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La perizia nelle separazioni. Guida all’intervento psicologico (2017) di Alberto Vito – Recensione del libro

I casi di affidamento dei minori a seguito della separazione dei genitori rappresentano da sempre una questione complessa per gli addetti ai lavori, che richiede l’utilizzo di competenze tecniche specifiche mirate alla tutela dell’equilibrio psicologico, affettivo e relazionale dei bambini e degli adolescenti.

Andrea Cappabianca

 

La seconda edizione del volume La Perizia nelle Separazioni. Guida all’intervento psicologico di Alberto Vito, dato alle stampe nel 2009 per Franco Angeli e recentemente aggiornato, è uno dei primi testi italiani dedicato esclusivamente al complesso tema della perizia psicologica nei casi di affidamento controverso dei minori a seguito della separazione dei genitori, rappresentando una risorsa utile a chi si occupa di questioni articolate quali quella dell’affido.

La perizia nelle separazioni: in primis, la cura delle genitorialità

La sempre più corposa letteratura sull’argomento è direttamente proporzionale al crescente ricorso da parte dei magistrati alla figura del CTU – e degli avvocati di parte a quella del CTP – indispensabile per inquadrare in modo corretto le dispute genitoriali rispetto l’affidamento dei figli.

Tra i diversi volumi dedicati all’approfondimento del ruolo del Consulente Tecnico d’Ufficio o di Parte, quello di Vito risulta di particolare interesse per gli addetti ai lavori, in quanto rappresenta una sorta di manuale pratico per imparare a redigere correttamente le relazioni peritali, anche grazie alla presentazione di ben otto relazioni tecniche, pressocché integrali, scritte negli anni dall’autore, sia in veste di CTU che di CTP. In tal modo il lettore può confrontarsi non con le semplici teorie su tale dibattuto tema, bensì con una modalità concreta di operare in tale ambito.

Secondo Alberto Vito, come ormai ampiamente riconosciuto, nel rispondere ai quesiti posti dal giudice, il consulente tecnico deve sempre cercare anche i residui spazi di collaborazione genitoriale e favorirne l’ampliamento. Questo perché spesso la perizia rappresenta per le parti la prima vera occasione per confrontarsi con una lettura “psicologica” dei loro accadimenti giudiziari ed è in tal senso una risorsa molto importante per le modalità future di condivisione della genitorialità. Per l’Autore, infatti, qualsiasi decisione riguardante l’educazione dei figli dovrebbe essere sempre presa dai genitori, per quanto le opinioni possano essere divergenti, in quanto l’intervento del terzo super partis rappresentato dal giudice o dal perito rappresenta sempre la sconfitta delle competenze genitoriali.

Il libro, che si apre con una interessante prefazione del terapeuta familiare argentino Alfredo Canevaro, è diviso in due sezioni. La prima, a carattere teorico, consta di quattro capitoli in cui si affrontano i temi delle conseguenze psicologiche della separazione coniugale per gli adulti e per i minori, quello, dibattuto, dell’alienazione genitoriale, e gli interventi specifici volti a ridurre i “danni” della separazione, tra cui la mediazione familiare.

La perizia nelle separazioni: come fare le relazioni peritali

La seconda parte è invece dedicata alle otto relazioni peritali che affrontano le questioni che più spesso il perito si trova di fronte in tali vicende familiari. Tra gli esempi di perizia esposti, spiccano per interesse quelli riguardanti la valutazione delle competenze genitoriali e i casi di riavvicinamento dei minori a padri assenti o desiderati. Le relazioni costituiscono quindi un modello operativo con cui soprattutto i colleghi più giovani possono confrontarsi e ricavare utili indicazioni per gestire al meglio le operazioni peritali.

Il libro procede in modo convinto nella direzione della promozione di una cultura che sappia riconoscere la forza della mediazione, dell’ascolto, del rispetto e dell’autocritica in luogo delle affermazioni di potere, delle rivendicazioni e delle accuse, senza tralasciare, in appendice, una parte dedicata alla normativa vigente in tema di separazione e affido condiviso.

Considero la lettura di questo libro, oltre che stimolante per chi è interessato al ruolo dello psicologo in tribunale, certamente utile sia ai colleghi che desiderano sperimentarsi e migliorarsi in tale ambito professionale, ma anche ai magistrati ed agli avvocati di famiglia, in quanto la fine delle relazioni sentimentali, sebbene si realizzi formalmente in un contesto giuridico, la sua cornice operativa, rappresenta una questione eminentemente psicologica, relazionale ed affettiva e richiede pertanto un intervento attento alle dinamiche intercorrenti tra i coniugi così come tra i genitori ed i figli, che deve essere svolto con competenza e responsabilità.

Quando il tempo è solo una questione di memoria

Che il “Tempo” sia una questione di memoria? I filosofi e gli scienziati che hanno provato a definire il concetto di “Tempo” sono innumerevoli e altrettante le risposte date a questa domanda, tra queste ritroviamo anche alcuni interessanti studi che si riferiscono alle più moderne neuroscienze.

 

Nonostante l’imponente e continuo flusso di informazioni (eventi, scene, oggetti, persone, dialoghi, parole) che quotidianamente percepiamo e registriamo in memoria, tendiamo a ricordare principalmente singoli episodi costituiti da una serie di sequenze discrete associate tra loro in modo analogo in traiettorie sia spaziali (Moser et al., 2017) che temporali.

Il recupero di informazioni riguardo episodi già avvenuti in precedenza, cioè banalmente il richiamare alla memoria un evento passato, esige l’attivazione dei circuiti mediali temporali (MTL), incluso l’ippocampo e la corteccia entorinale (EC); è stato infatti osservato come un’alterazione funzionale di questi network infici il recupero di memorie a breve termine nei ratti e come una discreta perdita di neuroni nella corteccia entorinale sia associata ad una progressiva perdita di memoria nei soggetti affetti da morbo di Alzhaimer (Gallagher & Koh, 2011).

Come nasce la traccia mnestica: il dove e il quando

Una notevole mole di evidenze neurobiologiche sembrano propendere a ritenere che i neuroni di MTL siano necessari per il processamento di informazioni spaziali affinché la traccia di memoria sia codificata all’interno di un contesto spaziale, il “dove”.

Uno studio di Moser e colleghi (2017) ha infatti messo in luce come un’attivazione maggiore e sincrona di specifici gruppi di neuroni ippocampali sia in grado di “tracciare” le coordinate spaziali di un ambiente mentre l’animale si trova a muoversi in quest’ultimo, segnalando la posizione, la distanza e la direzione tra l’animale e l’ambiente circostante: informazioni che possono essere decodificate tramite analisi statistiche per determinare e ricostruire il comportamento spaziale in atto dell’animale. Queste osservazioni di Moser di fatto supportano la teoria per cui specifici circuiti siano in grado di rappresentare mentalmente e poi registrare l’ambiente circostante tramite “mappe cognitive”, osservazioni che a loro volta supportano l’idea che le nostre memorie siano costituite da eventi codificati in un contesto spaziale.

Una volta stabilito il “dove”, è lecito chiedersi quali siano i processi neurali che rendono possibile la codifica di informazioni temporali, relative cioè a quando quell’evento si è verificato

A tale proposito, il recente studio di Robert Yassa e Maria Montchal del Center for the Neurobiology of Learning and Memory dell’Università di Irvine, California, recentemente apparso su Nature Neuroscience, riporta come l’attività ippocampale, delle regioni corticali e di quelle appartenenti e vicine a EC sia in grado di predire quanto una persona ricordi del momento temporale in cui si è verificata una specifica recente esperienza (Montchal, Yassa et al., 2019), dimostrando su una popolazione umana ciò che già era stato messo in luce in studi animali dal premio nobel Edvard Moser e colleghi.

L’esperimento in questione ha previsto che i soggetti sperimentali guardassero per circa 30 minuti un episodio della serie televisiva Curb Your Enthusiasm della HBO, mentre la loro attività cerebrale veniva misurata tramite fMRI per tutta la durata dell’episodio. Successivamente, a ciascun volontario è stato presentato uno breve e specifico fotogramma appartenente all’episodio appena visto, insieme ad una linea del tempo che rappresentava la durata per intero del video; i soggetti avrebbero dovuto giudicare lo specifico momento temporale in cui avevano visto quel fotogramma muovendo un cursore e cliccando sulla linea di durata dell’episodio. Un’alta accuratezza delle informazioni temporali nel recupero mnestico è stata definita dagli autori dello studio come la risposta all’interno di un range di circa 1 minuto dall’inizio effettivo del fotogramma, mentre per un giudizio temporale errato è stato considerato un range temporale da uno a tre minuti (Montchal, Yassa et al., 2019).

È stato osservato come un’intensa attività nell’ippocampo e in specifiche subregioni laterali di EC abbia reso possibile la codifica temporale dell’episodio, mostrando come, negli esseri umani, i contesti spaziali e temporali che costituiscono la memoria dell’episodio potrebbero essere processati in parallelo ma da differenti circuiti di MTL e come il recupero di informazioni temporali circa il “quando” un episodio sia accaduto non è altro che la selezione lungo una timeline in continuo di uno specifico momento rappresentato in riferimento a episodi comportamentali (es. in quel momento, è successo che l’attore ha bevuto un bicchiere di vino) (Shapiro, 2019).

Cos’è perciò il Tempo?

Si è sempre ritenuto che il “Tempo” fosse oggettivamente un’infinita serie in continuo di intervalli regolari, in realtà, in accordo con le evidenze di Montchal e Yassa (2019), specifici circuiti neurali analizzano la continuità di un’esperienza all’interno di sequenze di eventi discreti, di “fotogrammi” si potrebbe dire, caratterizzati da episodi comportamentali. Di conseguenza sembrerebbe che il Tempo, senza la memoria in grado di codificarlo, non esisterebbe.

I concetti di fusione e defusione cognitiva nell’ ACT (Acceptance Commitment Therapy)

L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ha portato l’attenzione sui concetti di fusione e defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle proprie esperienze interiori, quali pensieri o emozioni. Praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà.

 

Introduzione: Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

Secondo la visione di Steven Hayes, l’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy) fa parte di un movimento più ampio, basato e costruito su precedenti terapie comportamentali e cognitivo-comportamentali. Tuttavia, alcuni concetti presenti nella struttura corporea dell’ ACT sono caratterizzati da istanze peculiari che costituiscono una nuova fase evolutiva, sia da un punto di visto teorico sia applicativo. Le terapie cosiddette di “terza ondata” sono caratterizzate da strategie di cambiamento su basi contestuali ed esperienziali (oltre agli aspetti più didattico-direttivi) e da una forte sensibilità al contesto dei fenomeni psicologici e non alla loro forma o al loro contenuto, focalizzandosi sui processi.

L’ ACT si basa su un modello teorico-filosofico noto come Relational Frame Theory. Secondo tale teoria, nell’essere umano, il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di frame relazionali, di cornici relazionali, nucleo centrale del linguaggio e non necessariamente per esperienza diretta). L’ ACT cerca di favorire l’accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente. Il fine ultimo dell’ ACT è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT.

I sei processi chiave sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto. Con la sigla C si intende il “committment” secondo il modello ACT ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno. Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica e quindi a stare meglio.

HEXAFLEX e i sei processi dell’ ACT

Il grafico HEXAFLEX è considerato un importante strumento diagnostico e una bussola per il terapeuta anche nel momento in cui la concettualizzazione del caso viene condivisa con il paziente. Nel grafico sono rappresentati i sei processi fondamentali dell’ ACT che sono per loro natura interdipendenti. Lo scopo principale dell’ ACT è aumentare la flessibilità psicologica rapprensentata appunto dall’”esagono della flessibilita”: la flessibilità psicologica è promossa attraverso la regolazione dei sei processi dell’ ACT.

Il primo punto è il “contatto con il momento presente, essere presenti e partecipare in modo consapevole e mindful a tutto ciò che accade nel momento presente sia nell’ambiente che nell’individuo”. Il secondo processo è relativo alla fusione e defusione cognitiva, che verrà spiegata ampiamente in seguito; si tratta di osservare i nostri pensieri per quello che sono. Il terzo processo si colloca lungo il continuum evitamento-apertura all’esperienza, in cui la flessibilità psicologica è promossa dall’accettazione. Il quarto processo riguarda il “sé come contesto”, mentre il quinto processo si focalizza sui valori, in quanto qualità desiderate delle nostre azioni in divenire, direzioni di vita scelte: chiarire i valori è fondamentale nell’ambito della terapia ACT. Infine, il processo relativo al “committment” o azioni impegnate, che significa agire in modo efficace e coerente guidati dai propri valori. L’azione guidata dai valori, che è il contrario dell’evitamento esperienziale, fa emergere una vasta gamma di pensieri e sentimenti, sia piacevoli che spiacevoli, sia desiderabili che dolorosi. Dunque azione impegnata significa “fare quello che serve” per vivere secondo nostri valori, anche se questo può far emergere dolore e disagio. Azione impegnata significa scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso e persistere e mantenere tale impegno, mettendo in conto ostacoli e difficoltà.

Fusione e Defusione nell’ ACT

L’ Acceptance and Commitment Therapy ha portato l’attenzione, tra le altre cose, anche su un concetto particolare: la fusione, e la sua controparte, la defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle esperienze interiori, quali pensieri o emozioni, e guardare il mondo attraverso le loro lenti; praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà (Polk, Schoendorff, Webster, Olaz, 2016). I concetti di fusione e defusione sono connessi all’idea di base che il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento.

Con la pratica della defusione è possibile riconoscere che i pensieri sono appunto parole, storie, discorsi che si presentano nella nostra mente ma che non necessariamente sono veri, possono esserlo ma non dobbiamo credergli automaticamente. Possiamo concedergli tempo e attenzione solo se sono utili, ma nessun pensiero, per quanto doloroso, rappresenta una minaccia reale (Harris, 2010). Per questo alcune tecniche dell’ ACT volte a promuovere la defusione si fondano sull’utilizzo di strategie verbali che consentono alla persona una descrizione della propria esperienza per ciò che è: invece di pensare “io non posso farlo” e rendere questo pensiero una verità assoluta, si può trasformare questa affermazione in “ho il pensiero di non poterlo fare”. L’intero lavoro sul processo di defusione prevede che si vada, parallelamente, ad intervenire sulla capacità della persona di accettare quei pensieri per lei disturbanti. Come scrive Harris (2010, p.53):

Rapportati ai tuoi pensieri in modo nuovo, così che abbiano un impatto e un’influenza molto minori su di te. […] essi perderanno la capacità di spaventarti, preoccuparti, stressarti o deprimerti. E man mano che imparerai a praticare la defusione dai pensieri inutili, come le convinzioni che ti limitano e l’autocritica feroce, essi avranno molta meno influenza sul tuo comportamento.

La defusione è quindi, nell’ Acceptance and Commitment Therapy, la risposta alla fusione cognitiva. Si tratta in sintesi di un processo nel quale le persone arrivano a sperimentare i pensieri semplicemente come pensieri, eventi passeggeri che non bisogna necessariamente controllare (Dahal, Stewart, Martell, Kaplan, 2013). Anche se il concetto di defusione è solo uno dei processi previsti dall’ ACT e va quindi inserito e letto in un contesto più ampio e completo, anche osservarlo singolarmente stimola importanti riflessioni. Avvicinarsi alla consapevolezza che i pensieri possano essere visti in questa prospettiva può rappresentare infatti un punto di partenza per la comprensione dei comportamenti e delle forme di sofferenza che sempre più spesso interessano la nostra società. È utile quindi introdurre noi stessi all’idea che anche la mente mente, e che a volte è bene allenarsi a guardare le cose dalla giusta distanza, “giocare” con i pensieri ingombranti trattandoli per quello che sono, parole, perché – citando Shakespeare – “non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale” (Amleto, atto II, scena II).

La Fusione Cognitiva

Con il termine fusione cognitiva ci si riferisce alla tendenza degli esseri umani di essere catturati, “imbrigliati” dai CONTENUTI dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: “Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo”.

Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro. Se io mi definisco come una “persona inadeguata nelle relazioni sociali” tale insieme di pensieri influenzeranno le mie azioni e, nei casi estremi, mi faranno vivere tutte le esperienze relazionali con questa lente, che rappresenta sì il mio modo di vivere le esperienze, ma canalizza e semplifica eccessivamente le informazioni legate a come sono “io in relazione con gli altri”. Potrei quindi, sminuire le situazioni relazionali in cui non sono stato inadeguato, oppure le valutazioni che gli altri fanno di me, in cui sostengono che “non è vero che sei inadeguato” etc…

Che effetto ha quindi la fusione cognitiva nella nostra esperienza di tutti i giorni? Le valutazioni che riguardano la vita di tutti i giorni possono addirittura arrivare a sostituire la nostra esperienza della vita stessa. Spesso non si riesce più a distinguere tra il mondo costruito e valutato (attraverso il linguaggio) da quello di cui si ha conoscenza diretta attraverso l’esperienza sensoriale.

In tal senso il focus dell’intervento è, quindi, sui processi cognitivi, e non sui contenuti specifici dei pensieri. In quest’ottica, i pensieri si sostituiscono alla nostra esperienza presente e sensoriale in un processo di vera e propria “alterazione” dell’esperienza nel presente. 
Nello specifico, nell’ ACT, sono previste diverse forme di fusione cognitiva:

  • Fusione giudizio – evento
  • Fusione dannosità immaginata di un evento – evento dannoso
  • Fusione con le attribuzioni causali arbitrarie che l’individuo costruisce rispetto alla propria storia di vita
  • Fusione con il passato o con il futuro concettualizzato

La Defusione cognitiva

La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ ACT è la defusione. La Relational Frame Theory postula che non sia di primaria importanza intervenire in modo diretto sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.

Brevemente, l’ACT intende promuovere due capacità psicologiche: 1) Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute; 2) Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.

Allenando tali abilità, e a mettersi nella posizione consapevole dell’osservatore, è possibile aumentare i gradi di libertà psicologica dell’individuo. Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile SCEGLIERE di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.
Un’ulteriore abilità che l’ ACT tenta di promuove nell’individuo è quella di rinunciare a controllo dei propri pensieri e lasciarli andare, lasciargli spazio, passarci attraverso e grazie a questo diminuire l’influenza e la potenza di tali pensieri.

Quando il figlio desiderato non arriva: l’esperienza della sterilità

Nel presente articolo si è voluto riflettere sulle conseguenze psicologiche che derivano dal ricevere una diagnosi di sterilità secondo una prospettiva psicoanalitica.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’American Fertility Society (A.F.S.) possiamo parlare di sterilità quando uno o entrambi i coniugi sono affetti da una condizione fisica permanente che non rende possibile la procreazione; viceversa, l’infertilità si riferisce all’incapacità della coppia di concepire un bambino dopo più di un anno di rapporti sessuali non protetti. La sterilità è quindi una condizione molto più grave e in qualche modo assoluta rispetto all’infertilità. L’infertilità può essere ulteriormente distinta in primaria quando la coppia non ha mai concepito e secondaria se in passato c’è stato un periodo di fertilità che ha portato ad una o più gravidanza ma ora non si riesce più ad averne.

Secondo una stima dell’OMS, circa il 15-20% delle coppie dei paesi industrializzati, soffre di problemi di infertilità. In particolare, l’infertilità di coppia è legata nel 35% dei casi a problemi a carico delle donne, nel 30% dei casi a cause attribuibili all’uomo, nel 20% di casi ci sono problemi in entrambi i partner e nel 15% dei casi si parla di sterilità “idiopatica” o inspiegata.

L’infertilità maschile può essere dovuta a: ostruzioni nelle vie della produzione spermatica che provocano azoospermia, condizioni cromosomiche come la sindrome di Klinefelter, problemi eiaculatori come eiaculazione retrograda, prostatiti, anticorpi anti spermatozoi. L’età non è considerata un fattore di possibile infertilità nell’uomo ma ovviamente al suo aumentare il livello di desiderio e di capacità sessuale diminuisce.

Nella mancata gravidanza di una donna, invece, tra i fattori responsabili più comuni troviamo: mancanza di ovulazione, patologia tubarica e pelvica, endometriosi, fibromi o polipi e sterilità idiopatica (Chianese, De Simone, Del Duca, Vajro, in Lucariello, 2008). Per sterilità idiopatica si intende quello stato di sterilità involontaria nella quale tutte le indagini appropriate hanno dato risultati negativi. Sostanzialmente ci troviamo di fronte a problematiche inconsce di tipo psicologico che si traducono, a livello somatico, in un’impossibilità a concepire (Froggio, 2000).

Il significato psicologico della sterilità per la donna

Di fronte ad una diagnosi di sterilità possiamo assistere a reazioni differenziate tra uomo e donna che rimandano a diverse dinamiche interne proprie di ogni genere. La donna che fin dall’infanzia ha coltivato nelle sue fantasie più profonde un bambino, prima da condividere con la madre e poi da ricevere dal padre nel momento della fase edipica, di fronte all’ostacolo procreativo sente di essere deprivata di una parte essenziale di sé subendo una ferita nella propria identità.

Le fantasie tramandate di madre in figlia sulla gravidanza, il parto, l’allattamento vengono congelate o meglio spente nella loro possibilità biologica. La difficoltà a concepire un figlio finisce per inscriversi in un’area psico-emotiva e culturale come un marchio, un segno di imperfezione o di malformazione di cui ci si sente colpevoli. Dobbiamo sempre tenere presente che creare una nuova vita costituisce l’ultimo atto dello sviluppo psicosessuale femminile in quanto rassicura la donna di essersi appropriata dell’attività generativa materna come atto simbolico della temuta rivalità verso l’immagine genitoriale interiorizzata e come superamento definitivo della vicenda edipica.

Le emozioni comunemente riscontrate in donne sterili riguardano il lutto, la rabbia, la depressione, la colpa, lo shock e il rifiuto ad accettare questa situazione (Dunkel-Schetter, Lobel, 1991). Ciascuna di queste reazioni può essere considerata per certi versi “normale” a patto che sia limitata nel tempo e porti la coppia verso l’adattamento e la risoluzione, contrariamente se si cristallizza limitando sia la vita personale che quella relazione finisce per assumere una valenza “patologica”.

Un altro elemento importante da considerare è il contesto sociale; la donna infertile infatti riceve meno supporto anche perché spesso si accompagna ad una rete di amiche che con il tempo sperimentano la gravidanza e quindi diventando madri e riducendo gli spazi e i momenti di condivisone la lasciano senza il giusto supporto emotivo.

Il significato psicologico della sterilità per l’uomo

La sterilità nell’uomo viene percepita come un “verdetto” improvviso e inaspettato che può determinare una reazione depressiva, un appiattimento ideativo ed emotivo se non addirittura una regressione infantile con la moglie. Vengono seriamente minacciate la potenza sessuale, da sempre associata alla capacità fecondativa e l’identità personale e sociale. La perdita di virilità in qualche modo sperimentata con la sterilità finisce per ledere il senso di autostima dell’uomo danneggiando anche il rapporto con la compagna.

I sentimenti prevalenti al momento della scoperta di questa verità sono di vergogna, di grave imbarazzo rispetto all’esterno a volte con notevole restrizione dell’ambito delle relazioni sociali, senso di colpa molto forte verso la compagna e la propria famiglia d’origine accompagnati a un senso di perdita e di fallimento. Tipico dell’uomo infertile sembra essere negare ed evitare le preoccupazioni legate alla diagnosi ricevuta.

Da un punto di vista psicoanalitico la sterilità può rappresentare un momento di competizione con il proprio padre che potrebbe causare l’esordio di disturbi psicopatologici (Gerstel, 1963): se l’uomo non ha stabilito un rapporto positivo con il padre, configurandolo come un genitore “sufficientemente buono”, è probabile che il suo senso di virilità dipenda dalla capacità di procreare. Ne consegue che un uomo infertile possa facilmente confondere la virilità con la fertilità e quindi il fallimento riproduttivo, come perdita delle funzioni sessuali, finisce per corrispondere alla perdita totale della propria mascolinità.

Le conseguenze della sterilità sull’equilibrio di coppia

Un fattore importante che non va dimenticato è che la sterilità colpisce la coppia in una delle sue caratteristiche fondamentali ovvero l’apertura alla continuità della vita e alla perpetuazione della specie e anche se il contesto socioculturale del mondo occidentale è cambiato e la finalità elettiva di un rapporto risiede perlopiù nell’appagamento reciproco e nel dialogo amoroso, il figlio continua a rivestire un ruolo fondamentale, soprattutto nel momento in cui è avvertito come una mancanza. Non a caso, coloro che non hanno ancora avuto dei figli dopo qualche anno di matrimonio, sono spesso esposti a una mole di critiche e finiscono per essere additati come egoisti e incapaci di assumersi delle responsabilità.

L’esperienza clinica mette in luce come spesso la mancanza del figlio rinnovi antichi conflitti finendo per allontanare i due partner creando un’ostilità più o meno palese all’interno della quale emergono reciprocamente accuse sulle responsabilità del fallimento procreativo che minano la stabilità coniugale e familiare (Wyatt, 1979). La coppia si trova quindi ad affrontare una vera e propria “crisi di vita” che coinvolge tanto il singolo quanto la coppia dando origine a stress, frustrazione, inadeguatezza e senso di perdita (Menning, 1980).

La coppia deve infatti affrontare diversi livelli di confronto nel proprio vissuto. Un primo livello è quello rappresentato dal confronto con la collettività, ovvero quella dimensione culturale che definisce l’istinto genitoriale come il desiderio di avere dei figli per proseguire il proprio patrimonio genetico: la potenzialità riproduttiva rappresenta l’elemento principale per essere considerati delle “coppie normali”. Le coppie senza figli si trovano, di conseguenza, a dover affrontare il proprio fallimento per non essere stati in grado di creare la vita e soddisfare le aspettative dei propri genitori e della società. Un ulteriore livello è quello rappresentato dalla dimensione della sessualità, pesantemente contaminata dalla sterilità. In casi estremi, le relazioni sessuali finiscono per essere semplicemente un mezzo per il “concepimento ad ogni costo” in cui i ritmi del desiderio e del piacere sono sostituiti dai momenti di fertilità della donna.

L’infertilità quindi vissuta come trauma narcisistico può essere superata non solo attraverso possibilità concrete di risoluzione del problema ma anche attraverso la struttura caratteriale dell’individuo e dall’equilibrio che la coppia riesce a ristabilire. A livello intrapsichico la coppia deve riuscire ad accettare il problema, far fronte alle pressioni sociali, elaborare il lutto per la perdita dell’Io ideale e della propria immagine corporea valutando successivamente se sia il caso di affrontare l’iter terapeutico-diagnostico relativo all’infertilità.

Perfezionismo nei contesti organizzativi: gli effetti sul lavoro

Il fenomeno del perfezionismo è in crescita di anno in anno e l’idea di una sua integrazione nelle attività lavorative è spesso connotata positivamente dai più. Ciononostante, diversi studi riportano considerazioni opposte. Quali sono i suoi aspetti positivi e quali quelli negativi?

Simone Bellavia

 

Quando lavoriamo su qualcosa, non riusciamo a rilassarci fino a che i dettagli non raggiungano i livelli di accuratezza che siamo soliti fornire, sfruttando sempre il massimo del nostro potenziale. Se chiediamo ad un collega di contribuire ad un compito che ci è stato assegnato, ci aspettiamo che anch’egli segua la medesima prassi. Sentiamo il forte bisogno di raggiungere degli standard che rasentino l’eccellenza, tuttavia la minima percezione che il nostro lavoro non rispetti le nostre aspettative si prefigura come un senso di fallimento che generalizziamo sulla nostra persona, alimentando una falsa percezione che gli altri possano giudicarci duramente.

Perfezionismo: cos’è e perché si sta diffondendo

Il concetto di perfezionismo è oggi familiare a molte persone. Infatti uno studio recente, condotto dalla York St. John University e pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Bulletin, dimostra come generazioni più recenti di studenti universitari — specificatamente fra il 1989 e il 2016 — riportino punteggi significativamente più alti per ogni forma di perfezionismo rispetto alle generazioni precedenti (Curran, T., & Hill, A. P., 2017). Questa tendenza in crescita è probabilmente dovuta ad un insieme di fattori scatenanti, primo fra tutti l’uso dei social media, che spingerebbe i giovani adulti ad alzare sempre di più l’asticella delle proprie aspettative di riuscita e di successo.

Per poter meglio spiegare ciò di cui stiamo parlando, diremmo che il perfezionismo è più marcatamente definito dal desiderio di assoluta impeccabilità (Frost et al., 1990): si tende ad essere inflessibili e rigidi circa i propri standard lavorativi, che vengono perseguiti in modo compulsivo, anche quando la situazione non richiede la perfezione (Flett & Hewitt, 2006; Sherry, Hewitt, Sherry, Flett, & Graham, 2010). In molti casi, a lavoro concluso, non si sperimenta soddisfazione, quanto un sollievo e il voler fissare standard ancora più elevati (Mor, Day, Flett, & Hewitt, 1995; Shafran, Cooper, & Fairburn, 2002). Secondo un articolo pubblicato sulla rivista accademica Journal of Applied Psychology, il perfezionismo è caratterizzato da più facciate: una parte “adattiva”, che ci rende meticolosi, organizzati, puntuali e orientati ad ottenere buoni risultati, e da una parte “disadattiva”, che alimenta le nostre preoccupazioni sugli errori, ansia per le nostre azioni e un’ossessiva avversione per i fallimenti (Enns, Cox, & Clara, 2002; Terry-Short, Owens, Slade, & Dewey, 1995).

Perfezionismo: si può gestirre a proprio vantaggio

L’idea del lavoratore perfezionista è diffusa e ben accetta, poiché ci si aspetta organizzazione, responsabilità e orientamento a risultati qualitativamente elevati, tutti aspetti positivi che correlano con alti livelli di coscienziosità. L’altra faccia della medaglia, evidenziata dall’analisi condotta nell’articolo precedentemente citato, riporta però al contempo bassi livelli di stabilità emotiva e di forte atteggiamento critico verso se stessi e il proprio operato, creando un circolo vizioso ansiogeno (Frost & DiBartolo, 2002).

Essere perfezionisti non è assolutamente un male, anzi. Alle volte l’insoddisfazione ci spinge e ci motiva a lavorare meglio, per rendere ciò che realizziamo, che sia un bene o un servizio per gli altri, qualitativamente superiore. Ma allo stesso tempo può diventare tossico e di conseguenza diventa una trappola. Ne risente la nostra creatività — che in molti ambiti organizzativi aiuta a crescere — la quale ha bisogno di più flessibilità. Bisognerebbe quindi cominciare a “buttarsi” ed accettare eventuali fallimenti, perché errare è lecito, e sbagliare è una vera lezione formativa. Bisogna cominciare, provare, rischiare. Accettare i risultati buoni, non solamente quelli che si ritengono “perfetti” e porre degli obiettivi realistici. Un altro suggerimento valido è quello di lavorare sulle proprie emozioni, accettando anche quelle difficili: un’opzione valida è la pratica della mindfulness, utile anche nella gestione dell’ansia.

Essere perfezionisti non è un male, ma bisogna stare attenti e non renderlo patologico, piuttosto sfruttare i suoi aspetti positivi per poter lavorare meglio.

Bambini: il contatto con la natura e i benefici a livello emotivo, comportamentale e psicologico

I bambini con un rapporto più stretto con la natura soffrono di un minore disagio psicologico, minore iperattività e mostrano difficoltà emotive e comportamentali meno frequenti, oltre a presentare un comportamento pro-sociale più spiccato.

 

“Non dimenticate che la terra si diletta a sentire i vostri piedi nudi e i venti desiderano intensamente giocare con i vostri capelli” (K. Gibran).

 

Sempre più spesso dimentichiamo quanti benefici possiamo trarre dall’ambiente naturale: benessere generale, tendenza pro-sociale, connettività verso l’ambiente e verso gli altri, maggiori emozioni positive (Passmore & Holder, 2017).

Tra cemento, rumori, tecnologia e ritmi disumani, la vita urbana ci ha rapiti, strappandoci prepotentemente al nostro luogo d’origine: la natura. La conseguenza è spesso la conduzione di stili di vita malsani, la perdita di un’alimentazione salutare e l’abbandono del gioco attivo e costruttivo nel periodo di crescita. Abbiamo perso l’abitudine a giocare sguazzando nel fango, abbiamo smesso di rincorrere lucertole per osservarle con affamata curiosità, non abbiamo più voglia di rotolare sull’erba e poi accettare la ramanzina dalla mamma perché “l’erba sul jeans è difficile da lavare”. Non ci sporchiamo, non odoriamo, non osserviamo e, soprattutto, non contempliamo più la bellezza di un albero, di una montagna, di un fiore. Non troviamo più conforto e meraviglia nella natura.

Tutto questo ha un prezzo e sono i nostri bambini i primi a pagarlo. Infatti, già in età pre-scolare, molti bambini riportano segni di malessere psicologico, riferendo di sentirsi spesso stressati e depressi. Ad Hong Kong, per esempio, tra il 16% e il 22% di bambini prima dei 6 anni riporta problemi di salute mentale. Proprio per questo motivo, un recente studio condotto dalla Dott.ssa Tanja Sobko dell’Università di Hong Kong insieme al Prof. Gavin Brown dell’Università di Auckand, si è posto come obiettivo quello di indagare il rapporto dei bambini con la natura e le conseguenze che esso ha a livello emotivo e comportamentale.

Lo studio

I ricercatori hanno, quindi, messo a punto un nuovo questionario di 16 item, il CNI-PPC, da somministrare ai genitori, per misurare la “connessione con la natura” in ogni bambino. Il questionario riflette quattro aree della relazione bambino-natura: godimento della natura, empatia per la natura, responsabilità verso la natura e consapevolezza della natura.

Lo studio ha coinvolto 493 famiglie con bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni ed è stato condotto in due momenti: durante la prima parte, i ricercatori hanno intervistato le famiglie e successivamente hanno sviluppato il questionario CNI-PPC; durante la seconda parte, il nuovo questionario è stato confrontato con lo Strenghts and Difficulties Questionnaire, uno strumento di misurazione validato che indaga il benessere psicologico e i problemi comportamentali nei bambini. I risultati mostrano che i bambini con un rapporto più stretto con la natura hanno un minore disagio psicologico, minore iperattività e difficoltà emotive e comportamentali meno frequenti, oltre a presentare un comportamento pro-sociale più spiccato.

È molto interessante come i bambini con un grado più alto di responsabilità verso la natura hanno presentato meno difficoltà nel rapporto con i pari. Questo studio suggerisce l’importanza di futuri approfondimenti riguardo il link tra ambiente e benessere nell’infanzia. I ricercatori del presente studio hanno, inoltre, promosso un’iniziativa denominata “Play&Grow”, che promuove l’alimentazione salutare e il gioco attivo nei bambini in età pre-scolare, con l’obiettivo di riconnetterli alla natura (Sobko, Jia & Brown, 2018).

L’influenza del disturbo narcisistico di personalità sulle scelte di vita

Il senso di dovere: impegnare tempo solo per fare cose di livello. Un dramma per il narcisista. Un film dev’essere costruttivo, non sia mai la commedia italiana sciocca ed infantile. Un libro? Non il saggio d’amore, ma la critica storica della guerra del golfo o sulle conseguenze delle bombe nucleari.

 

Ancora: il ristorante? Beh, alla trattoria all’angolo viene sempre preferito il locale dello chef stellato, in pieno centro, senza considerare minimamente le quantità di cibo che ci si ritrova davanti. Ad un piatto di orecchiette e broccoli, si preferisce uno di nuovelle cousine con patate “bubuguardarear”, annaffiato da “crousateeen”, con contorno di “uhuokhsvshs”.

Narcisismo: tratti distintivi

E questo non riguarda solo le proprie, di scelte, perché il paziente con disturbo narcisistico di personalità è anche marito che pretende che la moglie acquisti solo narrativa impegnata, che non frequenti determinati ambienti o che non vesta in modo sciatto. Ma è anche padre, che desidera che i propri figli diventino adulti di livello e quindi devono frequentare solo scuole di élite, parlare un italiano perfetto, coltivare interessi intelligenti. Ovviamente, il narcisista sarà anche amico, cugino, fratello, e anche in quel caso, spesso, è pretenzioso ed esigente.

Si chiamano “scelte” e di solito, per farle, bisogna prendere contatto con i propri desideri, bisogna riconoscerli, ascoltarli, perseguirli. Nel disturbo narcisistico di personalità, o narcisismo, la critica ed i processi di scelta sono filtrati da procedure interne che sono ben lontane da quelle reali e consapevoli. Piace ciò che è bene che piaccia, mentre il resto è abbattuto, fuori della coscienza. Secondo Kernberg (1975) i narcisisti non accettano che ci sia distanza tra il sé ideale e il sé attuale: bisogna essere in un certo modo.

Narcisismo: la terapia può aiutare a vivere le relazioni

Chi soffre di narcisismo ha un sistema di valori che è rigido, autoreferenziale, inflessibile nel guidare azioni (Dimaggio et al., 2006). Lasch (1979) parla di “cultura del narcisismo”: è più forte l’esigenza ad andare avanti invece che stare insieme, c’è più bisogno di potere che di intimità (Emmons, 1989). Quindi l’uso dei giudizi di valore è il meccanismo di scelta dominante con la conseguenza di perdere il contatto con le proprie emozioni che dovrebbero, appunto, guidare le azioni. E, come si accennava prima, i narcisisti pretendono che gli altri aderiscano completamente al proprio sistema di valori perché gli altri hanno una funzione riflessiva (Dimaggio et al., 2006).

La psicoterapia aiuta tanto in questo. A toccare con mano la possibilità di scegliere ciò che davvero si vuole svincolandosi da pressioni interne, a viversi quel senso di libertà che segue il mettersi in discussione e che contempla anche la possibilità di effettuare scelte azzardare, sbagliate, fuori luogo. Il tutto sulla base della relazione terapeutica.

Naricisismo: cosa può capitare in terapia

Un mio paziente con Disturbo Narcisistico di Personalità credeva fortemente che quei minuti iniziali e finali della seduta, colmi di convenevoli, gentilezze e notizie frivole, fossero tempo perso. Non si parlava di lui ed io non esponevo niente di psicologico. Ovviamente, tutto questo, mi fu detto nel solito stile adottato da questa categoria di pazienti. Sprezzante. Critico. Espressione dura. Busto eretto. Braccia conserte.

Io come mi sono sentita? Beh, in linea con quanto si legge sui manuali

…il terapeuta può sentirsi minacciato, svalutato e sottomesso e si sente costretto a fare o dire qualcosa per ripristinare il rango.

Per fortuna, ho imparato a riconoscere e regolare, a volte, il mio stato interno con opportune procedure di disciplina interiore, come la terapia metacognitiva interpersonale insegna (Dimaggio et al., 2013). Dopo un intenso lavoro di riconoscimento e validazione del processo interno del paziente, di ritorno da un mio viaggio all’estero, abbiamo trascorso ben 15 minuti della nostra seduta a parlare di dov’ero stata, di cosa avessi mangiato e di che tipo di esperienze avessi fatto nel confrontarmi con una nuova cultura. In seguito, lui mi ha parlato di come aveva trascorso il suo weekend in montagna, del suo cane, di come si stessero particolarmente affezionando l’uno all’altro e di come questo gli sembrava bizzarro.

Quando, alla fine, gli ho chiesto come si stava sentendo, come gli era sembrato trascorrere del tempo apparentemente vuoto, fatto di condivisione di piccole cose e di conversazioni leggere, mi ha sorriso.

Certo, all’uscita mi ha chiesto se il mio fosse stato un albergo 5 stelle e se avessi avuto un autista disponibile per ogni spostamento, ma va bene così…accontentiamoci per ora. D’altronde, siamo ancora in una fase precoce di terapia.

Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica (2018) di Rosa Maria Quatraro e Pietro Grussu – Recensione del libro

In tutto il mondo esiste una enorme diffusione di disagi psicologici che possono colpire le donne nel periodo precedente e successivo alla nascita di un figlio. Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica offre un dettagliato panorama sui molteplici aspetti clinici.

 

Alcuni di questi sono: lo stress perinatale materno, l’esposizione del feto ai disturbi psicologici della madre, l’impatto psicologico dell’infertilità e della procreazione assistita, la diagnosi prenatale in presenza di anomalie fetali, l’aborto spontaneo o perdita perinatale, il parto traumatico, la depressione post-partum, il ricovero in terapia intensiva neonatale, i bisogni della donna dopo il parto, l’allattamento al seno e lo svezzamento.

Psicologia clinica perinatale: l’approfondimento su rischi e patologie

Sono argomenti che riguardano la salute mentale delle madri e delle loro famiglie, chiamate ad affrontare le diverse situazioni e decisioni che caratterizzano il periodo perinatale. Un libro risorsa per ricercatori, operatori e dirigenti sanitari, scritto con un linguaggio sufficientemente accessibile a tutti coloro che siano interessati a capire l’importanza della psicologia perinatale. I pareri degli esperti in materia, offrono informazioni su numerose tematiche della psicopatologia: l’esperienza dello stress perinatale, i problemi psicologici in gravidanza, durante il parto e nel periodo postnatale, il rischio e la prevenzione delle psicopatologie. Approfondendo tali argomenti, Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica indica anche potenziali soluzioni, partendo dalle più semplici ed immediate (spesso sottovalutate, come l’importanza del supporto sociale nel periodo perinatale, per esempio), alle indicazioni di trattamento più complesso che necessitano l’intervento di esperti in materia.

Psicologia clinica perinatale: uno sguardo alle nuove tecnologie

Molto interessante la presentazione nel testo Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica dell’impatto che le nuove tecnologie e il progresso scientifico stanno avendo sulla procreazione, analizzando elementi di grande complessità come le biotecnologie riproduttive, la diagnosi prenatale e le cure neonatali. Per esempio, il capitolo sullo screening prenatale per le anomalie congenite evidenzia le difficili decisioni che i genitori si ritrovano ad affrontare e fornisce consigli per supportare le famiglie in relazione ai diversi esiti che possano verificarsi.

Nel mondo dei sogni (2017): un viaggio affascinante nel mondo psicoanalitico e junghiano dell’interpretazione – Recensione

Nel mondo dei sogni di Aldo Carotenuto, psicoanalista e notissimo esponente del pensiero junghiano, si presenta, nei suoi cinque capitoli, come una proposta asciutta e utile soprattutto per coloro che, interessati ad avvicinarsi al mondo dei sogni, temono di scontrarsi con una lettura didattica e meno divulgativa.

 

L’idea che l’autore sembra proporre al lettore è di seguirlo in un viaggio che, dopo essere giunto fino alle radici del sogno, procede attraverso il tempo a chiarirne sviluppi e trasformazioni.

L’apertura del testo, infatti, affidata all’analisi delle sue antiche origini, prosegue col porre l’accento sui mutamenti che hanno concorso a definirne i suoi aspetti principali, lasciando trapelare come nel possesso, nell’interpretazione e nelle funzioni, possano essere riconosciuti alcuni tra i temi più ampiamenti esplorati e dibattuti. In particolare, il fenomeno onirico, colto, in un primo momento, per sue qualità divinatorie, che molto ci dicono della sua collocazione esterna al sognatore, è in seguito riconosciuto per il beneficio trasformativo che è capace di apportare all’autore stesso del sogno, condotto dal futuro al passato, fino al presente.

In questa cornice, che, prima di ogni cosa, sembra segnalare il primitivo desiderio dell’uomo di comprendere il significato che si nasconde dietro di esso, si conosce l’importanza che nel tempo viene attribuita all’attività di penetrare nell’oscurità dell’ignoto, così come la consuetudine di una competenza demandata ad un altro, nella posizione di sapere molto più del sognatore stesso.

Nel mondo dei sogni: verso il significato più profondo del sogno

Una prospettiva sul sogno, quella che Carotenuto in prima battuta propone, intrisa di mitologia e religione, cui seguiranno, con l’avvento della cultura ottocentesca, gli interrogativi della scienza.

Di fatto, proprio nel tentativo di spiegarne meccanismi e segreti, con rigore e metodo, discipline diverse, come la fisiologia, la psicologia sperimentale e la psicoanalisi, avanzano interessanti scoperte e nello sforzo di superare le impasse sul loro indagare promuovono integrazioni e/o nuove suggestioni. Nel fervore di questi anni, Alfred Maury, il marchese d’Hervey e poco più avanti la psicoanalisi danno il via a un’indagine scientifica e psicologica sul sogno. A renderne la più metodica testimonianza è Sigmund Freud con la pubblicazione nel 1899 del libro “L’Interpretazione dei sogni”, opera con cui spiazza il mondo scientifico, per il suo studio sistematico sul sogno e gli mostra un tema di grossa rilevanza di cui non si era occupato. Scandagliandolo nella sua struttura, egli definisce con chiarezza l’appartenenza del sogno al sognatore, spiega la sua corrispondenza con un linguaggio diverso e non meno importante di quello razionale e distingue un doppio contenuto, segnalando, in quello più nascosto, un desiderio rimosso. Arriva così a riconoscere al sogno non solo l’appagamento di un desiderio “inconfessabile”, ma anche il compito di preservare il sonno nascondendolo alla coscienza. Infine, suggerisce che la strada percorribile per giungere alla comprensione del suo significato prevede l’utilizzo di una tecnica psicologica che facilita nel paziente uno stato di auto-osservazione libero dalla critica. In altri termini, quello a cui si riferisce è:

Un lasciar emergere tutti i ricordi, le immagini, anche le parole isolate, che si affacciano alla mente per una sorta di misteriosa affinità. Permettendo, così, che un flusso di figure, luoghi, eventi, fantasie, prosegua, scorra senza ostacoli e sbarramenti, innanzitutto rinunciando a incanalarlo e orientarlo (Carotenuto, 2017, p. 34).

Nel suo pioneristico contributo va riconosciuta l’azione catalizzatrice di nuove prospettive, nate dal contributo dei suoi stessi allievi, Jung e Adler. Questi ultimi, infatti, preoccupandosi di ampliare i suoi contenuti e proporre nuove scoperte, contribuiscono a successive revisioni.

L’inconscio del sognatore non è più l’unico protagonista, a esso si affianca l’individuazione di un inconscio collettivo a cui le immagini del sogno devono essere ricondotte, così come il significato che le riguarda, non solo rappresentativo dello stato in cui il soggetto si trova, ma di una condizione che può riguardare tutti gli individui. Non solo, inizia a farsi strada una connessione tra sentimento di potenza e sogno che conduce a riconoscere in quest’ultimo la tendenza da parte dell’uomo a raggiungere uno stato di sicurezza, un’emancipazione dal sentimento d’inferiorità.

Il mondo dei sogni diventa, dunque, un oggetto di studio ricco e stimolante, capace di spingere gli studiosi verso sentieri mai calpestati o solo sfiorati, direzione verso cui sembra muoversi l’attenzione di Franz Alexander per la dimensione morale dell’attività onirica.

Una doppia direttrice caratterizza, quindi, il panorama entro cui gli studi psicoanalitici sul sogno si muovono, permettendo una distinzione tra i contributi che dalla tradizione freudiana si sono orientati verso una dimensione relazionale e quelli che ne hanno seguito le linee principali arricchendole. Rientrano in questi ultimi gli studi di Thomas French, Erika Fromm e Angel Garma che hanno riconosciuto al sogno una struttura coerente che informa l’individuo su se stesso e avanzato ipotesi su una sua eziogenesi traumatica.

L’approssimarsi di divergenze rispetto al contributo freudiano si fa, però, sempre più intenso quando anche altre discipline come la fisiologia e la psicologia cognitiva non mancano di manifestare la loro contrarietà. In esse al sogno è attribuita solo una funzione di aiuto all’attività della veglia e nella teoria hobsoniana, in particolare, l’esistenza di un messaggio latente è messa da parte in favore di un’informazione assolutamente chiara e manifesta di cui il sogno è portatore.

Più avanti la psicologia transpersonale, paragonando i sogni a fenomeni che trascendono la razionalità, richiama l’attenzione sulla dimensione creativa dilatata nel sogno.

Nel resoconto che l’autore propone al lettore, non rientrano ovviamente tutti i contributi che sono stati prodotti sul sogno, ma senz’altro avanzare lungo un itinerario come questo consente di cogliere il fascino che lo studio del mondo dei sogni può aver suscitato nell’uomo fin da tempi remoti.

Quanto alla metodologia usata per leggerne i contenuti e alla posizione dell’analista nei suoi confronti, va segnalata la direzione sicuramente più rispettosa, compresa e raggiunta nel tempo, dello spazio del sognatore, necessaria premessa, a mio avviso, per il passaggio dalla mera traduzione dell’enigmatico a una posizione dialogica capace di promuovere una co-costruzione di conoscenze. Queste ultime, infatti, dispiegandosi nel corso del lavoro psicoanalitico, non tardano nel rendere manifesta la possibilità di rintracciare proprio nei sogni un arricchimento di personaggi e situazioni, una trasformazione nei messaggi che essi veicolano, un arrestarsi e poi riprendersi di comunicazioni che chiedono di essere colte affinché il sognatore possa imboccare la strada della crescita personale. Per usare le parole di Carotenuto:

Il compito di un analista è forse anche quello di aiutare a comprendere – oltre l’interpretazione – il valore del sogno nel momento in cui esso si esplica, la sua valenza comunicativa, ma soprattutto il bisogno dell’inconscio, che esso sottende e veicola, di esprimersi e aiutarci. Aiutarci a comprendere noi stessi e aiutarci ad andare oltre la razionalità diurna (Carotenuto, 2017, p.74).

Per concludere, dall’oniromanzia alle più recenti prospettive sull’attività onirica, si coglie l’intenzione di Carotenuto di fornire, oltre che una lettura sintetica della teorizzazione nata su di essa, anche una finestra da cui osservare il contributo dell’attività clinica alla sua nascita e ancor prima, di quella inestinguibile “equazione personale” che ne ha orientato la ricerca. Non solo, nelle sue parole si avverte l’offerta di una comprensione più profonda di cui il sogno si fa precursore, un ponte verso un “altrove” un po’ più vicino, vitale e creativo, che ancora affascina e spaventa, ma mai fortunatamente penetrabile.

PTSD e sintomi: il Tetris aiuta a ridurre i flashback relativi all’evento traumatico

Nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) si stanno sperimentando nuove modalità di intervento non convenzionali, tra cui giocare a Tetris. In questo modo sembra possibile generare un indebolimento della traccia mnestica legata all’evento traumatico ed un effetto positivo su alcuni sintomi del PTSD, come una diminuzione del numero di flashback.

 

Giocare a Tetris al computer sembrerebbe essere d’aiuto agli individui con diagnosi di disturbo da stress post traumatico (PTSD) nell’alleviare i ricordi visivi ricorrenti e involontari relativi alle esperienze traumatiche. Gli effetti del Tetris come metodo di intervento comportamentale consisterebbero, quindi, in una diminuzione di flashback relativi a eventi stressanti. A questa conclusione è arrivato un team di ricercatori del reparto di medicina psicosomatica e di psicoterapia della Ruhr-Universität Bochum e della Karolinska Instituet in Svezia attraverso una ricerca comprendente 20 pazienti con PTSD.

La presenza di flashback ricorrenti relativi all’esperienza traumatica è da considerare uno dei sintomi più invalidanti del disturbo da stress post traumatico. Proprio per la rilevanza di suddetto sintomo i ricercatori ambiscono, attraverso il corrente studio, a ricercare metodi alternativi utili ad alleviare e ridurre i flashback. Inoltre, circa 10 anni fa, uno dei ricercatori a capo dello studio, Emily Holmes, ha riscontrato che, nei soggetti non clinici, giocare a Tetris al computer sopprimeva i flashback causati dai film horror. Anche a fronte di questi risultati, il team di ricerca dello studio corrente ha testato se suddetto effetto si ripetesse anche nei soggetti con diagnosi di PTSD oltre che in individui in salute.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto 20 pazienti con PTSD complesso, ricoverati presso il dipartimento di medicina psicosomatica e psicoterapia per 6/8 settimane e trattati attraverso una terapia standard.

Oltre alle regolari terapie individuali e di gruppo, i 20 partecipanti sono stati sottoposti ad un intervento speciale: hanno scritto una delle loro memorie traumatiche e stressanti su di un foglio di carta, il foglio di carta con il ricordo è stato poi strappato e il contenuto del ricordo è rimasto segreto. Successivamente, i 20 partecipanti hanno giocato a Tetris in un tablet per 25 minuti. I pazienti hanno sempre riportato flashback ogni volta diversi, per esempio esperienze di violenza in diverse situazioni, il cui contenuto è stato registrato in un diario durante le settimane. Ogni intervento svolto di settimana in settimana aveva, quindi, come oggetto un contenuto di un flashback specifico.

A seguito di questo intervento speciale, i cambiamenti riscontrati nei pazienti nei giorni e nelle settimane successive all’intervento riguardavano la diminuzione della frequenza solamente dei flashback il cui contenuto era stato specificato durante lo studio. Al contrario, il numero dei flashback è rimasto relativamente costante per quanto riguarda i flashback il cui contenuto non è stato specificato. Dopo settimane, l’intervento è stato ripetuto tracciando il contenuto di altri flashback e i risultati sono stati gli stessi: la diminuzione del numero di flashback in 16 pazienti su 20.

La spiegazione degli autori

Secondo i ricercatori dello studio, il successo di questo metodo si basa su uno specifico meccanismo: quando il paziente visualizza la memoria stressante nel dettaglio, le aree del processamento visuo-spaziale nel cervello si attiverebbero. Quelle stesse aree sarebbero, inoltre, importanti e attive durante il gioco del Tetris. Entrambi i compiti (ricordare un evento stressante e giocare a tetris) richiedono, dunque, risorse comparabili ma limitate, producendo cosi un’interferenza.

Ogni qualvolta che un paziente ricorda in maniera conscia il contenuto di un flashback, le tracce mnestiche associate diventano temporaneamente non stabili. Se l’interferenza avviene proprio in questo momento in cui le tracce mnestiche sono temporaneamente non fisse, queste stesse tracce potrebbero divenire più deboli quando vengono poi rimmagazzinate in memoria. L’indebolimento della traccia mnestica avrebbe come conseguenza, secondo gli scienziati, una diminuzione del numero di flashback.

Ulteriori ricerche sul tema andrebbero fatte. Il corrente studio ha come speranza quella di poter fornire ai pazienti con PTSD un intervento da mettere in atto anche a casa e senza alcun aiuto. Questo intervento comunque, ha solamente l’obiettivo di alleviare un sintomo del PTSD (i flashback) e, pertanto, non può in nessun modo sostituire le terapie standard per il trauma.

You (2018): quando il controllo relazionale è fuori controllo – Recensione della serie

Tra le gradevoli proposte del 2018 di Netflix, You merita decisamente uno spazio qui su State of Mind. Non sarebbe coerente con le nostre intenzioni, infatti, smettere di sottolineare ogni peculiarità squisitamente psicologica che rintracciamo nei film e nelle serie TV.

 

Vincente sotto molti aspetti, You racconta la storia di due giovani innamorati, Joe e Beck, il primo un riservato direttore di una libreria di New York, la seconda una attraente scrittrice alle prime armi, a tratti perdigiorno con le sue ricche ex compagne della Brown. Sin dai primi minuti della serie, catapultati in medias res, siamo spettatori dei teneri scambi di battute tra i protagonisti e comprendiamo come la vitalità di Beck sia in grado di scuotere piacevolmente Joe.

You: una tranquilla relazione amorosa..o no?

Fino a qui tutto bene. Un semplice incontro tra il colto proprietario di una libreria e una nuova simpatica cliente. Già dal trailer, però, apprendiamo che Joe non è il ragazzo perfetto, anzi il suo passato – che ci viene mostrato a pezzi, per tramite di flashback e altri escamotage cinematografici – nasconde dei segreti e il suo interesse per Beck cresce troppo velocemente dopo l’incontro nel negozio. Da quel momento, infatti, Joe intavola nella sua mente la perfetta relazione amorosa, senza bisogno dei necessari feedback della partner e tenta l’impossibile per far sì che le loro vite collimino.

I segnali che Beck ha offerto a Joe, infatti, sono per lui inequivocabili. “Ha pagato con la carta di credito, non in contanti, quindi voleva farmi sapere il suo nome” – dice lui. “I suoi account social sono pubblici, ho diritto perciò ad informarmi su di lei”. E così via.

La serie procede portando in primo piano quello che per noi costituisce la prerogativa più interessante delle puntate, ossia il dialogo interno che fa il protagonista. Attraverso il contenuto dei suoi pensieri, saggiamo il suo essere machiavellico e siamo preda di occasionali insight su quanto il mondo dei social ci esponga alle fantasie di uno stalker. Inoltre, prendiamo coscienza di quanto alcune persone del nostro passato, che in altre e più antiche epoche avrebbero continuato il loro viaggio in questa vita senza di noi, continuino ad essere presenti nella nostra cerchia di relazioni virtuali (ndr: e questo ci aiuta?). Insomma, gli ideatori sono bravi a scuoterci e trascinarci dentro la storia, offrendoci spunti di riflessione e amari e comuni denominatori delle nostre passate relazioni amorose.

You: temi e piani dei personaggi

Mi fermo qui, gli spoiler non piacciono a nessuno.

Vorrei però portare la vostra attenzione sulla costruzione psicologica del protagonista. Joe appare mite, ben disposto con i clienti, cordiale e brillante con le amiche di Beck. Il suo ardente desiderio di conquistarla, di proteggerla dalle difficoltà del mondo e indirizzarne la vita, lo porta però a manifestare spesso dei tratti di personalità antisociale (i.e., impulsività, incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportamento legale, mancanza di rimorso, etc.) e, in altre occasioni, ad imporre agli altri rigide regole morali.

Avvalendoci delle conoscenze della LIBET (Sassaroli, Caselli & Ruggiero 2016), possiamo azzardare qualche ipotesi in più. Questa cornice è a mio parere molto utile e permette di descrivere la sofferenza e il funzionamento dell’individuo attraverso due concetti: il tema e il piano. Il primo costituisce la “ferita” del paziente (ad es., l’idea di essere indegno o non amabile), quello stato mentale e relazionale appreso nella storia di vita e giudicato dal soggetto emotivamente intollerabile; il piano rappresenta, invece, la strategia mentale o comportamentale reclutata dall’individuo per tenersi distante dall’idea dolorosa di sé (ad es., rimuginare, evitare, consumare smodatamente alcolici, etc.).

You: cosa accade se irrigidiamo le nostre strategie

Nel corso della serie TV, possiamo così tentare di individuare il piano di Joe: il controllo relazionale. Appresa la sua utilità dopo una precedente e fallimentare relazione, il protagonista persevera nell’applicarlo al momento della narrazione dei fatti, incurante di come questo fallisca nel lungo termine (i.e., invalidazione del piano). Spesso, infatti, Joe entra in contatto con il suo tema doloroso, sperimentando vissuti per lui difficili da gestire. Tuttavia, invece che trovare alternative funzionali al controllo relazionale, egli irrigidisce sempre più il comportamento di controllo, stremando a poco a poco Beck. Interessante poi la scena in cui la ragazza rimanda a Joe quello che molti partner farebbero bene a dire al fidanzato/a geloso intento a controllare le chat di WhatsApp: “senza fiducia non abbiamo niente”.

In aggiunta, i due personaggi ad un certo punto incontrano per differenti motivi lo stesso terapeuta e questo, al fine della nostra “indagine”, dovrebbe rallegrarci. Nelle sedute, infatti, emergono altri e succulenti aspetti dei protagonisti e tutto sommato il terapeuta, a parte il fatto che ad un certo punto si accende uno spinello in seduta, sembra proporsi bene. Tra i suggerimenti che propone a Joe, colpisce quello di investire su di uno scopo sovraordinato rispetto a quello che, attraverso la (fallimentare) strategia del controllo relazionale, sta cercando di raggiungere ora. Una proposta piuttosto convincente considerato il nostro ragionamento in chiave LIBET.

Successivamente, immaginandoci al posto dell’attore-terapeuta, avremmo potuto ricercare l’episodio del passato a cui risale l’implementazione del piano, il motivo per cui persiste ancora oggi, per poi giungere a sottolinearne i costi a lungo a termine. Fatto ciò magari avremmo potuto lavorare sull’accettazione dell’impossibilità di proteggerci sempre e comunque dall’eventualità catastrofica (cioè essere lasciati/traditi). Non è infatti un’opzione considerarci intolleranti all’incertezza.

Tuttavia ci limitiamo a sprofondare nel divano, godendo del nostro essere spettatori.

Un altro gradevole intervento del nostro risoluto terapeuta ci sembra essere quello di coltivare il lato di Joe che ha fede nel vero amore, quello proteso al godere delle meravigliose sorprese della vita, lo stesso che a volte inciampa in alcune imprevedibili evenienze e soffre, soffre molto. Un infallibile terapeuta, quindi? Non proprio, perché il sistema di regole morali che Joe applica agli altri non sembra mai veramente flessibilizzarsi e ogni mutamento della sua condotta pare finalizzato a raggiungere sempre l’obiettivo di godere di una relazione dove la partner non avrà il potere, né l’occasione, di tradirlo.

Che i disturbi di ex asse II siano più complessi da trattare, però, è cosa nota.

Concludo quindi, dicendo che è tutto molto bello quando ciò che studi funziona come dei fantastici occhiali da sole che ti permettono di ammirare un paesaggio. Il colore delle mie lenti è sicuramente diverso dal tuo, ma se hai già sfogliato Castelfranchi, Ellis, Semerari e DiMaggio, Kelly e il booklet LIBET, “You” potrà forse intrattenerti meglio di altre serie durante questo inverno.

YOU – GUARDA IL TRAILER:

Janina Fisher e il suo grande contributo alla cura del trauma e della dissociazione – Introduzione alla Psicologia

Janina Fisher è una psicologa-psicoterapeuta e dottore di ricerca in clinica psicologica, oltre a essere Istruttrice al Trauma Center, vicedirettrice del Sensorimotor Psychotherapy Institute, direttore dei Servizi psicologici presso la Khiron Clinics, nel Regno Unito e docente presso la Harvard Medical School.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Janina Fisher è nota per la sua esperienza sia come terapeuta che come istruttore di EMDR e per i suoi lavori svolti in merito al trattamento sul trauma e sulla dissociazione. Inoltre, è co-autrice insieme a Pat Ogden del libro: Interventions for Attachment and Trauma sulla Psicoterapia sensomotoria e del libro: Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors.

La Fisher ha partecipato a diversi convegni e conferenze, dove ha raccontato la sua esperienza in ambito clinico e la sua teoria sul trauma. La Fisher esercita la sua professione da 25 anni sia privatamente sia in ambito ospedaliero e ha ricevuto diversi premi per i suoi contributi clinici e scientifici.

Janina Fisher: il trauma e il suo trattamento

Tutti coloro che subiscono un trauma necessitano di tempo per riuscire a elaborare l’accaduto e a superarlo. Succede, di conseguenza, che si attiva automaticamente una riposta istintiva di sopravvivenza, in cui il cervello rilascia adrenalina, entrando in una modalità in cui si registra un aumento dei tempi di risposta in relazione a quanto accade nell’ambiente circostante. Il risultato è avere dei ricordi frammentati di ciò che è avvenuto e di conseguenza, il modo di relazionarsi con l’evento scatenante appare più ovattato e circoscritto. Nel caso si avesse un supporto adeguato per superare l’accaduto, si potrebbe superare quel momento, ma l’evento sarebbe comunque presente vividamente in noi, in particolare nel caso in cui si fosse vulnerabili per la presenza di una serie di problematiche intervenienti, portando al manifestarsi di sintomi che disgregano l’evento traumatico. Inoltre, la risposta adattiva di sopravvivenza messa in atto dal sistema nervoso centrale potrebbe diventare cronica, ovvero si potrebbero avere continui stati di allerta e la sopravvalutazione del costante del pericolo.

Dal 1980, fino alla fine degli anni ’90, sono stati sviluppati nuovi paradigmi di trattamento che impattano maggiormente sugli aspetti somatici ed emotivi connessi al trauma. La Psicoterapia Sensomotoria, alla quale la Fisher ha dato un grosso contributo partendo dal concetto di attaccamento traumatico, affronta direttamente gli effetti del trauma sul sistema nervoso e sul corpo. La Psicoterapia Sensomotoria si basa specificatamente sul trattamento delle esperienze traumatiche verificatesi durante lo sviluppo.

Questo approccio utilizza strumenti di osservazione e di intervento rivolti principalmente al corpo, che sono abitualmente esclusi da altri tipi di terapie. Il terapeuta si concentra sulla postura, sulle tensioni muscolari, sui movimenti, incoraggiando il paziente a riconoscere ed osservare come le sensazioni fisiche siano legate a particolari emozioni e pensieri e ad integrare queste esperienze corporee nel suo vissuto. L’obiettivo principale della psicoterapia sensomotoria è aiutare il paziente a regolare le funzioni neurovegetative alterate, modificando i sintomi somatoformi e le credenze patogene riguardanti il corpo.

In sostanza, la terapia sensomotoria consente di migliorare la capacità di regolare l’attivazione corporea facilitando l’accesso a stati mentali problematici. Quindi, attraverso la relazione terapeutica il paziente sperimenta un certo grado di sicurezza grazie al quale è possibile affrontare le sensazioni corporee senza giudicarle, atteggiamento tipico della mindfulness.

Questo modello si può utilizzare come integrazione delle terapie tradizionali, utilizzando tecniche Mindfulness per facilitare la risoluzione delle risposte corporee connesse al trauma prima di rielaborare le risposte emotive e la creazione di significato.

Janina Fisher: la frammentazione del sé

Secondo Janina Fisher tutto parte da un attaccamento traumatico. Quindi, la qualità dell’attaccamento infantile determina lo sviluppo dell’attaccamento adulto e se problematico, interferisce con la capacità di gestione di quanto succede quotidianamente.

I genitori che spaventano il figlio provocano uno stato di insicurezza, fragilità, impulsività o paralisi, delimitando, così, lo spazio in cui può fare esperienza di emozioni facili da gestire. Traumi ripetuti o esperienze negative prolungate possono, dunque, compromettere la capacità di autoregolarsi, favorendo una attivazione emotiva problematica e dolorosa.

Un attaccamento problematico, inoltre, interferisce con l’interiorizzazione di un senso del Sé coerente. Si genera di conseguenza, un non riconoscimento dei bisogni che portano al manifestarsi di emozioni inaccettabili che si manifestano attraverso l’alienazione dal Sé e la frammentazione.

La frammentazione determina il manifestarsi interiore di diverse parti emotive che si possono manifestare in diverse situazioni di vita. Queste parti si manifestano e si alternano nel corso della giornata determinando diversi stati emotivi altalenanti che possono portare anche alla messa in atto di gesti autolesivi. Qui, entra in gioco la psicoterapia che consente di connettere queste parti partendo dal linguaggio del corpo, caratterizzato soprattutto di sensazioni e d’impulsi.

Janina Fisher: il blending e l’unblending

Janina Fisher sostiene che quando un’emozione prende il sopravvento si verifica il blending o fusione, in cui il paziente si fonde completamente con la emozione che sta provando, ed è proprio questa identificazione a determinare la patologia. Il paziente dovrebbe, nella migliore delle ipotesi, mettere in discussione l’idea di essere preda delle emozioni e il terapeuta aiuta il paziente in questo senso portandolo a capire che le emozioni più dolorose sono parte di se stesso e per stare meglio, dovrà imparare a riconoscerle come diverse da sé.

Il terapeuta, quindi, ha un ruolo focale nel riuscire a tradurre il linguaggio del corpo in narrazione. In questo modo si incrementa la consapevolezza, utile per riconoscere il sintomo come diverso da sé. Quindi, la non attribuzione di uno stato emotivo, porta ad una diminuzione della sofferenza. Si ottiene, in questo modo, una scissione o unblending, ovvero la capacità di notare una parte di sé e disidentificarsi da essa.

Il passo successivo è comunicare con la parte identificata, cercando di empatizzare o simpatizzare con la stessa, accudendo il sé bambino da cui ci si proteggeva. In questo modo avviene una riparazione all’attaccamento e una cura delle memorie ad essa associate, da cui generano emozioni negative e dolorose.

È noto che i ricordi sono codificati da reti neuronali e non possono cambiare, ma si possono creare nuove reti o connessioni che consento di attribuire nuovi significati al ricordo dolente. Lo scopo del lavoro con le parti di noi stessi è di accettare quanto accaduto, concedendosi la possibilità di individuare, o scrivere in alcuni casi, un finale alternativo a quello già verificatosi.

Janina Fisher: Trauma-Informed Stabilization Treatment (TIST)

Il modello di trattamento specifico proposto dalla Fisher si chiama Trauma-Informed Stabilization Treatment (TIST) ed è stato sviluppato per affrontare il trattamento del comportamento pericoloso o l’autolesionismo in pazienti che hanno subito un trauma. L’obiettivo del trattamento è aumentare la sicurezza del paziente, e facilitare lo sviluppo di una adeguata regolazione emotiva e la capacità di gestire o tollerare lo stress/trauma.

L’approccio TIST su basa sul concetto che ogni parte di sé rappresenta un modo per sopravvivere in condizioni pericolose e ognuna di queste parti consente un diverso approccio all’auto-protezione di se stesso, dando significato e dignità ai sintomi.

L’utilizzo di tale modello ha ottenuto successo nell’affrontare la sfida del trattamento di individui con una complessa diagnosi di PTSD, disturbo borderline di personalità, disturbo bipolare, disturbi da dipendenza e alimentari, disturbi dissociativi. Questo modello contestualizza che i comportamenti auto-distruttivi sono correlati al trauma, e per questo i pazienti, dopo aver riconosciuto queste parti, si sentono meno patologici, aumentano la motivazione a regolare gli impulsi auto-distruttivi, superando il trauma. 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

 

Se tu vai via porti il mio cuore con te (2018) di Silvia Gianatti – Recensione del libro

Quando si affronta il tema della nascita di un figlio si prendono in considerazione tanti aspetti: il desiderio di maternità e di paternità che si fa strada, la paura e l’emozione dell’attesa, le aspettative di una nuova vita.

 

C’è, però, qualcosa di cui si parla ancora troppo poco: il lutto perinatale. Cosa succede se, contrariamente al futuro immaginato, l’attesa si spezza in modo traumatico con la perdita del bimbo? Un dolore di proporzioni inimmaginabili che spesso viene negato.

Se tu vai via porti il mio cuore con te – il dolore per una perdita inspiegabile

 Se tu vai via porti il mio cuore con te racconta la sofferenza di una mamma e di un papà che hanno perso improvvisamente il loro Tommaso e provano a convivere con l’enorme vuoto con il quale si trovano a fare i conti.

A parlare in prima persona è Valeria, una donna dalla vita intensa: un lavoro, la giornalista musicale, che ama e un marito, Marco, che pure ama e con cui divide il quotidiano e i progetti sin dai tempi dell’università.

Di fronte ad una prova così dura da affrontare che contraddice nel modo più totale ciò che la coppia si stava preparando a vivere, tutto viene stravolto. La complicità di un tempo va in frantumi, le piccole abitudini vengono spazzate via, ciò che prima aveva un senso ora non lo ha più.

In preda allo smarrimento che si è impadronito di lei, Valeria lotta per tenersi a galla. La psicologa che la sostiene nel suo difficile cammino la spinge a scrivere, cosa che lei ha sempre amato fare tanto da averlo fatto diventare il suo lavoro, a scrivere a Tommaso, per riannodare il filo di un legame ingiustamente spezzato e per provare a ritrovare nel racconto quel senso di sé che le sembra di aver perso per sempre.

Se tu vai via porti il mio cuore con te – la speranza dopo tanto dolore

Non è affatto facile, a tratti sembra impossibile, ma, un po’ alla volta, Valeria prova a rialzarsi. Il libro non fa sconti rispetto alle difficoltà del processo di elaborazione del lutto: svegliarsi ogni mattina ed essere colpiti allo stomaco, non appena si aprono gli occhi, dalla consapevolezza di quanto è accaduto. Come si fa a fare tutto quello che si faceva prima? Certe esperienze stravolgono tutto quello che pensavamo potesse essere un punto fermo.

Anche solo parlare con l’amica di sempre pare inutile, anzi, fastidioso. Cosa ne sa lei? Cosa ne sa la dottoressa? Cosa ne sanno tutti di quello che vuol dire?

Nell’altalena emotiva che la fa oscillare dal dolore alla rabbia Valeria fatica a ritrovare sé stessa e anche il rapporto con Marco, il suo compagno, che soffre come lei per questa perdita così ingiusta, viene messo a durissima prova. Non riescono quasi più neanche a parlarsi.

Eppure Se tu vai via porti il mio cuore con te è anche e soprattutto un libro di speranza. Perché, passo dopo passo, Valeria una strada riesce a ritrovarla. Niente potrà mai più essere come prima, ma un futuro è ancora possibile.

Nei ringraziamenti presenti alla fine, l’autrice ci racconta di aver preso spunto, per la stesura del romanzo, dall’esperienza di una sua cara amica; voleva dare voce a lei e alle tantissime vicende simili alla sua di cui ancora troppo poco si parla. Perché, scrive

Abbiamo tutti perso qualcuno. Non è la mia storia. Ma è il mio dolore.

La parte conclusiva del libro è affidata alla lettera di testimonianza di Claudia Ravaldi, fondatrice e presidentessa dell’associazione CiaoLapo Onlus, che si occupa di lutto perinatale offrendo supporto a tutti i livelli, della quale vengono riportati i riferimenti.

La diagnosi della psicopatologia tramite sistemi di machine learning e analisi dell’attività biologica cerebrale

Nell’ambito della diagnosi psichiatrica-psicologica, sembrerebbe sempre più realizzabile il connubio tra costrutti psicologici e l’analisi dell’attività biologica cerebrale grazie all’utilizzo di nuovi algoritmi e sistemi di machine learning.

 

Questi sistemi permettono di raggruppare in cluster diversi sintomi psicopatologici tramite informazioni provenienti dai segnali elettroencefalografici di pazienti affetti da sindromi psicologiche di differente natura.

Un commento di Brianna Abbott, di recente apparso nel nuovo editoriale di Nature Medicine, apre un’interessante riflessione sul futuro della classica diagnosi psichiatrica-psicologica di tipo categoriale, basata cioè sulla classificazione dei sintomi osservabili e riportati dai pazienti tramite l’apporto di specifiche etichette che, a suo parere, presto si avvarrà anche delle informazioni provenienti dall’analisi dell’attività biologica cerebrale (Abbott, 2019).

Diagnosi con l’attività biologica cerebrale: lo studio

Uno studio di Grisanzio, Goldstein-Piekarski, Williams e colleghi (2018), del dipartimento di Psichiatria e Scienze comportamentali dell’università di Stanford e del Brain Resource International Database di Sydney, tramite la misurazione delle onde cerebrali di circa 450 pazienti affetti da disturbo da attacco di panico e disturbo da stress post-traumatico, aveva evidenziato come alcuni pattern di EEG raccolti da un gruppo di pazienti che condividevano la medesima diagnosi psichiatrica categoriale differivano del tutto tra di loro, mostrando inaspettatamente delle somiglianze con quelli dell’altro gruppo.

Con l’intento di fornire un’interpretazione sensata e più corretta possibile dei risultati ottenuti da tale ricerca, Leanne Williams, una delle autrici, decise di sottoporre i dati raccolti, sia registrazioni cerebrali che informazioni sui sintomi, ad un’ulteriore analisi servendosi di un sistema di intelligenza artificiale, chiamata machine learning, che, tramite algoritmi, fosse in grado di far emergere da essi dei patterns individuando differenze e similarità.

Nonostante il gruppo clinico fosse caratterizzato da tre diagnosi categoriali diverse, l’algoritmo ha isolato sei diversi gruppi, ciascuno distinto da uno specifico pattern sintomatologico (es. tensione, ansia generalizzata, iperarousal, tristezza, senso di impotenza, calma) che è risultato caratterizzante il gruppo indipendentemente dalla diagnosi categoriale dissimile.

Infatti analizzando i dati, gli elettroencefalogrammi raccolti, integrati dall’algoritmo con i sintomi psicopatologici osservati e riferiti dai pazienti, hanno ulteriormente rafforzato l’opinione dei ricercatori circa il fatto che i cluster fossero costituiti da “tratti” che andavano oltre la mera diagnosi psichiatrica e che rispetto ad essa si stavano mostrando maggiormente attendibili e affidabili nella definizione delle sindromi psicopatologiche (Grisanzio, Goldstein-Piekarski, Williams et al., 2018).

Diagnosi con i sistemi di machine learning

Partendo dallo studio sopracitato, la Abbott ritiene che sistemi di machine learning abbiano di fatto definito un nuovo genere di sottotipologia di disturbo psichiatrico tenendo in considerazione sia i sintomi riscontrati e che le attività biologiche cerebrali (Abbott, 2019).

Nella formulazione di una diagnosi, psichiatri e psicologi clinici infatti si servono principalmente della raccolta della sintomatologia riportata dal paziente sia tramite questionari self-report che tramite colloqui clinici; tuttavia l’avanzamento della tecnologia e la creazione di nuovi, più accurati e affidabili sistemi di analisi dei dati stanno determinando un’evoluzione della diagnosi stessa, ora caratterizzata anche da misure biologiche, come le EEG dello studio di Williams e colleghi (2018) e immagini di fMRI.

Per comprendere lo sviluppo di 14 diversi disturbi psicopatologici, Theodore Sattarthwaite, ricercatore e psichiatra all’università della Pennsylvania, ha utilizzato algoritmi e sistemi di machine learning per l’analisi delle immagini di risonanza magnetica funzionale di 663 adolescenti, ai quali erano state diagnosticate diverse sindromi psichiatriche, trovando che alcuni modelli di connettività cerebrale erano unici per gli adolescenti con una storia pregressa di depressione e disturbo ossessivo-compulsivo, mentre tutti i restanti potevano essere raggruppati in 4 cluster sulla base delle loro comuni caratteristiche che non correlavano con la diagnosi (es. emozioni forti, allucinazioni, paure, comportamenti esternalizzanti) (Xia, Sattarthwaite, Ma et al., 2018) similmente allo studi precedentemente descritto di Williams e colleghi (2018).

Diagnosi su marker biologici: le prospettive

In conclusione, questa nuova tipologia di diagnosi, più avanzata e integrata con informazioni tipo biologico, permetterà, a parere della Abbott, di creare dei profili più puntuali ed esatti che a loro volta contribuiranno alla selezione da parte del professionista di un trattamento sia farmacologico che psicologico maggiormente preciso e personalizzato sui bisogni e le esigenze del paziente (Abbott, 2019).

Una nuova diagnosi insomma che sarà basata su uno specifico set di sintomi che non necessariamente rispetterà i confini della diagnosi categoriale ma che sicuramente rispetterà quelli biologici.

Ipnosi oggi, fra falsi miti e realtà. Intervista a Camillo Loriedo

Nel tempo, dietro il termine ipnosi si sono mescolate concezioni fuorvianti e mistificazioni a risultati sorprendenti. La stessa ipnoterapia ha subito variazioni sensibili dalla forma più classica a quella più moderna di stampo ericksoniano.

 

A fronte di queste premesse abbiamo avuto il grande piacere di intervistare uno dei maggiori esperti di ipnosi a livello nazionale e internazionale, il dott. Camillo Loriedo.

Ipnosi: una tecnica versatile

Loriedo è Direttore Scientifico e Didattico dell’Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale di Roma e della Scuola Italiana di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana. Past President della International Society of Hypnosis, Past President della European Society of Hypnosis e dal 2000, Presidente della Società Italiana Milton Erickson (SIME).

Nel corso della sua carriera e attività clinica Camillo Loriedo ha avuto l’onore di ricevere il Milton H. Erickson Lifetime Achievement Award e la Benjamin Franklin Gold Medal, i due riconoscimenti più ambiti e prestigiosi in ambito internazionale per quanto riguarda la pratica ipnotica.

Nel corso dell’intervista Loriedo ci descrive come l’ipnosi ericksoniana, definita anche ipnosi naturalistica, ponga l’accento sull’accesso e l’utilizzo delle risorse del paziente, il quale abbandona il ruolo “passivo” di mero ricevente della tecnica induttiva e ipnotica a favore di un ruolo “attivo” e di co-costruzione della stessa.

Riconoscendo al soggetto la propria abilità specifica di andare in trance e favorendo l’incontro con l’ipnotista tramite il rapport, un terreno di relazione e d’incontro specifico dell’ ipnosi, quest’ultima si svolge in totale sicurezza nelle mani del professionista, il quale adatta l’intervento sul paziente (tailoring) rispettandone l’individualità.

Tali caratteristiche di versatilità e capacità di focalizzazione sono state e continuano ad essere spunto per diversi approcci psicoterapeutici che hanno annesso elementi appartenenti all’ipnosi nei loro modelli d’intervento.

Ipnosi: indice dell’intervista a Camillo Loriedo

0:15 – Le origini dell’ipnosi si perdono nella notte dei tempi e la sua storia è stata oggetto di trionfi e critiche. Cosa si intende per ipnosi oggi e come ci possiamo immaginare l’ipnoterapeuta nel 2018?

3:46 – Miti, leggende metropolitane e false credenze contribuiscono a creare molta confusione in merito agli effetti che l’ipnosi può avere. Possiamo dire che l’ipnosi è sicura? Quali sono le false credenze che possono allontanare le persone da questo potente strumento terapeutico?

6:35 – Oggi la ricerca clinica pone particolare attenzione agli studi che rispettano criteri di validità ed efficacia, mentre nella pratica clinica vi è un crescente interesse, anche per logiche di risparmio, verso interventi brevi e sempre più focali. In quali ambiti clinici l’ ipnosi è riuscita nel tempo a distinguersi in termini di efficacia e brevità?

9:39 – L’ipnosi si è da sempre dimostrata un approccio terapeutico fecondo nell’ambito della salute mentale. Tutt’oggi molti approcci integrati guardano con rinnovato interesse alla pratica ipnotica. Proiettandoci nel futuro, quale prospettive vede per l’ ipnosi

GUARDA L’INTERVISTA IN VERSIONE INTEGRALE:

La psicoterapia cognitiva non è figlia del capitalismo

Entra nella mia stanza di psicoterapeuta un avvocato di quarant’anni, disperato. Intelligente, capace, ma non riesce più a lavorare. Soffre di attacchi di panico: si è fermato sulla tangenziale e da allora non guida, ha paura di svenire e perdere il controllo.

Articolo pubblicato sulla rubrica Lettura de Il Corriere della Sera

 

Per andare in ufficio prende il taxi, ai colleghi ha mentito: “Sono stanco di guidare”, è esausto. Un terapeuta cognitivista non fatica a curare il panico. Dopo due mesi riprende la macchina. Ma aveva un problema più complesso, quello che il manuale diagnostico, il DSM 5, chiama Disturbo Evitante di Personalità: è schiacciato da timore del giudizio, vergogna, l’idea di parlare in pubblico lo fa sudare. In terapia, nel corso di un anno, risolveremo anche quel problema. Torna a fare il suo lavoro, sereno, e la sua giornata si colora della dimenticata passione per fantascienza e fantasy. Discutiamo sul rapporto tra Darth Vader e Luke Skywalker, sul passato di Voldemort. Giochiamo. Ha riconquistato libertà dalla sofferenza e capacità di scelta. Sono contento.

Ma se ascoltassi Umberto Galimberti mi vedrei con altri occhi. La sua posizione nei confronti della psicoterapia, cognitiva in particolare, è spietata. Scopro di essere un disciplinato figlio del capitalismo, asservito alla techne, la tecnica. Finalmente mi rendo conto che non curo i pazienti, ma li normalizzo, ne offusco il vero io, li rendo automi, incapaci di voltarsi a Delfi, apatici ingranaggi della società produttiva. Tanti Charlot alla catena di montaggio in Tempi Moderni, mucche al pascolo.

Galimberti è parco di punti interrogativi quando parla di psicopatologia e psicoterapia. Un esempio: viviamo in una società senza morale e la sofferenza depressiva non è più legata alla colpa. Punto. Telefono d’urgenza al mio collega Francesco Mancini che credeva di essere un esperto riconosciuto internazionalmente di Disturbo Ossessivo Compulsivo (diagnosticato secondo il DSM 5 che naturalmente Galimberti disprezza): “Francesco, perdonami, non hai capito niente”. Gli spiego amorevolmente che i suoi studi di psicopatologia sperimentale non hanno senso. Ha dimostrato come alla radice di sintomi quali: lavarsi ripetutamente le mani, controllare incessantemente di aver chiuso il gas, rimuginare all’infinito sull’avere causato un danno ai figli ci sia il senso di colpa. Di tipo deontologico: la colpa morale. Ho trasgredito alla norma e questo mi rende sporco, immondo, mi deprimo. Mi lavo le mani, controllo, mi pulisco, alla lettera, corpo e coscienza. Mancini fa risalire l’ipotesi che le ossessioni siano generate dalla colpa all’arcivescovo Taylor, nel 1650. I suoi esperimenti mostrerebbero che l’idea tiene. Lo psicoanalista Francesco Gazzillo dà la stessa rilevanza alla colpa.

Come faccio a convincerli che hanno dedicato la loro professione a un’illusione? Che i nostri pazienti non provano più colpa? Che oggi la sofferenza nasce dal senso di inadeguatezza: “Ce la faccio, non ce la faccio?”. Vorrei avere certezze, purtroppo la vocazione empirica mi porta a seminare punti interrogativi un po’ ovunque. Posso ipotizzare che le persone siano depresse per colpa, per vergogna all’idea di fallire, per timore di restare sole e abbandonate. Poi studio gli esperimenti, ascolto i pazienti, scopro che tutti e tre i percorsi sono possibili e devo adattare la mia azione al caso specifico. E a quel punto la depressione passa. Ma cosa dico ai miei colleghi cognitivisti che pensano che curare la psicopatologia significhi ridare respiro, quiete, tempo di vita ai pazienti? Sarò in grado di fargli capire che stanno partorendo cyborg pre-programmati?

Un momento. Mi viene il sospetto che Galimberti non abbia molto chiaro cosa siano le terapie cognitive. Per dire, nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia sostiene che si basino sul modello ABC dove A sarebbe l’ambiente, B (behaviour) il comportamento, C le conseguenze. Descrivesse così l’ABC cognitivista lo studente di una scuola di psicoterapia cognitiva sarebbe bocciato. In termini cognitivi A è l’antecedente, B (belief) l’interpretazione dell’evento, C le conseguenze in termini di emozioni e comportamenti: un collega mi critica, penso che abbia ragione e non valgo niente, mi vergogno e mi isolo. Ma tant’è, perché essere precisi nel descrivere la tecnica di noi vassalli del conformismo?

Il filosofo brillante solleva dubbi – magari non ne ha, ma li solleva – e nella mia mente se ne affastellano molti. Che lavoro fanno i miei colleghi che curano il disturbo post-traumatico da stress? Pazienti che sono stati vittime di violenza, abuso, hanno assistito a scene disumane che riaffiorano nella veglia, nei sogni. Non si calmano mai. Ripenso a chi lavora nei centri di accoglienza: lì storie di tortura e stupro sono la regola. Il mio collega Antonio Onofri mi racconta come da cognitivista utilizzi tecniche corporee e immaginative per ridurre il senso di allerta, far rivivere i germogli del senso di sicurezza. L’ingenuità non gli appartiene: non vuole convincerli che il mondo è un posto sicuro. Non lo è. Vuole ricreare un senso di sicurezza soggettivo. E nel farlo adotta tecniche di efficacia empiricamente supportata. Un modo di ragionare che molti psicoanalisti condividono.

Agiamo, noi psicoterapeuti, guidati dalla responsabilità verso un referente terzo: dobbiamo e vogliamo rendere conto della nostra prassi. Possiamo promettere salute? In che misura e a quali condizioni? Siamo testimoni di una scienza imperfetta, incapaci di rispondere a molte domande e di prevedere tutte le conseguenze delle nostre pratiche. Ma, pur in uno stato di costante imprecisione, ci proviamo. Il rischio di fallire ogni giorno è elettricità tonificante per chi fa scienza. Giochiamo oneste partite a carte che una mano sfortunata ci può far perdere, insistiamo perché l’esercizio costante affina il talento.

Gli attacchi del filosofo alla psicoterapia scientifica sono disinteressati? Forse no. Quando propone come alternativa il counseling filosofico – mi affretto a dire: non è gratuito – che ci siano sotto motivi economici? Logica vuole che sì, ma è una pratica senza supporto empirico. Non ho niente in contrario al rivolgersi a un filosofo per parlare di cose della vita, per carità. Come non mi dà pena che ci si indirizzi a preti, astrologi, guru. Ognuno cerca il senso dove vuole. Io nella psicoterapia fondata empiricamente e questo offro ai pazienti.

Poi a fine giornata, a luci spente penso che: i filosofi curano l’anima meglio degli psicoterapeuti; Gandalf è il padre di Harry Potter; dietro la maschera di Darth Vader c’è Batman. Non temo smentite.

L’EMDR per il suicidio – Un racconto di Fantapsicologia

Poiché in tempo di post verità e fake news (il nuovo nome delle antiche bufale) tutto quello che circola sul web viene spesso preso per oro colato, tengo a precisare che questo articoletto sull’ EMDR non è, e spero mai lo diventi, un articolo scientifico ma piuttosto un raccontino di un nuovo filone che potremmo chiamare “FANTAPSICOLOGIA”, nato dal bisogno contraddittorio di liberare la mente da dolci ricordi del passato che ci tengono legati ad esso e contemporaneamente dal timore di perderli, perdendo con essi un pezzetto di noi stessi. Il suicidio dunque, faccenda serissima, per carità non c’entra.

 

Freud nei primi periodi in cui andava formulando la sua teorizzazione psicoanalitica affermava con decisione che molte delle sofferenze dei suoi pazienti fossero dovute a traumi sperimentati da bambini (si ricordi il caso di Anna O. tale Berta Pappenheim). Esperienze in cui gli innocenti pargoli erano state vittime degli adulti, spesso familiari o conoscenti stretti e fidatissimi. In particolare molti di questi traumi consistevano in drammatica trascuratezza che metteva in pericolo la vita stessa e in abusi sessuali più o meno espliciti.

Sebbene la sua fissazione per il sesso fosse ormai cosa ben nota e oggetto di ironia e pettegolezzo ma pur sempre mal tollerata negli ambienti accademici, questo era davvero troppo per la società dell’epoca e forse anche per quella attuale. Passi che i bimbi non fossero dei teneri angioletti e nascondessero sotto quella soffice e indifesa apparenza l’ingordigia sessuale di un maniaco di criminal mind mista alla amoralità di un antisociale protagonista di tragedia greca, ma che persino gli adulti potessero mischiare alle carezze protettive erotiche stimolazioni era davvero troppo!!

Per salvare la teoria generale ed il futuro della psicoanalisi dall’ostracismo scientifico e dei benpensanti bisognava sacrificare la realtà del trauma che divenne sempre più una fantasia, comunque psicologicamente devastante, ma penalmente irrilevante. Gli orchi, tutti furono rassicurati, non popolavano davvero la realtà ma l’immaginazione dei bambini che definì perversi polimorfi, aggiungendo al danno la beffa. Siccome si trova solo ciò che si cerca, se si smette di cercare non si trova più nulla e gli adulti recuperarono la loro dignità, protetta da una insuperabile cintura di omertà cui collaboravano anche le vittime additate, altrimenti, come fantasiose perverse calunniatrici. Il trauma sessuale e con esso tutti i traumi in genere persero progressivamente importanza come fattore patogeno, a tutto vantaggio degli aspetti intrapsichici.

Passarono decenni, poi come per tutte le grandi scoperte che si caratterizzano per la casualità della loro emergenza e l’evidenza della loro efficacia che non necessita di giustificazione perché si impone, si sviluppò, per un’intuizione nata da un’osservazione su di sé di Nataline Shapiro nel 1987 l’ EMDR. Una banale tecnica ai confini del magico, che grazie ad un ritmo oscillatorio rimette in moto nel circolo dei ricordi della propria vita quell’ansa del fiume, dove era rimasto sequestrato il trauma che si era sottratto al fluire e, diventata palude avvelenava tutta l’aria con i suoi miasmi, la diga che la separava dalle onde della corrente veniva abbattuta e tutto riprende a scorrere.

Per anni alla fine del ‘900 ne fu fatto un uso buono e sempre più massiccio, talvolta fideistico. Dove c’era un dolore si trattava di risalire alla spina primigenia che si era conficcata nella carne fisica e psichica e con poche manovre cui presto furono addestrate anche delle macchine per risparmiare sui costi e rendere accessibile a tutti e dunque più democratica la salute, spremere l’ascesso che la avvolgeva in una ciste purulenta e spurgare tutta la porcheria nel torrente tumultuoso dell’esistenza che ripulisce ogni cosa.

Poi successe esattamente ciò che era già avvenuto molti secoli prima per la magia. All’inizio infatti la magia era un bianco sapere segreto delle fate che venivano chiamate a proteggere i bimbi, a sanare le ferite d’amore, a rendere soave la vita e sereno il morire, guidando gli incerti passi degli umani smarriti tra i pericoli e le trappole che non dominavano con le loro forze. Poi un giorno una fata invidiosa, o forse a sua volta traumatizzata come già in precedenza Lucifero, ne volse l’enorme potere al male e fondò la magia nera che seminava dolori, sofferenze inenarrabili, amori strazianti e morte.

Lo stesso avvenne, progressivamente e quasi per caso con l’ EMDR. Un medico tedesco animato anch’egli di buone intenzioni, si accorse che spesso i suoi pazienti soffrivano di una forma maligna e talvolta mortale di nostalgia. Costoro non erano tormentati da ricordi traumatici ma, al contrario, da dolci esperienze al cui confronto l’esistenza attuale pareva insostenibile. Esplicitamente gli chiedevano di rimuovere tali ricordi su cui non funzionavano neppure sporadici e fallimentari tentativi di psicochirurgia tentati negli Stati uniti e comunque proibiti nel resto del mondo civilizzato. Il dibattito sulla legittimità di tali “pratiche oblifere”, come vennero chiamate, oltrepassò i comitati di bioetica e divenne oggetto di un acceso dibattito pubblico. I politici proposero anche un utilizzo sociale di tale tecnica nella speranza che se tutte le cose buone del passato fossero state dimenticate il presente sarebbe apparso come il migliore dei mondi possibile aumentando il loro consenso e azzerando i rimpianti. Un team di astrofisici e ottici si mise al lavoro per un grandioso progetto con l’obiettivo di far sì che nelle notti di plenilunio l’immagine della luna piena oscillasse nel cielo con una frequenza di 7 hertz. L’indicatore del successo della gigantesca operazione psico-astro-politica sarebbe stato la totale cessazione nelle conversazioni nei bar della fatidica frase critico/nostalgica “si stava meglio quando si stava peggio”.

Quando ormai il progetto sembrava ben avviato con ingenti finanziamenti di tutte le dittature più o meno esplicite che si erano andate affermando negli ultimi decenni, fu la voce del Santo Padre, seguito rapidamente da tutti i leader religiosi del mondo, a fermarlo preoccupato della cancellazione di tutta la storia della salvezza con la conseguente necessità di rimandarne in scena una replica ad ogni generazione con le evidenti difficoltà di casting per trovare ogni 20 anni un povero Cristo.

Dopo questo autorevole stop etico e il ritiro conseguente degli stanziamenti il trattamento oblifero con EMDR ha perso l’importanza che aveva e deluso le speranze che aveva generato nei nostalgici patologici che addirittura aggiunsero alle altre la nostalgia per questa speranza perduta.

Solo in Svizzera è ancora praticato essendo entrato a far parte del protocollo di preparazione al suicidio assistito per purificare i candidati dagli ultimi legami che li trattengono in questa vita. Il razionale che sostiene il protocollo è che, quantunque lucidamente orientati al proprio annientamento, molte persone, oltrepassata l’ultima curva e con dinanzi soltanto il radioso rettilineo finale tutto in discesa, iniziano talvolta ad avere tentennamenti che prolungano i tempi e fanno lievitare i costi per il SSN, ricordando quisquilie come una serata in montagna con gli amici a cantare alle stelle sotto le cime di roccia che nascondono la luna, lo struggimento di un verso di De Andrè, il brillare incredulo degli occhi di lei, il sapore delle sue labbra, frasi insensate sussurrate all’orecchio, l’abbandono fiducioso tra le proprie braccia del figlio, il richiamo assillante del nipotino che vuol mostrare il goal appena segnato e poi, last e anche least, i successi, i riconoscimenti, la fama minuscola che appariva eterna.

La tecnica prevede che prima di mettere nel mirino della cancellazione ognuno di questi ricordi (per ciascuno dei quali va firmato il consenso informato con una esatta descrizione del ricordo cui si intende rinunciare perché indietro non si torna e già moltissime sono state le richieste di risarcimento per sottrazione di passato) l’installazione del “posto orribilis” (P.O.) un luogo o una situazione in cui il soggetto si è sentito assolutamente e irreversibilmente minacciato e nello starci si diceva “mai più, meglio morto”. Il P.O. va richiamato alla mente ogni volta si avverta un cedimento nella propria determinazione suicida. Il posto orribilis può essere sintetizzato anche in una sola parola per poterlo richiamare rapidamente alla mente nella vita di tutti i giorni quando non c’è tempo di estraniarsi dalle circostanze per rivivere le sensazioni corporee, le emozioni e le convinzioni che avevano fatto scegliere con diamantina certezza la decisione di non sperimentare mai più tale umiliazione, perdita o tribolazione soggettivamente intollerabile. Poter fare un salto nel luogo della massima afflizione deve venire in soccorso al candidato suicida quando nonostante la ferrea vigilanza qualche sprazzo di vitalità desiderante riesce a penetrare nella clinica per il suicidio assistito.

Dopo questa prima fase, i ricordi da cancellare vengono lavorati uno ad uno. Per ciascuno di essi l’immagine positiva che vi è associata va infangata con elementi putrefattivi deducibili da come sono poi andate veramente le cose. Qualora non si riesca a trasformare con il raziocinio le convinzioni positive su di sé e sul mondo, cui il ricordo è associato, in altrettante opposte convinzioni negative, si può mettere in atto il cosiddetto piano “B” consistente nel non negare gli antichi vissuti positivi ma nel ridefinirli, assumendo un punto di vista “meta”, come un transitorio e crudele inganno della matrigna Natura di cui Giacomo Leopardi ha svelato lucidamente tutte le bieche strategie, ma che continua a imbrogliarci facendoci credere che questa volta, per noi, sarà diverso.

Il lavoro su ciascun dolce ricordo non può dirsi concluso fintantochè il SUD (unità di disagio soggettivo) non raggiunge il massimo livello (10) nella scala decimale su cui viene valutato e lo si sperimenta lancinante, profondo non in una sola parte limitata ma in tutto il corpo e tale persiste fino alla seduta successiva.

Paralisi cerebrale negli adulti: esisterebbe un rischio maggiore di sviluppare ansia e depressione

Secondo un recente studio, pubblicato su Jama Neurology, gli adulti con paralisi cerebrale hanno un rischio maggiore di sviluppare depressione e ansia.

 

Un gruppo di ricercatori condotto dal Dott. Kimberley Smith dell’Università di Surrey e da Jennifer Ryan del Royal College of Surgeons in Irlanda, finanziato dalla Brunel University London, ha indagato il tasso di disturbi mentali nelle persone con paralisi cerebrale comparandoli con soggetti aventi la stessa età, sesso e condizione socioeconomica, ma che non presentavano un danno cerebrale. Le difficoltà intellettive, che colpiscono la maggior parte dei soggetti con paralisi cerebrale, sono state indagate per determinare se svolgessero un ruolo nello sviluppo di disturbi mentali come depressione e di ansia.

Il fenomeno e la sua incidenza

Paralisi cerebrale è il termine generico utilizzato per un gruppo eterogeneo di patologie che si verificano in un cervello fetale o infantile in via di sviluppo. Le persone, affette da questa condizione presentano sintomi quali problemi di movimento, di coordinazione, di postura e di equilibrio. Questi disturbi motori presentano una comorbilità con altri problemi, come disturbo comportamentale, difficoltà cognitive, difficoltà di comunicazione, deficit sensoriali, epilessia e disabilità intellettiva (ID). La paralisi cerebrale è una condizione che influenza il controllo e il movimento dei muscoli, ed è solitamente causata da una lesione al cervello prima, durante o dopo la nascita.

Si stima che tale patologia incida da 2 a 3 su 1000 nati e circa 1 su 400 persone nel Regno Unito è affetta da una paralisi cerebrale. Entro il 2031, si ritiene che ci sarà un triplo aumento del numero di persone con paralisi cerebrale di età superiore ai 65 anni.

Uno studio sulla salute mentale degli adulti con paralisi cerebrale

Si sa relativamente poco sulla salute mentale degli adulti affetti da paralisi cerebrale poiché si pensa che questo danno riguardi solo i bambini nonostante in realtà questa condizione perduri anche in età adulta.

Alcuni ricercatori hanno esaminato fino a 28 anni di dati sulle cure primarie nel Regno Unito di 1700 adulti di età pari o superiore a 18 anni con paralisi cerebrale e 5115 di soggetti esenti da questa condizione. Dai risultati emerge che il rischio di sviluppare depressione e ansia nei soggetti con paralisi era più alto rispetto al campione di controllo, soggetti che non presentavano paralisi, per la depressione del 28% e per quanto riguarda l’ ansia del 40%.

Per i soggetti che presentavano una paralisi cerebrale ma non riportavano difficoltà intellettuali, la possibilità di sviluppare depressione e ansia aumentava ulteriormente.

Confrontando gli adulti con paralisi cerebrale che non riportavano difficoltà intellettuali con il campione di controllo, il rischio di sviluppare depressione e ansia era più alto rispettivamente del 44% e del 55%.

Conclusioni

L’autore principale dello studio, il Dr. Kimberley Smith, docente di Health Psychology presso l’Università di Surrey, sostiene che ancora tanto deve essere fatto per capire perché i soggetti con paralisi cerebrale hanno un rischio maggiore di sviluppare depressione e ansia. Da questi risultati emerge tuttavia che vi è la necessità di considerare la paralisi come una condizione permanente, e di identificare e affrontare i problemi legati alla salute mentale tra le persone con paralisi cerebrale e i problemi di natura fisica.

Nonostante sia storicamente considerata una condizione pediatrica, la maggior parte delle persone con paralisi cerebrale vive bene fino all’età adulta, ma molti adulti con paralisi cerebrale sperimentano nel corso degli anni un peggioramento delle menomazioni, incluso un declino della mobilità.

Come prospettiva futura ci si augura che i risultati dello studio possano contribuire ad accelerare una risposta negli adulti con paralisi cerebrale che riportano una situazione inadeguata di servizi sanitari coordinati in tutto il mondo.

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