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Contrastare il fenomeno del bullismo omofobico: il possibile ruolo della Psicologia della Salute

Il bullismo omofobico può manifestarsi in diversi modi: vi possono essere comportamenti di tipo verbale (deridere insultare, prendere in giro ripetutamente o minacciare una violenza fisica), prepotenze indirette (come escludere qualcuno dai gruppi di aggregazione), violenze fisiche a sfondo sessuale, fino a violenze sessuali di gruppo.

 

Secondo un’indagine effettuata dall’Agenzia Internazionale per i Diritti Fondamentali nel 2009, l’attuale situazione sociale per lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender (LGBT) rappresenta un problema per l’Unione Europea. Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender sono vittime di discriminazione, bullismo e molestie in tutta l’UE. Tutto ciò spesso si traduce in affermazioni umilianti, ingiurie, insulti, nell’utilizzo di un linguaggio offensivo nonché, cosa che suscita maggiori preoccupazioni, in aggressioni fisiche. Come hanno mostrato i risultati dell’indagine Eurobarometro sulla discriminazione, condotta nel luglio 2008, in media oltre la metà dei cittadini dell’UE ritiene che la discriminazione basata sull’orientamento sessuale sia diffusa nel proprio paese.

La discriminazione, l’omofobia e la transfobia incidono sull’esistenza e sulle scelte delle persone LGBT in tutti gli ambiti della vita sociale. Fin dai loro primi anni, gli epiteti dispregiativi utilizzati nei confronti di gay e lesbiche all’interno delle scuole insegnano loro a rimanere invisibili. Spesso sono vittime di molestie e discriminazione sul posto di lavoro; in molti paesi non hanno modo di tutelare giuridicamente il proprio rapporto di coppia; di rado si riscontrano rappresentazioni positive delle persone LGBT nei media; quando hanno bisogno di cure per se stessi o per il loro partner, esitano a rivelarsi in contesti in cui si dà per scontata l’eterosessualità; nelle case di riposo è scarsa la comprensione e la consapevolezza delle loro esigenze. E nel caso in cui si tratti di rifugiati in cerca di asilo dalla persecuzione che subiscono in paesi terzi a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere, le loro parole vengono spesso messe in dubbio o, cosa peggiore, vengono semplicemente respinti, anche se nel paese che hanno lasciato l’omosessualità costituisce un reato punito con la pena di morte.

In questo stesso report è stato messo in evidenza come in tutta l’UE si possano riscontrare episodi di bullismo e molestie nei confronti delle persone LGBT all’interno degli istituti scolastici. L’ omofobia e la transfobia verbali sono all’ordine del giorno e il termine “gay” è comunemente utilizzato in modo dispregiativo. Il bullismo e le molestie hanno conseguenze significative per i giovani LGBT, influenzandone il rendimento scolastico e il benessere. Tali esperienze possono condurre all’emarginazione sociale, a cattive condizioni di salute o all’abbandono della scuola. La ricerca esistente e le interviste con le ONG per i diritti delle persone LGBT, dimostrano che le autorità scolastiche in tutta l’UE prestano poca attenzione all’omofobia e al bullismo omofobico. La ricerca, inoltre, dimostra che gli insegnanti non possiedono la consapevolezza, gli stimoli, le abilità e gli strumenti per riconoscere e affrontare tali problemi.

L’obiettivo che qui ci proponiamo di perseguire, è l’analisi della condotta omofobica, del bullismo e delle possibiltà di contrasto a questi dilaganti fenomeni sociali, nella cornice teorico-applicativa della Psicologia della Salute.

Il bullismo omofobico

La parola “bullismo” rappresenta la traduzione letterale del termine “bullying”, comunemente utilizzato nella letteratura internazionale per descrivere il fenomeno delle prepotenze tra pari, in contesti di gruppo quali ad esempio quello scolastico. Il bullismo consiste in atti di aggressione perpetrati in modo persistente e organizzato secondo un determinato copione relazionale, ai danni di uno o più compagni di scuola che non hanno la possibilità di difendersi a causa dell’asimmetria di status o potere (Prati, Coppola & Saccà; 2010). Come l’aggressività, può manifestarsi mediante tre principali modalità: può essere, infatti, di tipo fisico, includendo atti di vessazione fisica, materiale o sottrazione di proprietà; di tipo verbale, che si sostanzia in modo diretto attraverso insulti di vario genere, derisione o diffusione di maldicenze; di tipo manipolativo/relazionale, volto cioè a colpire i rapporti di amicizia della vittima, con l’obiettivo di isolarla.

In linea generale, i ricercatori che si sono occupati dello studio di questo fenomeno, sono concordi sul fatto che si possa parlare di bullismo quando sono soddisfatti tre criteri (Fonzi, 1997; Fedeli, 2007): intenzionalità (permette di distinguere un comportamento involontario da un’aggressione deliberata), sistematicità (nella dimensione comportamentale tende a ripetersi con una certa organizzazione) e relazionalità (prima ancora che rapprasentare un insieme di comportamenti aggressivi, il bullismo è un atto relazionale per mezzo del quale il bullo soddisfa il proprio desiderio di vessazione nei confronti di uno o più coetanei). Attraverso queste tre modalità, il bullismo viene generalmente esercitato ai danni di persone appartenenti a gruppi socialmente stigmatizzati (persone affette da obesità, disabilità, appartenenti a minoranze sessuali o etniche).

Per quanto riguarda il contesto italiano, solo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso le scienze sociali e psicologiche hanno iniziato a guardare al fenomeno con una certa attenzione. Diverse sono state le indagini che hanno confermato la presenza di gravi fenomeni di prepotenza nella scuola italiana (Fonzi, 1997). Da uno studio condotto nel 2006 (Fonzi, 2006) sulle scuole di otto regioni italiane, è emerso che 4 alunni su 10 nella scuola elementare, e 8 alunni su 10 nella scuola media, sono stati vittime di bullismo da parte dei pari.

Le forme di bullismo basate sul disperezzo dell’omosessualità possono anch’esse manifestarsi in diversi modi: vi possono essere comportamenti di tipo verbale (deridere insultare, prendere in giro ripetutamente o minacciare una violenza fisica) o, in taluni casi, prepotenze indirette, come escludere qualcuno dai gruppi di aggregazione; vi possono essere violenze fisiche a sfondo sessuale, fino a violenze sessuali di gruppo (Prati Pietrantoni, Buccoleri & Maggi, 2010).

Il bullismo omofobico riguarda tutti gli atti di prepotenza e abuso che si fondano sull’ omofobia, rivolti a persone percepite come omosessuali o atipiche rispetto ai convenzionali ruoli di genere. Questo fenomeno riguarda in misura maggiore i maschi per due ragioni. Prima di tutto i maschi sono più omofobi, in quanto il ruolo di genere maschile è definito in modo più puntuale e le sue deviazioni sono maggiormente sanzionate nella nostra società. L’essere gay viene erroneamente associato al non essere uomini, per cui l’omosessualità va a costituire una minaccia all’identità sessuale maschile; in secondo luogo il bullismo, come fenomeno sociale più ampio, risulta essere prevalentemente presente all’interno del genere maschile (Prati, Pietrantoni & Saccinto, 2016). In generale le ricerche hanno mostrato che gli adolescenti omosessuali o bisessuali tendono a riportare di aver subito maggiori episodi di molestie e violenze rispetto ai pari eterosessuali (Prati et al., 2009; Prati et al., 2010). Per esempio, è emerso che tra gli studenti gay, lesbiche o bisessuali, l’81% aveva subito frequenti aggressioni verbali, il 38% minacce di violenza, il 16% molestie sessuali, il 15% aggressioni fisiche e il 6% aggressioni con un’arma (D’Augelli, 2002). Le vittime di bullismo omofobico nelle scuole italiane sembrano essere numerose. Un recente studio condotto su un campione di circa 900 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, di diverse parti d’Italia, ha mostrato che circa uno studente su 20 (in maggioranza maschi) è stato vittima di bullismo omofobico nei mesi precedenti la conduzione dell’indagine (Prati 2010).

In quest’ottica si delinea la centralità rivestita dall’istituzione scolastica nel creare le condizioni per un clima di rispetto e apertura nei confronti delle diversità sessuali. Non si tratta di una scelta improvvisata, quanto del risultato di un percorso che si concretizza nell’attuazione di specifiche linee politico-istituzionali ed educative.

Nelle scuole italiane gli interventi strutturati di prevenzione o riduzione del bullismo omofobico sono spesso inglobati all’interno di progetti più vasti che affrontano il bullismo in generale, l’educazione alle diversità, l’educazione sessuale o socio-affettiva. Prati e colleghi (2009) distinguono tre modelli di interventi educativi sulle tematiche dell’omosessualità/omofobia e del bullismo omofobico:

  1. il modello del silenzio, in base al quale l’omosessualità rimane un argomento tabù, troppo delicato, inaffrontabile (si assume che tutti siano eterosessuali);
  2. il modello dell’uguaglianza/diversità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con altri progetti sulle differenze e le diversità, volti ad aumentare l’inclusione sociale e l’equità (a volte anche nei rari percorsi di educazione sessuale);
  3. il paradigma della sicurezza/ legalità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con quelli volti a contrastare la violenza e il bullismo e a tutelare la sicurezza personale e la legalità.

Se il primo paradigma perpetua eterosessismo e omofobia, anche il secondo e il terzo possiedono punti di forza e punti di criticità. Gli interventi educativi ispirati al paradigma della diversità/uguaglianza potrebbero essere problematici perché con l’intento di “normalizzare”, evitano di menzionare la variabilità di pratiche, stili di vita e forme socializzative delle persone LGBT. Secondo gli autori, gli interventi educativi che si ispirano al paradigma della sicurezza/legalità potrebbero invece focalizzarsi sul ruolo di gay come vittime, trascurando la resilienza e le strategie di fronteggiamento attive intraprese da chi vive una condizione di marginalità e ostilità sociale.

La psicopromozione nella scuola

Negli anni ’70 del secolo scorso la Psicologia della Salute si afferma formalmente come disciplina con uno statuto autonomo, attraverso la nascita e la costituzione della divisione di “Health Psychology” all’interno dell’ American Psychological Association (APA). In quella stessa sede, nel 1980, ne fu data una definizione e chiariti scopi e obiettivi: “La psicologia della salute è l’ insieme dei contributi specifici (scientifici, professionali, formativi) della disciplina psicologica, miranti” (Bertini, 2012):

  • alla promozione e mantenimento della salute;
  • alla prevenzione e trattamento della malattia;
  • all’identificazione dei correlati eziologici, diagnostici della salute, della malattia e delle disfunzioni associate.

Il tema specifico della promozione, che rappresenta in linea generale l’impalcatura e la finalità massima del “Modello Salute”, viene così definito nella conferenza di Ottawa del 1986:

La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana e non come il fine della vita. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere.

Alla luce di quanto fin qui detto, potrebbe risultare utile chiedersi in che misura, e attraverso quali modalità, la Psicologia della Salute possa rispondere al complesso problema del bullismo omofobico nel contesto scolastico.

Secondo Mario Bertini (2012), docente della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università di Roma “Sapienza”, nonché massimo esponente della psicologia della salute nel contesto scientifico italiano:

[…] la scuola come dimensione contestuale complessa, dove passano indistintamente tutti i cittadini e in un arco di età relativamente significativa (…), offre migliori opportunità di affrontare il tema della promozione del benessere. A differenza degli interventi di terapia o di prevenzione, l’approccio sistematico di promozione veicola un messaggio di grande significato: un’assunzione di responsabilità della scuola nell’assecondare lo sviluppo individuale e sociale di tutti gli alunni, dalla “materna” alla “secondaria superiore”.

Nel corso degli anni, diverse agenzie internazionali in collaborazione con l’OMS, hanno stilato delle linee guida che connoterebbero a chiare lettere quelle scuole che potremmo definire ad approccio psicopromotivo. A livello europeo, i seguenti valori fondamentali sono stati riconosciuti come i valori alla base dell’approccio delle cosiddette Scuole che Promuovono Salute:

  • Equità. Un accesso equo per tutti all’istruzione e alla salute.
  • Sostenibilità. Salute, istruzione e sviluppo sono correlate tra loro, con attività e programmi implementati in modo sistematico nel lungo periodo.
  • Inclusione. La diversità viene valorizzata. Le scuole sono comunità di apprendimento nelle quali tutti si sentono accolti e rispettati.
  • Empowerment. Tutti i membri della comunità scolastica sono coinvolti attivamente.
  • Democrazia. Le Scuole che Promuovono Salute si fondano sul valore della democrazia.

Tendenzialmente, la promozione della salute nel contesto scolastico mira a due obiettivi fondamentali: migliorare il rendimento scolastico (studenti «in salute» hanno maggiori probabilità di imparare in modo più efficace) e facilitare l’attuazione di azioni in favore della salute, attraverso lo sviluppo di conoscenze e competenze in ambito cognitivo, sociale e comportamentale (gli studenti possono imparare a scuola stili di vita più salutari, abilità personali e sociali, che poi possono mettere in pratica, nella propria vita, per migliorare la propria salute).

In un clima sociale, come quello attuale, dove la cultura e l’istruzione si innestano in una dimensione esistenziale (individuale e sociale) ben più ampia della mera trasmissione delle conoscenze, promuovere la salute a scuola richiede un approccio globale, che includa:

  1. un’educazione alla salute di tipo partecipativo e orientata all’azione;
  2. lo sviluppo di politiche scolastiche che promuovano la salute e il benessere (documenti e prassi condivise da ogni singola scuola, che divengano parte integrante della sua identità);
  3. lo sviluppo di un sano ambiente scolastico fisico e sociale: edifici, aree verdi, relazioni tra il personale stesso e tra il personale e gli studenti, etc;
  4. lo sviluppo di competenze personali e sociali trasversali, comuni a tutti i possibili temi riguardanti la salute;
  5. lo sviluppo di competenze utili per la vita (life skills);
  6. la creazione di legami efficaci con la famiglia e la comunità (istituzioni, enti locali, associazioni, servizi sanitari, ecc…).

In questa rinnovata e attualissima cornice contestuale, fatta di nuovi bisogni e nuovi scenari, vanno ad inserirsi interventi di psicopromozione (o, per meglio dire, di salutogenesi) molto importanti ed efficaci, quali ad esempio le Life Skills Education.

Le “Life Skills Education” come intervento proprio della Psicologia della Salute: quale utilità per il contrasto al bullismo omofobico nelle scuole?

Agli inizi degli anni ’90, l’OMS definisce le Life Skills come “competenze di vita” e “per la vita” che consentono di gestire efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana, e possono quindi essere considerate alla radice di ogni processo di sviluppo e, quindi, di promozione della salute (Bertini, 2012).

Il termine Life Skills (LS) viene generalmente riferito ad una gamma di abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul piano individuale che sociale. Contiene un ancoraggio pragmatico, orientato all’operazionalità (skills), ma con un’apertura di orizzonte assai ampio (life) che consente di riflettere sul significato di queste abilità, rispetto alla loro matrice originaria e alla loro finalità biopsicosociale (Bertini, Braibanti & Gagliardi; 2006).

Nell’ ultimo ventennio, diversi studi hanno messo in luce la correlazione esistente tra le differenze socioeconomiche e la salute sociale e personale (Coburn, 2000; Wilkinson, 1999; Weick, 1999; Zani & Cicognani, 2000), segnalando inoltre che il rapporto tra reddito e salute risulta mediato dalla qualità delle relazioni sociali e da tutti quegli “strumenti” che permettono ai soggetti di accedere alle risorse sociali per la salute. Complessivamente, questo scenario ci induce a ritenere indispensabile un’attenzione formativa, da parte dell’istituzione scolastica, alle competenze psicosociali. Tale compito, nel panorama internazionale dell’istruzione, viene generalmente affidato alle Life Skills Education (LSE), che possono trovare nella scuola il contesto di implementazione più consono e fertile. Le LS trovano spazio e si possono esaminare in tutti i contesti di sviluppo e di relazione. Esse, tuttavia, sollecitano nei contesti di apprendimento un impegno specifico che mette in luce l’intreccio tra gli aspetti cognitivi e tutte le altre dimensioni psicosociali dello sviluppo.

Al di là della rappresentazione delle singole abilità nei processi educativi, l’approccio generale delle LS nella scuola trova fondamento nei recenti studi sulla socializzazione, secondo i quali l’attuale formulazione didattica non appare più adatta a sostenere i rapidi mutamenti della nostra società, mentre occorre riservare molto spazio allo sviluppo e alla capacità dei soggetti di rispondere come individui e orientarsi in modo adattivo e co-costruttivo ad un contesto di valori complessi e spesso contraddittori (Bertini, Braibanti & Gagliardi, 2006). La prospettiva delle LSE si basa su un dimensione educativa olistica che fa propri i pilastri teorico-applicativi della psicologia della salute, ovvero: l’approccio dinamico-evolutivo (cammino di sviluppo in cui domina il cambiamento), l’approccio sistemico (lo studente cresce nella misura in cui tutte le altre componenti crescono) e l’approccio co-costruttivo (riconoscimento delle competenze di ciascuna componente, diversamente motivata alla realizzazione degli obiettivi).

Nei programmi LSE, che possono essere sviluppati all’interno di interventi di promozione, protezione e prevenzione, vengono individuate 5 aree o competenze di vita:

  1. pensiero creativo e pensiero critico;
  2. comunicazione efficace e relazioni interpersonali;
  3. autoconsapevolezza e empatia;
  4. gestione delle emozioni e gestione dello stress;
  5. capacità di prendere decisioni e capacità di risolvere i problemi.

L’obiettivo dei programmi di intervento LSE è di aiutare ogni scuola ad elaborare una definizione di sviluppo personale e sociale nonché, una gamma equilibrata di attività e abilità multivalenti che dimostrino una coerente evoluzione interna e senso di continuità. Pertanto, per il raggiungimento di quest’ obiettivo, tali programmi propongono alle scuole di partire dalla piramide dei bisogni, di fare costantemente riferimento al modello di sviluppo LS e, in fase operativa, di ricorrere ai diversi materiali didattici, come guida essenziale e pratica per realizzare, all’ interno dell’ attività educativa, percorsi di sviluppo delle competenze psicosociali (Bertini, Braibanti & Gagliardi; 2006).

Nel modello “Competenze di vita” l’obiettivo può essere raggiunto, se tutte le componenti del sistema scolastico (studenti, insegnanti, organizzazione scolastica, famiglia e comunità) vengono coinvolte direttamente nel processo stesso, riconoscendone la piena importanza in qualità di agenti propositivi di cambiamento.

Sulla base di quanto fin qui detto, quello che in ultima istanza appare chiaro è che le LSE, nate come risposta flessibile e peculiare alla complessificazione dei bisogni della nostra società e dell’istituzone scolastica con tutti i suoi attori, risultano oggi uno degli strumenti di psicopromozione più adeguato per il contrasto al bullismo omofobico nel sistema scolastico. In tal senso quindi, non sarebbe del tutto illogico immaginare una Psicologia della Salute che, per mezzo dell’istituzione scuola e del modello LSE, possa assurgere all’arduo ma lungimirante compito di porre le basi per una società migliore, fatta di cittadini capaci di essere in armonia con se stessi e con gli altri, consapevoli del proprio ruolo e della propria importanza nel mondo.

I super eroi senza super poteri! L’idealizzazione della genitorialità

Idealizzare la genitorialità e i ruoli interni ad essa aumenta il senso di colpa nel caso in cui il nostro “super eroe” non risponda ad essi. Ma se è vero che i bambini imparano per imitazione, vogliamo davvero non insegnarli il valore della fragilità?

 

Essere genitore è un’impresa difficile, un’avventura a cui spesso si guarda, da fuori, come ad un “privilegio”, senza mai menzionare il reale impegno e la responsabilità che questo richiede.

Educare il proprio bambino, affrontare con lui le varie fasi di crescita, richiede per il genitore stesso una “rinascita” costante in cui fare appello a competenze diverse, a dinamiche emotive e relazionali, in continuo cambiamento.

Da totalmente oblativi e protettivi quali erano durante il primo anno di vita, ora incominciano a richiedere l’adeguamento ad alcune norme di comportamento (Oliviero Ferraris e Oliviero, 2002).

Tornare alla base sicura

A partire dai primissimi mesi di vita il quadro evolutivo della relazione genitori-figli, richiede un adeguamento costante bidirezionale: da parte del genitore verso il bambino, ma anche del bambino verso il genitore. La graduale crescita non cancella i bisogni emotivi del figlio, ma li cambia, nella sua espressione e nelle modalità di appagamento. Il crescente interesse per l’ambiente circostante fa si che il bambino compia “previsioni” su questo e diventi capace di neutralizzare alcune preoccupazioni con la certezza di essere oggetto di attenzione degli adulti, mamma e papà, che possono proteggerlo e accompagnarlo. Tornare alla “base sicura” quando si ha bisogno, per riempire il proprio bagaglio di cure ma anche di certezze sul come affrontare il mondo, per sperimentare dunque ciò che viene definito “attaccamento”.

L’attaccamento è un meccanismo connesso alla sopravvivenza in quanto l’essere umano non è autosufficiente (soprattutto nella prima infanzia) e dipende da chi si prende cura di lui (Oliviero Ferraris e Oliviero, 2002).

L’idealizzazione della genitorialità

La tendenza comune a idealizzare la maternità e la paternità, come un’esperienza unicamente positiva e totalizzante, spesso grava sui vissuti reali di stress, stanchezza fisica e fatica emotiva che i genitori in realtà sperimentano, accrescendo quel senso di colpa che delegittima i genitori dal potersi sentire tali.

La crescita del bambino fa sì che lo stesso segua le indicazioni che la famiglia gli indica, ma fa anche sì che si opponga a queste con tutte le sue forze, ascolti i genitori in una modalità che è piuttosto imitativa dell’adulto per riproporre ciò che vede, in una maniera maggiore rispetto a ciò che ascolta.

…osservando le persone di cui si fida e comunicando con loro, ha introiettato dei modelli di comportamento… (Oliviero Ferraris e Oliviero, 2002).

I super eroi senza super poteri!

Una recente rassegna della letteratura (Zavattini e Di Folco, 2014) evidenzia le diverse attitudini che definiscono il “parenting” materno e quello paterno, differenze, secondo i dati, imputabili ad aspetti biologici, ormonali e psicologici. Sebbene la letteratura in passato abbia descritto ampiamente, attraverso gli studi sull’attaccamento (Bowlby, 1989), gli aspetti che caratterizzano il legame madre-bambino, ovvero il calore affettivo, la sensibilità e la protezione; d’altra parte esistono caratteristiche del legame padre-bambino, che caratterizzando quest’ultimo, ci offrono un quadro della gestione “familiare” del bambino, complesso ma al contempo equilibrato. Viene infatti descritta una tendenza nel ruolo paterno a proporre al bambino attività che lo coinvolgono in momenti di gioco sia fisico che strumentale, ma che promuovono, al contempo, disciplina ed abilità competitive (Grossmann et al., 2002, 2008; Paquette, 2004).

La considerazione del diverso coparenting ci spinge ad osservare, in un’ottica triadica, le risorse reali che il bambino ritrova nel proprio nucleo familiare, ristabilendo un contributo equo che entrambi i genitori sono chiamati a mettere in atto nella relazione, nella gestione e nella responsabilità di cura verso il proprio bambino.

Idealizzare la genitorialità e i ruoli interni ad essa aumenta il senso di colpa nel caso in cui il nostro “super eroe” non risponda ad essi. Ma se è vero che i bambini imparano per imitazione, vogliamo davvero non insegnarli il valore della fragilità? Ci sono momenti in cui una mamma può sentirsi particolarmente stanca, aver voglia di un momento per sé. Ci sono momenti in cui un papà vorrebbe tornare a casa e poter dormire tranquillamente. Ci sono momenti in cui mamma e papà hanno bisogno di una serata da soli. La genitorialità è anche questo, il desiderio di continuare a coltivarsi come donna e come uomo con le proprie esigenze, non riducendo la propria vita ad una sola dimensione idealizzata. Vivere le proprie fragilità, le proprie esigenze e farsi promotore del saper chiedere aiuto è sicuramente uno tra gli insegnamenti più preziosi che possiamo lasciare ai nostri bambini.

Mamma e papà sono dei super eroi, ma senza super poteri!

A saltare gli appuntamenti dal medico è soprattutto chi soffre di disturbi mentali – Psicologia e Medicina

Vedere con regolarità il nostro medico di base non può che avere ottimi risultati sulla nostra aspettativa di vita ed in generale sulla qualità della stessa. Cosa succederebbe, però, se cominciassimo a saltare gli appuntamenti presi?

 

 

Per rispondere a questa domanda una équipe di ricerca dell’Università di Lancaster, Glasgow ed Aberdeen, nel Regno Unito, ha ideato e messo a punto una ricerca sperimentale nella quale sono stati esaminati i dati riguardanti circa 500.000 pazienti scozzesi seguiti per circa 3 anni (dal 2013 al 2016). Le informazioni sui pazienti riguardavano con che frequenza si presentavano o meno agli appuntamenti presi con il loro medico di base e tali dati sono poi stati collegati con la storia medica di tali pazienti e alle cause della loro morte.

Come ci si potrebbe aspettare, i pazienti che si ritrovavano a saltare più di due o tre appuntamenti all’anno andavano incontro a un rischio di morte prematura più alta rispetto alla popolazione generale. In particolar modo a vedersi aumentato il rischio di morte prematura erano quei pazienti che soffrivano di un qualche disturbo di natura psicologica.

I ricercatori hanno aggiunto che questi risultati sono inoltre congruenti con le osservazioni sul campo effettuate dai medici stessi, secondo i quali i pazienti più a rischio sono proprio quelli che soffrono di malattie mentali, dato che non è affatto inusuale che tale tipologia di pazienti cominci a non venire agli appuntamenti presi.

Un risultato scontato? Dipende da come lo usiamo..

Quello che è importante per quanto riguarda lo studio in questione non sono tanto le ipotesi che sono state confermate in quanto ad un pubblico generalista potrebbero apparire quantomeno scontate, ma gli interventi pratici che potranno essere messi in pratica, partendo da una base solida di risultati come quelli della presente ricerca, per cercare di ridurre il numero di appuntamenti mancati dai pazienti.

Ad esempio potrebbero essere resi più accessibili i servizi di salute mentale nel Regno Unito, oppure si potrebbe aiutare i pazienti a non dimenticarsi degli appuntamenti. Altro punto importante di questa ricerca è il fatto di aver individuato quale sia la popolazione più a rischio per quanto riguarda questo problema. Sapendo quali sono i pazienti più a rischio, i clinici potranno cercare di prestare maggiore attenzione a tale tipologia di pazienti diminuendo il rischio di morte prematura a cui vanno incontro.

Franco Basaglia: la forza di accogliere e ascoltare la malattia mentale – Introduzione alla Psicologia

Il più grande merito di Franco Basaglia è stato quello di restituire dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare, e non da recludere o da nascondere.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Franco Basaglia è uno dei più noti psichiatri moderni, le cui idee innovative sancirono la fine della vecchia concezione di psichiatria e, soprattutto, del vecchio concetto di cura psichiatrica. A Basaglia si deve la Legge 180, detta anche “Legge Basaglia”, che trasformò il vecchio ordinamento degli ospedali psichiatrici italiani, promuovendo un nuovo trattamento e cura dei disturbi mentali e, soprattutto, sostenendo il rispetto della persona umana.

Franco Basaglia: la vita

Franco Basaglia è uno psichiatra e neurologo, nato a Venezia l’11 marzo del 1924, in una famiglia benestante ed è il secondo genito di tre figli. Basaglia frequentò il liceo classico della sua città e successivamente, nel 1949, si laureò in medicina presso l’Università di Padova. In questi anni conobbe l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, sul quale baserà tutta la sua carriera psichiatrica, contrastando le idee di Lombroso, allora vigenti in ambito psichiatrico. Nel 1953 si specializzò in malattie nervose e mentali presso la facoltà della clinica neuropsichiatrica di Padova. Nello stesso anno sposò Franca Ongaro, da cui ebbe due figli. I due, oltre a essere marito e moglie, erano anche colleghi, per questo scrissero insieme diversi libri sulla psichiatria moderna.

Basaglia politicamente liberale militò nel partito “Sinistra Indipendente” e sedette in Parlamento a partire dal 1953. Successivamente, nel 1958, divenne docente di psichiatria presso l’Università di Padova. Da lì a poco, però, non godette più di una buona fama tra i colleghi, poiché le sue tesi furono giudicate rivoluzionarie e poco ortodosse rispetto al clima vigente in quel periodo. Franco Basaglia era una persona dall’indole progressista e per questo in netto contrasto con il periodo. Quindi, dopo aver subito ostilità e angherie, decise nel 1961 di lasciare l’insegnamento per trasferirsi a Gorizia con la famiglia, dove era stato nominato direttore dell’ospedale psichiatrico. Nella clinica psichiatrica di Gorizia, Basaglia entrò in contatto con la vera realtà custodialistica e psichiatrica dell’istituto, caratterizzata principalmente da trattamenti aberranti regolarmente inflitti ai malati, non considerati persone in difficoltà e da aiutare, bensì soggetti da controllare, reprimere, sedare e nascondere. Basaglia, ben presto, partendo dalla teoria di Sigmund Freud, cominciò a sostenere che il rapporto tra terapeuta e paziente dovesse basarsi su presupposti diversi da quelli vigenti, come a esempio il dialogo e non l’annientamento dell’altro. Per questo iniziò una battaglia per restituire a queste persone maggiore dignità e diritto alle cure.

In poco tempo, Basaglia, riuscì a modificare i metodi di cura applicati in quel periodo. In primo luogo fece eliminare la terapia elettroconvulsivante e incoraggiò un nuovo tipo di approccio relazionare da stabilire tra malato medico, o personale psichiatrico in generale. Quest’ultimo consisteva nel creare una relazione di maggiore vicinanza emotiva, più empatica, centrata sullo scambio umano, che fosse mediata dal dialogo e dal sostegno morale. Quindi, non una cura volta alla disumanizzazione dell’altro, ma interessarsi al paziente perché è una persona e non un malato pericoloso da nascondere agli occhi di tutti.

Dall’esperienza svolta in quel manicomio scaturì l’idea che portò alla realizzazione di uno dei suoi più celebri libri: “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, edito nel 1967. Basaglia in seguito divenne direttore anche dell’ospedale di Colorno e di quello di Trieste. Nel 1973 fondò un movimento chiamato Psichiatria Democratica, che prese spunto dalla corrente di pensiero dell’antipsichiatria, già vigente e largamente diffusa in Gran Bretagna. Basaglia continuò a sostenere la sua battaglia contro il sistema psichiatrico del tempo finché nel 1977 ottenne la chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Grazie alla sua opera, finalmente, nel 1978, si ratificò la legge 180 sulla riforma psichiatrica.

Franco Basaglia morì a Venezia, città natia, il 29 agosto del 1980 all’età di 56 anni a causa di una neoplasia al cervello.

Il pensiero di Franco Basaglia

Franco Basaglia è considerato il fondatore del concetto moderno di salute mentale e, ancora oggi, le sue teorie hanno un forte peso in ambito psichiatrico. Il suo approccio alla cura della malattia mentale, da lui stesso definito fenomenologico ed esistenziale, è in netta contrapposizione a quello positivistico della medicina tradizionale vigente all’epoca.

I manicomi nel Novecento erano regolati dalle norme sancite dalla sanità provinciale e gestiti da psichiatri e infermieri. Essi si ergevano in periferia, rispettando un’antica usanza secondo la quale il terrificante, il mostruoso, ovvero il malato di mente doveva essere nascosto agli occhi delle persone “sane”. Nelle istituzioni psichiatriche all’epoca esistenti erano normalmente usate le seguenti pratiche: elettroshock, lobotomie, docce gelate, camicie di forza e letti di contenzione. Per questo, il manicomio appariva a Basaglia come la somma espressione di una logica sociale volta all’annientamento dell’altro, poiché diverso/malato e per questo deve essere nascosto, celato, dimenticato. Franco Basaglia, dunque, inizia a sollevare la questione manicomiale facendo notare gli efferati metodi adottati e a sostenere sia importante restituire l’individualità e la dignità ai pazienti, che dovrebbero essere riconosciuti prima come esseri umani e poi come delle persone da riabilitare. La prima cosa da fare, secondo Basaglia, è sospendere ogni forma di giudizio e considerare l’individuo nella sua interezza, partendo dalla storia di vita, dal ruolo sociale svolto, dalle emozioni e dal malessere, per poi procedere con la diagnosi e la terapia, evitando stigmatizzazioni inutili.

Negli ambienti accademici, però, furono osteggiati i tentativi messi in pratica da Franco Basaglia per mettere in discussione l’ortodossia psichiatrica, nonostante ciò, ha continuato a portare avanti questa battaglia.

Basaglia partendo e utilizzando la sua formazione, medica-filosofica, voleva liberare i malati mentali dalle “celle di contenzione” nelle quali erano intrappolati, senza né personalità né dignità. In questo modo, Basaglia riuscì a convincere i poteri forti che delegittimare le persone con disturbi psichici non è la strada giusta da percorrere.

Le filosofie che hanno influenzato la pratica basagliana

Il pensiero di Franco Basaglia deriva da idee e concetti filosofici che possono essere ricondotti a diverse grandi correnti.

La prima, quella della fenomenologia e della psicologia di Jaspers, basata sulla ricerca del concetto di “essere” in quanto essere umano, da cui Basaglia prese spunto per iniziare la sua critica contro la psichiatria del tempo. Successivamente, conobbe il pensiero di Husserl, centrato sulla ricerca del ruolo svolto da ogni essere umano nel contesto sociale, che andò ad ampliare le prospettive teoriche già esistenti in Basaglia. Le teorie di Binswanger inoltre, volte ad analizzare la persona come formata da corpo e dalle espressioni messe in atto dallo stesso, in aggiunta alle precedenti, consolidarono il suo approccio fenomenologico alle psicosi.

La seconda area è quella rappresentata dalle filosofie esistenzialisti di Sartre e Merleau-Ponty, dalle quali Basaglia parte per costruire il suo concetto di libertà e di entità corporea, attribuendo a queste ultime maggiore valore e integrità.

L’ultima area di influenza filosofica è quella di Foucault, incentrato sulla critica al potere istituzionale e sulle analisi delle stesse, e il pensiero di Fanon che daranno a Franco Basaglia una maggiore e innovativa lettura sul tipo di relazioni che si potrebbero istituire nei manicomi. Inoltre, le teorie sull’incontro autentico con l’altro di Laing e il concetto di comunità e cura di Maxwell, consentirono di aggiungere valore delle parole utilizzate nell’incontro autentico con l’altro e in una situazione comunitaria.

Franco Basaglia, dunque, tradusse tutto questo in un’idea pratica del tutto innovativa che verteva nella trasformazione dei manicomi in comunità terapeutiche. In una comunità terapeutica, i medici, gli operatori e i pazienti possiedono pari dignità e pari diritti; i rapporti non sono più verticali, bensì orizzontali, ovvero, è privilegiata la collaborazione tra pari. Il malato, inoltre, non è considerato come un reietto, bensì come una persona da aiutare, recuperare e riabilitare. Inoltre, la terapia elettroconvulsivante fu definitivamente bandita, e quella farmacologica fu considerata solo un metodo per concedere la possibilità di riabilitarsi più velocemente. Quindi, in questo modo, al malato era concessa maggiore dignità e una migliore prospettiva di cura. Nel 1971, Basaglia mise in opera l’idea dei laboratori artistici di pittura e teatro per i pazienti: attraverso la produzione artistica, i malati riescono a rappresentare se stessi e il rapporto con l’altro, comunicano i propri disagi interiori e le insicurezze, ritrovano la propria identità e si relazionano meglio agli altri. Nacquero, dunque, le comunità attraverso la quale i pazienti possono svolgere lavori utili e anche socialmente condivisibili tra coloro che inizialmente avevano ripudiato e allontanato queste persone. Basaglia raggiunse lo scopo della reintegrazione sociale dei malati e fece notare a tutti l’inconsistenza di un processo volto alla discriminazione e disumanizzazione dell’essere umano.

Il 13 maggio 1978, esattamente quarant’anni fa e due anni prima della sua scomparsa, fu approvata la legge di chiusura delle istituzioni manicomiali, nota come Legge Basaglia, nonostante nel testo e nelle sue applicazioni successive, non siano rispettate pienamente le idee originarie e le sue possibili attuazioni. Da un punto di vista storico, però, la Legge Basaglia fu importante perché rese la psichiatria terapeutica e riabilitativa. A partire dai primi anni sessanta, di conseguenza, fu ridefinita l’intera concezione di malattia e cura psichiatrica.

La Legge 180, quindi, denunciò le istituzioni manicomiali fino a regolarne la chiusura. Furono istituiti, di conseguenza, negli ospedali dei reparti di Psichiatria, delle case d’aiuto e supporto alle famiglie, centri diurni e ambulatori gestiti da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, Si tratta di strutture e personale formate e abilitate alle cure e al trattamento dei pazienti psichiatrici. Tale legge, però, divenne operativa solo a metà degli anni Novanta, a causa di un sistema sociale troppo radicato e difficile da poter modificare in poco tempo.

Franco Basaglia, per concludere, restituisce dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare, e non da recludere o da nascondere.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

I pregiudizi sull’apprendimento nell’età evolutiva

In merito all’ apprendimento, i bambini hanno dei pregiudizi relativi alle modalità utilizzate per apprendere. In pratica, i piccoli hanno il preconcetto che si apprende più facilmente dalla televisione, computer o tablet piuttosto che dai libri.

 

I pregiudizi sono idee preconcettuali che prendono forma abbastanza precocemente. Già nelle prime fasi dell’età evolutiva si strutturano idee falsate sulla realtà, che i bambini mutuano dall’ambiente familiare, scolastico e dall’interazione con il gruppo dei pari.

Relativamente all’apprendimento, i bambini hanno dei pregiudizi relativi alle strumentalità utilizzate. In pratica, i piccoli pensano che si apprende più facilmente dalla televisione e dal computer piuttosto che dai libri. In realtà, dagli strumenti multimediali si apprende meno, in quanto il sistema simbolico utilizzato (immagini) e la velocità con cui le informazioni sono presentate non consentono l’elaborazione cognitiva personale, paradigma fondante dell’ apprendimento duraturo. Inoltre, i contenuti veicolati attraverso gli strumenti multimediali creano un notevole sovraccarico cognitivo che fa diminuire le performance dei bambini nei test di conoscenza lessicale e di comprensione.

Keywords: età evolutiva, pregiudizi, apprendimento, strumenti multimediali.

Pregiudizi e falsi miti dei bambini sull’ apprendimento

I pregiudizi sono idee preconcettuali che prendono forma abbastanza precocemente. Già nelle prime fasi dell’età evolutiva si strutturano idee falsate sulla realtà, che i bambini mutuano dall’ambiente familiare, scolastico e dall’interazione con il gruppo dei pari. I pregiudizi si esprimono con atteggiamenti che ipotecano negativamente la quotidianità degli individui. In ogni pregiudizio si riconoscono più componenti. Ogni pregiudizio è costituito da un polo cognitivo, che è rappresentato dal nucleo di idee e credenze aprioristiche, non basate sui dati di realtà. Inoltre, nel pregiudizio si riconosce un polo affettivo, che è formato dalle emozioni e dai sentimenti che le idee e le credenze producono. In ultimo, nel pregiudizio si riscontra un polo comportamentale, che è rappresentato dall’agire che tale insieme di idee attiva nel soggetto (Stevani, 2010).

Relativamente all’ apprendimento, i bambini hanno dei pregiudizi relativi alle strumentalità utilizzate. Sono ormai classiche le ricerche effettuate da Salomon negli anni Ottanta del secolo scorso. In pratica, i piccoli hanno il preconcetto che si apprende più facilmente dalla televisione che dai libri. La ricerca di Salomon (1984) stabilì che i bambini analizzati consideravano la TV un mezzo di apprendimento che richiede meno impegno e, quindi, una minore quantità di sforzo mentale investito, rispetto a quello occorrente quando lo strumento di apprendimento è il libro. Questo nucleo concettuale del pregiudizio ha come equivalente affettivo la nascita di emozioni positive, che accompagnano l’ apprendimento veicolato dagli strumenti multimediali, mentre l’ apprendimento effettuato attraverso i libri elicita emozioni negative. Il polo comportamentale del pregiudizio è rappresentato dal minore impegno dedicato all’ apprendimento, allorquando esso avviene in forma multimediale, perché considerato più facile.

In realtà, l’ apprendimento che si attua mediante l’utilizzo della televisione produce degli scarsi risultati, per via anche del minore impegno dedicato. Infatti, nella ricerca condotta da Salomon i bambini raggiungevano minori punteggi nei test di comprensione nel momento in cui l’ apprendimento si attuava per mezzo della televisione e punteggi maggiori allorquando l’ apprendimento si realizzava attraverso i libri. In pratica, per via del pregiudizio la quantità di sforzo mentale risultava decisamente inferiore quando l’ apprendimento avveniva mediante la TV. Il concetto di Salomon relativo alla televisione può essere applicato ai diversi media utilizzati nell’ apprendimento (computer, ebook, ipertesti) (Schwab e al., 2018). Secondo Singer (1980) dalla televisione si apprende meno, in quanto il sistema simbolico utilizzato (immagini) e la velocità con cui le informazioni sono presentate non consentono l’elaborazione cognitiva personale, paradigma fondante dell’ apprendimento duraturo. Inoltre, la ricerca di Bus e al. (2015) ha evidenziato che l’alfabetizzazione, che avviene utilizzando materiali multimediali, come, ad esempio, gli ipertesti, crea un notevole sovraccarico cognitivo che fa diminuire le performance dei bambini nei test di conoscenza lessicale e di comprensione.

Il costrutto di quantità di sforzo mentale investito (AIME)

Analizzando il costrutto di quantità di sforzo mentale investito (AIME), Salomon (1984) l’ha connotato come una funzione che dipende da più variabili, quali la natura del compito richiesto, il contesto nel quale avviene l’ apprendimento, l’autoefficacia personale percepita, concetto mutuato da Bandura (1982). In altri termini, ci si impegna di più allorquando si pensa che il compito proposto sia particolarmente difficoltoso, l’ apprendimento avviene in un contesto che è associato all’impegno, come può essere, ad esempio, l’ambiente scolastico e si ha la convinzione di essere in grado di affrontare i contenuti proposti.

Il costrutto di quantità di sforzo mentale investito è stato ulteriormente delineato da Cennamo (1993), che ha stabilito la stretta correlazione che esiste fra esso e alcuni fattori, come i simboli utilizzati (immagini o parole), natura del compito richiesto (attività di intrattenimento o di studio) e caratteristiche individuali (età, cultura personale dell’impegno). In altre parole, la quantità di sforzo mentale investita è inferiore nel momento in cui l’ apprendimento avviene mediante le immagini, è associato ad un’attività del tempo libero ed è fatto da persone che hanno una scarsa cultura dell’impegno.

Altri pregiudizi

Ci sono altri pregiudizi che accompagnano gli strumenti utilizzati per l’ apprendimento. I bambini attribuiscono maggiore veridicità alle informazioni veicolate dalla televisione piuttosto che a quelle lette in un libro (Cohen e Salomon, 1979). Inoltre, quando l’ apprendimento avviene attraverso i testi, il successo apprenditivo viene imputato a variabile interne all’individuo (capacità e impegno), mentre l’efficacia dell’ apprendimento multimediale dipende da cause esterne, quali la facilità o difficoltà del materiale proposto (Cohen e Salomon, 1979).

Un altro pregiudizio sull’ apprendimento presente nei bambini mette insieme i contenuti con gli strumenti utilizzati al fine di stabilire la validità di esso. In pratica, i bambini ritengono che le nozioni relative allo sport si apprendono meglio dalla televisione, mentre i contenuti riguardanti la lingua inglese e la matematica si imparano efficacemente dai libri (Beentjes, 1989).

Il pregiudizio relativo alla facilità dell’ apprendimento effettuato attraverso gli strumenti multimediali interviene anche nella ricerca delle informazioni. Secondo i bambini richiede meno quantità di sforzo mentale investito la ricerca di contenuti attraverso gli strumenti multimediali, piuttosto che quando la stessa ricerca viene compiuta utilizzando fonti bibliografiche (Rieh e al, 2012).

I pregiudizi determinano le autoprofezie che si avverano. Relativamente all’ apprendimento, i bambini apprendono meglio nella misura in cui ritengono la fonte dell’ apprendimento autorevole e questo si riflette sulle loro performance scolastiche, che migliorano quanto più la fonte dell’ apprendimento è considerata valida (Haimerl e Fries, 2010).

In conclusione

I bambini già nelle prime fasi della loro vita hanno dei pregiudizi. Uno di essi riguarda gli strumenti utilizzati per l’ apprendimento. In pratica, i piccoli pensano che si apprende più facilmente dalla televisione e dal computer piuttosto che dai libri. In realtà, come diverse ricerche dimostrano, dagli strumenti multimediali si apprende meno, in quanto il sistema simbolico utilizzato (immagini) e la velocità con cui le informazioni sono presentate non consentono l’elaborazione cognitiva personale e creano un notevole sovraccarico cognitivo che ipoteca negativamente l’ apprendimento.

Disturbi dello spettro autistico e ADHD: il digitale permette di andare oltre le classiche modalità di intervento nel trattamento

Che i videogiochi potessero essere una cura per alcune patologie lo si è sempre sperato, sia grandi che piccini. Un recente studio sembra dimostrare la validità di questa tipologia di intervento nel trattamento di bambini affetti da disturbi dello spettro autistico in comorbilità con sintomi ADHD.

 

Alcuni ricercatori del Children’s Hospital of Philadelphia hanno messo a punto un nuovo trattamento sperimentale che ha una natura digitale, si chiama “Project:EVO” ed è rivolto a bambini con disturbo dello spettro autistico (ASD) con comorbilità di sintomi di Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD). Tale programma fornisce stimoli motori e sensoriali attraverso l’esperienza di videogiochi d’azione.

Come nasce Project:EVO

Project:EVO è nato da uno studio pilota volto ad indagare gli effetti di questo programma su bambini con disturbi dello spettro autistico in comorbilità con sintomi ADHD ed è stato ideato e sviluppato da un team di ricercatori del CHOP che si occupano di ricerca sull’autismo, in collaborazione con alcuni esperti informatici.

Lo studio ha coinvolto 19 bambini di età compresa tra i 9 e i 13 anni con una diagnosi di ASD con comorbilità di sintomi ADHD, a cui sono stati somministrati dei trattamenti che prevedevano l’utilizzo di videogiochi d’azione o altre attività educative. In particolare, è stata valutata l’efficacia del programma in termini di capacità del bambino di pianificare e completare le attività proposte e miglioramento di alcune variabili cognitive misurate attraverso batterie di test.

Dallo studio risulta che i bambini hanno raggiunto alti tassi di attenzione circa le attività suggerite dai protocolli del trattamento, impegnandosi assiduamente per il 95% o più delle sessioni. Inoltre, sia i bambini che i genitori hanno riferito un’alta soddisfazione per il trattamento, consigliandolo come attività in grado di migliorare le capacità di un bambino nel prestare attenzione ai compiti a cui è sottoposto. Dai report dei genitori risulta un miglioramento generale dei sintomi di ADHD.

Limiti e Prospettive future

Essendo le dimensioni del campione piuttosto ridotte, i ricercatori stanno progettando nuove ricerche allo scopo di verificare i risultati ottenuti su un campione più ampio, pianificando anche uno studio follow-up.

Vivere ad alta quota non è solo fonte di benessere: la correlazione tra rischio suicidario e altitudine

Il suicidio è una delle prime 10 cause di morte negli Stati Uniti. Nei prossimi 20 anni si prevede che causerà più di 2 milioni di morti all’anno in tutto il mondo, classificandosi al 14° posto tra le cause di morte.

Roberta Carugati e Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Ci sono molti fattori noti che influenzano il rischio di suicidio. In numerosi studi americani è stato notato come, ad esempio, essere individui di sesso maschile (Denning et al., 2000) di età avanzata (DiNitto et al., 2017) di etnia bianca, divorziati (Curtin et al., 2016) a basso reddito (Bantjes et al., 2016), socialmente isolati o abusatori di sostanze (Pompili et al., 2010) aumenti il rischio di suicidio. Anche le malattie psichiatriche, i disturbi dell’umore (Simpson et al., 1999) e la mancanza di sostegno sociale sono fattori di rischio ampiamente riconosciuti.

Altitudine e salute

La vita ad alta quota è da sempre riconosciuta tra le condizioni che hanno un effetto benefico su numerose condizioni mediche; chi vive ad altitudini elevate, ad esempio, ha minori probabilità di essere colpito da ictus o malattie cardiovascolari (Mortimer et al., 1977; Faeh et al, 2009).

Tuttavia una recente revisione sistematica, pubblicata su Harvard Review of Psychiatry, ha portato risultati differenti, rilevando tra le persone che vivono in zone ad alta quota degli Stati Uniti tassi di suicidio e depressione superiori alla media (Kious, Kondo & Renshaw, 2018). In particolare i più alti tassi di suicidio appartenevano ad Arizona, Colorado, Idaho, Montana, Nevada, New Mexico, Utah e Wyoming, dove i tassi di suicidio aumentavano drammaticamente. I ricercatori hanno osservato che i tassi di suicidio aumentavano ad altitudini comprese tra 2000 e 3000 piedi, altezza che è stata definita come soglia nella valutazione del rischio di suicidio. Tra le varie ipotesi formulate, i ricercatori dell’Università di Salt Lake City (Kious et al., 2018) suggeriscono che la bassa pressione atmosferica ad alta quota potrebbe abbassare i livelli di ossigeno nel sangue, ciò avrebbe un effetto sull’umore e renderebbe quindi le persone che vivono a queste altitudini più suscettibili a pensieri suicidari, spiegano i ricercatori americani.

L’ altitudine sembrerebbe inoltre influenzare anche altre condizioni psichiatriche, come il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) in quanto è stato rilevato che la prevalenza di ADHD sembra diminuire con il crescere dell’ altitudine (Huber et al., 2015); secondo i ricercatori dell’Università dello Utah, una possibile spiegazione del perché l’ADHD tenda ad essere meno frequente con l’aumentare dell’altitudine è legata alla variazione dei livelli di dopamina come reazione all’ipossia ipobarica, la diminuzione dei livelli di dopamina sono infatti associati all’ADHD, quando i livelli dell’ormone aumentano con l’altitudine il rischio dell’insorgenza di questo disturbo tenderebbe a diminuire.

Un altro studio condotto da Ha e colleghi (2017), ha esaminato 3064 contee degli Stati Uniti per verificare la presenza di una correlazione tra altitudine e tassi di suicidio. I ricercatori hanno anallizzato i dati di suicidio elaborati dal National Centre for Health Statistics dal 2008 al 2014. Ha e colleghi hanno scoperto che, per ogni aumento di 100 metri di altitudine, i tassi di suicidio aumentavano di 0,4 per 100.000 abitanti. Le contee con tassi di suicidio più alti della media tendevano anche ad avere una percentuale inferiore di residenti afroamericani, una percentuale più alta di persone di 65 anni o più, una percentuale più alta di fumatori e punteggi più bassi per il sostegno familiare e sociale. I ricercatri hanno inoltre preso in considerazione le variabili relative a fattori socioeconomici, demografici e clinici, come il tasso di disoccupazione e il rapporto tra popolazione e medici di base. Questo tuttavia non ha cambiato i risultati della ricerca.

I risultati di altri studi condotti in Corea del Sud vanno nella medesima direzione, confermando che vivere ad alta quota sembra essere un fattore di rischio per il suicidio (Kim et al., 2011; Brenner et al., 2011; Kim et al., 2014). Nel 2011, Kim e colleghi hanno analizzato i tassi di suicidio in Corea del Sud in un periodo di quattro anni (2005-2008) e hanno riportato una forte associazione tra il tasso di suicidio e l’abitare ad alta quota. L’associazione positiva tra l’altitudine e il tasso di suicidio sono rimasti significativi anche esaminando il peso di altri fattori socioeconomici (reddito). L’aumentato rischio di suicidio associato al vivere ad alta quota può essere parzialmente spiegato da un aumento dei tassi di depressione, sebbene in generale la correlazione tra altitudine e suicidio è più forte di quello tra altitudine e depressione.

Non tutti gli studi tuttavia supportano l’ipotesi dell’esistenza di una correlazione tra altitudine e suicidio. In uno studio condotto da Selek e colleghi (2013) sui tassi di suicidio in Turchia tra il 2007-2008 non è emersa alcuna correlazione significativa con l’altitudine. Gli autori dello studio hanno però notato che poiché i tassi di suicidio in Turchia sono complessivamente bassi (3,97/100.000 abitanti) la mancanza di correlazione può essere il risultato di limitazioni di campione e dati.

Studi precedenti condotti negli Stati Uniti hanno evidenziato una forte correlazione tra l’aumento dei tassi di suicidio e il possesso di armi, ma in questa revisione, l’associazione tra suicidio e altitudine pare essere persino più forte del legame tra suicidio e possesso di armi (Kim et al., 2008; Miller et al., 2008.

Importante considerare che, sebbene l’80% dei suicidi negli Stati Uniti si verifichi in aree a bassa quota, la cifra può essere fuorviante poiché la maggioranza della popolazione vive vicino al livello del mare. Se invece si osservano i tassi di suicidio su 100.000 abitanti, le cifre indicano che il 17.7% dei suicidi si verificano tra le popolazioni che vivono ad alta quota, l’11.9% a media altitudine e il 4.8% a bassa quota. In uno studio del 2014 infatti, la percentuale di adulti con “seri pensieri di suicidio variava dal 3,3% in Connecticut (altitudine media 490 piedi) al 4,9% in Utah (altitudine media 6,100 piedi).

Perché dunque l’altitudine influisce sui tassi di suicidio?

Kious e colleghi suggeriscono che la risposta potrebbe essere l’ipossia ipobarica cronica, ovvero un basso livello di ossigeno nel sangue correlato alla bassa pressione atmosferica. Questa teoria è supportata da studi sugli animali e studi a breve termine sugli esseri umani. Gli autori suggeriscono due vie attraverso le quali l’ipossia ipobarica può aumentare i rischi di suicidio e depressione: alterando il metabolismo del neurotrasmettitore serotonina e/o attraverso i suoi effetti sulla bioenergetica del cervello.

Diversi studi, tra cui il lavoro di Renshaw e colleghi (2015), suggeriscono che l’altitudine sia un fattore di rischio indipendente per il suicidio, sottolineando come anche i tassi di depressione aumentino con l’altitudine e possano quindi contribuire all’aumento del rischio di suicidio. Secondo Renshaw, una potenziale causa di depressione in condizioni di elevata altitudine potrebbe essere la presenza di bassi livelli di serotonina. L’ipossia danneggerebbe un enzima coinvolto nella sintesi della serotonina, probabilmente con conseguente abbassamento dei livelli di serotonina che potrebbe portare alla depressione. Inoltre, il gruppo di Renshaw (2015) ha dimostrato che il metabolismo cellulare cerebrale può essere danneggiato dall’ipossia nei ratti e negli esseri umani. Questo deficit nella funzione cerebrale può contribuire a ciò che Renshaw chiama “The Utah Paradox”. Nonostante abbia il più alto uso di antidepressivi nel paese, lo Utah ha anche il più alto indice di depressione. Gli studi sugli animali indicano che gli SSRI potrebbero non funzionare quando i livelli di serotonina cerebrale sono bassi. Negli studi attuali, Kanekar e Renshaw stanno quindi valutando l’efficacia degli antidepressivi attualmente disponibili nell’ipossia ipobarica, con particolare attenzione agli SSRI, gli antidepressivi più comunemente prescritti negli Stati Uniti.

Conclusioni e prospettive future

Vi sono ancora diverse aree che necessitano di ulteriori ricerche e approfondimenti, compresi gli effetti dell’esposizione prolungata all’altitudine sul metabolismo della serotonina e sulla bioenergetica del cervello, tuttavia, se confermati da studi futuri, questi meccanismi suggeriscono alcuni possibili trattamenti per mitigare gli effetti dell’altitudine sulla depressione e sul rischio di suicidio: 5-idrossitriptofano supplementare (un precursore della serotonina) per aumentare i livelli di serotonina o la creatinina per influenzare la bioenergetica cerebrale.

L’elaborazione dell’informazione secondo i processi top down e bottom up, i risvolti sulla pratica psicoterapeutica

Anche nell’ambito della pratica psicoterapeutica si parla di processi top down e bottom up. I primi sarebbero quelli del pensiero esecutivo, consapevole, razionale e verbalizzabile. I processi bottom up invece sarebbero automatici, emotivamente carichi, associativi, inseriti nell’esperienza immediata e connessi con la sensorialità corporea.

La percezione consiste nell’elaborazione delle sensazioni elementari che vengono convogliate dagli organi di senso. Nel processo di elaborazione l’informazione viene codificata, organizzata, riconosciuta e interpretata.

Il processo di percezione può essere diviso in stadi:

  • lo stadio primario: attraverso i processi visivi primari vengono definite e descritte le caratteristiche fisiche dello stimolo visivo, senza però che ne siano determinati il significato, l’uso e la funzione. L’analisi e l’elaborazione delle caratteristiche fisiche permette di far emergere l’oggetto strutturato.
 È la psicologia della Gestalt ad aver approfondito proprio lo stadio primario della percezione.
  • lo stadio secondario: lo stimolo strutturato, attraverso il confronto con le conoscenze depositate in memoria, viene riconosciuto.

Le modalità di confronto sono definite bottom up (elaborazione dal basso verso l’alto), e top down (dall’alto verso il basso). Top down e bottom up quindi si riferiscono a due diversi modi di elaborare i dati sensoriali con cui entriamo in contatto. L’elaborazione dall’alto verso il basso, cioè top down, si basa su processi cognitivi che coinvolgomo attenzione e memoria, l’elaborazione sarebbe «guidata dai concetti», cioè basata sulle rappresentazioni contenute in memoria. L’elaborazione bottom up invece si basa principalmente sullo stimolo esterno e sulle sue caratteristice percettive, si fa riferimento quindi a una modalità di elaborazione «guidata dai dati», che parte dai dati sensoriali (le singole parti dello stimolo).

Elaborazione TOP DOWN

L’elaborazione top down è definita come lo sviluppo del riconoscimento di pattern attraverso l’uso di informazioni contestuali. Ad esempio, leggendo un paragrafo scritto con una grafia difficile, sarà più semplice capire cosa lo scrittore vuole trasmettere se leggiamo l’intero paragrafo piuttosto che concentrandoci sulle singole parole. Il cervello infatti, è in grado di percepire e comprendere l’essenza del paragrafo grazie al contesto fornito dalle parole circostanti.

Elaborazione TOP DOWN e la Teoria di Gregory

Lo psicologo Richard Gregory sostiene che l’elaborazione è un processo di tipo top down. 
Dato che noi non vediamo delle semplici configurazioni ma vediamo oggetti complessi, perché questo sia possibile è necessaria una attiva ricerca della migliore interpretazione possibile delle caratteristiche disponibili. Secondo Gregory tale interpretazione, definita «controllo delle ipotesi», non può che avvenire secondo un approccio top down grazie al quale «costruiamo» le nostre percezioni attraverso i nostri processi cognitivi [Gregory 1990].

Secondo Gregory quindi sono le nostre esperienze e conoscenze su uno stimolo, immagazzinate in memoria, che ci aiutano a fare inferenze. Creiamo cioè un’ipotesi percettiva sullo stimolo percepito, basata sulla sua memoria e sulle esperienze passate correlate ad esso. Per Gregory quindi la percezione consiste nel fare la migliore ipotesi su ciò che stiamo vedendo. In termini di percezione visiva, Gregory sostiene che circa il 90% delle informazioni visive viene perso dal momento in cui arriva al cervello per l’elaborazione. Nelle illusioni visive, come ad esempio il cubo Necker, secondo Gregory il cervello crea ipotesi errate, facendo diversi errori percettivi.

Elaborazione BOTTOM UP

Nell’approccio di elaborazione bottom up, la percezione inizia dall’input sensoriale, dallo stimolo. Pertanto, la percezione può essere descritta come basata sui dati. Ad esempio, c’è un fiore al centro del campo di una persona. La vista del fiore e tutte le informazioni sullo stimolo vengono trasportate dalla retina alla corteccia visiva nel cervello. Il segnale viaggia in una direzione.

Elaborazione BOTTOM UP e Teoria di Gibson

Secondo quanto sostiene Gibson ogni stimolo possiede informazioni sensoriali sufficientemente specifiche da renderne possibile il riconoscimento senza l’intervento dei processi cognitivi superiori (teoria ecologica). La percezione non è soggetta a ipotesi, ma è piuttosto un fenomeno diretto: “What you see is what you get”. Il nostro ambiente, secondo Gibson, può fornire sufficienti dettagli relativi allo stimolo (ad esempio dimensioni, forma, distanza, ecc.), e la percezione dello stimolo potrebbe non dipendere dalla conoscenza pregressa o dall’esperienza passata dello stimolo stesso.

Processi cognitivi quali la memoria per accedere all’esperienza passata non sarebbero quindi necessari per riconoscere lo stimolo, che avrebbe già un proprio «ordine interno» che ne consentirebbe una percezione diretta. L’ordine interno, costituito dalla distribuzione spaziale e temporale dello stimolo, permette una diretta «disponibilità» al suo riconoscimento.
 Gibson ha definito questa disponibilità dello stimolo «affordance». 
L’affordance sarebbe ciò che permette all’osservatore di estrarre le caratteristiche che definiscono l’uso e le finalità dell’oggetto percepito.

Sempre secondo la teoria della percezione diretta, l’affordance suggerita dall’oggetto all’osservatore si basa però non soltanto sui fattori fisici posseduti dall’oggetto, ma anche sullo stato psicologico e fisiologico dell’osservatore. 
Una delle critiche che vengono mosse alla teoria della percezione diretta di Gibson è quella che si riferisce alle illusioni ottiche, che dimostrerebbero che le sole caratteristiche dello stimolo non permettono una sua corretta percezione. Gibson ha risposto argomentando che gli stimoli a cui fa riferimento Gregory nelle illusioni ottiche sono immagini artificiali, non immagini che possono essere trovate nel normale ambiente visivo di una persona. La parallasse del movimento supporta questo argomento: la parallasse è il fenomeno per cui un oggetto sembra spostarsi rispetto allo sfondo se si cambia il punto di osservazione. Quando viaggiamo su un treno in rapido movimento, percepiamo che gli oggetti più vicini a noi scorrono più velocemente, mentre oggetti più lontani si muovono più lentamente. Quindi, siamo in grado di percepire la distanza tra noi e l’oggetto in base alla velocità con cui si sposta.

Top down o bottom up?

Non si hanno certezze sul tipo di elaborazione che viene più frequentemente impiegato, ma è stato dimostrato che l’utilizzo della modalità bottom up oppure di quella top down dipende in buona misura dal contesto in
cui è inserito l’oggetto percepito e dal grado di conoscenza che l’osservatore ne ha.

 Chi è a favore dell’ipotesi di elaborazione bottom up ammette che il processo finale, cioè la denominazione dello stimolo percepito, può essere raggiunto solo attraverso un confronto tra l’input sensoriale e la rappresentazione mentale dello stimolo. 
La differenza quindi si limita al fatto che nella elaborazione bottom up il processo di confronto parte dal basso e procede fino a quando lo stimolo viene strutturato nella sua interezza e può quindi essere verificata la corrispondenza con la rappresentazione interna dello stimolo.

Forse le due teorie descritte non sono del tutto opposte perché a ben vedere non c’è una netta contrapposizione tra il principio del controllo delle ipotesi proposto da Gregory e l’affordance dello stimolo oltre che lo stato psicologico e fisiologico dell’osservatore ipotizzato da Gibson.

Un’altra teoria della percezione è quella dell’analisi tramite sintesi formulata da Neisser (1976) che si colloca a metà strada tra la teoria diretta di Gibson e la teoria costruttivista proposta da Gregory. Neisser concilia le due posizioni estreme bottom up (elaborazione guidata dai dati) e top down (elaborazione guidata dalle conoscenze). I dati in memoria (credenze/aspettative, schemi anticipatori) guidano la nostra attività di esplorazione (top down), e i nuovi dati acquisiti provenienti dall’esplorazione a loro volta modificano le nostre aspettative e credenze (bottom up). Per Neisser percepire non è uguale ad assegnare un oggetto ad una categoria, ma costruire schemi adatti alle varie situazioni. Tali schemi possono subire continue modifiche in relazione alle nuove informazioni provenienti dall’ambiente. Questo meccanismo ha funzioni adattive. In questo ciclo percettivo hanno molta importanza le dimensioni del movimento e del tempo. Con il movimento del soggetto si hanno continui cambiamenti nella disposizione ottica degli oggetti e ciò rende più chiara la realtà che si sta osservando. Il tempo invece è fondamentale, perché ci vuole del tempo per percepire.

[FONTE: Psichepedia]

Anche la teoria della percezione di Marr (1982) prevede un livello di elaborazione di tipo bottom up ed un livello più avanzato che si baserebbe invece su processamenti top down.
 Secondo la teoria di Marr, la percezione inizia fin dall’immagine retinica dello stimolo che, attraverso stadi successivi, viene trasformata in una rappresentazione sempre più complessa. In particolare, per uno stimolo tridimensionale sarebbero necessari tre distinti stadi per arrivare ad una percezione completa:

  1. definito «schizzo primario bidimensionale 2-D» dello stimolo visivo che colpisce l’occhio. In particolare, nel primo stadio non è coinvolta la percezione cosciente; le caratteristiche di forma e grandezza simili vengono automaticamente accorpate.

  2. costituito da uno «schizzo a due dimensioni e mezzo» che aggiungerebbe al primo stadio gli indizi di profondità e orientamento. Nel secondo stadio lo stimolo comincia a delinearsi ma soltanto nelle sue parti visibili all’osservatore e, naturalmente, la rappresentazione cambia cambiando il punto di osservazione. In questo stadio quindi non ci formeremo la rappresentazione delle quattro gambe di un tavolo se non si trovano nel nostro campo percettivo e l’immagine del tavolo cambierà cambiando il nostro punto di osservazione. Allo stesso modo non ci formeremo la completa rappresentazione della superficie del tavolo se alcune sue parti sono coperte da fogli, libri o altro. Per questo motivo questo stadio viene anche definito «percezione centrata sull’osservatore».
  3. definito «modello tridimensionale 3-D» nel quale si ottiene la rappresentazione tridimensionale dello stimolo e le relazioni spaziali tra le sue varie parti. Nel terzo stadio si forma infine la rappresentazione tridimensionale dell’oggetto. In questa fase la rappresentazione precedente viene integrata dalle conoscenze acquisite nell’esperienza passata. 
Dato che Marr ha dimostrato che un modello di percezione visiva può essere specificato in maniera talmente dettagliata da poter essere simulato su computer, la sua teoria viene anche
definita «teoria computazionale» della percezione.

[FONTE: Opsonline]

Processi top down e bottom up in psicoterapia

Anche nell’ambito della pratica psicoterapeutica si parla di processi top down e bottom up. I primi sarebbero quelli del pensiero esecutivo, consapevole, volontario, dichiarativo e quindi immediatamente verbalizzabile e infine processabile dal pensiero razionale. I processi bottom up invece sarebbero automatici, emotivamente carichi, associativi, inseriti nell’esperienza immediata e connessi con la sensorialità corporea ma non sempre immediatamente controllabili volontariamente (Kahneman, 2011-2012; Martin & Sloman, 2013). La dicotomia top down e bottom up è sicuramente limitata e limitante e finisce per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico.

La psicoterapia dei Disturbi di Personalità è un ambito che richiede allo psicoterapeuta la capacità di abbracciare una complessità sia teorica, nella comprensione del funzionamento del paziente, che pratica, nella scelta degli strumenti clinici da utilizzare nel corso del processo psicoterapeutico. La psicoterapia dei Disturbi di Personalità prevede infatti oltre alla messa in discussione e la presa di distanza dagli schemi disfunzionali, anche la costruzione di parti di sé più funzionali (Livesley, 2003); questo secondo obiettivo è spesso il più difficile e richiede più tempo rispetto al precedente (Dimaggio et al., 2013).

Ogni psicoterapia con pazienti con Disturbi di Personalità non segue un andamento lineare e una volta arrivati ad alcuni obiettivi di realizzazione personale, di contatto relazionale e di solidità nell’immagine positiva di sé, il raggiungimento degli obiettivi successivi non è affatto scontato.
 Nell’attraversare durante il percorso di cambiamento stati di malessere i pazienti faticano nuovamente ad acquisire distanza critica dalle rappresentazioni patogene. Arrivati a questo punto della psicoterapia, il lavoro sulla consapevolezza, sugli schemi e sulla differenziazione è importante ma può fare da sfondo e da contenitore ad un lavoro più specifico: il lavoro sul corpo. In questa fase il lavoro sul corpo diventa centrale ed è finalizzato a sciogliere le memorie corporee legate agli schemi e ad ampliare gli stati mentali positivi per abitarli e renderli più stabili (Ogden, 2016; Van Der Kolk, 2015)
.

Sempre più clinici e ricercatori che si occupano di traumi propongono di integrare nelle terapie fondate su approcci bottom up (corpo-emozioni-pensiero), basati sul corpo, che non necessitano di funzioni superiori integre, ma che possono integrarle. Ad esempio, mentre nei processi top down l’intervento si focalizza in prima battuta sulle funzioni verbali e cognitive, legate alla corteccia frontale, per poi “scendere” ai processi emozionali (sistema limbico) e, infine, ai processi corporei, nella psicoterapia sensomotoria si parte dal “basso” (bottom), ossia dai vissuti corporei, per poi salire, progressivamente, alla consapevolezza emozionale e alle funzioni verbali e cognitive di attribuzione di senso.

La psicoterapia sensomotoria si viluppa negli anni ’80 dalle tecniche di mindfulness e progressivamente va a integrarsi con i contributi della psicoterapia psicodinamica, cognitivo-comportamentale, delle neuroscienze, della ricerca sull’attaccamento e sulla dissociazione, orientata specificatamente al trattamento delle esperienze traumatiche dello sviluppo (Fisher & Ogden, 2009; Ogden & Minton, 2000; Ogden, Minton & Pain, 2006; Ogden, Pain & Fisher, 2006). Obiettivo principale della psicoterapia sensomotoria è aiutare il paziente a regolare le funzioni neurovegetative alterate, modificando i sintomi somatoformi e alcune credenze patogene, soprattutto riguardanti il corpo (Liotti & Farina, 2011).

A seconda, quindi, delle diverse esigenze del paziente in un dato momento del processo psicoterpeutico si può spaziare dall’EMDR alla Terapia Sensomotoria, alla Mindfulness, a tecniche importate dalla Terapia Gestalt, in un’integrazione continua tra il cosiddetto lavoro top down e quello bottom up.

Cambiamenti metacognitivi e sintomatici nella terapia del disturbo borderline di personalità: risultati di uno studio di processo psicoterapeutico

Dopo le prime osservazioni di Fonagy (1991), è stato più volte rilevato empiricamente che i pazienti con disturbo borderline di personalità hanno difficoltà nel riflettere sugli stati mentali, ragionarci su e regolarli (Semerari et al., 2005; 2014).

 

Due ipotesi clinicamente rilevanti avanzate sono state che:

  1. la metacognizione migliori nei trattamenti di successo
  2. miglioramenti nella metacognizione siano collegati a sollievo sintomatologico (Semerari et al., 2005).

Maillard, il sottoscritto e collaboratori (2019) hanno studiato un campione di 37 pazienti con BPD, che hanno ricevuto un trattamento breve, 10 sedute, o di General Psychiatric Management (GPM) o di GPM con l’implementazione della cosiddetta Motive-Oriented Therapeutic Relationship (Caspar, 2007), ovvero un’attenzione ad effettuare gli interventi prestando attenzione alla relazione terapeutica a partire dalla formulazione individualizzata del funzionamento del paziente e dei suoi piani. Da notare che i trattamenti non erano cuciti attorno alle capacità metacognitive dei pazienti né avevano il miglioramento metacognitivo come obiettivo.

I trascritti delle sedute sono stati analizzati con la SVaM-R (Carcione et al., 2010). È emerso che sono migliorate la capacità di comprendere la mente degli, altri, di differenziare e un aspetto della mastery, ovvero l’uso di strategie comportamentali e attentive per fronteggiare i problemi. Al contrario delle ipotesi non si è osservato un legame tra il miglioramento metacognitivo e il cambiamento sintomatologico, ma è emerso un link tra il miglioramento metacognitivo e quello sintomatico al follow-up a 6 mesi.

I risultati sono in parte coerenti con le aspettative, anche se sia il progresso metacognitivo è limitato ad alcune funzioni e il legame con il miglioramento con i sintomi è emerso solo nel tempo.

Allo stesso tempo, appaiono coerenti:

  1. il fatto che il trattamento non fosse mirato a sviluppare la metacognizione, che quindi è aumentata solo parzialmente;
  2. il trattamento fosse breve, 10 sedute, mentre la metacognizione ha bisogno di più tempo per crescere e per esercitare i suoi effetti benefici a livello di sintomi e funzionamento.

In effetti, nello studio randomizzato pilota di Terapia Metacognitiva Interpersonale in Gruppo (Popolo et al., 2018), mirato primariamente ad aumentare la metacognizione della durata di 16 sedute, il miglioramento metacognitivo è stato decisamente più evidente.

Lo studio della metacognizione in psicoterapia sembra quindi promettere una maggiore comprensione del processo di cambiamento e di come esso sia differente a seconda del trattamento usato. Nel corso degli anni sarà importante investigare se in effetti promuovere le capacità metacognitive è necessario per un cambiamento ampio e stabile nella psicopatologia di tutti i disturbi di personalità e quindi è un fattore aspecifico di cambiamento e un aspetto che andrebbe affrontato in modo transdiagnostico in questi disturbi.

 

I sottotipi riguardanti il disturbo dell’insonnia

Secondo i ricercatori del Netherlands Institute for Neuroscience l’ insonnia può essere di 5 tipi diversi. Lo studio è stato pubblicato il 7 gennaio 2019 su The Lancet Psychiatry.

 

Il disturbo dell’ insonnia è considerato il secondo disturbo mentale più diffuso al mondo e il primo rischio di depressione. Quando si parla di insonnia è chiaro a tutti di cosa si sta parlando, tuttavia i dati provenienti dalla clinica e l’esistenza di biomarker non congruenti tra pazienti che soffrono di questo tipo di disturbo fanno presupporre che esiste un’importante eterogeneità nel disturbo dell’ insonnia e che spesso le diverse tipologie non vengono riconosciute.

In passato sono già state proposte nosologie che raccoglievano le diverse tipologie di insonnia ma nessuna di queste ha mai mostrato una buona validità scientifica. Recentemente, alcuni studiosi hanno provato ad ottenere dati più solidi che sostenessero l’ipotesi dell’esistenza di diverse tipologie di insonnia attraverso studi su larga scala in cui la raccolta di dati comprendeva sia tratti multidimensionali che biologici.

Lo studio del Netherlands Institute for Neuroscience

La Dott.ssa Tessa Blanken e un gruppo di colleghi del Netherlands Institute for Neuroscience è riuscita in particolare a dare una spiegazione del perché sia stato così difficile in questi anni identificare i meccanismi cerebrali sottostanti all’ insonnia ed afferma:

Anche se abbiamo sempre considerato l’ insonnia come un disturbo, essa rappresenta in realtà cinque diversi disturbi. I meccanismi cerebrali sottostanti possono essere molto diversi. In maniera simile, i progressi riguardanti lo studio della demenza sono stati fatti una volta che ci siamo resi conto che ne esistono di diversi tipi, come l’Alzheimer, oppure la demenza vascolare o la demenza frontotemporale.

I soggetti che hanno partecipato allo studio sono stati reclutati attraverso il Netherlands Sleep Registry, un database di volontari aventi un’età minima di 18 anni. Ciascuno di essi è stato poi seguito online per esaminare i tratti di personalità, la qualità del sonno, gli eventi di vita e il proprio stato di salute attraverso la somministrazione di diversi questionari selezionati.

I risultati ottenuti hanno permesso di ottenere dati aventi un’ampia validità clinica rispetto all’esistenza di diverse tipologie di insonnia e agli effetti sullo sviluppo di disturbi del sonno, di possibili disturbi in comorbilità (inclusa la depressione) e sulla risposta dei pazienti alla terapia con benzodiazepine. Nel caso di due specifici sottotipi di disturbo dell’ insonnia, si è anche valutata la rilevanza clinica di queste tipologie di insonnia mediante l’uso di un biomarker dell’elettroencefalogramma e l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale nel trattamento.

L’ insonnia oltre i disturbi del sonno

Sorprendentemente, i cinque tipi di insonnia non differivano affatto rispetto alla qualità del sonno valutata nei soggetti sperimentali, come ad esempio la difficoltà ad addormentarsi o di risvegliarsi al mattino. Studi precedenti avevano cercato di definire le diverse tipologie di insonnia concentrandosi proprio su queste differenze nella qualità del sonno e per questo motivo, secondo gli autori, non hanno avuto successo nella definizione delle differenti tipologie di insonnia.

Blanken e colleghi hanno invece classificato l’ insonnia andando oltre i disturbi del sonno e hanno valutato dozzine di questionari sui tratti di personalità, che sono noti essere radicati nella struttura e nella funzione della mente delle persone. Sulla base di queste differenze hanno dunque identificato i seguenti sottotipi di insonnia:

  • il tipo 1 ha punteggi elevati su molti tratti angosciosi, come il nevroticismo e il sentirsi giù o tesi;
  • i tipi 2 e 3 sperimentano meno angoscia e si distinguono per la loro alta e bassa sensibilità alla ricompensa;
  • i tipi 4 e 5 sperimentano ancora meno sofferenza e differiscono per il modo in cui il loro sonno risponde a eventi di vita stressanti: nel tipo 4, eventi di vita stressanti inducono insonnia grave e di lunga durata, mentre nel tipo 5 la qualità del sonno non sembra essere particolarmente influenzato da questi eventi.

Ricontattati dopo 5 anni e sottoposti nuovamente ai test già utilizzati nella prima fase dello studio, i soggetti sono risultati aver mantenuto lo stesso sottotipo di insonnia rilevato in precedenza, il che suggerisce l’esistenza di un ancoraggio nel cervello di questa tipologia di disturbo. In effetti, i soggetti con un diverso sottotipo di insonnia differivano anche nella loro risposta all’EEG agli stimoli ambientali.

Prospettive future

Le nuove metodologie e tecniche sviluppate per lo studio delle attività cerebrali, lascia sperare di poter raggiungere una maggiore comprensione dei meccanismi cerebrali sottostanti le diverse tipologie di insonnia individuate da Blanken e colleghi.

Classificare le diverse tipologie di insonnia è inoltre clinicamente rilevante dal momento che l’efficacia del trattamento con sonniferi o terapia cognitivo comportamentale, sempre sulla base dello studio sopra citato, sembra differire a seconda dello specifico sottotipo di insonnia di cui soffre il paziente.

Anche il rischio di sviluppare depressione variava drammaticamente a seconda del sottotipo di insonnia. Raggiungere quindi una buona classificazione delle diverse tipologie di insonnia consentirebbe un approccio più efficace alla prevenzione della depressione, allertando in particolare i soggetti con un rischio maggiore di svilupparla. Blanken e colleghi hanno avviato a questo scopo uno nuovo studio sulla prevenzione della depressione nelle persone con insonnia.

La speranza è che studi come questo facciano nascere l’interesse per un tema come l’ insonnia, promuovendo la spinta verso nuove scoperte oltre che sui meccanismi alla base di tale patologia anche sulle modalità di intervento più efficaci nel trattamento.

Gestione delle classi difficili: l’apporto che lo psicologo può offrire alla scuola

Dall’indagine effettuata dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica (2018) che ha coinvolto 440 docenti su tutto il territorio nazionale, è emerso che una delle maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano nel lavoro quotidiano è la gestione delle classi “difficili”

 

Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare.
La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia.
Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo,
è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. (Daniel Pennac)

 

Dall’indagine effettuata dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica (2018) che ha coinvolto 440 docenti su tutto il territorio nazionale, è emerso che una delle maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano nel lavoro quotidiano è la gestione delle classi difficili, segnalato dal 60,5% del campione. Per “classe difficile” si fa riferimento ad una classe con difficoltà relazionali, emotive e comunicative, considerando i rapporti con gli alunni, tra gli alunni e molto spesso, anche con i genitori.

Classi difficili: quali competenze servono per la gestione

Ma cosa significa esattamente gestire una classe? Questa espressione include le strategie che l’insegnante mette in atto per promuovere l’interesse e la partecipazione degli allievi nei confronti delle attività e per stabilire un ambiente di lavoro produttivo. Questo implica possedere delle competenze nella conduzione dei rapporti interpersonali e di gruppo, con l’obiettivo di promuovere negli alunni un atteggiamento positivo verso le relazioni e l’apprendimento; implica la capacità di coinvolgere, motivare e promuovere l’interesse degli alunni, riconoscere lo stile cognitivo e relazionale di ognuno e adottare le strategie più adeguate; significa saper gestire i conflitti, anche quando sfociano nella problematica del bullismo.

Chiunque abbia avuto a che fare con una classe scolastica concorderà nel ritenere questo compito estremamente difficile, sia con le classi funzionali che, a maggior ragione, con quelle che per vari motivi presentano delle disfunzionalità. E’ evidente come siano tante le variabili che intervengono in questo processo. Possiamo evidenziare le principali: le caratteristiche dei singoli alunni, le dinamiche di gruppo che si vanno a creare tra loro e tra alunni e insegnanti; le caratteristiche dei genitori, l’atteggiamento e le rappresentazioni della scuola che essi trasmettono ai loro figli; le modalità relazionali tra insegnanti e genitori, nonché tra gli insegnanti dell’équipe educativa con quella determinata classe; la personalità dell’insegnante, le sue esperienze di vita e la sua motivazione al lavoro.

Classi difficili: qualche indicazione per gestirle

In generale, quali indicazioni potrebbero essere utili ad un insegnante per gestire le classi difficili?

  • Avere uno stile educativo autorevole: è centrato sui bisogni degli allievi e risponde alla domanda: “cosa serve al mio allievo per trovarsi nella migliore condizione per apprendere?” Si fanno rispettare le regole perché servono ai ragazzi e se ne spiegano le motivazioni. I comportamenti scorretti non vengono presi sul personale, ma si chiedono i motivi per cui si sono verificati.
  • Costruire una buona relazione con ogni singolo alunno: ad esempio chiamandolo per nome, usando un linguaggio non verbale positivo, parlando spesso individualmente con i ragazzi, specie nei momenti non strutturati.
  • Utilizzare un linguaggio e una mimica complice, mantenendo il ruolo.
  • Comunicare con fermezza e chiarezza ma mai con rabbia; l’emotività dovrebbe essere il più possibile neutra. Se l’insegnante comunica in modo collerico mostra di aver vissuto la “trasgressione” dell’alunno su un piano personale.
  • Quando si può, cercare di sfruttare ciò che piace per fare lezione, informandosi sugli interessi personali di ogni alunno.
  • Proporre poche regole, espresse sempre in positivo e mai in negativo, formulate in maniera concreta.
  • Spiegare le regole: se non si riesce a spiegare il perché di una regola significa che è stata introiettata dai caregivers o dal contesto sociale e la si sta riproponendo senza capire se serve realmente.
  • Quando si riprende il comportamento scorretto si dovrebbe sempre esplicitare qual è il comportamento desiderato.
  • Comunicare la punizione con tono di tristezza piuttosto che con tono di vendetta e indignazione. Tenere presente che le punizioni incoraggiano l’indisciplina perché il colpito non si dà per vinto.

Classi difficili: lo Psicologo Scolastico come può essere d’aiuto?

Che contributo può offrire lo Psicologo Scolastico agli insegnanti nella gestione delle classi difficili?

La prima cosa da realizzare quando si viene chiamati ad intervenire è effettuare un’analisi della domanda e del contesto. A seconda del caso si deve capire se effettuare un intervento sui singoli alunni “problematici”, sul gruppo classe, sugli insegnanti, sui genitori o su tutti gli attori coinvolti, cosa che nelle situazioni più complesse ha certamente un’efficacia maggiore: è difficile infatti che un problema possa dipendere da una singola variabile; è molto più frequente che ci sia un’interconnessione di fattori che hanno portato all’instaurarsi di una situazione disfunzionale.

Gli interventi che si sono rivelati più utili, facendo riferimento alle prove di efficacia, sono:

  • Interventi di prevenzione e contrasto al bullismo: training per gli studenti centrati sulle Social Skills (empatia, autoconsapevolezza, comunicazione efficace, problem solving), circle time, laboratori sulle emozioni, role playing con focus sull’interazione empatica.
  • Metodo integrato per l’educazione socio-affettiva, che comprende: Metodo Gordon (ascolto attivo, messaggio-io e metodo senza perdenti), circle time ed esercizi psicomotori (Francescato et al., 1986; Francescato, 2004; Gordon, 2013).
  • Colloqui individuali con alunni, genitori e insegnanti, che permettono di lavorare sulle problematiche personali (se presenti); si valuta se dovrebbe essere effettuato un invio ad un altro servizio.
  • Seminari informativi/formativi con genitori su tematiche di psicologia dello sviluppo e sostegno alla genitorialità, scelte a seconda del bisogno emergente e delle specificità della situazione.
  • Formazione degli insegnanti sul riconoscimento precoce delle problematiche e le modalità per affrontarle, sulla gestione proattiva della classe, l’insegnamento interattivo, l’apprendimento cooperativo, l’uso del problem solving, la comunicazione efficace (Gordon, 2013).

E’ fondamentale non giudicare gli insegnanti e non farli sentire soli. Il compito dello Psicologo Scolastico è quello di creare una sinergia, fare rete, empatizzando col vissuto di difficoltà e talvolta di impotenza che si trovano a vivere gli insegnanti di fronte ad una situazione complessa e talvolta radicata nel tempo.

La perizia nelle separazioni. Guida all’intervento psicologico (2017) di Alberto Vito – Recensione del libro

I casi di affidamento dei minori a seguito della separazione dei genitori rappresentano da sempre una questione complessa per gli addetti ai lavori, che richiede l’utilizzo di competenze tecniche specifiche mirate alla tutela dell’equilibrio psicologico, affettivo e relazionale dei bambini e degli adolescenti.

Andrea Cappabianca

 

La seconda edizione del volume La Perizia nelle Separazioni. Guida all’intervento psicologico di Alberto Vito, dato alle stampe nel 2009 per Franco Angeli e recentemente aggiornato, è uno dei primi testi italiani dedicato esclusivamente al complesso tema della perizia psicologica nei casi di affidamento controverso dei minori a seguito della separazione dei genitori, rappresentando una risorsa utile a chi si occupa di questioni articolate quali quella dell’affido.

La perizia nelle separazioni: in primis, la cura delle genitorialità

La sempre più corposa letteratura sull’argomento è direttamente proporzionale al crescente ricorso da parte dei magistrati alla figura del CTU – e degli avvocati di parte a quella del CTP – indispensabile per inquadrare in modo corretto le dispute genitoriali rispetto l’affidamento dei figli.

Tra i diversi volumi dedicati all’approfondimento del ruolo del Consulente Tecnico d’Ufficio o di Parte, quello di Vito risulta di particolare interesse per gli addetti ai lavori, in quanto rappresenta una sorta di manuale pratico per imparare a redigere correttamente le relazioni peritali, anche grazie alla presentazione di ben otto relazioni tecniche, pressocché integrali, scritte negli anni dall’autore, sia in veste di CTU che di CTP. In tal modo il lettore può confrontarsi non con le semplici teorie su tale dibattuto tema, bensì con una modalità concreta di operare in tale ambito.

Secondo Alberto Vito, come ormai ampiamente riconosciuto, nel rispondere ai quesiti posti dal giudice, il consulente tecnico deve sempre cercare anche i residui spazi di collaborazione genitoriale e favorirne l’ampliamento. Questo perché spesso la perizia rappresenta per le parti la prima vera occasione per confrontarsi con una lettura “psicologica” dei loro accadimenti giudiziari ed è in tal senso una risorsa molto importante per le modalità future di condivisione della genitorialità. Per l’Autore, infatti, qualsiasi decisione riguardante l’educazione dei figli dovrebbe essere sempre presa dai genitori, per quanto le opinioni possano essere divergenti, in quanto l’intervento del terzo super partis rappresentato dal giudice o dal perito rappresenta sempre la sconfitta delle competenze genitoriali.

Il libro, che si apre con una interessante prefazione del terapeuta familiare argentino Alfredo Canevaro, è diviso in due sezioni. La prima, a carattere teorico, consta di quattro capitoli in cui si affrontano i temi delle conseguenze psicologiche della separazione coniugale per gli adulti e per i minori, quello, dibattuto, dell’alienazione genitoriale, e gli interventi specifici volti a ridurre i “danni” della separazione, tra cui la mediazione familiare.

La perizia nelle separazioni: come fare le relazioni peritali

La seconda parte è invece dedicata alle otto relazioni peritali che affrontano le questioni che più spesso il perito si trova di fronte in tali vicende familiari. Tra gli esempi di perizia esposti, spiccano per interesse quelli riguardanti la valutazione delle competenze genitoriali e i casi di riavvicinamento dei minori a padri assenti o desiderati. Le relazioni costituiscono quindi un modello operativo con cui soprattutto i colleghi più giovani possono confrontarsi e ricavare utili indicazioni per gestire al meglio le operazioni peritali.

Il libro procede in modo convinto nella direzione della promozione di una cultura che sappia riconoscere la forza della mediazione, dell’ascolto, del rispetto e dell’autocritica in luogo delle affermazioni di potere, delle rivendicazioni e delle accuse, senza tralasciare, in appendice, una parte dedicata alla normativa vigente in tema di separazione e affido condiviso.

Considero la lettura di questo libro, oltre che stimolante per chi è interessato al ruolo dello psicologo in tribunale, certamente utile sia ai colleghi che desiderano sperimentarsi e migliorarsi in tale ambito professionale, ma anche ai magistrati ed agli avvocati di famiglia, in quanto la fine delle relazioni sentimentali, sebbene si realizzi formalmente in un contesto giuridico, la sua cornice operativa, rappresenta una questione eminentemente psicologica, relazionale ed affettiva e richiede pertanto un intervento attento alle dinamiche intercorrenti tra i coniugi così come tra i genitori ed i figli, che deve essere svolto con competenza e responsabilità.

Quando il tempo è solo una questione di memoria

Che il “Tempo” sia una questione di memoria? I filosofi e gli scienziati che hanno provato a definire il concetto di “Tempo” sono innumerevoli e altrettante le risposte date a questa domanda, tra queste ritroviamo anche alcuni interessanti studi che si riferiscono alle più moderne neuroscienze.

 

Nonostante l’imponente e continuo flusso di informazioni (eventi, scene, oggetti, persone, dialoghi, parole) che quotidianamente percepiamo e registriamo in memoria, tendiamo a ricordare principalmente singoli episodi costituiti da una serie di sequenze discrete associate tra loro in modo analogo in traiettorie sia spaziali (Moser et al., 2017) che temporali.

Il recupero di informazioni riguardo episodi già avvenuti in precedenza, cioè banalmente il richiamare alla memoria un evento passato, esige l’attivazione dei circuiti mediali temporali (MTL), incluso l’ippocampo e la corteccia entorinale (EC); è stato infatti osservato come un’alterazione funzionale di questi network infici il recupero di memorie a breve termine nei ratti e come una discreta perdita di neuroni nella corteccia entorinale sia associata ad una progressiva perdita di memoria nei soggetti affetti da morbo di Alzhaimer (Gallagher & Koh, 2011).

Come nasce la traccia mnestica: il dove e il quando

Una notevole mole di evidenze neurobiologiche sembrano propendere a ritenere che i neuroni di MTL siano necessari per il processamento di informazioni spaziali affinché la traccia di memoria sia codificata all’interno di un contesto spaziale, il “dove”.

Uno studio di Moser e colleghi (2017) ha infatti messo in luce come un’attivazione maggiore e sincrona di specifici gruppi di neuroni ippocampali sia in grado di “tracciare” le coordinate spaziali di un ambiente mentre l’animale si trova a muoversi in quest’ultimo, segnalando la posizione, la distanza e la direzione tra l’animale e l’ambiente circostante: informazioni che possono essere decodificate tramite analisi statistiche per determinare e ricostruire il comportamento spaziale in atto dell’animale. Queste osservazioni di Moser di fatto supportano la teoria per cui specifici circuiti siano in grado di rappresentare mentalmente e poi registrare l’ambiente circostante tramite “mappe cognitive”, osservazioni che a loro volta supportano l’idea che le nostre memorie siano costituite da eventi codificati in un contesto spaziale.

Una volta stabilito il “dove”, è lecito chiedersi quali siano i processi neurali che rendono possibile la codifica di informazioni temporali, relative cioè a quando quell’evento si è verificato

A tale proposito, il recente studio di Robert Yassa e Maria Montchal del Center for the Neurobiology of Learning and Memory dell’Università di Irvine, California, recentemente apparso su Nature Neuroscience, riporta come l’attività ippocampale, delle regioni corticali e di quelle appartenenti e vicine a EC sia in grado di predire quanto una persona ricordi del momento temporale in cui si è verificata una specifica recente esperienza (Montchal, Yassa et al., 2019), dimostrando su una popolazione umana ciò che già era stato messo in luce in studi animali dal premio nobel Edvard Moser e colleghi.

L’esperimento in questione ha previsto che i soggetti sperimentali guardassero per circa 30 minuti un episodio della serie televisiva Curb Your Enthusiasm della HBO, mentre la loro attività cerebrale veniva misurata tramite fMRI per tutta la durata dell’episodio. Successivamente, a ciascun volontario è stato presentato uno breve e specifico fotogramma appartenente all’episodio appena visto, insieme ad una linea del tempo che rappresentava la durata per intero del video; i soggetti avrebbero dovuto giudicare lo specifico momento temporale in cui avevano visto quel fotogramma muovendo un cursore e cliccando sulla linea di durata dell’episodio. Un’alta accuratezza delle informazioni temporali nel recupero mnestico è stata definita dagli autori dello studio come la risposta all’interno di un range di circa 1 minuto dall’inizio effettivo del fotogramma, mentre per un giudizio temporale errato è stato considerato un range temporale da uno a tre minuti (Montchal, Yassa et al., 2019).

È stato osservato come un’intensa attività nell’ippocampo e in specifiche subregioni laterali di EC abbia reso possibile la codifica temporale dell’episodio, mostrando come, negli esseri umani, i contesti spaziali e temporali che costituiscono la memoria dell’episodio potrebbero essere processati in parallelo ma da differenti circuiti di MTL e come il recupero di informazioni temporali circa il “quando” un episodio sia accaduto non è altro che la selezione lungo una timeline in continuo di uno specifico momento rappresentato in riferimento a episodi comportamentali (es. in quel momento, è successo che l’attore ha bevuto un bicchiere di vino) (Shapiro, 2019).

Cos’è perciò il Tempo?

Si è sempre ritenuto che il “Tempo” fosse oggettivamente un’infinita serie in continuo di intervalli regolari, in realtà, in accordo con le evidenze di Montchal e Yassa (2019), specifici circuiti neurali analizzano la continuità di un’esperienza all’interno di sequenze di eventi discreti, di “fotogrammi” si potrebbe dire, caratterizzati da episodi comportamentali. Di conseguenza sembrerebbe che il Tempo, senza la memoria in grado di codificarlo, non esisterebbe.

I concetti di fusione e defusione cognitiva nell’ ACT (Acceptance Commitment Therapy)

L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ha portato l’attenzione sui concetti di fusione e defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle proprie esperienze interiori, quali pensieri o emozioni. Praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà.

 

Introduzione: Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

Secondo la visione di Steven Hayes, l’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy) fa parte di un movimento più ampio, basato e costruito su precedenti terapie comportamentali e cognitivo-comportamentali. Tuttavia, alcuni concetti presenti nella struttura corporea dell’ ACT sono caratterizzati da istanze peculiari che costituiscono una nuova fase evolutiva, sia da un punto di visto teorico sia applicativo. Le terapie cosiddette di “terza ondata” sono caratterizzate da strategie di cambiamento su basi contestuali ed esperienziali (oltre agli aspetti più didattico-direttivi) e da una forte sensibilità al contesto dei fenomeni psicologici e non alla loro forma o al loro contenuto, focalizzandosi sui processi.

L’ ACT si basa su un modello teorico-filosofico noto come Relational Frame Theory. Secondo tale teoria, nell’essere umano, il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di frame relazionali, di cornici relazionali, nucleo centrale del linguaggio e non necessariamente per esperienza diretta). L’ ACT cerca di favorire l’accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente. Il fine ultimo dell’ ACT è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT.

I sei processi chiave sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto. Con la sigla C si intende il “committment” secondo il modello ACT ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno. Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica e quindi a stare meglio.

HEXAFLEX e i sei processi dell’ ACT

Il grafico HEXAFLEX è considerato un importante strumento diagnostico e una bussola per il terapeuta anche nel momento in cui la concettualizzazione del caso viene condivisa con il paziente. Nel grafico sono rappresentati i sei processi fondamentali dell’ ACT che sono per loro natura interdipendenti. Lo scopo principale dell’ ACT è aumentare la flessibilità psicologica rapprensentata appunto dall’”esagono della flessibilita”: la flessibilità psicologica è promossa attraverso la regolazione dei sei processi dell’ ACT.

Il primo punto è il “contatto con il momento presente, essere presenti e partecipare in modo consapevole e mindful a tutto ciò che accade nel momento presente sia nell’ambiente che nell’individuo”. Il secondo processo è relativo alla fusione e defusione cognitiva, che verrà spiegata ampiamente in seguito; si tratta di osservare i nostri pensieri per quello che sono. Il terzo processo si colloca lungo il continuum evitamento-apertura all’esperienza, in cui la flessibilità psicologica è promossa dall’accettazione. Il quarto processo riguarda il “sé come contesto”, mentre il quinto processo si focalizza sui valori, in quanto qualità desiderate delle nostre azioni in divenire, direzioni di vita scelte: chiarire i valori è fondamentale nell’ambito della terapia ACT. Infine, il processo relativo al “committment” o azioni impegnate, che significa agire in modo efficace e coerente guidati dai propri valori. L’azione guidata dai valori, che è il contrario dell’evitamento esperienziale, fa emergere una vasta gamma di pensieri e sentimenti, sia piacevoli che spiacevoli, sia desiderabili che dolorosi. Dunque azione impegnata significa “fare quello che serve” per vivere secondo nostri valori, anche se questo può far emergere dolore e disagio. Azione impegnata significa scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso e persistere e mantenere tale impegno, mettendo in conto ostacoli e difficoltà.

Fusione e Defusione nell’ ACT

L’ Acceptance and Commitment Therapy ha portato l’attenzione, tra le altre cose, anche su un concetto particolare: la fusione, e la sua controparte, la defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle esperienze interiori, quali pensieri o emozioni, e guardare il mondo attraverso le loro lenti; praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà (Polk, Schoendorff, Webster, Olaz, 2016). I concetti di fusione e defusione sono connessi all’idea di base che il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento.

Con la pratica della defusione è possibile riconoscere che i pensieri sono appunto parole, storie, discorsi che si presentano nella nostra mente ma che non necessariamente sono veri, possono esserlo ma non dobbiamo credergli automaticamente. Possiamo concedergli tempo e attenzione solo se sono utili, ma nessun pensiero, per quanto doloroso, rappresenta una minaccia reale (Harris, 2010). Per questo alcune tecniche dell’ ACT volte a promuovere la defusione si fondano sull’utilizzo di strategie verbali che consentono alla persona una descrizione della propria esperienza per ciò che è: invece di pensare “io non posso farlo” e rendere questo pensiero una verità assoluta, si può trasformare questa affermazione in “ho il pensiero di non poterlo fare”. L’intero lavoro sul processo di defusione prevede che si vada, parallelamente, ad intervenire sulla capacità della persona di accettare quei pensieri per lei disturbanti. Come scrive Harris (2010, p.53):

Rapportati ai tuoi pensieri in modo nuovo, così che abbiano un impatto e un’influenza molto minori su di te. […] essi perderanno la capacità di spaventarti, preoccuparti, stressarti o deprimerti. E man mano che imparerai a praticare la defusione dai pensieri inutili, come le convinzioni che ti limitano e l’autocritica feroce, essi avranno molta meno influenza sul tuo comportamento.

La defusione è quindi, nell’ Acceptance and Commitment Therapy, la risposta alla fusione cognitiva. Si tratta in sintesi di un processo nel quale le persone arrivano a sperimentare i pensieri semplicemente come pensieri, eventi passeggeri che non bisogna necessariamente controllare (Dahal, Stewart, Martell, Kaplan, 2013). Anche se il concetto di defusione è solo uno dei processi previsti dall’ ACT e va quindi inserito e letto in un contesto più ampio e completo, anche osservarlo singolarmente stimola importanti riflessioni. Avvicinarsi alla consapevolezza che i pensieri possano essere visti in questa prospettiva può rappresentare infatti un punto di partenza per la comprensione dei comportamenti e delle forme di sofferenza che sempre più spesso interessano la nostra società. È utile quindi introdurre noi stessi all’idea che anche la mente mente, e che a volte è bene allenarsi a guardare le cose dalla giusta distanza, “giocare” con i pensieri ingombranti trattandoli per quello che sono, parole, perché – citando Shakespeare – “non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale” (Amleto, atto II, scena II).

La Fusione Cognitiva

Con il termine fusione cognitiva ci si riferisce alla tendenza degli esseri umani di essere catturati, “imbrigliati” dai CONTENUTI dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: “Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo”.

Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro. Se io mi definisco come una “persona inadeguata nelle relazioni sociali” tale insieme di pensieri influenzeranno le mie azioni e, nei casi estremi, mi faranno vivere tutte le esperienze relazionali con questa lente, che rappresenta sì il mio modo di vivere le esperienze, ma canalizza e semplifica eccessivamente le informazioni legate a come sono “io in relazione con gli altri”. Potrei quindi, sminuire le situazioni relazionali in cui non sono stato inadeguato, oppure le valutazioni che gli altri fanno di me, in cui sostengono che “non è vero che sei inadeguato” etc…

Che effetto ha quindi la fusione cognitiva nella nostra esperienza di tutti i giorni? Le valutazioni che riguardano la vita di tutti i giorni possono addirittura arrivare a sostituire la nostra esperienza della vita stessa. Spesso non si riesce più a distinguere tra il mondo costruito e valutato (attraverso il linguaggio) da quello di cui si ha conoscenza diretta attraverso l’esperienza sensoriale.

In tal senso il focus dell’intervento è, quindi, sui processi cognitivi, e non sui contenuti specifici dei pensieri. In quest’ottica, i pensieri si sostituiscono alla nostra esperienza presente e sensoriale in un processo di vera e propria “alterazione” dell’esperienza nel presente. 
Nello specifico, nell’ ACT, sono previste diverse forme di fusione cognitiva:

  • Fusione giudizio – evento
  • Fusione dannosità immaginata di un evento – evento dannoso
  • Fusione con le attribuzioni causali arbitrarie che l’individuo costruisce rispetto alla propria storia di vita
  • Fusione con il passato o con il futuro concettualizzato

La Defusione cognitiva

La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ ACT è la defusione. La Relational Frame Theory postula che non sia di primaria importanza intervenire in modo diretto sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.

Brevemente, l’ACT intende promuovere due capacità psicologiche: 1) Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute; 2) Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.

Allenando tali abilità, e a mettersi nella posizione consapevole dell’osservatore, è possibile aumentare i gradi di libertà psicologica dell’individuo. Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile SCEGLIERE di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.
Un’ulteriore abilità che l’ ACT tenta di promuove nell’individuo è quella di rinunciare a controllo dei propri pensieri e lasciarli andare, lasciargli spazio, passarci attraverso e grazie a questo diminuire l’influenza e la potenza di tali pensieri.

Quando il figlio desiderato non arriva: l’esperienza della sterilità

Nel presente articolo si è voluto riflettere sulle conseguenze psicologiche che derivano dal ricevere una diagnosi di sterilità secondo una prospettiva psicoanalitica.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’American Fertility Society (A.F.S.) possiamo parlare di sterilità quando uno o entrambi i coniugi sono affetti da una condizione fisica permanente che non rende possibile la procreazione; viceversa, l’infertilità si riferisce all’incapacità della coppia di concepire un bambino dopo più di un anno di rapporti sessuali non protetti. La sterilità è quindi una condizione molto più grave e in qualche modo assoluta rispetto all’infertilità. L’infertilità può essere ulteriormente distinta in primaria quando la coppia non ha mai concepito e secondaria se in passato c’è stato un periodo di fertilità che ha portato ad una o più gravidanza ma ora non si riesce più ad averne.

Secondo una stima dell’OMS, circa il 15-20% delle coppie dei paesi industrializzati, soffre di problemi di infertilità. In particolare, l’infertilità di coppia è legata nel 35% dei casi a problemi a carico delle donne, nel 30% dei casi a cause attribuibili all’uomo, nel 20% di casi ci sono problemi in entrambi i partner e nel 15% dei casi si parla di sterilità “idiopatica” o inspiegata.

L’infertilità maschile può essere dovuta a: ostruzioni nelle vie della produzione spermatica che provocano azoospermia, condizioni cromosomiche come la sindrome di Klinefelter, problemi eiaculatori come eiaculazione retrograda, prostatiti, anticorpi anti spermatozoi. L’età non è considerata un fattore di possibile infertilità nell’uomo ma ovviamente al suo aumentare il livello di desiderio e di capacità sessuale diminuisce.

Nella mancata gravidanza di una donna, invece, tra i fattori responsabili più comuni troviamo: mancanza di ovulazione, patologia tubarica e pelvica, endometriosi, fibromi o polipi e sterilità idiopatica (Chianese, De Simone, Del Duca, Vajro, in Lucariello, 2008). Per sterilità idiopatica si intende quello stato di sterilità involontaria nella quale tutte le indagini appropriate hanno dato risultati negativi. Sostanzialmente ci troviamo di fronte a problematiche inconsce di tipo psicologico che si traducono, a livello somatico, in un’impossibilità a concepire (Froggio, 2000).

Il significato psicologico della sterilità per la donna

Di fronte ad una diagnosi di sterilità possiamo assistere a reazioni differenziate tra uomo e donna che rimandano a diverse dinamiche interne proprie di ogni genere. La donna che fin dall’infanzia ha coltivato nelle sue fantasie più profonde un bambino, prima da condividere con la madre e poi da ricevere dal padre nel momento della fase edipica, di fronte all’ostacolo procreativo sente di essere deprivata di una parte essenziale di sé subendo una ferita nella propria identità.

Le fantasie tramandate di madre in figlia sulla gravidanza, il parto, l’allattamento vengono congelate o meglio spente nella loro possibilità biologica. La difficoltà a concepire un figlio finisce per inscriversi in un’area psico-emotiva e culturale come un marchio, un segno di imperfezione o di malformazione di cui ci si sente colpevoli. Dobbiamo sempre tenere presente che creare una nuova vita costituisce l’ultimo atto dello sviluppo psicosessuale femminile in quanto rassicura la donna di essersi appropriata dell’attività generativa materna come atto simbolico della temuta rivalità verso l’immagine genitoriale interiorizzata e come superamento definitivo della vicenda edipica.

Le emozioni comunemente riscontrate in donne sterili riguardano il lutto, la rabbia, la depressione, la colpa, lo shock e il rifiuto ad accettare questa situazione (Dunkel-Schetter, Lobel, 1991). Ciascuna di queste reazioni può essere considerata per certi versi “normale” a patto che sia limitata nel tempo e porti la coppia verso l’adattamento e la risoluzione, contrariamente se si cristallizza limitando sia la vita personale che quella relazione finisce per assumere una valenza “patologica”.

Un altro elemento importante da considerare è il contesto sociale; la donna infertile infatti riceve meno supporto anche perché spesso si accompagna ad una rete di amiche che con il tempo sperimentano la gravidanza e quindi diventando madri e riducendo gli spazi e i momenti di condivisone la lasciano senza il giusto supporto emotivo.

Il significato psicologico della sterilità per l’uomo

La sterilità nell’uomo viene percepita come un “verdetto” improvviso e inaspettato che può determinare una reazione depressiva, un appiattimento ideativo ed emotivo se non addirittura una regressione infantile con la moglie. Vengono seriamente minacciate la potenza sessuale, da sempre associata alla capacità fecondativa e l’identità personale e sociale. La perdita di virilità in qualche modo sperimentata con la sterilità finisce per ledere il senso di autostima dell’uomo danneggiando anche il rapporto con la compagna.

I sentimenti prevalenti al momento della scoperta di questa verità sono di vergogna, di grave imbarazzo rispetto all’esterno a volte con notevole restrizione dell’ambito delle relazioni sociali, senso di colpa molto forte verso la compagna e la propria famiglia d’origine accompagnati a un senso di perdita e di fallimento. Tipico dell’uomo infertile sembra essere negare ed evitare le preoccupazioni legate alla diagnosi ricevuta.

Da un punto di vista psicoanalitico la sterilità può rappresentare un momento di competizione con il proprio padre che potrebbe causare l’esordio di disturbi psicopatologici (Gerstel, 1963): se l’uomo non ha stabilito un rapporto positivo con il padre, configurandolo come un genitore “sufficientemente buono”, è probabile che il suo senso di virilità dipenda dalla capacità di procreare. Ne consegue che un uomo infertile possa facilmente confondere la virilità con la fertilità e quindi il fallimento riproduttivo, come perdita delle funzioni sessuali, finisce per corrispondere alla perdita totale della propria mascolinità.

Le conseguenze della sterilità sull’equilibrio di coppia

Un fattore importante che non va dimenticato è che la sterilità colpisce la coppia in una delle sue caratteristiche fondamentali ovvero l’apertura alla continuità della vita e alla perpetuazione della specie e anche se il contesto socioculturale del mondo occidentale è cambiato e la finalità elettiva di un rapporto risiede perlopiù nell’appagamento reciproco e nel dialogo amoroso, il figlio continua a rivestire un ruolo fondamentale, soprattutto nel momento in cui è avvertito come una mancanza. Non a caso, coloro che non hanno ancora avuto dei figli dopo qualche anno di matrimonio, sono spesso esposti a una mole di critiche e finiscono per essere additati come egoisti e incapaci di assumersi delle responsabilità.

L’esperienza clinica mette in luce come spesso la mancanza del figlio rinnovi antichi conflitti finendo per allontanare i due partner creando un’ostilità più o meno palese all’interno della quale emergono reciprocamente accuse sulle responsabilità del fallimento procreativo che minano la stabilità coniugale e familiare (Wyatt, 1979). La coppia si trova quindi ad affrontare una vera e propria “crisi di vita” che coinvolge tanto il singolo quanto la coppia dando origine a stress, frustrazione, inadeguatezza e senso di perdita (Menning, 1980).

La coppia deve infatti affrontare diversi livelli di confronto nel proprio vissuto. Un primo livello è quello rappresentato dal confronto con la collettività, ovvero quella dimensione culturale che definisce l’istinto genitoriale come il desiderio di avere dei figli per proseguire il proprio patrimonio genetico: la potenzialità riproduttiva rappresenta l’elemento principale per essere considerati delle “coppie normali”. Le coppie senza figli si trovano, di conseguenza, a dover affrontare il proprio fallimento per non essere stati in grado di creare la vita e soddisfare le aspettative dei propri genitori e della società. Un ulteriore livello è quello rappresentato dalla dimensione della sessualità, pesantemente contaminata dalla sterilità. In casi estremi, le relazioni sessuali finiscono per essere semplicemente un mezzo per il “concepimento ad ogni costo” in cui i ritmi del desiderio e del piacere sono sostituiti dai momenti di fertilità della donna.

L’infertilità quindi vissuta come trauma narcisistico può essere superata non solo attraverso possibilità concrete di risoluzione del problema ma anche attraverso la struttura caratteriale dell’individuo e dall’equilibrio che la coppia riesce a ristabilire. A livello intrapsichico la coppia deve riuscire ad accettare il problema, far fronte alle pressioni sociali, elaborare il lutto per la perdita dell’Io ideale e della propria immagine corporea valutando successivamente se sia il caso di affrontare l’iter terapeutico-diagnostico relativo all’infertilità.

Perfezionismo nei contesti organizzativi: gli effetti sul lavoro

Il fenomeno del perfezionismo è in crescita di anno in anno e l’idea di una sua integrazione nelle attività lavorative è spesso connotata positivamente dai più. Ciononostante, diversi studi riportano considerazioni opposte. Quali sono i suoi aspetti positivi e quali quelli negativi?

Simone Bellavia

 

Quando lavoriamo su qualcosa, non riusciamo a rilassarci fino a che i dettagli non raggiungano i livelli di accuratezza che siamo soliti fornire, sfruttando sempre il massimo del nostro potenziale. Se chiediamo ad un collega di contribuire ad un compito che ci è stato assegnato, ci aspettiamo che anch’egli segua la medesima prassi. Sentiamo il forte bisogno di raggiungere degli standard che rasentino l’eccellenza, tuttavia la minima percezione che il nostro lavoro non rispetti le nostre aspettative si prefigura come un senso di fallimento che generalizziamo sulla nostra persona, alimentando una falsa percezione che gli altri possano giudicarci duramente.

Perfezionismo: cos’è e perché si sta diffondendo

Il concetto di perfezionismo è oggi familiare a molte persone. Infatti uno studio recente, condotto dalla York St. John University e pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Bulletin, dimostra come generazioni più recenti di studenti universitari — specificatamente fra il 1989 e il 2016 — riportino punteggi significativamente più alti per ogni forma di perfezionismo rispetto alle generazioni precedenti (Curran, T., & Hill, A. P., 2017). Questa tendenza in crescita è probabilmente dovuta ad un insieme di fattori scatenanti, primo fra tutti l’uso dei social media, che spingerebbe i giovani adulti ad alzare sempre di più l’asticella delle proprie aspettative di riuscita e di successo.

Per poter meglio spiegare ciò di cui stiamo parlando, diremmo che il perfezionismo è più marcatamente definito dal desiderio di assoluta impeccabilità (Frost et al., 1990): si tende ad essere inflessibili e rigidi circa i propri standard lavorativi, che vengono perseguiti in modo compulsivo, anche quando la situazione non richiede la perfezione (Flett & Hewitt, 2006; Sherry, Hewitt, Sherry, Flett, & Graham, 2010). In molti casi, a lavoro concluso, non si sperimenta soddisfazione, quanto un sollievo e il voler fissare standard ancora più elevati (Mor, Day, Flett, & Hewitt, 1995; Shafran, Cooper, & Fairburn, 2002). Secondo un articolo pubblicato sulla rivista accademica Journal of Applied Psychology, il perfezionismo è caratterizzato da più facciate: una parte “adattiva”, che ci rende meticolosi, organizzati, puntuali e orientati ad ottenere buoni risultati, e da una parte “disadattiva”, che alimenta le nostre preoccupazioni sugli errori, ansia per le nostre azioni e un’ossessiva avversione per i fallimenti (Enns, Cox, & Clara, 2002; Terry-Short, Owens, Slade, & Dewey, 1995).

Perfezionismo: si può gestirre a proprio vantaggio

L’idea del lavoratore perfezionista è diffusa e ben accetta, poiché ci si aspetta organizzazione, responsabilità e orientamento a risultati qualitativamente elevati, tutti aspetti positivi che correlano con alti livelli di coscienziosità. L’altra faccia della medaglia, evidenziata dall’analisi condotta nell’articolo precedentemente citato, riporta però al contempo bassi livelli di stabilità emotiva e di forte atteggiamento critico verso se stessi e il proprio operato, creando un circolo vizioso ansiogeno (Frost & DiBartolo, 2002).

Essere perfezionisti non è assolutamente un male, anzi. Alle volte l’insoddisfazione ci spinge e ci motiva a lavorare meglio, per rendere ciò che realizziamo, che sia un bene o un servizio per gli altri, qualitativamente superiore. Ma allo stesso tempo può diventare tossico e di conseguenza diventa una trappola. Ne risente la nostra creatività — che in molti ambiti organizzativi aiuta a crescere — la quale ha bisogno di più flessibilità. Bisognerebbe quindi cominciare a “buttarsi” ed accettare eventuali fallimenti, perché errare è lecito, e sbagliare è una vera lezione formativa. Bisogna cominciare, provare, rischiare. Accettare i risultati buoni, non solamente quelli che si ritengono “perfetti” e porre degli obiettivi realistici. Un altro suggerimento valido è quello di lavorare sulle proprie emozioni, accettando anche quelle difficili: un’opzione valida è la pratica della mindfulness, utile anche nella gestione dell’ansia.

Essere perfezionisti non è un male, ma bisogna stare attenti e non renderlo patologico, piuttosto sfruttare i suoi aspetti positivi per poter lavorare meglio.

Bambini: il contatto con la natura e i benefici a livello emotivo, comportamentale e psicologico

I bambini con un rapporto più stretto con la natura soffrono di un minore disagio psicologico, minore iperattività e mostrano difficoltà emotive e comportamentali meno frequenti, oltre a presentare un comportamento pro-sociale più spiccato.

 

“Non dimenticate che la terra si diletta a sentire i vostri piedi nudi e i venti desiderano intensamente giocare con i vostri capelli” (K. Gibran).

 

Sempre più spesso dimentichiamo quanti benefici possiamo trarre dall’ambiente naturale: benessere generale, tendenza pro-sociale, connettività verso l’ambiente e verso gli altri, maggiori emozioni positive (Passmore & Holder, 2017).

Tra cemento, rumori, tecnologia e ritmi disumani, la vita urbana ci ha rapiti, strappandoci prepotentemente al nostro luogo d’origine: la natura. La conseguenza è spesso la conduzione di stili di vita malsani, la perdita di un’alimentazione salutare e l’abbandono del gioco attivo e costruttivo nel periodo di crescita. Abbiamo perso l’abitudine a giocare sguazzando nel fango, abbiamo smesso di rincorrere lucertole per osservarle con affamata curiosità, non abbiamo più voglia di rotolare sull’erba e poi accettare la ramanzina dalla mamma perché “l’erba sul jeans è difficile da lavare”. Non ci sporchiamo, non odoriamo, non osserviamo e, soprattutto, non contempliamo più la bellezza di un albero, di una montagna, di un fiore. Non troviamo più conforto e meraviglia nella natura.

Tutto questo ha un prezzo e sono i nostri bambini i primi a pagarlo. Infatti, già in età pre-scolare, molti bambini riportano segni di malessere psicologico, riferendo di sentirsi spesso stressati e depressi. Ad Hong Kong, per esempio, tra il 16% e il 22% di bambini prima dei 6 anni riporta problemi di salute mentale. Proprio per questo motivo, un recente studio condotto dalla Dott.ssa Tanja Sobko dell’Università di Hong Kong insieme al Prof. Gavin Brown dell’Università di Auckand, si è posto come obiettivo quello di indagare il rapporto dei bambini con la natura e le conseguenze che esso ha a livello emotivo e comportamentale.

Lo studio

I ricercatori hanno, quindi, messo a punto un nuovo questionario di 16 item, il CNI-PPC, da somministrare ai genitori, per misurare la “connessione con la natura” in ogni bambino. Il questionario riflette quattro aree della relazione bambino-natura: godimento della natura, empatia per la natura, responsabilità verso la natura e consapevolezza della natura.

Lo studio ha coinvolto 493 famiglie con bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni ed è stato condotto in due momenti: durante la prima parte, i ricercatori hanno intervistato le famiglie e successivamente hanno sviluppato il questionario CNI-PPC; durante la seconda parte, il nuovo questionario è stato confrontato con lo Strenghts and Difficulties Questionnaire, uno strumento di misurazione validato che indaga il benessere psicologico e i problemi comportamentali nei bambini. I risultati mostrano che i bambini con un rapporto più stretto con la natura hanno un minore disagio psicologico, minore iperattività e difficoltà emotive e comportamentali meno frequenti, oltre a presentare un comportamento pro-sociale più spiccato.

È molto interessante come i bambini con un grado più alto di responsabilità verso la natura hanno presentato meno difficoltà nel rapporto con i pari. Questo studio suggerisce l’importanza di futuri approfondimenti riguardo il link tra ambiente e benessere nell’infanzia. I ricercatori del presente studio hanno, inoltre, promosso un’iniziativa denominata “Play&Grow”, che promuove l’alimentazione salutare e il gioco attivo nei bambini in età pre-scolare, con l’obiettivo di riconnetterli alla natura (Sobko, Jia & Brown, 2018).

L’influenza del disturbo narcisistico di personalità sulle scelte di vita

Il senso di dovere: impegnare tempo solo per fare cose di livello. Un dramma per il narcisista. Un film dev’essere costruttivo, non sia mai la commedia italiana sciocca ed infantile. Un libro? Non il saggio d’amore, ma la critica storica della guerra del golfo o sulle conseguenze delle bombe nucleari.

 

Ancora: il ristorante? Beh, alla trattoria all’angolo viene sempre preferito il locale dello chef stellato, in pieno centro, senza considerare minimamente le quantità di cibo che ci si ritrova davanti. Ad un piatto di orecchiette e broccoli, si preferisce uno di nuovelle cousine con patate “bubuguardarear”, annaffiato da “crousateeen”, con contorno di “uhuokhsvshs”.

Narcisismo: tratti distintivi

E questo non riguarda solo le proprie, di scelte, perché il paziente con disturbo narcisistico di personalità è anche marito che pretende che la moglie acquisti solo narrativa impegnata, che non frequenti determinati ambienti o che non vesta in modo sciatto. Ma è anche padre, che desidera che i propri figli diventino adulti di livello e quindi devono frequentare solo scuole di élite, parlare un italiano perfetto, coltivare interessi intelligenti. Ovviamente, il narcisista sarà anche amico, cugino, fratello, e anche in quel caso, spesso, è pretenzioso ed esigente.

Si chiamano “scelte” e di solito, per farle, bisogna prendere contatto con i propri desideri, bisogna riconoscerli, ascoltarli, perseguirli. Nel disturbo narcisistico di personalità, o narcisismo, la critica ed i processi di scelta sono filtrati da procedure interne che sono ben lontane da quelle reali e consapevoli. Piace ciò che è bene che piaccia, mentre il resto è abbattuto, fuori della coscienza. Secondo Kernberg (1975) i narcisisti non accettano che ci sia distanza tra il sé ideale e il sé attuale: bisogna essere in un certo modo.

Narcisismo: la terapia può aiutare a vivere le relazioni

Chi soffre di narcisismo ha un sistema di valori che è rigido, autoreferenziale, inflessibile nel guidare azioni (Dimaggio et al., 2006). Lasch (1979) parla di “cultura del narcisismo”: è più forte l’esigenza ad andare avanti invece che stare insieme, c’è più bisogno di potere che di intimità (Emmons, 1989). Quindi l’uso dei giudizi di valore è il meccanismo di scelta dominante con la conseguenza di perdere il contatto con le proprie emozioni che dovrebbero, appunto, guidare le azioni. E, come si accennava prima, i narcisisti pretendono che gli altri aderiscano completamente al proprio sistema di valori perché gli altri hanno una funzione riflessiva (Dimaggio et al., 2006).

La psicoterapia aiuta tanto in questo. A toccare con mano la possibilità di scegliere ciò che davvero si vuole svincolandosi da pressioni interne, a viversi quel senso di libertà che segue il mettersi in discussione e che contempla anche la possibilità di effettuare scelte azzardare, sbagliate, fuori luogo. Il tutto sulla base della relazione terapeutica.

Naricisismo: cosa può capitare in terapia

Un mio paziente con Disturbo Narcisistico di Personalità credeva fortemente che quei minuti iniziali e finali della seduta, colmi di convenevoli, gentilezze e notizie frivole, fossero tempo perso. Non si parlava di lui ed io non esponevo niente di psicologico. Ovviamente, tutto questo, mi fu detto nel solito stile adottato da questa categoria di pazienti. Sprezzante. Critico. Espressione dura. Busto eretto. Braccia conserte.

Io come mi sono sentita? Beh, in linea con quanto si legge sui manuali

…il terapeuta può sentirsi minacciato, svalutato e sottomesso e si sente costretto a fare o dire qualcosa per ripristinare il rango.

Per fortuna, ho imparato a riconoscere e regolare, a volte, il mio stato interno con opportune procedure di disciplina interiore, come la terapia metacognitiva interpersonale insegna (Dimaggio et al., 2013). Dopo un intenso lavoro di riconoscimento e validazione del processo interno del paziente, di ritorno da un mio viaggio all’estero, abbiamo trascorso ben 15 minuti della nostra seduta a parlare di dov’ero stata, di cosa avessi mangiato e di che tipo di esperienze avessi fatto nel confrontarmi con una nuova cultura. In seguito, lui mi ha parlato di come aveva trascorso il suo weekend in montagna, del suo cane, di come si stessero particolarmente affezionando l’uno all’altro e di come questo gli sembrava bizzarro.

Quando, alla fine, gli ho chiesto come si stava sentendo, come gli era sembrato trascorrere del tempo apparentemente vuoto, fatto di condivisione di piccole cose e di conversazioni leggere, mi ha sorriso.

Certo, all’uscita mi ha chiesto se il mio fosse stato un albergo 5 stelle e se avessi avuto un autista disponibile per ogni spostamento, ma va bene così…accontentiamoci per ora. D’altronde, siamo ancora in una fase precoce di terapia.

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