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Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica (2018) di Rosa Maria Quatraro e Pietro Grussu – Recensione del libro

In tutto il mondo esiste una enorme diffusione di disagi psicologici che possono colpire le donne nel periodo precedente e successivo alla nascita di un figlio. Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica offre un dettagliato panorama sui molteplici aspetti clinici.

 

Alcuni di questi sono: lo stress perinatale materno, l’esposizione del feto ai disturbi psicologici della madre, l’impatto psicologico dell’infertilità e della procreazione assistita, la diagnosi prenatale in presenza di anomalie fetali, l’aborto spontaneo o perdita perinatale, il parto traumatico, la depressione post-partum, il ricovero in terapia intensiva neonatale, i bisogni della donna dopo il parto, l’allattamento al seno e lo svezzamento.

Psicologia clinica perinatale: l’approfondimento su rischi e patologie

Sono argomenti che riguardano la salute mentale delle madri e delle loro famiglie, chiamate ad affrontare le diverse situazioni e decisioni che caratterizzano il periodo perinatale. Un libro risorsa per ricercatori, operatori e dirigenti sanitari, scritto con un linguaggio sufficientemente accessibile a tutti coloro che siano interessati a capire l’importanza della psicologia perinatale. I pareri degli esperti in materia, offrono informazioni su numerose tematiche della psicopatologia: l’esperienza dello stress perinatale, i problemi psicologici in gravidanza, durante il parto e nel periodo postnatale, il rischio e la prevenzione delle psicopatologie. Approfondendo tali argomenti, Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica indica anche potenziali soluzioni, partendo dalle più semplici ed immediate (spesso sottovalutate, come l’importanza del supporto sociale nel periodo perinatale, per esempio), alle indicazioni di trattamento più complesso che necessitano l’intervento di esperti in materia.

Psicologia clinica perinatale: uno sguardo alle nuove tecnologie

Molto interessante la presentazione nel testo Psicologia clinica perinatale – Dalla teoria alla pratica dell’impatto che le nuove tecnologie e il progresso scientifico stanno avendo sulla procreazione, analizzando elementi di grande complessità come le biotecnologie riproduttive, la diagnosi prenatale e le cure neonatali. Per esempio, il capitolo sullo screening prenatale per le anomalie congenite evidenzia le difficili decisioni che i genitori si ritrovano ad affrontare e fornisce consigli per supportare le famiglie in relazione ai diversi esiti che possano verificarsi.

Nel mondo dei sogni (2017): un viaggio affascinante nel mondo psicoanalitico e junghiano dell’interpretazione – Recensione

Nel mondo dei sogni di Aldo Carotenuto, psicoanalista e notissimo esponente del pensiero junghiano, si presenta, nei suoi cinque capitoli, come una proposta asciutta e utile soprattutto per coloro che, interessati ad avvicinarsi al mondo dei sogni, temono di scontrarsi con una lettura didattica e meno divulgativa.

 

L’idea che l’autore sembra proporre al lettore è di seguirlo in un viaggio che, dopo essere giunto fino alle radici del sogno, procede attraverso il tempo a chiarirne sviluppi e trasformazioni.

L’apertura del testo, infatti, affidata all’analisi delle sue antiche origini, prosegue col porre l’accento sui mutamenti che hanno concorso a definirne i suoi aspetti principali, lasciando trapelare come nel possesso, nell’interpretazione e nelle funzioni, possano essere riconosciuti alcuni tra i temi più ampiamenti esplorati e dibattuti. In particolare, il fenomeno onirico, colto, in un primo momento, per sue qualità divinatorie, che molto ci dicono della sua collocazione esterna al sognatore, è in seguito riconosciuto per il beneficio trasformativo che è capace di apportare all’autore stesso del sogno, condotto dal futuro al passato, fino al presente.

In questa cornice, che, prima di ogni cosa, sembra segnalare il primitivo desiderio dell’uomo di comprendere il significato che si nasconde dietro di esso, si conosce l’importanza che nel tempo viene attribuita all’attività di penetrare nell’oscurità dell’ignoto, così come la consuetudine di una competenza demandata ad un altro, nella posizione di sapere molto più del sognatore stesso.

Nel mondo dei sogni: verso il significato più profondo del sogno

Una prospettiva sul sogno, quella che Carotenuto in prima battuta propone, intrisa di mitologia e religione, cui seguiranno, con l’avvento della cultura ottocentesca, gli interrogativi della scienza.

Di fatto, proprio nel tentativo di spiegarne meccanismi e segreti, con rigore e metodo, discipline diverse, come la fisiologia, la psicologia sperimentale e la psicoanalisi, avanzano interessanti scoperte e nello sforzo di superare le impasse sul loro indagare promuovono integrazioni e/o nuove suggestioni. Nel fervore di questi anni, Alfred Maury, il marchese d’Hervey e poco più avanti la psicoanalisi danno il via a un’indagine scientifica e psicologica sul sogno. A renderne la più metodica testimonianza è Sigmund Freud con la pubblicazione nel 1899 del libro “L’Interpretazione dei sogni”, opera con cui spiazza il mondo scientifico, per il suo studio sistematico sul sogno e gli mostra un tema di grossa rilevanza di cui non si era occupato. Scandagliandolo nella sua struttura, egli definisce con chiarezza l’appartenenza del sogno al sognatore, spiega la sua corrispondenza con un linguaggio diverso e non meno importante di quello razionale e distingue un doppio contenuto, segnalando, in quello più nascosto, un desiderio rimosso. Arriva così a riconoscere al sogno non solo l’appagamento di un desiderio “inconfessabile”, ma anche il compito di preservare il sonno nascondendolo alla coscienza. Infine, suggerisce che la strada percorribile per giungere alla comprensione del suo significato prevede l’utilizzo di una tecnica psicologica che facilita nel paziente uno stato di auto-osservazione libero dalla critica. In altri termini, quello a cui si riferisce è:

Un lasciar emergere tutti i ricordi, le immagini, anche le parole isolate, che si affacciano alla mente per una sorta di misteriosa affinità. Permettendo, così, che un flusso di figure, luoghi, eventi, fantasie, prosegua, scorra senza ostacoli e sbarramenti, innanzitutto rinunciando a incanalarlo e orientarlo (Carotenuto, 2017, p. 34).

Nel suo pioneristico contributo va riconosciuta l’azione catalizzatrice di nuove prospettive, nate dal contributo dei suoi stessi allievi, Jung e Adler. Questi ultimi, infatti, preoccupandosi di ampliare i suoi contenuti e proporre nuove scoperte, contribuiscono a successive revisioni.

L’inconscio del sognatore non è più l’unico protagonista, a esso si affianca l’individuazione di un inconscio collettivo a cui le immagini del sogno devono essere ricondotte, così come il significato che le riguarda, non solo rappresentativo dello stato in cui il soggetto si trova, ma di una condizione che può riguardare tutti gli individui. Non solo, inizia a farsi strada una connessione tra sentimento di potenza e sogno che conduce a riconoscere in quest’ultimo la tendenza da parte dell’uomo a raggiungere uno stato di sicurezza, un’emancipazione dal sentimento d’inferiorità.

Il mondo dei sogni diventa, dunque, un oggetto di studio ricco e stimolante, capace di spingere gli studiosi verso sentieri mai calpestati o solo sfiorati, direzione verso cui sembra muoversi l’attenzione di Franz Alexander per la dimensione morale dell’attività onirica.

Una doppia direttrice caratterizza, quindi, il panorama entro cui gli studi psicoanalitici sul sogno si muovono, permettendo una distinzione tra i contributi che dalla tradizione freudiana si sono orientati verso una dimensione relazionale e quelli che ne hanno seguito le linee principali arricchendole. Rientrano in questi ultimi gli studi di Thomas French, Erika Fromm e Angel Garma che hanno riconosciuto al sogno una struttura coerente che informa l’individuo su se stesso e avanzato ipotesi su una sua eziogenesi traumatica.

L’approssimarsi di divergenze rispetto al contributo freudiano si fa, però, sempre più intenso quando anche altre discipline come la fisiologia e la psicologia cognitiva non mancano di manifestare la loro contrarietà. In esse al sogno è attribuita solo una funzione di aiuto all’attività della veglia e nella teoria hobsoniana, in particolare, l’esistenza di un messaggio latente è messa da parte in favore di un’informazione assolutamente chiara e manifesta di cui il sogno è portatore.

Più avanti la psicologia transpersonale, paragonando i sogni a fenomeni che trascendono la razionalità, richiama l’attenzione sulla dimensione creativa dilatata nel sogno.

Nel resoconto che l’autore propone al lettore, non rientrano ovviamente tutti i contributi che sono stati prodotti sul sogno, ma senz’altro avanzare lungo un itinerario come questo consente di cogliere il fascino che lo studio del mondo dei sogni può aver suscitato nell’uomo fin da tempi remoti.

Quanto alla metodologia usata per leggerne i contenuti e alla posizione dell’analista nei suoi confronti, va segnalata la direzione sicuramente più rispettosa, compresa e raggiunta nel tempo, dello spazio del sognatore, necessaria premessa, a mio avviso, per il passaggio dalla mera traduzione dell’enigmatico a una posizione dialogica capace di promuovere una co-costruzione di conoscenze. Queste ultime, infatti, dispiegandosi nel corso del lavoro psicoanalitico, non tardano nel rendere manifesta la possibilità di rintracciare proprio nei sogni un arricchimento di personaggi e situazioni, una trasformazione nei messaggi che essi veicolano, un arrestarsi e poi riprendersi di comunicazioni che chiedono di essere colte affinché il sognatore possa imboccare la strada della crescita personale. Per usare le parole di Carotenuto:

Il compito di un analista è forse anche quello di aiutare a comprendere – oltre l’interpretazione – il valore del sogno nel momento in cui esso si esplica, la sua valenza comunicativa, ma soprattutto il bisogno dell’inconscio, che esso sottende e veicola, di esprimersi e aiutarci. Aiutarci a comprendere noi stessi e aiutarci ad andare oltre la razionalità diurna (Carotenuto, 2017, p.74).

Per concludere, dall’oniromanzia alle più recenti prospettive sull’attività onirica, si coglie l’intenzione di Carotenuto di fornire, oltre che una lettura sintetica della teorizzazione nata su di essa, anche una finestra da cui osservare il contributo dell’attività clinica alla sua nascita e ancor prima, di quella inestinguibile “equazione personale” che ne ha orientato la ricerca. Non solo, nelle sue parole si avverte l’offerta di una comprensione più profonda di cui il sogno si fa precursore, un ponte verso un “altrove” un po’ più vicino, vitale e creativo, che ancora affascina e spaventa, ma mai fortunatamente penetrabile.

PTSD e sintomi: il Tetris aiuta a ridurre i flashback relativi all’evento traumatico

Nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) si stanno sperimentando nuove modalità di intervento non convenzionali, tra cui giocare a Tetris. In questo modo sembra possibile generare un indebolimento della traccia mnestica legata all’evento traumatico ed un effetto positivo su alcuni sintomi del PTSD, come una diminuzione del numero di flashback.

 

Giocare a Tetris al computer sembrerebbe essere d’aiuto agli individui con diagnosi di disturbo da stress post traumatico (PTSD) nell’alleviare i ricordi visivi ricorrenti e involontari relativi alle esperienze traumatiche. Gli effetti del Tetris come metodo di intervento comportamentale consisterebbero, quindi, in una diminuzione di flashback relativi a eventi stressanti. A questa conclusione è arrivato un team di ricercatori del reparto di medicina psicosomatica e di psicoterapia della Ruhr-Universität Bochum e della Karolinska Instituet in Svezia attraverso una ricerca comprendente 20 pazienti con PTSD.

La presenza di flashback ricorrenti relativi all’esperienza traumatica è da considerare uno dei sintomi più invalidanti del disturbo da stress post traumatico. Proprio per la rilevanza di suddetto sintomo i ricercatori ambiscono, attraverso il corrente studio, a ricercare metodi alternativi utili ad alleviare e ridurre i flashback. Inoltre, circa 10 anni fa, uno dei ricercatori a capo dello studio, Emily Holmes, ha riscontrato che, nei soggetti non clinici, giocare a Tetris al computer sopprimeva i flashback causati dai film horror. Anche a fronte di questi risultati, il team di ricerca dello studio corrente ha testato se suddetto effetto si ripetesse anche nei soggetti con diagnosi di PTSD oltre che in individui in salute.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto 20 pazienti con PTSD complesso, ricoverati presso il dipartimento di medicina psicosomatica e psicoterapia per 6/8 settimane e trattati attraverso una terapia standard.

Oltre alle regolari terapie individuali e di gruppo, i 20 partecipanti sono stati sottoposti ad un intervento speciale: hanno scritto una delle loro memorie traumatiche e stressanti su di un foglio di carta, il foglio di carta con il ricordo è stato poi strappato e il contenuto del ricordo è rimasto segreto. Successivamente, i 20 partecipanti hanno giocato a Tetris in un tablet per 25 minuti. I pazienti hanno sempre riportato flashback ogni volta diversi, per esempio esperienze di violenza in diverse situazioni, il cui contenuto è stato registrato in un diario durante le settimane. Ogni intervento svolto di settimana in settimana aveva, quindi, come oggetto un contenuto di un flashback specifico.

A seguito di questo intervento speciale, i cambiamenti riscontrati nei pazienti nei giorni e nelle settimane successive all’intervento riguardavano la diminuzione della frequenza solamente dei flashback il cui contenuto era stato specificato durante lo studio. Al contrario, il numero dei flashback è rimasto relativamente costante per quanto riguarda i flashback il cui contenuto non è stato specificato. Dopo settimane, l’intervento è stato ripetuto tracciando il contenuto di altri flashback e i risultati sono stati gli stessi: la diminuzione del numero di flashback in 16 pazienti su 20.

La spiegazione degli autori

Secondo i ricercatori dello studio, il successo di questo metodo si basa su uno specifico meccanismo: quando il paziente visualizza la memoria stressante nel dettaglio, le aree del processamento visuo-spaziale nel cervello si attiverebbero. Quelle stesse aree sarebbero, inoltre, importanti e attive durante il gioco del Tetris. Entrambi i compiti (ricordare un evento stressante e giocare a tetris) richiedono, dunque, risorse comparabili ma limitate, producendo cosi un’interferenza.

Ogni qualvolta che un paziente ricorda in maniera conscia il contenuto di un flashback, le tracce mnestiche associate diventano temporaneamente non stabili. Se l’interferenza avviene proprio in questo momento in cui le tracce mnestiche sono temporaneamente non fisse, queste stesse tracce potrebbero divenire più deboli quando vengono poi rimmagazzinate in memoria. L’indebolimento della traccia mnestica avrebbe come conseguenza, secondo gli scienziati, una diminuzione del numero di flashback.

Ulteriori ricerche sul tema andrebbero fatte. Il corrente studio ha come speranza quella di poter fornire ai pazienti con PTSD un intervento da mettere in atto anche a casa e senza alcun aiuto. Questo intervento comunque, ha solamente l’obiettivo di alleviare un sintomo del PTSD (i flashback) e, pertanto, non può in nessun modo sostituire le terapie standard per il trauma.

You (2018): quando il controllo relazionale è fuori controllo – Recensione della serie

Tra le gradevoli proposte del 2018 di Netflix, You merita decisamente uno spazio qui su State of Mind. Non sarebbe coerente con le nostre intenzioni, infatti, smettere di sottolineare ogni peculiarità squisitamente psicologica che rintracciamo nei film e nelle serie TV.

 

Vincente sotto molti aspetti, You racconta la storia di due giovani innamorati, Joe e Beck, il primo un riservato direttore di una libreria di New York, la seconda una attraente scrittrice alle prime armi, a tratti perdigiorno con le sue ricche ex compagne della Brown. Sin dai primi minuti della serie, catapultati in medias res, siamo spettatori dei teneri scambi di battute tra i protagonisti e comprendiamo come la vitalità di Beck sia in grado di scuotere piacevolmente Joe.

You: una tranquilla relazione amorosa..o no?

Fino a qui tutto bene. Un semplice incontro tra il colto proprietario di una libreria e una nuova simpatica cliente. Già dal trailer, però, apprendiamo che Joe non è il ragazzo perfetto, anzi il suo passato – che ci viene mostrato a pezzi, per tramite di flashback e altri escamotage cinematografici – nasconde dei segreti e il suo interesse per Beck cresce troppo velocemente dopo l’incontro nel negozio. Da quel momento, infatti, Joe intavola nella sua mente la perfetta relazione amorosa, senza bisogno dei necessari feedback della partner e tenta l’impossibile per far sì che le loro vite collimino.

I segnali che Beck ha offerto a Joe, infatti, sono per lui inequivocabili. “Ha pagato con la carta di credito, non in contanti, quindi voleva farmi sapere il suo nome” – dice lui. “I suoi account social sono pubblici, ho diritto perciò ad informarmi su di lei”. E così via.

La serie procede portando in primo piano quello che per noi costituisce la prerogativa più interessante delle puntate, ossia il dialogo interno che fa il protagonista. Attraverso il contenuto dei suoi pensieri, saggiamo il suo essere machiavellico e siamo preda di occasionali insight su quanto il mondo dei social ci esponga alle fantasie di uno stalker. Inoltre, prendiamo coscienza di quanto alcune persone del nostro passato, che in altre e più antiche epoche avrebbero continuato il loro viaggio in questa vita senza di noi, continuino ad essere presenti nella nostra cerchia di relazioni virtuali (ndr: e questo ci aiuta?). Insomma, gli ideatori sono bravi a scuoterci e trascinarci dentro la storia, offrendoci spunti di riflessione e amari e comuni denominatori delle nostre passate relazioni amorose.

You: temi e piani dei personaggi

Mi fermo qui, gli spoiler non piacciono a nessuno.

Vorrei però portare la vostra attenzione sulla costruzione psicologica del protagonista. Joe appare mite, ben disposto con i clienti, cordiale e brillante con le amiche di Beck. Il suo ardente desiderio di conquistarla, di proteggerla dalle difficoltà del mondo e indirizzarne la vita, lo porta però a manifestare spesso dei tratti di personalità antisociale (i.e., impulsività, incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportamento legale, mancanza di rimorso, etc.) e, in altre occasioni, ad imporre agli altri rigide regole morali.

Avvalendoci delle conoscenze della LIBET (Sassaroli, Caselli & Ruggiero 2016), possiamo azzardare qualche ipotesi in più. Questa cornice è a mio parere molto utile e permette di descrivere la sofferenza e il funzionamento dell’individuo attraverso due concetti: il tema e il piano. Il primo costituisce la “ferita” del paziente (ad es., l’idea di essere indegno o non amabile), quello stato mentale e relazionale appreso nella storia di vita e giudicato dal soggetto emotivamente intollerabile; il piano rappresenta, invece, la strategia mentale o comportamentale reclutata dall’individuo per tenersi distante dall’idea dolorosa di sé (ad es., rimuginare, evitare, consumare smodatamente alcolici, etc.).

You: cosa accade se irrigidiamo le nostre strategie

Nel corso della serie TV, possiamo così tentare di individuare il piano di Joe: il controllo relazionale. Appresa la sua utilità dopo una precedente e fallimentare relazione, il protagonista persevera nell’applicarlo al momento della narrazione dei fatti, incurante di come questo fallisca nel lungo termine (i.e., invalidazione del piano). Spesso, infatti, Joe entra in contatto con il suo tema doloroso, sperimentando vissuti per lui difficili da gestire. Tuttavia, invece che trovare alternative funzionali al controllo relazionale, egli irrigidisce sempre più il comportamento di controllo, stremando a poco a poco Beck. Interessante poi la scena in cui la ragazza rimanda a Joe quello che molti partner farebbero bene a dire al fidanzato/a geloso intento a controllare le chat di WhatsApp: “senza fiducia non abbiamo niente”.

In aggiunta, i due personaggi ad un certo punto incontrano per differenti motivi lo stesso terapeuta e questo, al fine della nostra “indagine”, dovrebbe rallegrarci. Nelle sedute, infatti, emergono altri e succulenti aspetti dei protagonisti e tutto sommato il terapeuta, a parte il fatto che ad un certo punto si accende uno spinello in seduta, sembra proporsi bene. Tra i suggerimenti che propone a Joe, colpisce quello di investire su di uno scopo sovraordinato rispetto a quello che, attraverso la (fallimentare) strategia del controllo relazionale, sta cercando di raggiungere ora. Una proposta piuttosto convincente considerato il nostro ragionamento in chiave LIBET.

Successivamente, immaginandoci al posto dell’attore-terapeuta, avremmo potuto ricercare l’episodio del passato a cui risale l’implementazione del piano, il motivo per cui persiste ancora oggi, per poi giungere a sottolinearne i costi a lungo a termine. Fatto ciò magari avremmo potuto lavorare sull’accettazione dell’impossibilità di proteggerci sempre e comunque dall’eventualità catastrofica (cioè essere lasciati/traditi). Non è infatti un’opzione considerarci intolleranti all’incertezza.

Tuttavia ci limitiamo a sprofondare nel divano, godendo del nostro essere spettatori.

Un altro gradevole intervento del nostro risoluto terapeuta ci sembra essere quello di coltivare il lato di Joe che ha fede nel vero amore, quello proteso al godere delle meravigliose sorprese della vita, lo stesso che a volte inciampa in alcune imprevedibili evenienze e soffre, soffre molto. Un infallibile terapeuta, quindi? Non proprio, perché il sistema di regole morali che Joe applica agli altri non sembra mai veramente flessibilizzarsi e ogni mutamento della sua condotta pare finalizzato a raggiungere sempre l’obiettivo di godere di una relazione dove la partner non avrà il potere, né l’occasione, di tradirlo.

Che i disturbi di ex asse II siano più complessi da trattare, però, è cosa nota.

Concludo quindi, dicendo che è tutto molto bello quando ciò che studi funziona come dei fantastici occhiali da sole che ti permettono di ammirare un paesaggio. Il colore delle mie lenti è sicuramente diverso dal tuo, ma se hai già sfogliato Castelfranchi, Ellis, Semerari e DiMaggio, Kelly e il booklet LIBET, “You” potrà forse intrattenerti meglio di altre serie durante questo inverno.

YOU – GUARDA IL TRAILER:

Janina Fisher e il suo grande contributo alla cura del trauma e della dissociazione – Introduzione alla Psicologia

Janina Fisher è una psicologa-psicoterapeuta e dottore di ricerca in clinica psicologica, oltre a essere Istruttrice al Trauma Center, vicedirettrice del Sensorimotor Psychotherapy Institute, direttore dei Servizi psicologici presso la Khiron Clinics, nel Regno Unito e docente presso la Harvard Medical School.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Janina Fisher è nota per la sua esperienza sia come terapeuta che come istruttore di EMDR e per i suoi lavori svolti in merito al trattamento sul trauma e sulla dissociazione. Inoltre, è co-autrice insieme a Pat Ogden del libro: Interventions for Attachment and Trauma sulla Psicoterapia sensomotoria e del libro: Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors.

La Fisher ha partecipato a diversi convegni e conferenze, dove ha raccontato la sua esperienza in ambito clinico e la sua teoria sul trauma. La Fisher esercita la sua professione da 25 anni sia privatamente sia in ambito ospedaliero e ha ricevuto diversi premi per i suoi contributi clinici e scientifici.

Janina Fisher: il trauma e il suo trattamento

Tutti coloro che subiscono un trauma necessitano di tempo per riuscire a elaborare l’accaduto e a superarlo. Succede, di conseguenza, che si attiva automaticamente una riposta istintiva di sopravvivenza, in cui il cervello rilascia adrenalina, entrando in una modalità in cui si registra un aumento dei tempi di risposta in relazione a quanto accade nell’ambiente circostante. Il risultato è avere dei ricordi frammentati di ciò che è avvenuto e di conseguenza, il modo di relazionarsi con l’evento scatenante appare più ovattato e circoscritto. Nel caso si avesse un supporto adeguato per superare l’accaduto, si potrebbe superare quel momento, ma l’evento sarebbe comunque presente vividamente in noi, in particolare nel caso in cui si fosse vulnerabili per la presenza di una serie di problematiche intervenienti, portando al manifestarsi di sintomi che disgregano l’evento traumatico. Inoltre, la risposta adattiva di sopravvivenza messa in atto dal sistema nervoso centrale potrebbe diventare cronica, ovvero si potrebbero avere continui stati di allerta e la sopravvalutazione del costante del pericolo.

Dal 1980, fino alla fine degli anni ’90, sono stati sviluppati nuovi paradigmi di trattamento che impattano maggiormente sugli aspetti somatici ed emotivi connessi al trauma. La Psicoterapia Sensomotoria, alla quale la Fisher ha dato un grosso contributo partendo dal concetto di attaccamento traumatico, affronta direttamente gli effetti del trauma sul sistema nervoso e sul corpo. La Psicoterapia Sensomotoria si basa specificatamente sul trattamento delle esperienze traumatiche verificatesi durante lo sviluppo.

Questo approccio utilizza strumenti di osservazione e di intervento rivolti principalmente al corpo, che sono abitualmente esclusi da altri tipi di terapie. Il terapeuta si concentra sulla postura, sulle tensioni muscolari, sui movimenti, incoraggiando il paziente a riconoscere ed osservare come le sensazioni fisiche siano legate a particolari emozioni e pensieri e ad integrare queste esperienze corporee nel suo vissuto. L’obiettivo principale della psicoterapia sensomotoria è aiutare il paziente a regolare le funzioni neurovegetative alterate, modificando i sintomi somatoformi e le credenze patogene riguardanti il corpo.

In sostanza, la terapia sensomotoria consente di migliorare la capacità di regolare l’attivazione corporea facilitando l’accesso a stati mentali problematici. Quindi, attraverso la relazione terapeutica il paziente sperimenta un certo grado di sicurezza grazie al quale è possibile affrontare le sensazioni corporee senza giudicarle, atteggiamento tipico della mindfulness.

Questo modello si può utilizzare come integrazione delle terapie tradizionali, utilizzando tecniche Mindfulness per facilitare la risoluzione delle risposte corporee connesse al trauma prima di rielaborare le risposte emotive e la creazione di significato.

Janina Fisher: la frammentazione del sé

Secondo Janina Fisher tutto parte da un attaccamento traumatico. Quindi, la qualità dell’attaccamento infantile determina lo sviluppo dell’attaccamento adulto e se problematico, interferisce con la capacità di gestione di quanto succede quotidianamente.

I genitori che spaventano il figlio provocano uno stato di insicurezza, fragilità, impulsività o paralisi, delimitando, così, lo spazio in cui può fare esperienza di emozioni facili da gestire. Traumi ripetuti o esperienze negative prolungate possono, dunque, compromettere la capacità di autoregolarsi, favorendo una attivazione emotiva problematica e dolorosa.

Un attaccamento problematico, inoltre, interferisce con l’interiorizzazione di un senso del Sé coerente. Si genera di conseguenza, un non riconoscimento dei bisogni che portano al manifestarsi di emozioni inaccettabili che si manifestano attraverso l’alienazione dal Sé e la frammentazione.

La frammentazione determina il manifestarsi interiore di diverse parti emotive che si possono manifestare in diverse situazioni di vita. Queste parti si manifestano e si alternano nel corso della giornata determinando diversi stati emotivi altalenanti che possono portare anche alla messa in atto di gesti autolesivi. Qui, entra in gioco la psicoterapia che consente di connettere queste parti partendo dal linguaggio del corpo, caratterizzato soprattutto di sensazioni e d’impulsi.

Janina Fisher: il blending e l’unblending

Janina Fisher sostiene che quando un’emozione prende il sopravvento si verifica il blending o fusione, in cui il paziente si fonde completamente con la emozione che sta provando, ed è proprio questa identificazione a determinare la patologia. Il paziente dovrebbe, nella migliore delle ipotesi, mettere in discussione l’idea di essere preda delle emozioni e il terapeuta aiuta il paziente in questo senso portandolo a capire che le emozioni più dolorose sono parte di se stesso e per stare meglio, dovrà imparare a riconoscerle come diverse da sé.

Il terapeuta, quindi, ha un ruolo focale nel riuscire a tradurre il linguaggio del corpo in narrazione. In questo modo si incrementa la consapevolezza, utile per riconoscere il sintomo come diverso da sé. Quindi, la non attribuzione di uno stato emotivo, porta ad una diminuzione della sofferenza. Si ottiene, in questo modo, una scissione o unblending, ovvero la capacità di notare una parte di sé e disidentificarsi da essa.

Il passo successivo è comunicare con la parte identificata, cercando di empatizzare o simpatizzare con la stessa, accudendo il sé bambino da cui ci si proteggeva. In questo modo avviene una riparazione all’attaccamento e una cura delle memorie ad essa associate, da cui generano emozioni negative e dolorose.

È noto che i ricordi sono codificati da reti neuronali e non possono cambiare, ma si possono creare nuove reti o connessioni che consento di attribuire nuovi significati al ricordo dolente. Lo scopo del lavoro con le parti di noi stessi è di accettare quanto accaduto, concedendosi la possibilità di individuare, o scrivere in alcuni casi, un finale alternativo a quello già verificatosi.

Janina Fisher: Trauma-Informed Stabilization Treatment (TIST)

Il modello di trattamento specifico proposto dalla Fisher si chiama Trauma-Informed Stabilization Treatment (TIST) ed è stato sviluppato per affrontare il trattamento del comportamento pericoloso o l’autolesionismo in pazienti che hanno subito un trauma. L’obiettivo del trattamento è aumentare la sicurezza del paziente, e facilitare lo sviluppo di una adeguata regolazione emotiva e la capacità di gestire o tollerare lo stress/trauma.

L’approccio TIST su basa sul concetto che ogni parte di sé rappresenta un modo per sopravvivere in condizioni pericolose e ognuna di queste parti consente un diverso approccio all’auto-protezione di se stesso, dando significato e dignità ai sintomi.

L’utilizzo di tale modello ha ottenuto successo nell’affrontare la sfida del trattamento di individui con una complessa diagnosi di PTSD, disturbo borderline di personalità, disturbo bipolare, disturbi da dipendenza e alimentari, disturbi dissociativi. Questo modello contestualizza che i comportamenti auto-distruttivi sono correlati al trauma, e per questo i pazienti, dopo aver riconosciuto queste parti, si sentono meno patologici, aumentano la motivazione a regolare gli impulsi auto-distruttivi, superando il trauma. 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

 

Se tu vai via porti il mio cuore con te (2018) di Silvia Gianatti – Recensione del libro

Quando si affronta il tema della nascita di un figlio si prendono in considerazione tanti aspetti: il desiderio di maternità e di paternità che si fa strada, la paura e l’emozione dell’attesa, le aspettative di una nuova vita.

 

C’è, però, qualcosa di cui si parla ancora troppo poco: il lutto perinatale. Cosa succede se, contrariamente al futuro immaginato, l’attesa si spezza in modo traumatico con la perdita del bimbo? Un dolore di proporzioni inimmaginabili che spesso viene negato.

Se tu vai via porti il mio cuore con te – il dolore per una perdita inspiegabile

 Se tu vai via porti il mio cuore con te racconta la sofferenza di una mamma e di un papà che hanno perso improvvisamente il loro Tommaso e provano a convivere con l’enorme vuoto con il quale si trovano a fare i conti.

A parlare in prima persona è Valeria, una donna dalla vita intensa: un lavoro, la giornalista musicale, che ama e un marito, Marco, che pure ama e con cui divide il quotidiano e i progetti sin dai tempi dell’università.

Di fronte ad una prova così dura da affrontare che contraddice nel modo più totale ciò che la coppia si stava preparando a vivere, tutto viene stravolto. La complicità di un tempo va in frantumi, le piccole abitudini vengono spazzate via, ciò che prima aveva un senso ora non lo ha più.

In preda allo smarrimento che si è impadronito di lei, Valeria lotta per tenersi a galla. La psicologa che la sostiene nel suo difficile cammino la spinge a scrivere, cosa che lei ha sempre amato fare tanto da averlo fatto diventare il suo lavoro, a scrivere a Tommaso, per riannodare il filo di un legame ingiustamente spezzato e per provare a ritrovare nel racconto quel senso di sé che le sembra di aver perso per sempre.

Se tu vai via porti il mio cuore con te – la speranza dopo tanto dolore

Non è affatto facile, a tratti sembra impossibile, ma, un po’ alla volta, Valeria prova a rialzarsi. Il libro non fa sconti rispetto alle difficoltà del processo di elaborazione del lutto: svegliarsi ogni mattina ed essere colpiti allo stomaco, non appena si aprono gli occhi, dalla consapevolezza di quanto è accaduto. Come si fa a fare tutto quello che si faceva prima? Certe esperienze stravolgono tutto quello che pensavamo potesse essere un punto fermo.

Anche solo parlare con l’amica di sempre pare inutile, anzi, fastidioso. Cosa ne sa lei? Cosa ne sa la dottoressa? Cosa ne sanno tutti di quello che vuol dire?

Nell’altalena emotiva che la fa oscillare dal dolore alla rabbia Valeria fatica a ritrovare sé stessa e anche il rapporto con Marco, il suo compagno, che soffre come lei per questa perdita così ingiusta, viene messo a durissima prova. Non riescono quasi più neanche a parlarsi.

Eppure Se tu vai via porti il mio cuore con te è anche e soprattutto un libro di speranza. Perché, passo dopo passo, Valeria una strada riesce a ritrovarla. Niente potrà mai più essere come prima, ma un futuro è ancora possibile.

Nei ringraziamenti presenti alla fine, l’autrice ci racconta di aver preso spunto, per la stesura del romanzo, dall’esperienza di una sua cara amica; voleva dare voce a lei e alle tantissime vicende simili alla sua di cui ancora troppo poco si parla. Perché, scrive

Abbiamo tutti perso qualcuno. Non è la mia storia. Ma è il mio dolore.

La parte conclusiva del libro è affidata alla lettera di testimonianza di Claudia Ravaldi, fondatrice e presidentessa dell’associazione CiaoLapo Onlus, che si occupa di lutto perinatale offrendo supporto a tutti i livelli, della quale vengono riportati i riferimenti.

La diagnosi della psicopatologia tramite sistemi di machine learning e analisi dell’attività biologica cerebrale

Nell’ambito della diagnosi psichiatrica-psicologica, sembrerebbe sempre più realizzabile il connubio tra costrutti psicologici e l’analisi dell’attività biologica cerebrale grazie all’utilizzo di nuovi algoritmi e sistemi di machine learning.

 

Questi sistemi permettono di raggruppare in cluster diversi sintomi psicopatologici tramite informazioni provenienti dai segnali elettroencefalografici di pazienti affetti da sindromi psicologiche di differente natura.

Un commento di Brianna Abbott, di recente apparso nel nuovo editoriale di Nature Medicine, apre un’interessante riflessione sul futuro della classica diagnosi psichiatrica-psicologica di tipo categoriale, basata cioè sulla classificazione dei sintomi osservabili e riportati dai pazienti tramite l’apporto di specifiche etichette che, a suo parere, presto si avvarrà anche delle informazioni provenienti dall’analisi dell’attività biologica cerebrale (Abbott, 2019).

Diagnosi con l’attività biologica cerebrale: lo studio

Uno studio di Grisanzio, Goldstein-Piekarski, Williams e colleghi (2018), del dipartimento di Psichiatria e Scienze comportamentali dell’università di Stanford e del Brain Resource International Database di Sydney, tramite la misurazione delle onde cerebrali di circa 450 pazienti affetti da disturbo da attacco di panico e disturbo da stress post-traumatico, aveva evidenziato come alcuni pattern di EEG raccolti da un gruppo di pazienti che condividevano la medesima diagnosi psichiatrica categoriale differivano del tutto tra di loro, mostrando inaspettatamente delle somiglianze con quelli dell’altro gruppo.

Con l’intento di fornire un’interpretazione sensata e più corretta possibile dei risultati ottenuti da tale ricerca, Leanne Williams, una delle autrici, decise di sottoporre i dati raccolti, sia registrazioni cerebrali che informazioni sui sintomi, ad un’ulteriore analisi servendosi di un sistema di intelligenza artificiale, chiamata machine learning, che, tramite algoritmi, fosse in grado di far emergere da essi dei patterns individuando differenze e similarità.

Nonostante il gruppo clinico fosse caratterizzato da tre diagnosi categoriali diverse, l’algoritmo ha isolato sei diversi gruppi, ciascuno distinto da uno specifico pattern sintomatologico (es. tensione, ansia generalizzata, iperarousal, tristezza, senso di impotenza, calma) che è risultato caratterizzante il gruppo indipendentemente dalla diagnosi categoriale dissimile.

Infatti analizzando i dati, gli elettroencefalogrammi raccolti, integrati dall’algoritmo con i sintomi psicopatologici osservati e riferiti dai pazienti, hanno ulteriormente rafforzato l’opinione dei ricercatori circa il fatto che i cluster fossero costituiti da “tratti” che andavano oltre la mera diagnosi psichiatrica e che rispetto ad essa si stavano mostrando maggiormente attendibili e affidabili nella definizione delle sindromi psicopatologiche (Grisanzio, Goldstein-Piekarski, Williams et al., 2018).

Diagnosi con i sistemi di machine learning

Partendo dallo studio sopracitato, la Abbott ritiene che sistemi di machine learning abbiano di fatto definito un nuovo genere di sottotipologia di disturbo psichiatrico tenendo in considerazione sia i sintomi riscontrati e che le attività biologiche cerebrali (Abbott, 2019).

Nella formulazione di una diagnosi, psichiatri e psicologi clinici infatti si servono principalmente della raccolta della sintomatologia riportata dal paziente sia tramite questionari self-report che tramite colloqui clinici; tuttavia l’avanzamento della tecnologia e la creazione di nuovi, più accurati e affidabili sistemi di analisi dei dati stanno determinando un’evoluzione della diagnosi stessa, ora caratterizzata anche da misure biologiche, come le EEG dello studio di Williams e colleghi (2018) e immagini di fMRI.

Per comprendere lo sviluppo di 14 diversi disturbi psicopatologici, Theodore Sattarthwaite, ricercatore e psichiatra all’università della Pennsylvania, ha utilizzato algoritmi e sistemi di machine learning per l’analisi delle immagini di risonanza magnetica funzionale di 663 adolescenti, ai quali erano state diagnosticate diverse sindromi psichiatriche, trovando che alcuni modelli di connettività cerebrale erano unici per gli adolescenti con una storia pregressa di depressione e disturbo ossessivo-compulsivo, mentre tutti i restanti potevano essere raggruppati in 4 cluster sulla base delle loro comuni caratteristiche che non correlavano con la diagnosi (es. emozioni forti, allucinazioni, paure, comportamenti esternalizzanti) (Xia, Sattarthwaite, Ma et al., 2018) similmente allo studi precedentemente descritto di Williams e colleghi (2018).

Diagnosi su marker biologici: le prospettive

In conclusione, questa nuova tipologia di diagnosi, più avanzata e integrata con informazioni tipo biologico, permetterà, a parere della Abbott, di creare dei profili più puntuali ed esatti che a loro volta contribuiranno alla selezione da parte del professionista di un trattamento sia farmacologico che psicologico maggiormente preciso e personalizzato sui bisogni e le esigenze del paziente (Abbott, 2019).

Una nuova diagnosi insomma che sarà basata su uno specifico set di sintomi che non necessariamente rispetterà i confini della diagnosi categoriale ma che sicuramente rispetterà quelli biologici.

Ipnosi oggi, fra falsi miti e realtà. Intervista a Camillo Loriedo

Nel tempo, dietro il termine ipnosi si sono mescolate concezioni fuorvianti e mistificazioni a risultati sorprendenti. La stessa ipnoterapia ha subito variazioni sensibili dalla forma più classica a quella più moderna di stampo ericksoniano.

 

A fronte di queste premesse abbiamo avuto il grande piacere di intervistare uno dei maggiori esperti di ipnosi a livello nazionale e internazionale, il dott. Camillo Loriedo.

Ipnosi: una tecnica versatile

Loriedo è Direttore Scientifico e Didattico dell’Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale di Roma e della Scuola Italiana di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana. Past President della International Society of Hypnosis, Past President della European Society of Hypnosis e dal 2000, Presidente della Società Italiana Milton Erickson (SIME).

Nel corso della sua carriera e attività clinica Camillo Loriedo ha avuto l’onore di ricevere il Milton H. Erickson Lifetime Achievement Award e la Benjamin Franklin Gold Medal, i due riconoscimenti più ambiti e prestigiosi in ambito internazionale per quanto riguarda la pratica ipnotica.

Nel corso dell’intervista Loriedo ci descrive come l’ipnosi ericksoniana, definita anche ipnosi naturalistica, ponga l’accento sull’accesso e l’utilizzo delle risorse del paziente, il quale abbandona il ruolo “passivo” di mero ricevente della tecnica induttiva e ipnotica a favore di un ruolo “attivo” e di co-costruzione della stessa.

Riconoscendo al soggetto la propria abilità specifica di andare in trance e favorendo l’incontro con l’ipnotista tramite il rapport, un terreno di relazione e d’incontro specifico dell’ ipnosi, quest’ultima si svolge in totale sicurezza nelle mani del professionista, il quale adatta l’intervento sul paziente (tailoring) rispettandone l’individualità.

Tali caratteristiche di versatilità e capacità di focalizzazione sono state e continuano ad essere spunto per diversi approcci psicoterapeutici che hanno annesso elementi appartenenti all’ipnosi nei loro modelli d’intervento.

Ipnosi: indice dell’intervista a Camillo Loriedo

0:15 – Le origini dell’ipnosi si perdono nella notte dei tempi e la sua storia è stata oggetto di trionfi e critiche. Cosa si intende per ipnosi oggi e come ci possiamo immaginare l’ipnoterapeuta nel 2018?

3:46 – Miti, leggende metropolitane e false credenze contribuiscono a creare molta confusione in merito agli effetti che l’ipnosi può avere. Possiamo dire che l’ipnosi è sicura? Quali sono le false credenze che possono allontanare le persone da questo potente strumento terapeutico?

6:35 – Oggi la ricerca clinica pone particolare attenzione agli studi che rispettano criteri di validità ed efficacia, mentre nella pratica clinica vi è un crescente interesse, anche per logiche di risparmio, verso interventi brevi e sempre più focali. In quali ambiti clinici l’ ipnosi è riuscita nel tempo a distinguersi in termini di efficacia e brevità?

9:39 – L’ipnosi si è da sempre dimostrata un approccio terapeutico fecondo nell’ambito della salute mentale. Tutt’oggi molti approcci integrati guardano con rinnovato interesse alla pratica ipnotica. Proiettandoci nel futuro, quale prospettive vede per l’ ipnosi

GUARDA L’INTERVISTA IN VERSIONE INTEGRALE:

La psicoterapia cognitiva non è figlia del capitalismo

Entra nella mia stanza di psicoterapeuta un avvocato di quarant’anni, disperato. Intelligente, capace, ma non riesce più a lavorare. Soffre di attacchi di panico: si è fermato sulla tangenziale e da allora non guida, ha paura di svenire e perdere il controllo.

Articolo pubblicato sulla rubrica Lettura de Il Corriere della Sera

 

Per andare in ufficio prende il taxi, ai colleghi ha mentito: “Sono stanco di guidare”, è esausto. Un terapeuta cognitivista non fatica a curare il panico. Dopo due mesi riprende la macchina. Ma aveva un problema più complesso, quello che il manuale diagnostico, il DSM 5, chiama Disturbo Evitante di Personalità: è schiacciato da timore del giudizio, vergogna, l’idea di parlare in pubblico lo fa sudare. In terapia, nel corso di un anno, risolveremo anche quel problema. Torna a fare il suo lavoro, sereno, e la sua giornata si colora della dimenticata passione per fantascienza e fantasy. Discutiamo sul rapporto tra Darth Vader e Luke Skywalker, sul passato di Voldemort. Giochiamo. Ha riconquistato libertà dalla sofferenza e capacità di scelta. Sono contento.

Ma se ascoltassi Umberto Galimberti mi vedrei con altri occhi. La sua posizione nei confronti della psicoterapia, cognitiva in particolare, è spietata. Scopro di essere un disciplinato figlio del capitalismo, asservito alla techne, la tecnica. Finalmente mi rendo conto che non curo i pazienti, ma li normalizzo, ne offusco il vero io, li rendo automi, incapaci di voltarsi a Delfi, apatici ingranaggi della società produttiva. Tanti Charlot alla catena di montaggio in Tempi Moderni, mucche al pascolo.

Galimberti è parco di punti interrogativi quando parla di psicopatologia e psicoterapia. Un esempio: viviamo in una società senza morale e la sofferenza depressiva non è più legata alla colpa. Punto. Telefono d’urgenza al mio collega Francesco Mancini che credeva di essere un esperto riconosciuto internazionalmente di Disturbo Ossessivo Compulsivo (diagnosticato secondo il DSM 5 che naturalmente Galimberti disprezza): “Francesco, perdonami, non hai capito niente”. Gli spiego amorevolmente che i suoi studi di psicopatologia sperimentale non hanno senso. Ha dimostrato come alla radice di sintomi quali: lavarsi ripetutamente le mani, controllare incessantemente di aver chiuso il gas, rimuginare all’infinito sull’avere causato un danno ai figli ci sia il senso di colpa. Di tipo deontologico: la colpa morale. Ho trasgredito alla norma e questo mi rende sporco, immondo, mi deprimo. Mi lavo le mani, controllo, mi pulisco, alla lettera, corpo e coscienza. Mancini fa risalire l’ipotesi che le ossessioni siano generate dalla colpa all’arcivescovo Taylor, nel 1650. I suoi esperimenti mostrerebbero che l’idea tiene. Lo psicoanalista Francesco Gazzillo dà la stessa rilevanza alla colpa.

Come faccio a convincerli che hanno dedicato la loro professione a un’illusione? Che i nostri pazienti non provano più colpa? Che oggi la sofferenza nasce dal senso di inadeguatezza: “Ce la faccio, non ce la faccio?”. Vorrei avere certezze, purtroppo la vocazione empirica mi porta a seminare punti interrogativi un po’ ovunque. Posso ipotizzare che le persone siano depresse per colpa, per vergogna all’idea di fallire, per timore di restare sole e abbandonate. Poi studio gli esperimenti, ascolto i pazienti, scopro che tutti e tre i percorsi sono possibili e devo adattare la mia azione al caso specifico. E a quel punto la depressione passa. Ma cosa dico ai miei colleghi cognitivisti che pensano che curare la psicopatologia significhi ridare respiro, quiete, tempo di vita ai pazienti? Sarò in grado di fargli capire che stanno partorendo cyborg pre-programmati?

Un momento. Mi viene il sospetto che Galimberti non abbia molto chiaro cosa siano le terapie cognitive. Per dire, nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia sostiene che si basino sul modello ABC dove A sarebbe l’ambiente, B (behaviour) il comportamento, C le conseguenze. Descrivesse così l’ABC cognitivista lo studente di una scuola di psicoterapia cognitiva sarebbe bocciato. In termini cognitivi A è l’antecedente, B (belief) l’interpretazione dell’evento, C le conseguenze in termini di emozioni e comportamenti: un collega mi critica, penso che abbia ragione e non valgo niente, mi vergogno e mi isolo. Ma tant’è, perché essere precisi nel descrivere la tecnica di noi vassalli del conformismo?

Il filosofo brillante solleva dubbi – magari non ne ha, ma li solleva – e nella mia mente se ne affastellano molti. Che lavoro fanno i miei colleghi che curano il disturbo post-traumatico da stress? Pazienti che sono stati vittime di violenza, abuso, hanno assistito a scene disumane che riaffiorano nella veglia, nei sogni. Non si calmano mai. Ripenso a chi lavora nei centri di accoglienza: lì storie di tortura e stupro sono la regola. Il mio collega Antonio Onofri mi racconta come da cognitivista utilizzi tecniche corporee e immaginative per ridurre il senso di allerta, far rivivere i germogli del senso di sicurezza. L’ingenuità non gli appartiene: non vuole convincerli che il mondo è un posto sicuro. Non lo è. Vuole ricreare un senso di sicurezza soggettivo. E nel farlo adotta tecniche di efficacia empiricamente supportata. Un modo di ragionare che molti psicoanalisti condividono.

Agiamo, noi psicoterapeuti, guidati dalla responsabilità verso un referente terzo: dobbiamo e vogliamo rendere conto della nostra prassi. Possiamo promettere salute? In che misura e a quali condizioni? Siamo testimoni di una scienza imperfetta, incapaci di rispondere a molte domande e di prevedere tutte le conseguenze delle nostre pratiche. Ma, pur in uno stato di costante imprecisione, ci proviamo. Il rischio di fallire ogni giorno è elettricità tonificante per chi fa scienza. Giochiamo oneste partite a carte che una mano sfortunata ci può far perdere, insistiamo perché l’esercizio costante affina il talento.

Gli attacchi del filosofo alla psicoterapia scientifica sono disinteressati? Forse no. Quando propone come alternativa il counseling filosofico – mi affretto a dire: non è gratuito – che ci siano sotto motivi economici? Logica vuole che sì, ma è una pratica senza supporto empirico. Non ho niente in contrario al rivolgersi a un filosofo per parlare di cose della vita, per carità. Come non mi dà pena che ci si indirizzi a preti, astrologi, guru. Ognuno cerca il senso dove vuole. Io nella psicoterapia fondata empiricamente e questo offro ai pazienti.

Poi a fine giornata, a luci spente penso che: i filosofi curano l’anima meglio degli psicoterapeuti; Gandalf è il padre di Harry Potter; dietro la maschera di Darth Vader c’è Batman. Non temo smentite.

L’EMDR per il suicidio – Un racconto di Fantapsicologia

Poiché in tempo di post verità e fake news (il nuovo nome delle antiche bufale) tutto quello che circola sul web viene spesso preso per oro colato, tengo a precisare che questo articoletto sull’ EMDR non è, e spero mai lo diventi, un articolo scientifico ma piuttosto un raccontino di un nuovo filone che potremmo chiamare “FANTAPSICOLOGIA”, nato dal bisogno contraddittorio di liberare la mente da dolci ricordi del passato che ci tengono legati ad esso e contemporaneamente dal timore di perderli, perdendo con essi un pezzetto di noi stessi. Il suicidio dunque, faccenda serissima, per carità non c’entra.

 

Freud nei primi periodi in cui andava formulando la sua teorizzazione psicoanalitica affermava con decisione che molte delle sofferenze dei suoi pazienti fossero dovute a traumi sperimentati da bambini (si ricordi il caso di Anna O. tale Berta Pappenheim). Esperienze in cui gli innocenti pargoli erano state vittime degli adulti, spesso familiari o conoscenti stretti e fidatissimi. In particolare molti di questi traumi consistevano in drammatica trascuratezza che metteva in pericolo la vita stessa e in abusi sessuali più o meno espliciti.

Sebbene la sua fissazione per il sesso fosse ormai cosa ben nota e oggetto di ironia e pettegolezzo ma pur sempre mal tollerata negli ambienti accademici, questo era davvero troppo per la società dell’epoca e forse anche per quella attuale. Passi che i bimbi non fossero dei teneri angioletti e nascondessero sotto quella soffice e indifesa apparenza l’ingordigia sessuale di un maniaco di criminal mind mista alla amoralità di un antisociale protagonista di tragedia greca, ma che persino gli adulti potessero mischiare alle carezze protettive erotiche stimolazioni era davvero troppo!!

Per salvare la teoria generale ed il futuro della psicoanalisi dall’ostracismo scientifico e dei benpensanti bisognava sacrificare la realtà del trauma che divenne sempre più una fantasia, comunque psicologicamente devastante, ma penalmente irrilevante. Gli orchi, tutti furono rassicurati, non popolavano davvero la realtà ma l’immaginazione dei bambini che definì perversi polimorfi, aggiungendo al danno la beffa. Siccome si trova solo ciò che si cerca, se si smette di cercare non si trova più nulla e gli adulti recuperarono la loro dignità, protetta da una insuperabile cintura di omertà cui collaboravano anche le vittime additate, altrimenti, come fantasiose perverse calunniatrici. Il trauma sessuale e con esso tutti i traumi in genere persero progressivamente importanza come fattore patogeno, a tutto vantaggio degli aspetti intrapsichici.

Passarono decenni, poi come per tutte le grandi scoperte che si caratterizzano per la casualità della loro emergenza e l’evidenza della loro efficacia che non necessita di giustificazione perché si impone, si sviluppò, per un’intuizione nata da un’osservazione su di sé di Nataline Shapiro nel 1987 l’ EMDR. Una banale tecnica ai confini del magico, che grazie ad un ritmo oscillatorio rimette in moto nel circolo dei ricordi della propria vita quell’ansa del fiume, dove era rimasto sequestrato il trauma che si era sottratto al fluire e, diventata palude avvelenava tutta l’aria con i suoi miasmi, la diga che la separava dalle onde della corrente veniva abbattuta e tutto riprende a scorrere.

Per anni alla fine del ‘900 ne fu fatto un uso buono e sempre più massiccio, talvolta fideistico. Dove c’era un dolore si trattava di risalire alla spina primigenia che si era conficcata nella carne fisica e psichica e con poche manovre cui presto furono addestrate anche delle macchine per risparmiare sui costi e rendere accessibile a tutti e dunque più democratica la salute, spremere l’ascesso che la avvolgeva in una ciste purulenta e spurgare tutta la porcheria nel torrente tumultuoso dell’esistenza che ripulisce ogni cosa.

Poi successe esattamente ciò che era già avvenuto molti secoli prima per la magia. All’inizio infatti la magia era un bianco sapere segreto delle fate che venivano chiamate a proteggere i bimbi, a sanare le ferite d’amore, a rendere soave la vita e sereno il morire, guidando gli incerti passi degli umani smarriti tra i pericoli e le trappole che non dominavano con le loro forze. Poi un giorno una fata invidiosa, o forse a sua volta traumatizzata come già in precedenza Lucifero, ne volse l’enorme potere al male e fondò la magia nera che seminava dolori, sofferenze inenarrabili, amori strazianti e morte.

Lo stesso avvenne, progressivamente e quasi per caso con l’ EMDR. Un medico tedesco animato anch’egli di buone intenzioni, si accorse che spesso i suoi pazienti soffrivano di una forma maligna e talvolta mortale di nostalgia. Costoro non erano tormentati da ricordi traumatici ma, al contrario, da dolci esperienze al cui confronto l’esistenza attuale pareva insostenibile. Esplicitamente gli chiedevano di rimuovere tali ricordi su cui non funzionavano neppure sporadici e fallimentari tentativi di psicochirurgia tentati negli Stati uniti e comunque proibiti nel resto del mondo civilizzato. Il dibattito sulla legittimità di tali “pratiche oblifere”, come vennero chiamate, oltrepassò i comitati di bioetica e divenne oggetto di un acceso dibattito pubblico. I politici proposero anche un utilizzo sociale di tale tecnica nella speranza che se tutte le cose buone del passato fossero state dimenticate il presente sarebbe apparso come il migliore dei mondi possibile aumentando il loro consenso e azzerando i rimpianti. Un team di astrofisici e ottici si mise al lavoro per un grandioso progetto con l’obiettivo di far sì che nelle notti di plenilunio l’immagine della luna piena oscillasse nel cielo con una frequenza di 7 hertz. L’indicatore del successo della gigantesca operazione psico-astro-politica sarebbe stato la totale cessazione nelle conversazioni nei bar della fatidica frase critico/nostalgica “si stava meglio quando si stava peggio”.

Quando ormai il progetto sembrava ben avviato con ingenti finanziamenti di tutte le dittature più o meno esplicite che si erano andate affermando negli ultimi decenni, fu la voce del Santo Padre, seguito rapidamente da tutti i leader religiosi del mondo, a fermarlo preoccupato della cancellazione di tutta la storia della salvezza con la conseguente necessità di rimandarne in scena una replica ad ogni generazione con le evidenti difficoltà di casting per trovare ogni 20 anni un povero Cristo.

Dopo questo autorevole stop etico e il ritiro conseguente degli stanziamenti il trattamento oblifero con EMDR ha perso l’importanza che aveva e deluso le speranze che aveva generato nei nostalgici patologici che addirittura aggiunsero alle altre la nostalgia per questa speranza perduta.

Solo in Svizzera è ancora praticato essendo entrato a far parte del protocollo di preparazione al suicidio assistito per purificare i candidati dagli ultimi legami che li trattengono in questa vita. Il razionale che sostiene il protocollo è che, quantunque lucidamente orientati al proprio annientamento, molte persone, oltrepassata l’ultima curva e con dinanzi soltanto il radioso rettilineo finale tutto in discesa, iniziano talvolta ad avere tentennamenti che prolungano i tempi e fanno lievitare i costi per il SSN, ricordando quisquilie come una serata in montagna con gli amici a cantare alle stelle sotto le cime di roccia che nascondono la luna, lo struggimento di un verso di De Andrè, il brillare incredulo degli occhi di lei, il sapore delle sue labbra, frasi insensate sussurrate all’orecchio, l’abbandono fiducioso tra le proprie braccia del figlio, il richiamo assillante del nipotino che vuol mostrare il goal appena segnato e poi, last e anche least, i successi, i riconoscimenti, la fama minuscola che appariva eterna.

La tecnica prevede che prima di mettere nel mirino della cancellazione ognuno di questi ricordi (per ciascuno dei quali va firmato il consenso informato con una esatta descrizione del ricordo cui si intende rinunciare perché indietro non si torna e già moltissime sono state le richieste di risarcimento per sottrazione di passato) l’installazione del “posto orribilis” (P.O.) un luogo o una situazione in cui il soggetto si è sentito assolutamente e irreversibilmente minacciato e nello starci si diceva “mai più, meglio morto”. Il P.O. va richiamato alla mente ogni volta si avverta un cedimento nella propria determinazione suicida. Il posto orribilis può essere sintetizzato anche in una sola parola per poterlo richiamare rapidamente alla mente nella vita di tutti i giorni quando non c’è tempo di estraniarsi dalle circostanze per rivivere le sensazioni corporee, le emozioni e le convinzioni che avevano fatto scegliere con diamantina certezza la decisione di non sperimentare mai più tale umiliazione, perdita o tribolazione soggettivamente intollerabile. Poter fare un salto nel luogo della massima afflizione deve venire in soccorso al candidato suicida quando nonostante la ferrea vigilanza qualche sprazzo di vitalità desiderante riesce a penetrare nella clinica per il suicidio assistito.

Dopo questa prima fase, i ricordi da cancellare vengono lavorati uno ad uno. Per ciascuno di essi l’immagine positiva che vi è associata va infangata con elementi putrefattivi deducibili da come sono poi andate veramente le cose. Qualora non si riesca a trasformare con il raziocinio le convinzioni positive su di sé e sul mondo, cui il ricordo è associato, in altrettante opposte convinzioni negative, si può mettere in atto il cosiddetto piano “B” consistente nel non negare gli antichi vissuti positivi ma nel ridefinirli, assumendo un punto di vista “meta”, come un transitorio e crudele inganno della matrigna Natura di cui Giacomo Leopardi ha svelato lucidamente tutte le bieche strategie, ma che continua a imbrogliarci facendoci credere che questa volta, per noi, sarà diverso.

Il lavoro su ciascun dolce ricordo non può dirsi concluso fintantochè il SUD (unità di disagio soggettivo) non raggiunge il massimo livello (10) nella scala decimale su cui viene valutato e lo si sperimenta lancinante, profondo non in una sola parte limitata ma in tutto il corpo e tale persiste fino alla seduta successiva.

Paralisi cerebrale negli adulti: esisterebbe un rischio maggiore di sviluppare ansia e depressione

Secondo un recente studio, pubblicato su Jama Neurology, gli adulti con paralisi cerebrale hanno un rischio maggiore di sviluppare depressione e ansia.

 

Un gruppo di ricercatori condotto dal Dott. Kimberley Smith dell’Università di Surrey e da Jennifer Ryan del Royal College of Surgeons in Irlanda, finanziato dalla Brunel University London, ha indagato il tasso di disturbi mentali nelle persone con paralisi cerebrale comparandoli con soggetti aventi la stessa età, sesso e condizione socioeconomica, ma che non presentavano un danno cerebrale. Le difficoltà intellettive, che colpiscono la maggior parte dei soggetti con paralisi cerebrale, sono state indagate per determinare se svolgessero un ruolo nello sviluppo di disturbi mentali come depressione e di ansia.

Il fenomeno e la sua incidenza

Paralisi cerebrale è il termine generico utilizzato per un gruppo eterogeneo di patologie che si verificano in un cervello fetale o infantile in via di sviluppo. Le persone, affette da questa condizione presentano sintomi quali problemi di movimento, di coordinazione, di postura e di equilibrio. Questi disturbi motori presentano una comorbilità con altri problemi, come disturbo comportamentale, difficoltà cognitive, difficoltà di comunicazione, deficit sensoriali, epilessia e disabilità intellettiva (ID). La paralisi cerebrale è una condizione che influenza il controllo e il movimento dei muscoli, ed è solitamente causata da una lesione al cervello prima, durante o dopo la nascita.

Si stima che tale patologia incida da 2 a 3 su 1000 nati e circa 1 su 400 persone nel Regno Unito è affetta da una paralisi cerebrale. Entro il 2031, si ritiene che ci sarà un triplo aumento del numero di persone con paralisi cerebrale di età superiore ai 65 anni.

Uno studio sulla salute mentale degli adulti con paralisi cerebrale

Si sa relativamente poco sulla salute mentale degli adulti affetti da paralisi cerebrale poiché si pensa che questo danno riguardi solo i bambini nonostante in realtà questa condizione perduri anche in età adulta.

Alcuni ricercatori hanno esaminato fino a 28 anni di dati sulle cure primarie nel Regno Unito di 1700 adulti di età pari o superiore a 18 anni con paralisi cerebrale e 5115 di soggetti esenti da questa condizione. Dai risultati emerge che il rischio di sviluppare depressione e ansia nei soggetti con paralisi era più alto rispetto al campione di controllo, soggetti che non presentavano paralisi, per la depressione del 28% e per quanto riguarda l’ ansia del 40%.

Per i soggetti che presentavano una paralisi cerebrale ma non riportavano difficoltà intellettuali, la possibilità di sviluppare depressione e ansia aumentava ulteriormente.

Confrontando gli adulti con paralisi cerebrale che non riportavano difficoltà intellettuali con il campione di controllo, il rischio di sviluppare depressione e ansia era più alto rispettivamente del 44% e del 55%.

Conclusioni

L’autore principale dello studio, il Dr. Kimberley Smith, docente di Health Psychology presso l’Università di Surrey, sostiene che ancora tanto deve essere fatto per capire perché i soggetti con paralisi cerebrale hanno un rischio maggiore di sviluppare depressione e ansia. Da questi risultati emerge tuttavia che vi è la necessità di considerare la paralisi come una condizione permanente, e di identificare e affrontare i problemi legati alla salute mentale tra le persone con paralisi cerebrale e i problemi di natura fisica.

Nonostante sia storicamente considerata una condizione pediatrica, la maggior parte delle persone con paralisi cerebrale vive bene fino all’età adulta, ma molti adulti con paralisi cerebrale sperimentano nel corso degli anni un peggioramento delle menomazioni, incluso un declino della mobilità.

Come prospettiva futura ci si augura che i risultati dello studio possano contribuire ad accelerare una risposta negli adulti con paralisi cerebrale che riportano una situazione inadeguata di servizi sanitari coordinati in tutto il mondo.

Cognitivismo Clinico: The legacy of Giovanni Liotti – Editoriale

Giovanni Liotti era nato a Tripoli nel marzo del 1945; le vicende della sua famiglia d’origine hanno incontrato la storia del secolo scorso in circostanze peculiari, poiché proprio in quegli anni (tra il 1943 e il 1947) la Libia avrebbe cessato di essere italiana.

Sandra De Biase, Marianna Liotti, Enrico Costantini, Maurizio Brasini

 

Gianni (come lo chiamavano colleghi e amici) si definiva un pied noir – cioè qualcuno che appartiene a più luoghi ed è al tempo stesso un perenne esule in patria – facendo riferimento a questo suo tratto identitario che lo aveva reso un infaticabile e inquieto “costruttore di ponti” fatti di conoscenze condivise e unificanti. Fondatore insieme a Vittorio Guidano nel 1973 della Società Italiana di Terapia Comportamentale (SITC, poi divenuta SITCC con l’apertura alla prospettiva cognitivista nel 1981), lungo tutto l’arco della propria attività professionale ha sempre mantenuto un vivace e a tratti battagliero dialogo non soltanto con le diverse anime del cognitivismo italiano, ma con ogni orientamento scientifico ed epistemologico in cui ravvisasse un potenziale contributo alla comprensione del funzionamento dell’essere umano.

Un’opera conoscitiva che per Gianni non poteva esprimersi se non nella relazione, attraverso la ricerca di quei momenti di condivisione del significato dell’esperienza che chiamava “intersoggettività”, ponendola al vertice dell’espressione della nostra comune umanità. La sua poderosa produzione scientifica, più tutto il tempo intangibile dedicato a incontrare allievi e colleghi in giro per l’Italia e all’estero (partecipando ai convegni, insegnando e offrendo supervisione), e non da ultimo la sua cinquantennale attività clinica con i pazienti, sono tutte espressioni di un’unica opera fondata sulla curiosità intellettuale, sull’attenzione al prossimo, sulla generosità, sull’autenticità, sul rigore e sull’onestà, che costituisce un esempio e un lascito per chiunque intenda dedicarsi alla nobilitazione della condizione umana attraverso l’incontro e il dialogo.

Nel suo ultimo anno di vita Gianni era sopravvissuto a un ictus che inizialmente pareva dovesse segnare immediatamente il suo destino, e aveva invece ripreso a speculare sulla coscienza attraverso gli insegnamenti della Divina commedia; sembrava lui stesso ritornato da un viaggio dantesco e nei suoi discorsi riverberavano, insieme ai temi propri del Gianni scienziato, anche le sue ben note passioni filosofiche e letterarie, e una sensibilità religiosa e contemplativa che solo le persone a lui più care avevano conosciuto fino a quel momento, in qualcosa che rammentava da vicino il concetto di “sintesi personale” al quale era tanto affezionato. Attorniato dai suoi familiari e dagli amici più cari, e quasi volando oltre la sua stessa condizione, accoglieva i suoi ospiti senza mai stancarsi di onorare la parola “amico”, e con generosità offriva loro intuizioni e riflessioni personali insieme ad aneddoti e storie, pagine di narrativa, scene di film, poesie. Uno di questi racconti era tratto da un vecchio libro che descriveva le vicende di un medico italiano in Libia nella prima metà del Novecento. C’era, in particolare, un passaggio nel quale Gianni non nascondeva la propria commozione, riguardante l’amicizia tra il vescovo (italiano e di origini modeste, coltissimo e prima che vescovo monaco francescano) e il pascià (arabo e di stirpe nobile, illetterato e amante delle donne) di Tripoli:

Non avevo mai incontrato due uomini che fossero, in superficie, più direttamente opposti nel temperamento, ma raramente mi ero imbattuto in un’amicizia tanto profonda e intima. […] Un giorno, mentre stavo aiutando il vescovo a sistemare i propri libri sugli scaffali, gli annunciai che avevo finalmente capito perché lui e il pascià erano amici così stretti; dissi che la loro amicizia era un’amicizia tra francescani. Lui continuò a sfogliare le pagine di un volume che teneva in mano come se stesse cercando lì la risposta da darmi. Dopo alcuni momenti di silenzio, chiuse il libro e disse in tono brusco, quasi seccato: “Lei si esprime male non solo in arabo, ma anche in italiano. Dovrebbe sapere che un musulmano non può essere un frate cappuccino, e che io stesso sono troppo poco degno della veste che porto per potermi definire francescano. Ma supponiamo pure di lasciare San Francesco fuori dalla questione: è troppo al di sopra delle nostre miserabili preoccupazioni. Il pascià è un uomo di gran cuore e di umiltà esemplare, che pratica le tre virtù canoniche in maniera mirabile, pur seguendo la legge di un capotribù che non fu mai un profeta. Se, d’altra parte, io ho avuto il privilegio di conoscere la Verità, è per grazia di Dio e non per mia virtù. Ho imparato molto da quest’uomo; è per questo che siamo amici. (Denti di Pirajno A (1955). A cure for Serpents: a Doctor in Africa, pp. 154-155. Andre Deutsch)

La storia dell’amicizia tra due uomini che, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e culturali, si riconoscono simili e amici suggerisce a tutta prima un dato autobiografico, l’incontro con John Bowlby, il quale, nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, nel 1990 dichiarava:

[Liotti] è uno dei pochi terapeuti cognitivi che prende in considerazione lo sviluppo. Ma una volta che un terapeuta cognitivo pensa evolutivamente e in termini di processi inconsci e coscienti, egli è in sintonia con uno psicoanalista come me (…). La terapia cognitiva che rappresenta Liotti e la terapia psicoanalitica che rappresento io convergono. Come chiamarla, non so (Tondo L (2011). John Bowlby Interviewed by Leonardo Tondo. Clinical Neuropsychiatry 8, 159-171.)

Tuttavia, a parere di chi scrive, non è soltanto o principalmente questo dato autobiografico a rendere conto del perché Gianni abbia inteso condividere questa sorta di parabola del vescovo e del pascià con i suoi amici nel suo ultimo anno di vita. Il termine inglese legacy è difficilmente traducibile, perché sta a indicare un’eredità o un lascito, ma soprattutto un dono sul quale si fonda un legame da onorare (legatus era chi veniva inviato in una missione governativa per delega dal senato romano). Il presente numero di Cognitivismo Clinico è appunto dedicato all’eredità scientifica e culturale di Giovanni Liotti, ed è stato concepito in questa accezione di legacy.

Per questo, il gruppo romano dei suoi più stretti e affezionati collaboratori e allievi ha lasciato spazio ad altri amici e colleghi, alcuni più prossimi, altri più distanti nello spazio o nel tempo o come prospettiva teorica, ma tutti accomunati da un dialogo vitale e mai sopito con Gianni e con il suo pensiero, nonché da un profondo senso di amicizia che rispecchia lo spirito del racconto del vescovo e del pascià. Nel ringraziare ancora una volta e sentitamente tutti gli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero, ci rivolgiamo ai lettori nella speranza che – in particolare i più giovani – possano, a partire magari da questi spunti, approfondire la conoscenza dell’opera di Giovanni Liotti e negli anni a venire ravvivare il suo lascito culturale continuando a condividerne le intenzioni e lo spirito.

 

L’amica geniale (2012) di Elena Ferrante – Recensione dei primi due libri della saga

L’ amica geniale è la storia di due inseparabili amiche cresciute in un quartiere della Napoli degli anni 50, tra la povertà, la durissima scuola e lo strozzinaggio dei vicini. Il romanzo è narrato dalla prospettiva di Elena che, ormai prossima all’anzianità, ripercorre le tappe dell’amicizia con Lila, scomparsa inspiegabilmente.

 

Fin da piccole, le due si contraddistinguevano come la “buona” e la “cattiva”: Elena studiosa, posata e delicata, Lila ribelle, sfidante, ma anche curiosa e brillante, spicca tra le preferenze della maestra che si commuove pensando a lei, la figlia dello scarparo, intenta ad apprendere nozioni di grammatica in totale solitudine, raccattando i giornali usati con il quale il padre proteggeva le scarpe durante il lavoro sfiancante.

L’ amica geniale: la rivalità tra due amiche

La rivalità tra amiche inizia già prima della costruzione del legame, Elena sceglie Lila, si sente eternamente seconda, ma trova in quell’amica impavida e spavalda la strada per sfuggire all’atmosfera del quartiere dove regna l’eterna lotta per la sopravvivenza, la sopraffazione e la supremazia, per non diventare come la madre, ignorante, claudicante e severa, che trascorre l’esistenza lamentandosi della costosa vita, invidiosa del successo che la figlia si costruisce silenziosamente senza avanzare pretese. Lila esercita una potente influenza su Elena che osa prevaricare i precetti famigliari, per poi rientrare nella veste di sé , la “buona”, autopunendosi con lo studio intenso e l’incuria personale. I risultati scolastici brillanti mostrano un desiderio di riscatto e differenziazione non solo dal rione, ma anche dall’amica stessa che, per volontà del padre, è condannata a sprecare le sue doti nella bottega, nella quale segretamente progetta, con l’approvazione del fratello, modelli innovativi di scarpe.

Pur rinunciando al proseguimento dello studio, Lila diventa l’assidua frequentatrice della biblioteca, approfondisce i classici della letteratura, la grammatica greca e latina, senza rivolgersi agli insegnanti, provvedendo anche ad aiutare l’amica nelle difficoltà che le prime prestazioni scolastiche richiamano. Elena quindi riceve da un lato il conforto e l’esortazione della compagna di giochi, che la stimola non solo per il bene ma anche per intravedere in una figura significativa ciò che da sola non può concretizzare, tuttavia prova l’insostenibile percezione di essere superata dalla figlia dello scarparo che saprà comunque rialzarsi in piedi, nonostante gli schiaffi del destino.

L’ amica geniale: sofferenza e rabbia

L’intero racconto de L’ amica geniale pone in risalto il confronto tra le due vite che si intrecciano e si compensano: Lila ammalia, ma tira a sé un ricettacolo di incomprensioni e pericoli, è consapevole dell’effetto che esercita e finisce per scottarsi, per poi ricominciare. Elena, dall’altra parte, si muove in sordina, viene investita dal rione di una responsabilità materna e mitigante nei confronti dell’amica, una rappresentazione che con il tempo comincia a starle stretta. Tutti sanno che Lenù è l’unica in grado di appianare i dissensi, di sacrificare i suoi bisogni per risolvere le questioni di Lila: e infatti senza esitazioni, abbandona Ischia per correre dall’amica braccata dal bellissimo Marcello Solara e dai genitori bramosi di un futuro matrimonio con lui, il più ricco e potente del quartiere, la copre nelle tresche con Stefano e successivamente con Nino.

Pur supportando energicamente il proseguimento degli studi di Lenù, Lila accoglie con ambiguità la crescente e visibile differenza culturale che le divide inesorabilmente, così non perde occasione per umiliare l’illustre ambiente scolastico che sancisce l’inevitabile confronto impari. La “furia” di Lila si estende anche all’amore segreto di Elena, Nino, con cui la giovane, all’insaputa della famiglia e del marito, intrattiene un’appassionata relazione extraconiugale: anche in questa occasione straziante, Lenuccia esprime in solitudine la delusione e la rabbia e continua a compiacere la compagna di giochi

Da un lato dicevo basta, dall’altra mi deprimevo all’idea di non essere parte della sua vita, del suo modo di inventarsela – Ferrante, Storia di un nuovo cognome, p. 274.

L’ amica geniale: le strategie per cavarsela al meglio

L’aggressività di Lenù traspare attraverso evitamenti, ritiri, piccoli sabotaggi, ma anche giustificazioni che sembrano protettive e in realtà nascondono il desiderio di distruggere il rapporto amoroso sul nascere. Quando la relazione clandestina si intensifica e si palesa agli occhi di tutti, creando scompiglio e dolore, la narratrice ritorna a concentrarsi sulle aspirazioni personali, uscendo simbolicamente e di fatto dal rione. Lila, al contrario, sopporta da sola l’umiliazione degli abitanti, del marito, della famiglia che da un lato la protegge, dall’altro le addossa le colpe delle disgrazie repentine, fantastica un’esistenza sentimentale duratura e idilliaca con l’amante estivo, ma non comprende la caducità della passione travolgente in giovanissima età, le differenze individuali che si scandiscono al trascorrere dei giorni e allontanano.

Lila scambia l’intensità momentanea per l’amore eterno, pone confini illimitati alla propria sicurezza che la conduce in un baratro di povertà e fatica, ripetendo la medesima sorte: da bambina non ha proseguito gli studi per la povertà, da giovane non sa sfruttare la ricchezza per recuperare il tempo perduto e riscattarsi. E invece Lenù non sa di coltivare un genio dentro di sé, viene scoperta dall’esterno e riesce a coronare i suoi sogni. Di tanto in tanto nutre la tentazione di scivolare nel quartiere d’origine, di abbandonare il successo e appropriarsi del destino ambito dalla madre denigrante, tuttavia riemerge splendente, in silenzio, zittisce la famiglia e gli amici, affronta la prepotenza e viene apprezzata. Qualche volta insicura nelle scelte sentimentali che si dirigono su partners che non l’attraggono e nelle amicizie in cui appare focalizzata sul confronto più che alla strutturazione di sé, Elena riesce comunque ad incanalare le sue risorse in una direzione costruttiva che la condurrà verso il successo e la soddisfazione personale, ritagliandosi, così, una carriera che sembra proteggerla dalle delusioni cocenti del rione.

Aiuta gli altri, aiuta te stesso: i benefici dell’essere compassionevoli

Una recente ricerca sull’imparare ad essere più compassionevoli dimostra che anche persone apparentemente sgradevoli e poco gentili possono beneficiare di percorsi formativi e psicoeducazionali che permettono loro di sviluppare compassione.

Adriano Mauro Ellena

 

“Nessun atto di gentilezza, non importa quanto piccolo, è mai sprecato”.
(Esopo)

 

Alcuni ricercatori dell’Università di York hanno coinvolto 640 persone con depressione lieve in un percorso online che aveva lo scopo di incrementare i loro comportamenti compassionevoli verso gli altri. Ai partecipanti allo studio, aventi un’età media intorno ai 35 anni, è stato chiesto di svolgere uno dei tre esercizi di “Compassion Intervention” online sviluppati dai ricercatori, completare il loro esercizio e, in un secondo momento, accedere nuovamente alla piattaforma per registrare ogni giorno per tre settimane i rapporti e le interazioni che avevano con altre persone.

Tra i tre esercizi, l’esercizio chiamato “Acts of Kindness” ha dato i maggiori benefici ai partecipanti allo studio: coloro che hanno compiuto atti di gentilezza nelle loro relazioni intime hanno infatti mostrato una riduzione dei sintomi depressivi e un incremento nel livello di soddisfazione della propria vita (tali dati sono stati valutati e misurati attraverso la somministrazione ai soggetti di questionari self report).

Insegnare la compassione e l’empatia

Punto di partenza degli autori di questa ricerca è stato che le persone che possono essere generalmente considerate come altamente sgradevoli spesso hanno un deficit nella capacità di empatia, sono ostili e non sanno collaborare bene con gli altri, con il risultato che possono essere ostracizzate o rifiutate. Dare a queste persone suggerimenti specifici, insegnando loro alcune strategie pratiche che possono mettere in atto ogni giorno per esprimere empatia verso le persone con cui sono in relazioni intime, può essere estremamente utile.

Il progetto è stato facile da implementare e, dal punto di vista dei partecipanti allo studio, rapido (10-15 minuti a giorni alterni) e facile da completare.

Tra i tre esercizi proposti, si è rivelato molto utile anche l’esercizio chiamato “Loving Kindness Meditation” pur non raggiungendo lo stesso livello dei miglioramenti nello stato di benessere dell’individuo ottenuti con l’esercizio “Acts of Kindness”.

Insomma tutti questi risultati sembrano suggerire che il cervello può essere allenato alla compassione.

Ricerche precedenti

Ricerche precedenti pubblicate su importanti riviste di settore avevano già indagato aspetti simili. In particolare, uno studio pubblicato su Psychological Science, un giornale dell’Association for Psychological Science, ha cercato di capire se la compassione potesse essere allenata e appresa negli adulti e se l’allenarsi ad avere una mentalità più compassionevole potesse indurre gli adulti ad essere più premurosi. I risultati ottenuti da questo studio sembravano essere piuttosto rassicuranti in questo senso.

Lo studio ha fatto uso di un’antica tecnica buddista chiamata “meditazione compassionevole”, in cui i partecipanti allo studio (giovani adulti) sono stati addestrati ad aumentare i sentimenti di apprensione per le persone che soffrono. Dopo l’allenamento, è stato chiesto loro di mostrare compassione per i propri cari (quelli per i quali si sarebbero facilmente sentiti compassionevoli), poi se stessi, uno sconosciuto e, infine, per una persona difficile, come un collega con cui avevano un conflitto.

Secondo i ricercatori questo “allenamento ponderato” in cui gli individui hanno attivamente sviluppato il loro “muscolo compassionevole” li ha aiutati a rispondere con desiderio alla possibilità di aiutare  a ridurre la sofferenza degli altri.

Ciò che i ricercatori hanno scoperto con questo ed altri esercizi progettati per misurare la compassione, è che la compassione non è qualcosa di rigido o fisso, ma tale capacità può essere migliorata attraverso l’allenamento e la pratica. Pertanto, si dovrebbe incominciare a pensare che il compassion training potrebbe essere impiegato nelle scuole per aiutare ad esempio a combattere fenomeni come il bullismo e potrebbe rivelarsi utile per coloro che hanno un comportamento antisociale. Inoltre, gli stessi ricercatori sarebbero entusiasti di vedere gli effetti del compassion training sulla popolazione generale, in termini di cambiamenti nello stile di vita.

L’addestramento per potenziare la “muscolatura della compassione“ è disponibile presso il sito web di University of Wisconsin-Madison’s Center for Healthy Minds.

Ed ancora, ulteriori ricerche pubblicate su Frontiers in Psychology suggeriscono che l’allenamento alla meditazione e alla compassione possono aiutare anche a ridurre le reazioni neurali avverse alla sofferenza, mentre aumenta l’attenzione visiva alla sofferenza. Ciò può avere benefici prosociali, come nel caso di un medico che si prende cura di un paziente o che permette alle persone di rimanere calme in caso di sofferenza e più disposte a prestare aiuto.

Quello che gli autori di queste ricerche e noi stessi ci auguriamo è che ricerche future possano coinvolgere campioni di studio di dimensioni sempre maggiori così da poter studiare gli effetti delle strategie di compassion training e al contempo promuovere una diffusione della compassione e della gentilezza.

Alzheimer e nuove conferme dell’impatto dell’inquinamento sulla salute

La crescente preoccupazione inerente ad una evoluzione e diffusione dell’ Alzheimer tra i giovani delle municipalità di Città del Messico ha portato molti ricercatori di svariate Università americane e messicane ad indagare questo fenomeno.

 

Fin da bambini gli abitanti di Città del Messico hanno una esposizione ad agenti inquinanti con concentrazioni superiori ai minimi degli standard Statunitensi. Questa metropoli rappresenta l’emblema dell’estrema crescita urbana in un lasso di tempo ristretto, che ha causato ingenti tassi di inquinamento atmosferico a cui tutta la popolazione è esposta involontariamente sin dalla nascita.

Alzheimer e inquinamento: lo studio

Lo studio portato avanti dagli studiosi messicani e statunitensi ha coinvolto un campione di 507 soggetti formato da bambini e adolescenti con un’età media attorno ai 12 anni, residenti a Città del Messico oppure in una città di controllo con bassi tassi di inquinamento. È stato utilizzato un anticorpo come marcatore biologico per indagare il danno assonale, cioè il danno dei collegamenti principali tra neuroni; le dimensioni mielinizzate degli assoni sono state documentate mediante la microspia elettronica a trasmissione e in più sono state indagate anche le patologie connesse al deterioramento della corteccia cingolata anteriore che sono connesse allo sviluppo dell’Alzheimer.

Dai risultati si evince che con l’aumentare dell’età, gli assoni si danneggiano maggiormente ma questo processo è molto più veloce per i soggetti residenti a Città del Messico rispetto a coloro che sono residenti nelle aree di controllo; inoltre, nel campione di soggetti residenti a Città del Messico è stata riscontrata una diminuzione significativa delle dimensioni medie assonali della corteccia cingolata anteriore.

Alzheimer e inquinamento: i risultati

I ricercatori hanno sottolineato come l’inquinamento atmosferico sia un problema sempre più rilevante connesso alla salute, in particolare al maggior rischio di Alzheimer e neuroinfiammazioni in cui si incorre quando si è soggetti ad un’esposizione prolungata a quantità di agenti inquinanti superiori agli standard. Negli Stati Uniti più di 200 milioni di persone vivono in zone con alti tassi di inquinamento di ozono e particolato. Da questo dato si comprende bene come gli sforzi della ricerca scientifica e della politiche ambientali dovrebbero mirare ad identificare e mitigare i fattori ambientali che possono influenzare in modo negativo la salute della popolazione.

Siamo buoni o cattivi? – Il bene e il male negli esseri umani: un’analisi psicologica e letteraria da Zimbardo a Stevenson

I fatti di cronaca che ascoltiamo giornalmente, ma anche la nostra quotidiana esperienza, ci portano spesso a domandarci se l’uomo sia per natura buono o cattivo. Nasciamo buoni e il mondo che ci circonda ci insegna il male? Oppure è una mera questione genetica a determinare la nostra indole? Difficile dare una risposta.

 

Iniziamo a trattare questo tema con una salto nel passato. Possiamo dire che, una volta soddisfatti i bisogni primari, l’uomo non è naturalmente predatore ma è disponibile a forme di cooperazione perché realizza che l’altruismo è più utile alla sua sopravvivenza di quanto non lo sia l’egoismo.

Gli studi di Trivers sul perchè siamo altruisti

A questo proposito il biologo evoluzionista Robert Trivers (2014) condusse degli studi volti a dimostrare come l’altruismo verso i propri simili risulti essere utile alla sopravvivenza e alla diffusione dei propri geni, di conseguenza, alla conservazione stessa della specie. Da qui si spiegherebbe l’istinto alla collaborazione. Trivers evidenzia però comportamenti che vanno oltre, non solo nel genere umano ma anche in alcune specie animali. Un esperimento con delle scimmiette portò alla conclusione che la collaborazione con l’altro poteva essere finalizzata anche a qualcosa di più immediato, come il raggiungimento di un beneficio per se stessi. Una forma di cooperazione basata sul principio “io ti aiuto se tu aiuti me”. Negli uomini si arriva anche ad un passo successivo, un altruismo prosociale che non presenta l’ottenimento di una ricompensa evidente. Prendiamo come esempio chi rischia la vita per salvare un suo simile, in questo caso si può comunque supporre che il tornaconto possa essere di altro tipo, ad esempio l’approvazione sociale e la gratificazione che ne deriva. Trivers ipotizza anche un sistema di mutua assistenza i cui beneficiari non sono direttamente riconducibili ai soggetti coinvolti nell’atto di altruismo e ne deduce che il mettere in atto questo tipo di condotta genera appagamento in quanto rientra in una forma di giustizia che rispetta e legittima le regole sociali fatte proprie.

L’esperimento di Zimbardo

Arriviamo ad oggi e al bene e al male che troviamo negli individui nella quotidianità.

Nel 1971, lo psicologo statunitense Philip Zimbardo fece un esperimento, ricordato come l’esperimento carcerario di Stanford, in cui simulò con un gruppo di volontari la realtà carceraria. Questi volontari erano tutti persone irreprensibili e vennero casualmente divisi in due gruppi: carcerieri a carcerati. L’esperimento dovette essere sospeso dopo pochi giorni anche perché le guardie avevano assunto un comportamento violento e vessatorio nei confronti dei carcerati. Le conclusioni a cui Zimbardo arrivò furono che, se si ritenevano autorizzati a comportamenti aggressivi da un’autorità superiore, i soggetti che agivano in gruppo si sentivano deresponsabilizzati dalle loro azioni e autorizzati a compiere atti riprovevoli che mai avrebbero compiuto se avessero agito in maniera individuale.

Possiamo dire quindi che una catalogazione di “buoni” e “cattivi” non è così facilmente attuabile.

Anche le circostanze possono influire e far cambiare i punti di vista in base ai quali un comportamento è giudicato cattivo oppure no. Quando questo accade, succede spesso che in un secondo tempo, cambiate le circostanze, ci si chieda come siano potute succedere certe cose (e qui l’esempio va inevitabilmente al caso limite degli orrori del nazismo).

Va aggiunto che il male non è sempre intenzionale e volontario, a volte le persone pensano di avere delle giustificazioni per quello che hanno fatto, si danno degli alibi, che spesso consistono nella demonizzazione del nemico, “io mi sono comportato così in conseguenza di un suo comportamento scorretto”.

In realtà in tutti noi coesistono una certa quantità di bene e di male.

L’ombra di Jung

Questo discorso introduce il concetto delle “ombre” citate da Jung, e che si riferiscono a quella parte che noi tutti abbiamo a livello sia conscio che inconscio e che tendiamo a rifiutare perché in contrasto con la nostra “morale”. Possiamo dire che la parte conscia è rappresentata da quei difetti di noi che riconosciamo e accettiamo, quella inconscia è la parte che rifiutiamo e che spesso tendiamo ad attribuire ad altri trasferendo inconsciamente su di loro le negatività che non accettiamo di riconoscere come nostre. Lo psicanalista Mario Trevi attribuiva a questa proiezione inconscia la causa delle antipatie che nutriamo. In altre parole, cerchiamo un modo di confrontarci con l’ombra ma al tempo stesso ne prendiamo le distanze, “Se per esempio siamo a disagio con la nostra rabbia o la neghiamo, attireremo persone colleriche nella nostra vita, sopprimeremo il nostro personale senso di rabbia e sentenzieremo che gli altri sono collerici.” (Ford D., 2012).

Una rappresentazione suggestiva e altrettanto significativa di come bene e male siano due facce che coesistono in ciascuno di noi si trova in un libro assai noto, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, scritto da Robert Louis Stevenson nel 1886. L’idea dello sdoppiamento della personalità in questa antitesi bene-male era un argomento nuovo per l’epoca ed ebbe subito un grande impatto.

Il lato oscuro della personalità: il romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

Ripercorrendo la trama del romanzo ci imbattiamo nel Dr. Jekyll, chimico stimato e rispettato. Uomo educato, di sani principi, ci viene descritto anche fisicamente come imponente e ben fatto. Ci viene suggerita l’idea che sia perfino “troppo” rispettabile, probabilmente vorrebbe trasgredire ma non osa sfidare apertamente il giudizio delle persone rispettabili che gli stanno attorno. Affida questa sua voglia di trasgressione a teorie ed esperimenti di non comprovato valore scientifico che sconcertano i colleghi più tradizionali. Un giorno, tra gli alambicchi del suo laboratorio, il Dr. Jekyll riesce a mettere a punto una pozione straordinaria. Assumendola, la sua personalità si sdoppia e lui stesso si trasforma nel suo alter ego, il Signor Hyde. Questi è un uomo dall’aspetto sinistro, sgraziato e sgradevole sotto ogni punto di vista, crudele e privo di ogni morale. Inizialmente le intenzioni di Jackyll sarebbero di dimostrare che dissociando il bene e il male che coesistono in ogni individuo, e separando le due individualità, entrambi sarebbero finalmente liberi dalla lotta con quella parte di sé che rifiutano e potrebbero vivere come più desiderano. Con il protrarsi dell’esperimento, però, la situazione comincia a sfuggire dalle mani del dottore. Se inizialmente la trasformazione avviene sotto il suo pieno controllo, gestita con l’uso della pozione e del suo antidoto, con il passare del tempo il Signor Hyde assume sempre più una sua vita autonoma, tanto da prendere il sopravvento sulla volontà dello stesso Jekyll. Il male si insinua fino a destabilizzare la morale del dottore. Jekyll è fortemente condizionato da questa contrapposizione mentre Hyde si disinteressa di Jeckyll e vive solo per sé stesso. Quando capisce di non poterlo più gestire, il Dottor Jekyll cerca di uccidere Hyde ma non ci riesce, la tentazione di farlo rivivere è ancora troppo forte.

Alla fine la situazione precipita, Hyde, ormai scoperto e con le spalle al muro, si uccide, trascinando con sé Jekyll.

In conclusione, dobbiamo imparare a convivere con l’idea che una componente di male sia presente in ciascuno di noi. Il pericolo sta nella scissione dell’ombra che porta, come nel caso del libro di Stevenson, a farle vivere una vita autonoma e incontrollata. E’ utile, invece, prenderne coscienza e imparare a fronteggiare la nostra parte “cattiva” senza darci delle giustificazioni illusorie per le azioni che compiamo e senza proiettare su altri i nostri timori. Come sosteneva Jung, è necessario prendere consapevolezza della nostra ombra mettendola a confronto con la nostra parte conscia, con la nostra “etica”, quella parte interna e soggettiva della coscienza che dovrà riuscire ad integrarla scendendo a patti con la parte di noi che riconosciamo e accettiamo.

Manuale di ipnosi medica rapida (2014) di Giuseppe Regaldo – Recensione del libro

Il Manuale di ipnosi medica rapida di Giuseppe Regaldo è un testo molto interessante che descrive il processo induttivo da un punto di vista originale rispetto ai manuali classici.

 

Il Manuale di ipnosi medica rapida nasce dall’esperienza professionale del Dott. Regaldo, medico specialista in ginecologia, che si avvicina all’ ipnosi con i corsi del Prof. Franco Granone del Centro Italiano di Ipnosi Clinica e Sperimentale di Torino. La tecnica così come utilizzata in contesti didattici o di psicoterapia non poteva però essere applicata al contesto operativo di una sala parto ospedaliera dove è necessario, oltre alla rapidità, conoscere azione ed effetto di ogni singolo modo di procedere. Serviva una metodologia più rapida, come quelle al tempo diffuse negli Stati Uniti, e da questa sfida nasce l’ ipnosi medica rapida descritta nel manuale.

Come viene rivista l’ipnosi nel Manuale di ipnosi medica rapida

Il processo induttivo viene smontato dall’autore nei suoi elementi di base in modo da capirne meglio il funzionamento e ricodificato in modo molto chiaro e comprensibile attraverso diagrammi, schemi e flow chart.

La procedura induttiva descritta nel manuale si basa sul metodo R.A.P. (Ratifica Appena Possibile) che sintetizza il modello ipnotico basato sull’ottenere il più precocemente e velocemente possibile una fenomenologia talmente evidente da poter essere mostrata al soggetto al fine di guadagnare la sua fiducia.

Il manuale, dopo una breve introduzione, si divide in tre parti sostanziali. In una prima parte viene approfondito il concetto di ipnosi e sottolineato come sia fondamentale per poter indurre una condizione ipnotica prima conoscerne i suoi tre elementi di base: fenomenologia, stato di coscienza modificata e condizione fisica modificata. C’è poi una parte molto dettagliata sul come realizzare un’induzione ipnotica che con la descrizione di 15 passi e 29 strumenti utilizzabili che mette il clinico in condizioni di operare in modo consapevole in qualunque situazione.

L’ultima parte del testo è dedicata alle indicazioni sul come addestrarsi alla pratica ipnotica con attenzione al miglioramento della tecnica, correzione dei possibili errori ma anche alle precauzioni e gli aspetti medico legali connessi.

Alcune riflessioni importanti..

Per quanto il manuale sia estremamente esemplificato e chiaro, così come ricordato dall’autore, non è sicuramente sufficiente per affrontare il processo ipnotico. Prendendo un esempio tratto dal libro “…è come comprare un libro per imparare ad andare in barca a vela”.

Il possesso dei titoli di studio adeguati, la partecipazione a corsi di formazione, la supervisione e la pratica sono elementi fondamentali per utilizzare l’ipnosi rapidamente, con grandi benefici per i pazienti e in tutta sicurezza.

Quali fattori influenzano la resilienza?

La resilienza è un costrutto altamente studiato in Psicologia. Tuttavia, nonostante le numerose ricerche e articoli scritti a riguardo, raramente i ricercatori hanno rivolto le loro indagini verso lo studio delle differenze esistenti tra i diversi tipi di eventi traumatici e sul modo in cui ciò possa influenzare il grado di resilienza di ciascun individuo. 

Adriano Mauro Ellena

 

Secondo un recente studio condotto dai ricercatori della Yale School of Medicine e dal VA Connecticut Healthcare System, il tipo di trauma subito sembra invece essere un importante fattore predittivo di come il soggetto reagirà a lungo termine e quindi del suo grado di resilienza all’evento traumatico. Inoltre, è stato scoperto che le reazioni ai vari tipi di trauma differiscono notevolmente a seconda del genere della persona.

Il campione oggetto di studio è stato creato coinvolgendo un sotto-gruppo di veterani che avevano preso parte ai recenti conflitti militari in Iraq e Afghanistan, selezionati all’interno di un più esteso campione utilizzato in uno studio longitudinale precedente. La ricerca è stata poi sviluppata in tre fasi nel corso delle quali sono state esaminate le differenze di genere nella rielaborazione del trauma.

Nello specifico, sono stati valutati i dati esaminando il periodo di esposizione al trauma, le reazioni successive e la capacità di resilienza.

Quando abbiamo analizzato per la prima volta i dati senza tenere conto del tipo di trauma vissuto, sembrava che gli uomini veterani fossero in generale più resilienti rispetto alle donne, a seguito del congedo militare. – Ha detto Galina Portnoy, ricercatrice associata presso Yale, psicologa presso il VA Connecticut Healthcare System e autrice principale dello studio. – Ma lavoro con donne veterane ogni giorno, e ho avuto il sospetto che questa non fosse l’intera storia.

Cosa si è scoperto da un’ulteriore analisi?

Attraverso ulteriori analisi, è stato possibile differenziare gli eventi potenzialmente traumatici in eventi interpersonali (cioè abusi sessuali, stupri e violenza domestica) ed eventi non interpersonali (cioè incidenti, traumi da combattimento, violenza non domestica). Una volta che i ricercatori hanno introdotto nelle analisi statistiche il tipo di trauma subito, improvvisamente gli uomini non risultavano più avere una maggiore capacità di resilienza rispetto alle donne.

Ciò che abbiamo riscontrato è che il trauma interpersonale ha conseguenze significative maggiori per coloro che lo sperimentano e dato che coloro che erano vittime di questa tipologia di trauma erano in numero sproporzionatamente maggiore donne nel nostro campione, questo inizialmente stava distorcendo i dati. – ha detto Portnoy e continua – Inoltre, il sostegno sociale durante i periodi di stress nella vita di una persona, come il congedo militare, fa una grande differenza nella capacità di affrontare le cose, di sopravvivere e di prosperare.

In relazione a questo, è stato scoperto che, rispetto agli uomini, le donne avevano riferito di sperimentare meno supporto sociale.

Alcune riflessioni finali

Portnoy e gli altri autori hanno dunque concluso che:

Il modo in cui il nostro campo attualmente studia la resilienza richiede approfondite riflessioni.

Uomini e individui con maggior disponibilità di risorse (cioè status socioeconomico, istruzione, reddito e impiego) – o “privilegi sociali” – spesso ottengono punteggi più alti alle misure di resilienza ma, secondo i ricercatori, questi privilegi potrebbero essere responsabili dei punteggi elevati in maniera molto più influente rispetto a qualsiasi capacità innata presente nei soggetti.

Pertanto, suggeriscono, quando si parla di trauma e resilienza, di prendere le distanze dal semplice

considerare ed identificare le caratteristiche all’interno dell’individuo (ad esempio, la capacità di una persona di far fronte ai trigger) – e guardare anche verso i – fattori all’interno del contesto socio-ecologico di una persona che servono a promuovere o inibire processi di resilienza, come il supporto sociale o il tipo di trauma al quale si è stati esposti

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