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EMDR e Disturbo di Panico. Dalle teorie integrate al modello di intervento nella pratica (2018) – Recensione del libro

EMDR e Disturbo di Panico. Dalle teorie integrate al modello di intervento nella pratica è un nuovo importante testo di Elisa Faretta che guida, passo dopo passo, nell’applicazione dell’ EMDR nel disturbo di panico.

 

Tra i disturbi d’ansia, il disturbo di panico (DP) è quello maggiormente diffuso nella nostra società, sia a livello epidemiologico, sia nel dialogo comune. Il panico e i suoi sintomi sono spesso invalidanti per chi li vive, possono portare a problemi lavorativi, relazionali e fisici. Sperimentare un attacco di panico può essere di per sé considerata come un’esperienza traumatica (Faretta, 2001, 2018). L’autrice del libro parte da questa considerazione per illustrare i vantaggi e l’efficacia del metodo EMDR nel trattamento di questa psicopatologia, definendolo come “un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento per il disturbo di panico. Ciò che il soggetto percepisce durante una crisi di panico è “una forte paura, incontrollabile, che lascia la persona inerme”, una sensazione seguita dalla percezione di perdere il controllo o di stare per morire. Questa sintomatologia diventa un evento di per sé stressante e traumatico nella propria storia di vita; diviene fondamentale, pertanto, rielaborare i ricordi legati al panico per un corretto approccio a questa psicopatologia (Faretta, 2018).

Prima parte: dalla definizione all’eziologia del Disturbo di Panico

Il libro EMDR e Disturbo di Panico si divide in due parti. La prima parte, più teorica, permette di esplorare il disturbo di panico e la sua definizione che si è modificata nel tempo, fino ad arrivare alle categoria diagnostica inserita nel 2013 nel DSM 5.

Uno sguardo viene rivolto anche all’eziologia del panico, con particolare attenzione alla teoria Polivagale di Porges, alle neuroscienze di Panksepp fino alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. Questo sguardo al panorama scientifico culmina con la più recente teoria dell’Adaptive Information Processing (AIP), base fondamentale del metodo EMDR. Secondo questo modello le Esperienze Sfavorevoli Infantili (ACEs) e i traumi successivi che non vengono adeguatamente elaborati predispongono il soggetto a una vulnerabilità alle esperienze stressanti, danneggiando le strategie di coping. Goldestein (1995) fu il primo ad affermare che i pazienti affetti da Disturbo di Panico sviluppano una difesa dissociativa; l’attacco di panico diviene così un elemento importante della storia di vita del paziente da trattare come evento traumatico di per sé.

Da qui si riprende il concetto chiave del libro, ovvero che l’ EMDR nel disturbo di panico può essere utile per elaborare il ricordo degli attacchi di panico (il primo, il peggiore, l’ultimo); elaborare le situazioni scatenanti legate al panico nel presente e sostenere e rafforzare una prospettiva futura adattiva per affrontare situazioni legate ai sintomi (Faretta, 2012). Inoltre, diviene fondamentale per il terapeuta prestare attenzione alla storia di attaccamento e alle esperienze infantili precoci stressanti da elaborare con EMDR, poiché l’insorgenza del Disturbo da Attacchi di Panico è correlata alla riattivazione di esperienze traumatiche precedenti, comprese separazione, lutto, malattia o un periodo di stress prolungato.

La prima parte del libro termina con un’analisi della letteratura sul Disturbo di Panico e il trattamento EMDR, evidenziando come una buona concettualizzazione del caso, in accordo con il modello AIP, possa portare, in un numero di sedute compreso tra 12 e 19, una remissione totale o parziale della sintomatologia riportata dal paziente.

Seconda parte: dalla teoria alla pratica, il trattamento EMDR individuale e di gruppo nel DP

La seconda parte, più pratica, illustra i fattori terapeutici, specifici e aspecifici, del trattamento, passando dall’importanza dell’alleanza terapeutica alla “dual attention”. Vengono spiegate nel dettaglio le fasi del protocollo EMDR nel Disturbo di Panico e i cambiamenti effettuati nelle 8 fasi del protocollo standard per arrivare a trattare il disturbo nella sua totalità. Il protocollo modificato comprende:

a) una psicoeducazione sul panico e sulle modalità utilizzate con l’ EMDR, con successiva scelta della stimolazione bilaterale (movimenti oculari o altre forme di stimolazione) più adatta alla persona attraverso l’esercizio del Posto al Sicuro;
b) definizione dei target da utilizzare (il primo attacco di panico, il peggiore per il paziente, l’ultimo attacco di panico);
c) scelta dell’immagine più disturbante per ogni target, associata alla cognizione negativa, individuazione della cognizione positiva, individuazione dell’emozione associata all’immagine peggiore del target e infine collocazione del disagio nel corpo;
d) individuazione ed elaborazione dei ricordi traumatici legati alla storia personale del paziente;
e) lavoro sul presente con relativa rielaborazione dei fattori scatenanti;
f) lavoro di rafforzamento di azioni positive nel futuro.

Il libro diventa così una vera e propria guida per il terapeuta, attraverso la spiegazione, passo dopo passo, di ogni fase del protocollo e degli accorgimenti che possono essere spesi nella pratica clinica. Dall’installazione delle risorse, al “Posto al sicuro”, sino alla chiusura e conclusione del protocollo.

Il quinto capitolo, dedicato alla descrizione di un caso clinico di disturbo di panico trattato con EMDR, aiuta il lettore a comprendere meglio le varie fasi del trattamento.

L’attenzione del lettore viene infine catturata dall’ultimo capitolo: il protocollo EMDR di gruppo per il disturbo di panico. Qui vengono mostrati i principali sviluppi dell’approccio EMDR applicato al gruppo e alle ricerche svolte negli ultimi 15 anni, sia in ambito clinico che emergenziale. Viene spiegato il protocollo di gruppo modificato per i pazienti che soffrono di DP; anche questo presenta delle modifiche al protocollo standard che vengono applicate in rapporto alla specificità del quadro psicopatologico. Rispetto al protocollo EMDR individuale viene data particolare importanza a:

  • concettualizzazione del caso;
  • interventi psico-educativi;
  • individuazione delle risorse interne al lavoro di preparazione con tecniche specifiche;
  • storia di attaccamento del paziente;
  • intervento con EMDR-Drawing Integration, cioè, l’elaborazione del target utilizzando il disegno e la stimolazione bilaterale.

Il gruppo viene visto come una risorsa in ambito terapeutico, non solo nell’applicazione del metodo EMDR, ma anche per la creazione della condivisione di vissuti ed esperienze con altre persone che vivono la stessa difficile condizione di vita.

Il libro si chiude con un’appendice che offre ai terapeuti una rassegna di alcuni strumenti fondamentali nel trattamento di pazienti con DP, quali ad esempio il questionario per la concettualizzazione del caso, le tecniche di stabilizzazione, i suggerimenti specifici di psicoeducazione al paziente.

Importanza del volume

Il libro di Elisa Faretta ha tutte le caratteristiche per dimostrarsi nel tempo una guida pratica e teorica sull’utilizzo dell’ EMDR nel Disturbo di Panico. Un prontuario da tenere sulla propria scrivania, utile per essere utilizzato per guidare i terapeuti nell’applicazione della tecnica, senza tralasciare importanti aspetti legati più strettamente alla sintomatologia del panico. Il capitolo finale sul gruppo stimola una serie di interrogativi che possono essere la base di partenza di future riflessioni e ricerche in ambito clinico e non solo.

Una storia di ristrutturazione di schemi interpersonali attraverso la musica

Ebbene sì, nei nostri studi, accade anche questo. Un paziente con uno schema il cui tema dominante è il senso di esclusione dal gruppo, da sempre.

 

Secondo quello che emerge dalle memorie associate, tra tanti, lui era quello messo da parte. Tra tanti, lui era quello umiliato, non considerato, beffeggiato. A casa, a scuola, da amici, da conoscenti.

Ad oggi, l’incontro con l’altro, è estremamente doloroso e, anche se nella realtà non c’è necessariamente un altro ostile che vada a confermare l’immagine del Sé, nella mente si attiva ugualmente.

Ristrutturare schemi interpersonali: si parte da un episodio

Non occorre che l’altro di turno dica o faccia qualcosa, anche se ovviamente questo può accadere per davvero, perché, nel momento esatto in cui si attiva il wish, si attiva, nella mente, la rappresentazione dell’altro negativa. In questo caso, secondo la procedura “se…allora” l’altro isola ed il Sé è meritevole: “non sono degno di fare parte del gruppo, non posso desiderare questo, non posso mostrare i miei interessi altrimenti l’altro mi criticherà”. Questo è il compito dello schema: attivarsi, far leggere la realtà in un certo modo, far soffrire. Spesso, fa soffrire davvero tanto. Soprattutto se non ne siamo consapevoli. Uno schema interpersonale maladattivo è una struttura cognitivo-affettiva attraverso cui attribuiamo il significato alle esperienze, su come gli altri risponderanno ai nostri desideri e su quali reazioni avremo di fronte alla risposta dell’altro. Queste strutture sono abbastanza stabili e guidano le nostre azioni all’interno delle relazioni interpersonali (Dimaggio et al., 2013).

Nella situazione del mio paziente, come in molti altri, il coping di evitamento è frequente. E, come sappiamo, esso è solo un tentativo per gestire l’attivazione emotiva negativa ma è disfunzionale in quanto rafforza l’immagine vulnerabile del Sé. Insieme all’evitamento c’è la ruminazione che sembra essere onnipresente. Per essere precisi, spesso è proprio la ruminazione che anticipa l’evitamento, in quanto coping cognitivo che precede quello comportamentale (Ottavi et al., 2017).

Durante una seduta, nel bel mezzo dell’analisi di un episodio, emerge che il motivo per cui il paziente era stato preso in giro era il tipo di musica che ascolta in macchina. Come necessario in TMI, i dettagli sono fondamentali; allora chiedo di descrivermi la scena e, alla domanda relativa a cosa stesse ascoltando, mi risponde: “gli Afterhours!”, con lo sguardo e la voce bassa, pronto a captare un minimo mio segnale che potesse farlo sentire come il sabato precedente nella sua macchina, mentre si stavano dirigendo in pizzeria con i suoi amici. Io mi raddrizzo sulla poltrona, non so se più soddisfatta perché stavo lavorando bene sull’episodio ed il paziente sembrava essere diventato bravo nel farlo, segno di un buon lavoro metacognitivo, oppure perché mi catapulto immediatamente in una scena in cui io canto a squarciagola un brano dello stesso gruppo con un’amica in macchina, ai tempi dell’università.

Ristrutturare schemi interpersonali.. con la musica

Beh, una validazione e una self disclosure ci stava tutta…e la seduta termina con un bel play su ” Ci sono molti modi”, degli Afterhours, ovviamente.

Il resto è storia TMI: lo schema è stato corretto, almeno per un pò.

Almeno per una volta l’altro è benevolo. Anzi, curioso, visto che il paziente mi lascia una lista di canzoni da ascoltare e lo farò sicuramente. Dopo un’ora dalla nostra seduta mi arriva un sms tramite il quale egli mi spiega il motivo del suo sguardo sorpreso. A quanto pare mai nessuno si è interessato ai suoi gusti, ai suoi interessi, lo prendevano in giro e basta. Io gli sono sembrata curiosa e nella prossima seduta, ci saremmo confrontati su altri brani. Questo avverrà certamente, ma prima sarà importante analizzare quello che è accaduto nella seduta precedente. Dare un nome alle emozioni vissute. Vedere come si sta in uno schema che, almeno per una volta, è diverso.

Ed io terapeuta? Beh, ero sinceramente incuriosita dalle sue preferenze musicali, da quello che lui sentiva dall’ascolto di un determinato genere di musica. Non mi sono dovuta sforzare. Probabilmente l’avrei fatto ugualmente ma la spontaneità è stata diversa.

Questo è solo un esempio di quello che può accadere durante il lavoro con i pazienti, il cui schema muove da desideri, quelli che Liotti e Monticelli (2008) chiamano Sistemi motivazionali interpersonali. Tra di essi vi è quello di affiliazione, senso di appartenenza al gruppo, inclusione sociale.

Intanto, vado ad ascoltare “Adesso è facile” e forse per un attimo, mi torna in mente il momento in cui, qualche amico dell’epoca, non gradiva quel genere di musica della mia macchina.

Chissà se anche questo ha contribuito a rispecchiarmi un po’ nel paziente!

Sadismo e comportamento aggressivo: infliggere una pena per sentirsi meglio

Il Sadismo nel DSM IV configura tutte le condotte in cui un soggetto ricava eccitazione sessuale e piacere dalla sofferenza non solo fisica ma anche psicologica della vittima.

 

I comportamenti sadici possono includere svariate pratiche di manipolazione della libertà e del confine psicofisico della vittima.

Sadismo: cos’è

Così come non c’è limite alla fantasia non c’è neppure limite nell’immaginare azioni volte a strutturare forme di sofferenza a maggiore livello di complessità: più comuni sono l’imprigionamento, la fustigazione, le percosse, la tortura fisica ma soprattutto psicologica. La persona sadica può giungere anche fino anche all’uccisione della vittima. L’apice del piacere per il sadico tuttavia non deriva tanto dal contemplare la sofferenza quanto dalla certezza dell’innocenza della vittima stessa. Ben più che le grida di sofferenza della vittima, al sadico interessano le sue proteste di innocenza, le implorazioni di perdono, le rimostranze, i tentativi vani nel convincerlo a desistere, a cessare la tortura o a non portare a compimento le paventate azioni violente. Tutto quello a cui la vittima si aggrappa viene strappato e rigettato in un meccanismo che contempla l’empatia solo come minaccia, unica forma di annichilimento dell’eccitazione. In molti sadici si ritrova una forma di distacco emotivo dalla vittima che ha il fine di accrescere il dislivello fra i due; la vittima, rendendosi conto della sua impotenza determina una eccitazione ulteriore da parte del sadico e un rinforzo della sua percezione di controllo.

Le persone con tratti di personalità sadici tendono ad essere aggressive, tuttavia queste traggono piacere dal loro comportamento aggressivo solo se danneggiano le loro vittime. Secondo una serie di studi condotti su oltre 2000 persone, i comportamenti aggressivi messi in atto dai sadici, alla fine, suscitano in loro un sentimento peggiore rispetto al momento prima della messa in atto del comportamento.

Sadismo: lo studio condotto per capirne i meccanismi

La ricerca compare su Personality and Social Psychology Bulletin, pubblicata da Society for Personality and Social Psychology.

Secondo l’autore principale dello studio, David Chester della Virginia Commonwealth University, le tendenze sadiche non solo esistono nei serial killer, ma anche nella gente comune e sono fortemente collegate ad un comportamento più aggressivo.

Nel mondo reale i sadici potrebbero essere i bulli, che denigrano gli altri per sentirsi meglio, oppure un gruppo di tifosi di uno sport che sfida e cerca contrasti con i tifosi della squadra rivale a causa della passione per lo sport comune.

In laboratorio, i ricercatori hanno misurato le tendenze aggressive e sadiche delle persone calcolando la probabilità del soggetto, partecipante all’esperimento, di cercare vendetta o danneggiare una persona innocente. In alcuni casi, attraverso eventi virtuali, facevano mangiare agli innocenti salsa piccante come punizione oppure li stordivano con forti rumori.

A seconda dei diversi scenari, si è visto che i soggetti aggressivi e con comportamenti sadici mostravano piacere nel causare danni agli altri, ma si è anche riscontrato che, in questi soggetti, l’umore generale era sceso dopo l’evento.

Gli autori non si aspettavano un impatto negativo sull’umore: questo potrebbe essere dovuto al modo in cui l’aggressività colpisce il cervello, facendo si che le persone percepiscano qualcosa di così piacevole, quando effettivamente crea l’opposto.

Sadismo: riflessioni sui risultati della ricerca e aspetti da approfondire

L’ipotesi, avanzata da David Chester, suggerisce che se si rompesse il legame tra piacere e dolore, cambiando il modo in cui il sadico percepisce il danno che infligge, o aiutandolo a capire come danneggerà l’altro, si potrebbe risolvere questo ciclo della violenza.

L’aggressività è spesso pensata come un prodotto di sentimenti negativi come rabbia, frustrazione e dolore, questa è solo una parte della verità. Infatti, le ricerche sul legame tra aggressività e sadismo suggeriscono come anche i sentimenti positivi siano, in parte, causa della violenza umana.

Le complesse relazioni tra i sentimenti positivi prima o durante l’aggressione nei sadici, insieme all’impatto negativo sull’umore, conseguente ad un comportamento sadico, suggeriscono che vi siano diversi modi per comprendere e affrontare la violenza.

Sarebbe interessante indagare, in futuro, le dinamiche delle emozioni che conducono a comportamenti aggressivi e sadici.

Sviluppo morale ed emotivo: un rapido intreccio verso la valorizzazione degli stili genitoriali

Lo sviluppo morale presenta una dimensione “affettiva” che deriva, secondo diversi autori, dallo stretto legame con l’empatia ed in particolare con alcune emozioni come il senso di colpa.

Bernardi Laura – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Potremmo definire lo sviluppo morale come quella capacità emergente che permette al bambino – futuro uomo –  di distinguere il “bene” dal “male”. Già Freud parlava di Super Io e interiorizzazione dei divieti genitoriali all’interno delle vicissitudini edipiche dai 3 ai 5 anni e di una dimensione “affettiva” della norma, legata al divieto. Fu però Piaget per primo a descrivere la moralità dal punto di vista di un processo che vede nella personalità dell’adulto le caratteristiche sviluppate durante l’infanzia. Grazie al suo contributo possiamo attenderci un itinerario cognitivo che vedrà inizialmente il bambino rispondere in maniera aderente alle regole, ai doveri e all’obbedienza all’autorità al fine di evitare una punizione. Crescendo, attraverso l’interazione con altri bambini, lo sviluppo morale assume secondo l’autore caratteristiche “più mature”: la regola viene affrontata criticamente e selettivamente basandosi su rispetto reciproco e cooperazione (Schaffer, 1998).

Gli studi di Piaget furono sviluppati successivamente da Kohlberg (1958), egli introduce la dimensione emotiva della morale, ipotizzando un suo stretto legame con l’empatia ed in particolare con alcune emozioni come il senso di colpa. La morale si svilupperebbe per apprendimento sociale: criteri morali assorbiti nell’infanzia e durante l’adolescenza dal contesto familiare e sociale, attraverso la maturazione da uno stadio all’altro, verranno poi mantenuti in età adulta, anche in situazioni diverse.

Non senza critiche, questi due approcci ci portano a segnalare come i primi anni di vita, in particolare dai sei ai tredici anni, hanno importanza non solo nella formazione della personalità, ma anche nel comportamento sociale e ci permettono inoltre di riflettere sull’esperienza morale come non “solo cognitiva” ma profondamente emotiva. Se osserviamo i  bambini in età prescolare li vediamo dare un grande peso alle espressioni, intenti a comprendere quale emozione una persona sta provando, questo consente loro di osservare gli effetti prodotti dalle proprie azioni e di osservare le reazioni che essi suscitano nelle altre persone. Il riconoscimento delle emozioni del viso è innato, basato sulle abilità dell’emisfero destro, quelle primarie espresse dal viso sono: tristezza e felicità, sorpresa, rabbia, paura/ansia e disgusto (Ekman, 1972).

Sviluppo morale ed emozioni empatiche

Parlare di emozioni ci porta ad introdurre il concetto di empatia alla base dei comportamenti altruistici e prosociali; fondamento dello sviluppo morale sono le emozioni empatiche: la simpatia e il dispiacere empatico (da cui prende origine il senso di colpa) esse inducono ad avere a cuore quello che succede ad altre persone e trattengono dal danneggiarle. Secondo Hoffman (2000), affinché l’empatia porti ad un comportamento morale, è fondamentale che l’individuo sperimenti “distress” cioè una situazione di disagio causato dall’empatia e simpatia come una preoccupazione per la condizione altrui che spinge a prendersi cura. Il passaggio dall’empatia al comportamento morale di aiuto (pro-sociale), tuttavia, non è scontato né immediato. Infatti, sebbene l’empatia sia innata, riguardo al comportamento pro-sociale ci sono molte differenze individuali, legate a fattori temperamentali, al genere e alla socializzazione genitoriale. È stata descritta una sequenza evolutiva da Eisenberg et al. (2006).

L’importanza del legame di attaccamento nello sviluppo morale

A tale proposito può essere utile citare la teoria dell’attaccamento che Bowlby definisce come “un legame verso una discriminata figura protettiva solitamente considerata più forte e/o più saggia” (1979). Il bambino coopera con le richieste genitoriali poiché il genitore è “valued, not feared” cioè i valori morali genitoriali sono fatti propri, non attraverso identificazione per paura della punizione, ma grazie ad una sempre maggiore capacità di autoregolazione, acquisita attraverso la qualità supportiva delle interazioni genitore-bambino (Bretherton, 1985). Identità e moralità relazionali, infatti, attraverso gli “standard interiorizzati” (Modelli Operativi Interni, MOI) possono guidare il comportamento del bambino già a partire dai 7 mesi (Buchsabaum & Emde, 1990).

Per suscitare il dispiacere empatico attraverso un intervento disciplinare è possibile far capire al bambino in che modo il suo comportamento ha danneggiato la vittima richiamando l’attenzione sulle conseguenze osservabili e suggerendo delle azioni di riparazione; ne consegue che interventi disciplinari meno efficaci sono quelli basati sull’asserzione del potere o sul ritiro dell’amore. La disciplina basata sul potere (non favorisce l’interiorizzazione); la disciplina basata sul ritiro d’amore (non favorisce l’interiorizzazione); la disciplina induttiva, basata sull’empatia e il “perspective taking” (favorisce l’interiorizzazione) (Grusec, 2006).

Secondo Hoffman, l’interiorizzazione morale avviene anche grazie agli “incontri” disciplinari, cioè le interazioni genitori/figli in cui i primi, con la disciplina, intervengono su un comportamento non desiderabile del figlio. In età prescolare, tali incontri coprono circa il 40-50% delle interazioni.

Sviluppo morale e competenze genitoriali

In letteratura sono presenti criteri che riguardano i parametri individuali e relazionali relativi al concetto di parenting (competenze genitoriali) riguardano lo studio delle abilità cognitive, emotive e relazionai alla base dei compiti e delle funzioni genitoriali. Bornstein (1995) classifica il parenting come una competenza articolata su 4 livelli: Nurturant caregiving: accoglimento e comprensione delle esigenze primarie dei figli (fisiche e alimentari); Material caregiving: le modalità con cui i genitori preparano, organizzano e strutturano il mondo fisico del bambino; Social Caregiving include tutti i comportamenti che i genitori attuano per coinvolgere emotivamente i bambini in scambi interpersonali; Didactic caregiving sono le strategie che i genitori utilizzano per stimolare i figli a comprendere i proprio ambiente. Secondo gli studi da lei condotti, i genitori si differenziano per 4 aspetti: la manifestazione del calore verso i figli, le strategie per disciplinare i figli, la comunicazione con i figli, le aspettative rispetto al livello di maturità dei figli. Da questi aspetti identifica 3 stili genitoriali:

  • Stile genitoriale autoritario: il genitore stabilisce regole che non possono esser messere in discussione. Un genitore autoritario si mostra come una persona fredda e raramente affettuosa. Applica una rigida disciplina. Raramente sollecitano l’opinione del bambino. Il bambino tende ad essere sgarbato e socialmente incompetente, difficilmente riescono a intrattenere relazioni stabili e affettuose, speso sono isolati dai compagni per i loro atteggiamenti aggressivi e antisociali, non prendono iniziative, non sono curiosi né spontanei, sono però obbedienti e rispettano l’adulto in quanto hanno paura delle punizioni.
  • Stile genitoriale permissivo: i genitori hanno poche richieste per i loro figli. Accettanti e non punitivi, non pongono limiti o controlli, sono poco severi. Questi genitori, pur considerati una risorsa per il bambino, non favoriscono però in lui la capacità di autoregolarsi.
  • Stile genitoriale autorevole: i genitori cercano di guidare le attività e i comportamenti del figlio, incoraggiando la comunicazione, nei confronti dei figli pongono richieste adeguate, motivate e spiegate, come strumento per far migliorare il bambino, non utilizzano le punizioni ma il ragionamento, sostengono le qualità e le potenzialità dei propri figli incoraggiandone le scelte. Non cercano in loro la perfezione ma accettano limiti e difficoltà.

Un genitore accessibile, fisicamente ed emotivamente, potrà essere in grado di percepire e valutare i segnali di pericolo e di disagio, e rispondere a tali bisogni in maniera amorevole, pronta, costante e adeguata. Ciò produrrà nel bambino un sentimento di sicurezza e, al fine della nostra prospettiva morale-emotiva: un migliore adattamento al mondo sociale. Una recente ricerca (Putnich e al., 2015) condotta su nove paesi diversi, compresa l’Italia, ha evidenziato che, al calore percepito nella tarda fanciullezza (8-10 anni) si associano minori condotte aggressive, minori sintomi di ritiro sociale o di depressione, una migliore prestazione scolastica e maggiori comportamenti prosociali a distanza di tre anni.

La Neurobiologia Interpersonale: lo sviluppo della mente tra rapporti interpersonali e funzioni cerebrali

La neurobiologia interpersonale (Siegel, 1999) è una disciplina che studia il modo in cui la mente si sviluppa a partire dalla reciproca influenza tra relazioni umane e struttura e funzioni del cervello: il focus di questo approccio è comprendere come il cervello dia origine ai processi mentali e come esso sia direttamente modellato dalle esperienze interpersonali.

 

Lo studio della neurobiologia interpersonale presenta una visione integrata di quanto lo sviluppo umano si concretizzi all’interno di un mondo sociale che, in transizione con le funzioni del cervello, dà origine alla mente (Siegel, 2001).

Attraverso gli studi che si occupano di neurobiologia interpersonale si possono comprendere quali sono i processi utili a facilitare lo sviluppo della mente, il benessere emotivo e psicologico, la resilienza durante la prima infanzia e forse durante tutta la vita. Alla base di questi processi vi è un meccanismo fondamentale di integrazione che può essere esaminato a diversi livelli, dall’interpersonale al neurologico (Siegel, 2001).

La neurobiologia interpersonale propone una definizione della mente scientificamente fondata e clinicamente utile, le cui caratteristiche principali sono: (1) l’essere sia embodied, nel corpo, che relazionale; (2) il saper regolare il flusso di energia e informazioni, l’energia e le informazioni possono fluire all’interno di un cervello o tra un cervello e l’altro. Saper controllare e saper modificare questo flusso di energie e informazioni, alla base di una sana regolazione, sono delle abilità che possono essere insegnate nelle famiglie con attaccamento sicuro, in psicoterapia e in altri contesti educativi che promuovono la capacità di vedere e dare forma al mondo interno. Questa capacità, chiamata “visione mentale“, consente all’individuo non solo di percepire la vita mentale interna propria e altrui con maggiore chiarezza, ma illumina anche su come si può cambiare questo mondo interiore per raggiungere un migliore stato di salute. La salute dal punto di vista della neurobiologia interpersonale è definita come integrazione (Siegel, 2011). L’integrazione è un meccanismo di base in cui gli elementi di un sistema sono differenziati o specializzati ma collegati o connessi tra loro, proprio come un coro durante un concerto, in cui ogni cantante ha una voce differente ma si collega agli altri membri del gruppo dando vita a un suono armonioso. L’armonia è il risultato dell’integrazione. L’integrazione è dunque quel processo che favorisce il benessere psicologico, attraverso le esperienze di attaccamenti sicuri (Siegel, 2001). Quando un sistema non è integrato, ci si muove verso il caos, la rigidità o entrambi.

Padre della neurobiologia interpersonale è Daniel Siegel, clinical professor di Psichiatria presso la facoltà di Medicina della UCLA (University of California, Los Angeles), dove fa parte del Center for Culture, Brain, and Development ed è codirettore del Mindful Awareness Research Center; è inoltre direttore esecutivo del Mindsight Institute, ente di formazione che fornisce servizi di apprendimento online e lezioni svolte di persona, incentrati entrambi sui modi in cui è possibile accrescere la mindsight in individui, famiglie e comunità attraverso l’esame dei punti di contatto presenti nei rapporti interpersonali e dei processi biologici di base degli esseri umani.

Relazioni, cervello e mente

Le relazioni sono il modo in cui energia e informazione vengono condivise, mentre ci connettiamo e comunichiamo l’un l’altro. Il cervello riguarda il meccanismo fisico attraverso cui energia e informazione fluiscono. La mente è il processo che regola il flusso di energia e informazione. Queste tre dimensioni formano il triangolo del benessere.

Come anticipato, possiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema da cui risultano flessibilità e armonia; quando l’integrazione manca, si manifestano caos e rigidità.

Nel momento in cui si trasferisce questo modello alla mente umana, si riscontra che una mancanza di integrazione produce sintomi e sindromi che si potrebbero forse considerare disturbi mentali.

La neurobiologia interpersonale si avvale di un’ampia varietà di discipline scientifiche, contemplative e artistiche. Lo stato di salute viene determinato dal processo di integrazione tra mente, cervello e relazioni.

Dall’attaccamento alla neurobiologia

In che modo le relazioni di attaccamento influiscono sulla nostra mente? Il bambino viene al mondo geneticamente programmato per stabilire dei legami di attaccamento con i propri caregiver che diventeranno, così, le figure di attaccamento del bambino (Cassidy & Shaver, 1999). L’ attaccamento può stabilirsi con la madre, il padre e altri individui che forniscono vicinanza e assistenza al bambino che cresce. L’attaccamento è considerato un sistema motivazionale: un sistema innato, adattivo, biologicamente determinato, che spinge il bambino a creare alcuni attaccamenti selettivi nella sua vita. Le relazioni di attaccamento forniscono al bambino: (1) la vicinanza, ricercata dal bambino, alla figura di attaccamento; (2) un senso di un rifugio sicuro, a cui rivolgersi quando il bambino si sente in pericolo; e (3) lo sviluppo di un modello operativo interno riferito alla base sicura e a Sé, ovvero uno schema interno del Sé con la figura di attaccamento e del Sé. Una figura di attaccamento che gli fornisce sicurezza, gli consentirà di esplorare il mondo, avere un senso di benessere e calmarsi nei momenti di angoscia (Bowlby, 1969).

Anche se il sistema di attaccamento è programmato nel cervello, le esperienze che un bambino fa nel corso della sua infanzia, vanno a modellare tale sistema. L’esperienza sollecita l’attivazione di neuroni cerebrali che rispondono agli eventi sensoriali dal mondo esterno o alle immagini generate internamente dal cervello stesso (Gazzaniga, 1995; Kandel & Schwartz, 1992). Quando i neuroni, strettamente interconnessi tra loro in particolari circuiti cerebrali, sono attivati, si creano i processi mentali. Il cervello crea una “mappa neurale” o “rete neurale”, ovvero un modello specifico di attivazione neurale in particolari regioni cerebrali, che serve a creare un’immagine mentale, un’immagine sensoriale o una rappresentazione linguistica di un concetto o di un oggetto (Siegel, 2001).

Secondo Siegel (2001) il substrato neurale consente la formazione anche di un Sé emergente, un proto sé, determinato in gran parte da caratteristiche genetiche e costituzionali. Questo senso di sé è radicato nel cervello così come nelle sue interazioni con l’ambiente. D’altra parte, la mente del bambino sembra sviluppare un processo fondamentale in cui anche gli stati mentali dell’altro vengono rappresentati all’interno del funzionamento neuronale del cervello (Stone, Baron-Cohen e Knight, 1998).

Il senso dell’agire, la coerenza, l’affettività e persino la continuità del sé (memoria) sono influenzati dall’ interazione con gli altri. Il primo ambiente in cui il bambino costruisce questo senso di Sé è nell’interazione col caregiver: il proto-sé si trasforma nell’interazione con l’altro e le relazioni affettive in cui ci si prende amorevolente cura del bambino, rispondono al suo bisogno di amore e attenzioni, andando a formare uno schema di Sé come bambino meritevole di amore. Queste relazioni consentono al sé in continua evoluzione di avere un senso di coerenza essenziale per la crescita: il sé diventa integrato.

Quindi le interazioni emotive con le figure di attaccamento sono di primaria importanza nel dare forma al nucleo centrale (qui-e-ora) e autobiografico (passato-presente-futuro) del senso di sé.

Questo modo in cui il cervello crea le immagini di sé e di altre menti è definita da Siegel “mindsight“: capacità complessa che si sviluppa durante l’infanzia e che può diventare continuamente più arricchita durante l’intero arco di vita (Aitken e Trevarthen, 1997).

Sebbene ci concentriamo su regioni e circuiti particolari del cervello, non va dimenticato che il cervello è un insieme complesso di sistemi integrati che tendono a funzionare insieme. La mente è creata da tutto il cervello. Ecco perché per Siegel è importante parlare di “Integrazione”. Quando alcuni sistemi non sono ottimali, a causa di esperienze negative di attaccamento, la mente del bambino può funzionare come un sistema non integrato.

Dunque: l’esperienza implica l’attivazione di neuroni. In questo modo, l’esperienza modella la funzione dell’attività neurale nel
momento e può potenzialmente modellare la struttura in continua evoluzione del cervello durante l’intero arco di vita. Recenti scoperte delle neuroscienze suggeriscono infatti che il cervello è plastico, aperto a continue influenze dall’ambiente, per tutta la vita. Questa plasticità può implicare non solo la creazione di nuove connessioni sinaptiche tra neuroni, ma anche la crescita di nuovi neuroni nel corso della vita (Barbas, 1995; Benes,1998).

Le connessioni umane creano le connessioni neurali dalle quali emerge la mente” (Siegel, 1999). È in questo modo che le esperienze interpersonali, a partire dalle relazioni di attaccamento, modellano direttamente lo sviluppo del cervello umano guidato geneticamente.

Non a caso i bambini con attaccamento sicuro sembrano avere maggiori risultati positivi nel loro sviluppo (Cassidy & Shaver, 1999): flessibilità emotiva, funzionamento sociale e abilità cognitive. Alcuni studi suggeriscono che la sicurezza dell’attaccamento trasmette una forma di resilienza di fronte alle avversità future. In contrasto, una serie di studi suggerisce che le varie forme di attaccamento insicuro possono essere associate a rigidità emotiva, difficoltà nelle relazioni sociali, menomazioni dell’attenzione, difficoltà nel comprendere la mente degli altri e minore gestione delle situazioni stressanti.

Una forma di insicurezza dell’attaccamento, chiamata “disorganizzato / disorientato”, è stata associata a marcate menomazioni nei domini emotivo, sociale e cognitivo. Negli individui con questa forma di attaccamento è stata dimostrata anche una predisposizione verso la condizione clinica di dissociazione in cui la capacità di funzionare in modo organizzato e coerente
è palesemente alterata (Carlson, 1998; Liotti, 1992; Main & Morgan, 1996; Ogawa, Sroufe, Weinfeld, Carlson, & Egeland, 1997).

Come l’attaccamento influisce sulle funzioni cerebrali?

I lati sinistro e destro del cervello sono anatomicamente isolati tranne che per le connessioni effettuate direttamente attraverso delle bande di tessuto neurale chiamato corpo calloso e le commessure anteriori (Trevarthen, 1990) che si sviluppano durante la prima decade di vita. Nei bambini che in tenera età hanno subito abuso è risultato compromesso lo sviluppo del corpo calloso, oltre a un diminuito sviluppo del cervello nel suo insieme (DeBellis et al., 1999a, 1999b). Un forte stress è tossico per il cervello in crescita.

In generale, una vasta gamma di studi sugli esseri umani suggerisce che le funzioni isolate dei due emisferi possono essere “integrate” in condizioni normali nello sviluppo della mente. Per esempio, la complessa capacità di mindsight richiede l’integrazione di alcuni aspetti del funzionamento dell’emisfero destro e sinistro (Stone et al., 1998). Quindi, normalmente viviamo
una fusione di funzioni di destra e sinistra. Tuttavia, la separatività anatomica di questi due emisferi consente anche l’isolamento funzionale in determinate condizioni. Tale isolamento può produrre un funzionamento “non integrato” e la conseguente compromissione di alcuni complessi processi mentali. La dissociazione può essere una sindrome clinica che riflette questa dissociazione mentale dei processi (Siegel, 1996).

L’emisfero destro si occupa della regolazione diretta dei processi corporei, si occupa di espressione e percezione affettiva, si specializza nell’elaborazione delle immagini percettive, media il ricordo autobiografico, ed elabora le informazioni in modo “olistico”. La capacità di mindsight può dipendere, in generale, dall’integrazione di un numero di queste elaborazioni di informazioni fisiche, emotive e sociali in circuiti che risiedono prevalentemente nella parte destra del cervello e che si interconnettono con quelli dell’emisfero sinistro.

Il lato sinistro del cervello, non è molto in grado di “leggere” le espressioni non verbali e le emozioni degli altri, ma elabora le informazioni utilizzando principalmente un “ragionamento sillogistico”, cercando la causa ed stabilendo relazioni tra eventi in modo lineare e logico.

Secondo Siegel un attaccamento non sicuro ha un forte impatto sul cervello in crescita del bambino (Siegel, 1999). L’emisfero destro è il lato dominante del cervello durante i primi anni della vita del bambino (Chiron, Jambaque, Nabbot, Lounes, Syrota,
& Dulac, 1997): cresce più rapidamente ed è più attivo (Thatcher, 1997). In effetti, le aree dell’emisfero destro all’interno della corteccia prefrontale che regolano la funzione corporea e la comunicazione emotivamente sintonizzata sembrano svilupparsi attivamente durante questo periodo (Schore, 1994, 1996). Ma è la connessione con l’emisfero sinistro, in grado di stabilire i nessi causa-effetto, a garantire la capacità di comprendere il perché delle emozioni e dei comportamenti degli altri. Quindi, la comunicazione del caregiver con il bambino durante i primi anni di vita può aiutare a modellare dapprima l’emisfero destro (attraverso le comunicazioni non verbali e la sintonizzazione emotiva) e successivamente l’emisfero sinistro (con l’emergere dello scambio verbale), migliorando così la connessione tra i due emisferi e favorendo la capacità di mindsight.

Neurobiologia interpersonale e psicopatologia

Un evidente campo di applicazione della neurobiologia interpersonale risulta essere il trattamento degli individui che hanno subito un trauma. In questa situazione infatti la mente è stata incapace di integrare i vari aspetti delle travolgenti esperienze traumatiche o di perdita.

Con questa condizione irrisolta, il funzionamento delle regioni prefrontali di integrazione diventa temporaneamente alterato e l’output comportamentale è guidato più dagli stati emotivi e dagli impulsi delle regioni inferiori del cervello senza i processi più riflessivi e razionali degli input neocorticali superiori. In questa situazione i comportamenti diventano riflessivi e la mente si riempie di modelli di risposta profondamente inflessibili: le emozioni possono inondare la mente e rendere il pensiero razionale e il comportamento consapevole abbastanza alterato (Siegel, 2001).

Ciò può produrre reazioni emotive eccessive, turbolenze interiori e un conseguente senso di vergogna e umiliazione. In tali condizioni, l’individuo può essere incline a manifestazioni di “rabbia infantile” e aggressività o a comportamenti invadenti o violenti, mentre è gravemente compromessa la capacità dell’individuo di mantenere una comunicazione collaborativa con gli altri.

Ma secondo Siegel (2011) un esame del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) attraverso la prospettiva della neurobiologia interpersonale rivela che ciascuno dei sintomi delle varie sindromi è un esempio di caos, rigidità o entrambi. Da questa prospettiva, il DSM è in realtà una descrizione di esempi di integrazione compromessa.

Promuovere la salute psichica con le relazioni

Abbiamo visto come l’attaccamento abbia un ruolo centrale nel determinare i i processi di integrazione, fondamentali per il benessere psichico delle persone.

Gli effetti delle relazioni di attaccamento, fortunatamente, non sono deterministici e nel corso della vita, le persone hanno la possibilità di ristabilire nuovi attaccamenti e trovare nuove “basi sicure” (Bowlby, 1969), come accade ad esempio nella relazione terapeutica.

Esistono degli ingredienti essenziali per stabilire una relazione d’attaccamento di tipo sicuro, che a detta di Siegel possono ritrovarsi o essere ricostruiti nelle successive relazioni, alla base del benessere psichico e della resilienza.

Le interazioni interpersonali possono facilitare il processo di integrazione, possono produrre collegamenti tra reti neurali soprattutto attraverso la comunicazione delle emozioni, elemento centrale nella comunicazione interpersonale. La condivisione interpersonale degli stati emotivi primari è una forma di “risonanza”, fondamentale nel processo di integrazione. Condividendo i processi emotivi, si uniscono e si integrano le menti: la risonanza emotiva che sorge con coerenza narrativa all’interno di rapporti diadici sintonizzati può creare un profondo significato e una connessione dentro se stessi e con gli altri. Questi processi integrativi sono al centro del benessere emotivo e psicologico e della resilienza.

Affinché le relazioni possano aiutare a stare meglio, secondo la neurobiologia interpersonale, devono possedere semplici ma importanti competenze di base: la comunicazione collaborativa, il dialogo riflessivo, la riparazione interattiva, la narrativizzazione coerente e la comunicazione emotiva.

Neurobiologia interpersonale e psicoterapia

Che cosa offre la neurobiologia interpersonale alla psicoterapia? Cosa dice riguardo a come lavorare in terapia? Le esperienze terapeutiche che guidano l’individuo verso il benessere devono promuovere l’integrazione e contrastare la rigidità e/o il caos che si traducono in condizioni di vita inflessibili, disadattive, incoerenti e instabili: sintomatiche dunque.

Da un punto di vista clinico diventa interessante vedere la psicopatologia e i disturbi mentali come un deficit di integrazione: in questa cornice compito del terapeuta sarà, attraverso diversi strumenti, aumentare l’integrazione nel paziente, favorendo il cambiamento verso uno stato maggiore di benessere.

Tre esperienze umane favoriscono questo processo, promuovendo il benessere: attaccamento sicuro, meditazione mindfulness e psicoterapia efficace.

Nell’ottica della neurobiologia interpersonale, di fondamentale importanza è la consapevolezza mindful. Una serie di studi rivela che la pratica della mindfulness porta a cambiamenti sia funzionali che strutturali nel cervello. Avere un atteggiamento Mindful significa saper “guidare” consapevolmente la nostra attenzione; uno degli obiettivi della pratica è infatti quello di aumentare il nostro grado di consapevolezza che ci permette di osservare il cambiamento, ma anche i nostri automatismi di pensiero, le nostre emozioni e il modo in cui la mente si ancora a questi oggetti di per sé intrinsecamente mutevoli.

La promozione dell’integrazione si può ottenere, inoltre, attraverso almeno nove domini che, una volta appresi dal terapeuta, possono rivelarsi estremamente utili all’interno del processo di psicoterapia (Siegel, 2006):

  1. Integrazione della coscienza: implica lo sviluppo di forme esecutive di attenzione a cui sono associate maggiori capacità di autoregolazione, come la regolazione delle emozioni, la reazione allo stress e le capacità sociali avanzate. Condurre delle sedute di psicoterapia che abbiano un focus di attenzione su vari domini (mentale, somatico e interpersonale) può creare  nuove connessioni sinaptiche
  2. Integrazione verticale: implica l’integrazione di elementi anatomicamente e funzionalmente differenziati dei nostri corpi, dalla nostra testa alle nostre dita dei piedi. L’integrazione verticale collega direttamente questi elementi all’interno della consapevolezza in modo tale che nuove connessioni possano essere stabilite.
  3. Integrazione bilaterale: si riferisce all’integrazione delle funzioni esercitate dall’emisfero destro e da quello sinistro
  4. Integrazione della memoria: focalizzare l’attenzione sui pezzi di puzzle della memoria implicita per essere assemblati nei ricordi semantici e nei ricordi del Sé. I ricordi intrusivi di una persona, in questo modo, si inseriscono all’interno di una conoscenza più profonda del passato.
  5. Integrazione narrativa: attraverso una cosciente riflessione narrativa si può scegliere di rilevare ed eventualmente modificare i vecchi schemi disadattivi.
  6. Integrazione di stato: si riferisce al modo in cui possiamo riconoscere e accettare i nostri stati mentali attraverso i quali ci rapportiamo alla vita e agli altri e le loro esigenze di definizione nel tempo.
  7. Integrazione temporale: capacità riflessiva di collegamento tra passato, presente e futuro che ci aiuta a prendere in considerazione i nostri scopi di vita.
  8. Integrazione interpersonale: lo stato di attivazione cerebrale nel terapeuta funge da fonte vitale di risonanza emotiva che può alterare profondamente i modi in cui il cervello del paziente si attiva nel qui ed ora della terapia. Queste esperienze interattive col terapeuta permettono al paziente di “sentirsi sentito” e compreso e possono anche far stabilire nuovi schemi di attivazione della rete neurale.
  9. Integrazione traspirazionale: man mano che i pazienti vanno avanti nel raggiungere nuovi livelli di integrazione attraverso gli otto domini sopra descritti, iniziano a sentire un diverso senso di connessione con se stessi e con il mondo, come se fossero connessi a un insieme più ampio, rispetto al precedente senso di isolamento.

Dunque, secondo la neurobiologia interpersonale, le relazioni come quelli tra parenti, amici, la psicoterapia e l’ambiente collaborativo di comunità potrebbero facilitare lo sviluppo di un’auto-regolazione flessibile e uno stile di vita integrato per tutte le età. Se si riuscisse a trovare un modo per facilitare l’integrazione neurale all’interno delle menti degli individui nel corso della vita, si potrebbe essere in grado di promuovere un più compassionevole mondo delle connessioni umane.

Non pensarci, pensa ad altro! La strategia di soppressione e controllo dei pensieri a seguito di un lutto 

Gli individui classificabili come evitanti tendono a mettere in atto un processo di controllo e di evitamento che si basa sull’attenzione selettiva per far sì che rappresentazioni mentali, per esempio pensieri relativi alla persona amata deceduta, non arrivino alla coscienza.

 

Sono considerate evitanti, le persone che tendono ad attuare una strategia di soppressione degli stati emotivi negativi.

In situazioni di lutto, per esempio, tale meccanismo di soppressione (o evitamento) viene messo in atto nel momento in cui si cercano di controllare i propri processi mentali attraverso l’attenzione selettiva per bloccare le intrusioni mentali relative alla persona deceduta. Sebbene possa sembrare molto utile, l’ evitamento non è una strategia efficace nella gestione delle emozioni o dei pensieri problematici in quanto è altamente faticosa per l’individuo. Infatti, consuma molte energie a livello cognitivo, esercitando infine un effetto paradosso: invece di tenere lontani i pensieri relativi al defunto, li riporta alla coscienza.

Al contrario gli individui con uno stile di coping meno evitante si focalizzano su uno stimolo o un compito presente e concreto, su ciò che hanno davanti, senza provare a monitorare in maniera eccessiva i loro stati mentali interni, ottenendo maggiori benefici.

L’ evitamento del dolore può avvenire anche in modo inconsapevole?

Uno degli approcci più disfunzionali e meno efficaci è proprio l’ evitamento del dolore, uno stato in cui le persone afflitte dalla perdita si impegnano in sforzi notevoli, impegnativi, ripetitivi e spesso fallimentari per bloccare i pensieri relativi alla loro perdita. Finora, i ricercatori hanno mostrato come gli evitanti monitorano, consapevolmente, l’ambiente esterno per evitare stimoli che potrebbero rievocare il ricordo del defunto, ma non è stato ancora chiarito se essi si cimentino nel monitoraggio e nel controllo dei loro stati mentali in maniera inconsapevole, tentando per esempio di bloccare l’emergere nella coscienza dei pensieri relativi alla perdita.

Un recente studio nato dalla collaborazione tra la Columbia Engineering e la Columbia University dimostra che chi utilizza strategie di evitamento cognitivo effettivamente monitora e blocca i contenuti del mind-wondering in maniera inconsapevole.

I ricercatori hanno osservato 29 soggetti in lutto al fine di capire qual è il funzionamento del suddetto meccanismo di evitamento. Durante la ricerca, sono stati tracciati i processi di controllo mentale attivi nei soggetti durante 10 minuti di mind-wondering, dando evidenza di come i pensieri correlati alla perdita accedevano e fuoriuscivano dalla coscienza. Per tracciare le interazioni tra i processi mentali i ricercatori hanno utilizzato un nuovo approccio che consiste nell’utilizzo di una machine learning per la risonanza magnetica funzionale (fMRI), un sistema chiamato “decodifica neurale”. Esso stabilisce un pattern neurale o impronta digitale che può essere utilizzato per determinare il momento in cui un qualsiasi processo mentale si sta presentando.

La sfida più grande di questo studio è stata proprio quella di riuscire ad osservare sotto la superficie di uno stato naturale di mind-wondering, in modo da esaminare quali processi sottostanti stessero controllando le esperienze dei partecipanti. Si tratta del primo studio che ha cercato di evidenziare il costante controllo esercitato dagli individui sui propri processi mentali attraverso l’attenzione selettiva, che si attiva in modo spontaneo e inconsapevole.

Il team di ricercatori ha registrato attraverso fMRI l’attivazione neurale in persone in lutto per un parente di primo grado negli ultimi 14 mesi. I soggetti hanno partecipato al test di Stroop, ampiamente utilizzato in psicologia per misurare l’abilità di una persona a controllare i contenuti dell’attenzione. Oltre al compito di Stroop, ai partecipanti sono state presentate foto e storie del deceduto. Utilizzando la macchina per la decodifica neurale, i ricercatori hanno formato le rispettive impronte digitali neurali attraverso il controllo dell’attenzione ricavato dal test di Stroop e la rappresentazione mentale dei defunti basata sulle foto e sulle storie presentate.

Il gruppo di ricerca ha evidenziato che i partecipanti caratterizzati da una strategia di coping al lutto più tendente all’ evitamento utilizzavano processi di controllo attentivo per evitare che le rappresentazioni mentali del defunto arrivassero allo stato di consapevolezza. Nonostante ciò, gli individui non erano consapevoli di mettere in atto tale meccanismo.

In conclusione

Gli evitanti, pertanto, controllano non solo attivamente ma anche in maniera inconsapevole i loro stati mentali in modo che i pensieri spontanei relativi al lutto non entrino nella loro coscienza. Questa tipologia di mind-wondering prosciuga profondamente le loro energie mentali e, infine, conduce a momenti in cui i pensieri riguardo il lutto effettivamente giungono alla coscienza.

Al di fuori della nostra consapevolezza, sembra dunque che gli individui che hanno una tendenza all’ evitamento cerchino costantemente di revisionare le proprie esperienze mentali per controllare cosa pensare e cosa non pensare. Ma quest’operazione di revisione e controllo, come abbiamo visto, non è sempre utile.

Il posto delle fragole (1957) – Recensione del film

Isaak Borg è un medico anziano, ormai in pensione, che dovrà affrontare un viaggio molto lungo da Stoccolma, città in cui egli vive, per ritirare un premio presso la cattedrale di Lund..

Lorenzo Ricciuti

 

Il giorno prima di partire, coricatosi sul letto fa un sogno molto strano: l’orologio è senza lancette, il volto di un uomo è senza occhi né bocca e da un carro uscirà una bara con uomo dentro. Questa chiara allusione alla morte turberà non poco il risveglio del signor Borg.

Il posto delle fragole: un viaggio interiore per Borg

Il signor Borg non affronterà il viaggio da solo ma con lui viaggerà la nuora Marianne. Nel film Il posto delle fragole, quello che sembra essere un semplice viaggio, si rivelerà per il signor Borg un viaggio interiore vero e proprio. Infatti accanto al bravo medico emergerà un carattere freddo e distaccato, poco incline alla comprensione altrui. Tutto ciò non lascerà indifferente il signor Borg che prenderà coscienza dei suoi errori commessi in passato. Nel corso del viaggio durante una sosta il signor Borg rivede la casa della sua giovinezza. E la memoria va al posto delle fragole, luogo del gioco e della spensieratezza della gioventù.

Nel corso del viaggio, una macchina procede in direzione opposta alla loro. Ci sarà un incidente e il signor Borg sarà costretto ad ospitare i due che guidavano l’altra macchina ormai in panne. Sono un uomo e una donna in piena crisi relazionale, infatti il marito si diverte a prendere in giro la propria moglie che nel frattempo ha una vera e propria crisi di pianto. A quel punto il signor Borg con Marianne alla guida si addormenta ed è di nuovo preda di un sogno: guidato dal suo professore egli entrerà in aula per sostenere un esame. A quel punto il professore domanda “Qual è il primo dovere di un medico?” Il signor Borg non sa rispondere e sarà il maestro ad indicargli la risposta “Il primo dovere di un medico è saper chiedere scusa”.

Il posto delle fragole: fare pace con il passato

Borg impacciato e imbarazzato subirà una punizione: “sempre la stessa” affermerà il professore, ossia “la solitudine”. Destatosi dal sogno il signor Borg confiderà a Marianne “sono morto, pur essendo vivo”. A quel punto Marianne gli dirà che la stessa frase è stata pronunciata dal marito. Quest’ultimo non vuole avere il bambino che Marianne porta in grembo perché secondo lui “è sciocco mettere al mondo qualcuno con l’assurda speranza che possa essere più felice di noi”. Il film termina con il signor Borg che ripenserà al posto delle fragole ritrovandosi e ricongiungendosi, questa volta, in pace con il passato.

 

IL POSTO DELLE FRAGOLE, LA SOLITUDINE DI BORG – GUARDA IL VIDEO:

Twitter: cinguettare le emozioni per regolarle

Twitter oramai rappresenta per molti, siano essi studenti del liceo, celebrità, politici o il presidente di una grande nazione, una piattaforma per comunicare ma soprattutto per esprimere se stessi.

 

Una modalità tra le più utilizzate per esprimere se stessi è la verbalizzazione emotiva, cioè la scrittura nero su bianco, o meglio tramite cinguettii, delle proprie emozioni e dei propri stati affettivi, come se Twitter in qualche modo potesse rappresentare una sorta di diario emotivo, al pari di quelli utilizzati nelle sessioni terapeutiche per monitorare e tenere “aggiornati” i propri vissuti emotivi, sia positivi che negativi, nel quotidiano (Lieberman, 2018).

Twitter: favorisce la regolazione emotiva?

Questa modalità “terapeutica”, per la quale Twitter sarebbe impiegato, è stata recentemente affrontata e approfondita da uno studio apparso su Nature Human Behaviour, di Bollen, Varol e colleghi del Center for Complex Networks and Sistem Research dell’università dell’Indiana, USA.

La ricerca presa in considerazione ha investigato l’evoluzione temporale dei contenuti emotivi di circa 75 mila utenti di Twitter tramite l’analisi delle parole e degli aggettivi presenti nei loro tweet per descrivere, etichettare e verbalizzare esplicitamente un’esperienza emotiva sia essa positiva o negativa (Fan, Bollen, Varol et al., 2018).

Partendo da uno studio precedente di Torre & Lieberman (2018) che ha indicato come la mera espressione, tramite verbalizzazione, delle proprie emozioni fosse in grado di regolarle riducendone il distress e l’impatto negativo, anche quando questo scopo non era consapevolmente conosciuto o ricercato dalle persone, Bollen e colleghi (2018) si sono concentrati su tale fenomeno implicito di regolazione emotiva analizzando e misurando le dinamiche che spontaneamente si presentano nella comunicazione emotiva online nell’era digitale.

Oltre a ciò, uno studio di Burklund, Creswell e colleghi (2014) ha mostrato come l’etichettamento emotivo sia una strategia di regolazione funzionale in quanto è anch’essa in grado di incrementare l’attività di inibizione della corteccia prefrontale ventrolaterale sull’amigdala con una modalità simile agli interventi di identificazione e rivalutazione cognitiva delle emozioni utilizzate già per la regolazione emotiva nei setting terapeutici.

Twitter: lo studio

Per verificare se effettivamente questo fenomeno fosse osservabile anche nella modalità di comunicazione online, i ricercatori hanno in primo luogo investigato se l’espressione verbale delle valenze emotive positive o “negative” fosse associata ad un’intensificazione o ad un’attenuazione delle emozioni originali; in secondo luogo hanno cercato di capire se, una volta trovati gli effetti regolatori dell’etichettamento, fosse presente una componente temporale degli stessi cioè se ci fossero delle loro differenze prima, dopo o durante l’espressione emotiva tramite tweet.

I tweet presi in analisi hanno incluso perifrasi che iniziavano con “Io mi sento” o con variabili simili, seguiti da bene, male, triste, depresso, felice ecc.

Twitter: risultati e riflessioni sullo studio

I risultati hanno evidenziato come l’intensità, la valenza dell’emozione provata, sia positiva che critica, avesse subito un’impennata subito prima e per circa un’ora dalla sua verbalizzazione, anche se l’evidenza più interessante delle studio è però rappresentata dal fatto che, quando un tweet etichettava uno stato emotivo difficoltoso, i successivi tweet descrivevano un ritorno quasi immediato alla baseline emotiva, cioè ad un grado minore di attivazione emotiva rispetto al tweet precedente, dimostrando l’effetto di regolazione dell’intensità emotiva a seguito della verbalizzazione tramite tweet.

Il tutto confrontando i valori di valenza descritti dai tweet degli utenti per ciascuna delle tre finestre temporali (prima/durante/dopo) (Fan, Bollen, Varol et al., 2018).

Lo studio ha di fatto messo in luce la sequenza, l’andamento temporale delle emozioni minuto-per-minuto, prima durante e dopo l’etichettamento e la verbalizzazione dei propri stati emotivi tramite una metodologia innovativa e complessa di tipo lessicale e con algoritmi.

Nonostante ciò lo studio presenta dei limiti, fra tutti la presenza di numerose dissimulazioni dei propri stati emotivi nei social network: gli utenti spesso, anche per desiderabilità sociale, tendono a curare nel dettaglio le rappresentazioni di Sé, del proprio stato emotivo e della loro immagine per risultare all’esterno in un certo modo, distorcendo così la relazione tra ciò che è realmente sentito dalla persona e quello che viene presentato da questa stessa online sia tramite parole che immagini (Lieberman, 2018).

Trapianto di organi e aspetti psicologici: l’esperienza di Cristina

Il trapianto di organi è un intervento chirurgico che consiste nella sostituzione di un organo malato e quindi non più funzionante, con uno sano dello stesso tipo proveniente da un altro individuo che viene chiamato donatore. I risvolti psicologici sono rilevanti

Valentina Pozzesi e Martina Spelta – Open School PTCR Milano

 

I trapianti d’organo sono attualmente una valida pratica terapeutica per alcune patologie cardiache, grazie anche allo sviluppo di efficaci farmaci anti-rigetto da ormai più di vent’anni. Il trapianto può fornire una durata ed una qualità di vita che nessun altro trattamento è in grado di garantire al paziente cardiopatico (Comazzi, 2002).

Il trapianto di organi è però anche un intervento dagli importanti risvolti psicologici, soprattutto il trapianto di organi maggiori. I pazienti candidati al trapianto sono soggetti che giungono a questo intervento percependolo come ultima speranza di vita, dopo un lungo calvario di sofferenza. Sono malati cronici, dipendenti dalle terapie mediche, costretti spesso alla sospensione della propria attività lavorativa e profondamente limitati nello svolgimento delle normali mansioni quotidiane. La loro situazione di malattia comporta una modificazione dei ruoli e degli affetti all’interno della stessa famiglia. Il trapianto rappresenta quindi la possibilità concreta di tornare allo stato di salute, non solo fisica ma anche, e, in maniera significativa, psichica e sociale.

Attualmente, a distanza di molti anni dal primo trapianto di cuore lo squilibrio tra numero di persone in lista di attesa e gli organi disponibili, è ancora molto elevato. Nel caso del trapianto di cuore, l’importanza della disponibilità di questo organo è confermata dal dato epidemiologico per cui nel mondo occidentale le cardiopatie sono ritenute responsabili di poco meno della metà dei decessi. In Italia, di tutti i pazienti in lista d’attesa, quelli per trapianto di cuore sono il 7.8%. Il tempo medio in lista è di 2.5 anni, con una mortalità dell’8.22%. (Sistema informativo trapianti – Ministero della Salute, 2011).

Trapianto di organi: le fasi del supporto e il ruolo dello psichiatra e del psicologo

La psichiatria e la psicologia hanno un ruolo importante nell’attività di trapianto di organi; sia per quanto riguarda la valutazione dei pazienti nell’attesa dell’intervento, sia dopo il trapianto.

Il protocollo di inserimento in lista d’attesa prevede anche una valutazione psichiatrica: questa mira in prima istanza ad una valutazione complessiva delle condizioni dei candidati, in modo da escludere l’esistenza di organizzazioni psichiche potenzialmente patologiche o di esplicite condizioni di interesse psichiatrico o psicosociale che potrebbero pregiudicare la compliance del paziente nel pre e nel post trapianto. Questa serie di interventi si conclude con l’incontro con tutti i membri dell’équipe trapiantologica per la presentazione e la discussione collegiale del caso. Generalmente, vengono considerate controindicazioni assolute al trapianto di organi: attuale dipendenza/abuso di droghe e alcol, schizofrenia in fase attiva, storia di numerosi tentativi di suicidio, attuale idea suicida e demenze.

Trapianto di organi: il periodo di attesa

Gli obiettivi di una assistenza psicologica nella fase pre-trapianto sono molteplici e vanno concettualmente distinti, anche se nella pratica si combinano in vario modo seguendo le esigenze cliniche. Tutti fondati su un principio comune: una buona riabilitazione inizia prima dell’intervento chirurgico, non dopo. Sono da considerare prioritari di interventi di sostegno psicologico per aiutare i pazienti ad affrontare il trapianto, poiché le loro reazioni e le modalità di coping (cioè di far fronte agli eventi) siano orientate all’intervento in modo adattivo. Quando, dai colloqui e dall’esame psichiatrico, emergono evidenti sintomi di ansia o depressione o turbe psicopatologiche, l’assistenza si orienta verso più decisi interventi terapeutici, di ordine sia psicoterapico (a livello individuale e/o familiare) sia psicofarmacologico. Di pari importanza ci sono gli interventi che hanno lo scopo di aumentare il grado di informazione e di consapevolezza del paziente (e dei familiari) sulla realtà clinica del trapianto di organi, sulla sua portata e sul programma terapeutico successivo, e insieme di accertarne le motivazioni, sia a livello cognitivo che emotivo.

Trapianto di organi: il Periodo perioperatorio e il primo anno successivo

A livello psichico il rielaborato è quello dell’accettazione progressiva di un organo estraneo che deve diventare proprio. Quindi non si tratta solo di un trapianto somatico, ma anche emozionale, deve avvenire un riassestamento del proprio schema corporeo con l’accettazione di un organo che è sano, ma che non è il proprio e deve essere integrato nel proprio corpo.

Nei primi giorni del decorso post-operatorio, ancora in unità di terapia intensiva (UTI) il paziente si trova in una condizione di marcata regressione e fragilità per lo shock biologico e per lo stress psichico subito. In questa fase non sono scindibili interventi psicologici e interventi di assistenza medica e di nursing: dolore, problemi fisici, angosce e paure, devono tutti trovare accoglienza e contenimento in una assistenza affettuosa e rassicurante da parte dell’équipe curante (fase di maternaggio). Tuttavia la facile incidenza, come vedremo, di momenti critici di scompenso psichico in questa fase richiede una pronta disponibilità di interventi di valutazione psichiatrica e di terapia psicofarmacologica, che sono di molto agevolati da una precedente conoscenza con il paziente.

Il periodo postoperatorio è un periodo di grande ansia per il paziente, che sa essere cruciale per la problematica del rigetto. È importante in questo momento la presenza dello psichiatra/psicologo, anche se spesso si rivela una presenza silenziosa, però ricca di comunicazione, avendo la finalità di creare intorno al malato un ambiente familiare che faccia da intermedio punto d’appoggio nel passaggio da vecchio malato a nuovo oggetto non ancora guarito.

Trapianto di organi: il periodo post-operatorio

Dopo la dimissione, inizia la vera e propria riabilitazione del paziente alla vita familiare, sociale e lavorativa. L’assistenza psicologica, per i problemi psichici personali e di vita familiare e sessuale, può avvenire secondo due modalità:

a) interventi nelle situazioni di crisi, su richiesta dei medici curanti o del paziente e dei familiari. In questi casi alla valutazione psichiatrica dei sintomi e delle dinamiche della crisi può far seguito un trattamento psicofarmacologico con successivi ricontrolli, o anche la proposta di trattamenti psicoterapici brevi a livello personale o familiare; è stata documentata anche la validità dell’applicazione di terapie di gruppo per pazienti trapiantati;

b) tuttavia la crescente consapevolezza della durata e complessità dei processi di adattamento che seguono al trapianto di organi e delle difficoltà di reinserimento familiare e sociale, insieme con la necessità di capire meglio le conseguenze a lunga distanza del trapianto sulla qualità della vita dei pazienti consigliano ormai di seguire la modalità di interventi di follow-up programmato, in genere a distanza di 3-6 mesi e poi di un anno, con i seguenti.

Talvolta nella fase immediatamente successiva all’intervento in alcuni pazienti si ha quella che alcuni autori definiscono luna di miele: una sensazione transitoria di rinascita che può assumere le caratteristiche di uno stato di ipomaniacalità reattiva alla condizione di grave angoscia provata prima dell’intervento. A distanza di un anno dal trapianto di organi i dati rivelano un aumento significativo delle funzioni fisiche. In particolare l’83% dei sopravvissuti non ha alcuna limitazione funzionale, mentre il 10% dei pazienti afferma di aver bisogno di assistenza nelle attività quotidiane.

Outcome psicosociali nel trapianto cardiaco

Nel 2006 il Psychosocial Outcomes Workgroup of the Nursing and Social Sciences Council of the International Society for Heart and Lung Transplantation ha studiato la letteratura in questo campo identificando 5 grandi gruppi di outcome psicosociali di interesse in pazienti che hanno subito trapianto di cuore: funzionamento fisico, funzionamento psicologico, funzionamento comportamentale, funzionamento sociale e qualità di vita.

  • Funzionamento fisico: Sia misure oggettive sia misure soggettive hanno rivelato un miglioramento del funzionamento fisico dopo il trapianto. Ma i pazienti continuano a riportare una disfunzione significativa in alcune aree come, per esempio, l’attività sessuale. Vengono frequentemente descritti nuovi sintomi che causano sofferenza post trapianto, dovuti primariamente agli effetti collaterali dei farmaci immunosoppressori.
  • Funzionamento psicologico: I disturbi dell’umore e d’ansia, come i sintomi psicologici subclinici, sono comuni nel primo anno dopo il trapianto e si riducono l’anno successivo per poi aumentare negli ultimi 5 anni dopo il trapianto; sono più frequenti rispetto al resto della popolazione e rispetto a un campione di soggetti affetti da altre patologie croniche. Tali sintomi possono essere difficili da diagnosticare e si presentano con caratteristiche atipiche, come irritabilità, presenza di disturbi cognitivi, sentimenti di frustrazione, mal di testa, disturbi gastrointestinali, astenia, disturbi del sonno, riduzione dell’appetito e vaghi sintomi somatici. Inoltre, la depressione che porta all’ospedalizzazione risulta essere un fattore di rischio per nuove complicanze cardiache indipendentemente dalle altre comorbidità, soprattutto nella prima settimana successiva al ricovero. Poichè un umore depresso predice la QoL (quality of life), e QoL e benessere psicologico sono correlati alla morbidità e mortalità dopo trapianto, un trattamento effettivo della depressione potrebbe potenzialmente migliorare la QoL e prolungare la sopravvivenza dei pazienti sottoposti a trapianto di cuore. Il disturbo da stress post-traumatico correlato al trapianto, sebbene meno comune, è stato osservato nel 15% dei pazienti. Esiste anche una ricca letteratura in grado di documentare vari gradi di sintomi psicologici. I pazienti manifestano angoscia e sintomi subclinici aspecifici che generalmente riflettono sintomi ansiosi, depressivi e somatici.
  • Funzionamento comportamentale: la letteratura riporta ampi tassi di non aderenza al regime terapeutico; essi rimangono stabili per almeno 3 mesi e col tempo tendono ad aumentare. Questi sono inoltre fattori in grado di predire gli outcome clinici.
  • Funzionamento sociale: La maggior parte dei pazienti dopo trapianto cardiaco riporta percezioni positive delle relazioni interpersonali, del ruolo sociale e delle attività nel tempo libero. I tassi di lavoro sono molto variabili nei vari studi, andando dal 12 al 74%.
  • Qualità di vita. La qualità di vita (QoL) è sicuramente il dominio più importante tra i 5 domini psicosociali. Negli ultimi anni un numero crescente di studi si sta focalizzando sui determinanti della QoL nelle diverse fasi del trapianto cardiaco. Nel vocabolario medico, infatti, è diventato sempre più frequente l’utilizzo dell’espressione qualità di vita per definire, in modo non sempre uniforme, una serie di aspetti che vanno al di là della tradizionale valutazione clinica e oggettiva dell’intervento medico. Secondo la World Health Organization (WHO), la qualità di vita è la «percezione che gli individui hanno della loro vita, nel contesto della cultura e del sistema di valori in cui vivono e in relazione ai loro obiettivi, aspettative, standard di riferimento e interessi». I pazienti sottoposti a trapianto cardiaco riportano un’elevata qualità di vita, la quale risulta aumentata rispetto al periodo precedente il trapianto. Lo stesso vale nel lungo termine, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti sociali, familiari ed emotivi della loro vita e meno per quanto riguarda la salute e il funzionamento fisico. A questo proposito, l’insorgenza di disturbi ansioso-depressivi potrebbe giocare un ruolo importante. È stata infatti dimostrata una correlazione tra sintomatologia depressiva e bassa percezione della QoL. Nonostante i pazienti siano soddisfatti della loro qualità di vita, il miglioramento delle capacità fisiche non porta a raggiungere i normali valori riportati da soggetti sani della stessa età.

Trapianto d’organi: l’esperienza di Cristina

Cristina è una ragazza di 32 anni, dentro di lei batte il suo terzo cuore. Cristina subisce il primo trapianto di cuore all’età di 20 anni e il secondo a 31. In questa breve intervista andremo ad approfondire insieme a lei alcuni aspetti che hanno caratterizzato il suo percorso di malattia.

Intervistatore (I): Che cosa ti ha portata al tuo primo trapianto di cuore, nel 2006?

Cristina (C): Avevo 20 anni e tre giorni dopo il mio compleanno ero a casa mia, la mattina mi sono svegliata e non respiravo più. La diagnosi è stata cardiomiopatia dilatativa fulminante. In quel momento non ho potuto neanche sperare di curarmi con le medicine, così sono stata inserita in lista di trapianto. In quel momento io non sapevo neanche cosa fosse una lista di trapianto.

I: Cosa si prova quando si viene inseriti in una lista per trapianto?

C: Si entra in una sorta di mondo parallelo, dopo il primo forte impatto ho pianto tutto il giorno. Poi ho deciso di aspettare e di accettare quello che stava accadendo, ero determinata a vincere quella sfida.

I: Quanto è durata l’attesa?

C: La mia è durata molto poco rispetto a tante altre persone, poco più di un mese. Ero la prima in lista in Italia per età e gravità.

I: Come è andato il primo intervento?

C: Molto bene, è durato pochissimo e così anche la ripresa. Quindici giorni dopo ero fuori a mangiare la pizza con i miei genitori, nonostante fossi gravissima prima del trapianto.

I: Come è stata la tua vita dopo il primo trapianto?

C: Ho fatto tutto quello che volevo fare, è stato meraviglioso. Non è stato sicuramente semplice, ho fatto molti sacrifici. Ho frequentato l’università, il Politecnico a Milano, mi sono laureata in triennale, sono partita per l’exchange e ho trascorso un semestre a Singapore, è stato bello perché mi sono sentita una persona come le altre, con la possibilità di partire da sola. Sono riuscita a realizzare il sogno di scalare il Monte Rosa. Poi mi sono laureata in specialistica, ho fatto l’assistente al politecnico, ho iniziato a lavorare.

I: L’equipe ospedaliera che ti seguiva come affrontava questa tua voglia di realizzare i tuoi sogni?

C: I miei medici mi hanno sempre supportata, anche se non sempre sono stati d’accordo con i miei desideri e le mie decisioni. Sono stati molto importanti per me e il fatto che loro credessero in me e nella mia motivazione a vivere a fondo ogni momento mi è stato d’aiuto.

I: Sembrava tutto a posto, poi cosa è successo?

C: Nel 2015 inizio ad avere i primi sintomi, ricomincio a sentire quella fatica, quel dolore. Ho impiegato quasi tre mesi ad ammettere a me stessa che non stavo bene. Dopo i controlli la diagnosi era riferita ancora una volta ad un problema cardiaco. Questa volta era subentrato il rigetto cronico per il quale attualmente non esiste una cura farmacologica efficace al 100%. Ho iniziato una serie di trattamenti molto invasivi. Anche psicologicamente è stato difficile ritornate ad essere, 10 anni dopo, di nuovo cardiopatica. Inoltre all’inizio nessuna delle cure fatte aveva un effetto che desse speranze; dopo più di un anno di speranze infrante sono stata molto male, mi hanno ricoverata e insieme abbiamo deciso che sarei tornata in lista di trapianto per la seconda volta.

I: Come hai vissuto questa nuova diagnosi?

C: All’inizio l’ho vissuto come un tradimento, come se il mio nuovo cuore mi avesse tradita. Successivamente mi sono sentita più serena rispetto alla prima volta, forse perché il dolore fisico era meno intenso, avevo già affrontato problemi simili in precedenza e davvero questa volta vedevo la possibilità di ricevere un cuore come una rinascita. A differenza di altre malattie e interventi, secondo me, il trapianto di cuore ha una magia che è quella di dare di nuovo la vita, la possibilità di ripartire.

I: Quando sei stata ricoverata cosa hai vissuto?

C: Ammetto di essermi chiesta perché è successo proprio a me, ma poi ho cercato di scacciare subito quel pensiero perché non si ha una risposta in quel momento. Magari ci si pensa dopo al perché ti è successo, io ho lasciato questo lavoro per il post, perché è un lavoro molto intenso e faticoso che devo fare su me stessa anche grazie al supporto della mia psicologa e dello psichiatra. Sul momento ho pensato solo a combattere, a essere positiva per me e per le persone che mi stanno intorno che mi hanno dimostrato tanto amore. Sicuramente la seconda volta ero molto più arrabbiata, poi però mi sono resa conto che avevo comunque un’altra possibilità.

I: Questa seconda volta l’attesa quali emozioni ti ha portata ad esperire?

C: L’attesa è stata molto breve anche se questa volta era molto difficile trovare una cuore che andasse bene per me, proprio perché avevo sviluppato questo rigetto molto violento, indicativamente solo il 20% della popolazione era con me compatibile, sia come gruppo sanguigno, peso ed età.

I: Dall’inserimento in lista di trapianto, in pochi giorni la situazione si è aggravata e ti comunicano che saresti stata messa in coma farmacologico per permetterti la sopravvivenza, cosa hai provato dopo quella comunicazione?

C: Ho pensato poco, solo a stare il meglio possibile e a passare nel miglior modo possibile quelle ore e io non ho mai perso la speranza.

I: Quando ti hanno detto che il cuore era stato trovato, cosa hai provato?

C: In quel momento non ho avuto reazioni. Forse perché ero così stanca, ma anche molto pacifica. Ero così pronta ad accettare tutto quello che sarebbe stato il mio destino che ho fatto fatica a crederci, succede tutto in fretta e quella notte in cui arriva il cuore diventa infinita e brevissima allo stesso tempo, poi si entra in sala operatoria e si spera che tutto vada per il meglio.

I: Quale è stato, per te, il momento più difficile di questo percorso?

C: Il momento più duro è la scoperta e l’accettazione della diagnosi, la fase pre trapianto. Il momento più delicato e di fragilità è il post trapianto. Non tanto nell’immediato, dove mi sono sentita in bilico tra confusione e voglia di tornare a vivere, la quale che vince su tutto. Dopo qualche mese, un anno, quando la “luna di miele” è terminata ed emerge lo stress, le paure, la rabbia che sono state accumulate nel tempo e si mette in discussione tutto. E’ un momento delicato perché fisicamente stai bene, questo ti fa sentire in obbligo di essere felice, ma non è una cosa automatica perché ciò che hai vissuto ritorna ed è presente nei pensieri della vita quotidiana.

I: Incontrare altre persone nella tua stessa situazione ti ha aiutato?

C: Si, in particolare un bambina di 4 anni, ricoverata con me, una persona che mi che mi ha dato e mi da grande speranza e che ha subito più prove di quante ne abbia subite io, eppure non l’ho mai sentita piangere una volta in tutti quei mesi di ricovero insieme. Ha aspettato molto più di me ma sempre con il sorriso.

I: Altri fattori che ti hanno aiutata a sostenere questo percorso?

C: Conoscere persone e creare legami nuovi all’interno dell’ospedale ha permesso di creare un ambiente familiare in quel luogo dove ti ritrovi a passare molti giorni della tua vita. Essere circondata dalla mia famiglia e dalle amicizie più strette, avere questa costante presenza al mio fianco è stato di grande supporto. Con le mie più care amiche abbiamo creato una routine ospedaliera durante il mio ricovero, fatta di cene insieme in ospedale, momenti di risate e leggerezza seppur in quei momenti così delicati e carichi di drammaticità. Questo è stato un fattore molto importante che mi ha aiutata ad affrontare ciò che mi stava succedendo.

I: Nei confronti degli altri e del mondo cosa provi ora?

C: Mi sento estremamente in debito e mi ritengo molto fortunata. Ho avuto ben due possibilità e questa volta voglio aiutare gli altri come posso, raccontando agli altri la mia esperienza in modo che possa essere di aiuto, fondando una Onlus che vuole essere un aiuto e un punto di riferimento per chi deve affrontare il trapianto prima durante e dopo.

I: Pensi mai ai donatori dei tuoi cuori?

C: Ci penso spesso, sicuramente è una responsabilità e penso spesso come questo gesto di generosità e coraggio fatto da queste persone o dalle loro famiglie, che non conoscerò mai, abbia cambiato e reso possibile la mia vita. E’ anche molto bello, è un po come se fossimo in tre.

I: Adesso come è la tua vita e come vedi la vita davanti a te?

C: La vedo meravigliosa, è ancora una nuova opportunità e la vivo giorno per giorno perché è questo un po’ l’accordo, ma va bene così, ogni giorno è un giorno speciale. Anche se si torna, per fortuna, ai problemi di tutti i giorni c’è un grande dono che ti lascia l’esperienza della malattia, è tutto vissuto in maniera più intensa. Tuttavia riemerge e rimane costante nella mia vita e in quella di molti cardio trapiantati la sensazione del tempo che corre veloce e l’ansia di non dover sprecare il tempo e dare valore a ogni momento che si vive. E’ una cosa positiva ma anche un’arma a doppio taglio. A volte si vivono momenti di sconforto in cui non si sta più bene nei panni di prima e ti ritrova a fare i conti con te stesso e i grandi cambiamenti che senti dentro di te.

 

Per saperne di più visita il Sito della Onlus CUORI 3.0 fondata da Cristina

Fentanyl: dall’uso terapeutico alla dipendenza patologica – Introduzione alla Psicologia

Il fentanyl, noto anche come fentanil o fentanile e con i nomi commerciali sublimaze, actiq, durogesic, duragesic, fentanest, effentora, onsolis, instanyl, abstral, è un potente oppioide sintetico, appartenente alla classe delle piperidine. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il fentanyl è molto più potente della morfina, di circa 80 volte, svolge una funzione analgesica a rapida insorgenza e ha una breve durata d’azione.

Da sempre è utilizzato per il trattamento del dolore cronico soprattutto in pazienti affetti da neoplasia e spesso è somministrato prima di interventi chirurgici in associazione con una benzodiazepina o altri farmaci.

Fentanyl: la storia

Il fentanyl è stato preparato e sviluppato per la prima volta dal Dott. Paul Janssen nel 1959 nell’ambito di un brevetto tenuto dalla sua società, la Janssen Pharmaceutica. Negli anni ‘60 il fentanyl è stato presentato sul mercato dei farmaci come anestetico dai prodigiosi effetti.

Fino alla metà del 1990 questa droga si è diffusa a macchia d’olio, soprattutto era venduta sottoforma di cerotti dermici. Visti gli effetti, ovviamente, è diventata anche una delle sostanze più prodotte dal mercato illegale.

Di conseguenza, i primi casi di spaccio della sostanza sono emersi nel corso degli anni settanta. Tra il 2005 e il 2007 il fentanyl prodotto in un singolo laboratorio messicano causò più di mille morti da overdose negli Stati Uniti. Il fentanyl è sintetizzato dai cartelli della droga messicani a un costo più basso di quello necessario per produrre eroina, con cui spesso è mischiato per renderlo più potente.

Fentanyl: come si presenta

Il fentanyl è un farmaco che produce effetti simili a quelli della morfina, ma più potenti e a dosi minori. Esso provoca effetti allucinatori accompagnati da uno stato di benessere che porta il consumatore a godere dei benefici della sostanza al punto da non poterne farne più a meno.

Il fentanyl è così potente che è facile andare in overdose, anche inavvertitamente. Una pasticca di fentanyl, avente una forma tipo quella della comune aspirina, potrebbe essere in grado di uccidere un uomo adulto. Di conseguenza, è veramente difficile dosarne la quantità giusta da cui poterne trarre dei benefici senza rischiare la vita.

Il fentanyl si assume tramite cerotti, lecca-lecca o pastiglie, più raramente tramite iniezioni. Sotto forma di farmaco è adatto alla somministrazione per via orale, per via inalatoria, per via transdermica e per via parenterale. Esso è utilizzato principalmente per il trattamento del dolore episodico intenso in pazienti affetti da patologie neoplastiche che sono già in terapia con altri oppioidi per il trattamento del dolore cronico oncologico.

L’assunzione contemporanea di fentanylalcool andrebbe evitata, poiché quest’ultimo aumenta la sonnolenza indotta dal fentanyl.

Il fentanyl può diminuire la capacità di guidare veicoli e di utilizzare macchinari pertanto tali attività dovrebbero essere evitate. Per chi svolge attività sportiva, il suo utilizzo senza necessità terapeutica costituisce doping e anche quando il farmaco è assunto a scopo terapeutico.

Effetti sul sistema nervoso centrale

Il fentanyl a livello del sistema nervoso centrale si lega ai recettori degli oppiacei endogeni, localizzati lungo le vie del dolore del nostro organismo, producendo un’azione analgesica. Quindi, quando questi recettori sono stimolati dalla sostanza, si ottiene uno stato di benessere.

Questa sostanza, in alcuni casi, provoca depressione respiratoria probabilmente dovuta a un’azione diretta sui centri respiratori del tronco cerebrale, che sono depressi nella loro attività di stimolazione elettrica e registrano una ridotta reattività agli aumenti dell’anidride carbonica. Il fentanyl produce anche effetti antitussigeni a dosaggi molto basse e provoca inoltre miosi, ma non è chiaro tramite quale meccanismo d’azione.

Effetti collaterali

Il fentanyl può causare diversi effetti collaterali, anche se non tutti i pazienti li manifestano, ad esempio: eccessiva sonnolenza, capogiri o mal di testa, stanchezza e debolezza, mancanza di energie, alterazione di alcuni organi di senso come gusto e olfatto. Inoltre, possono presentarsi anche disordini psichiatrici, tipo: sbalzi d’umore, depressione, paranoia, confusione, disorientamento, disturbi del sonno, ansia, irrequietezza, il tutto accompagnato da nausea, vomito e costipazione.

Se assunto per lungo tempo e regolarmente può causare assuefazione e dipendenza; oltre a una serie di manifestazioni cutanee e respiratorie.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Quando la dipendenza diventa il senso. Le dipendenze lette alla luce dell’analisi esistenziale frankliana

Secondo la prospettiva dell’ analisi esistenziale frankliana, le dipendenze sembrerebbero avere il compito di colmare il vuoto esistenziale che pare pervadere la nostra epoca.

 

Le dipendenze risultano essere una delle più emergenti sfide in ambito clinico, coinvolgono infatti un numero sempre più elevato di individui e gran parte delle persone nella società attuale soffre di una qualche forma di dipendenza patologica. Gli studi e le ricerche più recenti hanno arricchito la letteratura e progressivamente aumentato l’interesse per l’argomento mostrando l’evoluzione nell’epoca moderna delle dipendenze, dove non solo il comportamento additivo è quello proprio delle tossicomanie ma l’individuo diventa schiavo del cibo, dello shopping, di Internet, del gioco d’azzardo, del sesso e molte altre condotte patologiche rivolte a un oggetto o un’azione.

Le dipendenze, seppure disadattive e fonte di dolore, sono oggi più che mai il rifugio e allo stesso tempo la via di fuga da una sofferenza e da un vuoto, sia individuale che sociale, ai quali non si riesce a rispondere in altro modo. Il proliferare di condotte dipendenti, che diventano espressione del “disagio della civiltà” (Caretti – La Barbera, 2010), sembra derivare anche da una struttura sociale ed economica disumanizzante che conduce a rapporti umani competitivi, invece che basati sulla reciprocità e l’interdipendenza.

Essendo il tema delle dipendenze un fenomeno complesso che coinvolge la persona sotto molteplici punti di vista, a livello biologico, psicologico e sociale, richiede necessariamente, per una lettura che sia quanto più possibile chiara ed esplicativa, un approccio teorico e pratico interdisciplinare. Ed è proprio questo l’approccio utilizzato nelle ricerche e nelle teorizzazioni degli ultimi anni che prende dunque in considerazione una pluralità di fattori. Un fattore che è stato poco considerato nella letteratura, per quanto riguarda le dipendenze e in generale lo svilupparsi delle patologie, è la sfera spirituale. L’essere umano è un individuo bio-psico-socio-spirituale e questo orizzonte antropologico ci permette di fronteggiare un fenomeno così d’impatto e complesso in maniera più umana, offrendo anche un approccio integrato e dunque maggiormente completo.

Risulta essere un fattore rilevante nell’eziopatogenesi il vuoto esistenziale e la carenza di un senso, concetto affrontato prevalentemente dall’ analisi esistenziale di matrice frankliana.

L’ Analisi esistenziale frankliana

Frankl, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, è stato uno dei fondatori dell’ analisi esistenziale e della logoterapia. Frankl vede l’uomo come un essere alla ricerca di senso, non spinto meramente dalle pulsioni, come credevano le classiche prospettive psicanalitiche, né tantomeno orientato dalla volontà di potenza adleriana, ma piuttosto dalla propria coscienza, intesa come organo di senso. Con questa prospettiva l’essere umano viene visto come ultimamente libero e responsabile nel proprio agire.

Le Dipendenze secondo i tre pilastri dell’ Analisi esistenziale frankliana

Leggere le dipendenze alla luce dell’ analisi esistenziale frankliana ci permette di vedere la personalità dipendente come incapace di prendere decisioni coerenti e con una scarsa progettualità, risulta non essere in grado di affrontare la sofferenza, legata a un possibile passato traumatico o ad un presente frustrante; tutto questo porta alla manifestazione di una elevata difficoltà a domandarsi circa il senso della vita e a rispondere in maniera unica e irripetibile a tali domande di senso.

La condotta additiva serve per rispondere alla domanda “chi sono io?” e per anestetizzarsi dalle sofferenze ed evitare le difficoltà. Rifacendoci ancora alla teoria di Frankl, le dipendenze porteranno l’uomo ad una crescente perdita di libertà e a un fermarsi allo stato meramente biologico, che tratteremo in seguito.

Le dipendenze sembrano avere il compito di colmare il vuoto esistenziale che pare pervadere la nostra epoca, analogamente a quella di Frankl; nonostante questo tentativo patologico di andare oltre se stessi, di trascendere, l’uomo si ritrova perso e senza punti di riferimento. Nonostante possa sembrare in contrapposizione con la tematica trattata, in realtà i tre pilastri dell’ analisi esistenziale frankliana sono applicabili a qualsiasi fenomeno umano.

I tre pilastri dell’ analisi esistenziale sono: libertà della volontà, volontà di significato e senso della vita. Quando parliamo di libertà della volontà si intende che l’uomo è sempre libero di scegliere e dunque possiamo dire che si autodetermina, seppure questo non sia un punto d’arrivo nell’approccio frankliano ma piuttosto una condizione esistenziale, poiché l’uomo è visto come essere-che-decide. Per Frankl qualunque azione l’uomo compia è sempre frutto di una scelta e ciò lo autoconfigura, così come ogni decisione quotidiana, consapevole o inconsapevole che sia. La dipendenza è causata proprio da scelte inconsapevoli guidate soltanto dal proprio vissuto psicologico, dalla ricerca di piacere legato al rilascio di neurotrasmettitori, quali la serotonina o la dopamina, e da meccanismi neurobiologici come il craving, termine traducibile letteralmente come “desiderio ardente”. Fondamentale nella terapia per le dipendenze è rendere l’individuo soggetto attivo e non inerme nella propria vita, permettendogli di capire che resta libero di scegliere chi diventare visto che ogni scelta ci autoconfigura.

Il secondo pilastro dell’ analisi esistenziale è la volontà di significato che, come detto precedentemente, è un concetto che differisce dalla psicologia individuale e dalla psicoanalisi. La volontà è libera di cercare significati e l’uomo è guidato a cercare il logos, inteso come senso, «che si manifesta in una continua tensione tra la realtà esistenziale in cui si trova a vivere e il mondo dei valori che gli si presenta come appello e come sfida» (Fizzotti, 2008, p. 67).

Il terzo pilastro è il senso della vita, quindi i significati che sottostanno a ogni decisione e che scopriamo giorno dopo giorno coerenti con il senso ultimo. Il senso della vita porta ad andare oltre al concetto umanistico di autorealizzazione, verso la ricerca di un senso autotrascendente.

Alla luce di questi tre pilastri l’uomo resta ultimamente libero e responsabile e, là dove falliscono i valori di creatività e di esperienza, saranno i valori di atteggiamento a rendere possibile la libertà di scelta riguardo l’atteggiamento da assumere. La prima categoria dei valori si riferisce a tutto quello che l’uomo è capace di dare al mondo con la propria capacità creativa, Frankl vede l’uomo realizzato svolgendo le attività concrete, con consapevolezza e responsabilità. I valori di esperienza invece accentuano tutto quello che l’uomo prende dal mondo, tutto ciò che è in grado di accogliere: la bellezza, la verità come pure l’altro nella sua persona, ne è un esempio la relazione di coppia. La terza categoria prende in considerazione l’atteggiamento che l’uomo assume confrontandosi con tutte le situazioni esistenziali, in quanto ineluttabili e inevitabili, scrive Frankl (1977)

Anche quando ci troviamo di fronte ad un destino ineluttabile (pensiamo a una malattia inguaribile, un carcinoma inoperabile), anche in questa situazione possiamo strappare un senso alla vita, dando testimonianza della più umana fra le capacità umane: quella di trasfigurare la sofferenza in una prestazione umana.

Frankl rifiuta dunque ogni tipo di determinismo in quanto porterebbe alla deresponsabilizzazione del soggetto e lo farebbe sentire ancora più impotente dinnanzi alle circostanze presenti, e coglierebbe solo l’impossibilità di cambiare il suo passato rendendosi vittima di questo e di non poter conseguentemente divenire protagonista della sua esistenza nel futuro.

Stress materno in gravidanza: l’epigenetica ne rileva la trasmissione al bambino

L’ epigenetica è una branca della genetica che studia i cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo. Descrive tutte quelle interazioni con l’ambiente che determinano modificazioni ereditabili e che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza di DNA.

 

L’ontogenesi embrio-fetale rappresenta la fase della vita di gran lunga più sensibile alle informazioni provenienti dall’ambiente, come lo stress materno, l’alimentazione, gli agenti inquinanti. In altre parole, la gravidanza rappresenta, per il feto, il periodo più sensibile ai cambiamenti epigenetici. Tali modificazioni hanno una finalità adattiva e predittiva che si basa sull’interazione tra miliardi di cellule e l’ambiente.

Stress materno in gravidanza e coping nei bambini

Un nuovo studio, pubblicato su Journal of Developmental Origins of Health and Disease, ha prodotto risultati interessanti. I ricercatori hanno misurato i livelli di cortisolo delle madri, prima della gravidanza e durante la gravidanza, ogni settimana per otto settimane. Successivamente hanno valutato, all’età di undici anni, le abilità di coping dei figli. Con questo termine, ci si riferisce agli sforzi cognitivi, emotivi, comportamentali messi in atto da un individuo al fine di gestire e affrontare una situazione percepita come stressante.

L’obiettivo dei ricercatori era quello di comprendere l’associazione tra lo stress materno, durante la gravidanza, e lo sviluppo delle abilità che permettono di gestire situazioni stressanti, nei loro figli. In particolare, i ricercatori hanno valutato come questi bambini reagivano all’inizio di un nuovo anno scolastico, un noto “stressante” naturale, e alla sfida di parlare in pubblico, un fattore di stress “sperimentale” frequentemente usato.

Stress materno in gravidanza e livello di cortisolo basale nei bambini

Sulla base dei risultati rilevati, l’autrice principale dello studio Cindy Barha, ha riferito che i figli delle madri che avevano un cortisolo più alto durante la seconda settimana gestazionale, avevano reazioni cortisoliche più elevate quando dovevano affrontate la sfida di parlare in pubblico, ma questa associazione non era stata osservata nelle figlie femmine. Al contrario, le madri con cortisolo più alto nella quinta settimana gestazionale, avevano figlie con cortisolo “basale” più alto prima dell’inizio di un nuovo periodo scolastico, risultato assente nei figli maschi.

Nonostante queste differenze, sia i figli che le figlie hanno avuto risposte cortisoliche più elevate, all’inizio di un nuovo anno scolastico e in risposta alla sfida sperimentale di parlare in pubblico, a fronte di maggiori livelli di cortisolo della madre nella seconda o nella quinta settimana di gestazione. I meccanismi biologici specifici che mediano tali associazioni non sono ancora noti, ma coinvolgono la genetica e l’epigenetica, nonché i fattori ambientali e culturali condivisi dalle mamme e dai loro figli.

Dato che la gravidanza rappresenta il periodo più sensibile alle informazioni provenienti dalla madre, come il livello di cortisolo e dall’ambiente, implementare degli interventi con lo scopo di ridurre lo stress materno/genitoriale, durante tale periodo, può avere un ruolo fondamentale sia sui genitori che sulla crescita del feto e successivamente del bambino.

I confini dell’amministratore di sostegno: limiti e vantaggi di chi è amministrato

Con l’entrata in vigore della legge del 9 gennaio 2004, n. 6 si è rinnovato il titolo XII del primo libro del codice civile introducendo la figura dell’ amministratore di sostegno, considerata come un nuovo strumento giuridico di protezione

Maria Carlucci – Open School, San Benedetto del Tronto

 

La figura dell’ amministratore di sostegno è finalizzata a “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana” mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente (Art.1 c.c.).

In tal senso, la capacità di agire è intesa come la capacità di dirigere e controllare intenzionalmente il proprio agire nel mondo (agency) che presuppone l’esistenza e l’integrità di una vasta rete di funzioni cognitive modulari tra loro indipendenti, largamente distribuite ed interconnesse, soggette a molteplici sorgenti di vulnerabilità, sia di tipo propriamente biologico che psicologico e sociale (Bianchi e Bilotta, 2011). Una visione del tutto nuova rispetto alla precedente, più tradizionale, in cui la persona con il compimento della maggiore età acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa (Art. 2 c.c.).

Amministratore di sostegno: come si intende quest’innovazione

Tale innovazione è determinante dal punto di vista etico e morale del soggetto poiché pone maggiore attenzione all’autonomia decisionale che è considerata come il bene primario da proteggere e promuovere.

Ma chi sono i beneficiari di tale legge? Si possono ipotizzare tre grandi categorie di situazioni tipiche in cui la domanda di tutela giuridica può essere attivata:

  • Soggetti che si trovano in gravi condizioni da non poter esprimere alcuna preferenza riguardante il proprio statuto giuridico che devono necessariamente essere rappresentati da altri nella domanda di tutela. Si tratta perlopiù di soggetti con ritardo mentale profondo oppure che stanno in una fase avanzata di demenza o coloro che sono affetti da gravi patologie psichiatriche ad andamento cronico.
  • Soggetti che, indipendentemente dal tipo di infermità o menomazione da cui sono affetti, sono in grado di esprimere in prima persona (da soli o insieme ad altri) la propria preferenza per un regime di tutela giuridica che considerano come più sicuro anche soltanto per periodi limitati. Questa, possiamo dire, è una delle condizioni onde la legge ha l’opportunità di esprimere al meglio tutte le sue possibilità emancipative in cui non viene violata la proxy agency, ossia la realizzazione di se stessi attraverso l’aiuto degli altri (Bianchi e Bilotta, 2011). L’amministratore di sostegno può essere qui designato dallo stesso beneficiario come un ulteriore supporto su cui demandare i propri interessi e bisogni. Un ambito applicativo di grande rilievo è descritto dalla clausola prevista dall’art. 408: “L’AdS può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità”. In questo caso, la persona indica qualcuno che sia in grado di rappresentarlo e tutelarlo, anche meglio di se stesso, per realizzare i propri interessi. Ciò che, nella letteratura scientifica, è conosciuto come “contratti di Ulisse” (Ulisse contracts) o direttive anticipate per la cura dei disturbi comportamentali, che vengono utilizzate da molti anni nei paesi anglosassoni come valida alternativa al trattamento coattivo (Appelbaum 1991, 2006). Potrebbero validamente delegare ad altri le scelte da fare in caso di crisi, i tossicodipendenti, alcolisti e soggetti affetti da disturbo bipolare o da altre psicosi in fase di remissione.
  • Una situazione sicuramente più problematica rispetto alle altre è quella in cui la domanda di amministratore di sostegno è effettuata da un familiare, dagli organi istituzionali o dai servizi e non da chi dovrebbe essere il beneficiario. Nella stragrande maggioranza, la presunta persona che dovrebbe usufruire di tale tutela si oppone e non vede pertanto la necessità che questa “nuova” figura debba rappresentarla. Solitamente dietro a questa richiesta si cela una “sospetta” capacità cognitiva della persona da tutelare, ravvisata da indizi comportamentali che risultano inadeguati rispetto alle ordinarie e straordinarie attività quotidiane ma che il soggetto minimamente riconosce come patologici. Si tratta spesso di indicatori comportamentali che vacillano tra la fisiologica fragilità senile e le patologie dello spettro demenziale che è oggi denominata Mild Cognitive Impairment.

Amministratore di sostegno: come si applica questa tutela

Numerose sono le precauzioni da adottare, sia da parte del giudice che da parte dei consulenti che sono chiamati ad operare scrupolosamente per cucire una sorta di “vestito su misura” alla persona da tutelare. Ed è proprio qui che si pone l’interrogativo per chi è amministrato, ovvero: quali sono i suoi limiti e quali i suoi vantaggi? Come si può proteggere la vita concreta delle persone senza comprimere in modo inaccettabile la libertà?

Notiamo che i vantaggi di essere amministrati diventano dei limiti soprattutto per quei genitori anziani che, pur avendo le piene capacità cognitive rispetto all’età, si vedono trascinati davanti al giudice a causa di una conflittualità familiare o da una diffidenza regnante tra figli o addirittura da una coalizzazione tra loro per un interesse prettamente economico.

E’ di considerevole importanza tener presente ciò che emerge da alcune sentenze in cui i giudici non vedono il motivo per il quale alcuni soggetti, solo perché affetti da patologie, anche invalidanti, che inibiscano loro di provvedere autonomamente ai propri interessi, debbano necessariamente essere assistiti da un soggetto di nomina giudiziale, se sono concretamente in grado di esercitare con pienezza i loro diritti avvalendosi dell’aiuto da parte di terzi. In questi casi, sarebbe iniqua, e soprattutto superflua, la privazione, seppur parziale, della capacità di agire della persona.

Sulla scorta della giurisprudenza tutelare del tribunale di Milano (decreto del 3 novembre 2014), ad esempio, il decreto del giudice tutelare piemontese (sentenza del 16.10.2015), ribadisce che non ogni fragilità del soggetto conduce alla nomina di un amministratore di sostegno, ma occorre che tale vulnerabilità provochi un ostacolo nell’esercizio dei diritti o precluda vantaggi e utilità.

Amministratore di sostegno: ambito giuridico e peritale

Il decreto del tribunale pone l’accento su una lettura costituzionalmente corretta delle norme in tema di amministrazione di sostegno (art. 404 e seg. c.c.). E’ vero che lo Stato deve rimuovere gli ostacoli che, limitando l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ma è anche vero che lo stesso Stato deve costantemente richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.).

In ambito giuridico e peritale, l’entrata in vigore della legge del 9 gennaio 2004, n. 6 è stata un’innovazione poiché si è spostato il fuoco della valutazione dal piano della “patologia” a quello della “disfunzionalità”, da quello della “presunzione-approssimazione” a quello della “osservazione-misurazione” rivolto all’accertamento di concrete difficoltà ed impedimenti specifici che rendano la persona bisognosa di “sostegno” nel compimento di taluni atti e non di altri.

Il lavoro peritale è dunque teso non più – quanto meno non solo e necessariamente – alla formulazione di una diagnosi comprovante una condizione patologica nosograficamente ineccepibile, bensì al riconoscimento di quelle inadeguatezze e intralci oggettivamente apprezzabili che riducono l’autonomia della persona rispetto all’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. Si tratta quindi di un lavoro peritale nuovo, perché improntato a nuovi criteri di valutazione; cambiano i presupposti su cui si fonda l’applicabilità della nuova misura di protezione e soprattutto si amplia la portata complessiva dell’elaborato peritale (Bandini e Zacheo, 2005).

Tassononomia gerarchica per la psicopatologia

Da una visione categoriale dei disturbi a una visione dimensionale della psicopatologia.

 

Che significa? Un recente articolo, breve ma importante, pubblicato su World Psychiatry esorta all’assunzione di un nuovo paradigma di tassonomia psicopatologica, nuovo e più complesso. Molti scienziati vedono nell’attuale DSM-5 un sistema chiuso e di fatto “già vecchio” per classificare i disturbi psichici.

Tassonomia gerarchica: come classifica i disturbi

Seguendo una classificazione da DSM-5, due pazienti che presentino, entrambi, disturbi gravi del sonno, abulia, apatia, scarsa motivazione e difficoltà a concentrarsi, verranno diagnosticati come depressi entrambi e presi in carico come tali, al di là del fatto che la natura della sofferenza soggettiva sia molto diversa (per esempio, uno potrebbe soffrire di un PTSD cronicizzato e l’altro uscire da un lutto di difficile elaborazione).

Abbiamo già parlato in un precedente articolo degli studi di Borsboom et al. a proposito dei sintomi psichiatrici concettualizzati come nodi un sistema complesso, in cui ogni variabile influenza le parti: seguendo un simile principio epistemologico questo altro studio, che vede circa 70 autori raccolti in consorzio  propone una ridefinizione e un nuovo modo, “gerarchico,” di considerare i disturbi, come si osserva in questa immagine:

Tassonomia gerarchica della patologia un nuovo modo di concettualizzare immagine1

IMM. 1 – LA TASSONOMIA GERARCHICA

Questo schema rappresenta un tentativo di concettualizzare i sintomi psicopatologici usando dimensioni più varie ed inserendoli in una griglia che si fonda su una grossa distinzione iniziale, ovvero quella tra disturbi da esternalizzazione, quelli da internalizzazione, più alcuni “spettri” di disturbo a sé (dissociazione, disturbi del pensiero, disturbi somatoformi), per un totale di 6 spettri maggiori.

Tassonomia gerarchica: come vengono letti i disturbi

Come si legge lo schema? Prendiamo per esempio il DOC: in questo contesto va letto come un disturbo afferente allo spettro da internalizzazione, il cui sottofattore specifico è la paura, declinato poi in modo soggettivo da paziente a paziente. Oppure: il disturbo bipolare, come si osserva, va qui inteso come un disturbo a cavallo tra lo spettro da internalizzazione e quello definito “disturbo del pensiero”, avente come sottofattore specifico l’elemento “mania”. Il PTSD, in questa lettura, viene visto come un disturbo da internalizzazione avente come sottofattore specifico lo stress (nota bene: il fatto che il disturbo depressivo maggiore venga assimilato al PTSD la dice lunga su quanto il leggere alcune forme di depressione come tentativi “esausti” di fronteggiare una situazione di distress, come faceva Giovanni Liotti, fosse in anticipo sui tempi.

Questo modo di pensare ai disturbi psichiatrici si svincola dalle categorie del DSM, osservando dal “basso” le manifestazioni dei disturbi stessi così da raggrupparli e assimilarli in modo più “naturale”.

Il criterio di aggregazione e organizzazione dei sintomi, che ha “creato” lo schema riportato, è stato un criterio di covariazione e comorbilità (cioè: quanto i sintomi variavano insieme/parallelamente? Quanto si manifestavano sempre accoppiati?).

Tassonomia gerarchica: i motivi di interesse

Vedere l’insieme dei sintomi come un sistema complesso in cui ogni variabile può influenzarne un’altra ha consentito a questi ricercatori di sviluppare una nuova visione d’insieme, e di conseguenza una nuova tassonomia dei disturbi stessi, come sintetizzato in figura.

Già in precedenza alcuni studiosi avevano tentato di creare delle ultra-categorie di disturbi, svincolandosi dalle categorie classiche del DSM per produrne di nuove, basate su criteri di classificazione diversi.

In questo articolo viene esortata l’assunzione di questo modo di intendere l’insieme dei disturbi mentali poiché:

  1. paragonata alla classificazione standard, una concettualizzazione dimensionale dei disturbi appare più informativa, “naturale” e affidabile
  2. la dimensionalità dei concetti legati alla psicopatologia è più utile in ambito di ricerca

Inoltre, questo tipo di tassonomia dei disturbi sembra contemplare in misura maggiore l’impatto di alcuni elementi sotto-stimati nelle precedenti modalità di categorizzazione dei disturbi, come lo sviluppo infantile “traumatico”; inoltre, appare meglio allineato con la questione “debolezza” genetica (riferita alla predisposizione allo sviluppo di un disturbo psichiatrico).

Questa tassonomia, come già accadeva sul DSM, non include l’eziologia dei disturbi, limitandosi a una descrizione dei “fenomeni” strettamente fenotipica, basata sul loro “manifestarsi”.

La funzione del training cognitivo nello sport

Lo studio delle funzioni cognitive e del loro incremento ha reso possibile la messa a punto di training specifici, anche per l’ambito sportivo

 

Negli ultimi anni lo studio delle funzioni cognitive e del loro incremento, attraverso il training cognitivo, ha ricevuto una particolare attenzione, non solo in campo clinico, ma anche in altri campi applicativi.

L’obiettivo che il training cognitivo si pone è quello di migliorare le funzioni cognitive attraverso degli esercizi mirati, che frequentemente utilizzano le tecnologie informatiche. Il training cognitivo dimostra la sua validità anche nel contesto sportivo, in quanto migliora la flessibilità di risposta cognitiva, incrementa i processi attentivi e potenzia la velocità di esecuzione delle performance.

Keywords: funzioni cognitive, training cognitivo, sport.

Obiettivi del training cognitivo

Negli ultimi anni lo studio delle funzioni cognitive e del loro incremento, attraverso il training cognitivo, ha ricevuto una particolare attenzione, non solo in campo clinico, ma anche in altri campi applicativi. L’obiettivo che il training cognitivo si pone è quello di migliorare le funzioni cognitive attraverso degli esercizi mirati, che frequentemente utilizzano le tecnologie informatiche. Esso può essere utilizzato, quindi, con un fine riabilitativo, laddove esiste un deficit, legato, per esempio, a patologie neurodegenerative o psichiatriche che inficiano le funzioni cognitive (Hallock e al., 2016; Motter e al., 2016), oppure come potenziamento delle funzioni cognitive nell’ambito della vita quotidiana con una finalità preventiva, o nell’ambito di alcuni contesti specifici, come quello sportivo, con l’obiettivo di incrementare le performance (Walton e al., 2018).

Le funzioni cognitive

Le funzioni cognitive sono dei processi mentali che consentono di elaborare gli input provenienti dalla realtà e di predisporre delle risposte appropriate a questi stimoli sotto forma di comportamenti (Revlin, 2014). Le funzioni cognitive possono essere distinte in funzioni cognitive di base e funzioni cognitive complesse. Fra le funzioni cognitive di base sono da menzionare i processi attentivi. L’attenzione è quella capacità che permette di concentrare le risorse cognitive su alcuni input provenienti dalla realtà.

Robertson e Manly (1999) hanno suddiviso i processi attentivi in più morfologie. Infatti, c’è l’attenzione sostenuta o vigilanza, che è l’abilità di dirigere volontariamente la propria attenzione per un tempo prolungato sugli elementi della realtà. Inoltre, esiste l’attenzione selettiva, che consente di focalizzare la propria attenzione su alcuni input, ignorandone altri.

In ultimo, l’attenzione divisa che è quella capacità che dà la possibilità di indirizzare contemporaneamente la propria attenzione su più stimoli.

Le funzioni esecutive, che rappresentano le funzioni cognitive complesse, possono essere definite come procedure cognitive che hanno lo scopo di pianificare ed organizzare i comportamenti e le emozioni di un individuo, allorquando si confronta con nuove realtà contestuali, particolarmente difficoltose, che richiedono la mobilizzazione di strategie adattative (Owen, 1997). Le funzioni esecutive, secondo il modello elaborato da Miyake et al. (2000), sono costituite da tre capacità, utilizzate nelle strategie di problem solving. Esse sono: l’inibizione o controllo inibitorio; la memoria di lavoro; la flessibilità di risposta cognitiva. L’inibizione è rappresentata dall’abilità che consente di non far interferire, nel compito che si svolge, impulsi e informazioni non pertinenti, che potrebbero esercitare il ruolo di distrattori (Miyake et al., 2000). La memoria di lavoro è quella competenza che permette di conservare il ricordo, per un breve lasso di tempo, di tutte quelle nuove informazioni utili allo svolgimento di un’attività (Miyake et al., 2000). La flessibilità di risposta cognitiva è la capacità di variare i propri modi di pensare e di agire per adattarsi ai cambiamenti richiesti dall’ambiente o dalla natura del compito che si esegue (Miyake et. al., 2000).

Il training cognitivo in ambito sportivo

Il training cognitivo utilizza, come si è detto, prevalentemente programmi informatici. In pratica, esso è costituito da una serie di esercizi ripetuti, svolti al computer, che hanno la finalità di migliorare le funzioni cognitive di base e quelle complesse (George e Whitehouse, 2011). Da ricerche svolte (Lorains e al., 2013; Farahani e al., 2017), il training cognitivo dimostra la sua validità anche in ambito sportivo, in quanto permette di ridurre i tempi di elaborazione, legati al processo di stimolo – risposta, nell’ambito della flessibilità di risposta cognitiva (Hirao e Masaki, 2018). Inoltre, consente di incrementare l’attenzione divisa (Romeas e al., 2016) e implementa la velocità delle performance atletiche (Mann e al., 2007). Infine, migliora l’accuratezza nella risoluzione di compiti cognitivi, che richiedono flessibilità (Voss e al, 2010).

In conclusione, il training cognitivo dimostra la sua validità anche nel contesto sportivo, in quanto migliora la flessibilità di risposta cognitiva, incrementa i processi attentivi e potenzia la velocità di esecuzione delle performance.

Fumo: quali tipi di immagini grafiche sono più efficaci nel ridurre l’appeal che i pacchetti di sigarette hanno sui fumatori e sui più giovani?

Abbiamo tutti familiarità con le grafiche invasive e spaventose che ormai si trovano su tutti i pacchetti di sigarette. Tali immagini sono poste sopra le confezioni con il proposito di disincentivarne l’acquisto e porre l’accento sulle conseguenze dannose a lungo termine per il fisico dei fumatori.

 

Queste conseguenze, a causa del bias di ottimismo, sono molto spesso considerate meno probabili di quanto siano in realtà.

Fumo: lo studio sulle immagini sui pacchetti di sigarette

Uno studio della Cornell University (Niederdeppe et al., 2018) ha testato l’effetto di tali grafiche su un gruppo di 451 adulti fumatori e 474 ragazzi delle scuole medie, tutti provenienti da un contesto socio-culturale rurale e a basso reddito. I partecipanti sono stati divisi in sei gruppi sperimentali; alcuni sono stati esposti a grafiche (immagini e testo) spaventose sugli effetti del fumo, altri invece soltanto a grafiche contenti solo testo ed altri ancora grafiche con immagini soltanto.

Gli autori dello studio in questione, tramite un meccanismo di eye-tracking, hanno misurato quanto tempo e su quale parte specifica delle immagini lo sguardo dei soggetti si posava. Dopodiché è stato chiesto ai partecipanti all’esperimento di riempire un questionario self-report indicando se avessero provato, e in che grado, delle emozioni “negative” (rabbia, paura e tristezza) a seguito dell’esposizione a tali immagini.

Fumo e immagini sui pacchetti: i risulati dello studio

Quello che i ricercatori della Cornell hanno riscontrato è che le grafiche contenti testo e immagini riescono ad elicitare più sentimenti negativi nelle persone alle quali erano state esposte rispetto alle grafiche contenti soltanto frasi di testo o immagini.

Per il mercato americano del tabacco, l’importanza di questo ritrovamento è enorme dato che persino l’FDA (Food and Drug Administration), l’ente americano che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha deciso di prendere in considerazione l’idea di implementare la presenza di grafiche contenti immagini spaventose riguardanti gli effetti del tabacco, finendo per rimpiazzare le grafiche contenenti soltanto frasi di testo che, in molti Stati, da quaranta anni a questa parte sono presenti sui pacchetti di sigarette.

Inoltre stando alle parole di Niederdeppe, ideatore dello studio, il valore dell’utilizzo di grafiche invasive contenenti testo e immagini va oltre l’elicitare sentimenti negativi riguardo al fumo nei consumatori, dato che aggiunge il beneficio di ridurre l’influenza normativa del gruppo dei pari che sembra sia uno dei principali motori ed incentivi che portano i giovani a cominciare a fumare.

L’ecstasy migliorerebbe la cooperazione…ma ad una condizione

I ricercatori del King’s College di Londra hanno scoperto che il principio attivo dell’ ecstasy migliora la cooperazione tra persone ritenute affidabili, quindi non tra gli estranei. Inoltre hanno identificato i cambiamenti nell’attivazione cerebrale delle aree connesse con l’elaborazione sociale.

 

L’ ecstasy è composta principalmente da MDMA che viene oggi utilizzata, sotto scrupolosa prescrizione medica, per problemi connessi all’elaborazione sociale tipica di una serie di condizioni psichiatriche. Questa sostanza è usata per i suoi effetti sociali ed emotivi grazie al rilascio di neurotrasmettitori legati al comportamento e all’umore, anche se gli scienziati sanno poco su come questi influiscano nel determinare i complessi comportamenti sociali.

L’ ecstasy e quindi l’ MDMA, è una sostanza stupefacente e come tale comporta molti rischi per la salute, causando svariati danni psicofisici; per questo, solo in determinati casi circoscritti e specifici, questo principio attivo può essere scrupolosamente prescritto da un medico specialista.

Ecstasy: la ricerca

A questa ricerca hanno partecipato 20 uomini adulti sani che hanno ricevuto in maniera randomizzata una dose di MDMA o di una pillola placebo. Successivamente hanno completato diversi compiti come il Dilemma del Prigioniero, mentre erano in uno scanner MRI. Il dilemma del prigioniero consiste nello scegliere se cooperare o competere: nel caso si scelga di cooperare entrambi ottengono la metà dei punti invece, competendo, uno dei due ottiene tutti i punti. Durante il gioco i partecipanti credevano di interagire con persone reali attraverso un computer, anche se in realtà erano riposte computerizzate pre-programmate nel comportarsi in modo affidabile o inaffidabile, in relazione a quanto cooperavano o meno durante il gioco.

Ecstasy: le conseguenze sulla cooperazione

Dai risultati si evince come i soggetti che erano sotto l’effetto di MDMA sceglievano di cooperare ma soltanto quando interagivano con giocatori considerati come affidabili. Nel caso di un tradimento della fiducia, attraverso un comportamento competitivo, la sostanza ha avuto un impatto nel cercare di recuperare più velocemente il rapporto con l’avversario, consolidando più alti livelli di cooperazione. Inoltre si è registrato un aumento dell’attività nella corteccia temporale superiore e nella corteccia del cingolato centrale, aree cerebrali importanti nella comprensione dei pensieri, delle credenze e delle intenzioni delle persone; in più si è riscontrato un aumento dell’attivazione nell’insula destra anteriore quando i soggetti giocavano con partecipanti considerati affidabili e una diminuzione di tale attivazione quando i soggetti giocavano con partecipanti considerati inaffidabili. Questo rispecchierebbe appunto i diversi comportamenti riservati agli avversari.

Secondo gli autori dello studio la comprensione dell’attività cerebrale che sta alla base del comportamento sociale, potrebbe aiutare ad identificare ciò che non funziona nelle condizioni psichiatriche. Gli effetti dell’MDMA sull’interazione sociale fanno luce su come la farmacologia rivesta un importante strumento per il trattamento dei pazienti associata alla psicoterapia.

Mio fratello è disabile e io sono un sibling – Le difficoltà dei fratelli/sorelle di persone diversamente abili

Che diritto ho io di progettarmi un futuro quando mio fratello non l’avrà? Cosa succederà quando non ci saranno più mamma e papà a pensare a lui? È mio dovere prendermi cura di lui per tutta la vita? – Questi sono alcuni degli interrogativi che si pongono fratelli e sorelle di persone disabili.

Alessandra Epis – Open School Modena

 

È ormai consolidato nella terminologia anglo-americana, l’utilizzo del sostantivo inglese sibling per definire i fratelli indipendentemente dal loro sesso. In campo medico il sostantivo assume un’accezione più specifica: viene infatti utilizzato per distinguere gli individui con sviluppo tipico dai loro fratelli con disabilità e patologie gravi o croniche.

La relazione tra fratelli è unica e generalmente di lunga durata. Solitamente i fratelli condividono gran parte delle loro esistenze e si supportano a vicenda (Ewertzon M. et al., 2012); se dunque è vero che i siblings sono co-protagonisti della vita del fratello malato, risulta indispensabile che anche i siblings debbano essere inclusi nel percorso assistenziale e sostenuti nel corso della vita.

La disabilità infatti è una condizione che non interessa solo la persona che ne è colpita ma investe senza risparmiare tutte le persone che intorno a questa persona vivono. Un elemento al quale spesso non si presta la dovuta attenzione è il ruolo di una figura talvolta in ombra, quella del fratello o sorella della persona disabile. L’impatto sulla crescita del fratello o sorella del bambino disabile non va sottovalutato.

I siblings possono subire ripercussioni psicologiche di cui spesso gli stessi genitori, presi dalla cura del fratello più bisognoso, non si rendono conto o sottovalutano. Si tratta di situazioni che, se non vengono affrontate in maniera adeguata, possono in alcuni casi dare origine a disagi psicologici, difficoltà di adattamento da parte dei fratelli, fino a sviluppare anche disturbi d’ansia e depressione.

I siblings non sono destinati necessariamente ad un destino di disagio e sofferenza, ma possono essere aiutati a valorizzare appieno l’esperienza che vivono e diventare persone sensibili e resilienti come pochi altri coetanei. Per fare questo spesso basta poco: cogliere eventuali specifici segnali di disagio evolutivo e mettere in pratica alcuni accorgimenti educativi.

Sibling: una condizione particolare

La particolarità della condizione di sibling è costituita dal fatto che la sua crescita e lo sviluppo dell’identità si compiono confrontandosi continuamente con la presenza di un fratello o una sorella disabile e con genitori che si trovano a gestire un trauma.

La spesso ricorrente invisibilità delle difficoltà dei siblings ci sollecita ad andare oltre le apparenze di “eccessiva” normalità, allenandoci a cogliere preventivamente alcuni segnali di disagio. Le scarse amicizie, una grande timidezza possono ad esempio essere segnali di chiusura relazionale. Al contrario l’insorgere dei comportamenti provocatori potrebbe indicare la messa in atto di un richiamo di attenzione e l’espressione indiretta di emozioni forti e contrastanti. Altri segnali sono ancora più difficili da notare per via della loro desiderabilità sociale: il sibling “bravo bambino” verrà molto rinforzato nel suo iper-adattamento ed anche il sibling “perfezionista” con un ottimo profitto scolastico e sportivo sarà incoraggiato a mantenere quei livelli di performance. Alcuni siblings scelgono poi canali più primitivi di comunicazione ricorrendo a veri e propri sintomi fisici, apparentemente inspiegabili, come disturbi del sonno, dolori di stomaco, frequenti mal di testa, enuresi, sintomi d’ansia.

Le difficoltà scolastiche che invece a volte ci sono e che apparentemente possono derivare da una mancanza di motivazione, sono spesso dovute al senso di colpa del sibling, “colpevole” di volere superare in abilità e conoscenza il fratello disabile.

Prestare attenzione ad alcuni segnali dei sibling e porci domande sulla loro situazione, non significa cercare a tutti i costi il risvolto patologico di alcuni passaggi anche fisiologici della crescita di un bambino, ma si tratta di monitorare una condizione di crescita delicata e cercare di fare prevenzione attraverso il mantenimento di uno spazio relazionale di ascolto e confronto.

I miei genitori mi portarono alcune volte da uno psicologo e anche da uno psichiatra. Tutti mi dissero che non avevo niente. Uno dei dottori mi diede del Valium per aiutarmi a dormire. Nessuno pensò mai di esplorare la mia situazione familiare (Strohm, 2002).

 

La sorella di Max ha dieci anni quando incontra un counsellor scolastico. Ha imparato a nascondere i suoi cattivi sentimenti riguardo Max. Sua mamma non desidera ascoltarli. La sorella di Max a volte ha provato repulsione per i suoi scatti, per la sua saliva. Ha nascosto il fatto di lavarsi le mani ansiosamente ogni volta che toccava i suoi germi. Si era sentita in colpa per la propria gelosia nei suoi confronti, perché avrebbe dovuto sentirsi gelosa? Perché doveva desiderare un disagio così strano, una malattia così strana? E poi aveva desiderato la morte di Max, il giorno successivo ad un viaggio di emergenza d’urgenza all’ospedale in cui “forse avrebbe potuto morire”. Come poteva trovare sollievo da questi pensieri ansiosi? Chi mai avrebbe potuto pensare che lei fosse una brava bambina? La sorella di Max nascondeva ed evitava ansiosamente la parte “cattiva” di se stessa. (Dondi A, 2008)

Per molti siblings può essere difficile riuscire ad esprimere i sentimenti negativi che provano nei confronti del proprio fratello disabile. Una maniera comune di far fronte ad un’emozione come la rabbia può essere quella di esprimerla diventando disobbediente o facendo i capricci, cosa che può includere un aumento delle manifestazioni aggressive nei confronti dei fratelli o delle sorelle. Nelle famiglie con più di due bambini che sono relativamente vicini di età, uno di loro può anche spostare la propria rabbia nei confronti degli altri fratelli non disabili.

In alcune famiglie, tali emotività sono completamente proibite e risultano accettabili solo commenti positivi sul bambino. Come conseguenza, i siblings potrebbero interpretare i propri sentimenti di rabbia e risentimento come la prova che sono cattivi. Coloro che si sentono arrabbiati nei confronti dei loro fratelli disabili, possono così provare profonda vergogna o sensi di colpa.

Le espressioni inibite di rancore possono condurre i siblings all’introiezione di sentimenti negativi, che determinano l’evitamento della fonte della rabbia (il fratello/sorella disabile) e in alcuni casi l’insorgere di quadri depressivi mascherati.

Molti siblings tentano di proteggere anche i genitori dai propri sentimenti negativi. Alcuni pensano che le espressioni di rabbia e frustrazione riguardo alle loro esperienze possano essere ingiuste, viste le difficoltà che i loro genitori affrontano nella vita di tutti i giorni. Esprimere queste emozioni potrebbe inoltre mettere a rischio l’immagine che cercano di presentare ai genitori, quella di bambini felici ed autonomi; in questo caso è presente una spinta ad essere perfetti, sempre disponibili, senza apparenti lati oscuri.

Sibling: le principali difficoltà

Le problematiche emerse nei siblings maggiormente riscontrate in letteratura sono suddivisibili nei seguenti gruppi principali: somatizzazioni, emozioni/stati d’animo, comportamenti problematici, problemi psicologici.

  • Somatizzazioni: la somatizzazione nella maggior parte dei casi, si presenta con sintomi tipici quali mal di testa, mal di stomaco, enuresi e problemi alimentari.
  • Emozioni/stati d’animo: nella maggior parte degli studi lo stress è la reazione emotiva maggiormente rappresentata. Può essere causato da numerosi fattori come l’alto livello di stress percepito dai genitori e che successivamente si riversa sul sibling e la concomitante mancanza di rete sociale; da uno stato di povertà economica della famiglia (Kilmer et al., 2010), dall’incertezza della situazione familiare. Lane e Mason affermano come il sibling si senta colpevole principalmente per tre motivi: l’aver fatto qualcosa di male, il fatto di essere lui stesso il bambino sano e anche per tutto ciò che prova nei confronti del fratello malato e della famiglia in generale (Lane e Mason, 2014).

Il senso di colpa sarebbe scatenato dalla mancanza o non completezza delle informazioni date al sibling dalla famiglia (O’Shea et al., 2012). In molte occasioni l’intento protettivo dei genitori di ridurre l’impatto della disabilità sulla vita dei figli sani (“meno ne sanno e meglio è”) li porta a tenerli all’oscuro delle caratteristiche della disabilità dei fratelli; così facendo i siblings arrivano spesso a riempire le proprie lacune di informazioni con il bagaglio a propria disposizione, spesso non sufficiente, che gli consente comunque di compensare il bisogno di fornire un senso alla realtà che lo circonda.

Una ragazzina si sentiva responsabile del fatto che il fratello aveva avuto il suo primo attacco epilettico. Lui poco prima di stare male aveva giocato con il cappellino di lei sotto il tavolo da pranzo e lei pensava che era stato quello a causare l’attacco. Da quel momento non gli aveva più permesso di giocare con qualcosa di suo (Strohm, 2006).

Risulta quindi fondamentale dare spiegazioni semplici e vere riguardanti la disabilità o la malattia, utilizzando un linguaggio che sia appropriato all’età. Fornire informazioni corrette e comprensibili ai siblings significa riconoscere e valorizzare la loro competenza nell’ utilizzo dell’esame di realtà e di mantenere un locus of control bilanciato (Powell, 1993). Ad esempio, un sibling potrà essere più a proprio agio nel suo contesto sociale avendo a disposizione alcune risposte realistiche alle domande più frequenti e potenzialmente imbarazzanti che gli vengono rivolte dai coetanei sulla disabilità del fratello o sorella. Secondo Beaulieu (2012) il senso di colpa emerge invece dalla gelosia provata nei confronti del fratello per le attenzioni ricevute dalla famiglia e più in generale dalla società.

Una corretta informazione sui pensieri e sui vissuti ricorrenti dei siblings è il punto di partenza per qualsiasi strategia preventiva ed educativa in favore di chi, spesso, viene fisiologicamente perso di vista dai genitori durante il loro difficile compito di crescere un bambino disabile.

  • Comportamenti problematici: Giallo et al. (2014) evidenziano un elevato tasso di problematiche relazionali evidenziate dalla difficoltà con i propri pari. A ciò si aggiungono probelmatiche comportamentali quali problemi di condotta e comportamenti oppositivi.
  • Problemi psicologici: tra i sintomi internalizzanti troviamo ansia e depressione; la forte presenza di ansia riguarda secondo Moyson e Roeyers (2012) l’incapacità di capire il fratello e le sue necessità.

Come affermano Patterson et al., (2011) c’è una forte correlazione tra necessità non soddisfatte e depressione; infatti i siblings ai quali non venivano riconosciute le proprie necessità sviluppavano livello di depressione molto elevati. Possono essere inoltre presenti numerose difficoltà scolastiche e peggioramento del rendimento dato dal cambiamento della routine familiare che porta quindi ad un deterioramento delle performance scolastiche e sociali (Bowman et al., 2014). Aspetti di tipo psicologico comprendono anche problematiche di adattamento, ritardo nello sviluppo sociale, sindrome da iperattività/disattenzione e soppressione delle proprie necessità per far fronte alle esigenze del fratello malato. I bambini che vengono parzialmente privati di uno dei genitori, per questioni riguardanti il fratello malato, hanno una ridotta autostima: questo perché il genitore disponibile non è sempre capace di fornire un ambiente propositivo tale da non fare in modo che il sibling incorra in sentimenti di impotenza e incompetenza (Vermaes et al., 2012).

Sibling: tipologie di sostegno e interventi

Non è possibile quantificare a priori il sostegno necessario ad una famiglia nel processo di comprensione della posizione del fratello del figlio disabile: a volte non c’è bisogno di alcun intervento, in altri casi più seri è necessario counselling o un intervento di psicoterapia. Il ruolo dei genitori rimane centrale e complementare a questi interventi. Esistono tuttavia diverse possibilità di attività preventive dedicate ai siblings. Di solito viene privilegiato un approccio di gruppo che mescola attività di tipo ludico ricreativo con momenti di riflessione e condivisione di esperienze. Questo tipo di gruppi si rivolge sopratutto ai siblings tra gli 8 e i 13 anni, periodo in cui affrontano le sfide più difficili; esistono poi gruppi dedicati ai siblings adolescenti e a quelli per gli adulti che si costituiscono in gruppi di auto aiuto senza bisogno di professionisti od esperti che facciano da conduttori.

Beaulieu (2012), Lane e Mason (2014) ed Hancock (2011) nei loro studi concordano che l’approccio debba essere quello del “Family-centered care” tenendo conto quindi della famiglia ma allo stesso tempo dei suoi membri, distintamente l’uno dall’altro.

Il sostegno alla famiglia in caso di nascita di un figlio disabile richiede il concorso di una rete di soggetti che collaborano insieme. Tutti possono essere dei validi interlocutori per i genitori, ad esempio nell’individuare segnali di disagio che potrebbero essere visibili in alcuni contesti e non in altri.

Nelle fasi iniziali successive alla diagnosi perinatale l’unica vera forma di sostegno per tutta la famiglia si concretizza, oltre alle cure mediche e riabilitative al bambino disabile, nel sostegno ai genitori ed alla genitorialità. Gli interventi precoci consigliati possono essere: colloqui di consulenza psicologica sia individuali che di coppia, l’introduzione graduale a gruppi di auto aiuto e la partecipazione a serate organizzate da Associazioni di genitori.

Salvo eccezioni, non si è soliti proporre attività preventive ai siblings prima dei 7-8 anni. Di solito si ritiene che un certo grado di attenzione ed il sostegno ai genitori sia sufficiente.

A partire da questa età in poi diventa rilevante costruire attività dedicate in modo specifico ai fratelli; tali attività possono essere di tipo semplicemente ludico e di ritrovo, per arrivare a proposte miste in cui affiancare momenti di gioco ad altri di riflessione e confronto. A volte capita di fare dei colloqui individuali con i siblings, ma nella grande maggioranza dei casi viene privilegiato un approccio di gruppo.

Sibling: interventi possibili

Don Meyer (Meyer, Vadasy, 1994) ha messo a punto un programma, ormai conosciuto in molti paesi, dal nome Sibshop (fusione delle parole sibling e workshop) che è stato studiato per fornire ai siblings momenti di svago, opportunità di incontro con altri siblings, condivisione di esperienze, individuazione attraverso il confronto, di strategie per la gestione di alcune difficoltà tipiche dei fratelli. Questi workshop durano circa mezza giornata hanno un conduttore e diversi facilitatori che aiutano la gestione del gruppo e sono dedicati ai siblings di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, periodo in cui i ragazzi hanno competenze sufficienti per stare in gruppo, eseguire compiti e giochi che richiedono discrete capacità di lettura e comprensione, e periodo in cui il confronto con i pari età inizia a sollevare interrogativi e dubbi riguardanti la disabilità del fratello.

Kate Strohm ha pensato invece ad un programma più articolato, rivolto sempre alla fascia di età tra gli 8 e i 12 anni, suddiviso in sei incontri di due ore ciascuno una volta al mese con due conduttori più alcuni facilitatori a seconda del numero dei partecipanti (Strohm, 2005). Gli obiettivi del programma sono quelli di: fornire un’esperienza divertente; fornire ai fratelli l’opportunità di incontrare altri fratelli e di imparare che non sono soli nella loro esperienza; aiutare i fratelli a sviluppare una migliore comprensione dei bisogni speciali dei loro fratelli/sorelle, così come di altri bisogni speciali; rafforzare la comunicazione tra i fratelli e le loro famiglie e i loro amici; aiutare i fratelli a sentire che sono speciali e valorizzati non solo nelle loro famiglie ma anche nella comunità; assistere i fratelli nell’identificare i sentimenti positivi e quelli negativi di essere un fratello di qualcuno che ha una disabilità; procurare un’ opportunità per i fratelli di condividere i propri sentimenti con altri che possono capire, in un contesto protetto; assistere i fratelli nello sviluppo di abilità attive di adattamento per gestire le sfide che possono dovere affrontare come ad esempio la derisione, sentirsi ignorati o imbarazzati. (Strohm, 2005)

Tali occasioni rimangono comunque importanti anche in altre fasce di età, come l’adolescenza o l’età adulta. In questi casi si tratta più spesso di gruppi di auto aiuto; per i più grandi che hanno dimestichezza con il computer e internet sono attive anche alcune mailing list molto utili per entrare in contatto con altri siblings.

La tecnica che negli ultimi anni è stata fortemente implementata ed ha ricevuto esiti positivi soprattutto a livello statunitense e nel Nord Europa è quella dei “Camp”; alcuni sono basati sul divertimento terapeutico altri su programmi di tipo psico-educazionale, su principi di terapie cognitive o di promozione della salute (Beaulieu, 2012). L’esperienza del Camp ha portato ad outcomes positivi nel breve e lungo termine riguardo ai sintomi fisici, alla percezione di sé e al supporto sociale oltre che al benessere emozionale e all’autostima (Hancock, 2011).

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