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Perché resti se sei infelice? Quando si rimane in una relazione sentimentale anche se non si sta più bene

I motivi che ci spingono a restare in una relazione sentimentale insoddisfacente sembra che non siano legati soltanto al proprio interesse personale, ma in alcuni casi c’è una componente altruistica.

 

“Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai” cantava De André nel 1973, con l’album “storia di un impiegato”, e oggi le persone come vivono le proprie relazioni? Come scelgono con chi stare e soprattutto come scelgono con chi smettere di stare?

Un gruppo di ricercatori canadesi ha cercato di trovare risposta al quesito “Come mai le persone non lasciano i propri partner quando la loro relazione sentimentale inizia a non essere più soddisfacente?”.

In prima linea a occuparsi dell’argomento troviamo Samantha Joel, attualmente professore presso la Western University (Ontario), insieme ai colleghi Emily Impett della Toronto University, Stephanie Spielmann della Wayne State University e Geoff MacDonald, della Toronto University.

Studi precedenti avevano dimostrato che i fattori che incidono sulla decisione di interrompere una relazione sentimentale sono: il tempo, le risorse personali e le emozioni investite nella relazione; sempre questi stessi fattori guidano anche la scelta di rimanere in una relazione sentimentale nonostante l’insoddisfazione, se l’alternativa è meno attraente. Ad esempio, molte persone preferiscono rimanere in una relazione insoddisfacente piuttosto che star sole o se valutano che i partner alternativi e disponibili al momento siano meno attraenti di quello attuale (Sung & Choi, 2010). In questi casi, decidere di rimanere in una relazione romantica o di rompere il patto coniugale, ha a che fare unicamente con l’interesse personale.

Eppure, lo studio sopra citato di Joel, fa emergere una nuova prospettiva: le decisioni prese dinnanzi ad una relazione sentimentale insoddisfacente in alcuni casi coinvolgono una componente altruistica.

Lo studio

Dallo studio, condotto su un campione di 500 partecipanti monitorati per due settimane, è emerso che quando le persone percepivano il proprio partner come fortemente impegnato nel rapporto erano meno propense a interrompere la relazione.

Questo atteggiamento è stato riscontrato anche nelle persone che non erano realmente impegnate nella relazione sentimentale o che erano personalmente insoddisfatte. Emerge, inoltre, un atteggiamento per cui non si vuole danneggiare i propri partner e ci si preoccupa per ciò che questi realmente vogliono – afferma Samantha Joel.

Il partner infelice e insoddisfatto, di fronte all’impegno dell’altro, spera che la relazione sentimentale possa migliorare.

Una cosa che non sappiamo è quanto siano accurate le percezioni dei partner insoddisfatti. Potrebbe essere che la persona sopravvaluti l’impegno affettivo dell’altro partner e il dolore che proverebbe a causa della rottura. – continua l’autrice.

Basare la propria scelta di restare nella relazione sulla dipendenza percepita da parte del partner nei propri confronti e sul suo impegno, potrebbe tuttavia nascondere numerose insidie qualora la relazione sentimentale non dovesse realmente migliorare: il tempo di una relazione non soddisfacente è stato prolungato e di conseguenza le emozioni negative si sono accumulate nel tempo.

Per gli autori rimane ancora aperta la questione se rimanere in una relazione per l’amore nutrito nei confronti di un partner che non ricambia possa essere un fenomeno diffuso, ma concludono con il retorico interrogativo “chi vuole continuare a investire in una relazione con un partner che non vuole realmente starci?”.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Oh oh oh.. anche quest’anno sono in ritardo coi regali di Natale. Perché procrastiniamo anche a Natale?

La procrastinazione “natalizia” è stata oggetto di diverse ricerche psicologiche che hanno messo in evidenza le caratteristiche e i fattori che influenzano tale fenomeno.

 

Natale è alle porte, per le strade ormai si respira un’aria di festa che va mescolandosi allo scoppientante odore di caldarroste, le vetrine con neve finta accompagnano le passeggiate in centro e in testa tornano prontamente, a turno, “Let it snow, let it snow, let it snow”, “Last Christmas I gave you my heart..”. E così, tra un ritornello e l’altro, la mente va ai vicini pasti abbondanti con parenti e amici. Bello pensare a quando, tutti insieme vicino all’albero, ci scambieremo i rega…oh caspita…i regali!! Devo assolutamente comprare i regali!!!

Alzi la mano chi, a pochi giorni da Natale, non ha ancora pensato a tutti i regali. Ci sarà qualcuno che ne alzerà due perché forse non ha pensato neanche al primo regalo della lista… eppure rimandiamo, nonostante siamo consapevoli di doverci dedicare prima o poi agli acquisti, onde evitare lo sguardo furente del negoziante che il 24 Dicembre alle 21.07 non può chiudere il negozio perché siamo ancora indecisi su cosa regalare alla cara vecchia zia. Rimandiamo l’acquisto dei regali… anche la nostra procrastinazione cede al fascino del Natale!

Il fenomeno della procrastinazione “natalizia” è stato analizzato anche dai ricercatori, già diversi anni fa. In una ricerca di Joseph R. Ferrari (1993), condotta su 240 clienti di un centro commerciale, sono stati analizzati i punteggi di procrastinazione dei partecipanti, la vicinanza al giorno di Natale e le motivazioni degli acquirenti a comprare proprio in quel particolare giorno. Dalle analisi è emerso che gli acquisti raggiungevano il picco massimo alla vigilia di Natale e correlavano con la scadenza dei buoni sconto messi in palio dal centro commerciale come ricompensa per partecipare allo studio. Le persone con punteggi di procrastinazione più alti hanno riportato diverse motivazioni alla base del loro rimandare: si sono così distinti i procrastinatori oberati di lavoro (che rimandano l’acquisto dei regali perché sommersi da impegni lavorativi) e i procrastinatori dalla debole autostima (che tardano l’acquisto per non auto-confermarsi la credenza di essere incapaci anche nel comprare regali). Dunque alcuni procrastinatori si lasciano condizionare da aspetti più situazionali, mentre altri si lasciano bloccare dalla percezione delle proprie carenze.

Sarebbe interessante replicare lo studio ai giorni nostri, magari esaminando i cambiamenti tra i procrastinatori anche alla luce dell’avvento dell’e-commerce.

Un successivo studio (Spangenberga et al. 2005) ha preso in esame quali tipi di stimoli ambientali possono favorire gli acquisti. Utilizzando gli stimoli associati alle festività natalizie, la ricerca di Spangenberga e colleghi ha esplorato gli effetti congiunti del profumo ambientale e della musica sulle valutazioni dei consumatori di un negozio. I risultati hanno indicato che gli effetti di un profumo tipicamente natalizio sono moderati dalla natura della musica di sottofondo. In particolare, la propensione dei consumatori all’acquisto è più elevata quando, nel negozio, insieme al profumo natalizio viene fatta ascoltare anche musica natalizia. Quando in presenza di profumi natalizi, invece, viene diffusa musica di diverso tipo (non natalizia) tale propensione si riduce notevolmente. Insomma… ai negozianti è consigliato di munirsi di aroma alla cannella e cd di Michael Bublé.

Se comunque la vostra procrastinazione non cede nemmeno ad aromi e musichette, ci pensano i risultati di un ulteriore studio (Kasser & Sheldon, 2002) a consolarci e, forse, a ricordarci quale dovrebbe essere il vero spirito del Natale.

È stato chiesto a 117 individui, di età compresa tra 18 e 80 anni, di rispondere ad alcune domande sul loro grado di soddisfazione, stress e stato emotivo durante il periodo natalizio. Sono state inoltre poste domande sulle esperienze personali vissute durante le festività, sull’uso di denaro e sui comportamenti di consumo. Il grado di soddisfazione e i livelli di felicità più alti vengono riportati quando gli individui vivono esperienze di condivisione in famiglia o esperienze di tipo religioso. Il benessere diminuirebbe invece quando le persone risultano essere più coinvolte nelle attività legate allo spendere denaro e al ricevere regali. In breve, gli aspetti materialistici delle moderne celebrazioni natalizie potrebbero minare il benessere individuale, mentre le attività familiari e spirituali possono aiutare le persone a sentirsi più felici e soddisfatte.

Se non avete ancora comprato tutti i regali, quindi, non preoccupatevi, ora sapete che anche regalare il vostro tempo agli altri può renderli felici.

Io, per non sbagliare però, corro a comprare un piccolo regalo di Natale anche per me: l’ultimo manuale di auto-aiuto per procrastinatori cronici.

Perché notiamo più rapidamente una voce aggressiva rispetto ad una normale o felice?

Cosa succede al nostro cervello di fronte a un segnale minaccioso, come per esempio un’espressione di rabbia o una voce aggressiva? L’Università di Ginevra ha pubblicato una ricerca riguardante l’attività cerebrale durante il processamento di diversi stimoli vocali emotivi.

 

I risultati di tale studio evidenziano un meccanismo che ci permette di notare più rapidamente una voce che percepiamo minacciosa rispetto ad una voce considerata normale o felice. La nostra attenzione è, pertanto, più focalizzata su voci minacciose in modo da permetterci di riconoscere chiaramente la provenienza della minaccia potenziale.

Vista e udito sono due dei principali sensi che ci permettono di interagire con l’ambiente. Ma cosa succede nel cervello quando si percepisce uno stimolo minaccioso, come distinguiamo una voce aggressiva dal resto del rumore che ci circonda? Come viene processata l’informazione nel cervello?

Per rispondere a queste domande, i ricercatori dell’Università di Ginevra hanno analizzato l’attività cerebrale durante il processamento delle diverse voci.

Cosa hanno scoperto i ricercatori dell’Università di Ginevra?

Secondo quanto emerso dal presente studio, il nostro cervello sfrutterebbe le sue risorse quando percepisce un pericolo per attivare un comportamento adeguato per la sopravvivenza. Vista e udito sono, quindi, i sensi che permettono agli esseri umani di individuare situazioni minacciose.

Nonostante la vista sia fondamentale, non ci permette tuttavia una copertura a 360 gradi dello spazio circostante, a differenza dell’udito. È questo il motivo per cui i ricercatori si sono interessati a capire quanto velocemente la nostra attenzione risponde alle diverse intonazioni delle voci intorno a noi e come il nostro cervello affronta le diverse situazioni potenzialmente pericolose.

Per esaminare le risposte cerebrali alle minacce relative all’ambiente uditivo, i ricercatori hanno presentato 22 brevi suoni (600 millisecondi) consistenti in voci umane neutrali, arrabbiate o gioiose. Utilizzando due altoparlanti, questi suoni sono stati presentati a 35 partecipanti mentre un elettroencefalogramma misurava l’attività elettrica del cervello. Più nello specifico, i ricercatori si sono focalizzati sulle componenti elettrofisiologiche correlate al processamento uditivo-attentivo. Ogni partecipante ha ascoltato due suoni simultaneamente: due voci neutrali, una neutrale e una arrabbiata, infine una neutrale e una felice. Quando i partecipanti percepivano rabbia o gioia, dovevano rispondere premendo una chiave su una tastiera il più accuratamente e rapidamente possibile. I ricercatori hanno poi misurato l’intensità dell’attività cerebrale quando l’attenzione era focalizzata sui diversi suoni, come anche la durata di tale attenzione prima di un ritorno allo stato di base.

Attraverso i dati ottenuti dall’encefalogramma, è stato poi esaminato uno specifico marker cerebrale dell’attenzione uditiva chiamato N2ac. Ciò che è emerso è che, quando il cervello percepisce un suono con intonazione emotiva, l’attività N2ac viene attivata dopo 200 millisecondi. Ma, quando il cervello percepisce rabbia, l’attività N2ac è amplificata e dura più a lungo. Questo non succede nel caso dei suoni con intonazione vocale felice. Di conseguenza, dopo 400 millisecondi, la nostra attenzione deve disimpegnarsi dallo stimolo vocale emotivo. A questo punto, interviene un altro marker cerebrale dell’attenzione uditiva, chiamato LPCpc. Anche in questo caso, l’attività del LPCpc è più forte per le voci aggressive rispetto a quelle felici.

Ma perché? La rabbia può essere un segnale per una minaccia potenziale, per questo motivo il cervello analizza questa tipologia di stimoli per un tempo più lungo. Nell’ambiente uditivo, questo meccanismo ci permette di non allarmaci al più piccolo segnale potenzialmente minaccioso o, al contrario, di adottare il comportamento più appropriato in caso di pericolo. Quei millisecondi extra di attenzione sono, pertanto, cruciali per un’interpretazione accurata di una minaccia in un ambiente uditivo complesso.

In conclusione, questo studio ha dimostrato per la prima volta che in poche centinaia di millisecondi, il nostro cervello diventa sensibile alla presenza di voci aggressive. Questa rapida individuazione della fonte della minaccia potenziale in un ambiente complesso è essenziale nelle situazioni critiche e, soprattutto, gioca un ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza.

Correlazione tra i traumi vissuti nell’infanzia e le esperienze psicotiche

I ricercatori dell’Università di Bristol hanno stabilito l’esistenza di un nesso causale tra i traumi infantili e le esperienze psicotiche a 18 anni.

 

Il Professore Stanley Zammit di Psichiatria dell’Università di Bristol e dell’Università di Cardiff sostiene che l’importanza di questo studio risiede nella possibilità che offre di indagare l’importanza del trauma infantile nell’eziologia delle esperienze psicotiche, fornendo così un utile supporto all’approccio clinico volto a ridurre l’impatto dei sintomi psicotici nei giovani adulti, che spesso vivono questi sintomi in modo molto angosciante.

I risultati dello studio, pubblicati su JAMA Psichiatry, mostrano l’associazione tra i diversi tipi di traumi infantili e le esperienze psicotiche successive su un campione molto ampio di popolazione.

Lo studio

I ricercatori hanno utilizzato i dati dell’Avon Longitudinal Study (ALSPAC), che raccoglie informazioni su un campione di bambini e genitori molto numeroso; in particolare i dati analizzati si riferivano a bambini le cui madri, durante la gravidanza, risiedevano nella zona sud-ovest dell’Inghilterra, e avevano il termine del parto tra l’aprile 1991 e il dicembre 1922. Il campione in totale ha coinvolto 4.433 partecipanti, con un’età media pari a 17.8 anni; per il 56,5% erano femmine.

Sono stati inclusi nello studio sia i dati sulle esperienze psicotiche, sia le variabili dei traumi infantili derivate dalle valutazioni completate dai genitori o auto-riferite dai partecipanti.

Le variabili prese in esame rispetto ai traumi infantili includevano l’esposizione a qualsiasi tipo di trauma dall’età 0-17 anni, suddivisi in: esposizione a traumi nella prima infanzia (0-4.9 anni), nell’infanzia media (5-10.9 anni), nell’adolescenza (11-17 anni). Rispetto a precedenti ricerche si è inoltre preso in esame con particolare attenzione le informazioni riguardanti il periodo in cui era avvenuto il trauma e il tipo di trauma.

Per esperienze psicotiche sono state considerate tutte quelle esperienze anomale, come ad esempio sentire le voci o sentimenti di paranoia.

Dai risultati è emerso che l’esposizione a qualsiasi tipologia di trauma fino all’età di 17 anni è associata a maggiori probabilità di avere esperienze psicotiche all’età di 18 anni. Secondo i ricercatori, tra il 25 e il 60% dei giovani che hanno riportato sintomi psicotici (cioè il 5% del campione) non li avrebbero sviluppati se non fossero stati esposti a traumi infantili come esperienze di bullismo, violenza domestica o abbandono emotivo nell’infanzia.

Attraverso un’analisi finalizzata a ridurre al minimo la causalità inversa, il trauma adolescenziale è stato anche associato a esperienze psicotiche incidenti avvenute nell’ultimo anno all’età di 18 anni. I risultati si sono distribuiti in maniera uniforme indipendentemente dallo stato socioeconomico o dal rischio genetico e dai problemi di salute mentale.

Conclusioni

Dal momento che circa il 5% della popolazione riferisce di aver vissuto esperienze psicotiche in un certo momento della propria vita, e a queste esperienze spesso conseguono ulteriori problemi di salute mentale, è importante indagare ulteriormente il ruolo del trauma nell’aumentare questo rischio.

I risultati di questo studio sostengono che lo screening di routine per le esperienze psicotiche nei bambini o nei giovani esposti ad un trauma dovrebbe essere considerato un valido strumento per la prevenzione di successivi problemi di origine mentale.

Di fatto comprendere come i traumi infantili possano condurre ad esperienze psicotiche potrebbe portare allo sviluppo di nuovi trattamenti per la psicosi.

 

Tra moglie e marito non mettere il dito? – Report dalla Conferenza del 1 dicembre a Pordenone

Il primo dicembre si è tenuta a Pordenone un’interessante conferenza dal titolo Tra moglie e marito non mettere il dito? organizzata dall’Ordine degli Psicologi della Regione Friuli Venezia Giulia che ha avuto come tema centrale la coppia nei suoi sempre più rapidi cambiamenti strutturali e culturali.

 

Crisi, conflitti, sessualità, diversità, genitorialità, separazioni e tradimenti, questi sono alcuni dei temi affrontati nella conferenza Tra moglie e marito non mettere il dito?, che diventano poi oggetto di lavoro per lo psicologo e psicoterapeuta che accoglie una richiesta di terapia di coppia.

I relatori che hanno preso parte alla conferenza sono stati: la Dott.ssa Umberta Telfener, Psicologa e Psicoterapeuta, Didatta del Centro milanese di Terapia della Famiglia e autrice di diversi libri di successo sia tecnici che divulgativi attinenti al tema della coppia; la Dott.ssa Gabriella Rifelli, Psicologa e Psicoterapeuta Psicanalitica, Segretario Generale del Centro Italiano di Sessuologia e Direttore Didattico della Scuola di Sessuologia Clinica del Centro Italiano di Sessuologia; la Dott.ssa Roberta Marchiori, Psicologa e Psicoterapeuta, Mediatore Familiare, Didatta CMTF, Vice-direttore della sede di Padova e docente le sedi di Padova e Trieste del CPTF; il Dott. Fabrizio Quattrini, Psicologo e Psicoterapeuta, Socio fondatore Presidente dell’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica (IISS) di Roma, docente dell’insegnamento di Clinica delle Parafilie della Devianza presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila ed infine il Dott. Giandomenico Bagatin, Psicologo e Psicoterapeuta, Didatta di Psicoterapia in Italia e Spagna, Consigliere dell’Ordine Psicologi del Friuli Venezia Giulia.

Il ciclo di vita della coppia e gli interventi possibili: quando la coppia va dallo psicologo?

Ad aprire la conferenza è stato l’intervento della Dott.ssa Umberta Telfener, che ha iniziato spiegando come la coppia sia sempre più esposta a rapidi cambiamenti coi quali non riesce a tenere il passo. In tali cambiamenti, cambia anche il concetto e l’idea stessa dell’amore. Si è passati, secondo la Dott.ssa Telfener, dall’amore patriarcale, a quello neoromantico, emancipato, post-moderno fino al periodo iper-moderno dove le coppie, rispetto agli anni passati, non possiedono più una struttura sociale ben precisa, ma hanno la capacità di auto-definirsi e dunque spetta al terapeuta abbandonare i propri principi etici e morali, i propri vissuti e rigidità, per andare oltre alla visione di coppia formata da un uomo e una donna che vivono in maniera stabile, per guardare alla coppia che si presenta da noi, capace di auto-definirsi e scoprire come e perché si sia definita in quel modo.

La coppia possiede un suo ciclo vitale che parte dal momento dell’incontro, dell’illusione circa le caratteristiche di lui/lei che sottendono i nostri desideri, bisogni e aspettative, fino al momento della delusione e disillusione, momenti questi ultimi molto delicati nel determinare un proseguo più maturo della coppia, la rinegoziazione di nuove regole e l’apertura ad una nuova fase di vita della coppia, o come più spesso si assiste nell’ultimo periodo, alla fine e alla rottura della coppia stessa. In quest’ultima opzione molte coppie preferiscono che ognuno continui ad “andare per la propria strada, vedendo l’altro come nemico”.

Tra le persone che maggiormente richiedono di cominciare una terapia di coppia troviamo, secondo l’esperienza clinica della Dott.ssa Telfener:

Donne stufe, coppie che stanno cambiando valori, donne sole, coppie in difficoltà, coppie che non si sono formate o coppie con amori virtuali.

Una coppia che chiede aiuto, spiega la Dott.ssa Telfener, si mostra bloccata nelle dinamiche della coppia stessa, di ciascuno dei partecipanti, usualmente ripete soluzioni che si sono dimostrate fallimentari, reificando il circolo vizioso in cui ciascuno dei due membri della coppia è sempre molto impegnato a cambiare l’altro, a incolpare l’altro e non considera la propria partecipazione e responsabilità al gioco in atto.

Obiettivi di una terapia di coppia è dunque la riflessione sulla trama rigida portata in studio, l’identificazione di un doppio livello sia comportamentale che mitico della coppia stessa, l’identificazione del circuito paradossale, verso una ri-narrazione congiunta che integri passato e presente, individuo e relazione e l’auto-ridefinizione del contratto condiviso.

Le disfunzioni sessuali nella coppia: diagnosi e terapia sessuale

Nell’ambito delle disfunzioni sessuali nella coppia è intervenuta la Dott.ssa Gabriella Rifelli. Le disfunzioni sessuali, considerate dalla Dott.ssa “non una malattia ma sintomi di una patologia dell’essere”, sono state distinte in patologie maschili come il deficit erettile, eiaculazione precoce, eiaculazione ritardata; femminili come l’anorgasmia e vaginismo; e di entrambi, come la dispareunia, disturbo da desiderio sessuale ipoattivo e l’impotenza che può colpire l’uno, l’altro o la coppia.

Ciò che la Dott.ssa Rifelli sottolinea essere un importante punto di partenza durante la diagnosi, è riuscire ad individuare la causa dell’insorgere del problema, ossia se è di natura organica o psicogena (e non escludere l’eventuale collaborazione con la figura del medico di riferimento) in quanto, sottolinea la stessa, “ci occupiamo di persone che portano il problema” e non del problema in senso stretto.

Rispetto all’intervento, la Dott.ssa Rifelli ha presentato la Psicoterapia Mansionale Integrata (PMI), che utilizza la prescrizione di comportamenti, “mansioni”, che sembrerebbe rispondere in maniera funzionale alle problematiche sopracitate. Tra i suoi obiettivi tale approccio prevede risolvere l’eventuale ostilità di coppia, eliminare fattori ansiogeni, contrastare ed eliminare le resistenze, assumere un rapporto positivo con il proprio corpo ed il corpo dell’altro/altra, assumere conoscenza rispetto alla fisiologia delle risposte sessuali, elaborare strategie e tattiche seduttive, apprendere comportamenti nuovi e abbandonare quelli disfunzionali. Nel suo insieme il processo terapeutico fornirebbe al paziente la capacità di auto-osservarsi, riscoprendo se stesso e il partner sotto una nuova luce.

Quando la coppia finisce: vincoli e svincoli della separazione

Nonostante una coppia possa chiedere aiuto, ci sono amori che finiscono, che non riescono a superare, risolvere, rinegoziare ruoli e regole, dove il conflitto si esaspera bloccando l’evoluzione familiare e individuale, sia che la coppia si separi o che minacci la separazione ma resti insieme.

La Dott.ssa Roberta Marchiori ha approfondito il tema del conflitto di coppia, che viene definito dalla stessa come un conflitto che “crea un tempo fermo, di chi si trova coinvolto nel silenzio assordante”. Ma il conflitto, come spiega sempre la Dott.ssa Marchiori, indica in maniera malsana a presenza di una relazione ancora viva. Ciò che invece diventa indicativo di una separazione è l’indifferenza.

Ed ecco che il professionista che lavora in tale settore, dovrebbe mantenere e riattivare le risorse costruttive del sistema familiare. Dunque, soprattutto in presenza di figli, le regole implicite ed esplicite che guidano il modello organizzativo devono essere riesaminate, rinegoziate rispetto al mantenimento del ruolo delle funzioni genitoriali, perché anche se una coppia finisce, in presenza di figli, la coppia genitoriale resta!

Le coppie Arcobaleno

Il Dott. Fabrizio Quattrini ha affrontato il tema delle coppie omosessuali e del bisogno di quest’ultime di uscire dall’invisibilità e dal pregiudizio, che può diventare pericoloso e fonte di estremo disagio per gli stessi. Studi in merito a coppie omosessuali, hanno messo in luce una non così significativa differenza rispetto alle coppie eterosessuali, sia in merito a dinamiche di coppia, che in riferimento alla genitorialità.

Ovviamente il vivere ed il praticare la sessualità e l’intimatà sessuale è diversa, ma attenzione che Diverso non diventi sinonimo di sbagliato! sottolinea il Dott. Quattrini.

Traditori e traditi

La conferenza si è conclusa trattando il tema del tradimento all’interno della coppia che, come spiegava il Dott. Giandomenico Bagatin, non è da considerarsi solo sessuale, ma anche e soprattutto psicologico. Il tradito vive una profonda ferita su più livelli. Da un primo vissuto traumatico, di vero e proprio shock, in cui la nostra mente si trova a vivere uno scollamento di quanto si rappresentava fino a poco prima, ad una fase di lutto, in cui la persona deve elaborare ed abbandonare l’idea dell’altro/a avuta fino a quel momento e capire se si è in grado e/o vale la pena perdonare per andare avanti.

Le ricerche in merito dimostrano che l’Italia è una nazione con un alto tasso di tradimenti rispetto alle altre nazioni europee e che tra le principali motivazioni troviamo: il tradimento per non restare soli, per noia, per irresponsabilità, per desiderio di aprirsi a nuove esperienze. Dunque non sempre il tradimento esprime una crisi di coppia, ma un vissuto individuale che non esonera però dal ferire chi si ha vicino/a.

Alcuni autori parlano della fedeltà non come di un dovere verso l’altro, ma come una scelta di rispetto verso se stessi. In questo caso, il terapista che lavora su tale dimensione, suggeriva il Dott. Bagatin, dovrebbe riuscire a lavorare sul non cadere nella trappola di dare giudizi o dare consigli, aiutare a sfogare il dolore, accompagnare nell’accettazione e riflettere sulla possibilità e capacità di perdonare.

Gerard Leleu afferma:

L’amore e la fedeltà in coppia sono come una delle strade possibili dell’evoluzione personale; la fedeltà non si può pretendere; Cosa non è l’amore: non è il bisogno di essere amati; non è sacrificio di sé; non è solo un sentimento; fedeltà soprattutto come essere fedeli a se stessi.

 

Aggressività e mentalizzazione: possiamo curare il disturbo antisociale?

Capire gli antecedenti del comportamento aggressivo è fondamentale per pianificare il trattamento e individuare chi ne può beneficiare. Un fattore candidato a spiegare, in parte, le tendenze aggressive, è la scarsa capacità di mentalizzazione.

Giancarlo Dimaggio e Patrizia Velotti

 

L’idea è che persone con ridotte abilità di comprendere i propri stati interni, di capire e risuonare con pensieri ed emozioni degli altri, e di avere un atteggiamento mindful sui propri pensieri ed emozioni dolorosi, sarebbero maggiormente prone a reagire aggressivamente a frustrazioni e fallimenti nei loro scopi.

Nello studio “Mindfulness, alexithymia, and empathy moderate relations between trait aggression and antisocial personality disorder traits” apparso sulla rivista Mindfulness, gli autori riportano risultati interessanti. In un campione di 403 uomini, detenuti per reati violenti, sono state misurati i tratti antisociali, l’ aggressività come disposizione di base e le capacità di comprendere e dare nome alle proprie emozioni (alessitimia), l’empatia e la mindfulness.

Sono emersi due profili nettamente differenti. Da una parte vi sono individui con buoni livelli di capacità mentalistiche, ma anche con alti tratti di aggressività e questi presentavano anche tendenze antisociali. In parole semplici: ci sono soggetti che hanno capacità di comprendere gli stati mentali, propri e degli altri, e in qualche modo di regolarli in modo consapevole. Se queste persone agiscono comportamenti antisociali lo fanno a causa di loro tendenze di base. È probabile che ci stiamo riferendo al tipo di comportamento aggressivo di tipo predatorio, premeditato, “a sangue freddo”.

Invece in persone con scarsi livelli di capacità mentalistiche, ovvero con difficoltà a nominare e comunicare le proprie emozioni, ad assumere empaticamente il punto di vista dell’altro e a regolare lo stato interno in modo mindful, l’ aggressività come tendenza di base non prediceva il comportamento antisociale, cosa che invece faceva la scarsa mentalizzazione.

Anche qui, in parole semplici, persone con bassa mentalizzazione in risposta a eventi frustranti e stressanti possono reagire con comportamenti antisociali. È probabile che ci riferiamo qui a comportamenti di tipo reattivo, impulsivo, “a sangue caldo”. Le implicazioni del trattamento sono rilevanti, perché questo secondo tipo potrebbe beneficiare molto di più della psicoterapia e in particolare di terapie volte al miglioramento della capacità di riconoscere e regolare gli stati mentali, come la Mentalization Based Therapy, la Terapia Metacognitiva Interpersonale, la Metacognitive Reflection and Insight Therapy.

L’Anoressia Nervosa Atipica, oltre il basso peso corporeo

Sempre più spesso pazienti adolescenti ricoverati per Anoressia Nervosa presentano gran parte delle complicazioni fisiche e cognitive del disturbo alimentare senza però essere sottopeso (condizione fondamentale per la diagnosi).

Adriano Mauro Ellena

 

I Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione stanno cambiando volto, in un contesto dove la prevalenza di sovrappeso e obesità è sempre più evidente.

Immersi in una società performante e con canoni estetici molto esigenti, sono sempre più i giovani che sviluppano un’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme del corpo. Questa preoccupazione può dunque sfociare in un disturbo dell’alimentazione, che molte volte è evidente ai più, mentre altre volte si insidia in maniera atipica e poco evidente.

Un recente studio realizzato presso l’Università di Melbourne in Australia, ha riscontrato che il 31% dei pazienti adolescenti ricoverati per Anoressia Nervosa (AN) presentano gran parte delle complicazioni fisiche e cognitive del disturbo alimentare senza però essere sottopeso (condizione fondamentale per la diagnosi di AN). Gli esperti richiedono perciò una modifica dei criteri diagnostici, cercando di considerare “critica” la perdita di peso e non il fatto di essere o meno sottopeso.

Quello a cui stiamo sempre più assistendo è che molti pazienti hanno un peso corporeo nella norma, ma presentano complicazioni caratteristiche di chi soffre di anoressia nervosa tipica, tra cui gli stessi pensieri su alimentazione e cibo. Abbiamo bisogno di ridefinire l’ anoressia perché vi è una percentuale crescente di pazienti con anoressia nervosa atipica, più difficile da riconoscere. La definizione dovrebbe riferirsi alla perdita di peso, non solo al sottopeso – afferma la dottoressa Whitelaw, autrice dello studio.

Lo studio

Nello studio sopra citato, Whitelaw ha esaminato 171 pazienti affetti da anoressia nervosa, di età compresa tra 12 e 19 anni, che sono stati ammessi al programma sui disordini alimentari del Royal Children’s Hospital a Melbourne, in Australia, tra il 2005 e il 2013.

È emerso che 51 pazienti del campione presentavano il disturbo in una forma “atipica” ovvero con psicopatologia del disturbo alimentare di significativa intensità, ma non sottopeso. In questi pazienti si riscontrava comunque una significativa perdita di peso (piuttosto che l’essere sottopeso), associata a una frequenza cardiaca pericolosamente bassa, una complicazione che richiede necessariamente il ricovero. Inoltre questi pazienti con anoressia nervosa atipica soffrivano di bassa pressione sanguigna e mostravano uno squilibrio degli elettroliti nel sangue.

Nessuna complicazione è stata associata indipendentemente al sottopeso, il sintomo tipico, nonché distintivo, dell’anoressia.

Nessuno dei pazienti inclusi nello studio è stato tuttavia monitorato da uno specialista per verificare il loro rapporto con il cibo o i metodi utilizzati per perdere peso.

In conclusione

I pazienti con anoressia nervosa atipica potrebbero aver perso circa un quarto del loro peso corporeo, ma il corpo può andare in “starvation mode” (modalità fame) anche solo perdendo il 10% del proprio peso (se ciò avviene in marniera rapida e brusca), causando il rallentamento della frequenza cardiaca al fine di preservare l’energia.

Mentre l’ anoressia nervosa atipica è spesso considerata meno grave dell’ anoressia nervosa tipica, le nuove scoperte mostrano che le conseguenze sulla salute possono essere altrettanto pericolose.

Perdere peso molto velocemente e senza un corretto supporto professionale può essere molto pericoloso, e i giovani sono sempre più inclini a prendere misure estreme pur di raggiungere la tanto ambita soddisfazione corporea.

Gli specialisti dovrebbero impegnarsi per monitorare questo tipo di comportamento e cercare di prevenire ed eventualmente trattare questo tipo di manifestazione clinica.

Sulla base di questi risultati e di queste ultime riflessioni, appare chiara l’affermazione della Whitelaw, secondo cui:

È momento di cambiare gli attuali criteri diagnostici secondo i quali chi soffre di anoressia nervosa deve essere sottopeso.

Le bugie hanno le gambe corte? Gli effetti del contatto visivo sul nostro interlocutore

A chi non è mai successo di trovarsi di fronte a un bugiardo? È piuttosto comune che le persone con le quali ci relazioniamo ci raccontino delle bugie. Spesso si tratta di “bugie bianche”, ovvero di menzogne innocue, dette per evitare che l’altra persona si senta ferito o dispiaciuto.

 

Quando ci troviamo di fronte ad un collega che racconta scuse su scuse per giustificare il suo ritardo, o ad un bambino che dice di non sapere dove è finita la fetta di torta che stava in cucina, di solito guardiamo negli occhi il nostro interlocutore.

Uno studio condotto presso l’Università di Tampere (Hietanen, Syrjämäki, Zilliacus & Hietanen, 2018) dimostra in effetti che mantenere un contatto visivo con una persona che sta mentendo potrebbe essere molto utile.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori finlandesi hanno messo a punto un esperimento volto a testare quale fosse l’effetto di avere lo sguardo di un’altra persona puntato addosso su una persona che sta raccontando una bugia. Come reagiscono i bugiardi quando qualcuno li guarda fissi negli occhi? Questa la domanda a cui i ricercatori hanno cercato di dare una risposta.

La ricerca: il contatto visivo aiuta a smascherare i bugiardi?

Nell’esperimento i soggetti del campione si trovavano davanti a uno degli sperimentatori, di fronte al quale dovevano mentire mentre erano impegnati in un gioco. Nella metà dei casi, lo sperimentatore guardava il soggetto bugiardo dritto negli occhi, nell’altra metà invece teneva lo sguardo basso. Obiettivo degli autori era quello di capire se il comportamento di chi stava mentendo poteva essere influenzato dal cambio di direzione dello sguardo dello sperimentatore.

I risultati dello studio hanno dimostrato che guardare direttamente chi mente, proprio mentre lo sta facendo, è efficace nel ridurre il numero e la magnitudo delle bugie che si accinge a raccontare. Ovviamente i ricercatori sostengono che è sbagliato pensare che in questo modo si eviti totalmente ed in ogni circostanza che le persone mentano, semplicemente diventa meno probabile che lo facciano se hanno lo sguardo di un’altra persona diretto sul loro viso.

In conclusione

Le implicazioni pratiche dello studio che stiamo trattando sono enormi sia per quanto concerne situazioni un po’ più ufficiali (basti pensare, ad esempio, ad un interrogatorio condotto dalle forze di polizia) sia, invece, in contesti più informali come nel caso delle bugie raccontate da un collega o dal nostro partner.

Purtroppo, un grande limite di questo studio che lo rende, de facto, inapplicabile, almeno a un livello puramente teorico, a contesti di vita reale, è il fatto che tutto l’esperimento si sia svolto in laboratorio. Pertanto non è possibile generalizzare le conclusioni alle situazioni reali, esterne a un contesto controllato come quello di uno studio sperimentale. Sarebbe interessante che altri ricercatori ampliassero e tentassero di riprodurre i risultati di Hietanen e collaboratori in situazioni esterne ad un laboratorio.

Nulla ci vieta però di testare personalmente la veridicità di quanto emerso dallo studio. Riusciremo a smascherare i bugiardi intorno a noi?

L’effetto del trauma sulla crescita dei bambini 

Nel panorama della psicologia scientifica è possibile distinguere diverse tipologie di trauma, in particolare si parla di traumi con la “T” e traumi con la “t”. I loro effetti possono essere differenti sull’individuo.

 

La parola “trauma” deriva dal greco e vuol dire “ferita”. Con questo termine ci si riferisce a un evento ad alto impatto emotivo e difficile da elaborare, che comporta delle conseguenze negative sul funzionamento dell’individuo, ad esempio la comparsa di sintomi ansiosi e depressivi.

È possibile distinguere traumi con la “T” e traumi con la “t”. Questi ultimi fanno riferimento a quelle esperienze disturbanti che sono caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intensa, hanno generalmente un’origine relazionale. Al contrario, i traumi con la “T”, fanno riferimento a quegli eventi che minacciano l’integrità fisica di sé o delle persone care, come disastri naturali.

La ricerca: gli effetti del trauma sullo sviluppo

Un recente studio, svolto presso l’Università di Washington, si è posto l’obiettivo di indagare l’effetto che diversi tipi di trauma hanno sulla crescita dei bambini. La ricerca ha coinvolto 247 bambini e adolescenti di età compresa tra gli otto e i sedici anni. Questi bambini sono stati seguiti nel tempo al fine di comprendere le conseguenze del trauma.

In particolare, la ricerca ha messo in evidenza che differenti tipologie di trauma influenzano la crescita dei bambini in diversi modi. I bambini esposti a forme di avversità nelle prime fasi della vita, come negligenza e trascuratezza, hanno mostrato un ritardo nello sviluppo puberale, rispetto ai loro coetanei. Al contrario, i bambini che avevano subito violenze nelle prime fasi della vita, come l’abuso fisico, emotivo o sessuale, mostravano un invecchiamento biologico più veloce, rispetto ai loro coetanei.

McLaughlin, PhD presso l’Università di Washington, ha affermato:

I risultati dello studio hanno dimostrato che diversi tipi di avversità/ trauma, avvenuti nelle prime fasi della vita, possono avere conseguenze diverse sullo sviluppo dei bambini.

McLaughlin ha continuato, dicendo:

Questi risultati indicano che l’invecchiamento accelerato, in seguito all’esposizione ad episodi di violenza nelle prime fasi della vita, può essere già rilevato in bambini di otto anni.  

Conclusioni

In altre parole, la ricerca ha messo in evidenza che gli eventi traumatici e le avversità legate alla violenza e alla privazione, hanno effetti diversi sullo sviluppo dei bambini. A tal proposito, i ricercatori sottolineano l’importanza di indagare il tipo specifico di trauma subito in quanto questo permetterà di comprendere gli effetti che quest’ultimo ha avuto sulla crescita dei bambini.

Infine, nei bambini che hanno subito violenze nelle prime fasi della vita, l’invecchiamento epigenetico accelerato è stato associato ad un aumento dei sintomi depressivi. Secondo gli autori, questo significa che un invecchiamento biologico più veloce può essere un modo in cui le avversità e le esperienze traumatiche vissute durante le prime fasi di vita possono contribuire all’esordio di problemi di salute successivi.

Quando la musica aiuta ad elaborare il dolore

La musica è entrata talmente tanto a far parte della nostra vita quotidiana che la sua presenza oramai è data per scontata. Fa da cornice agli eventi più importanti, così come nei gesti più semplici della vita di tutti i giorni. Ma che cosa ci spinge a scegliere quel brano specifico, in quel preciso momento?

Francesca Bianco e Alba Miragliuolo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il dolore non è un errore dell’evoluzione umana. Nella vita tutto ciò che conta si conquista superando l’esperienza negativa a essa correlata. Ogni tentativo di evitarlo, soffocarlo o silenziarlo ci si ritorce contro.
(dalla serie tv Perception)

Musica nella quotidianità

La musica è entrata talmente tanto a far parte della nostra vita quotidiana che la sua presenza oramai è data per scontata. Fa da cornice agli eventi più importanti, così come nei gesti più semplici della vita di tutti i giorni. Basti pensare alla marcia nuziale di un matrimonio, alla canzoncina di buon compleanno, alla messa della domenica mattina, alla ninna nanna. E ancora, la si ascolta per radio mentre si va al lavoro, con gli auricolari mentre si va a correre o in palestra, mentre si attende di parlare con un operatore telefonico, dal parrucchiere. Se poi ricollegassimo alcune canzoni a momenti della vita di ognuno di noi, gli esempi sarebbero infiniti.

A chi non è mai capitato di piangere sulle note di “Nessun rimpianto” degli 883 dopo una relazione finita? Chi non ha mai dedicato una canzone romantica al proprio partner? Quanti si ricordano delle vacanze estive ripensando alle hit più in voga quell’anno? Chi non ha mai ballato YMCA o la macarena in riva al mare?

Verrebbe naturale pensare che nei momenti tristi, quando ci si sente giù di morale, la cosa più semplice sarebbe alzare la musica a tutto volume, magari con canzoni allegre e spensierate. Eppure non è sempre così. Quando viviamo un brutto momento, spesso viene l’istinto di chiuderci in camera e crogiolarci nel nostro dolore, ascoltando quella canzone che ci ricorda tanto quella persona che ci ha ferito, o per la quale soffriamo. Ma che cosa ci spinge a scegliere quel brano specifico, in quel preciso momento, piuttosto che un altro? Scegliamo una canzone per il testo, o per la melodia? Cosa ci aspettiamo dall’ascoltare musica quando siamo tristi?

Lo scopo di questo articolo è comprendere il motivo per cui preferiamo ascoltare un certo tipo di musica quando sperimentiamo situazioni avverse, focalizzando l’attenzione sulle differenti funzioni e sugli effetti che l’ascolto della musica triste produce. L’analisi di questi fattori può essere importante al fine di comprendere in che modo la musicoterapia può essere di supporto alla pratica clinica, e in che modo può essere un valido strumento all’interno di un approccio multidisciplinare per migliorare gli effetti della psicoterapia nel trattamento di differenti disturbi.

Musica e psicoterapia: musicoterapia

La World Federation of Music Therapy (Federazione Mondiale di Musicoterapia) ha dato nel 1996 la seguente definizione:

La musicoterapia è l’uso della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo, melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un utente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la comunicazione, la relazione, l’apprendimento, la motricità, l’espressione, l’organizzazione e altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive. La musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue dell’individuo in modo tale che questi possa meglio realizzare l’integrazione intra- e interpersonale e consequenzialmente possa migliorare la qualità della vita grazie a un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico.

Nonostante la musicoterapia si sia fatta largo nel panorama clinico-psicologico solo nel secolo scorso, le origini della musica sono ben più lontane. Già nell’antica Grecia la musica aveva un ruolo preponderante, tanto da attirare l’attenzione di studiosi come Platone e Pitagora. Da allora sono stati sempre più numerosi gli studi intorno alla natura del linguaggio musicale. Per Wackenroder la musica esprime il mondo delle emozioni (Wackenroder, 1814) per Meyer la musica susciterebbe aspettative da appagare (Meyer, 1956), mentre secondo Fonagy il linguaggio verbale e quello musicale avrebbero la stessa origine (Fonagy, 1983).

Le origini della musicoterapia possono essere fatte risalire agli anni ’50, quando medici e psichiatri di varie parti del mondo (tra i quali Benenzon in Argentina, Wigram in Gran Bretagna e Lecourt in Francia) hanno iniziato ad interessarsi al possibile coinvolgimento del ruolo clinico della musica nel processo terapeutico (Scarso et al., 1998). Iniziava dunque a farsi largo l’idea che la musica potesse inserirsi in una pluralità di interventi multidisciplinari (Parenti, 1983), al fine di raggiungere diversi obiettivi, tra cui:

  • acquisire abilità psicomotorie (o intellettive);
  • facilitare le relazioni interpersonali incoraggiando l’uso di un linguaggio non verbale;
  • migliorare le capacità di insight;
  • contenere i propri vissuti emotivi;
  • migliorare l’espressività del Sé corporeo.

Quest’ultimo punto si riferisce in particolar modo all’associazione di musica e danza, che favorirebbe la comunicazione non verbale, modulando la distanza interpersonale (Scarso et al., 1998).

Musica e strategie di ascolto

L’ascolto della musica può assolvere molteplici funzioni, tra le quali assume particolare importanza quella contenitiva. Non a caso, capita spesso di ascoltare brani già conosciuti, probabilmente per ricercare vissuti già provati. Altre volte l’ascolto di determinati brani ci permette di “rievocare” momenti nostalgici, altre ancora la musica rappresenta una sorta di “evasione”, e consente un distacco dalla realtà, seppur momentaneo.

Ed ecco che allora si possono instaurare molteplici relazioni nei confronti della musica, come quella di dipendenza, di compensazione, di difesa, comunicazione o collaborazione. Ne è un esempio l’avvento della musica rock, che ha permesso ai giovani di identificarsi in una cultura diversa rispetto a quella degli adulti, riconoscendosi come gruppo.

Per queste ragioni l’ascolto della musica, unitamente alla scelta dei brani da ascoltare, ha suscitato l’interesse degli studiosi, che negli ultimi anni si sono occupati degli effetti causati dalla scelta di specifici brani, e del motivo per il quale si scelgono alcuni brani piuttosto che altri. Le persone infatti, usano strategie differenti per la scelta musicale e tale scelta dipenderebbe in primo luogo dagli obiettivi che ogni individuo ha per affrontare una specifica situazione (Chen et al., 2007, DeNora, 1999; Lonsdale & North, 2011; Saarikallio & Erkkilä, 2007; Thoma, Ryf, Mohiyeddini, Ehlert, & Nater, 2012).

Musica triste quando siamo tristi

Secondo Miranda e Claes (2009):

Ascoltare la musica può essere utilizzata intenzionalmente per far fronte allo stress quotidiano.

Analogamente, sempre più ricerche hanno dimostrato che in seguito a esperienze negative, le persone siano motivate ad ascoltare musica triste, al fine di distrarsi dall’evento o per incanalare le proprie emozioni.

Molti studiosi hanno evidenziato le seguenti strategie di selezione musicale quando si provano stati d’umore negativi:

  • Connessione: selezionare uno specifico pezzo musicale perché la musica ritrae un’emozione o ha un testo in cui l’ascoltatore si identifica in quel momento;
  • Trigger (innesco) della memoria: selezione della musica perché essa ha associazioni con eventi o persone passate;
  • Valore estetico alto: selezione della musica perché essa viene considerata come “bella”;
  • Messaggio musicale: viene scelta la musica che esprime un messaggio, in cui l’ascoltatore si identifica.

Musica e auto-regolazione delle emozioni

Un consistente numero di recenti studi sottolinea come l’ascolto della musica funga da auto-regolatore delle proprie emozioni. In questa accezione, l’ascolto musicale potrebbe essere usato per cambiare, mantenere o rinforzare emozioni e stati d’animo, o per rilassarsi.

Da quanto emerge da uno studio recente condotto su 65 adulti l’ascolto di brani tristi avrebbe una funzione auto-regolatoria (Van den Tol & Edwards, 2011), che consiste nel: riproporre l’esperienza emotiva, per rimanere in contatto ed intensificare i propri stati emotivi; rievocare ricordi passati, spesso associati al brano scelto; ricercare la “vicinanza di un amico” simbolico; distrarsi, per concentrarsi su un altro stato d’animo che non sia quello attuale (Van den Tol & Edwards, 2015). Inoltre, la scelta di un brano triste in momenti tristi, potrebbe essere una valida strategia di coping per fronteggiare un evento spiacevole o stressante.

L’ascolto di una canzone triste può agevolare l’accettazione, può significare ricevere supporto, o avere una funzione empatizzante, in particolare per gli adolescenti, i quali utilizzano spesso la musica come riparo al proprio umore (Saarikallio, 2008).

Musica e tristezza

Diverse ricerche hanno messo in luce una correlazione positiva tra l’ascolto di musica triste e l’aumento del tono dell’umore.

Molti studi hanno indicato che le strategie di selezione musicale maggiormente utilizzate per aumentare il tono dell’umore sono la rivalutazione cognitiva o un diversivo comportamentale, come la distrazione (Haye et al., 2010; Kross, Ayduk, & Mischel, 2005; Totterdell & Parkinson, 1999).

Inoltre, in diverse ricerche sull’ascolto di musica triste, è stato riscontrato che molte persone tendono a richiamare in memora ricordi riguardanti amori perduti, o mancati (Van den Tol & Edwards, 2011) e che sembrano richiamare alcuni elementi della nostalgia, descritta da Wildschut, Sedikides, Arndt and Routledge (2006) come “un’emozione agrodolce”, cioè la felicità legata all’esperienza ma che contiene anche elementi emotivi negativi. In modo interessante, gli autori hanno dimostrato che le persone spesso diventano nostalgiche al fine di migliorare il proprio umore (Wildschut et al., 2006). In aggiunta a questi risultati, Barrett e coll. (2010) hanno messo in evidenza come l’umore triste può motivare le persone ad ascoltare musica, che diviene a sua volta uno strumento per recuperare i ricordi nostalgici e aumentare l’umore positivo.

Uno studio condotto su 220 partecipanti (Van de Tol e coll., 2015) ha dimostrato che le persone tendono a selezionare una musica con valore estetico elevato come forma di distrazione e di rivalutazione cognitiva per migliorare il proprio umore. Più nello specifico, questi risultati porterebbero a ipotizzare che le persone, dopo aver sperimentato un evento negativo, selezionino consapevolmente la musica con alto valore estetico con lo scopo di migliorare il proprio stato emotivo(Van den Tol & Edwards, 2015).

Questi risultati forniscono ulteriori informazioni alla letteratura esistente. Ad esempio Chen e coll. (2007) hanno riscontrato che la preferenza verso l’ascolto di musica triste si verifica durante l’esperienza di un umore negativo, mentre la scelta di ascoltare una musica più felice si manifesta poco dopo aver vissuto un’esperienza avversa, al fine di migliorare il proprio stato d’animo. Questi risultati spiegherebbero perché le persone ascoltano una musica triste quando sono tristi, appunto per “risolvere” il loro stato emotivo e, come ulteriore prova a favore di tale teoria, le persone riferiscono di sentirsi meglio dopo l’ascolto.

È interessante notare che, sebbene ascoltare una musica triste come strategia di distrazione sia correlato con un aumento dell’umore, l’ascolto continuo di questo tipo di musica per distogliere l’attenzione dalle esperienze negative può rappresentare una strategia di coping (Miranda & Claes, 2009; Garrido & Schubert, 2011) o una strategia psicologica disfunzionale (Hutchinson, Baldwin & Oh, 2006).

Musica e musicoterapia: le prospettive

Dai risultati emergenti dalle ultime ricerche sull’ascolto della musica triste in situazioni avverse, emerge come l’ascolto di musica triste intensifichi i sentimenti di tristezza per la maggior parte della persone, ma anche come siano le persone stesse a ricercare questo tipo di sensazione, con il fine di sentirsi in contatto con le proprie emozioni. La musica assolverebbe in questo caso una funzione “catartica”, come se le persone volessero vivere in maniera ancora più profonda la loro tristezza, per poi sentirsi sollevati e poter “riemergere” dal proprio stato d’animo negativo.

Sarebbe interessante prendere in considerazione, nelle future ricerche, quali e in che modo le caratteristiche individuali (ad esempio tratti della personalità vs aspetti culturali) possano portare le persone a preferire l’ascolto di un certo tipo di musica. Ad esempio, come dimostrato da Garrido e coll. 2013), alcune persone provano emozioni positive quando ascoltano brani tristi rispetto ad altre persone, e questo potrebbe enfatizzare la variabilità individuale che si esplica nel provare emozioni diverse di fronte ad uno stesso stimolo.

Dai risultati riportati si potrebbe pensare, quindi, che la musicoterapia potrebbe essere un valido strumento di sostegno e supporto per coloro che vivono esperienze emotivamente negative, seppur transitorie.

Viene da chiederci se questi risultati possono essere estesi a persone che presentano una sintomatologia più severa: la musica, sia essa triste o felice, può fungere come uno strumento da integrare nel trattamento psicoterapeutico di diversi disturbi di entità più severa?

Alcune recenti ricerche sulla combinazione di musicoterapia e psicoterapia forniscono risultati promettenti. Ad esempio, risultati emersi da una meta analisi, che includeva studi su pazienti affetti da depressione, hanno evidenziato come la associazione tra musica e psicoterapia ha prodotto un aumento del tono dell’umore maggiore a quello prodotto dalla terapia standard (Maratos e coll., 2009). Aspetto molto interessante è che la musicoterapia nel trattamento dei sintomi depressivi si sia rivelata efficace non solo negli adulti, ma anche nei bambini e negli adolescenti (Sam Porter e coll., 2016).

Ulteriori ricerche hanno messo in luce il ruolo della musicoterapia nell’ambito delle cure palliative: in uno studio condotto su malati terminali (Nakayama H. et al., 2009), si è registrata una diminuzione dei punteggi dell’ansia e della depressione già dopo la prima sessione di musicoterapia, mentre i punteggi per l’eccitazione tendevano ad aumentare, a favore di un miglioramento della qualità della vita dei pazienti.

Nonostante l’interesse crescente verso gli effetti che la musica può avere sul migliorare lo stato di salute psicologica, sarebbe opportuno ampliare la letteratura scientifica a riguardo, nel tentativo di comprendere se tali effetti positivi, in particolare l’aumento del tono dell’umore, siano riscontrabili anche a lungo termine. Sarebbe inoltre interessante identificare ulteriori ambiti applicativi in cui la musicoterapia, in associazione con la psicoterapia, possa mostrare effetti positivi per il trattamento di altri disturbi, e poter differenziare, a sua volta, le differenti forme di musicoterapia a favore di un approccio personalizzato e basato sulle esigenze del singolo individuo.

Alla scoperta della Terapia Metacognitiva Interpersonale – Intervista a Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo

La Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci raccontano Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo, è un approccio che vede un importante coinvolgimento della componente esperienziale al fine di favorire il processo terapeutico di cambiamento verso l’esplorazione di nuovi schemi interpersonali.

 

Facilitare il riconoscimento e la descrizione degli stati mentali e utilizzare tali informazioni per ridurre la sofferenza emotiva e coltivare relazioni adeguate con le altre persone. Il tutto attraverso una costante attenzione alla dimensione interpersonale e all’alleanza terapeutica, regolando l’intervento sul livello metacognitivo del paziente.

Queste sono alcune delle caratteristiche distintive della Terapia Metacognitiva Interpersonale, di cui abbiamo parlato con Raffaele Popolo e Giancarlo Dimaggio, psichiatri psicoterapeuti e co-fondatori del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma in occasione del workshop pre-congressuale SITCC dello scorso settembre.

 Durante l’intervista Dimaggio e Popolo ci hanno guidato attraverso la scoperta della TMI, il cui target terapeutico è rappresentato dagli Schemi Interpersonali, ovvero le strutture attraverso le quali le persone si orientano nelle relazioni quotidiane, formando previsioni sul destino dei propri scopi e desideri:

La persona che ho davanti mi confermerà  di essere una persona di valore, oppure reagirà come un giudice severo e critico convalidando ciò che in fondo temo, ovvero di non valere nulla?

La Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci raccontano Dimaggio e Popolo, anticipando alcune tematiche del nuovo libro in uscita a marzo del prossimo anno, è un approccio che vede un importante coinvolgimento della componente esperienziale, includendo tecniche non solo cognitive, ma anche corporee, meditative e immaginative, al fine di favorire il processo terapeutico di cambiamento verso l’esplorazione di nuovi schemi.

L’obiettivo della TMI è quello di accompagnare il paziente verso la promozione di una dimensione di creatività, innovazione, di esplorazione e autonomia, attraverso l’ampliamento del proprio repertorio metacognitivo e relazionale, verso la valorizzazione delle parti sane di sé.

In tale ottica si inserisce coerentemente il nuovo protocollo di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo (TMI-G), tematica del workshop precongressuale veronese. Il setting gruppale, ci spiegano Popolo e Dimaggio, rappresenta un contesto prezioso dove trasmettere e condividere la conoscenza dei sistemi motivazionali interpersonali, recuperarli all’interno della propria esperienza attraverso la narrazione di episodi narrativi autobiografici, ri-sperimentarli attraverso tecniche immaginative, esperienziali e role playing, con il fine di comprendere gli schemi, accelerare l’apprendimento di nuove strategie e ampliare la lettura degli stati mentali attraverso l’allenamento “in vivo” delle funzioni metacognitive.

Le prime applicazioni del protocollo su gruppi di pazienti con disturbi di personalità di area inibito-coartata, al vaglio degli studi di efficacia, hanno mostrato risultati decisamente interessanti, che aprono a sperimentazioni promettenti, sia in Italia che all’estero, anche su popolazioni di pazienti diversi, compresi quelli caratterizzati da disregolazione emotiva.

Nella parte conclusiva dell’intervista, infine, un auspicio, ovvero quello che il cognitivismo italiano possa essere un terreno fertile di dialogo aperto, che possa coniugare il valore dell’aspetto relazionale del lavoro tra terapeuta e paziente, con l’altrettanto importante applicazione delle numerose tecniche (cognitive, meditative, di allocazione dell’attenzione, comportamentali, immaginative, sensomotorie ecc.) che ad oggi caratterizzano e arricchiscono i diversi approcci e interventi di matrice cognitiva.

 

TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE – L’INTERVISTA A GIANCARLO DIMAGGIO E RAFFAELE POPOLO:

Stigma e disfunzioni cognitive in pazienti con HIV: quale relazione?

Lo stigma sociale sembra compromettere alcune capacità cognitive, quali memoria e attenzione, in un gruppo di uomini anziani che convivono da anni con il virus dell’ HIV.

Adriano Mauro Ellena

 

A più di 30 anni dalle prime diagnosi di AIDS e dalla scoperta del coinvolgimento del virus dell’ HIV, molti passi in avanti sono stati fatti, non solo da un punto di vista medico ma anche da un punto di vista sociale. Ciononostante, lo stigma e la discriminazione nei confronti di persone infette dal virus dell’ HIV è ancora ben presente in molte realtà.

Le conseguenze dello stigma sociale sulle capacità cognitive: lo studio della McGill University

Un recente studio, effettuato da ricercatori del Montreal Neurological Institute, della McGill University e del McGill University Health Center, ha evidenziato quanto lo stigma sociale possa compromettere alcune capacità cognitive (quali memoria ed attenzione) in un gruppo di uomini anziani che convivono ormai da anni con il virus dell’ HIV.

Lo studio è stato effettuato testando 512 uomini caucasici anziani infetti da HIV. A questi partecipanti è stato chiesto di rispondere ad un questionario concernente la percezione e consapevolezza dello stigma esperito. Queste risposte sono state correlate, successivamente, con gli esiti di alcuni test cognitivi e psicologici.

I risultati hanno evidenziato quanto effettivamente ci fosse un collegamento forte tra lo stigma esperito e gli esiti dei test cognitivi: maggiore era lo stigma percepito, minore era la performance nei test cognitivi. Questa compromissione sembra portare la persona oggetto di discriminazione ad una riduzione della partecipazione sociale e ad una compromissione di alcune funzionalità fondamentali per l’autonomia nella vita di tutti i giorni.

Correlazioni significative sono state trovate anche tra lo stigma e l’ansia, più debole invece è la correlazione esistente con la depressione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Non è ancora chiaro come lo stigma possa influenzare alcuni aspetti cognitivi, sicuramente si può ipotizzare che siano coinvolti costrutti quali l’impatto dello stress cronico subìto sul cervello ed alcuni effetti psicologici quali l’interiorizzazione di credenze negative sul sé.

Questo studio è il primo di questo genere ma può contribuire ad implementare nuovi metodi terapeutici per il trattamento delle disfunzioni cognitive in alcuni pazienti affetti da HIV. Inoltre, sottolinea l’importanza del contesto sociale e degli interventi comunitari ed istituzionali per ridurre stigma e discriminazione.

La correlazione tra perfezionismo e bulimia nervosa

La bulimia nervosa è un disturbo alimentare purtroppo molto comune e anche molto pericoloso per la vita di chi ne soffre.

 

Secondo il DSM 5, la bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffata, durante i quali la persona mangia grosse quantità di cibo in un periodo di tempo ristretto e sperimenta una sensazione di perdita di controllo, e da ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie eliminatorie, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva.

Di solito le persone che soffrono di bulimia sono prevalentemente donne; secondo alcune ricerche canadesi, oltre 275.000 ragazze e donne soffrono di bulimia nervosa ad un certo punto della loro vita. È stato inoltre stimato che l’incidenza di morte per chi soffre di questo disturbo è del 2% ogni 10 anni e circa un quinto di queste morti sarebbero dovute a suicidio.

Andare ad indagare i diversi fattori che portano alla bulimia nervosa è dunque molto importante, nonostante le cause di questo disturbo siano ancora in gran parte sconosciute.

Bulimia nervosa e perfezionismo, quale relazione? Ce lo spiega un nuovo studio

Il Professor Sherry della Dalhousie University, docente di psicologia e neuroscienze, ha indagato personalmente i tratti caratteristici di questo disturbo alimentare ed ha anche valutato e trattato i problemi associati alla bulimia nervosa, ponendo particolare attenzione alla tendenza al perfezionismo spesso riscontrata in queste pazienti.

In un recente studio, condotto in laboratorio, ha indagato il rapporto esistente tra il tratto di personalità del perfezionismo e la bulimia nervosa.

Il perfezionismo comporta uno sforzo incessante per raggiungere e mantenere risultati irragionevoli e impeccabili, riguardanti sé e gli altri e ben al di sopra delle proprie possibilità. I perfezionisti sono raramente soddisfatti delle loro prestazioni e si sottopongono ad una severa autocritica quando con i loro sforzi non riescono a raggiungere la perfezione.

Il perfezionismo è inoltre legato a numerosi problemi nelle relazioni e a sentimenti di tristezza; di fatto i perfezionisti, molto spesso, rivolgono la loro attenzione al cibo per sopperire alla tristezza, causata dalla mancanza di rapporti soddisfacenti con le altre persone.

I sintomi della bulimia nervosa, ad esempio le abbuffate, sembrano offrire ai perfezionisti un perfetto nascondiglio dalla pressione e dall’autocritica.

Lo studio ha comportato lo svolgimento di una meta-analisi che ha raccolto 12 studi longitudinali comprendenti 4.665 partecipanti. Il campione era composto principalmente da donne (86.8%); l’età media dei partecipanti era pari a 19 anni, ma erano incluse nel campione anche adolescenti, laureandi e adulti appartenenti alla comunità.

Risultati e Conclusioni

I risultati hanno messo in evidenza come il perfezionismo rivesta un ruolo centrale nella personalità delle persone affette da bulimia nervosa. Inoltre è stato possibile dimostrare chiaramente che persone perfezioniste tendono ad avere maggiore probabilità di sviluppare il disturbo di bulimia nervosa e che tale rischio aumenta con il passare del tempo.

Proprio per questo motivo è importante intervenire nel trattamento del disturbo il prima possibile; inoltre la bulimia nervosa sembra prolungarsi oltre 8 anni dall’esordio del disturbo prima che i sintomi scompaiano, e circa il 25% delle persone in questa condizione sviluppano sintomi cronici, difficili da trattare, e spesso anche problemi secondari come carie dentarie e depressione.

Ricerche precedenti hanno dimostrato come la pressione da parte della famiglia, degli amici e dei media possono contribuire allo sviluppo della malattia, promuovendo sempre di più il desiderio di raggiungere il peso e la forma “ideali”. Nella società di oggi i genitori sembrano sempre più competitivi, controllano in tutto e per tutto i figli, concentrandosi principalmente sulle vittorie e le prestazioni. Queste sono le condizioni in cui è più probabile che si sviluppi il perfezionismo, perciò con il passare del tempo potremmo assistere sempre di più a casi di bulimia nevosa legata al perfezionismo.

Maltrattamento e genitorialità in ottica transgenerazionale

Per affrontare il tema dei genitori abusanti prima di tutto può essere importante definire il concetto di genitorialità.

Laura Bernardi – Open School Studi Cognitivi Modena

La genitorialità è una funzione che ha il precipuo obiettivo di garantire il mantenimento della specie. Da un punto di vista psicologico, essa si attiva ed evolve come funzione relazionale autonoma basata su rappresentazioni arcaiche interattive dei genitori evocate nell’hic et nunc della relazione con un determinato bambino, che con il proprio personalissimo bagaglio, le riattiva in maniera diversa e modulata, in situazioni e tempi successivi della vita (Lebovici, 1983).

Genitorialità: una funzione molto complessa

Da un punto di vista generale, la genitorialità è anche una funzione processuale dell’essere umano che si sviluppa indipendentemente dall’essere genitore. Il desiderio di “prendersi cura di” qualcun altro è un desiderio che si manifesta precocemente e che trova espressioni diverse a seconda delle modalità immaginative e rappresentative che sono a disposizione dell’individuo nei vari momenti dello sviluppo. Negli anni il bambino svilupperà tale funzione progressivamente, giocandola su un piano fantasmatico e concreto, tramite continue identificazioni con gli adulti di riferimento e con il gruppo dei pari (Fava Viziello, 2003).

I numerosi significati collegati alla genitorialità sono imprescindibili dalla comprensione di alcuni aspetti dello sviluppo, delle capacità relazionali e dell’adattamento sano o psicopatologico dell’individuo al proprio ambiente (Simonelli, Zancato & Calvo, 2000).

Essa viene di norma identificata nell’abilità di riconoscere (con o senza una chiara consapevolezza) i bisogni del bambino:

  • a) per il suo benessere fisico,
  • b) per il suo nutrimento,
  • c) per curare l’opportunità di relazionarsi con gli altri,
  • d) per garantire la crescita fisica e l’esercizio di funzioni mentali e fisiche,
  • e) per offrire l’aiuto nel relazionarsi con l’ambiente (cfr. Satir V. et al.,1991: The Satir Model).

L’incapacità di svolgere in maniera adeguata la funzione genitoriale non è semplicemente legata ad una scarsa competenza pedagogica, ma chiama in causa -secondo Vadilonga (1996)- l’identità personale, la qualità e l’intensità delle relazioni emotive con le persone significative della famiglia nucleare e di quella estesa, l’investimento affettivo rivolto ai bambini che sarebbe controllato dai sentimenti attivati nelle relazione tra adulti. Si può affermare che la maggior parte dei disturbi psicopatologici che si manifestano nell’adolescenza prima, e nell’età adulta dopo, sono strettamente correlati all’esistenza, fin dai primi anni di vita, di una situazione di disagio personale e relazionale dei genitori che investe il legame di coppia, e ricade inevitabilmente sulla relazione col bambino (Selvini Palazzoli et al.,1988; Cambiaso et al.,1992,1993).

La “vulnerabilità” e la “resilienza” delle capacità genitoriali sono due concetti determinati da una moltitudine di fattori interagenti che spesso è difficilissimo isolare e studiare. In un groviglio di interazioni a catena e di circoli viziosi o benigni che portano alla psicopatologia o alla “normalità” sembra che la funzione genitoriale sia quella con il maggior peso sullo sviluppo, più di ogni altra. Avere una personalità con un Sé resistente alle difficoltà e alle avversità che non ceda allo stress o all’angoscia in maniera eccessiva è una cosa che “si trasmette” ai figli attraverso la costruzione di una base sicura sulla quale si può immaginare, sognare, allontanarsi e ritornare (Bowlby, 1980; Alvarez, 1992;).

Maltrattamento e genitorialità

La trascuratezza da parte dei genitori pertanto, non è una generica incapacità genitoriale ma è strettamente connessa alle relazioni tra i genitori-partner e di ciascuno di essi con la propria famiglia d’origine (Malacrea, Vassali, 1990). A questo proposito Malagoli Togliatti e Tofani (1987), individuano nella famiglia multiproblematica (definita da Mazer come un gruppo famigliare composto da due o più persone in cui il 50% dei membri ha sperimentato, in un arco di tempo indicato – dai 3 ai 5 anni- problemi di pertinenza di un servizio sociale e/o socio-sanitario o legale problematiche di tipo psichiatrico, educativo, coniugale, socio-legali), un’intricata rete di variabili che, partendo da un’analisi della coppia a partire dal presente della loro stessa generazione, considera: le modalità socio culturali, economiche ma anche psicologiche cognitive ed affettive, di formazione della coppia; il cambiamento complesso ed impegnativo innescato dalla presenza dei figli: la diade non è più tale e risulta fisiologico un adattamento della stessa, ma anche dell’identità dei coniugi col ruolo di genitori, padre e madre, tutto ciò nell’ottica di apertura verso i ritmi e la personalità del figlio. A seconda del rispetto dell’identità dei ruoli e dei compiti parentali va a strutturarsi un sistema famigliare più o meno funzionale.

I genitori maltrattanti generalmente, sono anche coniugi insoddisfatti con il partner, anche se non necessariamente conflittuali. Hanno insicurezze di fondo, ansie di abbandono, di perdita, di separazione, esperienze traumatiche, bisogni insoddisfatti non riconosciuti che non hanno ricevuto compensazione con altre persone in fasi seguenti del ciclo di vita. Per questo motivo, per comprendere il maltrattamento, bisogna riflettere su tre generazioni: gli studi sull’attaccamento confermano il fatto che l’attaccamento e la violenza si trasmettono da una generazione all’altra attraverso relazioni; Framo (1996) ha scritto che diciamo al partner e ai figli quello che non siamo mai riusciti a dire ai nostri genitori (Masè, 2002)

I processi che sfociano nella trascuratezza e nel maltrattamento sembrano, al pari di quanto osservato per la schizofrenia, evolvere su un arco di tre generazioni; con la differenza, come notano Cirillo e Cipolloni (1994) che in queste famiglie i membri problematici sono più di uno, distribuiti sull’asse trigenerazionale e portatori di diverse tipologie di disagio psicosociale. Bowlby (1988) sostiene a proposito dello sguardo generazionale al maltrattamento, che i genitori trascuranti, maltrattanti o abusanti, sono stati spesso a loro volta esposti a tali esperienze che interiorizzate vengono riprodotte nella generazione successiva; questo fenomeno è descritto in letteratura con il termine “ciclo ripetitivo dell’abuso”. Da questi vissuti ne scaturisce un’insicurezza di fondo nelle relazioni affettive, che vengono vissute con timore di perdita, di abbandono, di separazione.

Anche secondo Stratton, Hanks (1994) raramente l’abuso si presenta come modalità “nuova e sconosciuta” causa di fattori elicitanti quali stress, condizioni socio economiche, malattia ecc., spesso l’abuso è pratica consolidata nella storia della famiglia parentale ed i genitori stessi sono stati vittime di abuso. Tali considerazioni sono frutto delle osservazione trasgenerazionali, tuttavia è importante tenere presente che tra il maltrattamento attuato dai genitori e il danno psichico nel figlio esiste sì un rapporto di forte probabilità ma non di determinismo in quanto possono intervenire nella loro relazione sia elementi protettivi sia fattori di rischio (Di Blasio,2000).

Questa analisi permette l’accenno alle modalità di “doppio legame (Bateson,1976) che si instaurano in queste famiglie spesso con problematiche anche nella comunicazione; Andreoli (2004), osserva che troppo spesso i bambini finiscono per diventare gli ammortizzatori di un dissidio relazionale nei confronti del partner, dei famigliari, dei colleghi di lavoro, ecc. L’educatore ha un problema che fatica a chiarire dentro di sé o che rifiuta di affrontare: “fortunatamente” c’è a disposizione un bambino su cui spostare l’attenzione, su cui concentrare i propri sforzi. A volte questa mancanza di chiarezza di fondo in se stessi, una situazione di coppia intimamente lacerata, un disagio generico nelle relazioni che incida sulla sfera personale dell’individuo senza possibilità di elaborazione ed aiuto psicologico, può far nascere modalità disfunzionali di comunicazione tra genitori e figli, richieste, ammonimenti, osservazioni “paradossali”. Naturalmente in questo caso il potenziale di conflitto che si innesca nel rapporto è molto alto e ciò può interferire negativamente con la crescita figlio, anche perché il bambino è un recettore sensibile, una vera e propria carta assorbente di tutte le tensioni, particolarmente nei linguaggi non verbali.

L’interprete: come il cervello decodifica il mondo (2011) di Michael Gazzaniga- Recensione del libro

Il libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo di Michael Gazzaniga edito da Di Renzo Editore è un titolo accattivante che potrebbe essere fuorviante per chi non conoscesse l’autore e i suoi studi.

 

Michael Gazzaniga è un neuroscienziato americano di origini italiane (come si diletta a dichiarare nel libro) e fin dall’inizio della sua carriera scientifica ha basato i suoi studi sul cervello, in particolare gli effetti dello split brain (recisione del corpo calloso) sugli emisferi destro e sinistro. Attualmente è direttore del Sage Center , un centro istituito per lo studio della mente presso l’Università della California di Santa Barbara.

Come dichiara l’autore nel libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo, l’obiettivo del centro di ricerca è quello di agire da catalizzatore negli studi interdisciplinari sulla relazione tra mente e cervello e sviluppare metodi innovativi in grado di risolvere o chiarire questioni ancora aperte servendosi delle neuroscienze cognitive, che Gazzaniga definisce come:

il metodo mediante il quale speriamo di poter costruire un qualche tipo di ponte in grado di collegare gli aspetti neurofisiologici delle funzioni cerebrali con lo sviluppo dei concetti astratti.

Il riferimento a questo obiettivo è presente durante tutta la lettura del libro e viene affiancato da una costante ispirazionale che ha caratterizzato gli studi scientifici dell’autore: la teoria della selezione naturale. Con tale teoria, l’autore fornisce un fondamento alle sue argomentazioni e, con semplicità, sfata alcuni miti ancora attuali.

Le citazioni che Gazzaniga fa spesso ai suoi lavori, seppur un accettabile invito a conoscerli meglio, rendono, a volte, difficoltoso al lettore coglierne il collegamento. È proprio tra racconti personali e autocitazioni che si entra nel vivo di argomentazioni più scientifiche in merito alla specificità del corpo calloso, alle conseguenze della sua recisione e a come i due emisferi, ognuno con specifiche funzionalità, possano sviluppare competenze che appartengono alla controparte seppur legate a un dogma di complementarietà tra loro, ne è un esempio questo passaggio del libro:

Anatomicamente, l’emisfero destro è quasi del tutto privo di linguaggio. Eppure, a volte, a seguito di un incidente che compromette la funzionalità della parte sinistra del cervello, la natura sviluppa competenze linguistiche anche nell’emisfero destro. […] L’emisfero destro non migliora molto le sue prestazioni linguistiche, anche se chiamato a farlo. Ciò suggerisce che l’emisfero sinistro è l’unico vero responsabile della conoscenza superiore. È lui che svolge il compito maggiore, laddove il destro si limita a catalogare i risultati inviategli dalla sua controparte attraverso nuovi attributi linguistici.

Travolti dalla capacità narrativa dell’autore ci si imbatte sul ribaltamento delle credenze popolari sugli emisferi che, ancora oggi, vengono imposti come veri e propri dogmi scientifici.

Così l’autore si diletta a destrutturare queste argomentazioni e, finalmente, a condurre il lettore alla rivelazione della funzione dell’emisfero sinistro come “interprete”, definito così sulla base del suo tentativo di descrivere in che modo tale emisfero reagisca al comportamento dell’emisfero destro.

Infine, non meno importante e scontato è il tema della coscienza, definita all’inizio del capitolo come “il sentimento che si ha di un processo cognitivo specializzato”. Proseguendo nella lettura, la coscienza viene legata alla nozione di interprete, giungendo anche questa volta a sfatare alcuni miti e lasciare il lettore meravigliato “dalla sensazione di essere artefici del proprio destino”.

Il libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo di Gazzaniga è, dunque, un intreccio tra autobiografia e una viva discussione dei principali dogmi che hanno guidato fino a pochi anni fa la ricerca scientifica sul cervello, riuscendo così a raccontarci il cervello attraverso i ruoli dei due emisferi senza cadere in noiosi tecnicismi che potrebbero annoiare un lettore non avvezzo alla materia.

La perdita peri e post natale – Report dal convegno di Palermo del 30 novembre

La perdita di un figlio rappresenta sicuramente per la coppia un momento di profondo dolore emotivo che necessita di sostegno psicologico e raccordo tra gli operatori del settore medico, psicologico, infermieristico, anche in previsione di gravidanze future e per la salvaguardia del benessere sessuale e relazionale della coppia.

 

Questo il messaggio forte trasmesso a Palermo in occasione dell’evento formativo dal titolo La perdita peri e post natale: dialogo tra i sistemi coinvolti svoltosi lo scorso 30 Novembre presso la sontuosa sede dell’Hotel Best Western ai Cavalieri.

Perdita peri e post natale: la coppia genitoriale di fronte al lutto

Perdere un figlio rappresenta per la coppia perdere la sopravvivenza stessa, una minaccia effettiva – commenta Enrico Cazzaniga, psicologo psicoterapeuta – Si tratta di sperimentare una solitudine irriducibile, per affrontare la quale la coppia necessita di supporto, prendendosi cura del lutto stesso e resistendo alla seduzione del dolore, che prende il posto di chi non c’è più. Ecco perché il fine del supporto psicologico è l’integrazione della perdita e l’instaurarsi della nostalgia, quale sentimento doloroso tollerabile, relativo al ricordo di chi non c’è più.

Perdita peri e post natale - Report dal convegno di Palermo foto 1Imm. 1 – L’INTERVENTO DI ENRICO CAZZANIGA

La perdita che può ora derivare da un aborto ora dalla scelta dibattuta della riduzione selettiva, con tutti i sensi di inadeguatezza, colpa e disagio che questa comporta.

Ridurre volontariamente la vita di uno di due gemelli, per complicanze gravi in caso di mancato intervento, è senz’altro una scelta complessa, se di scelta si può parlare nel caso di morte di un figlio, percepita come un atto di distruzione causato dallo stesso genitore, con vissuti di colpa, devastanti e invalidanti – apre la sua toccante relazione la Dottoressa Messina, psicologa psicoterapeuta – In tal caso il sostegno psicologico consisterà nell’informare i genitori sul percorso medico da seguire, sostenendoli durante e dopo l’intervento di riduzione, utilizzando un linguaggio semplice e comprensibile.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Perdita peri e post natale: un evento da gestire in equipe

La perdita, quindi, come evento di difficile gestione, che richiede un lavoro di rete che interessa tutta l’equipe medica, lo psicologo e i sanitari che ruotano intorno alla coppia.

Il momento successivo alla perdita è estremamente delicato e richiede l’intervento tempestivo dello psicologo e dell’anatomo patologo, in un rapporto di strettissima collaborazione – continuano Gabriella Ottoveggio, anatomo-patologa specialista nel campo delle patologie feto-placentari e Messina – Il primo step successivo alla perdita è capire cosa può essere successo; attraverso il supporto del medico e dello psicologo la coppia si sentirà aiutata e riuscirà ad elaborare l’evento perdita anche in vista di gravidanze future. L’anatomopatologo, dal canto suo, sosterrà la coppia verso l’approfondimento delle cause della perdita fetale e degli esami medici necessari, proponendo un piano operativo, in stretto raccordo con infermieri e psicologi.

Umanizzazione dei percorsi assistenziali, collaborazione tra diverse specializzazioni, dialogo intersistemico, coinvolgimento attivo della coppia e gestione della crisi: un’ottica collaborativa attraverso cui guardare alla perdita come un evento, seppur critico, da accettare nel suo accadere e a partire dal quale attivare quella resilienza necessaria per proseguire il più serenamente nella direzione di genitori e coppia, sostenuti da una reta di professionisti, insieme empaticamente coinvolti dagli effetti di quel dolore muto che costituisce ogni trauma.

Tecnologia digitale: i rischi per la nostra società

Il digitale è attualmente cruciale per il funzionamento della società ma la vera rivoluzione è lungi dall’esser conclusa, in quanto, mentre la tecnologia avanza in un modo sempre più sofisticato e pervasivo, la società deve ancora comprendere i suoi effetti inaspettati, siano essi positivi o negativi

 

Un articolo di Makin, recentemente pubblicato su Nature Outlook, offre uno spunto per una riflessione. Viviamo nell’era dell’iperconnessione, in contatto con tutti e in qualunque momento tramite internet e piattaforme social, anche quando siamo seduti a tavola con altri e dovremmo condividere con loro un momento conviviale; non stacchiamo quasi mai le mani e purtroppo neanche la mente, dal nostro smartphone.

Secondo i dati riportati da Ofcome, l’organo preposto alla regolazione quotidiana delle telecomunicazioni in Gran Bretagna, circa il 78% della popolazione, di cui la grande fetta appartenente alla fascia 16-24 anni, non solo possiede uno smartphone ma in media vi accede circa ogni 12 minuti, mentre un adulto su cinque spende più di 40 ore ogni settimana online.

Questi dati ci impongono una riflessione: stiamo diventando dipendenti o nell’ultima decade stiamo assistendo a cambiamenti così repentini nel nostro modo di interagire, comunicare o pensare?

Tecnologia digitale per bambini e adolescenti

Quando si riflette su questi temi, fondamentalmente si finisce a percorrere due strade: una per la quale viviamo in una società in cui l’attività umana soprattutto di tipo relazionale è stata quasi del tutto sostituita e delegata ai social network; questi ultimi hanno sostituito l’interazione vis-a-vis e hanno modificato la comunicazione interpersonale, rendendoci meno empatici e più critici. Una società in cui l’utilizzo massiccio di tablet, smartphone o videogame sta lentamente depauperando le nostre capacità cognitive, soprattutto attentive e mnestiche.

L’altra strada, al contrario, cerca di riflettere in modo più sistematico e “scientifico” sull’impatto che la tecnologia digitale sta avendo sulla nostra mente e sulla salute mentale per comprendere al meglio le conseguenze del vivere in un mondo digitale (Makin, 2018).

La tecnologia digitale viene accusata di numerosi effetti dannosi, da problemi di salute mentale ad un impoverimento delle capacità cognitive, in particolare in determinate fasce di età di sviluppo più vulnerabili sia in infanzia che in adolescenza.  Ad esempio Naomi Baron, dell’American University, Washington DC, ritiene che i costi relativi all’utilizzo di apparecchi digitali nella lettura, soprattutto per i ragazzi, riguardino non tanto la lettura come abilità ma la modalità attraverso la quale essi si approcciano alla lettura (Makin, 2018).

Coloro che si ingaggiano nella lettura di materiale cartaceo sembrano essere più abili e maggiormente coinvolti quando sono chiamati successivamente a riportare alla mente specifici dettagli relativi a ciò che hanno letto e nel ricostruire la trama, rispetto a coloro che, al contrario, leggono lo stesso testo ma su dispositivi elettronici e questo perché, in essi, le risorse impiegate per la concentrazione tendono a disperdersi più rapidamente rendendo la lettura più superficiale e veloce.

A parere della ricercatrice, l’attenzione passerebbe rapidamente da una riga ad un’altra diversamente dal testo stampato.

Tecnologia digitale e multitasking

Il fatto che le tecnologie digitali incoraggino l’esecuzione di abilità multitasking ha inoltre fatto pensare ad effetti negativi sull’attenzione; in particolare lo studio di Ophir, Nass e colleghi (2009) ha mostrato come coloro che mettevano in campo diverse abilità contemporaneamente in un compito cognitivo fossero meno abili a filtrare le distrazioni e risultavano quindi i peggiori nei task attentivi.

In aggiunta a questo impoverimento delle abilità di focalizzazione e shift dell’attenzione in specifici task, uno studio di Rosen e colleghi (2014) ha sottolineato il significativo stress a cui ci sottopongono questi device: un gruppo di studenti a cui veniva chiesto di lasciare i loro smartphone per almeno un’ora, riportavano livelli di ansia proporzionali alla quantità di tempo in cui si separavano dal cellulare, livelli così alti che Larry Rosen, psicologo alla California State University, ha parlato di “vibrazione fantasma della tasca” un fenomeno simil allucinatorio per cui i ragazzi avvertivano erroneamente l’arrivo di notifiche dal loro smartphone.

Tecnologia digitale e memoria

Anche la memoria è stata oggetto di numerosi dibattiti e controversie soprattutto riguardo al cosiddetto Google effect, l’idea che le persone siano meno inclini a richiamare alla mente informazioni che essi possono consultare o riprendere più tardi utilizzando il noto motore di ricerca e pertanto non si impegnano nella “ricerca mentale” (Makin, 2018).

Gli adolescenti sono comunemente considerati più a rischio di sviluppare problematiche psicologiche a seguito delle numerose ore trascorse su questi dispositivi tecnologici (Twenge, Joiner, Rogers & Martin, 2018).

Lo studio di Twenge e colleghi (2018) ha infatti sottolineato una discreta correlazione tra l’aumento di sintomi depressivi, comportamenti suicidari e quantità di tempo impiegata sui dispositivi.

Tuttavia la correlazione non è risultata significativa e, a parere degli autori, ciò sarebbe dovuto al fatto che negli adolescenti i comportamenti online e offline spesso non si possono scindere e che i ragazzi che nelle relazioni offline mostrano alcune difficoltà molto probabilmente le esibiranno anche in quelle online.

Pertanto, seguendo le evidenze in questo ambito, non è corretto affermare che la cosiddetta “realtà online” sia la causa scatenante del malessere psicologico degli adolescenti, semmai il rifugiarsi in essa potrebbe rappresentare per i ragazzi una modalità di coping per fronteggiare le loro preesistenti vulnerabilità in quanto, in esso, si utilizzano altre modalità di comunicazione e interazione.

Tecnologia digitale: i rischi dell’uso sono ancora molto sconosciuti

Prezioso il contributo di Przybylski & Weinstein, (2017), i quali hanno tentato con i loro numerosi studi di abbattere alcuni luoghi comuni di pensiero e credenze circa l’associazione negativa in adolescenza tra tempo speso su piattaforme online, videogiochi, TV, smartphone e salute mentale.

A loro parere infatti non è plausibile l’idea che il tempo impiegato davanti ad uno schermo, sia esso della televisione, dello smartphone per chattare o chiamare, sia il medesimo, cioè abbia le stesse caratteristiche per cui sia lecito metterlo a confronto. A parità di tempo speso su questi apparecchi elettronici, il suo significato e qualità cambia da apparecchio a apparecchio.

In aggiunta a ciò, i risultati del loro studio (Przybylski & Weinstein, 2017), hanno mostrato come l’andamento della salute mentale negli adolescenti subiva un netto peggioramento dopo circa 5 ore dall’utilizzo giornaliero di specifici device digitali, in particolare su computer e televisione, mentre un loro uso “moderato” è risultato essere associato ad uno stato di salute mentale più alto. Come dire, in medio stat virtus.

Da questa breve rassegna, per il momento, siamo solo in grado di incrementare la conoscenza circa gli effetti positivi e negativi relativi a questa società digitale, senza poter ancora stabilire con chiarezza la sua pericolosità.

Bambini ed emozioni: l’importanza di non sopprimere le emozioni in famiglia

Secondo una nuova ricerca, esprimere le emozioni “negative” in maniera sana di fronte ai bambini è meglio che sopprimerle. Chi di noi non ha mai sentito o pronunciato frasi del tipo “Non di fronte ai bambini”?

 

Proprio attraverso questa supplica secolare, i genitori sperano di nascondere conflitti o forti emozioni negative di fronte ai propri figli.

Bambini ed emozioni: la ricerca su come i genitori le gestiscono in famiglia

La nuova ricerca della Washington State University smentisce questo modus operandi ormai interiorizzato dalla maggioranza dei genitori. I ricercatori, al contrario, sostengono l’idea che esprimere le emozioni sia più benefico per l’interazione con i propri figli. Lo studio è stato condotto a San Francisco. Sono stati presi in considerazione 109 madri e padri, e i rispettivi figli. Il campione è stato suddiviso come segue: un gruppo era composto da sole madri e un altro dai padri. Lo scopo della suddivisione del campione era quello di indagare se vi fossero anche differenze di genere (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018).

Prima di tutto, i ricercatori hanno assegnato ai genitori compiti stressanti come parlare in publico e ricevere feedback negativi dall’audience. Successivamente, i genitori sono stati coinvolti con i figli in attività di cooperazione, con l’indicazione di sopprimere le proprie emozioni di tanto in tanto. Al contrario, ai bambini era stata data l’istruzione di agire in maniera naturale. L’attività era uguale per tutti: lavorare insieme con i propri genitori nell’assemblaggio di un progetto Lego.

I bambini (di età compresa tra i 7-11 anni) hanno ricevuto un libretto d’istruzioni, ma non gli era permesso di toccare fisicamente i Lego. Erano i genitori a dover assemblare nella pratica il progetto, senza però guardare il libretto d’istruzioni. Questo aveva lo scopo di forzare genitori e bambini a lavorare in maniera stretta e compatta per il successo dell’attività. Uno degli elementi di interesse di questo studio era rivolto ai comportamenti di socializzazione.

Bambini ed emozioni: i risultati della ricerca

Pertanto, sono stati osservati: la reattività, il calore, la qualità delle interazioni e il modo in cui il genitore assumeva il ruolo di guida per il bambino. I ricercatori hanno poi guardato 109 video delle interazioni per rilevare ogni emozione, ogni istante di calore e di orientamento. Inoltre, entrambi genitori e figli, sono stati collegati a vari sensori per tenere sottocontrollo il battito cardiaco, i livelli di stress e altre variabili. E’ emerso che i genitori che tentavano di sopprimere il proprio stress sono risultati compagni meno efficaci e positivi durante il compito dei Lego. Infatti, essi fornivano meno indicazioni ai bambini; i bambini, a loro volta, erano meno reattivi e meno positivi verso i genitori. Era un pò come se i genitori stessero trasmettendo le loro emozioni soppresse ai figli (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018).

Per quanto riguarda le differenze di genere, è interessante come (in questo studio) la soppressione emotiva ha reso i bambini più sensibili verso le madri. Infatti, i bambini hanno mostrato meno cambiamenti nelle risposte quando i padri nascondevano le emozioni negative. E’ chiaro che ci vorranno ulteriori ricerche per approfondire suddette differenze.

Per quanto riguarda i bambini e le emozioni, molte ricerche precedenti hanno dimostrato che i bambini sono molto abili nell’acquisire “informazioni emotive” dai loro genitori. Perciò, se il bambino sente che è successo qualcosa di negativo e in maniera incongrua, il genitore agisce come se non fosse successo nulla, il bambino si sentirà confuso. Così facendo, il genitore manderà un messaggio ambiguo al proprio figlio. Pertanto, i ricercatori sostengono che piuttosto che sopprimere le emozioni, la migliore scelta sarebbe mostrare ai propri figli l’intera traiettoria di una sana discussione, dal suo inizio alla sua risoluzione. E’ consigliabile, quindi, insegnare ai bambini a regolare le proprie emozioni e a risolvere i problemi, sottolineando che i problemi non sono da evitare ma, al contrario, si possono risolvere (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018). E’ giusto far capire che le emozioni negative esistono, che è normale provarle e che possiamo trovare una soluzione per migliorare il nostro stato d’animo.

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