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Delirio: composizione e scomposizione del pensiero delirante (2016) di Enrico Magni e Simon Pietro Scaccabarozzi – Recensione del libro

Il delirio e l’ esperienza delirante sono ben osservati e raccontati dagli autori di questo libro, operatori di servizi pubblici della psichiatria territoriale italiana.

 

In un tempo in cui la psicopatologia ed il suo sforzo di penetrare dentro l’esperienza della sofferenza mentale è mortificata dal dilagare di un approccio orgogliosamente superficialmente descrittivo, in nome di una “ateoreticità” che dovrebbe perciò mettere tutti d’accordo e sacrifica sull’altare della comunicabilità la “comprensione profonda”, questo volume rappresenta una boccata d’ossigeno che riattiva il piacere e il desiderio di ragionare su questi temi.

Questo libro nasce dall’esperienza clinica di operatori dei servizi di salute mentale che hanno visto negli ultimi 40 anni di psichiatria territoriale italiana seguente alla legge Basaglia del ’78, il delirio allo stato nascente e inserito nei contesti dove si genera e dove rivela un senso che risultava perduto per i grandi psicopatologi (primo fra tutti Jaspers) dell’800, che lo vedevano cronicizzato e decontestualizzato nel chiuso dei manicomi.

Delirio: composizione e scomposizione del pensiero delirante – Senso e modalità

Gli autori dopo aver definito esattamente l’oggetto del loro interesse ovvero l’esperienza delirante in tutte le sue manifestazioni compiono una doppia utilissima operazione.

Da un lato descrivono il senso del delirio che serve a mantenere una narrazione coerente su di sé, salvando i propri cardini identitari da una invalidazione che va necessariamente negata per non perdere predittività su di sé e sul proprio rapporto con il mondo, cosa presente anche nella vita quotidiana con il cosiddetto e utilissimo meccanismo dell’autoinganno.

Dall’altro descrivono il “come” del delirio analizzando i processi di pensiero con cui ciò avviene (pensiero magico, egocentrico, iperinclusivo, ipoinclusivo, simmetrico e asimmetrico). Anche in questo caso evidenziano come ciascuna di queste modalità sia in continuità con il pensiero normale.

Il risultato di queste due operazioni è la riduzione dello

stigma verso il delirante che si scopre esserci strettamente imparentato e la curiosità di immergersi nel suo mondo per comprenderlo e non semplicemente etichettarlo come “patologico”.

 

Quali sono gli effetti della depressione e dell’ansia sulla salute fisica?

Un recente studio ha indagato gli effetti di alcune condizioni psichiatriche, in particolare depressioneansia, sulla salute fisica oltre che mentale, dando così prova della stretta relazione esistente tra mente e corpo.

 

Qualche secolo fa, Descartes sosteneva la dicotomia tra mente e corpo. Per il filosofo francese mente e corpo sono due entità separate e, per secoli, tale dualismo ha contribuito a fondare il pensiero e le basi delle scienze moderne. Più recentemente, con il progresso scientifico, la tesi dicotomica cartesiana è andata via via indebolendosi.

In particolare, con Damasio e la pubblicazione del suo libro L’errore cartesiano è andata affermandosi una nuova prospettiva che va nella direzione opposta rispetto alla tesi cartesiana. Attraverso solide evidenze scientifiche, Damasio ha dato prova che cervello, emozioni e coscienza sono molto più interconnesse di quanto non si pensasse.

Sulla base di queste premesse si è mosso anche un recente studio condotto presso l’Università di San Francisco e che rappresenta un ulteriore contributo a favore della tesi di Damasio: i ricercatori hanno infatti indagato come alcune condizioni psichiatriche, in particolare depressione e ansia, metterebbero a rischio la nostra salute fisica al pari di altre variabili quali obesità e fumo.

Lo studio e i suoi risultati

Ciò che è emerso dallo studio è che depressione e ansia sono fattori negativi per la salute fisica degli individui con effetti equiparabili all’obesità e al fumo. Patologie fisiche come il cancro, invece, non correlano in maniera statisticamente significativa con le suddette condizioni di salute mentale.

I ricercatori del dipartimento di psichiatria dell’Università di San Francisco hanno indagato gli effetti che depressione e ansia hanno sulla salute fisica degli individui attraverso una valutazione delle condizioni mediche di un campione di oltre 15.418 persone con un’età media di 68 anni. I dati analizzati sono stati ricavati da uno studio governativo che ha utilizzato delle interviste per valutare i sintomi depressivi e ansiogeni dei partecipanti. Inoltre, i partecipanti hanno risposto a questionari circa il loro peso, il fumo e tutte le condizioni mediche diagnosticate in precedenza e sono stati sottoposti a visite ospedaliere per registrare informazioni circa il peso corporeo. Nello specifico, il 16% dei soggetti aveva ricevuto alti punteggi nei livelli di ansia e depressione, il 31% aveva una diagnosi di obesità e il 14% erano dei fumatori.

I risultati dello studio hanno dunque messo in evidenza che coloro che erano caratterizzati da alti livelli di ansia e depressione avevano il 65% di probabilità in più di sviluppare una patologia cardiologica, il 65% in più di probabilità di incorrere in un ictus, il 50% di probabilità di avere un’alta pressione sanguigna e, infine, l’87% di loro era più incline a sviluppare l’artrite rispetto a coloro che non mostravano alti livelli di ansia e depressione.

Di tutte le condizioni fisiche indagate, i ricercatori hanno riscontrato che il cancro era l’unica variabile che non risultava essere correlata al livello di ansia e di depressione. Nonostante le credenze popolari, questo dato è confermato anche da ulteriori studi precedenti a questa ricerca. Dunque, il disagio psicologico sembrerebbe non essere un fattore predittivo nello sviluppo del cancro.

In conclusione

L’importanza di questo studio risiede nel fatto che ha permesso di dimostrare che lo stato di salute mentale incide in maniera significativa sull’insorgenza di una vasta gamma di malattie mediche. Pertanto, va certamente preso in considerazione il fatto che i sintomi ansiosi e depressivi sono correlati ad uno stato di salute fisica precaria e che – nonostante questo dato sia ormai comprovato – questi sintomi, ad oggi, continuano a ricevere attenzioni limitate nelle assistenze sanitarie rispetto ad altre variabili come fumo e obesità.

Non trattare i suddetti sintomi ha dunque alti costi nel lungo termine, sia per il singolo individuo che per l’intero sistema sanitario, che potrebbe evitare parte delle spese attivando progetti di prevenzione.

In conclusione, il presente studio compara in maniera diretta gli ansia e depressione rispetto a obesità e fumo come fattori di rischio per l’esordio di malattie fisiche (Sandoiu, 2018).

Resilienza e strategie di coping nelle patologie reumatiche autoimmuni

Le persone che soffrono di patologie reumatiche su base autoimmune, si trovano spesso a dover affrontare problematiche comuni. Tali malattie limitano molto l’autonomia e la volontà personale nella quotidianità.

 

A ciò si aggiungono il dolore, la stanchezza e la costante preoccupazione sulla propria condizione fisica futura. Tutto questo può comportare l’insorgenza di altre patologie come l’ansia e la depressione che peggiorano lo stato emotivo e la qualità della vita.

Patologie reumatiche autoimmuni e sofferenza psicologica

Molti sono gli studi che hanno indagato tale relazione, sebbene quelli che trattano del rapporto tra ansia e patologie reumatiche siano in misura minore. Ciò perché per aumentati livelli di umore depresso si ha, nella maggior parte dei casi, un concomitante aumento dei livelli di ansia ( G. Bagnato, L.G. De Filippis, A. Caliri, G. De Filippis, G. Bagnato, A. Bruno, N. Gambardella, M. R. Muscatello, R. Cambria, R. Zoccali, 2006).

Inoltre, è stato riscontrato che i soggetti con depressione ed artrite reumatoide presentano un quadro clinico nettamente peggiore rispetto ai soggetti con artrite reumatoide senza sintomi depressivi ( P.P. Katz, E.H. Yelin, 1993).

Tali evidenze trovano riscontro nella letteratura precedente.

Dallo studio di Palos e Viscu del 2014, è emerso che i soggetti con diagnosi di artrite reumatoide mostrano maggiori livelli di ansia e una maggiore frequenza di pensieri automatici negativi rispetto ai soggetti di controllo.

Anche nello studio di A. Isik, S.S. Koca, A. Ozturk, O. Mermi del 2007, è emersa una prevalenza di ansia e depressione nei soggetti con artrite reumatoide rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, la durata del disturbo sembra essere più breve nei soggetti con ansia rispetto ai soggetti che manifestano sintomi depressivi. Sembrerebbe, dunque, che alcune malattie autoimmuni siano un fattore di rischio per la depressione ( E.D. Dommash, T.Li, O.I. Okereke, Y.Li, A.A. Qureshi, E.Cho, 2015).

I sintomi dell’ansia e della depressione generalmente non sono manifesti all’inizio del trattamento, ma possono emergere in maniera invalidante nel momento in cui si ha consapevolezza del proprio stato fisico che limita ciò che prima della malattia poteva essere facilmente sostenuto (K. Bangemann, W. Shulz, J. Woklleben, A. Weyergraf, I. Snitjer, T. Werfel, G. Schmid-Ott, D.Bohm, 2014.

Patologie reumatiche autoimmuni e strategie di coping

Sulla base delle evidenze presenti in letteratura, tale lavoro ha cercato di indagare il modo in cui le proprie competenze personali, sociali, relazionali unite ad adeguate strategie di coping, possano avere un impatto positivo sul soggetto e condurre ad un miglioramento della qualità di vita.

Tutto ciò fa parte di un concetto più ampio conosciuto come resilienza. Con il termine resilienza, in fisica, si intende la capacità di un materiale di resistere ad un urto assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione (Accademia della crusca, 2014).

Riferito all’essere umano, tale concetto indica la capacità di superare i traumi e le avversità non solo resistendo ma costruendo e ricostruendo un percorso di vita orientato positivamente (B. Cyrulnik, E. Malaguti, 2011).

Secondo Bonanno (2004) la resilienza, è un processo e un prodotto dello sviluppo evolutivo della persona, che pur dovendo affrontare nel corso della sua esistenza avversità e situazioni difficili, riesce a mantenere ed implementare un percorso psicologico sano e stabile nel corso del tempo. Non si tratta di un concetto statico ma dinamico in cui i vari fattori si combinano e interagiscono nella storia dell’individuo (Costantino, Camuffo, 2009).

Lo studio delle risorse di resilienza è apparso negli ultimi anni molto rilevante nel sostenere persone con patologie di natura cronico-degenerativa. Si tratta infatti di individui maggiormente vulnerabili allo stress in quanto più esposti sia allo sviluppo di patologie stress-correlate, sia all’attacco dei normali stressors psico-sociali (Stanton, et al., 2007).

Patologie reumatiche autoimmuni: lo studio

E’ stato preso in esame un gruppo composto da 21 soggetti, di cui 18 femmine e 3 maschi con un’età compresa tra i 22 e i 75 anni, affetti da patologie reumatiche autoimmuni (artrite reumatoide giovanile, connettivite indifferenziata, artrite sieronegativa, artrite psoriasica, artrite cronica indifferenziata, psoriasi minima, spondilo-artrite).

Tutti i soggetti coinvolti nello studio sono stati sottoposti ad un esame clinico e nella stessa occasione a ciascun paziente sono stati somministrati i seguenti test:

  • Hamilton Anxiety Scale, che pone l’accento in particolare sullo stato soggettivo del paziente; il test esplora 14 categorie di sintomi (umore ansioso, umore depresso, disturbi somatici muscolari, disturbi sensoriali somatici, sintomi cardiovascolari, sintomi respiratori, sintomi gastrointestinali, sintomi genito-urinari, sintomi vegetativi, tensione, paure, insonnia, deficit intellettuale e il comportamento del soggetto durante l’intervista). I sintomi sono valutati su una scala a 5 punti (“assente”, “lieve”, “moderato”, “grave”, “molto grave”). Un punteggio totale intorno a 18 è considerato patologico.
  • Hamilton Rating Scale For Depression, che indaga 21 aree determinanti per la valutazione dello stato depressivo del soggetto (umore depresso, senso di colpa, idee di suicidio, insonnia iniziale, insonnia intermedia, insonnia prolungata, lavoro e interessi, rallentamento di pensieri e parole, agitazione, ansia di origine psichica, ansia di origine somatica, sintomi somatici gastrointestinali, sintomi somatici generali, sintomi genitali, ipocondria, introspezione, perdita di peso, variazione diurna della sintomatologia, depersonalizzazione, sintomatologia paranoide, sintomatologia ossessiva). I sintomi sono valutati su una scala che va da 1 (assente) a 5 (grave) o da 1(assente) a 3( chiaramente presente) a seconda degli items e della gravità dei sintomi. Un punteggio totale maggiore o uguale a 25 è indicativo di una depressione grave.
  • Colloquio Psicologico volto ad indagare le risorse di resilienza possedute da ciascun soggetto, in particolare dimensioni proattive quali autostima, autoefficacia e autodeterminazione e dimensioni disreattive come la somatizzazione, preoccupazioni eccessive e mancanza di progettualità.

Patologie reumatiche autoimmuni: i risultati dello studio

Dall’elaborazione dei test è risultato un punteggio medio di 11.09 per entrambe le scale Hamilton.

Dall’indagine è emersa una tendenza a sottovalutare le proprie capacità, limitandole. Tra le difficoltà evidenziate dal campione emerge una sensazione di malessere interno, la presenza di disturbi intestinali, sensazioni di disagio, preoccupazione per il futuro, difficoltà nell’addormentamento, preoccupazioni eccessive, mancanza di energie, problematiche relative al desiderio sessuale.

Gli aspetti positivi della personalità emersi nell’indagine riguardano l’avere fiducia in se stessi ed essere autonomi, mantenere la calma in situazioni difficili, avere fiducia negli altri favorendo le buone relazioni, saper affrontare le difficoltà al momento giusto e con fermezza, saper accettare i propri difetti e favorire il confronto costruttivo con gli altri.

Coping nelle patologie reumatiche autoimmuni

Per far fronte allo stress causato dalla propria condizione fisica, le persone che soffrono di patologie reumatiche autoimmuni, possono utilizzare alcune strategie di coping.

Ad esempio, cercando informazioni sulla propria patologia, condividendo e parlando con gli altri delle proprie preoccupazioni, seguendo le informazioni di una persona esperta di cui potersi fidare, cercando supporto nell’ambiente familiare e focalizzandosi sui propri punti di forza.

Bisognerebbe invece evitare di isolarsi dalle situazioni sociali chiudendosi in sé stessi e rassegnandosi alla propria condizione.

Anche quando sono presenti condizioni fisiche invalidanti, essere una persona resiliente è comunque possibile! Una persona resiliente riesce a mantenere i livelli di stress al di sotto di una certa soglia attraverso il potenziamento costante delle proprie risorse personali. Non esiste un singolo modo di essere resilienti, ma una serie di percorsi di resilienza multipli. Ogni persona può essere resiliente o vulnerabile a seconda della circostanze (Luthar, Doernbergher, Zigler, 1993).

Per rispondere in maniera positiva agli eventi stressanti è possibile utilizzare alcune strategie che consentono di implementare i propri livelli di resilienza.

Tra queste vi sono:

  • la response ability, la capacità di rispondere in maniera adeguata agli stressors;
  • valorizzare le proprie competenze personali, sociali e relazionali: stile di coping, letteralmente capacità di cavarsela.

L’importanza dello stile di coping è legata al fatto che esso si è rivelato uno dei fattori determinanti nel modulare le differenze individuali di reazione psicologica alla malattia e la qualità della vita dopo la diagnosi, nell’influenzare la risposta e la compilance ai trattamenti e forse anche il decorso biologico della malattia stessa ( M. Biondi, 1992).

Stili di coping e resilienza

Dalla ricerca di Kronhe e collaboratori del 1992, sono stati individuati diversi stili di coping:

  • ricerca di informazioni (razionalizzare);
  • cercare di condividere e parlare con gli altri delle proprie preoccupazioni;
  • sottovalutare la gravità della diagnosi (minimizzare);
  • tendenza alla fuga;
  • focalizzazione sugli aspetti positivi;
  • focalizzazione sulla propria forza;
  • distrazione;
  • autocompassione;
  • negazione;
  • sicurezza;
  • ricordo di precedenti eventi negativi;
  • banalizzazione generale;
  • banalizzazione attraverso la reinterpretazione.

Secondo una formulazione recente (Costantini, Biondi, 1990), il coping può essere suddiviso in due fasi sequenziali: una valutativa, centrata sui processi cognitivi di attribuzione di significato alla situazione stimolo e una seconda esecutiva, centrata su comportamenti operativi adottati dal soggetto.

Nel processo di coping inoltre, vengono anche valutate le proprie risorse e le capacità di far fronte allo stimolo stressante (Lazarus, 1993).

In particolare il coping può essere suddiviso in due tipologie (Lazarus, 1991):

  • emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti ad una situazione strassante;
  • problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo.

Generalmente, le persone poco resilienti utilizzano un coping orientato alle emozioni e all’evitamento. Ad esempio, per far fronte agli eventi critici cercano di ridurre le emozioni negative che accompagnano la percezione dello stress prendendo le distanze dalla situazione, fuggendo da essa e rifugiandosi in altre attività.

La persona resiliente invece, utilizza principalmente uno stile di coping orientato al problema e quindi alla gestione dell’evento stressante, adoperandosi attivamente con ottimismo e fiducia per modificare la situazione riducendo o prevenendo la fonte di stress.

Se le strategie individuali per affrontare la malattia sono funzionali ed efficaci allora l’adattamento può anche trasformarsi in una crescita personale, dal momento che costruiamo continuamente noi stessi attraverso esperienze di vita che cambiano continuamente. Al contrario se il tipo di situazione è troppo stressante o le capacità di affrontarla inadeguate è possibile l’insorgenza di reazioni psicopatologiche (M. Biondi, 1992).

Guarire dal lutto d’amore: superare la fine di una relazione e riscoprire se stessi

La fine di una relazione d’amore può essere causa di una sofferenza immensa, capace di attivare nel cervello le stesse aree cerebrali coinvolte nella dipendenza e nel dolore fisico. Se si riesce ad andare oltre la sofferenza, la fine di una storia può costituire anche un prezioso momento di scoperta di sé.

 

“Voglio guarire da una delusione d’amore e tornare quella che ero”. Sguardo tagliente, 30 anni, Chiara ha una richiesta ben precisa.

Sono tantissimi i pazienti che nelle strutture pubbliche e private si rivolgono allo psicoterapeuta per sintomi depressivi dovuti a un lutto amoroso, ovvero alla fine di una relazione d’amore. Perché disamare, dimenticare chi lascia, è devastante. Come testimonia la ricerca con sempre maggiore evidenza, il rifiuto da parte del partner può condurre a una sofferenza immensa, assimilabile a quella del tossico-dipendente che non può accedere alla sostanza. Fisher (Rutgers University, 2010) ha studiato come, dopo una rottura, anche solo pensare all’amato attivi aree del cervello coinvolte nella dipendenza e nel dolore fisico: l’area tegmentale mediale del mesencefalo (che controlla la motivazione), il nucleus accumbens e la corteccia prefrontale (parti del sistema di ricompensa della dopamina associate alla dipendenza da sostanza) e la corteccia insulare e cingolata (associata al dolore fisico). Quando subiamo un abbandono o un rifiuto soffriamo con l’intero corpo, ci sentiamo incapaci di proseguire la stessa vita che ora ci appare svuotata, faticosa o impossibile.

Ma soprattutto, come testimonia la ricerca (Slotter, Gardner e Finkel, 2009), la rottura di una relazione d’amore conduce a una perdita di identità.

La storia di Chiara

Chiara vive da sola e lavora nel mondo dell’editoria, ha un modo di fare assertivo e deciso. Ha un corpo minuto ma sensuale, e si muove senza indugi, come se nella vita non dovesse chiedere permesso o scusa a nessuno.

Nelle prime fasi della terapia mi appare leggermente sfidante. Il primo giorno mi dice: “La immaginavo più alta e coi capelli meno rossi”. Mi studia accuratamente e a volte tenta di imporre qualche piccola regola (cambiamenti di giorno, di orario). Inizialmente la assecondo: so quanto è difficile fermarsi su quella sedia nella stanza di terapia. Col tempo capirò che per lei tentare di dominare tutto è un tentativo di non soccombere.

Quasi subito rimango colpita dal suo acume e dall’ironia. È una ragazza dinamica, intraprendente e impulsiva.

Mi racconta le tante relazioni amorose vissute dall’adolescenza in poi. Storie da cui, a suo dire, è sempre uscita “vincente”: è sempre stata lei a lasciare. Ho a volte la sensazione che mi racconti le sue vicende intime, ricche di dettagli sessuali, per mettermi alla prova e vedere se mi scandalizzo o la giudico. Mentre ne parla mi studia con occhio quasi clinico, sta cercando di capire se potrà fidarsi di me. Mi racconta che da ragazza capisce quanto il sesso è un’arma potente per ottenere ciò che vuole: attenzioni, regali, viaggi, dedizione.

Le chiedo: Dove hai imparato che non è possibile chiedere senza dover dare qualcosa in cambio?

Lei ha già la battuta pronta: “I maschi vanno solo usati”, e lo dice mostrandomi orgogliosa una borsa costosa regalatale da un suo ex amante.

Poco più di un anno fa, nel corso di un “aperitivo di lavoro”, incontra Lorenzo, un po’ più grande di lei, sposato. Ma la cosa, dice, non la turbava: “Niente che non avessi già fatto prima o che non sapessi gestire. Credevo”.

Mi racconta con aria trasognata dei primi incontri, dei battibecchi per chi dovesse scegliere la musica da ascoltare in macchina perchè “lui aveva gusti orribili, Baglioni e altra roba melensa che giusto alle fiere di paese”. Prosegue: “Litigavamo anche per la tv! Mi è toccato vedere un sabato sera un documentario pesantissimo sulla Resistenza, ma le pare? Eppure abbracciata a lui stavo così bene… persino in questo quadretto da pensionati! Chi me lo doveva dire a me che sono sempre stata l’anima delle feste… Vedesse certe mie foto ai tempi d’oro!” La sua risata è nervosa, ma sempre contagiosa. È così che dopo alcuni mesi si rende conto di “essersi innamorata follemente, come non era mai capitato prima”. Si sente travolta, fino alla paura e all’annullamento di sé : “Facevo di tutto per vederlo, guidavo anche un’ora per beccarlo 5 minuti nella sua pausa caffè dal lavoro. Appena lui era libero io mollavo tutto ovunque fossi. Ho smesso di andare in palestra perchè temevo di perdere i suoi messaggi mentre ero in sala attrezzi. A un certo punto non ce l’ho fatta più. Ho cominciato a pregarlo di lasciare la moglie. Lui per un po’ mi ha fatto credere che lo avrebbe fatto”.

La relazione d’amore con Lorenzo è durata un anno. Ormai non si vedono più da un paio di mesi: quando Chiara si era fatta insistente e “pressante” lui ha interrotto ogni contatto e l’ha bloccata sul telefono. Lei si è comprata una seconda scheda da cui controlla i suoi ultimi accessi su whatsapp per l’illusione di avere ancora qualche contatto con lui. Guardando la schermata, se lui è online o meno, lei prova a immaginare dov’è Lorenzo, che fa. Mi dice che una settimana fa lui ha messo come immagine profilo una foto in cui è abbracciato alla moglie. Mentre parla il suo sguardo diventa di colpo opaco, il respiro accelera, gli occhi appaiono febbricitanti, ha un tremore. Il pianto si fa inconsolabile.

La vedo disarmata e nuda, e capisco quanta fatica ci vuole giorno per giorno a tenere dentro di sé questa angoscia, provando a schiacciarla e comprimerla con questi modi scanzonati, ironici, beffardi. Sento tutta la sua delusione, la sua rabbia, l’umiliazione di essere rifiutata e gettata via come una giacca che non ti piace più, fuori moda o fuori stagione.

Esplorando la sua storia di vita – e, lavorando in ottica sistemica, esplorando anche il trigenerazionale – apprendo che sua nonna era nota in famiglia come una donna “dominante”, che teneva suo marito “al guinzaglio”, e che Chiara si è sempre rivista in lei con fierezza. Mi parla invece di sua madre come di una “succube”, che non si è mai ripresa da quando il marito l’ha lasciata per un’altra, quando lei aveva circa 10 anni. “Ma ha fatto bene, mia mamma era una lagna”. Mi parla di sua madre con toni svalutanti, insofferenti, sarcastici. Del padre invece parla con ammirazione, anche se non lo vede di frequente. Con un velo di idealizzazione che però un giorno viene squarciato: “Quando ho compiuto 13 anni mio padre mi promise di portarmi a una mostra di Van Gogh, che adoravo. Mi preparai con molta cura. Lo aspettai con emozione, a lungo. E invece lui se ne era dimenticato”. In quel momento i suoi occhi si fanno lucidi e sfuggenti, cerca di trattenersi ma ormai è tardi, il trucco nero sbava sul viso impastato alle lacrime. Poi si riprende : “Quello che mi ha fatto più male però fu lo sguardo di mia mamma. Balbettava nel dirmi che papà non sarebbe venuto, inventava scuse per lui. Non voleva vedermi ferita. Quando ci penso mi sento in colpa: mi voleva proprio bene”.

Lungo la terapia Chiara dovrà entrare in contatto col dolore provocato dall’abbandono del padre, così come con la rabbia che non si è mai concessa di provare contro di lui. Non voleva sentirsi vulnerabile, abbandonata. Preferiva condannare la madre, che quasi “se l’era meritata”.

Eppure avevo la sensazione che dietro la rabbia sbandierata verso questa donna ci fosse altro. Forse il voler fuggire da una relazione d’amore all’altra senza mai rimanere nel rapporto (almeno fino a Lorenzo) tenendo – apparentemente – le redini di queste relazioni, non è solo un modo di incarnare il modello “vincente e dominante” della nonna contro quello “perdente” della madre. Potrebbe trattarsi, ad esempio, di un comportamento in qualche modo protettivo verso quest’ultima: come a dire che, in fondo, la relazione d’amore non è niente di desiderabile o comunque niente che possa essere gratificante a lungo termine, e che sua madre non si è persa chissà cosa. E anche la scelta di Lorenzo, un uomo sposato, si inserisce in questa scelta inconsapevole: lui non avrebbe mai potuto darle quello che lei vuole, e Chiara prima o poi si sarebbe ritrovata sola e delusa, proprio come sua madre.

Chiara fa un sogno ricorrente che spiega molte cose: cammina lungo un corridoio buio cercando trafelata qualcuno, e percorrendolo apre delle porte, una dopo l’altra. Dietro ogni porta trova uno specchio, cerca il suo riflesso ma lo specchio le restituisce un’immagine in cui lei non c’è: una stanza vuota. Continua, porta dopo porta, specchio dopo specchio, finché al termine del corridoio apre l’ultima porta, ma nello specchio non trova il suo riflesso bensì l’immagine di Lorenzo. Poi lo specchio si rompe e la stanza si trasforma in un burrone. Penso a quelle porte come alle sue relazioni. Storie vissute come tentativi di vedere se stessa e riconfermarsi nella sua immagine di donna “vincente” e protagonista, ma capaci solo di restituirle assenza e solitudine. Allo specchio dell’ultima porta, invece, vede Lorenzo. Come se nella relazione d’amore lei potesse cercare o solo se stessa o solo l’altro, non lei con l’altro.

Trovare se stessi nella fine di una relazione d’amore

Chiara – come tutti noi di fronte a una crisi che mette in gioco la nostra identità – sta imparando a scoprire chi è, aldilà dei ruoli che le hanno attribuito o delle caratteristiche che lei si è cucita addosso per non ascoltare quella sommersa e irrazionale credenza, legata al suo passato, che l’amore è pericoloso è che è meglio giocare e addomesticarlo. Credenza che poi – come i presagi più insidiosi del nostro inconscio – ha voluto dolorosamente confermare.

Costruiamo con lei uno spazio riflessivo in cui è possibile fermarsi e pensare, non solo agire. Attraverso i momenti di ipnosi che intervallano i nostri colloqui, navighiamo nelle acque del suo inconscio, sempre fervido e prolifico di immagini da scandagliare.
Proviamo a ritagliare uno spazio in cui è possibile ammettere di avere dei bisogni, come quello di essere amata, di appartenere a qualcuno. Quando si è piccoli e questi bisogni vengono delusi, infatti, è frequente che crescendo li si neghi del tutto a causa di un sentimento di vergogna e inadeguatezza.

Quando ci si riprende da un lutto d’amore, come nel caso di Chiara, si tratta in gran parte di un lavoro di integrazione: tra il bambino bisognoso d’amore che è in noi e l’adulto adattato e indipendente, o tra tutte quelle parti di sè che la persona sente di aver sperimentato per la prima volta con l’amato. Parti di sè che in realtà erano dentro di noi, che l’altro ha solo attivato. Parti o emozioni che abbiamo confinato nel rapporto con l’altro e che temiamo di non sentire più, mondi di cui riappropriarci. E parte del lavoro è anche perdonarci: crediamo che si è trattato di soccombere, ma forse è stato un modo per esplorarci, per andare a cercare queste nuove parti di noi. Chiara ha infatti scoperto la rabbia, che può essere una forza creatrice; la tristezza, che può dare un nuovo sguardo di profondità sulle cose; la tenerezza, quella che può provare e quella che può ricevere.

L’EMDR è un metodo standardizzato che ben si presta a lavorare con problematiche di lutto amoroso o dipendenza affettiva come quella di Chiara: attraverso la stimolazione dei movimenti oculari, questa tecnica permette di attenuare la carica emotiva dei ricordi. Si “desensibilizzano” dunque i ricordi felici (e oggi più dolorosi) con la persona amata e, attraverso la stimolazione bilaterale, si attenua il loro impatto emotivo, rendendoli più sfocati e apparentemente più lontani nel tempo. Mentre parallelamente si esplora ciò che per la persona ha significato la vicenda, si favorisce l’elaborazione dell’informazione grazie a questa tecnica che permette la sincronizzazione degli emisferi.

In una delle ultime fantasie guidate, attraverso l’ipnosi, Chiara immagina di rivivere quel sogno ricorrente e mi restituisce una bellissima immagine. Aprendo l’ultima porta di quel corridoio, questa volta allo specchio non vede nè il vuoto di quella solitudine insieme cercata e temuta, nè il volto di quell’uomo. Questa volta vede riflessa se stessa. Una Chiara che è ancora ironica e dissacrante – uno dei suoi lati più belli – ma si può soffermare a guardarsi. Può ammirare il suo sguardo tagliente, la bocca sottile, i tatuaggi che raccontano la storia che ha vissuto ma soprattutto quella che è ancora tutta da scrivere.

Nella vicenda di Chiara possono ritrovarsi tante e tanti di noi: un percorso doloroso dall’annullamento alla ri-definizione di sè. Alla ri-appropriazione della propria mente e del proprio corpo. Una liberazione da ricordi che erano trappole, una transizione e un affrancamento che riaprono il nostro respiro al mondo.

Nessuno sa dirlo come i poeti: è così, ad esempio, che chiude i conti Julio Cortazar:

Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
nè ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,

e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
nè qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
nè là fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.

Bullismo: le modificazioni nella struttura cerebrale delle vittime

Purtroppo, la maggior parte di noi è venuta a conoscenza o ha assistito a fenomeni di bullismo e di prevaricazione che riguardano gli adolescenti. Le conseguenze, per le vittime, potrebbero manifestarsi anche a livello neurofosiologico.

 

Le conseguenze comportamentali a breve termine del bullismo sono evidenti, ma potrebbe accadere che gli atti di bullismo abbiano delle conseguenze ben più gravi a livello neurofisiologico di quello che potremmo essere portati a pensare.

Bullismo: uno studio longitudinale

Uno studio del King’s College di Londra ha messo in connessione gli episodi di bullismo vissuti nel ruolo di vittima durante l’adolescenza e la salute mentale, misurata attraverso la strutturazione di due parti specifiche del cervello: nucleo caudato e putamen. Il responsabile della ricerca, Burke Quinlan ha affermato di aver scelto di studiare i cambiamenti a livello di struttura neuronale in queste due parti specifiche del cervello in quanto sembra che queste aree siano entrambe importanti per lo sviluppo di vissuti ansiosi.

Per indagare al meglio la relazione tra salute mentale e bullismo gli autori inglesi hanno reclutato 682 giovani partecipanti provenienti da Inghilterra, Irlanda, Francia, e Germania. I partecipanti sono stati reclutati quando avevano 14 anni e gli è stato chiesto di compilare (a 14, 16 e 19 anni) un questionario self-report riguardo l’essere stati vittime degli episodi di bullismo; si tratta pertanto di uno studio che ha seguito attraverso vari anni e varie fasi della vita i giovani partecipanti. Oltre al questionario self report sono anche state effettuate delle scansioni cerebrali ad alta risoluzione quando i partecipanti avevano 14 e 19 anni. Nel corso degli anni i soggetti sperimentali idonei allo studio si sono ridotti a 36 (coloro che avevano vissuto degli episodi di bullismo cronico).

Bullismo: gli effetti a lungo termine

Al compimento dei 19 anni di età dei soggetti sono stati misurate varie variabili:

I risultati dello studio sono riusciti ad associare alcuni problemi di salute mentale all’età di 19 anni (depressione ed ansia) con il fatto di aver subito ripetuti episodi di bullismo in adolescenza. Inoltre è stato anche riscontrato, nelle vittime, un decremento del volume del putamen e del nucleo caudato.

Questi ritrovamenti vanno ad aggiungersi alla già esistente mole di dati e risultati sugli effetti nefasti degli atti di bullismo. Gli autori chiudono la ricerca mettendo in guardia su tali conseguenze negative e raccomandandosi che tutti gli sforzi necessari vengano messi in atto per riuscire a contrastare al meglio questo fenomeno e a limitare i danni psicologici e neurologici a cui le vittime vanno incontro.

Identikit dello studente autoregolato: l’apprendimento tra emozione, motivazione e metacognizione

Lo studente “autoregolato” partecipa attivamente ai processi di apprendimento, mostrando un coinvolgimento non solo da un punto di vista motivazionale ma anche emozionale e metacognitivo.

 

Andare a scuola rappresenta una tra le attività più importanti nella vita dei bambini. Richiede loro di impiegare tempo, risorse ed energie, e allo stesso tempo di sperimentare le proprie abilità e di mettersi alla prova. Proprio per questo motivo, anche i genitori pongono molta attenzione nel monitorare l’andamento della vita scolastica dei propri figli.

Nell’osservare come si comportano i diversi bambini a scuola, appare chiaro come alcuni bambini, più di altri, mostrano un elevato livello di adattamento alla scuola e un genuino interesse per lo studio.

Autoregolazione e abilità scolastiche

Lo studente “autoregolato” partecipa attivamente ai processi di apprendimento, mostrando un coinvolgimento non solo da un punto di vista motivazionale ma anche emozionale e metacognitivo. Questi studenti dirigono i propri sforzi per acquisire conoscenze e abilità in modo autonomo, utilizzando strategie specifiche per raggiungere obiettivi di miglioramento. In particolare, le capacità di autoregolazione dell’ apprendimento sono predittive dei risultati scolastici degli studenti, in misura superiore al 90%.

La ricerca

A tal proposito, una nuova ricerca, svolta da University of Texas e pubblicata su Journal of Personality and Social Psychology, ha indagato quali caratteristiche dell’autoregolazione dell’ apprendimento siano associate a migliori risultati in particolare nelle abilità di lettura e matematica. L’autoregolazione dell’ apprendimento è tuttavia un costrutto molto ampio, che comprende sia capacità intellettuali sia caratteristiche di personalità.

I ricercatori, al fine di comprendere le abilità e le caratteristiche sottostanti all’autoregolazione dell’ apprendimento, hanno preso in esame un campione costituito da più di 1.000 gemelli, di età compresa tra 8 e 14 anni. In questo modo è stato possibile isolare e valutare l’impatto di fattori genetici e ambientali, riguardo all’associazione tra autoregolazione dell’ apprendimento e abilità accademiche.

I risultati

I ricercatori hanno evidenziato l’esistenza di un legame significativo tra il funzionamento esecutivo, che comprende la capacità di pianificare, organizzare e completare i compiti, e la competenza nella lettura e nella matematica. Questo collegamento è stato in gran parte spiegato da fattori genetici.

Dalla ricerca è emerso anche che i bambini che mostravano un elevato funzionamento esecutivo presentavano anche tratti di personalità connessi all’apertura, come curiosità intellettuale e sicurezza. Questi collegamenti sono stati attribuiti a fattori genetici condivisi (60%) e fattori ambientali (40%). 
Tuttavia, tali associazioni non sono state rilevate per le caratteristiche di personalità che descrivono quanto sia coscienzioso e diligente un bambino.

Tucker-Drob, tra gli autori dello studio, ha affermato:

Questo indica che alcuni dei fattori genetici che predispongono i bambini a fare bene a scuola, sono quelli che predispongono i bambini ad essere più aperti a nuove sfide, creativi, intellettualmente curiosi e sicuri delle proprie capacità accademiche.

Neuroetica delle Dipendenze – Report dal convegno di Trieste

Dal 3 al 5 dicembre 2018 si è svolto presso la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) a Trieste la quarta edizione della Scuola Neuroetica delle Dipendenze curata dal Prof. Stefano Canali (Laboratorio Interdisciplinare per le Scienze Naturali e Umanistiche).

 

L’evento è stato organizzato in collaborazione con l’Osservatorio sulle tossicodipendenze della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia (Azienda per l’Assistenza Sanitaria n. 2 “Bassa Friulana-Isontina”), l’Università di Roma Tre, Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, la Società Italiana Tossicodipendenze, la Società Italiana di Neuroetica e Filosofia delle Neuroscienze e infine con la Società Italiana di Storia, Filosofia e Studi Sociali della Biologia e della Medicina.

Dipendenze: l’importanza di un confronto interdisciplinare

Il razionale delle tre giornate riflette l’interesse degli specialisti del settore delle dipendenze verso le neuroscienze, le definizioni di malattie e l’impatto di esse nella collettività, confronto necessario ed importante per sviluppare linee di pensiero integrate e finalizzate a trattare al meglio i pazienti.

Sul sito dell’evento si legge che

L’affermazione delle neuroscienze sta diffondendo l’idea del primato del cervello e delle ricerche sul sistema nervoso per la comprensione della natura dell’uomo, dei suoi comportamenti normali o patologici, degli ambiti di autonomia e libertà, quindi di responsabilità dentro cui può muoversi un individuo nella sua normale vita di relazione, quando eventualmente si ammala e nel momento in cui accede al sistema di cura. Questa prospettiva è ulteriormente sostenuta dagli sviluppi delle neurotecnologie e della neurofarmacologia, che stanno proponendo strumenti di indagine sul cervello e di modulazione dei suoi stati sempre più potenti e potenzialmente efficaci in clinica e nella prevenzione dei disturbi del comportamento.

I relatori hanno presentato gli interventi attraverso la modalità frontale; la novità di questa edizione è stata l’introduzione di tavole rotonde successive ad ogni gruppo di interventi, promuovendo l’interazione pubblico/relatori, ponendo le basi per una modalità formativa in cui le risposte dei relatori risultano arricchenti e veicolano prospettive di lavoro, permettendo di uscire dal quadro canonico della lezione frontale ed inserendosi nella partecipazione attiva del pubblico verso i contenuti.

La necessità di un dialogo fra prospettive plurali, l’esigenza di coniugare vari approcci interdisciplinari, insieme alle tempistiche ridotte, hanno permesso interventi brevi ma precisi nel cogliere le criticità dei modelli, presentando soluzioni e aprendo ad un futuro ricco di nuove prospettive. Inoltre, i lettori hanno sperimentato la panoramica delle ricerche scientifiche attuali, gli argomenti chiave del dibattito odierno ed il ruolo che queste hanno sulla riflessione dello sviluppo dei futuri modelli di intervento.

Interventi maieutici, in grado di sviluppare nel pubblico linee di pensiero al di fuori del confine delle certezze e in grado di stimolare il dubbio che è alla base del processo di sviluppo dell’azione futura. Dubbio che non pone i professionisti nell’impossibilità dell’agire ma apre la strada a nuove e più raffinate modalità di accesso alla cura della sofferenza che i nostri pazienti portano.

Dipendenze: i contributi giunti a Trieste

Nello specifico, la scelta dei contenuti dei singoli interventi, dettata dalla volontà di rispondere a precise domande formalizzate e caratterizzanti l’edizione 2018, è stata proficua nonostante il limite temporale (da 15 a 20 minuti per relatore); in concerto con gli interventi del pubblico ha prodotto riflessioni di nota, alcune delle quali provo a sintetizzare.

Gli ultimi quarant’anni hanno visto svilupparsi e crescere l’interesse di cura verso gli individui con dipendenze, lo scenario clinico ha visto cambiamenti che sono stati descritti con la voce dell’esperienza sul campo. Per esempio, muovendosi inizialmente all’interno del paradigma riduzionista della psichiatria organicistica, attraverso lo sviluppo delle neuroscienze, si auspica ora la possibilità di un dibattito che renda conto dello sviluppo della neuroscienza cognitiva clinica e sia in grado di restituire nella clinica la fertilità dei risultati epistemologici conseguiti ad un livello sperimentale.

Ulteriore riflessione riguarda i servizi; strutturati esclusivamente per l’individuo dipendente da sostanze psicoattive, da circa 10 anni si rivolgono, in un’ottica preventiva, anche verso quel sottogruppo della popolazione caratterizzato dal consumo ma potenzialmente a rischio.

La trasmissione della cultura neurobiologica ha aiutato gli operatori a comprendere il funzionamento dei network cerebrali e la dinamica della biochimica all’interno del cervello, riducendo i pregiudizi e i giudizi di parte o moralistici verso i soggetti dipendenti.

Dipendenze e stigma sociale

A tal proposito, si è discusso molto sugli effetti dello stigma, sia dell’auto-stigmatizzazione sia della stigmatizzazione (es. il “tossico”), aspetti controversi, entrambi da ridurre nel contesto attuale. Sicuramente condividere le scoperte neurobiologiche contribuisce a ridurre determinati stigmi tra gli operatori in primis, ma è fondamentale che tali risultati siano estesi alla popolazione stessa. In questo senso, sembra particolarmente rilevante il ruolo della divulgazione scientifica con l’obiettivo di diffondere l’utilizzo di un linguaggio appropriato, nonché finalizzato alla responsabilizzazione del soggetto che fa uso di sostanze, attenuando la condizione di malato come scusante per i comportamenti messi in atto.

Nell’ottica storica, si ipotizzava che il soggetto dipendente esprimesse nell’uso e abuso di sostanze la perdita del controllo volontario del comportamento e che questo fosse associabile ad una “mancanza morale” o a un vizio del soggetto. Successivamente, la ricerca ha dimostrato e chiarito che anche gli individui con gravi dipendenze mostrano non solo di avere una visione complessa delle loro scelte, ma anche una capacità di gestione del loro rapporto con le sostanze in alcune situazioni. A tal proposito, in alcune nazioni i servizi hanno messo a punto delle strategie di rinforzo dell’auto-controllo erogando delle ricompense ai soggetti motivati a perseverare nell’astinenza; scelta difficile ma che contribuisce alla diminuzione nell’uso delle sostanze, insegnando che la perdita del controllo volontaria è un concetto confutabile. Se l’individuo mantiene il controllo della volontà, allora la dipendenza potrebbe essere definita al di fuori dei canoni di patologia mentale.

A sostegno, un elegante contributo, ha sottolineato come in passato si pensasse che l’azione controllata dal dipendente fosse regolata dalle conseguenze (Goal directed), cioè volta alla ricerca dell’incentivo, mentre attualmente si ipotizza sia determinata da stimoli abituali che la precedono.

Come ultima analisi storica, la cura della dipendenza è presentata attraverso l’ottica clinica, dove l’assenza di sintomatologia ha per molto tempo rappresentato l’obiettivo principale degli interventi, mentre oggigiorno si avverte la necessità, supportata dalla ricerca, di passare ad un “ottica riabilitativa”, con al centro il soggetto, la qualità della vita ed il suo funzionamento nella società, contesto nel quale dev’essere ben integrato, svolgendo attività lavorativa, sociale e relazionale in condizioni di astinenza.

Dipendenze: dall’obiettivo astinenza all’obiettivo recovery

La riabilitazione avrà quindi come obiettivo il recupero dell’equilibrio personale e relazionale, attraverso il concetto di guarigione funzionale (recovery).

In questo senso si è mosso il team che ha realizzato lo strumento per valutare il funzionamento del soggetto dipendente, l’icf-dipendenze che

Costituisce la prima applicazione italiana dell’ICF nell’ambito delle dipendenze patologiche. Prima che una dotazione di strumenti, si tratta di una prospettiva culturale e metodologica capace di rinnova profondamente l’approccio alla cura, gli obiettivi, le priorità di intervento, la collaborazione interprofessionale all’interno delle équipe.

Un ringraziamento particolare va riconosciuto ai pazienti curati dai servizi che volontariamente hanno portato la loro testimonianza rispetto alla propria storia di dipendenza dall’esordio alla guarigione, passando attraverso la consapevolezza e la cura degli operatori. Essi hanno raccontato i loro vissuti emotivi e le problematiche del pensiero desiderante insostenibile, mettendo in risalto le difficoltà riscontrate nell’uscita dalla dipendenza e nel mantenimento dello stato attuale senza ricadute nel craving, o come affrontarlo per arginare le possibili conseguenze delle eventuali recidive.

Le relazioni si sono alternate ad alcune comunicazioni libere proposte dai partecipanti, professionisti operanti nel territorio e ricercatori; a mio avviso, queste ultime hanno rappresentato un’occasione importante di condivisione tra i relatori e il pubblico, inclusi gli studiosi di fama nazionale ed internazionale che hanno preso parte alla Scuola, i quali hanno potuto esprimere un punto di vista informato su ricerche ed esperienze con le quali, altrimenti, non avrebbero modo di entrare in contatto. Un ulteriore esempio di valore aggiunto di cui la Scuola Neuroetica delle Dipendenze è fautrice privilegiata.

In ultima analisi sottolineo l’importanza di aver inserito nel piano organizzativo due cene di gruppo, durante le quali l’aspetto anche goliardico non ha oscurato ma amplificato la realizzazione della rete di contatti tra professionisti e permesso una maggiore conoscenza personale dei partecipanti. La splendida città di Trieste, con lo sfondo storico e culturale, ci ha accompagnato in brevi e piacevoli passeggiate dove la distanza interpersonale si è trasformata in collante di volontà espresso con modalità cooperativa e piacevolmente affascinate dalla ricerca della conoscenza.

La conclusione delle tre giornate di lavoro ha visto l’interesse condiviso del pubblico alla realizzazione di progetti di studio/intervento volti ad analizzare il fenomeno delle dipendenze in un’ottica di ricerca futura; i contributi dei vari professionisti e ricercatori andranno ad ampliare il quadro di conoscenza del fenomeno, oltre a proporre modalità di fronteggiamento del problema, sviluppare strategie per arginare le conseguenze e promuovere eventuali azioni di prevenzione.

Un ringraziamento particolare al Prof. Stefano Canali ed allo staff organizzativo per la realizzazione dell’evento.

EMDR e Disturbo di Panico. Dalle teorie integrate al modello di intervento nella pratica (2018) – Recensione del libro

EMDR e Disturbo di Panico. Dalle teorie integrate al modello di intervento nella pratica è un nuovo importante testo di Elisa Faretta che guida, passo dopo passo, nell’applicazione dell’ EMDR nel disturbo di panico.

 

Tra i disturbi d’ansia, il disturbo di panico (DP) è quello maggiormente diffuso nella nostra società, sia a livello epidemiologico, sia nel dialogo comune. Il panico e i suoi sintomi sono spesso invalidanti per chi li vive, possono portare a problemi lavorativi, relazionali e fisici. Sperimentare un attacco di panico può essere di per sé considerata come un’esperienza traumatica (Faretta, 2001, 2018). L’autrice del libro parte da questa considerazione per illustrare i vantaggi e l’efficacia del metodo EMDR nel trattamento di questa psicopatologia, definendolo come “un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento per il disturbo di panico. Ciò che il soggetto percepisce durante una crisi di panico è “una forte paura, incontrollabile, che lascia la persona inerme”, una sensazione seguita dalla percezione di perdere il controllo o di stare per morire. Questa sintomatologia diventa un evento di per sé stressante e traumatico nella propria storia di vita; diviene fondamentale, pertanto, rielaborare i ricordi legati al panico per un corretto approccio a questa psicopatologia (Faretta, 2018).

Prima parte: dalla definizione all’eziologia del Disturbo di Panico

Il libro EMDR e Disturbo di Panico si divide in due parti. La prima parte, più teorica, permette di esplorare il disturbo di panico e la sua definizione che si è modificata nel tempo, fino ad arrivare alle categoria diagnostica inserita nel 2013 nel DSM 5.

Uno sguardo viene rivolto anche all’eziologia del panico, con particolare attenzione alla teoria Polivagale di Porges, alle neuroscienze di Panksepp fino alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. Questo sguardo al panorama scientifico culmina con la più recente teoria dell’Adaptive Information Processing (AIP), base fondamentale del metodo EMDR. Secondo questo modello le Esperienze Sfavorevoli Infantili (ACEs) e i traumi successivi che non vengono adeguatamente elaborati predispongono il soggetto a una vulnerabilità alle esperienze stressanti, danneggiando le strategie di coping. Goldestein (1995) fu il primo ad affermare che i pazienti affetti da Disturbo di Panico sviluppano una difesa dissociativa; l’attacco di panico diviene così un elemento importante della storia di vita del paziente da trattare come evento traumatico di per sé.

Da qui si riprende il concetto chiave del libro, ovvero che l’ EMDR nel disturbo di panico può essere utile per elaborare il ricordo degli attacchi di panico (il primo, il peggiore, l’ultimo); elaborare le situazioni scatenanti legate al panico nel presente e sostenere e rafforzare una prospettiva futura adattiva per affrontare situazioni legate ai sintomi (Faretta, 2012). Inoltre, diviene fondamentale per il terapeuta prestare attenzione alla storia di attaccamento e alle esperienze infantili precoci stressanti da elaborare con EMDR, poiché l’insorgenza del Disturbo da Attacchi di Panico è correlata alla riattivazione di esperienze traumatiche precedenti, comprese separazione, lutto, malattia o un periodo di stress prolungato.

La prima parte del libro termina con un’analisi della letteratura sul Disturbo di Panico e il trattamento EMDR, evidenziando come una buona concettualizzazione del caso, in accordo con il modello AIP, possa portare, in un numero di sedute compreso tra 12 e 19, una remissione totale o parziale della sintomatologia riportata dal paziente.

Seconda parte: dalla teoria alla pratica, il trattamento EMDR individuale e di gruppo nel DP

La seconda parte, più pratica, illustra i fattori terapeutici, specifici e aspecifici, del trattamento, passando dall’importanza dell’alleanza terapeutica alla “dual attention”. Vengono spiegate nel dettaglio le fasi del protocollo EMDR nel Disturbo di Panico e i cambiamenti effettuati nelle 8 fasi del protocollo standard per arrivare a trattare il disturbo nella sua totalità. Il protocollo modificato comprende:

a) una psicoeducazione sul panico e sulle modalità utilizzate con l’ EMDR, con successiva scelta della stimolazione bilaterale (movimenti oculari o altre forme di stimolazione) più adatta alla persona attraverso l’esercizio del Posto al Sicuro;
b) definizione dei target da utilizzare (il primo attacco di panico, il peggiore per il paziente, l’ultimo attacco di panico);
c) scelta dell’immagine più disturbante per ogni target, associata alla cognizione negativa, individuazione della cognizione positiva, individuazione dell’emozione associata all’immagine peggiore del target e infine collocazione del disagio nel corpo;
d) individuazione ed elaborazione dei ricordi traumatici legati alla storia personale del paziente;
e) lavoro sul presente con relativa rielaborazione dei fattori scatenanti;
f) lavoro di rafforzamento di azioni positive nel futuro.

Il libro diventa così una vera e propria guida per il terapeuta, attraverso la spiegazione, passo dopo passo, di ogni fase del protocollo e degli accorgimenti che possono essere spesi nella pratica clinica. Dall’installazione delle risorse, al “Posto al sicuro”, sino alla chiusura e conclusione del protocollo.

Il quinto capitolo, dedicato alla descrizione di un caso clinico di disturbo di panico trattato con EMDR, aiuta il lettore a comprendere meglio le varie fasi del trattamento.

L’attenzione del lettore viene infine catturata dall’ultimo capitolo: il protocollo EMDR di gruppo per il disturbo di panico. Qui vengono mostrati i principali sviluppi dell’approccio EMDR applicato al gruppo e alle ricerche svolte negli ultimi 15 anni, sia in ambito clinico che emergenziale. Viene spiegato il protocollo di gruppo modificato per i pazienti che soffrono di DP; anche questo presenta delle modifiche al protocollo standard che vengono applicate in rapporto alla specificità del quadro psicopatologico. Rispetto al protocollo EMDR individuale viene data particolare importanza a:

  • concettualizzazione del caso;
  • interventi psico-educativi;
  • individuazione delle risorse interne al lavoro di preparazione con tecniche specifiche;
  • storia di attaccamento del paziente;
  • intervento con EMDR-Drawing Integration, cioè, l’elaborazione del target utilizzando il disegno e la stimolazione bilaterale.

Il gruppo viene visto come una risorsa in ambito terapeutico, non solo nell’applicazione del metodo EMDR, ma anche per la creazione della condivisione di vissuti ed esperienze con altre persone che vivono la stessa difficile condizione di vita.

Il libro si chiude con un’appendice che offre ai terapeuti una rassegna di alcuni strumenti fondamentali nel trattamento di pazienti con DP, quali ad esempio il questionario per la concettualizzazione del caso, le tecniche di stabilizzazione, i suggerimenti specifici di psicoeducazione al paziente.

Importanza del volume

Il libro di Elisa Faretta ha tutte le caratteristiche per dimostrarsi nel tempo una guida pratica e teorica sull’utilizzo dell’ EMDR nel Disturbo di Panico. Un prontuario da tenere sulla propria scrivania, utile per essere utilizzato per guidare i terapeuti nell’applicazione della tecnica, senza tralasciare importanti aspetti legati più strettamente alla sintomatologia del panico. Il capitolo finale sul gruppo stimola una serie di interrogativi che possono essere la base di partenza di future riflessioni e ricerche in ambito clinico e non solo.

Una storia di ristrutturazione di schemi interpersonali attraverso la musica

Ebbene sì, nei nostri studi, accade anche questo. Un paziente con uno schema il cui tema dominante è il senso di esclusione dal gruppo, da sempre.

 

Secondo quello che emerge dalle memorie associate, tra tanti, lui era quello messo da parte. Tra tanti, lui era quello umiliato, non considerato, beffeggiato. A casa, a scuola, da amici, da conoscenti.

Ad oggi, l’incontro con l’altro, è estremamente doloroso e, anche se nella realtà non c’è necessariamente un altro ostile che vada a confermare l’immagine del Sé, nella mente si attiva ugualmente.

Ristrutturare schemi interpersonali: si parte da un episodio

Non occorre che l’altro di turno dica o faccia qualcosa, anche se ovviamente questo può accadere per davvero, perché, nel momento esatto in cui si attiva il wish, si attiva, nella mente, la rappresentazione dell’altro negativa. In questo caso, secondo la procedura “se…allora” l’altro isola ed il Sé è meritevole: “non sono degno di fare parte del gruppo, non posso desiderare questo, non posso mostrare i miei interessi altrimenti l’altro mi criticherà”. Questo è il compito dello schema: attivarsi, far leggere la realtà in un certo modo, far soffrire. Spesso, fa soffrire davvero tanto. Soprattutto se non ne siamo consapevoli. Uno schema interpersonale maladattivo è una struttura cognitivo-affettiva attraverso cui attribuiamo il significato alle esperienze, su come gli altri risponderanno ai nostri desideri e su quali reazioni avremo di fronte alla risposta dell’altro. Queste strutture sono abbastanza stabili e guidano le nostre azioni all’interno delle relazioni interpersonali (Dimaggio et al., 2013).

Nella situazione del mio paziente, come in molti altri, il coping di evitamento è frequente. E, come sappiamo, esso è solo un tentativo per gestire l’attivazione emotiva negativa ma è disfunzionale in quanto rafforza l’immagine vulnerabile del Sé. Insieme all’evitamento c’è la ruminazione che sembra essere onnipresente. Per essere precisi, spesso è proprio la ruminazione che anticipa l’evitamento, in quanto coping cognitivo che precede quello comportamentale (Ottavi et al., 2017).

Durante una seduta, nel bel mezzo dell’analisi di un episodio, emerge che il motivo per cui il paziente era stato preso in giro era il tipo di musica che ascolta in macchina. Come necessario in TMI, i dettagli sono fondamentali; allora chiedo di descrivermi la scena e, alla domanda relativa a cosa stesse ascoltando, mi risponde: “gli Afterhours!”, con lo sguardo e la voce bassa, pronto a captare un minimo mio segnale che potesse farlo sentire come il sabato precedente nella sua macchina, mentre si stavano dirigendo in pizzeria con i suoi amici. Io mi raddrizzo sulla poltrona, non so se più soddisfatta perché stavo lavorando bene sull’episodio ed il paziente sembrava essere diventato bravo nel farlo, segno di un buon lavoro metacognitivo, oppure perché mi catapulto immediatamente in una scena in cui io canto a squarciagola un brano dello stesso gruppo con un’amica in macchina, ai tempi dell’università.

Ristrutturare schemi interpersonali.. con la musica

Beh, una validazione e una self disclosure ci stava tutta…e la seduta termina con un bel play su ” Ci sono molti modi”, degli Afterhours, ovviamente.

Il resto è storia TMI: lo schema è stato corretto, almeno per un pò.

Almeno per una volta l’altro è benevolo. Anzi, curioso, visto che il paziente mi lascia una lista di canzoni da ascoltare e lo farò sicuramente. Dopo un’ora dalla nostra seduta mi arriva un sms tramite il quale egli mi spiega il motivo del suo sguardo sorpreso. A quanto pare mai nessuno si è interessato ai suoi gusti, ai suoi interessi, lo prendevano in giro e basta. Io gli sono sembrata curiosa e nella prossima seduta, ci saremmo confrontati su altri brani. Questo avverrà certamente, ma prima sarà importante analizzare quello che è accaduto nella seduta precedente. Dare un nome alle emozioni vissute. Vedere come si sta in uno schema che, almeno per una volta, è diverso.

Ed io terapeuta? Beh, ero sinceramente incuriosita dalle sue preferenze musicali, da quello che lui sentiva dall’ascolto di un determinato genere di musica. Non mi sono dovuta sforzare. Probabilmente l’avrei fatto ugualmente ma la spontaneità è stata diversa.

Questo è solo un esempio di quello che può accadere durante il lavoro con i pazienti, il cui schema muove da desideri, quelli che Liotti e Monticelli (2008) chiamano Sistemi motivazionali interpersonali. Tra di essi vi è quello di affiliazione, senso di appartenenza al gruppo, inclusione sociale.

Intanto, vado ad ascoltare “Adesso è facile” e forse per un attimo, mi torna in mente il momento in cui, qualche amico dell’epoca, non gradiva quel genere di musica della mia macchina.

Chissà se anche questo ha contribuito a rispecchiarmi un po’ nel paziente!

Sadismo e comportamento aggressivo: infliggere una pena per sentirsi meglio

Il Sadismo nel DSM IV configura tutte le condotte in cui un soggetto ricava eccitazione sessuale e piacere dalla sofferenza non solo fisica ma anche psicologica della vittima.

 

I comportamenti sadici possono includere svariate pratiche di manipolazione della libertà e del confine psicofisico della vittima.

Sadismo: cos’è

Così come non c’è limite alla fantasia non c’è neppure limite nell’immaginare azioni volte a strutturare forme di sofferenza a maggiore livello di complessità: più comuni sono l’imprigionamento, la fustigazione, le percosse, la tortura fisica ma soprattutto psicologica. La persona sadica può giungere anche fino anche all’uccisione della vittima. L’apice del piacere per il sadico tuttavia non deriva tanto dal contemplare la sofferenza quanto dalla certezza dell’innocenza della vittima stessa. Ben più che le grida di sofferenza della vittima, al sadico interessano le sue proteste di innocenza, le implorazioni di perdono, le rimostranze, i tentativi vani nel convincerlo a desistere, a cessare la tortura o a non portare a compimento le paventate azioni violente. Tutto quello a cui la vittima si aggrappa viene strappato e rigettato in un meccanismo che contempla l’empatia solo come minaccia, unica forma di annichilimento dell’eccitazione. In molti sadici si ritrova una forma di distacco emotivo dalla vittima che ha il fine di accrescere il dislivello fra i due; la vittima, rendendosi conto della sua impotenza determina una eccitazione ulteriore da parte del sadico e un rinforzo della sua percezione di controllo.

Le persone con tratti di personalità sadici tendono ad essere aggressive, tuttavia queste traggono piacere dal loro comportamento aggressivo solo se danneggiano le loro vittime. Secondo una serie di studi condotti su oltre 2000 persone, i comportamenti aggressivi messi in atto dai sadici, alla fine, suscitano in loro un sentimento peggiore rispetto al momento prima della messa in atto del comportamento.

Sadismo: lo studio condotto per capirne i meccanismi

La ricerca compare su Personality and Social Psychology Bulletin, pubblicata da Society for Personality and Social Psychology.

Secondo l’autore principale dello studio, David Chester della Virginia Commonwealth University, le tendenze sadiche non solo esistono nei serial killer, ma anche nella gente comune e sono fortemente collegate ad un comportamento più aggressivo.

Nel mondo reale i sadici potrebbero essere i bulli, che denigrano gli altri per sentirsi meglio, oppure un gruppo di tifosi di uno sport che sfida e cerca contrasti con i tifosi della squadra rivale a causa della passione per lo sport comune.

In laboratorio, i ricercatori hanno misurato le tendenze aggressive e sadiche delle persone calcolando la probabilità del soggetto, partecipante all’esperimento, di cercare vendetta o danneggiare una persona innocente. In alcuni casi, attraverso eventi virtuali, facevano mangiare agli innocenti salsa piccante come punizione oppure li stordivano con forti rumori.

A seconda dei diversi scenari, si è visto che i soggetti aggressivi e con comportamenti sadici mostravano piacere nel causare danni agli altri, ma si è anche riscontrato che, in questi soggetti, l’umore generale era sceso dopo l’evento.

Gli autori non si aspettavano un impatto negativo sull’umore: questo potrebbe essere dovuto al modo in cui l’aggressività colpisce il cervello, facendo si che le persone percepiscano qualcosa di così piacevole, quando effettivamente crea l’opposto.

Sadismo: riflessioni sui risultati della ricerca e aspetti da approfondire

L’ipotesi, avanzata da David Chester, suggerisce che se si rompesse il legame tra piacere e dolore, cambiando il modo in cui il sadico percepisce il danno che infligge, o aiutandolo a capire come danneggerà l’altro, si potrebbe risolvere questo ciclo della violenza.

L’aggressività è spesso pensata come un prodotto di sentimenti negativi come rabbia, frustrazione e dolore, questa è solo una parte della verità. Infatti, le ricerche sul legame tra aggressività e sadismo suggeriscono come anche i sentimenti positivi siano, in parte, causa della violenza umana.

Le complesse relazioni tra i sentimenti positivi prima o durante l’aggressione nei sadici, insieme all’impatto negativo sull’umore, conseguente ad un comportamento sadico, suggeriscono che vi siano diversi modi per comprendere e affrontare la violenza.

Sarebbe interessante indagare, in futuro, le dinamiche delle emozioni che conducono a comportamenti aggressivi e sadici.

Sviluppo morale ed emotivo: un rapido intreccio verso la valorizzazione degli stili genitoriali

Lo sviluppo morale presenta una dimensione “affettiva” che deriva, secondo diversi autori, dallo stretto legame con l’empatia ed in particolare con alcune emozioni come il senso di colpa.

Bernardi Laura – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Potremmo definire lo sviluppo morale come quella capacità emergente che permette al bambino – futuro uomo –  di distinguere il “bene” dal “male”. Già Freud parlava di Super Io e interiorizzazione dei divieti genitoriali all’interno delle vicissitudini edipiche dai 3 ai 5 anni e di una dimensione “affettiva” della norma, legata al divieto. Fu però Piaget per primo a descrivere la moralità dal punto di vista di un processo che vede nella personalità dell’adulto le caratteristiche sviluppate durante l’infanzia. Grazie al suo contributo possiamo attenderci un itinerario cognitivo che vedrà inizialmente il bambino rispondere in maniera aderente alle regole, ai doveri e all’obbedienza all’autorità al fine di evitare una punizione. Crescendo, attraverso l’interazione con altri bambini, lo sviluppo morale assume secondo l’autore caratteristiche “più mature”: la regola viene affrontata criticamente e selettivamente basandosi su rispetto reciproco e cooperazione (Schaffer, 1998).

Gli studi di Piaget furono sviluppati successivamente da Kohlberg (1958), egli introduce la dimensione emotiva della morale, ipotizzando un suo stretto legame con l’empatia ed in particolare con alcune emozioni come il senso di colpa. La morale si svilupperebbe per apprendimento sociale: criteri morali assorbiti nell’infanzia e durante l’adolescenza dal contesto familiare e sociale, attraverso la maturazione da uno stadio all’altro, verranno poi mantenuti in età adulta, anche in situazioni diverse.

Non senza critiche, questi due approcci ci portano a segnalare come i primi anni di vita, in particolare dai sei ai tredici anni, hanno importanza non solo nella formazione della personalità, ma anche nel comportamento sociale e ci permettono inoltre di riflettere sull’esperienza morale come non “solo cognitiva” ma profondamente emotiva. Se osserviamo i  bambini in età prescolare li vediamo dare un grande peso alle espressioni, intenti a comprendere quale emozione una persona sta provando, questo consente loro di osservare gli effetti prodotti dalle proprie azioni e di osservare le reazioni che essi suscitano nelle altre persone. Il riconoscimento delle emozioni del viso è innato, basato sulle abilità dell’emisfero destro, quelle primarie espresse dal viso sono: tristezza e felicità, sorpresa, rabbia, paura/ansia e disgusto (Ekman, 1972).

Sviluppo morale ed emozioni empatiche

Parlare di emozioni ci porta ad introdurre il concetto di empatia alla base dei comportamenti altruistici e prosociali; fondamento dello sviluppo morale sono le emozioni empatiche: la simpatia e il dispiacere empatico (da cui prende origine il senso di colpa) esse inducono ad avere a cuore quello che succede ad altre persone e trattengono dal danneggiarle. Secondo Hoffman (2000), affinché l’empatia porti ad un comportamento morale, è fondamentale che l’individuo sperimenti “distress” cioè una situazione di disagio causato dall’empatia e simpatia come una preoccupazione per la condizione altrui che spinge a prendersi cura. Il passaggio dall’empatia al comportamento morale di aiuto (pro-sociale), tuttavia, non è scontato né immediato. Infatti, sebbene l’empatia sia innata, riguardo al comportamento pro-sociale ci sono molte differenze individuali, legate a fattori temperamentali, al genere e alla socializzazione genitoriale. È stata descritta una sequenza evolutiva da Eisenberg et al. (2006).

L’importanza del legame di attaccamento nello sviluppo morale

A tale proposito può essere utile citare la teoria dell’attaccamento che Bowlby definisce come “un legame verso una discriminata figura protettiva solitamente considerata più forte e/o più saggia” (1979). Il bambino coopera con le richieste genitoriali poiché il genitore è “valued, not feared” cioè i valori morali genitoriali sono fatti propri, non attraverso identificazione per paura della punizione, ma grazie ad una sempre maggiore capacità di autoregolazione, acquisita attraverso la qualità supportiva delle interazioni genitore-bambino (Bretherton, 1985). Identità e moralità relazionali, infatti, attraverso gli “standard interiorizzati” (Modelli Operativi Interni, MOI) possono guidare il comportamento del bambino già a partire dai 7 mesi (Buchsabaum & Emde, 1990).

Per suscitare il dispiacere empatico attraverso un intervento disciplinare è possibile far capire al bambino in che modo il suo comportamento ha danneggiato la vittima richiamando l’attenzione sulle conseguenze osservabili e suggerendo delle azioni di riparazione; ne consegue che interventi disciplinari meno efficaci sono quelli basati sull’asserzione del potere o sul ritiro dell’amore. La disciplina basata sul potere (non favorisce l’interiorizzazione); la disciplina basata sul ritiro d’amore (non favorisce l’interiorizzazione); la disciplina induttiva, basata sull’empatia e il “perspective taking” (favorisce l’interiorizzazione) (Grusec, 2006).

Secondo Hoffman, l’interiorizzazione morale avviene anche grazie agli “incontri” disciplinari, cioè le interazioni genitori/figli in cui i primi, con la disciplina, intervengono su un comportamento non desiderabile del figlio. In età prescolare, tali incontri coprono circa il 40-50% delle interazioni.

Sviluppo morale e competenze genitoriali

In letteratura sono presenti criteri che riguardano i parametri individuali e relazionali relativi al concetto di parenting (competenze genitoriali) riguardano lo studio delle abilità cognitive, emotive e relazionai alla base dei compiti e delle funzioni genitoriali. Bornstein (1995) classifica il parenting come una competenza articolata su 4 livelli: Nurturant caregiving: accoglimento e comprensione delle esigenze primarie dei figli (fisiche e alimentari); Material caregiving: le modalità con cui i genitori preparano, organizzano e strutturano il mondo fisico del bambino; Social Caregiving include tutti i comportamenti che i genitori attuano per coinvolgere emotivamente i bambini in scambi interpersonali; Didactic caregiving sono le strategie che i genitori utilizzano per stimolare i figli a comprendere i proprio ambiente. Secondo gli studi da lei condotti, i genitori si differenziano per 4 aspetti: la manifestazione del calore verso i figli, le strategie per disciplinare i figli, la comunicazione con i figli, le aspettative rispetto al livello di maturità dei figli. Da questi aspetti identifica 3 stili genitoriali:

  • Stile genitoriale autoritario: il genitore stabilisce regole che non possono esser messere in discussione. Un genitore autoritario si mostra come una persona fredda e raramente affettuosa. Applica una rigida disciplina. Raramente sollecitano l’opinione del bambino. Il bambino tende ad essere sgarbato e socialmente incompetente, difficilmente riescono a intrattenere relazioni stabili e affettuose, speso sono isolati dai compagni per i loro atteggiamenti aggressivi e antisociali, non prendono iniziative, non sono curiosi né spontanei, sono però obbedienti e rispettano l’adulto in quanto hanno paura delle punizioni.
  • Stile genitoriale permissivo: i genitori hanno poche richieste per i loro figli. Accettanti e non punitivi, non pongono limiti o controlli, sono poco severi. Questi genitori, pur considerati una risorsa per il bambino, non favoriscono però in lui la capacità di autoregolarsi.
  • Stile genitoriale autorevole: i genitori cercano di guidare le attività e i comportamenti del figlio, incoraggiando la comunicazione, nei confronti dei figli pongono richieste adeguate, motivate e spiegate, come strumento per far migliorare il bambino, non utilizzano le punizioni ma il ragionamento, sostengono le qualità e le potenzialità dei propri figli incoraggiandone le scelte. Non cercano in loro la perfezione ma accettano limiti e difficoltà.

Un genitore accessibile, fisicamente ed emotivamente, potrà essere in grado di percepire e valutare i segnali di pericolo e di disagio, e rispondere a tali bisogni in maniera amorevole, pronta, costante e adeguata. Ciò produrrà nel bambino un sentimento di sicurezza e, al fine della nostra prospettiva morale-emotiva: un migliore adattamento al mondo sociale. Una recente ricerca (Putnich e al., 2015) condotta su nove paesi diversi, compresa l’Italia, ha evidenziato che, al calore percepito nella tarda fanciullezza (8-10 anni) si associano minori condotte aggressive, minori sintomi di ritiro sociale o di depressione, una migliore prestazione scolastica e maggiori comportamenti prosociali a distanza di tre anni.

La Neurobiologia Interpersonale: lo sviluppo della mente tra rapporti interpersonali e funzioni cerebrali

La neurobiologia interpersonale (Siegel, 1999) è una disciplina che studia il modo in cui la mente si sviluppa a partire dalla reciproca influenza tra relazioni umane e struttura e funzioni del cervello: il focus di questo approccio è comprendere come il cervello dia origine ai processi mentali e come esso sia direttamente modellato dalle esperienze interpersonali.

 

Lo studio della neurobiologia interpersonale presenta una visione integrata di quanto lo sviluppo umano si concretizzi all’interno di un mondo sociale che, in transizione con le funzioni del cervello, dà origine alla mente (Siegel, 2001).

Attraverso gli studi che si occupano di neurobiologia interpersonale si possono comprendere quali sono i processi utili a facilitare lo sviluppo della mente, il benessere emotivo e psicologico, la resilienza durante la prima infanzia e forse durante tutta la vita. Alla base di questi processi vi è un meccanismo fondamentale di integrazione che può essere esaminato a diversi livelli, dall’interpersonale al neurologico (Siegel, 2001).

La neurobiologia interpersonale propone una definizione della mente scientificamente fondata e clinicamente utile, le cui caratteristiche principali sono: (1) l’essere sia embodied, nel corpo, che relazionale; (2) il saper regolare il flusso di energia e informazioni, l’energia e le informazioni possono fluire all’interno di un cervello o tra un cervello e l’altro. Saper controllare e saper modificare questo flusso di energie e informazioni, alla base di una sana regolazione, sono delle abilità che possono essere insegnate nelle famiglie con attaccamento sicuro, in psicoterapia e in altri contesti educativi che promuovono la capacità di vedere e dare forma al mondo interno. Questa capacità, chiamata “visione mentale“, consente all’individuo non solo di percepire la vita mentale interna propria e altrui con maggiore chiarezza, ma illumina anche su come si può cambiare questo mondo interiore per raggiungere un migliore stato di salute. La salute dal punto di vista della neurobiologia interpersonale è definita come integrazione (Siegel, 2011). L’integrazione è un meccanismo di base in cui gli elementi di un sistema sono differenziati o specializzati ma collegati o connessi tra loro, proprio come un coro durante un concerto, in cui ogni cantante ha una voce differente ma si collega agli altri membri del gruppo dando vita a un suono armonioso. L’armonia è il risultato dell’integrazione. L’integrazione è dunque quel processo che favorisce il benessere psicologico, attraverso le esperienze di attaccamenti sicuri (Siegel, 2001). Quando un sistema non è integrato, ci si muove verso il caos, la rigidità o entrambi.

Padre della neurobiologia interpersonale è Daniel Siegel, clinical professor di Psichiatria presso la facoltà di Medicina della UCLA (University of California, Los Angeles), dove fa parte del Center for Culture, Brain, and Development ed è codirettore del Mindful Awareness Research Center; è inoltre direttore esecutivo del Mindsight Institute, ente di formazione che fornisce servizi di apprendimento online e lezioni svolte di persona, incentrati entrambi sui modi in cui è possibile accrescere la mindsight in individui, famiglie e comunità attraverso l’esame dei punti di contatto presenti nei rapporti interpersonali e dei processi biologici di base degli esseri umani.

Relazioni, cervello e mente

Le relazioni sono il modo in cui energia e informazione vengono condivise, mentre ci connettiamo e comunichiamo l’un l’altro. Il cervello riguarda il meccanismo fisico attraverso cui energia e informazione fluiscono. La mente è il processo che regola il flusso di energia e informazione. Queste tre dimensioni formano il triangolo del benessere.

Come anticipato, possiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema da cui risultano flessibilità e armonia; quando l’integrazione manca, si manifestano caos e rigidità.

Nel momento in cui si trasferisce questo modello alla mente umana, si riscontra che una mancanza di integrazione produce sintomi e sindromi che si potrebbero forse considerare disturbi mentali.

La neurobiologia interpersonale si avvale di un’ampia varietà di discipline scientifiche, contemplative e artistiche. Lo stato di salute viene determinato dal processo di integrazione tra mente, cervello e relazioni.

Dall’attaccamento alla neurobiologia

In che modo le relazioni di attaccamento influiscono sulla nostra mente? Il bambino viene al mondo geneticamente programmato per stabilire dei legami di attaccamento con i propri caregiver che diventeranno, così, le figure di attaccamento del bambino (Cassidy & Shaver, 1999). L’ attaccamento può stabilirsi con la madre, il padre e altri individui che forniscono vicinanza e assistenza al bambino che cresce. L’attaccamento è considerato un sistema motivazionale: un sistema innato, adattivo, biologicamente determinato, che spinge il bambino a creare alcuni attaccamenti selettivi nella sua vita. Le relazioni di attaccamento forniscono al bambino: (1) la vicinanza, ricercata dal bambino, alla figura di attaccamento; (2) un senso di un rifugio sicuro, a cui rivolgersi quando il bambino si sente in pericolo; e (3) lo sviluppo di un modello operativo interno riferito alla base sicura e a Sé, ovvero uno schema interno del Sé con la figura di attaccamento e del Sé. Una figura di attaccamento che gli fornisce sicurezza, gli consentirà di esplorare il mondo, avere un senso di benessere e calmarsi nei momenti di angoscia (Bowlby, 1969).

Anche se il sistema di attaccamento è programmato nel cervello, le esperienze che un bambino fa nel corso della sua infanzia, vanno a modellare tale sistema. L’esperienza sollecita l’attivazione di neuroni cerebrali che rispondono agli eventi sensoriali dal mondo esterno o alle immagini generate internamente dal cervello stesso (Gazzaniga, 1995; Kandel & Schwartz, 1992). Quando i neuroni, strettamente interconnessi tra loro in particolari circuiti cerebrali, sono attivati, si creano i processi mentali. Il cervello crea una “mappa neurale” o “rete neurale”, ovvero un modello specifico di attivazione neurale in particolari regioni cerebrali, che serve a creare un’immagine mentale, un’immagine sensoriale o una rappresentazione linguistica di un concetto o di un oggetto (Siegel, 2001).

Secondo Siegel (2001) il substrato neurale consente la formazione anche di un Sé emergente, un proto sé, determinato in gran parte da caratteristiche genetiche e costituzionali. Questo senso di sé è radicato nel cervello così come nelle sue interazioni con l’ambiente. D’altra parte, la mente del bambino sembra sviluppare un processo fondamentale in cui anche gli stati mentali dell’altro vengono rappresentati all’interno del funzionamento neuronale del cervello (Stone, Baron-Cohen e Knight, 1998).

Il senso dell’agire, la coerenza, l’affettività e persino la continuità del sé (memoria) sono influenzati dall’ interazione con gli altri. Il primo ambiente in cui il bambino costruisce questo senso di Sé è nell’interazione col caregiver: il proto-sé si trasforma nell’interazione con l’altro e le relazioni affettive in cui ci si prende amorevolente cura del bambino, rispondono al suo bisogno di amore e attenzioni, andando a formare uno schema di Sé come bambino meritevole di amore. Queste relazioni consentono al sé in continua evoluzione di avere un senso di coerenza essenziale per la crescita: il sé diventa integrato.

Quindi le interazioni emotive con le figure di attaccamento sono di primaria importanza nel dare forma al nucleo centrale (qui-e-ora) e autobiografico (passato-presente-futuro) del senso di sé.

Questo modo in cui il cervello crea le immagini di sé e di altre menti è definita da Siegel “mindsight“: capacità complessa che si sviluppa durante l’infanzia e che può diventare continuamente più arricchita durante l’intero arco di vita (Aitken e Trevarthen, 1997).

Sebbene ci concentriamo su regioni e circuiti particolari del cervello, non va dimenticato che il cervello è un insieme complesso di sistemi integrati che tendono a funzionare insieme. La mente è creata da tutto il cervello. Ecco perché per Siegel è importante parlare di “Integrazione”. Quando alcuni sistemi non sono ottimali, a causa di esperienze negative di attaccamento, la mente del bambino può funzionare come un sistema non integrato.

Dunque: l’esperienza implica l’attivazione di neuroni. In questo modo, l’esperienza modella la funzione dell’attività neurale nel
momento e può potenzialmente modellare la struttura in continua evoluzione del cervello durante l’intero arco di vita. Recenti scoperte delle neuroscienze suggeriscono infatti che il cervello è plastico, aperto a continue influenze dall’ambiente, per tutta la vita. Questa plasticità può implicare non solo la creazione di nuove connessioni sinaptiche tra neuroni, ma anche la crescita di nuovi neuroni nel corso della vita (Barbas, 1995; Benes,1998).

Le connessioni umane creano le connessioni neurali dalle quali emerge la mente” (Siegel, 1999). È in questo modo che le esperienze interpersonali, a partire dalle relazioni di attaccamento, modellano direttamente lo sviluppo del cervello umano guidato geneticamente.

Non a caso i bambini con attaccamento sicuro sembrano avere maggiori risultati positivi nel loro sviluppo (Cassidy & Shaver, 1999): flessibilità emotiva, funzionamento sociale e abilità cognitive. Alcuni studi suggeriscono che la sicurezza dell’attaccamento trasmette una forma di resilienza di fronte alle avversità future. In contrasto, una serie di studi suggerisce che le varie forme di attaccamento insicuro possono essere associate a rigidità emotiva, difficoltà nelle relazioni sociali, menomazioni dell’attenzione, difficoltà nel comprendere la mente degli altri e minore gestione delle situazioni stressanti.

Una forma di insicurezza dell’attaccamento, chiamata “disorganizzato / disorientato”, è stata associata a marcate menomazioni nei domini emotivo, sociale e cognitivo. Negli individui con questa forma di attaccamento è stata dimostrata anche una predisposizione verso la condizione clinica di dissociazione in cui la capacità di funzionare in modo organizzato e coerente
è palesemente alterata (Carlson, 1998; Liotti, 1992; Main & Morgan, 1996; Ogawa, Sroufe, Weinfeld, Carlson, & Egeland, 1997).

Come l’attaccamento influisce sulle funzioni cerebrali?

I lati sinistro e destro del cervello sono anatomicamente isolati tranne che per le connessioni effettuate direttamente attraverso delle bande di tessuto neurale chiamato corpo calloso e le commessure anteriori (Trevarthen, 1990) che si sviluppano durante la prima decade di vita. Nei bambini che in tenera età hanno subito abuso è risultato compromesso lo sviluppo del corpo calloso, oltre a un diminuito sviluppo del cervello nel suo insieme (DeBellis et al., 1999a, 1999b). Un forte stress è tossico per il cervello in crescita.

In generale, una vasta gamma di studi sugli esseri umani suggerisce che le funzioni isolate dei due emisferi possono essere “integrate” in condizioni normali nello sviluppo della mente. Per esempio, la complessa capacità di mindsight richiede l’integrazione di alcuni aspetti del funzionamento dell’emisfero destro e sinistro (Stone et al., 1998). Quindi, normalmente viviamo
una fusione di funzioni di destra e sinistra. Tuttavia, la separatività anatomica di questi due emisferi consente anche l’isolamento funzionale in determinate condizioni. Tale isolamento può produrre un funzionamento “non integrato” e la conseguente compromissione di alcuni complessi processi mentali. La dissociazione può essere una sindrome clinica che riflette questa dissociazione mentale dei processi (Siegel, 1996).

L’emisfero destro si occupa della regolazione diretta dei processi corporei, si occupa di espressione e percezione affettiva, si specializza nell’elaborazione delle immagini percettive, media il ricordo autobiografico, ed elabora le informazioni in modo “olistico”. La capacità di mindsight può dipendere, in generale, dall’integrazione di un numero di queste elaborazioni di informazioni fisiche, emotive e sociali in circuiti che risiedono prevalentemente nella parte destra del cervello e che si interconnettono con quelli dell’emisfero sinistro.

Il lato sinistro del cervello, non è molto in grado di “leggere” le espressioni non verbali e le emozioni degli altri, ma elabora le informazioni utilizzando principalmente un “ragionamento sillogistico”, cercando la causa ed stabilendo relazioni tra eventi in modo lineare e logico.

Secondo Siegel un attaccamento non sicuro ha un forte impatto sul cervello in crescita del bambino (Siegel, 1999). L’emisfero destro è il lato dominante del cervello durante i primi anni della vita del bambino (Chiron, Jambaque, Nabbot, Lounes, Syrota,
& Dulac, 1997): cresce più rapidamente ed è più attivo (Thatcher, 1997). In effetti, le aree dell’emisfero destro all’interno della corteccia prefrontale che regolano la funzione corporea e la comunicazione emotivamente sintonizzata sembrano svilupparsi attivamente durante questo periodo (Schore, 1994, 1996). Ma è la connessione con l’emisfero sinistro, in grado di stabilire i nessi causa-effetto, a garantire la capacità di comprendere il perché delle emozioni e dei comportamenti degli altri. Quindi, la comunicazione del caregiver con il bambino durante i primi anni di vita può aiutare a modellare dapprima l’emisfero destro (attraverso le comunicazioni non verbali e la sintonizzazione emotiva) e successivamente l’emisfero sinistro (con l’emergere dello scambio verbale), migliorando così la connessione tra i due emisferi e favorendo la capacità di mindsight.

Neurobiologia interpersonale e psicopatologia

Un evidente campo di applicazione della neurobiologia interpersonale risulta essere il trattamento degli individui che hanno subito un trauma. In questa situazione infatti la mente è stata incapace di integrare i vari aspetti delle travolgenti esperienze traumatiche o di perdita.

Con questa condizione irrisolta, il funzionamento delle regioni prefrontali di integrazione diventa temporaneamente alterato e l’output comportamentale è guidato più dagli stati emotivi e dagli impulsi delle regioni inferiori del cervello senza i processi più riflessivi e razionali degli input neocorticali superiori. In questa situazione i comportamenti diventano riflessivi e la mente si riempie di modelli di risposta profondamente inflessibili: le emozioni possono inondare la mente e rendere il pensiero razionale e il comportamento consapevole abbastanza alterato (Siegel, 2001).

Ciò può produrre reazioni emotive eccessive, turbolenze interiori e un conseguente senso di vergogna e umiliazione. In tali condizioni, l’individuo può essere incline a manifestazioni di “rabbia infantile” e aggressività o a comportamenti invadenti o violenti, mentre è gravemente compromessa la capacità dell’individuo di mantenere una comunicazione collaborativa con gli altri.

Ma secondo Siegel (2011) un esame del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) attraverso la prospettiva della neurobiologia interpersonale rivela che ciascuno dei sintomi delle varie sindromi è un esempio di caos, rigidità o entrambi. Da questa prospettiva, il DSM è in realtà una descrizione di esempi di integrazione compromessa.

Promuovere la salute psichica con le relazioni

Abbiamo visto come l’attaccamento abbia un ruolo centrale nel determinare i i processi di integrazione, fondamentali per il benessere psichico delle persone.

Gli effetti delle relazioni di attaccamento, fortunatamente, non sono deterministici e nel corso della vita, le persone hanno la possibilità di ristabilire nuovi attaccamenti e trovare nuove “basi sicure” (Bowlby, 1969), come accade ad esempio nella relazione terapeutica.

Esistono degli ingredienti essenziali per stabilire una relazione d’attaccamento di tipo sicuro, che a detta di Siegel possono ritrovarsi o essere ricostruiti nelle successive relazioni, alla base del benessere psichico e della resilienza.

Le interazioni interpersonali possono facilitare il processo di integrazione, possono produrre collegamenti tra reti neurali soprattutto attraverso la comunicazione delle emozioni, elemento centrale nella comunicazione interpersonale. La condivisione interpersonale degli stati emotivi primari è una forma di “risonanza”, fondamentale nel processo di integrazione. Condividendo i processi emotivi, si uniscono e si integrano le menti: la risonanza emotiva che sorge con coerenza narrativa all’interno di rapporti diadici sintonizzati può creare un profondo significato e una connessione dentro se stessi e con gli altri. Questi processi integrativi sono al centro del benessere emotivo e psicologico e della resilienza.

Affinché le relazioni possano aiutare a stare meglio, secondo la neurobiologia interpersonale, devono possedere semplici ma importanti competenze di base: la comunicazione collaborativa, il dialogo riflessivo, la riparazione interattiva, la narrativizzazione coerente e la comunicazione emotiva.

Neurobiologia interpersonale e psicoterapia

Che cosa offre la neurobiologia interpersonale alla psicoterapia? Cosa dice riguardo a come lavorare in terapia? Le esperienze terapeutiche che guidano l’individuo verso il benessere devono promuovere l’integrazione e contrastare la rigidità e/o il caos che si traducono in condizioni di vita inflessibili, disadattive, incoerenti e instabili: sintomatiche dunque.

Da un punto di vista clinico diventa interessante vedere la psicopatologia e i disturbi mentali come un deficit di integrazione: in questa cornice compito del terapeuta sarà, attraverso diversi strumenti, aumentare l’integrazione nel paziente, favorendo il cambiamento verso uno stato maggiore di benessere.

Tre esperienze umane favoriscono questo processo, promuovendo il benessere: attaccamento sicuro, meditazione mindfulness e psicoterapia efficace.

Nell’ottica della neurobiologia interpersonale, di fondamentale importanza è la consapevolezza mindful. Una serie di studi rivela che la pratica della mindfulness porta a cambiamenti sia funzionali che strutturali nel cervello. Avere un atteggiamento Mindful significa saper “guidare” consapevolmente la nostra attenzione; uno degli obiettivi della pratica è infatti quello di aumentare il nostro grado di consapevolezza che ci permette di osservare il cambiamento, ma anche i nostri automatismi di pensiero, le nostre emozioni e il modo in cui la mente si ancora a questi oggetti di per sé intrinsecamente mutevoli.

La promozione dell’integrazione si può ottenere, inoltre, attraverso almeno nove domini che, una volta appresi dal terapeuta, possono rivelarsi estremamente utili all’interno del processo di psicoterapia (Siegel, 2006):

  1. Integrazione della coscienza: implica lo sviluppo di forme esecutive di attenzione a cui sono associate maggiori capacità di autoregolazione, come la regolazione delle emozioni, la reazione allo stress e le capacità sociali avanzate. Condurre delle sedute di psicoterapia che abbiano un focus di attenzione su vari domini (mentale, somatico e interpersonale) può creare  nuove connessioni sinaptiche
  2. Integrazione verticale: implica l’integrazione di elementi anatomicamente e funzionalmente differenziati dei nostri corpi, dalla nostra testa alle nostre dita dei piedi. L’integrazione verticale collega direttamente questi elementi all’interno della consapevolezza in modo tale che nuove connessioni possano essere stabilite.
  3. Integrazione bilaterale: si riferisce all’integrazione delle funzioni esercitate dall’emisfero destro e da quello sinistro
  4. Integrazione della memoria: focalizzare l’attenzione sui pezzi di puzzle della memoria implicita per essere assemblati nei ricordi semantici e nei ricordi del Sé. I ricordi intrusivi di una persona, in questo modo, si inseriscono all’interno di una conoscenza più profonda del passato.
  5. Integrazione narrativa: attraverso una cosciente riflessione narrativa si può scegliere di rilevare ed eventualmente modificare i vecchi schemi disadattivi.
  6. Integrazione di stato: si riferisce al modo in cui possiamo riconoscere e accettare i nostri stati mentali attraverso i quali ci rapportiamo alla vita e agli altri e le loro esigenze di definizione nel tempo.
  7. Integrazione temporale: capacità riflessiva di collegamento tra passato, presente e futuro che ci aiuta a prendere in considerazione i nostri scopi di vita.
  8. Integrazione interpersonale: lo stato di attivazione cerebrale nel terapeuta funge da fonte vitale di risonanza emotiva che può alterare profondamente i modi in cui il cervello del paziente si attiva nel qui ed ora della terapia. Queste esperienze interattive col terapeuta permettono al paziente di “sentirsi sentito” e compreso e possono anche far stabilire nuovi schemi di attivazione della rete neurale.
  9. Integrazione traspirazionale: man mano che i pazienti vanno avanti nel raggiungere nuovi livelli di integrazione attraverso gli otto domini sopra descritti, iniziano a sentire un diverso senso di connessione con se stessi e con il mondo, come se fossero connessi a un insieme più ampio, rispetto al precedente senso di isolamento.

Dunque, secondo la neurobiologia interpersonale, le relazioni come quelli tra parenti, amici, la psicoterapia e l’ambiente collaborativo di comunità potrebbero facilitare lo sviluppo di un’auto-regolazione flessibile e uno stile di vita integrato per tutte le età. Se si riuscisse a trovare un modo per facilitare l’integrazione neurale all’interno delle menti degli individui nel corso della vita, si potrebbe essere in grado di promuovere un più compassionevole mondo delle connessioni umane.

Non pensarci, pensa ad altro! La strategia di soppressione e controllo dei pensieri a seguito di un lutto 

Gli individui classificabili come evitanti tendono a mettere in atto un processo di controllo e di evitamento che si basa sull’attenzione selettiva per far sì che rappresentazioni mentali, per esempio pensieri relativi alla persona amata deceduta, non arrivino alla coscienza.

 

Sono considerate evitanti, le persone che tendono ad attuare una strategia di soppressione degli stati emotivi negativi.

In situazioni di lutto, per esempio, tale meccanismo di soppressione (o evitamento) viene messo in atto nel momento in cui si cercano di controllare i propri processi mentali attraverso l’attenzione selettiva per bloccare le intrusioni mentali relative alla persona deceduta. Sebbene possa sembrare molto utile, l’ evitamento non è una strategia efficace nella gestione delle emozioni o dei pensieri problematici in quanto è altamente faticosa per l’individuo. Infatti, consuma molte energie a livello cognitivo, esercitando infine un effetto paradosso: invece di tenere lontani i pensieri relativi al defunto, li riporta alla coscienza.

Al contrario gli individui con uno stile di coping meno evitante si focalizzano su uno stimolo o un compito presente e concreto, su ciò che hanno davanti, senza provare a monitorare in maniera eccessiva i loro stati mentali interni, ottenendo maggiori benefici.

L’ evitamento del dolore può avvenire anche in modo inconsapevole?

Uno degli approcci più disfunzionali e meno efficaci è proprio l’ evitamento del dolore, uno stato in cui le persone afflitte dalla perdita si impegnano in sforzi notevoli, impegnativi, ripetitivi e spesso fallimentari per bloccare i pensieri relativi alla loro perdita. Finora, i ricercatori hanno mostrato come gli evitanti monitorano, consapevolmente, l’ambiente esterno per evitare stimoli che potrebbero rievocare il ricordo del defunto, ma non è stato ancora chiarito se essi si cimentino nel monitoraggio e nel controllo dei loro stati mentali in maniera inconsapevole, tentando per esempio di bloccare l’emergere nella coscienza dei pensieri relativi alla perdita.

Un recente studio nato dalla collaborazione tra la Columbia Engineering e la Columbia University dimostra che chi utilizza strategie di evitamento cognitivo effettivamente monitora e blocca i contenuti del mind-wondering in maniera inconsapevole.

I ricercatori hanno osservato 29 soggetti in lutto al fine di capire qual è il funzionamento del suddetto meccanismo di evitamento. Durante la ricerca, sono stati tracciati i processi di controllo mentale attivi nei soggetti durante 10 minuti di mind-wondering, dando evidenza di come i pensieri correlati alla perdita accedevano e fuoriuscivano dalla coscienza. Per tracciare le interazioni tra i processi mentali i ricercatori hanno utilizzato un nuovo approccio che consiste nell’utilizzo di una machine learning per la risonanza magnetica funzionale (fMRI), un sistema chiamato “decodifica neurale”. Esso stabilisce un pattern neurale o impronta digitale che può essere utilizzato per determinare il momento in cui un qualsiasi processo mentale si sta presentando.

La sfida più grande di questo studio è stata proprio quella di riuscire ad osservare sotto la superficie di uno stato naturale di mind-wondering, in modo da esaminare quali processi sottostanti stessero controllando le esperienze dei partecipanti. Si tratta del primo studio che ha cercato di evidenziare il costante controllo esercitato dagli individui sui propri processi mentali attraverso l’attenzione selettiva, che si attiva in modo spontaneo e inconsapevole.

Il team di ricercatori ha registrato attraverso fMRI l’attivazione neurale in persone in lutto per un parente di primo grado negli ultimi 14 mesi. I soggetti hanno partecipato al test di Stroop, ampiamente utilizzato in psicologia per misurare l’abilità di una persona a controllare i contenuti dell’attenzione. Oltre al compito di Stroop, ai partecipanti sono state presentate foto e storie del deceduto. Utilizzando la macchina per la decodifica neurale, i ricercatori hanno formato le rispettive impronte digitali neurali attraverso il controllo dell’attenzione ricavato dal test di Stroop e la rappresentazione mentale dei defunti basata sulle foto e sulle storie presentate.

Il gruppo di ricerca ha evidenziato che i partecipanti caratterizzati da una strategia di coping al lutto più tendente all’ evitamento utilizzavano processi di controllo attentivo per evitare che le rappresentazioni mentali del defunto arrivassero allo stato di consapevolezza. Nonostante ciò, gli individui non erano consapevoli di mettere in atto tale meccanismo.

In conclusione

Gli evitanti, pertanto, controllano non solo attivamente ma anche in maniera inconsapevole i loro stati mentali in modo che i pensieri spontanei relativi al lutto non entrino nella loro coscienza. Questa tipologia di mind-wondering prosciuga profondamente le loro energie mentali e, infine, conduce a momenti in cui i pensieri riguardo il lutto effettivamente giungono alla coscienza.

Al di fuori della nostra consapevolezza, sembra dunque che gli individui che hanno una tendenza all’ evitamento cerchino costantemente di revisionare le proprie esperienze mentali per controllare cosa pensare e cosa non pensare. Ma quest’operazione di revisione e controllo, come abbiamo visto, non è sempre utile.

Il posto delle fragole (1957) – Recensione del film

Isaak Borg è un medico anziano, ormai in pensione, che dovrà affrontare un viaggio molto lungo da Stoccolma, città in cui egli vive, per ritirare un premio presso la cattedrale di Lund..

Lorenzo Ricciuti

 

Il giorno prima di partire, coricatosi sul letto fa un sogno molto strano: l’orologio è senza lancette, il volto di un uomo è senza occhi né bocca e da un carro uscirà una bara con uomo dentro. Questa chiara allusione alla morte turberà non poco il risveglio del signor Borg.

Il posto delle fragole: un viaggio interiore per Borg

Il signor Borg non affronterà il viaggio da solo ma con lui viaggerà la nuora Marianne. Nel film Il posto delle fragole, quello che sembra essere un semplice viaggio, si rivelerà per il signor Borg un viaggio interiore vero e proprio. Infatti accanto al bravo medico emergerà un carattere freddo e distaccato, poco incline alla comprensione altrui. Tutto ciò non lascerà indifferente il signor Borg che prenderà coscienza dei suoi errori commessi in passato. Nel corso del viaggio durante una sosta il signor Borg rivede la casa della sua giovinezza. E la memoria va al posto delle fragole, luogo del gioco e della spensieratezza della gioventù.

Nel corso del viaggio, una macchina procede in direzione opposta alla loro. Ci sarà un incidente e il signor Borg sarà costretto ad ospitare i due che guidavano l’altra macchina ormai in panne. Sono un uomo e una donna in piena crisi relazionale, infatti il marito si diverte a prendere in giro la propria moglie che nel frattempo ha una vera e propria crisi di pianto. A quel punto il signor Borg con Marianne alla guida si addormenta ed è di nuovo preda di un sogno: guidato dal suo professore egli entrerà in aula per sostenere un esame. A quel punto il professore domanda “Qual è il primo dovere di un medico?” Il signor Borg non sa rispondere e sarà il maestro ad indicargli la risposta “Il primo dovere di un medico è saper chiedere scusa”.

Il posto delle fragole: fare pace con il passato

Borg impacciato e imbarazzato subirà una punizione: “sempre la stessa” affermerà il professore, ossia “la solitudine”. Destatosi dal sogno il signor Borg confiderà a Marianne “sono morto, pur essendo vivo”. A quel punto Marianne gli dirà che la stessa frase è stata pronunciata dal marito. Quest’ultimo non vuole avere il bambino che Marianne porta in grembo perché secondo lui “è sciocco mettere al mondo qualcuno con l’assurda speranza che possa essere più felice di noi”. Il film termina con il signor Borg che ripenserà al posto delle fragole ritrovandosi e ricongiungendosi, questa volta, in pace con il passato.

 

IL POSTO DELLE FRAGOLE, LA SOLITUDINE DI BORG – GUARDA IL VIDEO:

Twitter: cinguettare le emozioni per regolarle

Twitter oramai rappresenta per molti, siano essi studenti del liceo, celebrità, politici o il presidente di una grande nazione, una piattaforma per comunicare ma soprattutto per esprimere se stessi.

 

Una modalità tra le più utilizzate per esprimere se stessi è la verbalizzazione emotiva, cioè la scrittura nero su bianco, o meglio tramite cinguettii, delle proprie emozioni e dei propri stati affettivi, come se Twitter in qualche modo potesse rappresentare una sorta di diario emotivo, al pari di quelli utilizzati nelle sessioni terapeutiche per monitorare e tenere “aggiornati” i propri vissuti emotivi, sia positivi che negativi, nel quotidiano (Lieberman, 2018).

Twitter: favorisce la regolazione emotiva?

Questa modalità “terapeutica”, per la quale Twitter sarebbe impiegato, è stata recentemente affrontata e approfondita da uno studio apparso su Nature Human Behaviour, di Bollen, Varol e colleghi del Center for Complex Networks and Sistem Research dell’università dell’Indiana, USA.

La ricerca presa in considerazione ha investigato l’evoluzione temporale dei contenuti emotivi di circa 75 mila utenti di Twitter tramite l’analisi delle parole e degli aggettivi presenti nei loro tweet per descrivere, etichettare e verbalizzare esplicitamente un’esperienza emotiva sia essa positiva o negativa (Fan, Bollen, Varol et al., 2018).

Partendo da uno studio precedente di Torre & Lieberman (2018) che ha indicato come la mera espressione, tramite verbalizzazione, delle proprie emozioni fosse in grado di regolarle riducendone il distress e l’impatto negativo, anche quando questo scopo non era consapevolmente conosciuto o ricercato dalle persone, Bollen e colleghi (2018) si sono concentrati su tale fenomeno implicito di regolazione emotiva analizzando e misurando le dinamiche che spontaneamente si presentano nella comunicazione emotiva online nell’era digitale.

Oltre a ciò, uno studio di Burklund, Creswell e colleghi (2014) ha mostrato come l’etichettamento emotivo sia una strategia di regolazione funzionale in quanto è anch’essa in grado di incrementare l’attività di inibizione della corteccia prefrontale ventrolaterale sull’amigdala con una modalità simile agli interventi di identificazione e rivalutazione cognitiva delle emozioni utilizzate già per la regolazione emotiva nei setting terapeutici.

Twitter: lo studio

Per verificare se effettivamente questo fenomeno fosse osservabile anche nella modalità di comunicazione online, i ricercatori hanno in primo luogo investigato se l’espressione verbale delle valenze emotive positive o “negative” fosse associata ad un’intensificazione o ad un’attenuazione delle emozioni originali; in secondo luogo hanno cercato di capire se, una volta trovati gli effetti regolatori dell’etichettamento, fosse presente una componente temporale degli stessi cioè se ci fossero delle loro differenze prima, dopo o durante l’espressione emotiva tramite tweet.

I tweet presi in analisi hanno incluso perifrasi che iniziavano con “Io mi sento” o con variabili simili, seguiti da bene, male, triste, depresso, felice ecc.

Twitter: risultati e riflessioni sullo studio

I risultati hanno evidenziato come l’intensità, la valenza dell’emozione provata, sia positiva che critica, avesse subito un’impennata subito prima e per circa un’ora dalla sua verbalizzazione, anche se l’evidenza più interessante delle studio è però rappresentata dal fatto che, quando un tweet etichettava uno stato emotivo difficoltoso, i successivi tweet descrivevano un ritorno quasi immediato alla baseline emotiva, cioè ad un grado minore di attivazione emotiva rispetto al tweet precedente, dimostrando l’effetto di regolazione dell’intensità emotiva a seguito della verbalizzazione tramite tweet.

Il tutto confrontando i valori di valenza descritti dai tweet degli utenti per ciascuna delle tre finestre temporali (prima/durante/dopo) (Fan, Bollen, Varol et al., 2018).

Lo studio ha di fatto messo in luce la sequenza, l’andamento temporale delle emozioni minuto-per-minuto, prima durante e dopo l’etichettamento e la verbalizzazione dei propri stati emotivi tramite una metodologia innovativa e complessa di tipo lessicale e con algoritmi.

Nonostante ciò lo studio presenta dei limiti, fra tutti la presenza di numerose dissimulazioni dei propri stati emotivi nei social network: gli utenti spesso, anche per desiderabilità sociale, tendono a curare nel dettaglio le rappresentazioni di Sé, del proprio stato emotivo e della loro immagine per risultare all’esterno in un certo modo, distorcendo così la relazione tra ciò che è realmente sentito dalla persona e quello che viene presentato da questa stessa online sia tramite parole che immagini (Lieberman, 2018).

Trapianto di organi e aspetti psicologici: l’esperienza di Cristina

Il trapianto di organi è un intervento chirurgico che consiste nella sostituzione di un organo malato e quindi non più funzionante, con uno sano dello stesso tipo proveniente da un altro individuo che viene chiamato donatore. I risvolti psicologici sono rilevanti

Valentina Pozzesi e Martina Spelta – Open School PTCR Milano

 

I trapianti d’organo sono attualmente una valida pratica terapeutica per alcune patologie cardiache, grazie anche allo sviluppo di efficaci farmaci anti-rigetto da ormai più di vent’anni. Il trapianto può fornire una durata ed una qualità di vita che nessun altro trattamento è in grado di garantire al paziente cardiopatico (Comazzi, 2002).

Il trapianto di organi è però anche un intervento dagli importanti risvolti psicologici, soprattutto il trapianto di organi maggiori. I pazienti candidati al trapianto sono soggetti che giungono a questo intervento percependolo come ultima speranza di vita, dopo un lungo calvario di sofferenza. Sono malati cronici, dipendenti dalle terapie mediche, costretti spesso alla sospensione della propria attività lavorativa e profondamente limitati nello svolgimento delle normali mansioni quotidiane. La loro situazione di malattia comporta una modificazione dei ruoli e degli affetti all’interno della stessa famiglia. Il trapianto rappresenta quindi la possibilità concreta di tornare allo stato di salute, non solo fisica ma anche, e, in maniera significativa, psichica e sociale.

Attualmente, a distanza di molti anni dal primo trapianto di cuore lo squilibrio tra numero di persone in lista di attesa e gli organi disponibili, è ancora molto elevato. Nel caso del trapianto di cuore, l’importanza della disponibilità di questo organo è confermata dal dato epidemiologico per cui nel mondo occidentale le cardiopatie sono ritenute responsabili di poco meno della metà dei decessi. In Italia, di tutti i pazienti in lista d’attesa, quelli per trapianto di cuore sono il 7.8%. Il tempo medio in lista è di 2.5 anni, con una mortalità dell’8.22%. (Sistema informativo trapianti – Ministero della Salute, 2011).

Trapianto di organi: le fasi del supporto e il ruolo dello psichiatra e del psicologo

La psichiatria e la psicologia hanno un ruolo importante nell’attività di trapianto di organi; sia per quanto riguarda la valutazione dei pazienti nell’attesa dell’intervento, sia dopo il trapianto.

Il protocollo di inserimento in lista d’attesa prevede anche una valutazione psichiatrica: questa mira in prima istanza ad una valutazione complessiva delle condizioni dei candidati, in modo da escludere l’esistenza di organizzazioni psichiche potenzialmente patologiche o di esplicite condizioni di interesse psichiatrico o psicosociale che potrebbero pregiudicare la compliance del paziente nel pre e nel post trapianto. Questa serie di interventi si conclude con l’incontro con tutti i membri dell’équipe trapiantologica per la presentazione e la discussione collegiale del caso. Generalmente, vengono considerate controindicazioni assolute al trapianto di organi: attuale dipendenza/abuso di droghe e alcol, schizofrenia in fase attiva, storia di numerosi tentativi di suicidio, attuale idea suicida e demenze.

Trapianto di organi: il periodo di attesa

Gli obiettivi di una assistenza psicologica nella fase pre-trapianto sono molteplici e vanno concettualmente distinti, anche se nella pratica si combinano in vario modo seguendo le esigenze cliniche. Tutti fondati su un principio comune: una buona riabilitazione inizia prima dell’intervento chirurgico, non dopo. Sono da considerare prioritari di interventi di sostegno psicologico per aiutare i pazienti ad affrontare il trapianto, poiché le loro reazioni e le modalità di coping (cioè di far fronte agli eventi) siano orientate all’intervento in modo adattivo. Quando, dai colloqui e dall’esame psichiatrico, emergono evidenti sintomi di ansia o depressione o turbe psicopatologiche, l’assistenza si orienta verso più decisi interventi terapeutici, di ordine sia psicoterapico (a livello individuale e/o familiare) sia psicofarmacologico. Di pari importanza ci sono gli interventi che hanno lo scopo di aumentare il grado di informazione e di consapevolezza del paziente (e dei familiari) sulla realtà clinica del trapianto di organi, sulla sua portata e sul programma terapeutico successivo, e insieme di accertarne le motivazioni, sia a livello cognitivo che emotivo.

Trapianto di organi: il Periodo perioperatorio e il primo anno successivo

A livello psichico il rielaborato è quello dell’accettazione progressiva di un organo estraneo che deve diventare proprio. Quindi non si tratta solo di un trapianto somatico, ma anche emozionale, deve avvenire un riassestamento del proprio schema corporeo con l’accettazione di un organo che è sano, ma che non è il proprio e deve essere integrato nel proprio corpo.

Nei primi giorni del decorso post-operatorio, ancora in unità di terapia intensiva (UTI) il paziente si trova in una condizione di marcata regressione e fragilità per lo shock biologico e per lo stress psichico subito. In questa fase non sono scindibili interventi psicologici e interventi di assistenza medica e di nursing: dolore, problemi fisici, angosce e paure, devono tutti trovare accoglienza e contenimento in una assistenza affettuosa e rassicurante da parte dell’équipe curante (fase di maternaggio). Tuttavia la facile incidenza, come vedremo, di momenti critici di scompenso psichico in questa fase richiede una pronta disponibilità di interventi di valutazione psichiatrica e di terapia psicofarmacologica, che sono di molto agevolati da una precedente conoscenza con il paziente.

Il periodo postoperatorio è un periodo di grande ansia per il paziente, che sa essere cruciale per la problematica del rigetto. È importante in questo momento la presenza dello psichiatra/psicologo, anche se spesso si rivela una presenza silenziosa, però ricca di comunicazione, avendo la finalità di creare intorno al malato un ambiente familiare che faccia da intermedio punto d’appoggio nel passaggio da vecchio malato a nuovo oggetto non ancora guarito.

Trapianto di organi: il periodo post-operatorio

Dopo la dimissione, inizia la vera e propria riabilitazione del paziente alla vita familiare, sociale e lavorativa. L’assistenza psicologica, per i problemi psichici personali e di vita familiare e sessuale, può avvenire secondo due modalità:

a) interventi nelle situazioni di crisi, su richiesta dei medici curanti o del paziente e dei familiari. In questi casi alla valutazione psichiatrica dei sintomi e delle dinamiche della crisi può far seguito un trattamento psicofarmacologico con successivi ricontrolli, o anche la proposta di trattamenti psicoterapici brevi a livello personale o familiare; è stata documentata anche la validità dell’applicazione di terapie di gruppo per pazienti trapiantati;

b) tuttavia la crescente consapevolezza della durata e complessità dei processi di adattamento che seguono al trapianto di organi e delle difficoltà di reinserimento familiare e sociale, insieme con la necessità di capire meglio le conseguenze a lunga distanza del trapianto sulla qualità della vita dei pazienti consigliano ormai di seguire la modalità di interventi di follow-up programmato, in genere a distanza di 3-6 mesi e poi di un anno, con i seguenti.

Talvolta nella fase immediatamente successiva all’intervento in alcuni pazienti si ha quella che alcuni autori definiscono luna di miele: una sensazione transitoria di rinascita che può assumere le caratteristiche di uno stato di ipomaniacalità reattiva alla condizione di grave angoscia provata prima dell’intervento. A distanza di un anno dal trapianto di organi i dati rivelano un aumento significativo delle funzioni fisiche. In particolare l’83% dei sopravvissuti non ha alcuna limitazione funzionale, mentre il 10% dei pazienti afferma di aver bisogno di assistenza nelle attività quotidiane.

Outcome psicosociali nel trapianto cardiaco

Nel 2006 il Psychosocial Outcomes Workgroup of the Nursing and Social Sciences Council of the International Society for Heart and Lung Transplantation ha studiato la letteratura in questo campo identificando 5 grandi gruppi di outcome psicosociali di interesse in pazienti che hanno subito trapianto di cuore: funzionamento fisico, funzionamento psicologico, funzionamento comportamentale, funzionamento sociale e qualità di vita.

  • Funzionamento fisico: Sia misure oggettive sia misure soggettive hanno rivelato un miglioramento del funzionamento fisico dopo il trapianto. Ma i pazienti continuano a riportare una disfunzione significativa in alcune aree come, per esempio, l’attività sessuale. Vengono frequentemente descritti nuovi sintomi che causano sofferenza post trapianto, dovuti primariamente agli effetti collaterali dei farmaci immunosoppressori.
  • Funzionamento psicologico: I disturbi dell’umore e d’ansia, come i sintomi psicologici subclinici, sono comuni nel primo anno dopo il trapianto e si riducono l’anno successivo per poi aumentare negli ultimi 5 anni dopo il trapianto; sono più frequenti rispetto al resto della popolazione e rispetto a un campione di soggetti affetti da altre patologie croniche. Tali sintomi possono essere difficili da diagnosticare e si presentano con caratteristiche atipiche, come irritabilità, presenza di disturbi cognitivi, sentimenti di frustrazione, mal di testa, disturbi gastrointestinali, astenia, disturbi del sonno, riduzione dell’appetito e vaghi sintomi somatici. Inoltre, la depressione che porta all’ospedalizzazione risulta essere un fattore di rischio per nuove complicanze cardiache indipendentemente dalle altre comorbidità, soprattutto nella prima settimana successiva al ricovero. Poichè un umore depresso predice la QoL (quality of life), e QoL e benessere psicologico sono correlati alla morbidità e mortalità dopo trapianto, un trattamento effettivo della depressione potrebbe potenzialmente migliorare la QoL e prolungare la sopravvivenza dei pazienti sottoposti a trapianto di cuore. Il disturbo da stress post-traumatico correlato al trapianto, sebbene meno comune, è stato osservato nel 15% dei pazienti. Esiste anche una ricca letteratura in grado di documentare vari gradi di sintomi psicologici. I pazienti manifestano angoscia e sintomi subclinici aspecifici che generalmente riflettono sintomi ansiosi, depressivi e somatici.
  • Funzionamento comportamentale: la letteratura riporta ampi tassi di non aderenza al regime terapeutico; essi rimangono stabili per almeno 3 mesi e col tempo tendono ad aumentare. Questi sono inoltre fattori in grado di predire gli outcome clinici.
  • Funzionamento sociale: La maggior parte dei pazienti dopo trapianto cardiaco riporta percezioni positive delle relazioni interpersonali, del ruolo sociale e delle attività nel tempo libero. I tassi di lavoro sono molto variabili nei vari studi, andando dal 12 al 74%.
  • Qualità di vita. La qualità di vita (QoL) è sicuramente il dominio più importante tra i 5 domini psicosociali. Negli ultimi anni un numero crescente di studi si sta focalizzando sui determinanti della QoL nelle diverse fasi del trapianto cardiaco. Nel vocabolario medico, infatti, è diventato sempre più frequente l’utilizzo dell’espressione qualità di vita per definire, in modo non sempre uniforme, una serie di aspetti che vanno al di là della tradizionale valutazione clinica e oggettiva dell’intervento medico. Secondo la World Health Organization (WHO), la qualità di vita è la «percezione che gli individui hanno della loro vita, nel contesto della cultura e del sistema di valori in cui vivono e in relazione ai loro obiettivi, aspettative, standard di riferimento e interessi». I pazienti sottoposti a trapianto cardiaco riportano un’elevata qualità di vita, la quale risulta aumentata rispetto al periodo precedente il trapianto. Lo stesso vale nel lungo termine, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti sociali, familiari ed emotivi della loro vita e meno per quanto riguarda la salute e il funzionamento fisico. A questo proposito, l’insorgenza di disturbi ansioso-depressivi potrebbe giocare un ruolo importante. È stata infatti dimostrata una correlazione tra sintomatologia depressiva e bassa percezione della QoL. Nonostante i pazienti siano soddisfatti della loro qualità di vita, il miglioramento delle capacità fisiche non porta a raggiungere i normali valori riportati da soggetti sani della stessa età.

Trapianto d’organi: l’esperienza di Cristina

Cristina è una ragazza di 32 anni, dentro di lei batte il suo terzo cuore. Cristina subisce il primo trapianto di cuore all’età di 20 anni e il secondo a 31. In questa breve intervista andremo ad approfondire insieme a lei alcuni aspetti che hanno caratterizzato il suo percorso di malattia.

Intervistatore (I): Che cosa ti ha portata al tuo primo trapianto di cuore, nel 2006?

Cristina (C): Avevo 20 anni e tre giorni dopo il mio compleanno ero a casa mia, la mattina mi sono svegliata e non respiravo più. La diagnosi è stata cardiomiopatia dilatativa fulminante. In quel momento non ho potuto neanche sperare di curarmi con le medicine, così sono stata inserita in lista di trapianto. In quel momento io non sapevo neanche cosa fosse una lista di trapianto.

I: Cosa si prova quando si viene inseriti in una lista per trapianto?

C: Si entra in una sorta di mondo parallelo, dopo il primo forte impatto ho pianto tutto il giorno. Poi ho deciso di aspettare e di accettare quello che stava accadendo, ero determinata a vincere quella sfida.

I: Quanto è durata l’attesa?

C: La mia è durata molto poco rispetto a tante altre persone, poco più di un mese. Ero la prima in lista in Italia per età e gravità.

I: Come è andato il primo intervento?

C: Molto bene, è durato pochissimo e così anche la ripresa. Quindici giorni dopo ero fuori a mangiare la pizza con i miei genitori, nonostante fossi gravissima prima del trapianto.

I: Come è stata la tua vita dopo il primo trapianto?

C: Ho fatto tutto quello che volevo fare, è stato meraviglioso. Non è stato sicuramente semplice, ho fatto molti sacrifici. Ho frequentato l’università, il Politecnico a Milano, mi sono laureata in triennale, sono partita per l’exchange e ho trascorso un semestre a Singapore, è stato bello perché mi sono sentita una persona come le altre, con la possibilità di partire da sola. Sono riuscita a realizzare il sogno di scalare il Monte Rosa. Poi mi sono laureata in specialistica, ho fatto l’assistente al politecnico, ho iniziato a lavorare.

I: L’equipe ospedaliera che ti seguiva come affrontava questa tua voglia di realizzare i tuoi sogni?

C: I miei medici mi hanno sempre supportata, anche se non sempre sono stati d’accordo con i miei desideri e le mie decisioni. Sono stati molto importanti per me e il fatto che loro credessero in me e nella mia motivazione a vivere a fondo ogni momento mi è stato d’aiuto.

I: Sembrava tutto a posto, poi cosa è successo?

C: Nel 2015 inizio ad avere i primi sintomi, ricomincio a sentire quella fatica, quel dolore. Ho impiegato quasi tre mesi ad ammettere a me stessa che non stavo bene. Dopo i controlli la diagnosi era riferita ancora una volta ad un problema cardiaco. Questa volta era subentrato il rigetto cronico per il quale attualmente non esiste una cura farmacologica efficace al 100%. Ho iniziato una serie di trattamenti molto invasivi. Anche psicologicamente è stato difficile ritornate ad essere, 10 anni dopo, di nuovo cardiopatica. Inoltre all’inizio nessuna delle cure fatte aveva un effetto che desse speranze; dopo più di un anno di speranze infrante sono stata molto male, mi hanno ricoverata e insieme abbiamo deciso che sarei tornata in lista di trapianto per la seconda volta.

I: Come hai vissuto questa nuova diagnosi?

C: All’inizio l’ho vissuto come un tradimento, come se il mio nuovo cuore mi avesse tradita. Successivamente mi sono sentita più serena rispetto alla prima volta, forse perché il dolore fisico era meno intenso, avevo già affrontato problemi simili in precedenza e davvero questa volta vedevo la possibilità di ricevere un cuore come una rinascita. A differenza di altre malattie e interventi, secondo me, il trapianto di cuore ha una magia che è quella di dare di nuovo la vita, la possibilità di ripartire.

I: Quando sei stata ricoverata cosa hai vissuto?

C: Ammetto di essermi chiesta perché è successo proprio a me, ma poi ho cercato di scacciare subito quel pensiero perché non si ha una risposta in quel momento. Magari ci si pensa dopo al perché ti è successo, io ho lasciato questo lavoro per il post, perché è un lavoro molto intenso e faticoso che devo fare su me stessa anche grazie al supporto della mia psicologa e dello psichiatra. Sul momento ho pensato solo a combattere, a essere positiva per me e per le persone che mi stanno intorno che mi hanno dimostrato tanto amore. Sicuramente la seconda volta ero molto più arrabbiata, poi però mi sono resa conto che avevo comunque un’altra possibilità.

I: Questa seconda volta l’attesa quali emozioni ti ha portata ad esperire?

C: L’attesa è stata molto breve anche se questa volta era molto difficile trovare una cuore che andasse bene per me, proprio perché avevo sviluppato questo rigetto molto violento, indicativamente solo il 20% della popolazione era con me compatibile, sia come gruppo sanguigno, peso ed età.

I: Dall’inserimento in lista di trapianto, in pochi giorni la situazione si è aggravata e ti comunicano che saresti stata messa in coma farmacologico per permetterti la sopravvivenza, cosa hai provato dopo quella comunicazione?

C: Ho pensato poco, solo a stare il meglio possibile e a passare nel miglior modo possibile quelle ore e io non ho mai perso la speranza.

I: Quando ti hanno detto che il cuore era stato trovato, cosa hai provato?

C: In quel momento non ho avuto reazioni. Forse perché ero così stanca, ma anche molto pacifica. Ero così pronta ad accettare tutto quello che sarebbe stato il mio destino che ho fatto fatica a crederci, succede tutto in fretta e quella notte in cui arriva il cuore diventa infinita e brevissima allo stesso tempo, poi si entra in sala operatoria e si spera che tutto vada per il meglio.

I: Quale è stato, per te, il momento più difficile di questo percorso?

C: Il momento più duro è la scoperta e l’accettazione della diagnosi, la fase pre trapianto. Il momento più delicato e di fragilità è il post trapianto. Non tanto nell’immediato, dove mi sono sentita in bilico tra confusione e voglia di tornare a vivere, la quale che vince su tutto. Dopo qualche mese, un anno, quando la “luna di miele” è terminata ed emerge lo stress, le paure, la rabbia che sono state accumulate nel tempo e si mette in discussione tutto. E’ un momento delicato perché fisicamente stai bene, questo ti fa sentire in obbligo di essere felice, ma non è una cosa automatica perché ciò che hai vissuto ritorna ed è presente nei pensieri della vita quotidiana.

I: Incontrare altre persone nella tua stessa situazione ti ha aiutato?

C: Si, in particolare un bambina di 4 anni, ricoverata con me, una persona che mi che mi ha dato e mi da grande speranza e che ha subito più prove di quante ne abbia subite io, eppure non l’ho mai sentita piangere una volta in tutti quei mesi di ricovero insieme. Ha aspettato molto più di me ma sempre con il sorriso.

I: Altri fattori che ti hanno aiutata a sostenere questo percorso?

C: Conoscere persone e creare legami nuovi all’interno dell’ospedale ha permesso di creare un ambiente familiare in quel luogo dove ti ritrovi a passare molti giorni della tua vita. Essere circondata dalla mia famiglia e dalle amicizie più strette, avere questa costante presenza al mio fianco è stato di grande supporto. Con le mie più care amiche abbiamo creato una routine ospedaliera durante il mio ricovero, fatta di cene insieme in ospedale, momenti di risate e leggerezza seppur in quei momenti così delicati e carichi di drammaticità. Questo è stato un fattore molto importante che mi ha aiutata ad affrontare ciò che mi stava succedendo.

I: Nei confronti degli altri e del mondo cosa provi ora?

C: Mi sento estremamente in debito e mi ritengo molto fortunata. Ho avuto ben due possibilità e questa volta voglio aiutare gli altri come posso, raccontando agli altri la mia esperienza in modo che possa essere di aiuto, fondando una Onlus che vuole essere un aiuto e un punto di riferimento per chi deve affrontare il trapianto prima durante e dopo.

I: Pensi mai ai donatori dei tuoi cuori?

C: Ci penso spesso, sicuramente è una responsabilità e penso spesso come questo gesto di generosità e coraggio fatto da queste persone o dalle loro famiglie, che non conoscerò mai, abbia cambiato e reso possibile la mia vita. E’ anche molto bello, è un po come se fossimo in tre.

I: Adesso come è la tua vita e come vedi la vita davanti a te?

C: La vedo meravigliosa, è ancora una nuova opportunità e la vivo giorno per giorno perché è questo un po’ l’accordo, ma va bene così, ogni giorno è un giorno speciale. Anche se si torna, per fortuna, ai problemi di tutti i giorni c’è un grande dono che ti lascia l’esperienza della malattia, è tutto vissuto in maniera più intensa. Tuttavia riemerge e rimane costante nella mia vita e in quella di molti cardio trapiantati la sensazione del tempo che corre veloce e l’ansia di non dover sprecare il tempo e dare valore a ogni momento che si vive. E’ una cosa positiva ma anche un’arma a doppio taglio. A volte si vivono momenti di sconforto in cui non si sta più bene nei panni di prima e ti ritrova a fare i conti con te stesso e i grandi cambiamenti che senti dentro di te.

 

Per saperne di più visita il Sito della Onlus CUORI 3.0 fondata da Cristina

Fentanyl: dall’uso terapeutico alla dipendenza patologica – Introduzione alla Psicologia

Il fentanyl, noto anche come fentanil o fentanile e con i nomi commerciali sublimaze, actiq, durogesic, duragesic, fentanest, effentora, onsolis, instanyl, abstral, è un potente oppioide sintetico, appartenente alla classe delle piperidine. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il fentanyl è molto più potente della morfina, di circa 80 volte, svolge una funzione analgesica a rapida insorgenza e ha una breve durata d’azione.

Da sempre è utilizzato per il trattamento del dolore cronico soprattutto in pazienti affetti da neoplasia e spesso è somministrato prima di interventi chirurgici in associazione con una benzodiazepina o altri farmaci.

Fentanyl: la storia

Il fentanyl è stato preparato e sviluppato per la prima volta dal Dott. Paul Janssen nel 1959 nell’ambito di un brevetto tenuto dalla sua società, la Janssen Pharmaceutica. Negli anni ‘60 il fentanyl è stato presentato sul mercato dei farmaci come anestetico dai prodigiosi effetti.

Fino alla metà del 1990 questa droga si è diffusa a macchia d’olio, soprattutto era venduta sottoforma di cerotti dermici. Visti gli effetti, ovviamente, è diventata anche una delle sostanze più prodotte dal mercato illegale.

Di conseguenza, i primi casi di spaccio della sostanza sono emersi nel corso degli anni settanta. Tra il 2005 e il 2007 il fentanyl prodotto in un singolo laboratorio messicano causò più di mille morti da overdose negli Stati Uniti. Il fentanyl è sintetizzato dai cartelli della droga messicani a un costo più basso di quello necessario per produrre eroina, con cui spesso è mischiato per renderlo più potente.

Fentanyl: come si presenta

Il fentanyl è un farmaco che produce effetti simili a quelli della morfina, ma più potenti e a dosi minori. Esso provoca effetti allucinatori accompagnati da uno stato di benessere che porta il consumatore a godere dei benefici della sostanza al punto da non poterne farne più a meno.

Il fentanyl è così potente che è facile andare in overdose, anche inavvertitamente. Una pasticca di fentanyl, avente una forma tipo quella della comune aspirina, potrebbe essere in grado di uccidere un uomo adulto. Di conseguenza, è veramente difficile dosarne la quantità giusta da cui poterne trarre dei benefici senza rischiare la vita.

Il fentanyl si assume tramite cerotti, lecca-lecca o pastiglie, più raramente tramite iniezioni. Sotto forma di farmaco è adatto alla somministrazione per via orale, per via inalatoria, per via transdermica e per via parenterale. Esso è utilizzato principalmente per il trattamento del dolore episodico intenso in pazienti affetti da patologie neoplastiche che sono già in terapia con altri oppioidi per il trattamento del dolore cronico oncologico.

L’assunzione contemporanea di fentanylalcool andrebbe evitata, poiché quest’ultimo aumenta la sonnolenza indotta dal fentanyl.

Il fentanyl può diminuire la capacità di guidare veicoli e di utilizzare macchinari pertanto tali attività dovrebbero essere evitate. Per chi svolge attività sportiva, il suo utilizzo senza necessità terapeutica costituisce doping e anche quando il farmaco è assunto a scopo terapeutico.

Effetti sul sistema nervoso centrale

Il fentanyl a livello del sistema nervoso centrale si lega ai recettori degli oppiacei endogeni, localizzati lungo le vie del dolore del nostro organismo, producendo un’azione analgesica. Quindi, quando questi recettori sono stimolati dalla sostanza, si ottiene uno stato di benessere.

Questa sostanza, in alcuni casi, provoca depressione respiratoria probabilmente dovuta a un’azione diretta sui centri respiratori del tronco cerebrale, che sono depressi nella loro attività di stimolazione elettrica e registrano una ridotta reattività agli aumenti dell’anidride carbonica. Il fentanyl produce anche effetti antitussigeni a dosaggi molto basse e provoca inoltre miosi, ma non è chiaro tramite quale meccanismo d’azione.

Effetti collaterali

Il fentanyl può causare diversi effetti collaterali, anche se non tutti i pazienti li manifestano, ad esempio: eccessiva sonnolenza, capogiri o mal di testa, stanchezza e debolezza, mancanza di energie, alterazione di alcuni organi di senso come gusto e olfatto. Inoltre, possono presentarsi anche disordini psichiatrici, tipo: sbalzi d’umore, depressione, paranoia, confusione, disorientamento, disturbi del sonno, ansia, irrequietezza, il tutto accompagnato da nausea, vomito e costipazione.

Se assunto per lungo tempo e regolarmente può causare assuefazione e dipendenza; oltre a una serie di manifestazioni cutanee e respiratorie.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Quando la dipendenza diventa il senso. Le dipendenze lette alla luce dell’analisi esistenziale frankliana

Secondo la prospettiva dell’ analisi esistenziale frankliana, le dipendenze sembrerebbero avere il compito di colmare il vuoto esistenziale che pare pervadere la nostra epoca.

 

Le dipendenze risultano essere una delle più emergenti sfide in ambito clinico, coinvolgono infatti un numero sempre più elevato di individui e gran parte delle persone nella società attuale soffre di una qualche forma di dipendenza patologica. Gli studi e le ricerche più recenti hanno arricchito la letteratura e progressivamente aumentato l’interesse per l’argomento mostrando l’evoluzione nell’epoca moderna delle dipendenze, dove non solo il comportamento additivo è quello proprio delle tossicomanie ma l’individuo diventa schiavo del cibo, dello shopping, di Internet, del gioco d’azzardo, del sesso e molte altre condotte patologiche rivolte a un oggetto o un’azione.

Le dipendenze, seppure disadattive e fonte di dolore, sono oggi più che mai il rifugio e allo stesso tempo la via di fuga da una sofferenza e da un vuoto, sia individuale che sociale, ai quali non si riesce a rispondere in altro modo. Il proliferare di condotte dipendenti, che diventano espressione del “disagio della civiltà” (Caretti – La Barbera, 2010), sembra derivare anche da una struttura sociale ed economica disumanizzante che conduce a rapporti umani competitivi, invece che basati sulla reciprocità e l’interdipendenza.

Essendo il tema delle dipendenze un fenomeno complesso che coinvolge la persona sotto molteplici punti di vista, a livello biologico, psicologico e sociale, richiede necessariamente, per una lettura che sia quanto più possibile chiara ed esplicativa, un approccio teorico e pratico interdisciplinare. Ed è proprio questo l’approccio utilizzato nelle ricerche e nelle teorizzazioni degli ultimi anni che prende dunque in considerazione una pluralità di fattori. Un fattore che è stato poco considerato nella letteratura, per quanto riguarda le dipendenze e in generale lo svilupparsi delle patologie, è la sfera spirituale. L’essere umano è un individuo bio-psico-socio-spirituale e questo orizzonte antropologico ci permette di fronteggiare un fenomeno così d’impatto e complesso in maniera più umana, offrendo anche un approccio integrato e dunque maggiormente completo.

Risulta essere un fattore rilevante nell’eziopatogenesi il vuoto esistenziale e la carenza di un senso, concetto affrontato prevalentemente dall’ analisi esistenziale di matrice frankliana.

L’ Analisi esistenziale frankliana

Frankl, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, è stato uno dei fondatori dell’ analisi esistenziale e della logoterapia. Frankl vede l’uomo come un essere alla ricerca di senso, non spinto meramente dalle pulsioni, come credevano le classiche prospettive psicanalitiche, né tantomeno orientato dalla volontà di potenza adleriana, ma piuttosto dalla propria coscienza, intesa come organo di senso. Con questa prospettiva l’essere umano viene visto come ultimamente libero e responsabile nel proprio agire.

Le Dipendenze secondo i tre pilastri dell’ Analisi esistenziale frankliana

Leggere le dipendenze alla luce dell’ analisi esistenziale frankliana ci permette di vedere la personalità dipendente come incapace di prendere decisioni coerenti e con una scarsa progettualità, risulta non essere in grado di affrontare la sofferenza, legata a un possibile passato traumatico o ad un presente frustrante; tutto questo porta alla manifestazione di una elevata difficoltà a domandarsi circa il senso della vita e a rispondere in maniera unica e irripetibile a tali domande di senso.

La condotta additiva serve per rispondere alla domanda “chi sono io?” e per anestetizzarsi dalle sofferenze ed evitare le difficoltà. Rifacendoci ancora alla teoria di Frankl, le dipendenze porteranno l’uomo ad una crescente perdita di libertà e a un fermarsi allo stato meramente biologico, che tratteremo in seguito.

Le dipendenze sembrano avere il compito di colmare il vuoto esistenziale che pare pervadere la nostra epoca, analogamente a quella di Frankl; nonostante questo tentativo patologico di andare oltre se stessi, di trascendere, l’uomo si ritrova perso e senza punti di riferimento. Nonostante possa sembrare in contrapposizione con la tematica trattata, in realtà i tre pilastri dell’ analisi esistenziale frankliana sono applicabili a qualsiasi fenomeno umano.

I tre pilastri dell’ analisi esistenziale sono: libertà della volontà, volontà di significato e senso della vita. Quando parliamo di libertà della volontà si intende che l’uomo è sempre libero di scegliere e dunque possiamo dire che si autodetermina, seppure questo non sia un punto d’arrivo nell’approccio frankliano ma piuttosto una condizione esistenziale, poiché l’uomo è visto come essere-che-decide. Per Frankl qualunque azione l’uomo compia è sempre frutto di una scelta e ciò lo autoconfigura, così come ogni decisione quotidiana, consapevole o inconsapevole che sia. La dipendenza è causata proprio da scelte inconsapevoli guidate soltanto dal proprio vissuto psicologico, dalla ricerca di piacere legato al rilascio di neurotrasmettitori, quali la serotonina o la dopamina, e da meccanismi neurobiologici come il craving, termine traducibile letteralmente come “desiderio ardente”. Fondamentale nella terapia per le dipendenze è rendere l’individuo soggetto attivo e non inerme nella propria vita, permettendogli di capire che resta libero di scegliere chi diventare visto che ogni scelta ci autoconfigura.

Il secondo pilastro dell’ analisi esistenziale è la volontà di significato che, come detto precedentemente, è un concetto che differisce dalla psicologia individuale e dalla psicoanalisi. La volontà è libera di cercare significati e l’uomo è guidato a cercare il logos, inteso come senso, «che si manifesta in una continua tensione tra la realtà esistenziale in cui si trova a vivere e il mondo dei valori che gli si presenta come appello e come sfida» (Fizzotti, 2008, p. 67).

Il terzo pilastro è il senso della vita, quindi i significati che sottostanno a ogni decisione e che scopriamo giorno dopo giorno coerenti con il senso ultimo. Il senso della vita porta ad andare oltre al concetto umanistico di autorealizzazione, verso la ricerca di un senso autotrascendente.

Alla luce di questi tre pilastri l’uomo resta ultimamente libero e responsabile e, là dove falliscono i valori di creatività e di esperienza, saranno i valori di atteggiamento a rendere possibile la libertà di scelta riguardo l’atteggiamento da assumere. La prima categoria dei valori si riferisce a tutto quello che l’uomo è capace di dare al mondo con la propria capacità creativa, Frankl vede l’uomo realizzato svolgendo le attività concrete, con consapevolezza e responsabilità. I valori di esperienza invece accentuano tutto quello che l’uomo prende dal mondo, tutto ciò che è in grado di accogliere: la bellezza, la verità come pure l’altro nella sua persona, ne è un esempio la relazione di coppia. La terza categoria prende in considerazione l’atteggiamento che l’uomo assume confrontandosi con tutte le situazioni esistenziali, in quanto ineluttabili e inevitabili, scrive Frankl (1977)

Anche quando ci troviamo di fronte ad un destino ineluttabile (pensiamo a una malattia inguaribile, un carcinoma inoperabile), anche in questa situazione possiamo strappare un senso alla vita, dando testimonianza della più umana fra le capacità umane: quella di trasfigurare la sofferenza in una prestazione umana.

Frankl rifiuta dunque ogni tipo di determinismo in quanto porterebbe alla deresponsabilizzazione del soggetto e lo farebbe sentire ancora più impotente dinnanzi alle circostanze presenti, e coglierebbe solo l’impossibilità di cambiare il suo passato rendendosi vittima di questo e di non poter conseguentemente divenire protagonista della sua esistenza nel futuro.

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