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Il ruolo del padre nello sviluppo della depressione infantile

La depressione infantile viene di solito associata, sul piano clinico-terapeutico, esclusivamente alle dinamiche interne alla diade madre-bambino. In realtà, alla nascita, ogni individuo compie il passaggio da una relazione duale ad una triangolazione.

 

Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre. (Freud S., 1929)

Come afferma Green (1983):

Il destino della psiche umana è sempre quello di avere due oggetti e mai uno solo (…). Il padre è presente, contemporaneamente, presso la madre e presso il bambino, fin dall’inizio. Più esattamente fra la madre e il bambino (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Depressione infantile e triade

La funzione del padre è stata molto valorizzata dagli studi di Freud, in particolare nell’elaborazione del conflitto Edipico, nello sviluppo dell’identità sessuale, nello sviluppo del Super-Io e di un codice etico e morale (Baldoni, 2009). L’oggetto paterno si offre anche come “riparatore” dei danni che il bambino inferisce, alla madre o al padre, in fantasia (Funari, 1999).

Il ruolo della figura paterna nella fase pre-edipica è stato però per anni trascurato e lo studio dello sviluppo infantile si è più che altro focalizzato sull’interazione diadica (Baldoni, 2009). Il padre assume in realtà un ruolo importante nei primi anni di vita del bambino, però non tanto nel rapporto diretto con esso quanto più all’interno della triade (Baldoni, 2005).

Infatti, nella prima infanzia, il padre è innanzitutto un oggetto della madre che lo incorpora e lo simbolizza come pene nel ventre materno e, in tale fase, il padre deve tutelare la relazione madre-bambino, svolgendo la funzione di supporto e contenimento emotivo per la madre durante la gravidanza e il post-partum, assumendo quindi una funzione antidepressiva (Klein, 1932; Baldoni, 2005).

La madre reca in sé, la rappresentazione arcaica del proprio padre e del padre dei propri figli e quindi la funzione paterna è data dall’articolazione della mentalizzazione primaria della madre. È la ricerca del desiderio materno, dell’oggetto desiderato dalla madre che porta il bambino a ricercare il padre (Starace, 1999).

L’accesso al padre non è quindi diretto, anzi assume strade più tortuose e basate sulla percezione della “estraneità” e della “esternità”, a differenza invece della funzione materna che è riconoscibile e vivibile in modo immediato (Starace, 1999).

Depressione infantile e fallimento narcisistico

Il padre si pone, nello sviluppo infantile, come un secondo oggetto, come un oggetto d’amore da acquisire. La madre e il suo seno vengono vissuti dal bambino come appartenenti al Sé, mentre il padre, il secondo oggetto, si presenta come estraneo ed esterno al Sé. Infatti, all’interno delle prime organizzazioni fantasmatiche infantili, il padre viene vissuto come una minaccia per i vissuti di fusionalità con la madre ma il ruolo paterno è indispensabile per condurre il bambino verso l’accettazione della realtà e dell’esperienza di separazione e individuazione (Funari, 1999). Il padre, oltre a porsi come limite all’unità duale onnipotente tra madre e bambino, permette anche di rinforzare il Sé del bambino, sottraendolo dall’angoscia di simbiosi, cioè dall’angoscia di essere riassorbito dalla madre che si oppone all’individuazione (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Il padre, inoltre, partecipa attivamente ad un’importante funzione, l’holding, in cui insieme alla madre permette al bambino di delimitare e nominare le varie parti e funzioni del corpo, in modo da creare una rappresentazione mentale di esso (Di Benedetto, 1999).

È chiaro quindi come l’approccio teorico-clinico non può più basarsi solo sulla concezione della depressione in età evolutiva come una conseguenza del disagio libidico-emotivo tra madre e bambino, ma deve anche prendere in considerazione la possibilità che sia un insieme di dinamiche associate alla relazione triadica. La depressione allora non può essere considerata solo una reazione alla perdita dell’oggetto materno ma deve essere colta anche come segnale legato alla perdita, reale o fantasmatica, delle funzioni narcisistiche insiste nella relazione oggettuale triadica. Infatti, il narcisismo, oltre ad essere uno stadio dell’evoluzione della libido, risulta essere anche un modello di funzionamento psichico in cui l’acquisizione di ogni funzione o struttura, è legata non solo agli istinti ma anche alla relazione narcisistica tra il Sé e la persona adulta e la conseguente interiorizzazione di essa nel Sé. Relazione oggettuale e narcisismo non si escludono quindi a vicenda, anzi l’Io si sviluppa proprio attraverso le relazioni narcisistiche con gli oggetti, con i caregivers. La reale distinzione quindi non è tra narcisismo e relazione oggettuale, bensì tra narcisismo infantile e quello maturo. Infatti, solo se avviene un’evoluzione dal primo al secondo, sarà possibile la relazione con le persone come altri da sé (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

La depressione risulta quindi essere la risposta emotiva del figlio al fallimento narcisistico di uno o entrambi i genitori, inteso come perdita traumatica di una persona che dovrebbe assumere una funzione che la psiche del bambino non è in grado di svolgere da sé. Infatti, la depressione patologica si instaura nel momento in cui il bambino, se è ancora allo stadio del narcisismo infantile e quindi non ha potuto compiere il processo di interiorizzazione della funzione, interiorizza l’oggetto che ha perso e che però è indispensabile per il sé ancora immaturo (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Depressione infantile e coppia genitoriale

Il bambino, nella relazione con il padre, vive una forte idealizzazione che deriva dal bisogno narcisistico di sentirsi accolto e riconosciuto dal padre, dalla sua grandezza di adulto e proprio l’accettazione, da parte del padre, di tale funzione permette al figlio di sentirsi parte di tale ideale. Attraverso l’interiorizzazione e l’identificazione, il bambino può acquisire le strutture endopsichiche che gli consentono di svolgere autonomamente quelle funzioni. Quando però la relazione narcisistica è ostacolata da gravi problemi empatici, la funzione paterna si limita ad assumere il ruolo di un Super-Io normativo e castrante e la funzione materna invece diventa colpevolizzante e limitante. In questo modo i genitori non stimolano le capacità maturative del figlio e limitano il suo sviluppo. È giusto però sottolineare come la funzione idealizzante, tipicamente attribuita al padre, e la funzione speculare materna, siano in realtà funzioni interscambiabili e non rigidamente assegnate ad ognuno. Infatti, quando entrambi i genitori riescono a svolgere entrambe le funzioni in modo armonioso, rendono possibile uno sviluppo adeguato della relazione e quindi del figlio, come individuo a sé (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Il normale sviluppo del figlio è quindi garantito dall’affrontare, nella triangolazione, la nuova realtà che si viene a creare con l’individuazione del bambino e dall’accettazione, da parte della coppia genitoriale, della continua evoluzione del bambino, reinventando costantemente i ruoli e le reciproche relazioni del sistema triangolare (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Le radici della depressione si rintracciano quindi, non solo nella perdita dell’oggetto interno investito in modo ambivalente per cui il soggetto teme di averlo distrutto ma, anche nel passaggio dagli aspetti narcisistici a quelli oggettuali. In questo caso, la perdita non riguarda un oggetto ma il fallimento della funzione narcisistica dei genitori (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

È necessario allora, nel trattamento, concentrarsi non solo sul bambino e sulla diade madre-bambino ma includere anche il padre, agendo sulle dinamiche relazionali consce, preconsce e inconsce, sul rapporto genitori-figlio e tra i genitori. La centralità delle dinamiche relazionali profonde genitori-figlio, nei quadri depressivi in età evolutiva, non può non essere considerata ma, anzi deve porsi come elemento strutturante la psicoterapia (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) – Recensione del libro

Il testo Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia racconta la difficoltà di molte persone nel riconoscere le proprie emozioni e di come la terapia possa stimolare una curiosità aperta e onesta per quello che si sta provando verso una maggiore conoscenza di sé.

 

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia è un testo di grande aiuto clinico, da un punto di vista pratico e teorico. Come l’autore Elliot L. Jurist sottolinea, nella psicoterapia moderna vi è un grandissimo interesse verso il mondo delle emozioni in riferimento sia all’identificazione quanto alla loro modificazione e regolazione. Tale attenzione è giustificata dal fatto che i pazienti che arrivano in terapia possono avere molti deficit in tal senso, soprattutto quella categoria di clienti che rientra nei disturbi di personalità. Ma non vogliamo ridurre solo a questo in quanto capita davvero a tutti, in alcune circostanze o momenti di vita, di non afferrare l’emozione che si prova o di non riuscire a gestirla in modo funzionale. Jurist ci tiene a sottolineare che anche i terapeuti non sono immuni dai problemi di identificazione emotiva.

La peculiarità del testo Tenere a mente le emozioni è che, oltre ad avere una narrazione tipicamente tecnica, unisce stralci di episodi clinici, riferimenti letterali e scientifici per chiarire le questioni di volta in volta sollevate. Merito a Jurist per aver reso, grazie a questo interessante intreccio, la lettura fluida e notevolmente scorrevole, senza risultare pesante neppure nei punti più teorici. Inoltre le citazioni ed i riferimenti bibliografici sono di grande interesse e, in base alle evidenze scientifiche che più sembrano essere utili al clinico che è vicino a questo tipo di argomentazioni.

Tenere a mente le emozioni significa: identificazione, modulazione ed espressione emotiva

Il testo è diviso in due macro parti, ognuno diviso in sottoparagrafi.

Nella prima parte si esamina la questione dell’identificare, modulare ed esprimere le emozioni. In particolare l’autore specifica la differenza tra “alessitimia” e quelle che lui stesso definisce come “emozioni aporetiche” per riferirsi alle emozioni poco chiare o confuse. Secondo Jurist per trascendere le emozioni aporetiche bisogna mentalizzarle: grazie all’interpretazione della realtà ed alla comprensione di sé e degli altri, cosa che dovrebbe sempre accadere nella stanze dei terapeuti impegnati nelle sedute, attraverso un esercizio continuo, attraverso l’analisi mentalistica degli episodi. È interessante sottolineare che per “affettività mentalizzata” (AM) si intende un processo attraverso il quale le emozioni sono filtrate dalla memoria autobiografica: il proprio passato e la propria identità influenzano le esperienze emotive attuali e tale influenza deve essere resa esplicita e mediata dalla relazione.

L’identificazione emotiva non è un processo lineare ed è condizionato da tanti fattori come la presenza dell’altro con cui siamo in reazione e, di conseguenza, anche con le sue emozioni e come queste ultime impattano. Il tempo e lo sforzo per identificare le emozioni sono, quindi, estremamente variabili. L’alessitimia implica la presenza di una difficoltà a riconoscere i propri sentimenti ma con il costrutto “emozioni aporetiche” si intende le emozioni vaghe, prive di una netta caratterizzazione, cosa che accade quando sappiamo di provare qualcosa ma non sappiamo cosa sia. Infatti “a=senza” e “poros= accesso”; questa etimologia indica la difficoltà nell’accedere ad un piano di conoscenza esplicito ma non una impossibilità a farlo. Sappiamo che è possibile allenare questa abilità e sviluppare un curioso interesse verso le proprie emozioni, consapevoli che di fronte ad ogni situazione, tutti provano qualcosa e tutti provano qualcosa rispetto a quello che si sente. In tal senso Greenberg (2015) ci dice molto sul ruolo delle emozioni secondarie che hanno il compito di camuffare le primarie. Tra i deficit dell’identificazione riscontriamo spesso un deficit di identificazione semantica, relativo al mancato processo di etichettamento, che può esplicitarsi attraverso una circonlocuzione, cioè l’uso di un giro di parole.

Perché è utile identificare le emozioni? La risposta è che sono utili in termini di sopravvivenza e rendono possibile l’auto-conoscenza in quanto “sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé” ma non è necessariamente connessa al grado di soddisfazione della propria vita (Greenberg (2017): conoscere quello che proviamo non vuol dire essere più felici, ma capire come mai siamo infelici. L’obiettivo ultimo è sapere cosa si prova, perché facilita la comunicazione e l’eventuale condivisione con l’altro e questo è un dato da tenere ben presente all’interno della relazione terapeutica.

La modulazione emotiva si può esplicitare attraverso la mindfulness, che insegna l’accettazione, invece di operare un intervento attivo sulle emozioni, oppure attraverso una rivalutazione cognitiva come descritto nel “Process Model” teorizzato da Gross e Thompson nel 2007 in cui ruolo fondamentale è dato dal processo di regolazione focalizzata sull’antecedente e sulla risposta. Jurist preferisce parlare di “modulazione” invece che di “regolazione”: la regolazione sembra essere connessa al controllo cognitivo mentre la modulazione prevede l’essere responsivi, il fare aggiustamenti per unire ed armonizzare aspetti importati del proprio mondo emotivo. La mindfulness, quindi, permette al soggetto di vedersi come oggetto, amplia la capacità di assumente il punto di vista altrui, favorendo l’empatia invece del distacco o dell’ottundimento. I due modelli si riferiscono a due punti di vista diversi: uno è un modello stimolo-risposta mentre l’altro è basato sull’accettazione non giudicante e compassionevole delle esperienze, anche rispetto alle emozioni dolorose. Vedere le emozioni per quelle che sono senza attribuire un significato precostruito, ottenendo quindi un cambiamento nella relazione tra noi e l’emozione. In tal senso, promuove la possibilità di agire in accordo con i propri valori ed i propri interessi personali. Ogni capacità di modulazione emotiva entra di diritto tra le competenze di una buona agency.

L’espressione emotiva è un processo eterogeneo, culturalmente influenzato e, per questo, non ha un valore universale. Per espressione non si intende solo l’etichettamento verbale ma anche e soprattutto quella non verbale, mediata, ad esempio, dall’espressione del viso, dalla postura, dal corpo. L’espressione può essere interna o esterna: quella interna è quella che si coltiva in terapia. Nel passaggio tra i due piani, è possibile scegliere cosa dire e come dirlo; ad esempio utilizzare il comportamento oppure farlo solo a livello verbale. Possiamo amplificare oppure inibire le emozioni allo scopo di condividere qualcosa oppure per ottenere qualcosa. Questo è da tenere bene a mente quando vediamo i nostri pazienti: l’esperire le emozioni ed esprimerle son due processi differenti.

Il corpo è il mezzo attraverso cui il terapeuta può aiutare il paziente a prendere contatto con l’emozione che in quel momento non riesce a identificare. La terapia focalizzata sulle emozioni fornisce numerosi spunti di riflessione. Ad esempio se il paziente non riesce può essere il terapeuta a modulare l’emozione, distinguendo le emozioni primarie, offuscate, dalle secondarie. Se sappiamo che le emozioni hanno un ruolo principale nelle comunicazione con gli altri, la stanza della terapia rappresenta una stanza di allenamento in cui fare prime esperienze emotivamente intense da generalizzare all’esterno.

Il primo capitolo di Tenere a mente le emozioni, che comprende questi tre moduli, trasmette l’idea di una logica sequenziale perché l’espressione emotiva è influenzata dalla capacità di modulazione e quest’ultima è legata alla possibilità di identificarle. Il filo conduttore di tale processo è rappresentato dalle capacità di agency: l’identificazione ne è l’inizio e la modulazione è la concretizzazione e l’espressione emotiva è la realizzazione. Molte persone sono alessitimiche e non sanno quello che bisognerebbe provare in una determinata circostanza, altri sono falsamente consapevoli, fraintendendo le emozioni oppure usandole in maniera idiosincratica. Bisogna stimolare una curiosità aperta e onesta in terapia e questo non è facile in quanto prevede anche il contatto con il dolore, cosa che tutti vorrebbero evitare. Bisogna fare pratica, costruendo le abilità se queste mancano: sono processi di apprendimento e di crescita.

La prima parte del testo si conclude con un breve riassunto delle tematiche affrontate ed apre una prospettiva sull’affettività mentalizzata (AM) e come essa sia collegata all’esperienza emotiva. L’autore sottolinea quindi le implicazioni su un piano pratico clinico nel lavoro con i pazienti.

Allenare la mentalizzazione per migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni

La seconda parte del testo apre, quindi, le sue osservazioni a partire dalla considerazione che è proprio attraverso la mentalizzazione che i pazienti possono migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni. A partire da Fonagy, il costrutto della mentalizzazione è stato connotato da diversi significati.

La definizione di mentalizzazione come la capacità di capire ed interpretare il comportamento in termini di stati mentali, nostri o altrui prende avvio dalla psicosomatica francese e si è diffuso nella psicologia cognitiva più moderna, passando per le teorie a favore della dualità mente corpo e giungendo a quelle che, invece, cercano di superare tale dualismo. La prospettiva psicosomatica francese tende a focalizzarsi molto sul fallimento della mentalizzazione, processo noto in tutti quei pazienti che “dementalizzano”. Secondo le scienze cognitive, invece, la mentalizzazione è soprattutto in riferimento alla lettura della mente come si evince dalle teorie della simulazione e dalla teoria della mente. Nel testo troviamo una digressione teorica abbastanza approfondita circa queste correnti di pensiero, su come esse si siano strutturate e concretizzate e come alcuni autori come Gallagher (2011) stiano cercando di superare (ad esempio, con la sua “teoria interazionista”) o con altre teorie ibride che cercano di incorporare teoria della mente e simulazionismo come si legge in Goleman (1995).

Se quindi alle origini, la psicosomatica francese puntava l’attenzione sulla mentalizzazione come un fenomeno in termini di affetti, impulsi e corpo, le scienze cognitive si focalizzano sui processi di pensiero e mentre la prima scuola riduce tale processo al rapporto che l’individuo ha con se stesso, la seconda lo sconfina puntando più al contesto relazionale. La teoria di Fonagy integra entrambe le prospettive: invece di contrapporre affetti e cognizione, la teoria della mentalizzazione afferma il valore di entrambi attraverso il costrutto dell’affettività mentalizzata (AM): invece di considerare la mente come opaca o chiara, è meglio assumere una prospettiva dimensionale e, invece che focalizzarsi solo sulla propria mente o su quella dell’altro, meglio tenerli entrambi in considerazione. In Tenere a mente le emozioni, l’autore, riprendendo l’ipotesi di Fonagy, la amplia sostenendo che “la mentalizzazione ha a che vedere con la capacità di utilizzare ciò che pensano gli altri come parte della mentalizzazione su di sé” e questo rafforza l’idea che la mentalizzazione altrui è un mezzo potentissimo per mentalizzare su di sé.

Proprio per questo, secondo Fonagy, la mentalizzazine deve essere l’obiettivo di ogni psicoterapia; in realtà essa media l’efficacia del trattamento facilitando la costruzione di una fiducia epistemica, qualità che rende aperti e curiosi circa le nuove esperienze e le nuove conoscenze (ecco perché si parla di esperienza di apprendimento) e questo cresce e si rafforza mediante la relazione terapeutica. Jurist cita Fonagy:

Detta in maniera semplice, l’esperienza di sentirsi pensati in terapia ci fa sentire abbastanza sicuri per pensare a noi stessi in relazione al nostro mondo, nonché per imparare qualcosa di nuovo rispetto al mondo e alle modalità con cui agiamo al suo interno (Fonagy, Allison, 2014).

Se il ruolo del terapeuta è quello di ascoltare e mentalizzare il paziente, così che quest’ultimo possa guardare meglio se stesso e quindi mentalizzare in autonomia, ciò implica anche che a seguito di una propria mentalizzazione il paziente possa correggere quella effettuata dal terapeuta donando all’esperienza una connotazione di reciprocità sul passato e sul futuro, nel senso che si può fornire un significato al passato e può orientarci con consapevolezza al futuro, favorendo un sempre più ampio senso di agency personale.

Affettività mentalizzata: di cosa si tratta?

Cosa si intende, allora, per quello che Jurist definisce “affettività mentalizzata” (AM)? E come può la psicoterapia migliorare la mentalizzazione? Il concetto di AM corrisponde a quella parte di teoria della mentalizzazione che concerne diversi aspetti dell’esperienza emotiva come quelli già citati (identificazione, modulazione ed espressione delle emozioni) non solo nel presente ma anche nel ricordo. Se quasi tutta la psicopatologia implica una sofferenza emotiva, ogni psicoterapia deve aiutare il paziente ad entrare in contatto nuovamente con le proprie emozioni ma tenendo conto anche dello stile di personalità, dei valori e di come passato e presente si fondono. Scopo ultimo dell’AM non è, quindi, modulare e trasformare le emozioni ma rivalutarle, rivivendole in una nuova e più consapevole prospettiva nella quale il passato di presenta nella storia attuale, in termini di ricordi sia individuali che culturali. In tal senso l’AM porta a nuovi insight, a nuove interpretazioni ed aiuta ad aumentare gli atti benevoli verso sé e verso gli altri.

L’AM rappresenta il tentativo di far rientrare in un unico concetto la capacità di identificare, modulare ed esprimere le emozioni… porta avanti la sfida di riflettere sulle emozioni riconoscendo le credenze culturali prestabilite senza però dovervisi necessariamente sottomettere (p.140).

in tal senso il passato, individuale e culturale, è un mediatore dell’esperienza presente e futura.

Ovviamente questo implica un legame con la propria memoria autobiografica (MA) e con le narrazioni attraverso cui comunichiamo e diamo valore agli eventi. Sembra che questi due scopi siano perseguiti in base all’uso che ne è stato fatto delle emozioni al loro interno. Secondo Damasio (1994, 1999, 2010) è l’elaborazione della MA che conduce ad una coscienza estesa (si rimanda alla lettura dell’autore per una interessante approfondimento sugli induttori primari e secondari, concetti che ogni terapeuta dovrebbe tenere a mente nel lavoro sulla narrazione autobiografica e rispetto alla distinzione tra proto-sé, sé nucleare e sé autobiografico). Se la MA è essenziale per il funzionamento umano, allora anche la regolazione emotiva è connessa ad esso: per molte terapie, il passaggio a memorie autobiografiche più ricche è un vero e proprio marcatore positivo della terapia che non necessariamente equivale al benessere: l’AM ci fa vedere il dolore di alcune esperienze del passato ma aiuterà a vederlo da una prospettiva diversa ed aiuta a comprendere come esso condiziona il presente: tale elaborazione ci protegge in futuro, mettendoci in condizione di non restarne sopraffatti.

Tenere a mente le emozioni ed esperienza terapeutica

Un capitolo importante è quello riservato all’esperienza terapeutica, al modo di lavorare con l’emozioni e come utilizzare il principio dell’AM che diventa sostegno all’azione terapeutica e uno strumento per la fiducia e la vigilanza epistemica che può essere poi veicolata attraverso la comunicazione. Per azione terapeutica intendiamo ogni azione svolta nella terapia che aiuta il paziente a migliorarsi: è quindi indice dell’impatto che il lavoro sta avendo sul paziente Loewald (1960). Secondo l’autore la relazione terapeutica è caratterizzata dall’amore e vincolata alla verità. L’AM è ciò che rende efficace un’azione terapeutica: aiuta a capire cosa è importante per raggiungere un equilibrio, per superare i momenti di crisi, per alleviare i sintomi. Non per ultimo l’AM facilita la comunicazione.

Senza fiducia epistemica difficilmente ci interessiamo o ci incuriosiamo alle emozioni, proprie e altrui. In terapia, infatti, un paziente che si incuriosisce a quello che accade nel qui ed ora nel setting terapeutico, o nell’indagare il passato ha più probabilità di essere in una terapia che avrà buon esito (Fonagy, 1999).

Portiamo tutti con noi il nostro passato, che ci piaccia o no, e la convinzione che esso non abbia un effetto sul presente e sul futuro è ingenua ed interferisce con la possibilità di vivere una vita realmente significativa. Se nell’AM è coinvolta la MA è necessario aiutare i pazienti a rievocare il passato come qualcosa di affrontabile, di reale, ma anche come qualcosa che non determinerà ciò che ancora deve succedere (p. 174).

Attraverso la relazione, la MA può essere sistematizzata ed ordinata perché crea uno spazio di sicurezza in cui potersi muovere, assegnando il giusto peso alle memorie.

Se il paziente migliora in terapia grazie alla mentalizzazione e non sa necessariamente cosa essa sia, per il terapeuta è diverso: essi mentalizzano e ne condividono i prodotti con il paziente e per stimolarlo in tal senso. In queste condizioni, la mentalizzazione diventa collaborativa e condivisa e per il paziente è un’esperienza nuova, efficace, relazionale. Mentalizzare bene vuol dire sapere quando va fatto e quando no: in quanto attività dispendiosa in termini di risorse interne, sia mentali che emotive, essa segue un percorso poco lineare. Possiamo tutti fallire in alcuni momenti, e possiamo tutti scegliere quando è il momento in cui tale attività non serve come ad esempio nei momenti ludici.

L’AM in terapia, in un clima condiviso in cui si può essere aperti alla mentalizzazione, stimola la fiducia nel confronto con l’altro. Ad esempio il paziente può non essere d’accordo con quello che emerge dalla mentalizzazione del terapeuta ma con curiosità può dirlo e confrontarsi proprio perché all’interno di una relazione e grazie alla fiducia epistemica. Essa spiana la strada alla vigilanza epistemica: sentire di poterlo fare permette di farlo. Anche quest’aspetto di vigilanza deve essere stimolato in terapia, incoraggiando i pazienti a valutare cosa pensano, provano, quali sono le loro credenze e come esse si relazionano agli altri. Ovviamente, il lavoro sulla MA aumenta la vigilanza epistemica. La mentalizzazione delle emozioni aiuta il pz a raggiungere la “granularità” (Barrett, 2016) che comporta il mettere a fuoco le emozioni, guardandole da vicino e con lucidità, all’opposto delle emozioni aporetiche. Quindi la mentalizzazione aiuta a guardare meglio il presente, a dare senso al passato e ad avere una certa prospettiva del futuro.

Conclusioni finali

Considero il testo Tenere a mente le emozioni come un modo per aumentare la consapevolezza di quello che vuol dire fare terapia, in un clima di curiosità, di esplorazione di costruzione prima e condivisione intanto. Molte questioni come quelle connesse all’attaccamento e alla sviluppo in relazione alle capacità di mentalizzazione, vanno lette con attenzione.

Le varie autobiografie mostrano livelli diversi di partenza della capacità di mentalizzare e diversi esempi di come essa si sviluppi all’interno del lavoro terapeutico, in modo strategico, ad esempio lavorando prima sul qui ed ora e poi spostandosi sul passato. Ci sono moltissime indicazioni pratiche da attuare nelle terapie e sono citati degli strumenti come test o interviste che possono aiutare il clinico nella valutazione del grado della capacità di mentalizzazione di partenza del paziente.

Concludo con uno stralcio del testo, rappresentativo di quello che Jurist ha voluto trasmettere nella stesura del testo:

La psicoterapia non rappresenta esattamente un percorso lineare verso la verità. L’amore per la verità comporta soltanto il decidere di perseguirla. Non abbiamo più bisogno di addossarci il fardello dell’assolutezza, rappresentato da idee come “pienamente analizzato”. Il desiderio di conoscere la verità e di comunicarla di conseguenza rimane comunque la parte più entusiasmante e caratteristica del nostro lavoro. È l’amore per la verità a sottostare alla fiducia nel nostro lavoro di terapeuti, nessun paziente termina un trattamento che si è rivelato efficace senza attribuire maggior valore alla verità. Pur riconoscendo i molti e pervasivi modi in cui inganniamo noi stessi non possiamo abbandonare la ricerca della verità. Se i pazienti non arrivano a noi amandola già, idealmente dovrebbero lasciare la terapia avendo sviluppato un amore simile; se un simile amore non nasce entro la fine della terapia, è un vero peccato (pag 184).

 

LEGGI LE ALTRE RECENSIONI DEL LIBRO PUBBLICATE DA STATE OF MIND:

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) L’importanza del conoscere le proprie emozioni – Recensione

 

Tenere a mente le emozioni (2018) di Elliot Jurist – Recensione del libro

Promuovere abitudini più sane, aumentando la consapevolezza delle conseguenze dei propri atti

Per ridurre i comportamenti non salutari, solitamente la ricerca si è focalizzata sulla ridefinizione delle associazioni mentali che si hanno circa un determinato obiettivo. Queste associazioni sono dettate da una formazione “approccio-evitamento” in cui si può imparare ad avvicinarsi ad alcune cose ed evitarne altre.

 

Alla base di ciò si suppone che l’esposizione ripetuta a questi obiettivi, possa rafforzare le associazioni mentali facendo si che da una parte aumentino i comportamenti positivi e dall’altra si scoraggino quelli negativi.

Gli studiosi hanno ipotizzato che questo tipo di funzionamento possa essere alterato dalle convinzioni che le persone hanno circa le conseguenze che seguono un avvicinamento o un allontanamento da un obiettivo. Per verificare questa ipotesi sono stati realizzati tre studi online e uno in laboratorio, in cui hanno partecipato 1.547 soggetti. Ognuno doveva completare una prova digitale in cui bisognava spostare o meno un avatar verso il cibo in un frigo, il cibo poteva essere salutare o, al contrario, cibo spazzatura.

Alcuni soggetti avevano anche la possibilità di visualizzare una barra di salute (non specificamente relativa all’avatar) che migliorava o meno in relazione all’avvicinamento al cibo sano o non sano; altri invece erano spronati a migliorare in modo specifico lo stato di salute dell’avatar attraverso le scelte alimentari.

Dai risultati emerge che i soggetti nella condizione in cui erano invitati a portar avanti un obiettivo di miglioramento della salute dell’avatar, vedendo le conseguenze concrete delle loro scelte, hanno mostrato una valutazione automatica più positiva al cibo sano, anche nella scelta di consumo reale, ed inoltre avevano interiorizzato la relazione tra gli alimenti e le loro conseguenze, rispetto agli altri gruppi di controllo sottoposti ad un metodo classico approccio-evitamento.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Concludendo possiamo dire che i training riguardanti le scelte alimentari hanno un’efficacia migliore quando si ha un obiettivo che richiede di apprendere concretamente le conseguenze specifiche di determinati comportamenti poco salutari.

 

La quota rosa nell’uso, abuso e dipendenza da Alcol

La donna impiega un tempo più limitato dell’uomo per diventare alcolista e sviluppa molto più rapidamente le complicanze epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate all’abuso. Questi fattori la rendono maggiormente vulnerabile agli effetti acuti e cronici dell’ alcol.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Le bevande alcoliche fanno parte da sempre del nostro modo di vivere. Piacciono alla maggior parte delle persone e di solito vengono scelte per motivi diversi. Le bevande alcoliche preferite sono, nell’ordine, il vino, la birra, gli aperitivi alcolici, gli amari. Come qualsiasi altra sostanza però, l’uso massiccio ed eccessivo può dare problemi.

L’ alcol di fatto è una sostanza psicotropa che agisce su quei centri nervosi deputati alla regolazione del piacere e che induce fenomeni di dipendenza psichica, fisica, assuefazione, pericolosità sociale ed individuale. Chi è alcol dipendente ha un bisogno fisico e biologico dell’ alcol e la spinta a bere può coincidere con il desiderio di ripetere esperienze piacevoli, di attenuare sensazioni spiacevoli o entrambi.

L’ alcol però oltre certe dosi è, come tutte le sostanze, tossico. Lo IARC, che si occupa della valutazione degli effetti degli agenti chimici e fisici sul rischio di cancro, ha classificato l’ alcol come agente cancerogeno fin dal 1988. L’ alcol è stato inserito nel gruppo 1, vale a dire quello in cui sono comprese le sostanze per cui esistono sufficienti prove scientifiche della loro capacità di influenzare l’insorgenza dei tumori. Da allora sempre più ricerche hanno chiarito il legame tra alcol e numerose forme tumorali: quello della bocca, della faringe, dell’esofago, della laringe, del seno, del colon, del fegato, del pancreas. Tra questi citiamo la grande indagine EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), i cui risultati relativi alla relazione tra alcol e cancro sono stati pubblicati nel 2011 sul British Medical Journal. Lo studio, a cui hanno partecipato anche ricercatori dell’AIRC, ha evidenziato che il 10% di tutti i tumori che colpiscono i maschi e il 3% di quelli che colpiscono le femmine sono attribuibili al consumo di alcolici. Nel dettaglio, la ricerca ha stimato che l’alcol è responsabile di una quota oscillante tra il 25 e il 44% dei tumori di bocca, faringe, laringe e cavità nasali, del 18-33% di quelli del fegato, del 4-17% dei tumori del colon e del 5% dei tumori al seno femminile.

Conseguenze psicologiche dell’ alcol

Da un punto di vista psicologico, l’ alcol può legare a sé in maniera non più controllata e non più controllabile, ovvero indurre dipendenza. Occorre però prima di tutto chiarire cosa si intende per dipendenza e distinguerla da altre terminologie:

Per intossicazione da sostanze si intende lo sviluppo di una sindrome sostanza-specifica reversibile dovuta alla recente assunzione di una sostanza, con modificazioni clinicamente significative, sul piano comportamentale o psicologico, dovute all’effetto della sostanza, sul sistema nervoso centrale.

L’abuso, che spesso viene confuso col concetto di dipendenza, invece, è una modalità patologica di uso di una sostanza, che porta a menomazione o a disagio clinicamente significativo; ne è esempio l’uso ricorrente della sostanza che può portare a incapacità ad adempiere ai principali compiti connessi con il lavoro, scuola oppure a problemi sociali o interpersonali ricorrenti e persistenti.

Quando parliamo invece di dipendenza inseriamo nel concetto anche il termine astinenza/tolleranza, perdita di controllo, craving, cambiamento di stile di vita e di pensiero, danno fisico, psichico, sociale. Nella dipendenza il soggetto entra in un circolo vizioso nel quale la sostanza assume il controllo ponendo chi ne fa uso nella posizione di “schiavo”.

Il consumo e l’abuso di alcol nell’universo femminile rappresenta un argomento poco trattato in quanto è ritenuto un fenomeno “sotterraneo”. Non è infatti facilmente rilevabile, essendo sovente confinato nel privato o dissimulato per la riprovazione sociale.

Perché si parla di riprovazione sociale? La parola “alcolista” porta con sé una connotazione emotiva molto forte, racchiude in sé le immagini di quello stereotipo sociale e culturale che crea rifiuto in chi ne viene etichettato.

Fattori all’origine della dipendenza da alcol

L’alcolismo viene considerato una dipendenza che include diversi fattori, come i fattori biologici, culturali ed infine quelli psicologici. Non è possibile ricorrere ad un’unica interpretazione per spiegare e comprendere le condotte alcoliche. È però possibile suddividere le cause dell’ alcol dipendenza in due categorie dominanti: cause personali e cause socio-culturali.

Più in generale, il ricorso all’ alcol può essere dovuto sia ad un piacere derivante dalla gradevolezza della sostanza, sia al significato sociale e personale che viene attribuito alla sostanza. Da un punto di vista meramente sociale, spesso si preferisce bere in compagnia e si esce con l’idea che “se bevo mi diverto”. Gli adolescenti bevono per lo più in funzione di un valore di uso dell’ alcol come sostanza disinibente, capace di rafforzare la disinvoltura nelle relazioni piuttosto che per il gusto in sé di consumare le bevande alcoliche; da un punto di vista soggettivo, spesso l’ alcol oltre che come sostanza “socializzante”, può essere usato come forma di auto-medicamento in situazioni di stress, ansia, frustrazioni, bassa autostima e altre situazioni che possono essere ritenute problematiche. Il ricorso all’alcol viene spiegato in quanto portatore di una sensazione di benessere soggettivo, ma soprattutto di fuga dalla realtà. Se l’alcol sembra momentaneamente alleviare uno stato di tristezza o di disagio, tale effetto, una volta svanito ed esaurito, riporta e accentua la situazione iniziale. Queste sono solo alcune di quelle che potrebbero essere definite come cause di tipo personale. Le cause socio-culturali prima enunciate, invece, sono legate a tradizioni, interessi economici, usanze tipiche di quel territorio.

Donne e Alcol

Le donne che hanno problemi legati all’ alcol fanno parte di un gruppo molto eterogeneo in quanto la dipendenza da alcol è diffusa fra le donne di ogni età e appartenenza sociale. Esistono fattori diversificati che influenzano l’andamento del fenomeno. Si parte dai fattori di familiarità genetica e ambientale, per passare a fattori demografici quali l’età, lo stato civile, la professione e le origini etniche.

Le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta e in buona salute non superi un consumo giornaliero di 1 unità alcolica*, mentre l’uomo non deve superare le 2 unità alcoliche. Una unità alcolica corrisponde a:

  • una birra da 33 cl di gradazione normale (4.5 gradi)
  • un bicchiere da tavola di vino (11-12 gradi)
  • un bicchierino (40 ml) di superalcolico (Grappa, Cognac, Vodka)

Bisogna tener presente che il contenuto di alcol di diversi tipi di birra, vino, distillati può variare in modo sostanziale.

Questa differenza dipende dal fatto che l’organismo femminile presenta una massa corporea inferiore rispetto all’uomo, minor quantità di acqua corporea e meno efficienza dei meccanismi di metabolizzazione dell’ alcol (carenza dell’enzima epatico alcol deidrogenasi). A pari quantità di bevande alcoliche, quindi, corrisponde un livello di alcolemia maggiore nelle donne.

Per questi motivi la donna impiega un tempo più limitato dell’uomo per diventare alcolista e sviluppa molto più rapidamente le complicanze epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate all’abuso. Questi fattori la rendono maggiormente vulnerabile agli effetti acuti e cronici dell’ alcol. Oltre a queste patologie, la donna bevitrice presenta un maggior rischio di sviluppare il tumore della mammella.

L’abuso di alcol ha un ruolo rilevante ed incide negativamente anche sulla fertilità. L’abuso di alcol può essere infatti responsabile di una minore produzione degli ormoni femminili, determinando un’insufficienza ovarica che si manifesta con irregolarità mestruale (fino alla scomparsa del ciclo), assenza di ovulazione, infertilità e menopausa precoce. Nella donna che assume contraccettivi orali, inoltre, l’ alcol ingerito resta in circolo più a lungo.

Un discorso particolare va fatto per la donna in gravidanza, periodo in cui va evitato anche un consumo moderato di alcol. L’etanolo, infatti, è in grado di attraversare la placenta e arrivare al feto a una concentrazione di poco inferiore a quella ematica materna. Le cellule fetali, non essendo dotate di enzimi capaci di metabolizzare l’ alcol, ne subiscono gli effetti dannosi in particolare a livello cerebrale e dei tessuti in via di formazione. L’azione tossica dell’ alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico ed intellettivo del feto provocando malformazioni e ritardo mentale più o meno gravi in funzione dei livelli di consumo. Pertanto a causa di tale azione tossica le donne che bevono abitualmente durante la gravidanza hanno una maggior frequenza di aborti spontanei e sono esposte al rischio di partorire neonati affetti da sindrome feto alcolica (FAS – Alcohol Fetal Syndrome). Va sottolineato che il rischio di danni cerebrali al feto esiste anche per le donne alcolizzate da tempo, anche se smettono di bere per tutta la durata della gravidanza.

Nelle donne anziane l’ alcol, anche moderato, può peggiorare ed accelerare la degenerazione della sfera neurologica e psichica. Inoltre spesso la donna anziana è in terapia farmacologia e l’ alcol può interferire con molti farmaci. Estremamente pericolosa è l’interazione tra alcol e farmaci che deprimono il sistema nervoso (sedativi, tranquillanti, ansiolitici, ipnotici). Il comportamento verso l’ alcol delle donne oltre i 65 anni desta particolare preoccupazione, in quanto questa fascia d’età non ha ricevuto in gioventù un’educazione al consumo di alcolici. Prediligono nell’ordine vino, birra e amari nel contesto privato o domestico, spesso continuando a mantenere nascosta la loro abitudine per timori di riprovazione sociale. Questo rende ancora più difficile rilevare eventuali problemi causati dall’ alcol ed è motivo di un riscontro spesso tardivo, ma frequente, di alcol dipendenza tra pensionate e casalinghe della “terza età”. Il periodo della menopausa e lo stato di vedovanza, poi, accompagnati da una minore partecipazione alla vita attiva e alla presenza di limitazioni fisiche dovute all’età, possono favorire fenomeni di abuso che, nel caso degli anziani, determinano problemi già al di sopra del consumo di 1 bicchiere di bevanda alcolica al giorno. Talvolta, oltre i 60 anni l’ alcol viene considerato l’unico elemento di compagnia contro la solitudine.

Dai dati ISTAT si registra nel corso degli anni un incremento della prevalenza delle consumatrici fuori pasto, in particolare, nel corso del 2015 la prevalenza è aumentata di 1,2 punti percentuali; tra le donne l’incremento risulta particolarmente significativo nella classe di età 25-44 anni.

Come agisce la società nei confronti della dipendenza “in rosa”?

L’alcolismo femminile si nasconde spesso tra mura domestiche e silenzi. La famiglia funge da contenitore: si pensa che il tacere, il provare a gestire in famiglia il “problema”, possa illusoriamente portare ad una soluzione. Spesso si finisce col bere di nascosto, in momenti della giornata e luoghi “tranquilli e discreti”, cercando di mascherare.

L’età matura può essere caratterizzata, oggi, per molte donne da un profondo conflitto tra un modello culturale di realizzazione ed affermazione personale desiderato e costruito in gioventù (in un periodo sociale di forte spinta all’emancipazione femminile) e quello realizzato in maturità e che quotidianamente spinge la donna verso ruoli personali fortemente legati ai ruoli di moglie e di madre; una condizione tutt’altro che infrequente e che vede la donna dibattersi tra la necessità di affermarsi nel mondo lavorativo e quello di non poter rinunciare al ruolo tradizionale familiare. È probabile che le donne siano spinte a bere maggiormente in questa fase della vita, verosimilmente più critica per il sesso femminile, a causa di timori di perdita della giovinezza, di riduzione della fertilità e della capacità procreativa, di una mancata realizzazione di progetti giovanili, di bilanci di esperienze affettive e familiari vissute in maniera insoddisfacente. (E. Scafato, 2014)

La donna si rivolge all’ alcol per la sua azione contenitiva, e auto-medicante. Hoar (1983) osserva che il bere nelle donne è correlato a problematiche stressanti dell’ambiente circostante quali malattie mentali, alcolismo, difficoltà occupazionali del coniuge, crisi economica familiare. Egli parla di “casalinga frustrata” e di sindrome del “nido vuoto”, ovvero di un comportamento in correlazione ad un evento specifico che mette in crisi le modalità secondo cui la donna ha organizzato la sua identità psicologica, relazionale e sociale. Un esempio di “casalinga frustrata” viene ben rappresentato anche dai mass media ad esempio nel famoso cartone animato americano “The Simpson” in cui in più di un episodio Marge ricorre all’ alcol per soffocare frustrazioni, insoddisfazioni e altri sentimenti che illusoriamente possono scomparire con l’uso di alcolici.

Alcuni autori quali Steinglass (1976) e Gacic (1977) affrontano il tema di “famiglie alcoliste”. Quest’ultimo parla di coppia alcolica evidenziando l’interazione tra i partner quale fattore che mantiene l’etilismo. Tra i principali fattori di rischio riscontrati (Marshall & Cook,1977) si evidenziano una storia familiare di problemi legati all’ alcol (famiglia di origine con problemi alcol correlati e/o partner bevitore); problemi comportamentali infantili legati alla difficoltà nel controllo e gestione degli impulsi; uso precoce di fumo, alcol e sostanze stupefacenti, che spesso può creare terreno fertile per le multidipendenze ed infine, scarse capacità di gestire eventi dolorosi o stressanti (mobbing ad esempio). Davanti a tutte queste possibilità, il soggetto trovandosi in una situazione di fragilità può cadere vittima delle sostanze. Infine la co-presenza di altri disturbi quali ad esempio la depressione, disturbi dell’umore e alimentari possono favorire l’assunzione di sostanze.

Spesso il ricorrere all’ alcol non dipende esclusivamente da motivi personali e/o problematici ma può assumere i tratti di una consuetudine, socialmente accettata e popolarmente giustificata, che porta a consumare alcolici per abitudine (consumare bevande alcoliche durante i pasti), per mancanza di informazione (per combattere il freddo, per abitudini salutiste come “il vino fa buon sangue”).

Quando si ricorre alla terapia?

In generale riconoscere di avere un problema con l’ alcol è difficile. Spesso si arriva in terapia perché portati da altri, per segnalazioni. In particolare, la percentuale di motivazione intrinseca si affievolisce ulteriormente se si tratta di giovani. Spesso si decide per un intervento multidisciplinare con la possibilità anche di partecipare a gruppi di terapia. In più, spesso durante la terapia si inseriscono anche lezioni psicoeducazione utili a migliorare la qualità di informazioni sul fenomeno alcol.

Nei confronti delle donne esiste un atteggiamento molto stigmatizzante e colpevolizzante, pertanto le donne con problemi di alcol vivono maggiormente l’isolamento sociale rispetto agli uomini. Esiste di fatto un radicato pregiudizio rispetto all’alcolismo femminile che porta a reticenza e scarsa criticità rispetto al proprio disagio, ma anche forte colpevolizzazione e riprovazione sociale. Va osservato che il periodo in cui inizia l’abitudine all’assunzione di alcol è ancora fertile per la donna (tra i 30 e i 40 anni), pertanto spesso il comportamento femminile riceve una forte riprovazione anche per gli effetti che l’ alcol può avere su una possibile gravidanza e in virtù della figura materna che la donna potrebbe potenzialmente ricoprire. L’alcolismo femminile così si consuma spesso tra le mura domestiche, tra colpa e solitudine.

Perché scegliere la diagnosi multidimensionale?

Permette di valutare le problematiche del paziente dal punto di vista sanitario, psicologico, educativo e sociale.

Integra la diagnosi medica, l’inquadramento psicologico-psichiatrico con il funzionamento sociale del paziente e la sua storia familiare.

In più prevede la raccolta di informazioni, utili per valutare in quali aree si sviluppano le condizioni maggiormente problematiche e suscettibili di intervento, in una persona sofferente.

Da molte testimonianze si evince che chi decide di intraprendere un percorso riabilitativo, soggetto a ricadute, riscopre e scopre se stesso.

Genitorialità e neuroscienze: gli abbracci che danno nutrimento

Il bisogno di attaccamento è un bisogno innato ed evolutivamente preordinato che spinge ogni neonato a ricercare la vicinanza con il proprio caregiver. L’assenza di una risposta adeguata da parte dei genitori comporta importanti conseguenze sullo sviluppo del bambino.

 

Il neonato è messo al mondo senza gli strumenti necessari per fronteggiarlo, presenta un’immaturità psichica e fisiologica (Gardner, 1996). Il suo cervello è solo un quinto del cervello umano adulto, che si svilupperà in un processo maturazionale lungo oltre i quindici anni (Giedd, 2004). La specificità dell’ambiente con la quale interagisce deciderà quali connessioni neurali saranno formate e rinforzate (Edelman e Tononi, 2000), darà modo alle potenzialità latenti del bambino di svilupparsi (Gardner, 1996).

Lo stato d’impotenza e vulnerabilità che caratterizza il neonato comporta un bisogno di protezione, vicinanza, ovvero un bisogno di attaccamento (Bowlby, 1982). Il legame di attaccamento è appunto quella relazione stabile che si crea tra bambino e adulto utile a garantire al piccolo benessere, protezione, e in generale la possibilità di sopravvivere (Wiggins, 2000). Bowlby ipotizza l’esistenza di una predisposizione innata del cucciolo di umano alla vicinanza dell’adulto, utile alla sua sopravvivenza, e dall’altra parte una propensione dell’adulto all’accudimento, al prendersi cura del piccolo (De Coro, 2010). L’ attaccamento e l’accudimento sono concepiti come sistemi motivazionali o comportamenti innati, selezionati poiché adattivi in termini evoluzionistici (McLean, 1984).

L’ attaccamento come bisogno fondamentale dell’individuo

Il ruolo fondamentale della vicinanza al neonato di un adulto si osserva in diversi studi di cui possiamo considerare Spitz un pioniere. Tra il 1945 e il 1946, René Spitz, psicoanalista austriaco, osservò gli effetti devastanti della separazione del bambino da chi se ne prendeva cura. Nel suo studio (Spitz, 1945; Spitz, 1946) prese in considerazione 91 bambini di un orfanotrofio, osservando che i primi mesi di protesta, con pianti e lamentele, lasciavano gradualmente il posto a uno stato letargico, e che circa il 37% dei quali morì entro il secondo anno di vita (Spitz, 1972). Le cure materiali dell’orfanotrofio erano dunque necessarie ma non sufficienti per un sano sviluppo dell’infante. Spitz definì “ospedalismo” i disturbi fisici e psicologici conseguenti a una totale assenza di un rapporto del piccolo con la madre, e parlò di “depressione anaclitica” per descrivere la sintomatologia infantile nel caso in cui il rapporto con la figura materna c’è stato per un breve periodo per poi interrompersi, come ad esempio in seguito alla morte materna (Spitz, 1972).

Bambini che possono godere di un contatto fisico con figure significative, presi in braccio, toccati, sviluppano un cervello più grande, con connessioni più forti tra le cellule cerebrali rispetto ai bambini deprivati (Wiggins, 2000; Kandel, 2005). La stimolazione da parte dell’ambiente esterno influenza i sistemi cerebrali che si occupano della regolazione emozionale, questi ultimi influenzano a loro volta la secrezione ormonale e la produzione di neurotrasmettitori. La regolazione emozionale del bambino inizialmente è controllata dall’ambiente esterno, dal caregiver, successivamente il bambino sarà capace di un auto-controllo (Shore, 1994). È proprio tramite l’apprendimento, inoltre, che si sviluppano le connessioni sinaptiche (Kandel, 2005). Tale stimolazione esterna incide sulla dimensione stessa del cervello (Thompson, 1990). In studi su animali, è stato osservato che ratti allevati in un ambiente stimolante, caratterizzato dalla presenza di giocattoli o altri topi, sviluppavano un cervello di dimensioni maggiori rispetto a ratti abbandonati in gabbie vuote (Gopnik, Meltzoff e Kuhl, 1999). Caratteristica che si trasmetteva a livello intergenerazionale, i ratti cresciuti in ambienti stimolanti generavano una prole con una corteccia più spessa (Gopnik, Meltzoff e Kuhl, 1999).

Attaccamento e sviluppo della personalità, le conseguenze di cure genitoriali inadeguate

Le ripercussioni psicologiche di cure genitoriali inadeguate o del sentirsi completamente rifiutati dalle proprie figure significative sullo sviluppo della personalità del soggetto possono essere diverse: dall’ostilità, all’aggressività, bassa autostima e autoefficacia, insensibilità o assenza di una risposta emozionale, così come illustrato dalla teoria dell’Accettazione – Rifiuto di Rohner (Rohner e Carrasco, 2014). L’attivazione cerebrale al rifiuto è sovrapponibile alle aree che si attivano in risposta al dolore fisico nel soggetto (Khaleque e Rohner, 2012), con una differenza sostanziale; come ci sottolinea lo stesso Rohner, differentemente dal dolore fisico, il dolore emotivo conseguente al rifiuto si riverbera negli anni, può tornare alla memoria ed essere rivissuto in continuazione nell’intero ciclo di vita del soggetto (Khaleque e Rohner, 2012). La meta analisi di Rohner e Khaleque permette di ridimensionare il ruolo predominante dato alla figura materna nello sviluppo sano del bambino sottolineando come anche il padre rivesta un ruolo importante. L’influenza di un rifiuto da parte della figura paterna sembra addirittura maggiore rispetto all’influenza di un rifiuto da parte della madre (Khaleque e Rohner, 2012).

In conclusione

L’essere genitori o caregiver di un neonato rappresenta, quindi, una funzione determinante di estrema importanza, oltre che complessa, nella regolazione dello sviluppo fisico e psichico del bambino.

Come impatta lo stress sulla salute riproduttiva maschile?

L’ infertilità maschile sta diventando una crescente problematica nell’ambito della salute, per questo motivo sono in aumento gli studi che ne indagano la natura multi-fattoriale.

Alice Barbieri, Greta Riboli

 

Molti fattori ambientali (il clima, le sostanze inquinanti e le tossine), i miglioramenti tecnologici (i computer e smartphone, la rapida industrializzazione) e i cambiamenti nello stile di vita (come la diminuzione delle attività fisiche e all’esterno) hanno aumentato il numero degli agenti stressanti a cui le generazioni attuali sono esposte quotidianamente.

Lo stress può essere categorizzato come acuto o cronico e uno stress incontrollato può portare a fatica, irritabilità, disturbi del sonno, perdita di capelli, invecchiamento accelerato, immunosoppressione, malattie cardiache, ipertensione, depressione, obesità, disfunzione erettile (DE) e appunto infertilità.

L’ infertilità è definita come l’assenza di gravidanza dopo minimo un anno di rapporti sessuali non protetti ed è una problematica in aumento: in America circa il 10-15% degli individui che tentano di avere un bambino hanno delle difficoltà nel concepimento. Inoltre, alcuni studi rivelano che circa il 10% delle famiglie americane hanno meno bambini di quelli che desidererebbero.

Storicamente, l’ infertilità di una coppia era attribuita principalmente alla donna, ma nel 30-60% dei casi i fattori sono maschili. Per questo è ora sempre più diffusa la raccomandazione di valutare simultaneamente entrambi i partner per problematiche legate all’ infertilità.

Lo stress è tra i principali responsabili dell’ infertilità maschile

Fattori ambientali, cambiamenti nello stile di vita e richieste sociali hanno aumentato lo stress psicologico e fisiologico a cui le generazioni attuali sono esposte. In particolare, lo stress è uno stimolo per il danneggiamento di alcuni processi come, ad esempio, l’interruzione del normale funzionamento del corpo con ripercussioni dannose a carico delle cellule endoteliali, aumentando così la probabilità di insorgenza di malattie cardiovascolari, alterando il DNA spermatico ed aumentando l’infiammazione. Tutto ciò può essere legato ad un più alto tasso di infertilità maschile e di disfunzione sessuale.

Diversi studi hanno mostrato come lo stress influisce sull’asse HPA e porta a una diminuzione della secrezione di testosterone dalle cellule Leydig, inibendo la spermatogenesi (Nargund, 2015; Bhongade, Prasad, Jiloha, Ray, Mohapatra, & Koner, 2015). Situazioni di elevato stress aumentano il cortisolo per preparare l’organismo a far fronte ad un ambiente ostile (challenging) attivando l’asse HPA, per mantenere un equilibrio dinamico. Uomini afflitti quotidianamente da due o più circostanze stressanti potrebbero avere livelli di testosterone minori, una riduzione della concentrazione e della mobilità dello sperma. Ad esempio, vari studi indicano che gli studenti di medicina hanno meno concentrazione spermatica e mobilità durante gli esami, rispetto che durante il regolare periodo di lezioni.

Dunque, i livelli di stress, lo stile di vita e l’ambiente in cui una persona vive influiscono sulla qualità spermatica e sui cambiamenti nello stato ormonale e, in ultimo, sull’ infertilità maschile.

Una corretta igiene del sonno è fondamentale per il benessere delle funzioni psicologiche e fisiologiche, inclusa la gestione dello stress. I disturbi del sonno dovuti al lavoro a turni in generale riguarda lo stress, i livelli di cortisolo e il ritmo endocrino circadiano, portando a uno squilibrio fisiologico e ormonale, aumentando la probabilità di problemi cardiovascolari, depressione, disfunzione erettile ed infertilità (Kanagasabai, Ardern, 2015). Essendo che il cortisolo regola i livelli di testosterone, ed il sonno influenza invece i livelli di cortisolo, risulta importante dormire sufficientemente per preservare l’omeostasi ormonale.

Uno stress duraturo accompagnato da alti livelli di cortisolo (relazionati allo stress) può contribuire anche all’obesità ed alla sindrome metabolica (MS), stimolando l’asse HPA. L’epidemia dell’obesità globale potrebbe essere collegata all’ infertilità maschile che è associata alla qualità dello sperma (semen) danneggiata. L’obesità può essere associata allo stile di vita dell’individuo e a fattori nutritivi, genetici e ambientali, e può aumentare il rischio di sindrome metabolica includendo diabete, dislipidemie e ipertensione. Gli uomini con MS spesso hanno bassi livelli di testosterone, disfunzione erettile (soprattutto dovuto alla compromissione del flusso sanguigno nel pene), bassa libido, bassi livelli di vitamina D, obesità, depressione, debolezza muscolare, stress e fatica.

In conclusione

I risultati di questi recenti studi ci permettono di comprendere che in primo luogo molti dei fattori trattati che portano all’ infertilità maschile si possono prevenire. Inoltre, i professionisti della salute e le istituzioni governative dovrebbero offrire maggiore educazione riguardo i benefici di uno stile di vita sano, una nutrizione bilanciata, la gestione dello stress e l’attività fisica. Tutti questi fattori possono contribuire a migliorare la salute riproduttiva riducendo i dannosi effetti dello stress ossidativo, delle infiammazioni e dell’invecchiamento prematuro.

In secondo luogo durante il trattamento dell’ infertilità maschile e della disfunzione sessuale, i professionisti della salute dovrebbero attuare una valutazione del paziente comprensiva includendo i livelli fisiologici e psicologici di stress, la qualità e la durata del sonno, la gestione del peso e della nutrizione, l’attività fisica e consigliare lo svolgimento di test in laboratorio ad ampio raggio come ACTH, androstenedione, DHEA, DHEAS, DHT, estradiolo, FSH, glucocorticoidi (cortisolo, corticosterone), LH, PRL, SHBG, testosterone, e vitamin D. Il tutto al fine di favorire un trattamento integrato a 360 gradi, dato che l’ infertilità maschile è multi-fattoriale di natura.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Autismo e differenze di genere: i risultati di un recente studio confermano le tesi dell’Empathizing-Systemizing Theory e dell’ Extreme Male Brain Theory

I ricercatori dell’Università di Cambridge hanno condotto il più grande studio al mondo riguardante le differenze sessuali e i tratti autistici. Hanno testato e confermato due teorie psicologiche: l’ Empathizing-Systemizing Theory delle differenze sessuali e l’ Extreme Male Brain Theory dell’ autismo.

 

Il professor Simon Baron-Cohen, direttore del Centro di ricerca sull’autismo di Cambridge, che ha proposto queste due teorie quasi due decenni fa, ha dichiarato:

Questa ricerca fornisce un forte sostegno a entrambe le teorie.

Autismo e differenze di genere: la ricerca

Grazie alla collaborazione ottenuta con la compagnia di produzione televisiva Channel 4, i ricercatori hanno potuto testare oltre mezzo milione di persone, tra cui 36.000 persone autistiche. I risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences.

Secondo la teoria Empathizing-Systemizing le donne, in media, otterrebbero punteggi più alti rispetto agli uomini nei compiti in cui veniva testata l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere ciò che una persona pensa o sente e l’abilità di rispondere con un’emozione adeguata ad un proprio stato mentale. Invece gli uomini, in media, conseguirebbero un punteggio elevato nei test di sistematizzazione, cioè un insieme di funzioni necessarie per analizzare o costruire sistemi basati su regole. Mentre la teoria Extreme Male Brain sostiene che le persone autistiche, in media, otterrebbero un punteggio inferiore nei test riguardanti l’empatia e un punteggio uguale o superiore nei test di sistematizzazione.

Per il campione si sono utilizzati due database: uno molto vasto composto da 671.606 persone, di cui queste 36.648 autistiche, l’altro di controllo composto da 14.354 persone di cui 226 autistici. In questo nuovo studio i ricercatori hanno utilizzato 10 item brevi per misurare l’empatia, la sistematizzazione e i tratti autistici.

Autismo e differenze di genere

Dai risultati emerge che, utilizzando 10 item brevi, la popolazione femminile, nella media, otteneva punteggi più alti nell’empatia rispetto agli uomini, mentre gli uomini ottenevano punteggi più alti nella sistematizzazione e nei tratti autistici. Questa differenza in base al genere si riduce negli autistici; in media, le persone autistiche ottenevano punteggi più alti nella sistematizzazione e nei tratti autistici e punteggi più bassi nell’empatia. Infine, gli uomini, in media, ottenevano punteggi più alti nei tratti autistici rispetto alle donne. L’indagine ha inoltre appurato che chi lavorava nella scienza, nella tecnologia, nell’ingegneria e nella matematica, tutte professioni che rientrano nella STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), otteneva punteggi più alti nella sistematizzazione e nei tratti autistici rispetto a quelli che non svolgevano una professione “scientifica”. Chi non lavorava nella STEM aveva punteggi alti nell’empatia rispetto ai lavoratori STEM.

Gli autori sottolineano che le due teorie (Empathizing-Systemizing Theory e Extreme Male Brain Theory) sono applicabili solo a due dimensioni delle differenze tipiche tra generi: empatia e sistematizzazione.

Dalla ricerca emerge che, sebbene le persone autistiche abbiano problemi con l’empatia “cognitiva”, ovvero riconoscere pensieri e emozioni altrui, riescano tuttavia a conservare l’empatia affettiva, dal momento che ad esempio si preoccupano per gli altri.

Autismo e neurodiversità?

Questo studio sottolinea alcune qualità e specificità del funzionamento neurocognitivo nell’autismo che riconducono al concetto di neurodiversità, come ad esempio le abilità di sistematizzazione, le capacità di riconoscimento di un modello, un’eccellente attenzione ai dettagli e un’attitudine particolare a capire come funzionano le cose.

L’invito è, perciò, quello di sostenere i loro talenti affinché possano raggiungere il loro potenziale e fornire benefici per la società.

La salute si reinventa in digitale: e-Health e m-Health nella sfida della gestione in rete del paziente cronico

Con smartphone e tablet potremo, tramite apposite app e in qualsiasi luogo e momento, interagire direttamente con lo specialista, monitorare andamento della terapia e parametri fisiologici, avere consigli e suggerimenti in tempo reale, sapere quando e come proseguire col trattamento.

 

Lo scorso Agosto secondo dati Audiweb solo in Italia più di 40 milioni di persone ha speso online più di 2 ore e mezza al giorno; di questi, il 75,1% lo ha fatto utilizzando uno smartphone.

Quanto siamo connessi ci dice anche quanto apprezziamo e ci serviamo di questi mezzi. Sono utili per passare il tempo leggendo giornali online, navigando sui social o giocando con delle app; ci tolgono dall’impasse di non avere tempo di fare acquisti grazie a siti di e-commerce, possiamo prenotare viaggi e vacanze oppure evitare noiose file utilizzando i servizi di pagamento online. Si tratta di mezzi che ci fanno divertire, che ci piace usare, che sentiamo utili, su cui facciamo affidamento. Non stupisce quindi che smartphone, tablet e in generale nuovi device, siano diventati spunto e motore di innovazione anche nell’ambito della medicina e della salute.

Salute digitale: e-Health e m-Health, la salute passa anche dallo smartphone

Col termine e-Health facciamo riferimento all’utilizzo delle tecnologie informatiche e di telecomunicazione in ambito sanitario. L’m-Health può esserne definita una sottocategoria perché riguarda i servizi che sono effettuati attraverso l’uso di apparecchi mobili e wireless come smartphone e tablet. Una prima definizione formale di “e-Health” risale alla fine degli anni Novanta (Eyesenbach, 2001) quando erano già chiare opportunità e sfide che i nuovi mezzi portavano all’attenzione dei clinici, sebbene molte delle tecnologie che ora consideriamo parte della nostra quotidianità solo venti anni fa erano pressoché impensabili. Rinnovare una prescrizione e prenotare appuntamenti online; condividere dati come pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura, indice glicemico, tramite dei software; parlare col proprio medico via webcam comodamente da casa. Questi sono solo esempi di quanto la salute in digitale può supportarci.

L’ e-Health non si limita solo a coniugare internet e medicina ma apre a nuove e importanti riflessioni pratiche, professionali ed etiche.

e-Health e m-Health: nuove opportunità

L’e-Health porta con sé un bagaglio di promesse e aspettative.

La riduzione dei costi della spesa sanitaria è certamente uno dei più importanti punti a favore. L’ e-Health consente ai pazienti di ottenere facilmente servizi sanitari online e di rendere più efficiente il flusso e l’erogazione stessa dei servizi evitando interventi diagnostici o terapeutici non necessari. Monitoraggio costante, prescrizione di farmaci o analisi, visite di controllo, follow up, tutto questo può essere effettuato a distanza.

Al di là degli aspetti pratici cambia la prospettiva per i professionisti della salute e per i pazienti.

I primi possono facilmente comunicare con i colleghi e beneficiare di formazione continua. Nuovi protocolli e standard possono essere condivisi tra dipartimenti migliorando di fatto la qualità della cura: l’efficienza trova spazio anche nel fatto che tutto è tracciabile, monitorabile e a disposizione in qualsiasi momento.

Anche per il paziente le prospettive cambiano. Si parla di engagement: Barello e colleghi (2016) sottolineano l’importanza di un approccio olistico che prenda in considerazione non solo la diagnosi ma anche il contesto socio-culturale e le dimensioni comportamentale, cognitiva, emotiva. Soprattutto quando si tratta di patologie croniche l’intervento deve includere anche il supporto psicologico: la cronicità comporta delle modificazioni significative nella quotidianità del paziente che spesso può sentirsi demotivato e passivo, con comparsa di depressione e bassa autostima (Castelnuovo et al., 2015).

Un’aderenza consapevole al trattamento è un fattore determinante specialmente nel caso di malattie croniche che richiedono monitoraggio costante: adesione e continuità sono fondamentali per una concreta, profonda e responsabile gestione della cura.

L’ e-Health si muove proprio in questa direzione favorendo il coinvolgimento attivo del paziente lungo tutto il percorso terapeutico. Ma c’è ancora qualcos’altro che l’ e-Health promette per un futuro non più così lontano: rendere realmente la sanità accessibile a tutti, anche a popolazioni rurali e meno abbienti, in nome di un’etica della sanità concreta e tangibile.

e-Health e m-Health: come farle funzionare al meglio

Diffusione su larga scala e contenimento dei costi senza rinunciare alla qualità: questi gli obiettivi da centrare per l’ e-Health (Granja et al., 2018). Per migliorarne l’adozione e il successo è importante identificare i fattori che possono influenzare, positivamente o negativamente, il risultato dell’intervento: i progressi nel campo dell’informatica corrono veloci mentre l’evoluzione dei sistemi sanitari è legata ad aspetti burocratici, organizzativi e operativi che influiscono sulla messa in pratica di nuovi protocolli o strumenti, seppur validati dalla comunità scientifica di riferimento.

Granja e colleghi hanno individuato alcune criticità pratiche che interessano i professionisti della salute: aumento del carico di lavoro a fronte di strutture che non sono aggiornate; mancanza di protocolli condivisi per cui rimane a discrezione del singolo l’assumersi o meno l’onere dell’intervento; formazione continua necessaria. La mancanza del rapporto diretto col paziente e il timore che un abbattimento dei costi corrisponda ad un impoverimento della qualità dei servizi generano perplessità.

Anche per quanto riguarda i pazienti bisogna tener conto di possibili limitazioni. Siamo sicuri che la Rete venga considerata affidabile quando si tratta di cure mediche? A questo interrogativo rispondono Norman e Skinner (2006) con l’ e-Health literacy scale (eHEALS) che valuta il livello di competenza e disponibilità percepite nei confronti della salute in digitale. Versioni adattate per diverse fasce d’età e lingua sono state validate in Olanda, Giappone, Cina, Spagna (vedi i lavori di Malcolm et al., 2012; Mitsutake et al., 2011; Paramio Pérez et al., 2015; Sudbury-Riley et al., 2017; Van der Vaart et al., 2011).

L’utilizzo di una tecnologia dipende in larga parte dall’utilità e la facilità d’uso percepite. E che per noi siano utili e facili da utilizzare non c’è ormai alcun dubbio.

e-Health e m-Health: la gestione del paziente cronico

Grazie ai progressi della medicina l’aspettativa di vita si è allungata: screening migliori, diagnosi più affidabili, più mezzi e più capillarità nei servizi. Ciò ha portato un significativo incremento nel numero di pazienti con malattie croniche, condizioni permanenti che devono essere considerate nel lungo termine.

La gestione del paziente cronico pone diverse riflessioni dal punto di vista sanitario, sociale, economico. Vuol dire avere un paziente in carico per anni con costi elevati per il sistema sanitario. Ma vuol anche dire che si tratta di un paziente le cui cure vanno oltre il singolo trattamento e vanno ad influire sulla sua vita quotidiana; comporta una presa in carico coordinata tra diversi servizi e figure professionali, non da ultimo dello psicologo clinico. Nelle patologie croniche l’aspetto psicologico ha un ruolo chiave, dato che lo sviluppo di sintomi di stress, ansia e depressione ha un impatto negativo sulla patologia stessa e sull’aderenza alle cure (Castelnuovo et al., 2015).

Condivisione di informazioni, promozione e istruzione sull’automonitoraggio e coinvolgimento attivo del paziente e del suo contesto di vita familiare e sociale: mettere insieme tutto questo non è facile. Alla creazione di nuovi protocolli e terapie si affianca l’esigenza di gestire in maniera più funzionale la cura. L’ m-Health sembra essere una risposta valida. Ci sono diversi studi che ne evidenziano l’efficacia nel trattamento dell’obesità e del diabete, patologie in qui è fondamentale monitorare periodicamente parametri come livello di glucosio nel sangue, peso, attività fisica, livello di insulina, farmaci, regime alimentare, pressione arteriosa, ecc. (Castelnuovo et al, 2016; 2016; 2017).

Il potenziale dell’m-Health viene messo in luce dal lavoro di Parmanto e del suo team dell’Università di Pittsburgh che nel 2013 ha pubblicato i risultati del progetto iMHealth. Si tratta di un sistema che fornisce al paziente un’app e al clinico un software le cui informazioni sono integrate: quando il paziente aggiorna l’app automaticamente le informazioni sono disponibili anche sul portale del clinico e viceversa. Parmanto e colleghi hanno elaborato questo strumento per una specifica condizione cronica, la spina bifida, una malformazione congenita della colonna vertebrale che comporta un largo ventaglio di disabilità motorie e funzionali; questa costellazione di difficoltà incide in maniera considerevole sulla qualità della vita e sull’umore, spesso depresso in questi pazienti.

Ogni patologia richiede cure diverse che dipendono in larga parte da un’attenta valutazione sia in fase di diagnosi che in corso di trattamento: la possibilità di monitorare in tempo reale e a basso costo diventa un’area di sviluppo notevole proprio per la facilità d’uso e la praticità dei dispositivi mobile.

e-Health e m-Health: portare l’assistenza dove e quando ce n’è bisogno

Siamo connessi sempre, ovunque. Da casa, sui mezzi di trasporto, in ufficio, quando usciamo con gli amici. Internet – gli smartphone in particolare – fanno parte della nostra quotidianità.

Attualmente la maggior parte delle tecnologie digitali sanitarie riguarda singoli servizi come la conferma di un appuntamento tramite sms, referti inviati via mail, app e dispositivi wearable che monitorano singoli parametri. Fino ad ora la maggior parte dei contributi riguarda specifiche app capaci di misurare e tenere traccia di indici come livello del glucosio nel sangue, pressione arteriosa e così via.

Nonostante il loro grande potenziale non sempre lo sviluppo di tecnologie va di pari passo con un aggiornamento organizzativo e amministrativo. Se da un lato vengono abbattuti i costi nel lungo termine, dall’altro è necessario investire per l’implementazione di strumenti adeguati così come per un’adeguata formazione del corpo sanitario.

Al di là di limitazioni pratiche, ci sono anche dubbi e perplessità su aspetti legati alla privacy e qualità della relazione clinico-paziente. Per quanto riguarda i primi la UE si è espressa con il Regolamento generale sulla protezione dei dati (General Data Protection Regulation, GDPR) del 2016, diventato operativo proprio lo scorso Maggio, che regola il trattamento dei dati personali (on e off line) e che va a sostituire le normative precedenti.

La qualità della relazione di cura potrebbe essere compromessa dalla mancanza di una interazione diretta col paziente. L’e-Health non nasce come sostituto di una componente fondamentale del processo terapeutico, la relazione, ma vuole invece essere un valido supporto: i dispositivi devono essere pensati come strumenti attraverso i quali il clinico può avere una visione a 360gradi dello stato psicofisico del paziente nel suo contesto naturale e che possono aiutarlo a monitorare ogni parametro in tempo reale.

L’e-Health porta con sé un nuovo modo di pensare la medicina e la psicologia clinica, un nuovo modo di vedere il paziente, renderlo parte attiva del processo di guarigione e gestione della terapia.

Cambia la relazione tra le parti in una prospettiva che a partire da nuovi supporti ridefinisce e ridisegna in maniera più ampia ruolo e modalità dell’assistenza sanitaria, affinché la salute sia dove e quando ce n’è bisogno.

Ansia sociale: la validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS)

L’ ansia sociale è una condizione di ansia, ovvero di attivazione fisiologica, provata nelle situazioni sociali in cui si è soggetti al giudizio degli altri. La persona si sente come se fosse costantemente di fronte a una commissione d’esame, come se avesse sempre gli occhi puntati addosso, anche in situazioni che non obbligatoriamente prevedono un giudizio.

 

Ne sono esempi andare al ristorante, entrare in un negozio, chiedere un’informazione, conversare con i colleghi. Colui che soffre di disturbo d’ansia sociale ha paura di comportarsi in maniera tale da poter essere umiliato oppure teme che gli altri possano accorgersi della sua ansia e giudicarlo per questo come debole, ridicolo e inadeguato.

Ansia sociale: cos’è

Chi soffre d’ansia sociale, già prima di affrontare la situazione che teme, inizia ad anticipare, con pensieri e immagini, solitamente a carattere negativo, quello che potrebbe succedere, provando di conseguenza un forte disagio, che prende il nome di ansia anticipatoria. A questo tipo di ansia si sommerà quella definita situazionale, ovvero quella vissuta durante l’evento temuto. In questa circostanza, la persona temendo il giudizio dell’altro, tende ad automonitorarsi nel tentativo di prevenire situazioni umilianti e controllare le manifestazioni d’ansia (ad es. tremori, sudorazione, arrossamento, bocca secca) affinché gli altri non le notino. Quando la situazione sociale temuta si conclude, lo stato di malessere o disagio non svanisce. La persona inizia a rimuginare entrando nella fase di valutazione post-evento dove vi è una sovrastima negativa della propria performance, ricordando e ripensando agli aspetti negativi, senza considerare quelli positivi.

Ma quali sono gli strumenti utili per misurare questa condizione che molto spesso non ha un confine netto fra normalità e patologia?

Come per quasi tutte le terapie cognitivo-comportamentali, la valutazione iniziale e la conseguente concettualizzazione del caso è fondamentale al fine di strutturare un percorso terapeutico su misura.

Per quanto riguarda l’assessment abbiamo a disposizione numerosi test che valutano il livello d’ansia sociale nel paziente: tra gli altri la Social Phobia Scale (SPS) che valuta l’ansia relativa ad azioni abituali come mangiare e bere; la Social Interaction Anxiety Scale (SIAS) focalizzata sulla valutazione delle interazioni sociali; la Social Phobia Inventory (SPIN) relativa alla misurazione della gravità del disturbo d’ansia sociale.

Ansia sociale: la validazione italiana della LSAS

Il nostro gruppo di ricerca, facente parte del CEDAS (Centro di Eccellenza per i Disturbi d’Ansia Sociale), sta portando avanti la validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS) che è una scala composta da 24 item; per ciascuno di essi vengono valutati, separatamente, l’ansia/paura legata alla situazione descritta e il grado di evitamento, ovvero quando la persona si sottrae alla circostanza descritta. Nella prima colonna, infatti, viene misurato su una scala Likert a 4 punti, quanto nell’ultima settimana la situazione rende ansiosa o spaventata la persona; nella seconda colonna viene misurato sempre su scala Likert a 4 punti quanto la persona ha evitato o eviterebbe la situazione indicata.

Non essendo presente una validazione italiana della scala, fino ad oggi era utilizzata principalmente per due scopi:

  • avere un punteggio di baseline con cui poter confrontare nuove somministrazioni del questionario durante il percorso di trattamento;
  • a livello qualitativo, per valutare quali situazioni il paziente evita maggiormente e quali situazioni, pur affrontandole, vive con elevata ansia.

Questo utilizzo non era sufficiente dal punto di vista clinico; si è perciò deciso di procedere alla sua validazione essendo uno strumento utile, facilmente fruibile e ampiamente utilizzato.

La validazione italiana della LSAS è stata condotta considerando due campioni, uno di pazienti affetti da ansia sociale e uno estratto dalla popolazione generale. In particolare, il campione clinico era composto da persone che hanno dichiarato di aver ricevuto una diagnosi di Disturbo d’Ansia Sociale da un professionista della salute mentale come uno psicologo o un medico psichiatra.

Ai due gruppi è stato somministrato un questionario contenente la versione italiana della LSAS, adattata in base alle linee guida proposte da Brislin e colleghi (1986), e una serie di strumenti volti a misurare costrutti utili per valutarne la validità convergente e discriminante come ad esempio la Social Phobia Scale e il Beck Anxiety Inventory.

I risultati preliminari mostrano una struttura unidimensionale per le scale ansia ed evitamento in entrambi i campioni. Inoltre, la versione italiana risulta avere una discreta coerenza interna ed un’adeguata validità di costrutto in termini di validità convergente e discriminante. Anche la validità test-retest risulta buona mostrando una sostanziale stabilità delle misurazioni su popolazione generale.

Nel complesso, quindi, i risultati sono incoraggianti rispetto alla possibilità di disporre della LSAS anche nel contesto italiano. Questo non solo faciliterà i professionisti che la utilizzano a fini clinici, ma permetterà un suo utilizzo anche in contesti di ricerca scientifica.

Attualmente l’articolo è in corso di stesura e verrà presentato alle riviste che maggiormente si occupano di questi temi.

Amorù: una rete antiviolenza a Palermo

Il progetto Antiviolenza Amorù è stato presentato ufficialmente lo scorso 22 Ottobre a Palermo nella sontuosa cornice di Palazzo Delle Aquile.

 

Il progetto unisce in una fitta rete collaborativa Associazioni del Terzo Settore,  Comuni, Istituzioni Scolastiche, nell’intento collettivo di fornire aiuto concreto e specializzato nella lotta ad abusi e discriminazioni.

Amorù, una rete assistenziale nata esplicitamente per sostenere donne e minori vittime di violenza lungo un percorso di empowerment personale e sociale, di consapevolezza e riorientamento della propria vita, al di là di ogni possibile abuso di natura emotiva, fisica, economica.

Un percorso che si estenderà per tre anni, da Luglio 2018 a Luglio 2021, nell’area est della provincia di Palermo, e vedrà il rapido succedersi di una nutrita serie di attività portate avanti da una moltitudine di realtà associative, l’Organizzazione Umanitaria Internazionale LIFE and LIFE, realtà operante campo della cooperazione locale e internazionale e degli aiuti umanitari, quale ente capofila, a cui si affiancano virtuosamente, tra gli altri, l’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze “Co.Tu.Le Vi.” e il Centro Studi “Pio La Torre ONLUS”, e da una molteplicità di Istituzioni, dai Comuni della Provincia Palermitana (Villabate, Bagheria, tra gli altri) a diverse istituzioni scolastiche dei Comuni stessi.

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Amorù: un progetto per donne e minori vittime di violenza a Palermo

Attività che richiedono elevate professionalità, investimenti di risorse umane e finanziarie, le ultime delle quali sostenute da Fondazione con il sud, ente no profit nato dall’alleanza tra le fondazioni di origine bancaria e il mondo del terzo settore e del volontariato, per promuovere percorsi di coesione sociale in favore del Mezzogiorno d’Italia.

Attività dal carattere etico, umanitario, sociale che andranno a incidere sul futuro di 2000 donne e 100 minori, coinvolti nel progetto triennale di contrasto alla violenza, frutto del crederci quotidiano di operatori e professionisti dell’autonomia a sostegno delle fasce deboli.

Perché, come in ogni progetto di valorizzazione delle proprie risorse, il credere in se stessi viene rafforzato dalla solidarietà, dalla netta percezione di un sostegno sociale che si muove in direzione della realizzazione di un proprio progetto di vita auspicato, agognato.

Amorù è un progetto che beneficia di una serie di azioni mirate all’informazione, da un lato, e alla presa in carico da parte delle Istituzioni della sofferenza patita e continuamente rivissuta, come accade in ogni evento traumatico di lunga durata, taciuto nel silenzio e nella paura.

Ecco allora la progettazone di incontri tematici di prevenzione primaria rivolti ai giovani, da avviare nelle scuole, a partire già dalla scuola dell’infanzia, nella misura in cui l’educazione all’affettività e al rispetto delle diversità costituisce il requisito imprescindibile per prevenire violenze e prevaricazioni, prima del loro strutturarsi.

A questi momenti di sensibilizzazione si affiancheranno interventi di presa in carico delle donne a cui la rete Amorù è dedicata, attraverso la funzionalità di tre centri di ascolto e di una casa protetta per donne e minori.

Sostegno concreto che non può escludere, nell’ottica di una piena autonomia psicologica e di un benessere personale e relazionale, un’indipendenza di tipo economico: ecco l’idea di azioni di auto-imprenditorialità rivolte alle donne, che si concretizzeranno nella nascita di una cooperativa sociale che gestirà il mandarineto di Ciaculli, noto territorio del palermitano ad alta densità mafiosa, i cui prodotti agricoli saranno poi commercializzati attraverso un’apposita piattaforma di e-commerce.

Genitori elicottero: l’eccessivo controllo genitoriale impatta sull’adattamento scolastico dei figli

Uno studio indaga le conseguenze dei rapporti tra bambini e coloro che nel mondo anglosassone vengono definiti “genitori elicottero”, ovvero quei genitori che prestano estrema attenzione alle esperienze, in particolare educative, dei propri figli. Genitori elicottero, che dall’alto sorvegliano il proprio figlio, come fossero un drone.

 

Uno stile genitoriale di questo tipo può influire negativamente sul benessere emotivo dei bambini e di conseguenza sul loro comportamento in ambito scolastico e sociale. Nonostante sia naturale che i genitori facciano il possibile per tenere i propri figli al sicuro, il presente studio sembra confermare come i bambini abbiano bisogno di spazio per imparare a crescere soli, senza che i genitori sorvolino sopra la loro testa costantemente.

Bambini: usano i genitori per imparare a gestire le emozioni

I bambini sono soliti affidarsi ai caregiver per comprendere le proprie ed altrui emozioni ed i caregiver dovrebbero poter riconoscere in quali casi i propri figli sono in grado di gestire una situazione e quando invece si trovano in difficoltà. Durante la crescita, condurre i bambini verso una maggiore padronanza e capacità di gestione delle situazioni difficili porta ad una maggiore salute fisica e mentale. Un controllo parentale eccessivo potrebbe limitare la crescita ed impattare negativamente sulla capacità di regolazione emotiva dei bambini, sulle loro abilità sociali e relazionali e sui successi scolastici.

La presente analisi, condotta dalla ricercatrice Nicole B. Perry, dell’Università del Minnesota, è uno studio longitudinale durato 8 anni ed è stato condotto su 422 bambini, valutati all’età di 2, 5 e 10 anni. I dati sono stati raccolti durante le interazioni genitori-figlio, dalle risposte segnalate da un’osservazione da parte degli insegnanti e dalle autovalutazioni effettuate dai bimbi di 10 anni.

Le interazioni genitori-figlio sono state osservate sistematicamente dai ricercatori, in seguito alla consegna di giocare come se fossero a casa propria.

I risultati dello studio che ha osservato genitori e bambini

I genitori “elicottero”, durante le interazioni di gioco genitori-figlio guidavano costantemente il bambino nel gioco, dicendogli come giocare con un determinato giocattolo, come pulire dopo la ricreazione, etc. I bambini hanno reagito diversamente a questa intromissione: alcuni diventavano provocatori, altri apatici e altri ancora hanno mostrato atteggiamenti derivanti da uno stato di frustrazione.

Dai risultati è emerso che un controllo genitoriale eccessivo innanzi ad un bambino di 2 anni si associa ad una regolazione emotiva e comportamentale più carente all’età di 5 anni, rispetto ai bimbi con genitori non-“elicottero”. Maggiore è la regolazione emotiva all’età di 5 anni, minore è la probabilità che il bambino abbia problemi emotivi e più è probabile che abbia migliori capacità sociali e sia più produttivo a scuola all’età di 10 anni. Allo stesso modo, all’età di 10 anni, bambini con un migliore controllo degli impulsi hanno mostrato meno probabilità di sperimentare problemi emotivi e sociali e si sono dimostrati più propensi a fare meglio a scuola.

Genitori: dare maggiore autonomia ai bambini è la scelta migliore

L’autore principale dello studio, la dr.ssa Perry, ha affermato

La nostra ricerca ha dimostrato che i bambini con genitori-elicottero potrebbero essere meno in grado di affrontare le difficili richieste di crescita, specialmente nel complesso ambiente scolastico. I bambini che non sono in grado di regolare efficacemente le proprie emozioni ed il proprio comportamento sono più propensi a sperimentare difficoltà nello stare in classe e nel fare amicizie. I bambini che hanno sviluppato la capacità di calmarsi in modo efficace durante situazioni angoscianti e di comportarsi in modo appropriato si sono adattati più facilmente alle richieste sempre più difficili degli ambienti scolastici. I nostri risultati suggeriscono l’importanza di educare i genitori spesso ben intenzionati a sostenere l’autonomia dei bambini verso la gestione delle sfide emotive.

La ricercatrice ha così suggerito che i genitori possono aiutare i propri figli a imparare a gestire le proprie emozioni e comportamenti senza sostituirsi a loro, ma aiutandoli a capire i propri stati d’animo e spiegando loro quali comportamenti possono derivare dal provare determinate emozioni, così come illustrare loro le conseguenze di diverse risposte comportamentali.

Facebook Facebook delle mie brame: la relazione tra utilizzo di social network, selfie e narcismo

Uno studio dell’Università Swansea in collaborazione con l’Università di Milano ha stabilito che un eccessivo uso dei social media attraverso la pubblicazione di selfie è associato ad un aumento di tratti narcisistici negli utenti (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, & Truzoli, 2018).

 

Sebbene siano numerosi gli studi sull’uso problematico dei social network, poco si sa ancora sulla direzionalità temporale delle relazioni tra uso problematico di internet e disturbi della personalità come il narcisismo. Nessuno studio esistente aveva finora indagato se l’iniziale utilizzo problematico di Internet fosse associato a un aumento di tratti narcisistici o viceversa.

I ricercatori del seguente studio hanno analizzato i cambiamenti di personalità in 74 individui dai 18 ai 34 anni, durante un periodo di quattro mesi. È stata presa in considerazione, inoltre, l’assiduità con cui i partecipanti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat) durante il periodo dedicato alla ricerca.

Social network, selfie e narcisismo: la ricerca

Ma cosa intendiamo quando parliamo di narcisismo? Tra le caratteristiche della personalità narcisistica rientrano un esibizionismo grandioso, credenze relative al diritto di ricevere riconoscimenti dagli altri e una tendenza alla manipolazione e allo sfruttamento degli altri. Chiarito ciò, i partecipanti allo studio che erano soliti postare un numero eccessivo di selfie, hanno mostrato un aumento del 25% dei suddetti tratti narcisisti, dunque, oltre il cut-off clinico per il disturbo narcisistico di personalità (in accordo con la scala di misurazione utilizzata). Al contrario, i partecipanti che usufruivano dei social prettamente mediante post verbali (non selfie), non hanno avuto come conseguenza l’aumento, di suddetti tratti, oltre il cut-off clinico.

Un dato interessante riguardo quest’ultimo gruppo è che i partecipanti che avevano ottenuto un punteggio maggiore nella scala dei tratti narcisistici, hanno effettivamente pubblicato un numero più alto di post verbali sui social. In altre parole, i più narcisisti all’inizio dello studio si sono dimostrati più attivi per quanto riguarda i post verbali. In media, durante i quattro mesi di ricerca, i partecipanti hanno usato i social per tre ore al giorno, nonostante qualcuno abbia riportato un utilizzo di 8 ore circa. In percentuale, il social più utilizzato è stato Facebook (60%), a seguire Instagram (25%) e infine, Twitter e Snapchat (13%). I due terzi dei partecipanti adoperavano i social primariamente per postare selfie. Questo studio evidenzia, per la prima volta, la correlazione tra frequenza di utilizzo dei social media e narcisismo in relazione alla pubblicazione di selfie.

Social network, selfie e narcisismo: i risultati

I risultati dello studio suggeriscono che i narcisisti utilizzano per più tempo, durante la giornata, i social media ma soprattutto che la pubblicazione di selfie può assolutamente aumentare i tratti narcisistici. Secondo i ricercatori dello studio, se si dovesse considerare il campione come rappresentativo della popolazione generale, almeno il 20% delle persone potrebbe essere soggetto a sviluppare suddetti tratti narcisistici in base all’eccessiva pubblicazione di selfie nei social media. L’aumento di tali problemi di personalità potrebbe essere dovuto al fatto che, postando immagini di sé sui social, l’individuo si sentirebbe ancora di più al centro dell’attenzione. La mancanza di una censura sociale immediata e diretta potrebbe, inoltre, accentuare aspetti della loro personalità narcisista: si percepiscono sotto una luce grandiosa e intensificano le loro fantasie di onnipotenza (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, & Truzoli, 2018).

Psicopatia e capacità di decision-making

La psicopatia è un disturbo di personalità caratterizzato da comportamento antisociale e distacco affettivo ed interpersonale (Benning, Patrick, Blonigen, Hicks, e Iacono, 2005). La diagnosi si basa generalmente sulla valutazione di due principali dimensioni: il distacco emozionale ed il comportamento antisociale.

Eleonora Poli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cogniva e Ricerca, Venezia Mestre


La prima dimensione della psicopatia include tratti di personalità come senso di grandiosità ed egocentrismo, superficialità affettiva, mancanza di empatia, mancanza di rimorsi o sensi di colpa, charme superficiale, tendenza a mentire e manipolare gli altri. La componente antisociale si manifesta invece con comportamenti impulsivi e violenti, problemi della condotta in età precoce, delinquenza giovanile, predisposizione ad annoiarsi facilmente e conseguente ricerca di esperienze estreme, scarsa capacità di organizzarsi e pianificare le proprie azioni future, irresponsabilità. Il disturbo colpisce circa l’1% della popolazione generale ed il 15-20% di criminali detenuti (Hare, 1991).

Psicopatia: cos’è

L’attuale concettualizzazione della psicopatia è stata influenzata dagli studi di Cleckley (The Mask of Sanity, 1976), il quale elencò 16 criteri diagnostici che potevano essere utilizzati per identificare le persone con il disturbo. Particolare enfasi veniva posta sulle scarse abilità affettive ed interpersonali dello psicopatico (superficialità, incapacità di amare, mancanza di rimorsi, mentire patologico) e sul suo comportamento antisociale (scarso controllo degli impulsi, assenza di pianificazione, incapacità di apprendere dalle esperienze passate, delinquenza, stile di vita parassitario). Questa nozione di psicopatia è stata poi operazionalizzata negli anni seguenti con messa a punto della Psychopathy Checklist (Hare, 1991), la quale comprende 20 items atti a misurare queste due dimensioni del disturbo.

Gli psicopatici non mostrano alcuna preoccupazione riguardo gli effetti che le loro cattive azioni possono avere sugli altri, o addirittura su loro stessi. Spesso commettono crimini impulsivi e non pianificati, persino quando la probabilità di essere scoperti e puniti sono elevate. Alla base di tali comportamenti sembrerebbe esserci un’incapacità di apprendere informazioni associate alle punizioni e di rispondere in maniera appropriata ad esse. Ad esempio sono stati trovati deficit in compiti di condizionamento avversivo (Flor, Birbaumer, Hermann, Ziegler, e Patrick, 2002) ed in compiti di apprendimento passivo dell’evitamento (Blair e colleghi, 2004; Newman e Kosson, 1986), una ridotta capacità di riconoscere espressioni facciali negative (Blair e colleghi, 2004) e una risposta elettrodermica deficitaria in risposta ad espressioni vocali negative (Verona, Patrick, Curtin, Bradley e Lang, 2004).

Essendo incapaci di imparare dalle punizioni, le persone con psicopatia manifestano spesso comportamenti impulsivi, perseveranza ed una sostanziale incapacità di inibire la scelta di opzioni precedentemente vincenti nel momento in cui un cambiamento della situazione le renda svantaggiose (Whiteside & Lynam, 2001).

I compiti di decision making vengono in genere utilizzati per indagare la capacità dell’individuo di selezionare la scelta ottimale tra una varietà di possibili opzioni, di predire eventi positivi o negativi e di imparare a regolare il proprio comportamento in base alla ricezione di premi e punizioni. Tali processi sono influenzati sì dal ragionamento cognitivo, che richiede una valutazione di rischi e benefici associati ad una determinata scelta, ma anche dall’elaborazione emozionale, che valuta l’attivazione affettiva in risposta alle diverse possibilità e può guidare le nostre decisioni in maniera più o meno consapevole (Seguin, Arseneault, e Tremblay, 2007). Da tali premesse si deduce come un compito di decision-making possa rivelarsi uno strumento utile per indagare le risposte maladattive o perseverative negli psicopatici.

Psicopatia e decision making

Esistono diversi test costruiti con lo scopo di investigare le capacità di decision making degli individui. Uno strumento valido e piuttosto diffuso è l’Iowa Gambling Task, messo a punto nello specifico per esaminare la sensibilità a premi e punizioni nella vita di tutti i giorni ed incentrato sugli aspetti emozionali nella presa di decisioni economiche (Bechara, Damasio, Damasio, e Anderson, 1994). Durante il compito viene chiesto all’individuo di pescare delle carte da gioco da due possibili mazzi: un mazzo di carte porta a guadagnare grosse somme di denaro, ma perdite ancora più elevate (mazzo svantaggioso), mentre un secondo mazzo permette di vincere esigue somme di denaro, ma perdite ancora più ridotte. Sul lungo termine diventa quindi evidente come convenga pescare dal mazzo che porta ad accumulare piccole somme di denaro.

Van Honk, Hermans, Putnam, Montagne e Schutter (2002) hanno esaminato, in partecipanti con alti e bassi tratti di psicopatia, le performances all’Iowa Gambling Task. I risultati hanno dimostrato come i partecipanti con alta psicopatia non imparassero dai feedback negativi (perdita di denaro) che ricevevano durante il compito e manifestassero quindi comportamenti maladattivi, confrontati con i non psicopatici.

Newman, Patterson e Kosson (1987) hanno chiesto a psicopatici e non-psicopatici incarcerati di eseguire un compito monetario del tutto analogo all’Iowa con l’obiettivo di esaminare le loro risposte perseverative. Anche in questo caso gli psicopatici compivano scelte non vantaggiose e perdevano maggiori somme di denaro durante il compito. Blair, Morton, Leonard e Blair (2006) hanno studiato la capacità di decision making in persone con psicopatia usando il Differential Reward/Punishment learning task, nel quale i partecipanti dovevano scegliere tra due oggetti che erano associati a differenti livelli di premio o punizione. I dati, anche in questo caso, hanno rivelato una significativa difficoltà, negli psicopatici, nello scegliere tra oggetti con diversi livelli di premio o punizione.

Psicopatia e incapacità di posticipare la ricompensa

Koenigs, Kruepke e Newman (2010) hanno somministrato l’Ultimatum Game ed il Dictator Game ad un gruppo di psicopatici e ad un gruppo di controllo. Nell’Ultimatum Game un primo giocatore decide come dividere una somma di denaro tra sé e un secondo giocatore, mentre quest’ultimo può decidere se accettare o meno la divisione proposta. Nel caso in cui egli rifiuti l’offerta, entrambi i giocatori non riceveranno la somma di denaro. Nel Dictator Game, invece, il primo giocatore decide come dividere la somma di denaro, mentre il secondo giocatore semplicemente riceve la parte di denaro decisa dal primo. I risultati hanno mostrato come gli psicopatici accettassero in minor misura le offerte valutate come ingiuste e non eque in questi due giochi, ottenendo di fatto a fine gioco una minore somma di denaro rispetto ai non psicopatici. Mahmut, Homewood, e Stevenson (2008) hanno analizzato la performance all’Iowa Gambling Task in studenti universitari maschi con elevati tratti di psicopatia (rispetto a studenti con bassi tratti) ed hanno anch’essi osservato come gli psicopatici avessero una performance significativamente peggiore al compito. In uno studio più datato Blanchard, Bassett e Koshland (1977) hanno indagato la sensibilità a premi e ricompense in un gruppo di psicopatici incarcerati, rispetto ad un gruppo di controllo, ai quali veniva chiesto di effettuare una scelta tra ricevere un premio nell’immediato, seppur piccolo, oppure ricevere un premio tre volte maggiore ma con un ritardo di qualche ora o qualche giorno. Gli psicopatici mostravano una minore capacità di ritardare la gratificazione rispetto al gruppo di controllo.

I dati riscontrati in questi diversi studi permettono di trarre alcune osservazioni e riflessioni su un disturbo così complesso e ricco di sfaccettature. I comportamenti impulsivi, irresponsabili, privi di pianificazione potrebbero essere in parte spiegati dalla sostanziale incapacità dello psicopatico di frenare la necessità di ricompensa e gratificazione immediate, di resistere alla tentazione di provare emozioni ed esperienze forti, e dalla sua insensibilità di fronte a feedback negativi o punizioni, come si è potuto rilevare nei diversi studi con compiti di decision-making. Le conseguenze negative, nel breve e lungo periodo, che la messa in atto di questi comportamenti può portare sono di notevole impatto non solo nella vita dello psicopatico, ma anche delle persone che gli stanno attorno e nella società in cui vive.

L’orientamento professionale nell’era di internet: l’operatore diventa sostituibile?

L’ orientamento professionale oggi rappresenta una delle attività decisionali più importanti e complesse che investe la maggior parte degli individui anche in diverse fasi della vita. Il supporto alla scelta, però, non sempre riguarda solo la sfera della scelta prettamente professionale.

Teresa Di Fiore

 

La scelta professione è solo una delle diverse fasi che caratterizzano la vita della persona, accanto ad essa ve ne sono altre ugualmente importanti, come la scelta del percorso scolastico da intraprendere.

Per fronteggiare il mercato del lavoro, oggi in continuo mutamento, una prima forma di orientamento professionale necessaria è la consulenza di carriera, un’attività formativa finalizzata principalmente ad analizzare la storia professionale e le motivazioni sottostanti le scelte intraprese.

Holland e la sua teoria delle personalità professionali negli ambiti lavorativi

Uno dei pionieri nell’ambito dell’ orientamento professionale è sicuramente Holland, con la sua teoria delle personalità professionali negli ambiti lavorativi. Holland, infatti, è il primo autore ad attribuire una personalità alle diverse professioni. Così come gli individui si differenziano notevolmente in termini di personalità, anche i mestieri possiedono delle caratteristiche che li differenziano notevolmente e li rendono adatti solo a determinate personalità. È proprio il match tra individuo, con la sua personalità, e professione che permette una buona scelta professionale.

Nell’attribuire una personalità alle diverse professioni, Holland ne individua anche diverse tipologie, in modo particolare i tipi descritti dall’autore sono sei. Questo modello è anche conosciuto con l’acronimo RIASEC, o modello esagonale. In realtà l’esagono descritto dall’autore contiene al suo interno un cerchio, per indicare la mobilità, il dinamismo e l’attraversabilità da un tipo all’altro, sottolineando come sia importante considerare la grande variabilità umana in un modello circolare.

Nello specifico, Holland sostiene che gli individui godano di una situazione di benessere, efficacia e soddisfazione laddove gli interessi degli stessi incontrano un contesto adeguato. Bisogna trovare, quindi, il giusto connubio tra una determinata professione e un determinato tipo di personalità. Solo in questo modo, trovando il giusto fit tra le due personalità, possono essere fatte scelte consapevoli.

Quali fattori guidano l’ orientamento professionale?

Il lavoro ha un ruolo fondamentale nella vita delle persone, partecipa allo sviluppo della personalità, rappresenta un’opportunità di benessere e soprattutto rende gli individui cittadini attivi. Le motivazioni sottostanti la spinta quasi innata degli individui a lavorare possono essere rintracciate nel bisogno di relazionarsi con gli altri, nel bisogno di esprimere un potere e nel bisogno di autorealizzazione e soddisfazione personale.

La scelta professionale entra a far parte dell’identità delle persone, ne esprime un vero e proprio bisogno, per questo è importante indagare gli interessi delle persone, partire da una semplice domanda “cosa ti piace fare?”, evitando di focalizzarsi solo sulle capacità.

Nello specifico, partendo dalle inclinazioni e vocazioni professionali degli individui, Holland individua 6 tipologie professionali:

  • Realistico: ancorato alle cose, senza grandi bisogni cognitivi, con uno spiccato bisogno di contatto con la materialità. Professioni tipiche sono: parrucchiere, muratore, artigiano, fabbro.
  • Investigativo/Intellettuale: ama lavorare con le idee, ha bisogni cognitivi elevati, incline alla risoluzione di problemi. Una professione tipica è l’avvocato.
  • Artistico: legato alla sfera del bello, dell’estetica e della creatività. Poco routinario. Il musicista è una professione tipica
  • Sociale: ama lavorare con gli altri e per gli altri, ha bisogno di sentirsi utile allo sviluppo dell’altro, prendendosene cura. Per esempio, il medico o l’insegnante.
  • Enterprising/Imprenditoriale: interviene nella gestione degli alti vertici, è fortemente motivato a raggiungere posizioni di potere, ed ama assumersi responsabilità in prima persona. Un esempio è il politico.
  • Convenzionale: ama gli ambienti ordinati, incline a svolgere compiti ripetitivi. Si caratterizza per una propensione alla routine. Un esempio di professione è la segretaria o l’impiegato in un ufficio postale.

Tra queste categorie non vi è una gerarchia, ogni tipologia corrisponde ad una personalità specifica, riflettendo interessi e vocazioni.

Il Missouri Occupational Card Sort (MOCS)

Uno strumento pratico ed efficace per far emergere le preferenze partendo dalla teoria delle differenze individuali è il Card Sort, basato sul Missouri Occupational Card Sort (MOCS). Al soggetto viene dato un mazzo di 60 carte, dove sono indicate le diverse professioni. Ogni carta riporta sul retro uno dei codici individuati da Holland. Viene chiesto di dividere le carte in 3 diversi gruppi, a seconda della gradevolezza o meno della professione indicata sulla carta, chiedendo di immaginare realmente di svolgere quella determinata professione.

L’operatore gioca un ruolo fondamentale in questo processo, percepito quasi come un gioco se il clima è rassicurante, favorendo l’alleanza operativa. Fondamentale in questa fase è far verbalizzare a voce alta al cliente le motivazioni sottostanti la scelta, al fine di far emergere il processo cognitivo dal quale la scelta scaturisce. Il cliente deve spiegare e motivare la scelta, talvolta rivedendo anche l’iniziale categorizzazione, soprattutto per le professioni che occupano una posizione neutra.

Successivamente si passa ad identificare le motivazioni sottostanti i diversi raggruppamenti, ovvero cosa accomuna le professioni che risultano gradevoli e cosa accomuna quelle che non piacciono al cliente. In questo modo si passa da una valutazione delle diverse professioni ad una valutazione del bisogno insito nelle scelte.

Nell’ultima fase viene chiesto al cliente di scegliere le dieci professioni con indice di gradevolezza più alto e di ordinarle dalla decima posizione alla prima. Vengono poi rilevati i codici che compaiono più frequentemente, ottenendo un codice di tre lettere, dove la lettera centrale assume il valore più rilevante. In questo modo si ottiene un profilo vocazionale, emergono i bisogni sottostanti le scelte.

Altri modelli di riferimento per l’ orientamento professionale

Il modello di Holland, basato sulla teoria delle personalità professionali negli ambiti lavorativi è sicuramente il modello dominante nell’ambito della valutazione degli interessi e della consulenza di carriera e nel processo di orientamento professionale, tuttavia, diversi sono gli autori che sostengono con forza la necessità di ampliare tale modello, considerando riduttivo basare una valutazione solo su sei tipologie. La dimensione degli interessi personali si caratterizza per la sua complessità e notevole variabilità, a partire dalla quale, autori come Day e Round (1997) hanno sviluppato 28 definizioni degli interessi di base.

Partendo da queste considerazioni, e dopo aver analizzato la letteratura presente in merito allo sviluppo di indicatori della vocazione professionale, Hsin-Ya Liao, Patrick Ian Armstrong e James Rounds hanno messo a punto un set di Indicatori di Interesse di Base (BIM) di dominio pubblico, liberamente disponibili su un sito web. Questi ed altri studi hanno permesso di commercializzare scale per la valutazione dei propri interessi, ricorrendo alla modalità dell’autocompilazione, permettendo a chiunque di accedere ad una rapida ed, in parte, esaustiva valutazione dei propri interessi, ottenendo un profilo professionale.

L’importanza dell’operatore nell’ orientamente professionale. I questionari NON bastano!

Un’indagine pilota ci ha permesso di indagare come vengono percepite le diverse modalità di somministrazione, autocomplativa o guidata da un operatore, da parte degli individui, ai quali è stato chiesto di scrivere un breve commento personale.

Dall’analisi delle relazioni è emerso che la maggior parte dei soggetti ha rilevato un riscontro concreto tra il profilo emerso durante la modalità autocompilativa e le loro idee personali sui propri interessi e vocazioni. Tuttavia, nonostante abbiano valorizzato quelli che sono i punti di forza di un test autocompilativo, vi era quasi un totale accordo sulla superiorità, in termini di confronto e orientamento, della modalità guidata da un operatore.

In modo particolare gli individui hanno mostrato interesse per la componente non verbale che emerge durante l’interazione con l’operatore e che necessariamente viene a mancare nella modalità autocompilativa.

Inoltre, la possibilità di riflettere sulle proprie preferenze e di modificarle in modo ponderato, offerta dalla compilazione guidata, è totalmente assente nella modalità autocompilativa, dove la struttura del dialogo risulta estremamente rigida e dove viene negata la possibilità di verbalizzare le motivazioni sottostanti la scelta. La presenza di un operatore con il quale instaurare un’alleanza facilita la verbalizzazione degli interrogativi che investono la sfera della scelta professionale, spingendo lo stesso interlocutore a cercare risposte e fare chiarezza.

Da quanto è emerso, dunque, la modalità autocompilativa potrebbe comunque essere un valido strumento per una forma iniziale di orientamento professionale, al quale deve necessariamente far seguito l’intervento e il supporto di un operatore qualificato, al fine di favorire una scelta ragionata e consapevole.

Questa prima indagine ci ha permesso di sviluppare interessanti spunti per studi futuri. Un possibile punto d’incontro tra queste due modalità potrebbe essere quello di offrire la disponibilità di un operatore da remoto durante l’autocompilazione, offrendo agli interlocutori la possibilità di confrontarsi con un esperto, favorendo l’imprescindibile processo di verbalizzazione che accompagna le scelte professionali.

Come i bambini: immagina, crea, gioca e condividi (2018) di M. Resnick – Recensione del libro

Mitchel Resnick, autore del libro Come i bambini e progettista di linguaggi di programmazione, ha dedicato tutta la vita professionale all’ideazione di strumenti e strategie che sviluppino la creatività, creando una connessione con la tecnologia.

 

Cosa vuol dire essere creativi? In che modo è possibile incentivare la creatività dei bambini? Quali sono gli strumenti che possono favorire un processo creativo?

A queste domande ha cercato di rispondere Mitchel Resnick, autore del libro Come i bambini e progettista di linguaggi di programmazione, che ha dedicato tutta la vita professionale all’ideazione di strumenti e strategie che sviluppino la creatività, creando una connessione con la tecnologia. Andando di pari passo con lo sviluppo degli ultimi anni, è opportuno utilizzare le nuove tecnologie per favorire un apprendimento creativo. Per questo, Resnick, con i suoi collaboratori del MIT Media Lab, ha sviluppato programmi e dispositivi che hanno lo scopo di dar modo a ciascuno di far emergere la propria creatività in maniera individuale.

La creatività è ciò che favorisce il progresso della società e gli educatori hanno il ruolo di creare le condizioni per far sì che i bambini possano tirar fuori le proprie idee originali e non assumere una posizione di apprendimento passivo e tradizionale. Come i bambini è un libro che si rivolge, infatti, a tutti coloro che sono a contatto con bambini e ragazzi e che hanno la possibilità di utilizzare la tecnologia per far emergere la creatività di ognuno; si tratta di una lettura davvero interessante per educatori, insegnanti e genitori.

L’apprendimento creativo e le nuove tecnologie

Colui che per primo ha ispirato Resnick nell’ideazione di tali dispositivi e programmi è Frobel, il quale ha proposto una forma di apprendimento per bambini di 5 anni differente da quella classica, che si basava su un approccio trasmissivo delle informazioni. L’idea di Frobel è quella di concepire la scuola come un giardino dell’infanzia, in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esperienza diretta con il mondo circostante e con la scoperta. Molti giochi educativi attuali, tra cui i mattoncini LEGO, sono stati inventati ispirandosi alle idee di Frobel.

Secondo Resnick, la spirale dell’apprendimento creativo prevede le seguenti fasi: immaginare, creare, giocare, condividere, riflettere e immaginare ancora. I materiali che si utilizzano, come i mattoncini, i pastelli, il cartoncino o la tecnologia sono strumenti che possono favorire tale spirale. E per favorire la creatività attraverso la tecnologia, Resnick ha ideato Scratch, un linguaggio di programmazione che consente di creare storie interattive, animazioni, giochi e tutto può essere condiviso all’interno di una comunità virtuale. In questo modo, tutti possono visualizzare i lavori degli altri e possono idearne dei nuovi o modificare quelli già esistenti, creando così un lavoro condiviso. L’utilizzo di questo programma ha molteplici finalità e vantaggi: consente alla creatività di ciascuno di emergere, di lavorare per dei progetti, di imparare facendo, di scambiarsi consigli all’interno di una comunità, di creare con la tecnologia. Tale strumento può favorire la motivazione intrinseca all’apprendimento, consente di progettare e creare e di non assimilare passivamente informazioni; peraltro favorisce le connessioni e le collaborazioni tra bambini anche a distanza.

Sebbene i pareri rispetto alle nuove tecnologie possano essere discordanti, come sostiene Resnick il problema non è la nuova tecnologia in sé, ma l’uso che se ne fa; si può optare per giochi e attività che rendono passivi in questa interazione o si possono ideare strumenti e programmi che aprono mille possibilità e che rendono il bambino attivo nel processo di apprendimento creativo e di gioco.

Per questo, la lettura del libro Come i bambini può essere molto utile per gli educatori che si confrontano quotidianamente con bambini e ragazzi che utilizzano molto i videogiochi o i giochi online, allo scopo di aprire nuove possibilità e utilizzare la tecnologia con una modalità differente che favorisca il proprio ruolo attivo nello sviluppo di nuove idee.

Contrastare le modalità tradizionali di insegnamento e apprendimento non è facile, ma ci si può provare e i risultati sono sicuramente migliori e più duraturi. Utilizzare Scratch e altri programmi simili con alcuni bambini poco motivati e capaci di apprendere tradizionalmente, vi potrà sorprendere!

I luoghi del corpo

Non vorrei, ma mi trovo a pensare che Merlau-Ponty aveva ragione: il corpo è lo strumento con cui conosciamo il mondo.

 

Passo una parte significativa del mio tempo al circolo sportivo. Non sono un animale da circolo, normalmente vedo pazienti in psicoterapia, scrivo lavori scientifici, contratto con mia figlia l’orario a cui andrò a riprenderla, guardo Daredevil con mio figlio, mi porto alla pari con Breaking Bad. Ma appena posso gioco a tennis, pratico step e fit boxe coreografati. Musica, esercizio e armonia, robe che ci devi mettere la testa e mi danno un gusto pazzesco: rotazioni, passo di mambo, calci e pugni mentre si balla. Sulla terra rossa fatico per mettere su un rovescio a una mano decente, il lancio di palla per il servizio è un chiaro esempio di come sia difficile disaccoppiare il movimento degli arti. Il mio corpo non esegue con fedeltà i movimenti che vedo su Eurosport, la pallina va per i cavoli suoi, non dove dovrei colpirla: verticale sulla testa e molto alta. I miei neuroni specchio, c’è poco da fare, non si allineano spontaneamente con quelli di Federer. Eppure quando tiro a tutto braccio un dritto incrociato in top per un istante sento forza, potenza, trionfo, aspetto la palla che torni per la più comoda delle volée come un felino della savana pronto al morso finale. In quell’attesa non ho età né memoria.

Mi guardo in giro. Il circolo è un luogo del corpo. Io ci sto bene, palme, piscina, mantengo la mia attenzione sulle molte persone gradevoli, escludo dalla vista le altre. Siepi di rosmarino e limoni. E mi guardo ancora in giro. I luoghi del corpo: simboli della contemporaneità? Forse. Non sopporto la sociologia grossolana. Facile definirli luoghi di esibizionismo, di riparazione narcisistica del corpo come oggetto da mostrare. Sì, per molti lo è. La manager rampante che, mi dicono le amiche, si studia il sedere nello spogliatoio prima e dopo ogni passaggio di vestizione e svestizione. Single, competitiva, pettinatura perfetta. Ok, questo è il corpo-monetizzato. Niente di nuovo.

Questa storia non mi basta. Vedo donne tra i 30 e i 60 giocare tre partite di doppio consecutive. È una bella giornata, ci sta. Ma che significa? Me lo chiedo a lungo. Il dato empirico sotto gli occhi è incontrovertibile: giocano. Competono, combattono, si divertono, litigano per una pallina sulla linea. Bambine divertite e pronte alla zuffa. Non è una risposta sufficiente per me. Io ci vedo anche fuga.

Mi si chiariscono le idee se penso a Sarah, amica ebrea con un perfetto, purissimo senso di colpa ebreo. Magra, intelligente, profilo affilato, simpatica. Sempre pronta a rispondere al telefonino alla grande madre mediterranea o alla figlia. E allora per lei il circolo è salvezza, il corpo riparato e scattante è un santuario che protegge dal dovere monoteista che chiama al sacrificio. Divertirsi fin quasi a stordirsi come antidoto a obblighi implacabili. È già una risposta migliore, non l’unica.

Gioco a tennis con Massimo, un distinto signore con lunghi capelli bianchi, baffi e occhi azzurri. Invidioso, lo immagino grande seduttore, anche adesso è evidente che piace alle donne. Ha perso la moglie pochi anni fa. La sua metà della risposta è il sorriso con cui entra in campo. L’altra metà me la offre Angelo, 50 anni tra due giorni, per nulla contento di compierli. L’ombra della fine, è come se mi dicessero. Sul campo da tennis l’ombra della fine svanisce. Impazzendo a lottare con la pallina, che non va mai dove davvero vorresti, e scontrandoti con l’avversario e le tue imperfezioni, sei fuori dal tempo, esattamente come un bambino in un giorno di estate. A quell’età le otto di sera non arrivano mai, non esiste l’archetipo platonico di crepuscolo. È un’invenzione delle madri, di fronte alla cui esistenza possiamo sempre mostrarci scettici. Un’incredulità radicale.

Le mie amiche fanno ginnastica funzionale, qualcuna cross-fit. Lì c’è più che il rassodare le natiche. Sfidano i limiti, lo fanno anche i maratoneti, ma loro fatico a capirli davvero. Avvocatesse, casalinghe, ex-direttrici, resistono a serie di squat e push-up che io a stento concepisco. Sono lì per mostrare qualcosa a se stesse: che ce la possono fare, nessuno potrà sottometterle, sconfiggerle, anche solo fermarle. Mi sembrano quelle donne che solo i fratelli Cohen sanno descrivere: la detective di Fargo, semplice, umile, solida e inarrestabile. Fianchi larghi e cervello acuto, l’incarnazione della madre terra in cui pianti radici e otterrai frutti. E naturalmente il corpo erotico, tute aderenti, scollature poco pronunciate ma sufficienti, storie clandestine, alcune le ho sapute, altre le immagino, che danno eccitazione e illusione. Il corpo acceso come antidoto alla noia.

Purtroppo anche al circolo ho dei momenti in cui la mia mente è rapita da pensieri di lavoro. Non vorrei, ma mi trovo a pensare che Merlau-Ponty aveva ragione: il corpo è lo strumento con cui conosciamo il mondo. Gli scienziati oggi parlano di cognizione incorporata. Noi psicoterapeuti riscopriamo l’importanza del lavoro sul corpo e sul comportamento, leggiamo Bessel van der Kolk, Patricia Ogden e prima di loro Alexander Lowen. Diciamo ai nostri pazienti che cambieranno nell’atto di muoversi in modo diverso. Agisci il bene, viene detto a un vecchio malvagio in un racconto di Isaac Singer, anche se non lo senti, il resto seguirà.

In una mattina soleggiata di un marzo che ha visto la neve, ripenso alle parole di Massimo e di Angelo e trovo la mia risposta. Colpisco un dritto incrociato a tutto braccio, gli ho impresso una rotazione esterna velenosa, ho mirato all’incrocio delle righe, aspetto che la palla scenda. Sono guidato dalla fiducia incrollabile che resterà in campo, nell’attesa il tempo è divisibile all’infinito, non ho paura del male e non esiste la morte.

Resilienza e stili di coping di fronte alle calamità naturali: i fattori culturali che li influenzano

La capacità di affrontare le conseguenze di una calamità naturale nei giovani sarebbe influenzata da differenze demografiche e culturali. Lo afferma uno studio pubblicato su School Mental Health

 

Sembrerebbe che le strategie di coping messe in atto durante un disastro naturale siano fortemente determinate dallo status demografico e dalla cultura di appartenenza.

Resilienza e stili di coping: cosa sono e come li usiamo

Gli stili di coping sono l’insieme delle strategie psicologiche, mentali e comportamentali, che gli individui mettono in atto per affrontare una certa situazione e in generale gli eventi della vita quotidiana.

Tara Powell, docente all’Università dell’Illinois ha affermato:

Sappiamo che il modo in cui i soggetti affrontano un disastro, di qualsiasi natura, influenza la probabilità futura che essi sviluppino psicopatologie connesse come il disturbo da stress post-traumatico, sintomi depressivi o ansiosi. Quello che ancora dobbiamo chiarire è quale sia lo strumento migliore che i ricercatori e i medici possono utilizzare per valutare le strategie di coping nella popolazione di giovani.

Resilienza e stili di coping: lo studio su adolescenti colpiti dall’uragano Katrina

Lo studio condotto ha indagato le strategie di coping messe in atto da delle ragazze della classe media nella Parrocchia di St. Tammany, una zona di New Orleans, danneggiata dall’uragano Katrina passato nel 2005. Sei mesi dopo il disastro alle ragazze è stato chiesto di compilare una versione adattata del questionario Kidcope, strumento utilizzato dai clinici per esaminare le strategie di coping quali la distrazione, il ritiro sociale e il supporto sociale.

Ciò che ne è emerso è che le strategie di coping utilizzate dalla ragazze esaminate potevano essere ricondotte a quattro fattori generali, che comprendevano comportamenti di coping positivi e comportamenti esternalizzanti quali la colpa, la rabbia e il ritiro sociale.

Confrontando le strategie di coping di questo campione con quelle usate da ragazzi afroamericani, coetanei ma con uno status socio-economico inferiore, sopravvissuti anch’essi all’uragano Katrina, i ricercatori hanno trovato poche somiglianze. Al contrario, le strategie messe in atto dalle ragazze sono risultate simili a quelle dei giovani della classe media colpiti dall’uragano Andrew, che si abbatté sulla Florida nel 1992.

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Resilienza e stili di coping: sarebbero più efficaci negli adolescenti a basso reddito

Kate Wegman, autrice dello studio ha affermato

Abbiamo scoperto che la cultura influenza molto le reazioni degli adolescenti in seguito ad una calamità. Alcuni dei valori associati alla resilienza, come l’attenzione per la comunità e alla rete di supporto, sono meno importanti nei soggetti della classe media rispetto a quelli con basso reddito. I valori culturali delle classe media sembrano essere più legati all’individualismo e alla responsabilità personale.

I ricercatori hanno scoperto inoltre che le strategie comportamentali utilizzate dal campione preso in esame avevano relazioni complesse tra loro: la strategia di dimenticare l’accaduto, che era associata principalmente al ritiro sociale, era anche connessa alla colpa e alla rabbia.

Comprendere il come e il perché le vittime di un disastro naturale utilizzano diversi metodi di coping e come questi possono essere influenzati da diversi fattori, appare fondamentale al fine di progettare interventi e attivare servizi utili in queste situazioni.

Un grande limite è rappresentato dal fatto che il Kidcope, lo strumento utilizzato, è stato ideato per la valutazione dei soggetti gravemente malati costretti a lunghi ricoveri in ospedale, situazione che differisce rispetto a quella considerata nella ricerca. Gli autori affermano che lo sviluppo di strumenti efficaci e convalidati, ideati per affrontare tali situazioni d’emergenza, appare una priorità nell’ambito della ricerca al fine di aiutare al meglio i sopravvissuti ai disastri naturali.

L’area di Wernicke: la sede della comprensione del linguaggio – Introduzione alla Psicologia

L’ area di Wernicke è stata scoperta nel 1874 da un neurologo tedesco, Carl Wernicke, da cui ha ereditato il nome. L’ area di Wernicke è riconosciuta, insieme all’area di Broca, come una delle due aree nella corteccia cerebrale responsabile del linguaggio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Essa è localizzata nell’area 21 e 22 di Brodmann, che corrisponde al segmento posteriore del giro temporale superiore dell’emisfero dominante, che per il 95% delle persone risulta essere l’emisfero destro, e comprende la corteccia uditiva sul solco laterale.

Le aree 21 e 22 di Brodmann, rappresentano il centro focale dell’ area di Wernicke, nonostante siano coinvolte anche altre aree nel processo di comprensione del linguaggio. Infatti, in questo caso è necessario includere anche le aree 20, 37, 38, 39 e 40, coinvolte nei processi di composizione delle parole e in altri tipi di informazioni linguistiche aggiuntive.

L’ area di Wernicke è strettamente legata alla corteccia auditiva primaria, che svolge un ruolo importante nella comprensione del linguaggio parlato. Inoltre, a livello anatomico, esistono numerose connessioni tra l’ area di Wernicke e l’area di Broca; quest’ultima è deputata principalmente alla comprensione del linguaggio. Queste due aree, Wernicke e Broca, sono connesse tra loro da una serie di fascicoli che confluiscono a loro volta nel fascicolo arcuato.

Area di Wernicke: quali funzioni ha

Le funzioni svolte nell’ area di Wernicke sono:

  • Comprensione del linguaggio, sia scritto sia parlato;
  • Gestione della semantica del linguaggio, trasformando le parole nel loro significato.
  • Pianificazione della produzione del discorso.

Queste funzioni rappresentano la base della comprensione del linguaggio, e sono alla base della comunicazione.

Area di Wernicke: cosa accade in caso di lesioni?

Le lesioni che possono verificarsi all’ area di Wernicke, a causa di un ictus, possono portare a conseguenze negative nell’uso del linguaggio.

L’ afasia di Wernicke, riguardante la comprensione del linguaggio, è caratterizzata dalla presenza di una comunicazione destrutturata e priva di significato, unita a una deficitaria comprensione del linguaggio. Tuttavia, nonostante il messaggio prodotto sia carente di significato, il discorso è trasmesso in maniera fluida, perché la produzione del linguaggio non è compromessa dal disturbo.

A differenza dell’afasia di Broca, il paziente utilizza una grande quantità di parole funzionali, oltre che tempi verbali complessi e frasi subordinate.

A volte, però, i pazienti sostituiscono le parole con altre aventi significato simile loro e questo effetto prende il nome di paralessia semantica, in cui anziché dire la parola che si cerca, se ne dice una diversa con significato uguale.

L’ afasia di Wernicke, dunque, si mostra con fluidità linguistica. Infatti, i soggetti affetti da questo disturbo non hanno nessun problema a sostenere un discorso, seppure carente di significato. Tutto questo si verifica perché la struttura cerebrale incaricata della produzione del discorso è l’area di Broca, e conferma che l’ area di Wernicke è specializzata nella comprensione e nella semantica del linguaggio, nonostante sia connessa ad altre aree che sono in grado di proseguire le loro funzioni in maniera indipendente.

Un’altra caratteristica della afasia di Wernicke è l’incomprensione uditiva. Il paziente, quindi, è incapace di comprendere ciò che gli altri gli comunicano. E i pazienti con suddetto tipo di afasia sono inconsapevoli della loro assenza di comprensione. Grazie ai notevoli sviluppi scientifici riguardo l’ area di Wernicke, è chiaro ormai come danni a quest’area siano alla base dell’eziologia di differenti disturbi.

La comprensione del linguaggio può essere valutata, per esempio, attraverso il token test costituito da una serie di comandi che coinvolgono 20 token di diverse forme, dimensioni e colori presentati attraverso un ordine di crescente complessità. Una compromissione della comprensione può essere dovuta al fallimento del riconoscimento delle parole, della memoria uditiva, della formazione della struttura sintattica o della discriminazione del parlato.

Afasia di Wernicke: i muscoli coinvolti

Nonostante tutta la produzione linguistica sia il risultato di una serie di movimenti muscolari, nuove ricerche dimostrano che i meccanismi neurologici coinvolti nella produzione linguistica non sono semplicemente limitati ai comandi motori che sollecitano i muscoli. Quindi, prima che vengano inviati i suddetti comandi motori, chi parla deve creare un’immagine mentale dei suoni che costituiscono le parole. Un’esemplificazione di ciò potrebbe essere il sapere che la parola “neve” fa rima con “beve” senza il bisogno di dire tali parole ad alta voce. Una rottura di questo processo di recupero comporta uno spostamento improprio delle parole pronunciate. Tale fenomeno è un punto chiave dell’ afasia di Wernicke, comunemente associata a deficit di comprensione, nonostante anche i problemi nella produzione del linguaggio rimangono una componente costante.

Area di Wernicke: sindromi cliniche

L’ area di Wernicke potrebbe essere danneggiata anche dalla carenza di vitamina B1 (tiamina). Questa carenza, alla lunga, potrebbe portare al manifestarsi della sindrome di Wernicke-Korsakoff. L’ area di Wernicke è, infatti, spesso associata all’alcolismo cronico, nonostante l’encefalopatia di Wernicke può avere altre cause eziologiche: malnutrizione, aumento del fabbisogno metabolico o nel contesto della dialisi renale. Statistiche recenti hanno mostrato che il 12,5% dei pazienti con una storia di alcolismo cronico hanno mostrato lesioni encefalopatiche nell’area di Werincke. Le lesioni in quest’area potrebbero consistere in una congestione vascolare, in emorragie petecchiali, e in proliferazione microgliale. I casi cronici possono anche includere gliosi, demielinizzazione e perdita di neuropilo con relativa conservazione dei neuroni. Nonostante la perdita neuronale è maggiormente predominante nel talamo mediano non mielinizzato, l’atrofia dei corpi mammillari è specificamente associata all’encefalopatia di Wernicke.

I sintomi cardinali della sindrome di Wernicke includono, inoltre, atassia dell’andatura, nistagmo orizzontale ed encefalopatia. L’encefalopatia potrebbe essere caratterizzata da distraibilità, delirium e un profondo disorientamento spazio-temporale e relativo alle persone. Sebbene il nistagmo orizzontale sia la scoperta oculare più comune, potrebbe presentarsi anche il nistagmo verticale. L’atassia esperita in questi pazienti è una combinazione di disfunzioni vestibolari, coinvolgimento cerebellare e polineuropatia. Altri ritrovamenti comuni potrebbero includere una severa ipotensione, ipotermia o coma.

In conclusione, a causa della grande plasticità del cervello, se l’emisfero sinistro è danneggiato, è possibile che il linguaggio si possa sviluppare anche nell’emisfero destro. Grazie a questo fenomeno di plasticità cerebrale, l’impatto delle lesioni cerebrali è ridotto, consentendo, in questo modo, il manifestarsi di un normale sviluppo del linguaggio.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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