Persuasione: condizionare gli altri per raggiungere i propri scopi – Introduzione alla Psicologia
La persuasione è un’arma molto potente e, sotto diversi aspetti, si presenta quotidianamente nelle nostre vite esercitando una grande influenza. Essa si manifesta quando effettuiamo delle scelte che variano dallo shampoo da usare a cosa poter mangiare. Come mai si scelgono proprio quelle marche e non altre?
Probabilmente, perché sono state viste in tv, o suggerite da una persona per noi importante, o tutti le comprano, etc. La persuasione, dunque, o l’arte della comunicazione, ars oratoria la definivano gli antichi greci, è largamente utilizzata dai mass media, dai giornali e dalla televisione, per modificare le idee e i comportamenti altrui.
Persuasione: cos’è?
La persuasione è una azione volta a influire o condizionare gli altri per raggiungere i propri scopi o obiettivi. Si tratta di meccanismi o metodi molto efficaci e convincenti che inducono l’interlocutore ad abbracciare totalmente il punto di vista della persona che sta parlando.
È un processo simbolico in cui chi comunica cerca di convincere altre persone a cambiare i loro atteggiamenti o comportamenti, attraverso la trasmissione di un messaggio. Di fatto, però, i messaggi condizionati modificano le emozioni, le idee, il comportamento e sono utilizzati principalmente per far cambiare opinione. Gli interlocutori sono convinti di agire autonomamente, ma in realtà sono suggestionati a muoversi in quel modo da fattori esterni.
La persuasione può essere esplicita, se effettuata da un venditore invadente o un annuncio commerciale particolarmente accattivante o più sottile, subdola, quando è eseguita in sordina o in maniera subliminale.
Cialdini e l’arte della persuasione
Robert Cialdini è uno psicologo e ricercatore presso l’Università dell’Arizona, che ha raggiunto la fama internazionale dopo aver pubblicato il suo libro “The science of persuasion”. Questo libro è una raccolta esaustiva di studi, test, esperimenti e teorie in cui sono spiegati i meccanismi per cui si finisce col dire di sì.
Cialdini ha identificato 6 categorie all’interno delle quali rientrano le principali tecniche di persuasione:
La reciprocità. Essa si verifica quando si dà qualcosa a qualcuno, e l’altro si sente in dovere di ricambiare in qualche modo ciò che ha ricevuto. Questa regola del contraccambiare qualcosa di ricevuto è una norma che se non è rispettata va incontro a sanzioni sociali e si finisce con l’etichettare una persona come “ingrata” o “parassita”. Ad esempio se è offerto un campione gratuito o omaggio di qualcosa e non lo si accetta, si finisce per essere designati come sciocchi per non averlo accettato. Per Cialdini il contraccambiare porta a stimolare l’accettazione equa, impone debiti che non sono stati richiesti e potrebbe portare a realizzare scambi non giusti.
L’impegno e la coerenza. Coloro che non sono coerenti nel tempo nel mantenimento di un determinato obiettivo, rischiano di essere etichettati come inaffidabili o superficiali. Per questo, avere un’ immagine coerente ha una funzione “tranquillizzante” nei confronti di chi osserva, perché non costringe l’altro ad effettuare una nuova valutazione che porterebbe a delle ripercussioni emotive importanti. Ad esempio un cambio di immagine di un brand provoca uno stato di confusione e abituazione alla novità
La riprova sociale.Consiste nella tendenza a considerare adeguata un’azione quando è realizzata da tante persone. Per questo ricevere consensi, anche da persone autorevoli, portare ad avere una maggiore visibilità e fiducia da parte del pubblico. Ad esempio in situazioni di incertezza vi è la tendenza a stare a guardare per vedere cosa fanno gli altri per poi effettuare una scelta, che andrà nella direzione dettata dai maggiori assensi ricevuti.
La simpatia. Spesso si verifica nel momento in cui per vendere un prodotto ci si riferisce a una persona familiare o di nota fama per rendere il prodotto più appetibile o interessante. Ad esempio in alcuni casi si usa il metodo della “catena” con il quale ogni persona interessata al prodotto è invitata a dare il nome di amici e conoscenti anch’essi interessati all’acquisto. Esistono, inoltre, alcuni fattori capaci di produrre una reazione di simpatia, come la bellezza, la bontà, la somiglianza con qualcuno, gli stessi abiti indossati, etc. In questo caso, sapere che una persona è simile a noi, facilita nella scelta.
L’autorità.Le affermazioni effettuate da persone autorevoli sono fortemente persuasorie. Esiste un naturale e radicato senso di deferenza verso l’autorità che si traduce nell’incapacità del soggetto a contrastare l’ordine del “capo”. Essere abituati all’obbedienza ci è insegnato fin dalla nascita e consente la stratificazione della società. Quindi, riconosciuta l’autorevolezza dell’autorità, si eseguono le azioni senza metterle in discussione, malgrado alcuni comportamenti potrebbero non essere adeguati allo scopo.
La scarsità, ovvero la tendenza a sottovalutare ciò che è abbondante, e a sopravvalutare ciò che è scarso. Quindi, si tende a ottimizzare la disponibilità di risorse di un dato bene, se la disponibilità del bene è presentata come limitata nel tempo o scarsa in termini di quantità. Ad esempio computer a taratura limitata e sottocosto, porta immediatamente all’acquisto del prodotto stesso poiché diventa un’occasione da “non perdere”.
Psicofisiologia degli eventi critici (2018): come reagiamo alle situazioni pericolose? – Recensione
Nel libro Psicofisiologia degli eventi critici viene presentato un modello di psicoterapia integrata che permettere d’incrementare la propria consapevolezza e le proprie risorse in caso di situazioni pericolose.
Conoscere la propria emotività e i modi in cui si manifesta può aiutare a controllarla e a sfruttarla al fine di prendere decisioni che permettano di sopravvivere durante le situazioni estreme. Imparare a fronteggiare gli eventi di forte stress significa infatti “rispondere” in modo adeguato trasformando le difficoltà in risorse e quindi diventando più resilienti.
Le autrici del testo, Bertuzzi e Cornali, sono professioniste che si occupano da anni di studiare i traumi psicologici e di trattare la sofferenza connessa. Dopo aver lavorato a lungo nel contesto delle carceri allo scopo di migliorare le condizioni di lavoro delle guardie carcerarie, hanno scritto questo libro per trasmettere le loro esperienze. Gli autori illustri citati nel libro, come Bandura e Zimbardo, ci ricordano che l’aggressività è un comportamento appreso, dipendente dal contesto e che il confine tra il bene e il male non è ben delineato.
Comprendere la reazione agli eventi critici
Nel libroPsicofisiologia degli eventi criticivengono trattate le reazioni soggettive agli eventi stressanti e le possibili conseguenze. L’uomo viene inteso come un animale che risponde alle situazioni pericolose, reali o supposte, attraverso la messa in atto della reazione di attacco o fuga. Le risposte fisiologiche esperite ci danno a priori una percezione della situazione, ma è una nostra interpretazione del fenomeno critico. La valutazione del rischio è infatti soggettiva e in opposizione alle stime oggettive probabilistiche; quindi si avranno alcune percezioni sottostimate, mentre altre verranno sovrastimate con una conseguente forte insicurezza. La consapevolezza di sé, il pensiero intuitivo e il riconoscimento dei limiti personali sono elementi fondamentali per sviluppare delle buone abilità utili a fronteggiare le situazioni complesse.
In questo testo vengono affrontati tutti i concetti necessari per comprendere i processi di attivazione psicofisiologica durante gli eventi critici, nello specifico: aggressività e violenza, vittima e aggressore, rischio e sicurezza, paura e reazione. Una particolare importanza viene data alla gestione dell’aggressività connessa alle situazioni traumatiche con lo scopo di migliorare la qualità di vita. I successivi capitoli sono più pratici e descrivono le azioni utili per prepararsi al fronteggiamento degli eventi critici, come ad esempio lo Stress Inoculation Training e le Psy-Sim (simulazioni realistiche). Viene inoltre trattata la gestione del post-evento e il possibile e grave disturbo da stress post-traumatico.
Un intero capitolo di Psicofisiologia degli eventi criticiè dedicato alla paura, descritta come arcaico sistema di difesa per “evitare di metterci nei guai”. Tale emozione non ha solo una accezione negativa (es. il panico), ma anche positiva (elemento evolutivo, come ad esempio la paura di un predatore che ci rincorre).
Gestire le proprie reazioni psicofisiologiche è possibile e questo diminuisce la probabilità di ottenere conseguenze nefaste durante gli eventi critici.
Il libro, che comprende in totale 13 capitoli risulta scorrevole ed esaustivo nonostante la ricchezza dei concetti trattati.
DSA, l’impegno delle forze politiche regionali: entro giugno un provvedimento per rimediare al ritardo – Comunicato Stampa
La legge 170 del 2010 e l’Accordo Stato-Regioni del 2012 richiedevano alle Regioni di indicare tempestivamente linee guida per la certificazione dei DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e Protocolli di identificazione precoce del rischio, al fine di assicurare a tutti gli studenti uguali opportunità di sviluppo. Nove anni dopo il Lazio è l’unica regione italiana a non avere recepito la norma. Al convegno organizzato all’Ordine degli Psicologi del Lazio le principali forze politiche della Regione si impegnano ad agire immediatamente e si danno una scadenza: “Entro giugno un provvedimento”. Prende corpo l’ipotesi del decreto.
Ordine degli Psicologi del Lazio
Roma, sabato 2 febbraio 2019
Lunedì come Commissione Sanità scriveremo alla Giunta, al Presidente e all’Assessore alla Sanità per chiedere un’audizione al Tavolo sull’integrazione socio-sanitaria, mettendo all’attenzione immediata del Commissario il recepimento della legge 170 e la questione del personale. Contestualmente, con il Presidente della Commissione Sanità, Simeone, ci impegneremo a incardinare la proposta di legge Lena. Abbiamo tutta la volontà di compiere il percorso per vincere.
Lo ha dichiarato Marta Bonafoni (Lista Zingaretti), componente della VII° Commissione – Sanità, politiche sociali, integrazione sociosanitaria, welfare – della Regione Lazio, al convegno “La lunga attesa per la diagnosi di DSA nel Lazio” Organizzato il 2 febbraio dall’Ordine degli Psicologi del Lazio presso il centro Erickson di Roma.
Rodolfo Lena (Pd), Presidente della I° Commissione della Regione Lazio e proponente della Legge n.4/2014 riguardante i DSA, si spinge anche oltre:
La mia proposta di legge è nata in una fase di grande difficoltà della Regione, con il commissariamento e il blocco del turnover al 10%. Oggi le cose non sono completamente definite ma c’è un miglioramento importante sul versante delle assunzioni. Il Presidente Simeone mi ha comunicato che il provvedimento verrà calendarizzato come seconda proposta di legge: nel corso del suo iter legislativo verrà arricchita da ulteriori emendamenti. In ogni caso, che si tratti del testo in questione o di un altro dispositivo, sento di poter garantire che arriveremo al Festival della Psicologia del prossimo mese di giugno con qualcosa di concreto.
Si tratta di impegni importanti che toccano una materia incandescente. Come ha ricordato Silvia Baldi, componente del gruppo Psicologia e Scuola dell’Ordine Psicologi Lazio:
Sono trascorsi nove anni dall’approvazione della legge 170, con la quale il Parlamento raccomandava alle Regioni di garantire una “diagnosi precoce” di DSA. Il testo interveniva per garantire agli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento uguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale, promuovendo misure didattiche di supporto, l’aumento del benessere scolastico, l’adozione di adeguate forme di verifica e valutazione, il coinvolgimento consapevole d’insegnanti, famiglie e professionisti. Nove anni dopo, il Lazio è l’unica regione italiana a non avere ancora recepito la normativa.
Una situazione inaccettabile – ha aggiunto Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – che ci colloca in una costante situazione di dejà vu. Oltre tre anni fa tenevamo un convegno in Regione sullo stesso tema, spingendo affinché la legge Lena venisse incardinata. Sostanzialmente non è accaduto nulla. A questo punto non possiamo più attendere, ci aspettiamo un impegno concreto e immediato da parte delle istituzioni. La soluzione che auspichiamo è il recupero della proposta di legge, ma non intendiamo sottilizzare sul dispositivo: la cosa fondamentale è che si intervenga nel minore tempo possibile.
Come ha sottolineato Bonafoni:
Il tema dell’uscita dal commissariamento non è indifferente. Quello sui DSA non è stato l’unico provvedimento che non siamo riusciti a portare alla discussione del Consiglio: tutte le spese sanitarie che incidono sui costi in una Regione in piano di rientro sono oggetto di impugnativa certa da parte del Governo. Nel quadro di incertezza attuale, dovremmo seguire un doppio binario, con un recepimento attraverso delibera qualora i tempi dovessero allungarsi.
La lettura delle opposizioni è diversa, come afferma Davide Barillari (M5S), componente della VII° Commissione.
Le responsabilità dell’immobilismo degli ultimi anni sono chiare e chiamano in causa il Consiglio regionale, orientato su altre priorità, più remunerative sul piano elettorale e politico. Il M5S ha spinto questa legge presentando un Ordine del Giorno in Consiglio regionale approvato da tutti che chiedeva tra l’altro l’abbattimento degli impedimenti burocratici per la diagnosi di DSA e BES, ma non ha avuto seguito. Faremo un’altra mozione per ricalcare le stesse proposte.
Emerge tuttavia una importante comunità di intenti.
Solleciteremo il prossimo Commissario alla Sanità ad agire con urgenza – ha proseguito Barillari – proponendo ulteriori integrazioni alla legge, che è ben fatta ma sconta il mutamento dello scenario. Procederemo anche con l’ausilio dei nostri strumenti di democrazia diretta: penso ad esempio al tema dello psicologo scolastico. La logica deve essere ancora più inclusiva e partecipativa.
A spingere sulla convergenza è anche Chiara Colosimo (FdI), componente della stessa Commissione:
La cronaca di questi giorni ci dimostra che l’uscita della Regione dalla fase commissariale non è ancora compiuta. La proposta di legge Lena è buona e dovrebbe essere incardinata, ma dal momento che va toccare l’ambito economico della Sanità dubito che andrebbe in porto. Quel che è certo è che non si può far perdere altro tempo a bambini, operatori e insegnanti. Credo che l’unica soluzione possibile sia quella di una delibera, alla quale tutti siamo pronti a dare un contributo. Zingaretti dovrebbe procedere per decreto e recepire la legge nazionale: fatto questo, nulla impedirà alla Commissione di intervenire successivamente, per ampliare la proposta Lena e integrarla con ulteriori miglioramenti.
Il rischio di sviluppare un secondo disturbo mentale, a seguito di una prima diagnosi
l rischio di sviluppare un secondo disturbo mentale aumenta dopo una prima diagnosi iniziale, secondo una nuova ricerca condotta dal professor John McGrath del Queensland Brain Institute di UQ e dalla Aarhus University.
Adriano Mauro Ellena
Il professor McGrath e i colleghi hanno esaminato i dati sanitari di un campione di 5,9 milioni di individui danesi, preparando così lo studio più ampio e completo che sia mai stato condotto sulla comorbilità – ovvero lo sviluppo di due o più disturbi mentali.
Diagnosi di disturbo mentale: lo studio su 5,9 milioni di persone
I ricercatori hanno monitorato la salute mentale di ciascuna persona per lunghi periodi di tempo. Ciò ha portato alla scoperta sorprendente che il rischio di una seconda diagnosi di un disturbo mentale, rimane elevato, anche quindici anni dopo una diagnosi iniziale.
Nei primi sei mesi dalla diagnosi iniziale, il rischio di una seconda diagnosi è molto alto: per esempio, le persone diagnosticate con un disturbo dell’umore come ad esempio la depressione, hanno un rischio molto alto di essere diagnosticate con un disturbo d’ansia nei primi sei mesi dalla diagnosi – ha detto il professor McGrath – Dopo il primo anno questo rischio diminuisce in modo sostanziale, ma poi si stabilizza e rimane 2 o 3 volte più alto di quelli senza un precedente disturbo, anche quindici anni dopo la diagnosi iniziale. È importante sottolineare che il risultato è stato pervasivo – lo abbiamo trovato in tutte le coppie di disturbi che abbiamo studiato.
Diagnosi di disturbo mentale: riflessioni sui risultati
I risultati sono gli stessi anche per alcune coppie di disturbi, non importa quale sia venuto prima. Ad esempio, una diagnosi iniziale di depressione era altrettanto probabile che fosse seguita da una seconda diagnosi di ansia e viceversa.
È importante sottolineare che le persone che avevano meno di 20 anni al momento della comparsa del loro primo disturbo mentale erano significativamente più a rischio di sviluppare un secondo disturbo nei 10-15 anni successivi e questa vulnerabilità è stata riscontrata nella maggior parte delle coppie di disturbi.
Non solo lo studio è il più ampio e completo nel suo campo, ma la sua presentazione innovativa dei risultati ha fissato un nuovo standard per l’epidemiologia – ha affermato il professor McGrath – Abbiamo fornito un atlante dettagliato e completo dei modi in cui i disturbi mentali si raggruppano insieme a disposizione del pubblico e speriamo che questo aiuti a migliorare la clinica e la ricerca futura.
Il prossimo passo per il professor McGrath e i suoi colleghi è quello di estendere lo studio per identificare i rischi tra i disturbi mentali e la successiva insorgenza di condizioni mediche generali, come l’epilessia, l’emicrania, gli attacchi cardiaci e il diabete.
Mindfulness per la de-automatizzazione dei processi di pensiero maladattivi
Gran parte della nostra vita mentale è supportata da processi inconsci, spontanei e apparentemente istintivi, cioè automatici. Spesso si sente dire che le persone utilizzano una sorta di “pilota automatico” nell’attuare i loro comportamenti e durante i processi decisionali, mentre le loro menti sono occupate con altri pensieri (Kang, Gruber, Gray, 2014).
L’automaticità è un meccanismo adattivo in quanto ci permette di conservare le nostre risorse attentive che di fatto sono limitate e che altrimenti sarebbero impegnate continuamente nei procedimenti di autoregolazione.
Mindfulness e altre tecniche per la de-automatizzazione
Tuttavia, le reazioni mentali automatizzate possono anche portare a risultati negativi per la salute. Ad esempio, quando un evento esterno è seguito dalle nostre reazioni inconsapevoli e automatiche, può diventare difficile separare l’evento stesso dai pensieri o dalle emozioni che esso suscita. Le reazioni automatiche e istintive possono portare alla mancanza di controllo percepito e questo, così come il senso di impotenza, sono comunemente associati ad una serie di problemi mentali, tra cui i disturbi d’ansia, la depressione, e alcune tipologie di dipendenze (Kang et al., 2014). Vi è consenso tra gli studiosi nel ritenere che le reazioni automatiche siano difficili o addirittura impossibili da controllare.
Tuttavia, alcune recenti scoperte suggeriscono che la de-automatizzazione è possibile. In uno studio di Moskowitz & Li, (2011) ad esempio è stato possibile de-automatizzare un processo considerato ad alto livello di automaticità e di inconsapevolezza che riguardava gli stereotipi, attivando preventivamente degli stereotipi egualitari tra i partecipanti alla ricerca. Durante la sperimentazione, quando venne chiesto ai partecipanti di contemplare un periodo in cui ritenevano di essere stati ingiusti nei confronti di una persona di colore nel passato (stereotipi egualitari attivati), i partecipanti mostravano meno stereotipi impliciti. Altre ricerche suggeriscono che anche l’ipnosi è risultata efficace nei processi di de-automatizzazione; tuttavia, entrambi questi metodi tendono ad avere effetti di breve durata (Dasgupta & Greenwald, 2001). Per questo, stimolare la consapevolezza consentendo l’introspezione e la percezione di controllo è risultato il mezzo più idoneo ed efficace ai fini dell’interruzione di processi di pensiero automatici.
La presenza mentale e consapevole, può indebolire le categorie associative stabilite in precedenza in modo automatico così come alcuni stili di comportamento routinari. Un crescente filone di risultati empirici suggerisce che la pratica della Mindfulness può portare a de-automatizzazione e che questa, può essere uno dei vantaggi centrali risultante dai meccanismi della consapevolezza di Mindfulness (Kang et al., 2014). Tuttavia, la funzione de-automatizzatrice della Mindfulness non è stata ancora adeguatamente elaborata in letteratura. L’attenzione si sposta invece sul tema della Mindfulness come possibile cura per diminuire la gravità dei sintomi e aumentare il benessere nel corso del tempo. Per questo, di seguito vengono riportati i meccanismi sottostanti il processo della Mindfulness al fine di comprendere meglio i passaggi necessari a realizzarla e che intervengono nei processi di de-automatizzazione.
Il modello di Kang et al. propone una struttura che descrive il modo in cui la Mindfulness facilita la de-automatizzazione in termini di processi specifici, portando a risultati desiderabili. Sono quattro i componenti della Mindfulness (consapevolezza, attenzione sostenuta, concentrazione sul momento presente, e l’accettazione non giudicante) che contribuiscono a creare l’ambiente necessario affinché si verifichi la de-automatizzazione. A loro volta, le caratteristiche o componenti di Mindfulness che descriveremo portano a realizzare quattro processi mentali successivi: ridurre le inferenze di pensiero automatiche, valorizzare il controllo cognitivo, facilitare una comprensione metacognitiva, e prevenire la soppressione e la distorsione dei pensieri. Questa funzione di de-automatizzazione della Mindfulness promuove strategie di autoregolazione adattive ed effetti desiderabili sulla salute.
Mindfulness e de-automatizzazione: la consapevolezza
La consapevolezza significa avere una conscia conoscenza della propria esperienza, incluso delle proprie sensazioni corporee, dei pensieri e delle emozioni, così come degli eventi esterni, ad esempio di immagini e suoni (Brown & Ryan, 2003). Questo stato di presenza nelle cose, è in contrasto con le reazioni mentali automatizzate che spesso si verificano quando la mente non è cosciente. Gli stereotipi impliciti ad esempio, avvengono al di fuori della propria consapevolezza. Un individuo consapevole può essere più propenso a notare il formarsi delle categorizzazioni implicite, avendo precisa consapevolezza dei meccanismi di distorsione.
Essere consapevoli aiuta a liberarsi da alcuni processi di inferenze automatiche a cui la mente è esposta quando è in uno stato di non consapevolezza: l’effetto priming e la formazione di stereotipi. L’effetto priming, accade quando uno stimolo precedente, o stimolo “prime”, stimola e influenza la risposta a uno stimolo successivo. Spesso lo stimolo prime viene presentato per un brevissimo periodo proprio per far si che il partecipante non sia consapevole di tale innesco. Dunque la presenza di Mindfulness, attraverso consapevolezza degli stimoli, delle sensazioni e dei pensieri che occorrono momento per momento, contribuendo ad aumentare l’allerta sul qui ed ora, può fare si che la mente sia meno influenzata da questo effetto (priming). Anche gli stereotipi, come abbiamo detto, sono il riflesso di una categorizzazione automatica, necessaria al nostro sistema cognitivo per dare significato all’ambiente conservando le risorse limitate delle sue facoltà. Questo processo inconscio, se da un lato può servire all’adattamento nell’ambiente, dall’altro ci porta a dare giudizi frettolosi, non consapevoli e quindi errati. Una delle caratteristiche di Mindfulness è la capacità di riconoscere non solo il proprio punto di vista ma altresì quello dell’altro grazie ad una molteplice presa di prospettiva riducendo così gli automatismi del comportamento che portano alla formazione di stereotipi.
Mindfulness e de-automatizzazione: attenzione sostenuta
Avere un’attenzione sostenuta significa prestare la propria concentrazione sul flusso continuo di stimoli interni ed esterni. Numerosi training di Mindfulness promuovono l’abilità di sostenere un’attenzione focalizzata verso il respiro e le proprie sensazioni corporee ma si possono utilizzare anche altri stimoli per mantenere l’attenzione. Quando sono consapevoli, gli individui portano la loro attenzione verso l’oggetto d’osservazione e, quando la mente si allontana dall’oggetto da osservare o è distratta, la Mindfulness riporta l’attenzione all’origine delicatamente, ma allo stesso tempo, in maniera ferma. Questa caratteristica di mantenere un’attenzione sostenuta e focalizzata, è stata associata ad effetti positivi di salute mentale, tra cui la riduzione dei processi di ruminazione e di ansia (Kang et al., 2014) e questo processo è alla base dei meccanismi che favoriscono il controllo cognitivo per ridurre gli automatismi che portano alla distrazione e agli effetti di una mente distratta. Le pratiche Mindfulness, promuovono anche la flessibilità cognitiva e la capacità di interrompere processi abituali per la categorizzazione delle informazioni. Evidenze indicano che la Mindfulness può ridurre l’interferenza dell’effetto Stroop (Alexander e co., 1989) favorendo appunto la capacità attentiva e la flessibilità dal punto di vista cognitivo.
Mindfulness e de-automatizzazione: concentrarsi sul momento presente significa non aumentare il dolore
Focalizzare la propria attenzione nel momento presente significa indirizzare la propria mente con o senza sforzo verso i fenomeni interni ed esterni che si verificano in ogni momento di consapevolezza (Baer, 2003). Questa pratica contrasta gli stati in cui la mente si preoccupa di pensieri passati o futuri, come i ricordi, i progetti, o le fantasie.
La ruminazione, che è associata ad una maggiore gravità dei sintomi depressivi, è un esempio di come la perdita di attenzione al momento presente, faccia spazio a preoccupazioni e pensieri automatici ricorrenti del passato, visti come causa e conseguenza dei sentimenti percepiti (Nolen-Hoeksema, 1991). Teasdale (1999) usa il termine “intuizione meta-cognitiva” per indicare il processo di consapevolezza in cui si riconoscono i pensieri come elementi facenti parte della mente e questo meccanismo è alla base del processo di de-centramento (tradotto dall’inglese de-centering) che è di fondamentale importanza nella comprensione che ciò che noi pensiamo è solo un prodotto della mente e non corrisponde necessariamente alla realtà. La de-centralizzazione permette all’individuo di prendere Non Reattività dai pensieri e dalle emozioni che spesso conducono a ruminazioni e preoccupazioni eccessive e libera la mente da quello che seguirebbe come processo secondario, ovvero l’elaborazione dei pensieri. Una prospettiva de-centrata infatti, sospende i processi automatici e involontari e questo processo è ritenuto di particolare importanza negli studi di Mindfulness sul dolore fisico e psicologico. Spesso la sofferenza fisica, porta alla sofferenza psicologica in un meccanismo automatico di risposte affettive tali per cui diventa difficile per chi ne è coinvolto, separare il dolore dalla sofferenza.
La tradizione Buddista, nel rispetto del dolore fisico, fa una differenza tra questo e la sofferenza che avviene quando i pensieri negativi e le paure vengono proiettate nelle sensazioni di dolore. Studi sulla percezione del dolore, dimostrano che l’aspettativa di dolore, può amplificare la sensazione di dolore stesso (Kang et al., 2014). La promozione di Mindfulness può portare a interrompere questo ciclo cronico di dolore, permettendo all’individuo di riconoscere che una certa parte dell’esperienza di dolore è generata dal sé; identificando quindi la sorgente di dolore, è possibile giungere al cambiamento. Questo processo vale anche per la ruminazione in cui pensieri disadattavi e continui portano ad un ciclo di reazione automatica e disfunzionale. La consapevolezza che tutti questi meccanismi hanno origine nella mente, permette ad essa di scegliere di eliminarli.
Mindfulness e de-automatizzazione: l’accettazione non giudicante
L’accettazione non giudicante permette di osservare i pensieri che si stanno vivendo, così come le sensazioni e gli eventi per quello che sono nel momento in cui entrano nella propria coscienza, senza giudicarli come buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile, importante o inutile. L’accettazione permette a tutte le esperienze, siano esse piacevoli, neutre o dolorose, di sorgere senza cercare di cambiarle, di controllarle, o di evitarle. L’accettazione vale sia per le esperienze concrete (ad esempio, il dolore sensoriale) sia per quelle astratte (ad esempio, sentimenti di rifiuto). Accettare consente alle persone di apprezzare l’esperienza nel momento in cui si verificano le auto-valutazioni che condannano in maniera severa il proprio sé (ad esempio, “Io sono un fallimento”). Quando queste valutazioni si verificano, l’accettazione consente alle persone di abbracciarle così come esse giungono, senza sopprimerle o distorcerle (ad esempio, “Al momento mi sento come se io fossi un fallimento”).
L’accettazione è anche alla base degli interventi di alcune terapie (ACT; Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999) in cui essa si propone come stimolo per osservare i pensieri senza valutarli, giudicarli o cercare di avere un controllo su di essi. La Mindfulness incoraggia l’esposizione graduale agli stimoli che causano paura, senza identificarsi eccessivamente con essi, esplorandoli con accettazione. L’esposizione riduce la reattività che potrebbe generare difese cognitive automatiche e disfunzionali (Baer, 2003) L’accettazione non giudicante verso l’esperienza personale può funzionare da elemento di esposizione e ridurre ad esempio l’ansia incoraggiando la presa di consapevolezza degli stimoli senza necessariamente cercare di controllarli (Kabat Zinn, e co., 1994).
La Mindfulness si differenzia dalla pratica dell’esposizione in quanto non include nella terapia la presentazione di stimoli di panico o altri stimoli con il fine di superarli; essa semplicemente accoglie gli stimoli che giungono indipendentemente e liberamente. Inoltre non è focalizzata sul raggiungimento di un risultato e sul superamento di una situazione ma accoglie ciò che la mente osserva, naturalmente e senza giudizio.
Mindufulness non è seguire gli impulsi
Tutti e quattro questi elementi di Mindfulness sono importanti affinché si verifichi la piena consapevolezza di ciò che succede. Non è possibile raggiungere la Mindfulness quando l’attenzione e la consapevolezza non sono accompagnate da una presenza verso il momento presente, come ad esempio quando ci si sofferma su ricordi del passato o preoccupazioni per il futuro. Cosi, se attenzione e consapevolezza sono presenti, ma senza accettazione, come ad esempio nel sentirsi arrabbiati per uno sbaglio commesso, ma senza essere in grado di accettare gli errori del passato e le emozioni ad essi legate, possono insorgere sentimenti di rabbia. Allo stesso modo, concentrarsi sul momento presente, senza consapevolezza, può portarci ad una sensazione di ebbrezza, accompagnata da lacune e vuoti che possono sensibilizzare le intenzioni. Se mancano uno o più componenti della Mindfulness possono insorgere “comportamenti irragionevoli” (Kang et al., 2013). Una persona che non ha consapevolezza sull’esperienza che vive nel momento attuale rischia di seguire ciecamente la routine quotidiana degli impulsi. Quando la mente non è in controllo attivo, è maggiormente dominata da processi inconsci. Così ad esempio quando siamo inconsapevoli, è probabile che le nostre percezioni e i giudizi sugli altri siano influenzati da etichette superficiali e stereotipi. Al contrario, una persona deliberatamente attenta e cosciente con un atteggiamento di Mindfulness aperto e flessibile, accede ad un’accettazione non giudicante di molteplici prospettive che fanno parte del contesto. Questa accettazione permette al soggetto di poter distinguere i pensieri e le emozioni dagli eventi che le evocano. Per questo, un individuo consapevole riesce a notare che alcuni eventi sono incontrollabili, mentre le risposte agli stessi, possono essere controllate con la pratica della Mindfulness e questo fa sì che il soggetto riesca a considerare meglio la presenza del controllo, fornendo una maggiore consapevolezza di ciò che è controllabile e ciò che non lo è.
Lettera aperta al Presidente della Repubblica – Società Psicoanalitica Italiana
L’approvazione del “Decreto Sicurezza” rende impossibile l’integrazione dei migranti in Italia, esponendoli ancora una volta al rischio di umiliazioni e sofferenze psichiche profonde e disumane. Non riconoscere più il permesso di soggiorno per motivi umanitari è disumano!
Domenico Chianese e Patrizia Montagner, psicoanalisti della SPI, intercettando il profondo sentimento di molti membri della Società Psicoanalitica Italiana di far sentire la propria opinione sulle vicende riguardanti i Migranti che stanno avvenendo nel nostro Paese, hanno proposto di inviare una lettera aperta al Presidente della Repubblica su questo argomento.
Il Gruppo di Geografie della Psicoanalisi e gran parte del Gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati) insieme ad altri membri della SPI, hanno collaborato alla stesura di un testo comune che vi proponiamo. A questo appello umanitario hanno risposto in modo convinto e preoccupato tantissimi psicoanalisti. Le firme raccolte sono state in totale 618 e la lettera è stata inviata al Presidente della Repubblica il 2 febbraio 2019.
(Daniela Battaglia)
Lettera aperta al Presidente della Repubblica
Noi tutti, firmatari di questa lettera, siamo psicoanalisti appartenenti alla storica Società Psicoanalitica Italiana (SPI), componente dell’International Psychoanalytical Association (IPA), della quale fanno parte società psicoanalitiche di tutto il mondo. Molti di noi fanno parte di un gruppo denominato PER (Psicoanalisti Europei Per i Rifugiati), con il quale la SPI ha inteso raccogliere le esperienze di molti psicoanalisti che già da anni operano su tutto il territorio nazionale nel settore della migrazione. Del Gruppo PER inoltre, fanno parte anche psicoanalisti che appartengono al gruppo denominato Geografie della Psicoanalisi che ha per scopo l’indagine e i contatti della psicoanalisi con altre culture.
Grazie allo specifico sapere psicoanalitico, in grado di cogliere la complessità del lavoro con i migranti e con l’intero fenomeno che sappiamo essere attivatore di grande sofferenza psichica, è stato possibile fornire, lavorando in strutture d’accoglienza o comunque in contatto con i migranti, un contributo clinico scientifico in favore dei migranti e degli stessi operatori delle varie associazioni che, essendo in diretto contatto con i migranti, si fanno carico quotidianamente della sofferenza psichica di cui essi sono portatori silenti.
È proprio quest’esperienza quotidiana di contatto con il disagio psichico profondo e con la sofferenza legata a traumi, sradicamento e lutto migratorio che ci spinge a scrivere e ad assumere una posizione critica, ritenendo che non si possa tacere sulle complesse e gravi condizioni in cui versano i migranti in Italia.
La situazione, da tempo critica, si è drammaticamente aggravata dopo il varo e l’approvazione del “Decreto Sicurezza” che, contrariamente al termine “sicurezza”, sta già rendendo la condizione dei migranti e, consequenzialmente quella italiana, sempre più “insicura”. Concordiamo con quanto Lei afferma: “la vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza”.
Ed è proprio a partire da questa Sua dichiarazione che pensiamo di poter affermare che la convivenza non è un dato, ma una paziente tessitura da costruire nel quotidiano, sfidando paure e diffidenze reciproche inevitabili. L’accoglienza e la convivenza possono essere prove difficili quanto l’esilio ed è per questo che vanno sostenute attraverso politiche e azioni sociali capaci di dare ascolto anche al disagio della popolazione residente, evitando che si radicalizzi quel cieco rifiuto che si sta attivando.
È grave chiudere gli SPRAR, in quanto sistemi di “accoglienza integrata”, che fino ad oggi non si sono occupati solo del sostegno fisico delle persone immigrate, ma hanno anche promosso percorsi di informazione, assistenza e orientamento, necessari a favorire un loro dignitoso inserimento socio-economico. Precludere queste opportunità non vuol dire solo annullare drasticamente gli SPRAR, ma cancellare ogni possibilità di dare dignità alle persone sostenendo il loro legittimo diritto di aspirare ad una vita migliore e alla salute che, come sancito dall’OMS, “…è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità”.
La nuova legge, di fatto, rende impossibile l’integrazione dei migranti in Italia, esponendoli ancora una volta al rischio di umiliazioni e sofferenze psichiche profonde e disumane. Non riconoscere più il permesso di soggiorno per motivi umanitari è disumano!
Gestire il fenomeno migratorio come una pura questione di ordine pubblico è segno di pericolosa miopia. Noi pensiamo che sia urgente ripensare completamente anche le politiche migratorie, riaprendo, ad esempio, i canali regolari della migrazione da lavoro, come opportunità per avvalersi dell’apporto di energie nuove che sempre le migrazioni riuscite hanno rappresentato e che sono alla base di ogni autentico processo di integrazione.
Quelli di noi che operano a Bologna, Genova, Milano, Roma, Trieste, Gorizia, Venezia, Caserta hanno visto, dopo l’approvazione della legge, da un giorno all’altro, centinaia di migranti lasciati in strada senza protezione. Diventati fantasmi, privati di tutto, uomini e donne che restano esposti al pericoloso circuito vizioso alimentato dalla condizione di bisogno estremo, vulnerabili e inermi, assoggettabili a contesti delinquenziali che possono spingerli/costringerli verso comportamenti anti sociali.
Tragicamente inoltre sono aumentati percentualmente i morti in mare per la restrizione quasi totale della possibilità di operare salvataggi da parte delle navi di soccorso. Chi soccorre in mare può, paradossalmente rispetto alle leggi di mare, essere soggetto a processo per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina! Per non dire di ciò che accade nei percorsi di terra e nell’attraversamento dei deserti.
Quanto poi ai rimpatri, essi, di fatto, sono semplicemente impossibili in assenza di accordi sicuri con le Nazioni di partenza. In questo contesto, è molto grave che l’Italia non abbia partecipato al Global Compact for Migration dell’ONU, accordo globale sull’accoglienza dei migranti approvato con il voto favorevole di 152 Paesi.
È doveroso chiedersi da dove nasca questa ossessione per il migrante da parte dei nostri governanti, che generano e alimentano paure sociali, dal momento che gli sbarchi sono passati da circa 120.00 nel 2017 a 23.000 circa nel 2018.
Siamo consapevoli che le paure possono accecare al punto da distorcere la percezione non solo dell’altro ma persino della propria stessa umanità. La disumanità è un rischio costante per l’umano in cui si può scivolare quasi inavvertitamente spostando sempre un po’ più in là l’asticella di ciò che è tollerabile. È questa la ragione per cui è ancora più necessario riuscire ad ascoltare anche quello che si cela sotto la paura, per trasformarla in possibilità di contatto con se stesso e con l’altro. Attraverso il nostro lavoro di psicoanalisti siamo vicini alle complesse realtà umane e sentiamo urgente lavorare e riflettere, anche al difuori del nostro ambito, sulla possibilità di elaborare il “male” per prevenire il rischio che il “male” possa essere agito.
È necessario operare affinché l’inconsapevole distruttività, cui tutti siamo esposti, possa trasformarsi in conoscenza e comprensione generatrice di consapevole tensione verso il diverso, l’ignoto, l’altro.
Non possiamo accettare il razzismo crescente che sfocia in atti di cui una nazione civile dovrebbe vergognarsi. È in atto un diffuso, impressionante processo di disumanizzazione. Noi analisti siamo sempre attenti quando vediamo negli individui, nei piccoli e nei grandi gruppi, fenomeni più o meno striscianti o palesi di razzismo e di disumanizzazione. Siamo sensibili per formazione professionale e cerchiamo di tenere a mente l’insegnamento della storia, anche perché nel periodo delle leggi razziali, la psicoanalisi fu vietata e molti colleghi di allora, perché ebrei, furono costretti a emigrare.
Operando nel settore, non finiamo mai di stupirci di quanto dolore possa essere inflitto a un essere umano, anche senza volerlo, anche solo girando la testa dall’altra parte.
Conosciamo le gravi conseguenze psichiche di tutto ciò che sta succedendo, sia in coloro che si sentono rifiutati ed emarginati, sia nei figli che avranno, sia in coloro che si trovano a dover operare in modo disumano e che rischiano essi stessi di impoverirsi dei valori fondamentali dell’esistere. Non siamo disposti, per tutti questi motivi, a vedere una parte dell’Italia abbracciare xenofobia e razzismo. Organismi internazionali come Amnesty International hanno segnalato questi gravi fenomeni razzisti e xenofobi in Italia.
Un’altra Italia esiste e inizia a esprimere il proprio profondo dissenso: noi ne facciamo parte. Lavoriamo affinché i valori dell’ospitalità, della tolleranza, della convivenza e della responsabilità individuale per il futuro di tutti, siano mantenuti vivi. Siamo una “comunità di vita”, come Lei ha definito il nostro Paese e, come tale, vogliamo continuare a esistere. Non possiamo tacere perché tacere sarebbe colpevole anche verso le generazioni future di figli e nipoti che ci potranno chiedere dove eravamo quando un’umanità dolente e in cerca della possibilità di ricostruire la propria identità spezzata e perduta, veniva respinta, emarginata o segregata in modo disumano.
Ci rivolgiamo a Lei, Signor Presidente della Repubblica, nella Sua qualità di Garante della Costituzione e dei diritti umani e civili sui quali Essa è stata fondata, affinché questo appello, nato dalla nostra esperienza professionale, sostenuto dal nostro ruolo di cittadini e dalla nostra identità di esseri umani, abbia ascolto.
Disturbo Ossessivo Compulsivo e fattori di esito
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è caratterizzato da pensieri o impulsi ricorrenti (ossessioni), che sono avvertiti come intrusivi, irrazionali o sgradevoli, ma ciò nonostante irrefrenabili.
Federica Bonazzi e Gianfranco Marchesi
Stimoli anche banali, interni od esterni, suscitano immagini mentali, pensieri, talvolta blandi impulsi; qualora tali esperienze creino tensione al soggetto, si avrà un aumento di arousal, minor abituazione e persistenza delle reazioni emotive. L’individuazione di fattori predittivi di risposta al trattamento è un aspetto essenziale per poter stabilire nella pratica clinica la terapia più idonea per il paziente.
Disturbo ossessivo-compulsivo: inquadramento ed epidemiologia
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è caratterizzato da pensieri o impulsi ricorrenti (ossessioni), che sono avvertiti come intrusivi, irrazionali o sgradevoli, ma ciò nonostante irrefrenabili. Il DOC è stato associato ad un inadeguato funzionamento cerebrale (Rasgon et al, 2017).
La risposta alle ossessioni consiste in atti ripetitivi e ritualizzati (compulsioni). Le compulsioni servono a rassicurare il paziente circa i dubbi sollevati dalle ossessioni e si manifestano fino in percentuali che arrivano al 75% delle persone con ossessioni. Un soggetto può essere affetto da più di un ossessione, mentre sono rare le compulsioni multiple. Il DOC è spesso associato all’ansia, portando ad attacchi di panico, a evitamento fobico e a una dolente compromissione della vita quotidiana (Lader e Uhde, 2003).
Tra i più comuni sottotipi di sintomi del DOC vi sono quelli che ruotano attorno al timore della contaminazione e all’impulso di lavarsi le mani ed altri tipi di ossessioni relative al controllo, alla simmetria, all’ordine e all’accumulo (Leckman et al., 1997).
Da un monitoraggio effettuato dall’Istituto San Raffele di Milano (2001) risulta che:
..negli ultimi 20 anni la prevalenza del DOC nella popolazione generale è stata rivalutata.
Se fino agli anni ’80 si considerava che il disturbo fosse presente nello 0.5% della popolazione, le stime successive hanno riscontrato indici oscillanti tra 2-4%.
La causa di tale differenza non è tanto da ricercarsi in un effettivo incremento della frequenza del disturbo negli anni, ma piuttosto in una maggiore conoscenza di questa patologia che ha quindi permesso di valutarne la reale la frequenza, unitamente a una diagnosi più precoce.
Negli ultimi anni sono stati fatti importanti progressi nella ricerca dell’eziologia e del trattamento dei disturbi dello spettroossessivo-compulsivo, permettendo di raggiungere risultati significativi nella cura di questi disturbi, considerati in passato sostanzialmente incurabili.
Diventa quindi importante mettere a disposizione non solo degli “addetti ai lavori” ma anche della popolazione generale, tutte le informazioni necessarie per permettere a ciascuno di riconoscere come sintomi quelle piccole stranezze del proprio comportamento, che sono sempre state considerate “normali” perchè magari presenti fin dall’infanzia e alle quali si è cercato, sebbene con con fatica, di adattarsi nel corso della propria esistenza.
Le prove di un substrato biologico del DOC derivano da varie fonti, come rileva Tallis (1995), che cita diversi studi che associano DOC e lesioni massicce o infarti; studi indicanti che il DOC può svilupparsi dopo infezione; studi che rilevano un’associazione tra DOC e disturbi metabolici e l’epilessia.
Relativamente all’iperattività del circuito fronto-striato-talamico-frontale, importante aspetto neurobiologico che è stato associato al Disturbo Ossessivo Compulsivo, Gehring et al. (2000), con uno studio elettrofisiologico, hanno rilevato che i potenziali negativi correlati all’errore (che riflettono processi di monitoraggio dell’azione) sono aumentati nei soggetti DOC e tale incremento è proporzionale alla gravità dei sintomi. Il sito dell’aumentata attività sembra essere collocato nelle regioni frontali mediali, forse nella corteccia cingolata anteriore. Risultati analoghi sono stati ottenuti da Johannes et al. (2001).
La maggiore consistenza degli studi (Dèttore, 2003) va nella direzione della presenza nel DOC di una iperfrontalità (soprattutto a livello orbito-frontale), anche se vi sono risultati (sebbene in numero minore) che non confermano questo dato.
Dall’Università di Wuerzburg, in Germania, arrivano i risultati di una ricerca che individua una proteina (Spred2) che sembra coinvolta nello scatenare il DOC. La proteina Spred2 è stata rilevata in concentrazioni particolarmente elevate in alcune zone cerebrali: l’amigdala e i gangli basali. Normalmente la proteina inibisce un’importante via di segnalazione della cellula. Quando la proteina non c’è, il pathway segnalatore risulta molto più attivo del solito. Questa iperattività delle strutture del cervello dedicate all’allarme darebbe il via alla catena degli eventi che determinano il disturbo ossessivo-compulsivo. (Zoli, 2017).
I modelli eziopatogenetici tradizionali (Rachman e Hogson, 1980) si focalizzano soprattutto su fattori e processi che possono aver condotto all’aggravarsi e all’auto-perpetuarsi del disturbo.
Effetto a spirale dei fattori di mantenimento delle ossessioni (fonte: Rachman e Hodgson, 1980, in Sanavio, 1997)
Stimoli anche banali, interni od esterni, suscitano immagini mentali, pensieri, talvolta blandi impulsi; qualora tali esperienze creino tensione al soggetto, si avrà un aumento di arousal, minor abituazione e persistenza delle reazioni emotive.
La ripetuta esperienza di pensieri ed immagini mentali di tipo intrusivo induce un senso si incontrollabilità nel soggetto sulla propria attività mentale. E, nel caso di impulsi, sul proprio comportamento motorio (Franceschina et al., 2004).
Disturbo ossessivo-compulsivo: l’inquadramento di Salkovskis
Salkovskis (1989); Salkovskis e Kirk, (1997) propongono un’ipotesi cognitivo-comportamentale per lo sviluppo dei disturbi ossessivi. Una caratteristica importante di questo modello è la nozione che particolari tipi di pensiero intrusivo, al momento dell’appraisal (valutazione iniziale), interagiscono nei soggetti vulnerabili con le convinzioni che riguardano la responsabilità e che spingono a compiere comportamenti neutralizzanti verso la minaccia prodotta dal pensiero ossessivo. La nozione di responsabilità ha un posto centrale nell’ipotesi di Salkovskis: la responsabilità di avere il pensiero e la responsabilità verso le conseguenze del pensiero.
Nella psicopatologia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo è stata prestata attenzione anche alla cosiddetta “paura di sé” (Mannino,Guerini, 2018).
Rachman (1993, 1997) ha studiato il meccanismo di appraisal nel DOC e suggerisce che i pazienti tendono a fondere psicologicamente i pensieri con le azioni. Le persone con i sintomi che riguardano il danno ad altri (le ossessioni di controllo e le ruminazioni ossessive) presentano spesso errori cognitivi sistematici, come la fusione pensiero-azione, l’appraisal negativo del contenuto ed il succedersi dei pensieri intrusivi. Non vi sono invece molte prove a sostegno del fatto che questi fattori siano attivi anche nelle persone che si lavano compulsivamente e non temono di fare male agli altri (Andrews et al., 2003).
Per quanto riguarda le compulsioni esse vengono spiegate facendo ricorso ai meccanismi di apprendimento e condizionamento grazie ai quali si instaurano e si mantengono i comportamenti “superstiziosi” (Franceschina et al., 2004).
Dal punto di vista tecnico il mantenimento e la cronicizzazione delle compulsioni vengono spiegati dal paradigma dell’evitamento discriminativo e dell’evitamento non segnalato. Nel primo caso il rituale viene eseguito alla comparsa di uno stimolo che segnala la possibile eventualità di un evento negativo. Nel secondo non vi è un precedente segnale che avverte la possibile comparsa di un evento negativo, semplicemente la persona ricorre il più frequentemente possibile al rituale per cautelarsi da una possibili evenienze dannose.
E’ possibile concettualizzare la massima parte delle compulsioni, come casi particolari di evitamento attivo del tipo segnalato o non segnalato. Ciò permette di spiegare in maniera soddisfacente quattro fenomeni di comune riscontro nelle clinica delle compulsioni (Sanavio, 1997):
la particolarissima resistenza all’estinzione che esse condividono con le risposte di evitamento;
la rapidità con cui si può avere riapprendimento, nei casi in cui detti comportamenti sono diminuiti o scomparsi da tempo;
la facilità con cui possono estendersi per generalizzazione e dilatarsi in elaborati cerimoniali;
la marginalità, se non la vera e propria impotenza, delle convinzioni e delle credenze razionali del soggetto nel controllo del comportamento compulsivo.
La morbilità correlata con il Disturbo Ossessivo Compulsivo non è da sottovalutare. Esso si colloca al decimo posto tra le affezioni mediche maggiormente invalidanti (Murray e Lopez, 1996).
Disturbo ossessivo-compulsivo: fattori situazionali come predittori di esito
L’individuazione di fattori predittivi di risposta al trattamento costituisce uno degli aspetti essenziali per poter prestabilire nella pratica clinica la terapia più idonea per ogni singolo paziente (S. Venturello et al. 2001). Per quanto riguarda la terapia DOC, gli studi sui fattori predittivi di risposta non sono molti e i risultati sono ancora controversi e necessitano di ulteriori conferme. Uno degli aspetti clinici con valenza predittiva su cui diversi autori hanno indagato è la tipologia di del quadro sintomatologico ossessivo-compulsivo. Alcuni tra i primi studi condotti sull’argomento, hanno identificato la predominanza di sintomi compulsivi, ed in particolare, di rituali di pulizia come fattori predittivi di scarsa risposta al trattamento con gli SSRI (inibitori della ricaptazione dello serotonina), mentre dati aneddotici sembrerebbero indicare che i pazienti con una sintomatologia prevalentemente ossessiva, risponderebbero meglio alla terapia farmacologica rispetto alla terapia comportamentale. Jenike et al. (1990) hanno pubblicato alcuni dati preliminari circa una risposta preferenziale agli IMAO dei pazienti con ossessioni di simmetria o somatiche insolite. Alcuni Autori (che citeremo successivamente nel corso del paragrafo) hanno specificamente valutato il significato predittivo dei sintomi ossessivo-compulsivi in relazione alla risposta alle terapie comportamentali, evidenziando come i pazienti con rituali di pulizia e compulsioni di controllo trarrebbero il massimo beneficio da tecniche di esposizione e prevenzione della risposta.
Castle e i suoi collaboratori (1994) individuano come predittori di esito positivo (rilevati su 178 soggetti DOC di sesso femminile) i seguenti fattori: valutazioni iniziali non elevate nel livello globale di fobia, nella limitazione delle attività lavorative e domestiche e in una checklist di compulsioni; avere un impiego retribuito all’epoca dell’assessment; la presenza di un familiare come co-terapeuta/supervisore.
Nei maschi l’unico fattore predittivo di tipo negativo è l’abitare da soli.
Buchanan et al. (1996), impiegando tecniche di analisi della regressione, fanno notare che la compliance al trattamento è associata all’avere un lavoro o al vivere con la propria famiglia. Il miglioramento clinico è invece legato al fatto di non essere mai stato trattato precedentemente, all’avere un lavoro, al presentare paure di contaminazione e manifesti cerimoniali comportamentali, all’assenza di depressione e infine al fatto di vivere in famiglia.
Steketee et al. (1999) hanno individuato come unico predittore significativo di parziale remissione sintomatica, il fatto di essere coniugati e un meno elevato punteggio di gravità all’ingresso in terapia. Questi dati e i precedenti, sottolineano l’importanza di un sostegno sociale.
L’aiuto dei familiari e amici può essere di grande utilità nel favorire l’aderenza alle prescrizioni terapeutiche (Dèttore, 2003). Le persone che possono svolgere il ruolo di co-terapeuti, però, vanno accuratamente selezionate, poiché devono essere sufficientemente decise da resistere alle frequenti ed insistenti pressioni da parte del paziente per attenuare i compiti a casa, ma allo stesso tempo sufficientemente abili nel cogliere i progressi e rinforzarli costantemente.
Ball et al. (1996), passando in rassegna 65 studi che permettevano di classificare i soggetti trattati in base al sottotipo di DOC, hanno messo in evidenza che il 75% di tali indagini si riferivano a pazienti in cui predominavano compulsioni di pulizia e/o controllo, mentre solo il 12% di tali soggetti presentava compulsioni multiple o di altro tipo (precisione, conteggi, accumulo o lentezza).
Va quindi posto in risalto che molto probabilmente i tassi di miglioramento in pazienti DOC ricavabili dalla letteratura in seguito a terapia comportamentale sono più applicabili a pazienti con compulsioni di pulizia e di controllo e possono non sono generalizzabili a quelli con sintomi DOC diversi (Dèttore, 2003).
I pazienti con paure di contaminazione e rituali di pulizia sembrano rispondere meglio al trattamento comportamentale (Boulougouris, 1977; Rachman e Hogson, 1980), mentre quelli con compulsioni di controllo possono non raggiungere un miglioramento altrettanto significativo, sebbene vi siano alcuni contributi che non confermano tale differenti risposte (Foa e Goldstein, 1978; Foa et al., 1983; Steketee, 1993).
Comunque, anche quando rispondono alle tecniche, i pazienti con rituali di controllo hanno progressi più lenti di quelli con rituali di pulizia (Foa e Goldstein, 1978).
I pazienti con lungaggine ossessiva primaria, rispondono più lentamente alla terapia comportamentale dei pazienti con rituali di controllo e di pulizia (Baer e Minichiello, 1990).
Gli studi sono concordi nell’indicare che i pazienti con ossessioni pure o rituali covert, hanno una prognosi peggiore rispetto a quelli con rituali overt (Salkovskis e Westbrook, 1989; Steketee e Cleere, 1990).
La terapia comportamentale sembra produrre benefici nelle compulsioni, mentre non sembra portare a miglioramenti significativi nelle ossessioni, particolarmente in quelle con contenuto sessuale/religioso (Alonso et al., 2001).
Uno studio naturalistico (Skoog e Skoog, 1999) con dati raccolti durante un follow-up di 40 anni, ha evidenziato che circa la metà di un campione di pazienti adulti con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo presenta alterazioni qualitative dei sintomi nel tempo, che una quota significativa di pazienti (12%) è mono-sintomatica, e che la quasi totalità di questi ultimi presenta un quadro stabile nel tempo. Si tratta però di uno studio retrospettivo condotto su pazienti inizialmente ospedalizzati e successivamente trattati per il disturbo. Va inoltre rilevato che i criteri diagnostici e la raccolta dei dati clinici utilizzati nello studio non fanno riferimento al DSM-IV né alla Y-BOCS-SC.
Disturbo ossessivo-compulsivo: tipi di decorso
Ravizza et al. (1997) distinguono il disturbo ossessivo compulsivo a decorso episodico e a decorso cronico, in cui il primo si presenta generalmente con alcuni episodi acuti (raramente uno solo), intervallati da periodi totalmente asintomatici.
Il DOC a decorso episodico, più frequente nelle donne e con esordio tardivo (in genere dopo i 25 anni di età), è caratterizzato da periodi critici di uno o due anni, intervallati da periodi asintomatici a durata variabile (da pochi mesi a molti anni). I sintomi ossessivi sono quasi sempre rappresentati, mentre sono più rari i sintomi compulsivi e rarissimi i rituali di pulizia. Le idee ossessive più frequenti sono quelle aggressive, sessuali e religiose (Dèttore, 2003).
Il DOC a decorso episodico avrebbe, secondo gli autori (Ravizza et al., 1997), una prognosi buona, certamente migliore rispetto a quello a decorso cronico.
Quest’ultimo, invece, è rappresentato da una maggioranza di pazienti di sesso maschile. Ha un esordio più precoce (fin dai 14 anni) e un andamento fluttuante (senza periodi liberi totalmente da sintomi) o peggio ancora, costantemente ingravescente.
I pazienti washers e checkers sono i più rappresentati in questa categoria, che sembra avere una prognosi nettamente peggiore.
Tale dato, tuttavia, contrasta sia con le già citate ricerche che indicano una prognosi peggiore per i pazienti ossessivi puri o con rituali overt, sia con la comune pratica clinica, in cui i pazienti washers risultano in genere più rispondenti al trattamento.
Occorre tuttavia notare che, mentre le ricerche di Ravizza et al. (1997) si riferiscono a predittori di esito per le terapie farmacologiche, gli altri studi si riferiscono agli interventi psicoterapeutici comportamentali o cognitivo-comportamentali.
Ciò potrebbe giustificare le differenze nei risultati. I pazienti con ossessioni pure o rituali mentali sono quelli in cui è ragionevolmente indicata l’associazione di una terapia cognitivo-comportamentale al trattamento farmacologico (Dèttore, 2003).
Disturbo ossessivo-compulsivo: come impostare la terapia
Venturello et al. (2001) hanno condotto un lavoro per verificare:
1) se l’espressività sintomatologica del DOC varia in relazione all’età o alla durata di malattia;
2) se i sintomi ossessivo-compulsivi sono stabili o si modificano nel tempo;
3) se esistono pazienti mono-sintomatici e se la sintomatologia espressa da tali pazienti si mantiene stabile nel tempo.
I risultati della ricerca (S. Venturello et al., 2001) indicano che la maggior parte dei pazienti DOC presenta una sintomatologia che si mantiene sostanzialmente stabile nel tempo.
Anche analizzando le singole categorie sintomatologiche della Y-BOCS Symptom Check List emerge una sostanziale stabilità della fenomenologia del disturbo. È da segnalare, tuttavia, che le ossessioni di accumulo/risparmio tendono a comparire tardivamente nel corso del disturbo, mentre le ossessioni di aggressività o quelle sessuali possono scomparire con il progredire della malattia. Anche per queste ossessioni, comunque, viene confermata una generale stabilità temporale. Questo risultato avvalora lo studio della sintomatologia ossessivo-compulsiva in relazione al trattamento e consente di verificare le ipotesi proposte, secondo cui particolari categorie sintomatologiche sarebbero associate ad una risposta differenziata a specifiche strategie terapeutiche (psicofarmacologiche e/o cognitivo-comportamentali). Questi studi appaiono importanti per adattare la terapia alle caratteristiche del singolo paziente, soprattutto in relazione alla crescente disponibilità di strategie terapeutiche differenziate. Oggi infatti non è più sufficiente porre una corretta diagnosi diDOC per indirizzare la terapia, ma occorre sempre più analizzare diversi parametri predittivi di risposta, tra cui appaiono rilevanti quelli sintomatologici. La considerazione che la sintomatologia ossessivo-compulsiva espressa dal paziente non è in relazione all’età del soggetto, alla durata di malattia, ma si mantiene stabile nel decorso naturale del disturbo, ne consente la valutazione tra i predittori clinici di risposta alla terapia. Il trattamento sequenziale, con la somministrazione di TCC in potenziamento ai farmaci in pazienti responder ma con sintomi residui, può determinare remissione completa, anche se tale conclusione si basa sui risultati di un unico studio. Esistono infine chiare evidenze, anche da studi randomizzati controllati, dell’efficacia della strategia di potenziamento degli IRS con TCC nel trattamento dei pazienti resistenti ai farmaci.
Quest’ultima conclusione ci porta a effettuare una considerazione: per la gestione terapeutica dei pazienti resistenti, oggi risultano dalla letteratura evidenze di efficacia sia per il trattamento sequenziale IRS+TCC, sia per il potenziamento degli IRS con farmaci antipsicotici. Non esistono in letteratura studi di confronto diretto fra le due strategie, per cui, basandoci solo sulla comparazione dei risultati tra studi diversi, possiamo concludere che le due tecniche risultano egualmente efficaci. La scelta su quale delle due strategie scegliere si deve basare sulla formazione del terapeuta, sulla preferenza dei pazienti e sulla possibilità di comparsa degli effetti collaterali legati all’uso di farmaci antipsicotici.
Una malattia chiamata genitori (2005) di A. A. Schutzenberger e G. Devroede – Recensione del libro
La trasmissione transegenerazionale dei traumi è il tema principale del libro Una malattia chiamata genitori, scritto dalla Prof.ssa Schutzenberger e dalla chirurgo Devroede.
Era la mia prima lettura di queste due Autrici, che definiscono la loro “una medicina narrante, medicina umanista o medicina della persona”. Il libro si focalizza sugli abusi (specie sessuali) e sulle conseguenze che questi lasciano nel corpo di chi li subisce ma anche nella trasmissione alla loro progenie perché “I traumi hanno vita lunga”.
Vengono presentati molti casi clinici, specie di bambini, con dovizia di dettagli sulla loro condizione sofferente, anche dal punto di vista anatomico. La parte finale è dedicata alla descrizione della trasmissione collettiva dei traumi legati a guerre e catastrofi naturali.
Una malattia chiamata genitori: il corpo nella trasmissione dei traumi
Il corpo è più affidabile dei ricordi. E’ infatti possibile rintracciare le stigmate corporee di una storia di abuso sessuale.
Questo sostengono le Autrici, che rintracciano nei loro casi clinici diverse problematiche al tratto gastro intestinale. Una di queste è l’anismo
Quando un soggetto normale spinge per defecare, il suo ano si rilassa completamente, per lasciar passare le feci, senza che si debbano compiere sforzi. Nelle persone affette da anismo, l’ano, invece di rilassarsi, si contrae. Questa anomalia costringe il soggetto a spingere più forte.“Non vuol passare,” dicono i malati, “ma sento che devo farla.” Si devono allora sostenere grossi sforzi, che porteranno la persona affetta da anismo a sviluppare tutta una serie di disturbi d’organo collegati. Anche se la presenza di anismo non è segno inequivocabile di un avvenuto abuso sessuale, è stato dimostrato che le persone vittime di abuso ravvisano anismo con una frequenza di dieci volte maggiore rispetto alle persone che non hanno subito alcun abuso.
In molti dei casi narrati si assiste alla scomparsa del sintomo somatico del piccolo paziente nel momento in cui il genitore parla al terapeuta del proprio trauma subito: da lettore, la cosa assume dei contorni quasi magici. Mi è mancato capire perché secondo le Autrici il sintomo è scomparso proprio in quel momento.
Inoltre evidenziano anche come i segreti famigliari relativi a traumi subiti e mai affrontati, siano deleteri e diano luogo ad una trasmissione trans-generazionale di sofferenza, anche fisica, nel tratto gastro-intestinale. Per capirci: lo stupro subito da una donna, potrebbe essere la causa dei problemi di transito intestinale e defecazione del figlio.
Una malattia chiamata genitori: l’approccio clinico
Da giovane clinica avrei apprezzato molto che i casi (davvero molti) fossero stati raccontati esplicitando, di volta in volta, il razionale delle scelte cliniche, una sorta di concettualizzazione del caso e delle tempistiche scelte per alcuni esami medici o per la rieducazione delle zone del corpo interessate con biofeedback. Questo mi avrebbe permesso di comprendere meglio un punto di vista teorico e operativo diverso da quello che mi appartiene, il cognitivo – comportamentale. Avrei trovato utile e stimolante che le Autrici sottolineassero cosa, nelle loro scelte cliniche, ha funzionato; cosa non ha funzionato e in entrambi i casi, perché. Del resto rimango convinta del fatto che se non abbiamo in mente un razionale delle nostre scelte cliniche, non si può nemmeno capire perchè la terapia ha funzionato, se ha funzionato.
Non mi è stato sempre immediato capire dove finiscano i riferimenti agli studi scientifici e dove inizino le ipotesi “cliniche”, specie nel trattamento dei pazienti e mi chiedo se sia così anche per un lettore non addetto ai lavori. Del resto, nella parte finale del libro, secondo Schutzenberger e Devroede:
Per la medicina “scientifica”, tutte le storie che abbiamo fin qui raccontato non sono che “aneddoti”, propri di un modo antico di praticare la medicina; un modo fatto di osservazioni personali che, per quanto vaste possano essere, mai consentirebbero una valutazione statistica, al fine di verificare se una data ipotesi – emessa sulla base dell’esperienza – sia vera o meno. Tuttavia, come sosteneva Freud, è necessario istruire casi clinici, per poter mettere paletti e pavimentare la via della ricerca medica fondamentale.
Credo che ogni clinico accumuli, sulla base della sua esperienza, impressioni, osservazioni, ipotesi. Credo anche, però, che lo status di professionisti della salute che ci è stato riconosciuto, implichi l’obbligo deontologico e professionale di impegnarci a trovare buone pratiche di provata efficacia da diffondere nella comunità scientifica, che in questa epoca storica assume il metodo scientifico ed il falsificazionismo come paradigmi ai quali rifarsi. Condivido il seguente passaggio:
Semmai, il difficile è praticare una medicina umana, che non sia disincarnata. L’incontro tra colui che cura e colui che chiede aiuto deve per forza essere una relazione da soggetto a soggetto, egalitaria; e non quella con uno psy (o un “guru”) che “sa” e che, come fanno i genitori, dice all’altro cosa è meglio fare. Anzi, piuttosto è vero il contrario. La persona che soffre sulla propria pelle deve prendere in mano la propria vita e si accontenta di essere accompagnata. La pillola della felicità o dell’amore non esiste…
Non mi è chiaro, dai casi clinici illustrati, come venga raggiunto questo obiettivo dalle Autrici. Come viene co-costruito col paziente il senso della sua sofferenza? Come impostano una relazione cooperante all’interno della quale capire la funzione dei sintomi? Come rendono il paziente, pian pianino, in grado di sapersi “aiutare” a stare meglio senza di noi?
Sono convinta che avere come riferimenti teorici degli approcci che si sviluppano e fondano su dati di ricerca e che saper usare i relativi strumenti sulla scorta di indicazioni precise non sia inconciliabile con un approccio profondamente umano e fatto su misura per chi abbiamo nel nostro studio, anzi. Non mi riferisco solo alla terapia cognitivo-comportamentale in senso stretto, ma penso anche alla DBT, alle terapie basate sulla Mindfulness, all’MCT, alla TMI.
I bambini bilingue hanno funzioni esecutive più sviluppate?
Come è noto, dovendo imparare non solo i fonemi ma anche a distinguere la lingua del padre da quella della madre (e viceversa), i bambini che crescono in contesti bilingue impiegano leggermente più tempo a imparare a parlare rispetto ai coetanei cresciuti in un contesto caratterizzato da una lingua soltanto.
È possibile che il fatto di crescere bilingue possa influenzare in modo positivo le capacità attenzionali e quelle legate alle funzioni esecutive, rendendo i bambinibilingue più abili dei coetanei a ricordare istruzioni ed a shiftare tra un compito e l’altro fluidamente?
Bambini bilingue: lo studio sulle funzioni esecutive
Secondo gli autori di questa ricerca è importante studiare le funzioni cognitive nei bambini in quanto queste sono degli ottimi predittori del successo sia in ambito accademico che lavorativo.
Uno studio dell’Università del Tennessee e dell’Università della Ruhr di Bochum ha cercato di rispondere a questa domanda, studiando le funzioni esecutive in bambini bilingue tedeschi di origine turca, pertanto cresciuti in un contesto dove si trovano presenti due lingue.
Per testare l’ipotesi secondo la quale i bambini bilingue potessero avere delle funzioni esecutive più sviluppate rispetto a quelli monolingue, sono stati confrontati due gruppi differenti:
Bambini bilingue parlanti tedesco e turco
Bambini monolingue parlanti tedesco.
I due gruppi, per un totale di 350 partecipanti, hanno dovuto completare un test al computer per poter avere una misura oggettiva delle loro funzioni esecutive.
Bambini bilingue: i risultati dello studio
I risultati, purtroppo, non supportano l’ipotesi; al contrario: non sembrano esserci differenze inter-gruppo statisticamente significative per quanto riguarda le funzioni esecutive.
Ovviamente questo non vuol dire che crescere in un contesto bilingue sia inutile, in quanto parlare più di una lingua è comunque una risorsa a livello sia cognitivo che sociale molto importante nel corso della vita, semplicemente vuol dire che i benefit dell’essere bilingue, a livello cerebrale, potrebbero essere più limitati di quanto siamo portati a pensare.
Le nostre battaglie (2018) di Guillaume Senez: un uomo, la sua famiglia e una catena da spezzare – Recensione del film
“Scusa cara, scendo a prendere le sigarette”. E sparisce. Chi? Lui, l’uomo, il marito, il padre. Così almeno fino a ieri. Oggi si cambia. È lei a sparire. Succede nel film del belga Guillaume Senez Le nostre battaglie.
Attenzione però: a differenza del film italiano 10 giorni senza Mamma, con Fabio De Luigi in versione mammo, che guarda caso esce nelle sale lo stesso giorno, il 7 febbraio, il film franco-belga non fa ridere, proprio per niente. Niente siparietti spiritosi, battute divertenti, situazioni paradossali. E già lo spiega bene il titolo, Le nostre battaglie, che poi sono il duro mestiere del vivere nel quotidiano. Si combatte in casa per stabilire rapporti decenti con tutta la famiglia, ma anche fuori, sul posto di lavoro, dove le ingiustizie e lo sfruttamento si sprecano. Soprattutto ora che è in corso la cosiddetta rivoluzione dell’industria 4.0.
Le nostre battaglie: la quotidianità famigliare senza mamma
Olivier, il protagonista, lavora in una di queste nuove aziende, grandi nastri trasportatori, scaffali pieni di pacchi e i lavoratori muniti di tablet scelgono, smistano, spediscono. Un lavoro digitale che richiede velocità, che non prevede tempi morti, che non perdona neppure una piccola disattenzione. Lui è il caposquadra, un capo dal volto umano, sempre pronto a coprire i colleghi, sensibile a ogni richiesta. Non altrettanto si dimostrerà con i due figli quando un giorno la moglie sparisce. Di lei non sapremo niente, il regista non ci dà indicazioni, si limita a dirci che faceva la commessa e che ormai da tempo era molto stanca ed esaurita per l’accavallarsi dell’impegno dentro e fuori casa. Nessuna indicazione ma anche nessun giudizio. Lei non è colpevole di abbandono del tetto coniugale, non è su di lei che punta l’obiettivo. È Olivier che nelle due ore scarse del film dovrà imparare a trovare un nuovo equilibrio, dovrà imparare a muoversi fra i bisogni dei figli e quelli dei colleghi sul lavoro.
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Il film si inserisce nel filone del cinema dei fratelli Dardenne, i registi – anch’essi belgi – maestri nel raccontare il disagio in presa diretta. Guillaume Senez fotografa impietosamente le difficoltà di Olivier nel captare i bisogni dei figli, la sua tendenza a sottovalutare le loro richieste, richieste che nel confronto con quelle che riceve sul lavoro appaiono minimali. Eppure sono bisogni basilari, riguardano il mondo dei sentimenti e delle emozioni. Le nostre battaglie affronta un nodo centrale: il mondo dei sentimenti e delle emozioni, soprattutto se legato ai figli, è solo appannaggio delle donne? Un “destino” legato al genere? Perché gli uomini sono meno attenti a questo aspetto della vita? Perché privilegiano il mondo all’esterno, legato al lavoro, e sacrificano o ignorano la sfera dell’intimità, quella che si crea dentro le mura di casa, in famiglia?
Le nostre battaglie: un punto di vista non banale
Sono infatti la madre e la sorella le più sollecite a venire incontro a Oliver quando resta solo, quasi a ribadire che se c’è bisogno di assistenza e protezione sono le donne che si danno da fare. Ma anche qui l’occhio del regista resta imparziale. Lo aiutano certo, ma non ne sono complici, anzi manifestano una plateale solidarietà per la moglie svanita nel nulla. “Cazzo che fatica la famiglia! Capisco perché se ne è andata” esclama la sorella single dopo un’intera giornata con i nipoti. “È una catena – ripete la madre al figlio – tuo padre come te era sempre assente, anche io dovevo arrangiarmi da sola in casa”.
Una catena che Olivier sulle prime non capisce, “certo che papà non c’era, ma tu non te ne sei andata”; una catena che però piano piano riuscirà a districare e a spezzare, ma non prima di avere indagato a fondo nella sua sfera intima. In questo sarà aiutato dai figli: sono i bambini con le loro semplici priorità, il bisogno per esempio dell’”odore” di mamma in una sciarpa, che dettano i tempi degli affetti. Sono i bambini che non sopportano il non detto, sono loro che con un linguaggio semplice esigono la comunicazione familiare. Se si interrompe l’incantesimo apparente del “ci vogliamo tutti bene” ricostruirlo costa fatica. Ma può farcela anche un uomo.
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Le nostre battaglie è stato presentato al Festival di Cannes, alla Semaine de la Critique, e ha vinto il premio del pubblico e il premio Cipputi all’ultimo Torino Film Festival. Il regista Guillaume Senz, alla sua opera seconda, ha raccontato che l’idea del film gli era venuta in mente dopo la separazione dalla madre dei suoi figli:
Ho dovuto imparare a vivere da solo con loro, a guardarli, ad ascoltarli e a capirli.
Bello trovare un autore uomo che costruisce un film partendo da se stesso, dalla vita quotidiana vissuta, per portare lo spettatore a ragionare su temi che ci riguardano tutti. Un esercizio fino a ieri sostanzialmente femminile.
LE NOSTRE BATTAGLIE – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:
La noia lavorativa come difesa delle nostre risorse cognitive
Lavori sempre più social e stimolanti ma la noia lavorativa continua ad essere presente: paradosso o evoluzione delle specie?
Salvatore Caligiuri
In un’ottica evolutiva del comportamento, la crescita della noia percepita sembra poter essere coerente con una sua funzionalità intrinseca. Infatti, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, visto il progressivo cambiamento che negli ultimi anni ha portato il mondo del lavoro a far scomparire i compiti manuali e ripetitivi (es. la catena di montaggio) per dare posto ad occupazioni più dinamiche, flessibili e variabili (vedi ad esempio le nuove professioni nate con il cloud), alcune ricerche dimostrano come sempre un maggior numero di persone dicano di non sentirsi ingaggiate con il proprio lavoro (“Boredom Numbs the Work World,” 2005; Van Hooff, Van Hoff, 2014), o di essere annoiate per la maggior parte del tempo trascorso a lavoro (Crabtree, 2013).
Una delle massime studiose di questo tema, Cynthia Fisher (1991), nel suo lavoro sulla noia, sostiene che l’esperienza della noia al lavoro non è solo comune ai colletti blu ma è presente anche a livello manageriale. In questa prospettiva la semplice associazione tra noia e compito ripetitivo appare limitante, evidenziando la necessità di considerare il fenomeno della noia a lavoro a trecentosessanta gradi.
Noia e information overload
Una prima considerazione riguarda l’information overload. Infatti, la possibilità di accedere ad internet e di poter essere contattati in ogni momento grazie all’uso degli smartphone, diffusione di computer e di altri dispositivi con connessione mobile, rende le persone continuamente soggette a un bombardamento di stimoli. Il sovraccarico di input, il multitasking activity a cui il nostro cervello è quotidianamente sottoposto sembra, da alcune ricerche (Kep Kee Loh, Ryota Kanai, 2014), essere correlato con effetti negativi a livello cognitivo (mancanza di controllo cognitivo) e psicosociale (aumento di ansia e depressione e diminuzione del benessere individuale).
Wickens (2002), con la Teoria delle risorse multiple, sostiene che quando siamo impegnati in compiti differenti che richiedono però l’impiego dello stesso canale sensoriale e lo stesso tipo di elaborazione, andiamo in difficoltà. L’esposizione cronica a questa sovrastimolazione cognitiva, così come l’esperienza e l’allenamento, può portare a un’alterazione delle strutture cerebrali (Kep Kee Loh, Ryota Kanai, 2014).
Le persone tenderebbero ad abituarsi a un livello di stimolazione elevato, diventando nello stesso tempo più sensibili alle situazioni potenzialmente noiose o poco stimolanti. Questa potrebbe essere una delle ragioni dell’aumento della noia lavorativa (Fred Mael, Steve Jex, 2015). A sostegno di ciò, ricerche riguardo le risposte fisiologiche associate ad alcuni stati psicologici (Saunders, 1996) hanno dimostrato come le sensazioni di noia possano provenire da una mancanza di stimolazione neuronale. Tale mancanza di stimolazione neuronale sarebbe dovuta alla continua esposizione a un sovraccarico cognitivo, ad alti livelli di stimolazione mentale che provocherebbero una diminuzione delle soglie della noia e della frustrazione.
Ciò comporterebbe una riduzione della sensibilità mentale attraverso un esaurimento della presenza di recettori. Se l’esposizione è prolungata per mesi e anni, la soglia dell’eccitazione elettroencefalografica (EGG) diventerà più alta, facendo sì che le persone non riescano ad ottenere il necessario piacere dalla quotidiana stimolazione mentale, per esempio attraverso semplici azioni come il camminare o il parlare e quindi aumentando la probabilità che la persona si faccia coinvolgere in sensazioni di noia (Saunders, 1996). In linea con questa prospettiva, Klapp (1986) sostiene che lo stato dalla noia emerge quando la persona non è a lungo in grado di bilanciare la quantità d’informazione ricevuta e quella che riesce a elaborare. Questo sovraccarico cognitivo potrebbe essere ricondotto al concetto di carico di lavoro mentale, inteso come interazione tra richieste del compito o dell’ambiente, con le capacità di elaborazione e le abilità cognitive della persona (Hart et al 1988).
Noia: si può combattere.. con le pause
La noia potrebbe essere funzionale al benessere cognitivo, sollecitando un momento di pausa nel processo di elaborazione quando si è sottoposti a un eccessivo carico di input, di cui la maggior parte irrilevante per quello che si sta facendo. La maggior parte delle persone ha ormai appreso a gestire questo sovraccarico cognitivo dovuto all’abitudine di utilizzare continuamente smartphone e siti palliativi, come Facebook, Instagram e Twitter. Sul luogo di lavoro queste opportunità sono spesso inaccessibili e ciò comporta una profonda discrepanza in termini di stimoli da gestire, che potrebbe esasperare la distanza tra le aspettative riguardanti un ambiente stimolante e la valutazione del proprio setting lavorativo. Infatti, lavoratori con alti punteggi nella propensione alla noia e alte aspettative riguardo il contenuto del loro lavoro, tendono ad esperire una maggiore noia legata al posto di lavoro (Fred Mael, Steve Jex, 2015). L’occupazione cronica potrebbe diventare una difesa maniacale per le persone che spenderebbero tutto il loro tempo passando da un compito all’altro.
Distrarsi continuamente attraverso, per esempio, un controllo continuo dell’email o della propria pagina Facebook, stimola il cervello a sparare continuamente dopamina nel flusso sanguigno, rendendo difficile per la persona stoppare questo meccanismo. Lo sostiene Manfred F.R. Kets de Vries (2015), il quale difende l’importanza del prendersi delle pause, dei periodi di interruzione per stimolare la ricerca di soluzioni innovative, pensieri associativi e creatività. L’autore parla d’incubazione, ovvero la ri-associazione inconscia di elementi di pensiero collegata al non far nulla e alla noia. In questa prospettiva la noia è concepita come una risorsa critica che aiuta le persone a prendersi delle pause, concepite come placenta dell’ideazione di soluzioni innovative e inusuali. Il cambiamento del mondo del lavoro potrebbe avere perciò cambiato lo stesso fenomeno dalla noia e la funzionalità che tale stato svolge per l’organismo. Infatti, sebbene la noia possa essere associata alla mancanza di stimolazione e di variabilità del proprio lavoro (e quindi a un basso carico di lavoro), soprattutto in una prospettiva odierna, può essere corretto concepire la noia anche come possibile risposta a un’eccessiva stimolazione e quantità d’informazione a cui le persone sono quotidianamente sottoposte (alto carico di lavoro).
Compiti difficili: noiosi o stimolanti?
Anche un qualitativo carico di lavoro, dove per qualitativo intendiamo un compito troppo difficile, sfidante o incomprensibile, può indurre noia (Balzer, Smith, Burnfield, 2004). In un lavoro qualitativo sulla noia accademica, la Fisher (1987) trovò che gli studenti riportavano di essere maggiormente annoiati quando le materie erano troppo difficili o incomprensibili. L’alto carico di lavoro mentale tuttavia, potrebbe non essere dovuto solamente a un’eccessiva stimolazione o difficoltà del compito, ma potrebbe essere esperito anche in relazione ad attività che richiedono una bassa stimolazione. Infatti, in questa seconda prospettiva (Greenwald, Scerbo, Sawin, 1992), l’alto carico di lavoro mentale potrebbe essere ricondotto allo sforzo che la persona compie per fronteggiare lo stimolo aversivo della noia. Greenwald, Scerbo, Sawin (1992) hanno fatto svolgere ai soggetti un compito di vigilanza per 40 minuti, in cui venivano monitorati i movimenti del mouse. Gli autori trovarono un maggiore carico di lavoro mentale e noia esperita nei soggetti che hanno eseguito più movimenti. Inoltre, è emersa una correlazione significativa positiva tra carico di lavoro mentale e noia, dimostrando come la noia possa essere una componente centrale nel carico di lavoro mentale.
Tale conclusione viene però messa in discussione da un altro studio (Hitchcock et al, 1999), in cui vennero create tre condizioni riguardo a un compito di vigilanza (monitoraggio di un radar che simulava un pannello di controllo del traffico aereo): una condizione in cui i soggetti venivano avvertiti quando la probabilità di comparsa dell’evento target era elevata (cueing), una condizione in cui i soggetti avevano un feedback riguardo la corretta o errata detezione del segnale (knowledge results) e un gruppo di controllo che svolgeva il compito senza manipolazioni. Subito dopo lo svolgimento del compito, i partecipanti rispondevano al NASA-TLX e alla Task-related Boredom Scale (Scerbo et al 1994). Gli autori hanno ipotizzato che la condizione in cui i soggetti erano avvertiti dell’imminenza del segnale target (cueing), avrebbe provocato un minore carico di lavoro mentale poiché la presenza di un avvertimento sonoro riduceva lo sforzo, da parte dei partecipanti, nel mantenere l’attenzione focalizzata sull’osservazione e nel prendere delle decisioni, riducendo il carico di lavoro mentale. Tuttavia il segnale di avvicinamento dello stimolo target, non aumentava la stimolazione e la variabilità del compito, che rimaneva quindi estremamente monotono e ripetitivo. Così, secondo gli autori in questa condizione i soggetti avrebbero comunque esperito un elevato carico di lavoro mentale, scollegato dal compito in sé ma dato dallo sforzo, da parte del soggetto, di fronteggiare lo stimolo aversivo della noia. I risultati però hanno mostrato un basso carico di lavoro mentale in questa condizione, non confermando l’associazione tra la noia e il carico di lavoro mentale. Questo però potrebbe essere dovuto al fatto che, nella condizione cueing, i soggetti percepiscono anche un minore livello di noia. Tale minore livello, potrebbe avere inibito lo sforzo, collegato all’alto carico di lavoro mentale, che il soggetto compie per fronteggiare lo stimolo aversivo della noia.
È quindi possibile pensare agli stati di noia come strumenti difensivi in situazioni di sovraccarico o di mancanza di stimolazione?
Forse, ogni tanto, annoiarsi potrebbe rivelarsi una risorsa preziosa.
Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) L’importanza del conoscere le proprie emozioni – Recensione
Tenere a mente le emozioni racconta attraverso la storia di personaggi illustri il processo di mentalizzazione affettiva in psicoterapia e quale cambiamento è possibile raggiungere grazie allo sviluppo di questa capacità.
“Non mi è mai capitato un paziente che non mi abbia insegnato qualcosa di nuovo, o che non abbia suscitato in me nuovi sentimenti e nuovi treni di pensieri”.
Oliver Sacks
Elliot Jurist offre una lucida panoramica sulla mentalizzazione in psicoterapia. Integra teorie, illustrazioni cliniche e una straordinaria analisi di opere autobiografiche di personaggi famosi utili a dimostrare i benefici della consapevolezza emotiva.
Il volumeTenere a mente le emozioniaccoglie le emozioni in tutta la loro complessità. L’autore inizia identificando una categoria data dall’assenza di consapevolezza di ciò che si sente, categoria a cui ha assegnato il nome di “emozioni aporetiche”, e conclude riferendosi al concetto di “affettività mentalizzata”, la capacità di riflettere sulle emozioni alla luce della memoria autobiografica.
Il tentativo mosso dall’autore è di ripensare alla psicoterapia come ad uno spazio in cui poter conoscere cosa si prova ed accettarne le conseguenze. Le “emozioni aporetiche” sono emozioni che albergano in noi sotto forma di stati mentali oscuri, misteriosi o confusi, ma è possibile superare la confusione che le caratterizza identificando, modulando ed esprimendo le emozioni stesse. La risposta alla domanda su come è possibile trascendere le emozioni aporetiche è: attraverso la loro mentalizzazione.
Tenere a mente le emozioni: il concetto di mentalizzazione
Il concetto di mentalizzazione agisce come un lume sull’azione terapeutica e sugli obiettivi della psicoterapia e l’intero successo di una psicoterapia dipende dal miglioramento del paziente come mentalizzatore.
La mentalizzazione si basa su una gamma di capacità che vanno coltivate in terapia; il suo esercizio promuove una modalità continua con cui affrontare la vita e le relazioni e, nel caso in cui vi sia una sofferenza, fornisce un modo di fronteggiarla in maniera ottimale. La mentalizzazione è assimilabile a un’apertura mentale in cui si sostiene un investimento attivo nella rivalutazione di sé e degli altri, che analizza il presente ripercorrendo il passato, facendo continuo riferimento agli episodi autobiografici.
La fonte dell’affettività mentalizzata si trova nella curiosità, nel desiderio di capire in che modo il proprio passato e la propria identità influenzino le esperienze emotive, e la realizzazione di tale capacità si manifesta attraverso l’amore per la verità e l’autenticità, cioè attraverso il desiderio di guardare a se stessi e agli altri nel modo più onesto possibile.
Struttura e contenuti del testo
Il volume Tenere a mente le emozioni è diviso in due macroparti, ognuna divisa in capitoli. La Parte I contiene tre capitoli.
Il Capitolo I si occupa dell’identificazione emotiva. Il fallimento della capacità di identificazione emotiva è un fattore determinante l’alessitimia, ossia l’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui, spesso correlata a diverse tipologie psicopatologiche. Identificare le emozioni, però, ci porta solo fino ad un certo punto del nostro viaggio. Percorrendo la direzione della comprensione delle esperienze emotive entriamo nel territorio della modulazione. L’autore fornisce vari esempi: pazienti che sono in grado di identificare alcune emozioni ma non altre; pazienti che tergiversano sulle emozioni e pazienti che tendono a non parlarne affatto.
La biografia portata come esempio è quella di Sarah Silverman, in particolar modo sulla sua esperienza dell’emozione di paura e sul modo in cui l’ha trasformata attraverso la performance sul palco, pur continuando ad avvertirne la gravosa presenza. L’enuresi dell’autrice, tema centrale della sofferenza della Silverman comporta ripetute esperienze di umiliazione che la portano infine a sviluppare una lunga depressione. Silverman ci ha raccontato nella sua opera il cui il titolo completo è “The Bedwetter: Stories of Courage, Redemption, and Pee” che in prima superiore ha perso tre mesi di scuola perché era “paralizzata dalla paura”. Col tempo è riuscita a identificare l’emozione di paura ma la interpretava come facente parte di un quadro più ampio, legato al crescere sentendosi confusa, sola e depressa. In seguito, attraverso la psicoterapia, ha descritto il suo trauma precoce come un dono, dal momento che quella paura paralizzante l’ha portata a essere coraggiosa e a sentirsi naturalmente a suo agio nell’esibirsi davanti agli altri.
La verità è che dentro non sono affatto cambiata, da quel momento a oggi. Posso aver cambiato guscio, posso essere arrivata ad abbracciare cose che prima mi spaventavano e mi turbavano, ma il luogo in cui tutto ha avuto origine è lo stesso. A un certo punto ho capito che sarebbe stato molto più efficace e molto più divertente abbracciare le cose più brutte e terrificanti del mondo – l’Olocausto, il razzismo eccetera. Per il bene della comicità e per la sanità mentale del comico, però, far ciò richiede una certa distanza emotiva […]. Trovo che sia un modo divertente di essere sinceri. Come quando si fa una serie di battute per prendere in giro qualcuno, la speranza è che il sentimento genuino – forse addirittura una sorta di bontà sottostante alla battuta (per quanto brutale) – emerga lo stesso.
Questa rivelatoria riflessione su di sé mostra come le emozioni problematiche non spariscano affatto una volta identificate, sebbene possano essere utilizzate così che non siano più perseguitanti ed essere anzi mosse in direzioni nuove, verso la libertà individuale e una maggiore connessione con gli altri. L’emozione primaria di paura di Silverman non si dissolve, la sua pericolosa influenza viene piuttosto tenuta a bada in modalità nuove e creative.
Il Capitolo II è dedicato alla modulazione emotiva. Qui vengono introdotti alcuni sviluppi recenti sul concetto di regolazione emotiva, descrivendo nello specifico il process model, che sottolinea l’importanza della rivalutazione cognitiva, e il modello della mindfulness, che, incoraggiando l’accettazione più che la trasformazione delle emozioni, pone alcuni argomenti critici rispetto al process model. Viene approfondita l’importanza della regolazione emotiva per lo sviluppo e vengono presi in esame studi che hanno mostrato come il fattore sottostante a molti tipi di psicopatologia sia la disregolazione emotiva.
Viene fatto riferimento all’autobiografia di Tracy K. Smith, che costituisce una riflessione sulla perdita della madre, morta quando l’autrice era piuttosto giovane. L’esempio che viene riportato avviene a seguito di un’esperienza deludente, vissuta mentre l’autrice giocava a “prendi la mela” a una festa di Halloween che la madre aveva aiutato a organizzare nonostante l’ambivalenza, dovuta a ragioni religiose, per la celebrazione di una festività tanto pagana. Mentre le due stanno tornando a casa in macchina, si verifica un meraviglioso momento di modulazione emotiva verso l’altro:
[…] vedere le sue mani calme ma ferme sul volante e il modo in cui di tanto in tanto mi guardava, lasciando che rivolgessi il sorriso verso il suo viso e ricambiandolo con vero calore, con un amore che riuscivo a vedere e a sentire – ero sicura che nel preciso momento in cui noi due eravamo insieme quello in cui credeva non importava, non quando eravamo solo Kathy e Tracy, solo le nostre due anime dentro la macchina che avanzava sicura verso casa, piena e intatta di qualcosa di più grande e più reale di qualsiasi domanda o convinzione che potessimo faticare a mettere in parole. Sapevo, in quell’esatto momento, che era contenta nel modo in cui è contenta ogni madre che fa felice la propria bambina.
Ciò che colpisce è come l’autrice capisca sua madre e si senta capita da lei. L’esperienza è reciproca.
Il Capitolo III è dedicato all’espressione emotiva. L’espressione emotiva può essere legittimamente riconosciuta come il coronamento dell’esperienza emotiva, rivelando il più ampio scopo delle emozioni come forma di comunicazione. L’autore traccia una distinzione tra espressione interna ed esterna delle emozioni e prende in esame alcuni esempi di comunicazione efficace e altri in cui essa appare non altrettanto efficace.
Viene citata l’opera autobiografica di Ingmar Bergman, in cui l’autore documenta la propria difficoltà a esprimere le emozioni, soprattutto agli altri, nonostante queste vengano ritratte in maniera brillante nei suoi film. L’autore è piuttosto specifico a proposito del modo in cui le proprie emozioni vengono generalmente inibite e non vengano espresse fluidamente. Riflettendo su questo tema, conclude:
C’era sempre un microsecondo a separare il mio vissuto intuitivo e la sua espressione emotiva.
La Parte II di Tenere a mente le emozioni consta di quattro capitoli, che approfondiscono il tema della mentalizzazione emotiva.
Il Capitolo IV esplora il concetto di mentalizzazione, la sua origine e il modo in cui può illuminare la nostra comprensione delle emozioni, il cui apice è rappresentato dalla “affettività mentalizzata”. Viene brevemente descritto lo strumento Mentalized Affectivity Scale. Obiettivo fondamentale di questo capitolo che ha un’impronta più teorica è di trasmettere l’importanza del costrutto della mentalizzazione, portato in psicoterapia attraverso il lavoro di Peter Fonagy e collaboratori.
Il Capitolo V sviluppa il concetto di affettività mentalizzata arricchendolo con illustrazioni cliniche.
I Capitoli VI e VII si concentrano sull’affettività mentalizzata in quanto azione terapeutica. L’espressione “azione terapeutica” sta a indicare l’idea secondo cui la psicoterapia può ispirare un continuo cambiamento nell’individuo, aspirando a un obiettivo più alto del mero sollievo sintomatico. L’affettività mentalizzata si basa sulla memoria autobiografica come strumento di sostegno nell’aiutarci a definire noi stessi in maniera continuativa nel tempo. Ci richiede di intraprendere un’esplorazione più profonda del significato delle esperienze emotive nella nostra vita, nella nostra storia e all’interno del nostro ambiente. L’affettività mentalizzata comporta l’apertura ad una conoscenza, revisione, correzione e strutturazione più articolata dell’esperienza emotiva. Tale articolazione può sicuramente stimolare un impegno verso la scrittura, la correzione e la riscrittura della propria storia autobiografica e delle proprie idee rispetto a sé.
Oliver Sacks: un esempio di come è possibile imparare a tenere a mente le emozioni
Un meraviglioso esempio di tale processo è mostrato dal lavoro di Oliver Sacks. Si passa, quindi, ad esaminare le due autobiografie scritte da Oliver Sacks, piuttosto diverse tra loro e l’impatto avuto dalla terapia, durata quasi cinquant’anni, con lo stesso psicoanalista. Sacks ha scritto una miriade di pezzi autobiografici pubblicati sul New York Times, una sorta di cronaca dei suoi pensieri finali, che insieme alle due autobiografie principali forniscono una straordinaria illustrazione dell’affettività mentalizzata. Oliver Sacks, formatosi come neurologo, è stato un clinico devoto e contemporaneamente ribelle.
Nel descrivere alcuni casi clinici particolari che ha incontrato nella sua esperienza in una casa di cura statunitense, è sempre riuscito a cogliere la componente umana di ogni storia, mentre l’analisi clinica non ha mai perso il suo vigore e rigore scientifico.
Non era un ricercatore e ha sempre raccontato i propri sforzi falliti in tal senso, ma ha sempre mantenuto una grande passione per la ricerca, tenendosi costantemente aggiornato sugli sviluppi neuroscientifici.
È stato inoltre l’autore di due autobiografie: Zio Tungsteno (2001) e In movimento (2015). Le due autobiografie sono state scritte a quattordici anni di distanza e coprono parti consecutive della vita di Sacks – Zio Tungsteno (ZT) dalla prima infanzia all’adolescenza, In movimento (IM) dalla prima età adulta alla vecchiaia. Molti degli interessi e delle occupazioni di Sacks sono rimasti gli stessi: “i metalli, le piante e i numeri” (ZT). C’è però qualcosa di straordinariamente diverso nei due libri.
In ZT, Sacks si descrive come un secchione appassionato di materie scientifiche in IM, incontriamo un’anima avventurosa: Sacks è emigrato in Nord America, viaggia in motocicletta da solo per l’America occidentale, vince gare di sollevamento pesi, comincia a seguire la propria vocazione per il mestiere di medico e di scrittore. Soprattutto, l’autore rivela di essere omosessuale e parla apertamente della sua lunga battaglia per stabilire un legame con gli altri, culmina nel raggiungimento, alla fine della sua vita, di una relazione amorosa appagante. La prima autobiografia, ZT, è scritta con grande autocontrollo e racconta di un giovane Oliver, studioso, innamorato della chimica e soprattutto della storia della chimica. Si racconta come solitario, ansioso, pieno di molteplici paure e poco disinvolto nelle relazioni sociali. La sua passione per il mondo naturale sembra direttamente correlata con il ritiro dal mondo sociale. La vocazione di Sacks per il mestiere di chimico però col tempo svanisce, dal momento che egli scopre di essere affamato di ciò che è umano, personale, ciò che gli era sfuggito, e rivolge il suo appassionato interesse alle narrazioni personali e ai diari.
Il secondo libro, IM, ha un carattere impetuoso, e racconta della ribellione dell’autore, che lo ha portato a trasferirsi negli Stati Uniti, e del suo lungo viaggio per divenire il narratore di un ampio ventaglio di fenomeni neurologici. Questa seconda autobiografia si conclude, in maniera commovente, con il racconto del primo innamoramento dell’autore.
Sacks è stato in psicoanalisi con lo stesso analista per quasi cinquant’anni. Forse la sua psicoterapia è il fattore in grado di spiegare la differenza tra le due opere autobiografiche nonché il progressivo aprirsi dello scrittore, il suo divenire se stesso? Secondo Jurist, si.
Tra le due opere vi è un chiaro incremento in termini di affettività mentalizzata. Il fatto che le sue emozioni siano libere di sgorgare rivela la capacità di Sacks di utilizzare l’affettività mentalizzata, dato che ormai egli ha elaborato il proprio passato, che dunque non costituisce più un ostacolo per le sue esperienze presenti e future. In un incantevole passo dell’ultima autobiografia l’autore cattura gli enormi cambiamenti che hanno accompagnato la sua vita:
Si imponevano cambiamenti profondi, quasi geologici; nel mio caso a dover cambiare erano le consuetudini di un’intera vita solitaria, insieme a una sorta di implicito egoismo e di eccessiva concentrazione su me stesso. Entravano nella vita nuove esigenze e nuove paure: il bisogno dell’altro, la paura dell’abbandono. Dovevano esserci profondi adattamenti reciproci.
Come l’autore di questo libro, anch’io sono particolarmente grata ad Oliver Sacks. Da medico ho sempre apprezzato il suo “uscire” dalla clinica, per comprenderne appieno il suo senso. Il suo sguardo rivolto ai pazienti ha sempre avuto una compente lucidamente scientifica alla Einstein e una più poetica e umana alla Borges. Come Jurist, ammiro Sacks soprattutto per aver protestato contro la divisione tra letteratura e scienza, per essersi rifiutato di accettarla.
Ho apprezzato molto il volumeTenere a mente le emozioniproprio per la scelta accurata delle autobiografie “illustri” che hanno reso tangibile il significato di concetti quali affettività mentalizzata e modulazione emotiva ma anche per i numerosi spunti da utilizzare nella mia pratica clinica.
Una scala attentiva per la dimensione degli oggetti
Uno studio di Collegio e colleghi, recentemente apparso su Nature Human Behaviour, mostra come l’inferenza, fatta dagli individui, circa la dimensione reale di un oggetto sia in grado di influenzare il modo in cui essi stessi allocano l’attenzione nello spazio in cui è presente un disegno dell’oggetto preso in considerazione.
Le modalità attraverso le quali interagiamo con i più svariati oggetti dipendono per la maggior parte dalle proprietà intrinseche di questi stessi oggetti; potremmo quasi dire che ci comporteremmo diversamente se ad esempio il mouse con il quale scorriamo il cursore sullo schermo del nostro computer avesse le stesse dimensioni di un vero topo, anziché quelle di una mano umana adulta o se il divano sul quale siamo seduti avesse le medesime dimensioni di una scatola.
Percezione delle dimensioni e retina
Le proprietà intrinseche di un oggetto quali il colore, la forma, la dimensione o le sue proprietà aptiche, cioè quelle che hanno a che vedere con il senso del tatto, in parte rappresentano i criteri attraverso i quali rappresentiamo gli oggetti stessi nella mente e che ci consentono di conseguenza la loro distinzione, manipolazione, il loro utilizzo e il loro controllo.
Mentre l’impatto di queste proprietà degli oggetti sulla percezione visiva e sulla loro capacità di attirare l’attenzione, è stato ampiamente approfondito e investigato con chiarezza, poche sono le informazioni che si hanno a disposizione circa il ruolo delle dimensioni, reali e inferite dagli individui, di questi oggetti nello schieramento delle risorse attentive nell’ambito della percezione dello spazio (Park, 2019).
La dimensione di un oggetto principalmente può essere catturata dalla retina o essere inferita, considerando però che la visione “retinica” potrebbe andare a modificare la dimensione stessa dell’oggetto: infatti la dimensione dovuta alla retina di una tazza di the sulla scrivania potrebbe essere diversa e apparire più grande rispetto a quella di un’automobile osservata da una finestra che appare più piccola a causa della profondità.
Percezione delle dimensioni: gli studi recenti
In questo contesto, è pertanto opportuno considerare che la dimensione “retinale” di un oggetto non sempre riflette in modo equivalente la dimensione reale dell’oggetto inferita.
Tale specificazione risulta di notevole interesse soprattutto nell’ambito della ricerca psicologica per quanto riguarda lo studio dell’attenzione e della percezione in quanto queste componenti dell’oggetto influiscono notevolmente sulle modalità attraverso le quali osserviamo, riconosciamo un oggetto e processiamo l’ambiente esterno.
A questo proposito, il nuovo studio di Collegio, Shomstein, Scotti e colleghi (2019), del dipartimento di psicologia della Geoge Washington University e dell’Ohio State University, ha mostrato, attraverso l’utilizzo di una variazione del paradigma attentivo di Posner in cinque esperimenti, come la dimensione reale inferita e non retinale di un oggetto influenzi in modo significativo l’allocazione dell’attenzione visiva spaziale.
Il task proposto consisteva nell’indicare se lo stimolo presentato in un font più ridotto fosse la lettera T o la L; poco prima che la lettera fosse presentata, i partecipanti avrebbero ricevuto un cue che avrebbe indicato la direzione spaziale più probabile in cui lo stimolo target sarebbe potuto apparire come nel classico paradigma attentivo di Posner (Posner, 1980).
La novità tuttavia consisteva nella sovrapposizione allo stimolo target di un disegno di un oggetto rappresentato con una linea tratteggiata, disegno che faceva si che la lettera, target dell’esperimento, potesse apparire nella metà superiore o inferiore dell’oggetto (Collegio, Shomstein, Scotti et al., 2019).
Il task era suddiviso in due condizioni la cui unica differenza risiedeva nelle dimensioni reali dell’oggetto rappresentato dal disegno tratteggiato: nella prima condizione, le dimensioni dell’oggetto erano ridotte come nel caso di una carta di credito o un telefono cellulare, nell’altra le dimensioni aumentavo notevolmente (es. una cabina telefonica o un tavolo da biliardo).
Percezione delle dimensioni: il risultato dello studio
I risultati dello studio hanno evidenziato come i partecipanti fossero maggiormente più veloci e accurati nelle risposte per l’identificazione di quei stimoli target a cui era stato sovrapposto un piccolo oggetto rispetto a quelli che apparivano soprapposti a oggetti di grandi dimensioni, mostrando così un effetto della dimensione reale dell’oggetto supposta dai soggetti nel modulare efficacemente la quantità e la densità del focus attentivo (Collegio, Shomstein, Scotti et al., 2019).
Le conclusioni della presente ricerca hanno delle notevoli implicazioni nella comprensione di come sistema visivo mantenga la costanza delle dimensioni: mentre le dimensioni “retiniche” dell’oggetto cambiano a seconda della prospettiva e della distanza dell’osservatore, quelle reali dell’oggetto sono minimamente toccate dalla “prospettiva retinale” e influiscono notevolmente nella modulazione dell’allocazione delle risorse attentive nello spazio.
Disturbo ossessivo-compulsivo e ansia nei bambini: come distinguerli
Ottenere la diagnosi giusta per i bambini con disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è già metà dell’opera, l’altra metà consiste nell’identificare il trattamento giusto.
È vero che il DOC può essere difficile da diagnosticare, specialmente nei bambini. I rituali sono una parte importante di un’infanzia sana, di conseguenza spesso è difficile capire quando dovrebbero essere motivo di preoccupazione.
DOC o GAD: ne soffrono anche i bambini
La diagnosi differenziale rimane difficile a causa dei confini non chiari tra disturbi e l’alta comorbilità. Questo è certamente vero per disturbo d’ansia generalizzato (GAD) e disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) poiché condividono molteplici processi cognitivi, come la ruminazione, l’intolleranza all’incertezza e un’attenzione crescente alla minaccia. Districare tali caratteristiche cognitive e, successivamente, i meccanismi sottostanti potrebbe servire a informare le pratiche di valutazione e trattamento e migliorare le prognosi.
Sebbene si possa riscontrare in maniera evidente se un bambino soffra d’ansia, non è sempre facile distinguere tra disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo d’ansia generalizzato (GAD). Entrambi possono essere caratterizzati da ruminazione, maggiore vigilanza e intolleranza all’incertezza. Gli esperti di disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi d’ansia dovrebbero essere in grado di distinguere tra i due, ma per altri può essere piuttosto difficile. Per rendere le cose ancora più confuse, i due disordini possono anche verificarsi insieme.
DOC e GAD: lo studio sui bambini
Lo studio pubblicato su Depression & Anxiety a ottobre 2018 mira a rendere più facile la diagnosi corretta di questi due disturbi (DOC e GAD).
Lo studio ha esaminato le capacità dei partecipanti in determinati domini cognitivi per determinare se queste informazioni potessero essere utili nella diagnosi di OCD e di GAD.
I bambini coinvolti nello studio presentavano o una diagnosi di OCD o di GAD oppure nessuna delle due, quest’ultimo era il gruppo di controllo. Nessuno dei soggetti presentava sia una diagnosi di GAD che di DOC.
I partecipanti allo studio erano 28 soggetti con diagnosi di DOC, 34 con diagnosi di GAD e 65 per il gruppo di controllo. Il gruppo di controllo erano bambini che rientravano nella via di sviluppo tipica (TDC).
Sono stati somministrati i test Cambridge Neuropsychological Automated Battery (CANTAB) per confrontare le seguenti performance cognitive:
I risultati sono stati interessanti. I partecipanti con disturbo ossessivo-compulsivo hanno richiesto più turni complessivi per completare i problemi a più fasi rispetto agli altri due gruppi, mentre quelli con disturbo d’ansia generalizzato avevano più probabilità di commettere errori di inversione rispetto agli altri due. Quelli con GAD hanno anche impiegato più tempo ad identificare i modelli visivi.
Sebbene quelli con DOC e quelli con GAD hanno dimostrato un funzionamento cognitivo significativamente peggiore rispetto al gruppo di controllo, i deficit cognitivi dei bambini e le difficoltà con abilità specifiche dipendevano dal tipo di diagnosi che presentavano. I bambini con disturbo d’ansia generalizzato hanno avuto maggiori difficoltà con la flessibilità mentale e l’elaborazione visiva, mentre quelli con disturbo ossessivo-compulsivo hanno mostrato capacità di pianificazione peggiori.
Questi risultati possono fornire un aiuto nel diagnosticare il DOC e GAD nei bambini. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche in futuro.
Gli autori dello studio hanno suggerito l’uso di moduli per la segnalazione dei genitori e di moduli di auto-segnalazione. Sarebbe interessante vedere i risultati del neuroimaging e altri tipi di valutazioni che misurano le stesse capacità cognitive esaminate nello studio qui discusso.
Come molti sanno è importante diagnosticare il disturbo ossessivo compulsivo il prima possibile, poiché prima può essere trattato correttamente mentre successivamente risulta profondamente radicato nella persona. Lo stesso vale per il disturbo d’ansia generalizzato, prima è meglio è. Più risulta semplice distinguere questi due disturbi l’uno dall’altro, maggiori sono le possibilità di ottenere diagnosi tempestive.
Il Disturbo Bipolare in Sylvia Plath: una vita tra genio e follia
A Sylvia Plath bastarono 31 anni per riempire la sua vita di “tutto e del contrario di tutto”, dove inferno e paradiso si alternano capricciosamente e pericolosamente.
Tu stai alla lavagna, papà, nella foto che ho di te, biforcuto nel mento anziché nel piede, ma diavolo sempre, sempre un uomo nero che con un morso il cuore mi fende. Avevo dieci anni che seppellirono te A venti cercai di morire E tornare, tornare a te. Anche le ossa mi potevano servire.
Questa poesia è un’opera di Sylvia Plath, nata negli Stati Uniti nel 1932 e morta suicida a Londra nel 1963.
La scrittrice, oltre ad aver perso precocemente il padre, per un diabete non curato ed aver esperito un dolore lancinante che traspare in questi versi, ha da sempre avuto un rapporto con quest’ultimo del tutto disfunzionale.
Infatti la dottoressa Ruth Beuscher, la psichiatra che la teneva in cura in seguito ad un tentativo di suicidio, ha definito il padre anaffettivo, prevaricatore, deludente, abbandonante ed amante crudele della figlia. Per quanto riguarda la madre, questa era, all’opposto, invadente, fusionale, che eterodirigeva la vita della Plath, le ambizioni e la sessualità.
Sylvia Plath: infanzia difficile e perfezionismo
La Beuscher sottolinea come nella fase edipica, tutto sia andato storto e per certi versi anche la stessa Plath ne prende atto. Tuttavia è una verità piuttosto scomoda ed ingombrante da accettare per cui tenta in tutti i modi possibili di sopprimerla, rimuoverla e nasconderla.
La vita della Plath, come precedentemente affermato, è costellata “dal tutto e dal contrario di tutto”. Ciò che l’autrice portava dentro di sé riusciva benissimo ad esplicitarlo nelle sue opere, nel suo modo di scrivere, nel suo aspetto esteriore e nel rapporto con il suo uomo e i suoi figli, riproducendo con questi ultimi quanto appreso da suo padre.
Da un lato la Plath poteva apparire affascinante, in quanto curava il suo aspetto fisico, utilizzava tinture biondo platino, il rossetto rosso fuoco, scriveva, studiava e manifestava una marcata ambizione al successo. Dall’altro lato, la Plath viveva una vita all’insegna dell’eccesso e dell’estremo, caratterizzata dalla ricerca della perfezione, dal narcisismo e dalla tendenza ad autodistruggersi.
In particolare, la psiche tormentata dell’autrice era caratterizzata da una disperata ricerca di consenso, da un’eccessiva sensibilità alle critiche, dall’estremo bisogno di catturare l’attenzione di chiunque, dall’ansia di essere sempre più la più bella e la più brava. Ricercava all’esterno le attenzioni che probabilmente suo padre non le aveva mai dato.
Mentre scriveva le sue opere aveva l’abitudine di utilizzare un vocabolario di sinonimi e contrari, perchè i suoi lavori dovevano ambire ed aspirare alla perfezione. Perfezione raggiungibile attraverso la ricerca scrupolosa di parole che si addicevano “perfettamente” ai suoi versi.
Sylvia Plath: la sofferenza del disturbo bipolare
Inoltre, sono stati anche presenti, durante la sua breve esistenza, episodi depressivi e numerosi tentativi di suicidio.
In particolare gli episodi depressivi furono descritti nero su bianco, in una delle sue opere più importanti: La Campana di Vetro. Nello specifico, l’autrice scrive:
Portavo ancora la blusa bianca e la gonnellina… Erano tutte spiegazzate, perché non le avevo mai lavate nelle mie tre settimane a casa. Il cotone sudato emetteva un acre e un amichevole odore. Non mi ero nemmeno lavata i capelli per tre settimane. Non avevo dormito per sette notti.
Mia madre mi disse che dovevo aver dormito, che era impossibile non dormire per tutto quel tempo, ma se avevo dormito lo avevo fatto con un occhio aperto…
La ragione per cui non avevo lavato i vestiti o i capelli era perché mi sembrava così stupido… mi sembrava stupido lavare qualcosa, quando avrei dovuto rilavare il giorno seguente.
Mi stancava solo il pensarci. Volevo fare tutto una sola volta per tutte e finirla.
L’autrice era affetta da ciò che i manuali diagnostici oggi definiscono come Disturbo bipolare, un disturbo caratterizzato dall’alternanza di episodi maniacali o ipomaniacali e depressivi.
Sylvia Plath: l’umore altalenante
Secondo l’ottica psicoanalitica la mania è una risposta difensiva nei confronti di forti sentimenti di incompetenza, perdita e abbandono.
Probabilmente i soggetti affetti da questo disturbo, come in questo caso la Plath, manifestano sentimenti di grandiosità e di esaltazione o un’enorme energia, come una difesa inconscia per non sentirsi in uno stato di completa malinconia, disperazione e senza speranza.
Sono stati rintracciati dei tratti di personalità narcisistici. Come nel caso della scrittrice, infatti, i soggetti narcisistici respingono le sensazioni di inadeguatezza, di inutilità e sono sensibili alle critiche, cercando di farsi vedere speciali, degni di lode e superiori alla norma.
Secondo la critica letteraria Rasy, il corpo letterario della Plath (i suoi versi, le sue prose, le lettere, i suoi diari) e il suo corpo carnale (passioni, desideri, tormenti e azioni), si sono incontrati e mescolati.
Il frutto di questo incontro e mescolamento ha dato, da un lato, la possibilità alla Plath di emergere e quindi di diventare una delle più importanti scrittrici del ‘900, dall’altro ha permesso di comprendere la sua tormentata psiche.
La sua psiche era caratterizzata sia da momenti di estrema positività sia da momenti di estrema negatività dell’umore, con annessi tentativi di suicidio.
Sylvia Plath: il Disturbo Bipolare e le emozioni
Rispetto ai tempi in cui è vissuta l’autrice, le ricerche inerenti il disturbo bipolare sono aumentate, infatti recentemente è stato indagato il ruolo della emozioni nel disturbo bipolare.
Tuttavia, la maggior parte delle ricerche si sono concentrate sull’incapacità dei soggetti di gestire le emozioni “negative”. Quest’incapacità produce un peggioramento del disturbo.
Per gestione delleemozioni si intendono i modi che i soggetti hanno a disposizione per influenzare le emozioni che vivono, come le sperimentano e le esprimono.
Recentemente, è stato scoperto che i soggetti con disturbo bipolare presentano un’enorme difficoltà di gestire le emozioni “positive” e quest’incapacità contribuisce al peggioramento del disturbo.
Secondo la Friedrickson la presenza di emozioni positive, in questo disturbo, può diventare problematico, in quanto può aumentare la distraibilità, i sintomi maniacali, la dipendenza da sostanze e di gioco d’azzardo, e il rischio di mortalità; in quanto i soggetti in risposta alle emozioni positive potrebbero mettere in atto dei comportamenti pericolosi per sè stessi e per gli altri.
Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato che i soggetti con disturbo bipolare non riescono a gestire in modo efficace le loro emozioni positive, infatti tendono ad amplificarle.
L’emozione amplificata persiste e rende gli individui incapaci di esprimerla in contesti appropriati e in modo equilibrato. Infatti, tendono a mostrarsi con un umore elevato in situazioni negative o neutre.
Il disturbo bipolare e la gestione delle emozioni
Nello specifico i soggetti con disturbo bipolare, facendo riferimento al modello di Gross, utilizzerebbero le seguenti strategie di gestione delle emozioni:
Selezione delle situazioni: ovvero le strategie dei soggetti per influenzare le loro emozioni attraverso la scelta di situazioni da vivere e da evitare. I pazienti con disturbo bipolare mostrano una tendenza a selezionare in modo eccessivo degli obiettivi irraggiungibili e sono alla continua ricerca del piacere. La continua ricerca del piacere è dovuta ad un’eccessiva sensibilità del sistema della ricompensa, a causa di alterazioni a livello dei sistemi dopaminergici.
Modifica delle situazioni: ovvero tutte le strategie utilizzate dai soggetti per modificare le caratteristiche emotive di una situazione per aumentare o ridurre l’intensità delle emozioni in tempi brevi o lunghi. I soggetti con disturbo bipolare tendono a concentrarsi esclusivamente sulle informazioni e sugli stimoli positivi per aumentare l’intensità delle emozioni positive.
L’attenzione: tutte quelle strategie che esercitano il loro impatto primario sui processi attenti. La strategia utilizzata dai soggetti con disturbo bipolare è la ruminazione positiva, che è una riflessione più attiva e focalizzata sull’alta attivazione di emozioni e sentimenti positivi.
Il cambiamento cognitivo, riguarda tutte le strategie che hanno come obiettivo quello di modificare la valutazione dell’individuo di una situazione. I soggetti con disturbo bipolare tendono ad utilizzare la rivalutazione cognitiva positiva con lo scopo di aumentare le loro emozioni positive o per valutare positivamente una situazione.
La modulazione della risposta, infine, riguarda tutte le strategie utilizzate dai soggetti per rispondere alle emozioni. I pazienti con disturbo bipolare tendono a ricorrere all’up-regulation, quindi tenderebbero a sovra-regolarla in modo eccessivo.
Un altro importante aspetto che è emerso dalle ricerche è che questi soggetti hanno un eccessivo ottimismo, nella fase maniacale e ipomaniacale, che produce un deterioramento ed un peggioramento dei sintomi.
Questa condizione si manifesta perché i soggetti hanno un’inflessibilità del pensiero o delle credenze, che produce, a sua volta, un’inflessibilità cognitiva, che li motiva ad attribuire dei significati e dei valori emotivi alle situazioni che vivono.
L’eccessiva fiducia nei confronti di se stessi e dell’ambiente circostante e l’aver esperito eventi di vita positivi, produce un aumento della ricerca degli obiettivi e l’attivazione del sistema di approccio comportamentale (BAS).
L’effetto dell’attivazione del BAS produce: un eccessivo comportamento diretto verso l’obiettivo, aumento di energia, diminuito bisogno di sonno, ottimismo ed euforia.
Il mancato raggiungimento degli obiettivi, potrebbe implicare la disattivazione del BAS, determinando la comparsa dei sintomi depressivi, come: diminuzione dell’attività diretta all’obiettivo, diminuzione di energia, perdita di interesse, mancanza di speranza, aumento del pessimismo, tristezza e aumento del rischio di suicidio.
La tendenza a perseguire obiettivi difficili da ottenere, in combinazione con l’elevata reattività dell’umore in risposta a stimoli di successo e di ricompensa, possono essere alla base del peggioramento del disturbo.
Per concludere è possibile affermare che l’incapacità di regolare sia le emozioni negative, sia quelle positive andrebbe a produrre un peggioramento del disturbo.
Cocaina: eliminare i ricordi associati all’uso riduce il comportamento di ricerca della sostanza
Una nuova ricerca della University of Pittsburgh School of Medicine ha identificato i circuiti cerebrali che formano memorie che associano i segnali ambientali all’uso di cocaina.
Trattare gli individui con disturbo da uso di sostanze è una sfida ardua e mirare a queste memorie può migliorare il successo della terapia di esposizione per la prevenzione alle ricadute.
Cocaina: la ricerca sui ricordi associati all’uso
La ricerca presente mostra, infatti, come distruggere i ricordi che associano i segnali ambientali all’uso della sostanza riduce in maniera significativa, nei ratti, il comportamento di ricerca della sostanza messo in atto in un setting controllato. Nonostante i setting di ricerca non siano totalmente generalizzabili alla realtà, il risultato è comunque una potenziale strada per sviluppare terapie più efficaci per la prevenzione alle ricadute.
A seguito degli esperimenti di Pavlov sul condizionamento classico nei cani, si è riconosciuto che il cervello associa indizi ambientali specifici con i comportamenti, come ad esempio l’odore del caffè appena fatto che fa venire voglia di berne una tazza; o la vista di un serpente che induce una maggiore risposta alla paura. Rompere il link tra i segnali e i ricordi è una strategia già nota nel trattamento di fobie e PTSD, strategia denominata “esposizione”. Nonostante ciò, tale metodo non risulta efficace nel trattamento delle dipendenze. Ma perché? Perché il contesto ha la sua importanza. Ciò vuol dire che: mentre la terapia espositiva potrebbe avere alcuni effetti positivi in un setting controllato quale può essere lo studio del professionista, nel momento in cui la persona con una dipendenza affronta gli stimoli nel mondo esterno, il cervello mette in moto gli stessi neuroni associati al comportamento di ricerca della sostanza.
Cocaina: come ridurre il craving
È risaputo che il cervello forma ricordi stimolo-associati. Nonostante ciò, non sono ancora stati chiaramente identificati i circuiti specifici. In questo studio, i ricercatori identificano un tassello centrale nel puzzle delle memorie stimolo-associate e, ancora più significativo, dimostrano che eliminando quel tassello, nelle dipendenze da sostanze, è possibile invertire i comportamenti simili alla ricaduta. Lo studio è stato condotto su dei ratti, utilizzando un modello di stimoli associati alla ricaduta: ovvero, quando i ratti pressavano una leva, ricevevano un’infusione di cocaina, accompagnata da un suono e una luce. Mentre si impegnavano in suddette azioni, i ratti hanno imparato ad associare l’indizio audio-visivo all’effetto piacevole della cocaina. Hanno, poi, esibito un comportamento di ricerca della sostanza simile al craving: i ratti premevano ripetutamente la leva.
Inoltre, dopo l’esperimento, i ricercatori hanno stimolato una terapia espositiva nei ratti, mostrando ripetutamente il suono e la luce senza provvedere all’infusione di cocaina. Ciò ha condotto, alla fine, ad una diminuzione del comportamento di ricerca della sostanza. Nonostante questi risultati, la terapia espositiva nei ratti, come negli esseri umani, non ha funzionato in maniera efficace quando è stata messa in atto in un ambiente diverso da quello del setting controllato. D’altro canto, l’utilizzo di registrazioni elettriche del tessuto cerebrale dei ratti ha portato i ricercatori a mostrare che le connessioni tra il nucleo genicolato mediale – il quadro elettrico del cervello per il suono – e l’amigdala laterale sono importanti per la formazione di memorie che associano il piacere dell’assunzione della cocaina a stimoli esterni.
Cocaina: il ruolo dell’amigdala nei ricordi
L’amigdala è, infatti, la parte del cervello in cui vengono formati i ricordi emotivi. Qui si ricevono gli input sensoriali che vengono associati all’emozione che proviamo quando gli stimoli si presentano a noi. Per mostrare una connessione causale tra i ricordi stimolo-associati e il comportamento di ricerca della sostanza, i ricercatori hanno utilizzato una tecnica nota come optogenetica, dove una luce pulsante è utilizzata per controllare le cellule geneticamente modificate e per controllare i neuroni dell’esperimento precedente (condizionamento nei ratti). I ratti che hanno subito una cancellazione optogenetica dei ricordi riguardanti l’associazione cocaina-stimolo, hanno poi premuto la leva molte meno volte nel momento in cui gli si presentava lo stimolo luce-suono. La cosa notevole è che, tale riduzione del comportamento di ricerca, continuava a presentarsi anche in ambienti diversi da quello sperimentale. A lungo termine, queste scoperte potrebbero essere utili nello sviluppo di farmaci o approcci come la stimolazione cerebrale profonda per indirizzare specificamente queste memorie rafforzate dall’uso di sostanze e migliorare il successo della terapia di esposizione per prevenire le ricadute.
Mindful Interbeing Mirror Therapy. Un metodo innovativo per un nuovo approccio terapeutico integrativo sulla personalità
Da cinque anni è stata creata e sviluppata la Mindful Interbeing Mirror Therapy da Alessandro Carmelita e Marina Cirio. Questa Terapia in questi anni è stata utilizzata con tantissimi pazienti dando risultati molto promettenti.
La Mindful Interbeing Mirror Therapy rappresenta un approccio integrativo delle parti di personalità, allo scopo di rafforzare una parte compassionevole, in relazione con la parte emotiva, sofferente, portatrice di esperienze traumatiche.
Alessandro Carmelita e Marina Cirio
Negli ultimi anni diversi approcci psicoterapeutici si sono interessati allo studio dello sviluppo della personalità, sottolineando il ruolo delle relazioni d’attaccamento, delle esperienze traumatiche precoci e della dissociazione nella costruzione del Sé. Molto risalto è stato dato alla definizione delle parti della personalità nei pazienti che hanno subito traumi e che presentano sintomatologie gravi, come i disturbi di personalità o il PTSD.
In linea con questi contributi, molti interventi terapeutici si focalizzano oggi sull’integrazione delle parti dissociate in un Sé coeso, e la relazione terapeutica assume un ruolo centrale nella riparazione degli stati dissociati conseguenti a traumi relazionali più o meno gravi e precoci.
La Mindful Interbeing Mirror Therapy (MIMT) può rappresentare un approccio innovativo nel panorama delle psicoterapie di ultima generazione, accomunate dalla focalizzazione sull’asse integrazione/dissociazione della personalità. Presentata per la prima volta al congresso internazionale di Schema Therapy ad Amsterdam nel maggio 2018, la Mindful Interbeing Mirror Therapy si caratterizza per il particolare metodo di intervento: paziente e terapeuta sono posti entrambi davanti allo specchio, e interagiscono attraverso la loro immagine riflessa. Ma oltre a questo, è definita da un modello teorico di riferimento specifico. Possiamo così sintetizzare i principi cardine di questo modello:
lo specchio come veicolo di ricostruzione del sé individuale e relazionale
la terapia come occasione di riparazione e ricostruzione del sé integrato
la compassione come ingrediente fondamentale nell’integrazione intrapsichica e relazionale
la dissociazione controllata come catalizzatore nell’attivazione delle parti
Costruzione del sé: il riconoscimento allo specchio nello sviluppo
Il riconoscimento della propria immagine allo specchio è associato al processo di costruzione dell’identità (per una rassegna, v. Moro, Pernigo, 2006). La capacità del bambino di riconoscere la propria immagine allo specchio, intorno ai due/tre anni, si sviluppa di pari passo con un senso di coerenza interna e con la costruzione di un senso di sé unitario e distinto dagli altri, favorito anche dallo sviluppo graduale della memoria autobiografica (Fivush e Graci 2017, Markowitsch e Staniloiu, 2011).
Il riconoscimento del proprio volto riflesso nello specchio, inoltre, attiva zone specifiche dell’emisfero destro, deputato al riconoscimento di sé, così come è implicato nel riconoscimento dei volti umani e nell’elaborazione del flusso di informazioni emotive presenti in una comunicazione interattiva (Schore, 2016). Se nello sviluppo individuale il processo di costruzione di sé parte dal riconoscimento allo specchio, possiamo pensare che lo specchio sia un ottimo campo da gioco per lavorare sull’integrazione delle parti di Sé, un modo efficace per ricostruire un sé completo, integrato e coeso al suo interno. Una psicoterapia indirizzata alla ri-costruzione del sé e al rafforzamento delle funzioni integrative di coscienza può migliorare la propria efficacia utilizzando lo specchio in modo consapevole, riattivando le aree coinvolte nel riconoscimento di sé e nel processo di costruzione della propria identità.
La dimensione relazionale nello specchio
Oltre a partecipare al processo di costruzione del sé, il riconoscimento allo specchio attiva nell’individuo una dimensione relazionale, in cui l’individuo è contemporaneamente oggetto e soggetto. Di fronte allo specchio realizziamo di esistere in uno spazio intersoggettivo, vedendoci come gli altri possono vederci, poiché si attivano le aree dell’emisfero destro coinvolte nel riconoscimento delle emozioni altrui (Schore, 2016 ).
L’osservazione del proprio volto, e delle proprie emozioni veicolate dalle espressioni facciali, sembra produrre una reazione inconscia e immediata di risposta empatica all’espressione facciale riflessa nello specchio. Come spiega l’ipotesi del “contagio emotivo” (Sonnby- Borgstrom, 2002; Caputo, 2010; Hsee, Hatfield, Carlsson e Chetomb, 1990), gli esseri umani tendono a mimare gli aspetti verbali, fisiologici e comportamentali dell’esperienza emotiva di un’altra persona, sperimentando così la stessa emozione. La mimica facciale rappresenta un aspetto fondamentale di questo fenomeno. Di fronte allo specchio, il fenomeno di contagio emotivo risulta amplificato, grazie ad un feedback continuo tra l’espressione del viso e l’immagine riflessa. La risposta connessa all’osservazione del proprio volto porta automaticamente e inconsapevolmente a modificazioni nella mimica che vengono riflesse nello specchio e producono una sorta di contagio emotivo in cui il soggetto si trova in un circuito chiuso di connessione empatica con la propria immagine riflessa (Caputo, 2010).
Lo specchio rappresenta quindi un contesto privilegiato in cui si attivano contemporaneamente, in modo amplificato, aspetti emotivi, neurofisiologici e cognitivi legati allo sviluppo del sé e alla dimensione relazionale, intersoggettiva dell’individuo. Una relazione terapeutica condivisa entro questa cornice può usufruire delle enormi potenzialità comprese nell’utilizzo di questi aspetti.
La relazione terapeutica: sintonizzazione momento per momento
A partire dagli studi di Porges (2014) sull’attivazione del sistema di ingaggio sociale nelle relazioni significative, e quindi anche nella relazione terapeutica, troviamo diversi dati a sostegno dell’importanza della connessione momento per momento tra gli stati emotivi del paziente e del terapeuta nel determinare l’esito di un processo terapeutico (Schore, 2016).
La capacità di esprimere le proprie emozioni, presente poche ore dopo la nascita (Meltzoff, Moore, 1977), unita alla scoperta dei neuroni specchio, danno sostegno all’ipotesi dell’intersoggettività come condizione intrinseca, incarnata dell’essere umano (Ammaniti, Gallese, 2014). Analogamente, Schore (2005) definisce la relazione terapeutica come una relazione tra emisferi destri, in cui il terapeuta svolge la funzione regolativa emotiva propria della madre nella relazione madre – bambino, vale a dire la sintonizzazione del proprio stato emotivo con quello dell’altro, e la riparazione interattiva per la regolazione degli stati emotivi negativi. I segnali relazionali non verbali sono veicolati dall’emisfero destro e si strutturano quindi ad uno stadio precoce di sviluppo, pre-linguistico e pre-cognitivo, definendo i contenuti della memoria procedurale implicita, vale a dire il nucleo del senso di un sé coerente, prerequisito per lo sviluppo dell’identità.
La relazione terapeutica è quindi una relazione emotivamente significativa, in cui la maggior parte degli scambi interpersonali avviene ad un livello implicito, emotivo, parallelamente alla comunicazione verbale, consapevole e narrativa. In quest’ottica, la comunicazione emotiva del terapeuta assume una rilevanza innegabile. Segnali come lo sguardo, l’espressione facciale, la mimica, le variazioni nella postura arrivano velocemente e non intenzionalmente al paziente, contribuendo alla creazione di una relazione più o meno sicura (Schore, 2016).
La capacità di comprendere lo stato emotivo di una persona attraverso l’imitazione delle espressioni facciali rappresenta la prima fase dell’attivazione dei neuroni specchio. La fase successiva è quella in cui la persona, avendo “acceso” in sé le stesse zone corticali e sperimentando un’attivazione emotiva e fisiologica simile, si pone in posizione di cura nei confronti dell’altro (Gallese, 2003).
La capacità di rispecchiare lo stato emotivo dell’altro viene sperimentata nella relazione d’attaccamento e condiziona il processo di costruzione del sé. Quando il caregiver non è in grado di rispecchiare efficacemente gli stati interni del bambino, il senso di sé che il bambino svilupperà sarà meno coeso e meno integrato. Per questo un intervento terapeutico efficace deve prevedere la riparazione al mancato rispecchiamento, a partire proprio dal contatto visivo. E il contatto visivo è uno degli elementi cardine della Mindful Interbeing Mirror Therapy.
La compassione nella relazione terapeutica e la self-compassion
La Mindful Interbeing Mirror Therapy permette al paziente di essere costantemente in una relazione consapevole e focalizzata con se stesso, e nello stesso tempo con il terapeuta, che svolge la funzione di contenimento, guida e ancoraggio emotivo nell’esplorazione delle diverse parti di sé e in relazione tra loro.
Lo stato emotivo che il paziente sperimenta nei confronti della propria immagine rappresenta la relazione che ha in quel momento con la propria idea di sé e la possibilità di sviluppare un sentimento di compassione rappresenta uno degli obiettivi del percorso terapeutico della Mindful Interbeing Mirror Therapy. Il terapeuta può essere lo strumento per favorire lo sviluppo della self-compassion, sempre attraverso la condivisione dello sguardo attraverso lo specchio. Il terapeuta, esprimendo autentica connessione con lo stato del paziente, lo aiuta ad entrare in una relazione compassionevole con la propria immagine riflessa, diventando veicolo e facilitatore del processo di integrazione tra una parte sana, compassionevole, e una parte emotiva, sofferente. Il paziente può sperimentare il passaggio emotivo fondamentale dal disgusto per la propria immagine alla tenerezza e amore per sé.
La maggior parte delle informazioni veicolate dall’emisfero destro nella comunicazione intersoggettiva passa attraverso le espressioni del viso e il contatto oculare, così come gli elementi preverbali del linguaggio sembrano attivare la memoria procedurale implicita connessa alla relazione d’attaccamento, rendendo sia il paziente che il terapeuta aperti e ricettivi rispetto a contenuti emotivi significativi. Utilizzare in terapia gli aspetti non verbali, soprattutto il contatto visivo, in modo molto più consapevole all’interno del percorso di cura rende più potenti e più veloci quei momenti di incontro tra paziente e terapeuta che rappresentano il fulcro della relazione terapeutica. E sono questi momenti di incontro a determinare i cambiamenti più profondi e duraturi nella regolazione emotiva del paziente.
La dissociazione controllata come strumento terapeutico
Un altro aspetto importante utilizzato nella procedura MIMT è il raggiungimento di uno stato di dissociazione controllata, in cui il soggetto osserva un punto specifico nello specchio per un certo periodo di tempo. Questo fenomeno è differente dai processi inconsci coinvolti nei disturbi dissociativi dell’identità. Come dimostra la pratica clinica, l’utilizzo di questa tecnica permette di accedere ad un livello di dissociazione controllata e consapevole in cui emergono contenuti relativi al sé che normalmente rimangono ad un livello sottocorticale, inconsapevole.
Lo specchio può produrre un senso di alienazione e favorire un certo grado di dissociazione, quindi, in cui l’individuo è soggetto e oggetto contemporaneamente, e questo stato di coscienza lievemente alterato può risultare molto produttivo in terapia (Caputo, 2014). Quando il paziente rimane entro la finestra di tolleranza, integra in modo più efficace stimolazioni interne ed esterne (Ogden, 2012; Siegel, 2013). Diventa più facile lavorare con le parti distinte della personalità del paziente, definendole e differenziandole, per poi integrarle in un sé più armonico e coeso, anche in virtù del fatto che il riconoscimento di sé allo specchio è collegato, a livello neuronale, al processo di costruzione del Sé.
La Mindful Interbeing Mirror Therapy rappresenta un approccio integrativo delle parti di personalità, allo scopo di rafforzare una parte compassionevole, in relazione con la parte emotiva, sofferente, portatrice di esperienze traumatiche.
La possibilità di visualizzare contemporaneamente paziente e terapeuta nello specchio può avere un effetto molto incisivo, poiché il paziente ha la possibilità di legare l’immagine di sé e del terapeuta all’esperienza emotivamente significativa rappresentata dalla seduta e dal percorso psicoterapeutico.
La procedura
Muovendosi lungo i binari degli aspetti menzionati prima, abbiamo costruito un protocollo di intervento strutturato e preciso, in cui il paziente viene guidato dal terapeuta nel percorso di fronte allo specchio, allenandosi ad entrare in uno stato di dissociazione controllata che favorisce l’emergere di contenuti inconsci, e focalizzandosi sulla relazione con la propria immagine nel qui ed ora. L’intervento terapeutico si struttura anche sullo sviluppo del sé, e quindi sul senso di appartenenza e di coerenza interna tra gli eventi di vita del passato, su cui il paziente ha costruito la propria identità, e il momento attuale, rappresentato dall’ immagine riflessa nello specchio.
Il protocollo MIMT prevede un intervento specifico e differenziato nei confronti delle diverse parti della personalità. È l’immagine riflessa del paziente che rappresenta l’attivazione e il passaggio da uno stato dell’io all’altro nel corso della seduta. Il terapeuta, insieme al paziente, osserva il cambiamento e registra l’attivazione delle diverse parti, favorendo l’accesso alla parte emotiva.
Ogni parte della personalità trova spazio all’interno della cornice dello specchio e il terapeuta, anch’egli all’interno della stessa dimensione, interviene in modo differenziato. Si lavora sull’attivazione momento per momento, ma si lavora anche sulla ricostruzione della propria storia, a partire dalle prime fasi di vita, sia ad occhi aperti che in immaginazione.
Obiettivo della terapia è la costruzione di una relazione compassionevole tra la parte sana del paziente e la parte sofferente, emotiva. Allo stesso modo, la capacità di provare compassione viene estesa alla dimensione relazionale, lavorando momento per momento sulla relazione terapeutica e, gradualmente, sulla generalizzazione alla vita del paziente.
Riteniamo che questo utilizzo dello specchio in terapia possa rappresentare un punto di svolta importante nel metodo di intervento terapeutico, proprio per le peculiarità sopra descritte. Ciò che ci rende forti e sicuri in questa convinzione non è tanto un’aprioristica adesione a modelli teorici, peraltro importanti e fondati, ma una pratica clinica sviluppata negli ultimi cinque anni, che ha portato a risultati per noi altamente promettenti.
Ehi Franco – L’omaggio musicale a Franco Basaglia del duo Psicantria
La canzone Ehi Franco è stata scritta dal duo Psicantria per raccontare e celebrare la figura di Franco Basaglia in occasione dei 40 anni della Legge 180. E’ un brano che racconta quello che Basaglia ha fatto e cosa ha rappresentato per la psichiatria, ripercorrendo le tappe salienti della sua storia e le sue battaglie. Contiene riferimenti anche al mondo di oggi dove siamo iperconnessi, ma purtroppo ancora pieni di pregiudizi. Il video è stato realizzato dal regista Lillo Venezia in collaborazione con Rosa Bianca (www.rosabiancaonlus.org), associazione modenese che si occupa dell’Inserimento Eterofamigliare Supportato di Adulti con disagio psichico (IESA).
Ehi Franco. Il testo della canzone
Ehi Franco sono stati 40 anni forti e intensi
Da quando hai fatto aprire quei cancelli
Saltando in sella a Marco Cavallo
Gorizia, non solo un’ospedale di frontiera
Un luogo di oppressione, una galera
Ma uno spazio per far crescere le idee
Franco e la passione per la filosofia Lo sguardo più al malato che alla sua malattia Le notti in bianco a scrivere su un’Olivetti azzurra
Heiddeger e Gramsci ma cos’è la psichiatria Strumento di controllo o pura ideologia Aprirsi ad un confronto con qualcuno che è diverso
Si sognava da svegli senza l’illusione
Che l’Italia vivesse una rivoluzione
Aria di libertà senza contenzione
Non era un delirio un’allucinazione
Caro Franco è la storia dicono a dare ragione
Ma la dignità ridata alle persone
E quel po’ di follia per cambiare le cose
Ce l’hai messa tu Ce l’hai messa tu
E nel mondo finalmente per qualcosa siamo i primi
Non solo per spaghetti e mandolini
O per combinar grandi casini
Trieste il deserto si riempie di colori
Il silenzio lascia il posto a nuovi suoni
A una comunità che viene fuori
Franco e la battaglia sul pericolo sociale Il matto ti spaventa può mandarti all’ospedale Pensare alla violenza come attributo naturale
Tornare cittadini, il diritto di votare Siamo tutti appesi a un filo, ma nessuno è da legare Il diritto di curarsi e quello di star male
Si sognava da svegli senza l’illusione
Che l’Italia vivesse una rivoluzione
Aria di libertà senza contenzione
Non era un delirio un’allucinazione
Caro Franco è la storia dicono a dare ragione
Ma la dignità ridata alle persone
E quel po’ di follia per cambiare le cose
Ce l’hai messa tu Ce l’hai messa tu
Hey franco
E oggi che chiunque può parlare
Tutti hanno un profilo da mostrare
Il silenzio è quasi fuori dal normale
Siam connessi
Sulla carta abbiamo fatto dei progressi
Ma in fondo Siam più soli e meno umani
Facciamo finta di essere più sani
Ma il pregiudizio quello purtroppo è ancora forte
La mente ha come delle grandi porte
Che qualcuno tiene chiuse bene a chiave
Che qualcuno tiene chiuse bene a chiave
E chissà se l’han buttata via la chiave
Credits
Testo e musica di Gaspare Palmieri e Cristian Grassilli
Arrangiamento: Lorenzo Mantovani
Regia: Lillo Venezia
Fotografia: Piernicola Arena
Animazioni: Riccardo Calabrese