coinvolgimento alla deferenza, la condivisione all’ossequio. Negli anni ’90 era già un mito vivente, dopo le ricerche e le pubblicazioni degli inediti carteggi tra Freud, Jung e Sabina Spielrein che costrinsero a una rivisitazione pressoché totale della storia delle origini della psicoanalisi e dunque della psicoterapia. Carotenuto guardava sempre l’interlocutore negli occhi, e il suo non era uno sguardo di circostanza: bensì una tangibile ricerca dell’altro. Molte di queste sue caratteristiche, così come la notorietà internazionale, l’incredibile partecipazione alle sue lezioni, le aule gremite di gente, non gli resero sempre facile la convivenza nelle istituzioni collegiali e tra i suoi stessi colleghi.

La mia vita per l’inconscio: la clinica può venire solo dall’esperienza soggettiva

La mia vita per l’inconscio, testo del 1996, è un condensato nel quale, in poche scorrevoli pagine, Carotenuto si «denuda» (pag.7) senza particolari reticenze. L’autore decide di farci entrare nella sua dimensione interiore, rivelando assieme a molti dettagli della sua vita, soprattutto le motivazioni profonde delle proprie scelte. Il registro linguistico utilizzato è confidenziale, semplice, schietto, più asciutto del Carotenuto che si mostra in altri saggi, rimanendo pur sempre vivo e stimolante nel proprio inconfondibile modo di scrivere e raccontare. Questa lettura può spiazzare, persino tutt’oggi, per l’incisiva franchezza con cui l’autore racconta del suo distinguere tra «pubblico e pubblico» (pag. 12): quello degli studenti e dei lettori, il suo «vero pubblico» – e l’altro, quello di chi si adopera per fare della «conoscenza un sapere dogmatico che nega altri saperi» e ha come fine il mero mantenimento di una posizione di potere. Chi proclama una presunta superiorità, nascondendo unicamente le proprie brame autoritarie basandosi su assunzioni assiomatiche, viene affrontato dall’autore con sfrontatezza e senza troppi giri di parole.

Aldo Carotenuto si è speso sempre, come è evidente in questa autobiografia, perché le istituzioni che detengono il sapere come forma di autorità si ponessero in un atteggiamento di autocritica: di ricerca curiosa «sempre soddisfatta e mai sazia al tempo stesso» di quella verità in costante trasformazione che egli stesso, in altri lavori, preferiva definire “itinerante”. D’altronde il suo pensiero si è formato attraverso l’incontro con personaggi (per lui le letture erano “reali” incontri con gli autori) altrettanto irriverenti e al tempo stesso consapevoli delle umane ombre, quali Dostoevskij, Kafka, Pasolini, Marx, Freud, Jung. Lo sforzo autobiografico, che privo di falsa retorica egli stesso non esita a collocare in un bisogno narcisistico, nasce dunque con l’intento di mostrare – ancora una volta – quanto sia l’esperienza soggettiva a dar vita alle teorie psicologiche e quindi alla clinica che ne deriva e quanto sia poco concreta e lontana dai fabbisogni dell’individuo quella psicologia che si fonda, invece, sulla clinica derivante dalla sperimentazione in laboratorio, o dalla pura teoria.

La mia vita per l’inconscio: curarsi del proprio e altrui disagio

La tematica che scelgo di sviluppare, di anno in anno, nei mei seminari universitari, nasce sempre dall’esigenza di sondare aree perturbanti e sconosciute del mio stesso mondo interno, e credo sia questo a decretare la peculiarità delle lezioni e la fervida adesione del mio uditorio…(pag. 10).

Leggere l’autobiografia di Aldo Carotenuto, tra riferimenti artistici, letterari, storici, è cosa ben diversa dallo studiare la vita di uno scienziato – che potrebbe essere del tutto irrilevante al fine della comprensione del lavoro di quest’ultimo – in questo caso, invece, la biografia coincide con il contenuto del compito stesso dello psicoterapeuta. Per Carotenuto, sulla scia di Jung, è impensabile occuparsi del disagio psicologico senza che il terapeuta stesso si interroghi

sul senso e sul valore dell’esistenza – d’altronde – ciò significa che il disagio, o quanto meno l’inquietudine, è una condizione fondamentale del nostro lavoro. Se venisse a mancare, cadrebbe non tanto la motivazione a portarlo avanti, quanto la disponibilità̀ di energie da spendere in esso. (pag.23).

Non mancano le memorie del disagio di essere nati poco prima della seconda guerra mondiale, le rievocazioni delle paure e delle indecisioni, della malattia che lo segnò fin da molto giovane, dell’amore, del travaglio lavorativo, della propria introversione, di quanto in definitiva

la ferita, (…) può determinare un risveglio psicologico che ci induce a sperimentare livelli più profondi di consapevolezza. (…) avvenimenti particolarmente gravosi, che le analisi che ho successivamente intrapreso mi hanno aiutato a comprendere e a superare (pag.24).

Ecco che alcuni dei concetti chiave dell’opera di Carotenuto, il “tradimento”, la “trasgressione”, assumono una prospettiva differente se osservate alla luce della sua vita:

se “trasgredire” significa essere fedeli a sé stessi e non ai manuali o alle “istruzioni per l’uso”, confesso di aver molto trasgredito (pag.28).

La mia vita per l’inconscio: non si può stabilire la tecnica migliore

Un altro motivo caro all’autore, quello dell’indimostrabilità della superiorità di una tecnica rispetto all’altra, si inscrive esattamente in questa visione dell’uomo e della psicoterapia. Il lavoro terapeutico opera un processo di trasformazione – e di guarigione – non attraverso l’asettica applicazione di un metodo, ma grazie alla persona dell’analista, che ha compiuto a sua volta un analogo e altrettanto sofferto cammino per il cambiamento. Per questo Carotenuto, così come Jung soleva ricordare di non volere seguaci “junghiani”, si definiva «“un analista”, senza una particolare connotazione di scuola.» (pag. 28); dato che

non si tratta di aderire e conoscere questo o quel modello teorico, che nella maggioranza dei casi non ha alcuna validità, ma è l’atmosfera che si riesce a creare tra due persone (paziente e analista) che diventa il vero fattore trasformativo.

Tali posizioni erano, e sono ancora, particolarmente avverse agli addetti ai lavori, che spesso si trincerano dietro i dogmatismi delle proprie ortodossie “scientifiche” «per impedire che si riconosca la loro nullità». (ibidem).

Il mancato appiattirsi sulla moda della ricerca sperimentale, della prova di efficacia da fornire in laboratorio – che egli riteneva irrealizzabile – esponeva Carotenuto a critiche feroci e non di rado distruttive. Anche perché, sosteneva (e tollerava) l’idea che anche il terapeuta potesse essere portatore di una ferita – l’importante era che avesse speso tempo e impegno nel tentativo di sanarla – e come rammentava parlando di sé stesso: «non mi sono mai preoccupato di nascondere la “psicopatologia” dell’analista».

È nel richiamo costante alla “tensione creativa”, che Carotenuto incentra il suo discorso sulla possibilità, per sé stesso, come per il paziente, di «trasformare la realtà̀ e di reimmaginare il mondo» (pag. 76) ed è in questo accostamento tra creatività e psicoterapia, che egli situa, senza possibilità di fraintendimenti, il lavoro terapeutico: più vicino al mondo artistico che a quello scientifico. Nondimeno

l’espressione della propria dimensione creativa nasce sempre da un atto trasgressivo, da un tradimento. Se non siamo né angeli né demoni, ma semplicemente uomini, lo dobbiamo all’atto trasgressivo dei nostri mitici progenitori (pag. 89).

Lo sguardo della psicoterapia per Carotenuto, come da questo volume emerge con chiarezza, si deve spostare dalla dimensione intrapsichica, familiare, infantile, a quella sociale e persino economica, andando ben oltre quel “campo analitico” pur oggi così attuale; dislocando il proprio punto di attenzione sino a comprendere il livello «individuo-mondo» (pag. 94), uscendo persino da quelle che per lui erano le già inattuali (nel 1996) «secche del passato» (ibidem) in cui sembrava incagliata una certa psicoanalisi “ortodossa”.

Il tradimento dell’ortodossia della tecnica, «non significa legittimare gli incolti e i selvaggi», bensì giungere a un’interpretazione soggettiva e unica del proprio operato come analista e come psicoterapeuta. Un modo di porsi di fronte al soggetto rispettandone totalmente l’unicità e la singolarità irripetibile.

Solo riconoscendo questo reciproco coinvolgimento riusciamo a comprendere come mai l’alchimia analitica riesca a trasformare non solo colui che vi è giunto con una domanda di aiuto, ma anche colui che tale domanda ascolta (pag. 56).

L’epidemia odierna: i perfezionisti nevrotici e inconsapevoli

Il perfezionismo è un fenomeno ancora ampiamente sottovalutato e poco riconosciuto: molti individui percepiscono un profondo disagio e celano le loro imperfezioni a coloro che potrebbero fornire un aiuto (come psicologi, insegnanti e medici di famiglia).

 

Viviamo in una società in cui l’errore non è ammesso e l’imperfezione crea disagio. Non stupisce, quindi, che il perfezionismo abbia preso il controllo sulle nostre vite, specialmente nell’ultimo ventennio.

Più gli anni passano e più gli individui con tale tendenza divengono sempre più sofferenti e sempre meno consapevoli. Per questo motivo, il perfezionismo è stato oggetto di numerosi studi al fine di raggiungere una comprensione del fenomeno il più possibile completa.

Ma che cos’è il perfezionismo? E che cosa comporta essere un “perfezionista”?

Il perfezionismo, in primis, coinvolge l’ambizione alla perfezione e all’impeccabilità, caratteristiche richieste sia a se stessi che agli altri. Oltre a ciò, sono presenti reazioni estremamente negative agli errori, un rigido auto-criticismo, dubbi opprimenti e asfissianti riguardo le proprie abilità performative e, infine, un’intensa percezione degli altri come critici ed esigenti.

Un recente studio della Dalhousie University e della York St John University ha indagato vari aspetti del perfezionismo: comprensione, valutazione e trattamento. Per ottenere una comprensione esaustiva del fenomeno, lo studio è stato condotto attraverso una meta-analisi in larga scala, comprendente 77 ricerche e 25.000 partecipanti circa. I due terzi dei partecipanti erano donne. L’età media dei partecipanti rientrava tra i 15 ai 49 anni.

Attraverso questo studio, i ricercatori hanno concluso che i giovani di oggi hanno una tendenza maggiore al perfezionismo rispetto alle generazioni passate. Secondo gli autori, le cause di ciò sono diverse e piuttosto complesse: in parte, questa forte tendenza al perfezionismo sarebbe imputabile al modello competitivo caretteristico del mondo in cui viviamo, dove posizione e performance hanno un valore primario al punto che il successo e l’interesse egoistico sono enfatizzati; fanno la loro parte anche i social media e le vite irrealisticamente “perfette” che vengono regolarmente proiettate negli schermi: le ultimissime pubblicità impongono standard inconfutabili di perfezione. È così che i millennials si ritrovano circondati da metri di giudizio fittizi su cui imparano a basare il proprio successo o il proprio fallimento. Oltre a ciò, lo sviluppo di una personalità perfezionista è influenzato anche dall’essere cresciuti con genitori controllanti e critici.

Dunque, il diffondersi del perfezionismo sta diventando un serio problema nella società occidentale, dal momento che esso è significativamente correlato ad ansia, stress, depressione, disturbi dell’alimentazione e della nutrizione e, addirittura, suicidio. Pertanto, si fa sempre più urgente la necessità di impegnarsi in attività di prevenzione rispetto al dilagare di tale tendenza attraverso la promozione di interventi mirati. Bisogna ridurre la rigidità e il controllo delle pratiche genitoriali e delle influenze socio-culturali, come per esempio le immagini mediali irrealistiche che contribuiscono al perfezionismo.

Cosa succede quando il perfezionismo è radicato nel tempo?

Un altro risultato del presente studio è riferibile al decorso del perfezionismo: pare che più tempo si passa senza ridurre o trattare questa tendenza, più il perfezionismo appare radicato, irremovibile e invalidante. La personalità diventa più nevrotica (vi è più tendenza a sperimentare emozioni negative come colpa, invidia e ansia) e meno consapevole (meno organizzata, meno efficiente e disciplinata).

Rincorrere la perfezione – obiettivo intangibile e impossibile – potrebbe portare ad un più alto numero di fallimenti e a minori successi che hanno come conseguenza quella di rendere l’individuo ancora più sofferente e consapevole delle proprie imperfezioni, oltre a far diventare più ardua l’impresa di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Limiti dello studio e prospettive future

Il presente studio non ha, infine, riscontrato differenze di genere nei livelli di perfezionismo di donne e uomini. I ruoli di genere appaiono quindi insignificanti nella moderna gara utopica a “essere Dio”, dove la pressione al perfezionismo investe allo stesso modo donne e uomini. Tuttavia, non è stato indagato nello studio quali motivazioni spingono uomini e donne al rifiuto delle imperfezioni e degli errori. Le ricerche future potrebbero orientarsi proprio verso questa direzione e indagare se tra i motivi che guidano gli uomini si ritrovano motivazioni basate sul raggiungimento dei risultati e sul successo (come per esempio competere per le risorse) mentre le donne potrebbero essere guidate da un perfezionismo più di stampo relazionale (come per esempio essere giudicate amabili e piacevoli dagli altri).

In conclusione

Nonostante la sua considerevole diffusione nella nostra società, il perfezionismo è un fenomeno ancora ampiamente sottovalutato e poco riconosciuto: molti individui percepiscono un profondo disagio e celano le loro imperfezioni a coloro che potrebbero fornire un aiuto (come psicologi, insegnanti e medici di famiglia). L’esigenza è, quindi, quella di rispondere alla cosiddetta “epidemia del perfezionismo” ad un livello culturale e genitoriale.

Nell’ambiente familiare, per esempio, i genitori dovrebbero esercitare meno controllo, essere meno critici e iperprotettivi verso i propri bambini. Bisognerebbe insegnare loro a tollerare gli errori e imparare proprio da questi ultimi, enfatizzando il sacrificio, il duro lavoro e la disciplina piuttosto che la ricerca irrealistica di una perfezione irraggiungibile. L’amore incondizionato, dunque: dove il genitore valorizza il proprio figlio al di là delle sue performance, della posizione raggiunta o dell’apparenza. Questo sembrerebbe un buon antidoto contro il perfezionismo.

A livello culturale, d’altro canto, il perfezionismo è un mito e i social media rappresentano il suo personale narratore. Abbiamo bisogno di trasmettere un salutare scetticismo verso quelle vite sospettosamente “perfette” che vengono diffuse attraverso post e pubblicità. Mentre photoshop elimina ogni imperfezione e i filtri fanno luccicare le nostre parti umanamente “opache” nel tentativo di diventare corpi statuari degni di copertina e robot instancabili e infallibili, abbandoniamo totalmente quello che realmente ci rende umani: la nostra unicità, la nostra vulnerabilità, le nostre particolarità e le nostre difficoltà.

Dipendenza da sostanze e altri disturbi: quale trattare prima?

L’uso di sostanze può alterare significativamente il comportamento, l’umore e la personalità degli individui che ne fanno uso.

 

Per quanto riguarda il trattamento per il disturbo da abuso di sostanze, in particolar modo la dipendenza da esse, bisognerebbe focalizzarsi solo sul trattamento della dipendenza?

Oppure bisogna cercare di prevenire l’instaurarsi della dipendenza nell’individuo andando a lavorare anche sulle altre condizioni di sofferenza o disturbi che si possono presentare in comorbilità?

Dipendenza da sostanze: come si diagnostica

Le due principali linee guida per diagnosticare le condizioni di salute mentale in tutto il mondo sono il DSM e l’ICD. Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) è lo strumento diagnostico standard per le condizioni di salute mentale negli Stati Uniti e spesso. L’ICD (International Classification of Diseases) è approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e spesso utilizzato in Europa.

Nel DSM-5, l’abuso di sostanze e la dipendenza da sostanze sono uniti sotto lo stesso nome di disturbo da uso di sostanze, che viene diagnosticato lungo un continuum. Ogni sostanza ha una sua sottocategoria. Nel DSM-5 ora appaiono, come condizioni diagnosticabili, sia la dipendenza comportamentale sia il disturbo del gioco d’azzardo. Altre voci simili, come il disturbo del gioco su Internet, sono elencate come bisognose di ulteriori ricerche prima di essere formalmente aggiunte come diagnosi. Nell’ICD-11 c’è un sottoinsieme di disturbi dell’umore chiamati “disturbi dell’umore indotti da sostanze”, che sono condizioni causate dall’uso di sostanze. Per poter diagnosticare questa categoria, i sintomi del disturbo dell’umore non devono comparire prima dell’uso di sostanze. Ipoteticamente, una persona che ha disturbi dell’umore indotti dall’alcool potrebbe guarire solo con l’astinenza, ma nessuno può passare da un’esperienza di dipendenza senza che l’uso di sostanza possa alterare la mente e il corpo, a volte in modo irreversibile. Con il passare del tempo, i disturbi indotti da sostanze cambiano la funzione del cervello e alterano la regolazione delle emozioni.

Dipendenza da sostanze e disturbi in comorbilità: quale trattamento

Non tutti i soggetti che hanno una dipendenza stanno sperimentando contemporaneamente un altro disturbo mentale. Tuttavia, l’uso di sostanze può alterare i comportamenti, gli stati d’animo e le personalità in maniera significativa; di fatto per le persone che sono dipendenti è difficile determinare quale sia, se esiste, la causa sottostante, responsabile delle alterazioni. I farmaci, anche quelli che sono prescritti e utilizzati dai medici per questi disturbi, possono avere effetti collaterali che sembrano imitare i sintomi di altre condizioni diagnosticabili. Questi effetti possono verificarsi anche se una persona è in remissione. A causa di questa incapacità di isolare le condizioni in comorbilità i medici in precedenza erano soliti trattare in primo luogo i disturbi da uso di sostanze per poi esplorare la possibilità di altre malattie mentali. Questo ad oggi non è considerato uno degli approcci migliori.

Il libro del Dott. Akikur The Anatomy of Addiction sostiene che il miglior modo di trattare pazienti che possono presentare in comorbilità più diagnosi è quello di integrare la salute mentale e il trattamento della dipendenza in un unico programma completo, progettato per soddisfare le esigenze individuali del paziente specifico. Naturalmente riveste un grande ruolo come strumento diagnostico l’esperienza del clinico nel trattamento della dipendenza.

Il terapeuta relazionale, di Bruno Bara – Recensione

Il libro Il terapeuta relazionale di Bruno Bara contribuisce a chiarire la svolta relazionale del cognitivismo in Italia. 

 

Bara basa il suo modello su un orientamento evoluzionistico e neuroscientifico i cui concetti chiave sono la motivazione cooperativa e la conoscenza incarnata (embodied knowledge). Per Bara entrambi questi concetti teorici hanno una ricaduta per il benessere psicologico in psicoterapia. Il modello evoluzionista propone che la modalità cooperativa sia non solo la caratteristica evolutiva della specie homo ma anche la condizione che conferisce il maggiore benessere psicologico alle persone. La conoscenza incarnata propone che i meccanismi di cambiamento e crescita individuale debbano avvenire soprattutto a livello emotivo e viscerale.

Bara si chiede in che modo queste tesi diventino operative in psicoterapia e trova la sua risposta nella centralità della relazione terapeutica. Per l’evoluzionismo il perché è chiaro: se il centro evolutivo ed emotivo della specie homo è la cooperazione, esso lo sarà anche nel caso particolare della psicoterapia che funzionerà in quanto relazione. In breve, la psicoterapia consiste nel fornire un ambiente relazionale in cui il paziente, sotto la guida competente ed esperta del terapista, abbia finalmente la possibilità di esercitare quella capacità cooperativa in lui o in lei non sviluppata. Inoltre la relazione terapeutica offre quel tipo di esperienza conoscitiva di tipo viscerale ed emotivo necessaria per un vero cambiamento. Insomma, la conoscenza s’incarnerebbe soprattutto nella relazione.

Per evitare il pericolo di parlare di relazione in maniera generica Bara si appoggia al modello di Liotti e Monticelli (2014) che hanno delineato un modello operativo di gestione della relazione terapeutica. A loro volta Liotti e Monticelli pescano tecniche relazionali da vari modelli, tra i quali prevalgono quelli che intervengono in termini di validazione, come fa Marsha Linehan (1987) e quelli che ragionano in termini di rotture e riparazioni come fanno Safran e Muran (2000).

Il terapeuta relazionale: punti di attenzione e possibili debolezze del testo

Accanto a questi punti di forza del libro Il terapeuta relazionale ci sono anche possibili debolezze. Un difetto del modello di Liotti è il passaggio troppo audace dal darwinismo alla clinica appoggiato a similitudini affascinanti ma non conclusive. Questo costringe Bara ad appellarsi a dati di efficacia appartenenti a studi sulla relazione terapeutica non specifici del suo modello e appartenenti a modelli solo parzialmente relazionali come quello di Marsha Linehan (1987) oppure appartengono agli studi sui fattori aspecifici di Lambert (Lambert e Barley, 2001; Lambert e Ogles, 2004) che sono una conferma solo indiretta perché non attribuiscono nessuna particolare superiorità alle terapie specializzate sugli interventi relazionali ma si limitano ad asserire che in ogni intervento l’aspetto decisivo è quello aspecifico, a sua volta poi parificato all’aspetto relazionale. Queste ricerche empiriche confermano un’accezione aspecifica – e quindi vaga e generica – di relazione terapeutica e conferiscono alla relazione un carattere non progressivo ma deprimente per lo sviluppo della psicoterapia: la relazione come fattore che non migliora le terapie che la usano specificamente ma che le rende non solo tutte ugualmente efficaci ma anche concretamente tutte uguali: essa è presente e agisce spontaneamente come intervento principale anche in terapie in cui non sia prevista in primo piano.

Ci sono dei rischi nel pescare tecniche al di fuori del proprio modello: può avvenire che una tecnica presa in prestito da un modello clinico estraneo possa parassitare il modello teorico evoluzionista. Accade questo all’evoluzionismo di Bara? Egli avverte il pericolo quando prende le distanze dall’eclettismo ecumenico di Safran e Muran (Bara, 2018, pp. 58-59).

Un’altra perplessità è la possibile condivisione da parte di Bara della diffidenza che Liotti e Monticelli nutrono verso gli interventi protocollati. A loro parere questi interventi sarebbero a rischio di mettere in azione il cosiddetto sistema motivazionale di rango a danno di quello cooperativo, diventando così degli interventi anti-terapeutici. Almeno così sembrano sostenere Liotti e Monticelli (2014) a pagina 114 del loro libro laddove si occupano del dialogo socratico. Non basta. Pare che anche essere troppo supportivi possa essere anti-terapeutico poiché si finirebbe in un altro sistema motivazionale anti-terapeutico: l’accudimento. Questa diffidenza verso le definizioni operative e protocollate dell’azione terapeutica rende la definizione dell’attitudine cooperativa a tratti vaga e sfuggente e costringe Bara, nel testo Il terapeuta relazionale, a un continuo chiosare le sue descrizioni cliniche con esortazioni affinché l’atteggiamento cooperativo non scada nell’accuditivo o nel rango, sistemi anti-terapeutici. Purtroppo non bastano le esortazioni a non essere accuditivi per rimediare. Occorre essere operativi. E quindi protocollari, la bête noire di Bara. È un circolo vizioso.

Eppure un incontro è possibile. È possibile una riscoperta “relazionale” della psicoterapia cognitiva standard? E perché no? Infatti mi pare anche che nella definizione della psicologia evoluzionista l’atteggiamento cooperativo consista nel cooperare nel fare qualcosa. Forse il modo migliore per gestire la relazione è negoziare gli obiettivi ed esplorare insieme i buoni vecchi protocolli sul sintomo della psicoterapia cognitiva, oltre che validare o discutere le rotture, con meno fronzoli auto-riflessivi sulla relazione stessa. Meyer (1975) la definì formulazione condivisa del caso. È possibile che questo terzo ambito, l’esecuzione congiunta dei protocolli clinici cognitivo comportamentali all’interno di una formulazione condivisa del caso eseguiti usando il dialogo socratico, la negoziazione degli obiettivi o mediante una tecnica costruttivista come la ricostruzione della storia di vita siano meno a rischio di tracimare nell’accudimento o nel rango. Parafrasando John Lennon, la relazione terapeutica forse è un po’ come la vita: è quel che accade mentre fai altri progetti. La buona cooperazione potrebbe essere fare una terapia cognitivo comportamentale non solamente relazionale.

In conclusione

Insomma, un po’ di attenzione alla relazione è certamente utile ma non deve impedirci di coltivare e condividere l’aspetto tecnico e strategico tipico della tradizione cognitiva. Il libro Il terapeuta relazionale di Bara ha molti pregi – soprattutto nell’offrire una solida base neuroscientifica e evoluzionista alla sua concezione relazionale – ma si espone nella sua sezione clinica al pericolo di dimenticare la tradizione tecnica cognitiva, vista la rarità in cui si incontrano in esso le parole “psicoterapia cognitiva” o “cognitivista” e simili. Sarebbe un peccato se l’intero cognitivismo clinico italiano imboccasse questa strada.

 

Un giorno all’improvviso (2018) di Ciro D’Emilio – Recensione del film

Nel film Un giorno all’improvviso il legame tra un figlio e una madre uniti da due caratteri opposti. Diciassette anni e la necessità di non piegarsi, Antonio; una fragilità emotiva e psichica che prende il sopravvento su tutto, Miriam.

 

Lasciata dal marito e in costante agonia affettiva tra perdite al gioco, un orto di limoni e incroci microcriminali, in un contesto campano che il regista Ciro D’Emilio rappresenta senza svolazzi da immaginario televisivo bensì saldo nella verità di scambi autentici ma duri, Miriam attraversa la propria storia affranta, capace di un amore materno appassionato e al contempo nuda, irreparabilmente nuda nella marea montante di una vita che non può mai essere tenuta tutta insieme.

Un giorno all’improvviso: il dipinto di una realtà complessa

Gli attimi di illusoria speranza sono fiammelle quasi deliranti, si attorcigliano lungo strade segnate quasi all’origine; è tutto davvero complicato, e forse può risolversi quando Antonio ha l’occasione che passa una volta sola, diventare un calciatore professionista. Il suo percorso di giovane uomo ha già bruciato i tempi fuori dal campo, è lui che raccoglie la madre disintegrata per la strada, che le prepara acqua e limone la mattina, che la sfama persino, rientrando a notte fonda dal lavoro alla pompa di benzina.

In Un giorno all’improvviso, il diciassettenne Antonio lavora e non fuma, si allena, minaccia chi tocca con mano grezza il viso gentile di Miriam, si arrabbia quando la madre bambina compra le schifezze al supermercato. Antonio è la coscienza ingenua e tenace, a tratti ombrosa, persino angosciata ma lungimirante e aggrappata, ciò che più conta, alla possibilità di sottrarsi ad un presente il cui unico sguardo attento verso il loro mondo è quello di un’assistente sociale che deve decidere il futuro del ragazzo.

Un giorno all’improvviso: madre e figlio si scambiano i ruoli

La potenza di Un giorno all’improvviso è notevole, come l’intensità emotiva che trasmette in particolare nella prima parte, quando ogni movimento dei personaggi viene seguito come un battito, nella fatica e nel nobile valore che l’accompagna. Si crea una sorta di suspence, una tensione psicologica che porta lo spettatore a calarsi in grande profondità accanto e dentro le vicende di questi esseri umani sofferenti e capaci di sognare all’interno della stessa pena.

Gli sviluppi della trama sarebbero più volte suggeriti dalle attese spontanee di chi osserva e anticipa forse in base ai propri schemi, invece sorprendono – meno il finale, non eccelso per originalità – proprio in quanto non deviano, non colpiscono, non cadono nei cliché della storia di periferia fatta di botte, violenza e miseria. Antonio e Miriam conservano una dignità, una rettitudine narrativa che incrementa l’intensità dei loro vissuti e di quanto viene passato allo spettatore. La loro credibilità è data dall’unione, in entrambi, di caratteri adulti e infantili.

Il figlio padre e la madre figlia non sono trasposizioni cinematografiche di una mal riuscita psicoanalisi da salotto, bensì la verità di due persone che cercando di essere se stesse sono esattamente quello, un ragazzo già adulto coi bisogni affettivi di chi avrebbe il diritto di potersi affidare, e una donna che nell’amore di essere madre non riesce a non chiedere accudimento per le proprie angosce mai sanate. Un film italiano credibile. Potremmo persino definirla una notizia.

 

UN GIORNO ALL’IMPROVVISO – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

 

Chemsex e riduzione del danno – Report dal convegno di Palermo

Disinibizione, aumento del desiderio sessuale e dell’intimità, superamento delle paure legate alla prestazione sessuale, effetto terapeutico rispetto al timore di fallimento nella sfera sessuale: queste e altre le motivazioni legate all’utilizzo di sostanze stupefacenti per affrontare “in modo soddisfacente” un rapporto sessuale spesso vissuto con scarsa serenità.

 

Un utilizzo che in alcuni casi porta con sé severi effetti collaterali, aumentando la probabilità di contagio per malattie sessualmente trasmissibili, non ultima l’HIV e che richiede interventi istituzionali e professionali tempestivi ed estensivi per essere ridimensionato.

Questo il tema forte e dibattuto intorno al quale, lo scorso 1 Febbraio, nella sontuosa cornice dell’NH Hotel di Palermo, si sono riuniti mondo scientifico e dell’associazionismo, per tentate di dare una risposta alle esigenze di prevenzione e cura di tale tipo di problematica.

Chemsex: cos’è

L’intento di questo Convegno è quello di confrontare conoscenze e scambiare opinioni su un fenomeno su cui esistono molti pregiudizi infondati – chiarisce Tullio Prestileo, UOC Malattie Infettive ARNAS Ospedale Civico-Benfratelli di Palermo e presidente del Congresso, che subito approfondisce il termine Chemsex e le implicazioni a esso collegate.

Con il termine Chemsex si intende l’uso di specifiche sostanze psicoattive (metanfetamine, mefedrone, GHB) prima o durante il sesso, tra maschi che fanno sesso con maschi, includendo omosessuali, bisessuali ed eterosessuali. Tali sostanze sono utilizzate allo scopo di produrre uno stato di rilassamento ed eccitazione, che si protrae fino a tre giorni interi, e vengono assunte di solito in gruppo, in una sorta di rituale confortante, in grado di rafforzare l’identità di gruppo – continua Prestileo – Tra le conseguenze mediche del loro utilizzo vi è un’accelerazione del battito cardiaco, oltre che l’aumentata probabilità di contrarre una malattia a trasmissione sessuale, come la sifilide o l’HIV, nell’ordine dell’80% rispetto a chi non ne fa uso, considerato anche che l’utilizzo di sostanze psicoattive si associa spesso a promiscuità sessuale e assoluto non utilizzo del condom. Ecco che una buona politica di riduzione del danno include campagne informative e il coinvolgimento della popolazione, soprattutto nell’ottica dell’utilizzo consapevole del preservativo.

Chemsex e contrazione di malattie infettive

E sulla relazione tra malattie infettive e uso di sostanze si è incentrato l’intervento di Mario Ghezzi, referente Arcigay Palermo, che ha presentato il progetto La Prevenzione viene da te, avviato a Febbraio 2017 e terminato a Ottobre 2018, su una popolazione di 1007 soggetti nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento.

Il 41% degli utenti del nostro progetto, risultati positivi all’HIV, ha dichiarato di aver avuto rapporti sessuali sotto effetto di sostanze stupefacenti, così come il 50% di quelli risultati positivi alla sifilide. Questi dati denunciano la bassa diffusione di una cultura della prevenzione e l’aumento del numero di persone che fanno uso di sostanze quali alcool e droghe durante i rapporti sessuali. Questi risultati stimolano a investigare ulteriormente la correlazione tra sesso e uso di droghe e alcool ed evidenziano la necessità di migliorare la conoscenza delle malattie a trasmissione sessuale e delle possibili strategie di gestione del rischio di una loro contrazione, appunto attraverso una puntuale informazione sull’utilizzo del profilattico.

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Chemsex e importanza della prevenzione

Chemsex, un problema potenziale per cui serve indubbiamente un’opera di prevenzione sociale, ma soprattutto di attenzione alla persona e ai suoi bisogni di esprimere una sofferenza privata, fonte di tensione e spesso disperazione, in cui un ruolo primario gioca l’Associazionismo.

L’utilizzo di sostanze psicoattive per agevolare l’attività sessuale non necessariamente è problematico, infatti il soggetto può sicuramente saper gestire l’assunzione delle sostanze, anche se una parte di assuntori arriva a rovinarsi letteralmente la vita – commenta Giulio Maria Corbelli, referente PLUS Onlus, organizzazione di persone LGBT sieropositive – È di fondamentale importanza avere speranza e comprensione e mantenere sempre un atteggiamento positivo verso il sesso: è spesso la mancanza di ciò a creare difficoltà nel fare sesso da sobri, incoraggiando l’uso di sostanze psicoattive. Le persone che hanno problemi con il chemsex devono essere riconosciute e rispettate, utilizzando ingredienti quali comprensione ed empatia, che l’Associazionismo deve promuovere. Il singolo colpito dal chemsex problematico dovrebbe essere incoraggiato a fare le proprie scelte con il consiglio di pari e di operatori della salute, parlando dei propri disagi senza paura, e in questo contesto gli interventi svolti con il coinvolgimento dei pari risultano i più efficaci in assoluto.

Schizofrenia: Targeted Cognitive Training e i benefici sulle allucinazioni uditive, sulle percezioni uditive e sull’apprendimento verbale

Un recente studio mostra come il Targeted Cognitive Training (TCT) porti significativi benefici ai pazienti con diagnosi di schizofrenia grave, tra cui un miglioramento nell’apprendimento verbale e nella percezione uditiva, riducendo al contempo la gravità delle allucinazioni uditive.

 

Che cos’è il Targeted Cognitive Training (TCT) e per cosa è utile?

La schizofrenia è uno tra i disturbi più complessi da trattare: comprende, infatti, un ampio range di disfunzioni che variano dalle allucinazioni e disturbi dell’umore al danneggiamento cognitivo, in particolare riferibile alla memoria verbale e di lavoro. Nello specifico, le disfunzioni riguardanti la memoria verbale e di lavoro sembrano essere spiegate, in parte, da anomalie nell’elaborazione anticipata delle informazioni uditive.

Il Targeted Cognitive Training (TCT) utilizza la tecnologia computerizzata, come giochi mentali sofisticati, con l’obiettivo di tracciare uno specifico percorso neurale (includendo inoltre sensi di memoria, di apprendimento e audio-visivi) in modo da alterare le modalità con cui i pazienti processano le informazioni. Proprio per questo motivo, il TCT sembrerebbe un intervento terapeutico molto promettente per un miglioramento della qualità di vita dei pazienti schizofrenici. In setting controllati, il Targeted Cognitive Training ha ricevuto prove di efficacia per le forme lievi e moderate di schizofrenia.

Nonostante ciò, non è chiaro se pazienti con schizofrenia cronica e refrattaria trattati in setting non sperimentali/non accademici traggano benefici da questo tipo di intervento. Proprio questo dubbio ha portato il team di ricerca dell’università di San Diego a indagare se il Targeted Cognitive Training potesse avere effetti positivi a livello visivo e uditivo tra i pazienti con schizofrenia grave.

Lo studio

I ricercatori hanno condotto lo studio su un campione di 46 pazienti con schizofrenia psicotica cronica-refrattaria, tutti reclutati a seguito di un’acuta ospedalizzazione. I pazienti erano tutti considerati “gravemente disabili”, incapaci quindi di prendersi cura di se stessi, per niente autonomi e, per tale motivo, sotto la guida di un operatore. Il campione è stato randomizzato: un gruppo è stato sottoposto ad un trattamento usuale (Treatment-As-Usual, TAU) e un altro gruppo è stato sottoposto al TAU e, contemporaneamente, al Targeted Cognitive Training. Quest’ultimo gruppo ha svolto a computer esercizi quali giochi di memoria e apprendimento vario, oltre a giochi comprendenti informazioni uditive.

I risultati hanno mostrato che i pazienti che hanno completato tre mesi di TAU-TCT, hanno migliorato i punteggi nell’apprendimento verbale e nella percezione uditiva, oltre a diminuire la gravità delle allucinazioni uditive.

In conclusione

Lo stigma per questa malattia è talmente radicato che molto spesso sono i pazienti stessi ad abbandonare le terapie. Infondere ottimismo e speranza in un disturbo invalidante come quello della schizofrenia è una necessità: ogni intervento, ogni nuova tecnica e terapia potrebbero aiutare i pazienti a compiere sempre un passo in più verso una qualità di vita migliore, verso l’autonomia o, semplicemente, a riprendere in mano la propria vita.

La disarmante richiesta di aiuto di Simone Cristicchi

Abbi cura di me, la canzone che Simone Cristicchi ha portato sul palco del 69° Festival di Sanremo, è un grido d’amore, una dichiarazione di fragilità. Cristicchi racconta un amore universale, la sua è una preghiera rivolta a chiunque, in primis a noi stessi.

 

Per gli inglesi è take care, per i francesi prendre soin de, in albanese è kujdeseni, in Guatemala si dice cuidate e in Maori si traduce con tiaki. Per gli italiani che hanno nella testa gli ultimi brani del festival della canzone italiana si traduce in: basta mettersi al fianco invece di stare al centro.

Si potrebbe concretizzare nella tenerezza di un bacio sulla fronte la richiesta di cure nella preghiera di amore universale cantata da Simone Cristicchi al 69° Festival di Sanremo.

Il cantautore definisce la sua canzone una preghiera d’amore che tocca i grandi temi dell’umanità: la sofferenza, il perdono, la debolezza, il senso del dolore.

È un grido d’amore, una dichiarazione di fragilità. A qualcuno è persino sembrata una preghiera di Dio all’uomo, dove è Dio che chiede all’uomo di aver cura di lui.

Cristicchi parla di amore universale, di una preghiera rivolta a chiunque, per cui l’altro a cui chiediamo aiuto può essere una persona a cui siamo legati da relazioni significative o un altro a cui siamo legati da un sentimento collettivo, che condivide con noi la natura umana stessa ma che solo per caso è nato nella parte fortunata del mondo.

Per chiedere cure devo riconoscere la mia fragilità e la mia debolezza, devo rendermi vulnerabile nel dichiararla all’altro, e prima di farlo ho bisogno di sapere di potermi fidare. Abbandonarsi all’altro è l’opposto di abbandono. Abbandonare qualcuno e abbandonarsi a qualcuno hanno dietro due universi di sentimenti completamente opposti.

La richiesta di aiuto appare disarmante perchè per farla ci si mette nelle mani di un’altra persona, un po’ come se si corresse il rischio di farlo, ma il tema che subito va a tutelare tutto è la fiducia perché si chiede aiuto a chi si crede possa darcelo. Ritorna tra i versi la fragilità dell’essere umano e la bellezza di mostrare la propria debolezza all’altro.

La richiesta di aiuto si riferisce ad un amore puro, ma non un amore che non darà niente in cambio; abbandonarsi all’altro implica il ricevere conforto e consolazione. Di fatti prima del ricevere cure c’è la sofferenza e l’incertezza, poi la speranza che l’altro ci possa aiutare, l’aspettativa che ciò avvenga, poi la fiducia e la scelta di chiedere aiuto e poi solo allora “Abbracciami se avrò paura di cadere che siamo in equilibrio sulla parola insieme”.

È importante in un epoca come questa, ha dichiarato Simone Cristicchi, dare messaggi positivi, ed uno di questi in riferimento a vissuti di rancore, di risentimento, di aggressività e di odio è di sicuro “perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso perché l’impresa più grande è perdonare se stesso”.

A mio avviso il brano si presta anche ad un’ulteriore interpretazione. È la vita di ciascuno di noi che ci chiede di prendercene cura, insomma siate gentili con la vostra stessa vita. Che abbiate studiato, lavorato presto, che vi siate impegnati duramente, rispettate quello che la vostra vita è stata, abbiate cura del vostro passato, mettetelo in buone mani e siate debitori di bene nell’impegno e nella gentilezza di ogni giorno.

Benvenuto al messaggio di Simone Cristicchi! Perché c’è anche il lato oscuro della sofferenza ed è per questo che andrebbe sempre condivisa, per cui lo definirei un memento: ricorda di chiedere aiuto e ricorda di dare un bacio sulla fronte.

E con questo lasciamo a chi mette se stesso nelle mani dell’altro la considerazione se il perdono possa essere considerato la forma più alta dell’amore, perché anche queste parole non sono perle di saggezza ma sassi di miniera.

 

ASCOLTA LA CANZONE “ABBI CURA DI ME” DI SIMONE CRISTICCHI:

https://www.youtube.com/watch?v=NiC8gEygu8g

 

Stop-phone: un progetto per l’uso consapevole del cellulare – Report dall’evento

Si è svolto il 2 Febbraio scorso a Palermo, presso l’Ordine dei Medici della Provincia di Palermo, l’evento di presentazione del Progetto Stop-phone.

 

Il Progetto Stop-phone è un’iniziativa promossa dall’ASP di Palermo con il coinvolgimento attivo di diverse realtà istituzionali, studenti, docenti, famiglie, pediatri e operatori della sanità, e che si snoderà in due anni di attività e cinquanta mila ore di intervento nelle scuole del distretto 42 della ASP palermitana che comprende otto comuni in totale, oltre Palermo, tra gli altri, Monreale.

Obiettivo del progetto, promuovere un corretto e consapevole uso dei telefoni cellulari, attraverso un’informazione capillare sui rischi di un loro utilizzo improprio a danno della salute fisica e psicologica.

Stop-phone: le conseguenze fisiche e psicologiche di un uso scorretto del cellulare

Durante il Convegno si sono succeduti diversi momenti di informazione e dibattito in cui le tematiche psicologiche sono state al centro della discussione, attraverso una disamina preliminare delle cifre allarmanti del fenomeno.

Secondo i dati Istat del 2011, che comunque risultano per molti versi obsoleti – commenta Daniela Segreto, Dirigente Servizio 5 Promozione della Salute Assessorato Regionale della Salute DASOE – tra il 2000 e il 2011 si è arrivati a circa il 93% di giovani tra gli 11 e i 17 anni utilizzatori di cellulari, con danni potenziali per la salute, sia fisica che psicologica.

Da un punto di vista psicologico oggi assistiamo al fatto che il cellulare non favorisce, anzi ostacola, il tempo dell’elaborazione, della ponderazione, parlando alla pancia e non alla razionalità, oltre che portare a diminuire, a volte annullare, la distanza tra sfera pubblica e privata – dice Daniele La Barbera, direttore dell’unità operativa di Psichiatrica del Policlinico Giaccone di Palermo– Una dipendenza che si traduce in ristretti spazi per il pensiero riflessivo e in un comportamento compulsivo di spessore clinico: basti pensare che gli utilizzatori compulsivi possono entrare in contatto con il cellulare fino a dieci mila volte al giorno.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DALL’EVENTO:

Stop phone: un progetto per promuovere un uso consapevole del cellulare

Stop phone: un progetto per promuovere un uso consapevole del cellulare

Ai rischi psicologici si sommano quelli fisici, in particolare posturali.

Secondo recenti ricerche, stare curvati sul cellulare a scambiare messaggi crea notevoli problemi posturali – dichiara Daniele Giliberti, Esperto Vivi Sano Onlus – Basti pensare che un’inclinazione del collo di trenta gradi corrisponde a un peso di diciotto chilogrammi che la nostra cervicale deve sopportare, con progressivo danneggiamento dei tessuti muscolari.

Se i rischi di un abuso sono notevoli, grande importanza assume il principio di precauzione, legato a una minimizzazione dell’esposizione, e l’assunzione di accorgimenti per un uso consapevole, intelligente, moderato dei dispositivi elettronici, evitando comportamenti quali quello di addormentarsi ascoltando musica con cuffie auricolari o far giocare i bambini con un tablet connesso alla rete come se si trattasse di un innocuo divertimento.

Tutti comportamenti funzionali che permetteranno al cellulare di migliorare la nostra vita e non di dominarla, cristallizzandosi in dipendenze malsane, dannose per la salute e per la vita.

Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti (2018) – Recensione del libro

Il libro Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti suggerisce già dal titolo l’idea di una complessità maggiore di un semplice ascolto nella percezione che abbiamo dei suoni.

 

Lavoro da anni con pazienti che hanno acufeni. Sentono un fischio, un ronzio. È a destra, a sinistra o al centro della testa. Localizzano il suono nello spazio. Ma poi.. è un problema dell’apparato uditivo o un danno nella testa? Hanno un problema all’orecchio o il loro sistema nervoso sta impazzendo?

I pazienti non identificano la fonte. E il più delle volte nemmeno gli esperti sono in grado di farlo. È forse questo che spaventa? Il non sapere da dove proviene? Il suono ci offre informazioni per la sopravvivenza, adattive, ci aiuta a localizzare il pericolo e a metterci in salvo. Nel libro Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti di Di Bona e Santarcangelo, gli acufeni vengono citati a proposito della percezione indiretta delle fonti. In questa ottica “il suono è un’entità soggettiva, privata e “distaccata” dal mondo materiale”. Teoria interessante e azzeccata per gli acufeni perché appunto sono essenzialmente un’esperienza soggettiva e forse proprio per questo piuttosto scomoda e frustrante per le persone che ne soffrono.

Ma, acufeni a parte, nella vita quotidiana cosa succede quando ascoltiamo? Gli autori del libro Il suono cercano di rispondere anche a tale domanda in questo testo piuttosto complesso in quanto l’esperienza uditiva viene descritta da un punto di vista filosofico, a tratti metafisico, a volte neuroscientifico e psicoacustico. Un po’ di confusione arriva per chi non è pratico.

Il suono come “esperienza uditiva”

Di Bona e Santarcangelo, a partire dalla spiegazione del processo uditivo da parte di Albert Bregman e di James Gibson, strettamente ancorata alla realtà quotidiana (vedi ad esempio gli studi sugli everyday sounds), arrivano a descrivere l’esperimento mentale di Strawson del No Space World, un mondo uditivo senza coordinate spaziali. Un viaggio cognitivo piuttosto impegnativo per il lettore. Alla fine del libro Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti ho le idee piuttosto confuse, non so più che fine abbia fatto nella mia testa Hero, abitante e soggetto ascoltatore del No Space World, ma rifletto ancora sull’acustica ecologica e sulla funzione che esercita l’attenzione nella percezione della fonte sonora.

A tal proposito non posso non pensare alla misofonia e cioè l’intolleranza verso determinati suoni come la masticazione o l’abbaiare dei cani. In questo caso la mente dei soggetti ha registrato quei suoni come “minacciosi”? Ed è per questo che le persone tendono a notarli di più rispetto ad altre che non soffrono di misofonia? Quei suoni sono raggruppati in schemi che identificano una sorta di “pericolo”? Sarebbe interessante capire il punto di vista degli autori a tal proposito così come nei casi di disturbo da stress post-traumatico in cui un determinato suono può riportare alla mente (e al corpo) un trauma. La relazione suono-tempo, descritta nel quarto capitolo, ci dice anche questo: la percezione del suono guarda al futuro per soddisfare la sua funzione adattiva, ma per farlo ha bisogno di tenere a mente il passato. Se un paziente da piccolo sentiva il padre rientrare a casa e sbattere contro i mobili della sala da pranzo sapeva che era ubriaco. Quando era ubriaco spesso lo picchiava. Sentire quei suoni preparava il bambino a quello che molto probabilmente sarebbe accaduto. Localizzava il padre nello spazio e nel tempo “lo sento, sta arrivando”. Sentirli ancora oggi allerta l’adulto che ha registrato nella mente quell’associazione, quello schema.

Trovo per questo appropriata la definizione di “esperienza uditiva” nel sottotitolo del libro perché dà l’idea di una complessità maggiore di un semplice ascolto. Assistere ad un concerto del nostro cantante preferito o ascoltare la voce dell’amato o dell’amata al telefono sono esperienze complesse che non possono essere descritte con una semplice elencazione di frequenze, vibrazioni, toni, volumi. Osservo Enea, il bulldog francese di mia sorella. Lei apre il cancello di casa e lui subito corre alla porta. Abbaia, si agita, freme e attende di vederla. Ha riconosciuto i passi. Ha registrato il suono della sua camminata. La vede, le salta addosso. Anche per lui quella sequenza di suoni è qualcosa di più.

I disegni dei bambini: tra autorità e familiarità

Solitamente nei disegni dei bambini si possono trovare i soliti soggetti come la famiglia, l’animale domestico, una casa, un giardino, e infine il bambino stesso che disegna.

 

Un team di ricercatori dell’Università di Chichester si è domandato se la figura del bambino che viene disegnata dal bambino stesso possa cambiare o meno in relazione a chi guarderà l’immagine.

Disegni dei bambini: come cambiano in base ai destinatari

Gli studiosi hanno messo appunto una ricerca sperimentale in cui sono stati coinvolti 175 bambini, con età di otto e nove anni, di cui 85 erano maschi e 90 erano femmine. I partecipanti sono stati divisi in sette gruppi, ma solo ad uno non è stato specificato il pubblico da cui poi sarebbe stato visionato il disegno; agli altri 6 gruppi invece sono stati indicati diversi tipi di pubblico, ognuno diverso. Il pubblico era composto da figure professionali come l’insegnate o il poliziotto, ma anche figure con cui potevano o meno avere una certa familiarità. Il compito consisteva nel disegnare tre immagini di se stessi, diversificati in: neutro, felice e triste.

Dai risultati emerge che i disegni dei bambini variano in relazione all’autorità e alla familiarità dell’adulto che vedrà l’immagine. Inoltre le femmine si rappresentavano come più espressive rispetto ai maschi, con sfaccettature diverse nei disegni felici e tristi dipendentemente dal pubblico a cui erano rivolti i disegni. Infatti quando i disegni erano rivolti ad pubblico di poliziotti che conoscevano, nei disegni felici le bambine mostravano una maggiore espressività rispetto ai bambini, mentre quando il pubblico era composto da poliziotti sconosciuti, i maschi esprimevano una maggiore espressività rispetto alle femmine nei disegni tristi.

Disegni dei bambini: risvolti in ambito clinico o forense

Concludendo, gli autori suggeriscono che questo studio possa essere un base per ulteriori indagini, in particolare per approfondire le motivazioni di queste differenze tra i due generi e le differenze rispetto al pubblico di riferimento. I risultati dello studio sono significativi, perciò è importante continuare a studiare questo fenomeno anche perché i disegni dei bambini sono spesso usati in situazioni cliniche, forensi e terapeutiche per ottenere informazioni sullo stato emotivo del bambino da integrare alla comunicazione verbale.

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