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Cognitivismo Clinico: The legacy of Giovanni Liotti – Editoriale

Giovanni Liotti era nato a Tripoli nel marzo del 1945; le vicende della sua famiglia d’origine hanno incontrato la storia del secolo scorso in circostanze peculiari, poiché proprio in quegli anni (tra il 1943 e il 1947) la Libia avrebbe cessato di essere italiana.

Sandra De Biase, Marianna Liotti, Enrico Costantini, Maurizio Brasini

 

Gianni (come lo chiamavano colleghi e amici) si definiva un pied noir – cioè qualcuno che appartiene a più luoghi ed è al tempo stesso un perenne esule in patria – facendo riferimento a questo suo tratto identitario che lo aveva reso un infaticabile e inquieto “costruttore di ponti” fatti di conoscenze condivise e unificanti. Fondatore insieme a Vittorio Guidano nel 1973 della Società Italiana di Terapia Comportamentale (SITC, poi divenuta SITCC con l’apertura alla prospettiva cognitivista nel 1981), lungo tutto l’arco della propria attività professionale ha sempre mantenuto un vivace e a tratti battagliero dialogo non soltanto con le diverse anime del cognitivismo italiano, ma con ogni orientamento scientifico ed epistemologico in cui ravvisasse un potenziale contributo alla comprensione del funzionamento dell’essere umano.

Un’opera conoscitiva che per Gianni non poteva esprimersi se non nella relazione, attraverso la ricerca di quei momenti di condivisione del significato dell’esperienza che chiamava “intersoggettività”, ponendola al vertice dell’espressione della nostra comune umanità. La sua poderosa produzione scientifica, più tutto il tempo intangibile dedicato a incontrare allievi e colleghi in giro per l’Italia e all’estero (partecipando ai convegni, insegnando e offrendo supervisione), e non da ultimo la sua cinquantennale attività clinica con i pazienti, sono tutte espressioni di un’unica opera fondata sulla curiosità intellettuale, sull’attenzione al prossimo, sulla generosità, sull’autenticità, sul rigore e sull’onestà, che costituisce un esempio e un lascito per chiunque intenda dedicarsi alla nobilitazione della condizione umana attraverso l’incontro e il dialogo.

Nel suo ultimo anno di vita Gianni era sopravvissuto a un ictus che inizialmente pareva dovesse segnare immediatamente il suo destino, e aveva invece ripreso a speculare sulla coscienza attraverso gli insegnamenti della Divina commedia; sembrava lui stesso ritornato da un viaggio dantesco e nei suoi discorsi riverberavano, insieme ai temi propri del Gianni scienziato, anche le sue ben note passioni filosofiche e letterarie, e una sensibilità religiosa e contemplativa che solo le persone a lui più care avevano conosciuto fino a quel momento, in qualcosa che rammentava da vicino il concetto di “sintesi personale” al quale era tanto affezionato. Attorniato dai suoi familiari e dagli amici più cari, e quasi volando oltre la sua stessa condizione, accoglieva i suoi ospiti senza mai stancarsi di onorare la parola “amico”, e con generosità offriva loro intuizioni e riflessioni personali insieme ad aneddoti e storie, pagine di narrativa, scene di film, poesie. Uno di questi racconti era tratto da un vecchio libro che descriveva le vicende di un medico italiano in Libia nella prima metà del Novecento. C’era, in particolare, un passaggio nel quale Gianni non nascondeva la propria commozione, riguardante l’amicizia tra il vescovo (italiano e di origini modeste, coltissimo e prima che vescovo monaco francescano) e il pascià (arabo e di stirpe nobile, illetterato e amante delle donne) di Tripoli:

Non avevo mai incontrato due uomini che fossero, in superficie, più direttamente opposti nel temperamento, ma raramente mi ero imbattuto in un’amicizia tanto profonda e intima. […] Un giorno, mentre stavo aiutando il vescovo a sistemare i propri libri sugli scaffali, gli annunciai che avevo finalmente capito perché lui e il pascià erano amici così stretti; dissi che la loro amicizia era un’amicizia tra francescani. Lui continuò a sfogliare le pagine di un volume che teneva in mano come se stesse cercando lì la risposta da darmi. Dopo alcuni momenti di silenzio, chiuse il libro e disse in tono brusco, quasi seccato: “Lei si esprime male non solo in arabo, ma anche in italiano. Dovrebbe sapere che un musulmano non può essere un frate cappuccino, e che io stesso sono troppo poco degno della veste che porto per potermi definire francescano. Ma supponiamo pure di lasciare San Francesco fuori dalla questione: è troppo al di sopra delle nostre miserabili preoccupazioni. Il pascià è un uomo di gran cuore e di umiltà esemplare, che pratica le tre virtù canoniche in maniera mirabile, pur seguendo la legge di un capotribù che non fu mai un profeta. Se, d’altra parte, io ho avuto il privilegio di conoscere la Verità, è per grazia di Dio e non per mia virtù. Ho imparato molto da quest’uomo; è per questo che siamo amici. (Denti di Pirajno A (1955). A cure for Serpents: a Doctor in Africa, pp. 154-155. Andre Deutsch)

La storia dell’amicizia tra due uomini che, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e culturali, si riconoscono simili e amici suggerisce a tutta prima un dato autobiografico, l’incontro con John Bowlby, il quale, nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, nel 1990 dichiarava:

[Liotti] è uno dei pochi terapeuti cognitivi che prende in considerazione lo sviluppo. Ma una volta che un terapeuta cognitivo pensa evolutivamente e in termini di processi inconsci e coscienti, egli è in sintonia con uno psicoanalista come me (…). La terapia cognitiva che rappresenta Liotti e la terapia psicoanalitica che rappresento io convergono. Come chiamarla, non so (Tondo L (2011). John Bowlby Interviewed by Leonardo Tondo. Clinical Neuropsychiatry 8, 159-171.)

Tuttavia, a parere di chi scrive, non è soltanto o principalmente questo dato autobiografico a rendere conto del perché Gianni abbia inteso condividere questa sorta di parabola del vescovo e del pascià con i suoi amici nel suo ultimo anno di vita. Il termine inglese legacy è difficilmente traducibile, perché sta a indicare un’eredità o un lascito, ma soprattutto un dono sul quale si fonda un legame da onorare (legatus era chi veniva inviato in una missione governativa per delega dal senato romano). Il presente numero di Cognitivismo Clinico è appunto dedicato all’eredità scientifica e culturale di Giovanni Liotti, ed è stato concepito in questa accezione di legacy.

Per questo, il gruppo romano dei suoi più stretti e affezionati collaboratori e allievi ha lasciato spazio ad altri amici e colleghi, alcuni più prossimi, altri più distanti nello spazio o nel tempo o come prospettiva teorica, ma tutti accomunati da un dialogo vitale e mai sopito con Gianni e con il suo pensiero, nonché da un profondo senso di amicizia che rispecchia lo spirito del racconto del vescovo e del pascià. Nel ringraziare ancora una volta e sentitamente tutti gli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero, ci rivolgiamo ai lettori nella speranza che – in particolare i più giovani – possano, a partire magari da questi spunti, approfondire la conoscenza dell’opera di Giovanni Liotti e negli anni a venire ravvivare il suo lascito culturale continuando a condividerne le intenzioni e lo spirito.

 

L’amica geniale (2012) di Elena Ferrante – Recensione dei primi due libri della saga

L’ amica geniale è la storia di due inseparabili amiche cresciute in un quartiere della Napoli degli anni 50, tra la povertà, la durissima scuola e lo strozzinaggio dei vicini. Il romanzo è narrato dalla prospettiva di Elena che, ormai prossima all’anzianità, ripercorre le tappe dell’amicizia con Lila, scomparsa inspiegabilmente.

 

Fin da piccole, le due si contraddistinguevano come la “buona” e la “cattiva”: Elena studiosa, posata e delicata, Lila ribelle, sfidante, ma anche curiosa e brillante, spicca tra le preferenze della maestra che si commuove pensando a lei, la figlia dello scarparo, intenta ad apprendere nozioni di grammatica in totale solitudine, raccattando i giornali usati con il quale il padre proteggeva le scarpe durante il lavoro sfiancante.

L’ amica geniale: la rivalità tra due amiche

La rivalità tra amiche inizia già prima della costruzione del legame, Elena sceglie Lila, si sente eternamente seconda, ma trova in quell’amica impavida e spavalda la strada per sfuggire all’atmosfera del quartiere dove regna l’eterna lotta per la sopravvivenza, la sopraffazione e la supremazia, per non diventare come la madre, ignorante, claudicante e severa, che trascorre l’esistenza lamentandosi della costosa vita, invidiosa del successo che la figlia si costruisce silenziosamente senza avanzare pretese. Lila esercita una potente influenza su Elena che osa prevaricare i precetti famigliari, per poi rientrare nella veste di sé , la “buona”, autopunendosi con lo studio intenso e l’incuria personale. I risultati scolastici brillanti mostrano un desiderio di riscatto e differenziazione non solo dal rione, ma anche dall’amica stessa che, per volontà del padre, è condannata a sprecare le sue doti nella bottega, nella quale segretamente progetta, con l’approvazione del fratello, modelli innovativi di scarpe.

Pur rinunciando al proseguimento dello studio, Lila diventa l’assidua frequentatrice della biblioteca, approfondisce i classici della letteratura, la grammatica greca e latina, senza rivolgersi agli insegnanti, provvedendo anche ad aiutare l’amica nelle difficoltà che le prime prestazioni scolastiche richiamano. Elena quindi riceve da un lato il conforto e l’esortazione della compagna di giochi, che la stimola non solo per il bene ma anche per intravedere in una figura significativa ciò che da sola non può concretizzare, tuttavia prova l’insostenibile percezione di essere superata dalla figlia dello scarparo che saprà comunque rialzarsi in piedi, nonostante gli schiaffi del destino.

L’ amica geniale: sofferenza e rabbia

L’intero racconto de L’ amica geniale pone in risalto il confronto tra le due vite che si intrecciano e si compensano: Lila ammalia, ma tira a sé un ricettacolo di incomprensioni e pericoli, è consapevole dell’effetto che esercita e finisce per scottarsi, per poi ricominciare. Elena, dall’altra parte, si muove in sordina, viene investita dal rione di una responsabilità materna e mitigante nei confronti dell’amica, una rappresentazione che con il tempo comincia a starle stretta. Tutti sanno che Lenù è l’unica in grado di appianare i dissensi, di sacrificare i suoi bisogni per risolvere le questioni di Lila: e infatti senza esitazioni, abbandona Ischia per correre dall’amica braccata dal bellissimo Marcello Solara e dai genitori bramosi di un futuro matrimonio con lui, il più ricco e potente del quartiere, la copre nelle tresche con Stefano e successivamente con Nino.

Pur supportando energicamente il proseguimento degli studi di Lenù, Lila accoglie con ambiguità la crescente e visibile differenza culturale che le divide inesorabilmente, così non perde occasione per umiliare l’illustre ambiente scolastico che sancisce l’inevitabile confronto impari. La “furia” di Lila si estende anche all’amore segreto di Elena, Nino, con cui la giovane, all’insaputa della famiglia e del marito, intrattiene un’appassionata relazione extraconiugale: anche in questa occasione straziante, Lenuccia esprime in solitudine la delusione e la rabbia e continua a compiacere la compagna di giochi

Da un lato dicevo basta, dall’altra mi deprimevo all’idea di non essere parte della sua vita, del suo modo di inventarsela – Ferrante, Storia di un nuovo cognome, p. 274.

L’ amica geniale: le strategie per cavarsela al meglio

L’aggressività di Lenù traspare attraverso evitamenti, ritiri, piccoli sabotaggi, ma anche giustificazioni che sembrano protettive e in realtà nascondono il desiderio di distruggere il rapporto amoroso sul nascere. Quando la relazione clandestina si intensifica e si palesa agli occhi di tutti, creando scompiglio e dolore, la narratrice ritorna a concentrarsi sulle aspirazioni personali, uscendo simbolicamente e di fatto dal rione. Lila, al contrario, sopporta da sola l’umiliazione degli abitanti, del marito, della famiglia che da un lato la protegge, dall’altro le addossa le colpe delle disgrazie repentine, fantastica un’esistenza sentimentale duratura e idilliaca con l’amante estivo, ma non comprende la caducità della passione travolgente in giovanissima età, le differenze individuali che si scandiscono al trascorrere dei giorni e allontanano.

Lila scambia l’intensità momentanea per l’amore eterno, pone confini illimitati alla propria sicurezza che la conduce in un baratro di povertà e fatica, ripetendo la medesima sorte: da bambina non ha proseguito gli studi per la povertà, da giovane non sa sfruttare la ricchezza per recuperare il tempo perduto e riscattarsi. E invece Lenù non sa di coltivare un genio dentro di sé, viene scoperta dall’esterno e riesce a coronare i suoi sogni. Di tanto in tanto nutre la tentazione di scivolare nel quartiere d’origine, di abbandonare il successo e appropriarsi del destino ambito dalla madre denigrante, tuttavia riemerge splendente, in silenzio, zittisce la famiglia e gli amici, affronta la prepotenza e viene apprezzata. Qualche volta insicura nelle scelte sentimentali che si dirigono su partners che non l’attraggono e nelle amicizie in cui appare focalizzata sul confronto più che alla strutturazione di sé, Elena riesce comunque ad incanalare le sue risorse in una direzione costruttiva che la condurrà verso il successo e la soddisfazione personale, ritagliandosi, così, una carriera che sembra proteggerla dalle delusioni cocenti del rione.

Aiuta gli altri, aiuta te stesso: i benefici dell’essere compassionevoli

Una recente ricerca sull’imparare ad essere più compassionevoli dimostra che anche persone apparentemente sgradevoli e poco gentili possono beneficiare di percorsi formativi e psicoeducazionali che permettono loro di sviluppare compassione.

Adriano Mauro Ellena

 

“Nessun atto di gentilezza, non importa quanto piccolo, è mai sprecato”.
(Esopo)

 

Alcuni ricercatori dell’Università di York hanno coinvolto 640 persone con depressione lieve in un percorso online che aveva lo scopo di incrementare i loro comportamenti compassionevoli verso gli altri. Ai partecipanti allo studio, aventi un’età media intorno ai 35 anni, è stato chiesto di svolgere uno dei tre esercizi di “Compassion Intervention” online sviluppati dai ricercatori, completare il loro esercizio e, in un secondo momento, accedere nuovamente alla piattaforma per registrare ogni giorno per tre settimane i rapporti e le interazioni che avevano con altre persone.

Tra i tre esercizi, l’esercizio chiamato “Acts of Kindness” ha dato i maggiori benefici ai partecipanti allo studio: coloro che hanno compiuto atti di gentilezza nelle loro relazioni intime hanno infatti mostrato una riduzione dei sintomi depressivi e un incremento nel livello di soddisfazione della propria vita (tali dati sono stati valutati e misurati attraverso la somministrazione ai soggetti di questionari self report).

Insegnare la compassione e l’empatia

Punto di partenza degli autori di questa ricerca è stato che le persone che possono essere generalmente considerate come altamente sgradevoli spesso hanno un deficit nella capacità di empatia, sono ostili e non sanno collaborare bene con gli altri, con il risultato che possono essere ostracizzate o rifiutate. Dare a queste persone suggerimenti specifici, insegnando loro alcune strategie pratiche che possono mettere in atto ogni giorno per esprimere empatia verso le persone con cui sono in relazioni intime, può essere estremamente utile.

Il progetto è stato facile da implementare e, dal punto di vista dei partecipanti allo studio, rapido (10-15 minuti a giorni alterni) e facile da completare.

Tra i tre esercizi proposti, si è rivelato molto utile anche l’esercizio chiamato “Loving Kindness Meditation” pur non raggiungendo lo stesso livello dei miglioramenti nello stato di benessere dell’individuo ottenuti con l’esercizio “Acts of Kindness”.

Insomma tutti questi risultati sembrano suggerire che il cervello può essere allenato alla compassione.

Ricerche precedenti

Ricerche precedenti pubblicate su importanti riviste di settore avevano già indagato aspetti simili. In particolare, uno studio pubblicato su Psychological Science, un giornale dell’Association for Psychological Science, ha cercato di capire se la compassione potesse essere allenata e appresa negli adulti e se l’allenarsi ad avere una mentalità più compassionevole potesse indurre gli adulti ad essere più premurosi. I risultati ottenuti da questo studio sembravano essere piuttosto rassicuranti in questo senso.

Lo studio ha fatto uso di un’antica tecnica buddista chiamata “meditazione compassionevole”, in cui i partecipanti allo studio (giovani adulti) sono stati addestrati ad aumentare i sentimenti di apprensione per le persone che soffrono. Dopo l’allenamento, è stato chiesto loro di mostrare compassione per i propri cari (quelli per i quali si sarebbero facilmente sentiti compassionevoli), poi se stessi, uno sconosciuto e, infine, per una persona difficile, come un collega con cui avevano un conflitto.

Secondo i ricercatori questo “allenamento ponderato” in cui gli individui hanno attivamente sviluppato il loro “muscolo compassionevole” li ha aiutati a rispondere con desiderio alla possibilità di aiutare  a ridurre la sofferenza degli altri.

Ciò che i ricercatori hanno scoperto con questo ed altri esercizi progettati per misurare la compassione, è che la compassione non è qualcosa di rigido o fisso, ma tale capacità può essere migliorata attraverso l’allenamento e la pratica. Pertanto, si dovrebbe incominciare a pensare che il compassion training potrebbe essere impiegato nelle scuole per aiutare ad esempio a combattere fenomeni come il bullismo e potrebbe rivelarsi utile per coloro che hanno un comportamento antisociale. Inoltre, gli stessi ricercatori sarebbero entusiasti di vedere gli effetti del compassion training sulla popolazione generale, in termini di cambiamenti nello stile di vita.

L’addestramento per potenziare la “muscolatura della compassione“ è disponibile presso il sito web di University of Wisconsin-Madison’s Center for Healthy Minds.

Ed ancora, ulteriori ricerche pubblicate su Frontiers in Psychology suggeriscono che l’allenamento alla meditazione e alla compassione possono aiutare anche a ridurre le reazioni neurali avverse alla sofferenza, mentre aumenta l’attenzione visiva alla sofferenza. Ciò può avere benefici prosociali, come nel caso di un medico che si prende cura di un paziente o che permette alle persone di rimanere calme in caso di sofferenza e più disposte a prestare aiuto.

Quello che gli autori di queste ricerche e noi stessi ci auguriamo è che ricerche future possano coinvolgere campioni di studio di dimensioni sempre maggiori così da poter studiare gli effetti delle strategie di compassion training e al contempo promuovere una diffusione della compassione e della gentilezza.

Alzheimer e nuove conferme dell’impatto dell’inquinamento sulla salute

La crescente preoccupazione inerente ad una evoluzione e diffusione dell’ Alzheimer tra i giovani delle municipalità di Città del Messico ha portato molti ricercatori di svariate Università americane e messicane ad indagare questo fenomeno.

 

Fin da bambini gli abitanti di Città del Messico hanno una esposizione ad agenti inquinanti con concentrazioni superiori ai minimi degli standard Statunitensi. Questa metropoli rappresenta l’emblema dell’estrema crescita urbana in un lasso di tempo ristretto, che ha causato ingenti tassi di inquinamento atmosferico a cui tutta la popolazione è esposta involontariamente sin dalla nascita.

Alzheimer e inquinamento: lo studio

Lo studio portato avanti dagli studiosi messicani e statunitensi ha coinvolto un campione di 507 soggetti formato da bambini e adolescenti con un’età media attorno ai 12 anni, residenti a Città del Messico oppure in una città di controllo con bassi tassi di inquinamento. È stato utilizzato un anticorpo come marcatore biologico per indagare il danno assonale, cioè il danno dei collegamenti principali tra neuroni; le dimensioni mielinizzate degli assoni sono state documentate mediante la microspia elettronica a trasmissione e in più sono state indagate anche le patologie connesse al deterioramento della corteccia cingolata anteriore che sono connesse allo sviluppo dell’Alzheimer.

Dai risultati si evince che con l’aumentare dell’età, gli assoni si danneggiano maggiormente ma questo processo è molto più veloce per i soggetti residenti a Città del Messico rispetto a coloro che sono residenti nelle aree di controllo; inoltre, nel campione di soggetti residenti a Città del Messico è stata riscontrata una diminuzione significativa delle dimensioni medie assonali della corteccia cingolata anteriore.

Alzheimer e inquinamento: i risultati

I ricercatori hanno sottolineato come l’inquinamento atmosferico sia un problema sempre più rilevante connesso alla salute, in particolare al maggior rischio di Alzheimer e neuroinfiammazioni in cui si incorre quando si è soggetti ad un’esposizione prolungata a quantità di agenti inquinanti superiori agli standard. Negli Stati Uniti più di 200 milioni di persone vivono in zone con alti tassi di inquinamento di ozono e particolato. Da questo dato si comprende bene come gli sforzi della ricerca scientifica e della politiche ambientali dovrebbero mirare ad identificare e mitigare i fattori ambientali che possono influenzare in modo negativo la salute della popolazione.

Siamo buoni o cattivi? – Il bene e il male negli esseri umani: un’analisi psicologica e letteraria da Zimbardo a Stevenson

I fatti di cronaca che ascoltiamo giornalmente, ma anche la nostra quotidiana esperienza, ci portano spesso a domandarci se l’uomo sia per natura buono o cattivo. Nasciamo buoni e il mondo che ci circonda ci insegna il male? Oppure è una mera questione genetica a determinare la nostra indole? Difficile dare una risposta.

 

Iniziamo a trattare questo tema con una salto nel passato. Possiamo dire che, una volta soddisfatti i bisogni primari, l’uomo non è naturalmente predatore ma è disponibile a forme di cooperazione perché realizza che l’altruismo è più utile alla sua sopravvivenza di quanto non lo sia l’egoismo.

Gli studi di Trivers sul perchè siamo altruisti

A questo proposito il biologo evoluzionista Robert Trivers (2014) condusse degli studi volti a dimostrare come l’altruismo verso i propri simili risulti essere utile alla sopravvivenza e alla diffusione dei propri geni, di conseguenza, alla conservazione stessa della specie. Da qui si spiegherebbe l’istinto alla collaborazione. Trivers evidenzia però comportamenti che vanno oltre, non solo nel genere umano ma anche in alcune specie animali. Un esperimento con delle scimmiette portò alla conclusione che la collaborazione con l’altro poteva essere finalizzata anche a qualcosa di più immediato, come il raggiungimento di un beneficio per se stessi. Una forma di cooperazione basata sul principio “io ti aiuto se tu aiuti me”. Negli uomini si arriva anche ad un passo successivo, un altruismo prosociale che non presenta l’ottenimento di una ricompensa evidente. Prendiamo come esempio chi rischia la vita per salvare un suo simile, in questo caso si può comunque supporre che il tornaconto possa essere di altro tipo, ad esempio l’approvazione sociale e la gratificazione che ne deriva. Trivers ipotizza anche un sistema di mutua assistenza i cui beneficiari non sono direttamente riconducibili ai soggetti coinvolti nell’atto di altruismo e ne deduce che il mettere in atto questo tipo di condotta genera appagamento in quanto rientra in una forma di giustizia che rispetta e legittima le regole sociali fatte proprie.

L’esperimento di Zimbardo

Arriviamo ad oggi e al bene e al male che troviamo negli individui nella quotidianità.

Nel 1971, lo psicologo statunitense Philip Zimbardo fece un esperimento, ricordato come l’esperimento carcerario di Stanford, in cui simulò con un gruppo di volontari la realtà carceraria. Questi volontari erano tutti persone irreprensibili e vennero casualmente divisi in due gruppi: carcerieri a carcerati. L’esperimento dovette essere sospeso dopo pochi giorni anche perché le guardie avevano assunto un comportamento violento e vessatorio nei confronti dei carcerati. Le conclusioni a cui Zimbardo arrivò furono che, se si ritenevano autorizzati a comportamenti aggressivi da un’autorità superiore, i soggetti che agivano in gruppo si sentivano deresponsabilizzati dalle loro azioni e autorizzati a compiere atti riprovevoli che mai avrebbero compiuto se avessero agito in maniera individuale.

Possiamo dire quindi che una catalogazione di “buoni” e “cattivi” non è così facilmente attuabile.

Anche le circostanze possono influire e far cambiare i punti di vista in base ai quali un comportamento è giudicato cattivo oppure no. Quando questo accade, succede spesso che in un secondo tempo, cambiate le circostanze, ci si chieda come siano potute succedere certe cose (e qui l’esempio va inevitabilmente al caso limite degli orrori del nazismo).

Va aggiunto che il male non è sempre intenzionale e volontario, a volte le persone pensano di avere delle giustificazioni per quello che hanno fatto, si danno degli alibi, che spesso consistono nella demonizzazione del nemico, “io mi sono comportato così in conseguenza di un suo comportamento scorretto”.

In realtà in tutti noi coesistono una certa quantità di bene e di male.

L’ombra di Jung

Questo discorso introduce il concetto delle “ombre” citate da Jung, e che si riferiscono a quella parte che noi tutti abbiamo a livello sia conscio che inconscio e che tendiamo a rifiutare perché in contrasto con la nostra “morale”. Possiamo dire che la parte conscia è rappresentata da quei difetti di noi che riconosciamo e accettiamo, quella inconscia è la parte che rifiutiamo e che spesso tendiamo ad attribuire ad altri trasferendo inconsciamente su di loro le negatività che non accettiamo di riconoscere come nostre. Lo psicanalista Mario Trevi attribuiva a questa proiezione inconscia la causa delle antipatie che nutriamo. In altre parole, cerchiamo un modo di confrontarci con l’ombra ma al tempo stesso ne prendiamo le distanze, “Se per esempio siamo a disagio con la nostra rabbia o la neghiamo, attireremo persone colleriche nella nostra vita, sopprimeremo il nostro personale senso di rabbia e sentenzieremo che gli altri sono collerici.” (Ford D., 2012).

Una rappresentazione suggestiva e altrettanto significativa di come bene e male siano due facce che coesistono in ciascuno di noi si trova in un libro assai noto, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, scritto da Robert Louis Stevenson nel 1886. L’idea dello sdoppiamento della personalità in questa antitesi bene-male era un argomento nuovo per l’epoca ed ebbe subito un grande impatto.

Il lato oscuro della personalità: il romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

Ripercorrendo la trama del romanzo ci imbattiamo nel Dr. Jekyll, chimico stimato e rispettato. Uomo educato, di sani principi, ci viene descritto anche fisicamente come imponente e ben fatto. Ci viene suggerita l’idea che sia perfino “troppo” rispettabile, probabilmente vorrebbe trasgredire ma non osa sfidare apertamente il giudizio delle persone rispettabili che gli stanno attorno. Affida questa sua voglia di trasgressione a teorie ed esperimenti di non comprovato valore scientifico che sconcertano i colleghi più tradizionali. Un giorno, tra gli alambicchi del suo laboratorio, il Dr. Jekyll riesce a mettere a punto una pozione straordinaria. Assumendola, la sua personalità si sdoppia e lui stesso si trasforma nel suo alter ego, il Signor Hyde. Questi è un uomo dall’aspetto sinistro, sgraziato e sgradevole sotto ogni punto di vista, crudele e privo di ogni morale. Inizialmente le intenzioni di Jackyll sarebbero di dimostrare che dissociando il bene e il male che coesistono in ogni individuo, e separando le due individualità, entrambi sarebbero finalmente liberi dalla lotta con quella parte di sé che rifiutano e potrebbero vivere come più desiderano. Con il protrarsi dell’esperimento, però, la situazione comincia a sfuggire dalle mani del dottore. Se inizialmente la trasformazione avviene sotto il suo pieno controllo, gestita con l’uso della pozione e del suo antidoto, con il passare del tempo il Signor Hyde assume sempre più una sua vita autonoma, tanto da prendere il sopravvento sulla volontà dello stesso Jekyll. Il male si insinua fino a destabilizzare la morale del dottore. Jekyll è fortemente condizionato da questa contrapposizione mentre Hyde si disinteressa di Jeckyll e vive solo per sé stesso. Quando capisce di non poterlo più gestire, il Dottor Jekyll cerca di uccidere Hyde ma non ci riesce, la tentazione di farlo rivivere è ancora troppo forte.

Alla fine la situazione precipita, Hyde, ormai scoperto e con le spalle al muro, si uccide, trascinando con sé Jekyll.

In conclusione, dobbiamo imparare a convivere con l’idea che una componente di male sia presente in ciascuno di noi. Il pericolo sta nella scissione dell’ombra che porta, come nel caso del libro di Stevenson, a farle vivere una vita autonoma e incontrollata. E’ utile, invece, prenderne coscienza e imparare a fronteggiare la nostra parte “cattiva” senza darci delle giustificazioni illusorie per le azioni che compiamo e senza proiettare su altri i nostri timori. Come sosteneva Jung, è necessario prendere consapevolezza della nostra ombra mettendola a confronto con la nostra parte conscia, con la nostra “etica”, quella parte interna e soggettiva della coscienza che dovrà riuscire ad integrarla scendendo a patti con la parte di noi che riconosciamo e accettiamo.

Manuale di ipnosi medica rapida (2014) di Giuseppe Regaldo – Recensione del libro

Il Manuale di ipnosi medica rapida di Giuseppe Regaldo è un testo molto interessante che descrive il processo induttivo da un punto di vista originale rispetto ai manuali classici.

 

Il Manuale di ipnosi medica rapida nasce dall’esperienza professionale del Dott. Regaldo, medico specialista in ginecologia, che si avvicina all’ ipnosi con i corsi del Prof. Franco Granone del Centro Italiano di Ipnosi Clinica e Sperimentale di Torino. La tecnica così come utilizzata in contesti didattici o di psicoterapia non poteva però essere applicata al contesto operativo di una sala parto ospedaliera dove è necessario, oltre alla rapidità, conoscere azione ed effetto di ogni singolo modo di procedere. Serviva una metodologia più rapida, come quelle al tempo diffuse negli Stati Uniti, e da questa sfida nasce l’ ipnosi medica rapida descritta nel manuale.

Come viene rivista l’ipnosi nel Manuale di ipnosi medica rapida

Il processo induttivo viene smontato dall’autore nei suoi elementi di base in modo da capirne meglio il funzionamento e ricodificato in modo molto chiaro e comprensibile attraverso diagrammi, schemi e flow chart.

La procedura induttiva descritta nel manuale si basa sul metodo R.A.P. (Ratifica Appena Possibile) che sintetizza il modello ipnotico basato sull’ottenere il più precocemente e velocemente possibile una fenomenologia talmente evidente da poter essere mostrata al soggetto al fine di guadagnare la sua fiducia.

Il manuale, dopo una breve introduzione, si divide in tre parti sostanziali. In una prima parte viene approfondito il concetto di ipnosi e sottolineato come sia fondamentale per poter indurre una condizione ipnotica prima conoscerne i suoi tre elementi di base: fenomenologia, stato di coscienza modificata e condizione fisica modificata. C’è poi una parte molto dettagliata sul come realizzare un’induzione ipnotica che con la descrizione di 15 passi e 29 strumenti utilizzabili che mette il clinico in condizioni di operare in modo consapevole in qualunque situazione.

L’ultima parte del testo è dedicata alle indicazioni sul come addestrarsi alla pratica ipnotica con attenzione al miglioramento della tecnica, correzione dei possibili errori ma anche alle precauzioni e gli aspetti medico legali connessi.

Alcune riflessioni importanti..

Per quanto il manuale sia estremamente esemplificato e chiaro, così come ricordato dall’autore, non è sicuramente sufficiente per affrontare il processo ipnotico. Prendendo un esempio tratto dal libro “…è come comprare un libro per imparare ad andare in barca a vela”.

Il possesso dei titoli di studio adeguati, la partecipazione a corsi di formazione, la supervisione e la pratica sono elementi fondamentali per utilizzare l’ipnosi rapidamente, con grandi benefici per i pazienti e in tutta sicurezza.

Quali fattori influenzano la resilienza?

La resilienza è un costrutto altamente studiato in Psicologia. Tuttavia, nonostante le numerose ricerche e articoli scritti a riguardo, raramente i ricercatori hanno rivolto le loro indagini verso lo studio delle differenze esistenti tra i diversi tipi di eventi traumatici e sul modo in cui ciò possa influenzare il grado di resilienza di ciascun individuo. 

Adriano Mauro Ellena

 

Secondo un recente studio condotto dai ricercatori della Yale School of Medicine e dal VA Connecticut Healthcare System, il tipo di trauma subito sembra invece essere un importante fattore predittivo di come il soggetto reagirà a lungo termine e quindi del suo grado di resilienza all’evento traumatico. Inoltre, è stato scoperto che le reazioni ai vari tipi di trauma differiscono notevolmente a seconda del genere della persona.

Il campione oggetto di studio è stato creato coinvolgendo un sotto-gruppo di veterani che avevano preso parte ai recenti conflitti militari in Iraq e Afghanistan, selezionati all’interno di un più esteso campione utilizzato in uno studio longitudinale precedente. La ricerca è stata poi sviluppata in tre fasi nel corso delle quali sono state esaminate le differenze di genere nella rielaborazione del trauma.

Nello specifico, sono stati valutati i dati esaminando il periodo di esposizione al trauma, le reazioni successive e la capacità di resilienza.

Quando abbiamo analizzato per la prima volta i dati senza tenere conto del tipo di trauma vissuto, sembrava che gli uomini veterani fossero in generale più resilienti rispetto alle donne, a seguito del congedo militare. – Ha detto Galina Portnoy, ricercatrice associata presso Yale, psicologa presso il VA Connecticut Healthcare System e autrice principale dello studio. – Ma lavoro con donne veterane ogni giorno, e ho avuto il sospetto che questa non fosse l’intera storia.

Cosa si è scoperto da un’ulteriore analisi?

Attraverso ulteriori analisi, è stato possibile differenziare gli eventi potenzialmente traumatici in eventi interpersonali (cioè abusi sessuali, stupri e violenza domestica) ed eventi non interpersonali (cioè incidenti, traumi da combattimento, violenza non domestica). Una volta che i ricercatori hanno introdotto nelle analisi statistiche il tipo di trauma subito, improvvisamente gli uomini non risultavano più avere una maggiore capacità di resilienza rispetto alle donne.

Ciò che abbiamo riscontrato è che il trauma interpersonale ha conseguenze significative maggiori per coloro che lo sperimentano e dato che coloro che erano vittime di questa tipologia di trauma erano in numero sproporzionatamente maggiore donne nel nostro campione, questo inizialmente stava distorcendo i dati. – ha detto Portnoy e continua – Inoltre, il sostegno sociale durante i periodi di stress nella vita di una persona, come il congedo militare, fa una grande differenza nella capacità di affrontare le cose, di sopravvivere e di prosperare.

In relazione a questo, è stato scoperto che, rispetto agli uomini, le donne avevano riferito di sperimentare meno supporto sociale.

Alcune riflessioni finali

Portnoy e gli altri autori hanno dunque concluso che:

Il modo in cui il nostro campo attualmente studia la resilienza richiede approfondite riflessioni.

Uomini e individui con maggior disponibilità di risorse (cioè status socioeconomico, istruzione, reddito e impiego) – o “privilegi sociali” – spesso ottengono punteggi più alti alle misure di resilienza ma, secondo i ricercatori, questi privilegi potrebbero essere responsabili dei punteggi elevati in maniera molto più influente rispetto a qualsiasi capacità innata presente nei soggetti.

Pertanto, suggeriscono, quando si parla di trauma e resilienza, di prendere le distanze dal semplice

considerare ed identificare le caratteristiche all’interno dell’individuo (ad esempio, la capacità di una persona di far fronte ai trigger) – e guardare anche verso i – fattori all’interno del contesto socio-ecologico di una persona che servono a promuovere o inibire processi di resilienza, come il supporto sociale o il tipo di trauma al quale si è stati esposti

Nuove prove di efficacia per la Terapia Metacognitiva Interpersonale in gruppo (MIT-G)

Da anni con i colleghi i colleghi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale e una rete di collaboratori all’estero siamo al lavoro per dimostrare l’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, Semerari et al., 2007), in particolare della forma manualizzata in Dimaggio et al. (2013) e in Dimaggio et al. (2019).

 

Il lavoro continua a dare frutti. Ci riferiamo qui alla Terapia Metacognitiva Interpersonale in Gruppo (TMI-G), un protocollo psicoeducazionale-esperienziale di 16 sedute di gruppo di 2 ore l’una accompagnato da 3 sedute individuali ideato da Raffaele Popolo e Giancarlo Dimaggio. La TMI-G si basa sulla teoria delle motivazioni interpersonali (si veda Liotti, Fassone e Monticelli, 2017 per una bella descrizione) e sull’assunto che si possa aiutare i pazienti con disturbi di personalità

1) fornendo informazione su quali sono le motivazioni che guidano gli umani ad agire nel contesto sociale

2) portandoli a rievocare episodi specifici che illustrano come guidati da una certa motivazione abbiamo generato un senso di frustrazione e fallimento a causa di come leggevano le risposte degli altri. Per esempio: “Desidero essere valorizzato, l’altro mi disprezza”

3) sperimentare attraverso il role-play interazioni problematiche e trovare nuove soluzioni sulla base di

4) migliori capacità metacognitive.

Dopo la pubblicazione del primo trial clinico randomizzato, che aveva mostrato come la TMI-G fosse fattibile ed efficace (Popolo et al., 2018a) – abbiamo valutato se la TMI-G potesse essere applicata in condizioni di routine in un servizio ambulatoriale pubblico. Anche questa volta i risultati sono stati confortanti.

Popolo e colleghi (2018b) hanno infatti somministrato il protocollo TMI-G a 17 pazienti con disturbi di personalità dalle prevalenti caratteristiche di inibizione sociale e non con gravi tendenze alle disregolazione comportamentale (e.g. il disturbo borderline era escluso). Di questi 15 hanno completato il trattamento e solo 2 hanno droppato. Gli outcome primari erano sintomi e funzionamento sociale e sono migliorati in modo clinicamente significativo con effect size da medio a ampio. Consapevolezza e regolazione emotiva sono anche migliorate, in particolare l’alessitimia è ritornata ai valori non-clinici. È aumentata in modo significativo, come atteso, anche la capacità metacognitiva.

Sempre più la TMI, in questo caso specifico la TMI-G, si presta ad essere considerata un trattamento ben accettato dai pazienti con disturbi di personalità, capace di generare risultati significativi in vari domini. Attualmente uno studio pilota esteso ai disturbi del cluster B è stato completato in Spagna e sottoposto per la pubblicazione e uno studio su pazienti affetti da Disturbi Evitante è stato completato in Norvegia e attualmente sono in corso i calcoli. Altri studi sull’efficacia della TMI individuale e su altre forme di trattamento basate sulla TMI sono attualmente sottoposti alla pubblicazione o in corso. A presto forniremo aggiornamenti.

 

Assistenza alle donne vittime di violenza che ricorrono al pronto soccorso: il giusto approccio medico-legale

In Italia secondo l’ISTAT la violenza sulle donne è un fenomeno che interessa oltre 6 milioni e 743 mila donne. 5 milioni hanno subito violenze sessuali, 3 milioni 961 mila violenze fisiche e circa 1 milione uno stupro o un tentativo di stupro.

Andreina Anziano, Marco Tanini*, Simona Leone**

 

La violenza sulle donne è ritenuto, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, un problema di salute di proporzioni globali e gli operatori sanitari, in particolar modo quelli in attività nei Pronto Soccorso Ospedalieri, possono fornire un contributo decisivo nell’assistenza primaria alle donne vittime di violenza che siano costrette a ricorrere alle cure ospedaliere, indipendentemente dalla circostanza che le stesse siano intenzionate o meno a denunciare i fatti all’Autorità Giudiziaria.

Va sottolineato come l’accoglienza sia determinante per rassicurare le vittime, in quanto consente loro di affidarsi e riferire quanto sia realmente accaduto senza remore, riserve o sensi di colpa (che spesso si registrano in chi subisce violenza); oltre al supporto clinico-assistenziale è fondamentale, dunque, anche quello psicologico, per favorire nella donna una presa di coscienza della realtà.

Quanto detto ha una valenza ancor maggiore per le donne gravide che, dopo un abuso, ricorrono al pronto soccorso per essere rassicurate sulla salute del bimbo; queste donne, infatti, difficilmente ammettono (o riferiscono) che le violenze sono opera del partner.

Violenza sulle donne: dati statistici e ricerche sul fenomeno

Sotto il profilo statistico va rilevato che secondo i dati forniti dall’Eurostat, circa 215.000 crimini sessuali violenti sono stati registrati dalla polizia dell’Unione Europea nel 2015, un terzo di questi (quasi 80.000) sono stati stupri, 9 su 10 ai danni di ragazze o donne. La polizia ha registrato il maggior numero di violenze sessuali in Inghilterra e Galles (64.000, di cui 35.800 stupri, il 55%) seguite dalla Germania (34.300 di cui 7.000 stupri , il 20%), Francia (32.900 di cui 13.000 stupri, il 40%), e Svezia (17.300 di cui 5.500 stupri, il 33%) (Unione Europea 2014).

Per alcuni paesi, come l’Italia, non c’è il dato scorporato per tipologia di aggressione. Per quanto riguarda le aggressioni sessuali (che non necessariamente sfociano in stupro), l’Italia presenta un numero di valori assoluti da metà classifica rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea – 4.000 casi – ed è tra gli ultimi se si considera il valore per centomila abitanti; inoltre tra il 2013 e il 2015 si è registrato una calo costante del fenomeno (Ministero Salute 2018).

Le cifre riportate, tuttavia, non riflettono necessariamente il numero effettivo di reati sessuali violenti poiché si riferiscono solo a quelli segnalati e registrati dalle forze dell’ordine, di conseguenza la variazione tra i diversi paesi è anche influenzata dalla consapevolezza generale e dall’atteggiamento nei confronti delle violenze sessuali.

Per sottolineare come il fenomeno della violenza sulle donne sia diffuso, basta leggere la relazione della European Union Agency For Fundamentalrights Violenza contro le donne: un’indagine a livello europeo” che si basa su interviste rivolte a 42 000 donne nei 28 Stati membri dell’Unione Europea (Unione Europea 2014). Si evidenzia, nella relazione, che la violenza sulle donne costituisce una grave violazione dei diritti umani per la vastità del fenomeno, che l’UE non può permettersi d’ignorare. Nell’ambito dell’indagine, le donne sono state intervistate in merito alle loro esperienze di violenza fisica, sessuale e psicologica, inclusi gli episodi di violenza perpetrata dal partner (violenza domestica), nonché riguardo a molestie sessuali e comportamenti persecutori (stalking). Dall’indagine emerge che l‘abuso è un fenomeno diffuso che influisce sulla vita di molte donne, ma che non sempre è segnalato alle autorità. Per esempio, una donna su 10 ha subito una qualche forma di violenza sessuale dall’età di 15 anni, poco più di una donna su cinque è stata vittima di violenza fisica e/o sessuale inflitta dal partner attuale o precedente e tuttavia solo il 14% delle donne ha denunciato alla polizia l‘episodio più grave di violenza inflitta dal partner e il 13% ha denunciato alla polizia il caso più grave di violenza inflitta da persone diverse dal partner.

In Italia l’ISTAT ha effettuato una indagine su 25 mila donne in età compresa tra i 16 e i 70 anni, dal gennaio all’ottobre 2006 con tecnica telefonica. L’ISTAT ha stimato che siano 6 milioni e 743 mila le donne vittime di violenza in quella fascia di età nel corso della propria vita. Cinque milioni hanno subito violenze sessuali, 3 milioni 961 mila violenze fisiche e circa 1 milione uno stupro o un tentativo di stupro. Secondo i dati ISTAT, nella quasi totalità dei casi le violenze non sono state denunciate (ISTAT 2007).

La ricerca di Mary Koss e di Cheryl Oros nel 1982 (Koss et al 1982) ha inquadrato un altro tipo di violenza sessuale, ovvero gli “acquaitance rapes” e “date rapes”, quando cioè lo stupratore è un conoscente della donna o se la violenza avviene durante un appuntamento romantico, la diffusione degli incontri tramite social networks ha intensificato questo fenomeno. Le vittime tendono ad essere incolpate ma anche ad incolpare se stesse poichè la violenza subita non è stata determinata da estranei ma da persone conosciute con le quali spontaneamente si è usciti. Difficilmente le vittime denunciano l’accaduto riconoscendo nel loro stesso comportamento una colpa. Questo tipo di stupro può essere legato all’utilizzo di un tranquillante-ipnotico, come ad esempio il Flunitrazepam (Roipnol) che, aggiunto ad una bibita, determina uno stato di incoscienza e confusione nei ricordi. Le donne, in questo caso, fanno racconti confusi e riferiscono di svegliarsi in luoghi a loro sconosciuti semmai spogliate dei loro vestiti. All’esperienza tragica si aggiunge l’assenza del ricordo preciso e gli elementi per una denuncia molto scarsi.

Aspetti medico-legali nell’ambito dei percorsi ospedalieri

Gli operatori sanitari svolgono un ruolo di grande rilievo nell’identificazione e nella prevenzione dei casi di violenza contro le donne. In seguito a violenze o abusi, infatti, il pronto soccorso ospedaliero diventa un punto di accesso preferenziale per la donna percossa o vittima di violenza sessuale ed è proprio in tale contesto che il personale sanitario deve intervenire per soccorrere i soggetti che vi arrivano spesso in un forte stato confusionale.

Sempre dall’indagine dell’European Union Agency For Fundamental rights, risulta che l‘87% delle donne considera accettabile il fatto che i medici chiedano regolarmente informazioni in merito alla violenza, soprattutto quando le pazienti presentano delle lesioni caratteristiche.

Le donne in stato di gravidanza non sono esenti da violenza, risulta che addirittura il 42 % delle intervistate hanno sperimentato episodi violenti durante l’epoca gestazionale.

Qual è quindi lo stato dell’arte in Italia? Quali misure sono state attuate?

I servizi del Sistema sanitario nazionale

Il nostro sistema sanitario mette a disposizione di tutte le donne, italiane e straniere, una rete di servizi sul territorio, ospedalieri e ambulatoriali, socio-sanitari e socio-assistenziali, anche attraverso strutture facenti capo al settore materno-infantile, come ad esempio il consultorio familiare, per assicurare un modello integrato di intervento.

Come è stato detto, uno dei luoghi in cui più frequentemente è possibile intercettare la vittima è il Pronto Soccorso Ospedaliero.
È qui che le donne vittime di violenza, a volte inconsapevoli della loro condizione, si rivolgono per un primo intervento sanitario. Sono già attivi dei percorsi speciali per chi subisce violenza, contrassegnati da un codice rosa, o uno spazio protetto, detto stanza rosa, in grado di offrire assistenza dal punto di vista fisico e psicologico e informazioni sotto il profilo giuridico, nel rispetto della riservatezza.

Linee guida soccorso e assistenza donne vittime di violenza

Il 24 novembre 2017 sono state approvate con DPCM le Linee guida nazionali per le Aziende sanitarie e le Aziende ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio-sanitaria alle donne vittime di violenza. Obiettivo delle linee guida è quello di fornire un intervento adeguato e integrato nel trattamento delle conseguenze fisiche e psicologiche che la violenza maschile produce sulla salute della donna.

Destinatarie del Percorso sono le donne, anche minorenni, italiane e straniere, che abbiano subìto una qualsiasi forma di violenza.

Si sanciscono, innanzitutto, disposizioni in materia di diritti fondamentali, ovvero si sottolinea che le vittime di reato devono essere riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni di sorta fondate su motivi quali razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali, opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, appartenenza a una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età, genere, espressione di genere, identità di genere, orientamento sessuale, status in materia di soggiorno o salute.

  • Accesso al Pronto Soccorso e “Triage”

La donna può accedere al Pronto Soccorso: spontaneamente (sola o con prole minore); accompagnata dal 118 con o senza l’intervento delle FF.OO; accompagnata dalle FF.OO; accompagnata da operatrici dei Centri Antiviolenza; accompagnata da operatori di altri servizi pubblici o privati; accompagnata da persone da identificare; accompagnata dall’autore della violenza.
Il personale infermieristico addetto al “triage”, procede al tempestivo riconoscimento di ogni segnale di violenza, anche quando non dichiarata. Alla violenza viene attribuito un codice di urgenza relativa (codice giallo o equivalente) per garantire una visita medica tempestiva (tempo di attesa massimo 20 minuti) e ridurre al minimo il rischio di ripensamenti o allontanamenti volontari, sono rari i casi ai quali si attribuisce un codice rosso di emergenza (Mario Guarino et al. 2017).

  • Trattamento diagnostico – terapeutico

La donna presa in carico deve essere accompagnata in un’area separata dalla sala d’attesa generale che le assicuri protezione, sicurezza e riservatezza. Eventuali accompagnatori, ad eccezione dei figli minori, dovranno essere in un primo momento allontanati, successivamente, e solo su richiesta della donna, potranno raggiungerla nell’area protetta. L’area protetta rappresenta, possibilmente, l’unico luogo in cui la donna viene visitata e sottoposta ad ogni accertamento strumentale e clinico, nonché il luogo di ascolto e prima accoglienza (ove anche repertare il materiale utile per una eventuale denuncia/querela), nel pieno rispetto della sua privacy.

L’operatore che prende in carico la donna dovrà utilizzare un linguaggio semplice, comprensibile e soprattutto dovrà garantire un ascolto e un approccio empatico e non giudicante. L’instaurarsi con la donna di un rapporto basato sulla fiducia, potrà favorire l’eventuale passaggio alla fase successiva ovvero l’esposizione delle varie fasi del percorso e l’accettazione dello stesso da parte della donna che si dovranno concludere con l’acquisizione del consenso informato.

La sequenza delle azioni è la seguente:

  1. Anamnesi accurata;
  2. Esame obiettivo completo;
  3. Acquisizione delle prove (eventuale documentazione fotografica, tamponi, ecc.);
  4. Esecuzione degli accertamenti strumentali e di laboratorio;
  5. Esecuzione delle profilassi e cure eventualmente necessarie;
  6. Richiesta di consulenze.

Per le donne straniere dovrebbe essere disponibile un mediatore culturale così come per le donne affette da disabilità si dovrebbero interpellare figure di supporto.

Anamnesi ed esame obiettivo completo:

Si dovranno rilevare le generalità della paziente ed anche i dettagli della violenza con la storia medica dell’aggressione tramite la compilazione di moduli già predisposti. Bisognerà fare attenzione nel porre domande dirette sul fatto e sui segni riscontrati, limitandosi a chiederne l’origine, utilizzando domande aperte e riportando fedelmente “virgolettate” le parole della donna; è necessario porre attenzione nella raccolta dei dati relativi all’evento (data, ora e luogo, numero dei soggetti coinvolti ed eventuali notizie sugli stessi, presenza di testimoni, verbalizzazione di minacce ed eventuali lesioni fisiche); valutare poi la situazione di violenza (associazione con furto, presenza di armi, ingestione di alcolici o di altre sostanze, perdita di coscienza o sequestro in ambiente chiuso e per quanto tempo), talune informazioni potrebbero portare alla procedibilità d’ufficio del reato. Sarebbe utile anche la descrizione dello stato d’animo del soggetto: lucidità, incertezza nel racconto, o fluidità dello stesso. Se il racconto è preciso o vi sono elementi di confusione, se la paziente è scossa o ubriaca o drogata.

La donna deve essere informata dagli operatori sanitari sui suoi obblighi di legge , nonché sulla presenza sul territorio dei Centri Antiviolenza, dei servizi pubblici e privati dedicati e, qualora la donna ne faccia richiesta, devono essere avviate le procedure di contatto. È fondamentale l’informativa sulla possibilità di sporgere denuncia o querela, anche contattando direttamente le FF.OO.

Repertazione e conservazione delle prove:

La repertazione e conservazione delle prove è un momento di cruciale importanza, nel caso di indagine giudiziaria; sarà la documentazione clinica a fare la differenza per lo svolgimento delle indagini. È necessario garantire una corretta raccolta dell’anamnesi e degli elementi di prova, oltre ad una descrizione accurata delle lesioni corporee evitando ogni forma di interpretazione o giudizio soggettivo.

Raramente i casi di violenza sessuale si associano a gravi ferite, sia in sede genitale che extragenitale. In questa fase, la descrizione di eventuali lesioni su tutto il corpo, dovrà essere precisa e puntuale specificando sempre la sede, le dimensioni e i caratteri generali (colore, forma, profondità, dimensioni). Rivestono enorme importanza probatoria: lividi sui polsi segno di costrizione; segni di corda o laccio tali da provare un’immobilizzazione della vittima; lividure e segni di pressione sul lato interno delle cosce; traumatismi articolari dei polsi e degli arti superiori in genere; danneggiamento degli abiti. L’esame obiettivo dovrà includere un’attenta descrizione dello stato emotivo, psicologico e relazionale della donna; è discusso l’utilizzo della documentazione fotografica poichè non sempre l’immagine riproduce esattamente la gravità della lesione e ciò potrebbe, in fase dibattimentale, essere utilizzata come prova a favore dell’imputato. L’acquisizione delle immagini, comunque, deve avvenire tramite apparecchiatura fornita dall’ospedale e certificazione di giorno ed ora. Si procede, poi, alla ricerca e repertazione, nell’ambito della visita stessa, delle tracce di materiale biologico, avendo cura di adottare tutte le procedure capaci di evitare eventuali fenomeni di contaminazione.

Le tracce di materiale biologico possono essere trovate sugli indumenti (che devono essere repertati) e sul corpo della vittima con effettuazione di almeno due tamponi nelle zone interessate (orale-periorale-vaginale-rettale) e sotto le unghie di ogni dito per la ricerca del materiale biologico dell’aggressore nel caso la vittima abbia tentato di difendersi.

Le cautele da adottare sono:

  • utilizzo di guanti e mascherina
  • utilizzo di un lenzuolo per far spogliare la donna e conservare gli indumenti singolarmente
  • conservare gli indumenti in buste di carta a temperatura ambiente e sigillate con la descrizione del reperto
  • per i prelievi sul corpo della vittima non bisogna impiegare MAI tamponi con terreno di coltura ma quelli a secco, ed è necessario chiudere le provette con gli identificativi e congelarle (Non devono mai essere conservate in frigo)

Fondamentale è l’allestimento del verbale della catena di custodia in cui venga indicato il passaggio del reperto che dovrà essere sempre controfirmato dall’operatore e che dovrà riportare la data nonchè le generalità dell’esecutore. Il rifiuto a sottoporsi alle attività di repertazione deve essere annotato sulla documentazione.

Se dovesse ritenersi necessario e la donna lo desideri sarà assicurata una successiva assistenza psicologica, che potrà essere effettuata dalla psicologa dell’ospedale, se presente, o da una professionista della rete territoriale antiviolenza (Genetisti Forensi Italiani, 2018).

Ruolo dello psicologo

Il ruolo dello psicologo è fondamentale per indagare quei casi che possono creare particolari problemi nell’esplicitazione della non consensualità del rapporto o quando si tratta di minori particolarmente piccoli, oltre a fornire il necessario supporto alla vittima. I casi in cui è particolarmente difficile dimostrare la mancanza del consenso al rapporto sono principalmente due. Quando la vittima conosce l’aggressore e si colpevolizza per essersi posta nelle condizioni di essere violentata, questo avviene più spesso quando si tratta di partner anche occasionali. Quando la vittima non ha adottato reazioni di difesa ma è rimasta passiva a causa di una “reazione di congelamento”.

Nel primo caso è compito dello psicologo far capire alla vittima che quello che ha subito non è imputabile ad un suo comportamento, sostenere le donne che hanno subito violenza dal partner e che sono reticenti ad ammettere. Nel secondo caso è utile ricordare quello che è alla base della reazione da congelamento. La paralisi indotta dallo stupro appare prevalere in un gran numero di donne vittime di violenza che sono state studiate con l’obiettivo di determinare se esistesse una relazione tra le dinamiche dell’evento traumatico e le successive conseguenze psicologiche. Nella modalità fight or flight il cervello attiva le aree dedicate al controllo motorio che possa consentire di scappare o combattere, ma quando questa modalità non è possibile i programmi di immobilità si attivano e producono una paralisi temporanea (Tanini M et al., 2016). Il sistema di risposta abbassa i livelli di energia e vengono prodotte sostanze in grado di mitigare il senso di paura e dolore grazie al rilascio degli oppiacei endogeni come l’endorfina che producono uno stato analgesico (Mezey e Taylor, 1998).

Non sempre nei Pronto Soccorso Ospedalieri è disponibile uno psicologo in grado di aiutare la donna in questa condizione di forte stress, è strategico quindi che gli stessi operatori conoscano i meccanismi mentali che si attivano in caso di violenza.

L’atteggiamento in fase di accoglienza o di raccolta dell’anamnesi può fortemente influenzare l’emotività della vittima accentuandone o mitigandone i sensi di colpa e quindi anche la sua serenità emotiva post traumatica. È quindi importante rammentare, nei corsi di aggiornamento, l’origine della paura e quali siano le reazioni del nostro organismo in risposta ad uno stimolo così forte.

La paura che sopraggiunge nelle situazioni di violenza determina la stimolazione dell’amigdala, nucleo del sistema limbico, che, proprio in risposta ad uno stimolo minaccioso, genera reazioni che coinvolgono il sistema vegetativo. Quando valuta uno stimolo come pericoloso, l’amigdala reagisce inviando segnali di emergenza a tutte le parti principali del cervello stimolando il rilascio degli ormoni che innescano la reazione di combattimento o fuga (adrenalina, dopamina, noradrenalina), mobilita i centri del movimento, attiva il sistema cardiovascolare, i muscoli e l’intestino. Contemporaneamente attiva i sistemi di memoria per richiamare ogni informazione utile che possa concertare una reazione appropriata di difesa. La vittima presenta tachicardia, sudorazione, tremore, aumento della pressione sanguigna ma anche attivazione del sistema muscolare che consente la possibilità di reazione o di fuga o, al contrario, come spesso accade nei casi di stupro, si può verificare il blocco delle reazioni motorie. Tale risposta, chiamata freezing, si manifesta con bradicardia e immobilizzazione totale o parziale con “congelamento” dei movimenti e può durare da pochi secondi a 30 minuti. Secondo Leach (2014) il freezing si innesca a causa delle tempistiche necessarie alla memoria di lavoro per svolgere i passaggi richiesti per attuare un’azione. Le operazioni mentali complesse in condizioni ottimali, richiedono un minimo di 8-10 secondi per essere attivate ed in circostanze particolari, come il pericolo, il processo può essere ulteriormente rallentato. Se nel proprio database non esiste una risposta appropriata, dovrà essere creato un sistema comportamentale temporaneo ma, nelle situazioni di pericolo come in caso di violenza, spesso il tempo non è sufficiente e la conseguenza sarà una paralisi cognitivamente indotta, o comportameto di freezing.

Quando in pronto soccorso si chiede ad una donna se durante la violenza ha urlato o ha cercato di scappare, non bisogna interpretare negativamente la mancata reazione, un nostro atteggiamento diffidente potrebbe portare ad una forma di colpevolizzazione della vittima in quanto la difesa appare indispensabile in caso di stupro che diventa rapporto consenziente se la donna non ha opposto resistenza. In realtà la paralisi indotta dallo stupro è una vera e propria necessità di sopravvivenza ma che può avere delle gravi conseguenze psicologiche post traumatiche. Le donne che non reagiscono, proprio per il loro immobilismo, potrebbero sviluppare dei gravi sensi di colpa, accentuati da un atteggiamento diffidente o giudicante di chi le prende in carico in pronto soccorso.

Una ricerca conclusasi in Svezia ha messo in luce che così come alcune specie animali, tipicamente predate, anche le vittime di stupro e violenza sessuale manifestano una reazione di congelamento nel momento in cui subiscono questo tipo di aggressione. Delle 298 donne oggetto dello studio il 70% ha manifestato una forma di immobilità tonica ed il 48% una forma estrema dello stesso (Möller, Söndergaard e Helström, 2017). Questo congelamento è una forma di paralisi temporanea che viene definita immobilità della tonicità. La TI è una forma di paralisi involontaria che coinvolge l’intero corpo e produce anche incapacità di parlare (Möller, Söndergaard e Helström, 2017).

Si comprende quindi come conoscere queste dinamiche psicologiche legate alla paura sia determinante per gli operatori sanitari che sono chiamati a testimoniare anche circa l’atteggiamento più o meno attivo, assunto dalla donna durante la permanenza in pronto soccorso. La conoscenza delle dinamiche psicologiche aiuta ad assumere quell’atteggiamento non giudicante che deve caratterizzare necessariamente la prestazione sanitaria.

Conclusioni

La preoccupante diffusione della violenza maschile sulle donne ed in particolar modo quella sessuale, vede in campo tutte le forze necessarie per prevenire e combattere il fenomeno, l’ultimo piano – di durata triennale – è del Dipartimento delle Pari Opportunità “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020”. Il fenomeno da combattere con più vigore è la reticenza delle donne alla denuncia; l’Italia infatti, in base a statistiche internazionali potrebbe sembrare un paese virtuoso ma, probabilmente, la mancanza di fiducia nello Stato e nel suo sistema legislativo, la reticenza legata ad una cultura patriarcale, la scarsa sensibilizzazione riguardo le possibilità di assistenza e supporto, fanno sì che il numero delle denunce sia molto basso rispetto ai reati che realmente vengono perpetrati.

Il ruolo dei sanitari, quindi, è fondamentale, poichè il loro approccio, standardizzato da percorsi assistenziali chiari, ma anche emotivamente empatico, potrebbe invertire la tendenza e rendere il percorso legale, normalmente lungo e farraginoso, più agevole da affrontare non solo producendo in maniera chiara e corretta tutte le prove da utilizzare in sede processuale, ma anche indirizzando la donna ad un percorso psicologico, con forme di intervento congiunte ed interconnesse, idonee a restituire a quest’ultima fiducia sia nei confronti di se stessa che dello Stato.

Interpretare il sogno in psicoterapia (2018): Maria Bossa ci spiega come utilizzare il contenuto onirico nel contesto clinico – Recensione del libro

Il testo di Maria Bossa, Interpretare il sogno in psicoterapia, offre una panoramica completa del mondo onirico dal punto di vista psicologico, teorico e pratico, attraverso la descrizione approfondita di casi clinici. 

 

La linea teorica di riferimento è quella della psicologia dinamica, con approfondimenti che riguardano la teoria analitica junghiana, la teoria freudiana, quella sistemica e la teoria cognitiva. L’approccio interpretativo dei sogni segue l’impostazione psicodinamica, l’analisi del rapporto di transfert e controtransfert che si evidenzia attraverso il contenuto onirico, facendo riferimento a modelli teorici e tecniche di intervento a seconda del caso specifico.

Il volume, suddiviso in quattro parti, è chiaro e di lettura scorrevole.

Interpretare il sogno in psicoterapia – Struttura e contenuti del testo

La prima sezione di Interpretare il sogno in psicoterapia affronta la natura del sogno da un punto di vista psicodinamico e strutturale della psiche. Vengono descritti i meccanismi di difesa onirici e le componenti della personalità secondo le varie teorie dinamiche di riferimento.

La seconda parte del volume, entra nel vivo dell’interpretazione onirica. Il sogno è un fenomeno dinamico della mente che mette in relazione i contenuti inconsci della personalità con la situazione psichica presente e gli eventi che accadono nel quotidiano. Può quindi rappresentare un valido strumento per fare emergere gli aspetti che sottendono al disagio psichico e, se ben interpretato, può fornire un valido aiuto durante tutte le fasi della terapia. Diverse pagine sono dedicate all’interpretazione dei sogni in modalità terapeutica e agli aspetti che devono essere considerati. Una volta che il sogno viene portato in terapia è necessario considerare non solo il senso del sogno e la sua decodificazione in base ai vissuti personali presenti ma anche il livello di consapevolezza raggiunto dal paziente. Sono presenti all’interno del manuale specifiche schede interpretative.

La terza sezione descrive gli elementi e i personaggi che possono costituire il sogno, secondo le categorie a cui appartengono e in base ai simboli a esse collegati. La metafora espressa dall’autrice è quella di un palcoscenico sul quale, alcuni personaggi, diretti da un abile regista, creano una storia ben definita. Il palcoscenico è la psiche, la storia è la nostra vita, il regista è il sé superiore e i personaggi sono gli aspetti della nostra personalità che si esprimono in modo diverso a seconda degli eventi della vita.

La quarta ed ultima parte di Interpretare il sogno in psicoterapia, invece, è dedicata interamente all’esposizione di casi clinici che forniscono interessanti linee guida sull’uso del sogno nelle varie fasi della terapia. Alcuni casi vengono riportati in modo esteso con raccolta e interpretazione del materiale onirico dall’inizio fino alla fine del percorso terapeutico. I casi, riguardanti differenti sintomatologie e vari disturbi di personalità, offrono una visione complessiva del lavoro onirico sul sogno. Vengono esposti seguendo un’impostazione narrativa, che decodifica il materiale onirico e rielabora le componenti simboliche, così da rendere possibile l’analisi della relazione terapeutica formata dello spazio del sogno.

Il volume è rivolto a psicologi, psicoterapeuti e a tutti gli operatori che lavorano nel campo della salute mentale.

Cicala (2018) di Shaun Tan – Recensione del libro

Cicala, il nuovo libro illustrato di Shaun Tan uscito l’11 ottobre per Tunuè, è un racconto spietato sulla solitudine degli impiegati che vivono la frustrazione di non vedere mai i propri sforzi riconosciuti sul posto di lavoro.

 

Il Sig. Cicala è il protagonista di queste intense 40 pagine illustrate, una cicala umanoide che vive, giorno dopo giorno, una condizione di alienazione lavorativa, di isolamento sociale e situazioni di mobbing al limite del maltrattamento.

Cicala: 17 anni di indifferenza e mobbing

Cicala lavora per 17 anni come impiegato in un’azienda che si occupa di immissione dati, non perde un giorno di lavoro e non commette mai errori. Nonostante la sua dedizione al lavoro, Cicala non riceve mai una promozione, perché considerata non umano e, data la sua natura animalesca, è costretto a raggiungere i bagni pubblici in centro perché l’azienda non è attrezzata per le sua necessità. Questo comporta per Cicala un dispendio di tempo con conseguente detrazione dello stipendio. Inoltre, Cicala è vittima di soprusi e angherie da parte dei colleghi umani, che lo considerano inferiore e si prendono gioco di lui, fino al maltrattamento fisico. Cicala subisce questa situazione passivamente, senza mai ribellarsi e senza far valere i suoi diritti. Non può nemmeno permettersi una casa in cui vivere, perciò dorme tra le mura dell’azienda, circondato dall’indifferenza dei suoi superiori.

Cicala: alla fine, la liberazione

Dopo 17 lunghi anni arriva per Cicala il momento della pensione. Nessun gesto di commiato, nessun ringraziamento, nessun saluto da parte dei colleghi, solamente l’invito a sgomberare la scrivania. Ecco il precipizio. Cicala non ha più un lavoro e nel frattempo non ha coltivato altro. Non ha famiglia, non ha amici, è senza soldi. Decide così di salire sul tetto di un alto edificio per dire addio alla sua esistenza. Improvvisamente accade qualcosa di magico.

Cicala si trasforma in tante piccole cicale colorate che spiccano il volo, pronte a ricongiungersi con la foresta e a riconquistare la loro vera natura. Un potente atto di liberazione, in cui le cicale si prendono gioco della prigionia a cui spesso si sottopongono gli esseri umani.

Il finale del libro può essere interpretato in diversi modi, ma è difficile non intravedere una feroce metafora dell’atto suicidario come gesto estremo di liberazione, guidato in certi casi da una forte componente di rivalsa narcisistica e rabbiosa. Cicala, nel suo farsi beffa degli umani, trova una strategia che gli permette di non rendersi conto di quanto l’atteggiamento passivo, unito alle aspettative di riconoscimento, abbiano giocato un ruolo nel mantenerlo ancorato alla sua prigionia.

Un libro forte e a tratti inquietante, che senza mezzi termini racconta la storia di una condizione sociale e lavorativa piuttosto frequente e che, unita a certi tratti di personalità, può giungere a conclusioni drammatiche.

Basta osservare il nostro profilo Twitter per rendersi conto del nostro “Jet-lag sociale”

Un recente studio ha indagato il fenomeno del jet-lag sociale osservando come cambia l’uso che facciamo di Twitter in base a cambiamenti momentanei delle nostre condizioni di vita.

 

Nonostante più o meno tutti noi siamo familiari con il concetto (e talvolta i sintomi) del “jet-lag”, probabilmente non tutti sono a conoscenza dell’esistenza del “jet-lag sociale”. Leypunskiy e colleghi in un recentissimo articolo pubblicato da Current Biology (Leypunskiy et al., 2018) definiscono il jet-lag sociale come la sindrome dovuta alla mancata coincidenza del nostro orologio biologico con la nostra routine giornaliera: basti pensare a quando andiamo a dormire molto tardi la sera e, per un qualsiasi motivo, siamo costretti a risvegliarci presto al mattino.

L’essere soggetti a questo tipo di jet-lag causa svariati problemi di salute. Ad esempio è stata trovata una correlazione tra la presenza di tale sindrome e l’obesità (Parson et al., 2015). Un altro studio (Roenneberg & Merrow, 2016) lega il disturbo a comportamenti rischiosi per la salute come il consumo smoderato di caffeina o di tabacco.

Lo studio

Quello che Leypunskiy e collaboratori hanno cercato di fare è stato di utilizzare i social media (Twitter in particolare) per monitorare ed identificare le persone che possono essere affette da jet-lag sociale. Gli autori pertanto hanno raccolto dati su persone considerate utilizzatori di Twitter, raggiungendo un campione di circa 240 000 soggetti sperimentali. Dopodiché hanno monitorato come l’attività (tempo ed orario di utilizzo) di tali utenti cambiava al cambiare delle stagioni e della posizione geografica. Tramite tali dati sono riusciti ad individuare due tipi di influenze diverse sull’attività degli utenti di Twitter:

  • Cambiamenti nelle ore di luce solare (no jet-lag sociale);
  • Cambiamenti legati al calendario della routine quotidiana sociale e non degli utenti (jet-lag sociale).

Gli autori hanno riscontrato che i momenti di bassa attività su Twitter coincidevano con le ore notturne di sonno, ma che tali momenti si spostavano in ore più tarde nei week-end rispetto ai giorni lavorativi. Questo spostamento è stato il primo segnale riscontrato di jet-lag socialmente indotto riscontrato dai ricercatori.

Inoltre Leypunskiy e gli altri autori hanno riscontrato che i cambiamenti nell’attività degli utenti di Twitter sullo stesso social network seguiva dei pattern ben precisi: quelli del calendario “sociale”, ovvero quello degli impegni lavorativi degli utenti. I ricercatori hanno trovato che, indipendentemente dal numero di ore di luce mensili, gli utenti utilizzavano Twitter più o meno sempre allo stesso orario, e pertanto il picco massimo di jet-lag sociale è stato riscontrato in Febbraio (mese nel quale le ore di luce sono poche) e quello minimo in Giugno e Luglio (mesi con molte ore di luce).

Conclusioni finali

Come già affermato in precedenza, la mancata coincidenza del nostro orologio biologico, che ci imporrebbe di dormire di più nei mesi con meno ore di luce, con la nostra routine quotidiana porta a numerosi problemi di salute.

Grazie a questo studio pertanto è possibile identificare e profilare le persone che possono soffrire di jet-lag sociale. In studi futuri potrebbe essere studiato un modo di utilizzare queste informazioni per riuscire a prevenire il jet-lag sociale ed i problemi che ne conseguono.

The Mac Approach: oltre il mental training tradizionale

Gran parte degli interventi di Psicologia dello Sport e in generale nell’incremento della prestazione, si basano ancor oggi su un assunto: è necessario allenarsi per migliorare la padronanza di singole abilità (Meichenbaum, 1977). Verso la fine degli anni 90 però si è fatto strada un nuovo approccio..

Alberto Fistarollo – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cogntiva e Ricerca Mestre

 

Un percorso di mental training tradizionale è infatti fondamentalmente basato sul potenziamento di specifiche abilità (skills training): formulazione di obiettivi, tecniche di rilassamento, imagery, gestione dei pensieri, self-talk, controllo dell’arousal, routines ecc… Un approccio, quindi, finalizzato al controllo di stati interiori come pensieri, emozioni e sensazioni, con l’obiettivo di raggiungere uno stato ideale di prestazione (Whelan, Mahoney & Meyers, 1991).

Questo approccio, diffusosi ormai dagli anni ’70, è stato il caposaldo della Psicologia dello Sport per più di trent’anni, senza sostanzialmente mai essere messo in discussione.

Mental training: perché funzionava nello sport

Verso la fine degli anni ’90, fino ad arrivare ai tempi d’oggi, la Psicologia dello Sport (come del resto la Psicologia Clinica) si è sempre maggiormente avvalsa di un approccio evidence-based, utilizzando i criteri della moderna ricerca. Questo tipo di visione, maggiormente scientifica e perciò maggiormente influenzata dalle nuove scoperte, ha fatto sì che non fosse più concepibile accettare acriticamente modelli di mental training dati per assodati. Inoltre, un atleta di trent’anni fa, molto probabilmente, viveva in un mondo diverso, si allenava in un modo diverso e manifestava bisogni diversi rispetto a un atleta odierno.

Non sempre il paragone tra psicologia e medicina è appropriato, ma in questo caso può risultare utile: sarebbe scientificamente corretto effettuare una ricostruzione di un legamento di un ginocchio con tecniche antiquate, quando se ne possiedono di migliori e che dimostrano un’efficacia migliore? In un certo senso, questo è quello che Frank Gardner e Zella Moore si sono chiesti nell’ambito della Psicologia dello Sport.

La loro ricerca nasce da una semplice domanda: Ci sono evidenze che le tecniche che stiamo utilizzando funzionino? Con chi, ma soprattutto perché?. La risposta, a seguito dell’enorme lavoro di review qualitativa e anti-meta-analisi svolto (Moore, 2003b, Gardner & Moore, 2006), è stata “no”.

Questo non significa che il mental training tradizionale non funzioni in assoluto, poiché, come affermò anche Carl Sagan, l’assenza di prove non è la prova dell’assenza. Ciò che è chiaro, però, è che il mental training tradizionale non è sostenuto da prove empiriche, scientificamente condotte, di efficacia. In sostanza, non possiamo dire con certezza che funzioni.

Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato come un’attenzione rivolta a sé (self-focused attention), con il tentativo di controllare o sopprimere stati indesiderati (ovverosia una delle finalità del classico psychological skills training), porti a esiti paradossali, aumentando la percezione degli stessi o addirittura a favorire l’insorgere di altre emozioni e pensieri non desiderati (Purdon, 1999; Wegner, 1994; Clark, Ball & Pape, 1991). Al contrario, un’attenzione focalizzata sul compito (task-focused attention), e dunque non su di sé, risulta più funzionale alla prestazione (Barlow, 2002; Gardner & Moore, 2001; Rapee & Lim, 1992; Sbrocco & Barlow, 1996; Stopa & Clark, 1993).

Il lavoro dei due autori venne inizialmente osteggiato, principalmente per il solito fraintendimento: confondere correlazione con causalità. A tal proposito, quando frequentai il loro seminario, la dott.ssa Moore ci raccontò un episodio: durante un convegno, in cui lei e il dott. Gardner stavano presentando i risultati della loro review, dal pubblico (piuttosto infastidito dalle loro conclusioni) si alzò una collega, affermando: “Mi scusi, voi dite che non ci sono prove che il mental training tradizionale funzioni…. Però Michael Jordan, il più grande giocatore di basket della storia, utilizzava la visualizzazione!”; una provocazione, alla quale la dott.ssa Moore rispose: “Sì, allo stesso modo in cui indossava i pantaloncini lunghi fino al ginocchio!”. Correlazione, non causalità.

Mindfulness e ACT al posto del mental training

In seguito alla loro spiazzante review, i due autori decisero di porre le basi per nuovi interventi. Iniziarono chiedendosi quali dovessero essere gli obiettivi degli interventi in Psicologia dello Sport e se ci fossero approcci più recenti e teoricamente più validi a cui attingere.

Le loro conclusioni furono sostanzialmente due:

  • 1- La Psicologia dello Sport ha sempre artificialmente separato l’aspetto del benessere da quello della prestazione, quando è evidente come uno influenzi l’altro.
  • 2- Un approccio basato sulla mindfulness e sull’Accettazione, che ha già mostrato efficacia in ambito clinico, sembra essere verosimilmente più efficace per il benessere e la prestazione dell’atleta, per le seguenti ragioni:
    • gli approcci basati sulla mindfulness e sull’act si stanno rapidamente evolvendo in ambito clinico e di ricerca, dimostrandosi efficaci
    • la particolare enfasi di questi approcci sulla concentrazione nel momento presente, e l’accettazione/tolleranza di pensieri, emozioni e sintomi fisiologici
    • l’importanza posta nel prestare attenzione e rispondere agli stimoli esterni, selezionando quelli utili alla prestazione

Mindfulness-Acceptance-Commitment Approach (ACT) per lo Sport

Queste riflessioni, suscitate in particolare dall’integrazione tra psicologia clinica e psicologia della performance (Clinical Sport Psychology), hanno portato ad avere una nuova visione di atleta, più vicina a quella di essere umano e sviluppare nel tempo uno specifico protocollo di intervento, The Mindfulness-Acceptance-Commitment Approach (MAC).

Il primo passo, relativo alla fondazione della Clinical Sport Psychology (Gardner & Moore, 2006), riflette sul fatto che l’atleta, prima di essere atleta, è anche una persona. Di conseguenza ha una propria personalità, delle proprie motivazioni, dei propri stati emotivi e cognitivi; inoltre, non è immune da problematiche di sviluppo, di salute, interpersonali e sociali. Proprio per questo, anche gli atleti devono essere considerati globalmente come individui.

La Clinical Sport Psychology integra di conseguenza la ricerca in Psicologia dello Sport con quella più prettamente clinica, attingendo dalla ricerca in vari ambiti: sviluppo, sociale, cognitiva, dell’apprendimento, delle neuroscienze e della prestazione. Questo nuovo orientamento ha portato gli autori a elaborare una classificazione multi-livello, utile alla concettualizzazione del caso, in un continuum di 4 categorie (Multi-Level Classification System for Sport Psychology – MCS-SP): performance development, performance dysfuntion, performance impairment e performance termination.

MAC Approach per sport e prestazioni

Il MAC è un protocollo di intervento basato sulle ricerche dei due autori. E’ utilizzabile sia individualmente che in gruppo, con il fine ultimo di potenziare sia la prestazione sportiva che il benessere degli atleti, coerentemente con il razionale della Clinical Sport Psychology. Trae spunto dalla ricerca clinica, utilizzando pratiche di mindfulness assieme ad aspetti psico-educativi e tecniche esperienziali tratte principalmente dall’Acceptance and Commitment Therapy (ACT).

Secondo le ricerche svolte finora, l’approccio MAC è risultato molto efficace, più efficace rispetto alle comuni procedure di psychological skills training (Gross, Moore et al, 2017).

Il MAC è stato ideato secondo tre obiettivi funzionali. Il primo è quello che gli autori chiamano meta-consapevolezza (meta-awareness), ovvero una maggior consapevolezza nel momento presente rispetto agli stimoli interni ed esterni (pensieri, emozioni, sensazioni, eventi, situazioni…).

Il secondo obiettivo è incrementare l’attenzione, intesa come la capacità di dirigere e mantenere il focus attentivo nei confronti degli stimoli rilevanti per il compito.

Il terzo obiettivo è quello del decentramento/defusione, la capacità di osservare con distacco i propri pensieri, emozioni e sensazioni come eventi passeggeri, i quali forniscono informazioni ma ai quali non è strettamente necessario reagire o tentare di controllarli.

Tali obiettivi sono finalizzati all’instaurarsi di specifici meccanismi d’azione, determinanti per una prestazione ottimale e al contempo per il benessere dell’atleta:

  • Incrementare la regolazione emotiva (non il controllo emotivo) tramite l’accettazione e il decentramento.
  • Incrementare il funzionamento esecutivo attraverso una maggior consapevolezza e attenzione.
  • Favorire un comportamento impegnato, indirizzato al compito, al servizio di obiettivi e valori personali.

Il protocollo è suddiviso in 7 moduli, o unità di apprendimento, secondo un ordine gerarchico; è dunque necessario accertarsi che l’atleta abbia padronanza di un modulo per poter passare al successivo.

Ogni modulo è flessibile per tempo di completamento, in base al contesto (es. un determinato numero di sessioni richieste) e alle esigenze degli atleti. Alcuni moduli richiedono talvolta più di una singola sessione per essere completati; nella mia esperienza, talvolta sono serviti anche 12 incontri per completare l’intero percorso.

All’interno di ciascun modulo solitamente sono presenti: un esercizio di centratura o una pratica di mindfulness; la revisione dei compiti per casa; una parte psicoeducativa finalizzata all’introduzione di un tema e la relativa discussione con l’atleta; la compilazione di alcune schede su un argomento specifico, che coinvolgano l’esperienza del atleta; alcuni esercizi esperienziali; la compilazione della scheda finale “cosa ho imparato?” per riassumere i temi dell’incontro e verificare quanto sia stato appreso dall’atleta.

Per comprendere meglio cosa accada concretamente negli incontri con gli atleti durante il MAC Approach, vediamo in estrema sintesi ciascun modulo:

MAC Approach per lo sport – Modulo 1

  • Scopo dell’intervento – condividere con l’atleta le finalità del percorso.
  • Razionale teorico del MAC – fase molto importante di psicoeducazione, in cui si spiega all’atleta com’è composto il protocollo e su quali presupposti teorici è fondato.
  • Discutere l’importanza e la rilevanza della regolazione delle emozioni (valori vs. emozioni), del funzionamento esecutivo (self-focused vs. task-focused) e del comportamento impegnato nelle prestazioni ottimali – si condividono con l’atleta i presupposti di una prestazione efficace, in particolare l’importanza di un comportamento basato sui propri valori piuttosto che sulle proprie emozioni (le quali possono essere disfunzionali relativamente agli scopi di prestazione) e la differenza tra un funzionamento centrato su di sé e centrato invece sul compito da eseguire.
  • Scheda di valutazione della prestazione – viene chiesto di compilare una scheda in cui si evidenzino i principali fattori che hanno ostacolato finora il raggiungimento della prestazione ottimale.
  • Introdurre l’esercizio di centratura – una pratica di mindfulness utile a mostrare all’atleta la sua capacità di focalizzare l’attenzione e rimanere nel momento presente. Verrà chiesto di svolgerla per casa per potenziare questa capacità.
  • Compilazione della scheda «Cosa ho imparato»? – si chiede all’atleta di scrivere cos’ha compreso e imparato nel primo incontro.

MAC Approach per lo sport – Modulo 2

  • Esercizio di centratura breve
  • Rispondere alle domande dell’atleta sulla sessione precedente
    Introduzione alla defusione cognitiva e mindfulness, discussione – si condivide con l’atleta il concetto di defusione cognitiva, in sostanza la capacità di notare i pensieri per quello che sono: fenomeni passeggeri della mente (non sempre veri e non sempre utili) e non fatti ai quali è necessario reagire; inoltre, si affronta il tema della mindfulness, intesa come porre attenzione volontaria al momento presente, in modo non giudicante.
  • Spiegare l’esercizio del lavare un piatto da completare tra una sessione e l’altra – un esercizio di pratica informale di mindfulness, in cui si chiede all’atleta di lavare un piatto cercando di rimanere focalizzato su questa attività e di riportare l’attenzione lì ogniqualvolta la mente inizi a vagare.
  • Esercizio di centratura breve
  • Compilazione della scheda «Cosa ho imparato»?

MAC Approach per lo sport – Modulo 3

  • Esercizio di centratura breve
  • Rispondere alle domande della sessione precedente e discutere dell’esercizio lavare un piatto
  • Discussione ed esplorazione del concetto di valore (comportamento guidato dai valori vs. comportamenti guidati da emozioni) – discussione sul tema dei valori, intesi come ciò che davvero conta per l’atleta nello svolgere l’attività sportiva (o lavorativa). Ci si sofferma nuovamente sulla differenza tra un comportamento guidato dalle emozioni provate al momento e un comportamento invece guidato dai valori personali.
  • Compilazione della scheda «Performance obituary» (Come vorrei essere ricordato?) – un esercizio utile a far emergere quali siano i valori principali dell’atleta e come guidare il proprio comportamento in tale direzione.
  • Assegnare ulteriori attività consapevoli tra le sessioni e consegnare la scheda dei “Valori nella prestazione” ed “Evitamento causato dalle emozioni” – si assegnano altre pratiche informali come compito per casa, simili all’esercizio di Lavare un piatto. Si consegnano, o si compilano durante l’incontro, due schede: una riguardante i valori personali, l’altra in cui evidenziare come le emozioni interferiscano con la prestazione, in particolare quando diventano causa di un comportamento evitante.
  • Introduzione all’esercizio Mindfulness of the Breath – pratica di mindfulness che consiste sostanzialmente nel focalizzare l’attenzione sul respiro e riportarla lì ogni volta che ci si accorge di essersi distratti.

MAC Approach per lo sport – Modulo 4

  • Esercizio Mindfulness of Breath
  • Rispondere alle domande sulle sessioni precedenti e rivedere le attività tra le sessioni
  • Discutere il concetto di accettazione come alternativa all’evitamento e il legame tra impegno e comportamento connesso ai propri valori – in una prospettiva tipicamente ACT, si illustra all’atleta una modalità alternativa di affrontare le emozioni, tramite l’accettazione; si sottolinea che non sono le emozioni a essere disfunzionali per la prestazione, ma il tentativo di controllarle. L’altro aspetto di discussione è quello del Commitment, impegno, inteso come scelta e volontà di agire in maniera coerente ai propri valori, imparando allo stesso tempo a tollerare gli stati interiori spiacevoli; questo atteggiamento viene promosso perché più funzionale al compito.
  • Estendere attività consapevoli tra le sessioni
  • Esercizio di centratura breve

MAC Approach per lo sport – Modulo 5

  • Seeing exercise – un esercizio di focalizzazione dell’attenzione che consiste nell’osservare un oggetto in maniera obiettiva e non giudicante.
  • Rispondere alle domande e rivedere la sessione precedente e gli esercizi tra le sessioni
  • Discutere la connessione tra consapevolezza dei pensieri e delle emozioni, valori personali e comportamento – si ripercorrono i temi trattati fino a questo punto, sottolineando come sia funzionale considerare e trattare i nostri pensieri e le nostre emozioni come qualcosa a cui non siamo obbligati a reagire, che non devono necessariamente guidare il nostro comportamento, ma come fenomeni transitori da osservare e accettare. E’ più utile invece che le nostre azioni siano guidate dai valori, da ciò che per noi conta a lungo termine.
  • Compilazione scheda «Impegnarsi per i propri valori» – una scheda utile a evidenziare le azioni concrete, in ambiti concreti, che l’atleta può effettuare in linea con i propri valori.
  • Assegnare attività di consapevolezza attinenti alla prestazione – vengono scelte delle attività di pratica informale, però collegate alla prestazione (es. effettuare lo stretching o il riscaldamento in maniera consapevole, focalizzando l’attenzione sul momento presente).
  • Esercizio di centratura breve

MAC Approach per lo sport – Modulo 6

  • Pratica di Mindfulness
  • Rivedere le sessioni precedenti e le attività tra le sessioni
    Task-focused exercise – un esercizio in cui si chiede all’atleta di prestare attenzione a un racconto, chiedendogli poi di ricordarne i dettagli. Si ripete l’esercizio, sottoponendolo a condizioni via via più stressanti (es. immaginando vividamente di essere in gara), per fargli comprendere e sperimentare l’importanza di riuscire a dirigere l’attenzione sul compito (stare attento al brano) invece che sul sé (la propria ansia, le proprie sensazioni corporee, ecc…).
  • Stabilire attività tra le sessioni per affrontare in modo specifico l’evitamento esperienziale – organizzare modalità concrete, calate nella realtà dell’atleta, di accettazione dell’esperienza emotiva come alternativa all’evitamento.
  • Riesaminare e assegnare esercizi di consapevolezza attinenti alla performance
  • Esercizio di centratura breve

MAC Approach per lo sport – Modulo 7

  • Esercizio di centratura breve
  • Rivedere la sessione precedente e il programma MAC generale – si cerca di ripercorrere l’intero protocollo, per rinforzare l’effetto psicoeducativo e discutere eventuali punti non chiari all’atleta
  • Task-focused exercise
  • Discutere il livello attuale di accettazione esperienziale, disponibilità e impegno nei confronti dei valori – si riassumono e verificano gli elementi sui quali si è lavorato nelle ultime sessioni, cercando di verificarne l’efficacia concreta nell’attività dell’atleta.
  • Pianificare pratiche future, auto-riflessione e autocorrezione – si programma assieme come procedere, su quali attività insistere maggiormente e su quali aspetti si possa ancora migliorare. E’ utile predisporre già un follow-up.

Per concludere, il MAC Approach è qualcosa di molto diverso rispetto al mental training tradizionale. Da un certo punto di vista è quasi più semplice da condurre, poiché si concentra su abilità che l’atleta in qualche misura già possiede (attenzione, consapevolezza, accettazione, valori, impegno…). Non è necessario apprendere alcuna skill specifica, non si aggiunge alcunché, non chiediamo all’atleta di fare qualcosa di concretamente diverso durante la sua prestazione.

Da un altro punto di vista, però, il percorso può apparire più complesso, paradossalmente per lo stesso motivo. L’atleta, quando richiede una consulenza, lo fa spesso portando con sé delle teorie naif riguardanti l’allenamento mentale: ritiene che sia necessario fare qualcosa o aggiungere qualcosa alla sua preparazione. Può risultare complicato trasmettere il fatto che il protocollo invece funzioni in buona parte per sottrazione (poiché, per semplificare, sottrae quell’eccessivo lavorio cognitivo che tende a interferire con la prestazione). La fase di psicoeducazione è quindi fondamentale, e va monitorata lungo tutto il percorso; potremmo risultare ripetitivi e noiosi a noi stessi, ma dobbiamo sempre assicurarci che l’atleta comprenda cosa proponiamo ma soprattutto perché lo proponiamo.

Inoltre, credo sia particolarmente importante che lo psicologo abbia già una conoscenza teorica dell’Acceptance Commitment Therapy per affrontare correttamente il MAC; mentre lo traducevo, infatti, ho potuto riscontrarne la notevole complessità, frutto del grande lavoro teorico, di ricerca e meta-analisi svolto dagli autori. L’intero percorso richiede che lo psicologo abbia una solida conoscenza del razionale alla base del MAC (di cui molto deriva principalmente dall’ACT e in parte dalla MCT), in maniera da saperlo trasmettere all’atleta con semplicità. Non è infatti un approccio immediatamente fruibile, con sedute rigidamente strutturate e un protocollo guidato da svolgere punto per punto; è invece un percorso di consapevolezza, in cui lo psicologo guida l’atleta, in un continuo confronto tra teoria ed esperienza, a conoscere il proprio funzionamento e incrementarne l’efficacia secondo una prospettiva inedita.

Infine, secondo Gardner e Moore, il MAC Approach non è indicato solamente per gli atleti, ma per chiunque voglia migliorare la propria efficienza. Gli stessi autori ci hanno raccontato di averne riscontrato l’efficacia con categorie inusuali (es. i chirurghi) e io stesso l’ho proposto anche in ambito aziendale. Quale tipo di prestazione infatti non migliorerebbe grazie a una maggiore capacità di concentrazione, un funzionamento esecutivo più focalizzato sul compito, una maggiore tolleranza nei confronti degli stati emotivi negativi e un comportamento impegnato verso i propri obiettivi?

Adulti e bambini: le interazioni che gratificano

Il diventare genitori presuppone una serie di sconvolgimenti all’interno della coppia, una coppia motivata al prendersi cura del bambino. Le neuroscienze spiegano tale motivazione al caregiving, mediante l’osservazione delle aree cerebrali che si attivano in risposta all’ interazione dell’adulto con l’infante.

 

I mestieri più difficili in assoluto sono nell’ ordine
il genitore, l’insegnante e lo psicologo.
(Sigmund Freud)

Sistema di gratificazione: molto prima, Freud e Winnicot

Sigmund Freud annovera tra i mestieri più complicati l’essere genitori, la famiglia come primo agente educativo di ogni individuo. Il ruolo svolto dal genitore è determinante soprattutto nei primi anni di vita del bambino, la cui immaturità fisica e psichica rende necessario il supporto da parte di un adulto. Un adulto a cui tocca riorganizzare la sua quotidianità intorno ai ritmi del neonato, ritrovandosi a trascorrere non di rado notti insonni o ad adoperarsi per consolare i pianti del bambino che nei primi mesi costituiscono l’unico suo canale di comunicazione. L’essere genitori è senza dubbio una funzione complessa e stressante, ma resta alta la motivazione dell’adulto nell’accudimento dell’infante.

Winnicott definisce lo stato mentale della madre “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1956), una “malattia normale”, che nell’ultimo periodo di gravidanza e le prime settimane di vita del bambino la porta ad abbandonare se stessa e l’interesse per il mondo a favore del bambino: nel migliore dei casi, la mamma è lì pronta a rispondere ai bisogni dell’infante. Funzione facilitata dal padre che protegge la diade e consente alla madre di dedicarsi completamente al bambino (Winnicott, 1945).

Sistema di gratificazione: le intuizioni di Lorenz

Il neonato nasce con caratteristiche funzionali e strutturali che hanno da sempre elicitato una risposta immediata da parte dell’adulto (Caria et al., 2012). Già l’etologo Konrad Lorenz aveva individuato aspetti particolarmente attrattivi nella fisionomia dell’infante, il “Kindchenschema” (schema infantile): una fronte sporgente, una testa grande rispetto al resto del corpo, grandi occhi, guance rotonde (Lorenz, 1943), che Lorenz stesso definì “Stimoli d’innesco” della vicinanza e cura dell’adulto (Lorenz, 1971). Un adulto motivato ad esercitare la sua funzione di caregiver (Bornstein, 2002). La propensione dell’adulto al caregiving, e lo stato di completa dipendenza che caratterizza il cucciolo di umano, hanno fatto supporre l’esistenza di processi biologicamente programmati collegati a tali comportamenti (Plutchik, 1987; Seifritz, Esposito, Neuhoff, Luthi e Mustovic, 2003). Mediante le tecniche di neuroimaging, diversi autori hanno studiato se a livello neurale le risposte agli stimoli infantili fossero specifiche e generalizzate. Alcuni autori, ad esempio, hanno osservato un’attivazione del sistema meso-cortico-limbico, il sistema di gratificazione, in risposta al Kindchenschema. (Glocker et al., 2009).

Sistema di gratificazione: cosa accade nel cervello di un adulto che cura un neonato

In particolare, gli autori hanno osservato che in risposta ai volti infantili nel cervello di maschi e femmine si attivano la corteccia cingolata anteriore (ACC), coinvolta nella presa di decisione basata sulla gratificazione (Rushworth, Behrens, Rudebeck e Walton, 2007); il precuneo (PCu), associato all’attenzione (Le, Pardo e Hu, 1998); il giro fusiforme (FG), implicato nella percezione dei volti (Grill-Spector, Knouf, e Kanwisher, 2004) e il Nucleus accumbens (NAcc) associato all’anticipazione della gratificazione (O’Doherty, 2004).

L’interazione dell’adulto con il neonato è dunque associata all’attivazione cerebrale del sistema della gratificazione, sistema collegato a gran parte dei comportamenti utili alla sopravvivenza della specie; la sensazione di benessere che ne consegue funge da ricompensa motivandone la riproposizione futura. Inoltre, è lo stesso sistema alla base di quei comportamenti che creano dipendenza, come ad esempio l’assunzione di droghe.

Peccati Capitali e Psicopatologia: quali peccati per quali disturbi?

Accidia, Lussuria, Gola, Avarizia, Ira, Superbia e Invidia.. chi non conosce i sette peccati capitali e non è incappato in almeno un paio di questi nell’arco della propria vita? Quello che vi proponiamo è un divertente viaggio all’interno della psicopatologia alla ricerca di analogie e differenze tra peccati capitali e alcuni tra i principali disturbi.

 

La recente visione di “Seven”, un film del 1995 di David Fincher (con un cast stellare e la visita a Padova alla cappella degli Scrovegni con il ciclo di Giotto) mi ha spinto a cercare nella psicopatologia dove abbiano fatto la tana i sette peccati capitali, definiti tali perché secondo la tradizione cattolica da essi derivano come conseguenza tutti gli altri e le sofferenze degli esseri umani (sto pensando di trasformare la seconda “C” di SITCC in Cattolica approfittando della scomparsa degli ultimi comportamentisti, ma il progetto va per le lunghe in quanto Roberto Mosticoni gode di ottima salute).

L’accidia

Subito mi sono “amminchiato” come direbbe Montalbano “sull’ accidia”, che è tra i sette la meno riconosciuta forse proprio perché sta diventando così diffusa che la si considera normale e talvolta persino meritoria. È interessante che molti non sappiano neppure cosa sia e la confondano, per un problema di assonanza, con l’invidia o con l’inedia che non è neppure un peccato, tanto meno capitale, ma semplicemente la fame nera con il torpore che vi si associa prima di raggiungere il creatore. Un altro motivo per scegliere di partire dall’accidia è che io ne sono il prototipo vivente e dunque al giudizio finale potrò chiedere le attenuanti generiche sostenendo che me ne stavo occupando, come sempre solo a chiacchiere e pensierini, per risolverla o perlomeno mitigarla. Si tratta in realtà di una profonda avversione all’operare che la fa spesso scambiare per semplice pigrizia o indolenza, ma la cui caratteristica interiore fondamentale è l’indifferenza con il lento sprofondare nel torpore e nella noia. Nulla tocca l’ accidioso, tutto gli rimbalza addosso, niente lo tange, è distaccato da ogni cosa, non si cura di nulla, è molto vicino alla pax cadaverica, non soffre e non gode. L’ accidioso forse per paura di soffrire, incapacità o codardia, evita le passioni, si ritira e spreca la vita. L’ accidioso è un nemico del fare, sempre pronto a scendere in campo criticamente contro chi fa, anche con la derisione. Non ha voglie, desideri, slanci: mescola in cocktail venefico che uccide lentamente senza spasmi o sobbalzi noia e indifferenza, cinismo e distacco. Tutto ciò è anche un modo arrogante e sprezzante di prendere le distanze dagli altri tipico del narcisismo.

L’ accidia è un grave male sociale i cui nefasti effetti si sono fatti drammatici nel secolo breve. Tale atteggiamento è ben descritto nel sermone del pastore Niemoller ripreso da Brecht che recita

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

L’ accidia non è semplice pigrizia ma soprattutto disinteresse, un velo opaco che distanzia e rende ogni cosa sopportabile ma superflua, inutile, insensata e fa sentire spenti, vuoti, senza energie. Oppure, all’opposto, in questo vuoto di significati profondi risulta impossibile fermarsi, restare in silenzio senza qualcosa da compiere e a cui pensare, un fare che diventa un affaccendarsi ascopico.

“Accidia” significa letteralmente debolezza dell’anima che si manifesta come assenza di attrazione, di desiderio di vita, perché considerata priva di senso. Sotto questo punto di vista, l’ accidia è molto affine alla depressione psicologica, il «male oscuro», molto diffuso nelle odierne società occidentali. L’ accidia non coincide tuttavia con la depressione, perché può essere vissuta con umore euforico, attivo e operoso. Ciò che ne definisce l’essenza non è tanto la passività o l’attivismo quanto piuttosto il disinvestimento libidico sul mondo e sugli altri.

Alcuni passi biblici ben descrivono lo stato d’animo accidioso:

Presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. (Qo 2,17)

Una tristezza straziante e diffusa nei confronti della pesantezza del vivere viene espressa in modo lucido e folgorante dal libro di Giobbe o dal profeta Geremia. In estrema sintesi la filosofia dell’accidioso è espressa nelle famose parole di Qoelet (l’ecclesiaste) quando dice

Vacuità delle vacuità, tutto è vacuità.

e dunque a che vale impegnarsi?

Accidia intesa come ripiegamento narcisistico

L’ accidia consiste in un ripiegamento narcisistico su se stessi sprezzante per tutto il resto e sembra essere la conseguenza più evidente di una cultura e mentalità egocentrica, che fa di se stessi il centro di tutto. Dietro l’apparente superiorità che sembra collocare l’ accidioso in uno stato di serena contemplazione dell’affaccendarsi degli altri umani per le vicende quotidiane che a lui sembrano poca cosa, c’è la paura di misurarsi con le cose e con gli altri per non dover fare i conti con la propria temuta impotenza. Finge, con se stesso prima di tutto, che nessun gioco gli interessi perché è certo di perdere. Preferisce la morte interiore al rischio di vivere. È naturalmente un conservatore che si esime in tutti i modi dal modificare il corso degli eventi, lascia correre, non si impegna in nulla, tutto accetta e tutto giustifica ma non per l’amore che San Paolo esalta con parole analoghe nell’inno all’amore, ma per totale indifferenza. Emotivamente sperimenta apatia e assoluta anedonia, che si esprime comportamentalmente con un astensionismo militante a protezione della fragilità dell’autostima potendo sempre dirsi “se mi fosse interessato…, se davvero avessi voluto e mi fossi impegnato…”.

Manifestazioni dell’ accidia si possono trovare in molti quadri psicopatologici trattandosi di una strategia del disimpegno buona per molti diversi problemi, ma certamente la sua casa madre è nell’area della depressione da fallimento narcisistico.

L’ accidia è culturalmente un tratto che si ritrova in popolazioni che sono state lungamente abituate ad essere suddite di un potere assoluto e incontrastato e i romani inventori del “chissenefrega” e del più rude “e sti c….” ne sono il prototipo, abituati al dominio dell’imperatore prima e del papato poi, sono diventati degli abilissimi imperturbabili incassatori consapevoli che “tanto tutto passa”. All’estremo opposto ci sono quelli che possiamo genericamente definire “talebani”. Il talebano prende tutto maledettamente sul serio. Fa le cose fino in fondo, ci crede veramente. È tutto d’un pezzo. Non scherza mai con le cose serie, che per lui sono tutte. Se è di sinistra farà il brigatista. Se è cattolico si accoppia solo secondo le indicazioni vaticane. Se ha un vizietto diventa drogato all’ultimo stadio e poi convertitosi farà l’operatore nelle comunità per tossici più intransigenti e severe. Non è uomo dalle mezze misure. È sempre in buona fede ed in nome di ciò può commettere i crimini più orrendi a posto con la sua coscienza. È geneticamente un estremista e un intollerante. Applica ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione e fa parte di gruppuscoli estremisti che hanno vaste categorie di cibi vietati. Il rigore è elemento essenziale quale che sia la scelta in questione. Il romano accidioso se ne frega, non prende niente sul serio. È incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppe, ha una saggezza da sampietrino e lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè. L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio, lo sdegno sprezzante e l’indignazione rabbiosa. Il romano misura le sue scelte operative in termini di fatica che costano e la regola decisionale è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano, ma in compenso non rompe le palle agli altri “vive e lascia vivere”. Si badi che il romano non è qui inteso come abitante di Roma, ma è una categoria dello spirito, l’ accidia appunto. Tuttavia è innegabile che l’amministrazione pubblica sia il suo habitat naturale per cui innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una elementare o l’usciere al ministero.

Una possibile strategia di intervento sull’ accidioso, peraltro del tutto non richiesto dall’interessato immotivato e ostile al cambiamento, è la rappresentazione della ineluttabilità della morte (talvolta casuali esperienze di morte sfiorata o decretata imminente possono da sole risolvere l’ accidia ma purtroppo troppo tardi: il desiderio di vivere si risveglia ad agonia già iniziata).

Possono essere molto utili i classici compiti dell’ACT per l’identificazione dei valori per cui vivere e quelli che lo fanno confrontare appunto con la brevità dell’esistenza e l’eternità del nulla. Intorno al suo letto di morte pochi o assenti saranno i rimorsi, e non riusciranno a farsi largo tra la folla dei rimpianti che lo accompagneranno alla tomba sulla cui lapide saranno scritte le due date senza nulla in mezzo.

Lussuria, Gola e Avarizia

Se l’ accidia è riducibile ad un estremo ritiro dell’investimento libidico sulle cose del mondo, all’estremo opposto di essa si pongono la lussuria, la gola e l’ avarizia che sono un tentativo smodato e insaziabile di appropriarsene per godere appieno di tutte le risorse disponibili. Il piacere del cibo serve a mantenere sempre attivo lo scopo di alimentarsi strettamente connesso con la sopravvivenza individuale già nel primitivo cervello rettiliano. Il piacere associato alla sessualità è a sua volta connesso allo scopo della riproduzione e a tutto il sistema motivazionale interpersonale sessuale presente nel lobo limbico del cervello dei mammiferi. Infine l’avarizia (che deriva dal greco “avidus”) consiste nell’accumulo di risorse non immediatamente necessarie è interpretabile come una strategia generale preventiva della carenza di risorse e dunque finalizzata anch’essa alla sopravvivenza. Dunque queste tre attività (consumare cibo, accoppiarsi e accumulare risorse) sono tutte importanti per la sopravvivenza individuale e della specie e come tali sono state associate ad emozioni positive e ad intenso piacere (se da un architetto intelligente come credono alcuni o dall’evoluzione non ha in questo contesto importanza) in modo che non fossero dimenticate e trascurate dai singoli individui, per cui un loro esercizio non ha nulla di patologico. I problemi si pongono quando tali automatismi istintuali (limbici o rettiliani) vengono valutati dal superiore livello corticale, che interviene secondo scopi propri e interferisce con il loro naturale fluido automatismo.

Ad esempio tutte e tre queste attività finiscono per convergere e attivare il centro del piacere (*nota 1) che incentiva qualsiasi attività, che lo stimola cercando di reiterarla il più possibile. Andiamo costantemente alla ricerca di ciò che ha stimolato anche una volta soltanto il nostro centro del piacere che modula a tale scopo la motivazione e l’apprendimento. Il piacere provato diventa la ricompensa che ci spinge a ripetere all’infinito il comportamento senza un meccanismo di arresto. Insomma per dirla in altri termini, il piacere che era un effetto collaterale del perseguimento di scopi evolutivamente utili diventa a sua volta il principale motivatore del comportamento stesso (si inizia perché serve e si continua perché piace). Si istaura una vera e propria dipendenza dalla ricompensa ed è il piacere in sé ad essere ricercato anche quando gli scopi della sopravvivenza e della riproduzione sono stati raggiunti o non sono affatto in gioco. Le ricompense primarie sono quelle connesse con la sopravvivenza individuale (ad es. il cibo) o della specie (il piacere sessuale e negli investimenti parentali di cura della prole) sono intrinsecamente piacevoli e non necessitano di apprendimento. Le ricompense estrinseche (ad esempio il denaro e gli altri beni coinvolti nell’avarizia) acquistano il loro valore motivazionale per una associazione indotta (condizionata) con le precedenti ricompense intrinseche (ad esempio: chi è più ricco mangia meglio e ha più partner). Tutte le ricompense producono apprendimento associativo (cioè condizionamento classico e rinforzo operante), influenzano il processo decisionale orientandolo alla ricerca degli stimoli gratificanti, suscitano emozioni positive ed in particolare piacere intenso.

Questi meccanismi sono alla base di tutti i fenomeni di dipendenza o “addict” che si ritrovano in molte patologie e vanno continuamente espandendosi con nuove dipendenze (si pensi a quelle legate all’uso del web), perché tutto ciò che è in grado di stimolare i circuiti del piacere è potenzialmente capace di dare una dipendenza autorinforzantesi e perdendo di vista gli scopi ai quali era originariamente indirizzato il comportamento. Tutte queste dipendenze che si celano dietro il termine classico di “gola”, “lussuria” e “avarizia”, non ci interessano in questa sede in quanto peccati dal punto di vista morale, ma come generatori di sofferenza per il loro meccanismo intrinseco di insaziabilità. Non c’è un meccanismo di “stop”, il vissuto soggettivo è che non basti mai e dunque si sperimenta una sensazione crescente di mancanza e si subiscono i danni degli effetti collaterali individuali e sociali.

L’interferenza dei livelli corticali superiori non si limita soltanto all’area delle dipendenze e del discontrollo degli impulsi ma si può manifestare anche in altri modi. Come quando il comportamento alimentare viene disturbato perché su di esso si giocano altre sfide relazionali, ad esempio con i genitori o sfide del tutto individuali riguardanti il controllo onnipotente sui propri istinti. Per non parlare del fatto che sulla potenza sessuale e sulla ricchezza interferiscono pesantemente temi di identità, valore personale e di rango sociale. Le ricompense intrinseche ed estrinseche ci guidano seguendo l’itinerario del piacere verso la sopravvivenza individuale e la proliferazione della specie.

L’ira

Ma cosa avviene quando lungo questo cammino si incontra un ostacolo? Ci viene in soccorso un altro dei cosiddetti peccati capitali. L’ira è forse il primo dei peccati capitali di cui si sente parlare a scuola in riferimento al più noto di tutti i supereroi di sempre, il “piè veloce Achille” che avendo litigato con Agamennone, guarda caso, per via di una donna (un’altra dopo l’Elena che era stata la causa per cui da 10 anni gli achei assediavano Troia), la schiava Briseide, si rifiuta di andare a combattere sbilanciando gli equilibri in campo a vantaggio dei troiani e provocando molti morti tra i soldati greci (un po’, per capirci, come se Ronaldo ingrugnato decidesse di rimanere negli spogliatoi nella finale di coppa). Quindi l’ira, che si manifesti in modo esplosivo facendo stragi o con un cupo ritiro, è il desiderio irrefrenabile di vendicare quello che si ritiene un torto subito. Il blocco risentito di Achille (lo ricordo per i curiosi accidiosi che non vogliono andarsi a rileggere l’Iliade) viene poi superato quando un’altra ira – stavolta per le stragi che nel frattempo compivano i troiani – scaccia la prima. Insomma Achille era un semidio quasi del tutto invulnerabile ma certamente un iracondo.

L’ ira, quando si scatena, è tiranna su tutti gli altri stati d’animo e considerazioni ragionevoli, offusca la mente, si dice “essere fuori di sé per l’ira”, e può far commettere azioni drammatiche sotto la spinta di quello che viene giornalisticamente definito un “raptus” e dal nostro codice penale è considerata un attenuante “aver agito per ira derivata dal comportamento altrui”. L’ ira può essere rivolta anche verso se stessi con conseguenze spesso fatali. Del resto l’offesa che la scatena è tanto più grave se proviene da persone vicine e amate che, appunto per questo non dovrebbero permettersi… È forse per questo che molti crimini dettati dall’ ira si consumano tra le mura domestiche dove l’amore si trasforma in odio (non pensiamo solo ai femminicidi ma anche a Caino e Abele, Romolo e Remo, ecc). Le manifestazioni dell’ ira sono così impetuose ed esplosive che non possono essere nascoste e a posteriori il soggetto può vergognarsene moltissimo, divenendo cupamente iracondo con se stesso.

L’ ira che nelle sue forme estreme ed esplosive la ritroviamo nel discontrollo degli impulsi e pure in tutte quelle condizioni, anche neurologiche (demenze, delirium), in cui la corteccia perde la sua capacità di modulazione inibitoria degli automatismi istintuali sottostanti e ha una sua importante funzione evolutiva in continuità con i comportamenti di difesa del territorio in quanto dissuade gli altri dall’ostacolare il soddisfacimento dei propri scopi. Nella psicologia normale si identifica con la cosiddetta “intolleranza alla frustrazione”, che tuttavia comportamentalmente può andare lungo una dimensione che dal “mettere il muso” come Achille nella tenda e arriva fino all’omicidio preterintenzionale. La capacità di indignarsi e reagire ai soprusi per ristabilire la giustizia è dunque positiva e adattiva al contrario del suo eccesso che genera altro male, innescando una spirale in crescendo come si può vedere in alcuni conflitti che insanguinano il mondo da decenni senza che se ne intraveda la fine perché ognuno dei contendenti ritiene di essere nel giusto in quanto reagisce ad un sopruso dell’altro.

Superbia e Invidia

Il cammino iniziato occupandoci della poco nota accidia ci porta ora agli ultimi due peccati capitali: la superbia e l’ invidia che potrebbero facilmente essere assegnati al narcisismo, ma siccome la trascuratezza sarebbe un’offesa intollerabile per il narcisista sarà opportuno soffermarcisi brevemente. Il superbo vuole che gli altri riconoscano la sua totale superiorità mostrando in ciò la sua sudditanza dall’altro, il bisogno assoluto del suo riconoscimento e dunque la radicale fragilità della sua autostima. La sua vanità, la mania di grandezza, il fare il gradasso sono il disperato tentativo di un piccolo trascurato e non visto di affermare la sua esistenza.

Infine l’ invidia, che è noto quanto faccia soffrire chi la prova e sia inconfessabile in quanto ammissione di consapevolezza del proprio scarso valore, è la strategia per proteggere la propria traballante autostima dal confronto con l’altro rispetto al quale ci si sente perdenti. Mischia la tristezza del constatare che gli altri hanno qualità o cose che lui non ha con la rabbia verso questi specchi che gli rimandano l’immagine della sua miseria e che dunque deve sminuire, infrangere, infangare godendo quando vanno in frantumi. Superbia e invidia, attraverso il meccanismo psicoanalitico della “proiezione”, possono causare forti vissuti di ansia sociale, fino ad una franca paranoia.

Per concludere

In conclusione di questa passeggiata infernale voglio spezzare l’ennesima lancia contro la visione categoriale degli esseri umani e a favore della dimensionalità, mia fissazione ormai da tempo. Voglio dire che un individuo che sa godersi le gioie del cibo (gola) e del letto (lussuria) ed è previdente rispetto ai possibili problemi futuri (avarizia) e che persegue con determinazione i propri scopi (ira), sapendo tuttavia guardare con distacco le cose del mondo cogliendone la transitorietà e vacuità sostanziale (accidia) è uno che campa bene e fa ben campare gli altri. Tutto sta a non esagerare. Commenti del lettore del tipo “e ci volevano tutte ‘ste chiacchiere per partorire tale banalità?” mi riscuote dallo stato accidioso per trasformarmi in un iracondo modello Achille nel periodo post-tenda.

Post scriptum: Sento infine il bisogno di ringraziare Brunella con la quale ho condiviso e discusso le idee espresse e che mi ha salvato da alcuni imbarazzanti e rivelatori lapsus, e i mitici personaggi danteschi che, forse a causa di un troppo frettoloso scalaggio degli SSRI, mi vengono a trovare intorno alle tre del mattino ed in particolare il leone in rappresentanza della superbia, la lupa portavoce della cupidigia e la lonza (da non confondere con il gustoso salume ma l’animale, forse oggi estinto, che Dante scelse come esempio della lussuria in quanto sempre in calore e disposto ad accoppiarsi in ogni stagione che il poeta avrebbe oggi sostituito con i più noti e antropomorfi bonobo) alla quale io ho preferito ben presto la complice e simpaticissima compagnia di Paolo e Francesca.

In ultimo, identificati attraverso la prospettiva dei 7 peccati capitali i nuclei patogenetici più importanti, mi riprometto dopo il trattamento con l’esorcista, certamente più efficace degli SSRI, di proporre un protocollo terapeutico finalizzato al raggiungimento delle 4 virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) attraverso un percorso di riattivazione comportamentale che preveda l’esercizio quotidiano con tanto di diario delle sette opere di misericordia corporali (dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati e seppellire i morti). Ai colleghi psicoterapeuti in supervisione saranno riproposte inoltre le 7 opere di misericordia spirituali che già praticano abbondanmtemente: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi, i morti e i drop out.

 

*Nota 1: Le strutture cerebrali che compongono il sistema di ricompensa sono all’interno del circuito corteccia-gangli basali-talamo; i gangli della base guidano l’attività del circuito all’interno del sistema di ricompensa. La maggior parte delle cellule che collegano le strutture all’interno del sistema di ricompensa sono interneuroni glutamatergici, GABAergici, neuroni medio spinosi, e neuroni a proiezione dopaminergica, anche se contribuiscono altri tipi di neuroni di proiezione (ad esempio, i neuroni di proiezione oressinergici). Il sistema di ricompensa comprende l’area tegmentale ventrale, lo striato ventrale (in primo luogo il nucleus accumbens, ma anche il tubercolo olfattivo), lo striato dorsale (vale a dire, il nucleo caudato e putamen), la substantia nigra (vale a dire, la pars compacta e la pars reticulata), la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore, la corteccia insulare,l’ippocampo, l’ipotalamo (in particolare, il nucleo oressinergico nell’ipotalamo laterale), il talamo (più nuclei), il nucleo subtalamico, il globo pallido (sia esterno che interno), il pallido ventrale, il nucleo parabrachiale, l’amigdala, e il resto della amigdala estesa.

Perché non dovrebbe piacerci il caffè?

Stando all’evoluzione, essendo il caffè una sostanza notoriamente amara, a sentirlo sulla lingua dovremmo sputarlo anziché berlo. Come mai invece ci piace così tanto?

 

A livello evoluzionistico l’essere umano ha sviluppato il senso del gusto al fine di poter avere informazioni migliori riguardo agli alimenti che è possibile ingerire. In particolare, l’amaro fornisce informazioni importanti circa la presenza di sostanze che possono essere un pericolo per la nostra sopravvivenza.

Ma allora, se il caffè ha un gusto amaro, come mai ci piace così tanto?

Stando all’evoluzione, essendo una sostanza notoriamente amara, a sentirlo sulla lingua dovremmo sputarlo anziché berlo.

Inoltre, secondo un recente studio della Northwestern University (Ong et al., 2018), più le persone sono sensibili alla caffeina, più bevono caffè. Per rimanere coerenti con la prospettiva evoluzionistica, ci si aspetterebbe esattamente l’opposto. I ricercatori americani spiegano questo risultato contro intuitivo affermando che i consumatori più abili e sensibili a percepire l’amaro della caffeina sono anche quelli che imparano più facilmente, attraverso un meccanismo di rinforzo positivo, ad associare stimoli piacevoli al caffè.

Una maggiore sensibilità al gusto del caffè potrebbe avere una corrispondenza a livello genetico

La causa di questa accresciuta sensibilità al gusto del caffè è da ricercarsi nelle particolarità genetiche di alcuni individui. Non è detto però che l’essere sensibili ad altre sostanze amare sia associato ad un’accresciuta preferenza per la caffeina, infatti l’équipe di ricerca della Northwestern ha trovato che l’essere geneticamente più sensibili della norma ad alcune sostanze amare (come il chinino ad esempio) non risulti in una maggiore preferenza per il gusto del caffè. Anzi, stando ai risultati della ricerca che stiamo trattando è piuttosto vero il contrario.

Per testare la relazione causale tra varianti genetiche e preferenza per il caffè gli autori dello studio hanno messo in atto una randomizzazione di Mendel, incrociando le varie sensibilità dovute alla genetica con il consumo (self-reported) di caffè. Quello che hanno trovato è che effettivamente esiste una relazione di tipo causale tra sensibilità al gusto della caffeina e consumo di caffè.

Certo è che uno studio che utilizza dei questionari self-reported per misurare un comportamento ha una validità limitata. Sarebbe interessante approfondire i temi proposti dai ricercatori cercando di superare i limiti esistenti della ricerca ed indagando più a fondo il legame tra sensibilità alla caffeina e sensibilità alle ricompense (e quindi ai rinforzi positivi che vengono associati al consumo di caffè).

EMDR e Mindfulness per il trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico

Il disturbo da stress post traumatico (PTSD) è un disturbo che ha un’incidenza tra il 5% e il 10% della popolazione e si sviluppa in seguito a un evento traumatico, che ha implicato gravi lesioni, morte, minaccia di morte o dell’integrità fisica propria o altrui.

Elisabetta Ballerini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Durante l’evento, la persona ha reagito con orrore, paura e sentimenti di impotenza. Eventi che vengono ritenuti traumatici sono: la violenza sessuale, l’essere tenuti in ostaggio o incarcerati (come nei campi di concentramento), essere stati vittima di catastrofi naturali, terremoti, alluvioni, incendi, incidenti stradali. E ancora, aver vissuto o assistito a gravi ferimenti, lesioni o morti violente, combattimenti, guerre o essersi trovati di fronte ad un cadavere o a parti di esso.

PTSD: sintomi

La risposta della persona all’evento traumatico comporta paura intensa, senso di impotenza e/o orrore (nei bambini questo può essere espresso con comportamento disorganizzato o agitato e irritabilità) e si caratterizza per i seguenti sintomi:

  • Rievocazione dell’evento attraverso immagini, pensieri, percezioni ricorrenti e intrusive, incubi notturni, sensazione di rivivere l’esperienza (illusioni, allucinazioni, flashback). Nei bambini questo può esprimersi attraverso giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma, disegni e/o sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile.
  • Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento: pensieri, sensazioni, conversazioni, attività, luoghi o persone che evocano ricordi legati al trauma.
  • Attenuazione della reattività generale (anestesia emotiva): diminuito interesse per gli altri, senso di distacco e di estraneità, affettività ridotta, sentimenti di diminuzione delle prospettive future, riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività che prima dell’evento procuravano piacere.
  • Aumento dell’attivazione nervosa, con difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, incubi notturni, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme.
  • Reattività fisiologica intensa all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o che assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico (luoghi, odori, persone, etc.). La persona presenta costante ansia e aumento dell’arousal (eccitabilità, non riuscire a stare fermo, tachicardia, etc.)
  • Alterazione delle funzioni cognitive ed emotive: sensazione di tristezza, ansia, difficoltà nella concentrazione, a ricordare episodi significativi legati all’evento traumatico, convinzioni o aspettative negative su sé stessi, sugli altri e sul mondo “sono cattivo”, “non ci si può fidare di nessuno”.
  • Irritabilità, scoppi di collera, aggressività, e/o gesti autolesivi.

Disturbo da stress post traumatico (PTSD) ed EMDR

L’EMDR, Eye Movement Desensitization and Reprocessing, è un innovativo strumento psicoterapeutico, nato da poco più di vent’anni, grazie alla scoperta di Francine Shapiro (Shapiro, 2011). È utilizzato, in particolare modo, per il trattamento del PTSD e dei ricordi traumatici. L’EMDR sembra aver dimostrato la sua efficacia anche con bambini e adolescenti traumatizzati, risultando essere ancora più rapido (Greenwald, 2000). L’EMDR dal 2013 è riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità quale metodo elettivo nella risoluzione dei disturbi da stress post traumatico.

L’EMDR si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica ed è una metodologia completa che utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per trattare disturbi legati direttamente a esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo.

L’EMDR parte dal presupposto che tale procedura abbia la capacità di attivare un meccanismo neuropsicologicamente innato cioè quello dell’elaborazione dell’informazione (Fernandez, Maxfield, Shapiro, 2009) ovvero

alcuni tipi di stimolazioni prodotte dal terapeuta all’interno di un campo di attenzione duale, con l’attenzione rivolta contemporaneamente da un lato a uno stimolo esterno prodotto dal terapeuta, dall’altro al flusso dell’elaborazione mentale, attivano un efficace processo di elaborazione accelerata ed ecologica delle informazioni.

Si parte dunque dal presupposto che il paziente possieda le risorse utili per l’elaborazione emotiva e cognitiva di un ricordo traumatico, e che il terapeuta abbia il ruolo di facilitare tale processo (Dworkin, 2010).

Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati all’evento traumatico hanno una desensibilizzazione, perdono la loro carica emotiva negativa. Il cambiamento è molto rapido, indipendentemente dagli anni che sono passati dall’evento. L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta, i pensieri intrusivi in genere si attutiscono o spariscono, diventando più adattivi dal punto di vista terapeutico e le emozioni e sensazioni fisiche si riducono di intensità.

Durante la seduta EMDR il paziente rimane sempre cosciente e presente e attraverso la stimolazione oculare, opportunamente guidata dal terapeuta, e associata con l’immagine traumatica, le convinzioni negative, le emozioni e le sensazioni corporee spiacevoli ad essa associate, avviene la rielaborazione dell’informazione fino alla completa risoluzione dei sintomi.

Questo permette al paziente di cambiare prospettiva, cambiando le valutazioni cognitive su di sé, incorporando emozioni adeguate alla situazione oltre ad eliminare le reazioni fisiche. Questo permette, in ultima istanza, di adottare comportamenti più adattivi. Dal punto di vista clinico e diagnostico, dopo un trattamento con EMDR il paziente non presenta più la sintomatologia tipica del disturbo da stress post traumatico, quindi non si riscontrano più gli aspetti di intrusività dei pensieri e ricordi, i comportamenti di evitamento e l’iperarousal neurovegetativo nei confronti di stimoli legati all’evento, percepiti come pericolo (Shapiro, 2011). Un altro cambiamento significativo è dato dal fatto che il paziente discrimina meglio i pericoli reali da quelli immaginari condizionati dall’ansia.

Il PTSD dopo le 8 fasi dell’EMDR

Dai racconti dei pazienti emerge che il ricordo dell’esperienza traumatica viene percepito come parte del passato e quindi viene vissuta in modo distaccato. I pazienti in genere riferiscono che, ripensando all’evento, lo vedono come un “ricordo lontano”, non più disturbante o pregnante dal punto di vista emotivo.

Dopo l’EMDR il paziente ricorda l’evento ma il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adattiva. L’esperienza è usata in modo costruttivo dall’individuo ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo. Cioè il paziente realizza le connessioni di associazioni appropriate, quello che è utile è appreso ed immagazzinato con l’emozione corrispondente ed è disponibile per l’uso futuro.

L’EMDR prevede 8 fasi. La prima fase dell’EMDR ricorda l’inizio della maggior parte delle psicoterapie: si indagano, quindi, i problemi attuali del paziente, sugli eventi accaduti nei primi anni di vita, sugli eventi passati responsabili dell’attuale sintomatologia e sugli obiettivi che si desiderano ottenere dalla terapia (Wilson, Becker, Tinker, 1995).

Nella seconda fase si spiega al paziente in che cosa consiste l’EMDR e come funziona.

Nella terza fase vi è la descrizione approfondita dell’evento traumatico: si chiede, quindi, al paziente di identificare la parte peggiore dell’esperienza traumatica, la convinzione negativa su di sé che accompagna l’immagine, le emozioni e le sensazioni corporee associate al ricordo che si attivano durante la focalizzazione. In questa fase si identifica anche la cognizione positiva, ovvero, ciò che il paziente vorrebbe pensare su di sé in relazione all’evento negativo.

La quarta fase è quella della desensibilizzazione ed è quella in cui vengono utilizzati i movimenti oculari. In questa fase si chiede al paziente di focalizzarsi sugli elementi del ricordo identificati nella terza fase invitandolo a notare tutto ciò che accade dentro di sé durante il set di movimenti oculari (es. emozioni, pensieri, immagini, sensazioni corporee). Questo tipo di intervento continua fino alla completa desensibilizzazione, cioè fino a quando il paziente, pensando al ricordo traumatico, non prova più alcun fastidio.

Nella quinta fase si lavora sulla cognizione positiva e su come questa possa legarsi all’evento traumatico precedentemente desensibilizzato e sostituire così la cognizione negativa.

Nella sesta fase si fa eseguire al paziente una scansione corporea con l’obiettivo di verificare la presenza di eventuali tensioni.

Nella settima fase, quella della chiusura, si danno indicazioni al paziente su come gestire eventuali sedute incomplete cioè quelle in cui la desensibilizzazione non è stata completata ed il ricordo provoca ancora disagio emotivo.

L’ottava fase avviene nella seduta successiva dove i risultati dell’EMDR vengono verificati per poterli rafforzare oppure per lavorare su alcuni aspetti che ancora attivano il paziente a livello emotivo.

PTSD e Mindfulness

La Mindfulness è un termine inglese che fa riferimento alla capacità di fermarsi e di concentrarsi sulle proprie sensazioni. Il termine sta a tradurre una parola in lingua Pali (Sati) che significa attenzione consapevole. Mindfulness trae molto dalle pratiche buddiste e l’educazione emotiva. La consapevolezza si raggiunge attraverso un’educazione vera e propria alla pratica meditativa.

Jon Kabat-Zinn, professore di medicina che ha effettuato un’integrazione terapeutica efficace con la mindfulness, la definisce così:

Prendere coscienza e vivere in armonia con sé stessi e il mondo intero. Con Mindfulness ci assumiamo la responsabilità di conoscere meglio il nostro corpo, ascoltandolo attentamente e coltivando le nostre risorse interne per aumentare l’accettazione e la pazienza nei confronti del proprio stato di malattia o delle proprie infermità psicologiche e fisiche.

Sviluppare un atteggiamento mindful nella vita di tutti i giorni influisce sulla nostra capacità di padroneggiare le situazioni difficili della vita, conferendo un maggiore potere di gestione dello stress, dei conflitti e dei problemi ordinari e straordinari. Educa la mente a sostituire le emozioni distruttive con modi di essere più costruttivi, che promuovono l’equanimità, l’amore e la saggezza (o, più semplicemente, amplificano le risorse interiori alla ricerca di un proprio adattamento alle situazioni stressanti). Lo strumento centrale della Mindfulness è la pratica della meditazione, per prestare attenzione al momento presente, alla propria esperienza, in uno stato di autentica calma non reattiva. Meditare è un’attività della mente, richiede tempo, energia, determinazione, fermezza e disciplina. Il centro della meditazione è rappresentato dal respiro: prestare attenzione al respiro è un ottimo modo per mantenere la mente aperta e vigile, e per allontanarsi dalle eventuali e frequenti distrazioni rappresentate da pensieri e emozioni che possono affollare la mente durante la pratica (solitamente sono pensieri automatici, disfunzionali, mossi dalla fretta, e dall’ansia).

Comporta l’autoindagine, la messa in discussione della nostra visione del mondo, della posizione che vi occupiamo, e l’apprezzamento della pienezza di ciascun momento della nostra esistenza. Soprattutto, riguarda il mantenimento del contatto con la realtà (Kabat-Zinn, 1997).

Si impara a osservare e riconoscere i pensieri nocivi, che non permettono l’evoluzione interiore dell’uomo o, in termini buddhisti, non consentono “la rivoluzione umana”. Alla presa di coscienza emotiva si unisce un modo nuovo di stare nel proprio corpo. Fermarsi e osservare, senza giudizio.

La meditazione è una pratica sempre più diffusa, in modo ubiquitario: si calcola che circa 16 milioni di persone pratichino una qualsiasi forma di meditazione per migliorare il loro stato di salute (dati del NCCAM). Molti praticano semplicemente per rilassarsi. La meditazione permette il miglioramento dell’umore e promuove quindi un miglior stato di benessere, attraverso lo sviluppo della serenità interiore. Gli effetti della meditazione sono sia sul sistema nervoso centrale (miglioramento delle risorse interiori e della resilienza, innalzamento del set point emotivo), che sul corpo (miglioramento della pressione arteriosa, del sistema immunitario e della capacità di rilassamento neuromuscolare). La mindfulness focalizza la propria consapevolezza sull’esperienza presente, sulle sensazioni, le emozioni, i pensieri, la salute e le proprie abitudini di vita: permette alle persone di lavorare su di sé, divenendo di volta in volta più consapevoli dei problemi del loro corpo o della loro mente. Praticare la mindfulness ci insegna soprattutto che non prestiamo mai abbastanza attenzione, perché siamo abituati a agire e pensare e sentire in modo automatico, utilizzando vecchi schemi strutturati nella nostra mente, che utilizziamo in modo passivo e inconsapevole. Mindfulness serve a disattivare il pilota automatico, attraverso l’attenzione piena al momento in cui ogni esperienza è avvertita, lasciando semplicemente scorrere pensieri, emozioni, senza giudicarli o modificarli, osservandoli, e basta. L’osservazione attenta e consapevole è in grado di smascherare gli automatismi, di promuovere il cambiamento e quindi, di migliorare il nostro globale stile di vita.

Lo scopo è comunque quello di attivare una concentrazione che non abbia soluzione di continuità, resti serena e lucida. In altre parole, sviluppare una presenza quieta e viva.

Uno degli effetti più ricercati nell’usare la Mindfulness in psicoterapia è la possibilità che questa offre di richiamare un certo ricordo operando una doppia focalizzazione dell’attenzione (dual processing). Da una parte sul ricordo disturbante, e dall’altra su sé stesso che si studia mentre rievoca il ricordo disturbante. Tramite il “dual processing” la Mindfulness permette di modulare il coinvolgimento del paziente con il proprio passato e, facendolo uscire dai corto-circuiti emotivi, di scoprire nuove vie per l’elaborazione dei ricordi disturbanti.

Quando il cervello è costretto a prendere decisioni rapide, stiamo operando da un riflesso mentale alla risposta automatica.  Questa parte reattiva del cervello ci consente di prendere decisioni basate sulla minor quantità di informazioni disponibili, in contrapposizione alla parte più lenta del nostro processo di pensiero razionale definito come ragionamento lento consapevole.

Le funzioni che elaborano le decisioni possono essere divise in due sistemi:

  • Sistema 1 – Il sistema di risposta rapida, o ragionamento inconscio chiamato anche ragionamento associativo.
  • Sistema 2 – Il processo di pensiero più lento che è necessario per prendere decisioni razionali che richiedono attenzione focalizzata. Ciò include l’analisi complessa delle informazioni.

La nostra esposizione al mondo e alle esperienze passate aiuta il sistema 1 a ottenere informazioni e a sviluppare un riferimento per prendere decisioni rapide. Una volta che queste decisioni sono programmate nel cervello come un’abitudine, diventa molto difficile cambiare.

Quando il processo decisionale del sistema 1 incontra un problema che richiede più analisi e giudizio razionale, o se semplicemente non ci sono abbastanza informazioni per trarre una decisione conclusiva, il sistema 2 è chiamato in causa. Qui è dove facciamo più dei nostri giudizi consapevoli e decisioni meglio informate.

In realtà, siamo esseri umani reattivi. Siamo condizionati a reagire alle situazioni piuttosto che considerarle razionalmente come richiedenti la nostra attenzione. Questo è il modo in cui siamo in grado di sopravvivere e navigare mentre utilizziamo la nostra attenzione consapevole per la produttività anziché concentrarci su piccoli dettagli (Jonathan St. BT Evans e Keith 2016).

PTSD, EMDR e Mindfulness

L’EMDR riabilita la capacità fisiologica del cervello di ‘digestione’ e accantonamento degli eventi traumatici. L’elaborazione dei traumi attraverso l’Emdr

è come la corsa di un treno: a ogni fermata scende del materiale negativo e salgono nuove associazioni positive.

La tecnica ha cioè l’effetto di spostare il ricordo del trauma dalla corteccia prefrontale, in cui rimane emotivamente attivo, alla corteccia parietale, dove sarà memorizzato come evento passato, quindi ricordato ma non più attivo nei ricordi emotivi di paura o terrore.

La mindfulness è l’esercizio di focalizzare la consapevolezza esclusivamente sulle esperienze del momento, è un modo molto efficace per sviluppare più controllo sulla mente e la direzione dei pensieri, aiuta a rafforzare questa capacità riportando costantemente all’aspetto momento per momento dell’essere. Ciò consente alle tendenze improduttive e ripetitive innescate dallo stress e da altre emozioni intense di lasciare il posto alla chiarezza mentale, alla concentrazione, all’energia e all’apertura. Si diventa meno distratti da pensieri incerti e più capaci di operare con serenità.

La mindfulness rafforza la corteccia prefrontale e questa parte del cervello è responsabile del processo decisionale consapevole, della creatività, del comportamento e della forza di volontà.

Candido Godoi: capelli biondi, occhi blu

L’idea di andare in Brasile a visitare la città di Candido Godoi è nata nel 2010 guardando le foto di Gabriele Galimberti su D di Repubblica.

 

 Queste immagini di G. Galimberti mi hanno fatto scoprire l’esistenza della città dei gemelli e la leggenda degli esperimenti che il dott. Mengele, l’angelo della morte di Auschwitz, avrebbe ostinatamente continuato in questo paesino del sud del Brasile. Le presunte attività di medico e veterinario sono state ricostruite e documentate nei libri dello storico Jorge Camarasa e in quello dall’ex sindaco di Candido Godoi, Anancir De Silva, quest’ultimo incontrato durante il soggiorno a Candido Godoi.

Candido Godoi: i gemelli sono un’eredità dell’attività del genetista nazista Mengele?

Secondo entrambi sarebbe da ricercare nell’inquietante attività del genetista tedesco la percentuale così elevata di gemellarità in questa colonia tedesca. Per molto tempo ho letto i racconti degli esperimenti nazisti sui gemelli nei campi di concentramento e visto le interviste dei sopravvissuti. Ad Auschwitz, Mengele aveva selezionato 3000 coppie di bambini gemelli, per degli studi che prevedevano la ricerca del segreto della gemellarità. Alla fine della guerra solo 258 tra queste cavie umane erano sopravvissute. Tra loro anche le due sorelle italiane, scambiate per gemelle per la loro straordinaria rassomiglianza, le sorelle Andra e Tatiana Bucci: della loro storia ha scritto Titti Marrone nel libro Meglio non sapere. Una speciale baracca (la numero 10) era riservata ai bambini di Mengele. Essi erano trattati a tutti gli effetti non come esseri umani ma, come “animali da laboratorio”: dopo la doccia, era loro tatuato insieme al numero di identificazione anche le due lettere ZW (cioè Zwillinge, gemello). Mengele era interessato alle anomalie dell’apparato visivo: Mengele sperava di poter influire sulla colorazione degli occhi, trasformando quelli scuri in azzurri.

Candido Godoi – spiega Camarasa – diventa il laboratorio a cielo aperto dove Mengele può realizzare il sogno di una razza dominatrice con occhi blu e capelli biondi, quando ormai quel sogno era fallito in Europa.

Candido Godoi: l’eco di pagine oscure della nostra storia

Durante la seconda guerra mondiale l’eugenetica nazista prevedeva esperimenti per realizzare la “razza ariana” attraverso la costituzione delle cosiddette “fabbriche della vita”, i Lebensborn, programmi avviati dal gerarca nazista Heinrich Himmler. Egli diede inizio all’accoppiamento di militari tedeschi con donne scandinave, in particolare norvegesi, considerate di “alto valore razziale”. Durante i dieci anni d’esistenza del progetto, almeno 7.500 bambini nacquero in Germania, altri 10.000 furono concepiti in Norvegia. I tedeschi ricorsero anche al rapimento di bambini “razzialmente accettabili”, dai paesi controllati. In Polonia furono prelevati oltre centomila neonati, tra loro ci sono orfani di guerra, ma sono ben documentati casi in cui i piccoli furono strappati dalle braccia dei genitori, il criterio era il solito: capelli biondi ed occhi blu. A questo proposito, ho trovato molto toccante la testimonianza pubblicata sul Corriere della Sera, di Alojzy Twardeckis, che racconta di essere stato cresciuto da una famiglia tedesca, per poi scoprire a tredici anni che la sua vera madre polacca non si era mai rassegnata alla scomparsa del figlio e dopo la guerra aveva fatto di tutto per rintracciarlo.

La storia dei War Children è venuta alla luce solo alla fine degli anni ’80, quando un piccolo gruppo di “Figli della Guerra” ha fondato un’associazione per rompere il silenzio con cui si voleva cancellare il loro passato. A questo proposito è molto intenso il racconto autobiografico della psicoterapeuta Gisela Heidenreich, In nome della razza ariana, storia di una donna nata in un Lebensborn di Oslo, che racconta la faticosa e dolorosa ricerca del suo passato e della ricostruzione della sua identità.

Mi sono interrogata sulla vita dei gemelli di Candido Godoi e sulla loro possibilità di individuarsi in un luogo in cui gli storici raccontano di aver trovato una forte pressione verso la cristallizzazione della perfezione perduta: i famosi occhi blu, capelli biondi. Mi sono chiesta quanto questo modello nazista, prototipo perfetto della razza ariana, fosse ancora presente nei pensieri e nel DNA di questa popolazione. Queste riflessioni mi hanno accompagnata durante tutte le interviste delle otto coppie di gemelli che ho incontrato a Candido Godoi. In questo contesto particolare la mia attenzione si è rivolta ai processi di individuazione e separazione nella relazione gemellare e a come la famiglia e la pressione sociale abbiano contribuito ad ostacolare o a favorire i processi di differenziazione, ad esempio con la scelta dei nomi.

Candido Godoi e i suoi gemelli

Il nome proprio di persona non è mai attribuito in modo casuale e perciò va considerato come un segno-simbolo che in qualche misura rispecchia vissuti, emozioni, aspettative di chi denomina. Inoltre, per chi lo riceve, il nome corrisponde, pure se metaforicamente, al ruolo che gli viene assegnato, alla sua funzione. I nomi delle 8 coppie di gemelli in ordine di età sono: Joao e Joanna Grimm di 4 anni; Kitana e Thauana Lunke di 7 anni; Henrique e Guillerme Sichinel di 13 anni; Francine e Franciele Seibt di 19 anni; Marcio e Marcelo Royer di 28 anni; Valdecir e Vanderey Jung di 33 anni; Valmir e Valcir Phul di 35 anni e Canisio e Dionisio Fritzen di 54 anni. Tutti nomi da coppia gemellare indistinta. In questi casi, i genitori tendono a considerare i figli come un insieme indifferenziato, a vestirli nello stesso modo e attuare una politica che E. Funari, nel libro Il doppio tra patologia e necessità, chiama del “corpo unico”:

Esiste una sorta di economia nella mente della madre che tenderebbe ad azzerare le differenze (…). Pag. 36

Le interviste sono state un pretesto per indagare attraverso l’atto fotografico una eventuale richiesta di individuazione ed esplicitare il gioco del doppio. La scelta di fotografare in bianco e nero è sembrata l’unica soluzione per guardare alle persone e non alla razza, gli occhi blu e i capelli biondi, sono diventati delle sfumature di grigio che hanno consentito di andare oltre la superficie, per entrare nella profondità degli sguardi e far emergere il chiaroscuro delle ombre sui visi, le rughe di espressione, apprezzare le differenze. Il tentativo opposto all’omologazione nazista, andare oltre la similitudine, imparare a riconoscere da un piccolo particolare l’unicità irripetibile del sé, associando l’espressione emotiva, all’estetica del corpo. Per ogni coppia, attraverso l’intervista abbiamo trasportato nella fotografia la rappresentazione che le persone avevano di sé e della coppia gemellare, rispettando la loro prospettiva e cercando di cogliere attraverso la narrazione, l’angolazione dalla quale ritrarre i volti e le movenze.

Arrivati a Candido Godoi, dopo avere ricevuto dal comune la lista dei gemelli del paese, con la collaborazione di un’interprete, è cominciata la ricerca dei gemelli che volevano essere intervistati.

LE FOTO DI ALCUNI DEI GEMELLI INTERVISTATI

Candido Godoi: le interviste ad alcuni gemelli

I bambini Joao e Joanna di 4 anni appartengono ad una dinastia di gemelli: la mamma è figlia di un gemello e ha due fratelli gemelli; anche il papà vanta nella sua famiglia di origine quattro coppie di gemelli. Da subito pongono il problema della gemellarità assoluta, ovvero, sanno che nella loro comunità vengono percepiti come gemelli solo i monozigoti, i gemelli identici, invece come nel caso dei loro figli, i gemelli dizigoti, spesso vengono catalogati come “falsi gemelli” e loro protestano per questo. I bambini sono troppo piccoli per raccontarsi, le foto in questo caso intendono valorizzare l’appartenenza a generi differenti come una risorsa ulteriore per sottrarsi alla simbiosi gemellare, così pressante nella famiglia d’origine.

Kitana e Tahuana hanno sette anni, il loro aspetto mostra una forte differenza caratteriale, ma la madre le veste con gli stessi abiti e in casa hanno due di tutto. Le bambine rimangono sempre zitte, la madre parla per loro, non si riesce a zittirla. Chiedo se le bambine sono monozigoti o dizigoti, ma la madre dice di non conoscere la differenza: le bambine sono gemelle, questo è quello che conta. La pressione allo stereotipo della gemellarità emerge prepotentemente anche dalle fotografie, le bambine appaiono come profondamente oppresse da questa cultura gemellare che sembra non lasciare spazio per esprimere la propria unicità. Nonostante, gli abiti identici, la triste ribellione delle figlie traspare dagli sguardi che fissano l’obiettivo.

Enrique e Guillermo, gemelli monozigoti di 12 anni, sono talmente simili che la madre nel chiamarli li confonde spesso. Eppure, nonostante la somiglianza, sono altamente differenziati e ci tengono a mostrare le loro peculiarità, ci insegnano a riconoscerli: uno dei due ha avuto un incidente e ha perso due dita della mano, l’altro ha una ciocca di capelli biondi e un neo dietro l’orecchio. In effetti, passando un po’ di tempo con loro, s’impara a identificarli: la confusione è più marcata nelle foto che nella realtà. I ragazzi sono lusingati dall’attenzione che suscitano, ma il fratello maggiore, un ragazzo con la sindrome di Down che assiste all’intervista, ha una crisi d’invidia e irrompe sul set fotografico con un grosso coltello. Ci spaventiamo, ma si acquieta quando gli diciamo che faremo delle foto anche a lui. E’ difficile essere fratelli di una coppia gemellare!

Francine e Franciele di 19 anni, monozigoti, ma altamente differenziate. Ci tengono a raccontare che nessuno le ha mai confuse, se non nei primissimi anni di vita. Una è fidanzata, l’altra no, studiano entrambe Scienze chimiche agrarie e dicono di essere molto competitive. Raccontano di essere molto complici ed unite; in effetti, si ha la sensazione di essere di fronte ad una coppia complementare, due sorelle: la gemellarità sembra aver giocato un ruolo solo rispetto alla contemporaneità della nascita e le foto lo dimostrano, non sembrano affatto gemelle.

Marcio e Marcielo di 28 anni, gemelli monozigoti, molto schivi e infastiditi dalla curiosità che si è attivata intorno alla gemellarità di Candido Godoi. Non sono molto disponibili a parlare della loro esperienza personale, negano di aver avuto particolari vantaggi o svantaggi dalla loro condizione di gemelli. La madre dice di averli sempre vestiti nello stesso modo ed è orgogliosa di avere due figli identici. Loro si percepiscono come altamente differenziati e dicono di non aver mai giocato con il loro aspetto per confondere gli altri. La foto diventa un momento ludico per giocare sul tema dello specchio e sdrammatizzare la situazione, entrambi sembrano doversi difendere dall’accusa di gemellarità. Sono contenti del risultato ed in effetti attraverso le foto si accorgono di quanto gli altri devono percepirli come simili, perché loro stessi si confondono ad un primo sguardo nel rimirarsi nella propria immagine. In questo caso la somiglianza ha portato i due fratelli a cercare una differenziazione caratteriale profonda, lasciando a chi guarda con superficialità di accontentarsi dell’immagine esteriore.

Vanderey e Valdecir, monozigoti di 33 anni sono rimasti orfani di padre a 15 anni, la madre con i fratelli si sono trasferiti in un’altra città e loro hanno deciso di rimanere da soli a Candido Godoi. Entrambi sono sposati e vivono nella stessa fattoria, non hanno molta voglia di parlare, ma amano farsi fotografare, si mettono in posa e si lasciano ritrarre senza pudore. L’impressione è che abbiano utilizzato la gemellarità come arma di seduzione. _Quando chiedo loro se sono stati molto corteggiati, rispondono di non poter parlare perché le loro mogli sono molto gelose. La fotografia diventa il racconto del loro narcisismo al quadrato, il doppio come provocazione di fantasie erotiche.

E’ la volta di Valmir e Valcir, monozigoti di 35 anni di professione sacerdoti. Molto diffidenti e schivi, infastiditi dalle domande e dalle fotografie, rispondono a monosillabi e all’unisono. Sono l’esempio classico del corpo unico. Di fronte a loro si ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo sincronizzato. Nel loro caso la somiglianza è così ostentata, anche attraverso l’abito talare, da lasciare senza parole. L’obiettivo diventa uno specchio nel quale sono riflesse le loro immagini simultanee e controllate.

Dionisio e Canisio hanno 54 anni e sono dizigoti. Entrambi contadini, si sono sposati lo stesso giorno, mostrano con orgoglio le foto del loro doppio matrimonio, vivono nella stessa casa e sembrano molto uniti. In realtà, grazie alla loro età più matura, le diverse vicende familiari hanno profondamente influito sulle espressioni dei loro volti e loro sembrano addirittura avere età differenti. Dionisio ha due figli ed è chiassoso ed estroverso, Canisio non ha avuto figli e questo sembra pesargli molto; ha un viso triste e taciturno, preferisce restare in disparte. In questo caso la differenza sembra essere evidente, come se sui loro volti emergesse senza pudore la tristezza dell’uno e l’allegria dell’altro. In questo caso la foto evidenzia la loro naturale differenza.

Le immagini di questo reportage sono state in mostra al Macro di Roma da giugno a settembre del 2011.

Ho voluto chiamare il lavoro Water drops, “Gocce d’acqua”. La parola gemellarità suscita spesso un’aspettativa di uguaglianza. Ma, in fisica è risaputo, che le molecole dell’acqua, pur avendo la stessa composizione chimica, possono differire sia per il moto degli atomi, che per una diversa configurazione. Simili, ma non uguali!

 

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