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Le potenzialità dell’intestino sulla salute mentale

Un approfondimento delle modalità di comunicazione tra intestino e cervello attraverso lo studio del microbiota intestinale potrebbe permettere di sviluppare nuove e promettenti terapie che usufruiscono di probiotici per il trattamento di alcuni disturbi come la depressione.

 

L’idea un tempo selvaggia secondo cui i batteri intestinali influenzino la salute mentale si è trasformata in un solido campo di ricerca grazie ad uno studio europeo, pubblicato recentemente su Nature Microbiology, che mette in luce il potenziale neuroattivo del microbioma in associazione alla qualità di vita e alla depressione in due coorti di popolazioni.

Le diverse associazioni tra sistema nervoso centrale e i miliardi di batteri nell’intestino, il microbiota, che hanno battezzato la loro denominazione in un unico asse, l’asse intestino-cervello, sono ora sotto gli occhi della ricerca scientifica che si è prefissa di investigare sempre più nel dettaglio i meccanismi causali attraverso i quali i microorganismi batterici che popolano l’intestino siano partecipi del funzionamento mentale e del comportamento sociale sia negli animali che negli esseri umani e di come questi potrebbero di conseguenza contribuire anche allo sviluppo di alcune condizioni patologiche quali la depressione (Jiang, Ling, Zhang et al., 2016).

Molto di quello che si sa a riguardo proviene prevalentemente da studi correlazionali che rimarcano la presenza di un’associazione tra specifici batteri intestinali e sindromi psicopatologiche, associazioni che però, sottolineano, non sono da intendersi di causa-effetto; un altro limite rappresentato dalle ricerche sull’asse intestino-cervello nella popolazione umana risiede nel fatto che i gruppi sperimentali utilizzati sono molto spesso di modeste dimensioni e pertanto questi studi potrebbero non isolare correttamente le variabili confondenti come diete alimentari insolite, l’uso di antibiotici o antidepressivi che determinano un’alterazione della flora batterica intestinale.

Nonostante ciò, la comunicazione bidirezionale tra i due sistemi suggerisce che il microbiota intestinale svolga un ruolo attivo non solo nella modulazione delle risposte immunitarie, ormonali e neurali dell’organismo che lo ospita, ma anche nella regolazione dell’epitelio intestinale, della permeabilità della barriera ematoencefalica e sia nel metabolismo o nella stimolazione che nella degradazione di componenti neuro attivi quali neurotrasmettitori (serotonina e GABA) e modulatori del sistema immunitario (e.s. acido quinolinico), che a loro volta ne modulano la crescita (Lyte & Brown, 2018).

Lo studio

Il nuovo studio di Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang e colleghi (2019) ha utilizzato sequenze di DNA per l’analisi delle “normali” variazioni del microbiota tramite campioni fecali in un gruppo di oltre mille individui reclutati in Belgio grazie al Belgium’s Flemish Gut Flora Project, confrontandoli con quelli provenienti da individui con una diagnosi di depressione o una bassa qualità di vita.

Il team di ricerca ha correlato differenti popolazioni microbiche con la qualità di vita e l’incidenza di sintomi depressivi utilizzando punteggi provenienti da self-report (The RAND-36 item Health survey e QoL questionnaire; Hays & Mazel, 1993) e diagnosi mediche sia autoriportate che certificate.

Le evidenze sono state ottenute tramite lo sviluppo di complesse metodologie e analisi che hanno consentito la profilatura delle diverse popolazioni microbiche, sia nei soggetti di controllo che in quelli patologici, potendo così generare un “catalogo” di 56 sostanze in grado di descrivere la capacità del microbiota di metabolizzare o degradare molecole cosiddette “neuroattive”, cioè interagenti con il sistema nervoso umano; in particolare due popolazioni di batteri, Coprococcus e Dialister, sono state associate ai campioni provenienti dagli individui affetti da depressione ma non a quelli con un’alta qualità di vita.

I risultati prodotti sulla popolazione belga sono stati validati tramite il confronto con le analisi microbiche provenienti da una popolazione danese reclutata grazie al progetto Dutch LifeLines DEEP trovando l’assenza delle due stesse specie di microrganismi nei soggetti danesi affetti da depressione.

Conclusioni e prospettive future

Nonostante lo studio di Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang e colleghi (2019) non stabilisca alcuna relazione causale, tuttavia costituisce un’associazione osservata su due popolazioni indipendenti e assai numerose. In aggiunta, i ricercatori hanno evidenziato una correlazione positiva tra qualità di vita e la potenziale capacità del microbioma intestinale nel sintetizzare un prodotto di degradazione della dopamina, l’acido 3-4 diidrossifenilacetico implicato nella depressione, che ha costituito il segnale più evidente di come il microbiota sia in grado di influenzare la salute mentale dell’organismo ospitante (Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang et., 2019).

A parere del team autore della ricerca, un solido approfondimento delle modalità di comunicazione tra intestino e cervello potrebbe aprire numerose e promettenti porte per nuove terapie che potrebbero usufruire di probiotici per il trattamento ad esempio della depressione o potranno aprire nuove prospettive metodologiche in grado di isolare all’interno del microbioma quei marker che potrebbero contribuire allo sviluppo di un profilo biologico sempre più accurato delle patologie mentali.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta (2018) di Silvia Albertazzi – Recensione del libro

Un libro che si intitola Manuale per vivere nella sconfitta non può non destare l’interesse di chi si occupa di salute mentale e di disagio psicologico.

 

D’altra parte nell’opera del leggendario e mitologico Leonard Cohen (sia opera scritta, che musicata) come viene spiegato dall’autrice, eminente esponente del mondo accademico letterario,

la bellezza dei perdenti e il valore della sconfitta sono esaltati attraverso un uso ipnotico e ammaliante della parola che imprigiona chi ascolta o legge in un cerchio magico da cui risulta impossibile uscire, una volta che se ne siano varcati i confini.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta: presentazione del libro

Nell’introduzione l’autrice racconta che per un bizzarro fenomeno, chi scrive di Leonard Cohen, persino a livello scientifico, finisce a parlare anche di sé. E ovviamente non posso sottrarmi a questa tradizione raccontando come, mossi da sentimenti un po’ onnipotenti, alcuni anni fa, con il caporedattore di questo web journal ci era venuta l’idea di provare a intervistarlo in occasione di uno degli ultimi concerti dal vivo in Italia. Ovviamente non fu possibile, per cui “ripiegai” su un articolo in cui ho raccontato della sua bellissima guarigione da una depressione cronica, avvenuta in tarda età dopo averle provate un po’ tutte, dal monastero al Prozac.

Il Manuale per vivere nella sconfitta si articola in tre sezioni: poesie, romanzi (tra cui spicca appunto Beautiful losers) e canzoni, approfondendo in modo assolutamente esaustivo la vastissima opera di Leonard Cohen, che ha preso forma in sessant’anni di attività (cominciò nel 1956 con le poesie per salutarci con un bell’album di canzoni del 2016). Viene analizzata la tripla anima di poeta, scrittore e cantautore di Cohen e viene evidenziato come il cantautore canadese (anche se lui si è sempre definito scrittore) sia riuscito a riconferire alla forma canzone la sua dignità letteraria di poesia orale. Nascendo come poeta, ha infatti

portato alla canzone la precisione linguistica e l’ossessione formale della poesia scritta.

Ispirandosi inizialmente alla tradizione della chanson francese, la canzone nobile di Leonard Cohen è poi passata veloce di bocca in bocca, fino a diventare un prodotto commerciale e usufruibile da milioni di persone. L’autrice analizza approfonditamente tutta l’opera letteraria di Cohen, soffermandosi sull’interpretazione e i significati e trascurando volutamente la biografia dell’autore perché

anche secondo Cohen, è chi ascolta a conferire significato a una canzone

al dì là della storia e delle intenzioni di chi scrive.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta: i personaggi, le canzoni

La narrazione di Leonard Cohen è popolata figure femminili fragili, solitudini, stranieri, immagini religiose e tanti altri elementi spesso impregnati di una “tristezza gentile”, più che da angoscia. In queste atmosfere cupe si può anche raccontare di un tentativo di suicidio come in Dress Reharsal Rags, benchè Cohen dichiarò di non avere mai avuto tendenze suicide, ma di aver conosciuto la vera depressione e aver tratto da essa ispirazione per diversi brani. Il cantautore racconta in un’intervista come per una sorta di particolare catarsi alcune persone che hanno attraversato questi tipi di “paesaggi depressivi”, abbiano riportato di aver addirittura tratto beneficio dalla bellezza di questo tipo di brani.

Anche la dimensione spirituale di brani come la celeberrima Halleluja può avere un effetto estremamente potente, in quanto, come ricorda l’autore esprime

il desiderio di affermare la fede nella vita, non in modo religioso formale, ma con entusiasmo, con emozione

come una sorta di preghiera laica.

Uno dei brani-capolavoro a mio avviso, che riesce a racchiudere allo stesso tempo disperazione, sensualità, spiritualità e speranza è Dancing me to the end of love, contenuto nell’album Various positions del 1984, in cui quell’immagine così forte del “burning violin” (che si riferisce alle terribili esecuzioni musicali cui erano costretti i musicisti ebrei nei campi di concentramento, per fare da colonna sonora all’ingresso dei compagni nelle camere a gas) viene amplificata dal malinconico coro di voci che si ripete in modo quasi ipnotico all’inizio e alla fine del brano.

Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta – le posie ed i romanzi

Ho parlato soprattutto di canzoni perché mi sento un po’ più ferrato nella materia, ma anche le parti sulle poesie e i romanzi sono interessantissime.

Per stimolare la curiosità mi limiterò a riportare la definizione che Leonard Cohen diede del proprio romanzo Beautiful losers cinquant’anni dopo la pubblicazione:

un’assurda collezione di riff jazzistici, di scherzi da pop art, di kitsch religioso e di preghiere soffocate…un colpo di sole, più che un libro

L’autrice sviluppa un’analisi eccellente di quest’opera visionaria, ricca di riferimenti storici e psicologici, in cui il “bello e perdente” si sostituisce in qualche modo al “bello e dannato”.

Un libro davvero illuminante ed esaustivo, da cui si riesce ad apprezzare l’enorme valore creativo di uno degli ultimi veri maestri della parola scritta e cantata, che è veramente riduttivo chiamare solo cantautore.

L’addio a Rodolfo de Bernart, tra i più noti esponenti della psicoterapia sistemico familiare

Una improvvisa e prematura scomparsa ha colpito il mondo della psicoterapia: è venuto a mancare, all’ età di 73 anni, Rodolfo de Bernart, psicoterapeuta direttore dell’Istituto di Terapia Familiare di Firenze.

 



Rodolfo De Bernart è nato a Roma nel 1947, si è laureato in Medicina a Firenze, specializzandosi successivamente in Psichiatria all’Università di Pisa.

Rodolfo de Bernart è stato un noto terapeuta Familiare Sistemico, eppure troviamo difficile poter racchiudere tutta la sua carriera in un’unica definizione: la sua vita professionale è stato un continuo costellarsi di traguardi e incarichi svolti in virtù della diffusione scientifica, della condivisione con colleghi e allievi e dell’attenzione verso i suoi pazienti.

Ha iniziato il suo percorso sotto la supervisione di grandi nomi, tra cui Fromm, Minuchin e Whitaker. Ha lavorato per anni nei servizi di psichiatria pubblica e ha collaborato anche in ambito accademico presso diverse università. Ha fondato nel 1981 con Cristina Dobrowolski, l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze (ITFF), di cui è stato direttore fino ai suoi ultimi giorni di vita.

È stato presidente della FIAP, Federazione Italiana Associazioni di Psicoterapia e membro dell’EAP, European Association of Psychotherapy, presidente dell’International Association for the Study of Attachment.

Ci uniamo al dolore dei suoi familiari e dei suoi colleghi che ieri hanno dato la notizia ufficiale sul sito dell’ITFF:

Con immenso dolore e costernazione l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze, con i suoi allievi, i suoi docenti, la segreteria ed i tirocinanti, si stringe attorno ai familiari del Professor Rodolfo de Bernart, per la sua improvvisa e prematura scomparsa.

 

Psicologia Clinica Perinatale: dalla teoria alla pratica (2018) – Recensione del libro

La Psicologia Perinatale, che si occupa dei fenomeni e dei processi evolutivi di neonati e bambini e del sistema di relazioni intorno a loro, lungo un continuum che va dalla fisiologia alla patologia, necessitava di un manuale così completo.

 

È un’opera di caratura internazionale curata da Rosa Maria Quatraro e Pietro Grussu che comprende i contributi di trentadue autori, esponenti di grande rilievo della Psicologia Perinatale.

Psicologia clinica perinatale: numeri e dimensione di un fenomeno a cui non si risponde adeguatamente

Viene messo immediatamente in risalto un aspetto fondamentale: in tutto il mondo esiste un’ampia diffusione dei disagi psicologici che possono colpire le donne nel periodo precedente e successivo alla nascita di un figlio; emblematico il caso del Regno Unito, in cui un quarto delle donne decedute entro il primo anno dopo il parto sono morte per cause legate alla salute mentale. Diversi report internazionali inoltre hanno messo in luce anche il peso economico a lungo termine delle psicopatologie del pre e del postpartum. Non va dimenticato, infatti, come queste problematiche abbiano un’impatto non solo sul singolo ma anche sulla famiglia e sull’intera società.

Nonostante questi dati, ci si ostina a trattare infertilità, poliabortività, lutti perinatali e complicazioni successive alla gravidanza prendendo in carico principalmente la salute fisica, continuando a perpetrare un’impostazione di dualismo mente-corpo e a sottostimare l’importanza degli interventi psicologici.

L’obiettivo del manuale è quello di offrire una panoramica su tutte le situazioni che nel periodo che precede e segue il parto possono creare una sofferenza emotiva alla donna, alla coppia e ai figli, quelli che già ci sono e quelli che verranno. Ogni capitolo tratta un aspetto specifico della Psicologia Clinica Perinatale, in cui gli autori hanno offerto sia una rassegna delle ricerche aggiornata che le principali modalità di intervento selezionate per prove di efficacia.

Psicologia clinica perinatale: la gravidanza e il parto

La prima parte del manuale Psicologia Clinica Perinatale tratta lo stress prenatale e i suoi effetti avversi sulla prole nello sviluppo neurobiologico, nella risposta allo stress nel corso della vita e nella salute fisica ed emotiva. Le ricerche che vengono esposte mostrano la necessità di valutare lo stress percepito durante la gravidanza e di supportare le donne con programmi per la sua gestione. In questa parte iniziale è presente anche un capitolo riguardante gli effetti sul feto dei disturbi psicologici della madre; si parla della necessità di effettuare una valutazione che comprenda l’anamnesi dei traumi e di seguire, eventualmente, dei trattamenti preventivi sia in ospedale che in coordinazione con professionisti esterni.

La seconda parte affronta tutte le principali problematiche del preconcepimento, della gravidanza e del parto: un capitolo è dedicato agli aspetti psicologici dell’infertilità e della sterilità di coppia, in particolare nei casi in cui vengono effettuati i trattamenti di PMA; si parla in particolar modo dell’impatto che tutto il processo ha su un piano intrapsichico, interpersonale e psicosessuale. Il capitolo successivo tratta le conseguenze psicologiche per la coppia genitoriale delle patologie fetali. Dopodiché ci si concentra sul tema complesso dell’aborto spontaneo, dell’IVG e del lutto perinatale, eventi potenzialmente traumatici ancora poco legittimati in diverse culture, ma che, per un’adeguata elaborazione, richiedono interventi psicoterapeutici e psicoeducativi. Infine, l’ultimo capitolo di questa parte affronta gli effetti “onda” negativi di un parto traumatico, tra cui il PTSD, le difficoltà nell’allattamento e lo stato d’ansia per i parti successivi, ma anche gli effetti positivi che si verificano in alcune donne, ossia la crescita post-traumatica.

Psicologia clinica perinatale: le criticità dopo la nascita

La terza parte del libro Psicologia Clinica Perinatale concerne il periodo postnatale. Vengono trattati i vissuti emotivi di questa delicata e intensa epoca di vita sia nelle situazioni fisiologiche che in quelle in cui il bambino attraversa un periodo di ricovero in Terapia Intensiva Neonatale.

Si parla altresì dell’importanza del supporto sociale e familiare per la diade madre-figlio e delle prime fasi dell’alimentazione del bambino. Viene ampiamente trattato come le problematiche nell’allattamento e nello svezzamento possono rappresentare l’occasione per esplorare aspetti profondi della relazione tra madre e figlio, come ad esempio la dipendenza e il processo di separazione. Nella quarta ed ultima parte vengono esposte le principali ricerche sulle psicopatologie perinatali (disturbi depressivi, disturbi ansiosi e psicosi post partum) e le relative modalità di prevenzione, screening, diagnosi e intervento. Viene dedicata particolare attenzione ai fattori di rischio che possono influire nello sviluppo di queste psicopatologie e agli strumenti per effettuare uno screening che possa permettere di intervenire tempestivamente prima che si cronicizzino.

In definitiva, Psicologia clinica perinatale: dalla teoria alla pratica è un’ottima risorsa non solo per psicologi, psicoterapeuti, ricercatori e dirigenti sanitari che lavorano quotidianamente nell’ambito perinatale, ma altresì per studenti, specializzandi e professionisti di discipline diverse che si vogliono affacciare alla scoperta di questa affascinante e fondamentale branca della psicologia, in continua evoluzione da 30 anni a questa parte. In questo volume si trovano spunti di riflessione, conoscenze aggiornate e stimoli per lavorare in maniera integrata e multidisciplinare (modus operandi imprescindibile in quest’area), nonché suggerimenti sugli interventi più efficaci.

È un testo che lancia delle importanti sfide per il futuro: la costruzione di un modello teorico e applicativo che integri la salute fisica con quella psicologica e la costruzione della consapevolezza che per intervenire davvero efficacemente in quest’ambito è necessario

che gli psichiatri e psicologi clinici siano formati sulle competenze che mancano loro e che imparino ad ascoltare le voci dei genitori che soffrono e i segnali dei loro bambini (Cox, pag.558).

Da non dimenticare, tuttavia, che molte donne e coppie vivono una gravidanza serena e si adattano in modo funzionale al passaggio di vita che richiede la nascita di un figlio: anche in questi casi l’attenzione al benessere psicologico è importante, in quanto va ad ottimizzare l’equilibrio mentale e il benessere non solo della madre ma di tutta la famiglia, con un impatto positivo saliente sulla salute a lungo termine, anche sulle generazioni future.

Dynamo Camp: campagna solidale 2019 – Comunicato Stampa

Debutta il 16 Febbraio la campagna di raccolta fondi con SMS e chiamate da rete fissa al numero solidale 45519 con cui si contribuisce a incrementare il numero di bambini con patologie gravi gratuitamente accolti a Dynamo Camp nel 2019.

Comunicato stampa

Dynamo Camp è la vita che non ho mai avuto (un bambino, sessione di Natale 2018)

Sabato 16 febbraio il debutto della campagna di raccolta fondi tramite SMS e chiamate da rete fissa, per contribuire a regalare una vacanza gratuita a Dynamo Camp a 450 bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni, con patologie gravi o croniche, nel 2019, e contribuire al numero di bambini con bisogni assistenziali complessi accolti dalla Onlus.

Per partecipare alla raccolta basta inviare un SMS al numero solidale 45519 o chiamare da rete fissa. Il valore della donazione sarà di 2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari Wind Tre, TIM, Vodafone, PosteMobile, iliad, Coop Voce e Tiscali. Sarà di 5 euro per le chiamate da rete fissa TWT, Convergenze e PosteMobile, di 5 e 10 euro da rete fissa TIM, Vodafone, Wind Tre, Fastweb e Tiscali. Il numero è permanente, attivo per tutto il 2019.

Nel 2019, nei programmi estivi per Soli Camper, per bambini al Camp in autonomia senza i genitori, Dynamo Camp incrementerà ulteriormente il numero di ospiti con patologie molto gravi o tali da richiedere volontari dedicati per tutta la durata della sessione, tra cui sordità, necessità di respirazione assistita, neurofibromatosi (nuove patologie 2018-2019), cecità, SMA 3, distrofia muscolare, spina bifida, MAR (Malformazioni ano-rettali), bambini con catetere venoso centrale, bambini con patologie oncoematologiche e altre patologie gravi e croniche. Nei programmi per Famiglie, dedicati a bambini con patologie neurologiche, saranno ospitati bambini con sclerosi tuberosa, autismo (nuove patologie 2018-2019), sindromi rare, tetra paresi, paralisi cerebrale infantile, esiti da ictus, sindrome di Rett, SMA 1 e 2 e altre patologie neurologiche gravi. In numerose sessioni, Dynamo Camp accoglie inoltre ex camper, che hanno compiuto i 17 anni, nel programma LIT (Leaders In Training), in un percorso dedicato che potrà portarli in futuro, se lo desiderano, a diventare volontari o staff. I destinatari del progetto, in particolare, sono ragazzi e ragazze costretti in carrozzina, con patologie come spina bifida o altre patologie neuromotorie.

Il periodo a Dynamo Camp ha l’obiettivo di far vivere una vera vacanza, in un ambiente naturale meraviglioso e protetto, dove gli ospiti possano godere di attività quali arrampicata, cavallo, piscina, tiro con l’arco, terapia con i cani e animali della fattoria, e altre attività, proposte in totale sicurezza, secondo la Terapia Ricreativa Dynamo®, con staff specializzato e formato per gestire le problematiche di bambini affetti da patologie gravi, e in totale sicurezza medica. Finalità ultima è contribuire a dare loro sollievo, e a far riacquisire fiducia in se stessi e benefici permanenti nella gestione della malattia e della vita.

Sostengono la campagna Mediafriends (24 febbraio – 2 marzo), Sky per il Sociale (17 febbraio-2 marzo), la7 (17 febbraio – 2 marzo), Discovery (16 febbraio – 3 marzo), Class Editori con Class TV e Telesia (16 febbraio – 3 marzo).

La campagna è supportata, per l’undicesimo anno consecutivo, da Radio DEEJAY, in particolare da Linus e Nicola Savino che all’interno della trasmissione DEEJAY chiama Italia dedicheranno una maratona radio con ospiti e approfondimenti (18-22 febbraio), e, per il nono anno consecutivo, da Radio Capital (25 febbraio-3 marzo), con spazi di comunicazione, appelli da parte dei conduttori e jingle realizzati in esclusiva per Radio Capital con i bambini di Dynamo Camp.

Concorre alla campagna un’asta, su ebay dal 24 febbraio al 2 marzo, organizzata da Associazione Dynamo Camp Onlus in collaborazione con Radio DEEJAY. Tra gli item in asta: 10 anelli targati Radio DEEJAY in edizione limitata realizzati da Nove25, 50 completi da ciclismo Castelli in edizione limitata,

10 fotocamere istantanee Leica Sofort per Radio DEEJAY in edizione limitata autografate da Linus e Nicola Savino e due experience uniche: una corsa di 10 km con Linus con partenza da Radio DEEJAY più tour della radio per 10 persone e un’uscita in bici per 10 persone con Linus e Nicola Savino.

Supporta la campagna Lega Serie A, con striscioni sui campi e spot sui maxischermi negli stadi della 25ª giornata di campionato (22-24 febbraio). Sostiene la campagna Clear Channel, con il suo circuito digitale nazionale dei centri commerciali.

Supportano la campagna radio web e radio locali sul territorio italiano, in particolare Radio Nostalgia, Radio Number One, Radio Babboleo, Radio Cuore, Radio Norba, Ciccio Riccio, Radio Atlanta Milano, Radio Dynamo.

Si ringrazia ANTEPRIMAVIDEO per il supporto nella realizzazione dello spot tv.

ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUSwww.dynamocamp.org

Associazione Dynamo Camp Onlus offre gratuitamente programmi di Terapia Ricreativa Dynamo a bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni, affetti da patologie gravi e croniche, alle loro famiglie e ai fratelli e sorelle sani. Le attività si svolgono presso Dynamo Camp, a Limestre (Pistoia), accogliendo bambini da tutte le regioni d’Italia, e, attraverso i Dynamo Camp Programs, nelle maggiori città italiane in ospedali, case famiglia e associazioni.

La Terapia Ricreativa Dynamo ha l’obiettivo dello svago e del divertimento ma anche e soprattutto di essere di stimolo alle capacità dei bambini, di rinnovare la fiducia e la speranza. Nei casi di patologie più gravi, accolte nei programmi per le Famiglie, Dynamo ha l’obiettivo di regalare “occasioni di vita” a bambini che hanno capacità motorie quasi nulle, possibilità di comunicazione legata a dispositivi esterni, aspettative di vita limitate.

Dal 2007, l’Associazione ha gratuitamente ospitato 7.607 bambini in programmi per Soli Camper, 7.269 bambini e genitori nei programmi per le famiglie a Dynamo Camp e ha raggiunto coi Dynamo Camp Programs 20.840 bambini nelle principali città italiane, offrendo così i propri programmi a oltre 35.000 persone. Il network di Dynamo Camp comprende oltre 158 ospedali e associazioni in tutta Italia. L’Associazione ha formato dal 2007 6.420 volontari e ha oggi 55 dipendenti e 81 persone di staff stagionale.

Dynamo Camp è situato a Limestre in provincia di Pistoia, in un’oasi di oltre 900 ettari affiliata WWF, Oasi Dynamo, e fa parte del SeriousFun Children’s Network di camp fondati nel 1988 da Paul Newman e attivi in tutto il mondo.

Conoscere il nostro patrimonio genetico potrebbe aiutarci a predire e prevenire la depressione

Poter misurare la propensione genetica degli individui alla depressione sarà di grande aiuto ai clinici per poter mettere in atto le migliori misure preventive possibili per le popolazioni più a rischio.

 

Il disturbo depressivo maggiore è una delle patologie psichiche più diffuse al mondo, secondi i dati del DMS IV si calcola una prevalenza del 10-25% nelle donne e del 5-12% negli uomini. Tali percentuali mostrano chiaramente quale sia la gravità del problema, inoltre i dati mostrano che tale prevalenza aumenterà col il passare degli anni.

L’incorrere in disturbi di tipo depressivo è una condizione molto comune e molto costosa sia per l’individuo che la vive, sia per la società. Riuscire ad identificare quali siano le persone più a rischio potrebbe essere di grande aiuto ai clinici per poter mettere in atto delle misure preventive in grado di contenere il fenomeno sul nascere e migliorare il benessere degli individui.

Il rischio poligenetico connesso alla depressione

Un recente studio danese dell’Università di Aarhus (Musliner et al., 2019) ha indagato se sia possibile identificare una predisposizione genetica per i fenomeni depressivi. Tale ricerca ha seguito da vicino circa 34.500 abitanti della Danimarca per circa 20 anni ed ha misurato il loro rischio genetico di sviluppare la depressione.

Gli studiosi danesi hanno misurato il rischio poligenetico connesso alla depressione in tali individui; per poligenetico si intende un rischio connesso non solo ad un gene, ma ad un insieme specifico di geni. Musliner ed i suoi collaboratori sono riusciti ad isolare questo insieme di geni, identificando l’insieme di geni maggiormente predittivo di sintomi depressivi in età adulta. Pertanto, attraverso il calcolo del rischio poligenetico connesso alla depressione, è possibile predire quali individui andranno incontro, nel corso della loro vita, a disturbi di tipo depressivo.

Questo studio rende possibile misurare direttamente la propensione genetica connessa con la depressione, superando il fatto di aver bisogno di affidarsi alla storia familiare come modo di predire la disposizione genetica alla depressione. In ogni caso lo studio in questione ha evidenziato anche come non sia possibile trovare il “gene della depressione” e come anche un individuo con una grande propensione genetica allo sviluppo di patologie depressive possa non arrivare a svilupparle nel corso della sua vita. Certo è che poter misurare la propensione genetica degli individui sarà di grande aiuto ai clinici per poter mettere in atto le migliori misure preventive possibili per le popolazioni più a rischio.

 

Laureato o laureando in Psicologia del lavoro o della Formazione? Unisciti al team di Studi Cognitivi!

Sei laureato o stai per laurearti in Psicologia del lavoro o della formazione? Unisciti al team di Studi Cognitivi!

 

Stai per laurearti in Psicologia del lavoro o della formazione e vuoi scoprire come diventare un professionista. Unisciti al team di Studi Cognitivi. Sono disponibili due posti per il tirocinio nel prossimo semestre.

Sei laureato/a in Psicologia del lavoro o della formazione e vuoi unirti al team di Studi Cognitivi. Affiancherai il responsabile dell’organizzazione e dello sviluppo formativo in un percorso di crescita. La posizione è aperta anche per un tirocinio post laurea.

Che cosa ci aspettiamo da te?

  • Desiderio e curiosità di approfondire i temi che riguardano l’organizzazione (ruoli, competenze, performance, valutazione ecc.)
  • Interesse verso i temi della psicologia sociale applicata
  • Passione per la formazione in termini di metodologie e strumenti
  • Preparazione accademica adeguata a sostenere il ruolo potenziale
  • Solide competenze di analisi (capacità di leggere e interpretare dati quantitativi e qualitativi)
  • Capacità di auto organizzarsi e un rigoroso rispetto delle scadenze
  • Attenzione a migliorare e ricercare soluzioni sempre migliori

L’impegno è di 20 ore settimanali.

Che cosa non stiamo cercando…

  • Uno psicologo clinico che veda in questa offerta solo un lavoro… ma “tanto a me piace solo la clinica”
  • Qualcuno che non abbia mai conosciuto o esplorato, almeno accademicamente, tematiche formative o organizzative
  • Qualcuno che non sia disposto a studiare e continuare ad apprendere
  • Qualcuno che non conosca State of Mind …potremmo reagire molto peggio di Miranda Priestly!

Per candidarti puoi scrivere a [email protected] allegando il CV e un breve testo che ci aiuti a comprendere le tue motivazioni.

 

Parlami di te (2018): la storia di una rinascita, per riflettere con ironia sulle nostre fragilità – Recensione del film

Fabrice Luchini è un mostro sacro del cinema e del teatro francese e su Luchini il regista Mimram ha costruito il film Parlami di te, che è ispirato a una storia vera, quella di Christian Streiff, il grande manager della Peugeot che una decina di anni fa fu licenziato dalla guida della casa automobilistica nel giro di poche ore.

 

Fabrice Luchini è un mostro sacro del cinema e del teatro francese. Paragonabile per fama e tifoseria forse al nostro Toni Servillo.

Se seguite la serie di Netflix Chiami il mio agente, ambientata in un’agenzia francese per attori, avrete visto la puntata a lui dedicata e avrete capito di che mostro sacro parliamo. Pur di averlo come cliente ogni agente sarebbe disposto a vendere la madre…

Parlami di te – l’egocentrismo come aiuto e come ostacolo

Così anche i registi. Metti nel cast Luchini, che si pronuncia ovviamente alla francese con l’accento sulla i finale, e hai fatto il film. Pubblico assicurato. Questo deve avere pensato Hervé Mimram, regista di Parlami di te. Su Luchini il regista ha costruito il film, che è ispirato a una storia vera, quella di Christian Streiff, il grande manager della Peugeot che una decina di anni fa fu licenziato dalla guida della casa automobilistica nel giro di poche ore.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 1

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 2

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 3

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 4

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 5

Streiff qualche mese prima aveva avuto un’emorragia cerebrale, si era ripreso, ma non perfettamente. Soffriva di amnesie, faticava a parlare: ma il sistema industriale è spietato, non aspetta, se non sei efficiente al cento per cento vai fuori.

Anche Alain, il protagonista del film Parlami di te è un grande manager sempre sotto pressione – il titolo originale del film infatti è Un homme pressé – e quando si risveglia in ospedale fatica ad accettare la sua nuova condizione di malato. Il film è appunto la storia di una rinascita, resa più difficile in questo caso dal soggetto colpito dall’ictus. Che non è calmo e paziente come si addice a un convalescente, che anzi rifiuta la sua condizione di persona malata.

Alain è un uomo prepotente, sicuro di sé, abituato a comandare e ad avere tutto e subito. Lo aiuterà in questo cammino – nella realtà durato tre anni e Streiff racconta di essere ancora soggetto a tremori – Jeanne, una giovane logopedista.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 6

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 7

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 8

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 9

Parlami di te (2018) l'ironia che aiuta a riflettere sulla fragilita - Recensione 10

Sulle prime il loro è un rapporto molto burrascoso: Alain, per descrivere il tipo, è famoso fra i suoi sottoposti per non dire mai grazie, uno che quando gli si chiede se sia stanco risponde bruscamente, “riposerò quando sarò morto”. Ovvio che sopporti malamente gli esercizi elementari che è costretto a fare per riacquistare correttamente la parola. Il regista punta moltissimo sul linguaggio e Lucchini lo aiuta offrendo allo spettatore un vero saggio di bravura. Il suo Alain è convinto di pronunciare bene le parole, non si rende conto che invece le storpia, che farfuglia, straparla. Il suo forte egocentrismo sicuramente gli è stato utile per costruire una brillante carriera, ma ora è un ostacolo. Le sedute con Jeanne gli sembrano tempo sprecato, sciocche e inutili le brevi frasi che dovrebbe ripetere svariate volte.

Parlami di te – scoprirsi fragili

L’altra figura che lo aiuta nel decorso della malattia è la figlia Julia, una ragazza deliziosa, ma succube anche lei degli umori del padre. Totalmente arido sul terreno degli affetti familiari anche con lei Alain ostenta insofferenza, finché dovrà cercare il suo aiuto
È la nemesi. Da forte che era, o che pensava di essere, il grande manager si scopre improvvisamente fragile.

Al di là delle cure specifiche, alla fine sarà lui stesso ad aiutarsi, a usare la malattia per ricostruire un nuovo Alain. Per farlo sarà necessario mettersi in cammino, zaino in spalla, per seppellire definitivamente chilometro dopo chilometro, tappa dopo tappa, il manager di ieri. Quello di oggi sarà semplicemente un uomo alla ricerca di se stesso sul Cammino di Santiago di Compostela, un pellegrino fra i pellegrini.

Parlami di te non è un film verità, non è il racconto di un dramma. No, Parlami di te è più semplicemente una commedia, forse il genere cinematografico in cui i francesi più eccellono. Una commedia che usa il dramma di un uomo colpito da una grave malattia per raccontarlo con garbo e per farci anche sorridere. Perché l’ironia, sembra dirci il regista, può essere un buon antidoto anche alle peggiori tragedie.

In Francia il film è uscito prima di Natale ed è stato campione di incassi, da noi sarà nelle sale da giovedì 21 febbraio. Dovrà puntare molto sul doppiaggio, perché non è facile rendere anche in italiano il saggio di bravura linguistico di Luchini. Ma si sa, gli italiani sono i migliori doppiatori del mondo.

 

PARLAMI DI TE – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

Disturbo narcisistico di personalità: grandiosità, vulnerabilità e comorbilità psichiatrica

In ambito clinico le descrizioni del Narcisismo patologico convergono su alcune caratteristiche tipiche..

 

Le caratterische tipiche sono l’egocentrismo smisurato, accompagnato da una preoccupazione eccessiva per il proprio valore personale, il bisogno smodato di riconoscimento da parte degli altri, la presenza di stati mentali di vuoto ed un generale impoverimento affettivo, la mancanza di un autentico interesse per gli altri e la scarsa capacità di costruire relazioni interpersonali.

Queste osservazioni hanno condotto alla definizione nel DSM III (APA, 1980) del Disturbo Narcisistico di Personalità, i cui elementi descrittivi si fondavano sulla palese manifestazione dell’auto-percezione di grandiosità, sulla mancanza di empatia e sull’attiva ricerca di ammirazione.

Narcisismo: ce ne sono 2 tipi principali

Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono ampliate le osservazioni cliniche e gli studi condotti su pazienti narcisisti che, pur essendo avvolti in fantasie grandiose e danneggiati nelle loro capacità di costruire relazioni intime a causa della mancanza di un genuino interesse verso gli altri, manifestavano la patologia in forme diverse da quella descritta dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Akthar & Thomson, 1982; Cooper & Romingstan, 1992; Gabbard, 1989; Gersten, 1991; Pincus & Lukowitsy, 2010).

Sulla base di tali dati si è pervenuti ad un sufficiente accordo nelle descrizioni di due principali sottotipi nel Narcisismo: il tipo grandioso ed il tipo vulnerabile.

Relativamente alla distinzione tra i due fenotipi del Narcisismo patologico, è stato rilevato come mentre nei soggetti classificabili nel sottotipo ‘Narcisismo grandioso’ prevalgono i sentimenti di superiorità e di disprezzo per le altre persone e la regolazione dell’autostima avviene mediante la creazione di un esagerato e ipertrofico senso di unicità e importanza, viceversa nel sottotipo ‘Narcisismo vulnerabile’ appaiono prevalenti le emozioni di vergogna, il senso di umiliazione e l’ipervigilanza rispetto al giudizio degli altri; entro tale sottotipo la tipica ricerca di ammirazione è sostituita dall’evitamento e dal ritiro dalle situazioni che potrebbero comportare fallimenti e rifiuti, mantenendo in tal modo la grandiosità al riparo dai rischi della vita reale, nel segreto delle fantasie.

A fronte di quanto esposto rispetto alle differenze intercorrenti tra i due fenotipi è necessario evidenziare che vari autori hanno rilevato come la maggior parte dei soggetti narcisisti presenta fluttuazioni tra manifestazioni di grandiosità e di vulnerabilità (Caligor et al., 2015; Dimaggio et al., 2003; Marissen et al., 2012; Pincus & Lukowitsky, 2010, Ronningstam, 2016); in tal senso, dunque, la sintomatologia narcisistica non risulta statica, immobile, bensì rappresenta l’espressione di processi dinamici e mutevoli sottesi ai patologici tentativi di regolazione dell’autostima.

Per ciò che concerne la comorbilità nel Narcisismo, le ricerche hanno rilevato come il Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) si presenta più frequentemente insieme ai Disturbi di Personalità Antisociale, Borderline, Istrionico, Passivo aggressivo e Schizotipico (Levy et al., 2009; Stinson et al., 2008).

Inoltre il DNP è presente nel 5% dei casi di Disturbo Bipolare (Vieta et al., 2000) e in comorbilità con abuso di sostanze.

Per quanto riguarda i sottotipi, è stata rilevata la frequente presenza di depressione e ansia nel sottotipo ‘vulnerabile’ (Ronningstam, 2005), mentre l’uso di sostanze è frequente nel sottotipo ‘grandioso’ (Caligor et al., 2015).

Narcisismo patologico: quando il narcisista chiede aiuto

In relazione ai disturbi presenti in comorbilità assume rilevanza evidenziare che, nella maggior parte dei casi, i soggetti affetti da Disturbo Narcisistico di Personalità richiedono un intervento psicoterapeutico non in virtù di una consapevolezza di malattia bensì nel momento in cui manifestano sintomi depressivi o ansiosi che non sono più in grado di sostenere.

I fattori scatenanti uno stato depressivo nel narcisista sono generalmente costituiti da relazioni interpersonali problematiche, da rifiuti o abbandoni, da mancati riconoscimenti nel contesto professionale, da un vissuto di insoddisfazione per la propria vita, da perdite o insuccessi che sminuiscono il fragile senso di grandiosità, generando nell’individuo una percezione di sconfitta e fallimento, e conseguenti emozioni di vergogna ed umiliazione.

Si rende possibile evidenziare, dunque, come la depressione narcisistica scaturisce dalla percezione di una profonda discrepanza intercorrente tra le aspettative idealizzate costruite dal soggetto e la realtà esterna.

In alcuni casi, inoltre, tale stato emotivo sfocia in un evitamento dei rapporti interpersonali fino all’estremo del ritiro sociale, al fine di proteggersi dal rischio di ricevere giudizi negativi altrui a causa della propria condizione di sofferenza emotiva.

Narcisismo: come si manifesta la sofferenza del narcisista

In relazione a quest’ultimo aspetto, infatti, le ricerche hanno rilevato che, parallelamente agli stati depressivi, i soggetti affetti da Disturbo Narcisistico di Personalità presentano frequentemente altri quadri sintomatologici e problematiche comportamentali, quali disturbo da ansia sociale e abuso di sostanze psicoattive.

L’ansia sociale, derivante dall’ipersensibilità al giudizio negativo degli altri sottesa alla millantata sicurezza in sé narcisistica, è manifestata prevalentemente nella forma di un’elevata preoccupazione per le critiche su presunti difetti nel corpo e nelle performances. Tale forma di ansia, dunque, mette in luce la fragilità di individui che nascondono dietro la facciata altezzosa un doloroso senso di inadeguatezza, facilmente slantetizzato e smascherato nella circostanza in cui l’ambiente esterno non fornisce l’ammirazione e l’approvazione attese.

Parallelamente l’abuso di sostanze stupefacenti (in particolar modo la cocaina) e di alcool consente al soggetto di ottenere un veloce, quanto effimero, senso di sollievo dagli stati d’animo negativi e facilita il ripristino o il mantenimento dello stato mentale di grandiosità.

Nei narcisisti la tipica convinzione di possedere abilità eccezionali conduce a negare la loro oggettiva dipendenza da sostanze, a credere di avere il pieno controllo sulla sostanza stessa, e di poterne interrompere l’uso semplicemente quando lo desiderano.

Infine, in alcuni casi i soggetti che presentano un Disturbo Narcisistico di Personalità intraprendono un trattamento psicoterapeutico a causa di un vissuto di grave rabbia, che talvolta sfocia in aggressività etero-diretta verbale o fisica. Tale stato emotivo può essere scatenato da un’ideazione paranoide basata sulla convinzione che gli altri, invidiosi della loro superiorità, siano intenzionati a danneggiarli, sminuendoli o disprezzandoli.

In tali circostanze, la tendenza dei narcisisti è quella di attribuire agli altri la responsabilità dei propri insuccessi, al fine di proteggere la fragile autostima gravemente minacciata dai fallimenti e dalle invalidazioni esterne.

Nonostante il livello di sofferenza emotiva sperimentata dai tali soggetti sia spesso elevato, per il narcisista è molto difficile sia decidere di richiedere l’aiuto terapeutico sia manifestare apertamente il proprio disagio; viceversa, spesso il narcisista assume un atteggiamento di rigido distacco rispetto alle problematiche emotive manifestate. Tale negazione appare inoltre aggravata dalla scarsa capacità, peculiare negli individui affetti da tale disturbo di personalità, di accedere ai propri stati interiori e di riconoscere le proprie emozioni, pensieri, bisogni e desideri.

Infine, alla luce di quanto sopra esposto in merito alla sintomatologia narcisista ed alla distinzione tra i fenotipi grandioso e vulnerabile, si rende necessario evidenziare la marcata variabilità nel livello di funzionamento di tali pazienti.

In tal senso si rileva come la diagnosi categoriale di DNP non consente di stabilire la gravità della sintomatologia di uno specifico paziente, in quanto le persone che condividono la diagnosi di Disturbo Narcisistico possono presentare livelli di gravità clinica, di funzionamento sociale e di difficoltà di trattamento profondamente diversi.

Rispetto a ciò, alcune ricerche hanno evidenziato che, più che la diagnosi categoriale, sono il numero totale di criteri soddisfatti nella somministrazione della SCID II ed il numero di co-diagnosi con altri disturbi a correlare con la gravità dei sintomi, la compromissione sociale e la prognosi peggiore.

Il danno psicologico ed esistenziale. Modelli di perizie, diagnosi, valutazione e calcolo – Intervista a Leonardo Abazia

Leonardo Abazia ci presenta in un’intervista il nuovo libro Il danno psicologico ed esistenziale. Modelli di perizie, diagnosi, valutazione e calcolo che offre al professionista psico-forense una guida alle buone prassi nella valutazione del danno non patrimoniale di natura psichica ed esistenziale.

 

Leonardo Abazia, psicologo giuridico e psicoterapeuta presso l’UOPC di Napoli, dedica un nuovo testo alla valutazione del danno non patrimoniale di natura psichica ed esistenziale offrendo un approfondimento teorico-pratico agli psicologi e ai medici che si destreggiano nel rispondere in prima persona ai quesiti del magistrato e alle istanze delle parti coinvolte nella controversia giudiziaria.

Non si devono giudicare gli uomini come si giudica un quadro o una statua, a un primo e unico sguardo; c’è un’interiorità e un animo che occorre approfondire.

Le parole di Jean de La Bruyère aprono il nuovo lavoro di Leonardo Abazia che, anche questa volta, si avvale della preziosa collaborazione di altri professionisti, in un lavoro corale e complesso.

Intervistatore (I): Da dove nasce l’urgenza di scrivere questo testo?

Leonardo Abazia (L.A.): Il libro nasce per raccogliere le esperienze maturate negli ultimi anni nel Centro Perizie dell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica. La diffusione delle problematiche relative al danno psicologico ed esistenziale ha fatto sì che sentissi l’esigenza di scrivere un testo che sapesse mettere bene in evidenza la specificità e l’importanza del lavoro dello psicologo giuridico, nella valutazione del danno.

Ritengo che ogni indagine sul danno non possa prescindere dall’accertamento delle condizioni psichiche e dalla valutazione delle dinamiche psicologiche che conseguono a un trauma. La nostra categoria professionale è sicuramente quella che, più di ogni altra, ha gli strumenti e le competenze, per approfondire gli aspetti legati alla psicodiagnosi. Purtroppo fino ad oggi queste valutazioni sono state effettuate dai Medici Legali o dagli Psichiatri Forensi. Dunque ho sentito la necessità, l’urgenza di comunicare agli altri colleghi, l’importanza di svolgere con sempre maggiore autonomia un lavoro i cui ambiti di intervento sono, per legge, ascrivibili prettamente al ruolo dello Psicologo. Un’ulteriore urgenza che ha spinto me ed i colleghi alla stesura del libro è legata al fatto di aver appreso che una Commissione Ministeriale stesse lavorando per ridefinire tutti gli ambiti e le categorizzazioni per le varie patologie, tra cui anche quelle psichiche.

Sentivamo l’esigenza di fornire un nostro contributo per ampliare e definire nuove categorizzazioni che permettessero un riconoscimento più specifico del danno psicologico. Tenga presente che ad oggi per i disturbi psicopatologici ne esistono solo 4 di categorie nelle classificazioni nel Codice delle Assicurazioni, 3 in quelle dell’Inail e 1 o 2 in quelle dell’INPS.

Nel lavoro svolto in questi anni, pur riconoscendo che non esiste una causalità lineare tra la natura di un danno e la comparsa di alcune sintomatologie, grazie all’ampia casistica osservata è stato possibile individuare alcuni quadri psicopatologici più frequentemente riscontrabili nel percorso peritale per la valutazione del danno psichico. Nel libro se ne descrivono circa 12. Grazie ad un collega psicologo interpellato dalla Commissione è stato possibile proporre l’ampliamento delle classificazioni e vi sono buone possibilità di riuscire ad ottenere ben 13 categorizzazioni per i disturbi psichici, con relative valorizzazioni percentuali, che attraverso la Commissione Ministeriale, potranno essere proposte nel nuovo Decreto Ministeriale. Ritengo che, se ciò sarà realizzato, permetterà ai professionisti di procedere ad un riconoscimento del danno più puntuale garantendo nel contempo un maggiore rispetto del diritto alla salute di ogni cittadino.

Il danno psicologico ed esistenziale - Intervista a Leonardo Abazia foto

Imm. 1 – LEONARDO ABAZIA

I: Quali sono le difficoltà più grandi con cui si impatta in ambito forense e che il suo libro aiuta ad affrontare?

L.A.: Le difficoltà più grandi, con cui, non solo lo Psicologo Giuridico, ma anche le altre categorie professionali come i Medici Legali e gli Psichiatri Forensi, devono fare i conti, possono essere sintetizzate in alcuni nodi problematici. Innanzitutto riuscire ad effettuare una corretta psicodiagnosi. L’iter psicodiagnostico si differenzia moltissimo da quello medico. E’ facilmente intuibile la diversità di approccio e di complessità nel valutare un osso rotto o un Disturbo post-traumatico. Un secondo nodo problematico riguarda l’individuazione del nesso di causalità. Non sempre è facile stabilire con certezza la connessione causale tra un determinato evento lesivo e il danno che ne consegue. Inoltre una volta individuata tale connessione è necessario che tali conseguenze siano rilevanti sul piano giuridico. Occorre procedere con un approccio metodologico molto rigoroso, seguendo dei criteri precisi, che abbiano una validità scientifica.

Un’ulteriore difficoltà concerne il grande problema della simulazione. Poiché le perizie prevedono il riconoscimento di un indennizzo monetario a seguito del riconoscimento del danno subito, molto comuni sono i tentativi di “inganno” sulla propria condizione psicopatologica. Nel libro tale tema viene trattato e sviscerato da vari punti di vista: sono riportati test specifici ed anche un approfondimento sul “Disturbo cognitivo simulato”.

I: Anche questa volta sceglie di collaborare con altri professionisti nella stesura del suo lavoro, in che modo tali collaborazioni sono avvenute e che valore aggiunto hanno portato al suo lavoro?

L.A.: La collaborazione con altri professionisti è un elemento costante del mio lavoro. Chi come me opera in un ambito complesso come quello della Psicologia Giuridica, non può esimersi dal confrontarsi con gli esperti del settore. Ritengo, infatti, che il confronto sia l’unico modo, non solo per crescere, ma soprattutto per fronteggiare con passione e competenza le sfide che questo ambito di intervento, richiede. Come è noto alla stesura del libro hanno partecipato non solo professionisti affermati che operano da tanti anni nel campo del danno non patrimoniale, quali Domenico Del Forno, Michele Lepore, Sara Pezzuolo (per citarne alcuni), ma anche, giovani professionisti che, nel corso di questi anni, hanno lavorato con me nell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica. In verità, trovo sempre molto stimolante il confronto con i giovani professionisti, poiché riescono, con la loro passione, con le loro idee e la loro curiosità a stimolare un dibattito fecondo su argomenti, che risultano essere spesso ostici.

I: Che tipo di obiettivo si è posto quando ha scritto il testo?

L.A.: L’obiettivo del libro, sin dalla sua progettazione, è stato quello di fornire una chiara descrizione del danno non patrimoniale attraverso un’impostazione prettamente psicologica. Esistono, infatti, molti manuali, su questa specifica materia, ma sono scritti, anche se molto bene, da professionisti diversi, non da Psicologi e questi lavori sono prevalentemente concentrati su aspetti medico legali e/o psichiatrici.

Inoltre volevamo offrire ai lettori una prospettiva psicologica dell’iter procedurale che porta alla valutazione del danno; credo sia utile a superare le sovrapposizioni e soprattutto a promuovere la tanto auspicata integrazione tra le diverse figure professionali che a diverso titolo sono coinvolte nel percorso. Dunque, come vede più che un obiettivo potremmo parlare di più obiettivi: superare la contrapposizione tra le parti, fornire ai colleghi un piccolo manuale che potesse essere da guida in tutti i passaggi che caratterizzano l’intervento peritale (diagnosi, classificazione e valutazione del danno). Nel testo ci sono non solo esempi di perizia svolti ma anche esempi di quesiti posti dai giudici.

I: Nella sua esperienza professionale quale episodio ricorda di maggiore difficoltà?

L.A.: L’episodio che ricordo essere stato particolarmente difficile, non riguarda la valutazione del danno, ma una valutazione complessiva della idoneità di un sottoufficiale del Ministero delle Finanze che sono stato chiamato a svolgere. Cosi come erano stati esposti i quesiti dal Giudice, hanno spinto il CTU ad indagare su tutta la metodologia posta in essere dall’istituzione per valutare l’idoneità. In quel caso, rispondere adeguatamente ai quesiti del Giudice ha significato mettere in discussione l’intero impianto selettivo dell’Amministrazione che, per certi versi, non solo risultava non adeguata ma non teneva in debito conto quanto previsto dalla legge rispetto alla figura professionale (ossia lo Psicologo) che può utilizzare dei test ai fini Psicodiagnostici. Come può immaginare, mettere in discussione tutta la procedura è stato fonte di grossa difficoltà.

I: Quello che da psicologo le è costato più fatica affrontare in ambito forense?

L.A.: Forse il caso più “faticoso” e difficile da un punto di vista psicologico è stata la valutazione del danno psicologico ed esistenziale di un anziano imprenditore a cui, era stato revocato per errore ed in modo improvviso il fido bancario di 200.000 euro. La Banca, inoltre, lo aveva, impropriamente inserito nell’elenco dei “cattivi pagatori”. Ovviamente questo errore lo aveva, letteralmente, ridotto sul lastrico nel giro di qualche mese. La persona si era depressa e sviluppato un disturbo post traumatico da stress. Nel corso della consulenza, le sue condizioni di salute si aggravarono repentinamente per il sopraggiungere di una malattia tumorale, e purtroppo è deceduto prima che riuscissimo a chiudere la CTU.

Il risarcimento del danno è stato riscosso dagli eredi, ma a me ed alla collega co-CTU questa esperienza ci ha segnato profondamente.

Tutti hanno dei limiti, anche i network biologici

Ancora non è chiaro quali siano i fattori che sottendono alla capacità di una rete o di un network biologico di svolgere più compiti contemporanemente. Certo, però, è importante interrogarsi sulla questione.

 

I sistemi complessi solitamente vengono concettualizzati come network, quindi anche in biologia possiamo assistere a questo processo. Questa modalità permette ai ricercatori di capire meglio come i sistemi biologici funzionano a livello elementare, potendo così rispondere a domande chiave di altri settori come la medicina o l’ingegneria.

Il flusso sanguigno è un esempio semplice della modellizzazione in network, infatti il sangue viaggia attraverso reti vascolari e può essere ridirezionato in specifiche zone dove il cervello ha più bisogno. Si pensa che il controllo di queste reti avvenga attraverso la capacità che una rete ha di sopportare un certo compito. Attualmente i fisici non hanno tuttavia ancora esplorato quanti compiti una singola rete può sopportare simultaneamente.

Quanti compiti può sopportare un singolo network biologico?

Alcuni ricercatori hanno indagato la composizione dei network biologici da un punto di vista connesso alla biologia, chiedendosi come la natura crei e mantenga il flusso delle reti, altri ancora hanno studiato i network sotto un profilo più “meccanico”, come ad esempio la disposizione degli amminoacidi che formano le proteine, e come questi possano essere cambiati in relazione alla performance di una specifica funzione biologica. Tali studi sono stati effettuati su due differenti tipologie di network, ma in entrambi i casi le informazioni ottenute sembrano essere utili per rispondere alla domanda iniziale circa le limitazioni delle operazioni svolte da un network.

I ricercatori, un team di fisici appartenenti a diverse Università statunitensi, ha descritto attraverso una serie di equazioni le reti in esame e hanno effettuato delle simulazioni facendo eseguire delle operazioni sempre più complesse a tali network biologici. È risultato che entrambi i network si comportavano allo stesso modo, anche se la fisica di base di entrambi è completamente diversa, assolvendo a svariate operazioni diverse e avendo cosi livelli simili di multitasking e controllabilità.

In conclusione

I ricercatori affermano come questo sia un passo in avanti per futuri studi in cui si cercherà di approfondire le capacità dei sistemi di network biologici poiché comprendendo appieno il funzionamento e i limiti circa le operazioni che una rete può sostenere, potranno essere apportate migliorie in alcuni settori come quello biomedico progettando così farmaci e trattamenti mirati.

La Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale si pronuncia su patentini e certificazioni

Pubblichiamo con piacere la dichiarazione della Consulta* delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale riguardante il valore legale dei vari tipi di certificati e patentini rilasciati dai molti corsi di addestramento in tecniche psicoterapeutiche post-specializzazione che stanno fiorendo sempre più frequentemente in Italia. Questa dichiarazione aspira a chiarire agli addetti alla psicoterapia quali potrebbero essere i pro -soprattutto l’incremento della diffusione delle competenze- e i contro -una certa confusione circa il valore legale e anche didattico di questi corsi- del fenomeno. Buona lettura.

 

Autorizzazione all’esercizio della psicoterapia,

all’utilizzo di specifici approcci e tecniche psicoterapeutici e obbligo di competenza

Documento approvato dal Consiglio Direttivo il 29.10.2018

Si sta diffondendo, anche nel nostro paese e nella nostra professione psicologica e psicoterapeutica, la pratica, possiamo pure dire la moda, delle certificazioni. Molti modelli di intervento psicoterapeutico, tutti nati negli Stati Uniti, propongono la loro certificazione come condicio sine qua non per applicare o insegnare quel particolare modello. La proposta è spesso formulata in modo ambiguo e usa i termini certificazione, abilitazione e autorizzazione quasi come sinonimi (mentre, come vedremo, nel nostro paese non lo sono).

Su questo punto hanno preso una chiara posizione anche le nostre due associazioni scientifiche di riferimento, AIAMC e SITCC.

Per capire il fenomeno, e contrastarne gli eccessi e le distorsioni, bisogna fare un salto negli Stati Uniti, dove il fenomeno ha origine. Il sistema formativo accademico negli SU è molto diverso da quello europeo e italiano in modo particolare. La differenza principale consiste nel fatto che in Italia i titoli di studio hanno valore legale. Laurearsi in psicologia o in medicina a Palermo o a Bologna (se sono università statali, o private riconosciute dallo Stato) non fa nessuna differenza in termini di valore formale del diploma di laurea: entrambe le lauree sono titolo necessario e riconosciuto per accedere all’esame di stato che abilita alle professioni (di psicologo o medico) e ai concorsi nella pubblica amministrazione e nel servizio sanitario nazionale (SSN).

Lo stesso discorso vale per i titoli post lauream, dottorato e specializzazione; quest’ultimo, lo ricordiamo, è titolo necessario per l’esercizio della psicoterapia e per l’accesso ai concorsi per dirigente psicologo nel SSN. Ricordiamo, inoltre, che l’articolo 21 del Codice deontologico vieta l’insegnamento dell’uso di strumenti e tecniche conoscitive e di intervento riservati alla professione di psicologo a persone estranee alla professione stessa. “Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici. È fatto salvo l’insegnamento di tali strumenti e tecniche agli studenti dei corsi di studio universitari in psicologia e ai tirocinanti. È altresì fatto salvo l’insegnamento di conoscenze psicologiche.

Negli Stati Uniti la situazione è molto diversa. Ogni università propone corsi anche molto differenti, per qualità e contenuti. I titoli di studio sono riconosciuti singolarmente dai singoli stati per le singole università. Ci sono università di fama, un nome per tutti Harvard, che sono riconosciute unanimemente, mentre forse l’università di Chattanooga non ha lo stesso trattamento.

Seconda grande differenza. Negli SU non esiste un sistema di welfare paragonabile a quello europeo. La sanità è largamente privata, e basata sulle assicurazioni, anch’esse private. Le assicurazioni, che coprono varie prestazioni, comprese quelle cliniche e la psicoterapia, stante la mancanza di valore legale del titolo di studio, per riconoscere il valore dell’intervento richiedono ai professionisti il possesso di una licensure, o, in assenza di questa, di una certificazione.
Una dettagliata descrizione delle caratteristiche e delle differenze tra licenza e certificazione si può trovare qui: https://internationalcredentialing.org/lic-cert/ .

Una certificazione è generalmente un processo volontario, ma può anche essere obbligatoria o richiesta per esercitare una professione in determinati stati. La certificazione viene per lo più fornita da organizzazioni private allo scopo di riconoscere e garantire i professionisti che hanno dimostrato di possedere i requisiti di stardard professionale minimo per svolgere la loro professione in modo competente.

Insomma, ogni stato si regola a modo suo, e le assicurazioni vogliono essere sicure di pagare per un servizio reso in modo competente. In effetti, la diffidenza delle assicurazioni ha le sue buone motivazioni. Per anni hanno pagato terapie lunghe e prive di efficacia, con fenomeni di prescrizione-erogazione obliqui e opachi. Poi, negli anni Novanta, è scoppiato il fenomeno autismo, e tutti si sono inventati “esperti” (senza avere la necessaria formazione) di Analisi Comportamentale Applicata (ABA), che risultava essere l’intervento più efficace e quindi più richiesto per l’autismo. Lo stesso sta succedendo da un po’ di anni anche in Italia.

Pertanto, la certificazione negli SU ha varie ragioni di esistere, ragioni che non si ritrovano però in Italia. Nel nostro paese, come detto all’inizio, lo stato certifica la competenza dei professionisti, attraverso vari passaggi; per gli psicologi e gli psicoterapeuti, e così pure per i medici, i passaggi sono laurea, tirocinio, esame di stato, scuola di specializzazione. Tutti i perfezionamenti successivi sono volontari, benvenuti, encomiabili, ecc. ma non obbligatori. Gli unici passaggi obbligatori sono gli aggiornamenti professionali noti come ECM ed il vincolo deontologico che obbliga ad “usare solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza”

Ogni professionista della salute è tenuto a esercitare la sua professione con scienza e coscienza, e di questo risponde davanti alla legge. Lo psicologo, o il medico, che ha ottenuto l’autorizzazione statale a esercitare la psicoterapia deve applicare questi principi. La metodica, il modello, la tecnica che decide in scienza e coscienza di applicare sul paziente fanno parte della sua libertà clinica di scelta. Paradossalmente: se io, psicoterapeuta CBT, decidessi che per il mio paziente la cosa migliore per lui sono le associazioni libere di freudiana memoria o il test di Rorschach li potrei legalmente applicare, assumendomi la responsabilità di essere in grado di farle, e nessun ente certificatore mi potrebbe impedire di farlo. Il professionista è tenuto ad aggiornarsi e a frequentare convegni, corsi e altri momenti formativi per migliorare la sua preparazione e apprendere nuove tecniche. Ma la disponibilità di un’ampia ed efficace letteratura sulle teorie cliniche e i modelli psicopatologici, la diffusione di manuali di trattamento chiari e ben strutturati, la disseminazione di Linee Guida e di protocolli di intervento che combinano tecniche di diversa matrice, il confronto e la collaborazione tra colleghi forniscono opportunità altrettanto preziose per migliorare le proprie competenze e per programmare un trattamento che risponda alle esigenze di quello specifico utente/paziente.

Per concludere: nessuna associazione tra quelle che propongono/impongono la certificazione (il patentino) per poter applicare le metodologie che afferiscono al loro modello, può in alcun modo impedire a un professionista, che sia in possesso dei necessari titoli legali di studio e che si senta preparato a farlo, di applicare qualsivoglia metodologia. Questo deve essere ben chiaro agli studenti e ai neo diplomati delle scuole di specializzazione in psicoterapia CBT, che sono i bersagli preferiti delle campagne di promozione/intimidazione. Lo stesso va detto per gli insegnanti: non serve nessun patentino per insegnare una metodica piuttosto che un’altra all’interno dei luoghi deputati all’insegnamento, facoltà, dipartimenti o scuole di specializzazione: serve averne la competenza documentata dal curriculum scientifico e professionale (e chi scrive cose non veritiere può incorrere in una denuncia per falso). Ricordiamo, ancora una volta, che gli insegnamenti, i perfezionamenti e gli aggiornamenti di tecniche psicoterapeutiche sono destinati esclusivamente a psicoterapeuti attivi o in formazione.

 

Consulta delle Scuole Italiane di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale
Sede Legale: Via E. De Amicis, 5 – 35123 Padova
Mail: [email protected]
C.F. 92270390286

 


Cos’è la Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

* La Consulta è una sede di coordinamento tra Scuole di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale e ha l’obiettivo di diffondere in Italia la conoscenza di questo orientamento terapeutico.

Al momento della pubblicazione di questo articolo il Consiglio Direttivo della Consulta è composto da:

Paolo Michielin (Presidente)
Gabriele Melli
Paolo Moderato
Giuseppe Romano
Giovanni Maria Ruggiero,
Carla Maria Vandoni
Cecilia Volpi

All’indomani della sentenza della Corte di Cassazione sull’uso personale (compreso il fumo) della cannabis light: il parere di un esperto

Il Dottor Giuseppe Di Placido, Primario in pensione di Anestesia e Rianimazione, specializzato in Tossicologia Medica, ci spiega quali possono essere gli effetti reali della cannabis sull’organismo umano, anche della cosiddetta cannabis legale o cannabis light.

 

Tutti, almeno una volta nella vita, hanno sentito parlare dell’erba che sballa e forse, anche più di una volta, molti l’hanno provata, se non altro per testare su di sé gli effetti ‘terapeutici’ di sballo e disinibizione. Niente di nuovo sotto il sole dunque. Infatti, la marijuana sembra fosse usata in Cina, per scopi terapeutici, già 2700 anni A.C. Eppure oggi parlare di cannabis ha una novità tutta particolare, soprattutto a seguito del proliferare di negozi che commercializzano prodotti della cosiddetta cannabis light, ossia le infiorescenze di canapa a contenuto legale di THC (tetraidrocannabinolo, il principio attivo), l’erba che ‘non’ sballa insomma. E a maggior ragione per la Circolare del Ministero dell’Interno che aveva autorizzato a trattare come una sostanza stupefacente quella cannabis light che contenga livelli di concentrazione di THC superiori allo 0,5%, una percentuale leggermente inferiore a quella in precedenza consentita (per la produzione).

Ad accendere nuovamente l’interesse sul tema ci ha pensato la recentissima sentenza della Corte di Cassazione, resa nota da pochi giorni, in cui si dichiara che se la commercializzazione è consentita ciò «non comporta che siano di per sé vietati altri usi non menzionati» come, ad esempio, il fumo.

Procediamo con ordine. La legge 242, approvata nel dicembre 2016, era stata accolta con grande esultanza dai produttori italiani, essa prevede la commercializzazione e la produzione di cannabis a condizione che il contenuto di THC non sia superiore allo 0,2%. È però previsto un limite superiore dello 0,6% entro il quale – per la coltivazione – è esclusa la responsabilità dell’agricoltore. Sull’onda dell’entusiasmo sono così nati negozi di cannabis light e, a oggi, si registra un vero e proprio boom di growshop! Si può comprare pane, pasta, olio, biscotti con l’ingrediente ‘magico’, prodotti diffusi anche grazie alla loro alta digeribilità e all’elevato contenuto proteico. Inoltre, la canapa legale trova utilizzo anche per capi d’abbigliamento e cosmetici.
La legge lasciava però una sorta di ‘vuoto normativo’ relativo all’utilizzo personale della cannabis legale, che sembrava non vietare né consentire.

Un’inversione di rotta è sembrata esserci, poi, con il parere formulato dal Consiglio Superiore della Sanità su richiesta del Ministero della Salute con la sua «non esclusione di pericolosità» dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa.
Alla luce, invece, di questa recentissima sentenza la Suprema Corte ha definitivamente dichiarato che la percentuale di THC sotto lo 0,6% non è ritenuta «produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti». Si deduce, in primis, che la vendita non è vietata. E sembra potersi dedurre, dunque, che anche l’uso personale della cannabis non sia vietato, compreso il fumo.

Cannabis legale e conseguenze sulla salute psichica e fisica: intervista al Dottor Di Placido

Visti i numerosi articoli di stampa nazionale che hanno riportato prepotentemente alla ribalta il tema dell’erba che non sballa e la diffusione degli headshop italiani di cannabis legale, ci si pone una domanda più strettamente specialistica. Sebbene, infatti, il tema sia stato terreno di scontro di varie associazioni, con differenti e contrapposte colorazioni politiche – a favore e contro la legalizzazione delle droghe leggere – la deontologia professionale spinge a cercar di far luce sulla reale incidenza che l’uso di tali sostanze può avere sulla salute sia psichica sia fisica, relativa all’uso di tali sostanze. E i growshop sono solo lo spunto per estendere la riflessione ad altri aspetti legati alla dipendenza da sostanze d’abuso e relative problematiche.

A tale scopo, sono state poste alcune domande al Dottor Giuseppe Di Placido, Primario in pensione di Anestesia e Rianimazione, specializzato in Tossicologia Medica, che da sempre ha rivolto – sono le sue stesse parole – “un vivo interesse verso gli aspetti tossicologici di xenobiotici, farmaci e sostanze chimiche varie”. Non a caso ha discusso la tesi di una delle sue specializzazioni proprio sulla tossicologia della marijuana. Come lui stesso ci tiene a sottolineare:

Oggi l’attenzione è rivolta alla persona che diventa il soggetto dell’azione di queste sostanze. Il medico, come tale, ha il dovere di focalizzarsi sul loro modo di agire, sul modo in cui è prodotta la sostanza, sul reperimento e sull’importanza tossicologica della sostanza stessa.

 

I (intervistatore): Dottor Di Placido, in base alla sua lunghissima esperienza, quali sono gli effetti reali della cannabis sull’organismo umano?

GDP (Giuseppe Di Placido): Va detto che, sicuramente, la cannabis ha effetti benefici per alcune patologie e di questo non c’è alcun dubbio, considerando per esempio la stimolazione dell’appetito, l’azione anti nausea, anti vomito, nei trattamenti chemioterapici. Proprio la scoperta di questi effetti ha portato a inserire tra i medicinali i cannabinoidi di sintesi (dronabinolo).

I: A proposito della cannabis light legale, coltivata in Italia con tecniche biologiche nel rispetto delle norme e delle leggi italiane, il Ministero dell’Agricoltura ha riconosciuto la produzione e il commercio delle inflorescenze di canapa, laddove vi siano livelli di concentrazione di THC inferiore allo 0,2%. Cosa pensa al riguardo? Ci sono comunque probabilità di rischio? E di che tipo?

GDP: Nella circolare ministeriale si legge che la coltivazione della canapa è consentita senza necessità di autorizzazione, a meno che non si trovi un tasso THC di oltre lo 0,2%, come previsto da regolamento europeo. Vede, per capire la portata del fenomeno faccio un esempio: la dose LD 50 – che significa 50% di mortalità per l’assunzione di questa dose – nel ratto è 40 mg di THC per kg. Nell’uomo medio di 70 kg questa quantità corrisponde a circa 3000 mg di THC, che è pari al contenuto di circa 23 sigarette con concentrazione di THC del 15% circa. Da questo punto di vista una concentrazione di tetraidrocannabinolo dello 0,2% è innocua, o meglio sarebbe innocua se un soggetto si ‘facesse una canna’. Poiché la canna viene inalata, circa il 50% si perde tra: la sigaretta che si consuma, l’inalato e l’espirato. Però se un soggetto si fa 100 canne il discorso cambia e ritorniamo sempre a Paracelso (1493-1547) secondo il quale nessuna e allo stesso tempo tutte le sostanze chimiche sono veleni, dipende dalla dose.

I: È possibile trovare in questi esercizi commerciali prodotti alimentari come ad esempio la pasta: anche in questo caso la pericolosità è correlata alla quantità di cannabis che si assume?

GDP: Paracelso, sempre Paracelso, ci offre la risposta: l’effetto dipende dalla dose assunta.

I: Il Consiglio Superiore di Sanità però afferma che il limite di THC non sia comunque trascurabile, ravvisando la possibilità che si producano degli effetti.

GDP: Se la quantità di cannabis è eccessiva, da light si passa a heavy, ovvero fortemente tossica; ha ragione il Consiglio Superiore.

I: Il consumo di cannabis legale può avere effetti pericolosi in relazione anche all’età del soggetto consumatore, immagino che ci siano maggiori controindicazioni nel caso di adolescenti, persone in fase di crescita. Cosa ne pensa?

GDP: La Dott.ssa Sara Beggiato dell’Università di Ferrara, ricercatrice del Dipartimento di Scienze della Vita Biotecnologia, in collaborazione con i professori del Research Center di Baltimora ha realizzato uno studio sull’assunzione di THC in organismi in via di sviluppo: questo lavoro è stato selezionato tra le 13.000 ricerche sull’oggetto. È stata presentata a San Diego nel novembre scorso: si sostiene che l’assunzione di THC in un’età della vita in cui il cervello si sta ancora sviluppando fa male ed espone al rischio di sviluppare malattie e psicosi, fatto per altro noto da tempo. L’originalità della ricerca non sta, dunque, nel ribadire la nocività della marijuana, quanto nel fatto che essa indica per la prima volta in modo chiaro qual è l’elemento facilitatore di determinate alterazioni. Si tratta appunto dell’acido chinurenico, una sostanza endogena che sembra essere coinvolta nello sviluppo di disturbi psichiatrici. Dobbiamo, quindi, prevedere un danno quando c’è un uso continuo.

I: L’utilizzo della cannabis può essere legata anche a patologie neurologiche, penso all’epilessia ad esempio?

GDP: C’è la possibilità che delle patologie latenti vengano portate in superficie, che esplodano con l’utilizzo di queste sostanze.

I: Non come causa?

GDP: Come causa no, ma come epifenomeno.

La mia vita per l’inconscio (2007) di Aldo Carotenuto – Recensione del libro

La mia vita per l’inconscio di Aldo Carotenuto è un testo del 1996, alla sua prima ristampa nel 2007: risulta quanto mai opportuna questa riedizione della vita di uno dei più grandi psicoanalisti italiani di sempre..

 

Per Aldo Carotenuto la vita di uno psicoterapeuta, i suoi tormenti, le passioni, i ricordi, le scelte culturali, non possono essere una variabile tra le tante: ma rappresentano – assieme al relativo potere della tecnica – quella sostanza difficilmente riproducibile in serie che conferisce spessore al lavoro psicologico. La disponibilità costante a trasformarsi nell’incontro con l’altra sostanza, portata dal paziente, è per l’autore la vera e unica possibilità di cambiamento e guarigione, che deve essere sempre reciproca, come rammenta Jung con il suo “mysterium coniunctionis”.

La mia vita per l’inconscio: protagonista del suo mondo

La casa di Aldo Carotenuto, nei pressi di Piazza Bologna a Roma, era una fucina di produzione culturale e intellettuale in costante produzione: sempre affollata di persone, intellettuali, letterati, medici, giovani tirocinanti intenti a sistemare l’indefinita vastità dei libri che ne riempivano ogni angolo, in lungo e in largo. Un mare di sapere, una dimora-biblioteca nella quale Carotenuto, con la maestria di un consumato navigatore a vela dell’era pre-web, aveva la capacità di rintracciare il testo esatto a vista e recuperare in esso il capoverso al quale riferirsi o ispirarsi a seconda del tema che si stava trattando in quel momento.

Quel districarsi agile tra volumi, manoscritti, opere e autori, contribuiva a renderlo ai nostri occhi di allievi, ancor più meritevole dell’attenzione che già sapeva catturare con quella fiducia nelle risorse di ciascuno che non mancava mai di esprimere: sempre delegante, stimolante, curioso, mai puntiglioso, costantemente disponibile nel valutare con interesse le proposte che gli venivano portate. Irriverente, poco incline ai rituali e alle formalità accademiche, prediligeva il coinvolgimento alla deferenza, la condivisione all’ossequio. Negli anni ’90 era già un mito vivente, dopo le ricerche e le pubblicazioni degli inediti carteggi tra Freud, Jung e Sabina Spielrein che costrinsero a una rivisitazione pressoché totale della storia delle origini della psicoanalisi e dunque della psicoterapia. Carotenuto guardava sempre l’interlocutore negli occhi, e il suo non era uno sguardo di circostanza: bensì una tangibile ricerca dell’altro. Molte di queste sue caratteristiche, così come la notorietà internazionale, l’incredibile partecipazione alle sue lezioni, le aule gremite di gente, non gli resero sempre facile la convivenza nelle istituzioni collegiali e tra i suoi stessi colleghi.

La mia vita per l’inconscio: la clinica può venire solo dall’esperienza soggettiva

La mia vita per l’inconscio, testo del 1996, è un condensato nel quale, in poche scorrevoli pagine, Carotenuto si «denuda» (pag.7) senza particolari reticenze. L’autore decide di farci entrare nella sua dimensione interiore, rivelando assieme a molti dettagli della sua vita, soprattutto le motivazioni profonde delle proprie scelte. Il registro linguistico utilizzato è confidenziale, semplice, schietto, più asciutto del Carotenuto che si mostra in altri saggi, rimanendo pur sempre vivo e stimolante nel proprio inconfondibile modo di scrivere e raccontare. Questa lettura può spiazzare, persino tutt’oggi, per l’incisiva franchezza con cui l’autore racconta del suo distinguere tra «pubblico e pubblico» (pag. 12): quello degli studenti e dei lettori, il suo «vero pubblico» – e l’altro, quello di chi si adopera per fare della «conoscenza un sapere dogmatico che nega altri saperi» e ha come fine il mero mantenimento di una posizione di potere. Chi proclama una presunta superiorità, nascondendo unicamente le proprie brame autoritarie basandosi su assunzioni assiomatiche, viene affrontato dall’autore con sfrontatezza e senza troppi giri di parole.

Aldo Carotenuto si è speso sempre, come è evidente in questa autobiografia, perché le istituzioni che detengono il sapere come forma di autorità si ponessero in un atteggiamento di autocritica: di ricerca curiosa «sempre soddisfatta e mai sazia al tempo stesso» di quella verità in costante trasformazione che egli stesso, in altri lavori, preferiva definire “itinerante”. D’altronde il suo pensiero si è formato attraverso l’incontro con personaggi (per lui le letture erano “reali” incontri con gli autori) altrettanto irriverenti e al tempo stesso consapevoli delle umane ombre, quali Dostoevskij, Kafka, Pasolini, Marx, Freud, Jung. Lo sforzo autobiografico, che privo di falsa retorica egli stesso non esita a collocare in un bisogno narcisistico, nasce dunque con l’intento di mostrare – ancora una volta – quanto sia l’esperienza soggettiva a dar vita alle teorie psicologiche e quindi alla clinica che ne deriva e quanto sia poco concreta e lontana dai fabbisogni dell’individuo quella psicologia che si fonda, invece, sulla clinica derivante dalla sperimentazione in laboratorio, o dalla pura teoria.

La mia vita per l’inconscio: curarsi del proprio e altrui disagio

La tematica che scelgo di sviluppare, di anno in anno, nei mei seminari universitari, nasce sempre dall’esigenza di sondare aree perturbanti e sconosciute del mio stesso mondo interno, e credo sia questo a decretare la peculiarità delle lezioni e la fervida adesione del mio uditorio…(pag. 10).

Leggere l’autobiografia di Aldo Carotenuto, tra riferimenti artistici, letterari, storici, è cosa ben diversa dallo studiare la vita di uno scienziato – che potrebbe essere del tutto irrilevante al fine della comprensione del lavoro di quest’ultimo – in questo caso, invece, la biografia coincide con il contenuto del compito stesso dello psicoterapeuta. Per Carotenuto, sulla scia di Jung, è impensabile occuparsi del disagio psicologico senza che il terapeuta stesso si interroghi

sul senso e sul valore dell’esistenza – d’altronde – ciò significa che il disagio, o quanto meno l’inquietudine, è una condizione fondamentale del nostro lavoro. Se venisse a mancare, cadrebbe non tanto la motivazione a portarlo avanti, quanto la disponibilità̀ di energie da spendere in esso. (pag.23).

Non mancano le memorie del disagio di essere nati poco prima della seconda guerra mondiale, le rievocazioni delle paure e delle indecisioni, della malattia che lo segnò fin da molto giovane, dell’amore, del travaglio lavorativo, della propria introversione, di quanto in definitiva

la ferita, (…) può determinare un risveglio psicologico che ci induce a sperimentare livelli più profondi di consapevolezza. (…) avvenimenti particolarmente gravosi, che le analisi che ho successivamente intrapreso mi hanno aiutato a comprendere e a superare (pag.24).

Ecco che alcuni dei concetti chiave dell’opera di Carotenuto, il “tradimento”, la “trasgressione”, assumono una prospettiva differente se osservate alla luce della sua vita:

se “trasgredire” significa essere fedeli a sé stessi e non ai manuali o alle “istruzioni per l’uso”, confesso di aver molto trasgredito (pag.28).

La mia vita per l’inconscio: non si può stabilire la tecnica migliore

Un altro motivo caro all’autore, quello dell’indimostrabilità della superiorità di una tecnica rispetto all’altra, si inscrive esattamente in questa visione dell’uomo e della psicoterapia. Il lavoro terapeutico opera un processo di trasformazione – e di guarigione – non attraverso l’asettica applicazione di un metodo, ma grazie alla persona dell’analista, che ha compiuto a sua volta un analogo e altrettanto sofferto cammino per il cambiamento. Per questo Carotenuto, così come Jung soleva ricordare di non volere seguaci “junghiani”, si definiva «“un analista”, senza una particolare connotazione di scuola.» (pag. 28); dato che

non si tratta di aderire e conoscere questo o quel modello teorico, che nella maggioranza dei casi non ha alcuna validità, ma è l’atmosfera che si riesce a creare tra due persone (paziente e analista) che diventa il vero fattore trasformativo.

Tali posizioni erano, e sono ancora, particolarmente avverse agli addetti ai lavori, che spesso si trincerano dietro i dogmatismi delle proprie ortodossie “scientifiche” «per impedire che si riconosca la loro nullità». (ibidem).

Il mancato appiattirsi sulla moda della ricerca sperimentale, della prova di efficacia da fornire in laboratorio – che egli riteneva irrealizzabile – esponeva Carotenuto a critiche feroci e non di rado distruttive. Anche perché, sosteneva (e tollerava) l’idea che anche il terapeuta potesse essere portatore di una ferita – l’importante era che avesse speso tempo e impegno nel tentativo di sanarla – e come rammentava parlando di sé stesso: «non mi sono mai preoccupato di nascondere la “psicopatologia” dell’analista».

È nel richiamo costante alla “tensione creativa”, che Carotenuto incentra il suo discorso sulla possibilità, per sé stesso, come per il paziente, di «trasformare la realtà̀ e di reimmaginare il mondo» (pag. 76) ed è in questo accostamento tra creatività e psicoterapia, che egli situa, senza possibilità di fraintendimenti, il lavoro terapeutico: più vicino al mondo artistico che a quello scientifico. Nondimeno

l’espressione della propria dimensione creativa nasce sempre da un atto trasgressivo, da un tradimento. Se non siamo né angeli né demoni, ma semplicemente uomini, lo dobbiamo all’atto trasgressivo dei nostri mitici progenitori (pag. 89).

Lo sguardo della psicoterapia per Carotenuto, come da questo volume emerge con chiarezza, si deve spostare dalla dimensione intrapsichica, familiare, infantile, a quella sociale e persino economica, andando ben oltre quel “campo analitico” pur oggi così attuale; dislocando il proprio punto di attenzione sino a comprendere il livello «individuo-mondo» (pag. 94), uscendo persino da quelle che per lui erano le già inattuali (nel 1996) «secche del passato» (ibidem) in cui sembrava incagliata una certa psicoanalisi “ortodossa”.

Il tradimento dell’ortodossia della tecnica, «non significa legittimare gli incolti e i selvaggi», bensì giungere a un’interpretazione soggettiva e unica del proprio operato come analista e come psicoterapeuta. Un modo di porsi di fronte al soggetto rispettandone totalmente l’unicità e la singolarità irripetibile.

Solo riconoscendo questo reciproco coinvolgimento riusciamo a comprendere come mai l’alchimia analitica riesca a trasformare non solo colui che vi è giunto con una domanda di aiuto, ma anche colui che tale domanda ascolta (pag. 56).

L’epidemia odierna: i perfezionisti nevrotici e inconsapevoli

Il perfezionismo è un fenomeno ancora ampiamente sottovalutato e poco riconosciuto: molti individui percepiscono un profondo disagio e celano le loro imperfezioni a coloro che potrebbero fornire un aiuto (come psicologi, insegnanti e medici di famiglia).

 

Viviamo in una società in cui l’errore non è ammesso e l’imperfezione crea disagio. Non stupisce, quindi, che il perfezionismo abbia preso il controllo sulle nostre vite, specialmente nell’ultimo ventennio.

Più gli anni passano e più gli individui con tale tendenza divengono sempre più sofferenti e sempre meno consapevoli. Per questo motivo, il perfezionismo è stato oggetto di numerosi studi al fine di raggiungere una comprensione del fenomeno il più possibile completa.

Ma che cos’è il perfezionismo? E che cosa comporta essere un “perfezionista”?

Il perfezionismo, in primis, coinvolge l’ambizione alla perfezione e all’impeccabilità, caratteristiche richieste sia a se stessi che agli altri. Oltre a ciò, sono presenti reazioni estremamente negative agli errori, un rigido auto-criticismo, dubbi opprimenti e asfissianti riguardo le proprie abilità performative e, infine, un’intensa percezione degli altri come critici ed esigenti.

Un recente studio della Dalhousie University e della York St John University ha indagato vari aspetti del perfezionismo: comprensione, valutazione e trattamento. Per ottenere una comprensione esaustiva del fenomeno, lo studio è stato condotto attraverso una meta-analisi in larga scala, comprendente 77 ricerche e 25.000 partecipanti circa. I due terzi dei partecipanti erano donne. L’età media dei partecipanti rientrava tra i 15 ai 49 anni.

Attraverso questo studio, i ricercatori hanno concluso che i giovani di oggi hanno una tendenza maggiore al perfezionismo rispetto alle generazioni passate. Secondo gli autori, le cause di ciò sono diverse e piuttosto complesse: in parte, questa forte tendenza al perfezionismo sarebbe imputabile al modello competitivo caretteristico del mondo in cui viviamo, dove posizione e performance hanno un valore primario al punto che il successo e l’interesse egoistico sono enfatizzati; fanno la loro parte anche i social media e le vite irrealisticamente “perfette” che vengono regolarmente proiettate negli schermi: le ultimissime pubblicità impongono standard inconfutabili di perfezione. È così che i millennials si ritrovano circondati da metri di giudizio fittizi su cui imparano a basare il proprio successo o il proprio fallimento. Oltre a ciò, lo sviluppo di una personalità perfezionista è influenzato anche dall’essere cresciuti con genitori controllanti e critici.

Dunque, il diffondersi del perfezionismo sta diventando un serio problema nella società occidentale, dal momento che esso è significativamente correlato ad ansia, stress, depressione, disturbi dell’alimentazione e della nutrizione e, addirittura, suicidio. Pertanto, si fa sempre più urgente la necessità di impegnarsi in attività di prevenzione rispetto al dilagare di tale tendenza attraverso la promozione di interventi mirati. Bisogna ridurre la rigidità e il controllo delle pratiche genitoriali e delle influenze socio-culturali, come per esempio le immagini mediali irrealistiche che contribuiscono al perfezionismo.

Cosa succede quando il perfezionismo è radicato nel tempo?

Un altro risultato del presente studio è riferibile al decorso del perfezionismo: pare che più tempo si passa senza ridurre o trattare questa tendenza, più il perfezionismo appare radicato, irremovibile e invalidante. La personalità diventa più nevrotica (vi è più tendenza a sperimentare emozioni negative come colpa, invidia e ansia) e meno consapevole (meno organizzata, meno efficiente e disciplinata).

Rincorrere la perfezione – obiettivo intangibile e impossibile – potrebbe portare ad un più alto numero di fallimenti e a minori successi che hanno come conseguenza quella di rendere l’individuo ancora più sofferente e consapevole delle proprie imperfezioni, oltre a far diventare più ardua l’impresa di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Limiti dello studio e prospettive future

Il presente studio non ha, infine, riscontrato differenze di genere nei livelli di perfezionismo di donne e uomini. I ruoli di genere appaiono quindi insignificanti nella moderna gara utopica a “essere Dio”, dove la pressione al perfezionismo investe allo stesso modo donne e uomini. Tuttavia, non è stato indagato nello studio quali motivazioni spingono uomini e donne al rifiuto delle imperfezioni e degli errori. Le ricerche future potrebbero orientarsi proprio verso questa direzione e indagare se tra i motivi che guidano gli uomini si ritrovano motivazioni basate sul raggiungimento dei risultati e sul successo (come per esempio competere per le risorse) mentre le donne potrebbero essere guidate da un perfezionismo più di stampo relazionale (come per esempio essere giudicate amabili e piacevoli dagli altri).

In conclusione

Nonostante la sua considerevole diffusione nella nostra società, il perfezionismo è un fenomeno ancora ampiamente sottovalutato e poco riconosciuto: molti individui percepiscono un profondo disagio e celano le loro imperfezioni a coloro che potrebbero fornire un aiuto (come psicologi, insegnanti e medici di famiglia). L’esigenza è, quindi, quella di rispondere alla cosiddetta “epidemia del perfezionismo” ad un livello culturale e genitoriale.

Nell’ambiente familiare, per esempio, i genitori dovrebbero esercitare meno controllo, essere meno critici e iperprotettivi verso i propri bambini. Bisognerebbe insegnare loro a tollerare gli errori e imparare proprio da questi ultimi, enfatizzando il sacrificio, il duro lavoro e la disciplina piuttosto che la ricerca irrealistica di una perfezione irraggiungibile. L’amore incondizionato, dunque: dove il genitore valorizza il proprio figlio al di là delle sue performance, della posizione raggiunta o dell’apparenza. Questo sembrerebbe un buon antidoto contro il perfezionismo.

A livello culturale, d’altro canto, il perfezionismo è un mito e i social media rappresentano il suo personale narratore. Abbiamo bisogno di trasmettere un salutare scetticismo verso quelle vite sospettosamente “perfette” che vengono diffuse attraverso post e pubblicità. Mentre photoshop elimina ogni imperfezione e i filtri fanno luccicare le nostre parti umanamente “opache” nel tentativo di diventare corpi statuari degni di copertina e robot instancabili e infallibili, abbandoniamo totalmente quello che realmente ci rende umani: la nostra unicità, la nostra vulnerabilità, le nostre particolarità e le nostre difficoltà.

Dipendenza da sostanze e altri disturbi: quale trattare prima?

L’uso di sostanze può alterare significativamente il comportamento, l’umore e la personalità degli individui che ne fanno uso.

 

Per quanto riguarda il trattamento per il disturbo da abuso di sostanze, in particolar modo la dipendenza da esse, bisognerebbe focalizzarsi solo sul trattamento della dipendenza?

Oppure bisogna cercare di prevenire l’instaurarsi della dipendenza nell’individuo andando a lavorare anche sulle altre condizioni di sofferenza o disturbi che si possono presentare in comorbilità?

Dipendenza da sostanze: come si diagnostica

Le due principali linee guida per diagnosticare le condizioni di salute mentale in tutto il mondo sono il DSM e l’ICD. Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) è lo strumento diagnostico standard per le condizioni di salute mentale negli Stati Uniti e spesso. L’ICD (International Classification of Diseases) è approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e spesso utilizzato in Europa.

Nel DSM-5, l’abuso di sostanze e la dipendenza da sostanze sono uniti sotto lo stesso nome di disturbo da uso di sostanze, che viene diagnosticato lungo un continuum. Ogni sostanza ha una sua sottocategoria. Nel DSM-5 ora appaiono, come condizioni diagnosticabili, sia la dipendenza comportamentale sia il disturbo del gioco d’azzardo. Altre voci simili, come il disturbo del gioco su Internet, sono elencate come bisognose di ulteriori ricerche prima di essere formalmente aggiunte come diagnosi. Nell’ICD-11 c’è un sottoinsieme di disturbi dell’umore chiamati “disturbi dell’umore indotti da sostanze”, che sono condizioni causate dall’uso di sostanze. Per poter diagnosticare questa categoria, i sintomi del disturbo dell’umore non devono comparire prima dell’uso di sostanze. Ipoteticamente, una persona che ha disturbi dell’umore indotti dall’alcool potrebbe guarire solo con l’astinenza, ma nessuno può passare da un’esperienza di dipendenza senza che l’uso di sostanza possa alterare la mente e il corpo, a volte in modo irreversibile. Con il passare del tempo, i disturbi indotti da sostanze cambiano la funzione del cervello e alterano la regolazione delle emozioni.

Dipendenza da sostanze e disturbi in comorbilità: quale trattamento

Non tutti i soggetti che hanno una dipendenza stanno sperimentando contemporaneamente un altro disturbo mentale. Tuttavia, l’uso di sostanze può alterare i comportamenti, gli stati d’animo e le personalità in maniera significativa; di fatto per le persone che sono dipendenti è difficile determinare quale sia, se esiste, la causa sottostante, responsabile delle alterazioni. I farmaci, anche quelli che sono prescritti e utilizzati dai medici per questi disturbi, possono avere effetti collaterali che sembrano imitare i sintomi di altre condizioni diagnosticabili. Questi effetti possono verificarsi anche se una persona è in remissione. A causa di questa incapacità di isolare le condizioni in comorbilità i medici in precedenza erano soliti trattare in primo luogo i disturbi da uso di sostanze per poi esplorare la possibilità di altre malattie mentali. Questo ad oggi non è considerato uno degli approcci migliori.

Il libro del Dott. Akikur The Anatomy of Addiction sostiene che il miglior modo di trattare pazienti che possono presentare in comorbilità più diagnosi è quello di integrare la salute mentale e il trattamento della dipendenza in un unico programma completo, progettato per soddisfare le esigenze individuali del paziente specifico. Naturalmente riveste un grande ruolo come strumento diagnostico l’esperienza del clinico nel trattamento della dipendenza.

Il terapeuta relazionale, di Bruno Bara – Recensione

Il libro Il terapeuta relazionale di Bruno Bara contribuisce a chiarire la svolta relazionale del cognitivismo in Italia. 

 

Bara basa il suo modello su un orientamento evoluzionistico e neuroscientifico i cui concetti chiave sono la motivazione cooperativa e la conoscenza incarnata (embodied knowledge). Per Bara entrambi questi concetti teorici hanno una ricaduta per il benessere psicologico in psicoterapia. Il modello evoluzionista propone che la modalità cooperativa sia non solo la caratteristica evolutiva della specie homo ma anche la condizione che conferisce il maggiore benessere psicologico alle persone. La conoscenza incarnata propone che i meccanismi di cambiamento e crescita individuale debbano avvenire soprattutto a livello emotivo e viscerale.

Bara si chiede in che modo queste tesi diventino operative in psicoterapia e trova la sua risposta nella centralità della relazione terapeutica. Per l’evoluzionismo il perché è chiaro: se il centro evolutivo ed emotivo della specie homo è la cooperazione, esso lo sarà anche nel caso particolare della psicoterapia che funzionerà in quanto relazione. In breve, la psicoterapia consiste nel fornire un ambiente relazionale in cui il paziente, sotto la guida competente ed esperta del terapista, abbia finalmente la possibilità di esercitare quella capacità cooperativa in lui o in lei non sviluppata. Inoltre la relazione terapeutica offre quel tipo di esperienza conoscitiva di tipo viscerale ed emotivo necessaria per un vero cambiamento. Insomma, la conoscenza s’incarnerebbe soprattutto nella relazione.

Per evitare il pericolo di parlare di relazione in maniera generica Bara si appoggia al modello di Liotti e Monticelli (2014) che hanno delineato un modello operativo di gestione della relazione terapeutica. A loro volta Liotti e Monticelli pescano tecniche relazionali da vari modelli, tra i quali prevalgono quelli che intervengono in termini di validazione, come fa Marsha Linehan (1987) e quelli che ragionano in termini di rotture e riparazioni come fanno Safran e Muran (2000).

Il terapeuta relazionale: punti di attenzione e possibili debolezze del testo

Accanto a questi punti di forza del libro Il terapeuta relazionale ci sono anche possibili debolezze. Un difetto del modello di Liotti è il passaggio troppo audace dal darwinismo alla clinica appoggiato a similitudini affascinanti ma non conclusive. Questo costringe Bara ad appellarsi a dati di efficacia appartenenti a studi sulla relazione terapeutica non specifici del suo modello e appartenenti a modelli solo parzialmente relazionali come quello di Marsha Linehan (1987) oppure appartengono agli studi sui fattori aspecifici di Lambert (Lambert e Barley, 2001; Lambert e Ogles, 2004) che sono una conferma solo indiretta perché non attribuiscono nessuna particolare superiorità alle terapie specializzate sugli interventi relazionali ma si limitano ad asserire che in ogni intervento l’aspetto decisivo è quello aspecifico, a sua volta poi parificato all’aspetto relazionale. Queste ricerche empiriche confermano un’accezione aspecifica – e quindi vaga e generica – di relazione terapeutica e conferiscono alla relazione un carattere non progressivo ma deprimente per lo sviluppo della psicoterapia: la relazione come fattore che non migliora le terapie che la usano specificamente ma che le rende non solo tutte ugualmente efficaci ma anche concretamente tutte uguali: essa è presente e agisce spontaneamente come intervento principale anche in terapie in cui non sia prevista in primo piano.

Ci sono dei rischi nel pescare tecniche al di fuori del proprio modello: può avvenire che una tecnica presa in prestito da un modello clinico estraneo possa parassitare il modello teorico evoluzionista. Accade questo all’evoluzionismo di Bara? Egli avverte il pericolo quando prende le distanze dall’eclettismo ecumenico di Safran e Muran (Bara, 2018, pp. 58-59).

Un’altra perplessità è la possibile condivisione da parte di Bara della diffidenza che Liotti e Monticelli nutrono verso gli interventi protocollati. A loro parere questi interventi sarebbero a rischio di mettere in azione il cosiddetto sistema motivazionale di rango a danno di quello cooperativo, diventando così degli interventi anti-terapeutici. Almeno così sembrano sostenere Liotti e Monticelli (2014) a pagina 114 del loro libro laddove si occupano del dialogo socratico. Non basta. Pare che anche essere troppo supportivi possa essere anti-terapeutico poiché si finirebbe in un altro sistema motivazionale anti-terapeutico: l’accudimento. Questa diffidenza verso le definizioni operative e protocollate dell’azione terapeutica rende la definizione dell’attitudine cooperativa a tratti vaga e sfuggente e costringe Bara, nel testo Il terapeuta relazionale, a un continuo chiosare le sue descrizioni cliniche con esortazioni affinché l’atteggiamento cooperativo non scada nell’accuditivo o nel rango, sistemi anti-terapeutici. Purtroppo non bastano le esortazioni a non essere accuditivi per rimediare. Occorre essere operativi. E quindi protocollari, la bête noire di Bara. È un circolo vizioso.

Eppure un incontro è possibile. È possibile una riscoperta “relazionale” della psicoterapia cognitiva standard? E perché no? Infatti mi pare anche che nella definizione della psicologia evoluzionista l’atteggiamento cooperativo consista nel cooperare nel fare qualcosa. Forse il modo migliore per gestire la relazione è negoziare gli obiettivi ed esplorare insieme i buoni vecchi protocolli sul sintomo della psicoterapia cognitiva, oltre che validare o discutere le rotture, con meno fronzoli auto-riflessivi sulla relazione stessa. Meyer (1975) la definì formulazione condivisa del caso. È possibile che questo terzo ambito, l’esecuzione congiunta dei protocolli clinici cognitivo comportamentali all’interno di una formulazione condivisa del caso eseguiti usando il dialogo socratico, la negoziazione degli obiettivi o mediante una tecnica costruttivista come la ricostruzione della storia di vita siano meno a rischio di tracimare nell’accudimento o nel rango. Parafrasando John Lennon, la relazione terapeutica forse è un po’ come la vita: è quel che accade mentre fai altri progetti. La buona cooperazione potrebbe essere fare una terapia cognitivo comportamentale non solamente relazionale.

In conclusione

Insomma, un po’ di attenzione alla relazione è certamente utile ma non deve impedirci di coltivare e condividere l’aspetto tecnico e strategico tipico della tradizione cognitiva. Il libro Il terapeuta relazionale di Bara ha molti pregi – soprattutto nell’offrire una solida base neuroscientifica e evoluzionista alla sua concezione relazionale – ma si espone nella sua sezione clinica al pericolo di dimenticare la tradizione tecnica cognitiva, vista la rarità in cui si incontrano in esso le parole “psicoterapia cognitiva” o “cognitivista” e simili. Sarebbe un peccato se l’intero cognitivismo clinico italiano imboccasse questa strada.

 

Un giorno all’improvviso (2018) di Ciro D’Emilio – Recensione del film

Nel film Un giorno all’improvviso il legame tra un figlio e una madre uniti da due caratteri opposti. Diciassette anni e la necessità di non piegarsi, Antonio; una fragilità emotiva e psichica che prende il sopravvento su tutto, Miriam.

 

Lasciata dal marito e in costante agonia affettiva tra perdite al gioco, un orto di limoni e incroci microcriminali, in un contesto campano che il regista Ciro D’Emilio rappresenta senza svolazzi da immaginario televisivo bensì saldo nella verità di scambi autentici ma duri, Miriam attraversa la propria storia affranta, capace di un amore materno appassionato e al contempo nuda, irreparabilmente nuda nella marea montante di una vita che non può mai essere tenuta tutta insieme.

Un giorno all’improvviso: il dipinto di una realtà complessa

Gli attimi di illusoria speranza sono fiammelle quasi deliranti, si attorcigliano lungo strade segnate quasi all’origine; è tutto davvero complicato, e forse può risolversi quando Antonio ha l’occasione che passa una volta sola, diventare un calciatore professionista. Il suo percorso di giovane uomo ha già bruciato i tempi fuori dal campo, è lui che raccoglie la madre disintegrata per la strada, che le prepara acqua e limone la mattina, che la sfama persino, rientrando a notte fonda dal lavoro alla pompa di benzina.

In Un giorno all’improvviso, il diciassettenne Antonio lavora e non fuma, si allena, minaccia chi tocca con mano grezza il viso gentile di Miriam, si arrabbia quando la madre bambina compra le schifezze al supermercato. Antonio è la coscienza ingenua e tenace, a tratti ombrosa, persino angosciata ma lungimirante e aggrappata, ciò che più conta, alla possibilità di sottrarsi ad un presente il cui unico sguardo attento verso il loro mondo è quello di un’assistente sociale che deve decidere il futuro del ragazzo.

Un giorno all’improvviso: madre e figlio si scambiano i ruoli

La potenza di Un giorno all’improvviso è notevole, come l’intensità emotiva che trasmette in particolare nella prima parte, quando ogni movimento dei personaggi viene seguito come un battito, nella fatica e nel nobile valore che l’accompagna. Si crea una sorta di suspence, una tensione psicologica che porta lo spettatore a calarsi in grande profondità accanto e dentro le vicende di questi esseri umani sofferenti e capaci di sognare all’interno della stessa pena.

Gli sviluppi della trama sarebbero più volte suggeriti dalle attese spontanee di chi osserva e anticipa forse in base ai propri schemi, invece sorprendono – meno il finale, non eccelso per originalità – proprio in quanto non deviano, non colpiscono, non cadono nei cliché della storia di periferia fatta di botte, violenza e miseria. Antonio e Miriam conservano una dignità, una rettitudine narrativa che incrementa l’intensità dei loro vissuti e di quanto viene passato allo spettatore. La loro credibilità è data dall’unione, in entrambi, di caratteri adulti e infantili.

Il figlio padre e la madre figlia non sono trasposizioni cinematografiche di una mal riuscita psicoanalisi da salotto, bensì la verità di due persone che cercando di essere se stesse sono esattamente quello, un ragazzo già adulto coi bisogni affettivi di chi avrebbe il diritto di potersi affidare, e una donna che nell’amore di essere madre non riesce a non chiedere accudimento per le proprie angosce mai sanate. Un film italiano credibile. Potremmo persino definirla una notizia.

 

UN GIORNO ALL’IMPROVVISO – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

 

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