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L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks e la storia di Thompson: se solo tacessimo per un istante

Di recente mi sono imbattuto in un libro, molto divertente e profondo, un piccolo best-sellers della bibliografia psicologica. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks. Un libro pieno di storie che, prendendo in prestito la scusa inusuale della patologia neurologica, consegna a noi fortunati lettori un affresco variopinto e folle di umanità.

 

Ci troviamo tante umanità diverse, assurde, esasperate, che Oliver Sacks ha raccolto in anni di attività clinica e ha voluto raccontare, cercando di trovare attraverso ciascuna, al di là del contingente ammasso neuronale compromesso e di volta in volta responsabile, un respiro universale di riflessione su ciò che siamo, su ciò che di meraviglioso, misterioso e terribile comporta l’essere uomini.

Alla ricerca di quella essenza che dimora, imperscrutabile, oltre i deficit e le sindromi, oltre la pretenziosa scientificità delle diagnosi e delle categorizzazioni, invisibile a qualsiasi strumento di valutazione.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: la storia di Thompson

I nostri test, i nostri approcci, pensai osservandola lì sulla panchina, in muto godimento di uno spettacolo naturale che lei sentiva come sacro, le nostre valutazioni sono ridicolmente insufficienti. Ci rivelano solo i deficit, non le capacità; ci forniscono solo dati frammentari e schemi, mentre abbiamo bisogno di vedere una musica, un racconto, una serie di azioni vissute, un essere che si comporta spontaneamente nel suo modo naturale.

Tra le tante storie, una più delle altre mi è sembrata toccante. Leggendola sono riuscito a respirare lo stesso pathos, la stessa tensione drammatica che deve avere stravolto Sacks quando la visse sulla propria pelle, e che egli è riuscito a infondere con sincerità tra le pagine, facendo a tratti librare il suo scritto oltre i confini della narrazione, verso le vette della lirica e della poesia.

La storia racconta di William Thompson, un ragazzo americano con ettolitri di alcol alle spalle, colpito dalla sindrome di Korsakov. Quando Sacks lo incontra e comincia ad occuparsi di lui, egli è già un individuo disintegrato, frantumato da un’amnesia feroce e fulminea, che costantemente distrugge il suo senso di continuità, di esistenza protratta nel tempo. Il suo passato è un cimitero popolato di pochi e pallidi fantasmi, il suo presente è un caotico guazzabuglio di frammenti impossibili da legare.

Sacks rimane subito colpito, quasi ferito, dall’ambivalenza che William trasmette a chi gli è vicino. Egli è, superficialmente, un comico nato, un intrattenitore instancabile, che nella sua disperata ricerca di sé stesso si aggrappa agli appigli che la realtà gli offre, provando a ricostruire con vorticosa foga e rapidità degli striminziti segmenti di identità.

Il tassista con cui parlammo in seguito, disse di non aver mai avuto un passeggero così simpatico. Il signor Thompson gli aveva raccontato una storia dopo l’altra, storie personali straordinarie, piene di avventure fantastiche.

Il delirio di Thompson

La realtà e il senso gli sfuggono subito dalla mente, così egli si ritrova ad essere, nello stesso discorso, nello spazio brevissimo di pochi secondi, intrappolato tra nugoli di identità bislacche e troncate, prigioniero di volti e nomi privi di sostanza. Egli abita un mondo di istantanee che si rincorrono freneticamente senza lasciare alcuna traccia sensibile dietro il loro passaggio.

Lì sostituiva con questa strana e delirante quasi-coerenza, e con il suo fuoco di fila di invenzioni sempre nuove, incessanti, inconsce, improvvisava di continuo un mondo intorno a sé.

Il dramma che Sacks avverte, che lo scuote alle fondamenta, non resta ancorato alla mancanza di senso e memoria che affligge William, ma si annida e raccoglie soprattutto nel disperato affanno, nella furia stremata che accompagna la sua rincorsa.

E in effetti egli non può smettere di correre, poiché lo squarcio nella memoria, nell’esistenza, nel significato non si risana mai, ma deve essere valicato, deve essere rattoppato a ogni istante.

La parte più recondita, segreta e senza voce di William, probabilmente, è in grado di avvertire il dolore che sanguina da quello squarcio. Ma William non lo può sopportare e di conseguenza, vedere. Egli costantemente lo rifugge attraverso il suo tentativo estenuato di “essere qualcosa”. Ma è proprio il suo sistema protettivo di confabulazioni che finisce per allontanarlo sempre di più dal contatto con la sua essenza umana, da quel doloroso e spaventoso reale che ancora potrebbe resistere di sotto allo smarrimento.

Paradossalmente, allora, il grande talento di William per la confabulazione è anche la sua condanna. Se solo tacesse per un istante, viene da pensare, se solo potesse arrestare quell’insulso blaterare: se solo potesse rinunciare all’ingannevole superficie delle illusioni – allora sì che la realtà potrebbe scendere in lui, che qualcosa di autentico, qualcosa di profondo, di vero, di sentito potrebbe penetrare nella sua anima.

Emblematico è in tal senso, l’incontro con il fratello di William, Bob, che Sacks racconta con una penosa estraniazione. Di fronte a “qualcosa di vero” che prova a intrufolarsi e a varcare le fortezze turbinose e volanti del delirio e che prontamente viene ricacciato al di fuori, si sente vacillare la fiducia dell’autore nella concezione vitalistica che sino a quel momento l’aveva sorretto.

“Ecco là mio fratello Bob”…Niente nel tono o nei toni di William, nello stile esuberante, ma sempre uguale e indifferente del suo monologo, mi aveva preparato alla possibilità di, della realtà…Egli non trattò il fratello come “reale”, non mostrò alcuna reale emozione, non fu minimamente orientato nel suo delirio, né da esso distolto; anzi, trattò istantaneamente il fratello come irreale, cancellandolo, perdendolo, in un ulteriore vortice di delirio.

Sembra quasi volersi arrendere, questo neurologo dal volto umano. Nel confronto ideale con Hume che attraversa tutto il libro, sente incombere su di lui lo spettro di quella odiata schiuma humeana fluttuante senza scopo sulla superficie della vita, e stavolta teme, per davvero, di uscire sconfitto. La mancanza di anima che egli percepisce in William, diventa una epidemia mortale che mette a repentaglio la possibilità di un’anima in ogni individuo. La sua assoluta impenetrabilità al vero, rimette in discussione l’esistenza di ogni verità umana che possa trascendere le contingenze meccaniche delle percezioni, delle emozioni e del pensiero astratto.

La pace per Thompson

Alla fine Sacks riuscirà a trovare qualcosa. Niente più di uno spiraglio, un minuscolo appiglio di redenzione a cui aggrappare la sua fiducia nell’umanità. Egli si accorgerà che William, sottratto all’estenuante stimolazione della società degli uomini e restituito ad una dimensione di muto contatto con il mondo naturale, riesce a sua volta a spegnersi, ad acquietarsi. Certo, non c’è in questo nessun miracoloso presagio di salvezza, solo un respiro corto di sollievo nel vedere la disperazione di quella corsa stemperarsi per qualche istante.

Ma quando vi rinunciamo e lo lasciamo tranquillo, a volte egli va a passeggiare nel giardino che circonda la clinica, un luogo calmo e privo di stimoli e lì, in pace, egli ritrova la propria pace. La presenza degli altri, della gente lo eccita, lo esalta, lo costringe ad un chiacchiericcio interminabile, a un vero e proprio delirio di creazione e di ricerca di identità; la presenza delle piante, la quiete del giardino, con il suo ordine non umano che non gli impone obblighi umani o sociali, fanno sì che questo delirio d’identità possa allentarsi, possa placarsi.

Questa storia, a leggerla tra le pagine del libro, commuove. Il dramma di William si rifrange e diffonde attraverso la soggettiva di Sacks e diventa nostro, in maniera amplificata, a tratti persino esasperata. Ma c’è pure qualcos’altro, credo, che ci rende così partecipi di questa vicenda, che smuove dentro di noi un senso strano di appartenenza. Forse sentiamo il destino di William intrecciarsi con il nostro perché il suo dramma, la sua patologia potrebbe essere, con le dovute proporzioni, la patologia del tempo che viviamo, come fu l’isteria nella lontana Vienna di fine 1800.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: stiamo diventando come William?

La nevrosi è strettamente collegata al problema del tempo e configura un tentativo fallito dell’individuo di risolvere in se medesimo il problema generale.

La società collegata in cui siamo immersi è, o perlomeno sta diventando, il non-luogo della comunicazione esasperata, incessante, del chiacchiericcio interminabile. Per apparire e per esistere siamo costretti a comunicare e chi non comunica si rassegna a scivolare invariabilmente ai margini, nel limbo grigio della non esistenza. Il mondo che viviamo assume sempre più i tratti del terribile universo che schiaccia William, con la sua sovrastimolazione ci eccita, ci esalta e infine ci piega, costringendoci ad inseguirlo nella sua corsa dissennata e nel suo sproloquiare, per provare anche noi ad esistere, ad “essere qualcosa”.

E alla fine che ci ritroviamo ad essere? Sostanzialmente, come William, dei Confabulanti.

Come lui sentiamo la fatica del definirci, nel mettere organicamente insieme i pezzi del nostro passato e del nostro futuro, troppo velocemente le immagini, le parole e i volti ci scorrono davanti. E lo sforzo che facciamo per rincorrere un’esistenza, un’identità, è paradossalmente ciò che finisce per allontanarci ancora di più da quell’imperscrutabile essenza, dal reale che dimora sotto lo smarrimento. Che necessita tempo, resistenza e fatica per essere esplorato, che è difficile da trovare e da comunicare, che nello spazietto risicato di due righe su un social non ci può stare e che, con ogni probabilità, non interesserebbe comunque a nessuno. Così lo seppelliamo pure noi di un incessante blaterare e torniamo a tuffarci nelle finzioni teatrali di Whatsapp, di Instagram, di Twitter o di Facebook sperando, alle volte pregando, in un appiglio esterno di riconoscimento.

Potessimo almeno tacere, potessimo staccare la spina, sconnetterci, recuperare il contatto con la quiete del giardino. Ma, come ci insegna William, non è facile. Perché non è solamente perdendosi due ore nel silenzio maestoso di un bosco, in un weekend alla SPA o in uno chalet di montagna, in una corsetta sulla spiaggia o tra le pagine di un libro la sera, che possiamo sperare davvero di ritrovarci. Occorrerebbe ripensare e ridisegnare completamente il tempo della nostra vita, dei nostri incontri con l’altro e dei nostri silenzi. Recuperare lo spazio sacro della noia, del non aver niente da fare e nessun cicaleccio indistinto nelle orecchie, per poter semplicemente sprofondare nell’oceano frammentato dell’esistere, lasciando rifluire le immagini e le sensazioni che troppo lievi si celano sotto le pieghe della nostra coscienza e che continuamente soffochiamo con i nostri affanni quotidiani.

Occorrerebbe fare uno sforzo attivo, individuale e collettivo, per combattere ogni giorno la frustrazione inquieta che ci afferra quando proviamo a staccare dal mondo, a rallentare, a dare spazio a quelle parti di noi che solo attraverso un processo lento di introspezione, possono maturare e generare un modo diverso, più autentico, più vivido e più profondo, di percepirci e di vivere il contatto con il reale che ci circonda. Restituendoci, in ultima istanza, non solo una rinnovata capacità di definirci e di comprenderci, ma anche il senso propriamente umano del nostro esistere.

 

L’UOMO CHE SCAMBIO’ SUA MOGLIE PER UN CAPPELLO – LEGGI ANCHE:

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

E’ possibile osservare la mente? Human Robot Interaction e osservazione della mente e degli stati mentali

“Sorvegliare” il comportamento degli altri, tentando di leggere i loro stati mentali al fine di comprendere le loro intenzioni, in modo da saperci comportare di conseguenza, è un atteggiamento che mettiamo in atto quotidianamente.

 

La «Tesi di non osservabilità» degli stati mentali sostiene che quest’ultimi sono inaccessibili, inosservabili.

Ma è possibile dimostrare il contrario?

Il dott. Claudio Lombardo spiega come raggiungere “l’osservabilità” degli stati mentali tramite il campo di indagine definito Human Robot-Interaction (HRI).

 

HUMAN-ROBOT INTERACTION – GUARDA IL VIDEO:

L’arte di colpevolizzare (2008) di Robert Neuburger – Recensione del libro

L’arte di colpevolizzare di Robert Neuburger (ed.2008) si concentra in maniera specifica su uno dei problemi che la coppia può incontrare lungo il proprio percorso insieme, quello della pratica di colpevolizzare il partner, appunto.

 

Robert Neuburger è uno psichiatra e psicoanalista francese che si occupa da molti anni di terapia di coppia e familiare, è professore onorario di psicologia clinica all’ULB (Université Libre de Bruxelles) e autore di numerose pubblicazioni.

L’arte di colpevolizzare: nasce nella relazione genitori-figli

Il testo, pur avendo dieci anni di vita è sempre attuale e si configura come uno strumento utile e di riflessione per il professionista che lavora con coppie.

Nell’introduzione, Neuburger presenta diverse strategie svantaggiose che due partner possono mettere in atto per relazionarsi con l’altro. La colpevolizzazione infatti non è l’unica arma che le persone possono scegliere (più o meno) consapevolmente per difendersi o attaccare. La seduzione, l’induzione della vergogna, ma anche, all’estremo, l’uso della violenza, sono strumenti altrettanto validi per ferire l’altro e rovinare una relazione secondo l’autore francese.

La prima parte del libro è dedicata a ricercare le origini del senso di colpa nella società.

Pur sembrando controintuitivo, la tesi presentata è che la colpa può nascere solo dove c’è l’amore ovvero nella relazione affettiva con i genitori. Gli psicoanalisti, infatti, si sono concentrati molto su questo aspetto. Per Freud la colpa ha avuto origine dalla socializzazione, a partire dal complesso di Edipo: il bambino sente la colpa di desiderare la madre e voler uccidere il padre. Per Klein e Winnicott nasce ancora prima del complesso, nella relazione esclusiva con la madre, nello specifico nel desiderio distruttivo di divorare il seno materno da parte del neonato. La capacità di colpevolizzare, in definitiva, deriva dal fatto che l’abbiamo sperimentata in prima persona nella relazione con il padre e la madre, l’abbiamo appresa quando ancora non avevamo gli strumenti cognitivi per elaborarla. In questa prospettiva la colpa è qualcosa di connaturato ad ogni rapporto significativo.

L’arte di colpevolizzare dipende dallo stile relazionale

Vengono poi presentati diverse tipologie di colpevolizzazione a seconda dello stile relazionale. Ad esempio, saremo in presenza di un tipo di colpevolizzazione materna, se il partner minaccerà l’altro basandosi su un debito di amore: “devi sentirti in colpa, perché tu mi procuri sofferenza, mentre io ti amo così tanto”. Si tratterà di colpevolizzazione di stile paterno in presenza di una trasgressione a norme prestabilite: “devi sentirti in colpa, perché hai giurato fedeltà e mi hai tradito”. Lo stile di colpevolizzazione fraterno, infine, si baserà sulla presenza di una sorta di peccato originale ovvero una colpa che esiste a prescindere dal fare o meno qualcosa di sbagliato: “sei colpevole, non tanto per quello che fai, ma per quello che sei”.

Questi diversi tipi di colpevolizzazione, anche se riferiti a dei ruoli storicamente femminili o maschili, sono diffusi in entrambi i sessi e derivano, secondo Neuburger, non solo dal nucleo familiare, ma anche dal substrato sociale e culturale da cui la coppia proviene.

L’arte di colpevolizzare all’interno della coppia

La seconda parte dell’opera è focalizzata, invece, sull’origine della colpa all’interno della coppia.

L’autore analizza i diversi motivi per cui si può finire a colpevolizzare l’altro. Lo psicoanalista introduce il concetto di “debito” ovvero la mancanza che uno dei due partner avverte nella relazione e di cui accusa l’altro. Il problema alla base può essere quindi il poco amore, l’aver violato un patto più o meno esplicito, mancare di solidarietà verso l’altro, a seconda della situazione.

Vengono prese in esame, successivamente, le tecniche che i partner possono utilizzare per colpevolizzare l’altro a seconda del tipo di stile colpevolizzante. In chi adotta uno stile paterno vedremo più recriminazioni su promesse mancate. Chi userà quello materno minaccerà di togliere l’amore o di non concedersi più sessualmente. La persona con uno stile fraterno esigerà la condivisione assoluta in ogni aspetto della relazione e così via.

L’arte di colpevolizzare: i casi clinici

L’ultima parte di L’arte di colpevolizzare si concentra su storie di terapia vissute dall’autore, in cui la colpevolizzazione ha fatto da protagonista e come si sono risolte: una parte interessante, per vedere la colpevolizzazione nella realtà di una relazione.

Gli ultimi paragrafi si rivolgono, poi, direttamente al lettore e contengono un mini questionario per identificare lo stile di colpevolizzazione e le tecniche usate di preferenza per far sentire l’altro in difetto, un test molto semplice da condividere con le coppie in terapia.

Un pregio dell’opera sono sicuramente i numerosi esempi, tratti dal lavoro di terapeuta, per enfatizzare quanto esposto. La lettura è scorrevole e alleggerita da simpatiche vignette di coppie in lite. Il testo può sicuramente essere considerato un utile strumento di riflessione per chi si occupa di terapia di coppia.

Le coppie che si presentano in terapia, spesso infatti, sottesi ai problemi “oggettivi” presenti nella vita relazionale, portano spesso l’incapacità o l’impossibilità di svincolarsi dal legame colpevolizzatore – colpevolizzato di cui, spesso, non sono affatto consapevoli.

Neuburger, con ironia, conclude l’opera con le parole del poeta israeliano Yehuda Amichai:

Dalla ragione,
i fiori non spunteranno mai.

Genitori e nuove tecnologie: come i grandi parlano ai propri figli di social media e internet

La maggior parte dei genitori è d’accordo nel monitorare l’attività online dei bambini, e la considera una delle più grande sfida della genitorialità moderna. 

 

Uno studio realizzato dall’Università del Michigan ha rilevato come i genitori passino più tempo nello spiegare ai bambini le modalità e i meccanismi di utilizzo di internet rispetto al focalizzarsi sui contenuti a cui questi sono esposti.

Genitori, bambini e social media: lo studio

Lo studio ha coinvolto 75 bambini e le loro famiglie. I bambini venivano osservati nelle loro abitazioni e indossavano dispositivi di registrazione e supporti audiovisivi.

Dai dati emergono alcune tendenze sul modo in cui famiglie e bambini comunicano tramite social media. Nello specifico si hanno pochissime conversazioni sul contenuto dei video che i bambini guardano.

Inoltre sembrerebbe che, oltre ai genitori, altri membri della famiglia abbiano un ruolo importante nelle discussioni sui contenuti: nel caso di presenza di fratelli più grandi, questi hanno avuto un ruolo importante di mediazione dei contenuti veicolati ai fratelli minori. Inoltre, sono state individuate strategie di negoziazione e conflitti, circa l’utilizzo dei dispositivi, similari tra i genitori e bambini. Oltre a un uso contemporaneo degli stessi tra i diversi membri della famiglia.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO

Genitori, bambini e social media: le domande aperte

Secondo gli autori è fondamentale che i genitori utilizzino le impostazioni e le restrizioni sulla privacy per tutelare i bambini da determinati contenuti e attuino un piano che aiuti a stabilire degli obiettivi e delle regole di utilizzo in relazione ai bisogni individuali.

Questo studio si inserisce in una letteratura scarsissima circa questa tematica, pertanto lo scopo di questa ricerca è stato quello di comprendere i temi di mediazioni e la comunicazione tra familiari riguardo i dispositivi tecnologici, poiché tramite questo si possono strutturare strategie di mediazione che i genitori possono mettere in atto, portando a migliori modalità di utilizzo da parte dei bambini delle nuove tecnologie.

Love Addiction will tear us apart: la dipendenza affettiva e il ruolo degli stereotipi di genere nella definizione del fenomeno

Secondo Giddens sono tre le principali caratteristiche che connotano la dipendenza affettiva come vera e propria forma di dipendenza: l’ebbrezza, la tolleranza e l’incapacità di controllare il proprio comportamento.

Maria Filosa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Everyone says love hurts, but that is not true. Loneliness hurts. Rejection hurts. Losing someone hurts. Envy hurts. Everyone gets these things confused with love, but in reality love is the only thing that covers up all the pain and makes someone feel wonderful again. Love is the only thing in this world that does not hurt.
(Meša Selimović)

 

Cos’è l’amore? Difficile dare una risposta che comprenda le infinite sfaccettature del concetto cui si fa riferimento con la parola amore. Si consideri la definizione proposta da Erich Fromm nel libro “L’arte di amare”:

Amare qualcuno non è solo un forte sentimento, è una scelta, una promessa, un impegno. Se l’amore fosse solo una sensazione, non vi sarebbero i presupposti per un amore duraturo. Una sensazione viene e va. Come posso sapere che durerà per sempre, se non sono cosciente e responsabile della mia scelta? (Fromm, 1957).

Nel suo libro, Fromm prosegue differenziando l’unione simbiotica o amore immaturo (“ti amo perché ho bisogno di te”), caratterizzato dalle dinamiche dominanza-sottomissione e dalla paura sottostante della solitudine, dall’amore maturo (“ho bisogno di te perché ti amo”), ossia l’unione con l’altro a condizione di perseverare la propria integrità, il sentimento attivo del dare piuttosto che del ricevere.

Questa differenziazione viene approfondita anche da altri autori negli anni successivi. Tra i tanti, possiamo ricordare Curtis, secondo il quale l’amore maturo sarebbe definito da bisogno, generosità, romanticismo e complicità, e aiuterebbe a creare un ambiente che permette la mutua crescita degli amanti, motivati ad acquisire, ad esempio, un più alto grado di educazione, maggior conoscenza di sé, autostima e benessere (Curtis, 1983). L’amore immaturo, invece, sarebbe caratterizzato da potere, possesso, protezione, pietà e perversione e, secondo Acevedo e Aron, anche da ossessioni sulla mancanza di fedeltà del partner, incertezza legata alla sensazione che la relazione possa concludersi da un momento all’altro e relativa ansia (Acevedo & Aron, 2009). L’amore immaturo, quando permea la quotidianità, causa continui comportamenti di perdita di controllo provocando conseguenze negative nella vita del soggetto, può essere considerato, secondo Sussman, dipendenza affettiva (o love addiction) (Sussman, 2010).

Le Dipendenze: fattori comuni tra le Dipendenze comportamentali e la Dipendenza da sostanze

Il fenomeno della dipendenza affettiva ha suscitato una crescita di interesse e studi a partire dagli inizi degli anni ’80; la sua conoscenza, a livello della popolazione mondiale, fu dovuta alla prima pubblicazione del libro di Robin Norwood “Donne che Amano troppo” (1985). L’autrice, psicoterapeuta famigliare specializzata nel campo delle dipendenze, definisce il fenomeno della dipendenza affettiva “troppo amore”, descrivendolo come il bisogno, non consapevole, di legarsi a partner incompatibili con i propri sentimenti, non curanti del benessere dell’altro, non disponibili, velatamente o chiaramente rifiutanti, unito all’incapacità di distaccarsene e al pensiero magico di riuscire, tramite l’amore e il sacrificio di sé, a cambiarli e trasformarli nei partner dei propri sogni.

Benché molti siano stati i libri scritti in riferimento al fenomeno, ben poche sono le ricerche empiriche presenti al riguardo, così come pressoché inesistenti i dati statistici. La dipendenza affettiva, ad oggi, non rientra tra le categorie indicate nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM 5 e, perciò, non esistono criteri generalmente riconosciuti cui poter far riferimento in sede di diagnosi clinica. In termini di classificazione, viene annoverata tra le cosiddette New Addictions (dette anche dipendenze comportamentali, o “non legate a sostanza”), termine col quale si indica una tipologia di dipendenza non legata ad una sostanza, ma ad un’attività o comportamento del tutto lecito e accettato socialmente, il quale viene però costantemente ricercato e riprodotto senza alcun controllo, e al quale non si riesce a porre fine, nonostante le gravi conseguenze negative apportate alla vita dell’individuo. Tra le New Addictions, vengono annoverate anche la dipendenza sessuale, da gioco d’azzardo patologico (l’unica riconosciuta dall’APA e inserita nel DSM 5), da lavoro, da internet, da shopping compulsivo e da sport.

Marazziti e collaboratori (2015) ben riassumono gli elementi comuni riscontrati all’interno della macrocategoria delle dipendenze:

  • piacere e sollievo, sensazioni gradevoli ma limitate ai periodi iniziali dell’uso della sostanza o della messa in atto del comportamento, fase denominata “luna di miele”;
  • dominanza o idea prevalente riferita alla sostanza o al comportamento, per cui vi è l’impossibilità di resistere all’impulso di assunzione o pratica, vissuta con modalità compulsive;
  • craving, sensazione crescente di tensione e desiderio che precede l’assunzione della sostanza o la pratica del comportamento;
  • instabilità dell’umore;
  • tolleranza, ossia la progressiva necessità di incrementare la quantità di sostanza o tempo dedicato al comportamento per ottenere l’effetto piacevole, il quale tenderebbe altrimenti ad esaurirsi;
  • discontrollo, la progressiva sensazione di perdita di controllo sull’assunzione della sostanza o esecuzione del comportamento;
  • astinenza, il profondo disagio fisico e psichico conseguente all’interruzione o alla ridotta assunzione della sostanza o alla riduzione del tempo dedicato alla messa in atto del comportamento;
  • conflitto e persistenza, dovuti all’incapacità di porre fine all’assunzione di una sostanza o alla pratica di un comportamento nonostante le evidenti conseguenze sulla vita dell’individuo;
  • ricadute, ossia la tendenza a riavvicinarsi alla sostanza o ad attuare il comportamento dopo un periodo di interruzione;
  • poliabuso, ossia la tendenza ad assumere più sostanze o praticare più comportamenti e cross-dipendenza, ossia la tendenza a passare da una dipendenza all’altra nell’arco della storia di vita;
  • fattori di rischio comuni, quali sensation seeking, impulsività, difficoltà nella regolazione emotiva, inadeguato ambiente di sviluppo genitoriale, attaccamento insicuro e presenza di traumi.

Studi di biochimica, neuroimaging funzionale e genetica, condotti negli ultimi anni, confermano inoltre l’esistenza di una stretta relazione, sul piano neurobiologico, tra le dipendenze di tipo comportamentale e la dipendenza da sostanze, le quali condividerebbero le stesse alterazioni funzionali (Grant et al., 2006).

La dipendenza affettiva: definizione e fattori predisponenti

Per quanto riguarda più precisamente la dipendenza affettiva, secondo Giddens sono tre le principali caratteristiche a connotarla come vera e propria forma di dipendenza.

La prima è l’ebbrezza, la sensazione di euforia legata alla vicinanza del partner e alle sue reazioni rispetto ai propri comportamenti. La seconda è la tolleranza o “dose”, ossia il bisogno di aumentare il tempo trascorso in compagnia del partner, riducendo di conseguenza quello dedicato a sé e ai contatti esterni alla coppia. Tale aspetto sarebbe alimentato dall’incapacità di mantenere la presenza interiorizzata rassicurante dell’altro: a causa di ciò, l’assenza della persona di cui si è dipendenti comporterebbe uno stato di disperazione risolvibile solo mediante la presenza concreta dell’altro in quanto il solo pensiero non risulta rassicurante di per se stesso. L’ultima caratteristica è l’incapacità di controllare il proprio comportamento, connessa alla perdita della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro: ciò provocherebbe un conseguente senso di vergogna, il quale, in momenti di lucida razionalità, permette di comprendere la portata nociva della propria situazione e del malessere sperimentato ma che, quasi inevitabilmente, viene sostituito da una sensazione di indegnità, la quale porta nuovamente a ricadere nella propria dipendenza affettiva ricercando “l’abbraccio” dell’altro (Giddens, 1992).

Sulla base delle analogie tra dipendenza affettiva e dipendenza da sostanze, Reynaud e collaboratori (2010) hanno proposto una definizione maggiormente sistematica di tale patologia, unita ad alcuni criteri diagnostici. Essa, viene definita come un modello disadattivo o problematico della relazione d’amore che porta a deterioramento e angoscia clinicamente significativa, come manifestato da tre (o più) dei seguenti criteri (che si verificano in ogni momento, nello stesso periodo di 12 mesi, per i primi cinque criteri):

  1. esistenza di una sindrome caratterizzata da astinenza in assenza dell’amato;
  2. significativa sofferenza e bisogno compulsivo dell’altro;
  3. considerevole quantità di tempo speso su questa relazione (nella realtà o nel pensiero);
  4. riduzione di importanti attività sociali, professionali o di svago;
  5. persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la propria relazione;
  6. ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa;
  7. esistenza di difficoltà di attaccamento come manifestato da ciascuno dei seguenti:
    – ripetute relazioni amorose esaltate, senza alcun periodo di attaccamento durevole;
    – ripetute relazioni amorose dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro.

La dipendenza affettiva sarebbe, dunque, una modalità patologica di vivere la relazione, in cui la persona dipendente, per non perdere il partner, silenzia i propri bisogni per dare voce solo a quelli dell’altro, considerato unica e sola fonte di gratificazione, anche quando da essa non se ne riceve più alcuna. I dipendenti affettivi sono sostanzialmente innamorati del sentimento d’amore, spesso mai conosciuto intimamente e che quindi non riescono a distinguere da ciò che non lo è. Sono alla costante ricerca di partner guidati dalla convinzione che, in qualche modo, la relazione possa avere poteri magici, salvifici, permetta di superare qualsiasi ostacolo (Peele & Brodsky, 1992), ritenendo che solo assieme a un’altra persona ci si possa sentire completi (Yoder, 1990). Il dipendente affettivo, a causa di una bassissima autostima di base, è terrorizzato dall’abbandono del partner e vive in un generico stato di allerta manifestato con gelosia, possessività, comportamenti di controllo, opposizione al cambiamento e bisogno di una relazione vissuta in simbiosi. Nelle relazioni, spesso, sperimenta rabbia, rancore, sensi di colpa e un profondo senso di inadeguatezza dato dalla convinzione di essere inferiore al partner, del cui amore non è meritevole.

Dipendendo dall’altro per potersi dare esistenza, chi soffre di dipendenza affettiva per evitare l’abbandono e quindi evitare di ricevere la conferma del poco valore di cui si crede portatore, non soltanto rinnega i propri bisogni sottomettendoli ai bisogni dell’altro, ma accetta e tollera qualsiasi tipo di comportamento emesso dal partner, nella speranza di mantenere la vicinanza. Ne deriva che, di fronte a maltrattamenti fisici, verbali o psicologici, nella fasulla convinzione di mantenere il controllo sulla relazione e poter dunque continuare a praticare la propria dipendenza affettiva, il soggetto si assume la responsabilità dei comportamenti dell’altro (ad es. giustificando i tradimenti come causa della propria incapacità di soddisfarlo). Infine, non solo vi è la difficoltà ad interrompere la relazione dopo periodi prolungati di malessere, per quanto vi è la tendenza a ricadere nella stessa relazione dopo mesi o a sostituirla con una relazione simile instaurata assieme ad altri partner (Wolfe, 2000; Fisher, 2006).

Ma da dove ha origine e quali sono i fattori predisponenti la dipendenza affettiva?

In tutti gli studi presenti in letteratura, è ormai chiaro il ruolo fondamentale delle prime esperienze sociali di attaccamento vissute nell’infanzia (Sussman, 2010). In uno studio del 1990, Feeney e Noller cercarono di indagare come gli stili di attaccamento potessero prevedere le tipologie di relazioni sviluppate in età adulta e, a differenza degli studi precedenti su tale argomento, introdussero anche una misurazione della dipendenza affettiva in un campione di 374 studenti. Dai risultati, emerse che i soggetti con attaccamento sicuro riportavano relazioni familiari basate sulla fiducia e relazioni intime stabili e soddisfacenti. I soggetti con attaccamento evitante, riportavano esperienze di separazione e sfiducia nella loro infanzia e poche o poco intense relazioni d’amore in età adulta. Infine, il dato più interessante, i soggetti con attaccamento ansioso-ambivalente riportavano un approccio estremo nei confronti dell’amore, caratterizzato da ossessività, “limerence” (desiderio eccessivo nei confronti dell’amato), preoccupazioni, idealizzazione, eccessivo bisogno di attenzioni nella coppia e dipendenza emotiva (Feeney & Noller, 1990)

Bartholomew, in un articolo del 1990, propone quattro tipologie o, per meglio dire, prototipi di attaccamento adulto.

  • Sicuro: caratterizzato da un’immagine positiva sia di sé che dell’altro e relazioni basate su intimità e autonomia;
  • Preoccupato: definito da un’immagine negativa di sé e positiva dell’altro, tipico di soggetti che hanno sperimentato uno stile genitoriale basato su intrusività e mancanza di sensibilità; esso è caratterizzato da eccesiva dipendenza affettiva, insaziabile desiderio di ottenere l’approvazione altrui e profondi sentimenti di non essere degni;
  • Timoroso: definito da un’immagine negativa sia di sé che dell’altro, tipico di soggetti i cui bisogni di attaccamento infantili sono stati frustrati da genitori non disponibili e rifiutanti; in questo prototipo di attaccamento adulto, il soggetto desidera sperimentare contatto e intimità ma, il timore del rifiuto e la totale mancanza di fiducia nell’altro, gli impediscono di stabilire relazioni sociali profondamente intime, all’interno delle quali esibisce, invece, soprattutto modalità di tipo passivo-aggressivo.
  • Rifiutante: caratterizzato da una positiva immagine di sé e negativa dell’altro, nella cui categoria rientrerebbero soggetti che hanno sperimentato uno stile genitoriale basato sulla non espressione delle emozioni negative e freddezza nelle interazioni; in questi soggetti, il sistema di attaccamento è fondamentalmente disattivato ed essi evitano le relazioni intime, sminuendone il valore e l’importanza, focalizzandosi invece su aspetti impersonali della vita, quali ad esempio il lavoro o gli hobby. Nelle relazioni sociali vissute, inoltre, spesso manifestano comportamenti di tipo dominante-aggressivo, mostrandosi calcolatori, arroganti, competitivi e manipolatori.

Secondo Bartholomew, i soggetti Preoccupati e Timorosi avrebbero di base un forte bisogno di dipendenza, nonostante le notevoli differenze nel modo di approcciarsi alla relazione: mentre il soggetto Preoccupato si avvicinerebbe all’altro per trovare soddisfacimento del proprio bisogno, il soggetto Timoroso eviterebbe la vicinanza, pur desiderandola, rendendo minimo il dolore potenziale dovuto alla perdita o al rifiuto. L’autore sottolinea come il tipo di attaccamento influenzi anche la scelta del partner e la tipologia di relazione di coppia vissuta, all’interno di un ciclo che permette il mantenimento e la conferma della percezione di sé e degli altri. In particolare, ponendo l’esempio di un soggetto evitante (timoroso o rifiutante), egli potrebbe scegliere sia un soggetto ugualmente evitante ma di tipologia diversa (coppia timoroso-rifiutante), al fine di mantenere la distanza interpersonale desiderata, sia un soggetto dipendente (preoccupato), confermando la necessità di mantenere una certa distanza e l’immagine negativa dell’altro, desideroso a livelli patologici di intimità. Il soggetto Preoccupato, scegliendo un partner evitante, confermerebbe invece l’immagine di sé come non degno di amore e attenzioni e i propri timori abbandonici relativi ad un altro non disponibile (Bartholomew, 1990): proprio sulla base di tali meccanismi, che Bowlby definisce di “omeostasi rappresentativa”, ciascun partner sceglierebbe l’altro per confermare le rappresentazioni di sé e dell’altro costruite fin dalla prima infanzia (Bowlby, 1988) giustificandole però come presenti a causa del partner e mantenendole.

In uno studio del 2015, Stavola e collaboratori hanno evidenziato, oltre alla presenza di un attaccamento di tipo preoccupato e timoroso (i quali hanno in comune un’immagine negativa di sè), come anche la presenza di traumi infantili di abuso e negligenza emotiva, la difficoltà nella regolazione delle emozioni e la dissociazione, meccanismo presente in soggetti con trauma, siano tutti fattori predisponenti la dipendenza affettiva (Stavola et al., 2015).

Il ruolo degli stereotipi di genere: la Dipendenza affettiva maschile e la “danza relazionale”

Leggendo le righe precedenti, molto facilmente si potrebbe pensare che la dipendenza affettiva si sviluppi solo ed esclusivamente nelle donne, secondo Miller infatti il 99% dei dipendenti affettivi sono di sesso femminile (Miller, 1994). Tuttavia, non essendo ancora chiari i criteri diagnostici, non esiste una stima certa della distribuzione del fenomeno all’interno della popolazione, né dati relativi alle differenze di genere.

Considerando la dipendenza affettiva come una dinamica creata all’interno di una relazione vissuta in maniera malsana, più che un disturbo che affligge il singolo soggetto, non è più così semplice collegarla al genere femminile. Apparentemente, all’interno di questa tipologia di relazione, un soggetto sembrerebbe dipendente e l’altro “anti-dipendente” ma in realtà si tratterebbe piuttosto di una “danza”, in cui vi è continuo scambio di ruoli. Avendo individuato l’attaccamento ansioso-ambivalente come uno dei fattori predisponenti, e considerando i dati che stabiliscono come esso sia prevalente in entrambi i generi sessuali, se ne può dedurre che anche la dipendenza affettiva abbia una prevalenza comune tra i generi (Feeney & Noller, 1990). Forse, dunque, il genere non influenzerebbe tanto la predisposizione allo sviluppo della dipendenza affettiva, bensì il modo in cui essa si manifesterebbe (Sussman, 2010).

Il ritratto della dipendente affettiva di sesso femminile, ben si confà agli stereotipi di genere della donna, debole, bisognosa, tenera, ingenua, sensibile ai bisogni degli altri, compassionevole, comprensiva, empatica, dipendente e timida (Prentice & Carranza, 2002). Per quanto riguarda l’uomo, al contrario, i condizionamenti culturali, così come le caratteristiche desiderabili, stereotipicamente parlando lo allontanano da tutto ciò che riguarda la dipendenza: aggressività, ambizione, assertività, competizione, dominanza, difesa delle proprie idee, potere, forza, indipendenza, egoismo, fiducia in se stesso e assunzione di rischio.

Nell’uomo, è molto evidente la necessità di nascondere gli affetti, considerati espressioni di una debolezza che è incompatibile con la virilità: per tale ragione, egli viene chiamato a nascondere i propri bisogni di dipendenza, a celare emozioni e debolezze per apparire forte e autosufficiente. Gli stereotipi di genere, dunque, potrebbero aver influenzato il modo di manifestarsi della dipendenza affettiva maschile, camuffandola con anaffettività e comportamenti aggressivi, di dominanza, squalificazione e manipolazione emotiva della partner, di cui si ha bisogno per non doversi confrontare con la solitudine e tutto ciò che essa comporta. Il dominio, il controllo, la manipolazione e la squalificazione della partner avrebbero dunque l’obiettivo di minarne la sicurezza per evitare l’abbandono.

Numerose ricerche hanno evidenziato come gli uomini violenti, sia in termini fisici che psicologici, spesso riportino pattern di attaccamento di tipo timoroso e preoccupato, gli stessi pattern considerati fattori predisponenti la dipendenza affettiva (Dutton et al., 1994; Holtzworth-Munroe et al., 1997). Nell’uomo, la dipendenza affettiva può manifestarsi anche tramite la scelta di una partner dipendente e dunque bisognosa, la cui sicurezza è già minata alla base: all’interno di tale relazione, egli può trovare soddisfacimento al bisogno di dominare e controllare, mantenendo silenti i propri timori relativi all’abbandono dell’altro, il quale, avendo bisogno di lui, difficilmente potrà allontanarsi.

Nella dipendenza affettiva, non viene tollerato il cambiamento all’interno della relazione: dal punto di vista maschile, ciò, spesso, si realizza con l’intolleranza alle discussioni all’interno del rapporto di coppia, le quali vengono prevenute tramite un approccio passivo, di falsa sottomissione, o aggressivo, di dominanza, al fine di mantenere un’armonia solo fittizia. La mancanza di conflitti, in questo caso, non è dunque simbolo di benessere relazionale, ma conseguenza dell’assenza di intimità tra i partner, data dall’incapacità di esprimersi in maniera emotivamente autentica.

Tuttavia, l’utilizzo di violenza fisica, psicologica e verbale non è esclusivamente appannaggio del mondo maschile: esistono numerosi studi e dati statistici riguardanti la violenza agita dalle donne sugli uomini. In una ricerca del 2012 di Macrì e collaboratori, su un campione di 1058 soggetti maschi italiani, risultò che circa il 60% di loro aveva ricevuto graffi, morsi, calci, pugni e schiaffi da parte di una donna, e più del 50% di loro aveva ricevuto critiche per l’impiego poco remunerativo, inerenti ai famigliari, umiliazioni e ridicolizzazioni in pubblico, minacce di separazione o di allontanare i figli, da parte di una partner attuale o pregressa. All’interno della coppia, la violenza non è dunque sempre e solo agita al maschile, anche se l’utilizzo femminile della violenza di qualsiasi tipo, è più spesso riflesso della violenza subita da precedenti partner o dallo stesso, e, perciò, agita come difesa (Swan et al., 2008). L’esempio di coppie di tale tipologia, in cui entrambi i soggetti costruiscono in rapporto basandosi su continue angherie, svalutazioni e scambio di ruoli tra “vittima” e “carnefice”, rimanendo incapaci di porre fine alla relazione, è un chiaro esempio di come la dipendenza affettiva non abbia preferenze di genere.

Ad oggi, comunque, non esistono studi scientifici che abbiano approfondito le differenze di genere nella manifestazione della dipendenza affettiva benché, in sede clinica, sia evidente che anche gli uomini possano esserne affetti. Indipendentemente dal genere, in sede clinica, numerosi autori hanno suggerito che i dipendenti affettivi potrebbero coinvolgersi in relazioni come riflesso di disturbi di personalità sottostanti, quali Borderline, Narcisistico o Dipendente (Sussman, 2010). Per quanto riguarda il disturbo Narcisistico di personalità, soprattutto il tipo Covert o Vulnerabile, caratterizzato da una fragile stima di sé, ipersensibilità, ansia nei rapporti interpersonali, inibizione sociale, oscillazione tra sentimenti di superiorità e inferiorità e dipendenza, è risultato essere maggiormente correlato a relazioni di tipo ossessivo (Rohmann et al., 2012). Considerando, invece, il disturbo Borderline di personalità, un’interessante differenziazione in base al genere è riportata in uno studio di Johnson e collaboratori: i soggetti maschili diagnosticati, sarebbero caratterizzati maggiormente da aggressività, manipolazione, sfiducia nell’altro, disinibizione sociale, distacco e impulsività riguardo l’utilizzo di droghe e alcol; i soggetti femminili diagnosticati riporterebbero, invece, possessività, dipendenza e impulsività nel rapporto col cibo (Johnson et al., 2003). Nel contesto della violenza domestica, infine, vari studi hanno evidenziato come i soggetti maschili violenti siano spesso diagnosticati con personalità Borderline (Else et al., 1993; Hastings et al., 1988; Dutton et al., 1994).

Per concludere, la mancanza di una definizione scientificamente valida e riconosciuta globalmente della dipendenza affettiva, crea difficoltà in sede di diagnosi clinica, ma è sicuramente possibile ipotizzare un’influenza degli stereotipi di genere sia nell’identificazione che nella manifestazione del fenomeno. Si vede, dunque, la necessità di ulteriori approfondimenti, al fine di fare luce su un malessere ormai ben evidente ed esacerbato nell’ambito di relazioni di coppia mantenute in nome di ciò che viene chiamato amore, ma che nulla ha a che fare con questo.

Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene (2018) di Antonio Scarinci – Recensione

Vivere la propria vita con uno spiccato senso dell’ umorismo aiuta a non prendersi troppo sul serio e ad affrontare le vicissitudini e le difficoltà che si presentano con maggiore resilienza.

 

Ormai da più parti si sottolineano gli effetti in termini di benessere che l’umorismo produce in chi ne usufruisce e lo utilizza.

Umorismo e psicoterapia: c’è umorismo e umorismo

Antonio Scarinci, curatore del volume Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene, descrive nella prima parte del testo i diversi stili umoristici, citando la classificazione di Martin (2003; 2007).

L’ umorismo adattivo, quello autovalorizzante e affiliativo a differenza di quello disadattivo, aggressivo e denigrante, smorza tensioni interpersonali, crea nuove relazioni, incrementa la coesione interpersonale e favorisce possibilità di crescita personale.

In termini evoluzionistici, poiché fondato sull’abilità di riconoscere un qualche tipo di schema, sviluppa una capacità essenziale per comprendere sia l’ambiente circostante sia il comportamento degli altri individui.

L’autore ritiene che l’umorismo, essendo un elemento chiave di tutte le interazioni sociali, sia utile anche in psicoterapia per attivare cambiamenti nelle aree centrali dell’esperienza umana.

Diversi studi, citati nel volume, hanno messo in rilievo la funzione positiva che svolge nel trattamento dei disturbi psicologici e la sua utilità in ogni fase del processo terapeutico.

Da più parti si sottolineano gli effetti in termini di benessere che l’umorismo produce in chi ne usufruisce e lo utilizza.

Umorismo e psicoterapia: usare con cautela

I format umoristici di cui avvalersi nel setting sono molti: narrazioni, film, storie, vignette, battute, tutte quelle modalità comunicative che riescano a creare script con aspettative incongruenti e/o opposte che transitino attraverso un elemento in un altro script, modificando la prospettiva e stimolando la risoluzione dell’incongruenza.

La formazione su questo tema è diventata, perciò, una necessità per gli psicoterapeuti che ne vogliono fare uso, anche se va ancora molto sviluppata la riflessione teorica e la ricerca empirica.

Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene vuole essere, nelle intenzioni dell’autore, un primo punto di riferimento da cui partire per percorrere una lunga strada che potrà portare a compiere passi avanti nel capire come utilizzare al meglio questo strumento e come sviluppare modelli teorici e procedure appropriate.

Umorismo e psicoterapia: struttura del libro

La prima parte del volume presenta una review sulla teoria e sulla ricerca empirica, lo stato dell’arte sull’argomento.

Nella seconda parte del volume sono riportate una serie di ricerche che forniscono dati empirici interessanti sulle funzioni dello humor.

La prima riporta i risultati di uno studio che mette in relazione i tratti di personalità e una maggiore o minore propensione al “sense of humor”. L’interesse è legato alle possibili applicazioni per programmi d’intervento mirati allo sviluppo di capacità personali relative alla maggiore propensione all’adozione di un atteggiamento umoristico e al suo utilizzo in psicoterapia.

Nella seconda ricerca gli autori si sono posti l’obiettivo di valutare se l’umorismo migliora la capacità di regolazione delle emozioni.

Sono stati selezionati tre gruppi di soggetti. Un primo gruppo sperimentale è stato sottoposto a un breve training psicoeducativo sull’ umorismo e poi alla visione di tre clip di film umoristici. Il gruppo di controllo non ha svolto il training e non ha visionato le clip umoristiche. I soggetti di entrambi i gruppi sono stati invitati in seguito a visionare clip di film con scene cruente. Infine gli è stato chiesto di riferire le emozioni sperimentate e l’intensità delle stesse.

Un secondo gruppo sperimentale è stato sopposto alla visione di clip di film cruenti e dopo ha svolto un breve training psicoeducativo e ha visionato clip di film umoristici.

Umorismo e psicoterapia: studi sull’efficacia

Dai risultati è emerso che il primo gruppo sperimentale non ha avuto maggiori capacità di regolazione emotiva rispetto al gruppo di controllo, a causa della “regola del picco-fine”, per cui le valutazioni retrospettive sono insensibili alla durata dell’esperienza e assegnano a due singoli momenti, il picco e la fine, pesi molto maggiori che agli altri (Kahneman, 2013), mentre il secondo gruppo sperimentale ha manifestato una minore intensità degli stati emotivi sperimentati.

Gli autori della terza ricerca hanno ipotizzato che l’ umorismo possa essere uno strumento terapeutico per facilitare l’utilizzazione dei processi che regolano l’attivazione e l’interruzione dell’attenzione e della memoria selettive. A tal fine sono stati selezionati due gruppi di soggetti. Il gruppo sperimentale è stato sottoposto a un breve training psicoeducativo sull’umorismo e poi alla visione di tre clip di film umoristici. Il gruppo di controllo non è stato sottoposto al training psicoeducativo e alla visione delle clip umoristiche. I soggetti di entrambi i gruppi sono stati invitati in seguito a leggere brevi narrazioni di eventi drammatici. Infine gli si è chiesto di ricordare particolari significativi della narrazione.

I risultati attestano che il gruppo sperimentale ha ricordato meno particolari significativi delle narrazioni e ha presentato differenze significative di punteggio dei livelli metacognitivi.

L’ultima ricerca della seconda parte ha come target gli psicoterapeuti iscritti alla SITCC con l’obiettivo di valutare se l’ umorismo è utilizzato in psicoterapia, qual è il razionale del suo utilizzo, quali le controindicazioni, e se i terapeuti hanno avuto una formazione specifica sul tema.

I dati più rilevanti emersi sono che l’ umorismo è considerato uno strumento importante per la psicoterapia, anche se i terapisti sono poco formati all’uso dello stesso.

Gli intervistati ritengono che vi siano alcune controindicazioni al suo utilizzo soprattutto con pazienti gravi e difficili, mentre per altri disturbi (disturbi d’ansia, depressione, disturbi di personalità meno gravi) se ne rileva l’utilità. Nel setting chi utilizza l’ umorismo soprattutto si confronta con il paziente e fa ricorso a metafore, film, narrazioni, vignette, mentre le funzioni che può svolgere lo humor sembrerebbero secondo il parere degli intervistati molto ampie, dalla sdrammatizzazione e decatastrofizzazione, alla costruzione della relazione, dall’aprire nuove prospettive al distendere momenti e situazioni di tensione.

Umorismo e psicoterapia: indicazioni per l’uso

Nella terza e ultima parte del libro, sono fornite alcune indicazioni in forma di linee guida per utilizzare l’umorismo in psicoterapia. Scarinci sottolinea che non si può prevedere cosa sia divertente e cosa no, perché ciò dipende dalla capacità individuale di riconoscere gli schemi, e quindi dalle esperienze e dalle conoscenze del singolo individuo all’interno dei legami interpersonali per questo non è possibile definire protocolli terapeutici ma indicare come, quando e perché utilizzare l’ umorismo durante la fase di assessment per valutare il funzionamento del paziente, per costruire l’alleanza terapeutica, durante il trattamento per produrre il cambiamento. Un’ampia parte del capitolo è dedicata alle esemplificazioni cliniche sull’utilizzo degli strumenti.

Il volume si chiude con la proposta di un intervento di psicoeducazione basato sull’ umorismo con l’obiettivo di migliorare la regolazione delle emozioni e la metacognizione. Il programma incoraggia e favorisce il comportamento umoristico mettendo i soggetti partecipanti di fronte a situazioni in cui il “sense of humor” diventa utile per risolvere un compito, promuovere un cambiamento o rivalutare e ristrutturare la prospettiva con la quale l’individuo guarda la realtà.

Il modo migliore per concludere la recensione del libro Umorismo e psicoterapia. Quando una risata fa bene è forse una citazione di Albert Ellis (1987; 1998) riportata nel primo capitolo che forse coglie l’esprit de finesse dell’autore:

Il senso dell’ umorismo di per sé non guarisce tutti i problemi emotivi, ma imparare a non prendere troppo sul serio ogni avvenimento spiacevole della vita rappresenta un ottimo passo in questa direzione. 

 

UMORISMO E PSICOTERAPIA – PARTECIPA ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO:

Umorismo e Psicoterapia & Emozioni: presentazione dei libri di Antonio Scarinci – Firenze, 23 Febbraio 2019

Bullismo e cyberbullismo: come intervenire – Report dal convegno di Palermo

Si è svolto lo scorso 18 Dicembre a Palermo, presso i locali dello Studios Coworking, sito nella centralissima zona Notarbartolo, un evento formativo su bullismo e cyberbullismo.

 

L’evento, unendo aspetti teorici e disamina di casi clinici in un’ottica pratico-esperienziale, ha coinvolto psicologia, pedagogia e mondo dell’associazionismo e delle istituzioni penitenziarie, in un fitto dialogo scientifico volto alla definizione e al contrasto del fenomeno del bullismo e del suo corrispettivo mediatico, il cyberbullismo.

Bullismo e cyberbullismo: prevenzione in rete

Il bullismo e il cyberbullismo rappresentano due fenomeni di estrema rilevanza sociale e clinica, oltre che giudiziaria – spiega Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta presso la sede di Palermo dell’Associazione Contro tutte le violenze, ente patrocinante del workshop, operatore specializzato per i minori disabili, e organizzatrice dell’evento stesso – Quando le prevaricazioni verso i più deboli, sia da un punto di vista fisico che psicologico, equivalgono a un abuso di potere, estrinsecandosi in minacce verbali, fisiche, attacchi all’autostima e alla dignità personale, soprattutto nelle forme anonime e mediatiche del cyberbullismo, è necessaria la collaborazione tra famiglie, scuole e istituzioni demandate alla raccolta delle denunce e alla terapia e prevenzione delle vittimizzazioni e dei reati. Il bullismo e il cyberbullismo sono, a mio avviso, due realtà criminali che necessitano di interventi di natura psicologica, attraverso una sensibilizzazione al rispetto dell’Altro e di se stessi e del proprio valore personale, avvalendosi di programmi di educazione socio-affettiva, con partenza dai più precoci gradi di istruzione. Dal punto di vista delle strategie di intervento, in ambito scolastico, esistono programmi, rivolti al gruppo classe, molto validi, mirati alla consapevolezza delle emozioni altrui, e il supporto tra pari, secondo il modello dell’operatore amico di Menesini e Benelli, senza dimenticare l’attivazione di corsi di formazione rivolti a genitori e insegnanti. Tuttavia ciò non basta: a scuola, bisogna attivare una stretta sorveglianza durante il tempo mensa e gli intervalli, per intervenire tempestivamente in casi di soprusi. 

Scuola e famiglia, agenzie formative alleate, poiché la lotta alle condotte violente si combatte soprattutto attraverso la cooperazione tra sistemi, in un’ottica che abbraccia, appunto, psicologia e pedagogia.

Bullismo e cyberbullismo - Report dal convegno di Palermo foto 1

ANGELA GANCI – I GRUPPI DI LAVORO

Bullismo e cyberbullismo: l’importanza dell’educazione

Già Pitagora sosteneva che educare i bambini equivale a non dover poi punire gli uomini – continua Antonino Leonardi, pedagogista – Ecco perché è necessario a mio avviso puntare su un’educazione, prima familiare e poi scolastica, non autoritaria o permissiva, ma autorevole, che stimoli il bambino a non utilizzare comportamenti violenti, come rivincita per gli abusi subiti e normalizzazione della violenza stessa, ma che lo aiuti a riconoscere e valorizzare la propria libertà nel rispetto di quella altrui. Ciò è possibile attraverso l’adozione dei No che fanno crescere, così come delle spiegazioni degli adulti, adeguate all’età, alle proibizioni stesse, e un approccio empatico ai bisogni di accudimento e validazione emotiva del bambino. Un’educazione partecipata al rispetto delle regole, in famiglia, a scuola, o, in quei contesti dove l’educazione primaria abbia fallito il suo compito, nelle Comunità o nelle strutture dedicate alla rieducazione.

Bullismo e cyberbullismo - Report dal convegno di Palermo foto 2

ANGELA GANCI E ANTONINO LEONARDI

Sulle misure informative e terapeutiche all’interno delle realtà rieducative, come quelle penitenziarie, si è concentrato infine l’intervento di Adriana Ragusa, pedagogista presso la Comunità per minori con annesso Centro diurno polifunzionale del Centro per la Giustizia Minorile di Palermo.

Presso la Comunità per minori con annesso Centro diurno polifunzionale del Centro per la Giustizia Minorile di Palermo – dice Adriana Ragusa – le attività di cui siamo promotori riguardano l’adozione di uno strumento denominato iGloss@ 1.0, strumento di consultazione che permette di acquisire informazioni essenziali sulle condotte illecite, tra cui il bullismo, con una sintetica spiegazione delle principali caratteristiche e l’indicazione delle sanzioni penali relative. Con i ragazzi inoltre abbiamo individuato alcune tecniche utili per il monitoraggio delle condotte violente come la Mindfulness, per evitare una rapida escalation della rabbia, attraverso una graduale accettazione delle emozioni negative, così come avviato programmi di alfabetizzazione emotiva e valorizzazione del supporto del gruppo e delle differenze di ciascuno, attraverso laboratori creativi e culinari. 

Disturbo Ossessivo Compulsivo: il trattamento Bergen di 4 giorni

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) ha una prevalenza del 1.6% e compromette molte aree di funzionamento del soggetto, inoltre è stato classificato secondo la World Health Organization come tra i 10 disturbi più debilitanti, e se questo disturbo non viene trattato tende a diventare cronico. 

 

Presso il Haukeland University Hospital a Bergen, Norvegia, viene somministrato un programma di trattamento per persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), che è noto per essere intensivo e corto, infatti dura 4 giorni.

DOC e trattamento Bergen

Più di 1200 persone hanno ricevuto il trattamento Bergen di 4 giorni per il DOC, che è una forma concentrata di terapia di esposizione ideata da due psicologi norvegesi: Gerd Kvale e Bjarne Hansen. Sono stati nominati dal Time tra le 50 persone più influenti del 2018 nell’ambito sanitario.

I risultati sono stati notevoli e il programma di trattamento Bergen ha ottenuto una grande attenzione e buone prove di efficacia.

Avital Falk, psicologa clinica e dirigente del programma di trattamento intensivo per il Disturbo ossessivo-compulsivo e i Disturbi d’Ansia alla Weill Cornell Medicine and New York Presbyterian, sostiene che è sorprendente pensare che in così poco tempo si possa fare così tanto, dal momento che solitamente i trattamenti per il disturbo ossessivo-compulsivo prevedono, in genere, sessioni settimanali di un’ora distribuite su diversi mesi.

DOC: il trattamento Bergen è efficace?

Il presente studio si occupa, con una ricerca follow-up di 4 anni, di testare il trattamento Bergen di 4 giorni (B4DT), una forma di esposizione concentrata con prevenzione della risposta (ERP).

Il campione, composto da 77 pazienti con diagnosi di DOC, è stato reclutato a partire da giugno 2012, si è sottoposto al trattamento Bergen (B4DT) per 4 giorni consecutivi, ed è stata valutato con la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) nella fase pre e post trattamento, in particolare dopo 3 e 6 mesi ed infine dopo 4 anni. I punteggi della Y-BOCS, ottenuti dal campione, sono cambiati radicalmente passando da una media pari a 25.9 nel pre-trattamento a 10 .0 nel post trattamento e a 9.9 nel lungo periodo.

La percentuale, che soddisfa i severi criteri di consenso internazionale per la remissione, è stata del 73% nel post-trattamento e del 69% nel follow-up.

Ad agosto 2018 sono stati pubblicati i risultati del follow-up degli effetti del trattamento.

Si evince che 56 pazienti su 77 sono rimasti in remissione quattro anni dopo il trattamento e 41 su 56 si erano completamente ripresi.

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Trattamento Bergen: le fasi

Il metodo Bergen lavora seguendo 3 passaggi:

  • Il giorno 1 il terapeuta fornisce ai pazienti informazioni riguardanti il loro disturbo (DOC), e li aiuta a prepararsi ai compiti di esposizione che li occuperanno nei due giorni successivi. Durante una parte dell’esposizione le persone affrontano le proprie paure faccia a faccia; ad esempio, se qualcuno è terrorizzato di poter essere contaminato dovrà scegliere un oggetto o una superficie che gli provochi ansia e poi sforzarsi di toccarla. Secondo Kvale, questa tecnica incoraggia i pazienti a prestare attenzione ai momenti in cui sentono il bisogno di iniziare ad assumere il controllo per poter ridurre l’ansia o il disagio.
  • Il giorno 2 e il giorno 3 sono raggruppabili come una singola sessione di terapia prolungata. La terapia ERP include l’uso della tecnica LET, che invita a concentrarsi specificamente su momenti che provocano ansia. Il formato del trattamento è unico, in quanto un gruppo di terapisti da tre a sei lavora come una squadra con un numero uguale di pazienti. Kvale ritiene che questa impostazione sia importante perché fornisce assistenza su misura ad ogni individuo e consente ai pazienti di poter osservare, oltre al proprio, anche il cambiamento degli altri pazienti.
  • Il giorno 4 è riservato alla discussione e alla pianificazione di come mantenere i miglioramenti ottenuti durante la terapia. Con il passare del tempo sempre più clinici stanno adottando di scegliere una terapia concentrata ed intensiva. Tra i diversi tipi di trattamento per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, quello che ha ricevuto maggiore attenzione sembra, proprio, essere quello intensivo, che differisce dai trattamenti che occupano, ad esempio, 3 ore alla settimana.

Nuovi equilibri familiari: quando arriva un figlio con disabilità

La nascita di un figlio disabile pone la famiglia di fronte alla necessità di riorganizzarsi. Si tratta di un processo non sempre facile, nel quale il supporto psicologico può essere di grande aiuto nell’accompagnare ciascun membro della famiglia nell’elaborazione dei propri vissuti e delle proprie credenze verso un nuovo equilibrio individuale e familiare.

Malizia Genoveffa e Pignarolo Monica – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La famiglia è un sistema emozionale plurigenerazionale che racchiude al suo interno le esperienze di almeno tre generazioni, legate da vincoli di parentela, di sangue o legali e risulta quindi influenzato dalle relazioni passate, presenti e future (McGoldrick, Heiman e Carter, 1993).

Due esigenze della famiglia sono:

  • trasformarsi in relazione ai bisogni evolutivi dei singoli componenti;
  • conservare il senso della propria identità, stabilità e continuità nel tempo nonostante le trasformazioni (McGoldrick et al, 1993).

La famiglia è un sistema in evoluzione: affronta perciò compiti evolutivi che richiedono un più o meno vasto processo di riorganizzazione. Si parla infatti di ciclo di vita o fasi di transizione (McGoldrick e Carter, 1982). Le famiglie differiscono fra loro per le modalità con cui affrontano tali compiti evolutivi; anche il singolo nucleo familiare in tale percorso non rimane uguale a se stesso.

Il ciclo di vita della famiglia è caratterizzato da una serie di eventi più o meno critici che possono essere causati da diversi fattori, come l’ingresso o l’uscita di alcuni componenti della famiglia, problemi psicosociali legati allo sviluppo dei bambini o semplicemente eventi particolari legati alla vita della coppia (Gambini, 2007). Nessun evento in sé, tuttavia, è “critico” per lo sviluppo della famiglia, ma diventa rilevante sulla base di come viene percepito e dal significato ad esso attribuito, che è in gran parte correlato alle esperienze personali di tutti e alle credenze e ai valori sociali che sono trasmessi di generazione in generazione nella storia di ogni famiglia (Barnes, 2009).

Il modo in cui una famiglia reagisce a circostanze difficili risulta dall’interazione tra diversi fattori: le dinamiche familiari, la capacità di effettuare una valutazione corretta del problema, le strategie disponibili per affrontarlo, le risorse materiali e i supporti sociali forniti dall’esterno.

La nascita di un bambino, dunque, anche se notoriamente considerato un “evento felice”, porta la coppia ad affrontare un certo grado di confusione e una serie di problemi, alcuni dei quali richiedono una ristrutturazione della relazione, delle solite routine familiari, in modo da far fronte alle molteplici esigenze del nuovo nato. Tipicamente, dopo una fase iniziale di disorganizzazione, la coppia trova un equilibrio ed è in grado di integrare il nuovo bambino nel sistema, che diventa da diadico a triadico. Ma quando aggiungi elementi più critici, il processo di riabilitazione e riequilibrio potrebbe essere più lungo e più difficile e richiede più risorse, sia fisicamente che psicologicamente (Hedvat, Hauser‐Cram e Warfield, 2006). Le risorse necessarie riguardano: risorse emozionali (capacità di gestire frustrazione, ansia, paura, impotenza, che, soprattutto all’inizio, sembrano sopraffare i genitori), risorse cognitive (la necessità di elaborare l’evento e cercare di razionalizzarlo), risorse sociali (la necessità di attivare tutte le risorse in ambito sociale e familiare che potrebbero essere necessarie per gestire meglio la situazione) e risorse economiche (necessarie per fornire al bambino tutto ciò di cui ha bisogno, per garantirgli le migliori condizioni possibili per lo sviluppo) (Janoff‐Bulman e Frantz, 1997).

La famiglia di fronte alla disabilità

La nascita di un figlio con disabilità pone la famiglia di fronte alla necessità di riorganizzarsi, e lo può fare assumendo quattro diverse modalità (Faber, 1959):

  • Child-oriented ovvero centrata sui bisogni del figlio
  • Home oriented ovvero centrata sulla creazione di un ambiente domestico consono alle nuove esigenze
  • Parent-oriented ovvero centrata sul nucleo familiare
  • Orientamento incerto

Spesso, ad esempio, la natura della disabilità viene resa “invisibile” (Fisman, 2000), il che riduce la possibilità per la famiglia di essere immediatamente compresa e supportata dall’ambiente sociale in cui vive: per questo motivo, il rischio per i familiari, è quello di provare vergogna per la sua disabilità e di ridurre progressivamente gli scambi sociali, fino a giungere in alcuni casi ad un vero e proprio isolamento. Tale situazione è estremamente pericolosa, in quanto il sostegno sociale rappresenta una delle principali risorse per fronteggiare adeguatamente lo stress cronico, e in sua assenza la coppia genitoriale rischia di ritrovarsi sovraccaricata da aspettative e richieste spesso ambivalenti che entrambi i componenti rivolgono l’un l’altro, con il rischio di esacerbare il livello di conflittualità coniugale. Rischio ulteriore è inoltre rappresentato dal fatto che la sofferenza dei genitori, il loro senso di colpa e gli intensi sentimenti di vergogna da loro spesso provati possano compromettere il loro rapporto con il figlio e con chi si occupa di lui (Ramaglia e Pezzana, 2004).

Benché negli ultimi anni si sia assistito ad una maggiore responsabilizzazione di entrambi i membri genitoriali, è inevitabile che le madri continuino ad essere il cardine della presa in carico dei bambini disabili, essendo per questo sottoposte generalmente ad un maggiore stress rispetto al resto della famiglia. Harris et al. (1987) e Sorrentino (1987) evidenziano come spesso, per far fronte alle maggiori responsabilità quotidiane legate all’accudimento del figlio disabile, le madri rinuncino a diverse opportunità di sviluppo personale, per esempio in ambito lavorativo. Tale situazione porterebbe in alcuni casi al manifestarsi di sentimenti di depressione e rabbia, legati anche alla fatica e alle tensioni quotidiane; inoltre sembra frequente una caduta del livello di autostima, soprattutto nei casi in cui la maternità costituisce per la donna la fonte principale di autorealizzazione. Studi cross-culturali (McConkey et al. 2008, Keiko et al. 2001) hanno evidenziato come le madri di bambini con disabilità mentale fossero soggette ad un incremento nel rischio di stress mentale, non alleviato peraltro dall’accesso ai servizi sociali e dalle strategie di coping messe in atto; Azar e Badr (2006) evidenziano un’alta incidenza di sintomi depressivi nelle madri di bambini con disabilità intellettiva, come anche confermato dagli studi circa il sentimento di tristezza cronica (chronic sorrow) di Scornajenchi (2003).

I cambiamenti socio-culturali ai quali è stata esposta la famiglia, hanno portato alcuni autori (Powell et al. 1992; Zanobini e Freggiaro 2002) a prestare un maggiore interesse per la figura paterna (Keller e Honig 2004), evidenziando nel complesso come i padri siano più a rischio delle madri nello sviluppo di solidi legami affettivi con il figlio disabile, in quanto il loro ruolo è più marginale e più orientato a fronteggiare l’aspetto economico. I padri sembrano manifestare minori livelli di disponibilità e questo fenomeno è tanto più consistente quanto più gravi sono le difficoltà presentate dal figlio disabile; ciò è collegato anche ad una loro maggior difficoltà nel decifrare i segnali del bambino e alla loro minor disponibilità di tempo, rispetto alla madre, da dedicare all’interazione con il figlio (Pelchat e colleghi, 2003). Krauss (1993) ha evidenziato nelle madri maggiori problemi legati al ruolo genitoriale, mentre i padri riportavano un maggior livello di stress in relazione al temperamento del figlio ed erano più sensibili agli effetti dell’ambiente familiare, a differenza delle mogli le quali risultavano essere maggiormente influenzate dalle reti di supporto personale e sociale.

Quindi, considerare la famiglia come un sistema in evoluzione, è importante per non correre il rischio di giudicare come permanente una reazione poco adattiva al momento della diagnosi o viceversa di considerare il superamento di tale impatto come unico ostacolo a cui la famiglia di un bambino con disabilità deve far fronte nel tempo. Sicuramente la nascita di un figlio disabile, o comunque, il momento della scoperta del disturbo, è un fenomeno dirompente all’interno del ciclo vitale di una famiglia, tale da produrre una crisi di ampia portata, anche perchè non sempre i professionisti che informano le famiglie sono anche preparati ad aiutarle nel reggere l’impatto di una simile notizia e delle conseguenze che essa comporta.

La scoperta del disturbo, tuttavia, è solo il primo grande ostacolo davanti al quale si trovano le famiglie di un bambino disabile, il primo in scala ontogenetica. Esistono infatti altri momenti cruciali, che spesso coincidono con le tappe importanti della crescita del figlio, che pongono i familiari innanzi a nuovi problemi di adattamento (Myers, 1991). Nei primi mesi di vita si ha la necessità di rivedere i ruoli all’interno della famiglia, di riformulare i compiti, le responsabilità e le funzioni fra i coniugi, di ridistribuire le risorse economiche e di dover far fronte a tutta una serie di nuove routine per soddisfare le esigenze del nuovo venuto. Finchè il bimbo è piccolo l’esperienza del genitore di un figlio disabile non risulta molto dissimile da quello di uno senza disabilità; la discrepanza con i coetanei sia in termini di livello evolutivo che in termini di bisogni e interessi, aumenta ovviamente con la crescita anche se in modo diversificato per diversi tipi di disabilità. Con il passare del tempo, l’apprendimento di abilità funzionali alla vita quotidiana (come vestirsi, lavarsi o nutrirsi) non avviene automaticamente, ma sono necessari specifici interventi genitoriali ripetuti nel tempo e attenzioni particolari al fine di garantire il mantenimento e la generalizzazione dei risultati.
Il momento dell’ingresso a scuola è un altro passaggio molto delicato, soprattutto quando l’alunno con disabilità non è in grado di condividere le linee essenziali dei programmi svolti in classe, neanche con l’ausilio di personale specializzato o con l’ausilio di materiali appropriati.

L’eta adulta pone, infine, tutta una serie di problemi evolutivi cruciali, poichè esiste una difficoltà culturalmente determinata a pensare il disabile come individuo adulto. Emerge nei genitori il desiderio di maggiore autonomia dei propri figli, di maggiori amicizie con i pari e l’ingresso nel mondo del lavoro. Questi desideri non vengono quasi mai soddisfatti, in quanto la maggior parte di loro trascorre il proprio tempo a casa o in servizi diurni, a contatto esclusivamente con altre persone disabili, portando come conseguenza ad una restrizione della rete sociale. Talvolta la gravità del problema costituisce una difficoltà oggettiva all’emancipazione del soggetto dalle figure familiari; talvolta tale emancipazione è ostacolata soprattutto dalle barriere psicologiche che relegano la persona disabile al ruolo di eterno bambino, negando per esempio i bisogni e le possibilità legati alla sfera sessuale (Govigli, 1987).

In più, i genitori si trovano a dover fare i conti con il proprio invecchiamento, la riduzione delle capacità fisiche e una maggior frequenza di malattie, rendendo più difficoltoso il compito di cura del figlio disabile.

Anche le credenze culturali sulla disabilità svolgono un ruolo importante nel determinare il modo in cui la famiglia percepisce la disabilità e il tipo di misure necessarie per la prevenzione, il trattamento e la riabilitazione (Sen, 1988). Gli studi riportano che le aspettative dei genitori sul loro figlio disabile sono per lo più negative e irrealistiche. Dalal e Pandey (1999) hanno studiato le credenze culturali e gli atteggiamenti messi in atto verso la disabilità fisica in una comunità rurale indiana: la disabilità è vista in termini di “tragedia”, “meglio essere morto che disabile”, in quanto c’è l’idea che non è possibile per le persone disabili essere felici o godere di una buona qualità della vita. In questa cultura, la convinzione che prevale molto fortemente è la percezione della disabilità come punizione per la vita passata, tutto legato al karma.

Il momento della comunicazione della diagnosi

Un punto cardinale riguarda le modalità con cui la diagnosi viene comunicata. La chiarezza e la gradualità delle informazioni (Harris et al., 1987; Pain, 1999), sia nel contenuto che nella modalità di presentazione, sembrano essere elementi importanti che non possono naturalmente impedire la sofferenza, ma possono accompagnare la famiglia verso un cammino fatto di speranza e un naturale processo di adattamento (Gabovitch e Curtin,2009), stimolando reazioni di tipo costruttivo, attivo, anziché di rassegnazione (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).

La diagnosi può provocare nei genitori un forte trauma, legato alla discrepanza tra il bambino “ideale” che hanno costruito come oggetto d’amore durante l’attesa e il bambino “imperfetto” che la realtà presenta loro. I genitori si trovano quindi a dover elaborare un lutto, la perdita del bambino atteso che avevano già fortemente desiderato e ad investire le cariche affettive sul figlio reale (Monti Civelli, 1983; Dell’Aglio, 1994). La perdita del loro figlio ideale e sognato durante il periodo di gestazione può rappresentare oltre che una sconfitta personale, anche una sconfitta sociale che riaffiora ogni volta che il divario tra lo sviluppo del figlio disabile e gli altri bambini diventa più evidente (Winnubst, Buunk e Marcelissen, 1998).

Tale impatto, naturalmente, varia a seconda della gravità e della tipologia della menomazione (Myers, 1990), oltre che in relazione alla situazione personale, familiare e sociale dei genitori (cooperazione dei genitori, suddivisione dei compiti, qualità del rapporto coniugale, partecipazione dei componenti della famiglia allargata, supporto sociale e risorse che la comunità riesce ad attivare di fronte alla disabilità, creando nei genitori la percezione di non essere isolati).

Il momento in cui viene data la diagnosi ed il successivo periodo di adattamento della famiglia restano determinanti per avviare una relazione tra il bambino, la famiglia e gli operatori che forniranno un sostegno terapeutico. È necessario che i genitori abbiano gli elementi che permettano loro di capire il bambino, di rendersi conto dei suoi bisogni e di immaginarsi il futuro senza troppe ansie e incertezze. Hasnat e Graves (2000), hanno riscontrato in un loro studio, che i genitori che ritenevano di aver ricevuto, al momento della diagnosi, una grande quantità di informazioni, erano più soddisfatti di coloro che trovavano le informazione fornite semplicemente sufficienti.

Ciò che i genitori lamentano più volte è di essere stati lasciati soli di fronte alla diagnosi, denunciando la mancanza di un adeguato sostegno affettivo da parte degli operatori (Zanobini et al. 1998; 2002) e percependo la presenza di un atteggiamento di eccessiva rigidità e di un tono negativo e schietto all’atto della comunicazione iniziale e nelle fasi immediatamente successive, come se il proprio figlio fosse visto solo nel contesto della disabilità, più come oggetto che come soggetto avente dei diritti.
Non sempre i professionisti che informano le famiglie sono preparati ad aiutarle nel reggere l’impatto di una simile notizia, sia per via di una formazione non adeguata sia per il timore di fornire delle false speranze in un momento di estrema vulnerabilità della famiglia (Harnett, Tierney, Guerin, 2009; Mulligan, Steel, Macculloch, Nicholas, 2010). Perciò, diversi colloqui sono importanti per cercare di capire i bisogni specifici di ciascuna famiglia e per tarare su questa base l’eventuale offerta di supporti e servizi.
Una volta raggiunta la consapevolezza sulla disabilità del bambino e aver risposto alla domanda “perché e come è accaduto questo?”, la famiglia prende in rassegna le idee e le attese rispetto al modo in cui dovranno gestire la malattia (Patterson, 1989).

Le fasi di elaborazione e accettazione della disabilità

Il momento della comunicazione della diagnosi è ovviamente il più critico, con un effetto dirompente sugli equilibri personali e familiari; un momento molto difficile nella vita delle persone perché rende difficoltoso per i genitori immaginarsi un futuro e anticipare ciò che potrà accadere, soprattutto quando si tratta del primogenito (Farber, 1986). La notizia della disabilità è il tempo da cui prende vita una nuova realtà familiare; molte domande affollano la mente dei genitori, specialmente riguardo al loro futuro e al futuro del loro bambino, con la sensazione che nulla possa essere più simile a prima.

Bicknell (1983) ha tentato di delineare le fasi attraverso le quali si arriva all’elaborazione di tale lutto: dallo shock al dolore iniziali si genererebbero sensi di colpa e rabbia, fino ad arrivare a una fase di trattativa, la quale sfocerebbe in un’accettazione del problema e nell’elaborazione di un progetto. Nei genitori, in modo più o meno cosciente, potrebbero insorgere in questa prima fase atteggiamenti contrastanti (Cigoli, 1993; Dawin et al., 1991):

  1. un attaccamento eccessivo e di iperprotezione al figlio disabile, che li conduce ad una dedizione assoluta e indiscriminata, anche a spese del benessere di se stessi e degli altri membri della famiglia, portando spesso ad un esito decisamente negativo per lo sviluppo del bambino (Crnic, Friedrich e Greenberg, 1983; Landman, 1979).
  2. il rifiuto più completo, il desiderio che il proprio figlio non sia mai nato, che li porta a proiettare il problema verso l’esterno e a correre da uno specialista all’altro nel tentativo disperato di risolvere definitivamente il problema, cercando diagnosi nuove e diverse o interventi miracolosi. I passi successivi sono caratterizzati da meccanismi di difesa più o meno consapevoli, che si alternano a periodi di esplosioni emotive ingestibili legate al rifiuto delle prove e alla necessità di sfuggire alla sofferenza. Questo processo di “autoinganno” ha spesso la funzione di creare una pausa, necessaria per ricostruire il loro equilibrio interiore, messo a dura prova;
  3. la negazione della disabilità, associata a una caduta di autostima, un totale diniego della realtà che porta a misconoscere e non accettare la diagnosi (Schonell e Watts, 1957) e un diniego della necessità di cure, precludendosi qualunque tipo di trattamento (Worchel e Worchel, 1961).

Quindi l’idea di un impatto negativo della disabilità sulle famiglie ha finito per dominare la letteratura e guidare la ricerca sull’argomento per decadi, dando centralità a concetti quali dolore, lutto, tristezza cronica, stress, frustrazione, imbarazzo e senso di colpa (Kearney e Griffin,2001), che inevitabilmente seguono l’evento critico e che a volte causano nei genitori forme di isolamento dalla realtà esterna, una forma di “chiusura”: gradualmente interrompono i rapporti sociali e, in alcuni casi, cadono nella depressione.

Solo lentamente si supera la prima fase di shock e incredulità. Si sviluppa poi una certa razionalità e consapevolezza del problema e dei bisogni del figlio disabile e subentra il graduale adattamento alla nuova realtà, la costruzione di un rapporto reale con il proprio figlio (Di Cagno, Gandione, Massaglia, 1992).

Fattori stressanti e protettivi

Qualsiasi evento che rompa gli equilibri esistenti e richieda l’adattamento è potenzialmente una fonte di stress. Tutta la nostra esistenza è scandita da eventi stressanti, che ci costringono a trasformare le nostre risorse per affrontarli e superarli; il modo in cui li affrontiamo e le risorse che siamo in grado di attivare hanno una forte influenza sulla traiettoria del nostro sviluppo.

La vulnerabilità allo stress psicologico è influenzata da una serie di fattori, che riguardano il temperamento, il livello di coinvolgimento emotivo, le capacità di coping, il background socio-culturale, la disponibilità di risorse personali e sociali (Caldin e Serra, 2011).

Un evento è considerato una fonte di disagio nella misura in cui è percepito dalla persona come eccessivo o intollerabile o in qualche modo al di sopra della sua capacità di affrontarlo e superarlo (Zimbardo,1988). Più un evento è improvviso, imprevedibile, con effetti persistenti e con scarse risorse per affrontarlo, maggiore sarà la percezione di scarsa autoefficacia dei soggetti e maggiori saranno i rischi per la loro salute e per il loro benessere fisico e psicologico. Situazioni stressanti per la famiglia possono condurre i genitori a sperimentare distress circa il loro ruolo genitoriale, con conseguenze a medio e lungo termine sulla relazione genitore-bambino e sulla capacità di risposta costruttiva ai bisogni del minore (Kirby, 2005).

Il trauma emotivo provocato dalla nascita di un figlio disabile provoca ansie, preoccupazioni, stress e sensi di colpa che normalmente non si riscontrano quando il figlio è normodotato. I genitori devono adeguarsi a nuovi ruoli, riorganizzare la loro vita e far fronte alle cure e alle maggiori esigenze.

Per McCubbin e Patterson (1982), la capacità del genitore di far fronte ad una situazione stressante è determinata dall’interazione tra l’evento stressante e i successivi eventi sfavorevoli della vita, le risorse familiari, le percezioni dei genitori e le strategie di coping utilizzate. Il risultato di questa interazione è il livello di adattamento familiare che va dallo stress grave/crisi ad un buon adattamento.

Diversi studi hanno dimostrato come la natura e la gravità della disabilità di un bambino possa essere significativamente correlata allo stress genitoriale, così come il temperamento di un bambino, i problemi comportamentali e le richieste poste al genitore (Cunningham, Bremner e Secord-Gilbert, 1992; Kazak e Marvin, 1984; Minnes, 1988). L’incapacità di affrontare e correggere correttamente alcuni eccessi comportamentali, spesso presenti nei bambini con disabilità, aumenta significativamente i livelli di stress dei genitori e riduce il senso di genitorialità e di autoefficacia. Se si aggiunge questo elemento alla loro già fragile condizione psicologica, non è difficile capire perché i livelli di stress dei genitori di bambini con disabilità siano di solito molto alti, specialmente se paragonati a quelli dei genitori di bambini con sviluppo tipico (Dabrowska e Pisula, 2010; Gupta e Kaur, 2010).

Tra i fattori protettivi possiamo trovare:

Un rapporto positivo tra genitori e figli e una elevata intimità coniugale può aiutare il bambino a sviluppare una miglior capacità di comunicazione, migliori abilità cognitive e rapporti sociali con i coetanei, ma questo non può proteggere i genitori dalla sfida posta dalla disabilità del figlio e dal conseguente stress (Gerstein, Crnic, Blacher, Backer, 2009). Le famiglie coese e armoniose presentano un miglior funzionamento socioemotivo, con ripercussioni positive anche sull’adattamento psicologico e sulla capacità di riorganizzazione di ogni membro familiare di fronte alla situazione di disabilità.

Al contrario, il conflitto coniugale è associato a molti più disturbi del comportamento, ansia e aggressività del bambino. In riferimento al rapporto di coppia, le madri di bambini disabili riportano meno soddisfazione per il rapporto matrimoniale e più sintomi depressivi rispetto alle madri dei normodotati (Kersh, Hedvat, Hauser‐ Cram, Warfield, 2006), il tutto correlato alle risorse economiche della famiglia e ai problemi di coppia e di comportamento del figlio (Hastings e Back, 2004; Kersh, 2006), a differenza dei padri, la cui soddisfazione per il matrimonio non è correlata a ciò. I conflitti coniugali possono essere a loro volta esacerbati dalla condivisione di emozioni negative intense e dalla richiesta di riorganizzazione che un figlio disabile comporta.
Altrettanto importanti sono certamente le reazioni cognitive, emotive, sociali, relazionali ed esperienziali dei genitori, considerate sia individualmente che in coppia. Le loro risorse fisiche, le caratteristiche della personalità, il modo di affrontare i problemi e lo stress in generale possono certamente fare la differenza (Venkatesh, 2008; Houser, Rick, Seligman, Milton, 1991).

Un altro elemento importante e cruciale della variabilità è dato dal livello di soddisfazione della coppia e dal funzionamento della famiglia. È stato spesso osservato che il sistema familiare, non solo in termini di rapporto coniugale (Cuzzocrea, Larcan, Baiocco, Costa, 2011), ma anche di famiglia allargata, può rappresentare, una fonte importante di vulnerabilità o una risorsa straordinaria.

  • Strategie di coping

Ci sono considerevoli ricerche che hanno evidenziato come i genitori di un figlio disabile abbiano un livello di stress molto più alto rispetto ai genitori di bambini senza disabilità (Hastings, 2002; Konstantareas, 1991; Scorgie, Wilgosh e McDonald, 1998). 
Tuttavia, altre ricerche hanno dimostrato che, sebbene alcune famiglie siano a rischio di avere numerose difficoltà, queste riescano poi ad affrontare e ad adattarsi positivamente a questo stress (Konstantareas, 1991; Scorgie et al., 1998). Le modalità di coping familiari possono variare dall’adattamento sano al disadattamento in seguito al cambiamento delle risposte familiari nel tempo (Donovan, 1988).

I genitori e le famiglie che presentano, tutto sommato, un buon funzionamento sembrano possedere e ricorrere ad efficaci strategie di fronteggiamento delle difficoltà che inevitabilmente si trovano a dover affrontare. Alcune di queste strategie sono essenzialmente cognitive e si riferiscono alla “riformulazione” di quanto si e verificato, all’individuazione, nonostante tutto, di alcuni aspetti positivi, alla rilettura della propria esperienza alla luce di più dettagliate informazioni e conoscenze scientifiche; altre sono prevalentemente “emozionali” e consistono nell’esprimere apertamente i propri sentimenti e le proprie emozioni, nel “bloccare” la tendenza a stimolare in se stessi e negli altri sentimenti negativi, nel ricorrere, in presenza di situazioni conflittuali, alla contrattazione e nel dare spazio e tenere in considerazione anche i bisogni degli altri membri della famiglia, del partner e dei figli non disabili. Accanto a queste, alcuni genitori fanno ricorso anche a strategie relazionali, come il porre accentuate attenzioni alla coesione familiare, allo sviluppo delle capacità adattive dei diversi membri della famiglia, alla cooperazione e alla tolleranza, ma anche e di contro a strategie finalizzate a potenziare il proprio sviluppo personale, a mantenere soddisfacenti livelli di autonomia e indipendenza, a ricavare del tempo per i propri hobby e per la propria vita comunitaria e spirituale (Burr e Klein, 1994).

Le famiglie che ricorrono con elevata frequenza a queste strategie (high coping family) si differenziano da quelle che vi ricorrono solo sporadicamente (low coping family) per come affrontano le difficoltà sin dall’inizio, per gli atteggiamenti che tendono ad assumere nel corso del tempo, per i valori ai quali sembrano aderire, per le attività che svolgono, per la partecipazione alla cura del figlio disabile e per come vivono il supporto sociale che ricevono (Taanila et al., 2002).

Le strategie di coping svolgono diverse funzioni fondamentali in base alle quali possono essere suddivise in diverse tipologie (Lazarus, 1991):

• Emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante
• Problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo e la famiglia (Lazarus, 1991; Lazarus e Folkman, 1984).

Werner e collaboratori (2009) hanno rilevato che le strategie di coping collegate al mantenimento dell’integrazione familiare, della cooperazione e dell’ottimismo sono fortemente associate ad una riduzione dello stress, ad una maggiore coesione della famiglia, a percezioni positive dei genitori sulla gratificazione o soddisfazione nel prendersi cura del figlio disabile e a minor preoccupazioni per la futura assistenza del loro bambino e alla possibilità di istituzionalizzazione.

Il locus of control interno è la modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti dai suoi comportamenti o azioni piuttosto che da cause esterne indipendenti dalla propria volontà (Rotter, 1966). Diversi studi hanno riscontrato che anche il locus of control sia altamente correlato allo stress genitoriale (Friedrich, Wilturner e Cohen, 1985; Demaso, Campis e Wypij, 1991; Hastings e Brown, 2002): genitori che si sentono competenti nel loro ruolo genitoriale e nel gestire la disabilità del figlio tendono ad avere livelli di stress più bassi.

Indicatori di locus of control interno sono (Rotter, 1966):

• ricerca attiva di strumenti, conoscenze e skills per affrontare situazioni e problemi;
• ritenere che ciascun problema possa essere risolto o analizzato, che ciascun obiettivo sia raggiungibile (con le risorse adeguate);
• credere nei propri potenziali, attivarsi per svilupparli;
• “visione” delle possibili alternative di un azione finalizzata al raggiungimento di un obiettivo e tentativo di determinare le probabilità di successo di ciascuna azione.

A migliori livelli di qualità della vita si associano le credenze di efficacia, importanti nello svolgimento del “mestiere di genitore”; esse influenzano i livelli di stress e di depressione e l’utilizzo di strategie di coping centrate sul compito. Sono le informazioni che un genitore possiede a proposito delle proprie capacità genitoriali a regolare il comportamento e a intervenire attivamente nei confronti della scelta dei suoi obiettivi e delle azioni che possono essere realizzate per il suo raggiungimento. La fiducia che il genitore nutre a proposito della propria capacità di riuscire in compiti e attività con il figlio disabile influenza l’impegno e gli sforzi che vengono investiti, il perseguimento degli obiettivi, la perseveranza e la costanza nell’applicazione (Coleman, 1997; Karraker, 2003).

Le persone che nutrono scarse credenze di autoefficacia nei confronti delle loro capacità di affrontare con successo un determinato compito e di superare gli ostacoli che potrebbero incontrare possono evitarne lo svolgimento, delegarne ad altri la responsabilità o sperimentare un disagio consistente nel momento in cui si trovano ad affrontare situazioni difficili (Nota e Soresi, 2000).

L’orientamento della famiglia può variare da un controllo interno a uno esterno. I nuclei che hanno un senso di controllo interno si sentono in grado di individuare change o opportunità per il loro bambino e avvertono meno stress (Hassal, Rose e McDonald, 2005) e maggior solidità (personal hardiness)( Kobasa, Maddi e Kahn, 1982), mentre quelli che si orientano verso un senso di controllo esterno hanno una percezione maggiore del potere degli altri, siano essi educatori o operatori sociali, verso i quali avranno una relazione di fiducia/sfiducia. Da ciò risulta che una percezione eccessiva del proprio senso di competenza può dar luogo a rapporti marginali con il sistema di salute territoriale, al contrario la percezione di un forte senso del potere dei tecnici può danneggiare il percorso di ricerca della salute o produrre passività nel gestire i processi di malattia.

  • Supporto sociale ricevuto

Un ruolo importante sul benessere della famiglia e del bambino è giocato dalla possibilità di godere di un adeguato sostegno sociale, psicologico e sanitario. Occorre però valutare non solo l’ampiezza delle relazioni, ma anche la loro qualità. La mancanza di tali relazioni intime si associa ad un alto rischio di effetti negativi a lungo termine sulla salute e sulla capacità genitoriale.

Il supporto sociale ha il suo effetto maggiore sullo stile di attribuzione, ovvero sul modo in cui i genitori giudicano e valutano l’evento disabilità e le situazioni ad esse connesse (Jennings et al., 1995). Infatti, il supporto sociale intra ed extrafamiliare può, date certe condizioni, migliorare efficacemente la qualità della vita laddove sia presente un bambino con una disabilità cronica. (Altiere, Kluge, 2008; Mancil, Boyd, Bedesem, 2009). È il percepire l’evento come stressante che lo rende tale (Boyce e Barnett, 1991; Innocenti, Huh e Boyce, 1992); se un individuo considera le proprie risorse come adeguate a far fronte alle richieste che gli arrivano dall’esterno, può adattarsi con successo anche se le domande ambientali sono considerevoli (Frey, Greenberg e Fewell, 1989).

Diverse ricerche hanno confermato che la presenza di reti di supporto oltre la famiglia immediata sono importanti mediatori nello stress genitoriale (Barakat e Linney, 1992; Henggeler, Watson e Whelan, 1990; Park, Turnbull e Rutherford, 2002; Rimmerman, 1991; Bristol, 1987; Trivette e Dunst, 1992; Park e ​​Turnbull, 2002).

Sia nel caso in cui il figlio disabile sia il primo figlio, sia quando ci sono altri bambini, l’organizzazione e la gestione del ménage famigliare e il ruolo genitoriale possono essere particolarmente difficili (Larcan e Oliva, 2008; Cannao, 2006). I genitori, se non adeguatamente supportati, specialmente nella fase critica del processo di adattamento, sono suscettibili di commettere errori educativi che possono avere un impatto significativo sullo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino con disabilità e, quando presente, anche su altri bambini. Il coinvolgimento di altri bambini nella famiglia è inevitabile. Nella maggior parte dei casi, per loro, soprattutto se lui/lei è più vecchio di suo fratello disabile, vengono assegnati ruoli e responsabilità sproporzionati alla loro età. L’attenzione, incentrata principalmente sul fratello con disabilità, li pone in una posizione di marginalità emotiva, evoca spesso sentimenti ambivalenti nei confronti del fratello, con ripercussioni sulla relazione e sullo sviluppo in generale. In alcuni casi sono stati segnalati episodi depressivi, ritardi dello sviluppo psicosociale e scarso rendimento accademico (Larcan, Cuzzocrea, 2011).

  • La valutazione positiva della situazione

Per fronteggiare lo stress, di fondamentale importanza è la valutazione, ovvero il processo mentale durante il quale un individuo dà a un evento un significato soggettivo e personale. Gli individui che hanno un buon senso di coerenza sono portati a vedere gli avvenimenti esterni e interni come predicibili in buona misura e a pensare che ci sia un’alta probabilità che le cose si evolvano come è ragionevole che ci si possa attendere. Questo genera un senso di fiducia cha aiuta ad affrontare gli eventi che accadono nel corso della vita (Antonovsky, 1987).

Una buona capacità di mentalizzazione permette di regolare il comportamento emotivo del soggetto e implica la competenza di identificare e interpretare i propri e gli altrui stati interiori (Söderström e Skårderud, 2009). Essa è inoltre intimamente correlata alla funzione riflessiva e alla possibilità di rielaborazione emotiva e riorganizzazione cognitiva a fronte di eventi critici, così come la nascita di un figlio disabile.

Un altro dei fattori protettivi è la resilienza, ovvero la capacità di superare le avversità, sopravvivere allo stress e di contrapporsi alla pressione esercitata dall’ambiente, adattandosi in modo positivo (Valentine e Feinauer, 1992). Secondo il parere di Malaguti e Cyrulnik (2005), la resilienza familiare emerge dal combinarsi di tre fattori protettivi:

• la capacità di far fronte alle avversità, interpretando la sofferenza come occasione di crescita;
• l’atteggiamento positivo, ovvero la capacità di veder oltre le difficoltà, ipotizzando comunque un futuro migliore;
• la trascendenza e la spiritualità che aiutano a dare un signifcato alle sofferenze che si stanno affrontando inserendole in un più complessivo percorso di crescita spirituale.

Interventi terapeutici: come procedere e cosa fare

Sulla base di queste considerazioni, quando si progetta un intervento sulla famiglia con un figlio disabile, ci sono diversi fattori che devono essere presi in considerazione. È necessario fare una valutazione preliminare accurata non solo dei probabili elementi di vulnerabilità, ma anche delle risorse del bambino e della famiglia. In particolare, gli aspetti principali che dovrebbero essere considerati includono: il comportamento del bambino, il suo stato cognitivo, il comportamento dei genitori, gli aspetti emotivi e relazionali, e più specificamente le capacità genitoriali, gli aspetti rappresentativi, sia in relazione ai modelli di lavoro interni, sia in relazione ai significati attribuiti dai genitori alla disabilità e al comportamento del bambino, aspetti dell’organizzazione e del funzionamento familiare (struttura della famiglia, soddisfazione delle coppie, rapporti con le loro famiglie di origine), aspetti del più ampio contesto sociale (sostegno sociale, esperienza lavorativa, ecc.) e dinamiche relazionali (intra-ed extra-familiare).

Un intervento può essere considerato valido, se agisce a tutti i livelli sui membri della famiglia coinvolti. Deve essere in grado di cambiare credenze, emozioni e comportamenti disfunzionali, deve promuovere l’autoefficacia personale e parentale e deve stimolare la sinergia all’interno del sistema familiare e con i sistemi esterni.

L’accesso al sistema familiare può essere realizzato attraverso diverse modalità, in relazione a quanto emerge dalla valutazione iniziale, anche se, come suggerito da Sameroff (2006), in qualsiasi modo si scelga di entrare nel sistema, gli effetti del cambiamento dovrebbero comunque verificarsi a tutti i livelli del sistema. In alcuni casi potrebbe essere sufficiente intervenire direttamente sul figlio disabile (riparazione) per avere effetti significativi sul funzionamento dell’intero sistema. Altre volte può essere più utile cambiare la percezione che i genitori hanno della disabilità e il comportamento del bambino (azioni ridefinite). In altri casi, tuttavia, può rivelarsi utile un intervento di parent training sulle abilità genitoriali, che indirettamente porterà alla modifica delle loro credenze cognitive e del comportamento del bambino.

Dato l’impatto delle capacità e delle caratteristiche comportamentali dei genitori sulla loro reazione alla disabilità, Elliot et al. (1999) considerano la possibilità di un intervento psicologico sui caregiver durante il processo di riabilitazione, diversamente dai programmi psicosociali tradizionali, i quali considerano unicamente la prospettiva del bambino disabile senza tenere in gran conto la famiglia. Gli autori evidenziano come il coinvolgimento e il supporto della famiglia, sono importanti moderatori del processo di riabilitazione del paziente. Gli ultmi studi effettuati sulle famiglie nelle quali è presente un membro affetto da disabilità (Zanobini, 2002; Soresi, 2010) hanno evidenziato chiaramente che, la presa in carico di un bambino disabile pone il terapeuta di fronte alla necessità di prendere in carico l’intero nucleo familiare. Non è possibile avviare un processo terapeutico e/o riabilitativo considerando il soggetto indipendete dal contesto familiare e sociale in cui vive. È fondamentale riuscire a stringere con la coppia genitoriale, un patto terapeutico per mezzo del quale rafforzare ed amplificare l’efficacia degli interventi terapeutici e riabilitativi. I genitori, se sostenuti, possono attivare risorse utili allo sviluppo educativo, emotivo e cognitivo del figlio disabile. Per ottenere questo risultato è necessario favorire nei genitori lo sviluppo di sentimenti di fiducia, autoefficacia, speranza di poter incidere positivamente sul futuro del proprio fglio.

Nella pratica clinica cognitiva, si ritiene che il trattamento debba essere generalmente orientato nella direzione dell’accettazione; esso, infatti, si configura come tanto più efficace nel produrre e stabilizzare il cambiamento se visto non come mezzo per dimostrare l’infondatezza e l’irrazionalità delle convinzioni e dei timori del paziente né come un modo per modificare una realtà immodificabile, ma piuttosto come occasione di far sperimentare al paziente che il problema sta nell’iper-focalizzazione su di essi. Le credenze e le ipotesi del paziente sono sempre rappresentazioni legittime della realtà (frutto di esperienze di vita altrettanto legittime), ma l’eccessiva focalizzazione su alcune di esse, produce un iper-investimento sugli scopi connessi e la persistenza di condotte orientate a questi scopi, anche quando infruttuose o paradossali (Perdighe e Mancini, 2008). È comprensibile come, infatti, nel caso di un genitore alle prese con la disabilità del figlio, tanto più tempo egli si concentrerà negli anni a tentare di falsificare la diagnosi, tanto meno tempo potrà dedicarsi a fronteggiarla con strumenti terapeutici adeguati che possano mettere il figlio disabile, in condizioni di crescere al meglio possibile. Esistono pochi studi sulle rappresentazioni e sulle credenze proprie di genitori di bambini con disabilità. Si evidenzia una tendenza generale a sviluppare una rappresentazione disfunzionale circa se stessi e il bambino, ed un’immagine distorta della relazione. Il grave deficit del sistema di credenze del bambino (particolarmente visibile nei disturbi pervasivi dello sviluppo), si accompagna ad una difficoltà del genitore di accedere ai propri stati mentali (riflessività) e di riconoscere i bisogni e le intenzioni proprie del bambino (decentramento) (Giamundo et al., 2000).
Credenze di inadeguatezza e non amabilità possono condizionare fortemente la relazione col bambino e funzionare, in ottica cognitiva, come elementi di mantenimento di una relazione disfunzionale. Nel tentativo di testare le proprie credenze o schemi irrazionali, le madri mettono in atto comportamenti spesso intrusivi per il bambino o scarsamente sensibili ai suoi bisogni, di fronte ai quali il bambino attiva pattern più netti di rifiuto o di evitamento che finiscono per confermare le credenze irrazionali delle mamme e perpetuare a loro volta i cicli interattivi disfunzionali tra genitori e bambino.

Riprendendo gli obiettivi tratti dalle applicazioni della teoria dell’adattamento cognitivo di Taylor, osserviamo come l’adattamento ad una malattia grave e cronica, o nel nostro caso specifico alla disabilità di un figlio, dovrebbe avere due outcome principali: la ricerca di un significato, tramite lo sviluppo di un nuovo e più positivo atteggiamento alla vita, e l’incremento di un senso di mastery, il quale darebbe ragione di una maggiore percezione di controllo sugli esiti della patologia. Al fine di favorire tali risultati comportamentali, risulta utile un intervento per fasi il quale prende le mosse da alcune domande fondamentali come: “che problemi porta la famiglia?”, “in quale fase del processo di accettazione si trova, o in quale fase il processo si è bloccato?”, “quali sono le emozioni coinvolte e quali scopi la patologia del figlio compromette?”. Tale procedimento è fondamentale al fine di non colludere con la necessità di cambiare a tutti i costi uno stato della realtà di fatto immodificabile, bensì trovare una modalità che aiuti ad aumentare le capacità adattive e migliorare la qualità della vita della famiglia, in relazione alla gestione quotidiana della disabilità, nella prevenzione dei disturbi emotivi associati e nella gestione del dolore e dell’elaborazione del lutto conseguente (Taylor S.E.; 1983)

Un input importante in tal senso è dato dall’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), basato sulla Relational Frame Theory (RFT) di Hayes, Barnes-Holmes e Roche (2001). Concezione centrale dell’ACT, una delle terapie del comportamento di terza generazione più legate alla ricerca di base sul comportamento verbale, è che la sofferenza psicologica sia solitamente e prevalentemente causata dal modo in cui il linguaggio, la cognizione e il controllo dell’esperienza diretta sul comportamento, interagiscono. Secondo tale approccio, il tentativo di modificare direttamente pensieri e sentimenti che producono e mantengono la difficoltà rappresenterebbe una modalità di intervento inefficace e controproducente. Nel caso specifico qui esaminato, si evince ad esempio come tale modalità di comportamento potrebbe colludere col tentativo del genitore, intrappolato in una fase di rabbia/colpa, di negare/cambiare lo stato di disabilità del figlio. L’ACT insegna come modificare il modo in cui difficili esperienze private agiscono sulle persone, piuttosto che tentare di eliminare la loro comparsa, avvalendosi di alternative terapeutiche efficaci come l’accettazione, la mindfulness, la defusione cognitiva, i valori e l’impegno nell’azione (Hayes, Strosahl, Wilson 1999). Essa prende in considerazione alcuni concetti non convenzionali (Hayes, 2004):

  • la sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona;
  • non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se è possibile prendere provvedimenti per evitare di incrementarla artificilamente;
  • il dolore e la sofferenza sono due differenti stati dell’essere;
  • non bisogna identificarsi della propria sofferenza;
  • si può vivere un’esistenza dettata dai propri valori, imparando ad uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita;

L’ACT si basa quindi su tre punti fondamentali:

  • Mindfulness: un modo di osservare la propria esperienza, praticato per secoli in oriente attraverso la meditazione (Hayes, Follette e Linehan, 2004); attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso esso, comprendendo come ci siano molte cose da fare nel momento presente, oltre che tentare di regolare i propri contenuti psicologici o la propria sofferenza.
  • Accettazione: basato sulla nozione che, normalmente, tentando di liberarsi del proprio dolore si arriva solitamente ad amplificarlo, intrappolandosi in esso ancora di più e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Non si intende il favorire un atteggiamento auto-distruttivo o nichilistico che tollera e/o sopporta il proprio dolore, ma un atteggiamento in grado di favorire un vitale e consapevole contatto con la propria esperienza, al fine di fronteggiare i problemi psicologici, più che eliminarli come si farebbe con un fattore esterno disturbante.
  • Impegno e vita basata sui valori: volto al non mettere la propria vita in attesa, mentre si affrontano i propri problemi psicologici, ed attendendo passivamente la diminuzione del proprio dolore, ma uscendo dalla propria mente ed entrando nella propria vita, tramite azioni impegnate nella direzione di quelli che sono i propri valori.

In seguito è necessario valutare la dinamica del processo di accettazione, con le relative fasi, al fine di capire dove il processo si sia eventualmente bloccato, per ristabilire il normale processo di accettazione. A tal fine è necessario entrare nei dettagli, ad esempio tramite l’uso del laddering (Wells, 1999), facendo specificare alla persona cosa significhi, ad esempio “è una tragedia” (è su questi specifici contenuti che poi sarà possibile intervenire, come ad esempio “sono preoccupato per mio figlio: chi si occuperà di lui quando non ci sarò più?”, “è tutta colpa mia, avrei dovuto stare più attenta, merito di soffrire”, “mio figlio non avrà mai una vita serena”).

Conclusioni

Nonostante la visione dominante della famiglia sia apparsa catastrofica, il disadattamento e lo stress non sono affatto conseguenze inevitabili per le famiglie con bambini disabili. Ci sono elementi che suggeriscono la resilienza della famiglia, piuttosto che una catastrofe familiare, caratterizzata da elasticità e ottimismo (Singer, Ethridge, Aldana, 2007). Nonostante il forte impatto emotivo connesso al fatto di avere un figlio disabile, i genitori accolgono la sfida che il bambino presenta e non smettono di vivere, ma vanno incontro a una ridefinizione di valori e di ruoli.

I genitori sperimentano anche esperienze positive, concentrandosi sui punti di forza e abilità, più che di debolezza, e quelli più speranzosi vivono meno emozioni negative, sintomi depressivi e angoscia; sono più soddisfatti della vita, hanno maggior benessere e credono di poter raggiungere i loro obiettivi e generare percorsi praticabili a tal fine (Lloyd e Hastings, 2009). Esistono alcune dimensioni significative per una miglior qualità della vita genitoriale: ottimismo, religiosità, impegno per la vita, divisione tra adulti e bambini (intesa come chiarezza di comunicazioni e richieste tra il sistema genitoriale e quello dei figli), capacità di focalizzarsi sul bambino e senso di controllo sulla situazione (Ransom, Fisher e Terry, 1992). I tratti di personalità come estroversione, apertura, amabilità e coscienziosità predispongono i genitori all’uso maggiore di strategie di coping, a cui fanno seguito pensieri e azioni costruttive (Hassal, Rose, McDonald, 2005; Mancil, Boyd, Besedem, 2009); mentre nevroticità, allontanamento e fuga portano a minor benessere e conseguente depressione (Glidden e Natcher, 2009).

Dunn (1984) ha suggerito che la risposta di una famiglia allo stress derivante dalla disabilità di un figlio può influenzare la percezione della situazione e la reazione dei fratelli. Se i genitori reagiscono positivamente al loro bambino con bisogni speciali, allora la relazione dei fratelli tende ad essere più positiva. Se i genitori avevano una visione ottimista e premurosa, allora il fratello aveva più probabilità di fare lo stesso. Pertanto, la capacità del genitore di accettare le difficoltà del bambino influenza i modi in cui una famiglia opera.

È stato dimostrato che le emozioni positive promuovono la creatività e la flessibilità nel processo di pensiero e risoluzione dei problemi (Isen e Geva, 1987). Un visione positiva facilita anche il trattamento di informazioni importanti e rilevanti anche se tali informazioni sono negative e possono potenzialmente danneggiare l’autostima (Trope e Pomerantz, 1998). Un certo numero di studi ha esaminato le risposte positive ad eventi stressanti. Anche se gli eventi stessi possono non avere avuto esiti favorevoli, i risultati mostrano comunque la percezione di un beneficio di fronte agli eventi stressanti (Affleck et al, 1987), l’acquisizione di nuove abilità e risorse di coping (Schaefer e Coleman,1992), la percezione della crescita correlata al loro stress (Nolen-Hoeksema e Larson, 1999) e la trasformazione spirituale o religiosa che risulta dalle esperienze stressanti (Pargament, 1997).

Scorgie et al. (1999) ha fatto un’analisi qualitativa dei meccanismi che hanno portato i genitori a realizzare trasformazioni positive nelle loro percezioni del loro bambino con disabilità. Questa analisi rivelò che i genitori arrivarono a uno stato più positivo attraverso tre processi: (1) il bisogno di formare nuove identità, (2) i tentativi di trovare un significato alla situazione e (3) lo sviluppo di un senso di controllo personale. Molti genitori trovano significato attraverso l’acquisizione di nuovi ruoli come i capogruppo, i relatori o i rappresentanti nelle scuole, ospedali o strutture che rappresentano persone con disabilità. Altri genitori si sono concentrati sull’acquisizione di nuovi tratti come diventare più compassionevoli e meno concentrati su se stessi, imparando che potevano ottenere di più piuttosto che rimanere impotenti, sviluppando resistenza o una maggiore forza personale di fronte ai loro sentimenti di debolezza, passando dalla depressione alla capacità di considerare la vita come meritevole e di valore, e affrontare la vita con nuova audacia piuttosto che capitolare alla paura. Sebbene non potessero “sorridere” ed essere “felici” nella vita, erano comunque in grado di coltivare il senso dell’umorismo e aumentare i “momenti felici” (Scorgie e Sobsey, 2000).

Alcuni genitori hanno anche denunciato la perdita di amicizie a causa di avere un figlio con disabilità ma hanno anche citato altri genitori di bambini con disabilità, personale di strutture che lavorano con persone con disabilità e professionisti della salute come membri primari delle loro nuove reti di amicizia, dichiarando che non avrebbero potuto avere rapporti con una tale profondità se non avessero avuto un figlio disabile.

Inoltre, nonostante ci siano state segnalazioni di disintegrazione del matrimonio con la diagnosi di una disabilità, alcuni genitori hanno anche riferito che il loro matrimonio era emerso più forte dalla loro genitorialità di un bambino con disabilità, dato che il bisogno di trovare soluzioni a situazioni complesse e lavorare insieme come squadra ha richiesto loro di migliorare le loro capacità comunicative e rafforzare il loro matrimonio (Scorgie e Sobsey, 2000).

La ricerca è stata anche fatta per comprendere i temi delle percezioni positive. Behr, Murphy e Summers (1992) hanno utilizzato l’analisi fattoriale esplorativa per studiare più di 1200 famiglie e hanno identificato nove fattori positivi: (1) una fonte di felicità e amore, (2) un contributo alla forza della famiglia, (3) uno stimolo per la crescita e lo sviluppo personale (4) una fonte di orgoglio, (5) un percorso per l’apprendimento, (6) una chiave per comprendere lo scopo della vita, (8) una guida per comprendere le questioni future e (9) uno stimolo per crescita della carriera.

In una revisione della ricerca pubblicata sulle percezioni positive di famiglie con bambini con disabilità, Hastings e Taunt (2002) hanno confrontato temi, elementi e fattori in vari studi di ricerca e trovato alcuni temi chiave sulla natura e la struttura delle percezioni ed esperienze positive dei genitori di un figlio disabile e l’esperienza di caregiving. Questi possono essere riassunti come: (1) piacere e soddisfazione nel fornire assistenza al bambino, (2) visione del bambino come fonte di gioia e felicità, (3) senso di realizzazione nell’aver fatto il meglio per il bambino, (4) senso di condivisione e amore con il bambino, (5) bambino come una sfida o un’opportunità per imparare e crescere, (6) famiglia e matrimonio rafforzati, (7) un senso e uno scopo della vita nuovo o aumentato, (8) sviluppo di nuove abilità o nuove opportunità di carriera, (9) il diventare una persona migliore (più compassionevole, meno egoista, più tollerante), (10) maggiore forza personale o fiducia, (11) reti sociali e comunitarie espanse, (12) maggiore spiritualità (13) cambiamento nella prospettiva di vita (ad esempio, aver più chiaro cosa è importante nella vita, essere più consapevoli del futuro) e (14) valorizzazione della vita, vivendola ogni giorno a un ritmo più lento.

La presenza di indicatori positivi non sta a significare che i genitori siano ciechi alle difficoltà e ai problemi, ma che sono stati in grado di trovare un significato nella loro vita, riformulando la loro valutazione originale per enfatizzare i risultati positivi, come le loro capacità di raggiungere gli altri bisognosi. Assumere questa nuova prospettiva positiva significa pensare alla disabilità come a una possibilità concreta nella vita di ciascuno di noi; realizzare che la menomazione e la conseguente disabilità sono solo un aspetto della vita delle persone e non coincidono con essa, così la presenza di un membro disabile costituisce solo una parte, per quanto centrale in alcuni momenti, nella vita delle famiglie (Farber, 1986).

È quindi, essenziale riconoscere che le famiglie hanno modi diversi di sperimentare la disabilità di un figlio.

Non è la disabilità del bambino che svantaggia e disintegra le famiglie: è il loro modo di reagire ad essa e tra di loro (Dickman & Gordon, 1985, p. 109).

Neurodiversità: verso la valorizzare delle risorse, nel rispetto delle differenze. Dalla storia del termine all’odierno dibattito

La neurodiversità è definita come un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione “neurotipica” (o non autistica).

 

Abbiamo tuo figlio, ci assicureremo che non sia in grado di prendersi cura di se stesso, né di interagire socialmente per tutta la sua vita

Abbiamo tuo figlio. Stiamo distruggendo la sua abilità di interagire socialmente e lo stiamo conducendo verso il più completo isolamento. Ora spetta a te

Nel dicembre 2007, il Child Study Center della New York University (NYU CSC), guidato da Harold Koplewicz, ha lanciato Ransom Notes quella che definisce una “campagna di servizio pubblico” per sensibilizzare ai vari disturbi psichici dell’infanzia, attraverso “richieste di riscatto” pubblicate su grandi cartelloni pubblicitari in giro per New York. Quelli appena letti sono i testi riferiti rispettivamente all’autismo e alla sindrome di Asperger.

La campagna Ransom Notes è stata interrotta dopo una protesta diffusasi su Internet e guidata da diverse associazioni di disabili e dalle comunità di persone autistiche. Ari Ne’eman, presidente del Autistic Self Advocacy Network (ASAN) ha creato una petizione on-line che ha raccolto rapidamente oltre 1.300 firme. Le critiche sollevate da ASAN erano tre: le pubblicità stigmatizzavano le persone con autismo; le inserzioni contengono informazioni inaccurate e non riescono a trasmettere i punti di forza e di successo delle persone autistiche; le pubblicità scoraggiano i genitori dal cercare assistenza per i loro figli “condannati”. Le pubblicità sono state eliminate.

Il vizio di fondo della campagna Ransom Notes era il basarsi su un modello esclusivamente medico dell’autismo. Le pubblicità descrivevano le condizioni psichiatriche dell’infanzia come deterministiche e i bambini con queste condizioni come emarginati anormali dalla società.

Neurodiversità: oltre il modello medico

Il modello medico ritiene che la disabilità derivi dalle limitazioni fisiche o mentali di una persona. Il problema risiede nella persona, che è vista come in qualche modo deficiente o anormale. La gente va dai medici con un problema e il medico diagnostica il problema e prescrive una cura. Per la maggior parte delle malattie, questo modello può essere sufficiente: ad esempio, una persona può presentare un forte dolore addominale, le può essere diagnosticata un’appendicite e può subire un’operazione per rimuovere l’appendice. In altre condizioni, tuttavia, adottare solo tale modello aumenta il rischio di pregiudizi e discriminazioni.

Il modello sociale della disabilità suggerisce che la disabilità è spesso creata da atteggiamenti, pregiudizi e barriere erette dalla società e non da qualche problema o deficit dell’individuo.

Il movimento della neurodiversità offre una contro-narrativa al modello medico. La neurodiversità è definita come un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione “neurotipica” (o non autistica).

La neurodiversità spiega, nel suo senso più ampio, lo sviluppo neurologico atipico come una normale variazione naturale del cervello umano, una forma alternativa della biologia umana. Per la neurodiversità, le persone con autismo rappresentano una normale variazione neurologica al pari di razza, genere o sessualità (Jaarsma e Wellin, 2012). Il paradigma della neurodiversità sostiene che la condizione autistica non è una condizione da curare, quanto piuttosto una specificità umana o una differenza nei modi di socializzare, comunicare e percepire, che non sono affatto necessariamente svantaggiosi (Jaarsma e Wellin, 2012).

Storia del termine

Judy Singer, una scienziata sociale con tratti autistici, ha coniato il termine nel 1998. Con la sua definizione, la sociologa ha posto l’accento sulle qualità e le risorse delle persone neurodiverse, valorizzando i loro modi atipici di imparare, pensare ed elaborare informazioni, vedendoli come variazioni umane.

Harvey Blume ha reso popolare questo termine in un numero del 1998 di The Atlantic:

La neurodiversità può essere altrettanto cruciale per la razza umana quanto la biodiversità lo è per la vita in generale. Chi può dire quale forma di cablaggio si dimostrerà migliore in un determinato momento? La cibernetica e la cultura informatica, ad esempio, possono favorire un modo di pensare un po’ autistico 

L’anno successivo Judy Singer scrive:

Il “Neurologicamente diverso” rappresenta una nuova aggiunta alle familiari categorie politiche di classe/genere/razza e aumenterà le intuizioni del modello sociale della disabilità.

Idee sostenute con fervore anche a distanza di anni, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008:

Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali (Solomon, 2008).

Da allora, il paradigma della neurodiversità si è espanso fino a comprendere un gruppo di condizioni cognitive come dislessia, discalculia, disprassia, sindrome di Tourette e disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Le persone che presentano queste condizioni sono oggi indicati come neurodiversi.

La neurodiversità nella storia e in azienda: da Paul Dirac a Steve Jobs

Nella letteratura sulla neurodiversità spiccano diversi nomi di individui brillanti che, nella loro vita, hanno imparato a sfruttare al meglio le loro diverse capacità: Paul Dirac per autismo e Asperger, Mozart e Shakespeare per l’ADHD, Einstein per dislessia. Tra i personaggi più recenti che spiccano nel panorama della neurodiversità troviamo Steve Jobs, dislessico, e Richard Branson, a capo della Virgin, che ha definito la sua dislessia “un vantaggio”. L’attore canadese Dan Aykroyd, star dei Blues Brothers, e la famosa cantante Susan Boyle hanno rivelato di avere la sindrome di Asperger. Per l’ADHD ricordiamo Jim Carrey e l’imprenditore David Neeleman fondatore di diverse compagnie aeree.

Non sottolineare i limiti ma evidenziare le potenzialità, questo il nodo centrale del paradigma della Neurodiversità. 

Le persone con ADHD, ad esempio, potrebbero avere più facilità in compiti multi-tasking, operando bene in situazioni stressanti con numerosi input. Hanno altresì maggiori probabilità di essere molto creativi e, con il giusto stimolo, in grado di “iperfocalizzare”.

Gli individui con autismo e Asperger hanno più probabilità di avere punteggi superiori di intelligenza musicale, una migliore attenzione al dettaglio e capacità visuo-spaziali al di sopra della norma. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, inoltre, si dimostrano più abili nel lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).

La tendenza a investire sui punti di forza delle persone neurodiverse si fa oggi strada nelle decisioni di molte aziende che operano in ambito tecnologico: persone autistiche sono ricercate con maggiore frequenza per svolgere mansioni lavorative, come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici, che richiedono organizzazione e sequenziamento (Wang, 2014). 

Le abilità visuo-spaziali che possono appartenere ai dislessici, ad esempio quella di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) o di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008), sembrano rivelarsi vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2013). 

La Dislessia e i DSA in particolare ci consentono di comprendere molto bene quanto spesso quelli che vediamo come “limiti” o disturbi siano spesso prodotti della società. La Dislessia, caratterizzandosi come una differenza nello stile di apprendimento poco incline all’automatizzazione della lettura, porta oggi a maggiori difficoltà in ambito scolastico, in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se però prendiamo in considerazione le società preletterate, in cui le conoscenze venivano trasmesse per via orale, la Dislessia non rappresentava un ostacolo alla riuscita personale. Allo stesso modo, i tratti dell’ADHD potevano essere caratteristiche funzionali nelle società preistoriche in cui la caccia e la ricerca di cibo necessitavano di velocità di reazione e di movimento (Jensen et al., 1997).

Il dibattito sulla neurodiversità

In merito all’autismo e considerando l’ampio utilizzo del termine neurodiversità, soprattutto le posizioni più estreme che si interfacciano sull’argomento e in particolare sul concetto di cura, alcuni autori (Baker, 2006; Jaarsma e Welin, 2012) hanno messo in luce uno specifico paradosso. Con neurodiversità, facciamo riferimento a una normale variazione neurologica al pari di razza, genere o sessualità (Jaarsma e Wellin, 2012). Quindi la condizione autistica non sarebbe una condizione da curare, quanto piuttosto una specificità umana. Cosa dire, però, delle persone con spettro autistico che hanno bisogno di particolari cure? Il loro bisogno di cura non rischia di perdersi nello stato di una naturale variazione (Jones et al 2001)? Fino a che punto la società crea una disabilità? Se l’idea di cura in questo caso fomenta stereotipi e pregiudizi, con l’accettazione incondizionata della neurodiversità non si rischia, però, di non dar voce alle persone con autismo “più grave”, coloro che mettono in atto comportamenti autolesionistici, tanto per fare un esempio? Sostenendo incondizionatamente la visione della neurodiversità non si rischia di perdere gli aiuti e il diritto all’assistenza, soprattutto a livello sociale e politico, oggi già carenti, per quelle persone autistiche che invece ne hanno bisogno?

Con un suo articolo del 2017, John Elder Robinson, autistico, consulente del Neurodiversity Institute del Landmark College di Putney, sembra fornire una risposta agli interrogativi del dibattito. Egli illustra come negli ultimi anni il tema della neurodiversità sia diventato di primaria importanza, condividendone il punto di vista, ma dichiarandosi anche pronto a sottolineare che ciò non significa che l’autismo non crei delle difficoltà a chi ci convive.

Per quanto riguarda la consapevolezza dell’autismo, secondo Robinson infatti, un pericolo in cui si incorre è il non guardare più alle difficoltà di alcuni autistici, pericolo dovuto alla tendenza nel promuovere esclusivamente il talento e i successi delle persone autistiche.

Eppure, Robinson crede che sia possibile parlare di neurodiversità e mettere in luce gli aspetti e i talenti dei neurodiversi, abbracciando anche l’idea di cura, nel rispetto delle difficoltà che incontrano le persone autistiche. Ciò su cui porre l’attenzione è la definizione di “cura” che spesso, nel dibattito sulla neurodiversità, si rivendica o si rinnega.

Se si considera la cura come “sollievo dalla sofferenza”, allora si scopre come la cura non sia motivo di discriminazione: tutti, in un qualsiasi momento della loro vita, hanno bisogno di alleviare alcune loro sofferenze. Tutti dovrebbero sostenere il diritto al sollievo dalla sofferenza. Nessuno dovrebbe vivere nella paura di crisi epilettiche o soffrire di ansia debilitante o di dolore intestinale. Il vero problema insorge se per cura si intende il “liberarsi di un genere di persone”. Ciò a partire dagli investimenti: perché, si chiede Robinson, oggi giorno sempre più risorse economiche sono investiste per studiare le basi biologiche e genetiche dell’autismo (che, ricorda lo stesso Robinson, sono comunque studi importanti e da non ripudiare) ma sempre meno sono le risorse destinate al sostegno delle difficoltà delle persone con autismo?

Dovremmo tutti sostenere lo sviluppo di tecnologie che aiutino gli autistici che non parlano, ad esempio, a comunicare con il resto del mondo. Dovremmo continuare a implementare trattamenti efficaci per gestire le crisi e i comportamenti autoloesionistici degli individui con autismo. Dovremmo anche sostenere lo sviluppo di terapie per aiutare le persone autistiche a organizzare le loro vite, a fare amicizia, a rendersi autonomi, coinvolgendo il mondo del lavoro (oltre le assunzioni, mantenendo un ambiente attento ad ogni esigenza) e coinvolgendo la società tutta (Robinson, 2017).

Diffondere la cultura della neurodiversità tuttavia non dovrebbe spaventare coloro che vivono una condizione di difficoltà, temendo che possa derivarne una banalizzazione con conseguente risparmio di risorse dedicate a chi necessita di cura. Parlare di neurodiversità consentirebbe invece, a lungo termine, di ridurre quella quota di disabilità che dipende proprio dal mancato riconoscimento della società neurotipicamente orientata di poter essere anche qualcosa di diverso e di potersi permettere una vita felice e autonoma frutto di un “compromesso culturale” tra neurotipici e neurodiversi. La qualità della vita migliorerebbe a vantaggio di tutti liberando risorse che potrebbero essere destinate a chi vive effettivamente una condizione di disabilità, neurotipico o neurodiverso che sia.

Bisognerebbe insomma liberarsi dell’idea che il termine neurodiversità sia sinonimo di disabilità perché è anche questo che induce i neurotipici a immaginare che il mondo vada costruito e vissuto secondo i soli criteri da loro definiti. Così facendo, magari, buona parte delle risorse risparmiate andrebbero rivolte alla diffusione della cultura autistica poiché il compromesso sarà quanto più possibile tanto più vi sarà conoscenza delle reciproche “culture” di appartenenza.

 

I disturbi specifici dell’apprendimento: il coinvolgimento nel processo diagnostico della scuola e della famiglia

Risulta molto importante, nel processo diagnostico dei disturbi specifici dell’apprendimento, la partecipazione degli insegnanti e della famiglia. A volte però questo coinvolgimento si rivela difficoltoso.

 

“Mi spiace Dottoressa ma l’insegnante non ha voluto compilare i test di F. Mi ha detto che non vuole responsabilità, né vuole esprimere giudizi sul bambino!”

“Ne abbiamo compilato solo uno. Tanto io e mio marito avremmo detto le stesse cose!”

All’interno del contesto clinico ho avuto modo di osservare un aspetto specifico legato al processo diagnostico: ovvero il rifiuto al coinvolgimento da parte di insegnanti e talvolta anche di genitori. Questo accade perché vissuto come una “pesante” responsabilità o ancor più negativamente, come la richiesta di un giudizio a cui sono chiamati a rispondere. Quest’articolo mira a sensibilizzare la famiglia e la scuola, al valore della partecipazione al processo diagnostico.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: una condizione clinica

Una difficoltà nell’apprendimento può caratterizzare il normale corso di studio di ogni bambino, sia per la crescente difficoltà dei contenuti in fase di scolarizzazione, sia per l’emergere di normali attitudini che vedono i bambini acquisire una maggior padronanza di alcune materie rispetto ad altre. Quando invece la causa della difficoltà è un disturbo dell’apprendimento questo è tale da impedire un ottimale sviluppo negli apprendimenti, ovvero nelle aree della letto-scrittura e del calcolo.

Ad oggi, tali disturbi, sono racchiusi nell’acronimo DSA e comprendono: la dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia. Ognuna di queste condizioni descrive un quadro clinico che coinvolge uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo del soggetto. Il sospetto di una condizione clinica, può essere messa in luce da un insegnante, quanto dai genitori che seguono il bambino durante lo studio pomeridiano, ma che necessita per essere definita tale di un processo diagnostico.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: il processo diagnostico dall’invio alla diagnosi

Il processo diagnostico di un DSA prevede la collaborazione di più professionisti (Psicologo e Neuropsichiatra Infantile) e mira all’indagine di più aree, in primis quella cognitiva e dello stato degli apprendimenti. Ogni processo diagnostico deve tener conto e partire da quello che viene definito come “motivo dell’invio”, che contiene parte degli elementi che andranno indagati in fase anamnestica. L’intero processo diagnostico comprenderà: un’anamnesi psico-sociale della storia complessiva di sviluppo del bambino, un’anamnesi medica che possa escludere disturbi di tipo visivo ed uditivo che possono generare una difficoltà nell’apprendimento, i risultati dei test con una relativa interpretazione ed un riferimento ai criteri diagnostici utilizzati.

L’utilità di una valutazione cognitiva permette di avviare un processo diagnostico corretto che escluda la presenza di un ritardo mentale, condizione che non appartiene al quadro dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento. La valutazione degli apprendimenti invece, metterà in luce, in caso di diagnosi, una differenza fra valori standard, per livello intellettivo e fase di scolarizzazione, e punteggi inferiori rispetto alla norma.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: il coinvolgimento della Scuola e della Famiglia

Il processo diagnostico si avvale anche di test di eterovalutazione che coinvolgono la famiglia e gli insegnanti, con lo scopo di integrare i dati diagnostici del clinico con elementi che appartengono alla quotidianità del bambino. Da qui nasce l’importanza del coinvolgimento, di scuola e famiglia, all’interno del processo diagnostico che risulta un impegno a cui rispondere con responsabilità ed attenzione. La compilazione del materiale che il clinico invia ad insegnanti e famiglie è lo strumento con cui arricchire ed al contempo definire i dati clinici con quelli che emergono da un contesto di vita “naturale”. Queste informazioni, passando attraverso un processo di standardizzazione, permettono una valutazione clinica del “motivo dell’invio” ma anche di rilevazione di eventuali comorbidità spesso associate ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

La partecipazione al processo diagnostico non coincide dunque con l’espressione di un “giudizio” personale sul bambino, il suo valore sta nel realizzare una valutazione quanto più dettagliata possibile, contribuendo così all’arricchimento di un processo che richiede la collaborazione tra clinici, famiglie ed insegnanti. Il fine ultimo della rete collaborativa che viene a crearsi, definisce implicitamente un modello scolastico integrato a livello territoriale e connesso al “mondo” dello studente e della sua famiglia, divenendo uno spazio in cui lo stesso studente possa coltivare al meglio le proprie potenzialità anche in presenza di una diagnosi di DSA.

La terra che continua a tremare: risposte emotive e comportamentali

Il trauma determinato da un terremoto è qualcosa di profondo, legato all’identità delle persone, alle certezze di una vita, a una quotidianità che non esiste più, all’incertezza sul futuro; infatti il terremoto è improvviso e inaspettato, travolge la nostra sensazione di controllo, comporta la percezione di una minaccia potenzialmente letale, può determinare perdite emotive o fisiche.

Federica Di Francesco – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

24 agosto 2016 ore 3:36 la terra trema

30 ottobre 2016 ore 7:40 la terra trema

18 gennaio 2017 ore 10:24, 11:14 e 11:25 la terra, coperta da un’abbondante coltre nevosa, trema ancora…

Le donne urlano, i bambini piangono, gli uomini spalano… tutti cercano di creare un varco, una via di fuga in quella coltre nevosa, ma nessuno vi riesce, il tempo non è clemente, la neve cade copiosa, barrica tutti in casa come topi in gabbia in attesa della morte.

La paura si fa intollerabile, l’energia elettrica manca da giorni, le comunicazioni e gli spostamenti sono impossibili… emerge dirompente il pensiero di essere abbandonati al proprio destino, la paura di non avere scampo, il timore di non essere salvati…

Il disagio emotivo si avverte sempre più… un hotel spazzato via… vittime dei crolli e del gelo… un elicottero precipitato…

Un’intera comunità in ginocchio, un’intera comunità traumatizzata…

Persone che camminano per le vie di città fantasma pronte a sobbalzare ad ogni rumore o vibrazione, persone che al calar della sera fuggono lungo la costa, persone costrette ad abbandonare le proprie case…

Questa è la condizione dell’Abruzzo e in particolare della sua gente. Cosa ne sarà di questa comunità più volte messa in ginocchio?

Negli ultimi giorni la paura si è diffusa, in risonanza con le continue scosse, anche a Catania. Migliaia gli sfollati, la terra trema ancora e il terrore assale un’altra comunità..

Trauma e terremoto

La parola Trauma ha origini greche e vuol dire Ferita. Il trauma psicologico, dunque, può essere definito come una “ferita dell’anima”, come qualcosa che rompe il modo abituale di vivere e vedere il mondo e che ha un impatto negativo sulla persona che lo vive; qualcosa che intacca l’integrità della persona, e che ne altera lo stato.

Esistono diverse forme di esperienze traumatiche a cui un individuo può andare incontro nell’arco della vita.

Ci sono i “piccoli traumi” o “t”, ovvero quelle esperienze soggettivamente disturbanti caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intesa, come umiliazioni subite o relazioni disturbanti con persone significative durante l’infanzia, e “traumi T”, ovvero tutti quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. A questa categoria appartengono eventi di grande portata, come ad esempio disastri naturali (terremoti, alluvioni…), abusi, incidenti.

Non tutte le persone che vivono un’ esperienza traumatica reagiscono allo stesso modo. Le risposte possono andare dal completo recupero e il ritorno ad una vita normale in un breve periodo di tempo, fino alle reazioni più gravi, come quelle che impediscono alla persona di continuare a vivere la propria vita come faceva prima dell’accaduto.

Il terremoto può essere considerato un vero e proprio evento traumatico; Mitchell (1996) afferma che:

Un evento si definisce traumatico quando è improvviso, inaspettato ed è percepito dalla persona come minaccia alla sua sopravvivenza, suscitando un sentimento d’intensa paura, impotenza, perdita del controllo, annichilimento. (Mitchell 1996)

L’impatto emotivo è caratterizzato da un marcato senso di vulnerabilità, impotenza, sensazione di perdita di controllo, paura, angoscia, rabbia e disperazione.

Il trauma determinato da un terremoto è qualcosa di profondo, legato all’identità delle persone, alle certezze di una vita, a una quotidianità che non esiste più, all’incertezza sul futuro; infatti il terremoto è improvviso e inaspettato, travolge la nostra sensazione di controllo, comporta la percezione di una minaccia potenzialmente letale, può determinare perdite emotive o fisiche.

Trauma e terremoto: le risposte emotive

Le ricerche svolte nel campo delle risposte emotive in situazioni di pericolo indicano la prevalenza della paura. In particolare studi effettuati su individui che vivevano in paesi distrutti dal sisma, mostrano come la paura sia un elemento cruciale del vissuto durante il terremoto (Petrone 2002).

La paura a livello evoluzionistico rappresenta un’emozione alla base di una risposta istintiva ancestrale. Anche se non dobbiamo più sfuggire ai predatori, saper fiutare il pericolo è una risorsa fondamentale per sopravvivere nel mondo (Ciceri, 2001).

Tra gli effetti emozionali i più comuni si riscontrano, oltre al paura e al terrore, shock, collera, disperazione, ottundimento emozionale, senso di colpa, irritabilità, senso di impotenza.

Fattori che influiscono sulla gravità della risposta emotiva

I fattori di rischio implicati nello sviluppo di un elevato livello di distress psicologico e di una sintomatologia post-traumatica sono numerosi; vanno da una maggiore esposizione al terremoto, la vicinanza all’epicentro, il livello di coinvolgimento e di controllo, il grado di minaccia percepita, la disgregazione della rete sociale, a una storia pregressa di traumi o problemi emotivi, perdite finanziarie, sesso femminile, un basso livello di istruzione, la mancanza di supporto sociale subito dopo l’evento, nonché il mancato supporto di amici, colleghi e familiari e il trasferimento.

Molti studi, ad esempio, suggeriscono che le donne presentano un maggior rischio di sviluppare il Disturbo da Stress Post Traumatico o altri disturbi, in seguito all’esposizione ad eventi traumatici (Steinglass et al., 1990; Breslau et al., 1997); sembra inoltre che bambini in età scolare siano più vulnerabili, rispetto a quelli più piccoli (Green et al., 1991). In particolare, il comportamento dei genitori, il loro livello di sofferenza e l’atmosfera familiare influenzano le reazioni post-traumatiche dei bambini (Vila et al., 2001).

Il distress psicologico successivo all’esposizione a un evento traumatico è stato riconosciuto come un significativo fattore predittivo per lo sviluppo di una sintomatologia post-traumatica.

Trauma e terremoto: le reazioni comportamentali

Le tipiche risposte comportamentali di fronte ad una situazione di pericolo, quale un terremoto, sono principalmente quattro: fuga, lotta, congelamento e affiliazione (Pietrantoni e Prati, 2009).

Le prime due “fight or flight” (lotta o fuga) si riferiscono rispettivamente all’attacco diretto ad esempio attraverso la rabbia o all’evitamento nei confronti del pericolo.

La terza è una reazione di congelamento (freezing) e paralisi; di fronte al pericolo si rimane immobili, incapaci di rispondere alle persone presenti che cercavano di aiutare spronando alla fuga. Con il termine “freezing”, Leach (2004) fa riferimento al totale o parziale congelamento dei movimenti da parte della persona che sta vivendo la situazione di pericolo, impedendo così la messa in atto di qualsiasi azione produttiva. I comportamenti di freezing, in una prospettiva etologica, rappresenterebbero delle risposte adattive; infatti il congelamento sarebbe un automatismo che aumenta le probabilità di sopravvivenza di fronte a un predatore, in quanto diminuisce la probabilità di essere visti o permette di sembrare morti.

Infine, una quarta tipologia di comportamento è l’affiliazione. Il modello di affiliazione sociale (Sime, 1985) sostiene che in caso di emergenza le persone tendano a dirigersi verso persone e luoghi familiari in contrasto con le teorie del panico le quali sostengono che le persone fuggano in modo disordinato e irrazionale.

Fasi naturali che si attraversano nel post- terremoto

Durante un terremoto, l’organismo essendo esposto ad un enorme livello di stress si attiva istantaneamente per tentare di ripristinare il normale funzionamento fisiologico. Tale processo si sviluppa nelle seguenti fasi:

  • Shock: il soggetto vive un senso di estraneità, di irrealtà, di confusione, di non essere se stessi e di disorientamento spaziale e temporale. Lo shock è una reazione che si manifesta nelle fasi di stress acuto e consente di mantenere un certo distacco dall’evento.
  • Impatto emotivo: in questa fase è possibile individuare una vasta gamma di emozioni quali tristezza, colpa, rabbia, paura ed ansia ed è possibile inoltre sviluppare reazioni somatiche quali disturbi fisici e difficoltà a recuperare uno stato di quiete.
  • Fronteggiamento: in quest’ultima fase le persone cominciano ad interrogarsi sull’accaduto, ricercano spiegazioni e soluzioni, utilizzando tutte le proprie risorse.

Dalla normalità alla patologia

Talvolta, però, le fasi di risposta naturali possono impedire il ritorno al normale funzionamento. Si possono generare, infatti, reazioni emotive così intense da interferire con la regolare capacità di fronteggiamento da parte dell’organismo.

Tutto ciò potrebbe determinare l’insorgenza di patologie come il Disturbo da Stress Post Traumatico.

Per capire se il terremoto ha causato una reazione tipica da Disturbo da Stress Post Traumatico devono essere presenti i seguenti sintomi:

  • La persona tende a “rivivere” l’evento traumatico, ad esempio attraverso ricordi ed immagini ricorrenti dei momenti successivi alla scossa, ricordi che sopraggiungono anche in modo intrusivo, quasi contro la propria volontà.
  • Potrebbero essere presenti anche dei sogni ricorrenti, degli incubi in cui l’individuo rivive particolari scene dell’evento traumatico.
  • I sogni dei bambini più piccoli possono trasformarsi in incubi indefiniti, pieni di mostri e minacce per sé o per altri.
  • Sono riportati casi in cui alcune persone, improvvisamente, perdono il contatto con la realtà e seppur svegli iniziano a comportarsi, per qualche istante, come se si trovassero proprio sul luogo della tragedia (flashback), arrivando a provare un disagio ed un terrore molto intensi.
  • Anche i bambini possono comportarsi come se il terremoto si stesse ripresentando (rappresentazioni ripetitive del trauma).
  • Sia i grandi sia i più piccoli quando vengono esposti a qualcosa che in qualche modo (reale o simbolico) assomiglia al terremoto reagiscono provando un intenso disagio psicologico, oppure manifestando reattività fisiologica (difficoltà ad addormentarsi o insonnia, irritabilità, difficoltà a mantenere la concentrazione, ipervigilanza ed esagerate risposte d’allarme).
  • La persona che soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress generalmente tende ad evitare il più possibile tutto ciò che viene associato al trauma: si sforza di dimenticare, cerca di scacciare i ricordi dei momenti successivi alla scossa, evita il più possibile di parlarne.
  • A volte possono manifestarsi delle vere e proprie amnesie per alcuni particolari legati al terremoto: è questo un tipico risultato dell’evitamento. A questo può essere correlata una certa difficoltà a provare e/o esprimere le proprie emozioni (anestesia emozionale). Queste persone spesso lamentano di sentirsi fredde, distaccate, disinteressate agli altri, apatiche.
  • Il futuro viene percepito in modo molto negativo, quasi senza speranza. La persona tendenzialmente evita di pensare a progetti lavorativi o familiari, un po’ come se il tempo si fosse congelato. Nei bambini questa mancanza di prospettive future può manifestarsi attraverso giochi, disegni o espressioni verbali che rimandano all’idea che non riusciranno a diventare grandi come gli adulti, che manchi il tempo necessario.

Il trattamento del trauma dopo una grave emergenza

L’intervento psicologico dopo una grave emergenza, come il terremoto, è fondamentale.

Agire precocemente significa, supportare l’elaborazione dell’evento, favorire la riacquisizione di abilità adattive perse a seguito dell’evento traumatico e l’acquisizione di quelle nuove abilità richieste dalla nuova situazione di vita.

Nell’ambito della Psicologia dell’emergenza risulta sempre più frequente il ricorso alla tecnica dell’EMDR (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), considerato ad oggi il trattamento più efficace per i disturbi Post Traumatici.

L’EMDR è un approccio terapeutico utilizzato sia per il trattamento del trauma che altre problematiche legate allo stress. Tale protocollo, attraverso l’utilizzo dei movimenti oculari (o altre forme di stimolazione alternata), si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica, riducendo i sintomi e riattivando il fisiologico processo di elaborazione delle informazioni. Tale metodo può essere impiegato sia nella fase acuta dell’evento, al fine di rendere più tollerabile l’elevata attivazione fisiologica, che come trattamento d’elezione nelle fasi successive. L’obiettivo dell’EMDR è quello di rendere il ricordo, precedentemente disturbante, privo di connotazioni sintomatiche e disturbanti ripristinando il naturale processo. L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’ esperienza traumatica: cognitivi, emotivi e comportamentali.

L’Associazione EMDR Italia da anni utilizza questa terapia nei contesti d’emergenza, al fine di prevenire l’insorgere del disturbo post traumatico da stress. Nel Centro Italia molti professionisti si sono resi disponibili ad intervenire a supporto delle popolazioni colpite dal terremoto, con particolare attenzione ai bambini.

L’obiettivo è che tutta la popolazione del centro Italia, possa tornare presto ad avere speranza nel futuro e possa tornare presto alla normalità, chiedendo e ricevendo l’aiuto e il supporto psicologico necessario per evitare di restare nella situazione di disagio e di trauma in cui si trovano a vivere oggi.

La relazione tra una futura mamma e il suo bambino: l’attaccamento prenatale, tra valutazione e implicazioni

L’arrivo di un bambino è solitamente accolto come una nuova esperienza, sia di gioia che di preoccupazione per i futuri genitori. Con l’inizio della gravidanza, potrebbero iniziare i primi cambiamenti riguardo ai pensieri che la futura mamma potrebbe nutrire nei confronti del feto.

Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Da un punto di vista psicologico, il periodo precedente alla nascita, ma anche i primi giorni successivi al parto, implicano regolazioni e modifiche nel comportamento dei nuovi genitori, addirittura un cambiamento nella propria identità, che può aiutare a conoscere il nuovo arrivato e a costruire una nuova relazione tra i membri della famiglia (Redshaw & Martin, 2013, Milgrom, 2009).

Attaccamento e periodo perinatale

Tuttavia, nel corso della storia della psicologia e della psichiatria è stata posta attenzione a ciò che succede a una nuova madre dopo il parto. Attenzione ben riposta a causa del rischio di incorrere in problemi psicologici, come depressione e psicosi post partum. Entrambe portano a delle conseguenze negative non solo nella cura del neonato, ma anche nella relazione tra la mamma e il bambino (Milgrom, 1999). Per esempio si è visto come la depressione postpartum sia associata a un maggiore stress genitoriale (Leigh, 2008). Inoltre entrambe le variabili possono essere influenzate da ciò che accade alla mente della futura madre durante la gravidanza, come una bassa autostima, uno stile cognitivo negativo, e ansia preparto (Leigh, 2008).

Quindi che cosa accade prima della nascita? Quando hanno inizio i primi cambiamenti nei pensieri della gestante? Quali sono le emozioni che può provare?

Una linea di ricerca si è interessata a come le rappresentazioni di attaccamento durante la gravidanza possano influenzare l’ attaccamento al bambino dopo la nascita (Fonagy, 1991). Per esempio si è visto come la capacità di riflessione misurata attraverso la Adult Attachment Interview durante la gravidanza predica la capacità di attribuire stati mentali e emozioni al bambino una volta nato (Arnott, 2007). Ma lo stato mentale che ha l’adulto nei confronti delle proprie esperienze di attaccamento non è detto coincida con l’ attaccamento che ha avuto in passato (Main, 2008), anche se può predire lo stile di attaccamento futuro (Fonagy, 1991).

Invece, la risposta alle domande può essere inferita iniziando a definire come la futura madre possa pensare al proprio bambino, cominciando a conoscerlo quando è ancora nel proprio grembo, quindi alcuni ricercatori si sono interessati a quale sia legame tra gestante e feto.

Questo legame è stato nominato attaccamento prenatale (APN), o anche attaccamento tra madre e feto. Nello specifico viene definito come

L’attuazione di comportamenti che rappresentino un’affiliazione e un’interazione con il proprio figlio non ancora nato (Cranley, 1981)

Oppure come

La relazione, personale e unica, che si sviluppa tra una madre e il suo feto (Muller, 1990).

Attaccamento prenatale

Si tratta realmente di attaccamento? In realtà alcuni ricercatori si sono posti il problema. Infatti se pensiamo alla definizione classica di Bowlby (1988), il sistema di attaccamento si riferisce a come un bambino, o qualsiasi cucciolo, quando si trova in una situazione di potenziale pericolo, si attivi per avviare l’interazione con la propria madre, in modo tale da essere difeso e protetto. Quindi se pensiamo alla definizione data sopra, sembrerebbe che tra attaccamento “classico” e attaccamento prenatale non ci sia molto in comune. In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, due modelli operativi interni complementari: il sistema attaccamento elicita il sistema di cura, o caregiving (Walsh, 2010). Infatti il sistema di attaccamento implica la presenza di due attori, il bambino che lo attiva, e il caregiver che gli risponde con il sistema di cura (Readshaw & Martin, 2013, Walsh, 2010). Tuttavia, durante la gravidanza la relazione è unidirezionale, relazione che incarna le rappresentazioni cognitive e gli stati emotivi riguardo al bambino che arriverà (Readshaw & Martin, 2013). Si può chiamare relazione? In realtà implica anch’essa la partecipazione di due, e se pensiamo alle relazioni diadiche tra adulti, i due individui sono sia caregiver che careseeker (Walsh, 2010). Allora il nome relazione secondo questa prospettiva si allontana ancora di più dalla definizione originaria di attaccamento prenatale (APN), infatti solitamente una madre non cerca rassicurazioni dal proprio figlio. Alcuni hanno suggerito di utilizzare il termine legame, ma se utilizzato di fronte ai futuri genitori potrebbe creare ansie e aspettative nel momento in cui stanno iniziando a conoscere il proprio bambino sia durante la gravidanza che ai primi contatti faccia a faccia dopo il parto (Redshaw & Martin, 2013). Quindi il termine legame potrebbe portare a una forzatura controproducente nelle relazioni.

Tuttavia, evidenze recenti mostrano come l’ attaccamento prenatale possa essere di fatto un sistema di caregiving invece che di attaccamento (Walsh, 2014).

Fermo restando che l’ attaccamento prenatale non è l’attaccamento inteso da Bowlby, ma parte di quell’insieme di comportamenti che fanno si che il caregiver si prenda cura della prole, in letteratura per comodità (e abitudine) si continua a utilizzare il termine attaccamento per indicare l’insieme delle rappresentazioni, cognitive e emotive, verso il feto.

Attaccamento prenatale (APN): come si misura?

Sono stati proposti vari strumenti, ma principalmente ne vengono utilizzati tre: Maternal Foetal Attachment Scale (MFAS; Cranley, 1981), Maternal Antenatal Attachment Scale (MAAS; Condon, 1993) e la Prenatal Attachment Interview (PAI; Muller, 1993), poichè sono i test con le mgliori proprietà psicometriche. (Van den Bergh & Simons, 2008).

Queste scale presuppongono che la relazione con il feto si manifesti con: comportamenti materni salutari, come seguire una dieta ed evitare fumo e alcool; accarezzare la pancia, parlare al feto; acquistare il necessario per il bambino; parlare al partner del futuro; immaginare come sarà il bambino; avere pensieri di tenerezza e vicinanza emotiva (Van den Bergh & Simons 2008). Quindi si presuppone che la donna sia in grado riportare tutto ciò sotto forma di una scala Likert (Van den Bergh & Simons, 2008), mentre le scale sembra misurino aspetti differenti del costrutto, con il risultato di avere misure diverse su fattori simili (Walsh, 2010). Per esempio, la MFAS sembra misurare maggiormente la percezione della gravidanza e il ruolo materno (Van den Bergh & Simons, 2008). Invece la PAI e la MAAS sembrano più coerenti con la definizione di attaccamento prenatale (APN) e hanno migliori proprietà psicometriche (Van den Bergh & Simons, 2008), tuttavia producono delle misure che confrontate tra loro, sembrano complicare il modello. Infatti, se pensiamo alle validazioni italiane delle scale mostrano diversi fattori che possono entrare in gioco, coerentemente con i risultati ottenuti in altri campioni.

Nella validazione italiana della PAI, è stato confermato come l’APN non sia un costrutto unitario, ma possa essere composto da 5 fattori misurati dalla scala: 1) fantasie (“sogno il mio bambino”), 2) interazione (“riesco a far muovere il mio bambino”), 3) affetto (“amo il mio bambino”), 4) differenziazione di sé dal feto (“immagino di chiamare il mio bambino per nome”), 5) condivisione con gli altri (“lascio mettere le mani sulla pancia per far sentire agli altri i movimenti del mio bambino”) (Della Vedova, 2008). Mentre in un’altra validazione italiana, l’ultimo fattore non è stato considerato, ma saturato nel fattore interazione, e ne è stato trovato un altro detto sensibilità al feto, che considera items come “credo che il mio bambino abbia già una personalità”, che nell’altro studio facevano parte dell’interazione (Barone, 2014).

Invece attraverso la validazione italiana della MAAS è stata confermata la natura bidimensionale dell’attaccamento prenatale, una componente di intensità della preoccupazione e una di qualità del coinvolgimento, rispettivamente quanto tempo la madre passa a pensare al feto, e la qualità dell’affettività (quindi se positiva) nei confronti del feto (Busonera, 2016). Nonostante alcuni items originali fossero maggiormente legati alla prima dimensione piuttosto che alla seconda, quelli che si riferiscono all’immagine mentale che la madre si è formata del feto e che riguardano i temi di indipendenza e di differenziazione tra madre e nascituro (Busonera, 2016).

Attaccamento prenatale: un costrutto con diverse dimensioni

Quindi l’APN si configura come una dimensione eterogenea, sensibile alle misure proposte. Un modo per chiarire quale ne sia la natura è lo studio di quali possano essere le variabili che la influenzano, e proporne un modello esplicativo.

Una delle variabili maggiormente confermate riguarda il periodo di gestazione al momento della misurazione dell’ attaccamento prenatale. Per esempio, in due studi italiani sono stati confermati i risultati di lavori precedenti, ovvero che l’APN aumenta con i mesi di gestazione, in conseguenza al fatto che la madre possa vedere il feto durante le ecografie e inizi a sentirne i movimenti (Della vedova, 2008, Barone, 2014). Inoltre è stato dimostrato come la PAI misuri l’investimento emotivo verso il feto, piuttosto che una generale rappresentazione cognitiva di quest’ultimo, poiché i punteggi all’APN correlavano negativamente con il punteggi alla scala per l’alessitimia, in particolare con l’external oriented thinking (Della Vedova, 2008). Invece sintomi depressivi non influenzano globalmente l’ attaccamento prenatale, ma solo due componenti (misurate attraverso la PAI di Muller, 1993): fantasie e sensibilità, due componenti che non intendono necessariamente sentimenti positivi, come amore o tenerezza, ma riflettono solo l’intensità dell’attaccamento (Barone, 2014).

Per di più l’APN è influenzato non solo da variabili che riguardano strettamente la madre, ma anche relazionali. Infatti vi sono dati che confermano come il rapporto con il partner possa mediare la relazione durante la gravidanza. Per esempio si è visto come le modifiche all’interno della coppia prima dell’arrivo del neonato, misurate attraverso la Dyadic Adjustment Scale, possano influenzare l’APN globale positivamente, e con maggior forza i fattori fantasie e differenziazione di sé dal feto (Barone, 2014). Sorprendentemente la durata della relazione amorosa, invece, correla negativamente con l’APN, portando gli autori a ipotizzare come le coppie che hanno passato più tempo insieme prima di avere un figlio possano essere diventate più resistenti a pensare di cambiare le proprie abitudini di coppia già dalla gravidanza (Della vedova, 2008, Barone, 2014).

Inoltre queste influenze relazionali dipendono anche da come la madre possa vivere la relazione con il proprio partner. In uno studio di Walsh e collaboratori (2014) si è studiato come l’attaccamento romantico della madre possa influenzare l’ attaccamento prenatale. I ricercatori hanno misurato: se le donne potessero avere un attaccamento al partner più ansioso (con la paura dell’abbandono) oppure più evitante (con allontanamento dalle relazioni significative), misurato attraverso la Experiences in Close Relationships Scale Short-Form; e se rispondessero ai bisogni del proprio partner, quindi la misurazione del sistema di caregiving attraverso il Caregiving Questionnaire (Walsh, 2014). I risultati hanno mostrato come l’attenzione ai bisogni del partner sia un mediatore dell’ influenza negativa dell’ attaccamento romantico evitante sull’APN, mentre non esiste una relazione tra attaccamento prenatale e attaccamento romantico ansioso (Walsh, 2014).

In un altro studio, invece, è stato ipotizzato che il supporto sociale dopo la nascita, quindi come la madre immagina che il partner si prenderà cura del bambino, possa influenzare positivamente l’APN, stress e tratti ansiosi (Hopkins, 2018). Queste variabili sono state misurate, rispettivamente, attraverso: il Postpartum Social Support Questionnaire, la MAAS, la Depression Anxiety Stress Scales, e il State Trait Anxiety Inventory (Hopkins, 2018). I risultati ottenuti hanno mostrato come il supporto del partner e l’ansia di tratto fossero in relazione con l’ attaccamento prenatale, ma non lo stress (Hopkins, 2018). In particolare la percezione che il partner si prenderà cura del bambino è legata a punteggi più alti alla MAAS, e potrebbe diminuire la relazione negativa tra ansia e APN (Hopkins, 2018). In accordo con i risultati di Walsh e collaboratori (2014), sembrerebbe che alti livelli di ansia possano distrarre la futura madre dal concentrarsi sul futuro figlio, e quindi sull’ attaccamento prenatale, ma un supporto sociale adeguato può essere un fattore protettivo (Hopkins, 2018).

Nonostante l’APN non sia ancora ben definito, e influenzato da numerosi fattori, gli strumenti per misurarlo risultano validi nel loro utilizzo. Anche se misurano aspetti diversi del modello, sono stati utilizzati per studiare la correlazione tra attaccamento prenatale e variabili misurate dopo il parto, avvalorando l’utilità di inserire tali misure per la prevenzione di situazioni cliniche a rischio, come la depressione postpartum, e sociali, come lo stress genitoriale. Verranno proposti studi longitudinali che mettono in relazione l’APN con variabili misurate dopo il parto, mostrando come questo costrutto possa influenzare non solo la psiche materna ma anche lo sviluppo del bambino.

Attaccamento prenatale ed influenze sull’attaccamento madre-bambino

In uno studio proposto da Alhusen e collaboratori (2013) si è visto come, in un campione di donne con svantaggio socioeconomico, quelle che riportavano un alto APN hanno espresso successivamente uno stile di attaccamento sicuro associato a uno sviluppo cognitivo normale nel figlio. (Alhusen, 2013). In questo studio l’attaccamento prenatale è stato misurato con la MFAS di Cranley (1991), ed è stato messo in relazione a variabili come: andamento del parto (peso alla nascita del bambino e età gestazionale), sintomi depressivi postpartum (Edinburgh Postnatal Depression Scale), stile di attaccamento (Attachment Style Questionnaire), sviluppo del neonato tra 1 e 6 mesi (Ages and Stages Questionnaire) (Alhusen, 2013). I risultati hanno mostrato come un basso APN fosse associato a incorrere maggiormente in uno stile di attaccamento ansioso e sintomi depressivi, e di conseguenza un ritardo nello sviluppo dei bambini (Alhusen, 2013). Nonostante gli autori abbiano testato un campione già a rischio, hanno dimostrato come l’APN possa essere un predittore di possibili esiti avversi sia per la madre che per il bambino.

Diversamente altri ricercatori si sono occupati di come una madre interagisce attivamente con il prorio figlio.

In uno studio di Maas e collaboratori (2015), le donne con punteggi più alti nell’attaccamento prenatale hanno mostrato una sensibilità materna più adeguata sia nelle cure primarie (misurata con l’osservazione del cambio di pannolini) e in situazioni di gioco libero con i propri neonati di 6 mesi. Invece, non sono state trovati significatività tra APN non nell’interazione faccia a faccia senza giochi, non tanto perché queste madri fossero inespressive o anaffettive, anzi riportarono di sentirsi “spiazzate” poiché non si trattava di un tipo di interazione abituale (Maas, 2015). Quindi questo tipo di compito non si è rivelato adeguato allo scopo di vedere se esiste una maggiore connessione emotiva tra madre e figlio correlata all’APN.

Diversamente, potrebbe essere utile misurare quanto il genitore abbia la tendenza a vedere il proprio figlio come un individuo agente e dotato di stati mentali, questa tendenza è detta mind-mindedness (McMahon, 2016). Questa capacità genitoriale può essere inferita dal linguaggio che il genitore utilizza a proposito degli stati mentali del proprio neonato durante le interazioni, quindi se appropriato e se in sintonia (McMahon, 2016). Si possono inoltre utilizzare due misure: una di osservazione dell’interazione, e un’altra analizzando le parole che i genitori esprimono per descrivere il proprio bambino (McMahon, 2016). Si tratta di un tratto cognitivo-comportamentale stabile nel genitore, ed è un indice di sensibilità genitoriale, predetto dall’ attacamento prenatale (misurato attraverso il questionario di Cranley (1981)) (McMahon, 2016). Quindi la sincronia tra gli stati mentali dell’adulto e quelli del bambino, e la comprensione di questi ultimi da parte del genitore possono essere influenzati positivamente dagli stati mentali della madre durante la gravidanza (McMahon, 2016).

Tuttavia, la relazione non è solo misurabile da come ci si prende cura del neonato, e della sensibilità della madre di interpretare correttamente lo stato emotivo del bambino, ma anche come il nuovo genitore si vede come tale.

Infatti è stato mostrato come APN, congiuntamente alle modifiche rappresentazionali nella diade madre-bambino durante la gravidanza, possano influenzare positivamente lo stress genitoriale, che a sua volta è un fattore protettivo per la futura relazione madre-bambino (Mazzeschi, 2015). Lo stress genitoriale può essere visto come la difficoltà di adeguarsi al ruolo di genitore, riflettendo difficoltà del genitore nel vedersi come tale, del riconoscere consapevolmente il proprio bambino e la relazione che si sta instaurando (Mazzeschi, 2015). Lo studio rivelò come l’APN, misurato attraverso il MAAS (Condon, 1993), spiegasse la variabilità nello stress genitoriale, congiuntamente allo stile di attaccamento, dove punteggi più bassi alla MAAS correlavano con uno stile di attaccamento ansioso (Mazzeschi, 2015).

Attaccamento prenatale: le conoscenze ad oggi

Riassumendo, l’attaccamento prenatale (APN) è un’insieme di pensieri che la futura madre ha nei confronti del proprio feto, che aumenta di intensità con l’andamento della gravidanza (Della Vedova, 2008, Barone, 2014). È la concettualizzazione dell’investimento emotivo verso il bambino, piuttosto che di una rappresentazione cognitiva (Della Vedova, 2008). Ciononostante, un basso tono dell’umore non influenza globalmente l’APN, ma solo quei fattori indipendenti da un’affettività positiva (Barone, 2014). Trattandosi di un sistema unidirezionale che si attiva per la cura del futuro bambino, sembra essere sistema di caregiving, piuttosto che di careseeking come quello di attaccamento (Walsh, 2010 e 2014). È influenzato positivamente da variabili relazionali, come l’investimento nel modificare le dinamiche della coppia di futuri genitori (Barone, 2008), come la madre pone attenzione ai bisogni del proprio partner (Walsh, 2014), e se quest’ultimo venga percepito come supportivo una volta nato il bambino (Hopkins, 2018).

In passato la maggior parte degli studi si è focalizzata sulla relazione tra predittori in gravidanza della depressioni post natale (Leigh, 2008), oppure sulla relazione tra rappresentazioni dell’attaccamento durante la gravidanza e attaccamento (Fonagy, 1991) e mentalizzazzione (Arnott, 2007). Ma anche l’APN può essere un indice precoce per individuare campioni a rischio di depressione postpartum (Alhusen, 2013). Inoltre l’ attaccamento prenatale può essere un predittore del funzionamento della diade madre bambino. Infatti alti punteggi alle scale per l’APN possono predire sia come la madre si prenderà cura del neonato che interagirà nel gioco libero (Maas, 2015), che se comprenderà adeguatamente gli stati emotivi del proprio bambino (McMahon, 2016). In aggiunta l’APN è anche un fattore protettivo per lo stress genitoriale (Mazzeschi, 2015).

Quindi l’APN è una dimensione importante da studiare, per la prevenzione di situazioni a rischio e per favorire il benessere psicologico della mamma, lo sviluppo del bambino e la relazione tra i due.

Non vi sono ancora delle linee guida per migliorare l’APN, e alcuni autori hanno ipotizzato che intervenire direttamente su questo costrutto possa avere effetti negativi sull’APN stesso, creando aspettative e aumentando l’ansia dei genitori (Readshaw & Martin, 2013). Potrebbe essere utile agirvi indirettamente. Per esempio, utilizzando delle tecniche per aumentare la consapevolezza di ciò che accade al proprio corpo durante la gestazione (Lovato, 2015), oppure dei propri stati mentali, e quindi tollerarli maggiormente, attraverso letture di auto-aiuto (Milgrom, 2009).

Nonostante questi accorgimenti rimane come l’APN possa essere una chiave di lettura nell’interpretazione e nell’analisi a ciò che accade nella mente durante la gravidanza, senza agirvi direttamente può essere un fattore protettivo per il futuro sviluppo della diade madre-bambino.

I bambini di pochi mesi non sanno parlare, ma sanno ragionare

Secondo un recente studio i bambini, anche se non sanno parlare, sono in grado di fare deduzioni e compiere alcuni tipi di ragionamento logico. Questo sta ad indicare che una certa capacità razionale è già presente nei bambini prima che inizino a parlare. Si tratta di bambini che hanno un anno di vita o poco più e, nonostante la tenerissima età, sanno prestare attenzione e sono in grado di compiere deduzioni. 

 

A spiegare tutto questo sono i ricercatori della John Hopkins University, guidati dall’italiano Nicolò Cesena Arlotti. Gli studiosi si sono concentrati su bambini di 12 e 19 mesi di età, periodo in cui imparano le prime parole e frasi.

I bambini guardavano un’animazione con figure visive ripetute regolarmente, se uno o più elementi cambiava in maniera impropria, in modo cioè da non seguire la logica e non riprodurre ciò che avviene nella realtà, si accorgevano di questa incongruenza e mostravano reazioni di sorpresa.

La ricerca, pubblicata su Science, ha sottoposto 144 bimbi alla visione di alcuni video di animazione nei quali venivano mostrati due oggetti diversi, (A e B), che nel filmato venivano successivamente nascosti da una parete. In seguito l’oggetto A veniva rimosso dal nascondiglio, lasciando l’oggetto B, intuitivamente, dietro la parete. Quando la parete veniva rimossa, al posto dell’oggetto B compariva, talvolta, l’oggetto A, ossia quello che era stato rimosso inizialmente e dunque non avrebbe dovuto logicamente trovarsi lì.

Durante l’esperimento i ricercatori hanno tracciato i movimenti oculari dei piccoli osservando che in media lo sguardo dei bambini si soffermava prevalentemente sulla situazione inattesa, indicando che erano effettivamente confusi.

I ricercatori hanno concluso che i bambini pur non essendo ancora in grado di esprimersi a parole nella loro testa, erano stati in grado di fare un ragionamento usando il processo di eliminazione. Un vero e proprio sillogismo disgiuntivo, ovvero una forma logica di pensiero in cui, se solo A o B possono essere veri, e A è falso, allora B deve essere vero. In sostanza, è la capacità di condurre il processo di eliminazione.

Memoria ed Engram Cells: quando un ricordo chiama l’altro

La nostra memoria sembra essere stimolata dagli stimoli ambientali al recupero di altri ricordi ed esperienze ad essi collegati, che potremmo anche pensare di aver dimenticato. Non è così! La spiegazione è legata all‘aumento dello stato di eccitabilità delle “engram cells” nel nostro cervello.

 

I ricercatori del Picower Institute for learning and memory del MIT in collaborazione con il Trinity College Institute of Neuroscience hanno messo in luce il processo che consente all’animale di recuperare dalla memoria i dettagli di un contesto già esperito precedentemente tramite la temporanea ma maggiore eccitabilità di specifiche cellule dell’ippocampo, eccitabilità che a sua volta intensifica il recupero mnestico facilitando l’accesso a quelle informazioni già codificate. Questo processo consente all’animale di ottimizzare le capacità di recupero mnestico e adattarsi più efficacemente alle circostanze ambientali.

Supponiamo di stare guidando per tornare a casa in un tardo pomeriggio, davanti a noi scorgiamo in lontananza un bellissimo tramonto che ci ricorda il panorama di un cielo già visto durante le nostre meravigliose vacanze estive avvenute qualche anno prima. L’iniziale richiamo in memoria è all’inizio legato in generale alla vacanza estiva avvenuta in precedenza, tuttavia, a seguito del richiamo stesso della vacanza, quel tramonto potrebbe aver facilitato l’accesso ad ulteriori informazioni e dettagli relativi alla vacanza stessa: in particolare con chi eravamo, quali esperienze abbiamo vissuto, quali sono state le nostre sensazioni, dettagli a cui non abbiamo pensato ma che ora ci ritornano alla mente.

Cosa suscita il meccanismo di ricordi “a catena”?

Il nuovo studio di Pignatelli, Ryan, Roy, Tonegawa e colleghi (2018) del Picower Institute, recentemente pubblicato su Neuron, ha riportato il meccanismo per il quale a partire da un cue ambientale (es. il tramonto durante il viaggio in macchina) si attiva in memoria un primo recupero dell’episodio (es. la vacanza) in cui è stato presente quel cue, recupero che a sua volta favorisce un secondo recupero caratterizzato dalla comparsa di altre più vivide memorie contraddistinte da una più ampia ricchezza di particolari (es. cosa è successo durante quella vacanza).

Questo secondo recupero mnestico, grazie al quale ora sono disponibili in modo più florido altre informazioni, è reso possibile, a parere degli autori dello studio, da un cambiamento temporaneo dell’eccitabilità elettrica di specifiche cellule nel giro dentato dell’ippocampo, dette “engram cells”, un insieme di neuroni che all’unisono e in modo sincrono si attivano per codificare una memoria contestuale, episodica.

Nella ricerca presa in considerazione, l’aumento dello stato di eccitabilità di questi neuroni ippocampali si osservava nel momento in cui il topo veniva reintrodotto nuovamente nel contesto che aveva in precedenza codificato in memoria tramite condizionamento avversivo (es. shock elettrico). La comparsa dello shock nel contesto già appreso nel giorno 1 ha determinato un’eccitazione maggiore delle “engram cells” per circa un’ora il giorno 2, quando il topolino è stato reinserito nello stesso contesto.

Lo specifico cambiamento delle proprietà elettriche di queste cellule, vera evidenza proveniente da questo studio (Pignatelli, Ryan, Roy, Tonegawa et al., 2018), ha dirette implicazioni, con un forte valore evoluzionistico di sopravvivenza, sia nei processi di apprendimento che a livello comportamentale: durante quell’ora in cui l’animale è stato reintrodotto all’interno del contesto già appreso come avversivo, a causa dell’aumentata eccitabilità delle “engram cells”, il topo era in grado di differenziare con più precisione il contesto in cui aveva appreso lo shock, da altri contesti con cue ambientali simili al primo, consentendogli di evitare efficacemente i potenziali pericoli, recentemente appresi tramite shock, e di dirigersi in modo adattivo in quegli ambienti che al contrario non contenevano cue avversivi simili al contesto minaccioso.

La riattivazione di informazioni contestuali specifiche, anche se a breve termine, ha migliorato da una parte la capacità di riconoscimento futuro di specifici cue ambientali in termini di accuratezza, senza alcun tipo di alterazione permanente della natura delle tracce di memoria a lungo termine, e dall’altra la risposta comportamentale, che di conseguenza è risultata immediatamente più appropriata alle circostanze ambientali (Pignatelli, Ryan, Roy, Tonegawa et al., 2018).

Le evidenze ottenute da questo studio consistono principalmente nella scoperta di una nuova tipologia di memoria a breve termine, richiamata alla mente e in una modalità più vivida, situata a metà strada tra quelle a breve termine, che persistono per pochi secondi nella memoria di lavoro, e quelle a lungo termine, e infine determinate dall’aumentato stato di eccitabilità delle “engram cells” a seguito di un cue ambientale.

CBT online per il trattamento della depressione: studi di efficacia

La maggior parte delle professioni contemporanee sta sempre più traendo grandissimi vantaggi e sviluppi dalle nuove tecnologie, principalmente dall’utilizzo di internet, ormai accessibile a tutti. 

Adriano Mauro Ellena

 

La professione dello psicoterapeuta non ne rimane ovviamente esclusa. Sono tantissime le piattaforme online che permettono la diffusione autoguidata della terapia cognitivo comportamentale. Ma la domanda sorge spontanea: funzionano davvero?

Se lo sono chiesti anche un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Illinois, i quali hanno voluto verificare, attraverso l’analisi di molteplici studi, l’effettiva efficacia delle piattaforme di CBT online per il trattamento della depressione.

CBT online e depressione:lo studio

Lo studio, pubblicato sul Journal of Medical Internet Research, è il primo a esaminare se gli effetti di questi trattamenti siano stati “enfatizzati” escludendo i pazienti con depressione più grave o con la compresenza di altre condizioni come ansia o abuso di alcol.

I ricercatori hanno esaminato 21 studi preesistenti con un totale di 4.781 partecipanti, concentrandosi sulle applicazioni che forniscono il trattamento con CBT, una forma di psicoterapia che si concentra sul cambiamento dei modelli di pensiero e comportamento per alleviare i sintomi della depressione e altri disturbi mentali.

Precedenti studi avevano esaminato l’efficacia delle singole App di terapia cognitivo comportamentale utilizzando una vasta gamma di metodi.

Prima di questo studio, pensavo che gli studi precedenti fossero probabilmente incentrati su persone con depressione molto lieve, che non avevano altri problemi di salute mentale e che erano a basso rischio di suicidio – ha detto Lorenzo-Luaces, direttore dello studio – Con mia sorpresa, non è stato così, anzi. Ciò suggerisce che queste App e piattaforme possono aiutare un gran numero di persone.

Per Lorenzo-Luaces, le App CBT sono un nuovo importante strumento per affrontare un importante problema di salute pubblica: gli individui con disturbi mentali come la depressione sono molto più numerosi degli operatori di salute mentale disponibili per curarli.

Quasi una persona su quattro soddisfa i criteri per il disturbo depressivo maggiore – ha affermato. Inoltre, ha aggiunto – Se si includono persone con depressione minore o che sono state depresse per una settimana o un mese con pochi sintomi, il numero aumenta, superando il numero di psicologi che possono prenderle in carico (…) Le persone depresse sono anche costose per il sistema sanitario.

Tendono a visitare i medici di pronto soccorso più spesso di altri. Hanno più problemi di salute e la loro depressione a volte impedisce loro di prendere le medicine per altre malattie.

CBT online: efficace per la depressione

Conducendo un’analisi di 21 studi, Lorenzo-Luaces e i suoi collaboratori hanno determinato in modo decisivo che le piattaforme di terapia online riducono efficacemente la depressione.

Una questione centrale era determinare se studi precedenti distorcessero la forza degli effetti di questi sistemi escludendo le persone con depressione grave.

La conclusione è stata che le app hanno funzionato nei casi di depressione lieve, moderata e grave.

Molti degli studi nell’analisi hanno confrontato l’uso delle App CBT con il posizionamento in una lista d’attesa per la terapia o l’uso di una “App falsa” che ha dato deboli consigli all’utente. In questi casi, le app CBT hanno funzionato molto meglio.

Questo non vuol dire che si dovrebbe smettere di prendere i farmaci e fare psicoterapia (…) sia la terapia faccia a faccia che gli antidepressivi possono dimostrarsi ancora più efficaci delle sole App CBT – ha aggiunto Lorenzo-Luaces.

La terapia online può essere considerata vantaggiosa in situazioni in cui l’accesso alla terapia faccia a faccia è limitato a causa di barriere logistiche, come lunghe distanze nelle zone rurali o orari di lavoro inflessibili.

Cool Kids: il programma che insegna ai bambini come gestire l’ansia

Il programma Cool Kids è adatto per bambini dai 7 ai 16 anni ed ha tra i suoi punti di forza il coinvolgimento «obbligatorio» dei genitori e la traduzione dei concetti di psicoterapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’ ansia in formati adatti ai giovanissimi.

Valentina Spagni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

A volte i nostri pensieri sono una specie di mistero. Ci possono far sentire male senza una buona ragione. Se vogliamo risolvere il mistero dei nostri pensieri, dobbiamo agire come un investigatore e trovare le prove dei nostri pensieri. In questo modo possiamo decidere se un pensiero è realistico oppure no. Se non è realistico, possiamo trovare un pensiero più tranquillo per sostituirlo.

Questo è uno dei tanti suggerimenti che possiamo trovare nel Manuale del Bambino del programma Cool Kids, un protocollo di trattamento cognitivo-comportamentale strutturato, basato sull’acquisizione di competenze, che insegna ai bambini e ai loro genitori come gestire meglio l’ ansia.

Sarà per il nome, un po’ attrattivo e un po’ enigmatico; sarà per l’approccio semplice e diretto, che suscita curiosità; sarà per la sua provenienza dalla lontana e un po’ misteriosa Australia, fatto sta che il Manuale si fa leggere tutto d’un fiato anche da un adulto e una volta sfogliato per intero induce a consultare anche gli altri due manuali contemplati dal programma, il Manuale del Genitore e quello del Terapeuta. Cool Kids è infatti un programma triangolare, in cui ogni vertice dà e riceve un contributo proprio e irrinunciabile al conseguimento dell’obiettivo: trattare l’ ansia dell’età evolutiva, insegnando al bambino a riconoscerla e a domarla, senza spaventarlo o creargli inibizioni, con il fondamentale supporto della famiglia, che pure deve «convertirsi» ad un atteggiamento costruttivo nei confronti del problema. È un programma di importanza cruciale per prevenire e trattare un disagio di crescente impatto sulla qualità della vita dell’individuo e della comunità.

I disturbi d’ansia nell’età evolutiva

I disturbi d’ ansia sono tra i disturbi psicologici infantili più diffusi (McLoone, Hudson & Rapee, 2006). L’ ansia infatti è uno stato emotivo che non è presente soltanto nell’adulto ma interessa largamente anche i bambini e gli adolescenti. I bambini riferiscono di provare forme d’ ansia caratterizzate da vera e propria angoscia, forte preoccupazione e apprensione, che possono svilupparsi anche in situazioni obiettivamente non pericolose. L’ ansia e la paura sono esperienze riscontrabili in varie culture, fanno parte del normale sviluppo e generalmente sono transitorie; tuttavia, alcuni bambini provano un livello di ansia che è sproporzionato sia rispetto allo stimolo sia rispetto al livello di sviluppo. Distinguere ansia, paura e fobia è utile per differenziare un comportamento adattivo da uno più disfunzionale. Se infatti, l’oggetto della reazione emotiva è reale si parla di «paura»; se non lo è si parla di «ansia» o di «fobia».

La sintomatologia dei disturbi d’ ansia risulta stabile nel tempo anche se le manifestazioni si modificano a seconda della fase di sviluppo. Ad esempio, se si considera l’età tra i 6 e i 9 anni, l’ ansia e le paure sono più correlate alla separazione delle figure genitoriali; tra i 10 e i 13 anni la paura per la morte e per i pericoli è maggiore, mentre in adolescenza appare predominate l’ ansia sociale e quella di performance (Weems & Costa, 2005).

Da alcuni studi emerge come i disturbi d’ ansia possano rappresentare la patologia psichiatrica più comune in età evolutiva (MeriKangas et al., 2010; Kessler et al. 2012). MeriKangas et al. (2010) stimano che addirittura un terzo degli adolescenti a 18 anni possa ricevere una diagnosi per un disturbo d’ ansia. Kessler et al. (2012) individuano un tasso di prevalenza dei disturbi d’ ansia nell’infanzia e nell’adolescenza che risulta variabile tra il 12% e il 20-25%. Come si nota, si tratta di incidenze comunque elevate.

Tanto più che, oltre a causare angoscia acuta al bambino, ai genitori e al personale scolastico, i disturbi d’ ansia interferiscono significativamente sullo sviluppo educativo e sociale del bambino e persistono cronicamente nell’età adulta (McLoone, Hudson, and Rapee, 2006).

Di qui l’importanza di protocolli di trattamento precoci ed efficaci.

Il trattamento dei disturbi d’ ansia con il programma Cool Kids

Come accennato, il programma Cool Kids è uno dei principali protocolli di trattamento dei disturbi d’ ansia nell’età evolutiva. Il programma è una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale Coping Cat di Philip C. Kendall (1994) e Coping Koala di Paula Barret, Mark Dadds e Ronald Rapee (1996). Si tratta di un trattamento nato in ambito clinico per essere somministrato a bambini specificamente selezionati per sintomi d’ ansia o a rischio di svilupparli, che si basa su ricerche effettuate da istituzioni australiane (la Macquarie University di Sydney, il Royal North Shore Hospital di Sydney e l’università del Queensland) nel corso di un decennio. I principi fondamentali sono descritti in Treating Anxious Children and Adolescents: An Evidence-Based Approach (Rapee, Wignall, Hudson, & Schniering, 2000).

Il punto di partenza del programma è lo screening: con un’intervista clinica e una serie di questionari per bambini e genitori si determina quali bambini possano trarre maggior beneficio dal trattamento. Il programma, che può essere svolto a livello individuale o in gruppo, si articola poi in 10 sessioni, ciascuna dedicata ad un aspetto della psicoterapia dell’ ansia, secondo lo schema seguente:

  • Sessione 1: si spiega ai bambini e ai genitori la natura dell’ ansia e il collegamento fra pensieri ed emozioni; si fissano gli obiettivi specifici per il bambino e si stipula il «contratto» simbolico con la famiglia;
  • Sessione 2: si introduce il «pensiero da investigatore» (essere come un detective che cerca le prove dei pensieri negativi), uno dei cardini del programma, ossia il processo della ristrutturazione cognitiva, presentato in forma di metafora, sia ai figli che ai genitori;
  • Sessione 3: i bambini imparano l’importanza del rinforzo positivo (trovare autogratificazioni per l’impegno nell’affrontare l’ ansia, invece di rivolgersi all’esterno), mentre i genitori lavorano sulle strategie educative utilizzate per gestire l’ ansia del proprio figlio (non dare troppe rassicurazioni che rischiano di confermare la presenza di un pericolo);
  • Sessione 4: con l’esposizione graduale alle situazioni temute, i bambini affrontano le proprie paure e i genitori imparano a sostenerli, anche elaborando la propria paura di esporre i figli a situazioni ansiogene; in questo esercizio si utilizzano visivamente le «scalette» dell’ ansia, grazie alle quali il bambino impara a confrontarsi gradualmente con i propri timori, partendo dal meno intenso;
  • Sessioni 5 e 6: si consolida il lavoro con l’esposizione e si discutono le relative difficoltà;
  • Sessione 7: si discute sullo sviluppo delle abilità sociali e sui comportamenti assertivi;
  • Sessioni 8, 9 e 10: mantenimento dei progressi e consolidamento di quanto appreso.

Il programma Cool Kids è adatto per bambini dai 7 ai 16 anni. Vari sono i suoi punti di forza: il primo è il coinvolgimento «obbligatorio» dei genitori, in quanto studi appositi (Dadds et al., 1992) hanno verificato che detto coinvolgimento accresce l’efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali praticati ai bambini. Altro elemento distintivo è la traduzione dei concetti di psicoterapia dell’adulto in formati adatti ai giovanissimi. I concetti della ristrutturazione cognitiva per combattere i pensieri ansiosi, dell’esposizione alle situazioni temute, della gestione delle prepotenze subite, dell’assertività, sono insegnati sia ai bambini che agli adulti, in modo che tutta la famiglia possa cooperare agli stessi obiettivi con i medesimi strumenti.

A fine trattamento i bambini dovrebbero essere in grado di gestire meglio la loro ansia e affrontare situazioni in precedenza temute con poco o nessun evitamento, indipendentemente dai genitori o dal terapeuta.

I risultati sono decisamente confortanti. Le evidenze statistiche indicano che più dell’80% dei bambini trattati con il programma Cool Kids non rientrano più nei criteri diagnostici dei disturbi d’ ansia o denotano sensibili miglioramenti. Si è verificato che i risultati si mantengono fino ai sei anni successivi al trattamento e si dimostrano costanti anche per bambini con alti livelli di comorbilità oppure provenienti da situazioni di svantaggio socio-culturale. (Lyneham, Abbot, Wignall & Rapee, 2014).

Il lavoro che voi e il vostro bambino avete completato nel corso degli ultimi mesi ha portato, ci auguriamo, ad alcuni grandi cambiamenti nella vita di vostro figlio. Qualsiasi risultato abbiate raggiunto, l’impegno che avete messo merita un grande festeggiamento. Organizzate una festa, una cena speciale o festeggiate l’Ansia Day e date all’ ansia un regalo d’addio. Qualunque cosa facciate, assicuratevi che il bambino si renda conto di quanto siete orgogliosi di lui.

Sono queste le battute finali del Manuale del Genitore, da cui si coglie tutta la tensione partecipativa che innerva il programma, basato sul protagonismo e sull’addestramento di quanti vivono il problema dell’ ansia sulla propria pelle.

Il trattamento dell’ ansia in ambiente scolastico

Il trattamento dell’ ansia infantile è stato tradizionalmente il dominio di centri specializzati, cliniche e psicologi privati. Studi relativamente recenti hanno tuttavia identificato la scuola come un ambiente assai favorevole sia per prevenire sia per trattare i disturbi d’ ansia nei bambini (Fisher et al., 2004; Mifsud & Rapee, 2005; Shortt et al., 2001).

Benché la scuola debba far fronte a molte richieste extracurriculari, vi sono diversi vantaggi nel fornire interventi per la salute mentale attraverso l’ambiente scolastico. I programmi di trattamento collocati nelle scuole aggirano molte barriere: trasporti, costo dei servizi, stigma sociale; il personale scolastico è in posizione privilegiata per il monitoraggio dei bambini, soprattutto di quelli a rischio, e per i conseguenti interventi preventivi e precoci prima dello sviluppo della disfunzione principale (Armbruster, 2002). Le scuole rappresentano situazioni di vita reale che sfidano le ansie del bambino, diversamente dall’ambiente protetto di una clinica tradizionale (Chavira, Stein, Bailey & Stein, 2004). In effetti, la maggior parte dei bambini che fruiscono di un trattamento, lo ricevono dai servizi scolastici (Bums, et al., 1995; Farmer, Stangl, Bums, Costello & Angold, 1999; Hoagwood & Erwin, 1997).

Le scuole possono dunque svolgere un ruolo prezioso nel trattamento e nella prevenzione dell’ ansia. Ciò implica un impegno significativo di risorse umane e finanziarie, che si trovano in continua competizione con altre esigenze, ma che possono tuttavia essere adeguatamente compensate dallo spessore dei benefici sociali derivanti da una efficace prevenzione dell’ ansia nell’infanzia, nell’adolescenza e nell’età adulta (McLoone, Hudson, and Rapee, 2006).

Per quanto riguarda il programma Cool Kids, fino ad oggi è stato sperimentato anche nell’ambiente scolastico per piccoli gruppi di bambini segnalati per disturbi d’ ansia o come soggetti a rischio di sviluppare tali disturbi in futuro. Benché si sia a lungo discusso sulle difficoltà di implementare e valutare i programmi per il benessere psicologico nel contesto scolastico, (Waxman et al.,1999; Rones & Hoagwood, 2000; Evans, 1999) 
il programma Cool Kids è stato valutato nell’ambiente scolastico all’interno di una popolazione di basso livello socio-economico, evidenziando significative riduzioni dei sintomi ansiosi e dei problemi connessi al rapporto figlio-insegnante-genitore (McLoone, Hudson, and Rapee, 2006).

Recentemente, vista l’efficacia del programma Cool Kids su individui con sintomi ansiosi, in ambito sia clinico che scolastico, un gruppo italiano di professionisti ne ha messo a punto una versione adattata ad un utilizzo generalizzato nella scuola, da proporre in via preventiva rispetto a possibili difficoltà ansiose del bambino e come attività di educazione emotiva. Saper gestire le emozioni non è infatti utile soltanto per normalizzare le situazioni ansiogene; serve anche a migliorare sensibilmente le capacità relazionali, di rendimento nello studio e in attività affini.

La scuola, come ambito privilegiato di apprendimento e di crescita personale (Schaffer, 1998), può quindi qualificare la propria missione educativa, valorizzando in modo specifico la dimensione emotivo-relazionale dei bambini. Anzi, lo deve fare, considerando che è compito della scuola aiutare gli alunni a rispondere sia alle sfide connesse all’apprendimento, sia a quelle legate alla gestione del proprio comportamento e alla costruzione delle relazioni con i pari, promuovendo lo sviluppo di abilità di tipo emotivo e sociale (Marini & Menesini, 2012). Ciò indipendentemente dalla presenza di disturbi cognitivi o di situazioni patologiche: si tratta quindi di un ruolo che la scuola è chiamata ad assolvere nei confronti di tutti gli alunni.

Creare nell’intera classe esperienze di apprendimento attraverso le quali l’alunno acquisisce consapevolezza dei propri stati emotivi e dei meccanismi cognitivi che li influenzano, è utile per applicare tali conoscenze nelle situazioni e nelle difficoltà della vita di ogni giorno.

L’utilizzo del programma Cool Kids non soltanto come trattamento terapeutico, ma anche come piattaforma educativa, consente di realizzare i seguenti obiettivi: favorire l’accettazione di sé e degli altri; saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo; favorire lo sviluppo di atteggiamenti positivi verso gli altri; saper individuare i propri modi di pensare abituali; imparare il rapporto tra pensieri ed emozioni; coltivare le emozioni positive; favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del proprio comportamento; saper affrontare le paure e gli stati d’ ansia; prevenire problematiche di condotta e aggressività, come il bullismo; migliorare le relazioni interpersonali all’interno della classe. Riguardo tale sforzo formativo, l’affermazione di Lucia Cucciolotti (2015) ne rappresenta la sintesi perfetta e l’auspicio ideale:

Pensare bene è strettamente collegato con agire bene e la speranza è che questa educazione alle emozioni possa diventare una pratica e uno stile di vita per i bambini, aiutandoli ad affrontare le situazioni quotidiane in maniera più serena, impedendo alle emozioni spiacevoli di prendere il sopravvento.

INTO BDSM: viaggio nel mondo del sesso estremo

Perché il BDSM viene visto come sfumatura erotico-sessuale mentre il sadismo e masochismo, le cui pratiche sono le stesse, vengono considerati delle parafilie?

Luca Daminato e Greta Riboli

 

INTO BDSM è un articolo che nasce con l’obiettivo di informare i lettori circa le pratiche BDSM, illustrando i ruoli, i principi, le pratiche e la cultura BDSM. Guidando una riflessione sulle motivazioni che portano a intendere il BDSM come una sfumatura erotico-sessuale dell’esperienza umana e perché, dal lato opposto, pratiche quali il sadismo e il masochismo vengono invece classificate come parafilie.

Innanzitutto, l’acronimo BDSM raccoglie una serie di significati precisi:

  • B di Bondage: dall’inglese “legame”, espressione dell’accettazione del farsi fare dall’altro tutto ciò che egli desidera. I legami possono rappresentare i più concreti aspetti di tipo fisico, ma anche, e soprattutto, quelli emotivi ed affettivi;
  • D di Domination e Disciplina: la prima si riferisce al piacere di lasciarsi guidare nelle proprie esperienze, emozioni e sensazioni dalla volontà del partner. Disciplina va a rappresentare il fatto che colui che domina nell’atto sessuale impone delle regole al sottomesso;
  • S di Sadismo: dove il gioco tra partner è caratterizzato dalla sperimentazione di una fisicità in cui il piacere è dettato dall’imposizione di sensazioni ed emozioni estreme, nel pieno rispetto dell’altro. La lettera S comprende anche Sottomissione e Schiavitù: nella prima, un partner lascia che ogni azione e ogni sensazione siano guidate dall’altro; nella seconda si sperimenta ciò che si può considerare come un “regalo”: donare sé stessi al partner;
  • M di Masochismo: si riferisce alle persone che hanno imparato a sperimentare attraverso la propria sensorialità, e all’interno di una situazione erotica, quegli intensi stimoli provocati da una sensazione di dolore, apprezzandoli positivamente (Quattrini, 2015).

Va precisato che il BDSM è un gioco, una sfumatura dell’esperienza erotico-sessuale. I comportamenti sessuali sono perlopiù simulazioni, giochi appunto, con ruoli e regole molto precisi.

Tra Dominanti, Sottomessi e Switch

Nelle pratiche BDSM i ruoli vengono assegnati prima che la pratica sessuale abbia inizio, attraverso un “contratto” tra le due parti. I ruoli complementari sono quelli del Dominante (Dom) e sottomesso (sub). Nel BDSM non è detto che una persona si identifichi unicamente nel ruolo di Dom piuttosto che nel ruolo di sub, qualcuno è versatile e interessato a giocare nelle vesti di entrambi i ruoli, in alternanza (Mollaioli & Martini, 2017).

Il Dominante rappresenta la parte attiva del rapporto, da cui deriva ogni azione e situazione creata volta al soddisfacimento sessuale proprio. Questo ruolo permette alla persona che lo ricopre di impartire ordini, decidere meccanismi e cerimoniali, condannare il sottomesso a punizioni e umiliazioni, e scegliere accessori e vestiti per i cerimoniali, simbolo dell’elemento fetish strettamente correlato alla tematica BDSM. Esistono inoltre diverse definizioni del Dominante, come Top, Mistress/Mister, Padrona/Padrone, rigorosamente scritti con la prima lettera maiuscola (nel caso di incontri online) per distinguersi dai sottomessi.

Il sottomesso ha un ruolo passivo, in quanto obbedisce a ordini e direttive del Dominante, senza mai improntare azioni di sua iniziativa. La parte sottomessa ha l’obiettivo di obbedire e provocare il maggior piacere possibile al partner. In questo caso, le definizioni del sottomesso sono slave, schiav* o bottom, scritti in minuscolo, o addirittura tra parentesi, al fine di indicare il proprio ruolo passivo nelle pratiche BDSM.

Un aspetto da non minimizzare è quello della flessibilità delle parti, dove chiunque può scegliere il proprio ruolo, cambiando eventualmente tra sub e Dom nel corso del tempo, o a seconda del partner. All’interno della comunità BDSM, queste persone vengono definite switch.

SSC E RACK, le regole del gioco del sesso estremo: l’importanza del consenso

La pratica del BDSM è caratterizzata da un profondo rispetto tra i partner. Le regole definite all’interno delle pratiche del BDSM allontanano gli individui dai possibili pericoli, descrivendo alcuni fondamenti basati sul rispetto, sull’educazione, sull’equilibrio, sul piacere e sul divertimento (Pitagora, 2013).

Il rispetto e la consensualità sono quindi aspetti fondamentali nelle pratiche BDSM, e a conferma di questo illustreremo i due principi base di tali pratiche: SSC e RACK.

L’acronimo SSC rappresenta i concetti di Sano, Sicuro e Consensuale.

Per Sano si intende evitare ogni tipo di danno fisico o psicologico al partner. A tal proposito è di particolare importanza avere una conoscenza della fisiologia di base, ma soprattutto un approccio al gioco erotico estremo e sicuro. Per questo motivo colui che si approccia al mondo BDSM dovrebbe avere l’accortezza di farsi “iniziare” da chi già conosce e pratica BDSM in quanto un’improvvisazione potrebbe risultare altamente rischioso per il partner sottomesso.

Evitare e prevenire ogni fattore di rischio tramite la conoscenza di sé e del partner, ed avere chiari l’ambiente e il contesto di gioco, gli strumenti e le tecniche del gioco stesso stanno alla base del concetto di Sicuro. Termine che viene associato anche alla capacità di affrontare le emergenze e soprattutto alla capacità di esercitare un autocontrollo.

L’ultimo concetto, Consensuale, ha a che fare con la conoscenza dei desideri, dei limiti personali e del partner.

Molto esemplificativa è la negoziazione dei limiti, cioè il dichiarare con massima sincerità e trasparenza ciò che è concesso o meno mettere in pratica. Come Ayzad (2014) fa notare, la negoziazione dei limiti non va a beneficiare solo il sub, il sottomesso, in quanto più esposti ad eventuali rischi psicofisici ma va a beneficiare anche il Dom, dominante, i quali hanno tutto il diritto di rifiutarsi di eseguire pratiche che in quel momento non desiderano attuare.

Un altro concetto molto importante è quello della safeword, la “parola di sicurezza”. È un segnale che viene deciso preliminarmente dai partner e rappresenta la possibilità di interrompere la pratica immediatamente. Solitamente viene scelta una parola semplice da ricordare e che non si può dire per sbaglio. Nel caso in cui qualche pratica BDSM includa l’impossibilità di parlare viene scelto, di comune accordo, un segnale, un gesto che faccia le veci delle parole.

Tra i partner vige la regola “hurt, not harm”: infliggi sofferenza, non danni. Ancora una volta possiamo ricordare come una sessualità estrema necessiti di regole, grande rispetto ed intelligenza.

Nella vita reale, però, i fatti non seguono sempre il principio SSC.

Ed ecco che entra in scena il secondo principio, RACK, acronimo di Risk-Aware Consensual Kink viene tradotto da Ayzard (2014) come “giochino erotico con rischi di cui si è informati”. Principio che va quasi in opposizione al SSC, in quanto le esperienze stesse del BDSM possono indurre dolore e reale sofferenza alle persone. La safeword, ad esempio, riveste minore importanza a favore del buonsenso e della complicità. Dom e sub sanno entrambi di volere esplorare una certa situazione in cui le sensazioni che ne deriveranno permetteranno loro di raggiungere il più alto livello di complicità, grazie ad una mutua collaborazione.

Rimane da sottolineare che SSC e RACK non sono tra loro scollegate o vicendevolmente escludenti, bensì sono entrambi pilastri fondanti una coscienza dell’erotismo estremo.

BDSM, Sadismo e Masochismo

Se il BDSM viene visto come sfumatura erotico-sessuale, non è lo stesso per il sadismo e il masochismo. Sono simili, e a volte si fa fatica a riconoscerne le differenze, dato che hanno la maggior parte delle pratiche in comune. Quello che più differenzia il BDSM dal sadismo e masochismo lo possiamo ritrovare nelle definizioni di parafilia e disturbo parafilico (Wright, 2010).

Come descrive il DSM 5 (APA, 2013) il termine parafilia denota qualsiasi intenso e persistente interesse diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti.

Nel momento in cui la parafilia viene vissuta con disagio, e capace di arrecare danni a se stesso e/o agli altri, siamo in presenza di un disturbo parafilico (Shindel & Moser, 2011).

Nei set dei criteri diagnostici per ciascuno dei disturbi parafilici, il Criterio A specifica la natura qualitativa della parafilia ed il Criterio B, invece, precisa le conseguenze negative della parafilia, cioè disagio, compromissione o danno ad altri (Lauro, 2018).

Al fine di comprendere a pieno ciò di cui stiamo parlando risulta utile illustra e brevemente il sadismo e il masochismo: nel sadismo, la persona prova piacere nell’infliggere dolore, umiliare, ferire a livello psicofisico. Nel masochismo, invece, la persona prova piacere nel subire tutto ciò.

Il BDSM è un gioco, una sfumatura dell’esperienza erotico-sessuale. I comportamenti sessuali sono perlopiù simulazioni, giochi appunto, con ruoli e regole molto precisi. Il sadismo e il masochismo sono invece orientati verso l’atto reale e non simulato. In modo particolare, nella “versione beta” dell’ICD-11 (2018) il disturbo da sadismo sessuale è caratterizzato da un’intensa eccitazione sessuale, manifestata con persistenti pensieri, fantasie, impulsi o comportamenti sessuali che prevedono l’infliggere sofferenza fisico-psicologica a un altro individuo, che non è disposto a impegnarsi, ossia che non può acconsentire a tale attività.

Nel sadismo, il divertimento lascia spazio ad un oggettivo e reale desiderio di fare del male, che in un secondo momento può esprimere un malessere generalizzato nello stesso individuo sadico (Quattrini, 2015).

Se torniamo ai principi del BDSM (lo SSC in particolare), il disturbo da sadismo e quello da masochismo sessuale trovano uno scavalcamento di tali principi togliendo la dimensione del consenso, del sano e del sicuro.

Perché il BDSM non è considerato una parafilia?

Ci si sta a poco a poco avvicinando a quella che può essere la risposta alla nostra domanda di partenza: perché il BDSM viene visto come sfumatura erotico-sessuale mentre il sadismo e masochismo, le cui pratiche sono le stesse, vengono visti come un qualcosa di patologico?

Le stesse azioni non si modificano, quello che cambia è lo stato emotivo (Quattrini, 2015).

Questa citazione risulta particolarmente utile per arrivare alle nostre conclusioni. Come abbiamo visto BDSM, sadismo e masochismo attuano pratiche molto simili, a volte difficilmente discriminabili.

Ciò che cambia tra queste parti è il vissuto della persona.

Il BDSM, ad esempio, rappresenta un insieme di comportamenti erotico-sessuali collocabili nell’area intermedia: quella dimensione trasgressivo-parafilica del continuum normativo-trasgressivo/parafilia/disturbo parafilico-sex offender. Più lo stato emotivo e caratteristiche della personalità si fanno devianti più ci avviciniamo sempre di più al polo del sex offender.

Il continuum normativo-trasgressivo/ parafilia/ disturbo parafilico – sex offender

Questo continuum, come descrive Fabrizio Quattrini in “ parafilie e devianza” (2015), serve per meglio definire la parola devianza

che non viene intesa necessariamente come espressione sociologica di uno scostamento dalla “normalità”, ma come “fissazione psichica e convinzione narcisistica di un pensiero che rigidamente propizia comportamenti violenti, discriminatori, spesso umiliatori come il bullismo e l’omo-transfobia (Quattrini, 2015).

Diamo quindi uno sguardo veloce al continuum normativo-sex offender:

  • il primo passaggio naturale è la trasgressione che rappresenta l’abbattimento del tabù della sessualità, e l’apertura erotica alla fantasia
  • il secondo passaggio è quello delle parafilie 
  • il terzo passaggio è rappresentato dal disturbo parafilico
  • il quarto passaggio è rappresentato dagli atti tipici dei sex offender, ovvero individui che, utilizzando alcuni comportamenti tipici di parafilie e disturbi parafilici, arrecano danno ad altri per via sessuale

In conclusione

Sperimentare è un ottimo modo di conoscere il mondo, poterlo tollerare e creare una società informata. Concludiamo così questo viaggio informativo INTO BDSM con una citazione di Quattrini, l’autore che ha guidato il nostro excursus:

Una cultura fatta di rispetto e attenzioni per l’altro diverso da sé. Una cultura dove ogni individuo possa permettersi di sperimentare le proprie emozioni svincolandosi dal pregiudizio e dal rischio di rimanere incischiato nello stereotipo della normalità.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

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