Il testo Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia racconta la difficoltà di molte persone nel riconoscere le proprie emozioni e di come la terapia possa stimolare una curiosità aperta e onesta per quello che si sta provando verso una maggiore conoscenza di sé.
Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia è un testo di grande aiuto clinico, da un punto di vista pratico e teorico. Come l’autore Elliot L. Jurist sottolinea, nella psicoterapia moderna vi è un grandissimo interesse verso il mondo delle emozioni in riferimento sia all’identificazione quanto alla loro modificazione e regolazione. Tale attenzione è giustificata dal fatto che i pazienti che arrivano in terapia possono avere molti deficit in tal senso, soprattutto quella categoria di clienti che rientra nei disturbi di personalità. Ma non vogliamo ridurre solo a questo in quanto capita davvero a tutti, in alcune circostanze o momenti di vita, di non afferrare l’emozione che si prova o di non riuscire a gestirla in modo funzionale. Jurist ci tiene a sottolineare che anche i terapeuti non sono immuni dai problemi di identificazione emotiva.
La peculiarità del testo Tenere a mente le emozioni è che, oltre ad avere una narrazione tipicamente tecnica, unisce stralci di episodi clinici, riferimenti letterali e scientifici per chiarire le questioni di volta in volta sollevate. Merito a Jurist per aver reso, grazie a questo interessante intreccio, la lettura fluida e notevolmente scorrevole, senza risultare pesante neppure nei punti più teorici. Inoltre le citazioni ed i riferimenti bibliografici sono di grande interesse e, in base alle evidenze scientifiche che più sembrano essere utili al clinico che è vicino a questo tipo di argomentazioni.
Tenere a mente le emozioni significa: identificazione, modulazione ed espressione emotiva
Il testo è diviso in due macro parti, ognuno diviso in sottoparagrafi.
Nella prima parte si esamina la questione dell’identificare, modulare ed esprimere le emozioni. In particolare l’autore specifica la differenza tra “alessitimia” e quelle che lui stesso definisce come “emozioni aporetiche” per riferirsi alle emozioni poco chiare o confuse. Secondo Jurist per trascendere le emozioni aporetiche bisogna mentalizzarle: grazie all’interpretazione della realtà ed alla comprensione di sé e degli altri, cosa che dovrebbe sempre accadere nella stanze dei terapeuti impegnati nelle sedute, attraverso un esercizio continuo, attraverso l’analisi mentalistica degli episodi. È interessante sottolineare che per “affettività mentalizzata” (AM) si intende un processo attraverso il quale le emozioni sono filtrate dalla memoria autobiografica: il proprio passato e la propria identità influenzano le esperienze emotive attuali e tale influenza deve essere resa esplicita e mediata dalla relazione.
L’identificazione emotiva non è un processo lineare ed è condizionato da tanti fattori come la presenza dell’altro con cui siamo in reazione e, di conseguenza, anche con le sue emozioni e come queste ultime impattano. Il tempo e lo sforzo per identificare le emozioni sono, quindi, estremamente variabili. L’alessitimia implica la presenza di una difficoltà a riconoscere i propri sentimenti ma con il costrutto “emozioni aporetiche” si intende le emozioni vaghe, prive di una netta caratterizzazione, cosa che accade quando sappiamo di provare qualcosa ma non sappiamo cosa sia. Infatti “a=senza” e “poros= accesso”; questa etimologia indica la difficoltà nell’accedere ad un piano di conoscenza esplicito ma non una impossibilità a farlo. Sappiamo che è possibile allenare questa abilità e sviluppare un curioso interesse verso le proprie emozioni, consapevoli che di fronte ad ogni situazione, tutti provano qualcosa e tutti provano qualcosa rispetto a quello che si sente. In tal senso Greenberg (2015) ci dice molto sul ruolo delle emozioni secondarie che hanno il compito di camuffare le primarie. Tra i deficit dell’identificazione riscontriamo spesso un deficit di identificazione semantica, relativo al mancato processo di etichettamento, che può esplicitarsi attraverso una circonlocuzione, cioè l’uso di un giro di parole.
Perché è utile identificare le emozioni? La risposta è che sono utili in termini di sopravvivenza e rendono possibile l’auto-conoscenza in quanto “sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé” ma non è necessariamente connessa al grado di soddisfazione della propria vita (Greenberg (2017): conoscere quello che proviamo non vuol dire essere più felici, ma capire come mai siamo infelici. L’obiettivo ultimo è sapere cosa si prova, perché facilita la comunicazione e l’eventuale condivisione con l’altro e questo è un dato da tenere ben presente all’interno della relazione terapeutica.
La modulazione emotiva si può esplicitare attraverso la mindfulness, che insegna l’accettazione, invece di operare un intervento attivo sulle emozioni, oppure attraverso una rivalutazione cognitiva come descritto nel “Process Model” teorizzato da Gross e Thompson nel 2007 in cui ruolo fondamentale è dato dal processo di regolazione focalizzata sull’antecedente e sulla risposta. Jurist preferisce parlare di “modulazione” invece che di “regolazione”: la regolazione sembra essere connessa al controllo cognitivo mentre la modulazione prevede l’essere responsivi, il fare aggiustamenti per unire ed armonizzare aspetti importati del proprio mondo emotivo. La mindfulness, quindi, permette al soggetto di vedersi come oggetto, amplia la capacità di assumente il punto di vista altrui, favorendo l’empatia invece del distacco o dell’ottundimento. I due modelli si riferiscono a due punti di vista diversi: uno è un modello stimolo-risposta mentre l’altro è basato sull’accettazione non giudicante e compassionevole delle esperienze, anche rispetto alle emozioni dolorose. Vedere le emozioni per quelle che sono senza attribuire un significato precostruito, ottenendo quindi un cambiamento nella relazione tra noi e l’emozione. In tal senso, promuove la possibilità di agire in accordo con i propri valori ed i propri interessi personali. Ogni capacità di modulazione emotiva entra di diritto tra le competenze di una buona agency.
L’espressione emotiva è un processo eterogeneo, culturalmente influenzato e, per questo, non ha un valore universale. Per espressione non si intende solo l’etichettamento verbale ma anche e soprattutto quella non verbale, mediata, ad esempio, dall’espressione del viso, dalla postura, dal corpo. L’espressione può essere interna o esterna: quella interna è quella che si coltiva in terapia. Nel passaggio tra i due piani, è possibile scegliere cosa dire e come dirlo; ad esempio utilizzare il comportamento oppure farlo solo a livello verbale. Possiamo amplificare oppure inibire le emozioni allo scopo di condividere qualcosa oppure per ottenere qualcosa. Questo è da tenere bene a mente quando vediamo i nostri pazienti: l’esperire le emozioni ed esprimerle son due processi differenti.
Il corpo è il mezzo attraverso cui il terapeuta può aiutare il paziente a prendere contatto con l’emozione che in quel momento non riesce a identificare. La terapia focalizzata sulle emozioni fornisce numerosi spunti di riflessione. Ad esempio se il paziente non riesce può essere il terapeuta a modulare l’emozione, distinguendo le emozioni primarie, offuscate, dalle secondarie. Se sappiamo che le emozioni hanno un ruolo principale nelle comunicazione con gli altri, la stanza della terapia rappresenta una stanza di allenamento in cui fare prime esperienze emotivamente intense da generalizzare all’esterno.
Il primo capitolo di Tenere a mente le emozioni, che comprende questi tre moduli, trasmette l’idea di una logica sequenziale perché l’espressione emotiva è influenzata dalla capacità di modulazione e quest’ultima è legata alla possibilità di identificarle. Il filo conduttore di tale processo è rappresentato dalle capacità di agency: l’identificazione ne è l’inizio e la modulazione è la concretizzazione e l’espressione emotiva è la realizzazione. Molte persone sono alessitimiche e non sanno quello che bisognerebbe provare in una determinata circostanza, altri sono falsamente consapevoli, fraintendendo le emozioni oppure usandole in maniera idiosincratica. Bisogna stimolare una curiosità aperta e onesta in terapia e questo non è facile in quanto prevede anche il contatto con il dolore, cosa che tutti vorrebbero evitare. Bisogna fare pratica, costruendo le abilità se queste mancano: sono processi di apprendimento e di crescita.
La prima parte del testo si conclude con un breve riassunto delle tematiche affrontate ed apre una prospettiva sull’affettività mentalizzata (AM) e come essa sia collegata all’esperienza emotiva. L’autore sottolinea quindi le implicazioni su un piano pratico clinico nel lavoro con i pazienti.
Allenare la mentalizzazione per migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni
La seconda parte del testo apre, quindi, le sue osservazioni a partire dalla considerazione che è proprio attraverso la mentalizzazione che i pazienti possono migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni. A partire da Fonagy, il costrutto della mentalizzazione è stato connotato da diversi significati.
La definizione di mentalizzazione come la capacità di capire ed interpretare il comportamento in termini di stati mentali, nostri o altrui prende avvio dalla psicosomatica francese e si è diffuso nella psicologia cognitiva più moderna, passando per le teorie a favore della dualità mente corpo e giungendo a quelle che, invece, cercano di superare tale dualismo. La prospettiva psicosomatica francese tende a focalizzarsi molto sul fallimento della mentalizzazione, processo noto in tutti quei pazienti che “dementalizzano”. Secondo le scienze cognitive, invece, la mentalizzazione è soprattutto in riferimento alla lettura della mente come si evince dalle teorie della simulazione e dalla teoria della mente. Nel testo troviamo una digressione teorica abbastanza approfondita circa queste correnti di pensiero, su come esse si siano strutturate e concretizzate e come alcuni autori come Gallagher (2011) stiano cercando di superare (ad esempio, con la sua “teoria interazionista”) o con altre teorie ibride che cercano di incorporare teoria della mente e simulazionismo come si legge in Goleman (1995).
Se quindi alle origini, la psicosomatica francese puntava l’attenzione sulla mentalizzazione come un fenomeno in termini di affetti, impulsi e corpo, le scienze cognitive si focalizzano sui processi di pensiero e mentre la prima scuola riduce tale processo al rapporto che l’individuo ha con se stesso, la seconda lo sconfina puntando più al contesto relazionale. La teoria di Fonagy integra entrambe le prospettive: invece di contrapporre affetti e cognizione, la teoria della mentalizzazione afferma il valore di entrambi attraverso il costrutto dell’affettività mentalizzata (AM): invece di considerare la mente come opaca o chiara, è meglio assumere una prospettiva dimensionale e, invece che focalizzarsi solo sulla propria mente o su quella dell’altro, meglio tenerli entrambi in considerazione. In Tenere a mente le emozioni, l’autore, riprendendo l’ipotesi di Fonagy, la amplia sostenendo che “la mentalizzazione ha a che vedere con la capacità di utilizzare ciò che pensano gli altri come parte della mentalizzazione su di sé” e questo rafforza l’idea che la mentalizzazione altrui è un mezzo potentissimo per mentalizzare su di sé.
Proprio per questo, secondo Fonagy, la mentalizzazine deve essere l’obiettivo di ogni psicoterapia; in realtà essa media l’efficacia del trattamento facilitando la costruzione di una fiducia epistemica, qualità che rende aperti e curiosi circa le nuove esperienze e le nuove conoscenze (ecco perché si parla di esperienza di apprendimento) e questo cresce e si rafforza mediante la relazione terapeutica. Jurist cita Fonagy:
Detta in maniera semplice, l’esperienza di sentirsi pensati in terapia ci fa sentire abbastanza sicuri per pensare a noi stessi in relazione al nostro mondo, nonché per imparare qualcosa di nuovo rispetto al mondo e alle modalità con cui agiamo al suo interno (Fonagy, Allison, 2014).
Se il ruolo del terapeuta è quello di ascoltare e mentalizzare il paziente, così che quest’ultimo possa guardare meglio se stesso e quindi mentalizzare in autonomia, ciò implica anche che a seguito di una propria mentalizzazione il paziente possa correggere quella effettuata dal terapeuta donando all’esperienza una connotazione di reciprocità sul passato e sul futuro, nel senso che si può fornire un significato al passato e può orientarci con consapevolezza al futuro, favorendo un sempre più ampio senso di agency personale.
Affettività mentalizzata: di cosa si tratta?
Cosa si intende, allora, per quello che Jurist definisce “affettività mentalizzata” (AM)? E come può la psicoterapia migliorare la mentalizzazione? Il concetto di AM corrisponde a quella parte di teoria della mentalizzazione che concerne diversi aspetti dell’esperienza emotiva come quelli già citati (identificazione, modulazione ed espressione delle emozioni) non solo nel presente ma anche nel ricordo. Se quasi tutta la psicopatologia implica una sofferenza emotiva, ogni psicoterapia deve aiutare il paziente ad entrare in contatto nuovamente con le proprie emozioni ma tenendo conto anche dello stile di personalità, dei valori e di come passato e presente si fondono. Scopo ultimo dell’AM non è, quindi, modulare e trasformare le emozioni ma rivalutarle, rivivendole in una nuova e più consapevole prospettiva nella quale il passato di presenta nella storia attuale, in termini di ricordi sia individuali che culturali. In tal senso l’AM porta a nuovi insight, a nuove interpretazioni ed aiuta ad aumentare gli atti benevoli verso sé e verso gli altri.
L’AM rappresenta il tentativo di far rientrare in un unico concetto la capacità di identificare, modulare ed esprimere le emozioni… porta avanti la sfida di riflettere sulle emozioni riconoscendo le credenze culturali prestabilite senza però dovervisi necessariamente sottomettere (p.140).
in tal senso il passato, individuale e culturale, è un mediatore dell’esperienza presente e futura.
Ovviamente questo implica un legame con la propria memoria autobiografica (MA) e con le narrazioni attraverso cui comunichiamo e diamo valore agli eventi. Sembra che questi due scopi siano perseguiti in base all’uso che ne è stato fatto delle emozioni al loro interno. Secondo Damasio (1994, 1999, 2010) è l’elaborazione della MA che conduce ad una coscienza estesa (si rimanda alla lettura dell’autore per una interessante approfondimento sugli induttori primari e secondari, concetti che ogni terapeuta dovrebbe tenere a mente nel lavoro sulla narrazione autobiografica e rispetto alla distinzione tra proto-sé, sé nucleare e sé autobiografico). Se la MA è essenziale per il funzionamento umano, allora anche la regolazione emotiva è connessa ad esso: per molte terapie, il passaggio a memorie autobiografiche più ricche è un vero e proprio marcatore positivo della terapia che non necessariamente equivale al benessere: l’AM ci fa vedere il dolore di alcune esperienze del passato ma aiuterà a vederlo da una prospettiva diversa ed aiuta a comprendere come esso condiziona il presente: tale elaborazione ci protegge in futuro, mettendoci in condizione di non restarne sopraffatti.
Tenere a mente le emozioni ed esperienza terapeutica
Un capitolo importante è quello riservato all’esperienza terapeutica, al modo di lavorare con l’emozioni e come utilizzare il principio dell’AM che diventa sostegno all’azione terapeutica e uno strumento per la fiducia e la vigilanza epistemica che può essere poi veicolata attraverso la comunicazione. Per azione terapeutica intendiamo ogni azione svolta nella terapia che aiuta il paziente a migliorarsi: è quindi indice dell’impatto che il lavoro sta avendo sul paziente Loewald (1960). Secondo l’autore la relazione terapeutica è caratterizzata dall’amore e vincolata alla verità. L’AM è ciò che rende efficace un’azione terapeutica: aiuta a capire cosa è importante per raggiungere un equilibrio, per superare i momenti di crisi, per alleviare i sintomi. Non per ultimo l’AM facilita la comunicazione.
Senza fiducia epistemica difficilmente ci interessiamo o ci incuriosiamo alle emozioni, proprie e altrui. In terapia, infatti, un paziente che si incuriosisce a quello che accade nel qui ed ora nel setting terapeutico, o nell’indagare il passato ha più probabilità di essere in una terapia che avrà buon esito (Fonagy, 1999).
Portiamo tutti con noi il nostro passato, che ci piaccia o no, e la convinzione che esso non abbia un effetto sul presente e sul futuro è ingenua ed interferisce con la possibilità di vivere una vita realmente significativa. Se nell’AM è coinvolta la MA è necessario aiutare i pazienti a rievocare il passato come qualcosa di affrontabile, di reale, ma anche come qualcosa che non determinerà ciò che ancora deve succedere (p. 174).
Attraverso la relazione, la MA può essere sistematizzata ed ordinata perché crea uno spazio di sicurezza in cui potersi muovere, assegnando il giusto peso alle memorie.
Se il paziente migliora in terapia grazie alla mentalizzazione e non sa necessariamente cosa essa sia, per il terapeuta è diverso: essi mentalizzano e ne condividono i prodotti con il paziente e per stimolarlo in tal senso. In queste condizioni, la mentalizzazione diventa collaborativa e condivisa e per il paziente è un’esperienza nuova, efficace, relazionale. Mentalizzare bene vuol dire sapere quando va fatto e quando no: in quanto attività dispendiosa in termini di risorse interne, sia mentali che emotive, essa segue un percorso poco lineare. Possiamo tutti fallire in alcuni momenti, e possiamo tutti scegliere quando è il momento in cui tale attività non serve come ad esempio nei momenti ludici.
L’AM in terapia, in un clima condiviso in cui si può essere aperti alla mentalizzazione, stimola la fiducia nel confronto con l’altro. Ad esempio il paziente può non essere d’accordo con quello che emerge dalla mentalizzazione del terapeuta ma con curiosità può dirlo e confrontarsi proprio perché all’interno di una relazione e grazie alla fiducia epistemica. Essa spiana la strada alla vigilanza epistemica: sentire di poterlo fare permette di farlo. Anche quest’aspetto di vigilanza deve essere stimolato in terapia, incoraggiando i pazienti a valutare cosa pensano, provano, quali sono le loro credenze e come esse si relazionano agli altri. Ovviamente, il lavoro sulla MA aumenta la vigilanza epistemica. La mentalizzazione delle emozioni aiuta il pz a raggiungere la “granularità” (Barrett, 2016) che comporta il mettere a fuoco le emozioni, guardandole da vicino e con lucidità, all’opposto delle emozioni aporetiche. Quindi la mentalizzazione aiuta a guardare meglio il presente, a dare senso al passato e ad avere una certa prospettiva del futuro.
Conclusioni finali
Considero il testo Tenere a mente le emozioni come un modo per aumentare la consapevolezza di quello che vuol dire fare terapia, in un clima di curiosità, di esplorazione di costruzione prima e condivisione intanto. Molte questioni come quelle connesse all’attaccamento e alla sviluppo in relazione alle capacità di mentalizzazione, vanno lette con attenzione.
Le varie autobiografie mostrano livelli diversi di partenza della capacità di mentalizzare e diversi esempi di come essa si sviluppi all’interno del lavoro terapeutico, in modo strategico, ad esempio lavorando prima sul qui ed ora e poi spostandosi sul passato. Ci sono moltissime indicazioni pratiche da attuare nelle terapie e sono citati degli strumenti come test o interviste che possono aiutare il clinico nella valutazione del grado della capacità di mentalizzazione di partenza del paziente.
Concludo con uno stralcio del testo, rappresentativo di quello che Jurist ha voluto trasmettere nella stesura del testo:
La psicoterapia non rappresenta esattamente un percorso lineare verso la verità. L’amore per la verità comporta soltanto il decidere di perseguirla. Non abbiamo più bisogno di addossarci il fardello dell’assolutezza, rappresentato da idee come “pienamente analizzato”. Il desiderio di conoscere la verità e di comunicarla di conseguenza rimane comunque la parte più entusiasmante e caratteristica del nostro lavoro. È l’amore per la verità a sottostare alla fiducia nel nostro lavoro di terapeuti, nessun paziente termina un trattamento che si è rivelato efficace senza attribuire maggior valore alla verità. Pur riconoscendo i molti e pervasivi modi in cui inganniamo noi stessi non possiamo abbandonare la ricerca della verità. Se i pazienti non arrivano a noi amandola già, idealmente dovrebbero lasciare la terapia avendo sviluppato un amore simile; se un simile amore non nasce entro la fine della terapia, è un vero peccato (pag 184).
LEGGI LE ALTRE RECENSIONI DEL LIBRO PUBBLICATE DA STATE OF MIND:
Tenere a mente le emozioni (2018) di Elliot Jurist – Recensione del libro