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La terra che continua a tremare: risposte emotive e comportamentali

Il trauma determinato da un terremoto è qualcosa di profondo, legato all’identità delle persone, alle certezze di una vita, a una quotidianità che non esiste più, all’incertezza sul futuro; infatti il terremoto è improvviso e inaspettato, travolge la nostra sensazione di controllo, comporta la percezione di una minaccia potenzialmente letale, può determinare perdite emotive o fisiche.

Federica Di Francesco – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

24 agosto 2016 ore 3:36 la terra trema

30 ottobre 2016 ore 7:40 la terra trema

18 gennaio 2017 ore 10:24, 11:14 e 11:25 la terra, coperta da un’abbondante coltre nevosa, trema ancora…

Le donne urlano, i bambini piangono, gli uomini spalano… tutti cercano di creare un varco, una via di fuga in quella coltre nevosa, ma nessuno vi riesce, il tempo non è clemente, la neve cade copiosa, barrica tutti in casa come topi in gabbia in attesa della morte.

La paura si fa intollerabile, l’energia elettrica manca da giorni, le comunicazioni e gli spostamenti sono impossibili… emerge dirompente il pensiero di essere abbandonati al proprio destino, la paura di non avere scampo, il timore di non essere salvati…

Il disagio emotivo si avverte sempre più… un hotel spazzato via… vittime dei crolli e del gelo… un elicottero precipitato…

Un’intera comunità in ginocchio, un’intera comunità traumatizzata…

Persone che camminano per le vie di città fantasma pronte a sobbalzare ad ogni rumore o vibrazione, persone che al calar della sera fuggono lungo la costa, persone costrette ad abbandonare le proprie case…

Questa è la condizione dell’Abruzzo e in particolare della sua gente. Cosa ne sarà di questa comunità più volte messa in ginocchio?

Negli ultimi giorni la paura si è diffusa, in risonanza con le continue scosse, anche a Catania. Migliaia gli sfollati, la terra trema ancora e il terrore assale un’altra comunità..

Trauma e terremoto

La parola Trauma ha origini greche e vuol dire Ferita. Il trauma psicologico, dunque, può essere definito come una “ferita dell’anima”, come qualcosa che rompe il modo abituale di vivere e vedere il mondo e che ha un impatto negativo sulla persona che lo vive; qualcosa che intacca l’integrità della persona, e che ne altera lo stato.

Esistono diverse forme di esperienze traumatiche a cui un individuo può andare incontro nell’arco della vita.

Ci sono i “piccoli traumi” o “t”, ovvero quelle esperienze soggettivamente disturbanti caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intesa, come umiliazioni subite o relazioni disturbanti con persone significative durante l’infanzia, e “traumi T”, ovvero tutti quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. A questa categoria appartengono eventi di grande portata, come ad esempio disastri naturali (terremoti, alluvioni…), abusi, incidenti.

Non tutte le persone che vivono un’ esperienza traumatica reagiscono allo stesso modo. Le risposte possono andare dal completo recupero e il ritorno ad una vita normale in un breve periodo di tempo, fino alle reazioni più gravi, come quelle che impediscono alla persona di continuare a vivere la propria vita come faceva prima dell’accaduto.

Il terremoto può essere considerato un vero e proprio evento traumatico; Mitchell (1996) afferma che:

Un evento si definisce traumatico quando è improvviso, inaspettato ed è percepito dalla persona come minaccia alla sua sopravvivenza, suscitando un sentimento d’intensa paura, impotenza, perdita del controllo, annichilimento. (Mitchell 1996)

L’impatto emotivo è caratterizzato da un marcato senso di vulnerabilità, impotenza, sensazione di perdita di controllo, paura, angoscia, rabbia e disperazione.

Il trauma determinato da un terremoto è qualcosa di profondo, legato all’identità delle persone, alle certezze di una vita, a una quotidianità che non esiste più, all’incertezza sul futuro; infatti il terremoto è improvviso e inaspettato, travolge la nostra sensazione di controllo, comporta la percezione di una minaccia potenzialmente letale, può determinare perdite emotive o fisiche.

Trauma e terremoto: le risposte emotive

Le ricerche svolte nel campo delle risposte emotive in situazioni di pericolo indicano la prevalenza della paura. In particolare studi effettuati su individui che vivevano in paesi distrutti dal sisma, mostrano come la paura sia un elemento cruciale del vissuto durante il terremoto (Petrone 2002).

La paura a livello evoluzionistico rappresenta un’emozione alla base di una risposta istintiva ancestrale. Anche se non dobbiamo più sfuggire ai predatori, saper fiutare il pericolo è una risorsa fondamentale per sopravvivere nel mondo (Ciceri, 2001).

Tra gli effetti emozionali i più comuni si riscontrano, oltre al paura e al terrore, shock, collera, disperazione, ottundimento emozionale, senso di colpa, irritabilità, senso di impotenza.

Fattori che influiscono sulla gravità della risposta emotiva

I fattori di rischio implicati nello sviluppo di un elevato livello di distress psicologico e di una sintomatologia post-traumatica sono numerosi; vanno da una maggiore esposizione al terremoto, la vicinanza all’epicentro, il livello di coinvolgimento e di controllo, il grado di minaccia percepita, la disgregazione della rete sociale, a una storia pregressa di traumi o problemi emotivi, perdite finanziarie, sesso femminile, un basso livello di istruzione, la mancanza di supporto sociale subito dopo l’evento, nonché il mancato supporto di amici, colleghi e familiari e il trasferimento.

Molti studi, ad esempio, suggeriscono che le donne presentano un maggior rischio di sviluppare il Disturbo da Stress Post Traumatico o altri disturbi, in seguito all’esposizione ad eventi traumatici (Steinglass et al., 1990; Breslau et al., 1997); sembra inoltre che bambini in età scolare siano più vulnerabili, rispetto a quelli più piccoli (Green et al., 1991). In particolare, il comportamento dei genitori, il loro livello di sofferenza e l’atmosfera familiare influenzano le reazioni post-traumatiche dei bambini (Vila et al., 2001).

Il distress psicologico successivo all’esposizione a un evento traumatico è stato riconosciuto come un significativo fattore predittivo per lo sviluppo di una sintomatologia post-traumatica.

Trauma e terremoto: le reazioni comportamentali

Le tipiche risposte comportamentali di fronte ad una situazione di pericolo, quale un terremoto, sono principalmente quattro: fuga, lotta, congelamento e affiliazione (Pietrantoni e Prati, 2009).

Le prime due “fight or flight” (lotta o fuga) si riferiscono rispettivamente all’attacco diretto ad esempio attraverso la rabbia o all’evitamento nei confronti del pericolo.

La terza è una reazione di congelamento (freezing) e paralisi; di fronte al pericolo si rimane immobili, incapaci di rispondere alle persone presenti che cercavano di aiutare spronando alla fuga. Con il termine “freezing”, Leach (2004) fa riferimento al totale o parziale congelamento dei movimenti da parte della persona che sta vivendo la situazione di pericolo, impedendo così la messa in atto di qualsiasi azione produttiva. I comportamenti di freezing, in una prospettiva etologica, rappresenterebbero delle risposte adattive; infatti il congelamento sarebbe un automatismo che aumenta le probabilità di sopravvivenza di fronte a un predatore, in quanto diminuisce la probabilità di essere visti o permette di sembrare morti.

Infine, una quarta tipologia di comportamento è l’affiliazione. Il modello di affiliazione sociale (Sime, 1985) sostiene che in caso di emergenza le persone tendano a dirigersi verso persone e luoghi familiari in contrasto con le teorie del panico le quali sostengono che le persone fuggano in modo disordinato e irrazionale.

Fasi naturali che si attraversano nel post- terremoto

Durante un terremoto, l’organismo essendo esposto ad un enorme livello di stress si attiva istantaneamente per tentare di ripristinare il normale funzionamento fisiologico. Tale processo si sviluppa nelle seguenti fasi:

  • Shock: il soggetto vive un senso di estraneità, di irrealtà, di confusione, di non essere se stessi e di disorientamento spaziale e temporale. Lo shock è una reazione che si manifesta nelle fasi di stress acuto e consente di mantenere un certo distacco dall’evento.
  • Impatto emotivo: in questa fase è possibile individuare una vasta gamma di emozioni quali tristezza, colpa, rabbia, paura ed ansia ed è possibile inoltre sviluppare reazioni somatiche quali disturbi fisici e difficoltà a recuperare uno stato di quiete.
  • Fronteggiamento: in quest’ultima fase le persone cominciano ad interrogarsi sull’accaduto, ricercano spiegazioni e soluzioni, utilizzando tutte le proprie risorse.

Dalla normalità alla patologia

Talvolta, però, le fasi di risposta naturali possono impedire il ritorno al normale funzionamento. Si possono generare, infatti, reazioni emotive così intense da interferire con la regolare capacità di fronteggiamento da parte dell’organismo.

Tutto ciò potrebbe determinare l’insorgenza di patologie come il Disturbo da Stress Post Traumatico.

Per capire se il terremoto ha causato una reazione tipica da Disturbo da Stress Post Traumatico devono essere presenti i seguenti sintomi:

  • La persona tende a “rivivere” l’evento traumatico, ad esempio attraverso ricordi ed immagini ricorrenti dei momenti successivi alla scossa, ricordi che sopraggiungono anche in modo intrusivo, quasi contro la propria volontà.
  • Potrebbero essere presenti anche dei sogni ricorrenti, degli incubi in cui l’individuo rivive particolari scene dell’evento traumatico.
  • I sogni dei bambini più piccoli possono trasformarsi in incubi indefiniti, pieni di mostri e minacce per sé o per altri.
  • Sono riportati casi in cui alcune persone, improvvisamente, perdono il contatto con la realtà e seppur svegli iniziano a comportarsi, per qualche istante, come se si trovassero proprio sul luogo della tragedia (flashback), arrivando a provare un disagio ed un terrore molto intensi.
  • Anche i bambini possono comportarsi come se il terremoto si stesse ripresentando (rappresentazioni ripetitive del trauma).
  • Sia i grandi sia i più piccoli quando vengono esposti a qualcosa che in qualche modo (reale o simbolico) assomiglia al terremoto reagiscono provando un intenso disagio psicologico, oppure manifestando reattività fisiologica (difficoltà ad addormentarsi o insonnia, irritabilità, difficoltà a mantenere la concentrazione, ipervigilanza ed esagerate risposte d’allarme).
  • La persona che soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress generalmente tende ad evitare il più possibile tutto ciò che viene associato al trauma: si sforza di dimenticare, cerca di scacciare i ricordi dei momenti successivi alla scossa, evita il più possibile di parlarne.
  • A volte possono manifestarsi delle vere e proprie amnesie per alcuni particolari legati al terremoto: è questo un tipico risultato dell’evitamento. A questo può essere correlata una certa difficoltà a provare e/o esprimere le proprie emozioni (anestesia emozionale). Queste persone spesso lamentano di sentirsi fredde, distaccate, disinteressate agli altri, apatiche.
  • Il futuro viene percepito in modo molto negativo, quasi senza speranza. La persona tendenzialmente evita di pensare a progetti lavorativi o familiari, un po’ come se il tempo si fosse congelato. Nei bambini questa mancanza di prospettive future può manifestarsi attraverso giochi, disegni o espressioni verbali che rimandano all’idea che non riusciranno a diventare grandi come gli adulti, che manchi il tempo necessario.

Il trattamento del trauma dopo una grave emergenza

L’intervento psicologico dopo una grave emergenza, come il terremoto, è fondamentale.

Agire precocemente significa, supportare l’elaborazione dell’evento, favorire la riacquisizione di abilità adattive perse a seguito dell’evento traumatico e l’acquisizione di quelle nuove abilità richieste dalla nuova situazione di vita.

Nell’ambito della Psicologia dell’emergenza risulta sempre più frequente il ricorso alla tecnica dell’EMDR (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), considerato ad oggi il trattamento più efficace per i disturbi Post Traumatici.

L’EMDR è un approccio terapeutico utilizzato sia per il trattamento del trauma che altre problematiche legate allo stress. Tale protocollo, attraverso l’utilizzo dei movimenti oculari (o altre forme di stimolazione alternata), si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica, riducendo i sintomi e riattivando il fisiologico processo di elaborazione delle informazioni. Tale metodo può essere impiegato sia nella fase acuta dell’evento, al fine di rendere più tollerabile l’elevata attivazione fisiologica, che come trattamento d’elezione nelle fasi successive. L’obiettivo dell’EMDR è quello di rendere il ricordo, precedentemente disturbante, privo di connotazioni sintomatiche e disturbanti ripristinando il naturale processo. L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’ esperienza traumatica: cognitivi, emotivi e comportamentali.

L’Associazione EMDR Italia da anni utilizza questa terapia nei contesti d’emergenza, al fine di prevenire l’insorgere del disturbo post traumatico da stress. Nel Centro Italia molti professionisti si sono resi disponibili ad intervenire a supporto delle popolazioni colpite dal terremoto, con particolare attenzione ai bambini.

L’obiettivo è che tutta la popolazione del centro Italia, possa tornare presto ad avere speranza nel futuro e possa tornare presto alla normalità, chiedendo e ricevendo l’aiuto e il supporto psicologico necessario per evitare di restare nella situazione di disagio e di trauma in cui si trovano a vivere oggi.

La relazione tra una futura mamma e il suo bambino: l’attaccamento prenatale, tra valutazione e implicazioni

L’arrivo di un bambino è solitamente accolto come una nuova esperienza, sia di gioia che di preoccupazione per i futuri genitori. Con l’inizio della gravidanza, potrebbero iniziare i primi cambiamenti riguardo ai pensieri che la futura mamma potrebbe nutrire nei confronti del feto.

Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Da un punto di vista psicologico, il periodo precedente alla nascita, ma anche i primi giorni successivi al parto, implicano regolazioni e modifiche nel comportamento dei nuovi genitori, addirittura un cambiamento nella propria identità, che può aiutare a conoscere il nuovo arrivato e a costruire una nuova relazione tra i membri della famiglia (Redshaw & Martin, 2013, Milgrom, 2009).

Attaccamento e periodo perinatale

Tuttavia, nel corso della storia della psicologia e della psichiatria è stata posta attenzione a ciò che succede a una nuova madre dopo il parto. Attenzione ben riposta a causa del rischio di incorrere in problemi psicologici, come depressione e psicosi post partum. Entrambe portano a delle conseguenze negative non solo nella cura del neonato, ma anche nella relazione tra la mamma e il bambino (Milgrom, 1999). Per esempio si è visto come la depressione postpartum sia associata a un maggiore stress genitoriale (Leigh, 2008). Inoltre entrambe le variabili possono essere influenzate da ciò che accade alla mente della futura madre durante la gravidanza, come una bassa autostima, uno stile cognitivo negativo, e ansia preparto (Leigh, 2008).

Quindi che cosa accade prima della nascita? Quando hanno inizio i primi cambiamenti nei pensieri della gestante? Quali sono le emozioni che può provare?

Una linea di ricerca si è interessata a come le rappresentazioni di attaccamento durante la gravidanza possano influenzare l’ attaccamento al bambino dopo la nascita (Fonagy, 1991). Per esempio si è visto come la capacità di riflessione misurata attraverso la Adult Attachment Interview durante la gravidanza predica la capacità di attribuire stati mentali e emozioni al bambino una volta nato (Arnott, 2007). Ma lo stato mentale che ha l’adulto nei confronti delle proprie esperienze di attaccamento non è detto coincida con l’ attaccamento che ha avuto in passato (Main, 2008), anche se può predire lo stile di attaccamento futuro (Fonagy, 1991).

Invece, la risposta alle domande può essere inferita iniziando a definire come la futura madre possa pensare al proprio bambino, cominciando a conoscerlo quando è ancora nel proprio grembo, quindi alcuni ricercatori si sono interessati a quale sia legame tra gestante e feto.

Questo legame è stato nominato attaccamento prenatale (APN), o anche attaccamento tra madre e feto. Nello specifico viene definito come

L’attuazione di comportamenti che rappresentino un’affiliazione e un’interazione con il proprio figlio non ancora nato (Cranley, 1981)

Oppure come

La relazione, personale e unica, che si sviluppa tra una madre e il suo feto (Muller, 1990).

Attaccamento prenatale

Si tratta realmente di attaccamento? In realtà alcuni ricercatori si sono posti il problema. Infatti se pensiamo alla definizione classica di Bowlby (1988), il sistema di attaccamento si riferisce a come un bambino, o qualsiasi cucciolo, quando si trova in una situazione di potenziale pericolo, si attivi per avviare l’interazione con la propria madre, in modo tale da essere difeso e protetto. Quindi se pensiamo alla definizione data sopra, sembrerebbe che tra attaccamento “classico” e attaccamento prenatale non ci sia molto in comune. In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, due modelli operativi interni complementari: il sistema attaccamento elicita il sistema di cura, o caregiving (Walsh, 2010). Infatti il sistema di attaccamento implica la presenza di due attori, il bambino che lo attiva, e il caregiver che gli risponde con il sistema di cura (Readshaw & Martin, 2013, Walsh, 2010). Tuttavia, durante la gravidanza la relazione è unidirezionale, relazione che incarna le rappresentazioni cognitive e gli stati emotivi riguardo al bambino che arriverà (Readshaw & Martin, 2013). Si può chiamare relazione? In realtà implica anch’essa la partecipazione di due, e se pensiamo alle relazioni diadiche tra adulti, i due individui sono sia caregiver che careseeker (Walsh, 2010). Allora il nome relazione secondo questa prospettiva si allontana ancora di più dalla definizione originaria di attaccamento prenatale (APN), infatti solitamente una madre non cerca rassicurazioni dal proprio figlio. Alcuni hanno suggerito di utilizzare il termine legame, ma se utilizzato di fronte ai futuri genitori potrebbe creare ansie e aspettative nel momento in cui stanno iniziando a conoscere il proprio bambino sia durante la gravidanza che ai primi contatti faccia a faccia dopo il parto (Redshaw & Martin, 2013). Quindi il termine legame potrebbe portare a una forzatura controproducente nelle relazioni.

Tuttavia, evidenze recenti mostrano come l’ attaccamento prenatale possa essere di fatto un sistema di caregiving invece che di attaccamento (Walsh, 2014).

Fermo restando che l’ attaccamento prenatale non è l’attaccamento inteso da Bowlby, ma parte di quell’insieme di comportamenti che fanno si che il caregiver si prenda cura della prole, in letteratura per comodità (e abitudine) si continua a utilizzare il termine attaccamento per indicare l’insieme delle rappresentazioni, cognitive e emotive, verso il feto.

Attaccamento prenatale (APN): come si misura?

Sono stati proposti vari strumenti, ma principalmente ne vengono utilizzati tre: Maternal Foetal Attachment Scale (MFAS; Cranley, 1981), Maternal Antenatal Attachment Scale (MAAS; Condon, 1993) e la Prenatal Attachment Interview (PAI; Muller, 1993), poichè sono i test con le mgliori proprietà psicometriche. (Van den Bergh & Simons, 2008).

Queste scale presuppongono che la relazione con il feto si manifesti con: comportamenti materni salutari, come seguire una dieta ed evitare fumo e alcool; accarezzare la pancia, parlare al feto; acquistare il necessario per il bambino; parlare al partner del futuro; immaginare come sarà il bambino; avere pensieri di tenerezza e vicinanza emotiva (Van den Bergh & Simons 2008). Quindi si presuppone che la donna sia in grado riportare tutto ciò sotto forma di una scala Likert (Van den Bergh & Simons, 2008), mentre le scale sembra misurino aspetti differenti del costrutto, con il risultato di avere misure diverse su fattori simili (Walsh, 2010). Per esempio, la MFAS sembra misurare maggiormente la percezione della gravidanza e il ruolo materno (Van den Bergh & Simons, 2008). Invece la PAI e la MAAS sembrano più coerenti con la definizione di attaccamento prenatale (APN) e hanno migliori proprietà psicometriche (Van den Bergh & Simons, 2008), tuttavia producono delle misure che confrontate tra loro, sembrano complicare il modello. Infatti, se pensiamo alle validazioni italiane delle scale mostrano diversi fattori che possono entrare in gioco, coerentemente con i risultati ottenuti in altri campioni.

Nella validazione italiana della PAI, è stato confermato come l’APN non sia un costrutto unitario, ma possa essere composto da 5 fattori misurati dalla scala: 1) fantasie (“sogno il mio bambino”), 2) interazione (“riesco a far muovere il mio bambino”), 3) affetto (“amo il mio bambino”), 4) differenziazione di sé dal feto (“immagino di chiamare il mio bambino per nome”), 5) condivisione con gli altri (“lascio mettere le mani sulla pancia per far sentire agli altri i movimenti del mio bambino”) (Della Vedova, 2008). Mentre in un’altra validazione italiana, l’ultimo fattore non è stato considerato, ma saturato nel fattore interazione, e ne è stato trovato un altro detto sensibilità al feto, che considera items come “credo che il mio bambino abbia già una personalità”, che nell’altro studio facevano parte dell’interazione (Barone, 2014).

Invece attraverso la validazione italiana della MAAS è stata confermata la natura bidimensionale dell’attaccamento prenatale, una componente di intensità della preoccupazione e una di qualità del coinvolgimento, rispettivamente quanto tempo la madre passa a pensare al feto, e la qualità dell’affettività (quindi se positiva) nei confronti del feto (Busonera, 2016). Nonostante alcuni items originali fossero maggiormente legati alla prima dimensione piuttosto che alla seconda, quelli che si riferiscono all’immagine mentale che la madre si è formata del feto e che riguardano i temi di indipendenza e di differenziazione tra madre e nascituro (Busonera, 2016).

Attaccamento prenatale: un costrutto con diverse dimensioni

Quindi l’APN si configura come una dimensione eterogenea, sensibile alle misure proposte. Un modo per chiarire quale ne sia la natura è lo studio di quali possano essere le variabili che la influenzano, e proporne un modello esplicativo.

Una delle variabili maggiormente confermate riguarda il periodo di gestazione al momento della misurazione dell’ attaccamento prenatale. Per esempio, in due studi italiani sono stati confermati i risultati di lavori precedenti, ovvero che l’APN aumenta con i mesi di gestazione, in conseguenza al fatto che la madre possa vedere il feto durante le ecografie e inizi a sentirne i movimenti (Della vedova, 2008, Barone, 2014). Inoltre è stato dimostrato come la PAI misuri l’investimento emotivo verso il feto, piuttosto che una generale rappresentazione cognitiva di quest’ultimo, poiché i punteggi all’APN correlavano negativamente con il punteggi alla scala per l’alessitimia, in particolare con l’external oriented thinking (Della Vedova, 2008). Invece sintomi depressivi non influenzano globalmente l’ attaccamento prenatale, ma solo due componenti (misurate attraverso la PAI di Muller, 1993): fantasie e sensibilità, due componenti che non intendono necessariamente sentimenti positivi, come amore o tenerezza, ma riflettono solo l’intensità dell’attaccamento (Barone, 2014).

Per di più l’APN è influenzato non solo da variabili che riguardano strettamente la madre, ma anche relazionali. Infatti vi sono dati che confermano come il rapporto con il partner possa mediare la relazione durante la gravidanza. Per esempio si è visto come le modifiche all’interno della coppia prima dell’arrivo del neonato, misurate attraverso la Dyadic Adjustment Scale, possano influenzare l’APN globale positivamente, e con maggior forza i fattori fantasie e differenziazione di sé dal feto (Barone, 2014). Sorprendentemente la durata della relazione amorosa, invece, correla negativamente con l’APN, portando gli autori a ipotizzare come le coppie che hanno passato più tempo insieme prima di avere un figlio possano essere diventate più resistenti a pensare di cambiare le proprie abitudini di coppia già dalla gravidanza (Della vedova, 2008, Barone, 2014).

Inoltre queste influenze relazionali dipendono anche da come la madre possa vivere la relazione con il proprio partner. In uno studio di Walsh e collaboratori (2014) si è studiato come l’attaccamento romantico della madre possa influenzare l’ attaccamento prenatale. I ricercatori hanno misurato: se le donne potessero avere un attaccamento al partner più ansioso (con la paura dell’abbandono) oppure più evitante (con allontanamento dalle relazioni significative), misurato attraverso la Experiences in Close Relationships Scale Short-Form; e se rispondessero ai bisogni del proprio partner, quindi la misurazione del sistema di caregiving attraverso il Caregiving Questionnaire (Walsh, 2014). I risultati hanno mostrato come l’attenzione ai bisogni del partner sia un mediatore dell’ influenza negativa dell’ attaccamento romantico evitante sull’APN, mentre non esiste una relazione tra attaccamento prenatale e attaccamento romantico ansioso (Walsh, 2014).

In un altro studio, invece, è stato ipotizzato che il supporto sociale dopo la nascita, quindi come la madre immagina che il partner si prenderà cura del bambino, possa influenzare positivamente l’APN, stress e tratti ansiosi (Hopkins, 2018). Queste variabili sono state misurate, rispettivamente, attraverso: il Postpartum Social Support Questionnaire, la MAAS, la Depression Anxiety Stress Scales, e il State Trait Anxiety Inventory (Hopkins, 2018). I risultati ottenuti hanno mostrato come il supporto del partner e l’ansia di tratto fossero in relazione con l’ attaccamento prenatale, ma non lo stress (Hopkins, 2018). In particolare la percezione che il partner si prenderà cura del bambino è legata a punteggi più alti alla MAAS, e potrebbe diminuire la relazione negativa tra ansia e APN (Hopkins, 2018). In accordo con i risultati di Walsh e collaboratori (2014), sembrerebbe che alti livelli di ansia possano distrarre la futura madre dal concentrarsi sul futuro figlio, e quindi sull’ attaccamento prenatale, ma un supporto sociale adeguato può essere un fattore protettivo (Hopkins, 2018).

Nonostante l’APN non sia ancora ben definito, e influenzato da numerosi fattori, gli strumenti per misurarlo risultano validi nel loro utilizzo. Anche se misurano aspetti diversi del modello, sono stati utilizzati per studiare la correlazione tra attaccamento prenatale e variabili misurate dopo il parto, avvalorando l’utilità di inserire tali misure per la prevenzione di situazioni cliniche a rischio, come la depressione postpartum, e sociali, come lo stress genitoriale. Verranno proposti studi longitudinali che mettono in relazione l’APN con variabili misurate dopo il parto, mostrando come questo costrutto possa influenzare non solo la psiche materna ma anche lo sviluppo del bambino.

Attaccamento prenatale ed influenze sull’attaccamento madre-bambino

In uno studio proposto da Alhusen e collaboratori (2013) si è visto come, in un campione di donne con svantaggio socioeconomico, quelle che riportavano un alto APN hanno espresso successivamente uno stile di attaccamento sicuro associato a uno sviluppo cognitivo normale nel figlio. (Alhusen, 2013). In questo studio l’attaccamento prenatale è stato misurato con la MFAS di Cranley (1991), ed è stato messo in relazione a variabili come: andamento del parto (peso alla nascita del bambino e età gestazionale), sintomi depressivi postpartum (Edinburgh Postnatal Depression Scale), stile di attaccamento (Attachment Style Questionnaire), sviluppo del neonato tra 1 e 6 mesi (Ages and Stages Questionnaire) (Alhusen, 2013). I risultati hanno mostrato come un basso APN fosse associato a incorrere maggiormente in uno stile di attaccamento ansioso e sintomi depressivi, e di conseguenza un ritardo nello sviluppo dei bambini (Alhusen, 2013). Nonostante gli autori abbiano testato un campione già a rischio, hanno dimostrato come l’APN possa essere un predittore di possibili esiti avversi sia per la madre che per il bambino.

Diversamente altri ricercatori si sono occupati di come una madre interagisce attivamente con il prorio figlio.

In uno studio di Maas e collaboratori (2015), le donne con punteggi più alti nell’attaccamento prenatale hanno mostrato una sensibilità materna più adeguata sia nelle cure primarie (misurata con l’osservazione del cambio di pannolini) e in situazioni di gioco libero con i propri neonati di 6 mesi. Invece, non sono state trovati significatività tra APN non nell’interazione faccia a faccia senza giochi, non tanto perché queste madri fossero inespressive o anaffettive, anzi riportarono di sentirsi “spiazzate” poiché non si trattava di un tipo di interazione abituale (Maas, 2015). Quindi questo tipo di compito non si è rivelato adeguato allo scopo di vedere se esiste una maggiore connessione emotiva tra madre e figlio correlata all’APN.

Diversamente, potrebbe essere utile misurare quanto il genitore abbia la tendenza a vedere il proprio figlio come un individuo agente e dotato di stati mentali, questa tendenza è detta mind-mindedness (McMahon, 2016). Questa capacità genitoriale può essere inferita dal linguaggio che il genitore utilizza a proposito degli stati mentali del proprio neonato durante le interazioni, quindi se appropriato e se in sintonia (McMahon, 2016). Si possono inoltre utilizzare due misure: una di osservazione dell’interazione, e un’altra analizzando le parole che i genitori esprimono per descrivere il proprio bambino (McMahon, 2016). Si tratta di un tratto cognitivo-comportamentale stabile nel genitore, ed è un indice di sensibilità genitoriale, predetto dall’ attacamento prenatale (misurato attraverso il questionario di Cranley (1981)) (McMahon, 2016). Quindi la sincronia tra gli stati mentali dell’adulto e quelli del bambino, e la comprensione di questi ultimi da parte del genitore possono essere influenzati positivamente dagli stati mentali della madre durante la gravidanza (McMahon, 2016).

Tuttavia, la relazione non è solo misurabile da come ci si prende cura del neonato, e della sensibilità della madre di interpretare correttamente lo stato emotivo del bambino, ma anche come il nuovo genitore si vede come tale.

Infatti è stato mostrato come APN, congiuntamente alle modifiche rappresentazionali nella diade madre-bambino durante la gravidanza, possano influenzare positivamente lo stress genitoriale, che a sua volta è un fattore protettivo per la futura relazione madre-bambino (Mazzeschi, 2015). Lo stress genitoriale può essere visto come la difficoltà di adeguarsi al ruolo di genitore, riflettendo difficoltà del genitore nel vedersi come tale, del riconoscere consapevolmente il proprio bambino e la relazione che si sta instaurando (Mazzeschi, 2015). Lo studio rivelò come l’APN, misurato attraverso il MAAS (Condon, 1993), spiegasse la variabilità nello stress genitoriale, congiuntamente allo stile di attaccamento, dove punteggi più bassi alla MAAS correlavano con uno stile di attaccamento ansioso (Mazzeschi, 2015).

Attaccamento prenatale: le conoscenze ad oggi

Riassumendo, l’attaccamento prenatale (APN) è un’insieme di pensieri che la futura madre ha nei confronti del proprio feto, che aumenta di intensità con l’andamento della gravidanza (Della Vedova, 2008, Barone, 2014). È la concettualizzazione dell’investimento emotivo verso il bambino, piuttosto che di una rappresentazione cognitiva (Della Vedova, 2008). Ciononostante, un basso tono dell’umore non influenza globalmente l’APN, ma solo quei fattori indipendenti da un’affettività positiva (Barone, 2014). Trattandosi di un sistema unidirezionale che si attiva per la cura del futuro bambino, sembra essere sistema di caregiving, piuttosto che di careseeking come quello di attaccamento (Walsh, 2010 e 2014). È influenzato positivamente da variabili relazionali, come l’investimento nel modificare le dinamiche della coppia di futuri genitori (Barone, 2008), come la madre pone attenzione ai bisogni del proprio partner (Walsh, 2014), e se quest’ultimo venga percepito come supportivo una volta nato il bambino (Hopkins, 2018).

In passato la maggior parte degli studi si è focalizzata sulla relazione tra predittori in gravidanza della depressioni post natale (Leigh, 2008), oppure sulla relazione tra rappresentazioni dell’attaccamento durante la gravidanza e attaccamento (Fonagy, 1991) e mentalizzazzione (Arnott, 2007). Ma anche l’APN può essere un indice precoce per individuare campioni a rischio di depressione postpartum (Alhusen, 2013). Inoltre l’ attaccamento prenatale può essere un predittore del funzionamento della diade madre bambino. Infatti alti punteggi alle scale per l’APN possono predire sia come la madre si prenderà cura del neonato che interagirà nel gioco libero (Maas, 2015), che se comprenderà adeguatamente gli stati emotivi del proprio bambino (McMahon, 2016). In aggiunta l’APN è anche un fattore protettivo per lo stress genitoriale (Mazzeschi, 2015).

Quindi l’APN è una dimensione importante da studiare, per la prevenzione di situazioni a rischio e per favorire il benessere psicologico della mamma, lo sviluppo del bambino e la relazione tra i due.

Non vi sono ancora delle linee guida per migliorare l’APN, e alcuni autori hanno ipotizzato che intervenire direttamente su questo costrutto possa avere effetti negativi sull’APN stesso, creando aspettative e aumentando l’ansia dei genitori (Readshaw & Martin, 2013). Potrebbe essere utile agirvi indirettamente. Per esempio, utilizzando delle tecniche per aumentare la consapevolezza di ciò che accade al proprio corpo durante la gestazione (Lovato, 2015), oppure dei propri stati mentali, e quindi tollerarli maggiormente, attraverso letture di auto-aiuto (Milgrom, 2009).

Nonostante questi accorgimenti rimane come l’APN possa essere una chiave di lettura nell’interpretazione e nell’analisi a ciò che accade nella mente durante la gravidanza, senza agirvi direttamente può essere un fattore protettivo per il futuro sviluppo della diade madre-bambino.

I bambini di pochi mesi non sanno parlare, ma sanno ragionare

Secondo un recente studio i bambini, anche se non sanno parlare, sono in grado di fare deduzioni e compiere alcuni tipi di ragionamento logico. Questo sta ad indicare che una certa capacità razionale è già presente nei bambini prima che inizino a parlare. Si tratta di bambini che hanno un anno di vita o poco più e, nonostante la tenerissima età, sanno prestare attenzione e sono in grado di compiere deduzioni. 

 

A spiegare tutto questo sono i ricercatori della John Hopkins University, guidati dall’italiano Nicolò Cesena Arlotti. Gli studiosi si sono concentrati su bambini di 12 e 19 mesi di età, periodo in cui imparano le prime parole e frasi.

I bambini guardavano un’animazione con figure visive ripetute regolarmente, se uno o più elementi cambiava in maniera impropria, in modo cioè da non seguire la logica e non riprodurre ciò che avviene nella realtà, si accorgevano di questa incongruenza e mostravano reazioni di sorpresa.

La ricerca, pubblicata su Science, ha sottoposto 144 bimbi alla visione di alcuni video di animazione nei quali venivano mostrati due oggetti diversi, (A e B), che nel filmato venivano successivamente nascosti da una parete. In seguito l’oggetto A veniva rimosso dal nascondiglio, lasciando l’oggetto B, intuitivamente, dietro la parete. Quando la parete veniva rimossa, al posto dell’oggetto B compariva, talvolta, l’oggetto A, ossia quello che era stato rimosso inizialmente e dunque non avrebbe dovuto logicamente trovarsi lì.

Durante l’esperimento i ricercatori hanno tracciato i movimenti oculari dei piccoli osservando che in media lo sguardo dei bambini si soffermava prevalentemente sulla situazione inattesa, indicando che erano effettivamente confusi.

I ricercatori hanno concluso che i bambini pur non essendo ancora in grado di esprimersi a parole nella loro testa, erano stati in grado di fare un ragionamento usando il processo di eliminazione. Un vero e proprio sillogismo disgiuntivo, ovvero una forma logica di pensiero in cui, se solo A o B possono essere veri, e A è falso, allora B deve essere vero. In sostanza, è la capacità di condurre il processo di eliminazione.

Memoria ed Engram Cells: quando un ricordo chiama l’altro

La nostra memoria sembra essere stimolata dagli stimoli ambientali al recupero di altri ricordi ed esperienze ad essi collegati, che potremmo anche pensare di aver dimenticato. Non è così! La spiegazione è legata all‘aumento dello stato di eccitabilità delle “engram cells” nel nostro cervello.

 

I ricercatori del Picower Institute for learning and memory del MIT in collaborazione con il Trinity College Institute of Neuroscience hanno messo in luce il processo che consente all’animale di recuperare dalla memoria i dettagli di un contesto già esperito precedentemente tramite la temporanea ma maggiore eccitabilità di specifiche cellule dell’ippocampo, eccitabilità che a sua volta intensifica il recupero mnestico facilitando l’accesso a quelle informazioni già codificate. Questo processo consente all’animale di ottimizzare le capacità di recupero mnestico e adattarsi più efficacemente alle circostanze ambientali.

Supponiamo di stare guidando per tornare a casa in un tardo pomeriggio, davanti a noi scorgiamo in lontananza un bellissimo tramonto che ci ricorda il panorama di un cielo già visto durante le nostre meravigliose vacanze estive avvenute qualche anno prima. L’iniziale richiamo in memoria è all’inizio legato in generale alla vacanza estiva avvenuta in precedenza, tuttavia, a seguito del richiamo stesso della vacanza, quel tramonto potrebbe aver facilitato l’accesso ad ulteriori informazioni e dettagli relativi alla vacanza stessa: in particolare con chi eravamo, quali esperienze abbiamo vissuto, quali sono state le nostre sensazioni, dettagli a cui non abbiamo pensato ma che ora ci ritornano alla mente.

Cosa suscita il meccanismo di ricordi “a catena”?

Il nuovo studio di Pignatelli, Ryan, Roy, Tonegawa e colleghi (2018) del Picower Institute, recentemente pubblicato su Neuron, ha riportato il meccanismo per il quale a partire da un cue ambientale (es. il tramonto durante il viaggio in macchina) si attiva in memoria un primo recupero dell’episodio (es. la vacanza) in cui è stato presente quel cue, recupero che a sua volta favorisce un secondo recupero caratterizzato dalla comparsa di altre più vivide memorie contraddistinte da una più ampia ricchezza di particolari (es. cosa è successo durante quella vacanza).

Questo secondo recupero mnestico, grazie al quale ora sono disponibili in modo più florido altre informazioni, è reso possibile, a parere degli autori dello studio, da un cambiamento temporaneo dell’eccitabilità elettrica di specifiche cellule nel giro dentato dell’ippocampo, dette “engram cells”, un insieme di neuroni che all’unisono e in modo sincrono si attivano per codificare una memoria contestuale, episodica.

Nella ricerca presa in considerazione, l’aumento dello stato di eccitabilità di questi neuroni ippocampali si osservava nel momento in cui il topo veniva reintrodotto nuovamente nel contesto che aveva in precedenza codificato in memoria tramite condizionamento avversivo (es. shock elettrico). La comparsa dello shock nel contesto già appreso nel giorno 1 ha determinato un’eccitazione maggiore delle “engram cells” per circa un’ora il giorno 2, quando il topolino è stato reinserito nello stesso contesto.

Lo specifico cambiamento delle proprietà elettriche di queste cellule, vera evidenza proveniente da questo studio (Pignatelli, Ryan, Roy, Tonegawa et al., 2018), ha dirette implicazioni, con un forte valore evoluzionistico di sopravvivenza, sia nei processi di apprendimento che a livello comportamentale: durante quell’ora in cui l’animale è stato reintrodotto all’interno del contesto già appreso come avversivo, a causa dell’aumentata eccitabilità delle “engram cells”, il topo era in grado di differenziare con più precisione il contesto in cui aveva appreso lo shock, da altri contesti con cue ambientali simili al primo, consentendogli di evitare efficacemente i potenziali pericoli, recentemente appresi tramite shock, e di dirigersi in modo adattivo in quegli ambienti che al contrario non contenevano cue avversivi simili al contesto minaccioso.

La riattivazione di informazioni contestuali specifiche, anche se a breve termine, ha migliorato da una parte la capacità di riconoscimento futuro di specifici cue ambientali in termini di accuratezza, senza alcun tipo di alterazione permanente della natura delle tracce di memoria a lungo termine, e dall’altra la risposta comportamentale, che di conseguenza è risultata immediatamente più appropriata alle circostanze ambientali (Pignatelli, Ryan, Roy, Tonegawa et al., 2018).

Le evidenze ottenute da questo studio consistono principalmente nella scoperta di una nuova tipologia di memoria a breve termine, richiamata alla mente e in una modalità più vivida, situata a metà strada tra quelle a breve termine, che persistono per pochi secondi nella memoria di lavoro, e quelle a lungo termine, e infine determinate dall’aumentato stato di eccitabilità delle “engram cells” a seguito di un cue ambientale.

CBT online per il trattamento della depressione: studi di efficacia

La maggior parte delle professioni contemporanee sta sempre più traendo grandissimi vantaggi e sviluppi dalle nuove tecnologie, principalmente dall’utilizzo di internet, ormai accessibile a tutti. 

Adriano Mauro Ellena

 

La professione dello psicoterapeuta non ne rimane ovviamente esclusa. Sono tantissime le piattaforme online che permettono la diffusione autoguidata della terapia cognitivo comportamentale. Ma la domanda sorge spontanea: funzionano davvero?

Se lo sono chiesti anche un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Illinois, i quali hanno voluto verificare, attraverso l’analisi di molteplici studi, l’effettiva efficacia delle piattaforme di CBT online per il trattamento della depressione.

CBT online e depressione:lo studio

Lo studio, pubblicato sul Journal of Medical Internet Research, è il primo a esaminare se gli effetti di questi trattamenti siano stati “enfatizzati” escludendo i pazienti con depressione più grave o con la compresenza di altre condizioni come ansia o abuso di alcol.

I ricercatori hanno esaminato 21 studi preesistenti con un totale di 4.781 partecipanti, concentrandosi sulle applicazioni che forniscono il trattamento con CBT, una forma di psicoterapia che si concentra sul cambiamento dei modelli di pensiero e comportamento per alleviare i sintomi della depressione e altri disturbi mentali.

Precedenti studi avevano esaminato l’efficacia delle singole App di terapia cognitivo comportamentale utilizzando una vasta gamma di metodi.

Prima di questo studio, pensavo che gli studi precedenti fossero probabilmente incentrati su persone con depressione molto lieve, che non avevano altri problemi di salute mentale e che erano a basso rischio di suicidio – ha detto Lorenzo-Luaces, direttore dello studio – Con mia sorpresa, non è stato così, anzi. Ciò suggerisce che queste App e piattaforme possono aiutare un gran numero di persone.

Per Lorenzo-Luaces, le App CBT sono un nuovo importante strumento per affrontare un importante problema di salute pubblica: gli individui con disturbi mentali come la depressione sono molto più numerosi degli operatori di salute mentale disponibili per curarli.

Quasi una persona su quattro soddisfa i criteri per il disturbo depressivo maggiore – ha affermato. Inoltre, ha aggiunto – Se si includono persone con depressione minore o che sono state depresse per una settimana o un mese con pochi sintomi, il numero aumenta, superando il numero di psicologi che possono prenderle in carico (…) Le persone depresse sono anche costose per il sistema sanitario.

Tendono a visitare i medici di pronto soccorso più spesso di altri. Hanno più problemi di salute e la loro depressione a volte impedisce loro di prendere le medicine per altre malattie.

CBT online: efficace per la depressione

Conducendo un’analisi di 21 studi, Lorenzo-Luaces e i suoi collaboratori hanno determinato in modo decisivo che le piattaforme di terapia online riducono efficacemente la depressione.

Una questione centrale era determinare se studi precedenti distorcessero la forza degli effetti di questi sistemi escludendo le persone con depressione grave.

La conclusione è stata che le app hanno funzionato nei casi di depressione lieve, moderata e grave.

Molti degli studi nell’analisi hanno confrontato l’uso delle App CBT con il posizionamento in una lista d’attesa per la terapia o l’uso di una “App falsa” che ha dato deboli consigli all’utente. In questi casi, le app CBT hanno funzionato molto meglio.

Questo non vuol dire che si dovrebbe smettere di prendere i farmaci e fare psicoterapia (…) sia la terapia faccia a faccia che gli antidepressivi possono dimostrarsi ancora più efficaci delle sole App CBT – ha aggiunto Lorenzo-Luaces.

La terapia online può essere considerata vantaggiosa in situazioni in cui l’accesso alla terapia faccia a faccia è limitato a causa di barriere logistiche, come lunghe distanze nelle zone rurali o orari di lavoro inflessibili.

Cool Kids: il programma che insegna ai bambini come gestire l’ansia

Il programma Cool Kids è adatto per bambini dai 7 ai 16 anni ed ha tra i suoi punti di forza il coinvolgimento «obbligatorio» dei genitori e la traduzione dei concetti di psicoterapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’ ansia in formati adatti ai giovanissimi.

Valentina Spagni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

A volte i nostri pensieri sono una specie di mistero. Ci possono far sentire male senza una buona ragione. Se vogliamo risolvere il mistero dei nostri pensieri, dobbiamo agire come un investigatore e trovare le prove dei nostri pensieri. In questo modo possiamo decidere se un pensiero è realistico oppure no. Se non è realistico, possiamo trovare un pensiero più tranquillo per sostituirlo.

Questo è uno dei tanti suggerimenti che possiamo trovare nel Manuale del Bambino del programma Cool Kids, un protocollo di trattamento cognitivo-comportamentale strutturato, basato sull’acquisizione di competenze, che insegna ai bambini e ai loro genitori come gestire meglio l’ ansia.

Sarà per il nome, un po’ attrattivo e un po’ enigmatico; sarà per l’approccio semplice e diretto, che suscita curiosità; sarà per la sua provenienza dalla lontana e un po’ misteriosa Australia, fatto sta che il Manuale si fa leggere tutto d’un fiato anche da un adulto e una volta sfogliato per intero induce a consultare anche gli altri due manuali contemplati dal programma, il Manuale del Genitore e quello del Terapeuta. Cool Kids è infatti un programma triangolare, in cui ogni vertice dà e riceve un contributo proprio e irrinunciabile al conseguimento dell’obiettivo: trattare l’ ansia dell’età evolutiva, insegnando al bambino a riconoscerla e a domarla, senza spaventarlo o creargli inibizioni, con il fondamentale supporto della famiglia, che pure deve «convertirsi» ad un atteggiamento costruttivo nei confronti del problema. È un programma di importanza cruciale per prevenire e trattare un disagio di crescente impatto sulla qualità della vita dell’individuo e della comunità.

I disturbi d’ansia nell’età evolutiva

I disturbi d’ ansia sono tra i disturbi psicologici infantili più diffusi (McLoone, Hudson & Rapee, 2006). L’ ansia infatti è uno stato emotivo che non è presente soltanto nell’adulto ma interessa largamente anche i bambini e gli adolescenti. I bambini riferiscono di provare forme d’ ansia caratterizzate da vera e propria angoscia, forte preoccupazione e apprensione, che possono svilupparsi anche in situazioni obiettivamente non pericolose. L’ ansia e la paura sono esperienze riscontrabili in varie culture, fanno parte del normale sviluppo e generalmente sono transitorie; tuttavia, alcuni bambini provano un livello di ansia che è sproporzionato sia rispetto allo stimolo sia rispetto al livello di sviluppo. Distinguere ansia, paura e fobia è utile per differenziare un comportamento adattivo da uno più disfunzionale. Se infatti, l’oggetto della reazione emotiva è reale si parla di «paura»; se non lo è si parla di «ansia» o di «fobia».

La sintomatologia dei disturbi d’ ansia risulta stabile nel tempo anche se le manifestazioni si modificano a seconda della fase di sviluppo. Ad esempio, se si considera l’età tra i 6 e i 9 anni, l’ ansia e le paure sono più correlate alla separazione delle figure genitoriali; tra i 10 e i 13 anni la paura per la morte e per i pericoli è maggiore, mentre in adolescenza appare predominate l’ ansia sociale e quella di performance (Weems & Costa, 2005).

Da alcuni studi emerge come i disturbi d’ ansia possano rappresentare la patologia psichiatrica più comune in età evolutiva (MeriKangas et al., 2010; Kessler et al. 2012). MeriKangas et al. (2010) stimano che addirittura un terzo degli adolescenti a 18 anni possa ricevere una diagnosi per un disturbo d’ ansia. Kessler et al. (2012) individuano un tasso di prevalenza dei disturbi d’ ansia nell’infanzia e nell’adolescenza che risulta variabile tra il 12% e il 20-25%. Come si nota, si tratta di incidenze comunque elevate.

Tanto più che, oltre a causare angoscia acuta al bambino, ai genitori e al personale scolastico, i disturbi d’ ansia interferiscono significativamente sullo sviluppo educativo e sociale del bambino e persistono cronicamente nell’età adulta (McLoone, Hudson, and Rapee, 2006).

Di qui l’importanza di protocolli di trattamento precoci ed efficaci.

Il trattamento dei disturbi d’ ansia con il programma Cool Kids

Come accennato, il programma Cool Kids è uno dei principali protocolli di trattamento dei disturbi d’ ansia nell’età evolutiva. Il programma è una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale Coping Cat di Philip C. Kendall (1994) e Coping Koala di Paula Barret, Mark Dadds e Ronald Rapee (1996). Si tratta di un trattamento nato in ambito clinico per essere somministrato a bambini specificamente selezionati per sintomi d’ ansia o a rischio di svilupparli, che si basa su ricerche effettuate da istituzioni australiane (la Macquarie University di Sydney, il Royal North Shore Hospital di Sydney e l’università del Queensland) nel corso di un decennio. I principi fondamentali sono descritti in Treating Anxious Children and Adolescents: An Evidence-Based Approach (Rapee, Wignall, Hudson, & Schniering, 2000).

Il punto di partenza del programma è lo screening: con un’intervista clinica e una serie di questionari per bambini e genitori si determina quali bambini possano trarre maggior beneficio dal trattamento. Il programma, che può essere svolto a livello individuale o in gruppo, si articola poi in 10 sessioni, ciascuna dedicata ad un aspetto della psicoterapia dell’ ansia, secondo lo schema seguente:

  • Sessione 1: si spiega ai bambini e ai genitori la natura dell’ ansia e il collegamento fra pensieri ed emozioni; si fissano gli obiettivi specifici per il bambino e si stipula il «contratto» simbolico con la famiglia;
  • Sessione 2: si introduce il «pensiero da investigatore» (essere come un detective che cerca le prove dei pensieri negativi), uno dei cardini del programma, ossia il processo della ristrutturazione cognitiva, presentato in forma di metafora, sia ai figli che ai genitori;
  • Sessione 3: i bambini imparano l’importanza del rinforzo positivo (trovare autogratificazioni per l’impegno nell’affrontare l’ ansia, invece di rivolgersi all’esterno), mentre i genitori lavorano sulle strategie educative utilizzate per gestire l’ ansia del proprio figlio (non dare troppe rassicurazioni che rischiano di confermare la presenza di un pericolo);
  • Sessione 4: con l’esposizione graduale alle situazioni temute, i bambini affrontano le proprie paure e i genitori imparano a sostenerli, anche elaborando la propria paura di esporre i figli a situazioni ansiogene; in questo esercizio si utilizzano visivamente le «scalette» dell’ ansia, grazie alle quali il bambino impara a confrontarsi gradualmente con i propri timori, partendo dal meno intenso;
  • Sessioni 5 e 6: si consolida il lavoro con l’esposizione e si discutono le relative difficoltà;
  • Sessione 7: si discute sullo sviluppo delle abilità sociali e sui comportamenti assertivi;
  • Sessioni 8, 9 e 10: mantenimento dei progressi e consolidamento di quanto appreso.

Il programma Cool Kids è adatto per bambini dai 7 ai 16 anni. Vari sono i suoi punti di forza: il primo è il coinvolgimento «obbligatorio» dei genitori, in quanto studi appositi (Dadds et al., 1992) hanno verificato che detto coinvolgimento accresce l’efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali praticati ai bambini. Altro elemento distintivo è la traduzione dei concetti di psicoterapia dell’adulto in formati adatti ai giovanissimi. I concetti della ristrutturazione cognitiva per combattere i pensieri ansiosi, dell’esposizione alle situazioni temute, della gestione delle prepotenze subite, dell’assertività, sono insegnati sia ai bambini che agli adulti, in modo che tutta la famiglia possa cooperare agli stessi obiettivi con i medesimi strumenti.

A fine trattamento i bambini dovrebbero essere in grado di gestire meglio la loro ansia e affrontare situazioni in precedenza temute con poco o nessun evitamento, indipendentemente dai genitori o dal terapeuta.

I risultati sono decisamente confortanti. Le evidenze statistiche indicano che più dell’80% dei bambini trattati con il programma Cool Kids non rientrano più nei criteri diagnostici dei disturbi d’ ansia o denotano sensibili miglioramenti. Si è verificato che i risultati si mantengono fino ai sei anni successivi al trattamento e si dimostrano costanti anche per bambini con alti livelli di comorbilità oppure provenienti da situazioni di svantaggio socio-culturale. (Lyneham, Abbot, Wignall & Rapee, 2014).

Il lavoro che voi e il vostro bambino avete completato nel corso degli ultimi mesi ha portato, ci auguriamo, ad alcuni grandi cambiamenti nella vita di vostro figlio. Qualsiasi risultato abbiate raggiunto, l’impegno che avete messo merita un grande festeggiamento. Organizzate una festa, una cena speciale o festeggiate l’Ansia Day e date all’ ansia un regalo d’addio. Qualunque cosa facciate, assicuratevi che il bambino si renda conto di quanto siete orgogliosi di lui.

Sono queste le battute finali del Manuale del Genitore, da cui si coglie tutta la tensione partecipativa che innerva il programma, basato sul protagonismo e sull’addestramento di quanti vivono il problema dell’ ansia sulla propria pelle.

Il trattamento dell’ ansia in ambiente scolastico

Il trattamento dell’ ansia infantile è stato tradizionalmente il dominio di centri specializzati, cliniche e psicologi privati. Studi relativamente recenti hanno tuttavia identificato la scuola come un ambiente assai favorevole sia per prevenire sia per trattare i disturbi d’ ansia nei bambini (Fisher et al., 2004; Mifsud & Rapee, 2005; Shortt et al., 2001).

Benché la scuola debba far fronte a molte richieste extracurriculari, vi sono diversi vantaggi nel fornire interventi per la salute mentale attraverso l’ambiente scolastico. I programmi di trattamento collocati nelle scuole aggirano molte barriere: trasporti, costo dei servizi, stigma sociale; il personale scolastico è in posizione privilegiata per il monitoraggio dei bambini, soprattutto di quelli a rischio, e per i conseguenti interventi preventivi e precoci prima dello sviluppo della disfunzione principale (Armbruster, 2002). Le scuole rappresentano situazioni di vita reale che sfidano le ansie del bambino, diversamente dall’ambiente protetto di una clinica tradizionale (Chavira, Stein, Bailey & Stein, 2004). In effetti, la maggior parte dei bambini che fruiscono di un trattamento, lo ricevono dai servizi scolastici (Bums, et al., 1995; Farmer, Stangl, Bums, Costello & Angold, 1999; Hoagwood & Erwin, 1997).

Le scuole possono dunque svolgere un ruolo prezioso nel trattamento e nella prevenzione dell’ ansia. Ciò implica un impegno significativo di risorse umane e finanziarie, che si trovano in continua competizione con altre esigenze, ma che possono tuttavia essere adeguatamente compensate dallo spessore dei benefici sociali derivanti da una efficace prevenzione dell’ ansia nell’infanzia, nell’adolescenza e nell’età adulta (McLoone, Hudson, and Rapee, 2006).

Per quanto riguarda il programma Cool Kids, fino ad oggi è stato sperimentato anche nell’ambiente scolastico per piccoli gruppi di bambini segnalati per disturbi d’ ansia o come soggetti a rischio di sviluppare tali disturbi in futuro. Benché si sia a lungo discusso sulle difficoltà di implementare e valutare i programmi per il benessere psicologico nel contesto scolastico, (Waxman et al.,1999; Rones & Hoagwood, 2000; Evans, 1999) 
il programma Cool Kids è stato valutato nell’ambiente scolastico all’interno di una popolazione di basso livello socio-economico, evidenziando significative riduzioni dei sintomi ansiosi e dei problemi connessi al rapporto figlio-insegnante-genitore (McLoone, Hudson, and Rapee, 2006).

Recentemente, vista l’efficacia del programma Cool Kids su individui con sintomi ansiosi, in ambito sia clinico che scolastico, un gruppo italiano di professionisti ne ha messo a punto una versione adattata ad un utilizzo generalizzato nella scuola, da proporre in via preventiva rispetto a possibili difficoltà ansiose del bambino e come attività di educazione emotiva. Saper gestire le emozioni non è infatti utile soltanto per normalizzare le situazioni ansiogene; serve anche a migliorare sensibilmente le capacità relazionali, di rendimento nello studio e in attività affini.

La scuola, come ambito privilegiato di apprendimento e di crescita personale (Schaffer, 1998), può quindi qualificare la propria missione educativa, valorizzando in modo specifico la dimensione emotivo-relazionale dei bambini. Anzi, lo deve fare, considerando che è compito della scuola aiutare gli alunni a rispondere sia alle sfide connesse all’apprendimento, sia a quelle legate alla gestione del proprio comportamento e alla costruzione delle relazioni con i pari, promuovendo lo sviluppo di abilità di tipo emotivo e sociale (Marini & Menesini, 2012). Ciò indipendentemente dalla presenza di disturbi cognitivi o di situazioni patologiche: si tratta quindi di un ruolo che la scuola è chiamata ad assolvere nei confronti di tutti gli alunni.

Creare nell’intera classe esperienze di apprendimento attraverso le quali l’alunno acquisisce consapevolezza dei propri stati emotivi e dei meccanismi cognitivi che li influenzano, è utile per applicare tali conoscenze nelle situazioni e nelle difficoltà della vita di ogni giorno.

L’utilizzo del programma Cool Kids non soltanto come trattamento terapeutico, ma anche come piattaforma educativa, consente di realizzare i seguenti obiettivi: favorire l’accettazione di sé e degli altri; saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo; favorire lo sviluppo di atteggiamenti positivi verso gli altri; saper individuare i propri modi di pensare abituali; imparare il rapporto tra pensieri ed emozioni; coltivare le emozioni positive; favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del proprio comportamento; saper affrontare le paure e gli stati d’ ansia; prevenire problematiche di condotta e aggressività, come il bullismo; migliorare le relazioni interpersonali all’interno della classe. Riguardo tale sforzo formativo, l’affermazione di Lucia Cucciolotti (2015) ne rappresenta la sintesi perfetta e l’auspicio ideale:

Pensare bene è strettamente collegato con agire bene e la speranza è che questa educazione alle emozioni possa diventare una pratica e uno stile di vita per i bambini, aiutandoli ad affrontare le situazioni quotidiane in maniera più serena, impedendo alle emozioni spiacevoli di prendere il sopravvento.

INTO BDSM: viaggio nel mondo del sesso estremo

Perché il BDSM viene visto come sfumatura erotico-sessuale mentre il sadismo e masochismo, le cui pratiche sono le stesse, vengono considerati delle parafilie?

Luca Daminato e Greta Riboli

 

INTO BDSM è un articolo che nasce con l’obiettivo di informare i lettori circa le pratiche BDSM, illustrando i ruoli, i principi, le pratiche e la cultura BDSM. Guidando una riflessione sulle motivazioni che portano a intendere il BDSM come una sfumatura erotico-sessuale dell’esperienza umana e perché, dal lato opposto, pratiche quali il sadismo e il masochismo vengono invece classificate come parafilie.

Innanzitutto, l’acronimo BDSM raccoglie una serie di significati precisi:

  • B di Bondage: dall’inglese “legame”, espressione dell’accettazione del farsi fare dall’altro tutto ciò che egli desidera. I legami possono rappresentare i più concreti aspetti di tipo fisico, ma anche, e soprattutto, quelli emotivi ed affettivi;
  • D di Domination e Disciplina: la prima si riferisce al piacere di lasciarsi guidare nelle proprie esperienze, emozioni e sensazioni dalla volontà del partner. Disciplina va a rappresentare il fatto che colui che domina nell’atto sessuale impone delle regole al sottomesso;
  • S di Sadismo: dove il gioco tra partner è caratterizzato dalla sperimentazione di una fisicità in cui il piacere è dettato dall’imposizione di sensazioni ed emozioni estreme, nel pieno rispetto dell’altro. La lettera S comprende anche Sottomissione e Schiavitù: nella prima, un partner lascia che ogni azione e ogni sensazione siano guidate dall’altro; nella seconda si sperimenta ciò che si può considerare come un “regalo”: donare sé stessi al partner;
  • M di Masochismo: si riferisce alle persone che hanno imparato a sperimentare attraverso la propria sensorialità, e all’interno di una situazione erotica, quegli intensi stimoli provocati da una sensazione di dolore, apprezzandoli positivamente (Quattrini, 2015).

Va precisato che il BDSM è un gioco, una sfumatura dell’esperienza erotico-sessuale. I comportamenti sessuali sono perlopiù simulazioni, giochi appunto, con ruoli e regole molto precisi.

Tra Dominanti, Sottomessi e Switch

Nelle pratiche BDSM i ruoli vengono assegnati prima che la pratica sessuale abbia inizio, attraverso un “contratto” tra le due parti. I ruoli complementari sono quelli del Dominante (Dom) e sottomesso (sub). Nel BDSM non è detto che una persona si identifichi unicamente nel ruolo di Dom piuttosto che nel ruolo di sub, qualcuno è versatile e interessato a giocare nelle vesti di entrambi i ruoli, in alternanza (Mollaioli & Martini, 2017).

Il Dominante rappresenta la parte attiva del rapporto, da cui deriva ogni azione e situazione creata volta al soddisfacimento sessuale proprio. Questo ruolo permette alla persona che lo ricopre di impartire ordini, decidere meccanismi e cerimoniali, condannare il sottomesso a punizioni e umiliazioni, e scegliere accessori e vestiti per i cerimoniali, simbolo dell’elemento fetish strettamente correlato alla tematica BDSM. Esistono inoltre diverse definizioni del Dominante, come Top, Mistress/Mister, Padrona/Padrone, rigorosamente scritti con la prima lettera maiuscola (nel caso di incontri online) per distinguersi dai sottomessi.

Il sottomesso ha un ruolo passivo, in quanto obbedisce a ordini e direttive del Dominante, senza mai improntare azioni di sua iniziativa. La parte sottomessa ha l’obiettivo di obbedire e provocare il maggior piacere possibile al partner. In questo caso, le definizioni del sottomesso sono slave, schiav* o bottom, scritti in minuscolo, o addirittura tra parentesi, al fine di indicare il proprio ruolo passivo nelle pratiche BDSM.

Un aspetto da non minimizzare è quello della flessibilità delle parti, dove chiunque può scegliere il proprio ruolo, cambiando eventualmente tra sub e Dom nel corso del tempo, o a seconda del partner. All’interno della comunità BDSM, queste persone vengono definite switch.

SSC E RACK, le regole del gioco del sesso estremo: l’importanza del consenso

La pratica del BDSM è caratterizzata da un profondo rispetto tra i partner. Le regole definite all’interno delle pratiche del BDSM allontanano gli individui dai possibili pericoli, descrivendo alcuni fondamenti basati sul rispetto, sull’educazione, sull’equilibrio, sul piacere e sul divertimento (Pitagora, 2013).

Il rispetto e la consensualità sono quindi aspetti fondamentali nelle pratiche BDSM, e a conferma di questo illustreremo i due principi base di tali pratiche: SSC e RACK.

L’acronimo SSC rappresenta i concetti di Sano, Sicuro e Consensuale.

Per Sano si intende evitare ogni tipo di danno fisico o psicologico al partner. A tal proposito è di particolare importanza avere una conoscenza della fisiologia di base, ma soprattutto un approccio al gioco erotico estremo e sicuro. Per questo motivo colui che si approccia al mondo BDSM dovrebbe avere l’accortezza di farsi “iniziare” da chi già conosce e pratica BDSM in quanto un’improvvisazione potrebbe risultare altamente rischioso per il partner sottomesso.

Evitare e prevenire ogni fattore di rischio tramite la conoscenza di sé e del partner, ed avere chiari l’ambiente e il contesto di gioco, gli strumenti e le tecniche del gioco stesso stanno alla base del concetto di Sicuro. Termine che viene associato anche alla capacità di affrontare le emergenze e soprattutto alla capacità di esercitare un autocontrollo.

L’ultimo concetto, Consensuale, ha a che fare con la conoscenza dei desideri, dei limiti personali e del partner.

Molto esemplificativa è la negoziazione dei limiti, cioè il dichiarare con massima sincerità e trasparenza ciò che è concesso o meno mettere in pratica. Come Ayzad (2014) fa notare, la negoziazione dei limiti non va a beneficiare solo il sub, il sottomesso, in quanto più esposti ad eventuali rischi psicofisici ma va a beneficiare anche il Dom, dominante, i quali hanno tutto il diritto di rifiutarsi di eseguire pratiche che in quel momento non desiderano attuare.

Un altro concetto molto importante è quello della safeword, la “parola di sicurezza”. È un segnale che viene deciso preliminarmente dai partner e rappresenta la possibilità di interrompere la pratica immediatamente. Solitamente viene scelta una parola semplice da ricordare e che non si può dire per sbaglio. Nel caso in cui qualche pratica BDSM includa l’impossibilità di parlare viene scelto, di comune accordo, un segnale, un gesto che faccia le veci delle parole.

Tra i partner vige la regola “hurt, not harm”: infliggi sofferenza, non danni. Ancora una volta possiamo ricordare come una sessualità estrema necessiti di regole, grande rispetto ed intelligenza.

Nella vita reale, però, i fatti non seguono sempre il principio SSC.

Ed ecco che entra in scena il secondo principio, RACK, acronimo di Risk-Aware Consensual Kink viene tradotto da Ayzard (2014) come “giochino erotico con rischi di cui si è informati”. Principio che va quasi in opposizione al SSC, in quanto le esperienze stesse del BDSM possono indurre dolore e reale sofferenza alle persone. La safeword, ad esempio, riveste minore importanza a favore del buonsenso e della complicità. Dom e sub sanno entrambi di volere esplorare una certa situazione in cui le sensazioni che ne deriveranno permetteranno loro di raggiungere il più alto livello di complicità, grazie ad una mutua collaborazione.

Rimane da sottolineare che SSC e RACK non sono tra loro scollegate o vicendevolmente escludenti, bensì sono entrambi pilastri fondanti una coscienza dell’erotismo estremo.

BDSM, Sadismo e Masochismo

Se il BDSM viene visto come sfumatura erotico-sessuale, non è lo stesso per il sadismo e il masochismo. Sono simili, e a volte si fa fatica a riconoscerne le differenze, dato che hanno la maggior parte delle pratiche in comune. Quello che più differenzia il BDSM dal sadismo e masochismo lo possiamo ritrovare nelle definizioni di parafilia e disturbo parafilico (Wright, 2010).

Come descrive il DSM 5 (APA, 2013) il termine parafilia denota qualsiasi intenso e persistente interesse diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti.

Nel momento in cui la parafilia viene vissuta con disagio, e capace di arrecare danni a se stesso e/o agli altri, siamo in presenza di un disturbo parafilico (Shindel & Moser, 2011).

Nei set dei criteri diagnostici per ciascuno dei disturbi parafilici, il Criterio A specifica la natura qualitativa della parafilia ed il Criterio B, invece, precisa le conseguenze negative della parafilia, cioè disagio, compromissione o danno ad altri (Lauro, 2018).

Al fine di comprendere a pieno ciò di cui stiamo parlando risulta utile illustra e brevemente il sadismo e il masochismo: nel sadismo, la persona prova piacere nell’infliggere dolore, umiliare, ferire a livello psicofisico. Nel masochismo, invece, la persona prova piacere nel subire tutto ciò.

Il BDSM è un gioco, una sfumatura dell’esperienza erotico-sessuale. I comportamenti sessuali sono perlopiù simulazioni, giochi appunto, con ruoli e regole molto precisi. Il sadismo e il masochismo sono invece orientati verso l’atto reale e non simulato. In modo particolare, nella “versione beta” dell’ICD-11 (2018) il disturbo da sadismo sessuale è caratterizzato da un’intensa eccitazione sessuale, manifestata con persistenti pensieri, fantasie, impulsi o comportamenti sessuali che prevedono l’infliggere sofferenza fisico-psicologica a un altro individuo, che non è disposto a impegnarsi, ossia che non può acconsentire a tale attività.

Nel sadismo, il divertimento lascia spazio ad un oggettivo e reale desiderio di fare del male, che in un secondo momento può esprimere un malessere generalizzato nello stesso individuo sadico (Quattrini, 2015).

Se torniamo ai principi del BDSM (lo SSC in particolare), il disturbo da sadismo e quello da masochismo sessuale trovano uno scavalcamento di tali principi togliendo la dimensione del consenso, del sano e del sicuro.

Perché il BDSM non è considerato una parafilia?

Ci si sta a poco a poco avvicinando a quella che può essere la risposta alla nostra domanda di partenza: perché il BDSM viene visto come sfumatura erotico-sessuale mentre il sadismo e masochismo, le cui pratiche sono le stesse, vengono visti come un qualcosa di patologico?

Le stesse azioni non si modificano, quello che cambia è lo stato emotivo (Quattrini, 2015).

Questa citazione risulta particolarmente utile per arrivare alle nostre conclusioni. Come abbiamo visto BDSM, sadismo e masochismo attuano pratiche molto simili, a volte difficilmente discriminabili.

Ciò che cambia tra queste parti è il vissuto della persona.

Il BDSM, ad esempio, rappresenta un insieme di comportamenti erotico-sessuali collocabili nell’area intermedia: quella dimensione trasgressivo-parafilica del continuum normativo-trasgressivo/parafilia/disturbo parafilico-sex offender. Più lo stato emotivo e caratteristiche della personalità si fanno devianti più ci avviciniamo sempre di più al polo del sex offender.

Il continuum normativo-trasgressivo/ parafilia/ disturbo parafilico – sex offender

Questo continuum, come descrive Fabrizio Quattrini in “ parafilie e devianza” (2015), serve per meglio definire la parola devianza

che non viene intesa necessariamente come espressione sociologica di uno scostamento dalla “normalità”, ma come “fissazione psichica e convinzione narcisistica di un pensiero che rigidamente propizia comportamenti violenti, discriminatori, spesso umiliatori come il bullismo e l’omo-transfobia (Quattrini, 2015).

Diamo quindi uno sguardo veloce al continuum normativo-sex offender:

  • il primo passaggio naturale è la trasgressione che rappresenta l’abbattimento del tabù della sessualità, e l’apertura erotica alla fantasia
  • il secondo passaggio è quello delle parafilie 
  • il terzo passaggio è rappresentato dal disturbo parafilico
  • il quarto passaggio è rappresentato dagli atti tipici dei sex offender, ovvero individui che, utilizzando alcuni comportamenti tipici di parafilie e disturbi parafilici, arrecano danno ad altri per via sessuale

In conclusione

Sperimentare è un ottimo modo di conoscere il mondo, poterlo tollerare e creare una società informata. Concludiamo così questo viaggio informativo INTO BDSM con una citazione di Quattrini, l’autore che ha guidato il nostro excursus:

Una cultura fatta di rispetto e attenzioni per l’altro diverso da sé. Una cultura dove ogni individuo possa permettersi di sperimentare le proprie emozioni svincolandosi dal pregiudizio e dal rischio di rimanere incischiato nello stereotipo della normalità.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Quando mamma o papà hanno qualcosa che non va – Recensione in anteprima del libro

Cosa vuol dire per un bambino o adolescente avere uno o entrambi i genitori affetti da un disturbo mentale? Quali sono i suoi vissuti e le sue emozioni? Come possono trovare espressione? A chi ci si può rivolgere in caso di bisogno?

Il libro di Stefania Buoni, fondatrice e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale “Children of Mentally Ill parents”, cerca di fornire una risposta a questi quesiti. Si rivolge direttamente ai piccoli caregiver, a chi, pur essendo figlio, si trova ad essere genitore dei propri genitori.

Quando mamma e papà hanno qualcosa che non va: a chi si rivolge

I dati che si possiedono sui giovani caregiver ci dicono che ci sono tanti bambini e ragazzi che si trovano a dover affrontare da soli la patologia del proprio genitore, a doversi occupare di faccende quotidiane e domestiche o dei fratelli più piccoli dimenticandosi o dovendo accantonare i propri sogni e desideri di bambini. Il silenzio, la solitudine e l’isolamento è ciò che spesso caratterizza queste famiglie per il timore dello stigma sulla malattia mentale, per vergogna e tutto questo comporta una sofferenza ancora maggiore.

Il libro intitolato Quando mamma o papà hanno qualcosa che non va vuole essere una sorta di guida per questi ragazzi alla sopravvivenza, alla comprensione del proprio dolore, alla condivisione. È un modo per dare voce ed esplorare quei vissuti che spesso vengono soppressi, non compresi e non accolti da nessuno perché a volte la malattia del genitore è indicibile o il genitore stesso rifiuta le cure e non accetta l’aiuto.

La prevenzione e l’informazione sono gli obiettivi primari del libro e dell’associazione, per superare alcuni tabù e imparare a chiedere aiuto quando necessario.

Quando mamma e papà hanno qualcosa che non va: un valido aiuto per bambini e ragazzi

Il libro si apre con alcuni estratti di storie di giovani caregiver in cui è possibile riconoscersi e rispecchiarsi. Segue una descrizione sintetica sui principali disturbi mentali per fornire informazioni su ciò che accade ai genitori e favorire una maggiore comprensione dei loro sintomi più acuti. Subito dopo largo spazio viene dedicato alle emozioni di questi bambini o ragazzi per favorire una esplorazione di sé e una riscoperta dei propri bisogni da bambino; la paura, la vergogna, la rabbia, il senso di colpa, la tristezza, il senso di responsabilità e la sensazione di isolamento sono solo alcune delle emozioni che spesso vivono i giovani caregiver. E questo può portare a sentirsi sfiduciati, senza punti di riferimento, non amati o non compresi. Molti di questi vissuti emotivi possono comportare delle difficoltà anche in età adulta, nelle relazioni con gli altri ed è opportuno spesso esplicitarli, rielaborarli affinché non compromettano anche la propria vita futura.

Nel capitolo successivo viene prestata attenzione, invece, alle qualità e alle caratteristiche positive che possono sviluppare i giovani caregiver con genitori affetti da un disturbo mentale. Tali esperienze, se da un lato possono compromettere la propria serenità nel presente e nel futuro, dall’altro possono diventare motivo di resilienza e di sviluppo di punti di forza e qualità.

Vengono successivamente forniti consigli, i numeri di emergenza da contattare in caso di necessità e una descrizione dei principali servizi sul territorio ai quali ci si può rivolgere per ricevere assistenza e ascolto. E a proposito di resilienza molti di questi ragazzi entrano a far parte di associazioni di promozione sociale o di gruppi di auto mutuo aiuto online, allo scopo di fornirsi supporto a vicenda e di dare voce a vissuti che altrimenti rischiano di restare sepolti e inespressi.

Un libro davvero utile, semplice, profondo, che si rivolge direttamente a questi giovani caregiver per non lasciarli soli, per dare supporto e consigli, per favorire un’informazione e una espressione di emozioni contrastanti, che spesso non trovano spazio.

E’ possibile ricevere una copia del libro con un contributo alla campagna di crowdfunding su Buona Causa

I rischi del far carriera: manager e benessere

Nel diventare manager ci sono alcuni vantaggi come una retribuzione più alta, maggiore autonomia, mobilità professionale e quant’altro, ma anche degli svantaggi come l’avere un maggior carico di lavoro e meno tempo a disposizione per completarlo.

 

Alcuni ricercatori dell’Università di Portland e dell’Università di Zurigo hanno definito il passaggio di carriera da dipendente a manager, inteso come un passaggio di ruolo interpersonale in relazione ai propri colleghi, come un’arma a doppio taglio. In particolare, i ricercatori hanno individuato la capacità di distaccarsi mentalmente dal lavoro nelle ore non lavorative come un fattore che può contribuire a mantenere un migliore livello di benessere soggettivo.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto un campione di oltre 2.000 individui, ai quali è stato chiesto di rispondere a dei questionari circa la soddisfazione lavorativa e la gestione del tempo oltre l’orario lavorativo; le risposte ottenute sono poi state confrontate prima e dopo il passaggio di carriera dei soggetti ad un ruolo manageriale.

Si è così potuto individuare che nel passaggio di ruolo da dipendente a manager si hanno in effetti dei guadagni in termini economici e di autonomia, grazie anche ad una maggior partecipazione alle scelte aziendali, ma allo stesso tempo si assiste ad un aumento della pressione e del carico di stress dovuto al fatto che si ha meno tempo a disposizione per portare a termine il proprio lavoro. Tutto questo può causare maggiori difficoltà nella gestione del proprio tempo libero, aumentando la probabilità di burnout e facendo crescere il livello di conflittualità tra lavoro e famiglia. I dati non stupiscono, sono in linea con quanto la letteratura scientifica ci racconta su questo tema; già in passato è stato dimostrato che la capacità di mantenere separata la dimensione lavorativa dal proprio tempo libero ha un effetto diretto sullo stato di benessere, riducendo il rischio di burnout e innalzando la soddisfazione generale dell’individuo.

Secondo gli autori dello studio, l’aumento della responsabilità derivante da un nuovo ruolo porta con sé un aumento della soddisfazione lavorativa, ma d’altra parte comporta un carico lavorativo maggiore, livelli più alti di conflitto nella gestione del lavoro e della famiglia e anche un più alto rischio di stress cronico e burnout.

In conclusione si potrebbe raccomandare alle aziende non solo di ristrutturare il lavoro dei dirigenti per ridurre le pressioni lavorative, ma anche incoraggiare ed incorporare strategie adatte a una migliore gestione del distacco tra lavoro e vita privata come parte della formazione manageriale. Tutto questo non avrà soltanto un effetto sul benessere dei lavoratori ma anche sui profitti dell’azienda poiché le assenze per malattia o la sostituzione del personale sono molto costosi non solo in termini monetari ma anche in termini di cultura e clima aziendale.

Lo sviluppo del pregiudizio verso gli immigrati tra gli adolescenti: analisi di alcuni fattori sociali

Recenti studi suggeriscono che l’ambiente familiare, il gruppo dei pari, le amicizie tra gruppi di etnia diversa influenzino in diversa maniera il pregiudizio verso gli immigrati tra gli adolescenti.

Antonella Sanzò – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

L’ambiente familiare influisce sulla costituzione di credenze e atteggiamenti verso gli immigrati sia nell’infanzia che nella prima adolescenza, mentre il gruppo dei pari ha un’influenza prevalentemente nella prima adolescenza. Tuttavia, gli effetti dell’ambiente possono essere moderati nei casi in cui gli adolescenti entrano in contatto con ragazzi di diversa etnia in quanto esperienze di questo tipo possono generare un maggior grado di empatia nei ragazzi verso gruppi etnici differenti da quello di appartenenza.

Verso una nuova società multi-etnica, ma non senza problemi..

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un incremento della presenza di stranieri nel nostro Paese. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2017 gli stranieri regolari in Italia sono stati circa 5,4 milioni.

Il contatto con persone di diversa etnia potrebbe essere una fonte di arricchimento culturale e scambio, tuttavia l’integrazione non è un processo così semplice ed immediato. Spesso lo straniero è percepito come un pericolo da fronteggiare, genera emozioni di paura in quanto rappresenta qualcosa di ignoto che potrebbe minacciare la sicurezza personale, l’identità culturale di una nazione o la stabilità economica: ciò che non si conosce è spaventoso in quanto percepito come imprevedibile ed incontrollabile.

Le fonti di informazione spesso incrementano notevolmente questa visione negativa degli immigrati, alimentando una visione generalizzata di essi, visti come un gruppo indefinito, senza considerare le differenze tra i singoli individui. Allport (1976) definisce il pregiudizio etnico come un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile che può essere sentito internamente o espresso e può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo.

I pregiudizi verso gli stranieri: l’influenza dell’ambiente familiare e sociale in infanzia e adolescenza

L’ambiente familiare e sociale può influire notevolmente nello sviluppo di forme di pregiudizio verso gli stranieri. In particolare durante l’adolescenza, fase dello sviluppo in cui i giovani formano le loro identità anche sulla base di categorie sociali come etnia e nazionalità (Tajfel & Turner 1986) e sviluppano idee sugli altri, si è particolarmente sensibili ai messaggi dati all’interno della rete dei pari.

Sebbene l’adolescenza sia un periodo cruciale per lo sviluppo degli atteggiamenti intergruppi (Erikson, 1968), le ricerche si sono prevalentemente focalizzate sullo studio di bambini. Tali studi mostrano come molto prima che i bambini siano in grado di identificarsi in relazione a un gruppo sociale, nel loro primo anno di vita mostrano le prime capacità di discriminazione sociale, come una preferenza più chiara per i volti della loro stessa etnia (Kelly et al., 2007), per adulti che parlano la loro stessa lingua e per i giocattoli selezionati da qualcuno che parla la propria lingua (Kinzler et al., 2007). È possibile sostenere che una preferenza per la propria etnia emerge chiaramente nei bambini di 3 o 4 anni (Aboud, 1988; Augoustinos & Rosewarne, 2001; Bigler & Liben, 2006; Aboud, 2008; Gaither et al., 2014) e sembra raggiungere il suo picco intorno ai 7-8 anni per diminuire gradualmente.

Tuttavia, alcuni fattori possono influenzare il naturale declino di tale forma di pregiudizio nei bambini, in primis l’ambiente familiare e il rapporto con i pari. Una serie di ricerche confermano una forte somiglianza tra atteggiamenti razziali dei genitori e dei loro figli (Dhont & Van Hiel, 2012; Dhont et al., 2013; Meeusen, 2014), mentre altri studi trovano solo una corrispondenza limitata (Hello et al., 2004; Vittrup & Holden, 2011).

La ricerca sulla costituzione dei pregiudizi etnici e razziali negli adolescenti si è concentrata sullo studio dell’influenza che i genitori ed il gruppo dei pari hanno nella generazione di tali pregiudizi. In particolare, la forza della trasmissione intergenerazionale del pregiudizio si è dimostrata moderata dalla qualità della relazione, cioè migliore è la relazione tra genitore e figlio e più forte è l’influenza dei genitori nel favorire il pregiudizio da parte dei figli (Miklikowska, 2016).

Per quanto riguarda gli effetti dei coetanei, i risultati degli studi trasversali sono stati contraddittori: mentre uno studio riporta somiglianza tra i coetanei adolescenti nello sviluppo del pregiudizio etnico (Kiesner, Maas, Cadinu & Vellese, 2003), un altro studio non ha mostrato alcuna relazione tra i pregiudizi razziali nel gruppo dei pari negli adolescenti (Ritchey & Fishbein, 2001).

Il gruppo dei pari può costituire un fattore protettivo rispetto allo sviluppo di pregiudizi etnici in adolescenza?

Uno studio condotto in Svezia (Miklikowska, 2017) su adolescenti con un’età media di 13 anni ha indagato in che misura gli atteggiamenti dei genitori, dei pari e le amicizie tra gruppi di adolescenti di etnia diversa influenzerebbero gli atteggiamenti verso gli immigrati da parte degli adolescenti. Inoltre, si è cercato di comprendere se l’empatia possa avere un ruolo di mediatore o moderatore sugli effetti degli atteggiamenti dei genitori, dei pari e delle amicizie intergruppi.

Nell’indagine, i ricercatori si aspettavano di rilevare che sia genitori, sia il gruppo dei pari, sia le amicizie tra gruppi di etnia differente avrebbero predetto cambiamenti negli atteggiamenti dei giovani e che l’ambiente familiare avrebbe avuto un’influenza maggiore.

I risultati hanno mostrato in effetti che l’ambiente familiare, il gruppo dei pari, le amicizie tra gruppi di etnia diversa predicono cambiamenti negli atteggiamenti degli adolescenti: i giovani con genitori e pari più prevenuti e che non hanno amici di etnia differente mostravano un maggior pregiudizio verso gli immigrati. L’ambiente familiare inoltre sembrava influire sugli atteggiamenti dei giovani sia nell’infanzia che nella prima adolescenza, mentre gli effetti dei pari e delle amicizie inter-gruppo erano limitati alla prima adolescenza.

Gli adolescenti con amici immigrati, inoltre, erano meno influenzati dall’atteggiamento negativo dei genitori verso gli stranieri rispetto ai compagni che non avevano amici di questo tipo. I pregiudizi dei genitori e dei pari sembrerebbe abbiano dunque un’influenza sul livello di empatia degli adolescenti nel caso in cui questi ultimi non hanno amici immigrati, mentre l’influenza dei genitori e del gruppo dei pari è minore quando i giovani hanno amici immigrati.

Pertanto, gli effetti positivi delle amicizie tra gruppi di persone di etnia differente potrebbero controbilanciare gli effetti negativi dei contesti pregiudizievoli.

Il fatto che le amicizie tra ragazzi di etnia diversa contrasti il pregiudizio dei genitori incoraggia l’uso del contatto inter-gruppo nei programmi rivolti ai giovani, in particolare nei casi in cui l’ambiente familiare è poco aperto verso individui con diversa nazionalità. Questo studio mostra dunque che l’atteggiamento di pregiudizio dei genitori potrebbe non essere influente per la formazione da parte dei figli di legami di amicizia con ragazzi di etnia diversa.

Tali risultati sono inoltre in linea con le precedenti ricerche sugli effetti delle amicizie inter-gruppo e sui pregiudizi dei genitori e dei pari (Degner e Dalege, 2013; Miklikowska, 2016) in cui sono stati riscontrati risultati simili.

Dallo studio descritto emerge anche che gli adolescenti tra i 14 e i 18 anni potrebbero essere meno suscettibili agli effetti delle amicizie con ragazzi di etnia diversa o ai pregiudizi rispetto ai ragazzi che sono nella prima fase dell’adolescenza. Ciò sarebbe in linea con la ricerca, che mostra una crescente resistenza alle influenze del gruppo dei pari tra i 14 ei 18 anni (Steinberg & Monahan, 2007).

Oltre agli effetti dei genitori, dei pari e delle amicizie intergruppi, questo studio ha posto l’attenzione sugli effetti del background socioeconomico. Sia il livello di educazione dei genitori che il reddito predicevano gli atteggiamenti che gli adolescenti mostravano verso gli immigrati. I giovani con genitori più poveri e con un livello di istruzione inferiore avevano maggiori pregiudizi, al contrario dei giovani con genitori più istruiti e con un reddito più elevato. Questi risultati sono in linea con ricerche precedenti che mostrano che individui con istruzione e reddito inferiori esprimono atteggiamenti meno favorevoli nei confronti degli immigrati (Hainmueller & Hiscox, 2007; Meeusen & Kern, 2016).

Tali risultati sono stati spiegati alla luce delle differenze nella percezione della minaccia: gli individui di basso status economico temevano in misura maggiore gli effetti economici della concorrenza sul mercato del lavoro che, in caso di aumento dell’immigrazione, potrebbe colpire principalmente gli operai (Meeusen & Kern, 2016). Al contrario, gli individui più istruiti percepiscono in misura minore gli immigrati come una minaccia, piuttosto vedono il fenomeno migratorio come un vantaggio per l’economia del paese ospitante e valorizzazione della diversità culturale (Hainmueller & Hiscox, 2007).

Il contesto scolastico

Da alcuni studi emerge che anche l’ambiente scolastico svolge un ruolo importante nello sviluppo negli adolescenti di un atteggiamento di pregiudizio verso ragazzi stranieri.

Gli adolescenti immigrati hanno spesso meno potere numerico o sociale e mancano di sostegno rispetto ai loro pari nativi nei contesti scolastici.

Numerosi studi condotti su culture diverse hanno dimostrato che i giovani nativi tendono a non fare amicizia con i compagni di origini straniera (Özdemir et al., 2017; Strohmeier & Spiel 2003) e che i giovani immigrati sono esposti a trattamenti negativi a scuola. Ad esempio, Plenty e Jonsson (2017) hanno riferito che i giovani immigrati in Svezia, specialmente quelli provenienti da paesi non europei, avevano maggiori probabilità di essere isolati e rifiutati socialmente. Inoltre, uno studio nei Paesi Bassi ha rilevato che circa il 42% dei bambini appartenenti a minoranze etniche riferisce di essere vittima di atteggiamenti razzisti a scuola e che circa il 30% vive l’esperienza di esclusione etnica (Verkuyten & Thijs 2002).

A lungo termine, tali esperienze negative possono influire sul modo in cui i bambini e i giovani immigrati si integrano nella società che li accoglie nel corso del loro sviluppo.

Da alcuni studi sembra che gli adolescenti hanno maggiori probabilità di manifestare comportamenti coercitivi nei confronti dei loro coetanei immigrati se si trovano in un contesto sociale in cui la maggioranza di essi ha atteggiamenti negativi verso ragazzi appartenenti ad altre culture.

Titzmann e colleghi (2015) hanno riscontrato in uno studio che gli adolescenti con un’età media di 15 anni avevano più probabilità di fare amicizia con gli immigrati e mantenere le loro amicizie nel tempo quando i loro coetanei hanno atteggiamenti favorevoli nei confronti delle relazioni inter-etniche. Allo stesso modo, un recente studio condotto negli Stati Uniti ha rilevato che adolescenti che hanno un’età media di 11 anni si sentivano più a loro agio e interessati a formare amicizie con bambini di diversa etnia se percepivano che tali relazioni sarebbero state accettate nei loro gruppi di pari (Tropp et al., 2016). Plenty e Jonsson, nel loro studio, (2017) hanno mostrato che i giovani immigrati di età compresa tra i 14 e i 15 anni che frequentavano classi con bassa densità di immigrati avevano più probabilità di essere respinti e isolati rispetto ai ragazzi che frequentavano classi con una percentuale maggiore di immigrati. Inoltre, Agirdag e colleghi (2011) hanno riscontrato che i giovani immigrati che frequentano scuole con una maggiore concentrazione di minoranze etniche subivano una minore vittimizzazione tra pari rispetto a quelli che frequentano scuole con un numero minore di immigrati.

Contrariamente a questi studi, uno studio condotto in Svezia (Özdemir & Stattin, 2017) ha rilevato che i giovani svedesi con atteggiamenti negativi nei confronti dei loro coetanei stranieri avevano maggiori comportamenti aggressivi all’aumentare della diversità etnica nelle classi. La presenza di una percentuale più alta di studenti immigrati in classe può essere percepita dagli adolescenti come una minaccia al loro status dominante. Quindi, essi potrebbero essere più inclini a mettere in atto atteggiamenti pregiudizievoli verso i loro coetanei immigrati per mantenere il loro dominio sociale o ridurre la minaccia percepita.

Essere in una rete sociale in cui vi è un’alta prevalenza di credenze pregiudizievoli verso gli immigrati è un importante fattore di rischio per il coinvolgimento degli adolescenti in comportamenti aggressivi verso compagni appartenenti a minoranze etniche. I compagni di classe possono costituire un importante gruppo di riferimento e gli adolescenti possono percepire i pari immigrati dalla prospettiva dei loro compagni di classe in quanto potrebbero adottare i loro atteggiamenti e le loro convinzioni nel formare le proprie opinioni personali.

I giovani che hanno atteggiamenti negativi nei confronti degli immigrati o che frequentano amici che hanno pregiudizi verso questi ultimi sono più propensi a essere coinvolti in comportamenti aggressivi nei loro confronti. Özdemir e colleghi (2016) hanno sostenuto che in particolare i ragazzi con tratti impulsivi possono avere difficoltà a regolare i loro pensieri e stati emotivi negativi nei confronti degli immigrati e reagire con aggressività senza valutare gli effetti delle loro azioni sui loro pari immigrati. (Özdemir, S., Özdemir, M., Stattin, 2016).

La creazione di classi eterogenee fornisce agli studenti maggiori opportunità di interazioni tra gruppi di etnia diversa, ma non può essere di per sé sufficiente a promuovere relazioni inter-etniche positive.

In uno studio condotto da Özdemir e Stattin (2014) è stato rivelato che l’essere vittima di pregiudizi etnici ha conseguenze sul benessere psicologico dei ragazzi stranieri, i quali mostrano una maggiore percezione negativa di sè, ansia elevata e sintomi depressivi.

Inoltre, i ragazzi vittime di pregiudizi etnici hanno spesso una basso rendimento scolastico, un’alta aspettativa di insuccesso a scuola e percepiscono le loro relazioni con gli insegnanti come negative. In aggiunta, essi hanno tassi più alti di assenze ingiustificate (Özdemir & Stattin 2014).

Un recente studio sui giovani immigrati in Svezia ha mostrato che l’essere vittima di pregiudizi etnici potrebbe innescare un maggior coinvolgimento in comportamenti violenti (Özdemir et al. 2017).

Lo sviluppo dell’identità nei giovani immigrati: il peso dei pregiudizi

La fase adolescenziale, periodo dello sviluppo in cui il gruppo dei pari rappresenta un punto di riferimento importante per la costituzione della propria identità e per la condivisione di valori comuni, rappresenta una fase ancor più critica per i giovani provenienti da famiglie immigrate, in quanto i ragazzi crescono tra due diverse culture e sistemi di valori differenti: da una parte quelli della cultura di appartenenza dei genitori, dall’altra quelli del paese in cui sono ospitati.

L’essere vittima di pregiudizio e discriminazione rende ancor più complesso il processo di integrazione e la definizione di una propria identità.

Alcuni studi condotti in Italia su adolescenti immigrati hanno confermato queste difficoltà (Mancini & Davolo, 2001): da una parte emergeva un bisogno dei ragazzi stranieri di confrontarsi con valori ed interessi dei coetanei autoctoni, dall’altra tali valori non sempre erano facilmente integrabili con quelli della cultura di provenienza, creando disagio e confusione in particolare nei ragazzi appartenenti a famiglie più radicate nella loro cultura di appartenenza.

In conclusione

Questi studi suggeriscono che la promozione delle relazioni tra ragazzi di diversa etnia richiede non solo la presenza di classi miste nelle scuole, ma anche la promozione da parte degli adulti di riferimento di opinioni positive verso gli stranieri.

Un ruolo significativo sembrano avere i contatti con persone dell’outgroup, alla luce della teoria dei contatti tra gruppi (Allport, 1976; Pettigrew & Tropp, 2006): il contatto positivo e le amicizie con i membri dell’outgroup portano ad un aumento dell’empatia, alla riduzione dell’ansia e, infine, alla riduzione degli atteggiamenti intergruppi negativi (Pettigrew & Tropp, 2006). Diverse ricerche hanno riscontrato che il contatto intergruppo positivo è inversamente correlato al pregiudizio (Pettigrew & Tropp, 2006).

Da quanto esposto, si ritiene necessario strutturare dei programmi di intervento che abbiano come scopo quello di ridurre le credenze negative degli adolescenti sugli immigrati e che abbiano come destinatari non soltanto questi ultimi, ma anche i loro genitori, al fine di incrementare una maggiore conoscenza e comprensione delle differenze culturali. Si potrebbe scoprire in tal modo anche eventuali punti in comune tra culture diverse.

In questa direzione, gli interventi che coinvolgono i bambini e ragazzi insieme al loro adulto significativo (Pirchio et al., 2017) potrebbero dare risultati positivi. In particolare, il contatto e la conoscenza delle abitudini e delle caratteristiche culturali delle persone appartenenti ad etnia diversa consentirebbero di disconfermare le credenze negative sugli stranieri ed evitare sentimenti di minaccia e incoerenza nei ragazzi che si troverebbero ad apprendere atteggiamenti e valori in contrasto con gli atteggiamenti espliciti o impliciti dei genitori.

Luigi e Antonio Di Maio: tra i non detti e le illusioni perdute

La confessione del padre di Di Maio su youtube non è solo una malinconica riproposizione “social” dei riti di pubblica proclamazione dei peccati già avvenuti nella storia in varie religioni e sette politiche. Vi è anche un tratto più arcaico ed edipico: un padre che si condanna pubblicamente dopo essere stato giudicato dal figlio, un parricidio fondato non sul sangue ma sulla colpa e sulla confessione

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 07 dicembre 2018

 

La confessione del padre di Di Maio su youtube non è solo una malinconica riproposizione “social” dei riti di pubblica proclamazione dei peccati già avvenuti nella storia in varie religioni e sette politiche, dagli autodafé dell’Inquisizione cattolica alle autocritiche pubbliche della Rivoluzione culturale, dalle autoflagellazioni rituali dei musulmani sciiti ai processi protestanti alle streghe di Salem fino alle purghe staliniane.Vi è anche un tratto più arcaico ed edipico: un padre che si condanna pubblicamente dopo essere stato giudicato dal figlio, un parricidio fondato non sul sangue come avvenne al crocicchio di Mega sulla strada tra Tebe, Dauli e Delfi ma sulla colpa e sulla confessione. Stramba o forse inevitabile conversione dell’antica e sanguinaria rivalità pagana tra padri e figli in un rituale moderno, in parte cristiano ma non solo: le guardie rosse erano cinesi e atee. Anch’esse spesso e volentieri costrinsero a pubbliche confessioni i propri padri, talvolta biologici oppure culturali, i professori delle università o altri della precedente generazione, quelli che avevano effettuato la lunga marcia insieme a Mao. Mao usò quei figli per abbattere i suoi antichi compagni di viaggio, un altro vecchio vate più comico ma in fondo altrettanto tragico sta usando il giovane Di Maio per far cadere il vecchio Di Maio.

Non è solo un problema di colpa che ottunde la politica italiana. Nella psicologia della rivalità entrano anche altre emozioni, come l’odio e l’invidia. Così la pensava Melanie Klein. Si tratta sempre di difficoltà di relazione con l’altro, di accettarne i limiti e di comprenderne le motivazioni. Tra il padre Antonio e il figlio Luigi sembrano correre molti non detti che si sono svelati durante questa cerimonia pubblica. Antonio che scagiona il figlio Luigi e teme di averne perso la stima: “i miei figli non c’entrano nulla con tutto questo. Ho nascosto i miei errori per un motivo banale (…): avevo paura di perdere la loro stima”. La voce è stretta e incrinata da un inizio di pianto e la chiusa è malinconica: “Cosa che forse è accaduta comunque”.

La risposta del figlio non è spietata. È a sua volta intristita e piena d’illusioni perdute: “ho conosciuto cose di mio padre che non conoscevo e mi aiuterà nel rapporto con lui.” Povero figlio di un povero padre. Forse entrambi sono oppressi da un contrappasso pieno di pena e vergogna, forse entrambi si sono offerti in passato al quotidiano passatempo del dubitare dell’onestà dei politici, condimento di ogni conversazione oziosa tra amici al bar e, purtroppo, anche di troppe conversazioni tra padri e figli. Conversazioni che vorrebbero essere educative ma non sempre riescono. Il padre forse vuole insegnare al figlio alcuni valori, trasmettergli una visione del mondo, un’integrità. Non sempre ci si riesce. Talvolta ci si lascia andare a una complicità un po’ misera, un banale lamento condiviso sulle solite cose, le mezze stagioni che più non ci sono, la politica che è sempre purtroppo corrotta e il buon tempo passato quando si viveva meglio. Si può essere nostalgici di Mao o di qualche altro dittatore che inizia per M, si finisce sempre per farla troppo facile, per illudere i figli che basti poco per essere “onesti”. Onestà, onestà, onestà. Bastasse la parola per purgarsi il mondo sarebbe più facile, come nella cara vecchia pubblicità in bianco e nero del Carosello, altro buon tempo perduto. Chi la ricorda?

Eppure lo stesso Antonio lo dice: “essere un piccolo imprenditore non è facile, soprattutto quando le commesse non vengono pagate”. Eh, vecchio problema. Il padre aveva qualche lavoratore in nero e se ne vergognava col figlio. E non gli diceva nulla. E il figlio presumibilmente stimava questo padre irreprensibile. Però forse in tal modo questo padre nulla diceva a questo figlio delle difficoltà di gestione dell’azienda, nulla dei compromessi morali ma anche degli ostacoli più o meno oggettivi che egli, il padre, doveva affrontare da piccolo imprenditore qual era. E così il figlio cresceva in una bolla protetta, effimera protezione dai torsoli e dal sangue della realtà disonesta. Meglio forse sarebbe stato essere più cauti e più audaci, gettare questi figli nelle onde ammutinate del fiume della vita?

Non si sa, lasciamo da parte la famiglia Di Maio della cui intimità nulla sappiamo. Riflettiamo semmai su di noi e sui nostri figli, quei pochi che abbiamo al giorno d’oggi. Eh, una volta si facevano più figli, caro amico. I figli. Siamo sinceri con loro? Diciamo le cose come stanno? Ci asteniamo dal cercare con loro futili consolazioni lamentandoci su come va male il mondo? Queste conversazioni banali riserviamole agli amici del bar, con i quali in fondo intratteniamo rapporti abbastanza superficiali. Con i figli e con le figlie (ci sono anche loro!) parliamo semmai in maniera mai troppo complice, più attenti a mostrare il volto difficile della realtà e non quello consolatorio nel quale noi genitori siamo i buoni e gli onesti. Altrimenti un brutto giorno saremo forse costretti a una pubblica confessione delle nostre vergogne, al termine della quale sentiremo il triste commento della progenie afflitta e delusa: “ho conosciuto cose di mio padre che non conoscevo e mi aiuterà nel rapporto con lui”. Abituale mezzo anacoluto colloquiale di Luigi Di Maio che però stavolta non suona goffo e di incerte concordanze come al solito, ma stringe il cuore.

 

LE CONFESSIONI DI ANTONIO DI MAIO – IL VIDEO:

La correlazione tra infezioni contratte durante l’infanzia e il rischio di insorgenza di disturbi psicopatologici

Corpo e mente sono in stretta connessione tra loro. È ciò che suggerisce anche un recente studio che ha indagato la relazione esistente tra infezioni durante l’infanzia e insorgenza di disturbi mentali nel corso dello sviluppo.

 

Diversi studi hanno mostrato l’esistenza di un’associazione tra le infezioni contratte dalle madri durante la gravidanza e un aumento dei rischi di schizofrenia e disturbo dello spettro autistico nella prole. Sulla base di queste premesse, un recente studio, condotto da iPSYCH e pubblicato su JAMA Psychiatry, mostra come anche le infezioni contratte dai bambini durante la loro infanzia potrebbero essere collegate ad un aumento del rischio di sviluppare disturbi mentali durante l’infanzia e l’adolescenza. Lo studio in particolare ha evidenziato l’importante ruolo giocato dal sistema immunitario nello sviluppo dei disturbi mentali e questo conferma, ulteriormente, quanto la salute mentale e quella fisica siano profondamente collegate.

Lo studio, condotto in Danimarca, si è basato sull’analisi dei dati raccolti in riferimento a bambini nati tra gennaio 1995 e giugno 2012, per un campione di oltre 1.098.930 individui, di cui il 51,3% maschi.

I ricercatori hanno esaminato tutte le infezioni contratte dalla nascita e il rischio successivo di sviluppare un disturbo mentale durante l’infanzia e l’adolescenza.

Lo studio

Secondo Ole Köhler-Forsberg, autore dello studio e ricercatore presso la Aarhus University e l’ospedale universitario di Aarhus, i soggetti che hanno avuto esperienze di ricoveri ospedalieri a seguito di infezioni avrebbero una più alta probabilità e un rischio maggiore di sviluppare un disturbo mentale durante l’infanzia e l’adolescenza, anche nel caso di infezioni meno gravi.

Dallo studio è emerso che i bambini che erano stati ospedalizzati a causa di gravi infezioni mostravano negli anni successivi una probabilità dell’84% di poter soffrire di un disturbo mentale e del 42% di poter assumere farmaci per il trattamento di disturbi mentali.

Le correlazioni temporali tra infezioni e diagnosi di disturbo mentale sono risultate statisticamente significative, dando solidità all’ipotesi che il rischio d’insorgenza di un disturbo mentale sia più alto se, nel corso dell’infanzia, sono state vissute esperienze di ospedalizzazioni a causa di un’infenzione; il rischio associato era di 5.66 volte maggiore nei primi 3 mesi dopo essere stati ospedalizzati a causa di un’infezione, ed era di 2 volte maggiore entro il primo anno dopo l’ospedalizzazione.

Per concludere

Secondo gli autori, sembra quindi che le infezioni e la reazione infiammatoria conseguente possano contribuire ad aumentare il rischio di sviluppare disturbi mentali.

Tuttavia è fondamentale ricordare la multifattorialità nell’eziopatogenesi dei disturbi mentali: sono molteplici, infatti, i fattori di rischio e di protezione che entrano in gioco nell’insorgenza dei disturbi psicopatologici. È lecito quindi considerare anche il peso che tali fattori abbiano in termini di variabili confondenti in tale correlazione.

In ogni caso, grazie a questo studio, si è posta maggiore attenzione al ruolo delle infezioni e al sistema immunitario nei disturbi mentali dell’infanzia e dell’adolescenza.

Attenzione allo stress serale – La risposta del cortisolo alle situazioni stressanti che viviamo a fine giornata

Condizioni di stress cronico possono causare un’alterazione del ciclo cortisolo-melatonina impedendo una corretta diminuzione dei livelli di cortisolo nel sangue, l’ormone prodotto dal nostro organismo per far fronte allo stress, e rendendo quindi meno efficaci le nostre risposte alle situazioni stressanti.

 

Ognuno di noi è sottoposto più o meno quotidianamente a qualche situazione che può essere considerata causa di stress ed è proprio in risposta a questo tipo di situazioni che il nostro organismo reagisce mettendo in circolo un ormone chiamato cortisolo, che ci aiuta a reagire in maniera più efficace e veloce agli stimoli stressanti. Tale ormone ha un ciclo opposto rispetto alla melatonina, un ormone implicato nella regolazione del ciclo sonno-veglia, che viene rilasciato nel momento in cui il livello di cortisolo si abbassa; dunque, quando il cortisolo si alza la melatonina si abbassa e viceversa. È importante sottolineare, inoltre, come i livelli di cortisolo inizino naturalmente ad abbassarsi al calare della luce solare.

Essere costantemente esposti a stimoli stressanti (e trovarsi quindi in una situazione di stress cronico) va pertanto ad inficiare il ciclo cortisolo-melatonina, impedendo una corretta diminuzione dei livelli di cortisolo nel sangue e portando numerosi problemi di salute o aggravando quelli già esistenti.

La reazione dell’organismo allo stress cambia nei diversi momenti del giorno: lo studio dell’Università di Hokkaido

Livelli di cortisolo normali aiutano a rispondere a stimoli stressanti aumentando, ad esempio, la frequenza del battito cardiaco. Ma cosa succede se il nostro corpo ha già cominciato a produrre melatonina e quindi a diminuire i livelli di cortisolo presenti nel nostro organismo? Secondo un recente studio dell’Università di Hokkaido in Giappone (Yamanaka, Motoshima & Uchida, 2018) bisogna fare attenzione agli stimoli causa di stress a cui siamo sottoposti nelle ore serali in quanto il nostro corpo sembrerebbe essere meno predisposto a produrre cortisolo per prepararci ad affrontare lo stimolo stressante.

Per misurare come varia la risposta del nostro corpo allo stress rispetto alla produzione interna di cortisolo, gli studiosi giapponesi hanno reclutato un campione costituito da 27 soggetti, selezionati sulla base dell’attività lavorativa svolta (che prevedeva un orario lavorativo tradizionale) e che non presentavano disturbi del sonno. I soggetti sono stati poi suddivisi in due gruppi: un gruppo ha partecipato all’esperimento ideato dagli studiosi al mattino (Gruppo 1), mentre l’altro gruppo alla sera (Gruppo 2).

La condizione sperimentale ideata dagli studiosi dell’Università di Hokkaido, prevedeva di ricreare una condizione causa di stress richiedendo a ciascun partecipante di fare una presentazione di fronte a tre persone esperte e a una videocamera. Una volta finita la presentazione ai partecipanti sono stati prelevati dei campioni di saliva per misurare il livello di cortisolo. I partecipanti del Gruppo 1, ovvero quelli che avevano partecipato all’esperimento al mattino, mostravano livelli di cortisolo più alti, che li avrebbero aiutati a rispondere meglio alla sfida. Al contrario quelli del Gruppo 2, avendo svolto il test alla sera quando i livelli di cortisolo hanno già cominciato ad abbassarsi, hanno mostrato un tasso di cortisolo minore e una risposta alla situazione stressante meno efficace rispetto ai soggetti del Gruppo 1.

Secondo gli autori, sulla base dei risultati ottenuti è possibile affermare che è necessario fare molta attenzione agli stimoli stressanti ai quali potremmo essere sottoposti nelle ore serali in quanto il nostro organismo sarebbe meno preparato e reattivo per far fronte al meglio a condizioni causa di stress.

Feeding disorders o Eating disorders? I disturbi alimentari durante l’infanzia

I disturbi alimentari sono una classe diagnostica che, forse più di ogni altra classe presente nei manuali diagnostici (DSM e ICD), comprende una serie di disordini caratterizzati da un’eziologia multifattoriale. 

Martina Tramontano e Veronica Aggio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

In tali disturbi, i comportamenti alimentari sono caratterizzati da un alterato consumo od assorbimento di cibo, tale da compromettere la salute fisica e/o il funzionamento psicosociale della persona.

Tra i più noti e documentati, l’anoressia nervosa e la bulimia riguardano rispettivamente lo 0.2-0.8% e l’1-5% della popolazione italiana.

I disturbi alimentari hanno un forte impatto non solo sulla persona che ne soffre, ma anche sula famiglia nella quale la persona vive. Inoltre, difficilmente si arriva ad un completo recupero della persona (generalmente, permane una sintomatologia di stampo ansioso-ossessivo) ed i tempi di recupero sono comunque molto lunghi, attestati fra i 57 e i 79 mesi.

I disturbi alimentari durante l’infanzia

I disturbi alimentari hanno generalmente un esordio in età adolescenziale, ma negli ultimi anni si è data sempre più importanza agli esordi precoci, durante l’infanzia e la prima adolescenza, sia rispetto ai disturbi alimentari poi diagnosticati in età adulta, sia rispetto ai disturbi della nutrizione specifici di quell’età.

L’attenzione per i disturbi alimentari infantili come sottogruppo specifico d’interesse si è concretamente affermata solo negli ultimi due decenni, quando le manifestazioni infantili dei disturbi dell’alimentazione cominciarono ad essere considerate come categoria a sé stante rispetto a quelle adulte.

La diagnosi di disturbi alimentari infantili, i cui sintomi possono manifestarsi in diversi stadi dell’infanzia e della prima infanzia, dovrebbe essere presa in considerazione quando un bambino mostra difficoltà significative a seguire regimi di alimentazione regolari, cioè quando la sua alimentazione non è regolata in accordo con le sensazioni fisiologiche di fame o sazietà. Poiché un infante non è in grado da solo di provvedere al suo fabbisogno alimentare, ma un normale consumo nutrizionale dipende dall’integrazione riuscita tra una serie di funzioni fisiche e relazioni interpersonali con il caregiver durante lo sviluppo iniziale, l’interruzione in una o più di queste aree può portare ad un problema di alimentazione.

Feeding disorders oppure Eating disorders?

A questo proposito Bryant-Waugh e Piepenstock (2008) propongono di riferirsi ai disturbi alimentari nell’infanzia come a “feeding disorders”, ossia disturbi della nutrizione, piuttosto che “eating disorders”, cioè disordini dell’alimentazione, laddove la prima definizione inserisce i termini del disturbo in una cornice relazionale, mentre la seconda denoterebbe una dimensione individuale.

Secondo gli autori, infatti, la denominazione di “eating disorders” andrebbe riservata unicamente a soggetti che, per il loro livello evolutivo, dovrebbero essere in grado di autoregolare le proprie scelte alimentari.

Disturbi dell’alimentazione durante l’infanzia e successive problematiche

Studi epidemiologici registrano un’incidenza piuttosto elevata di questa tipologia di problematiche durante l’infanzia: approssimativamente il 25-45% dei bambini adeguatamente sviluppati e fino all’80% dei bambini con ritardo mentale o psicomotorio riportano difficoltà nella sfera alimentare.

Molti autori hanno evidenziato una correlazione tra l’insorgenza infantile dei disturbi dell’alimentazione e successive difficoltà in età più avanzata. A tale proposito, Marchi e Cohen (1990) sottolineano la correlazione tra alimentazione selettiva nella prima infanzia e anoressia nervosa in adolescenza, mentre pica e difficoltà connesse ai pasti costituirebbero significativi fattori di rischio per lo sviluppo della bulimia nervosa. Sulla stessa linea Kloter et al. (2001) associano comportamenti di rifiuto o avversione verso il cibo con lo sviluppo di disordini alimentari in età adulta. Inoltre, secondo Chatoor (2009) i disturbi alimentari con insorgenza infantile sono connessi anche a deficit nello sviluppo cognitivo, a problemi comportamentali e di ansia, oltre che a disturbi alimentari di varia natura in età più avanzate. Infine Whelan e Coopers, hanno dimostrato che le madri di bambini con problemi di alimentazione avevano un tasso marcatamente aumentato di disturbi alimentari attuali e pregressi.

Sulla base di tali evidenze risulta fondamentale, per prevenire i disturbi dell’alimentazione nelle prime fasi della vita, che operatori pediatrici e medici in generale divengano consapevoli dei bambini a rischio e prestino attenzione non solo a quei bambini che “cadono dalla curva di crescita” ma anche a quelli con genitori affetti da disturbi alimentari o quelli i cui genitori mostrano una persistente difficoltà a dar loro da mangiare.

Problemi diagnostici e di classificazione

Attualmente il panorama relativo alla classificazione dei disturbi alimentari nell’infanzia appare piuttosto confuso e in uno stato di continua ridefinizione. L’affidabilità dell’incidenza e dei tassi di prevalenza risulta compromessa dalla variabilità delle definizioni utilizzate per configurare tale disturbo; infatti vi sono poche indicazioni basate sull’evidenza che consentono di definire ciò che costituisce una difficoltà alimentare clinicamente significativa e che permettono di distinguerla dai problemi di alimentazione transitori che si risolvono senza nessun aiuto clinico e psicologico.

Ad oggi, esiste un corpus molto limitato di ricerche basate sui dati che tenta di esaminare la prognosi, il decorso, l’esito e la risposta al trattamento nei disturbi dell’alimentazione usando un sistema diagnostico o di classificazione formale e ampiamente accettato. Le origini di tale assetto possono essere rintracciate in una serie di fattori. Innanzitutto, siccome il bambino è un soggetto in continua evoluzione è difficile distinguere tra una difficoltà evolutiva transitoria ed un vero e proprio disturbo che richieda un intervento specifico. In secondo luogo, la varietà e la complessità dei problemi alimentari nei bambini ha indubbiamente contribuito alla continua mancanza di un sistema di classificazione ampiamente accettato e utilizzato da medici di diverse discipline che lavorano in questo campo.

Infine mancano strumenti standardizzati adeguati per la valutazione dei disordini alimentari nell’infanzia, nonché la descrizione dettagliata e la valutazione di interventi specifici per tipologie chiaramente identificate.

I principali disturbi alimentari nell’infanzia

Fra i disturbi maggiormente diagnosticati durante l’infanzia, troviamo la pica, inerente l’ingestione continuativa di sostanze non nutritive, e il disturbo da ruminazione, caratterizzato dal rigurgito del cibo.

Per quanto riguarda invece gli altri disturbi alimentari, caratteristici dell’età adolescenziale e adulta, vediamo che l’anoressia nervosa è riscontrabile fin dai 7 anni di età. Le caratteristiche cliniche e diagnostiche sono simili a quelle mostrate dai pazienti adulti, ma con delle differenze sostanziali relative all’impatto che hanno sullo sviluppo della persona. Infatti, le complicanze a livello organico possono essere disastrose, con degli effetti irreversibili sullo sviluppo fisico. A livello psicologico, invece, le differenze possono riguardare la difficoltà proprio dei bambini di esprimere, in parole, i propri pensieri e le proprie emozioni: un bambino che mostra dei comportamenti alimentari propri di una persona anoressica, come l’esercizio fisico dopo i pasti, l’evitamento di determinati cibi ad alto contenuto calorico, ma anche condotte espulsive come il vomito auto-indotto.

È difficile stimare la prevalenza di tali disturbi nella popolazione generale perché la maggior parte degli studi e delle osservazioni cliniche si è concentrata nel periodo di esordio maggiormente frequente (circa 15 anni), ma dai dati rilevati dai medici di base, è possibile stimare un’incidenza dell’anoressia nervosa fra i bambini di 0.3 ogni 100.000 casi in bambini fra 0 e 9 anni, e di 17.5 su 100.000 in bambini fra i 10 e i 19 anni. La proporzione fra maschi con esordio di anoressia nervosa durante l’infanzia è maggiore rispetto a quella negli adolescenti, probabilmente per via degli effetti genere-specifici caratteristici della pubertà.

La classificazione proposta dal DSM 5

All’interno del marasma appena descritto, per orientarci nell’universo nosografico, ai fini di questo articolo facciamo riferimento alla classificazione presente nel DSM 5.

A causa dell’eliminazione del capitolo “Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza e nell’adolescenza” le categorie diagnostiche che riguardano soprattutto i disturbi della nutrizione dell’infanzia vengono inserite all’interno del capitolo generale sui disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Esse sono: pica, disturbo da ruminazione e disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. Di seguito li descriviamo sinteticamente:

  • La caratteristica essenziale della pica è l’ingestione di una o più sostanze non nutritive e non alimentari per un periodo di almeno un mese. Le sostanze tipicamente ingerite variano in base all’età e alla disponibilità e possono includere carta, sapone, capelli. Tipicamente non c’è avversione nei confronti del cibo in generale.
  • Il disturbo di ruminazione richiede il rigurgito di cibo, che può essere rimasticato, deglutito nuovamente o sputato, per almeno un mese; il rigurgito non deve essere attribuibile a una condizione gastrointestinale associata o ad altra condizione medica, e non deve manifestarsi durante il decorso di altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione.
  • Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo sostituisce ed estende la diagnosi DSM-IV di disturbo della nutrizione dell’infanzia. La maggiore categoria diagnostica di questo disturbo è l’evitamento o la restrizione dell’assunzione di cibo per tre motivi principali: 1) apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo; 2) evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo; 3) preoccupazioni per le conseguenze avversive del mangiare. Non è presente la preoccupazione per il peso e la forma del corpo e non deve manifestarsi durante il decorso dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa. Infine, il disturbo non deve dipendere da una mancanza nella disponibilità di cibo o a un’altra malattia medica o mentale.

Molti autori hanno criticato tale sistema di classificazione perchè non riesce a comprendere l’intera gamma delle difficoltà di alimentazione e pone un’enfasi eccessiva sul fatto che il problema sia solo del bambino, non riuscendo a cogliere gli importanti elementi contestuali in cui egli vive.

Secondo Davies e colleghi, infatti, anche se fattori infantili come il temperamento, le condizioni organiche, le anomalie strutturali e i problemi e le sindromi dello sviluppo sono stati collegati alla patogenesi dei disturbi alimentari infantili, l’ambiente e i fattori genitoriali possono anche interagire per influenzare e mantenere tali problematiche. La ricerca che si è concentrata sulle influenze materne e del caregiver ha riscontrato che le madri di bambini con disturbi alimentari tendono ad essere più imprevedibili, coercitive, controllanti, insensibili, intrusive e eccessivamente stimolanti; tendono ad essere meno flessibili e affettuose; hanno maggiori probabilità di usare punizioni fisiche o l’alimentazione forzata; presentano difficoltà nel cogliere i segnali del bambino; infine mostrano più rabbia e ostilità durante l’interazione con i loro figli. Gli studi clinici condotti su bambini con disturbi alimentari hanno mostrato alti livelli di depressione materna, ansia, disturbi alimentari, umore e disturbi della personalità. Quindi, piuttosto che concentrarsi sul bambino o sulla figura genitoriale, Davies e colleghi suggeriscono di definire il disturbo alimentare come un disturbo relazionale.

A sostegno di questo concetto, è stato dimostrato che le caratteristiche del bambino e del suo caregiver interagiscono in molti modi sullo sviluppo e sul mantenimento del disturbo: il comportamento eccessivamente rigido dei genitori in relazione alla crescita e al tipo di alimentazione del bambino, il mancato riconoscimento degli indizi di fame e sazietà, il comportamento caotico dei genitori, l’incapacità di esporre il bambino a una gamma di alimenti, l’incapacità di fornirgli un contesto alimentare appropriato, sono tutti fattori che influenzano lo sviluppo di non adeguati modelli di alimentazione.

Per concludere

In sintesi, i disturbi alimentari infantili dovrebbero essere compresi all’interno di un contesto più ampio che tiene conto delle caratteristiche sia dei bambini che dei genitori, piuttosto che concentrarsi esclusivamente sui fattori caratteristici dell’infante. Questo perché lo sviluppo e il mantenimento delle difficoltà sono associati all’interazione complessa di fattori che si innescano nella relazione tra bambino e caregiver.

Tali considerazioni hanno ovvie implicazioni circa la valutazione e il trattamento: essi per avere migliori risultati, oltre alla messa in campo di un team multidisciplinare di professionisti, devono riguardare il contesto familiare.

L’ansia e le neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

L’amigdala rappresenta l’epicentro degli eventi coinvolti nella modulazione degli stati d’ ansia, ed è implicata nella risposta emozionale, cognitiva, autonomica ed endocrina allo stress.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ ansia e la paura sono due emozioni molto simili, per questo sono codificate a livello cerebrale dalle stesse aree e le informazioni da esse derivanti sono trasmesse attraverso gli stessi fascicoli. Ricordiamo, però, che l’ ansia è una emozione soggettiva, che si manifesta quando si ha una percezione di pericolo rispetto a qualcosa che non è oggettivamente pericoloso; mentre la paura è una emozione primaria verificatasi come reazione a una minaccia specifica o a un oggetto realmente pericoloso. L’ ansia, inoltre, può essere fisiologica, se si manifesta in seguito al verificarsi di situazioni negative e consente la messa in atto di comportamenti adattativi, o patologica se sbilanciata rispetto allo stimolo esterno considerato pericoloso.

L’ ansia, dunque, è codificata attraverso complessi meccanismi e diversi circuiti cerebrali. Quindi, quando si percepisce un pericolo esterno, gli organi di senso registrano uno stato di allerta che si traduce in un input nervoso volto ad attivare un’area della corteccia, da cui scaturiscono una serie di reazioni fisiologiche e comportamentali.

Sono state identificate diverse zone implicate nella modulazione dell’ ansia, tra cui le più importanti sono: il talamo, l’amigdala, una via afferente, che implica la processazione dello stimolo da parte della corteccia e le vie efferenti del circuito ansia-paura, che innescano una risposta autonomica, che coinvolge il sistema simpatico e parasimpatico, che portano al minifestarsi di sintomi somatici quali l’aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, sudorazione, piloerezione, dilatazione pupillare, minzione frequente e sintomi gastrointestinali.

Le aree cerebrali

Il talamo, in primis, svolge una funzione di collegamento primaria tra i sistemi sensoriali e le aree sensoriali primarie della corteccia cerebrale, che proiettano lo stimolo alle aree adiacenti associative, per l’elaborazione integrata dello stimolo.

Le aree associative, dunque, inviano proiezioni a varie strutture cerebrali, come amigdala, corteccia entorinale, corteccia orbito-frontale e il giro del cingolo. Le afferenze viscerali non inviano input direttamente al talamo, ma attivano il locus coeruleus e l’amigdala attraverso diverse connessioni dirette o mediate dal nucleo para-gigantocellulare e dal nucleo del tratto solitario. Dunque, la maggior parte delle informazioni relative agli stimoli ansiogeni sono elaborate nella corteccia sensoriale e nelle aree associative, per essere trasferita alle strutture sottocorticali coinvolte nelle risposte affettive, comportamentali e somatiche.

L’amigdala, che riceve questo tipo di informazione sensoriale, è una sorta di archivio della memoria emotiva del cervello, ovvero raccolta di tutti i momenti di trionfo e di sconfitta, di speranza, di paura, di indignazione e frustrazione.

Nel momento in cui si sperimenta il pericolo, questa piccola ghiandola riesce a mettere il cervello in modalità auto protettiva, riducendo le risorse alla memoria e dirottandole in altre zone al fine di mantenere i sensi in uno stato di allerta, specificamente mirato alla sopravvivenza.

L’amigdala, quindi, acquisisce l’informazione di ansia che a sua volta è processata dal nucleo centrale, nucleo amigdaloideo laterale e da quello basale. Sono noti due circuiti: quello breve che riceve gli stimoli dal talamo sensoriale e li trasmette al nucleo amigdaloideo laterale che, a sua volta, li invia al nucleo centrale; Il circuito lungo, invece, invia i segnai da parte della corteccia sensoriale all’insula e alla corteccia prefrontale. Da tali aree, dunque, partono segnali che afferiscono al tronco cerebrale e all’ipotalamo, a cui consegue la risposta autonomica e comportamentale dell’ ansia.

L’amigdala rappresenta l’epicentro degli eventi coinvolti nella modulazione degli stati d’ ansia, ed è implicata nella risposta emozionale, cognitiva, autonomica ed endocrina allo stress.

Le interazioni tra l’amigdala e le altre regioni corticali e sottocorticali permettono la messa in atto di comportamenti come risposta di reazione al pericolo, dipendenti, inoltre, anche da variabili soggettive, quali il temperamento, le esperienze pregresse, il carattere, le emozioni, etc.

A questo punto, lo stimolo ansioso attiverà il lobo limbico e, di conseguenza, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene grazie al quale si attiva una cascata di eventi finalizzati all’incremento della risposta neurovegetativa, come l’aumento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della dilatazione bronchiale, sintomi viscerali, disturbi gastrointestinali e genito-urinari.

Infine, il sistema nervoso centrale influenza direttamente e indirettamente, attraverso complesse interazioni neuroendocrine e neurotrasmettitoriali, il sistema immunitario. Infatti, la modulazione della immunosorveglianza, in determinate condizioni di esposizione a ansia intensa e protratta nel tempo, potrebbe portare a una meiopragia d’organo o di sistema, fino alla comparsa di una malattia organica vera e propria.

Neurotrasmettitori e ansia

I neurotrasmettitori associati alla modulazione dell’ ansia sono diversi e di diversa natura. Iniziamo con il GABA, il cui rilascio nello spazio sinaptico impedisce all’impulso nervoso di propagarsi e giungere al neurone postsinaptico generando uno stato di insonnia, ipereccitazione e forti cefalee, sintomi tipici dell’ ansia. L’azione del GABA, dunque, è esattamente opposta all’azione dell’acido glutammico, che svolge la funzione di neurotrasmettitore eccitatorio. Quindi, è stato ipotizzato il coinvolgimento del glutammato nel controllo dell’ ansia poiché appare in una forte concentrazione nelle strutture cortico-limbiche implicate nell’elaborazione dei processi cognitivi sottesi dall’ ansia.

Inoltre, l’ ansia determina l’aumento della noradrenalina a livello del locus coeruleus (area di principale sintesi della stessa), dell’ipotalamo, dell’ippocampo, dell’amigdala e della corteccia cerebrale. La noradrenalina possiede proiezioni provenienti da ogni parte del cervello e arrivano fino al midollo spinale, e permettono di integrare informazioni provenienti da diverse aree cerebrali e da diverse parti del corpo, restituendo la migliore rielaborazione possibile. L’aumento di noradrenalina induce l’attivazione dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, determinando un aumento del battito cardiaco e di energia sotto forma di glucosio, che porta a un aumento del tono muscolare. In sostanza, il corpo è in uno stato di allerta ed è pronto alla fuga. Inoltre, un aumento della noradrenalina induce a uno scompenso del ciclo sonno-veglia e dei livelli di melatonina che in una persona ansiosa si traducono con perdite di ore di sonno.

Inoltre, il sistema serotoninergico e quello noradrenergico sono intimamente connessi tra loro e implicati in molti processi tra cui esercitare un controllo tonico inibitorio sui neuroni del locus coeruleus, meccanismo che potrebbe essere alla base del controllo dei sintomi ansiosi.

Le citochine, molecole note per la loro azione immunitaria, sembrano esercitare un effetto nella modulazione dell’attività neuronale in particolari aree cerebrali come l’amigdala, l’ippocampo, l’ipotalamo e la corteccia, potenziando l’attività delle vie monoaminergiche e del cortisolo, oltre ad interagire con i neuroni GABAergici. Le citochine sono reattive alle situazioni ansiose e per questo hanno un effetto eccitatorio sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, stimolando e facilitando lo sviluppo di una serie di vissuti fisiologici tipici dell’ ansia.

Fascicoli cerebrali

Nella fisiopatologia dei disturbi d’ ansia è stata da tempo ipotizzata l’esistenza di un circuito della paura, avente come centro l’amigdala, area centrale della regolazione delle risposte autonomiche e comportamentali legate alla paura. Questa via cerebrale svolge la funzione di attribuzione di significato emotivo a uno stimolo esterno e di sviluppo della memoria correlata ad una emozione.

La corteccia prefrontale mediale invia importanti informazioni all’amigdala, in grado di attenuare le risposte di ansia e paura e di estinguere le risposte emotigene derivate da uno stimolo, e avvisa l’amigdala quando la minaccia o il rischio sono terminati.
Inoltre, ricerche recenti hanno individuato un circuito neuronale che collega il setto laterale ad altre strutture cerebrali che influenzano in maniera diretta gli episodi ansiosi. Pare che anche un’attivazione breve e transitoria di questi neuroni è in grado di produrre uno stato di ansia per almeno mezz’ora.

Asse ipotalamo ipofisi surrene

L’asse ipotalamo-ipofi-surrene riveste un ruolo fondamentale nella risposta a gli stimoli ansiogeni. L’attività dell’asse ipotalamo-ipofi-surrene consiste nella secrezione dell’ormone corticotropina da parte nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo. La corticotropina, trasportata nell’ipofisi anteriore, induce il rilascio di ormone adrenocorticotropo, il quale stimola la corteccia surrenalica a rilasciare i glucocorticoidi. Nell’uomo il principale glucocorticoide è il cortisolo, che si lega ai recettori intracellulari per i glucocorticoidi inducendo al manifestarsi di diverse reazioni fisiologiche. Il cortisolo è implicato nella modulazione della funzioni cardiovascolari, la ritenzione dei liquidi, il metabolismo, il sistema immunitario e le funzioni cerebrali.

Il cortisolo svolge la funzione di sostegno dell’omeostasi dell’organismo di fronte alla minaccia, in quanto stimola la vie cataboliche, agendo sul metabolismo di proteine, di lipidi e di glucidi. Esso facilita la glicogenesi, attraverso la sintesi di enzimi epatici e regola, in parte, l’escrezione e la distribuzione dell’acqua corporea, aumentando, così, la disponibilità di energia, che a sua volta incrementa la pressione arteriosa per sostenere un eventuale sforzo fisico o una corsa. Quindi, per concludere, il cortisolo è responsabile di tutte le manifestazioni più tipiche dell’ ansia che portano a cambiamenti anche negli stati emotivi e cognitivi; infatti, la concentrazione e l’apprendimento sono rivolte unicamente alla situazione ansiogena tralasciando il resto e considerando quello che si sta vivendo come una situazione unica e sconvolgente.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Vincere le ossessioni (2018) di G. Melli: una guida per le persone che soffrono di DOC e per i loro familiari – Recensione del libro

Il testo Vincere le ossessioni di Gabriele Melli, è organizzato in tre parti: nella prima troviamo una spiegazione chiara delle caratteristiche del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), nella seconda viene presentato un programma di trattamento secondo i principi della terapia cognitivo-comportamentale e nell’ultima parte, infine, si offrono consigli pratici per familiari e amici, più un’appendice conclusiva per eventuali approfondimenti sul tema.

 

Vincere le ossessioni è un libro che spiega i meccanismi e le caratteristiche del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) fornendo un programma di auto-aiuto, o aiuto guidato da un terapeuta, secondo la teoria cognitivo-comportamentale ed è indirizzato a chi soffre di questo disturbo, ma anche ai loro familiari e ai professionisti della salute. L’obiettivo è infatti duplice: da una parte si vuole proporre un percorso di cura senza un sostegno professionale, soprattutto per i casi meno complessi, dall’altra si offre ai professionisti della salute delle efficaci strategie di trattamento.

Il volume è organizzato in tre parti: nella prima troviamo una spiegazione chiara delle caratteristiche del disturbo, nella seconda viene presentato un programma di trattamento secondo i principi della terapia cognitivo-comportamentale e nell’ultima parte, infine, si offrono consigli pratici per familiari e amici e un’appendice conclusiva per eventuali approfondimenti sul tema. Tutto ciò è opera di Gabriele Melli, psicologo psicoterapeuta, docente presso numerose scuole di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale nonché Presidente dell’Associazione Italiana Disturbo Ossessivo-Compulsivo (AIDOC): un nome una garanzia, insomma.

Conoscere il DOC

Nella prima parte del libro Vincere le ossessioni, l’autore ci spinge all’interno dei meccanismi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, dove scopriamo quali sono le diverse tipologie di DOC, la frequenza e le cause d’insorgenza. Una parte interessante riguarda quei disturbi che spesso sono confusi con il DOC, come la depressione o l’ipocondria, che spinge l’autore a fare una riflessione sull’importanza di distinguere il significato clinico del termine ossessione da quello meramente colloquiale, per evitare di sovrastimare le normali preoccupazioni che tutte le persone hanno e che nulla hanno a che fare con un disturbo così invasivo. Conoscere per saper riconoscere, insomma. La semplicità del linguaggio aiuta le persone a capire veramente la tematica, nonostante l’ampiezza dell’argomento; i concetti esposti sono precisi ed accessibili a chiunque sia interessato al tema o affronti il problema in prima persona.

In merito all’eziologia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo è bene sottolineare che non esiste una causa singola e scientificamente dimostrata alla base del DOC, ma che invece si tratta di una costellazione di cause di carattere psicologico e neurobiologico. Segue quindi una rassegna dei principali studi in quest’ambito: si parte dal ricordare le scoperte di Freud, che vede il disturbo come conseguenza del crollo delle difese ed espressione degli impulsi libidici di natura anale, fino ad arrivare alle prime teorie cognitiviste degli inizi del ‘900 (Salkovskis e Steketee) che interpretano il DOC in termini di particolari meccanismi di pensiero disfunzionali. Da ricordare anche il contributo delle teorie neuro-biologiche che tentano di spiegare l’insorgere del Disturbo Ossessivo-Compulsivo in termini di alterazioni funzionali di specifiche aree cerebrali, ma che non risultano utili ai fini di un efficace trattamento psicoterapeutico.

L’ultimo capitolo della prima parte del volume inizia ad entrare nel merito del trattamento che prevede spesso l’utilizzo combinato di psicofarmaci ed un percorso psicoterapeutico di stampo cognitivo-comportamentale, talvolta necessari per un miglioramento psicofisico nel lungo tempo. L’autore passa in rassegna i principali contributi farmacologici che risultano efficaci nel trattamento del DOC, dove spesso troviamo vincente l’associazione tra antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e neurolettici, soprattutto con pazienti con scarsa consapevolezza della malattia.

Psicoterapia cognitivo-comportamentale: di cosa si tratta?

Per chi ancora non la conoscesse, la psicoterapia cognitivo-comportamentale rappresenta una forma di trattamento psicologico molto diffuso e scientificamente fondato, che si basa su alcuni assunti fondamentali:

  • è orientata alla scopo: il paziente concorda con lo psicoterapeuta obiettivi specifici, che possono mutare con il proseguo della terapia;
  • è pratica: lo scopo del trattamento si basa sulla risoluzione di obiettivi concreti;
  • è centrata sul “qui ed ora”: la terapia cerca di attivare tutte le risorse della persona al fine di imparare nuove strategie di gestione dei problemi attuali, per aiutarlo a uscire dalle sue “trappole mentali”;
  • è attiva: paziente e terapeuta sono entrambi parte attiva nel processo terapeutico. Non mancano homework per il paziente al fine di mettere in pratica, fuori dal setting terapeutico, le strategie apprese;
  • è collaborativa: paziente e terapeuta lavorano insieme, perseguendo i medesimi scopi condivisi e discussi;
  • è a breve termine: la durata è variabile ma perlopiù breve. Spesso il trattamento risulta concluso nell’arco di sei-dodici mesi. Per disturbi più gravi, che richiedono una presa in carico più estesa, risulta vantaggioso l’uso di psicofarmaci e altre forme di trattamento.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è costituita da due approcci: quello cognitivo e quello comportamentale. La psicoterapia comportamentale è basata sui principi dell’apprendimento, per cui si vanno a modificare i pensieri e le emozioni partendo dai comportamenti della persona. Nello specifico caso del DOC, una tra le tecniche più incisive è quella dell’esposizione e prevenzione della risposta. L’esposizione allo stimolo ansiogeno si basa sul principio che l’ansia comincia a diminuire dopo un lungo contatto con lo stimolo stesso ma, affinché la tecnica sia efficace, è necessario combinarla con la prevenzione della risposta che prevede che il paziente sospenda, o riduca, i comportamentali ritualistici, ovvero le compulsioni.

Cosa fare in concreto?

La seconda parte di Vincere le ossessioni fornisce indicazioni, passo dopo passo, per portare a termine un percorso di auto-aiuto efficace. Le fasi da seguire sono quattro. Il tutto è molto schematico ma sempre mantenendo una certa delicatezza nell’affrontare il problema.

Per prima cosa si consiglia di fare un’autovalutazione rispetto allo stato del proprio disturbo a cui segue, in secondo step, un’attenta educazione al DOC per comprendere come si sviluppa e come si presenta. La terza fase comprende un programma di trattamento del DOC con compulsioni e uno per il DOC caratterizzato da ossessioni pure. L’ultima parte, infine, insiste sull’importanza di prevenire le ricadute.

Prima fase: autovalutarsi

Per prima cosa il paziente deve capire quali sono i suoi sintomi e quanto grave sia il suo DOC. Schede e questionari auto-somministrati aiutano a individuare il sottotipo di DOC di cui si soffre e il livello di problematicità (Y-BOCS, la Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale, costruita da W. Goodman, S. Rasmussen e colleghi nel 1989 e modificata nel 1992).

Seconda fase: conoscere a fondo il disturbo

Questa sezione permette di chiarire un punto fondamentale: ciò che differenzia un paziente ossessivo da una persona senza disturbo è la frequenza con cui alcuni pensieri “bizzarri” si presentano alla mente delle persone e non la qualità di essi, cioè il fatto che siano appunto strani. Ad ognuno di noi capita di avere in testa pensieri bizzarri, ma questo non significa soffrire di ossessioni. Le persone “normali” riescono a tollerare l’ansia connessa a certi pensieri, a differenze di un paziente DOC, che ritiene, invece, quel pensiero fastidioso e considera intollerabile il disagio che tale pensiero gli suscita.

Terza fase: il trattamento vero e proprio

Il fulcro del trattamento è sicuramente l’utilizzo di principi comportamentali che prevedono l’uso di tecniche di esposizione graduata e prevenzione della risposta. Ma di cosa si tratta? Come già accennato, l’esposizione consiste nel porsi ripetutamente ed intenzionalmente nelle situazioni temute e che provocano disagio, mentre la prevenzione della risposta consiste nell’astenersi, in modo graduale, dal mettere in atto le consuete azioni che permettono di alleviare il disagio dovuto dalle ossessioni.

Queste tecniche rappresentano le procedure più efficaci nel trattamento del DOC ma non sono sempre facili da portare a termine. Come sottolinea più volte l’autore di Vincere le ossessioni, infatti, la fatica di portare avanti questo programma potrebbe essere tanta e i progressi potrebbero essere non sempre costanti, anzi. Usando le sue parole:

Ogni guerra è composta da tante battaglie. Potete vincere la vostra guerra anche perdendo alcune battaglie.

Un messaggio forte e realistico, che evidenzia le difficoltà insite nel trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo ma allo stesso tempo le sue potenzialità.

Quarta fase: prevenire le ricadute

Premessa essenziale è considerare il DOC come un disturbo ad alto tasso di ricadute. Questa parte del volume espone tutte le procedure e i consigli affinché le persone possano mantenere nel tempo gli effetti positivi del trattamento che hanno appena concluso. Questa sezione è fondamentale all’interno del trattamento stesso, nonostante spesso si sottovaluti l’importanza di proteggersi da eventuali ricadute.

Ciò che conta in questa fase è continuare ad esporsi alle situazioni temute, anche dopo la fine del trattamento; perseverare nell’astenersi dal mettere in atto i rituali; comprendere che un momento di stress potrebbe facilitare l’insorgere di preoccupazioni ossessive, ma che ciò non significa rischiare una vera ricaduta.

Suggerimenti per familiari e amici

La terza ed ultima parte di Vincere le ossessioni offre un’appendice molto utile per familiari ed amici di persone con Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Una famiglia collaborativa è un elemento essenziale per una buona riuscita del trattamento, nonostante spesso la famiglia sia incapace di fornire aiuto nel modo corretto. Per ovviare a questo, l’autore ha ritenuto necessario fornire dei consigli e delle indicazioni pratiche su come un familiare o un amico possa prendere parte nel migliore dei modi al trattamento.

Conclusioni

Semplicità ed accuratezza rappresentano le caratteristiche fondamentali di Vincere le ossessioni, un volume che è in grado di spiegare il funzionamento del DOC attraverso un linguaggio altamente comprensibile. Ciò che abbiamo apprezzato di questo testo è la capacità di parlare di un argomento profondamente complesso in maniera essenziale ma al tempo stesso esaustivo, che porta il lettore a trattare il problema con un atteggiamento razionale e distaccato al punto giusto.

La drammatizzazione del problema viene superata grazie ad un stile conciso ma rigoroso, che permette al lettore di acquisire consapevolezza della sua problematica e di stimolare un atteggiamento attivo orientato alla cura di sé.

Combattere la solitudine sentendoci meno disgustati da noi stessi

La solitudine è un sentimento molto diffuso all’interno della società attuale e sempre di più a tale condizione si accompagna un senso di disgusto verso di sé. Proprio per questo motivo per affrontare in maniera efficace i sentimenti di solitudine che ci riferiscono i nostri pazienti potrebbe essere necessario andare oltre gli interventi focalizzati sulla riduzione dell’isolamento sociale.

 

Un commento di Antonia Ypsilanti, professoressa di psicologia cognitiva alla Sheffield Hallam University, UK, recentemente apparso su Palgrave Communication, un open-journal affiliato a Nature, offre una riflessione sulla relazione tra solitudine e sensazione di disgusto verso se stessi, uno stato affettivo di tipo avversivo che riflette disgusto verso la propria persona. L’autrice sottolinea l’importanza di prendere in considerazione tale stato nei trattamenti focalizzati sulla riduzione dell’isolamento sociale e della solitudine, in quanto il mero apprendimento di abilità e la ricerca di opportunità di contatto sociale risulterebbero inefficaci nei soggetti con un’alta percezione di self-disgust, più inibiti e recalcitranti al contatto sociale.

Un report della World Health Organization suggerisce che la solitudine, o più in generale, il sentirsi soli, socialmente isolati o esclusi è tra i fattori di rischio più significativi per l’insorgenza di problematiche relative alla salute mentale fra gli adulti (WHO, 2017). In particolare la solitudine, cioè la discrepanza percepita tra i propri bisogni sociali soggettivi e la misura in cui questi vengono soddisfatti attraverso interazioni sociali significative, rappresenta un sintomo transdiagnostico, che correla con altri disturbi quali ansia, stress cronico, depressione, rischio suicidario, problematiche del sonno (Cacioppo et al., 2015), spesso in modo persistente aggravando il quadro clinico.

Gli effetti della solitudine sul benessere psicofisico sarebbero paragonabili a quelli determinati dai maggiori fattori di rischio per la salute come l’obesità e il fumo di sigaretta, effetti che nelle persone “sole” aumenterebbero del 26% la probabilità di mortalità (Ypsilanti, 2018).

Partendo da questi dati, numerose organizzazioni che si occupano di salute mentale si stanno attivando per lo sviluppo di programmi e interventi sociali volti ad aumentare la consapevolezza circa questo fenomeno e ridurne così la prevalenza nella popolazione, attraverso l’apprendimento di skills sociali e l’offerta di nuove opportunità per incrementare la propria rete amicale favorendo relazioni interpersonali.

Solitudine e disgusto verso se stessi: come è possibile aiutare chi vive questa condizione?

Tuttavia l’autrice del commento preso in considerazione sottolinea che in molti casi il miglioramento delle abilità sociali o l’aumento dei contatti nella propria rete sociale non sarebbero sufficienti o pienamente appropriati per le persone che esperiscono solitudine, in quanto in esse i prevalenti sentimenti negativi verso se stessi, costituiti dal self-disgust, ostacolerebbero seriamente la nascita di relazioni e che, di conseguenza, per poter intervenire efficacemente sulla solitudine occorrerebbero trattamenti specifici e mirati al self-disgust (Ypsilanti, 2018).

Il disgusto verso se stessi o self-disgust è propriamente uno stato affettivo negativo il cui contenuto è determinato da una predisposizione all’esperienza di disgusto autoriferito appresa nel corso di numerose e precoci esperienze di vita, in cui la persona gradualmente ha imparato a far propri giudizi negativi su di sé a seguito di processi di confronto sociale. Tali giudizi nel corso del tempo sono andati a costituire un repertorio di credenze disfunzionali sul sé che si sono associate a emozioni negative come colpa e vergogna (Overton, Markland, Taggart et al., 2008), emozioni che la persona esperisce nel momento in cui si riattiva questa catena di pensieri disfunzionali.

La percezione di solitudine indurrebbe così stati negativi legati all’avversione, l’odio e la disapprovazione verso se stessi, mantenuti da processi di ruminazione autocritica in cui la persona è intrappolata in un circolo vizioso di auto denigrazione, insicurezza, bassa autostima e mancanza di attrattività che alimentano il self-disgust e inibiscono la persona dall’intraprendere attività sociali (Ypsilanti, 2018).

La percezione di isolamento sociale associata al self-disgust è maggiormente presente nei giovani adulti rispetto agli anziani ed è significativamente connessa all’inibizione sociale, un tratto di personalità che predispone i soggetti a tensioni e insicurezze in contesti relazionali (Lazarus, Ypsilanti, Powell & Overton, 2018).

Attualmente non esistono piani specifici per la riduzione del disgusto verso se stessi, tuttavia diversi interventi come quelli basati sulla self-affirmation (l’autoriflessione sui propri punti di forza e tratti positivi), la mindfulness e la self-compassion sembrerebbero avere buone prove di efficacia su tale stato negativo, in quanto hanno come target sia la modifica dei contenuti autodenigratori sia l’interruzione dei processi ruminativi che intensificano e aggravano il self-disgust. A parere dell’autrice, data questa relazione tra disgusto verso se stessi e solitudine, in particolare gli interventi che utilizzano la self-compassion risulterebbero più idonei per la riduzione della solitudine, dal momento che mirano alla modifica delle autovalutazioni estremamente negative, quindi anche quelle relative al disgusto di sé, per alleviare le emozioni spiacevoli ad esse associate (Ypsilanti, 2018).

Ben is back (2018): il doloroso intreccio tra tossicodipendenza, amore e paura – Recensione del film

Nel salotto ci sono i pacchetti regalo, l’albero è illuminato, Babbo Natale atteso. Ma Ben is Back, anche se si svolge nella giornata della vigilia, non è un film strenna. Al contrario è un dramma, quello di una famiglia che si appresta a festeggiare il Natale quando nel salotto di casa si presenta il figlio tossico.

 

Ben is back appunto. È tornato, e nessuno lo aspettava perché era in un centro di disintossicazione e recupero, perché in quelle comunità ci devi restare a lungo prima di potere riaffrontare il terreno dove hai sviluppato la dipendenza. Ma Ben non ha retto all’isolamento, è tornato a casa. Solo un giorno, promette, per festeggiare tutti insieme. Saranno 24 ore di inferno. Per tutti.

Il film è del regista Peter Hedges, che è anche drammaturgo, romanziere e sceneggiatore. Un autore che ha sempre voluto raccontare storie di nuclei familiari non proprio da mulino bianco. Anche per esperienze personali.

Vengo da una famiglia che è stata profondamente colpita dalla dipendenza, alcool e droga – ha raccontato presentando il film ai giornalisti – Alcuni membri si sono ripresi, altri non ce l’hanno fatta e alcuni stanno ancora lottando. Per questo ho voluto fare un film per esplorare come una persona ferita può avere un impatto su tutti gli altri membri della famiglia.

L’”impatto” raccontato nel film è doloroso. Da una parte la madre di Ben, Holly, interpretata da una bravissima Julia Roberts: abbraccia felice il figlio, e forse per l’ennesima volta si illude di poterlo aiutare con la forza del suo affetto. Dall’altra la sorella e il patrigno del ragazzo: più scettici, temono che il ragazzo devasti le loro vite tranquille come è successo altre volte. E già nelle prime scene si assiste a un classico scambio di accuse, il rimpallo delle colpe: “voi lo avete abbandonato”, “il tuo amore incondizionato non può bastare”, “è un tossico, tu sei viva, lui non più”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza, amore e paura - Recensione 1

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 2

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 3

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 4

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 5

Ben is back: tra speranze e dolore

Sono ventiquattro ore disperate quelle che ci racconta il film Ben is back. Ventiquattro ore in cui si snocciolano paure, speranze e l’immenso dolore di chi vuole bene a un tossico. Al rientro da una festa di Natale in chiesa la famigliola trova la casa saccheggiata, e ancora peggio, è sparito l’amato cagnolino dei fratellini.

È evidente che qualcuno della banda di pusher che teneva legato Ben vuole regolare i conti in sospeso. Inizia a quel punto una lunga notte di ricerca del cane. Il ragazzo ripercorre i luoghi dove si era perso fino a diventare tossicodipendente, rivede le persone che lo hanno spinto e accompagnato in questa sua discesa nell’inferno della droga. La madre scopre fino a che punto sia riuscito a farsi del male Ben, e quanto la sua dipendenza sia stata sfruttata, persino da un professore che in cambio di sesso gli forniva le pillole antidolorifiche della moglie malata terminale.

È emozionante l’incontro di Holly con la mamma di Maggie, una ragazzina coetanea di Ben che a differenza dell’amico non ce l’ha fatta, è morta di overdose. Holly ha perso di vista il figlio, l’altra la sprona a cercarlo: “Non possiamo salvarli, ma se non ci provi ti odierai”.

Ben is back è un classico esempio di buon cinema drammatico americano, aiutato in questo caso da una grande cast. Il ragazzo è interpretato da Lucas Hedges, il figlio del regista, oggi considerato uno dei giovani attori più talentuosi nel panorama internazionale. Lavora da quando aveva dieci anni e forse lo ricordate perché ha recitato in Manchester by the sea, che gli è valso una candidatura all’Oscar come miglior attore non protagonista, e più recentemente in Tre manifesti a Erbing, Missouri.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 6

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 7

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 8

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 9

Ben is back 2018 tra tossicodipendenza amore e paura Recensione 10

Avevo giurato a me stesso di non lavorare mai in un film di mio padre, ma…” Ma poi pare sia stata la stessa Julia Roberts a chiedere di recitare con lui. E il duetto messo in scena dai due è vincente, il rapporto madre e figlio che sono riusciti a portare sullo schermo ricco di sfumature, emotivamente coinvolgente. Per Julia Roberts il ruolo di questa madre coraggio che rifiuta di arrendersi è la naturale evoluzione di una carriera che aveva costruito sulla favola di Pretty Woman. Ora che ha svoltato i cinquant’anni dimostra di essere un’attrice che sa scegliere con intelligenza i ruoli da interpretare.

Il film era stato presentato con successo al Festival di Toronto e poi alla Festa del cinema di Roma, dove aveva vinto il Premio speciale della giuria ad Alice nella città. Arriva nelle sale il 19 dicembre. Una buona alternativa ai cosiddetti panettoni natalizi.

 

BEN IS BACK – IL TRAILER DEL FILM:

https://www.youtube.com/watch?v=EbtNWSbtZD8

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