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Chemsex e riduzione del danno – Report dal convegno di Palermo

Disinibizione, aumento del desiderio sessuale e dell’intimità, superamento delle paure legate alla prestazione sessuale, effetto terapeutico rispetto al timore di fallimento nella sfera sessuale: queste e altre le motivazioni legate all’utilizzo di sostanze stupefacenti per affrontare “in modo soddisfacente” un rapporto sessuale spesso vissuto con scarsa serenità.

 

Un utilizzo che in alcuni casi porta con sé severi effetti collaterali, aumentando la probabilità di contagio per malattie sessualmente trasmissibili, non ultima l’HIV e che richiede interventi istituzionali e professionali tempestivi ed estensivi per essere ridimensionato.

Questo il tema forte e dibattuto intorno al quale, lo scorso 1 Febbraio, nella sontuosa cornice dell’NH Hotel di Palermo, si sono riuniti mondo scientifico e dell’associazionismo, per tentate di dare una risposta alle esigenze di prevenzione e cura di tale tipo di problematica.

Chemsex: cos’è

L’intento di questo Convegno è quello di confrontare conoscenze e scambiare opinioni su un fenomeno su cui esistono molti pregiudizi infondati – chiarisce Tullio Prestileo, UOC Malattie Infettive ARNAS Ospedale Civico-Benfratelli di Palermo e presidente del Congresso, che subito approfondisce il termine Chemsex e le implicazioni a esso collegate.

Con il termine Chemsex si intende l’uso di specifiche sostanze psicoattive (metanfetamine, mefedrone, GHB) prima o durante il sesso, tra maschi che fanno sesso con maschi, includendo omosessuali, bisessuali ed eterosessuali. Tali sostanze sono utilizzate allo scopo di produrre uno stato di rilassamento ed eccitazione, che si protrae fino a tre giorni interi, e vengono assunte di solito in gruppo, in una sorta di rituale confortante, in grado di rafforzare l’identità di gruppo – continua Prestileo – Tra le conseguenze mediche del loro utilizzo vi è un’accelerazione del battito cardiaco, oltre che l’aumentata probabilità di contrarre una malattia a trasmissione sessuale, come la sifilide o l’HIV, nell’ordine dell’80% rispetto a chi non ne fa uso, considerato anche che l’utilizzo di sostanze psicoattive si associa spesso a promiscuità sessuale e assoluto non utilizzo del condom. Ecco che una buona politica di riduzione del danno include campagne informative e il coinvolgimento della popolazione, soprattutto nell’ottica dell’utilizzo consapevole del preservativo.

Chemsex e contrazione di malattie infettive

E sulla relazione tra malattie infettive e uso di sostanze si è incentrato l’intervento di Mario Ghezzi, referente Arcigay Palermo, che ha presentato il progetto La Prevenzione viene da te, avviato a Febbraio 2017 e terminato a Ottobre 2018, su una popolazione di 1007 soggetti nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento.

Il 41% degli utenti del nostro progetto, risultati positivi all’HIV, ha dichiarato di aver avuto rapporti sessuali sotto effetto di sostanze stupefacenti, così come il 50% di quelli risultati positivi alla sifilide. Questi dati denunciano la bassa diffusione di una cultura della prevenzione e l’aumento del numero di persone che fanno uso di sostanze quali alcool e droghe durante i rapporti sessuali. Questi risultati stimolano a investigare ulteriormente la correlazione tra sesso e uso di droghe e alcool ed evidenziano la necessità di migliorare la conoscenza delle malattie a trasmissione sessuale e delle possibili strategie di gestione del rischio di una loro contrazione, appunto attraverso una puntuale informazione sull’utilizzo del profilattico.

L’ARTICOLO CONTINUA SOTTO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO

Chemsex e importanza della prevenzione

Chemsex, un problema potenziale per cui serve indubbiamente un’opera di prevenzione sociale, ma soprattutto di attenzione alla persona e ai suoi bisogni di esprimere una sofferenza privata, fonte di tensione e spesso disperazione, in cui un ruolo primario gioca l’Associazionismo.

L’utilizzo di sostanze psicoattive per agevolare l’attività sessuale non necessariamente è problematico, infatti il soggetto può sicuramente saper gestire l’assunzione delle sostanze, anche se una parte di assuntori arriva a rovinarsi letteralmente la vita – commenta Giulio Maria Corbelli, referente PLUS Onlus, organizzazione di persone LGBT sieropositive – È di fondamentale importanza avere speranza e comprensione e mantenere sempre un atteggiamento positivo verso il sesso: è spesso la mancanza di ciò a creare difficoltà nel fare sesso da sobri, incoraggiando l’uso di sostanze psicoattive. Le persone che hanno problemi con il chemsex devono essere riconosciute e rispettate, utilizzando ingredienti quali comprensione ed empatia, che l’Associazionismo deve promuovere. Il singolo colpito dal chemsex problematico dovrebbe essere incoraggiato a fare le proprie scelte con il consiglio di pari e di operatori della salute, parlando dei propri disagi senza paura, e in questo contesto gli interventi svolti con il coinvolgimento dei pari risultano i più efficaci in assoluto.

Schizofrenia: Targeted Cognitive Training e i benefici sulle allucinazioni uditive, sulle percezioni uditive e sull’apprendimento verbale

Un recente studio mostra come il Targeted Cognitive Training (TCT) porti significativi benefici ai pazienti con diagnosi di schizofrenia grave, tra cui un miglioramento nell’apprendimento verbale e nella percezione uditiva, riducendo al contempo la gravità delle allucinazioni uditive.

 

Che cos’è il Targeted Cognitive Training (TCT) e per cosa è utile?

La schizofrenia è uno tra i disturbi più complessi da trattare: comprende, infatti, un ampio range di disfunzioni che variano dalle allucinazioni e disturbi dell’umore al danneggiamento cognitivo, in particolare riferibile alla memoria verbale e di lavoro. Nello specifico, le disfunzioni riguardanti la memoria verbale e di lavoro sembrano essere spiegate, in parte, da anomalie nell’elaborazione anticipata delle informazioni uditive.

Il Targeted Cognitive Training (TCT) utilizza la tecnologia computerizzata, come giochi mentali sofisticati, con l’obiettivo di tracciare uno specifico percorso neurale (includendo inoltre sensi di memoria, di apprendimento e audio-visivi) in modo da alterare le modalità con cui i pazienti processano le informazioni. Proprio per questo motivo, il TCT sembrerebbe un intervento terapeutico molto promettente per un miglioramento della qualità di vita dei pazienti schizofrenici. In setting controllati, il Targeted Cognitive Training ha ricevuto prove di efficacia per le forme lievi e moderate di schizofrenia.

Nonostante ciò, non è chiaro se pazienti con schizofrenia cronica e refrattaria trattati in setting non sperimentali/non accademici traggano benefici da questo tipo di intervento. Proprio questo dubbio ha portato il team di ricerca dell’università di San Diego a indagare se il Targeted Cognitive Training potesse avere effetti positivi a livello visivo e uditivo tra i pazienti con schizofrenia grave.

Lo studio

I ricercatori hanno condotto lo studio su un campione di 46 pazienti con schizofrenia psicotica cronica-refrattaria, tutti reclutati a seguito di un’acuta ospedalizzazione. I pazienti erano tutti considerati “gravemente disabili”, incapaci quindi di prendersi cura di se stessi, per niente autonomi e, per tale motivo, sotto la guida di un operatore. Il campione è stato randomizzato: un gruppo è stato sottoposto ad un trattamento usuale (Treatment-As-Usual, TAU) e un altro gruppo è stato sottoposto al TAU e, contemporaneamente, al Targeted Cognitive Training. Quest’ultimo gruppo ha svolto a computer esercizi quali giochi di memoria e apprendimento vario, oltre a giochi comprendenti informazioni uditive.

I risultati hanno mostrato che i pazienti che hanno completato tre mesi di TAU-TCT, hanno migliorato i punteggi nell’apprendimento verbale e nella percezione uditiva, oltre a diminuire la gravità delle allucinazioni uditive.

In conclusione

Lo stigma per questa malattia è talmente radicato che molto spesso sono i pazienti stessi ad abbandonare le terapie. Infondere ottimismo e speranza in un disturbo invalidante come quello della schizofrenia è una necessità: ogni intervento, ogni nuova tecnica e terapia potrebbero aiutare i pazienti a compiere sempre un passo in più verso una qualità di vita migliore, verso l’autonomia o, semplicemente, a riprendere in mano la propria vita.

La disarmante richiesta di aiuto di Simone Cristicchi

Abbi cura di me, la canzone che Simone Cristicchi ha portato sul palco del 69° Festival di Sanremo, è un grido d’amore, una dichiarazione di fragilità. Cristicchi racconta un amore universale, la sua è una preghiera rivolta a chiunque, in primis a noi stessi.

 

Per gli inglesi è take care, per i francesi prendre soin de, in albanese è kujdeseni, in Guatemala si dice cuidate e in Maori si traduce con tiaki. Per gli italiani che hanno nella testa gli ultimi brani del festival della canzone italiana si traduce in: basta mettersi al fianco invece di stare al centro.

Si potrebbe concretizzare nella tenerezza di un bacio sulla fronte la richiesta di cure nella preghiera di amore universale cantata da Simone Cristicchi al 69° Festival di Sanremo.

Il cantautore definisce la sua canzone una preghiera d’amore che tocca i grandi temi dell’umanità: la sofferenza, il perdono, la debolezza, il senso del dolore.

È un grido d’amore, una dichiarazione di fragilità. A qualcuno è persino sembrata una preghiera di Dio all’uomo, dove è Dio che chiede all’uomo di aver cura di lui.

Cristicchi parla di amore universale, di una preghiera rivolta a chiunque, per cui l’altro a cui chiediamo aiuto può essere una persona a cui siamo legati da relazioni significative o un altro a cui siamo legati da un sentimento collettivo, che condivide con noi la natura umana stessa ma che solo per caso è nato nella parte fortunata del mondo.

Per chiedere cure devo riconoscere la mia fragilità e la mia debolezza, devo rendermi vulnerabile nel dichiararla all’altro, e prima di farlo ho bisogno di sapere di potermi fidare. Abbandonarsi all’altro è l’opposto di abbandono. Abbandonare qualcuno e abbandonarsi a qualcuno hanno dietro due universi di sentimenti completamente opposti.

La richiesta di aiuto appare disarmante perchè per farla ci si mette nelle mani di un’altra persona, un po’ come se si corresse il rischio di farlo, ma il tema che subito va a tutelare tutto è la fiducia perché si chiede aiuto a chi si crede possa darcelo. Ritorna tra i versi la fragilità dell’essere umano e la bellezza di mostrare la propria debolezza all’altro.

La richiesta di aiuto si riferisce ad un amore puro, ma non un amore che non darà niente in cambio; abbandonarsi all’altro implica il ricevere conforto e consolazione. Di fatti prima del ricevere cure c’è la sofferenza e l’incertezza, poi la speranza che l’altro ci possa aiutare, l’aspettativa che ciò avvenga, poi la fiducia e la scelta di chiedere aiuto e poi solo allora “Abbracciami se avrò paura di cadere che siamo in equilibrio sulla parola insieme”.

È importante in un epoca come questa, ha dichiarato Simone Cristicchi, dare messaggi positivi, ed uno di questi in riferimento a vissuti di rancore, di risentimento, di aggressività e di odio è di sicuro “perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso perché l’impresa più grande è perdonare se stesso”.

A mio avviso il brano si presta anche ad un’ulteriore interpretazione. È la vita di ciascuno di noi che ci chiede di prendercene cura, insomma siate gentili con la vostra stessa vita. Che abbiate studiato, lavorato presto, che vi siate impegnati duramente, rispettate quello che la vostra vita è stata, abbiate cura del vostro passato, mettetelo in buone mani e siate debitori di bene nell’impegno e nella gentilezza di ogni giorno.

Benvenuto al messaggio di Simone Cristicchi! Perché c’è anche il lato oscuro della sofferenza ed è per questo che andrebbe sempre condivisa, per cui lo definirei un memento: ricorda di chiedere aiuto e ricorda di dare un bacio sulla fronte.

E con questo lasciamo a chi mette se stesso nelle mani dell’altro la considerazione se il perdono possa essere considerato la forma più alta dell’amore, perché anche queste parole non sono perle di saggezza ma sassi di miniera.

 

ASCOLTA LA CANZONE “ABBI CURA DI ME” DI SIMONE CRISTICCHI:

https://www.youtube.com/watch?v=NiC8gEygu8g

 

Stop-phone: un progetto per l’uso consapevole del cellulare – Report dall’evento

Si è svolto il 2 Febbraio scorso a Palermo, presso l’Ordine dei Medici della Provincia di Palermo, l’evento di presentazione del Progetto Stop-phone.

 

Il Progetto Stop-phone è un’iniziativa promossa dall’ASP di Palermo con il coinvolgimento attivo di diverse realtà istituzionali, studenti, docenti, famiglie, pediatri e operatori della sanità, e che si snoderà in due anni di attività e cinquanta mila ore di intervento nelle scuole del distretto 42 della ASP palermitana che comprende otto comuni in totale, oltre Palermo, tra gli altri, Monreale.

Obiettivo del progetto, promuovere un corretto e consapevole uso dei telefoni cellulari, attraverso un’informazione capillare sui rischi di un loro utilizzo improprio a danno della salute fisica e psicologica.

Stop-phone: le conseguenze fisiche e psicologiche di un uso scorretto del cellulare

Durante il Convegno si sono succeduti diversi momenti di informazione e dibattito in cui le tematiche psicologiche sono state al centro della discussione, attraverso una disamina preliminare delle cifre allarmanti del fenomeno.

Secondo i dati Istat del 2011, che comunque risultano per molti versi obsoleti – commenta Daniela Segreto, Dirigente Servizio 5 Promozione della Salute Assessorato Regionale della Salute DASOE – tra il 2000 e il 2011 si è arrivati a circa il 93% di giovani tra gli 11 e i 17 anni utilizzatori di cellulari, con danni potenziali per la salute, sia fisica che psicologica.

Da un punto di vista psicologico oggi assistiamo al fatto che il cellulare non favorisce, anzi ostacola, il tempo dell’elaborazione, della ponderazione, parlando alla pancia e non alla razionalità, oltre che portare a diminuire, a volte annullare, la distanza tra sfera pubblica e privata – dice Daniele La Barbera, direttore dell’unità operativa di Psichiatrica del Policlinico Giaccone di Palermo– Una dipendenza che si traduce in ristretti spazi per il pensiero riflessivo e in un comportamento compulsivo di spessore clinico: basti pensare che gli utilizzatori compulsivi possono entrare in contatto con il cellulare fino a dieci mila volte al giorno.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DALL’EVENTO:

Stop phone: un progetto per promuovere un uso consapevole del cellulare

Stop phone: un progetto per promuovere un uso consapevole del cellulare

Ai rischi psicologici si sommano quelli fisici, in particolare posturali.

Secondo recenti ricerche, stare curvati sul cellulare a scambiare messaggi crea notevoli problemi posturali – dichiara Daniele Giliberti, Esperto Vivi Sano Onlus – Basti pensare che un’inclinazione del collo di trenta gradi corrisponde a un peso di diciotto chilogrammi che la nostra cervicale deve sopportare, con progressivo danneggiamento dei tessuti muscolari.

Se i rischi di un abuso sono notevoli, grande importanza assume il principio di precauzione, legato a una minimizzazione dell’esposizione, e l’assunzione di accorgimenti per un uso consapevole, intelligente, moderato dei dispositivi elettronici, evitando comportamenti quali quello di addormentarsi ascoltando musica con cuffie auricolari o far giocare i bambini con un tablet connesso alla rete come se si trattasse di un innocuo divertimento.

Tutti comportamenti funzionali che permetteranno al cellulare di migliorare la nostra vita e non di dominarla, cristallizzandosi in dipendenze malsane, dannose per la salute e per la vita.

Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti (2018) – Recensione del libro

Il libro Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti suggerisce già dal titolo l’idea di una complessità maggiore di un semplice ascolto nella percezione che abbiamo dei suoni.

 

Lavoro da anni con pazienti che hanno acufeni. Sentono un fischio, un ronzio. È a destra, a sinistra o al centro della testa. Localizzano il suono nello spazio. Ma poi.. è un problema dell’apparato uditivo o un danno nella testa? Hanno un problema all’orecchio o il loro sistema nervoso sta impazzendo?

I pazienti non identificano la fonte. E il più delle volte nemmeno gli esperti sono in grado di farlo. È forse questo che spaventa? Il non sapere da dove proviene? Il suono ci offre informazioni per la sopravvivenza, adattive, ci aiuta a localizzare il pericolo e a metterci in salvo. Nel libro Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti di Di Bona e Santarcangelo, gli acufeni vengono citati a proposito della percezione indiretta delle fonti. In questa ottica “il suono è un’entità soggettiva, privata e “distaccata” dal mondo materiale”. Teoria interessante e azzeccata per gli acufeni perché appunto sono essenzialmente un’esperienza soggettiva e forse proprio per questo piuttosto scomoda e frustrante per le persone che ne soffrono.

Ma, acufeni a parte, nella vita quotidiana cosa succede quando ascoltiamo? Gli autori del libro Il suono cercano di rispondere anche a tale domanda in questo testo piuttosto complesso in quanto l’esperienza uditiva viene descritta da un punto di vista filosofico, a tratti metafisico, a volte neuroscientifico e psicoacustico. Un po’ di confusione arriva per chi non è pratico.

Il suono come “esperienza uditiva”

Di Bona e Santarcangelo, a partire dalla spiegazione del processo uditivo da parte di Albert Bregman e di James Gibson, strettamente ancorata alla realtà quotidiana (vedi ad esempio gli studi sugli everyday sounds), arrivano a descrivere l’esperimento mentale di Strawson del No Space World, un mondo uditivo senza coordinate spaziali. Un viaggio cognitivo piuttosto impegnativo per il lettore. Alla fine del libro Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti ho le idee piuttosto confuse, non so più che fine abbia fatto nella mia testa Hero, abitante e soggetto ascoltatore del No Space World, ma rifletto ancora sull’acustica ecologica e sulla funzione che esercita l’attenzione nella percezione della fonte sonora.

A tal proposito non posso non pensare alla misofonia e cioè l’intolleranza verso determinati suoni come la masticazione o l’abbaiare dei cani. In questo caso la mente dei soggetti ha registrato quei suoni come “minacciosi”? Ed è per questo che le persone tendono a notarli di più rispetto ad altre che non soffrono di misofonia? Quei suoni sono raggruppati in schemi che identificano una sorta di “pericolo”? Sarebbe interessante capire il punto di vista degli autori a tal proposito così come nei casi di disturbo da stress post-traumatico in cui un determinato suono può riportare alla mente (e al corpo) un trauma. La relazione suono-tempo, descritta nel quarto capitolo, ci dice anche questo: la percezione del suono guarda al futuro per soddisfare la sua funzione adattiva, ma per farlo ha bisogno di tenere a mente il passato. Se un paziente da piccolo sentiva il padre rientrare a casa e sbattere contro i mobili della sala da pranzo sapeva che era ubriaco. Quando era ubriaco spesso lo picchiava. Sentire quei suoni preparava il bambino a quello che molto probabilmente sarebbe accaduto. Localizzava il padre nello spazio e nel tempo “lo sento, sta arrivando”. Sentirli ancora oggi allerta l’adulto che ha registrato nella mente quell’associazione, quello schema.

Trovo per questo appropriata la definizione di “esperienza uditiva” nel sottotitolo del libro perché dà l’idea di una complessità maggiore di un semplice ascolto. Assistere ad un concerto del nostro cantante preferito o ascoltare la voce dell’amato o dell’amata al telefono sono esperienze complesse che non possono essere descritte con una semplice elencazione di frequenze, vibrazioni, toni, volumi. Osservo Enea, il bulldog francese di mia sorella. Lei apre il cancello di casa e lui subito corre alla porta. Abbaia, si agita, freme e attende di vederla. Ha riconosciuto i passi. Ha registrato il suono della sua camminata. La vede, le salta addosso. Anche per lui quella sequenza di suoni è qualcosa di più.

I disegni dei bambini: tra autorità e familiarità

Solitamente nei disegni dei bambini si possono trovare i soliti soggetti come la famiglia, l’animale domestico, una casa, un giardino, e infine il bambino stesso che disegna.

 

Un team di ricercatori dell’Università di Chichester si è domandato se la figura del bambino che viene disegnata dal bambino stesso possa cambiare o meno in relazione a chi guarderà l’immagine.

Disegni dei bambini: come cambiano in base ai destinatari

Gli studiosi hanno messo appunto una ricerca sperimentale in cui sono stati coinvolti 175 bambini, con età di otto e nove anni, di cui 85 erano maschi e 90 erano femmine. I partecipanti sono stati divisi in sette gruppi, ma solo ad uno non è stato specificato il pubblico da cui poi sarebbe stato visionato il disegno; agli altri 6 gruppi invece sono stati indicati diversi tipi di pubblico, ognuno diverso. Il pubblico era composto da figure professionali come l’insegnate o il poliziotto, ma anche figure con cui potevano o meno avere una certa familiarità. Il compito consisteva nel disegnare tre immagini di se stessi, diversificati in: neutro, felice e triste.

Dai risultati emerge che i disegni dei bambini variano in relazione all’autorità e alla familiarità dell’adulto che vedrà l’immagine. Inoltre le femmine si rappresentavano come più espressive rispetto ai maschi, con sfaccettature diverse nei disegni felici e tristi dipendentemente dal pubblico a cui erano rivolti i disegni. Infatti quando i disegni erano rivolti ad pubblico di poliziotti che conoscevano, nei disegni felici le bambine mostravano una maggiore espressività rispetto ai bambini, mentre quando il pubblico era composto da poliziotti sconosciuti, i maschi esprimevano una maggiore espressività rispetto alle femmine nei disegni tristi.

Disegni dei bambini: risvolti in ambito clinico o forense

Concludendo, gli autori suggeriscono che questo studio possa essere un base per ulteriori indagini, in particolare per approfondire le motivazioni di queste differenze tra i due generi e le differenze rispetto al pubblico di riferimento. I risultati dello studio sono significativi, perciò è importante continuare a studiare questo fenomeno anche perché i disegni dei bambini sono spesso usati in situazioni cliniche, forensi e terapeutiche per ottenere informazioni sullo stato emotivo del bambino da integrare alla comunicazione verbale.

L’addio a Jim McMahon, uno dei più importanti esperti internazionali di REBT

Jim era uno studioso e un clinico competente e ha diffuso la pratica della terapia cognitiva basata sull’evidenza sia negli Stati Uniti che in vari altri Paesi. In Italia venne varie volte negli anni ’90 per insegnare la REBT.

 

Il 7 febbraio 2019 è improvvisamente deceduto James (Jim) McMahon, allievo diretto di Albert Ellis, formatore in terapia razionale emotiva comportamentale REBT presso l’Albert Ellis Institute di New York. Il suo pensiero clinico privilegiava la promozione dell’auto-accettazione incondizionata (unconditional self acceptance) come principale strumento terapeutico.

Come molti clinici REBT in questo precorreva la pratica della Acceptance and Commitment Therapy (ACT). Jim era uno studioso e un clinico competente e ha diffuso la pratica della terapia cognitiva basata sull’evidenza sia negli Stati Uniti che in vari altri paesi, soprattutto in Romania, Russia e Turchia.

In Italia venne varie volte negli anni ’90, invitato a Roma da Cesare De Silvestri per insegnare la REBT. Personalmente ho avuto il piacere di scrivere e pubblicare con lui un articolo sulla diffusione della REBT in Italia.

Caro Jim, resterai vivo nei nostri cuori e nei nostri ricordi.

Jim McMahon l'addio a uno dei più noti esperti internazionali di REBT - Imm

In ricordo di Elizabeth Messina

Nel corso della sua vita, Elizabeth Giovanna Messina si è distinta per i numerosi contributi in diverse aree di interesse psicologico: eguaglianza di genere, dolore oncologico e trauma migratorio intergenerazionale.

 

Elizabeth Messina - in ricordo della sua carriera e dei preziosi contributi IMMÈ deceduta a Brooklyn Elizabeth Giovanna Messina. Elizabeth è stata una psicologa clinica praticante a New York per oltre 30 anni. Ha fondato il Italian-American Psychological Symposium, era assistente professoressa aggiunta di psicologia alla Fordham University e membro di facoltà in Psichiatria al Lenox Hill Hospital.

È stata vicepresidente della American Italian Historical Association e co-fondatrice del CIAW: Collective of Italian American Women.

Come ricercatrice, ha condotto ricerche interculturali in Italia e negli Stati Uniti. Alcune delle sue aree di interesse erano: eguaglianza di genere, dolore oncologico e trauma migratorio intergenerazionale.

Ha pubblicato:

  • In Our Own Voices: Multidisciplinary Perspectives on Italian and Italian American Women (Bordighera Press, Via Folios 32, 2003.)
  • Psychological Perspectives on Italian Americans in the American Media (in Saints and Rogues, edited by Stern and Marchesani)
  • L’Isola Sommersa: A Personal and Transpersonal Journey of Migration (in VIA, Volume 11, Spring 2000).

Per State of Mind Elizabeth Giovanna Messina registrò una intervista sul trauma migratorio intergenerazionale negli italo americani pubblicata su youtube:

 

Exploring the Self – Report dal convegno di Roma organizzato da IPD e NPSA, 9-10 febbraio 2019

Si è conclusa la quarta edizione del convegno annuale, organizzata a Roma nei giorni 09 e 10 febbraio, in collaborazione tra la Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e la Società Internazionale di NeuroPsicoanalisi (NPSA). Il titolo Exploring the Self ha generato un decisivo interesse tra psicoanalitici, che hanno ascoltato e attivamente partecipato ai confronti su uno dei temi più dibattuti: il

 

Exploring the Self: voci nazionali e internazionali

Gli esponenti principali presenti al Convegno Exploring the Self erano nomi molto noti a livello nazionale e internazionale. Dopo l’apertura di R. Spagnolo, che ha riflettuto sul tema del Sé Collettivo, con il concetto di ‘Brandelli del Sé’, riferendosi all’attuale confronto con persone migranti, il grande atteso era Vilayanur Ramachandran, dell’Università di San Diego (USA). Neuroscienziato famoso per le sue ricerche sul dolore dell’arto fantasma ed il suo trattamento, i neuroni specchio nella riabilitazione neuropsicologica dell’autismo e la costruzione percettiva del Sé. V. Ramachandran ha preparato per l’occasione una lezione via web (non potendo essere presente), attraverso la quale ha espresso dubbi su alcune teorie postulate da Freud, confrontando i dati neurosensoriali secondari a danni in aree specifiche della corteccia. In particolare, il professore ha evidenziato come chi soffre della rara sindrome psichiatrica di Capgras (che non permette al malato di riconoscere i suoi familiari, identificandoli come impostori o replicanti di essi) probabilmente non può essere compreso, nella sua sofferenza psichica, attraverso il modello freudiano.

Successivamente Mario Rossi Monti, dell’Università di Urbino (Italia), ha permesso al pubblico di godere di un ottimo excursus psico-antropologico del concetto di sé, per aiutare a osservarne la nascita e l’evoluzione, muovendosi attraverso autori quali Richard Sennet e il suo concetto di ‘Flessibilità’ (1999), Zygmunt Bauman e il suo concetto di ‘Liquidità’ (2000), René Kaes e il suo concetto di ‘Mal-essere’ (2012). Il professore ha, inoltre, raggruppato i diversi concetti sul sé, emersi in letteratura, in cinque temi principali (decostruzione, flessibilità, accelerazione, insicurezza, transitorietà) e per ognuno di essi è stata evidenziata una tendenza all’uso di parole che spesso tendono a ‘togliere’, nel descrivere la psicopatologia, rischiando di dare un ‘giudizio per difetto’ a ciò che si osserva: un ‘fenomeno’ che rappresenta una forma di adattamento, probabilmente diverso dal passato, quindi in evoluzione.

Infine, George Northoff, dell’Università di Ottawa (Canada), neuroscienziato noto per i suoi studi sulla percezione dello spazio e del tempo relativo al senso del Sé. Molto interessante la concezione neuroscientifica della mente che ha proposto, attraverso gli studi di frequenza temporale di risposta a stimoli indotti. Cercando di rispondere a domande quali ‘Cosa rende possibile trasformare la connessione neurale in un processo mentale?’, il professore ha evidenziato il rapporto spazio-tempo alla base della consapevolezza del sé, sottolineando come essa NON avviene con il contenuto, ma essa è il SEGNO del contenuto. Supera, così, l’iniziale concezione neuroscientifica, che poneva il Sé come un contenuto, evidenzia come la psicoanalisi aveva ipotizzato il come una struttura complessa, ricorda come Freud avesse cercato di portare dinamismo nel cervello, ma sottolinea come oggi, grazie alle attuali tecnologie, è stato possibile osservare la forte sovrapposizione tra attività spontanea soggettiva e l’area cerebrale in cui accade. Ne consegue che il rapporto fra la potenza dello stimolo e la frequenza temprale permetterebbero di delineare il range tra normale e non nella psicopatologia. Un intervento davvero innovativo e ricco di osservazioni sperimentali, che supera il concetto di diagnosi e sempre più si rivolge all’individuo nella sua specialità.

Oltre agli interventi di questi tre noti autori, è stato possibile dedicare due momenti alla riflessione su casi clinici, avendo così a disposizione un confronto in diretta fra diversi punti di vista, erano presenti anche M. Zellner (Psicoanalista e Presidente della Fondazione NPSA), M. Fraire (Psicoanalista, Analista di Training SPI), A. De Coro (Presidente Società Junghiana AIPA), M. Genta (Psicoanalista, Analista di Training, Società Svizzera), B. Farina (Psicoterapeuta, Didatta di Training CBT, SITCC), A. Bruni (Psicoanalista, Analista di Training SPI) e C. Mucci (Psicoterapeuta, SIPPNET) che hanno arricchito l’approfondimento attraverso gli approcci psicoanalitico e cognitivo.

In conclusione

Il Convegno Exploring the Self ha messo in luce i rapporti tra psicoanalisi e neuroscienze, allargando gli orizzonti su un tema ancora senza possibile definizione e sempre di grande attualità, nella comprensione di domande importanti – Chi sono? Chi ero? Chi sarò? – a cui da secoli l’essere umano cerca di rispondere.

Tempo di qualità. Come aiutare i bambini a superare il trauma del divorzio dei genitori (2009) – Recensione del libro

Dopo il successo riscontrato nella prima edizione, Tempo di qualità si rinnova nella veste aggiornata attuale che, come la precedente, non ha l’intento di essere un antidoto alla rottura del legame coniugale. Sarebbe cupa la vita in un matrimonio in assenza di amore, alimentato da litigi di varie proporzioni.

 

Lo scopo del libro Tempo di qualità è chiaro: l’interesse a porre in primo piano la salute dei figli, aspetto essenziale all’interno del vortice di rabbia, dolore e caos emotivo rappresentato talvolta dal divorzio dei genitori (non sempre, sicuramente spesso).

La lettura accompagna la riflessione in modo attivo, volontario, naturale. L’autore ha inserito specifiche domande aperte alla fine dei paragrafi, sono rivolte ai vari attori coinvolti nella separazione: i coniugi. Domande senza risposta scritta; non c’è risposta giusta o sbagliata ma quella pensata dal lettore dove, attraverso esse, si attiverà il processo di comprensione delle proprie dinamiche interne e interpersonali, orientando i protagonisti sul viale delle migliori condizioni per i figli e per sé (e l’altro da sé).

Lasciare andare la rabbia e il dolore del divorzio

Tempo di qualità è un manuale scorrevole, in cui Melvin G. Goldzband con la penna ci regala anni di esperienza come psichiatra statunitense a contatto con situazioni difficili; tratta argomenti complicati, con sintassi leggera e semantica ricca, raggiungibili da chiunque viva emozioni, che difficilmente aprono alla lettura complicata e riflessiva. L’autore usa la modestia che lo caratterizza valorizzando i suoi insegnamenti esperienziali attraverso la validazione scientifica: riferimenti a studiosi di alto livello e anni di lavoro nel contesto delle separazioni, accompagnano insieme i coniugi nel tentativo di abbandonare la loro battaglia per il bene dei figli. Il testo, con la sua proposta a più occhi e in alcuni casi pluridisciplinare, si distingue da coloro che innalzano il livello di scontro tra i coniugi, credendo così di portare maggior beneficio ai figli.

Dall’analisi più approfondita di quanto sia penoso il processo per la custodia dei figli si giunge a comprendere che il peso emotivo sensibilizza altri attori oltre ai coniugi. Molti avvocati divorzisti rifiutano casi in cui sia coinvolto un minore, così come alcuni giudici chiedono il trasferimento a seguito della gravosità dello stress vissuto nelle cause di affidamento; trasferimento che prevede esperienze diverse, ma anche di occuparsi di casi di omicidio, violenza carnale, questioni queste reputate più semplici.

Ecco allora come astenersi dalla regressione all’odio e vendetta, tradotti spesso in battaglie legali per ottenere l’affidamento dei figli, vissute però da essi in modo estremamente negativo. Tempo di qualità è un libro che non insegna come vincere una causa di divorzio o come ottenere con più facilità l’affidamento, ma come riconoscere e incanalare le risorse personali eventualmente assegnate alla battaglia verso qualcosa di più costruttivo per la salute psichica dei figli. Gli unici a cui si deve pensare.

Il benessere dei figli prima di tutto

Filo conduttore del testo e lente di ingrandimento sotto la quale si cerca di guardare alle vicende durante tutte le fasi della separazione dei genitori è il punto di vista dei figli, concetto ripreso e ripetuto più volte nel libro.

Secondo l’autore, è inoltre auspicabile che la decisione dell’affidamento sia presa al di fuori delle porte del tribunale, in quel contesto agile e ricco di alternative fornito dai genitori, luogo che si sviluppa se essi consensualmente mettono da parte odio e rancori al fine di agevolare lo sviluppo psicologico del figlio.

Come afferma il Prof. Glenn H. Miller, “l’interesse psicologico migliore per il bambino non corrisponde al miglior interesse legale” qualora i coniugi continueranno a fare i genitori, farlo per sempre, pur non essendo marito e moglie, o peggio ancora, combattenti in una guerra con un solo perdente. Per ottenere tale risultato è necessario insegnare ai genitori come prendere consapevolezza del vero interesse psicologico ed emozionale dei figli. Non meno importante risulta il sistema motivazionale interpersonale dei coniugi, difatti “il pericolo maggiore per i bambini di divorziati è la manifestazione di una continua inimicizia tra i genitori”.

La lotta per l’affido è un errore, più volte ripetuto. Ma anche stare insieme per i figli è un errore, nell’accezione di tentare una riconciliazione per il loro bene. La riconciliazione senza reciprocità e il mantenimento di un adeguato clima familiare andrebbe a creare nei figli frustrazione e malessere.

Le diverse ragioni alla base della separazione

Le ragioni che conducono alle cause per la custodia dei figli nascono anche a causa di difficoltà legate alla sfera psichica inconsapevole del padre e/o madre; nel libro vengono presi in considerazione gli aspetti legati alla dipendenza del genitore verso l’altro coniuge, ma anche la dipendenza dei genitori verso i figli. Sono aspetti che l’autore ha incontrato nella pratica professionale e mette in luce nell’accezione non giustificativa verso il comportamento del coniuge che vuole a tutti i costi l’affidamento, ma per porre all’attenzione di altri professionisti tale problematica allo scopo di aiutare i genitori a non intraprendere cause nocive per la prole. Non c’è sempre cattiveria esplicita nel comportamento aggressivo di uno dei due coniugi. Tale aspetto non giudicante apre la strada alla cura e al benessere futuro, oltre ad interrompere cicli intergenerazionali disfunzionali.

Varie tematiche attuali sono discusse nel testo, attuali in quanto nascono negli ultimi decenni e possono coinvolgere in modo trasversale i bambini, insieme con i genitori entrambi. Ne sono un esempio le separazioni tra coniugi appartenenti a culture/religioni diverse, dove non sempre è presente la stessa normativa relativa all’affidamento, le conseguenze del “femminismo, della consapevolezza e della crescente indipendenza delle donne” dove il padre ha iniziato ad essere un personaggio significativo solo recentemente, oltre alle problematiche delle visite del genitore non affidatorio (es. il lunedi mattina, quando il telefono degli avvocati divorzisti squilla parecchio).

Cosa ci insegna il libro Tempo di qualità?

Il comandamento più volte sostenuto dall’autore sottolinea che i genitori non devono assolutamente litigare per i figli, tantomeno condurli in una lotta in tribunale. Affermazione forte che non apre a scenari alternativi. A tal proposito, l’autore viene incontro ai coniugi in un capitolo dedicato esclusivamente a “cosa deve fare un genitore”.

L’ultimo capitolo è dedicato a “cosa devono fare i bambini”. L’autore nella stesura del libro Tempo di qualità ha suggerito quali istruzioni possono aiutare i genitori, veri e acquisiti, affinché i minori ottengano il loro tempo di qualità. Ecco che il testo si chiude con i compiti che i figli, anche loro, devono svolgere dopo il divorzio dei genitori: ricostruire le loro vite inserendosi nell’età adulta sana.

Per concludere, mi sembra corretto postulare una domanda: ci sono dei momenti in cui si deve lottare per la custodia dei figli? Secondo l’autore sì, anche se lo afferma a malincuore sottolineando che ciò non avviene quasi mai.

Termino con una citazione, dove Melvin G. Goldzband ricorda che il testo

può essere consultato in qualunque occasione, per ricordarvi quanto danno può essere fatto a tutti gli interessati, compresi voi stessi, e per suggerire alternative.

Cibi grassi e cibi magri: il modo in cui processiamo il cibo modifica la nostra motivazione a consumarlo

Ormai è nota l’esistenza di un sistema nervoso enterico che comunica una serie di informazioni riguardo le proprietà nutritive e l’apporto calorico, il valore energetico degli alimenti, tramite specifici segnali post-ingestione, al sistema nervoso centrale.

 

E’ noto anche come questi segnali siano cruciali per la regolazione di quei comportamenti legati alla scelta dell’alimentazione più appropriata sia nella qualità ma soprattutto nella quantità, affinché l’organismo possa mantenere costante il giusto apporto calorico ed energetico per la sua sopravvivenza.

Sembra in particolare che questi segnali provenienti dal sistema nervoso enterico siano implicati nella modulazione del rinforzo proveniente dal cibo come suggerito dal nuovo studio di DiFeliceantonio, Coppin, Rigoux, Small e colleghi del Max Planck Institute for Metabolism Research, del John B. Pierce Laboratory, New Haven e la Swiss Center for Affective Sciences di Ginevra.

Cibi grassi e cibi magri: come vengono valutati dal nostro corpo

I segnali nervosi generati dall’intestino a seguito dell’ingestione di cibo rappresentano dei segnali di rinforzo che “ci motivano” alla selezione di un particolare cibo in quanto sembrano essere in grado di regolare i circuiti neurali del sistema dopaminergico meso-striato-prefrontale – sistema necessario per la motivazione e l’apprendimento – senza tener conto di altre caratteristiche del cibo che potrebbero influire sulla sua ricerca e ricompensa quali il gusto, l’appetibilità, la gradevolezza, la sua densità energetica e la sua disponibilità nell’ambiente.

Ad esempio di ciò, negli umani è stato osservato come la malto destrina, un carboidrato inodore e insapore, sia stato in grado di condizionare un gruppo di volontari a mangiare una quantità maggiore di sorbetto, suggerendo che lo stimolo incondizionato che ha guidato il rinforzo al consumo di sorbetto sia stato un segnale metabolico emesso nel momento in cui le cellule hanno incominciato a produrre energia dall’assimilazione del glucosio che compone il carboidrato e non la sua appetibilità (Zhang, Han, Lin et al., 2018).

Questi segnali, a seguito dell’ingestione del carboidrato, afferiscono al sensore della vena porta e successivamente vengono trasmessi allo striato per regolare il rilascio di dopamina che conferisce la stima del valore nutritivo dell’alimento appena assunto.

Cibi grassi e cibi magri: lo studio per capire le motivazioni all’uso

Molti dei cibi attualmente prodotti contengono però poche sostanze nutritive e hanno un contenuto eccessivo in termini calorici, risultando sensorialmente irresistibili ma energicamente densi in quanto composti in alte dosi e combinazioni da carboidrati e grassi.

Dal momento che i segnali neurali afferenti metabolici (metabolic neural afferent; MNA) fungono da rinforzo alla consumazione di questi componenti, producendo rapidamente un immediato rilascio di dopamina nel sistema dello striato indipendentemente dal piacere e dalla gradevolezza sensoriale dell’alimento, un aumento della quantità di questi potrebbe generare una “dipendenza” e condurre ad una sovralimentazione come evidenziato dallo studio di DiFeliceantonio e colleghi (2018).

L’aumento della quantità di cibo da ingerire a sua volta viene determinato da una compromissione nell’affidabilità dei segnali metabolici post ingestione riguardo la densità energetica degli alimenti al sistema nervoso centrale, associata ad un’iperattivazione del sistema dopaminergico striato (Small & DiFeliceantonio, 2019).

Nella ricerca pilota di DiFeliceantonio e colleghi (2018), 20 soggetti sperimentali volontari, dopo un pasto durante la notte calibrato su circa 430 kcal per fare in modo che si presentassero alla sessione sperimentale del mattino successivo a stomaco vuoto e con un basso indice glicemico e proteico, hanno partecipato ad un’asta alimentare all’interno dello scanner della risonanza magnetica funzionale che durante il task misurava la loro attività cerebrale.

Ogni soggetto aveva a disposizione una precisa somma di denaro che avrebbe dovuto spendere per acquistare degli alimenti rappresentati in immagini all’interno dello scanner; gli alimenti erano stati divisi per macrocategorie nutrizionali quali “grassi”, “carboidrati” e “grassi + carboidrati”.

Per ogni alimento presentato, i soggetti avrebbero dovuto scegliere se comprarlo dopo averne stimato la densità energetica (e.s. “quante calorie pensi possa contenere questo alimento?”).

Cibi grassi e cibi magri: i risultati dello studio

Lo studio ha mostrato come i soggetti fossero maggiormente disposti a pagare per alimenti contenenti sia grassi che carboidrati anziché per alimenti con soli grassi o soli carboidrati e che la loro scelta durante l’asta fosse riflessa nell’attivazione dello striato dorsale e del talamo medio dorsale; in aggiunta a ciò, i ricercatori hanno evidenziato come i partecipanti fossero molto più accurati nella stima energetica degli alimenti contenenti solo grassi diversamente da quelli contenenti solo carboidrati o grassi + carboidrati, ma con la medesima densità calorica e che questa stima era associata all’attivazione del giro fusiforme e delle sue connessioni con la corteccia prefrontale ventromediale (DiFeliceantonio, Coppin, Rigoux, Small et al., 2018).

Sostanzialmente i soggetti erano stati più accurati nella stima energetica di una sola macrocategoria nutrizionale (quella contenente solo cibi grassi) ma sono stati disposti a pagare di più per alimenti contenenti sia grassi che carboidrati.

Dallo studio di DiFeliceantonio e colleghi (2018) emerge l’esistenza di un sistema fisiologico “sensibile” al rilevamento e al processamento dei nutrienti che gioca un ruolo fondamentale nel regolare il sistema striatale dopaminergico, determinando per ogni nutriente la stima energetica e la motivazione al consumo e dal momento che i cibi maggiormente più dannosi hanno ricevuto una stima incorretta ma un rinforzo maggiore alla loro scelta e consumo, si potrebbe affermare che le modalità attraverso cui questi cibi sono preparati e poi processati influenzi l’asse intestino-cervello in un modo che potrebbe favorire la sovralimentazione e le disfunzioni metaboliche tramite l’alterazione dei segnali di sazietà (Small & DiFeliceantonio, 2019).

Ciò potrebbe avere delle importanti implicazioni nella comprensione del fenomeno dell’obesità in quanto risposte neurali mesolimbiche a determinati cue alimentari sono state associate all’obesità così come all’alimentazione in assenza di segnali specifici relativi al senso di fame, alla sovralimentazione e a scarse performance nella perdita di peso (Small & DiFeliceantonio, 2019).

Letture consigliate per la crescita interiore

Esistono numerosi libri incentrati sul delicato e interessante tema della crescita personale interiore, dai testi che trattano dei metodi concepiti per raggiungere il completo riconoscimento e sviluppo delle proprie potenzialità a quelli che raccolgono e propongono le teorie più diffuse e convalidate dagli esperti in materia.

 

Nel contesto attuale, in cui si assiste sempre di più a un accelerato progresso globale e al raggiungimento di traguardi inaspettati, l’idea di conoscersi per accrescersi interiormente coltivando i propri talenti, è una delle ambizioni più intime, avvertita come autentica necessità da molte persone. Chiarire quali sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere e come conquistarli è una vera e propria priorità.

Lo sviluppo personale

Quando si parla di sviluppo personale ci si accosta a una materia complessa e in costante divenire che impone al soggetto di trovare in sé consapevolezza, forza ed energia per potersi sempre mettere alla prova, riuscendo a gestire le situazioni in ogni momento senza sentirsi inadeguato o impotente di fronte ad esse. Si tratta di assumere piena coscienza delle proprie risorse e imparare a impiegarle al meglio nelle diverse circostanze in cui si è chiamati ad agire. Spesso, tutto lo sforzo che si produce per distinguersi e sentirsi appagati in ambito privato, personale o professionale è dovuto al tentativo di superare i limiti educativi, sociali e culturali imposti, limiti che segnano la propria libertà frenando i livelli di azione e interazione necessari a permettere di emergere. Il tutto si traduce in una sensazione di insoddisfazione permanente, difficile da superare senza i giusti mezzi e la dovuta attenzione a come migliorare sé stessi. Quando le potenzialità individuali non vengono riconosciute e finiscono per essere represse senza trovare spazio e modalità di espressione, le persone si trovano nella condizione frustrante di non sentirsi all’altezza delle situazioni in cui sono chiamate ad agire. Questo genera un senso di inadeguatezza che porta a sentire di non valere abbastanza e di non poter riuscire a fare di meglio.

Come lavorare alla propria crescita personale

Analizzando i suggerimenti degli esperi in materia, diversi sono gli spunti di riflessione da cui partire per intervenire su di sé, stimolandolo con la possibilità di ricercarsi, comprendersi, accrescersi e migliorarsi. Si parte sempre da un’analisi interiore delle proprie risorse e possibilità per poi intraprendere percorsi di acquisizione di nuove competenze, stimolarsi all’apprendimento di cose nuove, concentrare le proprie abilità su attività volte ad assecondare il talento individuale, valorizzare i propri punti di forza cercando di individuare quelli di debolezza per poterli trasformare, chiarire a sé stessi i propri obiettivi e mettere in atto le strategie migliori per raggiungerli, affinare le proprie competenze specifiche, alimentare le proprie motivazioni, lavorare sull’autostima e non perdere la fiducia in sé stessi. Il successo nella propria vita, la possibilità di una totale realizzazione verso la piena consapevolezza e il vero benessere sono il risultato di un impegnativo, quotidiano lavoro interiore che spinge ciascuno a intraprendere un cammino proiettato verso uno spazio potenzialmente illimitato, quello della crescita interiore della persona. In termini pedagogici, il processo di crescita indica la capacità di avvicinarsi sempre di più a ci che realmente si è, riconoscendo e incrementando le proprie potenzialità, smussando i propri limiti, oltrepassando condizionamenti superflui e imparando a relazionarsi agli altri in termini costruttivi, di progresso reciproco.

 

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Amicizia e delusione. Quando a tradire è un amico.

Arriva da un momento all’altro, in un modo del tutto inaspettato e ci lascia attoniti, annichiliti, incapaci di reagire. E’ il tradimento di una persona a cui avevamo dato la nostra fiducia incondizionata.

 

Una persona che ritenevamo al di sopra di ogni sospetto e davanti alla quale avevamo abbassato tutte le nostre difese aprendole il nostro cuore in modo incondizionato.

La prima reazione è duplice: delusione e disillusione verso quello che da un momento all’altro è diventato il nostro ex amico, rabbia verso noi stessi, così ciechi ed ingenui da esserci fidati della persona sbagliata.

Tradimento dell’amicizia: una tra le delusioni più forti

Elaborare la delusione è difficile, c’è solo una domanda: “Perché?”.

E si susseguono stati d’animo diversi e contrapposti, desiderio di vendetta, speranza di poter recuperare l’amico, rancore, senso di vuoto. Le nostre aspettative sono deluse e più avevamo investito su di lui, più ci troveremo vulnerabili e fragili.

Avremmo potuto capire a cosa stavamo andando incontro? Forse sì. Probabilmente qualche cambiamento più o meno evidente nelle consuetudini del nostro rapporto con l’amico si era verificato. Forse la normale evoluzione che attraversa ogni persona, o una qualche temporanea urgenza emotiva aveva “distratto” l’amico dal rapporto di condivisione che avevamo vissuto insieme. Poco importa, di colpo ci troviamo orfani di una parte di noi. Nell’amico avevamo proiettato la parte migliore di noi, quella che amavamo di più, fino a farlo diventare il nostro “doppio” in cui potevamo rispecchiarci e da lui ci aspettavamo che si sarebbe sempre comportato con noi esattamente come noi ci eravamo sempre comportati con lui. La sua perdita porta con sé la perdita di una parte di noi.

Tutta questa fase così confusa ci viene spiegata dalla psicologa francese Pascale Chapeaux-Morelli nel suo libro Vincere la delusione, che ci fornisce anche una piccola consolazione: questa sofferenza avrà anche un risvolto positivo, la delusione ci porterà a porci delle domande su di noi, sulle nostre aspettative e le nostre esigenze, su cosa cerchiamo e perché e grazie a questo processo impareremo a conoscere meglio noi stessi e a conquistare una consapevolezza preziosa nel nostro processo di crescita personale.

Amicizia: un rapporto speciale ed esclusivo

Noi scopriamo ciò che ci sostiene veramente, se tutto ciò in cui abbiamo fiducia ci inganna, e non ci sostene più

(Carl Gustav Jung)

Ma cos’è l’amicizia? Oggi il termine risulta inflazionato, si tende a conferirgli un significato generale e si racchiudono in questa parola gran parte dei rapporti cordiali che possono intercorrere tra due persone. Se vogliamo attribuirle il suo significato più vero e profondo, l’amicizia è la relazione fra due persone che hanno come priorità il bene dell’altro. Se cerchiamo una definizione su un dizionario, troveremo più o meno questo: l’amicizia è reciproco affetto costante e operoso (…) nato da una scelta che tiene conto della conformità dei valori o dei caratteri e da una prolungata consuetudine.

E’ anche un sentimento complesso che nessuna teoria può spiegare del tutto.

La forza e l’intensità di questo rapporto possono essere difficili da interpretare e creare confusione, ad esempio possiamo chiederci qual è la differenza tra l’amicizia e l’amore. A volte è solo questione di sfumature e, se è vero che si tratta di concetti non equivalenti, a volte tendono a mescolarsi e sovrapporsi fino a diventare difficilmente separabili. Ammirazione, stima, affetto, sono connotazioni che si prestano a definire entrambi. Il professor Francesco Lamendola, nel suo libro “Fogli sparsi”, ci dice che l’amicizia, a differenza dell’amore, implica che due persone si trovino sullo stesso livello, non nasce da un momento all’altro ma si basa su momenti ed esperienze condivise. Se l’amore non è sempre vissuto con uguale intensità, l’amicizia, per essere tale, deve necessariamente essere reciproca.

L’amicizia può comprendere l’amore ma l’amore non può comprendere l’amicizia (…) tra le due è l’amicizia la relazione più pura e disinteressata, dunque la più elevata; e ciò che sta più in alto può comprendere ciò che sta più in basso, ma non è possibile il contrario

Un ulteriore chiarimento ci arriva da Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, che nel suo libro Elogio all’amicizia spiega come in amore sia possibile perdonare una trasgressione, considerandola un’episodio a sé, in nome di un rapporto più solido e duraturo. Nell’amicizia questo non è possibile. Il tradimento dell’amicizia fatica a trovare giustificazioni perché l’amicizia non è di per sé accomodante, è più dogmatica dell’amore, non accetta sfumature di comodo ma solo colori primari. Se viene tradita è per sempre e raramente ciò avviene per questioni futili o superficiali. I tentativi di giustificarsi hanno poco effetto perché l’amicizia non si fonda su sentimenti dichiarati, più o meno enfatizzati, ma su fatti indiscutibili che la vita valuta in modo definitivo.

Tradimento in amicizia: cosa comporta

Per concludere, tentiamo di darci una risposta: una volta che l’amicizia è stata tradita, è possibile perdonare l’amico traditore? No, se il suo tradimento è stato intenzionale, se non si è curato di noi e dei nostri sentimenti, se non ammette l’errore e non si scusa in modo sincero.

In alcuni casi, però, il perdono è possibile. Questo può accadere quando la mancanza non era deliberatamente volta a danneggiarci, quando il pentimento è sincero. L’incrinatura nel rapporto richiederà tempo e buona volontà da entrambe le parti per provare a ricomporsi ma recuperare l’amico è possibile. A patto che si sia convinti che continui a valerne la pena. Servirà ripercorrere i momenti vissuti insieme, le esperienze condivise, i valori che ci avevano accomunato e, come ci consiglia la dottoressa Chapeaux-Morelli, servirà parlare molto e nel modo più sincero:

L’amicizia nasce dal rispetto delle differenze, da grandi momenti di intimità, dalla capacità di mettersi a nudo, dal diritto di sbagliare e dal dialogo. Parlate molto, ma soprattutto, dite la verità.

 

Il mistero del linguaggio (2018) di Noam Chomsky- Recensione del libro

Noam Chomsky non ha bisogno di presentazioni per chi come me è diventato psicologo o ha studiato psicologia tra la fine degli anni ’90 e gli inizi degli anni ’10.

 

Era diverso tempo che il padre del cognitivismo e del computazionalismo non pubblicava un volume dedicato al linguaggio e ai capisaldi del suo modello teorico.

Negli ultimi tempi, infatti, ha dedicato il suo tempo più all’impegno politico e sociale che verso le scienze cognitive e lo studio del linguaggio.

Il mistero del linguaggio, ultima sua fatica, sembra stare all’autore, come Compendio di Psicoanalisi sta a Freud: questo libro è una summa del modello della Grammatica Trasformazionale.

Il mistero del linguaggio: summa del lavoro di Chomsky

Facendo questa recensione non vorrei essere foriero di eventi ferali, ma sembra che questo volume voglia essere il testamento del novantenne linguista, un testamento per descrivere cos’è il linguaggio e quale è stato e sarà l’impatto del contributo che Noam Chomsky ha dato allo studio di questa funzione cognitiva.

Il contributo di questo autore alla psicologia cognitiva ed in particolare all’applicazione di questa, allo studio del linguaggio, è riconosciuto in senso universale.

E’ impossibile, infatti, approcciarsi allo studio del linguaggio senza passare dai capisaldi eretti da questo monumento vivente della psicologia e della linguistica contemporanea.

La grammatica trasformazionale, la generatività del linguaggio, il distinguo tra linguaggio come funzione e lingua come codice, la povertà dello stimolo come punto di partenza di un modello epigenetico alla comprensione del modello ciomskyano: sono pietre angolari imprescindibili di chiunque si approcci allo studio del linguaggio.

In questo volume, il vestito della Grammatica Transormazionale viene cucito sapientemente, dall’autore, intorno alla funzione del linguaggio.

L’approccio allo studio del linguaggio di Noam Chomsky è uno sguardo privilegiato a questa funzione a cui l’autore ha sempre attribuito competenze uniche e speciali che quasi sfidavano il darwinismo in termini evoluzionistici ed in termini Edelmiani (Darwinismo Neurale).

Il successo di Noam Chomsky, a onor del vero, nasce dalle sue invettive allo studio del linguaggio mosse a Skinner nel 1952, all’uscita del libro Comportamento Verbale, approccio comportamentista e funzionalista allo studio del linguaggio.

Sempre per amor di verità, l’invettiva contro Comportamento Verbale, diede molto risalto all’allora giovane ricercatore e aprì una frattura tra l’approccio scientifico empirico del modello comportamentista, dove il contesto e l’ambiente giocavano un ruolo predominante allo sviluppo delle funzioni evolutive, all’ approccio innattista ed epigenetico del nascente cognitivismo, dove le funzioni innate e l’apprendimento altro non erano che una sorta di matching di moduli ristretti innati che si organizzavano intorno a vincoli rigidi ambientali che erano appunto le informazioni.

Tale approccio del primo cognitivismo altro non era che quel modello computazionalista Fodoriano (da Fodor, padre della psicologia modularista), con notevoli influenze del modello HIP (human information processing), il cui padre fondatore fu U. Neisser.

Per quanto Noam Chomsky non abbia bisogno di presentazioni è quasi necessario, dunque, inquadrarlo all’interno della prospettiva computazionale e del modello cognitivista di base, non solo perché l’autore ne ha costruito un metodo attorno allo studio del linguaggio, ma perché il background dell’autore è ancora molto forte nelle parole impresse in questo volume.

Il mistero del linguaggio: struttura e contenuti del libro

Approcciandosi alla lettura di questo prezioso compendio è dunque importante sapere che ci si sta avvicinando ai “misteri del linguaggio” da una prospettiva tanto privilegiata, quanto esclusiva. Privilegiata perché è come sedersi al cerchio del saggio che racconta la storia di cui lui è stato fautore, esclusiva perché si coglie il tentativo, da parte dell’autore, di rimarcare il ruolo principe che la sua teoria di base ha dato allo studio del linguaggio, scotomizzando a volte le recenti scoperte delle neuroscienze.

Il libro si divide in tre parti fondamentali.

Il primo capitolo sembra ricalcare la storia della linguistica e la storia della scienza e il tentativo “positivista” dell’autore di colmare i vuoti della sua teoria al confronto dello sviluppo delle neuroscienze.

Secondo l’autore, infatti, vi è una sorta di rottura tra le recenti acquisizioni delle neuroscienze ed il modello cognitivo epigenetico. Questo capitolo sembra essere la parte più debole del libro, ma anche un “incondizionato” sostegno al modello innattista senza se e senza ma.

Il secondo capitolo è invece un capolavoro di comprensione e sintesi, dove gli elementi della grammatica trasformazionale, vengono spiegati in maniera chiara e divulgativa .

La terza parte è invece la parte più ardita del libro, in cui Noam Chomsky prova a rileggere la moderna letteratura con gli occhi del computazionalismo e prova a chiarire i fraintendimenti alla sua teoria che negli anni si sono generati.

Il mistero del linguaggio: perchè leggerlo

A chi consiglierei questo libro? La mia risposta è a tutti, o comunque a tutti gli psicologi all’ascolto ed in particolare ai tanti psicologi e psichiatri cognitivi che magari si definiscono cognitivisti e conoscono benissimo Freud, ma sanno ben poco di cognitivismo, di HIP, computazionalismo e di storia della psicologia cognitiva in genere.

Questo libro è un testamento ed un compendio conciso e chiaro, quindi un ottimo punto di partenza per capire cosa vuol dire avere un approccio cognitivo allo studio di tutte le funzioni umane, almeno negli intenti di chi è stato tra i padri di un modello prima di tutto filosofico e poi scientifico.

I limiti di questo libro? Sono i limiti di tutti gli uomini ed in particolare dell’uomo che di fronte a Sé, o prossimo alla fine del suo percorso, si consacra ad un testamento e, al cospetto dell’ignoto e del progresso, celebrandosi, non riesce a superare il suo mito.

Forse questo fu lo stesso errore di Skinner, quando, con gli ultimi scritti (raccolti in un prezioso volume, Difesa del comportamentismo) tentava di esplicare ciò che non era più esplicabile e aprì le porte al cognitivismo come scienza cognitiva e lanciò di fatto il comportamentismo radicale e tutte quelle innovazioni che hanno portato al contestualismo funzionale e alla psicologia applicata, ma anche alle attuali best pratic in moltissimi campi dalla psicoterapia all’ economia (cit. Premio Nobel per il costrutto del Nudge a Richard Thaler per l’economia comportamentale; Steven C. Hayes, padre del contestualismo funzionale eletto recentemente come presidente dell’American Psychological Association) .

Se così sarà anche per Chomsky, aspettiamoci, dopo questo libro, nuove rivoluzioni, aperti alle novità e pronti al cambiamento, senza paura, ben radicati sulle spalle di giganti.

La Società di Psicoterapia Unitaria Nazionale (SPUN) – Un racconto di Fantapsicologia

I diversi approcci psicoterapeutici sembrerebbero essere accomunati dal medesimo scopo: modificare il funzionamento della mente perseguendo l’aumento della consapevolezza per rendere più elastico e adattivo il modo di vedere e affrontare la realtà da parte dell’individuo. Ma siamo sicuri che incrementare un metalivello di osservazione sul proprio funzionamento sia sempre utile o potrebbe invece risultare semplicemente un intralcio? Riflettiamo su questo tema attraverso un racconto di “FANTAPSICOLOGIA” che ci illustra come discutere di questo argomento sia tutt’altro che semplice.

 

Non basta aver dovuto, ormai in avanti con gli anni, imparare a surfare sull’incalzare continuo delle ondate sovrapposte della terapia cognitiva, adesso tutti i terapeuti, dai serissimi e riservati psicoanalisti fino ai gruppetti di merenda caciaroni dei sistemici, si sono trovati di fronte ad un bivio ineludibile e l’incapacità di accordarci ci ha portati ad un passo dall’estinzione per lo scioglimento della Società di Psicoterapia Unitaria Nazionale (SPUN).

Cupio dissolvi: cronache dal congresso della SPUN

L’intervento conclusivo in assemblea del dottor Ernesto Schiavone Frangipane aveva avuto il tono, inconsueto per il paludato psicoanalista novantaduenne, di una chiamata alle armi che da un lato serviva a sollevare l’entusiasmo dei suoi interessati sodali garantendogli un nuovo ennesimo mandato minacciato dalla furia riformatrice dei rampanti 75enni, e dall’altro era rivolto soprattutto ai politici presenti in sala che in campagna elettorale diventavano particolarmente sensibili alle richieste di una categoria che metteva per così dire “le mani nel cervello” della gente ed era accreditata, più o meno esageratamente, di grande potere di influenzamento delle coscienze ed era disponibile a agevolazioni fiscali.

Il tema centrale dell‘intervento trattava dell’importanza dell’acquisizione di consapevolezza rispetto alle esperienze più dolorose e traumatiche per sviluppare un carattere solido e la tanto sbandierata “resilienza”. Questa netta presa di posizione non era insensibile alle pressioni della conferenza episcopale (la CEI aveva persino assunto nella redazione dell’”Avvenire” un nipote di Schiavone laureato in scienze della comunicazione senza né arte né parte), grande sostenitrice della corrente di Schiavone in quanto rivalutante il ruolo della sofferenza e del sacrificio a fronte del crescente edonismo della società civile che chiedeva la desonosografizzazione del narcisismo, delle dipendenze da sostanze e delle perversioni sessuali.

La tesi consapevolsacrificocentrica di Schiavone e dei suoi era fermamente avversata dalla corrente minoritaria della SPUN che minacciava di costituirsi come società autonoma rompendo quell’unitarietà faticosamente conquistata che da oltre vent’anni riuniva in un’unica confraternita psicoterapeuti di ogni genere e formazione (con tutte le forme intermedie e persino gli psicoterapeuti N.A.S), ponendo fine, almeno apparente, alle spietate guerre di oltre un secolo tra grandi coalizioni e piccole bande sempre pronte a frammentarsi ulteriormente in nome di una presunta ortodossia ideale tanto da far invidia persino alla sinistra che inviava ai congressi osservatori per studiarne le perverse dinamiche frammentatorie.

La riunificazione era avvenuta intorno al riconoscimento dello scopo comune di modificare il funzionamento della mente perseguendo l’aumento della consapevolezza rendendo così più elastico e adattivo il modo di vedere e affrontare la realtà. Al contrario la fazione minoritaria e scissionista capitanata dal giovanilissimo 73enne dottor Carlo Stregotti sosteneva che la consapevolezza di sé, presunta esclusività della specie umana, fosse alla base di tutti i mali e tollerabile solo a dosi modeste e transitorie. In tal senso considerava la psicoterapia come era stata intesa fino ad allora, il più grave evento iatrogeno che avesse colpito l’umanità. Con la consapevolezza di sé l’uomo si era sottratto alla naturalità dell’esistenza che condivideva con tutti gli altri viventi diventando un’anomalia unica nel creato che, rispettoso del divieto di mangiare dell’albero della conoscenza, continuava tuttora a prosperare nel paradiso terrestre. Capace di potenti metafore, Stregotti descriveva la consapevolezza e la psicoterapia sua complice come una “nassa” (quelle reti da pesca a imbuti subentranti) in cui è possibile il transito in una sola direzione. Una volta iniziato il cammino si perde definitivamente l’innocenza originaria e non si può che andare avanti nella illusoria speranza che una consapevolezza piena e totale possa dare una felicità consapevole ipoteticamente ben superiore all’incosciente piacere da cui si sono prese presuntuosamente le distanze con il “cogito” cartesiano. Con un’altra brillante metafora Stregotti paragonava la consapevolezza al “leggere”: una volta che abbiamo imparato, diceva, non ci è più possibile esimercene e un mondo che era bello di forme e colori appare pieno di significati e anche quando sono orribili e sarebbe meglio ignorarli non possiamo più esimerci dal farlo.

Tutta la prospettiva terapeutica sviluppata dalla corrente di Stregotti è mirata alla ricerca della felicità attraverso una riduzione dell’autocoscienza e all’evitamento sistematico di quelle che sono sempre state considerate le domande esistenziali profonde: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? E, peggiore delle altre, che senso ha questa vita? Le frange più estremiste hanno rispolverato le vecchie tecniche della psicochirurgia per tentare l’ablazione dell’area 57 dove i neuroscienziati della Yale University hanno con certezza identificato la sede dell’”IO” e della limitrofa 57/bis probabile localizzazione del “SUPERIO”, mentre il più ingombrate “ES” sembra situato, guarda caso, sotto il talamo, dove nessuno va mai a guardare e si accumula sempre polvere.

Esistono, comunque, altre strategie meno cruente per la riduzione della dolente autocoscienza sia farmacologiche che psicologiche. Quasi tutti gli psicofarmaci indipendentemente dalle indicazioni approvate dal ministero soprattutto se a forti dosi, così come tutte le droghe e le sostanze di abuso, hanno il positivo effetto di creare ottundimento, confusione e dissociazione insomma di far rapidamente fuori l’Io autosservante e di afflosciare come una torta mal lievitata i numerosi e inutili piani sovraordinati di metacognizione che si osservano, giudicano e valutano l’un l’altro. Promettenti le ricerche di un’azienda multinazionale che ha messo a punto un casco che combinando ultrasuoni, stimolazioni elettromagnetiche a forte voltaggio e scuotimenti meccanici a 2000 hertz sembra garantire un Alzheimer precocissimo appena superata la soglia dell’età adulta.

Le strategie psicologiche possono a loro volta essere distinte in due grandi categorie di segno opposto, quelle del disimpegno e quelle dell’impegno. Entrambe accomunate dal concentrarsi su alcuni particolari perdendo così la inquietante visione d’insieme.
Le strategie disimpegnate, da sempre connotate come edonismo, consistono nel dedicarsi ai piaceri del momento che cambiano a seconda del contesto culturale e delle varie età della vita sebbene alcuni temi come il cibo e il sesso appaiono trasversali. Troviamo in questa categoria anche tutte le passioni, gli hobbies, le vacanze e i viaggi nonchè i progetti transitori che riempiono l’esistenza e producono uno sprazzo di soddisfazione fugace nel momento del loro raggiungimento: il lavoro, una casa, un partner, un figlio, la seconda casa, il secondo figlio, la pensione, una buona morte, sontuose esequie. Le strategie cosiddette impegnate per l’offuscamento dell’autocoscienza hanno sempre goduto di maggior apprezzamento sociale e consistono nell’ancorare la propria esistenza a riferimenti valoriali esterni pervasivi e totalizzanti come Dio, Patria, famiglia o qualsiasi altro valore che trascenda la propria individualità. È accesissimo il dibattito circa la collocazione dell’”amore” quello con la “A” maiuscola se tra le prime in compagnia dell’innamoramento o le seconde.

Secondo Strangotti e i suoi non possiamo vivere se non distraendoci, autoingannandoci e mentendo a noi stessi con la demenziale favoletta che vivere è un bene e la vita persino bella, impedendoci così di contemplarne l’orrore. La posizione di Strangotti si ispira alle due nobili verità del buddismo secondo cui la vita è sofferenza e bramare ne è la causa e propone con forza il paradosso di voler/dover coscientemente rinunciare alla coscienza ed alla identità personale. Di contro Schiavone bolla tutto ciò come un inconcepibile e impossibile ritorno all’animalismo che rinnegherebbe tutto il percorso evolutivo della specie umana e paventa la fine della specie Sapiens Sapiens che è l’avanguardia dell’evoluzione stessa e porta sventolante il vessillo dell’autocoscienza.

I partecipanti all’assemblea annuale vivono per tre giorni praticamente reclusi all’Hotel Ergife scelto per la facile raggiungibilità dall’aeroporto di Fiumicino ed anche i romani preferiscono non tornare a casa la sera per partecipare alle trattative per le alleanze che, a somiglianza del conclave, si svolgono nei tempi morti, nelle pause e durante la notte che precede la giornata conclusiva che vede l’elezione del comitato direttivo e la nomina del nuovo presidente.

Il congresso di quest’anno è particolarmente ricco di tensioni in quanto per la prima volta dalla sua fondazione si rischia una scissione della società che darebbe una pessima immagine all’opinione pubblica che coltiva l’idea dei terapeuti come persone comprensive, buone d’animo e in grado di trovare sempre una soluzione a qualsiasi problema. Inoltre la divisione in due della società comporterebbe un numero di iscritti sia ai cosiddetti “consapevolisti” che agli “animalisti” così ridotto da rischiare di non aver accesso ai fondi europei per le società scientifiche ne al 5 per mille destinabile dalle tasse italiane. Per tutta la mattinata del sabato la frattura tra le due componenti sembra insanabile e ad ogni intervento i toni si fanno più aspri. Il sottosegretario al Miur Michele Gambino raggiunge appositamente l’Ergife per pranzo per parlare con la sua ex compagna di Liceo Rita Genovese, segretaria del comitato direttivo uscente, ritenendola l’unica in grado di tentare una mediazione. La dottoressa Rita Genovese ha 59 anni ed una cultura psicoterapeutica a 360° avendo completato la formazione come psicoanalista, sistemica, cognitivista e ipnotista prima di dedicarsi completamente alla SPUN. Alla sua competenza professionale universalmente riconosciuta, alla determinazione manageriale e alla capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore rendendolo docile ad ogni sua iniziativa unisce una bellezza un tempo prorompente ed ora consapevole e maliziosa che in molti ritengono la causa prima della sua ascesa all’interno della SPUN. È vero del resto che il socio che la presentò per l’adesione alla società fu proprio il dottor Schiavone allora solo 61enne che la rese dunque con i suoi 28 anni la socia più giovane della SPUN di tutti i tempi. La voce di una relazione tra i due si diffuse al momento dell’improvviso divorzio conflittuale di Schiavone che dovette rimboccarsi le maniche e accettare numerosi incarichi di direttore sanitario di cliniche convenzionate e comunità terapeutiche per onorare gli esosi alimenti cui il giudice lo aveva condannato incolpandolo di flagrante adulterio. A quel tempo la Genovese, era completamente dedita alla causa della consapevolezza assoluta, aveva completato la formazione personale sia in psicoanalisi classica che in analisi junghiana e aveva agganci col mondo limitrofe delle scienze occulte. Le male lingue mosse dall’invidia avevano interpretato il suo successivo legame con il dottor Strangotti, astro nascente della società e leader indiscusso della corrente di minoranza, come segno della sua ambizione carrieristica che la spingeva ad accoppiarsi con gli uomini potenti. Tuttavia ciò non era stato dovuto ad un freddo calcolo e attribuibile solo alla preferenza evoluzionistica delle femmine per il maschio alfa. All’interno della società si diceva che la cosiddetta “questione Genovese” avesse acuito se non addirittura generato il dissidio teorico tra Schiavone e Strangotti. Sta di fatto che lei rappresentava un punto di mediazione tra i due e per questo era stata nominata segretaria generale del comitato direttivo: in quel ruolo garantiva che qualunque fosse stata la maggioranza che esprimeva la presidenza avrebbe rispettato i diritti della minoranza e dunque l’unità e la sopravvivenza della società tanto cara a Gambino che aveva investito parecchi denari nelle scuole di psicoterapia cui la commissione da lui presieduta conferiva l’autorizzazione. Il sottosegretario Gambino che conosceva bene l’animo ambizioso di Rita ed era sinceramente affezionato a lei per averlo liberato dell’imbarazzante verginità durante la gita del quarto liceo a Rimini d’inverno, la sollecitò a farsi avanti con una sua personale candidatura alla presidenza che sarebbe stata ben vista per il suo essere donna e non osteggiata dai due contendenti per evidenti motivi affettivi e per non apparire meschini. Si trattava di mettere a punto una proposta programmatica che facesse una sintesi superiore tra le posizioni estreme dei consapevolisti ad oltranza e quelle degli animalisti edonisti, magari delineando un cammino di progressiva consapevolezza che progredendo lungo continui circoli autoreferenziali conducesse ad un improvviso e definitivo black out dell’”Io”, si trattava dunque di arrivare alla confusione attraverso il continuo approfondimento della conoscenza. Insomma il black out dopo l’illuminazione ( non sta scritto forse che si muore immediatamente dopo aver contemplato il volto di Dio?)

La mattina dell’ultimo giorno quando, dopo una notte nella villetta a Fregene del sottosegretario per ripassare le rimembranze romagnole arrivarono all’Ergife scavalcando il traffico grazie alla sirena che messa sulla giulietta di servizio ministeriale permetteva il transito nella corsia di emergenza, l’aula magna era già riempita per tre quarti e seduti in prima fila c’erano Schiavone e Strangotti che terminati i loro interventi aspettavano solo quello della loro ex allieva e amante per dichiarare aperte le votazioni e prendere atto di un nulla di fatto che avrebbe confermato lo status quo. Erano certi che nessuno dei due avrebbe ottenuto una maggioranza schiacciante e si sarebbe trovato un accordo con un direttivo equilibrato tra le due correnti con la garanzia della dottoressa Genovese cui si sarebbe di nuovo offerta la segreteria generale. Quando Rita raggiunse il leggio e regolò il microfono tutti si aspettavano un discorso di circostanza che ribadisse il cammino unitario della società e i maschi già si distraevano dal parlato per concentrarsi sulla sua bellezza mozzafiato e la grazia dei suoi movimenti che sembrava una danza.
Si mise gli occhiali rotondi da professoressa che la rendevano ancora più sexy, si aggiustò i capelli dietro le orecchie che non gli scivolassero davanti agli occhi e iniziò: “Cari soci, voglio sostenere che il tanto sbandierato “conosci te stesso” socratico sia contemporaneamente impossibile, inutile e spesso dannoso”.

Ma andiamo per gradi dimostrandone intanto l’impossibilità. Finchè cerco di conoscere una mela o un altro dominio dell’esistente è tutto lineare c’è un osservato e un osservatore, un oggetto e un soggetto. Ciò vale ancora se l’oggetto dell’osservazione è una parte del mio corpo o un mio comportamento, si tratta di una mente che osserva degli oggetti e dei fatti. Ma che succede se la mente vuole guardare se stessa? Qual è il famosissimo e discutibilissimo “vero, autentico me stesso” senza la cui conoscenza pare, secondo alcuni tra noi, non si possa campare? Si finisce in un regresso all’infinito come quando due specchi si rimbalzano l’un l’altro la stessa figura. L’”io” che osserva e giudica non è meno vero dell’io che agisce ed è giudicato e potrebbe essere a sua volta oggetto di osservazione da parte di un terzo “io” e così via. Per fare un esempio concreto, quando mi disprezzo per dei miei comportamenti immorali, qual’è il vero me stesso? Il ragazzino trasgressivo che fa ciò che non s’ha da fare o il moralista bacchettone che lo giudica tale, e chi è che giudica moralista quest’ultimo? Credo di aver dato un’idea dei problemi in cui si incorre.

Il secondo ragionamento riguarda l’utilità o la dannosità di tutto ciò. Perchè un metalivello di osservazione sul proprio funzionamento dovrebbe essere utile invece risultare semplicemente un intralcio? Non sarebbe meglio se la regola cui attenersi invece di essere “capisci chi sei” fosse più semplicemente “sii!” Dove sta scritto che la consapevolezza migliori l’efficacia del perseguimento dei propri scopi. Soprattutto in periodi in cui gli assetti interni ed il contesto ambientale sono sostanzialmente stabili non ce ne è alcun bisogno come ci dimostrano gli animali con i loro istinti e le macchine con i loro programmi.
Sulla dannosità e la pesante farraginosità che crea questo omunculo valutativo con sulle spalle un altro omunculo fino ad averne una piramide degna degli equilibristi di un circo non credo debba argomentare molto. Non è forse esperienza quotidiana che la psicopatologia sta quasi tutta nelle liti condominiali tra loro.

Dall’altro lato non si può negare che ormai tradizionalmente la gente si aspetti dalla psicoterapia un percorso di conoscenza di sé e che proprio dalla lunga durata di tale percorso dipendono i nostri ricavi economici, la solvibilità dei mutui, gli studi dei figli, ecc. Tutto ciò non va dunque rinnegato ma deve essere chiaro che l’approdo di questo lungo cammino deve essere la confusione dell’autoconsapevolezza e l’infarto definitivo dell’”Io”.

A conclusione del suo discorso, sorprendendo anche il sottosegretario Gambino la dottoressa Genovese non si candidò al comitato direttivo e invitò tutti a votare scheda bianca per prendersi “una pausa di riflessione” formula di rito con cui negli ambienti civili si decreta la fine di una relazione. Aveva letto infatti nelle noticine dello statuto che qualora in una elezione del direttivo le schede bianche avessero superato il 50% la società sarebbe stata automaticamente sciolta e i libri contabili portati in tribunale. Evidentemente compresa l’importanza o il fascino dell’infarto identitario oltre l’80% dei presenti ritenne utile rimandare la decisione a dopo una più approfondita pausa di riflessione e approfondimento e dunque votò scheda bianca. Tutti si stavano avviando frettolosi verso il buffet previsto per il coffee break e voltavano le spalle al palco quando in uno sbuffo di fumo dal forte odore sulfureo la presunta dottoressa Genovese scomparve e i suoi vestiti si afflosciarono per terra rivelando una lingerie di grande pregio. Il suo capo si fregò soddisfatto le mani.

Alcool: potrebbe modificare il nostro DNA

Nel 2016, stando ai dati forniti dall’OMS (2016 WHO Global Status Report on Alcohol and Health), il consumo smodato di alcol ha causato a livello mondiale 3 milioni di morti, di cui tre su quattro uomini.

 

Questa cifra ammonta a circa il 5% delle morti totali avvenute nel 2016.

Alcol e alcolismo: dietro i numeri troppe tragedie

Basterebbe questo dato a far comprendere quanto il problema dell’alcolismo sia radicato a livello globale e quanto sia dannoso per gli esseri umani. Certo è che l’alcol in sé non aumenta il rischio di morte se assunto in quantità modiche: è nel momento in cui il consumo diventa eccessivo che il problema si manifesta.

Dei ricercatori della Rutgers University del New Jersey hanno ipotizzato che più le persone assumono alcol più il loro DNA si modifica aumentando il desiderio (craving) di assumere tale sostanza e aumentando pertanto il rischio di una morte prematura.

Quindi può il consumo eccessivo e smodato di alcol avere degli effetti a livello genetico sulle persone?

Alcol: la ricerca per capire gli effetti dell’abuso sul DNA

A tale quesito il Dott. Gangisetty e i suoi colleghi hanno provato a dare una risposta ideando uno studio sperimentale che permettesse di testare questa ipotesi. I ricercatori hanno effettuato una comparazione tra diversi gruppi di soggetti:

  • Consumatori di quantità eccessive di bevande alcoliche;
  • Consumatori di grandi quantità di bevande alcoliche;
  • Consumatori di quantità moderate di bevande alcoliche.

In tale modo sono riusciti ad investigare i possibili effetti del consumo smodato di alcol a livello puramente genetico.

Alcol e predittori genetici dell’alcolismo

Quello che è stato riscontrato è che nei gruppi dei consumatori di quantità eccessive e grandi quantità di bevande alcoliche (Gruppi 1 e 2) due geni risultavano mutati. Tale mutazione è avvenuta nel tempo ed è stata causata proprio dall’ingerimento di grandi quantità di alcol, attraverso un processo chiamato metilazione.

I ricercatori americani inoltre hanno testato anche come il desiderio di assumere alcol cambiasse al modificarsi dei due geni di cui sopra (PER2 e POMC), ed effettivamente è stato riscontrato che i soggetti dei gruppi 1 e 2 (quindi quelli che assumevano più alcol tra i gruppi del campione) mostravano un maggiore craving per le bevande alcoliche.

Questi risultati potrebbero aiutare i ricercatori ad identificare quali siano i possibili predittori genetici (geni PER2 e POMC) dell’alcolismo: in tal modo si potrebbero identificare più facilmente quali siano le popolazioni a rischio e cercare di prevenire gli effetti indesiderabili dell’alcolismo sulla popolazione. Questo, a lungo termine, potrebbe diminuire il numero di morti dirette e indirette causate dal consumo eccessivo di bevande alcoliche.

ADOS-2: Intervista alla dott.ssa Raffaella Faggioli, fra i curatori dell’edizione italiana e formatrice per Hogrefe

In occasione dell’evento formativo organizzato da Hogrefe Editore “La valutazione diagnostica dell’autismo: ADOS-2”, tenutosi a Milano dal 12 al 14 gennaio, abbiamo avuto il privilegio di poter intervistare la dott.ssa Faggioli, autorevole docente di questo corso con alle spalle anni di esperienza clinica rivolta alla popolaziona autistica e direttamente coinvolta nella pubblicazione e nello sviluppo dell’ ADOS fin dalla sua prima pubblicazione nel 2004.

 

Intervistatore (I): Negli ultimi anni si è fatta sempre più urgente l’esigenza di promuovere una diagnosi precoce di autismo quale prerequisito di una presa in carico tempestiva del bambino che possa accompagnarlo lungo la miglior traiettoria di sviluppo possibile. Da che età è dunque possibile ragionare intorno ad alcune caratteristiche del bambino quali possibili indicatori di questa neurodiversità?

Raffaella Faggioli (RF): Possiamo iniziare a prendere in considerazione comportamenti indicativi di un funzionamento autistico fin dai primi mesi di vita. È consigliabile infatti tenere sotto controllo e monitorati i fratelli neonati di bambini che hanno avuto riconosciuta una diagnosi di autismo. I test cominciano a definire un quadro di rischio dai 12 mesi in avanti e si dovrebbe arrivare a concludere la diagnosi entro l’inizio della scuola elementare. In genere entro i tre anni e mezzo si dovrebbe concludere la diagnosi ma ci sono bambini che manifesteranno comportamenti evidenti molto prima e altri che invece saranno più difficili da inquadrare. In tutti i casi comunque se c’è un sospetto di autismo bisognerebbe avviare interventi sia di sostegno alle capacità educative dei genitori sia diretti sul bambino secondo le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità che si possono trovare facilmente on Line.

Comportamenti indicatori di autismo sono:

  • il ritardo nello sviluppo del linguaggio verbale: a 2 anni un bambino deve dire tante e diverse parole usate in modo coerente e funzionale;
  • difficoltà nella regolazione del contatto di sguardo;
  • la tendenza a fare solo giochi strutturati (puzzle a incastro, mettere in fila oggetti, giochi di classificazione ecc.);
  • la tendenza a mettere in atto comportamenti ripetitivi (camminare o gattonare avanti e indietro, girare su se stessi, sfarfallare con le mani, camminare sulle punte);
  • problematiche sensoriali: tapparsi le orecchie, selettività nel cibo, la ricerca di sensazioni tattili (passare le mani lungo i bordi del tavolo, su pareti particolari…), il fastidio per le calze o i pantaloni o le maglie strette;
  • comportamenti che sono sintomo di rigidità: volere un gioco a tutti i costi, disperarsi in modo eccessivo se non viene trovato, l’interesse ristretto verso un oggetto o un argomento, guardare sempre lo stesso cartone animato ecc.;
  • il disinteresse per il gioco di far finta;
  • la mancanza di gesti comunicativi (indicare per chiedere e per mostrare, fare boh alzando le spalle, mimare con le manine grande o piccolo ecc.).

Ricordo che nessun comportamento è indicativo solo ed esclusivamente di autismo e che la mancanza di un comportamento atteso per l’età anagrafica non è indicativa solo ed esclusivamente di autismo ma se ci sono comportamenti di questa natura andrebbe fatta una valutazione accurata.

Bisogna anche stare attenti a non confondersi quando i bambini, soprattutto quelli piccolini, migliorano: tutti i bambini crescendo cambiano e imparano cose nuove. Questo non significa non essere autistico. Le persone autistiche possono migliorare tantissimo, come tutti gli altri, ma il loro modo di essere profondo rimane e rimarrà autistico. Quindi i genitori che si preoccupano che il bambino piccolo abbia comportamenti “strani” andrebbero sostenuti nell’intraprendere osservazioni con professionisti esperti anche se si vedono dei miglioramenti continui.

Disturbo del neurosviluppo significa che il processo di sviluppo mentale di un bambino è diverso da quello della media dei bambini della sua età.

La diversità può essere nei tempi e/o nei modi. Non è diagnosticabile con esami genetici o simili ma può essere osservata monitorando i comportamenti.

Se il bambino non raggiunge le tappe nel momento giusto in modo spontaneo e naturale è già un indicatore di disturbo. Anche se poi da solo o aiutato raggiunge la tappa (cosa che può accadere) o compensa con altre abilità, non significa per forza che il problema non c’è stato ma solo che la tappa è stata raggiunta in ritardo e magari con aiuto. La diversità che ha caratterizzato il percorso naturale non cambia: c’è stata e non si può cambiare la sua storia ne la sua evidenza.

I: Quali sono per sua esperienza i passaggi essenziali nel percorso di diagnosi dell’autismo?

RF: Sicuramente il primo passo necessario è rivolgersi a specialisti neuropsichiatri e psicologi competenti.

Se il bambino fatica a parlare bisogna portarlo in neuropsichiatria o da uno psicologo clinico, non dal logopedista. I motivi per cui un bambino non parla possono essere diversissimi e le terapie sono organizzate anche sull’origine del disturbo: non è la stessa cosa fare logopedia con un bambino autistico o farla con uno che ha un disturbo del linguaggio o con un bambino che ha un ritardo dello sviluppo.

Bisogna controllare che i clinici usino strumenti diagnostici adeguati: l’ADOS-2 è considerato uno strumento d’elezione finalizzato all’osservazione diretta del bambino.

Il clinico deve poi raccogliere informazioni sul modo di comportarsi del bambino sia a casa che a scuola oltre ad averne un’idea sua attraverso l’osservazione diretta.

La diagnosi di autismo deve essere fatta tenendo conto del funzionamento del bambino in tutti i contesti di vita, non solo durante la visita.

Infine se c’è il dubbio questo andrebbe esplicitato e descritto con cura all’interno dell’iter diagnostico.

I: Quali sono le figure professionali e non coinvolte in questo percorso diagnostico?

RF: Neuropsichiatri e psicologi sono i clinici che dovrebbero somministrare i test diagnostici e coordinare tutto il percorso.

Educatori, logopedisti e psicomotricisti dovrebbero completare il percorso con valutazioni funzionali mirate a sviluppare il programma di intervento.

I: Quali sono i punti di forza dell’ ADOS-2 nel coadiuvare il clinico ad esprime un giudizio clinico?

RF: L’ADOS-2 è uno strumento di osservazione diretta e aiuta i clinici a osservare come il bambino interagisce con un adulto che non conosce bene. Ci sono 5 moduli diversi che devono essere scelti in base all’età e/o al livello di linguaggio verbale maturato dalla persona che si deve valutare. L’ADOS è stato il primo strumento che ha supportato i clinici in modo strutturato a osservare il comportamento di un bambino.

Questo strumento aiuta a raccogliere osservazioni di comportamenti in un momento sereno e tranquillo mediato da giochi e attività che sono generalmente gradite ai bambini e che dovrebbero sostenere l’instaurarsi di una relazione piacevole per entrambi e che tranquillizza i genitori.

I moduli per i bambini più piccoli prevedono la presenza dei genitori per potersi confrontare con loro in modo diretto.

I moduli per i ragazzi più grandi e gli adulti sono strutturati secondo lo stesso principio anche se non ci si aspetta più che i genitori siano presenti durante la valutazione.

Bisogna ricordare che l’ADOS-2 è uno strumento ottimo ma il giudizio clinico deve essere sempre esito anche di altre osservazioni, a casa e a scuola e che, sebbene sia ampiamente standardizzato, non è uno strumento perfetto come potrebbe esserlo un’indagine di tipo genetico.

 

Ringraziamo la dott.ssa Faggioli per la disponibilità nel rilasciare questa intervista.

Psicoterapia con le persone sorde (2015) di Ersilia Bosco – Recensione del libro

Non esiste un unico metodo terapeutico per fare psicoterapia con le persone sorde e l’approccio non è determinato dalla presenza della disabilità uditiva, piuttosto è bene che la terapia prenda forma dalla problematica psichica riferita dal paziente e dalle caratteristiche individuali del singolo individuo.

Maria Fornario – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

I sordi vivono portandosi sempre dietro l’abbraccio del silenzio, quel silenzio trattato come una normale condizione di vita.

La sordità, chiamata in medicina ipoacusia, consiste nell’abbassamento della capacità uditiva e può essere determinata da diversi fattori e malattie che agiscono a vari livelli dell’organo dell’udito o del sistema nervoso centrale.

Si dice spesso che la sordità è una disabilità invisibile, difficile da mettere a fuoco in tutti i suoi aspetti. È riconoscibile solo al momento di comunicare. Quando si parla di sordità non si deve pensare soltanto alla patologia in sé, focalizzando l’attenzione sugli aspetti medico-riabilitativi, ma si devono analizzare anche le implicazioni sociali che ne derivano. Questa è, infatti, una disabilità molto grave in quanto colpisce la dimensione relazionale e comunicativa dell’individuo, il suo essere in società.

Mi stupiva e amareggiava l’atteggiamento distaccato degli “esperti della sordità“, che sembravano considerare i sordi come creature imperfette, degne di essere curate e riabilitate più che conosciute e apprezzate nel proprio modo di essere. Esperti dallo sguardo limitato, che facevano coincidere storia della sordità con l’intero universo della persona sorda e inadeguatezza del linguaggio con limitatezza di pensiero e povertà interiore.

È dalla consapevolezza del limitato modo di pensare e di comunicare degli “esperti della sordità” che nasce il volume Psicoterapia con le persone sorde, frutto di un percorso trentennale di relazioni tra l’autrice Ersilia Bosco, psicologa clinica e psicoterapeuta, e le persone sorde.

L’approccio alla psicoterapia con le persone sorde

Ad oggi Psicoterapia con le persone sorde è l’unico libro sulla psicoterapia che dà importanza alla richiesta di benessere psicologico che proviene dalle persone sorde, inteso come “meglio stare nel mondo e meglio conoscere se stessi e gli altri”.
L’autrice non propone uno specifico orientamento terapeutico, ma aiuta a cogliere quei segnali utili a innescare un approccio corretto e costruire una relazione che rispetti le esigenze del paziente sordo.

Condivido l’idea che non esista un determinato metodo terapeutico per i sordi: l’approccio non è determinato dalla presenza della disabilità uditiva bensì, come per la persona udente, è rapportato alla problematica psichica e alle caratteristiche individuali, quali intelligenza, personalità, status socioeconomico, livello culturale, competenza comunicativa e linguistica.

Quattro sono i capitoli che strutturano il libro: nel primo sono discussi i diversi modi di considerare la sordità, domandandosi se sia necessario riferirsi a un modello predefinito piuttosto che porsi in ascolto e considerare “l’altro” come compagno di un viaggio comune; il secondo entra nel vivo della psicoterapia con le persone sorde e affronta temi come la centralità della condivisione degli strumenti comunicativi e linguistici, l’utilizzo dell’interprete LIS (Lingua dei Segni Italiana), l’importanza e l’uso dei sogni; nel terzo capitolo l’autrice descrive il suo modus operandi; infine, il quarto, espone sette casi clinici di persone sorde diverse per livello culturale e competenza nel linguaggio utilizzato, per offrire al lettore una discreta panoramica delle differenti possibilità di lavoro terapeutico.

Quali sono i disturbi psichici nei sordi?

La popolazione sorda non presenta psicopatologie specifiche; il PTSD appare comunque la diagnosi più comune e sembra che questo tipo di pazienti abbiano anche una maggiore vulnerabilità a varie forme di disturbi psichiatrici e di abuso emotivo, fisico, sessuale. La schizofrenia si presenta con frequenza simile alla popolazione udente e nell’espressione dei sintomi.

Spesso i sordi giungono in terapia mostrando sentimenti depressivi, bassa autostima, disforia. Tali sentimenti possono essere conseguenza di credenze disfunzionali che hanno spesso come oggetto le persone udenti e ciò che esse pensano delle persone sorde e, di solito, riflettono la posizione dell’individuo sordo all’interno della società udente. Altra credenza disfunzionale riguarda i vantaggi di una comunicazione efficace, secondo cui la sordità è la causa di problemi, i quali non ci sarebbero se solo le persone sorde potessero sentire e parlare bene. Spesso la bassa autostima in pazienti sordi è collegata alla difficoltà di accettare la sordità e, di conseguenza, al mancato raggiungimento di un’identità in relazione al proprio deficit. Alcune persone sorde, infatti, si sforzano di essere “i più udenti possibile”, altre, invece, si identificano con la comunità dei sordi contrapponendosi in modo netto rispetto al “mondo udente”. Una condizione psicologicamente più salutare per i pazienti sordi, da un punto di vista identitario, non risiede negli estremi citati, ma nell’essere bilingui e biculturali rispetto alle comunità sorda e udente.

Un’immagine caratteristica su come lavorare in psicoterapia con le persone sorde, con un paziente e la sua storia personale, è data dall’autrice come una collana di perle: il filo non è altro che la relazione tra il terapeuta e il paziente, le perle, invece, rappresentano i racconti del paziente stesso, che vengono maneggiati, calibrati e rielaborati. Periodicamente viene condiviso con il paziente il filo di perle che si sta costruendo, la storia personale che si è riusciti a ricostruire e l’attenzione posta verso tale processo. Una costruzione condivisa facilita una rappresentazione della sordità non come una vergogna, bensì come una tra le importanti dimensioni della sua esistenza.

I prerequisiti necessari per il terapeuta e i rischi che si possono incontrare in terapia

Una persona udente che si relaziona con un sordo spesso si trova a disagio. I motivi possono essere sia la scarsa familiarità con la condizione sensoriale poco visibile, sia il possibile innescarsi di emozioni negative o pregiudizi che associano la sordità a scarsa intelligenza. Tali cause provocano il fallimento di ogni tentativo di scambio soddisfacente seppur temporaneo o circostanziato. In una terapia è indispensabile il superamento dell’immagine del sordo incapace di pensiero formale ed elaborazione interna. Per lo psicoterapeuta udente, la conoscenza della sordità come disabilità sensoriale è condizione necessaria ma insufficiente a comprendere la persona sorda, sono importanti la sua esperienza, affidabilità e sensibilità a considerare il paziente sordo come un individuo.

Prima di relazionarsi con una persona sorda che vive un disagio psichico bisogna tenere in considerazione sia la conoscenza delle diverse tipologie di sordità, dei diversi approcci abilitativi e dei sussidi protesici, sia la frequentazione di persone sorde ben funzionanti. Quest’ultimo è un prerequisito necessario per lo psicoterapeuta udente: la frequentazione diretta di persone sorde è utile non solo a migliorare la capacità relazionale e comunicativa, ma anche per apprezzare i sordi come persone complete, confrontarsi con le diverse possibili risposte alla disabilità sensoriale, condividere successi e fallimenti, bisogni e desideri, momenti di svago e tristezza.

Per costruire una buona alleanza terapeutica, conditio sine qua non è che il terapeuta sappia identificare e utilizzare il linguaggio preferito dal paziente. Ritengo opportuno che debba conoscere fluentemente la Lingua dei Segni per essere in grado di rivolgersi a quei pazienti per i quali essa rappresenta la lingua madre o quella preferenziale nel percorso terapeutico.
In alternativa si può ricorrere all’interprete il quale funge da ponte comunicativo nella diade terapeuta e paziente, anche se l’autrice consiglia il non utilizzo di tale figura professionale, sottolineando come la conoscenza della LIS consenta un rapporto diretto con il sordo “che segna” e migliora lo scambio comunicativo con il sordo “che parla”. Bisogna cambiare prospettiva: ascoltare i segni e vedere la parola.

Per comprendere quest’ultimo concetto bisogna aprire una piccola parentesi. Le persone sorde possono scegliere e seguire tre tipi di modalità educative: metodo orale in cui il bambino sordo impara la lingua orale, usando anche strategie visive come lettura labiale; metodo bimodale dove il sordo parla e segna contemporaneamente seguendo la struttura sintattica dell’italiano; educazione bilingue in cui il bambino viene esposto contemporaneamente alla lingua vocale e alla lingua dei segni. L’italiano parlato e scritto viene imparato con la terapia logopedica, mentre la LIS è acquisita in modo spontaneo e precoce perché viaggia sulla modalità visivo-gestuale, e quindi su un canale integro. Le scelte nell’ambito dell’educazione linguistica non sono mai facili e dipendono da diversi fattori, anche ideologici; è però importante ricordare che le scelte linguistiche che vengono attuate non dovrebbero mai essere rigide ed esclusive, ma dovrebbero tenere conto delle capacità del bambino, della situazione familiare e del contesto ambientale.

Per approfondire quanto descritto invito a leggere Psicoterapia con le persone sorde, un libro che

…per chiarezza espositiva e per il voluto utilizzo di un linguaggio non specialistico, è pienamente fruibile da coloro che apprezzano la differenza come fonte di ricchezza e la condivisione come possibilità di felicità.

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