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Stress materno in gravidanza: l’epigenetica ne rileva la trasmissione al bambino

L’ epigenetica è una branca della genetica che studia i cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo. Descrive tutte quelle interazioni con l’ambiente che determinano modificazioni ereditabili e che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza di DNA.

 

L’ontogenesi embrio-fetale rappresenta la fase della vita di gran lunga più sensibile alle informazioni provenienti dall’ambiente, come lo stress materno, l’alimentazione, gli agenti inquinanti. In altre parole, la gravidanza rappresenta, per il feto, il periodo più sensibile ai cambiamenti epigenetici. Tali modificazioni hanno una finalità adattiva e predittiva che si basa sull’interazione tra miliardi di cellule e l’ambiente.

Stress materno in gravidanza e coping nei bambini

Un nuovo studio, pubblicato su Journal of Developmental Origins of Health and Disease, ha prodotto risultati interessanti. I ricercatori hanno misurato i livelli di cortisolo delle madri, prima della gravidanza e durante la gravidanza, ogni settimana per otto settimane. Successivamente hanno valutato, all’età di undici anni, le abilità di coping dei figli. Con questo termine, ci si riferisce agli sforzi cognitivi, emotivi, comportamentali messi in atto da un individuo al fine di gestire e affrontare una situazione percepita come stressante.

L’obiettivo dei ricercatori era quello di comprendere l’associazione tra lo stress materno, durante la gravidanza, e lo sviluppo delle abilità che permettono di gestire situazioni stressanti, nei loro figli. In particolare, i ricercatori hanno valutato come questi bambini reagivano all’inizio di un nuovo anno scolastico, un noto “stressante” naturale, e alla sfida di parlare in pubblico, un fattore di stress “sperimentale” frequentemente usato.

Stress materno in gravidanza e livello di cortisolo basale nei bambini

Sulla base dei risultati rilevati, l’autrice principale dello studio Cindy Barha, ha riferito che i figli delle madri che avevano un cortisolo più alto durante la seconda settimana gestazionale, avevano reazioni cortisoliche più elevate quando dovevano affrontate la sfida di parlare in pubblico, ma questa associazione non era stata osservata nelle figlie femmine. Al contrario, le madri con cortisolo più alto nella quinta settimana gestazionale, avevano figlie con cortisolo “basale” più alto prima dell’inizio di un nuovo periodo scolastico, risultato assente nei figli maschi.

Nonostante queste differenze, sia i figli che le figlie hanno avuto risposte cortisoliche più elevate, all’inizio di un nuovo anno scolastico e in risposta alla sfida sperimentale di parlare in pubblico, a fronte di maggiori livelli di cortisolo della madre nella seconda o nella quinta settimana di gestazione. I meccanismi biologici specifici che mediano tali associazioni non sono ancora noti, ma coinvolgono la genetica e l’epigenetica, nonché i fattori ambientali e culturali condivisi dalle mamme e dai loro figli.

Dato che la gravidanza rappresenta il periodo più sensibile alle informazioni provenienti dalla madre, come il livello di cortisolo e dall’ambiente, implementare degli interventi con lo scopo di ridurre lo stress materno/genitoriale, durante tale periodo, può avere un ruolo fondamentale sia sui genitori che sulla crescita del feto e successivamente del bambino.

I confini dell’amministratore di sostegno: limiti e vantaggi di chi è amministrato

Con l’entrata in vigore della legge del 9 gennaio 2004, n. 6 si è rinnovato il titolo XII del primo libro del codice civile introducendo la figura dell’ amministratore di sostegno, considerata come un nuovo strumento giuridico di protezione

Maria Carlucci – Open School, San Benedetto del Tronto

 

La figura dell’ amministratore di sostegno è finalizzata a “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana” mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente (Art.1 c.c.).

In tal senso, la capacità di agire è intesa come la capacità di dirigere e controllare intenzionalmente il proprio agire nel mondo (agency) che presuppone l’esistenza e l’integrità di una vasta rete di funzioni cognitive modulari tra loro indipendenti, largamente distribuite ed interconnesse, soggette a molteplici sorgenti di vulnerabilità, sia di tipo propriamente biologico che psicologico e sociale (Bianchi e Bilotta, 2011). Una visione del tutto nuova rispetto alla precedente, più tradizionale, in cui la persona con il compimento della maggiore età acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa (Art. 2 c.c.).

Amministratore di sostegno: come si intende quest’innovazione

Tale innovazione è determinante dal punto di vista etico e morale del soggetto poiché pone maggiore attenzione all’autonomia decisionale che è considerata come il bene primario da proteggere e promuovere.

Ma chi sono i beneficiari di tale legge? Si possono ipotizzare tre grandi categorie di situazioni tipiche in cui la domanda di tutela giuridica può essere attivata:

  • Soggetti che si trovano in gravi condizioni da non poter esprimere alcuna preferenza riguardante il proprio statuto giuridico che devono necessariamente essere rappresentati da altri nella domanda di tutela. Si tratta perlopiù di soggetti con ritardo mentale profondo oppure che stanno in una fase avanzata di demenza o coloro che sono affetti da gravi patologie psichiatriche ad andamento cronico.
  • Soggetti che, indipendentemente dal tipo di infermità o menomazione da cui sono affetti, sono in grado di esprimere in prima persona (da soli o insieme ad altri) la propria preferenza per un regime di tutela giuridica che considerano come più sicuro anche soltanto per periodi limitati. Questa, possiamo dire, è una delle condizioni onde la legge ha l’opportunità di esprimere al meglio tutte le sue possibilità emancipative in cui non viene violata la proxy agency, ossia la realizzazione di se stessi attraverso l’aiuto degli altri (Bianchi e Bilotta, 2011). L’amministratore di sostegno può essere qui designato dallo stesso beneficiario come un ulteriore supporto su cui demandare i propri interessi e bisogni. Un ambito applicativo di grande rilievo è descritto dalla clausola prevista dall’art. 408: “L’AdS può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità”. In questo caso, la persona indica qualcuno che sia in grado di rappresentarlo e tutelarlo, anche meglio di se stesso, per realizzare i propri interessi. Ciò che, nella letteratura scientifica, è conosciuto come “contratti di Ulisse” (Ulisse contracts) o direttive anticipate per la cura dei disturbi comportamentali, che vengono utilizzate da molti anni nei paesi anglosassoni come valida alternativa al trattamento coattivo (Appelbaum 1991, 2006). Potrebbero validamente delegare ad altri le scelte da fare in caso di crisi, i tossicodipendenti, alcolisti e soggetti affetti da disturbo bipolare o da altre psicosi in fase di remissione.
  • Una situazione sicuramente più problematica rispetto alle altre è quella in cui la domanda di amministratore di sostegno è effettuata da un familiare, dagli organi istituzionali o dai servizi e non da chi dovrebbe essere il beneficiario. Nella stragrande maggioranza, la presunta persona che dovrebbe usufruire di tale tutela si oppone e non vede pertanto la necessità che questa “nuova” figura debba rappresentarla. Solitamente dietro a questa richiesta si cela una “sospetta” capacità cognitiva della persona da tutelare, ravvisata da indizi comportamentali che risultano inadeguati rispetto alle ordinarie e straordinarie attività quotidiane ma che il soggetto minimamente riconosce come patologici. Si tratta spesso di indicatori comportamentali che vacillano tra la fisiologica fragilità senile e le patologie dello spettro demenziale che è oggi denominata Mild Cognitive Impairment.

Amministratore di sostegno: come si applica questa tutela

Numerose sono le precauzioni da adottare, sia da parte del giudice che da parte dei consulenti che sono chiamati ad operare scrupolosamente per cucire una sorta di “vestito su misura” alla persona da tutelare. Ed è proprio qui che si pone l’interrogativo per chi è amministrato, ovvero: quali sono i suoi limiti e quali i suoi vantaggi? Come si può proteggere la vita concreta delle persone senza comprimere in modo inaccettabile la libertà?

Notiamo che i vantaggi di essere amministrati diventano dei limiti soprattutto per quei genitori anziani che, pur avendo le piene capacità cognitive rispetto all’età, si vedono trascinati davanti al giudice a causa di una conflittualità familiare o da una diffidenza regnante tra figli o addirittura da una coalizzazione tra loro per un interesse prettamente economico.

E’ di considerevole importanza tener presente ciò che emerge da alcune sentenze in cui i giudici non vedono il motivo per il quale alcuni soggetti, solo perché affetti da patologie, anche invalidanti, che inibiscano loro di provvedere autonomamente ai propri interessi, debbano necessariamente essere assistiti da un soggetto di nomina giudiziale, se sono concretamente in grado di esercitare con pienezza i loro diritti avvalendosi dell’aiuto da parte di terzi. In questi casi, sarebbe iniqua, e soprattutto superflua, la privazione, seppur parziale, della capacità di agire della persona.

Sulla scorta della giurisprudenza tutelare del tribunale di Milano (decreto del 3 novembre 2014), ad esempio, il decreto del giudice tutelare piemontese (sentenza del 16.10.2015), ribadisce che non ogni fragilità del soggetto conduce alla nomina di un amministratore di sostegno, ma occorre che tale vulnerabilità provochi un ostacolo nell’esercizio dei diritti o precluda vantaggi e utilità.

Amministratore di sostegno: ambito giuridico e peritale

Il decreto del tribunale pone l’accento su una lettura costituzionalmente corretta delle norme in tema di amministrazione di sostegno (art. 404 e seg. c.c.). E’ vero che lo Stato deve rimuovere gli ostacoli che, limitando l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ma è anche vero che lo stesso Stato deve costantemente richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.).

In ambito giuridico e peritale, l’entrata in vigore della legge del 9 gennaio 2004, n. 6 è stata un’innovazione poiché si è spostato il fuoco della valutazione dal piano della “patologia” a quello della “disfunzionalità”, da quello della “presunzione-approssimazione” a quello della “osservazione-misurazione” rivolto all’accertamento di concrete difficoltà ed impedimenti specifici che rendano la persona bisognosa di “sostegno” nel compimento di taluni atti e non di altri.

Il lavoro peritale è dunque teso non più – quanto meno non solo e necessariamente – alla formulazione di una diagnosi comprovante una condizione patologica nosograficamente ineccepibile, bensì al riconoscimento di quelle inadeguatezze e intralci oggettivamente apprezzabili che riducono l’autonomia della persona rispetto all’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. Si tratta quindi di un lavoro peritale nuovo, perché improntato a nuovi criteri di valutazione; cambiano i presupposti su cui si fonda l’applicabilità della nuova misura di protezione e soprattutto si amplia la portata complessiva dell’elaborato peritale (Bandini e Zacheo, 2005).

Tassononomia gerarchica per la psicopatologia

Da una visione categoriale dei disturbi a una visione dimensionale della psicopatologia.

 

Che significa? Un recente articolo, breve ma importante, pubblicato su World Psychiatry esorta all’assunzione di un nuovo paradigma di tassonomia psicopatologica, nuovo e più complesso. Molti scienziati vedono nell’attuale DSM-5 un sistema chiuso e di fatto “già vecchio” per classificare i disturbi psichici.

Tassonomia gerarchica: come classifica i disturbi

Seguendo una classificazione da DSM-5, due pazienti che presentino, entrambi, disturbi gravi del sonno, abulia, apatia, scarsa motivazione e difficoltà a concentrarsi, verranno diagnosticati come depressi entrambi e presi in carico come tali, al di là del fatto che la natura della sofferenza soggettiva sia molto diversa (per esempio, uno potrebbe soffrire di un PTSD cronicizzato e l’altro uscire da un lutto di difficile elaborazione).

Abbiamo già parlato in un precedente articolo degli studi di Borsboom et al. a proposito dei sintomi psichiatrici concettualizzati come nodi un sistema complesso, in cui ogni variabile influenza le parti: seguendo un simile principio epistemologico questo altro studio, che vede circa 70 autori raccolti in consorzio  propone una ridefinizione e un nuovo modo, “gerarchico,” di considerare i disturbi, come si osserva in questa immagine:

Tassonomia gerarchica della patologia un nuovo modo di concettualizzare immagine1

IMM. 1 – LA TASSONOMIA GERARCHICA

Questo schema rappresenta un tentativo di concettualizzare i sintomi psicopatologici usando dimensioni più varie ed inserendoli in una griglia che si fonda su una grossa distinzione iniziale, ovvero quella tra disturbi da esternalizzazione, quelli da internalizzazione, più alcuni “spettri” di disturbo a sé (dissociazione, disturbi del pensiero, disturbi somatoformi), per un totale di 6 spettri maggiori.

Tassonomia gerarchica: come vengono letti i disturbi

Come si legge lo schema? Prendiamo per esempio il DOC: in questo contesto va letto come un disturbo afferente allo spettro da internalizzazione, il cui sottofattore specifico è la paura, declinato poi in modo soggettivo da paziente a paziente. Oppure: il disturbo bipolare, come si osserva, va qui inteso come un disturbo a cavallo tra lo spettro da internalizzazione e quello definito “disturbo del pensiero”, avente come sottofattore specifico l’elemento “mania”. Il PTSD, in questa lettura, viene visto come un disturbo da internalizzazione avente come sottofattore specifico lo stress (nota bene: il fatto che il disturbo depressivo maggiore venga assimilato al PTSD la dice lunga su quanto il leggere alcune forme di depressione come tentativi “esausti” di fronteggiare una situazione di distress, come faceva Giovanni Liotti, fosse in anticipo sui tempi.

Questo modo di pensare ai disturbi psichiatrici si svincola dalle categorie del DSM, osservando dal “basso” le manifestazioni dei disturbi stessi così da raggrupparli e assimilarli in modo più “naturale”.

Il criterio di aggregazione e organizzazione dei sintomi, che ha “creato” lo schema riportato, è stato un criterio di covariazione e comorbilità (cioè: quanto i sintomi variavano insieme/parallelamente? Quanto si manifestavano sempre accoppiati?).

Tassonomia gerarchica: i motivi di interesse

Vedere l’insieme dei sintomi come un sistema complesso in cui ogni variabile può influenzarne un’altra ha consentito a questi ricercatori di sviluppare una nuova visione d’insieme, e di conseguenza una nuova tassonomia dei disturbi stessi, come sintetizzato in figura.

Già in precedenza alcuni studiosi avevano tentato di creare delle ultra-categorie di disturbi, svincolandosi dalle categorie classiche del DSM per produrne di nuove, basate su criteri di classificazione diversi.

In questo articolo viene esortata l’assunzione di questo modo di intendere l’insieme dei disturbi mentali poiché:

  1. paragonata alla classificazione standard, una concettualizzazione dimensionale dei disturbi appare più informativa, “naturale” e affidabile
  2. la dimensionalità dei concetti legati alla psicopatologia è più utile in ambito di ricerca

Inoltre, questo tipo di tassonomia dei disturbi sembra contemplare in misura maggiore l’impatto di alcuni elementi sotto-stimati nelle precedenti modalità di categorizzazione dei disturbi, come lo sviluppo infantile “traumatico”; inoltre, appare meglio allineato con la questione “debolezza” genetica (riferita alla predisposizione allo sviluppo di un disturbo psichiatrico).

Questa tassonomia, come già accadeva sul DSM, non include l’eziologia dei disturbi, limitandosi a una descrizione dei “fenomeni” strettamente fenotipica, basata sul loro “manifestarsi”.

La funzione del training cognitivo nello sport

Lo studio delle funzioni cognitive e del loro incremento ha reso possibile la messa a punto di training specifici, anche per l’ambito sportivo

 

Negli ultimi anni lo studio delle funzioni cognitive e del loro incremento, attraverso il training cognitivo, ha ricevuto una particolare attenzione, non solo in campo clinico, ma anche in altri campi applicativi.

L’obiettivo che il training cognitivo si pone è quello di migliorare le funzioni cognitive attraverso degli esercizi mirati, che frequentemente utilizzano le tecnologie informatiche. Il training cognitivo dimostra la sua validità anche nel contesto sportivo, in quanto migliora la flessibilità di risposta cognitiva, incrementa i processi attentivi e potenzia la velocità di esecuzione delle performance.

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Obiettivi del training cognitivo

Negli ultimi anni lo studio delle funzioni cognitive e del loro incremento, attraverso il training cognitivo, ha ricevuto una particolare attenzione, non solo in campo clinico, ma anche in altri campi applicativi. L’obiettivo che il training cognitivo si pone è quello di migliorare le funzioni cognitive attraverso degli esercizi mirati, che frequentemente utilizzano le tecnologie informatiche. Esso può essere utilizzato, quindi, con un fine riabilitativo, laddove esiste un deficit, legato, per esempio, a patologie neurodegenerative o psichiatriche che inficiano le funzioni cognitive (Hallock e al., 2016; Motter e al., 2016), oppure come potenziamento delle funzioni cognitive nell’ambito della vita quotidiana con una finalità preventiva, o nell’ambito di alcuni contesti specifici, come quello sportivo, con l’obiettivo di incrementare le performance (Walton e al., 2018).

Le funzioni cognitive

Le funzioni cognitive sono dei processi mentali che consentono di elaborare gli input provenienti dalla realtà e di predisporre delle risposte appropriate a questi stimoli sotto forma di comportamenti (Revlin, 2014). Le funzioni cognitive possono essere distinte in funzioni cognitive di base e funzioni cognitive complesse. Fra le funzioni cognitive di base sono da menzionare i processi attentivi. L’attenzione è quella capacità che permette di concentrare le risorse cognitive su alcuni input provenienti dalla realtà.

Robertson e Manly (1999) hanno suddiviso i processi attentivi in più morfologie. Infatti, c’è l’attenzione sostenuta o vigilanza, che è l’abilità di dirigere volontariamente la propria attenzione per un tempo prolungato sugli elementi della realtà. Inoltre, esiste l’attenzione selettiva, che consente di focalizzare la propria attenzione su alcuni input, ignorandone altri.

In ultimo, l’attenzione divisa che è quella capacità che dà la possibilità di indirizzare contemporaneamente la propria attenzione su più stimoli.

Le funzioni esecutive, che rappresentano le funzioni cognitive complesse, possono essere definite come procedure cognitive che hanno lo scopo di pianificare ed organizzare i comportamenti e le emozioni di un individuo, allorquando si confronta con nuove realtà contestuali, particolarmente difficoltose, che richiedono la mobilizzazione di strategie adattative (Owen, 1997). Le funzioni esecutive, secondo il modello elaborato da Miyake et al. (2000), sono costituite da tre capacità, utilizzate nelle strategie di problem solving. Esse sono: l’inibizione o controllo inibitorio; la memoria di lavoro; la flessibilità di risposta cognitiva. L’inibizione è rappresentata dall’abilità che consente di non far interferire, nel compito che si svolge, impulsi e informazioni non pertinenti, che potrebbero esercitare il ruolo di distrattori (Miyake et al., 2000). La memoria di lavoro è quella competenza che permette di conservare il ricordo, per un breve lasso di tempo, di tutte quelle nuove informazioni utili allo svolgimento di un’attività (Miyake et al., 2000). La flessibilità di risposta cognitiva è la capacità di variare i propri modi di pensare e di agire per adattarsi ai cambiamenti richiesti dall’ambiente o dalla natura del compito che si esegue (Miyake et. al., 2000).

Il training cognitivo in ambito sportivo

Il training cognitivo utilizza, come si è detto, prevalentemente programmi informatici. In pratica, esso è costituito da una serie di esercizi ripetuti, svolti al computer, che hanno la finalità di migliorare le funzioni cognitive di base e quelle complesse (George e Whitehouse, 2011). Da ricerche svolte (Lorains e al., 2013; Farahani e al., 2017), il training cognitivo dimostra la sua validità anche in ambito sportivo, in quanto permette di ridurre i tempi di elaborazione, legati al processo di stimolo – risposta, nell’ambito della flessibilità di risposta cognitiva (Hirao e Masaki, 2018). Inoltre, consente di incrementare l’attenzione divisa (Romeas e al., 2016) e implementa la velocità delle performance atletiche (Mann e al., 2007). Infine, migliora l’accuratezza nella risoluzione di compiti cognitivi, che richiedono flessibilità (Voss e al, 2010).

In conclusione, il training cognitivo dimostra la sua validità anche nel contesto sportivo, in quanto migliora la flessibilità di risposta cognitiva, incrementa i processi attentivi e potenzia la velocità di esecuzione delle performance.

Fumo: quali tipi di immagini grafiche sono più efficaci nel ridurre l’appeal che i pacchetti di sigarette hanno sui fumatori e sui più giovani?

Abbiamo tutti familiarità con le grafiche invasive e spaventose che ormai si trovano su tutti i pacchetti di sigarette. Tali immagini sono poste sopra le confezioni con il proposito di disincentivarne l’acquisto e porre l’accento sulle conseguenze dannose a lungo termine per il fisico dei fumatori.

 

Queste conseguenze, a causa del bias di ottimismo, sono molto spesso considerate meno probabili di quanto siano in realtà.

Fumo: lo studio sulle immagini sui pacchetti di sigarette

Uno studio della Cornell University (Niederdeppe et al., 2018) ha testato l’effetto di tali grafiche su un gruppo di 451 adulti fumatori e 474 ragazzi delle scuole medie, tutti provenienti da un contesto socio-culturale rurale e a basso reddito. I partecipanti sono stati divisi in sei gruppi sperimentali; alcuni sono stati esposti a grafiche (immagini e testo) spaventose sugli effetti del fumo, altri invece soltanto a grafiche contenti solo testo ed altri ancora grafiche con immagini soltanto.

Gli autori dello studio in questione, tramite un meccanismo di eye-tracking, hanno misurato quanto tempo e su quale parte specifica delle immagini lo sguardo dei soggetti si posava. Dopodiché è stato chiesto ai partecipanti all’esperimento di riempire un questionario self-report indicando se avessero provato, e in che grado, delle emozioni “negative” (rabbia, paura e tristezza) a seguito dell’esposizione a tali immagini.

Fumo e immagini sui pacchetti: i risulati dello studio

Quello che i ricercatori della Cornell hanno riscontrato è che le grafiche contenti testo e immagini riescono ad elicitare più sentimenti negativi nelle persone alle quali erano state esposte rispetto alle grafiche contenti soltanto frasi di testo o immagini.

Per il mercato americano del tabacco, l’importanza di questo ritrovamento è enorme dato che persino l’FDA (Food and Drug Administration), l’ente americano che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha deciso di prendere in considerazione l’idea di implementare la presenza di grafiche contenti immagini spaventose riguardanti gli effetti del tabacco, finendo per rimpiazzare le grafiche contenenti soltanto frasi di testo che, in molti Stati, da quaranta anni a questa parte sono presenti sui pacchetti di sigarette.

Inoltre stando alle parole di Niederdeppe, ideatore dello studio, il valore dell’utilizzo di grafiche invasive contenenti testo e immagini va oltre l’elicitare sentimenti negativi riguardo al fumo nei consumatori, dato che aggiunge il beneficio di ridurre l’influenza normativa del gruppo dei pari che sembra sia uno dei principali motori ed incentivi che portano i giovani a cominciare a fumare.

L’ecstasy migliorerebbe la cooperazione…ma ad una condizione

I ricercatori del King’s College di Londra hanno scoperto che il principio attivo dell’ ecstasy migliora la cooperazione tra persone ritenute affidabili, quindi non tra gli estranei. Inoltre hanno identificato i cambiamenti nell’attivazione cerebrale delle aree connesse con l’elaborazione sociale.

 

L’ ecstasy è composta principalmente da MDMA che viene oggi utilizzata, sotto scrupolosa prescrizione medica, per problemi connessi all’elaborazione sociale tipica di una serie di condizioni psichiatriche. Questa sostanza è usata per i suoi effetti sociali ed emotivi grazie al rilascio di neurotrasmettitori legati al comportamento e all’umore, anche se gli scienziati sanno poco su come questi influiscano nel determinare i complessi comportamenti sociali.

L’ ecstasy e quindi l’ MDMA, è una sostanza stupefacente e come tale comporta molti rischi per la salute, causando svariati danni psicofisici; per questo, solo in determinati casi circoscritti e specifici, questo principio attivo può essere scrupolosamente prescritto da un medico specialista.

Ecstasy: la ricerca

A questa ricerca hanno partecipato 20 uomini adulti sani che hanno ricevuto in maniera randomizzata una dose di MDMA o di una pillola placebo. Successivamente hanno completato diversi compiti come il Dilemma del Prigioniero, mentre erano in uno scanner MRI. Il dilemma del prigioniero consiste nello scegliere se cooperare o competere: nel caso si scelga di cooperare entrambi ottengono la metà dei punti invece, competendo, uno dei due ottiene tutti i punti. Durante il gioco i partecipanti credevano di interagire con persone reali attraverso un computer, anche se in realtà erano riposte computerizzate pre-programmate nel comportarsi in modo affidabile o inaffidabile, in relazione a quanto cooperavano o meno durante il gioco.

Ecstasy: le conseguenze sulla cooperazione

Dai risultati si evince come i soggetti che erano sotto l’effetto di MDMA sceglievano di cooperare ma soltanto quando interagivano con giocatori considerati come affidabili. Nel caso di un tradimento della fiducia, attraverso un comportamento competitivo, la sostanza ha avuto un impatto nel cercare di recuperare più velocemente il rapporto con l’avversario, consolidando più alti livelli di cooperazione. Inoltre si è registrato un aumento dell’attività nella corteccia temporale superiore e nella corteccia del cingolato centrale, aree cerebrali importanti nella comprensione dei pensieri, delle credenze e delle intenzioni delle persone; in più si è riscontrato un aumento dell’attivazione nell’insula destra anteriore quando i soggetti giocavano con partecipanti considerati affidabili e una diminuzione di tale attivazione quando i soggetti giocavano con partecipanti considerati inaffidabili. Questo rispecchierebbe appunto i diversi comportamenti riservati agli avversari.

Secondo gli autori dello studio la comprensione dell’attività cerebrale che sta alla base del comportamento sociale, potrebbe aiutare ad identificare ciò che non funziona nelle condizioni psichiatriche. Gli effetti dell’MDMA sull’interazione sociale fanno luce su come la farmacologia rivesta un importante strumento per il trattamento dei pazienti associata alla psicoterapia.

Mio fratello è disabile e io sono un sibling – Le difficoltà dei fratelli/sorelle di persone diversamente abili

Che diritto ho io di progettarmi un futuro quando mio fratello non l’avrà? Cosa succederà quando non ci saranno più mamma e papà a pensare a lui? È mio dovere prendermi cura di lui per tutta la vita? – Questi sono alcuni degli interrogativi che si pongono fratelli e sorelle di persone disabili.

Alessandra Epis – Open School Modena

 

È ormai consolidato nella terminologia anglo-americana, l’utilizzo del sostantivo inglese sibling per definire i fratelli indipendentemente dal loro sesso. In campo medico il sostantivo assume un’accezione più specifica: viene infatti utilizzato per distinguere gli individui con sviluppo tipico dai loro fratelli con disabilità e patologie gravi o croniche.

La relazione tra fratelli è unica e generalmente di lunga durata. Solitamente i fratelli condividono gran parte delle loro esistenze e si supportano a vicenda (Ewertzon M. et al., 2012); se dunque è vero che i siblings sono co-protagonisti della vita del fratello malato, risulta indispensabile che anche i siblings debbano essere inclusi nel percorso assistenziale e sostenuti nel corso della vita.

La disabilità infatti è una condizione che non interessa solo la persona che ne è colpita ma investe senza risparmiare tutte le persone che intorno a questa persona vivono. Un elemento al quale spesso non si presta la dovuta attenzione è il ruolo di una figura talvolta in ombra, quella del fratello o sorella della persona disabile. L’impatto sulla crescita del fratello o sorella del bambino disabile non va sottovalutato.

I siblings possono subire ripercussioni psicologiche di cui spesso gli stessi genitori, presi dalla cura del fratello più bisognoso, non si rendono conto o sottovalutano. Si tratta di situazioni che, se non vengono affrontate in maniera adeguata, possono in alcuni casi dare origine a disagi psicologici, difficoltà di adattamento da parte dei fratelli, fino a sviluppare anche disturbi d’ansia e depressione.

I siblings non sono destinati necessariamente ad un destino di disagio e sofferenza, ma possono essere aiutati a valorizzare appieno l’esperienza che vivono e diventare persone sensibili e resilienti come pochi altri coetanei. Per fare questo spesso basta poco: cogliere eventuali specifici segnali di disagio evolutivo e mettere in pratica alcuni accorgimenti educativi.

Sibling: una condizione particolare

La particolarità della condizione di sibling è costituita dal fatto che la sua crescita e lo sviluppo dell’identità si compiono confrontandosi continuamente con la presenza di un fratello o una sorella disabile e con genitori che si trovano a gestire un trauma.

La spesso ricorrente invisibilità delle difficoltà dei siblings ci sollecita ad andare oltre le apparenze di “eccessiva” normalità, allenandoci a cogliere preventivamente alcuni segnali di disagio. Le scarse amicizie, una grande timidezza possono ad esempio essere segnali di chiusura relazionale. Al contrario l’insorgere dei comportamenti provocatori potrebbe indicare la messa in atto di un richiamo di attenzione e l’espressione indiretta di emozioni forti e contrastanti. Altri segnali sono ancora più difficili da notare per via della loro desiderabilità sociale: il sibling “bravo bambino” verrà molto rinforzato nel suo iper-adattamento ed anche il sibling “perfezionista” con un ottimo profitto scolastico e sportivo sarà incoraggiato a mantenere quei livelli di performance. Alcuni siblings scelgono poi canali più primitivi di comunicazione ricorrendo a veri e propri sintomi fisici, apparentemente inspiegabili, come disturbi del sonno, dolori di stomaco, frequenti mal di testa, enuresi, sintomi d’ansia.

Le difficoltà scolastiche che invece a volte ci sono e che apparentemente possono derivare da una mancanza di motivazione, sono spesso dovute al senso di colpa del sibling, “colpevole” di volere superare in abilità e conoscenza il fratello disabile.

Prestare attenzione ad alcuni segnali dei sibling e porci domande sulla loro situazione, non significa cercare a tutti i costi il risvolto patologico di alcuni passaggi anche fisiologici della crescita di un bambino, ma si tratta di monitorare una condizione di crescita delicata e cercare di fare prevenzione attraverso il mantenimento di uno spazio relazionale di ascolto e confronto.

I miei genitori mi portarono alcune volte da uno psicologo e anche da uno psichiatra. Tutti mi dissero che non avevo niente. Uno dei dottori mi diede del Valium per aiutarmi a dormire. Nessuno pensò mai di esplorare la mia situazione familiare (Strohm, 2002).

 

La sorella di Max ha dieci anni quando incontra un counsellor scolastico. Ha imparato a nascondere i suoi cattivi sentimenti riguardo Max. Sua mamma non desidera ascoltarli. La sorella di Max a volte ha provato repulsione per i suoi scatti, per la sua saliva. Ha nascosto il fatto di lavarsi le mani ansiosamente ogni volta che toccava i suoi germi. Si era sentita in colpa per la propria gelosia nei suoi confronti, perché avrebbe dovuto sentirsi gelosa? Perché doveva desiderare un disagio così strano, una malattia così strana? E poi aveva desiderato la morte di Max, il giorno successivo ad un viaggio di emergenza d’urgenza all’ospedale in cui “forse avrebbe potuto morire”. Come poteva trovare sollievo da questi pensieri ansiosi? Chi mai avrebbe potuto pensare che lei fosse una brava bambina? La sorella di Max nascondeva ed evitava ansiosamente la parte “cattiva” di se stessa. (Dondi A, 2008)

Per molti siblings può essere difficile riuscire ad esprimere i sentimenti negativi che provano nei confronti del proprio fratello disabile. Una maniera comune di far fronte ad un’emozione come la rabbia può essere quella di esprimerla diventando disobbediente o facendo i capricci, cosa che può includere un aumento delle manifestazioni aggressive nei confronti dei fratelli o delle sorelle. Nelle famiglie con più di due bambini che sono relativamente vicini di età, uno di loro può anche spostare la propria rabbia nei confronti degli altri fratelli non disabili.

In alcune famiglie, tali emotività sono completamente proibite e risultano accettabili solo commenti positivi sul bambino. Come conseguenza, i siblings potrebbero interpretare i propri sentimenti di rabbia e risentimento come la prova che sono cattivi. Coloro che si sentono arrabbiati nei confronti dei loro fratelli disabili, possono così provare profonda vergogna o sensi di colpa.

Le espressioni inibite di rancore possono condurre i siblings all’introiezione di sentimenti negativi, che determinano l’evitamento della fonte della rabbia (il fratello/sorella disabile) e in alcuni casi l’insorgere di quadri depressivi mascherati.

Molti siblings tentano di proteggere anche i genitori dai propri sentimenti negativi. Alcuni pensano che le espressioni di rabbia e frustrazione riguardo alle loro esperienze possano essere ingiuste, viste le difficoltà che i loro genitori affrontano nella vita di tutti i giorni. Esprimere queste emozioni potrebbe inoltre mettere a rischio l’immagine che cercano di presentare ai genitori, quella di bambini felici ed autonomi; in questo caso è presente una spinta ad essere perfetti, sempre disponibili, senza apparenti lati oscuri.

Sibling: le principali difficoltà

Le problematiche emerse nei siblings maggiormente riscontrate in letteratura sono suddivisibili nei seguenti gruppi principali: somatizzazioni, emozioni/stati d’animo, comportamenti problematici, problemi psicologici.

  • Somatizzazioni: la somatizzazione nella maggior parte dei casi, si presenta con sintomi tipici quali mal di testa, mal di stomaco, enuresi e problemi alimentari.
  • Emozioni/stati d’animo: nella maggior parte degli studi lo stress è la reazione emotiva maggiormente rappresentata. Può essere causato da numerosi fattori come l’alto livello di stress percepito dai genitori e che successivamente si riversa sul sibling e la concomitante mancanza di rete sociale; da uno stato di povertà economica della famiglia (Kilmer et al., 2010), dall’incertezza della situazione familiare. Lane e Mason affermano come il sibling si senta colpevole principalmente per tre motivi: l’aver fatto qualcosa di male, il fatto di essere lui stesso il bambino sano e anche per tutto ciò che prova nei confronti del fratello malato e della famiglia in generale (Lane e Mason, 2014).

Il senso di colpa sarebbe scatenato dalla mancanza o non completezza delle informazioni date al sibling dalla famiglia (O’Shea et al., 2012). In molte occasioni l’intento protettivo dei genitori di ridurre l’impatto della disabilità sulla vita dei figli sani (“meno ne sanno e meglio è”) li porta a tenerli all’oscuro delle caratteristiche della disabilità dei fratelli; così facendo i siblings arrivano spesso a riempire le proprie lacune di informazioni con il bagaglio a propria disposizione, spesso non sufficiente, che gli consente comunque di compensare il bisogno di fornire un senso alla realtà che lo circonda.

Una ragazzina si sentiva responsabile del fatto che il fratello aveva avuto il suo primo attacco epilettico. Lui poco prima di stare male aveva giocato con il cappellino di lei sotto il tavolo da pranzo e lei pensava che era stato quello a causare l’attacco. Da quel momento non gli aveva più permesso di giocare con qualcosa di suo (Strohm, 2006).

Risulta quindi fondamentale dare spiegazioni semplici e vere riguardanti la disabilità o la malattia, utilizzando un linguaggio che sia appropriato all’età. Fornire informazioni corrette e comprensibili ai siblings significa riconoscere e valorizzare la loro competenza nell’ utilizzo dell’esame di realtà e di mantenere un locus of control bilanciato (Powell, 1993). Ad esempio, un sibling potrà essere più a proprio agio nel suo contesto sociale avendo a disposizione alcune risposte realistiche alle domande più frequenti e potenzialmente imbarazzanti che gli vengono rivolte dai coetanei sulla disabilità del fratello o sorella. Secondo Beaulieu (2012) il senso di colpa emerge invece dalla gelosia provata nei confronti del fratello per le attenzioni ricevute dalla famiglia e più in generale dalla società.

Una corretta informazione sui pensieri e sui vissuti ricorrenti dei siblings è il punto di partenza per qualsiasi strategia preventiva ed educativa in favore di chi, spesso, viene fisiologicamente perso di vista dai genitori durante il loro difficile compito di crescere un bambino disabile.

  • Comportamenti problematici: Giallo et al. (2014) evidenziano un elevato tasso di problematiche relazionali evidenziate dalla difficoltà con i propri pari. A ciò si aggiungono probelmatiche comportamentali quali problemi di condotta e comportamenti oppositivi.
  • Problemi psicologici: tra i sintomi internalizzanti troviamo ansia e depressione; la forte presenza di ansia riguarda secondo Moyson e Roeyers (2012) l’incapacità di capire il fratello e le sue necessità.

Come affermano Patterson et al., (2011) c’è una forte correlazione tra necessità non soddisfatte e depressione; infatti i siblings ai quali non venivano riconosciute le proprie necessità sviluppavano livello di depressione molto elevati. Possono essere inoltre presenti numerose difficoltà scolastiche e peggioramento del rendimento dato dal cambiamento della routine familiare che porta quindi ad un deterioramento delle performance scolastiche e sociali (Bowman et al., 2014). Aspetti di tipo psicologico comprendono anche problematiche di adattamento, ritardo nello sviluppo sociale, sindrome da iperattività/disattenzione e soppressione delle proprie necessità per far fronte alle esigenze del fratello malato. I bambini che vengono parzialmente privati di uno dei genitori, per questioni riguardanti il fratello malato, hanno una ridotta autostima: questo perché il genitore disponibile non è sempre capace di fornire un ambiente propositivo tale da non fare in modo che il sibling incorra in sentimenti di impotenza e incompetenza (Vermaes et al., 2012).

Sibling: tipologie di sostegno e interventi

Non è possibile quantificare a priori il sostegno necessario ad una famiglia nel processo di comprensione della posizione del fratello del figlio disabile: a volte non c’è bisogno di alcun intervento, in altri casi più seri è necessario counselling o un intervento di psicoterapia. Il ruolo dei genitori rimane centrale e complementare a questi interventi. Esistono tuttavia diverse possibilità di attività preventive dedicate ai siblings. Di solito viene privilegiato un approccio di gruppo che mescola attività di tipo ludico ricreativo con momenti di riflessione e condivisione di esperienze. Questo tipo di gruppi si rivolge sopratutto ai siblings tra gli 8 e i 13 anni, periodo in cui affrontano le sfide più difficili; esistono poi gruppi dedicati ai siblings adolescenti e a quelli per gli adulti che si costituiscono in gruppi di auto aiuto senza bisogno di professionisti od esperti che facciano da conduttori.

Beaulieu (2012), Lane e Mason (2014) ed Hancock (2011) nei loro studi concordano che l’approccio debba essere quello del “Family-centered care” tenendo conto quindi della famiglia ma allo stesso tempo dei suoi membri, distintamente l’uno dall’altro.

Il sostegno alla famiglia in caso di nascita di un figlio disabile richiede il concorso di una rete di soggetti che collaborano insieme. Tutti possono essere dei validi interlocutori per i genitori, ad esempio nell’individuare segnali di disagio che potrebbero essere visibili in alcuni contesti e non in altri.

Nelle fasi iniziali successive alla diagnosi perinatale l’unica vera forma di sostegno per tutta la famiglia si concretizza, oltre alle cure mediche e riabilitative al bambino disabile, nel sostegno ai genitori ed alla genitorialità. Gli interventi precoci consigliati possono essere: colloqui di consulenza psicologica sia individuali che di coppia, l’introduzione graduale a gruppi di auto aiuto e la partecipazione a serate organizzate da Associazioni di genitori.

Salvo eccezioni, non si è soliti proporre attività preventive ai siblings prima dei 7-8 anni. Di solito si ritiene che un certo grado di attenzione ed il sostegno ai genitori sia sufficiente.

A partire da questa età in poi diventa rilevante costruire attività dedicate in modo specifico ai fratelli; tali attività possono essere di tipo semplicemente ludico e di ritrovo, per arrivare a proposte miste in cui affiancare momenti di gioco ad altri di riflessione e confronto. A volte capita di fare dei colloqui individuali con i siblings, ma nella grande maggioranza dei casi viene privilegiato un approccio di gruppo.

Sibling: interventi possibili

Don Meyer (Meyer, Vadasy, 1994) ha messo a punto un programma, ormai conosciuto in molti paesi, dal nome Sibshop (fusione delle parole sibling e workshop) che è stato studiato per fornire ai siblings momenti di svago, opportunità di incontro con altri siblings, condivisione di esperienze, individuazione attraverso il confronto, di strategie per la gestione di alcune difficoltà tipiche dei fratelli. Questi workshop durano circa mezza giornata hanno un conduttore e diversi facilitatori che aiutano la gestione del gruppo e sono dedicati ai siblings di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, periodo in cui i ragazzi hanno competenze sufficienti per stare in gruppo, eseguire compiti e giochi che richiedono discrete capacità di lettura e comprensione, e periodo in cui il confronto con i pari età inizia a sollevare interrogativi e dubbi riguardanti la disabilità del fratello.

Kate Strohm ha pensato invece ad un programma più articolato, rivolto sempre alla fascia di età tra gli 8 e i 12 anni, suddiviso in sei incontri di due ore ciascuno una volta al mese con due conduttori più alcuni facilitatori a seconda del numero dei partecipanti (Strohm, 2005). Gli obiettivi del programma sono quelli di: fornire un’esperienza divertente; fornire ai fratelli l’opportunità di incontrare altri fratelli e di imparare che non sono soli nella loro esperienza; aiutare i fratelli a sviluppare una migliore comprensione dei bisogni speciali dei loro fratelli/sorelle, così come di altri bisogni speciali; rafforzare la comunicazione tra i fratelli e le loro famiglie e i loro amici; aiutare i fratelli a sentire che sono speciali e valorizzati non solo nelle loro famiglie ma anche nella comunità; assistere i fratelli nell’identificare i sentimenti positivi e quelli negativi di essere un fratello di qualcuno che ha una disabilità; procurare un’ opportunità per i fratelli di condividere i propri sentimenti con altri che possono capire, in un contesto protetto; assistere i fratelli nello sviluppo di abilità attive di adattamento per gestire le sfide che possono dovere affrontare come ad esempio la derisione, sentirsi ignorati o imbarazzati. (Strohm, 2005)

Tali occasioni rimangono comunque importanti anche in altre fasce di età, come l’adolescenza o l’età adulta. In questi casi si tratta più spesso di gruppi di auto aiuto; per i più grandi che hanno dimestichezza con il computer e internet sono attive anche alcune mailing list molto utili per entrare in contatto con altri siblings.

La tecnica che negli ultimi anni è stata fortemente implementata ed ha ricevuto esiti positivi soprattutto a livello statunitense e nel Nord Europa è quella dei “Camp”; alcuni sono basati sul divertimento terapeutico altri su programmi di tipo psico-educazionale, su principi di terapie cognitive o di promozione della salute (Beaulieu, 2012). L’esperienza del Camp ha portato ad outcomes positivi nel breve e lungo termine riguardo ai sintomi fisici, alla percezione di sé e al supporto sociale oltre che al benessere emozionale e all’autostima (Hancock, 2011).

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks e la storia di Thompson: se solo tacessimo per un istante

Di recente mi sono imbattuto in un libro, molto divertente e profondo, un piccolo best-sellers della bibliografia psicologica. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks. Un libro pieno di storie che, prendendo in prestito la scusa inusuale della patologia neurologica, consegna a noi fortunati lettori un affresco variopinto e folle di umanità.

 

Ci troviamo tante umanità diverse, assurde, esasperate, che Oliver Sacks ha raccolto in anni di attività clinica e ha voluto raccontare, cercando di trovare attraverso ciascuna, al di là del contingente ammasso neuronale compromesso e di volta in volta responsabile, un respiro universale di riflessione su ciò che siamo, su ciò che di meraviglioso, misterioso e terribile comporta l’essere uomini.

Alla ricerca di quella essenza che dimora, imperscrutabile, oltre i deficit e le sindromi, oltre la pretenziosa scientificità delle diagnosi e delle categorizzazioni, invisibile a qualsiasi strumento di valutazione.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: la storia di Thompson

I nostri test, i nostri approcci, pensai osservandola lì sulla panchina, in muto godimento di uno spettacolo naturale che lei sentiva come sacro, le nostre valutazioni sono ridicolmente insufficienti. Ci rivelano solo i deficit, non le capacità; ci forniscono solo dati frammentari e schemi, mentre abbiamo bisogno di vedere una musica, un racconto, una serie di azioni vissute, un essere che si comporta spontaneamente nel suo modo naturale.

Tra le tante storie, una più delle altre mi è sembrata toccante. Leggendola sono riuscito a respirare lo stesso pathos, la stessa tensione drammatica che deve avere stravolto Sacks quando la visse sulla propria pelle, e che egli è riuscito a infondere con sincerità tra le pagine, facendo a tratti librare il suo scritto oltre i confini della narrazione, verso le vette della lirica e della poesia.

La storia racconta di William Thompson, un ragazzo americano con ettolitri di alcol alle spalle, colpito dalla sindrome di Korsakov. Quando Sacks lo incontra e comincia ad occuparsi di lui, egli è già un individuo disintegrato, frantumato da un’amnesia feroce e fulminea, che costantemente distrugge il suo senso di continuità, di esistenza protratta nel tempo. Il suo passato è un cimitero popolato di pochi e pallidi fantasmi, il suo presente è un caotico guazzabuglio di frammenti impossibili da legare.

Sacks rimane subito colpito, quasi ferito, dall’ambivalenza che William trasmette a chi gli è vicino. Egli è, superficialmente, un comico nato, un intrattenitore instancabile, che nella sua disperata ricerca di sé stesso si aggrappa agli appigli che la realtà gli offre, provando a ricostruire con vorticosa foga e rapidità degli striminziti segmenti di identità.

Il tassista con cui parlammo in seguito, disse di non aver mai avuto un passeggero così simpatico. Il signor Thompson gli aveva raccontato una storia dopo l’altra, storie personali straordinarie, piene di avventure fantastiche.

Il delirio di Thompson

La realtà e il senso gli sfuggono subito dalla mente, così egli si ritrova ad essere, nello stesso discorso, nello spazio brevissimo di pochi secondi, intrappolato tra nugoli di identità bislacche e troncate, prigioniero di volti e nomi privi di sostanza. Egli abita un mondo di istantanee che si rincorrono freneticamente senza lasciare alcuna traccia sensibile dietro il loro passaggio.

Lì sostituiva con questa strana e delirante quasi-coerenza, e con il suo fuoco di fila di invenzioni sempre nuove, incessanti, inconsce, improvvisava di continuo un mondo intorno a sé.

Il dramma che Sacks avverte, che lo scuote alle fondamenta, non resta ancorato alla mancanza di senso e memoria che affligge William, ma si annida e raccoglie soprattutto nel disperato affanno, nella furia stremata che accompagna la sua rincorsa.

E in effetti egli non può smettere di correre, poiché lo squarcio nella memoria, nell’esistenza, nel significato non si risana mai, ma deve essere valicato, deve essere rattoppato a ogni istante.

La parte più recondita, segreta e senza voce di William, probabilmente, è in grado di avvertire il dolore che sanguina da quello squarcio. Ma William non lo può sopportare e di conseguenza, vedere. Egli costantemente lo rifugge attraverso il suo tentativo estenuato di “essere qualcosa”. Ma è proprio il suo sistema protettivo di confabulazioni che finisce per allontanarlo sempre di più dal contatto con la sua essenza umana, da quel doloroso e spaventoso reale che ancora potrebbe resistere di sotto allo smarrimento.

Paradossalmente, allora, il grande talento di William per la confabulazione è anche la sua condanna. Se solo tacesse per un istante, viene da pensare, se solo potesse arrestare quell’insulso blaterare: se solo potesse rinunciare all’ingannevole superficie delle illusioni – allora sì che la realtà potrebbe scendere in lui, che qualcosa di autentico, qualcosa di profondo, di vero, di sentito potrebbe penetrare nella sua anima.

Emblematico è in tal senso, l’incontro con il fratello di William, Bob, che Sacks racconta con una penosa estraniazione. Di fronte a “qualcosa di vero” che prova a intrufolarsi e a varcare le fortezze turbinose e volanti del delirio e che prontamente viene ricacciato al di fuori, si sente vacillare la fiducia dell’autore nella concezione vitalistica che sino a quel momento l’aveva sorretto.

“Ecco là mio fratello Bob”…Niente nel tono o nei toni di William, nello stile esuberante, ma sempre uguale e indifferente del suo monologo, mi aveva preparato alla possibilità di, della realtà…Egli non trattò il fratello come “reale”, non mostrò alcuna reale emozione, non fu minimamente orientato nel suo delirio, né da esso distolto; anzi, trattò istantaneamente il fratello come irreale, cancellandolo, perdendolo, in un ulteriore vortice di delirio.

Sembra quasi volersi arrendere, questo neurologo dal volto umano. Nel confronto ideale con Hume che attraversa tutto il libro, sente incombere su di lui lo spettro di quella odiata schiuma humeana fluttuante senza scopo sulla superficie della vita, e stavolta teme, per davvero, di uscire sconfitto. La mancanza di anima che egli percepisce in William, diventa una epidemia mortale che mette a repentaglio la possibilità di un’anima in ogni individuo. La sua assoluta impenetrabilità al vero, rimette in discussione l’esistenza di ogni verità umana che possa trascendere le contingenze meccaniche delle percezioni, delle emozioni e del pensiero astratto.

La pace per Thompson

Alla fine Sacks riuscirà a trovare qualcosa. Niente più di uno spiraglio, un minuscolo appiglio di redenzione a cui aggrappare la sua fiducia nell’umanità. Egli si accorgerà che William, sottratto all’estenuante stimolazione della società degli uomini e restituito ad una dimensione di muto contatto con il mondo naturale, riesce a sua volta a spegnersi, ad acquietarsi. Certo, non c’è in questo nessun miracoloso presagio di salvezza, solo un respiro corto di sollievo nel vedere la disperazione di quella corsa stemperarsi per qualche istante.

Ma quando vi rinunciamo e lo lasciamo tranquillo, a volte egli va a passeggiare nel giardino che circonda la clinica, un luogo calmo e privo di stimoli e lì, in pace, egli ritrova la propria pace. La presenza degli altri, della gente lo eccita, lo esalta, lo costringe ad un chiacchiericcio interminabile, a un vero e proprio delirio di creazione e di ricerca di identità; la presenza delle piante, la quiete del giardino, con il suo ordine non umano che non gli impone obblighi umani o sociali, fanno sì che questo delirio d’identità possa allentarsi, possa placarsi.

Questa storia, a leggerla tra le pagine del libro, commuove. Il dramma di William si rifrange e diffonde attraverso la soggettiva di Sacks e diventa nostro, in maniera amplificata, a tratti persino esasperata. Ma c’è pure qualcos’altro, credo, che ci rende così partecipi di questa vicenda, che smuove dentro di noi un senso strano di appartenenza. Forse sentiamo il destino di William intrecciarsi con il nostro perché il suo dramma, la sua patologia potrebbe essere, con le dovute proporzioni, la patologia del tempo che viviamo, come fu l’isteria nella lontana Vienna di fine 1800.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: stiamo diventando come William?

La nevrosi è strettamente collegata al problema del tempo e configura un tentativo fallito dell’individuo di risolvere in se medesimo il problema generale.

La società collegata in cui siamo immersi è, o perlomeno sta diventando, il non-luogo della comunicazione esasperata, incessante, del chiacchiericcio interminabile. Per apparire e per esistere siamo costretti a comunicare e chi non comunica si rassegna a scivolare invariabilmente ai margini, nel limbo grigio della non esistenza. Il mondo che viviamo assume sempre più i tratti del terribile universo che schiaccia William, con la sua sovrastimolazione ci eccita, ci esalta e infine ci piega, costringendoci ad inseguirlo nella sua corsa dissennata e nel suo sproloquiare, per provare anche noi ad esistere, ad “essere qualcosa”.

E alla fine che ci ritroviamo ad essere? Sostanzialmente, come William, dei Confabulanti.

Come lui sentiamo la fatica del definirci, nel mettere organicamente insieme i pezzi del nostro passato e del nostro futuro, troppo velocemente le immagini, le parole e i volti ci scorrono davanti. E lo sforzo che facciamo per rincorrere un’esistenza, un’identità, è paradossalmente ciò che finisce per allontanarci ancora di più da quell’imperscrutabile essenza, dal reale che dimora sotto lo smarrimento. Che necessita tempo, resistenza e fatica per essere esplorato, che è difficile da trovare e da comunicare, che nello spazietto risicato di due righe su un social non ci può stare e che, con ogni probabilità, non interesserebbe comunque a nessuno. Così lo seppelliamo pure noi di un incessante blaterare e torniamo a tuffarci nelle finzioni teatrali di Whatsapp, di Instagram, di Twitter o di Facebook sperando, alle volte pregando, in un appiglio esterno di riconoscimento.

Potessimo almeno tacere, potessimo staccare la spina, sconnetterci, recuperare il contatto con la quiete del giardino. Ma, come ci insegna William, non è facile. Perché non è solamente perdendosi due ore nel silenzio maestoso di un bosco, in un weekend alla SPA o in uno chalet di montagna, in una corsetta sulla spiaggia o tra le pagine di un libro la sera, che possiamo sperare davvero di ritrovarci. Occorrerebbe ripensare e ridisegnare completamente il tempo della nostra vita, dei nostri incontri con l’altro e dei nostri silenzi. Recuperare lo spazio sacro della noia, del non aver niente da fare e nessun cicaleccio indistinto nelle orecchie, per poter semplicemente sprofondare nell’oceano frammentato dell’esistere, lasciando rifluire le immagini e le sensazioni che troppo lievi si celano sotto le pieghe della nostra coscienza e che continuamente soffochiamo con i nostri affanni quotidiani.

Occorrerebbe fare uno sforzo attivo, individuale e collettivo, per combattere ogni giorno la frustrazione inquieta che ci afferra quando proviamo a staccare dal mondo, a rallentare, a dare spazio a quelle parti di noi che solo attraverso un processo lento di introspezione, possono maturare e generare un modo diverso, più autentico, più vivido e più profondo, di percepirci e di vivere il contatto con il reale che ci circonda. Restituendoci, in ultima istanza, non solo una rinnovata capacità di definirci e di comprenderci, ma anche il senso propriamente umano del nostro esistere.

 

L’UOMO CHE SCAMBIO’ SUA MOGLIE PER UN CAPPELLO – LEGGI ANCHE:

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

E’ possibile osservare la mente? Human Robot Interaction e osservazione della mente e degli stati mentali

“Sorvegliare” il comportamento degli altri, tentando di leggere i loro stati mentali al fine di comprendere le loro intenzioni, in modo da saperci comportare di conseguenza, è un atteggiamento che mettiamo in atto quotidianamente.

 

La «Tesi di non osservabilità» degli stati mentali sostiene che quest’ultimi sono inaccessibili, inosservabili.

Ma è possibile dimostrare il contrario?

Il dott. Claudio Lombardo spiega come raggiungere “l’osservabilità” degli stati mentali tramite il campo di indagine definito Human Robot-Interaction (HRI).

 

HUMAN-ROBOT INTERACTION – GUARDA IL VIDEO:

L’arte di colpevolizzare (2008) di Robert Neuburger – Recensione del libro

L’arte di colpevolizzare di Robert Neuburger (ed.2008) si concentra in maniera specifica su uno dei problemi che la coppia può incontrare lungo il proprio percorso insieme, quello della pratica di colpevolizzare il partner, appunto.

 

Robert Neuburger è uno psichiatra e psicoanalista francese che si occupa da molti anni di terapia di coppia e familiare, è professore onorario di psicologia clinica all’ULB (Université Libre de Bruxelles) e autore di numerose pubblicazioni.

L’arte di colpevolizzare: nasce nella relazione genitori-figli

Il testo, pur avendo dieci anni di vita è sempre attuale e si configura come uno strumento utile e di riflessione per il professionista che lavora con coppie.

Nell’introduzione, Neuburger presenta diverse strategie svantaggiose che due partner possono mettere in atto per relazionarsi con l’altro. La colpevolizzazione infatti non è l’unica arma che le persone possono scegliere (più o meno) consapevolmente per difendersi o attaccare. La seduzione, l’induzione della vergogna, ma anche, all’estremo, l’uso della violenza, sono strumenti altrettanto validi per ferire l’altro e rovinare una relazione secondo l’autore francese.

La prima parte del libro è dedicata a ricercare le origini del senso di colpa nella società.

Pur sembrando controintuitivo, la tesi presentata è che la colpa può nascere solo dove c’è l’amore ovvero nella relazione affettiva con i genitori. Gli psicoanalisti, infatti, si sono concentrati molto su questo aspetto. Per Freud la colpa ha avuto origine dalla socializzazione, a partire dal complesso di Edipo: il bambino sente la colpa di desiderare la madre e voler uccidere il padre. Per Klein e Winnicott nasce ancora prima del complesso, nella relazione esclusiva con la madre, nello specifico nel desiderio distruttivo di divorare il seno materno da parte del neonato. La capacità di colpevolizzare, in definitiva, deriva dal fatto che l’abbiamo sperimentata in prima persona nella relazione con il padre e la madre, l’abbiamo appresa quando ancora non avevamo gli strumenti cognitivi per elaborarla. In questa prospettiva la colpa è qualcosa di connaturato ad ogni rapporto significativo.

L’arte di colpevolizzare dipende dallo stile relazionale

Vengono poi presentati diverse tipologie di colpevolizzazione a seconda dello stile relazionale. Ad esempio, saremo in presenza di un tipo di colpevolizzazione materna, se il partner minaccerà l’altro basandosi su un debito di amore: “devi sentirti in colpa, perché tu mi procuri sofferenza, mentre io ti amo così tanto”. Si tratterà di colpevolizzazione di stile paterno in presenza di una trasgressione a norme prestabilite: “devi sentirti in colpa, perché hai giurato fedeltà e mi hai tradito”. Lo stile di colpevolizzazione fraterno, infine, si baserà sulla presenza di una sorta di peccato originale ovvero una colpa che esiste a prescindere dal fare o meno qualcosa di sbagliato: “sei colpevole, non tanto per quello che fai, ma per quello che sei”.

Questi diversi tipi di colpevolizzazione, anche se riferiti a dei ruoli storicamente femminili o maschili, sono diffusi in entrambi i sessi e derivano, secondo Neuburger, non solo dal nucleo familiare, ma anche dal substrato sociale e culturale da cui la coppia proviene.

L’arte di colpevolizzare all’interno della coppia

La seconda parte dell’opera è focalizzata, invece, sull’origine della colpa all’interno della coppia.

L’autore analizza i diversi motivi per cui si può finire a colpevolizzare l’altro. Lo psicoanalista introduce il concetto di “debito” ovvero la mancanza che uno dei due partner avverte nella relazione e di cui accusa l’altro. Il problema alla base può essere quindi il poco amore, l’aver violato un patto più o meno esplicito, mancare di solidarietà verso l’altro, a seconda della situazione.

Vengono prese in esame, successivamente, le tecniche che i partner possono utilizzare per colpevolizzare l’altro a seconda del tipo di stile colpevolizzante. In chi adotta uno stile paterno vedremo più recriminazioni su promesse mancate. Chi userà quello materno minaccerà di togliere l’amore o di non concedersi più sessualmente. La persona con uno stile fraterno esigerà la condivisione assoluta in ogni aspetto della relazione e così via.

L’arte di colpevolizzare: i casi clinici

L’ultima parte di L’arte di colpevolizzare si concentra su storie di terapia vissute dall’autore, in cui la colpevolizzazione ha fatto da protagonista e come si sono risolte: una parte interessante, per vedere la colpevolizzazione nella realtà di una relazione.

Gli ultimi paragrafi si rivolgono, poi, direttamente al lettore e contengono un mini questionario per identificare lo stile di colpevolizzazione e le tecniche usate di preferenza per far sentire l’altro in difetto, un test molto semplice da condividere con le coppie in terapia.

Un pregio dell’opera sono sicuramente i numerosi esempi, tratti dal lavoro di terapeuta, per enfatizzare quanto esposto. La lettura è scorrevole e alleggerita da simpatiche vignette di coppie in lite. Il testo può sicuramente essere considerato un utile strumento di riflessione per chi si occupa di terapia di coppia.

Le coppie che si presentano in terapia, spesso infatti, sottesi ai problemi “oggettivi” presenti nella vita relazionale, portano spesso l’incapacità o l’impossibilità di svincolarsi dal legame colpevolizzatore – colpevolizzato di cui, spesso, non sono affatto consapevoli.

Neuburger, con ironia, conclude l’opera con le parole del poeta israeliano Yehuda Amichai:

Dalla ragione,
i fiori non spunteranno mai.

Genitori e nuove tecnologie: come i grandi parlano ai propri figli di social media e internet

La maggior parte dei genitori è d’accordo nel monitorare l’attività online dei bambini, e la considera una delle più grande sfida della genitorialità moderna. 

 

Uno studio realizzato dall’Università del Michigan ha rilevato come i genitori passino più tempo nello spiegare ai bambini le modalità e i meccanismi di utilizzo di internet rispetto al focalizzarsi sui contenuti a cui questi sono esposti.

Genitori, bambini e social media: lo studio

Lo studio ha coinvolto 75 bambini e le loro famiglie. I bambini venivano osservati nelle loro abitazioni e indossavano dispositivi di registrazione e supporti audiovisivi.

Dai dati emergono alcune tendenze sul modo in cui famiglie e bambini comunicano tramite social media. Nello specifico si hanno pochissime conversazioni sul contenuto dei video che i bambini guardano.

Inoltre sembrerebbe che, oltre ai genitori, altri membri della famiglia abbiano un ruolo importante nelle discussioni sui contenuti: nel caso di presenza di fratelli più grandi, questi hanno avuto un ruolo importante di mediazione dei contenuti veicolati ai fratelli minori. Inoltre, sono state individuate strategie di negoziazione e conflitti, circa l’utilizzo dei dispositivi, similari tra i genitori e bambini. Oltre a un uso contemporaneo degli stessi tra i diversi membri della famiglia.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO

Genitori, bambini e social media: le domande aperte

Secondo gli autori è fondamentale che i genitori utilizzino le impostazioni e le restrizioni sulla privacy per tutelare i bambini da determinati contenuti e attuino un piano che aiuti a stabilire degli obiettivi e delle regole di utilizzo in relazione ai bisogni individuali.

Questo studio si inserisce in una letteratura scarsissima circa questa tematica, pertanto lo scopo di questa ricerca è stato quello di comprendere i temi di mediazioni e la comunicazione tra familiari riguardo i dispositivi tecnologici, poiché tramite questo si possono strutturare strategie di mediazione che i genitori possono mettere in atto, portando a migliori modalità di utilizzo da parte dei bambini delle nuove tecnologie.

Love Addiction will tear us apart: la dipendenza affettiva e il ruolo degli stereotipi di genere nella definizione del fenomeno

Secondo Giddens sono tre le principali caratteristiche che connotano la dipendenza affettiva come vera e propria forma di dipendenza: l’ebbrezza, la tolleranza e l’incapacità di controllare il proprio comportamento.

Maria Filosa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Everyone says love hurts, but that is not true. Loneliness hurts. Rejection hurts. Losing someone hurts. Envy hurts. Everyone gets these things confused with love, but in reality love is the only thing that covers up all the pain and makes someone feel wonderful again. Love is the only thing in this world that does not hurt.
(Meša Selimović)

 

Cos’è l’amore? Difficile dare una risposta che comprenda le infinite sfaccettature del concetto cui si fa riferimento con la parola amore. Si consideri la definizione proposta da Erich Fromm nel libro “L’arte di amare”:

Amare qualcuno non è solo un forte sentimento, è una scelta, una promessa, un impegno. Se l’amore fosse solo una sensazione, non vi sarebbero i presupposti per un amore duraturo. Una sensazione viene e va. Come posso sapere che durerà per sempre, se non sono cosciente e responsabile della mia scelta? (Fromm, 1957).

Nel suo libro, Fromm prosegue differenziando l’unione simbiotica o amore immaturo (“ti amo perché ho bisogno di te”), caratterizzato dalle dinamiche dominanza-sottomissione e dalla paura sottostante della solitudine, dall’amore maturo (“ho bisogno di te perché ti amo”), ossia l’unione con l’altro a condizione di perseverare la propria integrità, il sentimento attivo del dare piuttosto che del ricevere.

Questa differenziazione viene approfondita anche da altri autori negli anni successivi. Tra i tanti, possiamo ricordare Curtis, secondo il quale l’amore maturo sarebbe definito da bisogno, generosità, romanticismo e complicità, e aiuterebbe a creare un ambiente che permette la mutua crescita degli amanti, motivati ad acquisire, ad esempio, un più alto grado di educazione, maggior conoscenza di sé, autostima e benessere (Curtis, 1983). L’amore immaturo, invece, sarebbe caratterizzato da potere, possesso, protezione, pietà e perversione e, secondo Acevedo e Aron, anche da ossessioni sulla mancanza di fedeltà del partner, incertezza legata alla sensazione che la relazione possa concludersi da un momento all’altro e relativa ansia (Acevedo & Aron, 2009). L’amore immaturo, quando permea la quotidianità, causa continui comportamenti di perdita di controllo provocando conseguenze negative nella vita del soggetto, può essere considerato, secondo Sussman, dipendenza affettiva (o love addiction) (Sussman, 2010).

Le Dipendenze: fattori comuni tra le Dipendenze comportamentali e la Dipendenza da sostanze

Il fenomeno della dipendenza affettiva ha suscitato una crescita di interesse e studi a partire dagli inizi degli anni ’80; la sua conoscenza, a livello della popolazione mondiale, fu dovuta alla prima pubblicazione del libro di Robin Norwood “Donne che Amano troppo” (1985). L’autrice, psicoterapeuta famigliare specializzata nel campo delle dipendenze, definisce il fenomeno della dipendenza affettiva “troppo amore”, descrivendolo come il bisogno, non consapevole, di legarsi a partner incompatibili con i propri sentimenti, non curanti del benessere dell’altro, non disponibili, velatamente o chiaramente rifiutanti, unito all’incapacità di distaccarsene e al pensiero magico di riuscire, tramite l’amore e il sacrificio di sé, a cambiarli e trasformarli nei partner dei propri sogni.

Benché molti siano stati i libri scritti in riferimento al fenomeno, ben poche sono le ricerche empiriche presenti al riguardo, così come pressoché inesistenti i dati statistici. La dipendenza affettiva, ad oggi, non rientra tra le categorie indicate nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM 5 e, perciò, non esistono criteri generalmente riconosciuti cui poter far riferimento in sede di diagnosi clinica. In termini di classificazione, viene annoverata tra le cosiddette New Addictions (dette anche dipendenze comportamentali, o “non legate a sostanza”), termine col quale si indica una tipologia di dipendenza non legata ad una sostanza, ma ad un’attività o comportamento del tutto lecito e accettato socialmente, il quale viene però costantemente ricercato e riprodotto senza alcun controllo, e al quale non si riesce a porre fine, nonostante le gravi conseguenze negative apportate alla vita dell’individuo. Tra le New Addictions, vengono annoverate anche la dipendenza sessuale, da gioco d’azzardo patologico (l’unica riconosciuta dall’APA e inserita nel DSM 5), da lavoro, da internet, da shopping compulsivo e da sport.

Marazziti e collaboratori (2015) ben riassumono gli elementi comuni riscontrati all’interno della macrocategoria delle dipendenze:

  • piacere e sollievo, sensazioni gradevoli ma limitate ai periodi iniziali dell’uso della sostanza o della messa in atto del comportamento, fase denominata “luna di miele”;
  • dominanza o idea prevalente riferita alla sostanza o al comportamento, per cui vi è l’impossibilità di resistere all’impulso di assunzione o pratica, vissuta con modalità compulsive;
  • craving, sensazione crescente di tensione e desiderio che precede l’assunzione della sostanza o la pratica del comportamento;
  • instabilità dell’umore;
  • tolleranza, ossia la progressiva necessità di incrementare la quantità di sostanza o tempo dedicato al comportamento per ottenere l’effetto piacevole, il quale tenderebbe altrimenti ad esaurirsi;
  • discontrollo, la progressiva sensazione di perdita di controllo sull’assunzione della sostanza o esecuzione del comportamento;
  • astinenza, il profondo disagio fisico e psichico conseguente all’interruzione o alla ridotta assunzione della sostanza o alla riduzione del tempo dedicato alla messa in atto del comportamento;
  • conflitto e persistenza, dovuti all’incapacità di porre fine all’assunzione di una sostanza o alla pratica di un comportamento nonostante le evidenti conseguenze sulla vita dell’individuo;
  • ricadute, ossia la tendenza a riavvicinarsi alla sostanza o ad attuare il comportamento dopo un periodo di interruzione;
  • poliabuso, ossia la tendenza ad assumere più sostanze o praticare più comportamenti e cross-dipendenza, ossia la tendenza a passare da una dipendenza all’altra nell’arco della storia di vita;
  • fattori di rischio comuni, quali sensation seeking, impulsività, difficoltà nella regolazione emotiva, inadeguato ambiente di sviluppo genitoriale, attaccamento insicuro e presenza di traumi.

Studi di biochimica, neuroimaging funzionale e genetica, condotti negli ultimi anni, confermano inoltre l’esistenza di una stretta relazione, sul piano neurobiologico, tra le dipendenze di tipo comportamentale e la dipendenza da sostanze, le quali condividerebbero le stesse alterazioni funzionali (Grant et al., 2006).

La dipendenza affettiva: definizione e fattori predisponenti

Per quanto riguarda più precisamente la dipendenza affettiva, secondo Giddens sono tre le principali caratteristiche a connotarla come vera e propria forma di dipendenza.

La prima è l’ebbrezza, la sensazione di euforia legata alla vicinanza del partner e alle sue reazioni rispetto ai propri comportamenti. La seconda è la tolleranza o “dose”, ossia il bisogno di aumentare il tempo trascorso in compagnia del partner, riducendo di conseguenza quello dedicato a sé e ai contatti esterni alla coppia. Tale aspetto sarebbe alimentato dall’incapacità di mantenere la presenza interiorizzata rassicurante dell’altro: a causa di ciò, l’assenza della persona di cui si è dipendenti comporterebbe uno stato di disperazione risolvibile solo mediante la presenza concreta dell’altro in quanto il solo pensiero non risulta rassicurante di per se stesso. L’ultima caratteristica è l’incapacità di controllare il proprio comportamento, connessa alla perdita della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro: ciò provocherebbe un conseguente senso di vergogna, il quale, in momenti di lucida razionalità, permette di comprendere la portata nociva della propria situazione e del malessere sperimentato ma che, quasi inevitabilmente, viene sostituito da una sensazione di indegnità, la quale porta nuovamente a ricadere nella propria dipendenza affettiva ricercando “l’abbraccio” dell’altro (Giddens, 1992).

Sulla base delle analogie tra dipendenza affettiva e dipendenza da sostanze, Reynaud e collaboratori (2010) hanno proposto una definizione maggiormente sistematica di tale patologia, unita ad alcuni criteri diagnostici. Essa, viene definita come un modello disadattivo o problematico della relazione d’amore che porta a deterioramento e angoscia clinicamente significativa, come manifestato da tre (o più) dei seguenti criteri (che si verificano in ogni momento, nello stesso periodo di 12 mesi, per i primi cinque criteri):

  1. esistenza di una sindrome caratterizzata da astinenza in assenza dell’amato;
  2. significativa sofferenza e bisogno compulsivo dell’altro;
  3. considerevole quantità di tempo speso su questa relazione (nella realtà o nel pensiero);
  4. riduzione di importanti attività sociali, professionali o di svago;
  5. persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la propria relazione;
  6. ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa;
  7. esistenza di difficoltà di attaccamento come manifestato da ciascuno dei seguenti:
    – ripetute relazioni amorose esaltate, senza alcun periodo di attaccamento durevole;
    – ripetute relazioni amorose dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro.

La dipendenza affettiva sarebbe, dunque, una modalità patologica di vivere la relazione, in cui la persona dipendente, per non perdere il partner, silenzia i propri bisogni per dare voce solo a quelli dell’altro, considerato unica e sola fonte di gratificazione, anche quando da essa non se ne riceve più alcuna. I dipendenti affettivi sono sostanzialmente innamorati del sentimento d’amore, spesso mai conosciuto intimamente e che quindi non riescono a distinguere da ciò che non lo è. Sono alla costante ricerca di partner guidati dalla convinzione che, in qualche modo, la relazione possa avere poteri magici, salvifici, permetta di superare qualsiasi ostacolo (Peele & Brodsky, 1992), ritenendo che solo assieme a un’altra persona ci si possa sentire completi (Yoder, 1990). Il dipendente affettivo, a causa di una bassissima autostima di base, è terrorizzato dall’abbandono del partner e vive in un generico stato di allerta manifestato con gelosia, possessività, comportamenti di controllo, opposizione al cambiamento e bisogno di una relazione vissuta in simbiosi. Nelle relazioni, spesso, sperimenta rabbia, rancore, sensi di colpa e un profondo senso di inadeguatezza dato dalla convinzione di essere inferiore al partner, del cui amore non è meritevole.

Dipendendo dall’altro per potersi dare esistenza, chi soffre di dipendenza affettiva per evitare l’abbandono e quindi evitare di ricevere la conferma del poco valore di cui si crede portatore, non soltanto rinnega i propri bisogni sottomettendoli ai bisogni dell’altro, ma accetta e tollera qualsiasi tipo di comportamento emesso dal partner, nella speranza di mantenere la vicinanza. Ne deriva che, di fronte a maltrattamenti fisici, verbali o psicologici, nella fasulla convinzione di mantenere il controllo sulla relazione e poter dunque continuare a praticare la propria dipendenza affettiva, il soggetto si assume la responsabilità dei comportamenti dell’altro (ad es. giustificando i tradimenti come causa della propria incapacità di soddisfarlo). Infine, non solo vi è la difficoltà ad interrompere la relazione dopo periodi prolungati di malessere, per quanto vi è la tendenza a ricadere nella stessa relazione dopo mesi o a sostituirla con una relazione simile instaurata assieme ad altri partner (Wolfe, 2000; Fisher, 2006).

Ma da dove ha origine e quali sono i fattori predisponenti la dipendenza affettiva?

In tutti gli studi presenti in letteratura, è ormai chiaro il ruolo fondamentale delle prime esperienze sociali di attaccamento vissute nell’infanzia (Sussman, 2010). In uno studio del 1990, Feeney e Noller cercarono di indagare come gli stili di attaccamento potessero prevedere le tipologie di relazioni sviluppate in età adulta e, a differenza degli studi precedenti su tale argomento, introdussero anche una misurazione della dipendenza affettiva in un campione di 374 studenti. Dai risultati, emerse che i soggetti con attaccamento sicuro riportavano relazioni familiari basate sulla fiducia e relazioni intime stabili e soddisfacenti. I soggetti con attaccamento evitante, riportavano esperienze di separazione e sfiducia nella loro infanzia e poche o poco intense relazioni d’amore in età adulta. Infine, il dato più interessante, i soggetti con attaccamento ansioso-ambivalente riportavano un approccio estremo nei confronti dell’amore, caratterizzato da ossessività, “limerence” (desiderio eccessivo nei confronti dell’amato), preoccupazioni, idealizzazione, eccessivo bisogno di attenzioni nella coppia e dipendenza emotiva (Feeney & Noller, 1990)

Bartholomew, in un articolo del 1990, propone quattro tipologie o, per meglio dire, prototipi di attaccamento adulto.

  • Sicuro: caratterizzato da un’immagine positiva sia di sé che dell’altro e relazioni basate su intimità e autonomia;
  • Preoccupato: definito da un’immagine negativa di sé e positiva dell’altro, tipico di soggetti che hanno sperimentato uno stile genitoriale basato su intrusività e mancanza di sensibilità; esso è caratterizzato da eccesiva dipendenza affettiva, insaziabile desiderio di ottenere l’approvazione altrui e profondi sentimenti di non essere degni;
  • Timoroso: definito da un’immagine negativa sia di sé che dell’altro, tipico di soggetti i cui bisogni di attaccamento infantili sono stati frustrati da genitori non disponibili e rifiutanti; in questo prototipo di attaccamento adulto, il soggetto desidera sperimentare contatto e intimità ma, il timore del rifiuto e la totale mancanza di fiducia nell’altro, gli impediscono di stabilire relazioni sociali profondamente intime, all’interno delle quali esibisce, invece, soprattutto modalità di tipo passivo-aggressivo.
  • Rifiutante: caratterizzato da una positiva immagine di sé e negativa dell’altro, nella cui categoria rientrerebbero soggetti che hanno sperimentato uno stile genitoriale basato sulla non espressione delle emozioni negative e freddezza nelle interazioni; in questi soggetti, il sistema di attaccamento è fondamentalmente disattivato ed essi evitano le relazioni intime, sminuendone il valore e l’importanza, focalizzandosi invece su aspetti impersonali della vita, quali ad esempio il lavoro o gli hobby. Nelle relazioni sociali vissute, inoltre, spesso manifestano comportamenti di tipo dominante-aggressivo, mostrandosi calcolatori, arroganti, competitivi e manipolatori.

Secondo Bartholomew, i soggetti Preoccupati e Timorosi avrebbero di base un forte bisogno di dipendenza, nonostante le notevoli differenze nel modo di approcciarsi alla relazione: mentre il soggetto Preoccupato si avvicinerebbe all’altro per trovare soddisfacimento del proprio bisogno, il soggetto Timoroso eviterebbe la vicinanza, pur desiderandola, rendendo minimo il dolore potenziale dovuto alla perdita o al rifiuto. L’autore sottolinea come il tipo di attaccamento influenzi anche la scelta del partner e la tipologia di relazione di coppia vissuta, all’interno di un ciclo che permette il mantenimento e la conferma della percezione di sé e degli altri. In particolare, ponendo l’esempio di un soggetto evitante (timoroso o rifiutante), egli potrebbe scegliere sia un soggetto ugualmente evitante ma di tipologia diversa (coppia timoroso-rifiutante), al fine di mantenere la distanza interpersonale desiderata, sia un soggetto dipendente (preoccupato), confermando la necessità di mantenere una certa distanza e l’immagine negativa dell’altro, desideroso a livelli patologici di intimità. Il soggetto Preoccupato, scegliendo un partner evitante, confermerebbe invece l’immagine di sé come non degno di amore e attenzioni e i propri timori abbandonici relativi ad un altro non disponibile (Bartholomew, 1990): proprio sulla base di tali meccanismi, che Bowlby definisce di “omeostasi rappresentativa”, ciascun partner sceglierebbe l’altro per confermare le rappresentazioni di sé e dell’altro costruite fin dalla prima infanzia (Bowlby, 1988) giustificandole però come presenti a causa del partner e mantenendole.

In uno studio del 2015, Stavola e collaboratori hanno evidenziato, oltre alla presenza di un attaccamento di tipo preoccupato e timoroso (i quali hanno in comune un’immagine negativa di sè), come anche la presenza di traumi infantili di abuso e negligenza emotiva, la difficoltà nella regolazione delle emozioni e la dissociazione, meccanismo presente in soggetti con trauma, siano tutti fattori predisponenti la dipendenza affettiva (Stavola et al., 2015).

Il ruolo degli stereotipi di genere: la Dipendenza affettiva maschile e la “danza relazionale”

Leggendo le righe precedenti, molto facilmente si potrebbe pensare che la dipendenza affettiva si sviluppi solo ed esclusivamente nelle donne, secondo Miller infatti il 99% dei dipendenti affettivi sono di sesso femminile (Miller, 1994). Tuttavia, non essendo ancora chiari i criteri diagnostici, non esiste una stima certa della distribuzione del fenomeno all’interno della popolazione, né dati relativi alle differenze di genere.

Considerando la dipendenza affettiva come una dinamica creata all’interno di una relazione vissuta in maniera malsana, più che un disturbo che affligge il singolo soggetto, non è più così semplice collegarla al genere femminile. Apparentemente, all’interno di questa tipologia di relazione, un soggetto sembrerebbe dipendente e l’altro “anti-dipendente” ma in realtà si tratterebbe piuttosto di una “danza”, in cui vi è continuo scambio di ruoli. Avendo individuato l’attaccamento ansioso-ambivalente come uno dei fattori predisponenti, e considerando i dati che stabiliscono come esso sia prevalente in entrambi i generi sessuali, se ne può dedurre che anche la dipendenza affettiva abbia una prevalenza comune tra i generi (Feeney & Noller, 1990). Forse, dunque, il genere non influenzerebbe tanto la predisposizione allo sviluppo della dipendenza affettiva, bensì il modo in cui essa si manifesterebbe (Sussman, 2010).

Il ritratto della dipendente affettiva di sesso femminile, ben si confà agli stereotipi di genere della donna, debole, bisognosa, tenera, ingenua, sensibile ai bisogni degli altri, compassionevole, comprensiva, empatica, dipendente e timida (Prentice & Carranza, 2002). Per quanto riguarda l’uomo, al contrario, i condizionamenti culturali, così come le caratteristiche desiderabili, stereotipicamente parlando lo allontanano da tutto ciò che riguarda la dipendenza: aggressività, ambizione, assertività, competizione, dominanza, difesa delle proprie idee, potere, forza, indipendenza, egoismo, fiducia in se stesso e assunzione di rischio.

Nell’uomo, è molto evidente la necessità di nascondere gli affetti, considerati espressioni di una debolezza che è incompatibile con la virilità: per tale ragione, egli viene chiamato a nascondere i propri bisogni di dipendenza, a celare emozioni e debolezze per apparire forte e autosufficiente. Gli stereotipi di genere, dunque, potrebbero aver influenzato il modo di manifestarsi della dipendenza affettiva maschile, camuffandola con anaffettività e comportamenti aggressivi, di dominanza, squalificazione e manipolazione emotiva della partner, di cui si ha bisogno per non doversi confrontare con la solitudine e tutto ciò che essa comporta. Il dominio, il controllo, la manipolazione e la squalificazione della partner avrebbero dunque l’obiettivo di minarne la sicurezza per evitare l’abbandono.

Numerose ricerche hanno evidenziato come gli uomini violenti, sia in termini fisici che psicologici, spesso riportino pattern di attaccamento di tipo timoroso e preoccupato, gli stessi pattern considerati fattori predisponenti la dipendenza affettiva (Dutton et al., 1994; Holtzworth-Munroe et al., 1997). Nell’uomo, la dipendenza affettiva può manifestarsi anche tramite la scelta di una partner dipendente e dunque bisognosa, la cui sicurezza è già minata alla base: all’interno di tale relazione, egli può trovare soddisfacimento al bisogno di dominare e controllare, mantenendo silenti i propri timori relativi all’abbandono dell’altro, il quale, avendo bisogno di lui, difficilmente potrà allontanarsi.

Nella dipendenza affettiva, non viene tollerato il cambiamento all’interno della relazione: dal punto di vista maschile, ciò, spesso, si realizza con l’intolleranza alle discussioni all’interno del rapporto di coppia, le quali vengono prevenute tramite un approccio passivo, di falsa sottomissione, o aggressivo, di dominanza, al fine di mantenere un’armonia solo fittizia. La mancanza di conflitti, in questo caso, non è dunque simbolo di benessere relazionale, ma conseguenza dell’assenza di intimità tra i partner, data dall’incapacità di esprimersi in maniera emotivamente autentica.

Tuttavia, l’utilizzo di violenza fisica, psicologica e verbale non è esclusivamente appannaggio del mondo maschile: esistono numerosi studi e dati statistici riguardanti la violenza agita dalle donne sugli uomini. In una ricerca del 2012 di Macrì e collaboratori, su un campione di 1058 soggetti maschi italiani, risultò che circa il 60% di loro aveva ricevuto graffi, morsi, calci, pugni e schiaffi da parte di una donna, e più del 50% di loro aveva ricevuto critiche per l’impiego poco remunerativo, inerenti ai famigliari, umiliazioni e ridicolizzazioni in pubblico, minacce di separazione o di allontanare i figli, da parte di una partner attuale o pregressa. All’interno della coppia, la violenza non è dunque sempre e solo agita al maschile, anche se l’utilizzo femminile della violenza di qualsiasi tipo, è più spesso riflesso della violenza subita da precedenti partner o dallo stesso, e, perciò, agita come difesa (Swan et al., 2008). L’esempio di coppie di tale tipologia, in cui entrambi i soggetti costruiscono in rapporto basandosi su continue angherie, svalutazioni e scambio di ruoli tra “vittima” e “carnefice”, rimanendo incapaci di porre fine alla relazione, è un chiaro esempio di come la dipendenza affettiva non abbia preferenze di genere.

Ad oggi, comunque, non esistono studi scientifici che abbiano approfondito le differenze di genere nella manifestazione della dipendenza affettiva benché, in sede clinica, sia evidente che anche gli uomini possano esserne affetti. Indipendentemente dal genere, in sede clinica, numerosi autori hanno suggerito che i dipendenti affettivi potrebbero coinvolgersi in relazioni come riflesso di disturbi di personalità sottostanti, quali Borderline, Narcisistico o Dipendente (Sussman, 2010). Per quanto riguarda il disturbo Narcisistico di personalità, soprattutto il tipo Covert o Vulnerabile, caratterizzato da una fragile stima di sé, ipersensibilità, ansia nei rapporti interpersonali, inibizione sociale, oscillazione tra sentimenti di superiorità e inferiorità e dipendenza, è risultato essere maggiormente correlato a relazioni di tipo ossessivo (Rohmann et al., 2012). Considerando, invece, il disturbo Borderline di personalità, un’interessante differenziazione in base al genere è riportata in uno studio di Johnson e collaboratori: i soggetti maschili diagnosticati, sarebbero caratterizzati maggiormente da aggressività, manipolazione, sfiducia nell’altro, disinibizione sociale, distacco e impulsività riguardo l’utilizzo di droghe e alcol; i soggetti femminili diagnosticati riporterebbero, invece, possessività, dipendenza e impulsività nel rapporto col cibo (Johnson et al., 2003). Nel contesto della violenza domestica, infine, vari studi hanno evidenziato come i soggetti maschili violenti siano spesso diagnosticati con personalità Borderline (Else et al., 1993; Hastings et al., 1988; Dutton et al., 1994).

Per concludere, la mancanza di una definizione scientificamente valida e riconosciuta globalmente della dipendenza affettiva, crea difficoltà in sede di diagnosi clinica, ma è sicuramente possibile ipotizzare un’influenza degli stereotipi di genere sia nell’identificazione che nella manifestazione del fenomeno. Si vede, dunque, la necessità di ulteriori approfondimenti, al fine di fare luce su un malessere ormai ben evidente ed esacerbato nell’ambito di relazioni di coppia mantenute in nome di ciò che viene chiamato amore, ma che nulla ha a che fare con questo.

Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene (2018) di Antonio Scarinci – Recensione

Vivere la propria vita con uno spiccato senso dell’ umorismo aiuta a non prendersi troppo sul serio e ad affrontare le vicissitudini e le difficoltà che si presentano con maggiore resilienza.

 

Ormai da più parti si sottolineano gli effetti in termini di benessere che l’umorismo produce in chi ne usufruisce e lo utilizza.

Umorismo e psicoterapia: c’è umorismo e umorismo

Antonio Scarinci, curatore del volume Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene, descrive nella prima parte del testo i diversi stili umoristici, citando la classificazione di Martin (2003; 2007).

L’ umorismo adattivo, quello autovalorizzante e affiliativo a differenza di quello disadattivo, aggressivo e denigrante, smorza tensioni interpersonali, crea nuove relazioni, incrementa la coesione interpersonale e favorisce possibilità di crescita personale.

In termini evoluzionistici, poiché fondato sull’abilità di riconoscere un qualche tipo di schema, sviluppa una capacità essenziale per comprendere sia l’ambiente circostante sia il comportamento degli altri individui.

L’autore ritiene che l’umorismo, essendo un elemento chiave di tutte le interazioni sociali, sia utile anche in psicoterapia per attivare cambiamenti nelle aree centrali dell’esperienza umana.

Diversi studi, citati nel volume, hanno messo in rilievo la funzione positiva che svolge nel trattamento dei disturbi psicologici e la sua utilità in ogni fase del processo terapeutico.

Da più parti si sottolineano gli effetti in termini di benessere che l’umorismo produce in chi ne usufruisce e lo utilizza.

Umorismo e psicoterapia: usare con cautela

I format umoristici di cui avvalersi nel setting sono molti: narrazioni, film, storie, vignette, battute, tutte quelle modalità comunicative che riescano a creare script con aspettative incongruenti e/o opposte che transitino attraverso un elemento in un altro script, modificando la prospettiva e stimolando la risoluzione dell’incongruenza.

La formazione su questo tema è diventata, perciò, una necessità per gli psicoterapeuti che ne vogliono fare uso, anche se va ancora molto sviluppata la riflessione teorica e la ricerca empirica.

Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene vuole essere, nelle intenzioni dell’autore, un primo punto di riferimento da cui partire per percorrere una lunga strada che potrà portare a compiere passi avanti nel capire come utilizzare al meglio questo strumento e come sviluppare modelli teorici e procedure appropriate.

Umorismo e psicoterapia: struttura del libro

La prima parte del volume presenta una review sulla teoria e sulla ricerca empirica, lo stato dell’arte sull’argomento.

Nella seconda parte del volume sono riportate una serie di ricerche che forniscono dati empirici interessanti sulle funzioni dello humor.

La prima riporta i risultati di uno studio che mette in relazione i tratti di personalità e una maggiore o minore propensione al “sense of humor”. L’interesse è legato alle possibili applicazioni per programmi d’intervento mirati allo sviluppo di capacità personali relative alla maggiore propensione all’adozione di un atteggiamento umoristico e al suo utilizzo in psicoterapia.

Nella seconda ricerca gli autori si sono posti l’obiettivo di valutare se l’umorismo migliora la capacità di regolazione delle emozioni.

Sono stati selezionati tre gruppi di soggetti. Un primo gruppo sperimentale è stato sottoposto a un breve training psicoeducativo sull’ umorismo e poi alla visione di tre clip di film umoristici. Il gruppo di controllo non ha svolto il training e non ha visionato le clip umoristiche. I soggetti di entrambi i gruppi sono stati invitati in seguito a visionare clip di film con scene cruente. Infine gli è stato chiesto di riferire le emozioni sperimentate e l’intensità delle stesse.

Un secondo gruppo sperimentale è stato sopposto alla visione di clip di film cruenti e dopo ha svolto un breve training psicoeducativo e ha visionato clip di film umoristici.

Umorismo e psicoterapia: studi sull’efficacia

Dai risultati è emerso che il primo gruppo sperimentale non ha avuto maggiori capacità di regolazione emotiva rispetto al gruppo di controllo, a causa della “regola del picco-fine”, per cui le valutazioni retrospettive sono insensibili alla durata dell’esperienza e assegnano a due singoli momenti, il picco e la fine, pesi molto maggiori che agli altri (Kahneman, 2013), mentre il secondo gruppo sperimentale ha manifestato una minore intensità degli stati emotivi sperimentati.

Gli autori della terza ricerca hanno ipotizzato che l’ umorismo possa essere uno strumento terapeutico per facilitare l’utilizzazione dei processi che regolano l’attivazione e l’interruzione dell’attenzione e della memoria selettive. A tal fine sono stati selezionati due gruppi di soggetti. Il gruppo sperimentale è stato sottoposto a un breve training psicoeducativo sull’umorismo e poi alla visione di tre clip di film umoristici. Il gruppo di controllo non è stato sottoposto al training psicoeducativo e alla visione delle clip umoristiche. I soggetti di entrambi i gruppi sono stati invitati in seguito a leggere brevi narrazioni di eventi drammatici. Infine gli si è chiesto di ricordare particolari significativi della narrazione.

I risultati attestano che il gruppo sperimentale ha ricordato meno particolari significativi delle narrazioni e ha presentato differenze significative di punteggio dei livelli metacognitivi.

L’ultima ricerca della seconda parte ha come target gli psicoterapeuti iscritti alla SITCC con l’obiettivo di valutare se l’ umorismo è utilizzato in psicoterapia, qual è il razionale del suo utilizzo, quali le controindicazioni, e se i terapeuti hanno avuto una formazione specifica sul tema.

I dati più rilevanti emersi sono che l’ umorismo è considerato uno strumento importante per la psicoterapia, anche se i terapisti sono poco formati all’uso dello stesso.

Gli intervistati ritengono che vi siano alcune controindicazioni al suo utilizzo soprattutto con pazienti gravi e difficili, mentre per altri disturbi (disturbi d’ansia, depressione, disturbi di personalità meno gravi) se ne rileva l’utilità. Nel setting chi utilizza l’ umorismo soprattutto si confronta con il paziente e fa ricorso a metafore, film, narrazioni, vignette, mentre le funzioni che può svolgere lo humor sembrerebbero secondo il parere degli intervistati molto ampie, dalla sdrammatizzazione e decatastrofizzazione, alla costruzione della relazione, dall’aprire nuove prospettive al distendere momenti e situazioni di tensione.

Umorismo e psicoterapia: indicazioni per l’uso

Nella terza e ultima parte del libro, sono fornite alcune indicazioni in forma di linee guida per utilizzare l’umorismo in psicoterapia. Scarinci sottolinea che non si può prevedere cosa sia divertente e cosa no, perché ciò dipende dalla capacità individuale di riconoscere gli schemi, e quindi dalle esperienze e dalle conoscenze del singolo individuo all’interno dei legami interpersonali per questo non è possibile definire protocolli terapeutici ma indicare come, quando e perché utilizzare l’ umorismo durante la fase di assessment per valutare il funzionamento del paziente, per costruire l’alleanza terapeutica, durante il trattamento per produrre il cambiamento. Un’ampia parte del capitolo è dedicata alle esemplificazioni cliniche sull’utilizzo degli strumenti.

Il volume si chiude con la proposta di un intervento di psicoeducazione basato sull’ umorismo con l’obiettivo di migliorare la regolazione delle emozioni e la metacognizione. Il programma incoraggia e favorisce il comportamento umoristico mettendo i soggetti partecipanti di fronte a situazioni in cui il “sense of humor” diventa utile per risolvere un compito, promuovere un cambiamento o rivalutare e ristrutturare la prospettiva con la quale l’individuo guarda la realtà.

Il modo migliore per concludere la recensione del libro Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene è forse una citazione di Albert Ellis (1987; 1998) riportata nel primo capitolo che forse coglie l’esprit de finesse dell’autore:

Il senso dell’ umorismo di per sé non guarisce tutti i problemi emotivi, ma imparare a non prendere troppo sul serio ogni avvenimento spiacevole della vita rappresenta un ottimo passo in questa direzione. 

 

UMORISMO E PSICOTERAPIA – PARTECIPA ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO:

Umorismo e Psicoterapia & Emozioni: presentazione dei libri di Antonio Scarinci – Firenze, 23 Febbraio 2019

Bullismo e cyberbullismo: come intervenire – Report dal convegno di Palermo

Si è svolto lo scorso 18 Dicembre a Palermo, presso i locali dello Studios Coworking, sito nella centralissima zona Notarbartolo, un evento formativo su bullismo e cyberbullismo.

 

L’evento, unendo aspetti teorici e disamina di casi clinici in un’ottica pratico-esperienziale, ha coinvolto psicologia, pedagogia e mondo dell’associazionismo e delle istituzioni penitenziarie, in un fitto dialogo scientifico volto alla definizione e al contrasto del fenomeno del bullismo e del suo corrispettivo mediatico, il cyberbullismo.

Bullismo e cyberbullismo: prevenzione in rete

Il bullismo e il cyberbullismo rappresentano due fenomeni di estrema rilevanza sociale e clinica, oltre che giudiziaria – spiega Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta presso la sede di Palermo dell’Associazione Contro tutte le violenze, ente patrocinante del workshop, operatore specializzato per i minori disabili, e organizzatrice dell’evento stesso – Quando le prevaricazioni verso i più deboli, sia da un punto di vista fisico che psicologico, equivalgono a un abuso di potere, estrinsecandosi in minacce verbali, fisiche, attacchi all’autostima e alla dignità personale, soprattutto nelle forme anonime e mediatiche del cyberbullismo, è necessaria la collaborazione tra famiglie, scuole e istituzioni demandate alla raccolta delle denunce e alla terapia e prevenzione delle vittimizzazioni e dei reati. Il bullismo e il cyberbullismo sono, a mio avviso, due realtà criminali che necessitano di interventi di natura psicologica, attraverso una sensibilizzazione al rispetto dell’Altro e di se stessi e del proprio valore personale, avvalendosi di programmi di educazione socio-affettiva, con partenza dai più precoci gradi di istruzione. Dal punto di vista delle strategie di intervento, in ambito scolastico, esistono programmi, rivolti al gruppo classe, molto validi, mirati alla consapevolezza delle emozioni altrui, e il supporto tra pari, secondo il modello dell’operatore amico di Menesini e Benelli, senza dimenticare l’attivazione di corsi di formazione rivolti a genitori e insegnanti. Tuttavia ciò non basta: a scuola, bisogna attivare una stretta sorveglianza durante il tempo mensa e gli intervalli, per intervenire tempestivamente in casi di soprusi. 

Scuola e famiglia, agenzie formative alleate, poiché la lotta alle condotte violente si combatte soprattutto attraverso la cooperazione tra sistemi, in un’ottica che abbraccia, appunto, psicologia e pedagogia.

Bullismo e cyberbullismo - Report dal convegno di Palermo foto 1

ANGELA GANCI – I GRUPPI DI LAVORO

Bullismo e cyberbullismo: l’importanza dell’educazione

Già Pitagora sosteneva che educare i bambini equivale a non dover poi punire gli uomini – continua Antonino Leonardi, pedagogista – Ecco perché è necessario a mio avviso puntare su un’educazione, prima familiare e poi scolastica, non autoritaria o permissiva, ma autorevole, che stimoli il bambino a non utilizzare comportamenti violenti, come rivincita per gli abusi subiti e normalizzazione della violenza stessa, ma che lo aiuti a riconoscere e valorizzare la propria libertà nel rispetto di quella altrui. Ciò è possibile attraverso l’adozione dei No che fanno crescere, così come delle spiegazioni degli adulti, adeguate all’età, alle proibizioni stesse, e un approccio empatico ai bisogni di accudimento e validazione emotiva del bambino. Un’educazione partecipata al rispetto delle regole, in famiglia, a scuola, o, in quei contesti dove l’educazione primaria abbia fallito il suo compito, nelle Comunità o nelle strutture dedicate alla rieducazione.

Bullismo e cyberbullismo - Report dal convegno di Palermo foto 2

ANGELA GANCI E ANTONINO LEONARDI

Sulle misure informative e terapeutiche all’interno delle realtà rieducative, come quelle penitenziarie, si è concentrato infine l’intervento di Adriana Ragusa, pedagogista presso la Comunità per minori con annesso Centro diurno polifunzionale del Centro per la Giustizia Minorile di Palermo.

Presso la Comunità per minori con annesso Centro diurno polifunzionale del Centro per la Giustizia Minorile di Palermo – dice Adriana Ragusa – le attività di cui siamo promotori riguardano l’adozione di uno strumento denominato iGloss@ 1.0, strumento di consultazione che permette di acquisire informazioni essenziali sulle condotte illecite, tra cui il bullismo, con una sintetica spiegazione delle principali caratteristiche e l’indicazione delle sanzioni penali relative. Con i ragazzi inoltre abbiamo individuato alcune tecniche utili per il monitoraggio delle condotte violente come la Mindfulness, per evitare una rapida escalation della rabbia, attraverso una graduale accettazione delle emozioni negative, così come avviato programmi di alfabetizzazione emotiva e valorizzazione del supporto del gruppo e delle differenze di ciascuno, attraverso laboratori creativi e culinari. 

Disturbo Ossessivo Compulsivo: il trattamento Bergen di 4 giorni

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) ha una prevalenza del 1.6% e compromette molte aree di funzionamento del soggetto, inoltre è stato classificato secondo la World Health Organization come tra i 10 disturbi più debilitanti, e se questo disturbo non viene trattato tende a diventare cronico. 

 

Presso il Haukeland University Hospital a Bergen, Norvegia, viene somministrato un programma di trattamento per persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), che è noto per essere intensivo e corto, infatti dura 4 giorni.

DOC e trattamento Bergen

Più di 1200 persone hanno ricevuto il trattamento Bergen di 4 giorni per il DOC, che è una forma concentrata di terapia di esposizione ideata da due psicologi norvegesi: Gerd Kvale e Bjarne Hansen. Sono stati nominati dal Time tra le 50 persone più influenti del 2018 nell’ambito sanitario.

I risultati sono stati notevoli e il programma di trattamento Bergen ha ottenuto una grande attenzione e buone prove di efficacia.

Avital Falk, psicologa clinica e dirigente del programma di trattamento intensivo per il Disturbo ossessivo-compulsivo e i Disturbi d’Ansia alla Weill Cornell Medicine and New York Presbyterian, sostiene che è sorprendente pensare che in così poco tempo si possa fare così tanto, dal momento che solitamente i trattamenti per il disturbo ossessivo-compulsivo prevedono, in genere, sessioni settimanali di un’ora distribuite su diversi mesi.

DOC: il trattamento Bergen è efficace?

Il presente studio si occupa, con una ricerca follow-up di 4 anni, di testare il trattamento Bergen di 4 giorni (B4DT), una forma di esposizione concentrata con prevenzione della risposta (ERP).

Il campione, composto da 77 pazienti con diagnosi di DOC, è stato reclutato a partire da giugno 2012, si è sottoposto al trattamento Bergen (B4DT) per 4 giorni consecutivi, ed è stata valutato con la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) nella fase pre e post trattamento, in particolare dopo 3 e 6 mesi ed infine dopo 4 anni. I punteggi della Y-BOCS, ottenuti dal campione, sono cambiati radicalmente passando da una media pari a 25.9 nel pre-trattamento a 10 .0 nel post trattamento e a 9.9 nel lungo periodo.

La percentuale, che soddisfa i severi criteri di consenso internazionale per la remissione, è stata del 73% nel post-trattamento e del 69% nel follow-up.

Ad agosto 2018 sono stati pubblicati i risultati del follow-up degli effetti del trattamento.

Si evince che 56 pazienti su 77 sono rimasti in remissione quattro anni dopo il trattamento e 41 su 56 si erano completamente ripresi.

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Trattamento Bergen: le fasi

Il metodo Bergen lavora seguendo 3 passaggi:

  • Il giorno 1 il terapeuta fornisce ai pazienti informazioni riguardanti il loro disturbo (DOC), e li aiuta a prepararsi ai compiti di esposizione che li occuperanno nei due giorni successivi. Durante una parte dell’esposizione le persone affrontano le proprie paure faccia a faccia; ad esempio, se qualcuno è terrorizzato di poter essere contaminato dovrà scegliere un oggetto o una superficie che gli provochi ansia e poi sforzarsi di toccarla. Secondo Kvale, questa tecnica incoraggia i pazienti a prestare attenzione ai momenti in cui sentono il bisogno di iniziare ad assumere il controllo per poter ridurre l’ansia o il disagio.
  • Il giorno 2 e il giorno 3 sono raggruppabili come una singola sessione di terapia prolungata. La terapia ERP include l’uso della tecnica LET, che invita a concentrarsi specificamente su momenti che provocano ansia. Il formato del trattamento è unico, in quanto un gruppo di terapisti da tre a sei lavora come una squadra con un numero uguale di pazienti. Kvale ritiene che questa impostazione sia importante perché fornisce assistenza su misura ad ogni individuo e consente ai pazienti di poter osservare, oltre al proprio, anche il cambiamento degli altri pazienti.
  • Il giorno 4 è riservato alla discussione e alla pianificazione di come mantenere i miglioramenti ottenuti durante la terapia. Con il passare del tempo sempre più clinici stanno adottando di scegliere una terapia concentrata ed intensiva. Tra i diversi tipi di trattamento per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, quello che ha ricevuto maggiore attenzione sembra, proprio, essere quello intensivo, che differisce dai trattamenti che occupano, ad esempio, 3 ore alla settimana.

Nuovi equilibri familiari: quando arriva un figlio con disabilità

La nascita di un figlio disabile pone la famiglia di fronte alla necessità di riorganizzarsi. Si tratta di un processo non sempre facile, nel quale il supporto psicologico può essere di grande aiuto nell’accompagnare ciascun membro della famiglia nell’elaborazione dei propri vissuti e delle proprie credenze verso un nuovo equilibrio individuale e familiare.

Malizia Genoveffa e Pignarolo Monica – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La famiglia è un sistema emozionale plurigenerazionale che racchiude al suo interno le esperienze di almeno tre generazioni, legate da vincoli di parentela, di sangue o legali e risulta quindi influenzato dalle relazioni passate, presenti e future (McGoldrick, Heiman e Carter, 1993).

Due esigenze della famiglia sono:

  • trasformarsi in relazione ai bisogni evolutivi dei singoli componenti;
  • conservare il senso della propria identità, stabilità e continuità nel tempo nonostante le trasformazioni (McGoldrick et al, 1993).

La famiglia è un sistema in evoluzione: affronta perciò compiti evolutivi che richiedono un più o meno vasto processo di riorganizzazione. Si parla infatti di ciclo di vita o fasi di transizione (McGoldrick e Carter, 1982). Le famiglie differiscono fra loro per le modalità con cui affrontano tali compiti evolutivi; anche il singolo nucleo familiare in tale percorso non rimane uguale a se stesso.

Il ciclo di vita della famiglia è caratterizzato da una serie di eventi più o meno critici che possono essere causati da diversi fattori, come l’ingresso o l’uscita di alcuni componenti della famiglia, problemi psicosociali legati allo sviluppo dei bambini o semplicemente eventi particolari legati alla vita della coppia (Gambini, 2007). Nessun evento in sé, tuttavia, è “critico” per lo sviluppo della famiglia, ma diventa rilevante sulla base di come viene percepito e dal significato ad esso attribuito, che è in gran parte correlato alle esperienze personali di tutti e alle credenze e ai valori sociali che sono trasmessi di generazione in generazione nella storia di ogni famiglia (Barnes, 2009).

Il modo in cui una famiglia reagisce a circostanze difficili risulta dall’interazione tra diversi fattori: le dinamiche familiari, la capacità di effettuare una valutazione corretta del problema, le strategie disponibili per affrontarlo, le risorse materiali e i supporti sociali forniti dall’esterno.

La nascita di un bambino, dunque, anche se notoriamente considerato un “evento felice”, porta la coppia ad affrontare un certo grado di confusione e una serie di problemi, alcuni dei quali richiedono una ristrutturazione della relazione, delle solite routine familiari, in modo da far fronte alle molteplici esigenze del nuovo nato. Tipicamente, dopo una fase iniziale di disorganizzazione, la coppia trova un equilibrio ed è in grado di integrare il nuovo bambino nel sistema, che diventa da diadico a triadico. Ma quando aggiungi elementi più critici, il processo di riabilitazione e riequilibrio potrebbe essere più lungo e più difficile e richiede più risorse, sia fisicamente che psicologicamente (Hedvat, Hauser‐Cram e Warfield, 2006). Le risorse necessarie riguardano: risorse emozionali (capacità di gestire frustrazione, ansia, paura, impotenza, che, soprattutto all’inizio, sembrano sopraffare i genitori), risorse cognitive (la necessità di elaborare l’evento e cercare di razionalizzarlo), risorse sociali (la necessità di attivare tutte le risorse in ambito sociale e familiare che potrebbero essere necessarie per gestire meglio la situazione) e risorse economiche (necessarie per fornire al bambino tutto ciò di cui ha bisogno, per garantirgli le migliori condizioni possibili per lo sviluppo) (Janoff‐Bulman e Frantz, 1997).

La famiglia di fronte alla disabilità

La nascita di un figlio con disabilità pone la famiglia di fronte alla necessità di riorganizzarsi, e lo può fare assumendo quattro diverse modalità (Faber, 1959):

  • Child-oriented ovvero centrata sui bisogni del figlio
  • Home oriented ovvero centrata sulla creazione di un ambiente domestico consono alle nuove esigenze
  • Parent-oriented ovvero centrata sul nucleo familiare
  • Orientamento incerto

Spesso, ad esempio, la natura della disabilità viene resa “invisibile” (Fisman, 2000), il che riduce la possibilità per la famiglia di essere immediatamente compresa e supportata dall’ambiente sociale in cui vive: per questo motivo, il rischio per i familiari, è quello di provare vergogna per la sua disabilità e di ridurre progressivamente gli scambi sociali, fino a giungere in alcuni casi ad un vero e proprio isolamento. Tale situazione è estremamente pericolosa, in quanto il sostegno sociale rappresenta una delle principali risorse per fronteggiare adeguatamente lo stress cronico, e in sua assenza la coppia genitoriale rischia di ritrovarsi sovraccaricata da aspettative e richieste spesso ambivalenti che entrambi i componenti rivolgono l’un l’altro, con il rischio di esacerbare il livello di conflittualità coniugale. Rischio ulteriore è inoltre rappresentato dal fatto che la sofferenza dei genitori, il loro senso di colpa e gli intensi sentimenti di vergogna da loro spesso provati possano compromettere il loro rapporto con il figlio e con chi si occupa di lui (Ramaglia e Pezzana, 2004).

Benché negli ultimi anni si sia assistito ad una maggiore responsabilizzazione di entrambi i membri genitoriali, è inevitabile che le madri continuino ad essere il cardine della presa in carico dei bambini disabili, essendo per questo sottoposte generalmente ad un maggiore stress rispetto al resto della famiglia. Harris et al. (1987) e Sorrentino (1987) evidenziano come spesso, per far fronte alle maggiori responsabilità quotidiane legate all’accudimento del figlio disabile, le madri rinuncino a diverse opportunità di sviluppo personale, per esempio in ambito lavorativo. Tale situazione porterebbe in alcuni casi al manifestarsi di sentimenti di depressione e rabbia, legati anche alla fatica e alle tensioni quotidiane; inoltre sembra frequente una caduta del livello di autostima, soprattutto nei casi in cui la maternità costituisce per la donna la fonte principale di autorealizzazione. Studi cross-culturali (McConkey et al. 2008, Keiko et al. 2001) hanno evidenziato come le madri di bambini con disabilità mentale fossero soggette ad un incremento nel rischio di stress mentale, non alleviato peraltro dall’accesso ai servizi sociali e dalle strategie di coping messe in atto; Azar e Badr (2006) evidenziano un’alta incidenza di sintomi depressivi nelle madri di bambini con disabilità intellettiva, come anche confermato dagli studi circa il sentimento di tristezza cronica (chronic sorrow) di Scornajenchi (2003).

I cambiamenti socio-culturali ai quali è stata esposta la famiglia, hanno portato alcuni autori (Powell et al. 1992; Zanobini e Freggiaro 2002) a prestare un maggiore interesse per la figura paterna (Keller e Honig 2004), evidenziando nel complesso come i padri siano più a rischio delle madri nello sviluppo di solidi legami affettivi con il figlio disabile, in quanto il loro ruolo è più marginale e più orientato a fronteggiare l’aspetto economico. I padri sembrano manifestare minori livelli di disponibilità e questo fenomeno è tanto più consistente quanto più gravi sono le difficoltà presentate dal figlio disabile; ciò è collegato anche ad una loro maggior difficoltà nel decifrare i segnali del bambino e alla loro minor disponibilità di tempo, rispetto alla madre, da dedicare all’interazione con il figlio (Pelchat e colleghi, 2003). Krauss (1993) ha evidenziato nelle madri maggiori problemi legati al ruolo genitoriale, mentre i padri riportavano un maggior livello di stress in relazione al temperamento del figlio ed erano più sensibili agli effetti dell’ambiente familiare, a differenza delle mogli le quali risultavano essere maggiormente influenzate dalle reti di supporto personale e sociale.

Quindi, considerare la famiglia come un sistema in evoluzione, è importante per non correre il rischio di giudicare come permanente una reazione poco adattiva al momento della diagnosi o viceversa di considerare il superamento di tale impatto come unico ostacolo a cui la famiglia di un bambino con disabilità deve far fronte nel tempo. Sicuramente la nascita di un figlio disabile, o comunque, il momento della scoperta del disturbo, è un fenomeno dirompente all’interno del ciclo vitale di una famiglia, tale da produrre una crisi di ampia portata, anche perchè non sempre i professionisti che informano le famiglie sono anche preparati ad aiutarle nel reggere l’impatto di una simile notizia e delle conseguenze che essa comporta.

La scoperta del disturbo, tuttavia, è solo il primo grande ostacolo davanti al quale si trovano le famiglie di un bambino disabile, il primo in scala ontogenetica. Esistono infatti altri momenti cruciali, che spesso coincidono con le tappe importanti della crescita del figlio, che pongono i familiari innanzi a nuovi problemi di adattamento (Myers, 1991). Nei primi mesi di vita si ha la necessità di rivedere i ruoli all’interno della famiglia, di riformulare i compiti, le responsabilità e le funzioni fra i coniugi, di ridistribuire le risorse economiche e di dover far fronte a tutta una serie di nuove routine per soddisfare le esigenze del nuovo venuto. Finchè il bimbo è piccolo l’esperienza del genitore di un figlio disabile non risulta molto dissimile da quello di uno senza disabilità; la discrepanza con i coetanei sia in termini di livello evolutivo che in termini di bisogni e interessi, aumenta ovviamente con la crescita anche se in modo diversificato per diversi tipi di disabilità. Con il passare del tempo, l’apprendimento di abilità funzionali alla vita quotidiana (come vestirsi, lavarsi o nutrirsi) non avviene automaticamente, ma sono necessari specifici interventi genitoriali ripetuti nel tempo e attenzioni particolari al fine di garantire il mantenimento e la generalizzazione dei risultati.
Il momento dell’ingresso a scuola è un altro passaggio molto delicato, soprattutto quando l’alunno con disabilità non è in grado di condividere le linee essenziali dei programmi svolti in classe, neanche con l’ausilio di personale specializzato o con l’ausilio di materiali appropriati.

L’eta adulta pone, infine, tutta una serie di problemi evolutivi cruciali, poichè esiste una difficoltà culturalmente determinata a pensare il disabile come individuo adulto. Emerge nei genitori il desiderio di maggiore autonomia dei propri figli, di maggiori amicizie con i pari e l’ingresso nel mondo del lavoro. Questi desideri non vengono quasi mai soddisfatti, in quanto la maggior parte di loro trascorre il proprio tempo a casa o in servizi diurni, a contatto esclusivamente con altre persone disabili, portando come conseguenza ad una restrizione della rete sociale. Talvolta la gravità del problema costituisce una difficoltà oggettiva all’emancipazione del soggetto dalle figure familiari; talvolta tale emancipazione è ostacolata soprattutto dalle barriere psicologiche che relegano la persona disabile al ruolo di eterno bambino, negando per esempio i bisogni e le possibilità legati alla sfera sessuale (Govigli, 1987).

In più, i genitori si trovano a dover fare i conti con il proprio invecchiamento, la riduzione delle capacità fisiche e una maggior frequenza di malattie, rendendo più difficoltoso il compito di cura del figlio disabile.

Anche le credenze culturali sulla disabilità svolgono un ruolo importante nel determinare il modo in cui la famiglia percepisce la disabilità e il tipo di misure necessarie per la prevenzione, il trattamento e la riabilitazione (Sen, 1988). Gli studi riportano che le aspettative dei genitori sul loro figlio disabile sono per lo più negative e irrealistiche. Dalal e Pandey (1999) hanno studiato le credenze culturali e gli atteggiamenti messi in atto verso la disabilità fisica in una comunità rurale indiana: la disabilità è vista in termini di “tragedia”, “meglio essere morto che disabile”, in quanto c’è l’idea che non è possibile per le persone disabili essere felici o godere di una buona qualità della vita. In questa cultura, la convinzione che prevale molto fortemente è la percezione della disabilità come punizione per la vita passata, tutto legato al karma.

Il momento della comunicazione della diagnosi

Un punto cardinale riguarda le modalità con cui la diagnosi viene comunicata. La chiarezza e la gradualità delle informazioni (Harris et al., 1987; Pain, 1999), sia nel contenuto che nella modalità di presentazione, sembrano essere elementi importanti che non possono naturalmente impedire la sofferenza, ma possono accompagnare la famiglia verso un cammino fatto di speranza e un naturale processo di adattamento (Gabovitch e Curtin,2009), stimolando reazioni di tipo costruttivo, attivo, anziché di rassegnazione (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).

La diagnosi può provocare nei genitori un forte trauma, legato alla discrepanza tra il bambino “ideale” che hanno costruito come oggetto d’amore durante l’attesa e il bambino “imperfetto” che la realtà presenta loro. I genitori si trovano quindi a dover elaborare un lutto, la perdita del bambino atteso che avevano già fortemente desiderato e ad investire le cariche affettive sul figlio reale (Monti Civelli, 1983; Dell’Aglio, 1994). La perdita del loro figlio ideale e sognato durante il periodo di gestazione può rappresentare oltre che una sconfitta personale, anche una sconfitta sociale che riaffiora ogni volta che il divario tra lo sviluppo del figlio disabile e gli altri bambini diventa più evidente (Winnubst, Buunk e Marcelissen, 1998).

Tale impatto, naturalmente, varia a seconda della gravità e della tipologia della menomazione (Myers, 1990), oltre che in relazione alla situazione personale, familiare e sociale dei genitori (cooperazione dei genitori, suddivisione dei compiti, qualità del rapporto coniugale, partecipazione dei componenti della famiglia allargata, supporto sociale e risorse che la comunità riesce ad attivare di fronte alla disabilità, creando nei genitori la percezione di non essere isolati).

Il momento in cui viene data la diagnosi ed il successivo periodo di adattamento della famiglia restano determinanti per avviare una relazione tra il bambino, la famiglia e gli operatori che forniranno un sostegno terapeutico. È necessario che i genitori abbiano gli elementi che permettano loro di capire il bambino, di rendersi conto dei suoi bisogni e di immaginarsi il futuro senza troppe ansie e incertezze. Hasnat e Graves (2000), hanno riscontrato in un loro studio, che i genitori che ritenevano di aver ricevuto, al momento della diagnosi, una grande quantità di informazioni, erano più soddisfatti di coloro che trovavano le informazione fornite semplicemente sufficienti.

Ciò che i genitori lamentano più volte è di essere stati lasciati soli di fronte alla diagnosi, denunciando la mancanza di un adeguato sostegno affettivo da parte degli operatori (Zanobini et al. 1998; 2002) e percependo la presenza di un atteggiamento di eccessiva rigidità e di un tono negativo e schietto all’atto della comunicazione iniziale e nelle fasi immediatamente successive, come se il proprio figlio fosse visto solo nel contesto della disabilità, più come oggetto che come soggetto avente dei diritti.
Non sempre i professionisti che informano le famiglie sono preparati ad aiutarle nel reggere l’impatto di una simile notizia, sia per via di una formazione non adeguata sia per il timore di fornire delle false speranze in un momento di estrema vulnerabilità della famiglia (Harnett, Tierney, Guerin, 2009; Mulligan, Steel, Macculloch, Nicholas, 2010). Perciò, diversi colloqui sono importanti per cercare di capire i bisogni specifici di ciascuna famiglia e per tarare su questa base l’eventuale offerta di supporti e servizi.
Una volta raggiunta la consapevolezza sulla disabilità del bambino e aver risposto alla domanda “perché e come è accaduto questo?”, la famiglia prende in rassegna le idee e le attese rispetto al modo in cui dovranno gestire la malattia (Patterson, 1989).

Le fasi di elaborazione e accettazione della disabilità

Il momento della comunicazione della diagnosi è ovviamente il più critico, con un effetto dirompente sugli equilibri personali e familiari; un momento molto difficile nella vita delle persone perché rende difficoltoso per i genitori immaginarsi un futuro e anticipare ciò che potrà accadere, soprattutto quando si tratta del primogenito (Farber, 1986). La notizia della disabilità è il tempo da cui prende vita una nuova realtà familiare; molte domande affollano la mente dei genitori, specialmente riguardo al loro futuro e al futuro del loro bambino, con la sensazione che nulla possa essere più simile a prima.

Bicknell (1983) ha tentato di delineare le fasi attraverso le quali si arriva all’elaborazione di tale lutto: dallo shock al dolore iniziali si genererebbero sensi di colpa e rabbia, fino ad arrivare a una fase di trattativa, la quale sfocerebbe in un’accettazione del problema e nell’elaborazione di un progetto. Nei genitori, in modo più o meno cosciente, potrebbero insorgere in questa prima fase atteggiamenti contrastanti (Cigoli, 1993; Dawin et al., 1991):

  1. un attaccamento eccessivo e di iperprotezione al figlio disabile, che li conduce ad una dedizione assoluta e indiscriminata, anche a spese del benessere di se stessi e degli altri membri della famiglia, portando spesso ad un esito decisamente negativo per lo sviluppo del bambino (Crnic, Friedrich e Greenberg, 1983; Landman, 1979).
  2. il rifiuto più completo, il desiderio che il proprio figlio non sia mai nato, che li porta a proiettare il problema verso l’esterno e a correre da uno specialista all’altro nel tentativo disperato di risolvere definitivamente il problema, cercando diagnosi nuove e diverse o interventi miracolosi. I passi successivi sono caratterizzati da meccanismi di difesa più o meno consapevoli, che si alternano a periodi di esplosioni emotive ingestibili legate al rifiuto delle prove e alla necessità di sfuggire alla sofferenza. Questo processo di “autoinganno” ha spesso la funzione di creare una pausa, necessaria per ricostruire il loro equilibrio interiore, messo a dura prova;
  3. la negazione della disabilità, associata a una caduta di autostima, un totale diniego della realtà che porta a misconoscere e non accettare la diagnosi (Schonell e Watts, 1957) e un diniego della necessità di cure, precludendosi qualunque tipo di trattamento (Worchel e Worchel, 1961).

Quindi l’idea di un impatto negativo della disabilità sulle famiglie ha finito per dominare la letteratura e guidare la ricerca sull’argomento per decadi, dando centralità a concetti quali dolore, lutto, tristezza cronica, stress, frustrazione, imbarazzo e senso di colpa (Kearney e Griffin,2001), che inevitabilmente seguono l’evento critico e che a volte causano nei genitori forme di isolamento dalla realtà esterna, una forma di “chiusura”: gradualmente interrompono i rapporti sociali e, in alcuni casi, cadono nella depressione.

Solo lentamente si supera la prima fase di shock e incredulità. Si sviluppa poi una certa razionalità e consapevolezza del problema e dei bisogni del figlio disabile e subentra il graduale adattamento alla nuova realtà, la costruzione di un rapporto reale con il proprio figlio (Di Cagno, Gandione, Massaglia, 1992).

Fattori stressanti e protettivi

Qualsiasi evento che rompa gli equilibri esistenti e richieda l’adattamento è potenzialmente una fonte di stress. Tutta la nostra esistenza è scandita da eventi stressanti, che ci costringono a trasformare le nostre risorse per affrontarli e superarli; il modo in cui li affrontiamo e le risorse che siamo in grado di attivare hanno una forte influenza sulla traiettoria del nostro sviluppo.

La vulnerabilità allo stress psicologico è influenzata da una serie di fattori, che riguardano il temperamento, il livello di coinvolgimento emotivo, le capacità di coping, il background socio-culturale, la disponibilità di risorse personali e sociali (Caldin e Serra, 2011).

Un evento è considerato una fonte di disagio nella misura in cui è percepito dalla persona come eccessivo o intollerabile o in qualche modo al di sopra della sua capacità di affrontarlo e superarlo (Zimbardo,1988). Più un evento è improvviso, imprevedibile, con effetti persistenti e con scarse risorse per affrontarlo, maggiore sarà la percezione di scarsa autoefficacia dei soggetti e maggiori saranno i rischi per la loro salute e per il loro benessere fisico e psicologico. Situazioni stressanti per la famiglia possono condurre i genitori a sperimentare distress circa il loro ruolo genitoriale, con conseguenze a medio e lungo termine sulla relazione genitore-bambino e sulla capacità di risposta costruttiva ai bisogni del minore (Kirby, 2005).

Il trauma emotivo provocato dalla nascita di un figlio disabile provoca ansie, preoccupazioni, stress e sensi di colpa che normalmente non si riscontrano quando il figlio è normodotato. I genitori devono adeguarsi a nuovi ruoli, riorganizzare la loro vita e far fronte alle cure e alle maggiori esigenze.

Per McCubbin e Patterson (1982), la capacità del genitore di far fronte ad una situazione stressante è determinata dall’interazione tra l’evento stressante e i successivi eventi sfavorevoli della vita, le risorse familiari, le percezioni dei genitori e le strategie di coping utilizzate. Il risultato di questa interazione è il livello di adattamento familiare che va dallo stress grave/crisi ad un buon adattamento.

Diversi studi hanno dimostrato come la natura e la gravità della disabilità di un bambino possa essere significativamente correlata allo stress genitoriale, così come il temperamento di un bambino, i problemi comportamentali e le richieste poste al genitore (Cunningham, Bremner e Secord-Gilbert, 1992; Kazak e Marvin, 1984; Minnes, 1988). L’incapacità di affrontare e correggere correttamente alcuni eccessi comportamentali, spesso presenti nei bambini con disabilità, aumenta significativamente i livelli di stress dei genitori e riduce il senso di genitorialità e di autoefficacia. Se si aggiunge questo elemento alla loro già fragile condizione psicologica, non è difficile capire perché i livelli di stress dei genitori di bambini con disabilità siano di solito molto alti, specialmente se paragonati a quelli dei genitori di bambini con sviluppo tipico (Dabrowska e Pisula, 2010; Gupta e Kaur, 2010).

Tra i fattori protettivi possiamo trovare:

Un rapporto positivo tra genitori e figli e una elevata intimità coniugale può aiutare il bambino a sviluppare una miglior capacità di comunicazione, migliori abilità cognitive e rapporti sociali con i coetanei, ma questo non può proteggere i genitori dalla sfida posta dalla disabilità del figlio e dal conseguente stress (Gerstein, Crnic, Blacher, Backer, 2009). Le famiglie coese e armoniose presentano un miglior funzionamento socioemotivo, con ripercussioni positive anche sull’adattamento psicologico e sulla capacità di riorganizzazione di ogni membro familiare di fronte alla situazione di disabilità.

Al contrario, il conflitto coniugale è associato a molti più disturbi del comportamento, ansia e aggressività del bambino. In riferimento al rapporto di coppia, le madri di bambini disabili riportano meno soddisfazione per il rapporto matrimoniale e più sintomi depressivi rispetto alle madri dei normodotati (Kersh, Hedvat, Hauser‐ Cram, Warfield, 2006), il tutto correlato alle risorse economiche della famiglia e ai problemi di coppia e di comportamento del figlio (Hastings e Back, 2004; Kersh, 2006), a differenza dei padri, la cui soddisfazione per il matrimonio non è correlata a ciò. I conflitti coniugali possono essere a loro volta esacerbati dalla condivisione di emozioni negative intense e dalla richiesta di riorganizzazione che un figlio disabile comporta.
Altrettanto importanti sono certamente le reazioni cognitive, emotive, sociali, relazionali ed esperienziali dei genitori, considerate sia individualmente che in coppia. Le loro risorse fisiche, le caratteristiche della personalità, il modo di affrontare i problemi e lo stress in generale possono certamente fare la differenza (Venkatesh, 2008; Houser, Rick, Seligman, Milton, 1991).

Un altro elemento importante e cruciale della variabilità è dato dal livello di soddisfazione della coppia e dal funzionamento della famiglia. È stato spesso osservato che il sistema familiare, non solo in termini di rapporto coniugale (Cuzzocrea, Larcan, Baiocco, Costa, 2011), ma anche di famiglia allargata, può rappresentare, una fonte importante di vulnerabilità o una risorsa straordinaria.

  • Strategie di coping

Ci sono considerevoli ricerche che hanno evidenziato come i genitori di un figlio disabile abbiano un livello di stress molto più alto rispetto ai genitori di bambini senza disabilità (Hastings, 2002; Konstantareas, 1991; Scorgie, Wilgosh e McDonald, 1998). 
Tuttavia, altre ricerche hanno dimostrato che, sebbene alcune famiglie siano a rischio di avere numerose difficoltà, queste riescano poi ad affrontare e ad adattarsi positivamente a questo stress (Konstantareas, 1991; Scorgie et al., 1998). Le modalità di coping familiari possono variare dall’adattamento sano al disadattamento in seguito al cambiamento delle risposte familiari nel tempo (Donovan, 1988).

I genitori e le famiglie che presentano, tutto sommato, un buon funzionamento sembrano possedere e ricorrere ad efficaci strategie di fronteggiamento delle difficoltà che inevitabilmente si trovano a dover affrontare. Alcune di queste strategie sono essenzialmente cognitive e si riferiscono alla “riformulazione” di quanto si e verificato, all’individuazione, nonostante tutto, di alcuni aspetti positivi, alla rilettura della propria esperienza alla luce di più dettagliate informazioni e conoscenze scientifiche; altre sono prevalentemente “emozionali” e consistono nell’esprimere apertamente i propri sentimenti e le proprie emozioni, nel “bloccare” la tendenza a stimolare in se stessi e negli altri sentimenti negativi, nel ricorrere, in presenza di situazioni conflittuali, alla contrattazione e nel dare spazio e tenere in considerazione anche i bisogni degli altri membri della famiglia, del partner e dei figli non disabili. Accanto a queste, alcuni genitori fanno ricorso anche a strategie relazionali, come il porre accentuate attenzioni alla coesione familiare, allo sviluppo delle capacità adattive dei diversi membri della famiglia, alla cooperazione e alla tolleranza, ma anche e di contro a strategie finalizzate a potenziare il proprio sviluppo personale, a mantenere soddisfacenti livelli di autonomia e indipendenza, a ricavare del tempo per i propri hobby e per la propria vita comunitaria e spirituale (Burr e Klein, 1994).

Le famiglie che ricorrono con elevata frequenza a queste strategie (high coping family) si differenziano da quelle che vi ricorrono solo sporadicamente (low coping family) per come affrontano le difficoltà sin dall’inizio, per gli atteggiamenti che tendono ad assumere nel corso del tempo, per i valori ai quali sembrano aderire, per le attività che svolgono, per la partecipazione alla cura del figlio disabile e per come vivono il supporto sociale che ricevono (Taanila et al., 2002).

Le strategie di coping svolgono diverse funzioni fondamentali in base alle quali possono essere suddivise in diverse tipologie (Lazarus, 1991):

• Emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante
• Problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo e la famiglia (Lazarus, 1991; Lazarus e Folkman, 1984).

Werner e collaboratori (2009) hanno rilevato che le strategie di coping collegate al mantenimento dell’integrazione familiare, della cooperazione e dell’ottimismo sono fortemente associate ad una riduzione dello stress, ad una maggiore coesione della famiglia, a percezioni positive dei genitori sulla gratificazione o soddisfazione nel prendersi cura del figlio disabile e a minor preoccupazioni per la futura assistenza del loro bambino e alla possibilità di istituzionalizzazione.

Il locus of control interno è la modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti dai suoi comportamenti o azioni piuttosto che da cause esterne indipendenti dalla propria volontà (Rotter, 1966). Diversi studi hanno riscontrato che anche il locus of control sia altamente correlato allo stress genitoriale (Friedrich, Wilturner e Cohen, 1985; Demaso, Campis e Wypij, 1991; Hastings e Brown, 2002): genitori che si sentono competenti nel loro ruolo genitoriale e nel gestire la disabilità del figlio tendono ad avere livelli di stress più bassi.

Indicatori di locus of control interno sono (Rotter, 1966):

• ricerca attiva di strumenti, conoscenze e skills per affrontare situazioni e problemi;
• ritenere che ciascun problema possa essere risolto o analizzato, che ciascun obiettivo sia raggiungibile (con le risorse adeguate);
• credere nei propri potenziali, attivarsi per svilupparli;
• “visione” delle possibili alternative di un azione finalizzata al raggiungimento di un obiettivo e tentativo di determinare le probabilità di successo di ciascuna azione.

A migliori livelli di qualità della vita si associano le credenze di efficacia, importanti nello svolgimento del “mestiere di genitore”; esse influenzano i livelli di stress e di depressione e l’utilizzo di strategie di coping centrate sul compito. Sono le informazioni che un genitore possiede a proposito delle proprie capacità genitoriali a regolare il comportamento e a intervenire attivamente nei confronti della scelta dei suoi obiettivi e delle azioni che possono essere realizzate per il suo raggiungimento. La fiducia che il genitore nutre a proposito della propria capacità di riuscire in compiti e attività con il figlio disabile influenza l’impegno e gli sforzi che vengono investiti, il perseguimento degli obiettivi, la perseveranza e la costanza nell’applicazione (Coleman, 1997; Karraker, 2003).

Le persone che nutrono scarse credenze di autoefficacia nei confronti delle loro capacità di affrontare con successo un determinato compito e di superare gli ostacoli che potrebbero incontrare possono evitarne lo svolgimento, delegarne ad altri la responsabilità o sperimentare un disagio consistente nel momento in cui si trovano ad affrontare situazioni difficili (Nota e Soresi, 2000).

L’orientamento della famiglia può variare da un controllo interno a uno esterno. I nuclei che hanno un senso di controllo interno si sentono in grado di individuare change o opportunità per il loro bambino e avvertono meno stress (Hassal, Rose e McDonald, 2005) e maggior solidità (personal hardiness)( Kobasa, Maddi e Kahn, 1982), mentre quelli che si orientano verso un senso di controllo esterno hanno una percezione maggiore del potere degli altri, siano essi educatori o operatori sociali, verso i quali avranno una relazione di fiducia/sfiducia. Da ciò risulta che una percezione eccessiva del proprio senso di competenza può dar luogo a rapporti marginali con il sistema di salute territoriale, al contrario la percezione di un forte senso del potere dei tecnici può danneggiare il percorso di ricerca della salute o produrre passività nel gestire i processi di malattia.

  • Supporto sociale ricevuto

Un ruolo importante sul benessere della famiglia e del bambino è giocato dalla possibilità di godere di un adeguato sostegno sociale, psicologico e sanitario. Occorre però valutare non solo l’ampiezza delle relazioni, ma anche la loro qualità. La mancanza di tali relazioni intime si associa ad un alto rischio di effetti negativi a lungo termine sulla salute e sulla capacità genitoriale.

Il supporto sociale ha il suo effetto maggiore sullo stile di attribuzione, ovvero sul modo in cui i genitori giudicano e valutano l’evento disabilità e le situazioni ad esse connesse (Jennings et al., 1995). Infatti, il supporto sociale intra ed extrafamiliare può, date certe condizioni, migliorare efficacemente la qualità della vita laddove sia presente un bambino con una disabilità cronica. (Altiere, Kluge, 2008; Mancil, Boyd, Bedesem, 2009). È il percepire l’evento come stressante che lo rende tale (Boyce e Barnett, 1991; Innocenti, Huh e Boyce, 1992); se un individuo considera le proprie risorse come adeguate a far fronte alle richieste che gli arrivano dall’esterno, può adattarsi con successo anche se le domande ambientali sono considerevoli (Frey, Greenberg e Fewell, 1989).

Diverse ricerche hanno confermato che la presenza di reti di supporto oltre la famiglia immediata sono importanti mediatori nello stress genitoriale (Barakat e Linney, 1992; Henggeler, Watson e Whelan, 1990; Park, Turnbull e Rutherford, 2002; Rimmerman, 1991; Bristol, 1987; Trivette e Dunst, 1992; Park e ​​Turnbull, 2002).

Sia nel caso in cui il figlio disabile sia il primo figlio, sia quando ci sono altri bambini, l’organizzazione e la gestione del ménage famigliare e il ruolo genitoriale possono essere particolarmente difficili (Larcan e Oliva, 2008; Cannao, 2006). I genitori, se non adeguatamente supportati, specialmente nella fase critica del processo di adattamento, sono suscettibili di commettere errori educativi che possono avere un impatto significativo sullo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino con disabilità e, quando presente, anche su altri bambini. Il coinvolgimento di altri bambini nella famiglia è inevitabile. Nella maggior parte dei casi, per loro, soprattutto se lui/lei è più vecchio di suo fratello disabile, vengono assegnati ruoli e responsabilità sproporzionati alla loro età. L’attenzione, incentrata principalmente sul fratello con disabilità, li pone in una posizione di marginalità emotiva, evoca spesso sentimenti ambivalenti nei confronti del fratello, con ripercussioni sulla relazione e sullo sviluppo in generale. In alcuni casi sono stati segnalati episodi depressivi, ritardi dello sviluppo psicosociale e scarso rendimento accademico (Larcan, Cuzzocrea, 2011).

  • La valutazione positiva della situazione

Per fronteggiare lo stress, di fondamentale importanza è la valutazione, ovvero il processo mentale durante il quale un individuo dà a un evento un significato soggettivo e personale. Gli individui che hanno un buon senso di coerenza sono portati a vedere gli avvenimenti esterni e interni come predicibili in buona misura e a pensare che ci sia un’alta probabilità che le cose si evolvano come è ragionevole che ci si possa attendere. Questo genera un senso di fiducia cha aiuta ad affrontare gli eventi che accadono nel corso della vita (Antonovsky, 1987).

Una buona capacità di mentalizzazione permette di regolare il comportamento emotivo del soggetto e implica la competenza di identificare e interpretare i propri e gli altrui stati interiori (Söderström e Skårderud, 2009). Essa è inoltre intimamente correlata alla funzione riflessiva e alla possibilità di rielaborazione emotiva e riorganizzazione cognitiva a fronte di eventi critici, così come la nascita di un figlio disabile.

Un altro dei fattori protettivi è la resilienza, ovvero la capacità di superare le avversità, sopravvivere allo stress e di contrapporsi alla pressione esercitata dall’ambiente, adattandosi in modo positivo (Valentine e Feinauer, 1992). Secondo il parere di Malaguti e Cyrulnik (2005), la resilienza familiare emerge dal combinarsi di tre fattori protettivi:

• la capacità di far fronte alle avversità, interpretando la sofferenza come occasione di crescita;
• l’atteggiamento positivo, ovvero la capacità di veder oltre le difficoltà, ipotizzando comunque un futuro migliore;
• la trascendenza e la spiritualità che aiutano a dare un signifcato alle sofferenze che si stanno affrontando inserendole in un più complessivo percorso di crescita spirituale.

Interventi terapeutici: come procedere e cosa fare

Sulla base di queste considerazioni, quando si progetta un intervento sulla famiglia con un figlio disabile, ci sono diversi fattori che devono essere presi in considerazione. È necessario fare una valutazione preliminare accurata non solo dei probabili elementi di vulnerabilità, ma anche delle risorse del bambino e della famiglia. In particolare, gli aspetti principali che dovrebbero essere considerati includono: il comportamento del bambino, il suo stato cognitivo, il comportamento dei genitori, gli aspetti emotivi e relazionali, e più specificamente le capacità genitoriali, gli aspetti rappresentativi, sia in relazione ai modelli di lavoro interni, sia in relazione ai significati attribuiti dai genitori alla disabilità e al comportamento del bambino, aspetti dell’organizzazione e del funzionamento familiare (struttura della famiglia, soddisfazione delle coppie, rapporti con le loro famiglie di origine), aspetti del più ampio contesto sociale (sostegno sociale, esperienza lavorativa, ecc.) e dinamiche relazionali (intra-ed extra-familiare).

Un intervento può essere considerato valido, se agisce a tutti i livelli sui membri della famiglia coinvolti. Deve essere in grado di cambiare credenze, emozioni e comportamenti disfunzionali, deve promuovere l’autoefficacia personale e parentale e deve stimolare la sinergia all’interno del sistema familiare e con i sistemi esterni.

L’accesso al sistema familiare può essere realizzato attraverso diverse modalità, in relazione a quanto emerge dalla valutazione iniziale, anche se, come suggerito da Sameroff (2006), in qualsiasi modo si scelga di entrare nel sistema, gli effetti del cambiamento dovrebbero comunque verificarsi a tutti i livelli del sistema. In alcuni casi potrebbe essere sufficiente intervenire direttamente sul figlio disabile (riparazione) per avere effetti significativi sul funzionamento dell’intero sistema. Altre volte può essere più utile cambiare la percezione che i genitori hanno della disabilità e il comportamento del bambino (azioni ridefinite). In altri casi, tuttavia, può rivelarsi utile un intervento di parent training sulle abilità genitoriali, che indirettamente porterà alla modifica delle loro credenze cognitive e del comportamento del bambino.

Dato l’impatto delle capacità e delle caratteristiche comportamentali dei genitori sulla loro reazione alla disabilità, Elliot et al. (1999) considerano la possibilità di un intervento psicologico sui caregiver durante il processo di riabilitazione, diversamente dai programmi psicosociali tradizionali, i quali considerano unicamente la prospettiva del bambino disabile senza tenere in gran conto la famiglia. Gli autori evidenziano come il coinvolgimento e il supporto della famiglia, sono importanti moderatori del processo di riabilitazione del paziente. Gli ultmi studi effettuati sulle famiglie nelle quali è presente un membro affetto da disabilità (Zanobini, 2002; Soresi, 2010) hanno evidenziato chiaramente che, la presa in carico di un bambino disabile pone il terapeuta di fronte alla necessità di prendere in carico l’intero nucleo familiare. Non è possibile avviare un processo terapeutico e/o riabilitativo considerando il soggetto indipendete dal contesto familiare e sociale in cui vive. È fondamentale riuscire a stringere con la coppia genitoriale, un patto terapeutico per mezzo del quale rafforzare ed amplificare l’efficacia degli interventi terapeutici e riabilitativi. I genitori, se sostenuti, possono attivare risorse utili allo sviluppo educativo, emotivo e cognitivo del figlio disabile. Per ottenere questo risultato è necessario favorire nei genitori lo sviluppo di sentimenti di fiducia, autoefficacia, speranza di poter incidere positivamente sul futuro del proprio fglio.

Nella pratica clinica cognitiva, si ritiene che il trattamento debba essere generalmente orientato nella direzione dell’accettazione; esso, infatti, si configura come tanto più efficace nel produrre e stabilizzare il cambiamento se visto non come mezzo per dimostrare l’infondatezza e l’irrazionalità delle convinzioni e dei timori del paziente né come un modo per modificare una realtà immodificabile, ma piuttosto come occasione di far sperimentare al paziente che il problema sta nell’iper-focalizzazione su di essi. Le credenze e le ipotesi del paziente sono sempre rappresentazioni legittime della realtà (frutto di esperienze di vita altrettanto legittime), ma l’eccessiva focalizzazione su alcune di esse, produce un iper-investimento sugli scopi connessi e la persistenza di condotte orientate a questi scopi, anche quando infruttuose o paradossali (Perdighe e Mancini, 2008). È comprensibile come, infatti, nel caso di un genitore alle prese con la disabilità del figlio, tanto più tempo egli si concentrerà negli anni a tentare di falsificare la diagnosi, tanto meno tempo potrà dedicarsi a fronteggiarla con strumenti terapeutici adeguati che possano mettere il figlio disabile, in condizioni di crescere al meglio possibile. Esistono pochi studi sulle rappresentazioni e sulle credenze proprie di genitori di bambini con disabilità. Si evidenzia una tendenza generale a sviluppare una rappresentazione disfunzionale circa se stessi e il bambino, ed un’immagine distorta della relazione. Il grave deficit del sistema di credenze del bambino (particolarmente visibile nei disturbi pervasivi dello sviluppo), si accompagna ad una difficoltà del genitore di accedere ai propri stati mentali (riflessività) e di riconoscere i bisogni e le intenzioni proprie del bambino (decentramento) (Giamundo et al., 2000).
Credenze di inadeguatezza e non amabilità possono condizionare fortemente la relazione col bambino e funzionare, in ottica cognitiva, come elementi di mantenimento di una relazione disfunzionale. Nel tentativo di testare le proprie credenze o schemi irrazionali, le madri mettono in atto comportamenti spesso intrusivi per il bambino o scarsamente sensibili ai suoi bisogni, di fronte ai quali il bambino attiva pattern più netti di rifiuto o di evitamento che finiscono per confermare le credenze irrazionali delle mamme e perpetuare a loro volta i cicli interattivi disfunzionali tra genitori e bambino.

Riprendendo gli obiettivi tratti dalle applicazioni della teoria dell’adattamento cognitivo di Taylor, osserviamo come l’adattamento ad una malattia grave e cronica, o nel nostro caso specifico alla disabilità di un figlio, dovrebbe avere due outcome principali: la ricerca di un significato, tramite lo sviluppo di un nuovo e più positivo atteggiamento alla vita, e l’incremento di un senso di mastery, il quale darebbe ragione di una maggiore percezione di controllo sugli esiti della patologia. Al fine di favorire tali risultati comportamentali, risulta utile un intervento per fasi il quale prende le mosse da alcune domande fondamentali come: “che problemi porta la famiglia?”, “in quale fase del processo di accettazione si trova, o in quale fase il processo si è bloccato?”, “quali sono le emozioni coinvolte e quali scopi la patologia del figlio compromette?”. Tale procedimento è fondamentale al fine di non colludere con la necessità di cambiare a tutti i costi uno stato della realtà di fatto immodificabile, bensì trovare una modalità che aiuti ad aumentare le capacità adattive e migliorare la qualità della vita della famiglia, in relazione alla gestione quotidiana della disabilità, nella prevenzione dei disturbi emotivi associati e nella gestione del dolore e dell’elaborazione del lutto conseguente (Taylor S.E.; 1983)

Un input importante in tal senso è dato dall’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), basato sulla Relational Frame Theory (RFT) di Hayes, Barnes-Holmes e Roche (2001). Concezione centrale dell’ACT, una delle terapie del comportamento di terza generazione più legate alla ricerca di base sul comportamento verbale, è che la sofferenza psicologica sia solitamente e prevalentemente causata dal modo in cui il linguaggio, la cognizione e il controllo dell’esperienza diretta sul comportamento, interagiscono. Secondo tale approccio, il tentativo di modificare direttamente pensieri e sentimenti che producono e mantengono la difficoltà rappresenterebbe una modalità di intervento inefficace e controproducente. Nel caso specifico qui esaminato, si evince ad esempio come tale modalità di comportamento potrebbe colludere col tentativo del genitore, intrappolato in una fase di rabbia/colpa, di negare/cambiare lo stato di disabilità del figlio. L’ACT insegna come modificare il modo in cui difficili esperienze private agiscono sulle persone, piuttosto che tentare di eliminare la loro comparsa, avvalendosi di alternative terapeutiche efficaci come l’accettazione, la mindfulness, la defusione cognitiva, i valori e l’impegno nell’azione (Hayes, Strosahl, Wilson 1999). Essa prende in considerazione alcuni concetti non convenzionali (Hayes, 2004):

  • la sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona;
  • non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se è possibile prendere provvedimenti per evitare di incrementarla artificilamente;
  • il dolore e la sofferenza sono due differenti stati dell’essere;
  • non bisogna identificarsi della propria sofferenza;
  • si può vivere un’esistenza dettata dai propri valori, imparando ad uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita;

L’ACT si basa quindi su tre punti fondamentali:

  • Mindfulness: un modo di osservare la propria esperienza, praticato per secoli in oriente attraverso la meditazione (Hayes, Follette e Linehan, 2004); attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso esso, comprendendo come ci siano molte cose da fare nel momento presente, oltre che tentare di regolare i propri contenuti psicologici o la propria sofferenza.
  • Accettazione: basato sulla nozione che, normalmente, tentando di liberarsi del proprio dolore si arriva solitamente ad amplificarlo, intrappolandosi in esso ancora di più e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Non si intende il favorire un atteggiamento auto-distruttivo o nichilistico che tollera e/o sopporta il proprio dolore, ma un atteggiamento in grado di favorire un vitale e consapevole contatto con la propria esperienza, al fine di fronteggiare i problemi psicologici, più che eliminarli come si farebbe con un fattore esterno disturbante.
  • Impegno e vita basata sui valori: volto al non mettere la propria vita in attesa, mentre si affrontano i propri problemi psicologici, ed attendendo passivamente la diminuzione del proprio dolore, ma uscendo dalla propria mente ed entrando nella propria vita, tramite azioni impegnate nella direzione di quelli che sono i propri valori.

In seguito è necessario valutare la dinamica del processo di accettazione, con le relative fasi, al fine di capire dove il processo si sia eventualmente bloccato, per ristabilire il normale processo di accettazione. A tal fine è necessario entrare nei dettagli, ad esempio tramite l’uso del laddering (Wells, 1999), facendo specificare alla persona cosa significhi, ad esempio “è una tragedia” (è su questi specifici contenuti che poi sarà possibile intervenire, come ad esempio “sono preoccupato per mio figlio: chi si occuperà di lui quando non ci sarò più?”, “è tutta colpa mia, avrei dovuto stare più attenta, merito di soffrire”, “mio figlio non avrà mai una vita serena”).

Conclusioni

Nonostante la visione dominante della famiglia sia apparsa catastrofica, il disadattamento e lo stress non sono affatto conseguenze inevitabili per le famiglie con bambini disabili. Ci sono elementi che suggeriscono la resilienza della famiglia, piuttosto che una catastrofe familiare, caratterizzata da elasticità e ottimismo (Singer, Ethridge, Aldana, 2007). Nonostante il forte impatto emotivo connesso al fatto di avere un figlio disabile, i genitori accolgono la sfida che il bambino presenta e non smettono di vivere, ma vanno incontro a una ridefinizione di valori e di ruoli.

I genitori sperimentano anche esperienze positive, concentrandosi sui punti di forza e abilità, più che di debolezza, e quelli più speranzosi vivono meno emozioni negative, sintomi depressivi e angoscia; sono più soddisfatti della vita, hanno maggior benessere e credono di poter raggiungere i loro obiettivi e generare percorsi praticabili a tal fine (Lloyd e Hastings, 2009). Esistono alcune dimensioni significative per una miglior qualità della vita genitoriale: ottimismo, religiosità, impegno per la vita, divisione tra adulti e bambini (intesa come chiarezza di comunicazioni e richieste tra il sistema genitoriale e quello dei figli), capacità di focalizzarsi sul bambino e senso di controllo sulla situazione (Ransom, Fisher e Terry, 1992). I tratti di personalità come estroversione, apertura, amabilità e coscienziosità predispongono i genitori all’uso maggiore di strategie di coping, a cui fanno seguito pensieri e azioni costruttive (Hassal, Rose, McDonald, 2005; Mancil, Boyd, Besedem, 2009); mentre nevroticità, allontanamento e fuga portano a minor benessere e conseguente depressione (Glidden e Natcher, 2009).

Dunn (1984) ha suggerito che la risposta di una famiglia allo stress derivante dalla disabilità di un figlio può influenzare la percezione della situazione e la reazione dei fratelli. Se i genitori reagiscono positivamente al loro bambino con bisogni speciali, allora la relazione dei fratelli tende ad essere più positiva. Se i genitori avevano una visione ottimista e premurosa, allora il fratello aveva più probabilità di fare lo stesso. Pertanto, la capacità del genitore di accettare le difficoltà del bambino influenza i modi in cui una famiglia opera.

È stato dimostrato che le emozioni positive promuovono la creatività e la flessibilità nel processo di pensiero e risoluzione dei problemi (Isen e Geva, 1987). Un visione positiva facilita anche il trattamento di informazioni importanti e rilevanti anche se tali informazioni sono negative e possono potenzialmente danneggiare l’autostima (Trope e Pomerantz, 1998). Un certo numero di studi ha esaminato le risposte positive ad eventi stressanti. Anche se gli eventi stessi possono non avere avuto esiti favorevoli, i risultati mostrano comunque la percezione di un beneficio di fronte agli eventi stressanti (Affleck et al, 1987), l’acquisizione di nuove abilità e risorse di coping (Schaefer e Coleman,1992), la percezione della crescita correlata al loro stress (Nolen-Hoeksema e Larson, 1999) e la trasformazione spirituale o religiosa che risulta dalle esperienze stressanti (Pargament, 1997).

Scorgie et al. (1999) ha fatto un’analisi qualitativa dei meccanismi che hanno portato i genitori a realizzare trasformazioni positive nelle loro percezioni del loro bambino con disabilità. Questa analisi rivelò che i genitori arrivarono a uno stato più positivo attraverso tre processi: (1) il bisogno di formare nuove identità, (2) i tentativi di trovare un significato alla situazione e (3) lo sviluppo di un senso di controllo personale. Molti genitori trovano significato attraverso l’acquisizione di nuovi ruoli come i capogruppo, i relatori o i rappresentanti nelle scuole, ospedali o strutture che rappresentano persone con disabilità. Altri genitori si sono concentrati sull’acquisizione di nuovi tratti come diventare più compassionevoli e meno concentrati su se stessi, imparando che potevano ottenere di più piuttosto che rimanere impotenti, sviluppando resistenza o una maggiore forza personale di fronte ai loro sentimenti di debolezza, passando dalla depressione alla capacità di considerare la vita come meritevole e di valore, e affrontare la vita con nuova audacia piuttosto che capitolare alla paura. Sebbene non potessero “sorridere” ed essere “felici” nella vita, erano comunque in grado di coltivare il senso dell’umorismo e aumentare i “momenti felici” (Scorgie e Sobsey, 2000).

Alcuni genitori hanno anche denunciato la perdita di amicizie a causa di avere un figlio con disabilità ma hanno anche citato altri genitori di bambini con disabilità, personale di strutture che lavorano con persone con disabilità e professionisti della salute come membri primari delle loro nuove reti di amicizia, dichiarando che non avrebbero potuto avere rapporti con una tale profondità se non avessero avuto un figlio disabile.

Inoltre, nonostante ci siano state segnalazioni di disintegrazione del matrimonio con la diagnosi di una disabilità, alcuni genitori hanno anche riferito che il loro matrimonio era emerso più forte dalla loro genitorialità di un bambino con disabilità, dato che il bisogno di trovare soluzioni a situazioni complesse e lavorare insieme come squadra ha richiesto loro di migliorare le loro capacità comunicative e rafforzare il loro matrimonio (Scorgie e Sobsey, 2000).

La ricerca è stata anche fatta per comprendere i temi delle percezioni positive. Behr, Murphy e Summers (1992) hanno utilizzato l’analisi fattoriale esplorativa per studiare più di 1200 famiglie e hanno identificato nove fattori positivi: (1) una fonte di felicità e amore, (2) un contributo alla forza della famiglia, (3) uno stimolo per la crescita e lo sviluppo personale (4) una fonte di orgoglio, (5) un percorso per l’apprendimento, (6) una chiave per comprendere lo scopo della vita, (8) una guida per comprendere le questioni future e (9) uno stimolo per crescita della carriera.

In una revisione della ricerca pubblicata sulle percezioni positive di famiglie con bambini con disabilità, Hastings e Taunt (2002) hanno confrontato temi, elementi e fattori in vari studi di ricerca e trovato alcuni temi chiave sulla natura e la struttura delle percezioni ed esperienze positive dei genitori di un figlio disabile e l’esperienza di caregiving. Questi possono essere riassunti come: (1) piacere e soddisfazione nel fornire assistenza al bambino, (2) visione del bambino come fonte di gioia e felicità, (3) senso di realizzazione nell’aver fatto il meglio per il bambino, (4) senso di condivisione e amore con il bambino, (5) bambino come una sfida o un’opportunità per imparare e crescere, (6) famiglia e matrimonio rafforzati, (7) un senso e uno scopo della vita nuovo o aumentato, (8) sviluppo di nuove abilità o nuove opportunità di carriera, (9) il diventare una persona migliore (più compassionevole, meno egoista, più tollerante), (10) maggiore forza personale o fiducia, (11) reti sociali e comunitarie espanse, (12) maggiore spiritualità (13) cambiamento nella prospettiva di vita (ad esempio, aver più chiaro cosa è importante nella vita, essere più consapevoli del futuro) e (14) valorizzazione della vita, vivendola ogni giorno a un ritmo più lento.

La presenza di indicatori positivi non sta a significare che i genitori siano ciechi alle difficoltà e ai problemi, ma che sono stati in grado di trovare un significato nella loro vita, riformulando la loro valutazione originale per enfatizzare i risultati positivi, come le loro capacità di raggiungere gli altri bisognosi. Assumere questa nuova prospettiva positiva significa pensare alla disabilità come a una possibilità concreta nella vita di ciascuno di noi; realizzare che la menomazione e la conseguente disabilità sono solo un aspetto della vita delle persone e non coincidono con essa, così la presenza di un membro disabile costituisce solo una parte, per quanto centrale in alcuni momenti, nella vita delle famiglie (Farber, 1986).

È quindi, essenziale riconoscere che le famiglie hanno modi diversi di sperimentare la disabilità di un figlio.

Non è la disabilità del bambino che svantaggia e disintegra le famiglie: è il loro modo di reagire ad essa e tra di loro (Dickman & Gordon, 1985, p. 109).

Neurodiversità: verso la valorizzare delle risorse, nel rispetto delle differenze. Dalla storia del termine all’odierno dibattito

La neurodiversità è definita come un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione “neurotipica” (o non autistica).

 

Abbiamo tuo figlio, ci assicureremo che non sia in grado di prendersi cura di se stesso, né di interagire socialmente per tutta la sua vita

Abbiamo tuo figlio. Stiamo distruggendo la sua abilità di interagire socialmente e lo stiamo conducendo verso il più completo isolamento. Ora spetta a te

Nel dicembre 2007, il Child Study Center della New York University (NYU CSC), guidato da Harold Koplewicz, ha lanciato Ransom Notes quella che definisce una “campagna di servizio pubblico” per sensibilizzare ai vari disturbi psichici dell’infanzia, attraverso “richieste di riscatto” pubblicate su grandi cartelloni pubblicitari in giro per New York. Quelli appena letti sono i testi riferiti rispettivamente all’autismo e alla sindrome di Asperger.

La campagna Ransom Notes è stata interrotta dopo una protesta diffusasi su Internet e guidata da diverse associazioni di disabili e dalle comunità di persone autistiche. Ari Ne’eman, presidente del Autistic Self Advocacy Network (ASAN) ha creato una petizione on-line che ha raccolto rapidamente oltre 1.300 firme. Le critiche sollevate da ASAN erano tre: le pubblicità stigmatizzavano le persone con autismo; le inserzioni contengono informazioni inaccurate e non riescono a trasmettere i punti di forza e di successo delle persone autistiche; le pubblicità scoraggiano i genitori dal cercare assistenza per i loro figli “condannati”. Le pubblicità sono state eliminate.

Il vizio di fondo della campagna Ransom Notes era il basarsi su un modello esclusivamente medico dell’autismo. Le pubblicità descrivevano le condizioni psichiatriche dell’infanzia come deterministiche e i bambini con queste condizioni come emarginati anormali dalla società.

Neurodiversità: oltre il modello medico

Il modello medico ritiene che la disabilità derivi dalle limitazioni fisiche o mentali di una persona. Il problema risiede nella persona, che è vista come in qualche modo deficiente o anormale. La gente va dai medici con un problema e il medico diagnostica il problema e prescrive una cura. Per la maggior parte delle malattie, questo modello può essere sufficiente: ad esempio, una persona può presentare un forte dolore addominale, le può essere diagnosticata un’appendicite e può subire un’operazione per rimuovere l’appendice. In altre condizioni, tuttavia, adottare solo tale modello aumenta il rischio di pregiudizi e discriminazioni.

Il modello sociale della disabilità suggerisce che la disabilità è spesso creata da atteggiamenti, pregiudizi e barriere erette dalla società e non da qualche problema o deficit dell’individuo.

Il movimento della neurodiversità offre una contro-narrativa al modello medico. La neurodiversità è definita come un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione “neurotipica” (o non autistica).

La neurodiversità spiega, nel suo senso più ampio, lo sviluppo neurologico atipico come una normale variazione naturale del cervello umano, una forma alternativa della biologia umana. Per la neurodiversità, le persone con autismo rappresentano una normale variazione neurologica al pari di razza, genere o sessualità (Jaarsma e Wellin, 2012). Il paradigma della neurodiversità sostiene che la condizione autistica non è una condizione da curare, quanto piuttosto una specificità umana o una differenza nei modi di socializzare, comunicare e percepire, che non sono affatto necessariamente svantaggiosi (Jaarsma e Wellin, 2012).

Storia del termine

Judy Singer, una scienziata sociale con tratti autistici, ha coniato il termine nel 1998. Con la sua definizione, la sociologa ha posto l’accento sulle qualità e le risorse delle persone neurodiverse, valorizzando i loro modi atipici di imparare, pensare ed elaborare informazioni, vedendoli come variazioni umane.

Harvey Blume ha reso popolare questo termine in un numero del 1998 di The Atlantic:

La neurodiversità può essere altrettanto cruciale per la razza umana quanto la biodiversità lo è per la vita in generale. Chi può dire quale forma di cablaggio si dimostrerà migliore in un determinato momento? La cibernetica e la cultura informatica, ad esempio, possono favorire un modo di pensare un po’ autistico 

L’anno successivo Judy Singer scrive:

Il “Neurologicamente diverso” rappresenta una nuova aggiunta alle familiari categorie politiche di classe/genere/razza e aumenterà le intuizioni del modello sociale della disabilità.

Idee sostenute con fervore anche a distanza di anni, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008:

Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali (Solomon, 2008).

Da allora, il paradigma della neurodiversità si è espanso fino a comprendere un gruppo di condizioni cognitive come dislessia, discalculia, disprassia, sindrome di Tourette e disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Le persone che presentano queste condizioni sono oggi indicati come neurodiversi.

La neurodiversità nella storia e in azienda: da Paul Dirac a Steve Jobs

Nella letteratura sulla neurodiversità spiccano diversi nomi di individui brillanti che, nella loro vita, hanno imparato a sfruttare al meglio le loro diverse capacità: Paul Dirac per autismo e Asperger, Mozart e Shakespeare per l’ADHD, Einstein per dislessia. Tra i personaggi più recenti che spiccano nel panorama della neurodiversità troviamo Steve Jobs, dislessico, e Richard Branson, a capo della Virgin, che ha definito la sua dislessia “un vantaggio”. L’attore canadese Dan Aykroyd, star dei Blues Brothers, e la famosa cantante Susan Boyle hanno rivelato di avere la sindrome di Asperger. Per l’ADHD ricordiamo Jim Carrey e l’imprenditore David Neeleman fondatore di diverse compagnie aeree.

Non sottolineare i limiti ma evidenziare le potenzialità, questo il nodo centrale del paradigma della Neurodiversità. 

Le persone con ADHD, ad esempio, potrebbero avere più facilità in compiti multi-tasking, operando bene in situazioni stressanti con numerosi input. Hanno altresì maggiori probabilità di essere molto creativi e, con il giusto stimolo, in grado di “iperfocalizzare”.

Gli individui con autismo e Asperger hanno più probabilità di avere punteggi superiori di intelligenza musicale, una migliore attenzione al dettaglio e capacità visuo-spaziali al di sopra della norma. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, inoltre, si dimostrano più abili nel lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).

La tendenza a investire sui punti di forza delle persone neurodiverse si fa oggi strada nelle decisioni di molte aziende che operano in ambito tecnologico: persone autistiche sono ricercate con maggiore frequenza per svolgere mansioni lavorative, come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici, che richiedono organizzazione e sequenziamento (Wang, 2014). 

Le abilità visuo-spaziali che possono appartenere ai dislessici, ad esempio quella di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) o di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008), sembrano rivelarsi vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2013). 

La Dislessia e i DSA in particolare ci consentono di comprendere molto bene quanto spesso quelli che vediamo come “limiti” o disturbi siano spesso prodotti della società. La Dislessia, caratterizzandosi come una differenza nello stile di apprendimento poco incline all’automatizzazione della lettura, porta oggi a maggiori difficoltà in ambito scolastico, in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se però prendiamo in considerazione le società preletterate, in cui le conoscenze venivano trasmesse per via orale, la Dislessia non rappresentava un ostacolo alla riuscita personale. Allo stesso modo, i tratti dell’ADHD potevano essere caratteristiche funzionali nelle società preistoriche in cui la caccia e la ricerca di cibo necessitavano di velocità di reazione e di movimento (Jensen et al., 1997).

Il dibattito sulla neurodiversità

In merito all’autismo e considerando l’ampio utilizzo del termine neurodiversità, soprattutto le posizioni più estreme che si interfacciano sull’argomento e in particolare sul concetto di cura, alcuni autori (Baker, 2006; Jaarsma e Welin, 2012) hanno messo in luce uno specifico paradosso. Con neurodiversità, facciamo riferimento a una normale variazione neurologica al pari di razza, genere o sessualità (Jaarsma e Wellin, 2012). Quindi la condizione autistica non sarebbe una condizione da curare, quanto piuttosto una specificità umana. Cosa dire, però, delle persone con spettro autistico che hanno bisogno di particolari cure? Il loro bisogno di cura non rischia di perdersi nello stato di una naturale variazione (Jones et al 2001)? Fino a che punto la società crea una disabilità? Se l’idea di cura in questo caso fomenta stereotipi e pregiudizi, con l’accettazione incondizionata della neurodiversità non si rischia, però, di non dar voce alle persone con autismo “più grave”, coloro che mettono in atto comportamenti autolesionistici, tanto per fare un esempio? Sostenendo incondizionatamente la visione della neurodiversità non si rischia di perdere gli aiuti e il diritto all’assistenza, soprattutto a livello sociale e politico, oggi già carenti, per quelle persone autistiche che invece ne hanno bisogno?

Con un suo articolo del 2017, John Elder Robinson, autistico, consulente del Neurodiversity Institute del Landmark College di Putney, sembra fornire una risposta agli interrogativi del dibattito. Egli illustra come negli ultimi anni il tema della neurodiversità sia diventato di primaria importanza, condividendone il punto di vista, ma dichiarandosi anche pronto a sottolineare che ciò non significa che l’autismo non crei delle difficoltà a chi ci convive.

Per quanto riguarda la consapevolezza dell’autismo, secondo Robinson infatti, un pericolo in cui si incorre è il non guardare più alle difficoltà di alcuni autistici, pericolo dovuto alla tendenza nel promuovere esclusivamente il talento e i successi delle persone autistiche.

Eppure, Robinson crede che sia possibile parlare di neurodiversità e mettere in luce gli aspetti e i talenti dei neurodiversi, abbracciando anche l’idea di cura, nel rispetto delle difficoltà che incontrano le persone autistiche. Ciò su cui porre l’attenzione è la definizione di “cura” che spesso, nel dibattito sulla neurodiversità, si rivendica o si rinnega.

Se si considera la cura come “sollievo dalla sofferenza”, allora si scopre come la cura non sia motivo di discriminazione: tutti, in un qualsiasi momento della loro vita, hanno bisogno di alleviare alcune loro sofferenze. Tutti dovrebbero sostenere il diritto al sollievo dalla sofferenza. Nessuno dovrebbe vivere nella paura di crisi epilettiche o soffrire di ansia debilitante o di dolore intestinale. Il vero problema insorge se per cura si intende il “liberarsi di un genere di persone”. Ciò a partire dagli investimenti: perché, si chiede Robinson, oggi giorno sempre più risorse economiche sono investiste per studiare le basi biologiche e genetiche dell’autismo (che, ricorda lo stesso Robinson, sono comunque studi importanti e da non ripudiare) ma sempre meno sono le risorse destinate al sostegno delle difficoltà delle persone con autismo?

Dovremmo tutti sostenere lo sviluppo di tecnologie che aiutino gli autistici che non parlano, ad esempio, a comunicare con il resto del mondo. Dovremmo continuare a implementare trattamenti efficaci per gestire le crisi e i comportamenti autoloesionistici degli individui con autismo. Dovremmo anche sostenere lo sviluppo di terapie per aiutare le persone autistiche a organizzare le loro vite, a fare amicizia, a rendersi autonomi, coinvolgendo il mondo del lavoro (oltre le assunzioni, mantenendo un ambiente attento ad ogni esigenza) e coinvolgendo la società tutta (Robinson, 2017).

Diffondere la cultura della neurodiversità tuttavia non dovrebbe spaventare coloro che vivono una condizione di difficoltà, temendo che possa derivarne una banalizzazione con conseguente risparmio di risorse dedicate a chi necessita di cura. Parlare di neurodiversità consentirebbe invece, a lungo termine, di ridurre quella quota di disabilità che dipende proprio dal mancato riconoscimento della società neurotipicamente orientata di poter essere anche qualcosa di diverso e di potersi permettere una vita felice e autonoma frutto di un “compromesso culturale” tra neurotipici e neurodiversi. La qualità della vita migliorerebbe a vantaggio di tutti liberando risorse che potrebbero essere destinate a chi vive effettivamente una condizione di disabilità, neurotipico o neurodiverso che sia.

Bisognerebbe insomma liberarsi dell’idea che il termine neurodiversità sia sinonimo di disabilità perché è anche questo che induce i neurotipici a immaginare che il mondo vada costruito e vissuto secondo i soli criteri da loro definiti. Così facendo, magari, buona parte delle risorse risparmiate andrebbero rivolte alla diffusione della cultura autistica poiché il compromesso sarà quanto più possibile tanto più vi sarà conoscenza delle reciproche “culture” di appartenenza.

 

I disturbi specifici dell’apprendimento: il coinvolgimento nel processo diagnostico della scuola e della famiglia

Risulta molto importante, nel processo diagnostico dei disturbi specifici dell’apprendimento, la partecipazione degli insegnanti e della famiglia. A volte però questo coinvolgimento si rivela difficoltoso.

 

“Mi spiace Dottoressa ma l’insegnante non ha voluto compilare i test di F. Mi ha detto che non vuole responsabilità, né vuole esprimere giudizi sul bambino!”

“Ne abbiamo compilato solo uno. Tanto io e mio marito avremmo detto le stesse cose!”

All’interno del contesto clinico ho avuto modo di osservare un aspetto specifico legato al processo diagnostico: ovvero il rifiuto al coinvolgimento da parte di insegnanti e talvolta anche di genitori. Questo accade perché vissuto come una “pesante” responsabilità o ancor più negativamente, come la richiesta di un giudizio a cui sono chiamati a rispondere. Quest’articolo mira a sensibilizzare la famiglia e la scuola, al valore della partecipazione al processo diagnostico.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: una condizione clinica

Una difficoltà nell’apprendimento può caratterizzare il normale corso di studio di ogni bambino, sia per la crescente difficoltà dei contenuti in fase di scolarizzazione, sia per l’emergere di normali attitudini che vedono i bambini acquisire una maggior padronanza di alcune materie rispetto ad altre. Quando invece la causa della difficoltà è un disturbo dell’apprendimento questo è tale da impedire un ottimale sviluppo negli apprendimenti, ovvero nelle aree della letto-scrittura e del calcolo.

Ad oggi, tali disturbi, sono racchiusi nell’acronimo DSA e comprendono: la dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia. Ognuna di queste condizioni descrive un quadro clinico che coinvolge uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo del soggetto. Il sospetto di una condizione clinica, può essere messa in luce da un insegnante, quanto dai genitori che seguono il bambino durante lo studio pomeridiano, ma che necessita per essere definita tale di un processo diagnostico.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: il processo diagnostico dall’invio alla diagnosi

Il processo diagnostico di un DSA prevede la collaborazione di più professionisti (Psicologo e Neuropsichiatra Infantile) e mira all’indagine di più aree, in primis quella cognitiva e dello stato degli apprendimenti. Ogni processo diagnostico deve tener conto e partire da quello che viene definito come “motivo dell’invio”, che contiene parte degli elementi che andranno indagati in fase anamnestica. L’intero processo diagnostico comprenderà: un’anamnesi psico-sociale della storia complessiva di sviluppo del bambino, un’anamnesi medica che possa escludere disturbi di tipo visivo ed uditivo che possono generare una difficoltà nell’apprendimento, i risultati dei test con una relativa interpretazione ed un riferimento ai criteri diagnostici utilizzati.

L’utilità di una valutazione cognitiva permette di avviare un processo diagnostico corretto che escluda la presenza di un ritardo mentale, condizione che non appartiene al quadro dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento. La valutazione degli apprendimenti invece, metterà in luce, in caso di diagnosi, una differenza fra valori standard, per livello intellettivo e fase di scolarizzazione, e punteggi inferiori rispetto alla norma.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: il coinvolgimento della Scuola e della Famiglia

Il processo diagnostico si avvale anche di test di eterovalutazione che coinvolgono la famiglia e gli insegnanti, con lo scopo di integrare i dati diagnostici del clinico con elementi che appartengono alla quotidianità del bambino. Da qui nasce l’importanza del coinvolgimento, di scuola e famiglia, all’interno del processo diagnostico che risulta un impegno a cui rispondere con responsabilità ed attenzione. La compilazione del materiale che il clinico invia ad insegnanti e famiglie è lo strumento con cui arricchire ed al contempo definire i dati clinici con quelli che emergono da un contesto di vita “naturale”. Queste informazioni, passando attraverso un processo di standardizzazione, permettono una valutazione clinica del “motivo dell’invio” ma anche di rilevazione di eventuali comorbidità spesso associate ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

La partecipazione al processo diagnostico non coincide dunque con l’espressione di un “giudizio” personale sul bambino, il suo valore sta nel realizzare una valutazione quanto più dettagliata possibile, contribuendo così all’arricchimento di un processo che richiede la collaborazione tra clinici, famiglie ed insegnanti. Il fine ultimo della rete collaborativa che viene a crearsi, definisce implicitamente un modello scolastico integrato a livello territoriale e connesso al “mondo” dello studente e della sua famiglia, divenendo uno spazio in cui lo stesso studente possa coltivare al meglio le proprie potenzialità anche in presenza di una diagnosi di DSA.

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