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La Bella e la Bestia: al di là delle apparenze – Riflessioni psicologiche sul Musical in scena a Palermo

La storia de La Bella e la Bestia ha radici profonde, quando si cercava di insegnare a piccole spose-bambine come fosse possibile amare mariti molto più grandi di loro, così simili ai loro occhi al Mostro di questo racconto.. ma non fermiamoci qui, qual è il messaggio che questa storia ci riporta sull’amore?

 

Lei, Bella, nell’aspetto fisico e nel nome; lui, il Mostro, tanto nel fisico quanto nell’animo, intriso di rabbia e scortesia.

La Luce e l’Ombra di junghiana memoria destinati a incontrarsi e scontrarsi, il Negativo che si converte nel suo opposto, grazie alla Luce dell’amore, capace di andare oltre alle apparenze del Brutto, e che si trasforma nel Buono e Positivo della gentilezza, mitigando le proprie asprezze, frutto di sofferenze e incapacità di sano altruismo.

Questo il messaggio forte del musical La Bella e la Bestia che, tra pomposi costumi di scena e dialoghi dalle tonalità pedagogiche, è andato in scena lo scorso 17 Febbraio a Palermo, presso il teatro Lelio. E così, ripercorrendo le celeberrime scene di una delle storie d’amore più note di tutti i tempi, il tema dell’Amore-Luce che sconfigge la Morte-Mostruosità riecheggia tra balli e musiche.

L’accettazione delle imperfezioni dietro il miracolo dell’amore

Si parte con l’Amore di Belle che, per salvare il padre, accetta di vivere nel Castello del Mostro, una Bestia sgarbata, irrispettosa ed egoista, incapace di vera empatia, di comprensione dei bisogni altrui (come il dolore di Belle per la lontananza dal padre), secondo gli insegnamenti cari a Carl Rogers.

Una Bestia, disumana all’apparenza, eppur capace di sentimenti, incapace di gentilezza e perciò aiutato dai saggi governanti a “mostrarsi gentile per fare innamorare, puntando sulla bellezza interiore”. Una lotta per lo svincolamento da una condizione primitiva di egocentrismo verso una condizione di maturità emotivo-relazionale che condurrà il Mostro insensibile a “decidere” in favore della sua amata, anche a scapito della propria supremazia, della mania di possesso.

Perché se la maturità emotiva e l’assunzione di responsabilità, intimità e solidarietà, conducono alla formazione della coppia, con il superamento di una visione autocentrata (e ben si intravede il sesto stadio dello sviluppo sociale delineato da Erikson) lo strumento che rende possibile il “miracolo dell’amore” è accettare (e superare) le proprie e le altrui imperfezioni. Ecco che passeranno in secondo piano il Buio, il Brutto, l’Ombra e risalterà la Luce dell’altruismo e il rispetto verso se stessi e gli altri, palesando una Bellezza interiore nascosta, in grado di attirare, coinvolgere, affascinare, al di là delle apparenze.

 

Correlazione tra uso di cannabis in adolescenza e sviluppo di depressione in età adulta

Il consumo di cannabis, durante l’adolescenza, è associato a un rischio di poter sviluppare successivamente, nella prima età adulta, depressione, ansia e suicidio?

 

I risultati di questa nuova ricerca sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista Jama Psychiatry, nel mese di febbraio, si tratta di una metanalisi di 11 studi.

Cannabis e adolescenti: i rischi connessi

Il campione è composto da 23.317 individui, tutti adolescenti. Lo studio ha lo scopo di dimostrare come il consumo di cannabis durante l’adolescenza sia associato ad aumento del rischio di poter sviluppare ansia, depressione e commettere un suicidio nel corso della vita, anche in assenza di una condizione premorbosa.

I ricercatori della Oxford University con sede in Canada hanno scoperto che gli adolescenti, con età inferiore a 18 anni, spesso provano la cannabis e questo aumenta il rischio poter incorrere nella depressione e in pensieri suicidari nel corso della loro vita. Per questo motivo esortano i politici e i responsabili della salute a prendere misure ad evitare il consumo di cannabis tra gli adolescenti. Per quanto riguarda il rischio di sviluppare l’ansia non vi è stata nessuna correlazione significativa.

Gli studiosi sostengono che una buona consapevolezza ed un’educazione riguardo gli effetti nocivi della cannabis a lungo termine siano necessari per la prevenzione della depressione.

Cannabis e adolescenti: un problema di salute pubblica

Il professor Andrea Cipriani, autore dello studio dell’Università di Oxford, sostiene che ci sarebbe un 7% in meno di persone depresse se la popolazione non usasse la cannabis: cioè circa 400.000 casi di depressione negli Stati Uniti, 25.000 in Canada o circa 60.000 casi di depressione nel Regno Unito che potrebbero essere evitati se gli adolecenti smettessero con l’assunzione di cannabis. Cipriani lo ha definito un grosso problema di sanità pubblica e salute mentale.

Gli esperti concordano nel dire che nel Regno Unito circa il 4% degli adolescenti, di età compresa tra gli 11 e i 15 anni, utilizzano cannabis e se questa connessione con la depressione fosse vera, sarebbe motivo di preoccupazione.

Il team di ricercatori ha esaminato altri 11 studi che includevano un totale di circa 23.000 persone. È stato analizzato il loro consumo di droghe, mentre la loro salute mentale è stata valutata dal primo episodio in cui avevano provato la cannabis per la prima volta, fino all’età di 34 anni.

I risultati di questo studio hanno dimostrato che non vi fosse alcun legame tra l’uso di cannabis e i disturbi d’ansia. Inoltre, si evidenzia, nella ricerca, un aumento del 37% nel rischio di poter sviluppare depressione, se precedentemente, in adolescenza, si era fatto uso di cannabis. Tuttavia il Prof. Cipriani sostiene che la cannabis, da sola, non possa essere causa della depressione, poiché vi sono altri fattori legati allo stile di vita, alla famiglia, alla condizione socioeconomica che influiscono.

Cannabis e adolescenti: manca informazione e consapevolezza

La Dott.ssa Gabriella Gobbi, della McGill University in Canada e prima autrice dello studio, ha dichiarato:

Alcuni adolescenti pensano che sia una pianta che non danneggi. Per questo è importante informare gli adolescenti sui rischi e sul tipo di cannabis che usano.

Oggi, a differenza degli anni ’80 e ’90, dove la concentrazione di THC era di circa il 6%, abbiamo delle concentrazioni di 10-15% di THC o più. Il THC è il tetraidrocannabinolo, il principale costituente psicoattivo della cannabis è uno dei 113 cannabinoidi presenti nella cannabis.

Sebbene la dimensione degli effetti negativi della cannabis possa variare tra i singoli adolescenti e non sia possibile prevedere il rischio esatto per ciascun adolescente, l’uso diffuso della cannabis tra le giovani generazioni lo rende un importante problema di salute pubblica.

L’uso regolare durante l’adolescenza è associato a minori risultati a scuola, psicosi da dipendenza e declino neuropsicologico, aumento del rischio di incidenti automobilistici, così come i problemi respiratori associati al fumo.

Tramite questo studio, si vuole sensibilizzare il pubblico sul fatto che il consumo di cannabis sia un grande problema di sanità e pubblica e salute mentale e che dei provvedimenti debbano essere presi.

La psicoanalisi: terapia empiricamente supportata, ma non scientista

Giancarlo Dimaggio, nel suo articolo pubblicato su state of mind il 1/3/2019 pone una domanda provocatoria a tutti gli psicoanalisti: “se un paziente va in uno studio di terapia cognitiva sa con una certa sicurezza che le tecniche applicate appartengono a un repertorio supportato empiricamente. Se un paziente va in uno studio di psicoanalisi, magari avendo letto che è una disciplina supportata empiricamente tanto quanto il cognitivismo, cosa andrà a ricevere?”

 

Per sostenere la domanda cita due articoli pubblicati su due riviste psicoanalitiche indicizzate su pubmed, entrambi a opera dello stesso autore, in cui viene usato un linguaggio veteroanalitico, ovvero il classico linguaggio oscuro ai più che ha attirato varie antipatie (legittime) nei confronti della psicoanalisi. Dimaggio coglie in pieno un punto di cui bisogna rendere conto: la psicoanalisi è stata a lungo usata come strumento di potere e resa volutamente incomprensibile. Basti pensare a come tutto è iniziato: mentre Freud parlava di io, “esso” e super-io (Ich, Es, Über-Ich), una triade linguisticamente trasparente, all’estero veniva tradotto chissà perché in latino, con gli ormai famosi ego, id e super-ego. Tuttavia, come Dimaggio sa bene, gran parte della psicoanalisi contemporanea non solo si è distaccata da quel modo di raccontarsi (con un linguaggio che neanche Freud utilizzava), ma è stata capace di rivoluzionarsi a fondo, abbracciando modelli della mente e della relazione empiricamente fondati e contribuendo alle conoscenze contemporanee sul funzionamento mentale. Andiamo per gradi:

1 Una psicologia della relazione

La psicoanalisi contemporanea non è più una psicologia della pulsione, ma della relazione. Il modello pulsionale, che produceva tutti quei discorsi sulle trasformazioni della libido che oggi suonano senza fondamento scientifico, è ormai usato da una parte di psicoanalisi da cui gli approcci contemporanei si sono emancipati. L’abbandono del modello bipulsionale (Eros e Thanatos) è un fatto avvenuto ormai diverse decine di anni fa, dapprima nella teoria, nell’opera di autori come Harry Stack Sullivan, di Fairbairn e Guntrip, in parte nel lavoro di Winnicott e in modo più marcato nei lavori di Heinz Kohut (molti dei contributi clinici di questi autori sono centrali in alcune frecce all’arco della psicoterapia cognitiva, come la Schema Therapy) (Greenberg & Mitchell, 1983). Ciò che questi autori hanno fatto (in modo più o meno esplicito) è mettere da parte il ruolo delle pulsioni e dare importanza alle relazioni reali e a come queste diano forma al pensiero (e, quindi, alla patologia). Il lavoro è poi proseguito in maniera empirica, a partire dagli studi dello psicoanalista Lou Sander sull’influenza reciproca tra madre e bambino, abbracciando la teoria dei sistemi dinamici non lineari.

Gran parte di ciò che si sa nelle scienze cognitive sulla regolazione emotiva della prima infanzia ha le sue radici nell’infant research, un filone di ricerca iniziato e proseguito da psicoanalisti, primo dei quali lo stesso Sander (Sander, 1987). Dal lavoro di Lou Sander, infatti, sono poi proseguite le ricerche sperimentali di Daniel Stern (Stern, 1992) e di Beatrice Beebe (Beebe, 2006), per non parlare del lavoro di Karlen Lyons-Ruth e Ed Tronick e in generale del gruppo di studio Boston Change Process Study Group (BCPSG, 2012). A eccezione di Ed Tronick, i personaggi citati sono tutti analisti. I loro lavori empirici non solo hanno ispirato buona parte della svolta relazionale anche in ambito cognitivo (basti vedere il lavoro di Gianni Liotti), ma sono ad oggi le descrizioni scientifiche più accurate del legame inscindibile tra le relazioni tra esseri umani e il funzionamento mentale. La psicoanalisi contemporanea, sia nella sua versione relazionale che intersoggettiva, fa riferimento a un modello della mente informato da questi studi.

In sintesi, si è passati da una metapsicologia pulsionale a una metapsicologia relazionale e da un inconscio pulsionale a un inconscio relazionale. Mentre Freud e chi ha ritenuto il modello pulsionale ha inferito lo sviluppo dell’uomo dalla patologia adulta, i nuovi modelli leggono la patologia adulta sulla base dei dati empirici e dei bambini “reali” osservati nel corso dello sviluppo. Molte delle teorie contemporanee sulla coscienza, curiosamente, sono a loro volta informate proprio da questi studi sullo sviluppo umano attraverso le relazioni con i caregiver. Damasio stesso (2003) fa moltissimi rimandi a Stern e al suo concetto di forme vitali (Stern, 2011) per assimilarlo al suo concetto di “background feelings”. In ambito enattivista (si tratta del filone di studi relativo alla cognizione incarnata – studi che lo stesso Dimaggio cita di frequente quando parla degli schemi interpersonali), diversi autori si rifanno al lavoro di Karlen Lyons-Ruth per spiegare la “conoscenza relazionale implicita” preverbale, di tipo corporeo (Fuchs, 2004; Fuchs & de Jaegher, 2009; Fuchs & Schlimme, 2009; Gallagher & Zahavi, 2013).

Lo stesso Bowlby e tutta la ricerca sull’attaccamento che è derivata dalla sua teoria sono oggi nel repertorio di ogni psicoanalista, tanto che Mitchell, nel descrivere il modello relazionale, vi dedica un intero capitolo (2002). Nonostante Bowlby fosse antipatico alla psicoanalisi classica, si è definito psicoanalista fino alla sua morte (Nino Dazzi, comunicazione personale).

2 Una psicoanalisi relazionale

La psicoanalisi contemporanea è una psicoanalisi relazionale, in questo senso si orienta la sua clinica.  Questo è una diretta conseguenza del primo punto. La relazione terapeutica è sempre stata al centro dello studio analitico (basti pensare ai concetti di transfert e controtransfert, ormai usati anche in ambito cognitivo). Se nell’analisi classica la relazione era il teatro in cui si agitavano pulsioni e difese, nella psicoanalisi contemporanea la relazione è il focus stesso della clinica. Mentre prima la relazione era il fine per la risoluzione dei conflitti pulsionali attraverso il transfert con l’analista, ora la relazione e la fiducia nella relazionalità è il fine stesso dell’analisi. La sofferenza psicologica è una sofferenza relazionale che, inevitabilmente, verrà messa in scena nella relazione con l’analista (da qui il termine enactment). Molte forme di psicopatologia hanno origine nel tessuto relazionale e “storico” del paziente, e il terapeuta lavora con il paziente rimettendo involontariamente in atto la stessa sofferenza di cui egli è stato vittima (e da cui il paziente continua a proteggersi nelle relazioni con gli altri esseri umani). Su questi assunti si basa la disciplina empiricamente fondata della control/master theory che Dimaggio conosce bene e il concetto di rottura e riparazione dell’alleanza terapeutica, che Jeremy Safran ha operazionalizzato (Safran & Kraus, 2014).

Se ciò che si trova nella control/master theory era già seminale nell’opera di Freud, il concetto di rottura/riparazione dell’alleanza è presente dai tempi Heinz Kohut, è stato studiato empiricamente nel lavoro di Ed Tronick sulla relazione madre bambino e nel lavoro di Beatrice Beebe. In generale, l’attenzione alla relazione è proprio al centro del movimento relazionale su cui la teoria di Safran si basa ed è sempre stata presente nella tradizione psicoanalitica, seppur in forme diverse.

3 Focus terapeutico sulla relazione

Se proprio ci vogliamo soffermare sulle evidenze, qui c’è un grosso punto a favore di un focus terapeutico sulla relazione: anche se Dimaggio sottolinea l’importanza dei fattori specifici evidence-based, al momento sembra che il predittore più stabile e valido del successo di una psicoterapia sia la qualità della relazione stessa e non gli ingredienti delle specifiche terapie (Norcross & Wampold, 2011). Forse è proprio per questo che molti approcci terapeutici stanno vivendo le loro svolte relazionali. Un terapeuta cognitivo evoluzionista, dispiace dirlo, lavora molto più come uno psicoanalista relazionale che come un terapeuta Beckiano da protocollo. Così come un terapeuta relazionale è molto più simile a un terapeuta cognitivo-costruttivista rispetto a uno psicoanalista pulsionale.

4 Psicoanalisi non scientista

La psicoanalisi non è una pratica scientista, anche se si avvale della ricerca empirica per costruire le proprie fondamenta. Lo scientismo viene descritto dal Devoto Oli come quel «movimento intellettuale sorto nell’ambito del positivismo francese (seconda metà del XIX secolo), tendente ad attribuire alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo». La psicoanalisi non è così ambiziosa (o illusa), anche se si affida alla scienza. Anche se si accumulano trial controllati randomizzati sull’efficacia della psicoterapia analitica e delle sue forme e diramazioni nella cura di vari disturbi, la psicoanalisi contemporanea è una psicoterapia della complessità e pertanto non è possibile pensarla come un protocollo x per un disturbo y. Anche se incidentalmente il lavoro analitico sembra alleviare la sintomatologia psichiatrica non meno della terapia cognitiva, negli ambiti in cui è stata studiata (Fonagy, 2015; Leichsenring, 2005; Leichsenring & Klein, 2014; Leichsenring & Rabung, 2008), lo stesso lavoro non è necessariamente focalizzato sulla sintomatologia psichiatrica. La necessità di indagare gli effetti della psicoterapia dinamica e analitica sui vari disturbi nasce più da esigenze pratiche che da un obiettivo della psicoterapia dinamica. Per fare un esempio, per un analista una persona non sta male perché ha un disturbo d’ansia (per cui magari c’è una terapia efficace), ma sta male perché può aver avuto (anche qui, solo un esempio tra tanti possibili) una madre ansiosa. Per un analista una persona non è arrabbiata perché è borderline, è arrabbiata perché qualcosa lo ha ferito e continua a ferirlo nelle relazioni con gli altri. Per capire il dolore di quella persona, l’analista non farà riferimento a un modello del funzionamento dell’ansia. Più frequentemente si affiderà all’uso dell’empatia, rifletterà su cosa provocano in lui questi vissuti, su situazioni simili che può aver vissuto e avrà presente il suo impatto nel processo analitico. Questi elementi sono il focus dell’azione terapeutica e su questi si fonda la clinica. La clinica analitica è centrata sul senso individuale della sintomatologia del paziente e su come questa è intessuta nel tessuto relazionale della sua vita. La conoscenza analitica, seppur informata dalla teoria, è sempre una conoscenza costruita collaborativamente tra paziente e terapeuta.  Per questo motivo, il pensiero disturbo/protocollo/cura per quanto molto pratico, si allontana molto da ciò che succede dallo studio di un analista.  Per questo, inoltre, per un terapeuta a orientamento dinamico al più è interessante la ricerca sul processo come quella di Wilma Bucci sull’attività simbolica e subsimbolica (Bucci, 2000). A eccezione di chi ha ideato specifici protocolli su base psicoanalitica come la transference focused therapy (Kernberg, Yeomans, Clarkin, & Levy, 2008) e la terapia basata sulla mentalizzazione (Bateman & Fonagy, 2010), che ormai sono gold standard per il disturbo borderline di personalità, è difficile che a un analista interessi così tanto la ricerca sull’efficacia. In questo, la terapia analitica non è una terapia scientista. Non si può ridurre un incontro analitico a ciò che è evidence based, come probabilmente non si può ridurre un incontro tra un terapeuta cognitivo-comportamentale e un suo paziente al protocollo che applica.

Nella psicoanalisi relazionale questo è tenuto sempre in conto: ogni incontro terapeutico è un incontro tra uno specifico analista con il suo passato e il suo punto di vista sul mondo e un paziente con il proprio. Dei due, il primo è “allenato” a riflettere su di sé, sul proprio impatto sul paziente e di conseguenza sulla relazione. E’ davvero possibile eliminare questo aspetto dalla ricerca sull’efficacia? Se sì, perché è molto più facile trovare un terapeuta migliore di un altro rispetto a una terapia migliore di un’altra (Miller, Hubble, & Chow, 2018; Miller, Hubble, Chow, & Seidel, 2013)?

Conclusioni

In altre parole, presi in considerazione tutti questi punti proviamo a ribaltare la domanda di Dimaggio: se tutte le terapie funzionano, se la relazione tra terapeuta e paziente predice l’esito di una psicoterapia, perché dovrei affidarmi a ingredienti specifici empiricamente supportati? Ad oggi, la ricerca empirica li valuta praticamente come quasi irrilevanti nonostante l’accumularsi di RCT per questo o quel disturbo (Ahn & Wampold, 2001): usarli per spiegare l’esito di una psicoterapia, è come pensare che Usain Bolt sia veloce perché porta un particolare tipo di scarpe.  Se ad oggi il miglior predittore di esito è la relazione (Norcross & Wampold, 2011), perché non dovremmo focalizzare i nostri sforzi clinici e di ricerca sulla relazione stessa tra quel paziente e quel terapeuta, come la svolta relazionale analitica e cognitiva stanno facendo da qualche tempo? Questo tipo di pensiero clinico comincia ad accumulare solide evidenze sperimentali (Norcross & Wampold, 2018).  Pensare che a far bene ai pazienti sia un dato protocollo non è forse ridurre la complessità dell’incontro terapeutico tra due persone molto complesse a una pratica psicoterapeutica standard che non rende conto di quella particolare unicità? Pensare che i pazienti borderline (così come i narcisisti, i depressi e via dicendo) siano un gruppo di persone che hanno bisogno tutte di uno stesso protocollo evidence-based non è esattamente il contrario del pensare alla relazione? Nella scienza della psicoterapia cognitiva, come fa l’evidenza a lasciare da parte il fattore umano? A differenza di Dimaggio, non credo che un paziente vada in terapia per curare il suo disturbo o per cercare una terapia che funzioni. Un paziente va in terapia per sentirsi meglio, e in genere perché un paziente si senta meglio, deve trovare un terapeuta che sia capace di comprendere il modo in cui soffre.

Preoccupazione per l’immagine corporea ed esiti del trattamento in adolescenti con anoressia nervosa 

La preoccupazione per l’ immagine corporea è un costrutto fondamentale della terapia cognitivo comportamentale, uno dei due principali trattamenti raccomandati per i disturbi dell’alimentazione in pazienti adolescenti con anoressia nervosa.

 

Come tale, la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E), adattata anche per gli adolescenti, presenta un modulo specifico per affrontare le preoccupazioni per l’immagine corporea.

Immagine corporea e componenti cognitive nell’anoressia

Un recente studio condotto presso la Casa di Cura Villa Garda ha mostrato come le tre componenti cognitive “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo”, “Paura di ingrassare” e “Sentirsi grassa” possono, in effetti, predire gli esiti della terapia cognitivo comportamentale in un campione di pazienti adulti con anoressia nervosa. Secondo la teoria transdiagnostica proposta da Fairburn, tali componenti sono le principali espressioni cognitive dell’ “Eccessiva valutazione per il peso, la forma del corpo e per il loro controllo”, considerata il nucleo psicopatologico centrale dei disturbi dell’alimentazione.

Sulla base del precedente studio, il gruppo di clinici e ricercatori italiani dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale di Villa Garda ha ipotizzato che la CBT-E per gli adolescenti sia associata a un significativo miglioramento delle preoccupazioni per l’immagine corporea dopo un anno e che alcune o tutte le componenti dell’immagine corporea al basale potrebbero predire cambiamenti nella psicopatologia specifica dell’anoressia nervosa. Per questo motivo, l’obiettivo di tale studio è stato quello di verificare il ruolo della preoccupazione per l’immagine corporea al basale nei cambiamenti del centile dell’indice di massa corporea (IMC) e degli esiti psicopatologici associati alla CBT-E negli adolescenti con anoressia nervosa.

Immagine corporea e trattamento CBT-E: lo studio

Lo studio ha incluso 62 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa ricoverati presso la clinica, con età compresa tra i 13 e i 18 anni, la maggior parte dei quali era di sesso femminile (96,8%). I pazienti sono stati trattati con la versione ospedaliera della CBT-E. La terapia prevedeva un periodo di 13 settimane di ricovero seguito da 7 settimane di day-hospital. Per tutti i pazienti sono stati registrati il centile dell’IMC prima e dopo il trattamento e nei follow-up a 26 e 52 settimane dalla fine del ricovero; oltre a questo sono stati somministrati al basale e alla dimissione l’intervista Eating Disorder Examination (EDE), per misurare la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, e il Brief Symptom Inventory (BSI), per misurare, invece, la psicopatologia generale. Tramite la versione italiana convalidata dell’EDE, sono stati registrati i punteggi nelle sottoscale “Restrizione alimentare” e “Preoccupazione per l’alimentazione”, utilizzati come variabili di esito specifiche per l’anoressia nervosa. Oltre a questo per ogni paziente sono state valutate le tre componenti cognitive legate alla preoccupazione per l’ immagine corporea; nello specifico, la “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo” è stata valutata tramite la domanda “Hai speso molto tempo a pensare alla tua forma del corpo o al tuo peso?”, poiché, secondo la definizione di “preoccupazione” richiede che vi sia compromissione nella concentrazione. La componente legata alla “Paura di ingrassare” è stata invece valutata tramite l’item “Hai avuto paura di aumentare il peso?” e la domanda “Ti sei sentita grassa?” è stata usata per valutare la terza componente riguardante la “Sentirsi grassa”.

I risultati hanno mostrato che gli adolescenti con anoressia nervosa trattati con la CBT-E intensiva hanno ottenuto un miglioramento significativo e duraturo per quanto riguarda il centile di IMC, con più del 96% dei pazienti che ha raggiunto alla dimissione un centile di IMC corrispondente al cut-off del peso normale all’età di 18 anni e più dell’80% ha mantenuto questo risultato dopo un 1 anno dalla fine della terapia. Inoltre, il trattamento era associato ad una significativa riduzione dei punteggi nella psicopatologia generale e in quella specifica. Le tre componenti cognitive legate alla preoccupazione per l’immagine corporea erano strettamente correlate l’una con l’altra, confermando che costituiscono un costrutto più ampio. Inoltre, la CBT-E è stata associata a riduzioni significative in tutte e tre tali componenti.

Immagine corporea e trattamento CBT-E: i risultati

Punteggi più elevati al basale della “Paura di ingrassare” e “Sentirsi grassa”, hanno predetto un miglioramento più lento nel tempo del centile di IMC. Questo sta ad indicare come tali componenti siano variabili clinicamente rilevanti, che dovrebbero essere sempre valutate dai clinici al basale. Detto questo, i ricercatori sostengono che questi dati non implicano alcuna relazione tra il cambiamento di componenti della preoccupazione per l’ immagine corporea che si verifica durante il trattamento e il cambiamento del centile di IMC nel tempo. Se interpretato alla luce del suo modello teorico di riferimento, questo risultato conferma che la CBT-E, come indicato nel manuale di trattamento originale, funziona nel suo complesso; in altre parole, il miglioramento del peso corporeo sembra essere mediato dalla applicazione complessiva della CBT-E piuttosto che dalle sue singole componenti. Riprendendo le parole di Fairburn, infatti, “la CBT-E non è semplicemente una collezione di tecniche: la somma è più delle sue parti”.

Lo studio ha, inoltre, mostrato come punteggi più alti al basale nelle componenti considerate predicessero punteggi più bassi nelle variabili “Preoccupazione per l’alimentazione”, “Restrizione alimentare” e nella psicopatologia generale al momento della dimissione. Ciò indica che la preoccupazione per l’ immagine corporea può giocare un ruolo centrale nel trattamento dell’esito del trattamento psicopatologico nei pazienti adolescenti con tale diagnosi.

Uno dei principali punti di forza di questo studio è dato dal numeroso campione di pazienti adolescenti con anoressia nervosa, che è stato possibile trattare con una terapia basata sull’evidenza e in un contesto reale. Inoltre, questo è il primo studio longitudinale che ha analizzato le specifiche componenti della preoccupazione per l’ immagine corporea e il loro ruolo negli esiti del trattamento in pazienti adolescenti con anoressia nervosa. Tuttavia, si possono riscontrare alcuni limiti dello studio: infatti, pur avendo raccolto i dati del centile di IMC ai follow-up, non è stata valutata la psicopatologia specifica in questi momenti. Inoltre, per valutare le diverse componenti della preoccupazione per l’ immagine corporea, sono stati selezionati solo alcuni item, come fatto in precedenza in altri studi che valutavano la preoccupazione per l’ immagine corporea in pazienti con disturbi dell’alimentazione. Ciononostante, i dati di questo studio risultano essere molto rilevanti, poiché da un lato fanno luce sui meccanismi che mantengono l’anoressia nervosa in pazienti adolescenti e dall’altro suggeriscono che la CBT-E intensiva è in grado di produrre una significativa riduzione della preoccupazione per l’ immagine corporea e della psicopatologia, oltre alla normalizzazione del peso corporeo, in circa l’80% dei pazienti al follow-up di 1 anno.

È importante, infine, sottolineare che lo studio fornisce anche un supporto all’ipotesi che la preoccupazione per l’ immagine corporea sia una caratteristica fondamentale della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, piuttosto che un semplice epifenomeno.

Autorealizzazione 2.0

In un mondo in cui la prestazione e il raggiungere i propri obiettivi a tutti i costi e con ogni mezzo, sono diventati due paradigmi fondamentali e costitutivi dell’uomo “moderno”, il concetto di autorealizzazione diventa quanto più ambiguo ma allo stesso tempo fondamentale.

 

Il concetto di autorealizzazione in psicologia fu un termine di rottura con quelle che erano state le teorie prettamente meccanicistiche, come psicanalisi e comportamentismo, che aprì le porte alla così detta psicologia umanistica.

Autorealizzazione 2.0: cosa significa realizzarsi oggi?

Il termine autorealizzazione stava ad indicare il divenire veramente e pienamente Se stessi, che trascende il soddisfare i soli bisogni istintuali (Rogers, 1970; Maslow, 1971). Guardando ora alle proposte della società contemporanea e alla propaganda dell’ autorealizzazione a tutti i costi non si possono non notare delle notevoli differenze nell’evoluzione, o involuzione per meglio dire, del concetto stesso. L’ autorealizzazione dell’uomo moderno nell’epoca della globalizzazione e di quella che Bauman definiva società liquida sembra essere legata a beni di consumo, dunque al possesso di oggetti materiali, al divertimento a tutti i costi o all’estremo opposto al dover essere vittime sacrificali della perfezione a tutti i costi, all’essere sempre in tempo e sempre aggiornati, ad apparire in un determinato modo per essere più appetibili su quello che è diventato il mercato sociale, dove social network come Facebook e Instagram mettono in saldo ogni giorno l’immagine distorta di chiunque, che allo stesso tempo spera di essere gradito a gran parte degli acquirenti.

Autorealizzazione: il significato originario

L’ autorealizzazione 2.0, niente di più lontano dal concetto di cui avevano parlato psicologi come Maslow o Rogers (Rogers, 1970; Maslow, 1974). Se per loro l’ autorealizzazione veniva dall’interno e aveva a che fare con il conoscere, accettare e far crescere ciò che realmente siamo, oggi è un processo estrinseco all’essere umano e proprio per questo più semplice da ottenere. Una volta ottenuta non genera quella gioia e quella pienezza che può dare il sentirsi veramente coerenti a se stessi, sentire che si sta dando il proprio contributo per rendere il mondo un posto migliore, anzi ci si sente spesso vuoti, depressi e senza uno scopo nella propria esistenza. Ciò che rende intimamente felice l’uomo non è il raggiungere facilmente degli obiettivi, ma che questi obiettivi ne valgano la pena, che appartengano realmente a se stessi e non agli altri.

Rogers descriveva una persona funzionante e orientata all’ autorealizzazione come: aperta e non difensiva, consapevole, che accetta se stessa, che riesce ad adattarsi in modo creativo alle novità, sa vivere con gli altri in armonia. Quante persone possono descriversi così?

Ripensare e rendere più umano il concetto di autorealizzazione e aprirlo a prospettive che vadano maggiormente incontro all’altro, con comportamenti pro sociali e di responsabilità civica e ambientale, servirebbe per capire ciò che realmente ci rende esseri umani, alla nostra essenza e come provare ad avvicinarsi alla felicità e alla gioia di vita.

 

È possibile che fumare troppo danneggi la vista? – Gli effetti del fumo sulla discriminazione dei colori

Stando a una recentissima ricerca della Rutgers University (Fernandes, Silverstein, Almeida & Santos, 2019) del New Jersey, è possibile che un consumo smodato di tabacco conduca gli individui a problemi visivi.

 

Il problema del fumo interessa milioni di persone in ogni parte del mondo. Si stima che nei soli Stati Uniti siano 34,3 milioni gli adulti che giornalmente fumano tabacco e circa 16 milioni le persone che si trovano ad affrontare una malattia, la maggior parte delle quali interessano l’apparato cardiovascolare, causata dal fumo. Stimando la popolazione degli USA in 300 milioni (approssimativamente), tali cifre indicano che 1 persona su 10 fuma ed 1 su 20 si ammala a causa del fumo. Tali cifre indicano l’esistenza di un problema reale e diffuso.

Fumo e capacità visive: lo studio

Lo studio ideato dai ricercatori della Rutgers ha coinvolto 71 persone considerate non smodatamente fumatrici (<15 sigarette al giorno) e 60 persone smodatamente fumatrici (>20 sigarette al giorno); i partecipanti avevano tra i 25 ed i 45 anni e nessuno di loro presentava problemi visivi. Gli autori dello studio hanno valutato come i soggetti sperimentali distinguessero i contrasti tra i vari colori mostrati su uno schermo di 19” posto a circa un metro e mezzo dal soggetto.

I ritrovamenti vanno nel senso delle ipotesi, nel senso che è stato riscontrato che il consumo smodato di una sostanza neurotossica (come il tabacco) comporta dei problemi visivi: in particolar modo i soggetti del gruppo di persone smodatamente fumatrici hanno avuto più problemi dei soggetti dell’altro gruppo nel discriminare tra i vari colori. Generalizzando, questo indicherebbe che un consumo eccessivo di sigarette può portare a una diminuzione delle capacità visive nei consumatori.

Fumo: l’impatto sulla vista

Nonostante la ricerca non abbia fornito una spiegazione a livello fisiologico del perché i fumatori accaniti mostrino dei problemi visivi, uno dei ricercatori, Silverstein, sostiene che questo sia dovuto a dei danni nei vasi sanguigni e nei neuroni a livello della retina che la nicotina ed il fumo sembrano creare, dato che è stato dimostrato che tali sostanze agiscano in modo dannoso sul sistema cardiovascolare.

Questo studio, pertanto, va ad aggiungersi alla lista delle ricerche che hanno dimostrato quanto il fumo sia dannoso. Di conseguenza diventano molto importanti gli interventi di salute pubblica mirati alla prevenzione: ad esempio potrebbero essere messi in atto dei programmi di informazione e sensibilizzazione sui rischi che porta il fumo, magari includendo anche i risultati di Fernandes e colleghi.

L’ incidenza della patologia psichica e la valutazione del rischio suicidario in carcere – Analisi di 128 casi di nuovi giunti presso la Casa Circondariale di Pistoia

Oggi si vuole che la pena detentiva abbia un carattere più rieducativo che retributivo. Cattive condizioni carcerarie possono non solo vanificare la funzione rieducativa della carcerazione, ma anche influire negativamente sullo stato di salute psichica dei detenuti

Marco Tanini, Letizia Bracali, Mario Salzano, Rosa Cirone, Loredana Stefanelli, Simona Leone, Federica Benifei, Giuseppe Pettenati

 

Il carcere è stato visto per anni come luogo dove scontare una pena retributiva: con questo termine si intende la sanzione erogata da un potere statale come corrispettivo per avere violato un comando dell’ordine giuridico, ed è la riaffermazione del diritto da parte dello Stato (Eusebi L. 1989).

Oggi si vuole che la pena detentiva abbia un carattere più rieducativo che retributivo, la sanzione rieducativa è capace di perseguire gli obiettivi di prevenzione e di controllo delle condotte umane che le vengono assegnati (Troncone P. 2006).

Cattive condizioni carcerarie possono non solo vanificare la funzione rieducativa della carcerazione, ma anche influire negativamente sullo stato di salute psichica dei detenuti.

La situazione delle carceri italiane e la sentenza Torreggiani

Ad interferire con la funzione riabilitativa della detenzione carceraria possono contribuire diversi fattori, tra queste ve ne è uno che ormai affligge praticamente tutte le strutture carcerarie italiane: il sovraffollamento (Ruotolo M. 2014). Relativamente al sovraffollamento delle carceri è utile ricordare la cd sentenza Torreggiani (Corte Europea Diritti dell’Uomo 2013) che ha condannato l’ Italia per il trattamento inumano e degradante cui erano sottoposti i detenuti in alcuni carceri a causa dell’ esiguo spazio in cui dovevano vivere.

Nella sentenza, secondo i giudici di Strasburgo, viene affermato che la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato.

Per ovviare al problema di nuove possibili condanne, che si traducono per lo stato italiano in risarcimenti pecuniari da versare come compenso per una inumana detenzione o in uno sconto di pena teso ad abbreviare l’ esposizione a condizioni di sovraffollamento carcerario, si è pensato di diminuire il tempo di permanenza dei detenuti all’ interno delle celle, questo avviene attraverso un modello che viene definito “di sorveglianza dinamica”.

La sorveglianza dinamica

Con le circolari 206745 e 36997, rispettivamente del 30 maggio 2012 e 29 gennaio 2013, è stato avviato un percorso di cambiamento del sistema organizzativo e gestionale dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro già preannunciato dai vertici del Dipartimento fin dal mese di aprile dello scorso anno. Un cambiamento strategico ed operativo che mira a recuperare compiutamente il senso della norma, costituzionale ed ordinamentale, richiamato anche dalle direttive europee e dalle recenti sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per trattamento inumano e/o degradante. La revisione dei circuiti penitenziari, accompagnata dalla razionalizzazione e diffusione delle buone prassi, già in essere in molte realtà penitenziarie, costituisce il presupposto del cambiamento auspicato nell’intero sistema penitenziario nazionale, attraverso il recupero consapevole da parte di tutta l’organizzazione, centrale e territoriale, del dettato normativo (Min. Grazia e Giustizia 2013).

L’introduzione della sorveglianza dinamica e del sistema a “custodia aperta” rappresenta un grandissimo cambiamento che ha recentemente investito il sistema carcerario italiano e che forse più di ogni altro ha inciso sull’esperienza della quotidianità detentiva dei ristretti e delle ristrette, nonché sul modus operandi della polizia penitenziaria. Si tratterebbe della apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14, la possibilità per gli stessi di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente all’infuori di essa e di usufruire di spazi più ampi per le attività e il contestuale mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia penitenziaria, non più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione della persona detenuta (Valentini E. 2011).

La casa circondariale di Pistoia e la Sorveglianza dinamica

La casa circondariale di Pistoia è una struttura in cui viene applicato il modello della sorveglianza dinamica, sulla popolazione dei nuovi giunti abbiamo deciso di intraprendere uno studio per verificare l’ incidenza di patologie psichiatriche, dipendenze e valutazione del rischio suicidario.

Materiale e metodi

Nel periodo compreso tra il 18 aprile 2016 e il 30 aprile 2017, sono stati condotti presso la C.C. di Pistoia 128 nuovi giunti provenienti dalla libertà. I nuovi giunti sono classificati tali secondo la Circolare “Tutela della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati ”, n. 3233/5683 del Ministero della Giustizia, del 30/12/1987.

Di essi sono state rilevate alcune caratteristiche sociodemografiche (età, cittadinanza, residenza, occupazione) e cliniche (la presenza di un disturbo psichiatrico di asse I, l’abitudine all’uso di sostanze e/o alcol, il rischio suicidario) e gli interventi, sia custodiali che specialistici, che si sono resi necessari nella loro gestione (grande sorveglianza, prescrizione di terapia psicotropa a scopo sintomatico, presa in cura, colloqui di supporto).

Risultati

Caratteristiche socio-demografiche del gruppo analizzato. Dei 128 nuovi giunti provenienti dalla libertà, 46 risultano possedere una cittadinanza italiana, 24 nigeriana, 23 cittadinanza marocchina, 15 albanese, 4 tunisina, 3 rumena, 3 egiziana, 2 peruviana, 2 brasiliana, 1 ungherese, 1 pakistana, 1 iraniana, 1giorgiana, 1 senegalese, 1 domenicana.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - imm1Imm. 1 – Nazionalità del campione

L’età dei nuovi giunti è compresa tra i 18 ed i 69 anni con una media di circa 34 anni. La fascia di età maggiormente rappresentata è quella compresa tra 25 e i 34 anni.

  • 18-24 anni 29
  • 25-34 anni 48
  • 35-44 anni 29
  • 45-55 anni 15
  • 55 anni 7

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm2Imm. 2 – Età del campione

Tra i nuovi giunti 22 risultano SFD e 73 sono disoccupati al momento dell’arresto, 1 solo nuovo giunto era studente ed 1 pensionato.

Valutazione e monitoraggio rischio suicidario

Tutti i nuovi giunti sono stati sottoposti a screening per il rischio suicidario attraverso la somministrazione della “Check List di Arboleda Florez e successive modifiche ed integrazioni” da parte del personale medico/infermieristico in occasione della visita di primo ingresso. Tale test di screening, che è specifico per la popolazione carceraria, non ha un cut-off definito ma una risposta affermativa ad una o più delle domande può indicare un rischio di suicidio maggiore, e quindi la necessità di un ulteriore intervento (il detenuto ha pregressi comportamenti suicidari; ha familiarità per suicidio; ha poche risorse di supporto; è stato segnalato rischio suicidario da parte delle forze dell’ordine al momento dell’ingresso; è affetto da patologia psichiatrica (preso in carico da un CSM o all’inizio di una presa in carico) è affetto da tossicodipendenza (preso in carico da un SerT o all’inizio di una presa in carico); sono presenti avversità significative recenti oltre la carcerazione; è presente forte conflittualità nella rete familiare o relazionale di riferimento; il detenuto ha lasciato in sospeso, a causa dell’arresto, situazioni importanti per la sua vita futura; è alla prima carcerazione).

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm3Imm. 3 – Item della checklist di ArboledaFlorez e successive modifiche ed integrazioni

Contemporaneamente vengono valutati i sintomi di rischio di suicidio imminente (ideazione suicidaria, elevata intenzionalità autosoppressiva, progetti concreti di realizzazione del suicidio, agitazione, disforia, impulsività, scarsa capacità di giudizio, gravi sintomi psichiatrici, tentativo di suicidio nelle ore precedenti ed in tal caso violenza, letalità e intenzionalità del tentativo, se siano state prese precauzioni per non essere salvato o il paziente si rammarica di essere salvato).

Per 111 nuovi giunti la check list ha dato un esito positivo ovvero almeno 1 item a cui viene data una risposta affermativa.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm4Imm. 4 – Positività della checklist

In caso di positività all’item riguardante la prima carcerazione la misura custodiale della Grande Sorveglianza è stata applicata indipendentemente dall’esito della valutazione clinica specialistica.

La definizione del livello di rischio è stata effettuata in base al risultato ottenuto dalla valutazione clinica e dalla check list secondo la seguente tabella:

  • check list negativa e valutazione clinica negativa» rischio suicidario minimo/basso
  • check list negativa e valutazione clinica positiva oppure check list positiva e valutazione clinica negativa » rischio suicidario medio, check list positiva e valutazione clinica positiva» rischio suicidario alto/massimo.

Le valutazioni cliniche (mediche generali e specialistiche) sono risultate negative per ulteriori elementi di rischio suicidario oltre quelli rilevati nella check list nella maggior parte dei casi.

La distribuzione del rischio suicidario complessivo pertanto è risultata la seguente:

  • 17 detenuti a rischio basso
  • 106 detenuti a rischio medio
  • 5 detenuti a rischio alto.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm5Imm. 5 – Numerosità per ciascuna classe di rischio

Al fine di individuare precocemente i bisogni della persona ristretta e predisporre specifiche azioni di prevenzione del disagio e dell’autolesionismo, nonché per gestire e monitorare il rischio suicidario, viene istituito lo staff multidisciplinare.

Lo staff multidisciplinare è composto dal direttore dell’istituto, dal responsabile del presidio sanitario (o suo delegato), dallo psichiatra, dallo psicologo, dal responsabile dell’area trattamentale, dagli educatori, dal comandante di Polizia Penitenziaria ( o suo delegato). All’occorrenza vengono coinvolte altre figure professionali quali operatori del SerT, personale infermieristico, assistenti sociali e mediatori culturali.

Lo staff multidisciplinare si riunisce a cadenza settimanale e viene redatto apposito verbale contenente la sintesi del caso trattato e i provvedimenti/interventi che verranno adottati o revocati.

I provvedimenti di Grande Sorveglianza sono stati 101, di cui 66 per prima carcerazione, 2 per disagio psichico e prima carcerazione, 17 per valutazione e monitoraggio adattamento, 2 per tipo di reato, 4 per rischio autolesivo, 1 per alterazioni comportamentali indotte dall’ alcol, 9 per tossico/alcol dipendenza.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm6Imm. 6 – Motivazione per attivazione Grande Sorveglianza

In 3 casi, in seguito a valutazione da parte dello staff multidisciplinare è stato necessario incrementare il livello di sorveglianza custodiale a Grandissima Sorveglianza (in due casi per scompenso psicopatologico del detenuto ed in un caso per gravi alterazioni comportamentali alcol indotte).

I provvedimenti di Grandissima Sorveglianza per rischio suicidario alto sono stati 3; in due casi i detenuti avevano posto in essere agiti anticonservativi anche se di natura verosimilmente dimostrativa ed in un caso il detenuto aveva ulteriori elementi di rischio oltre quelli rilevati dalla check list (età avanzata, gravità del reato, importanti patologie mediche concomitanti.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm7Imm. 7 – Tipologia di sorveglianza adottata

Caratteristiche cliniche psichiatriche

Per 28 detenuti è stata necessaria una presa in cura, ovvero la prescrizione di terapia psicotropa specifica che richiedeva rivalutazione specialistica. Tra questi la, prescrizione avveniva, in 8 casi, in prima visita per continuità terapeutica: un paziente non era in carico al servizio territoriale ma in trattamento con farmaci specifici per un Disturbo d’Ansia Generalizzata, un altro era in carico ad un servizio territoriale per la salute mentale per uno Stato Misto del tono dell’umore in 6 casi i pazienti erano in trattamento con farmaci specifici per disturbo bipolare di tipo II, disturbo depressivo, DAP e claustrofobia, per disturbo d’Ansia Generalizzata e ex novo in 6 casi (uno per schizofrenia paranoide in deficit intellettivo, uno per intenso stato ansioso in un paziente con anamnesi positiva per gesti anticonservativ,i uno per alterazioni comportamentali in un paziente con sospetta diagnosi di schizofrenia e in due casi in cui si erano verificati agiti anticonservativi in un caso per discontrollo degli impulsi). In un caso la presa in cura è avvenuta in seguito ad ulteriori colloqui con il detenuto durante i quali il soggetto iniziava a manifestare ideazione anticonservativa.

Terapia sintomatica per lievi stati ansiosi ed insonnia è stata prescritta in 38 casi di cui 29 prima visita mentre in 9 si è resa necessaria successivamente.

Per 30 detenuti si è ritenuto opportuno provvedere a colloqui psichiatrici di supporto; per questi detenuti, infatti, non era stata necessaria la prescrizione di terapia psicotropa nemmeno a scopo sintomatico ma necessitavano di sostegno emotivo.

Dei 128 nuovi giunti, 43 hanno dichiarato uso di sostanze stupefacenti e tra questi 10 dichiaravano anche abuso di alcol. In 4 casi i detenuti dichiaravano esclusivamente abuso di alcol e non di sostanze. In 11 detenuti erano in carico al SerT territoriale al momento dell’arresto.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm8Imm. 8 – Confronto tra popolazione nuovi giunti e incidenza dipendenze

Per il nuovo giunto che, al momento della visita di primo ingresso, dichiari uso di sostanze stupefacenti, vengono contattati gli operatori del SerT Penitenziario.

Lo specialista in tossicologia medica, provvede a visitare il detenuto e dispone il prelievo di un campione urinario per la ricerca dei metaboliti delle più comuni sostanze di abuso. Nel caso il detenuto risultasse già in carico ad un servizio territoriale con diagnosi di tossico/alcoldipendenza accertata, lo specialista prende contatti con il servizio di riferimento per la continuità terapeutica ed assistenziale. Nel caso, invece, il detenuto non fosse in trattamento presso un SerT territoriale al momento dell’arresto, oltre alla valutazione clinica ed al prelievo urinario, viene effettuato un test estemporaneo sul campione urinario raccolto al fine di impostare precocemente il trattamento farmacologico più opportuno. Lo specialista, in ogni caso, imposta la frequenza delle successive visite mediche di controllo e dispone, se necessario, ulteriori interventi terapeutico-riabilitativi con il coinvolgimento dello psicologo SerT e dell’assistente sociale SerT.

Nel periodo preso in esame sono state eseguite le seguenti prestazioni:

  • visite specialistiche psichiatriche (1° visite): 107
  • visite specialistiche psichiatriche di controllo: 182
  • visite specialistiche psichiatriche: 16
  • colloquio psichiatrico (senza esame obiettivo): 26

Conclusioni

Il suicidio è la seconda causa di morte in carcere. E le scelte suicidarie, e anche quelle autolesive, sono in molti casi conseguenza non necessariamente di condizioni di patologia, quanto delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena (Regione Toscana 2015)

Già agli inizi del secolo scorso un’indagine svolta presso un carcere di massima sicurezza nello stato di New York aveva mostrato un tasso elevato di morbosità psichiatrica tra i detenuti, confermato in molti studi successivi. L’esempio più recente lo possiamo trovare in un lavoro del 2012, nel quale vengono riportate le stime della diffusione dei disturbi psicotici (3,6% degli uomini e 3,9% delle donne) e della depressione maggiore (rispettivamente 10,2% e 14,1%) nella popolazione detenuta. A questi, ovviamente, si aggiungono i disturbi da dipendenza da alcol (17-30% degli uomini e 10-24% delle donne) e da sostanze (rispettivamente 10-48% e 30-60%). (Fazel S 2006).

La maggioranza dei detenuti nel nostro gruppo di studio è di cittadinanza Italiana, tuttavia il numero degli stranieri con cittadinanza varia supera il numero degli italiani.

L’ età media della popolazione è di circa 34 anni; tale dato si associa ad un’ incidenza di patologia psichica decisamente più elevato rispetto a quello atteso per la popolazione non detenuta.

La valutazione del rischio di gesti autolesionistici effettuata con la Check list di ArboledaFlorez mostra un numero altissimo (87%) di detenuti che mostrano positività di almeno un item e che pertanto necessitano di ulteriori approfondimenti. In particolare, il dato relativo al rischio medio di suicidio risulta prevalere con un incidenza dell’ 83%.

È utile ricordare che una positività agli screening per il rischio autolesionistico obbliga l’ adozione di provvedimenti di aumento dell’ intensità di sorveglianza con tutte le problematiche che possono essere presenti nei carceri italiani afflitti da sovraffollamento.

Oltre alle patologie psichiche, anche le dipendenze sono estremamente frequenti.

Nonostante l’ alta incidenza di patologia psichica e/o di dipendenza il ricorso a richiesta di visite specialistiche psichiatriche appare al di sotto della media nazionale. Elemento questo che potrebbe essere correlato al modello di sorveglianza dinamica ed alle attività a cui i detenuti del carcere di Pistoia possono accedere.

Un modello detentivo incardinato sulla sorveglianza dinamica e su attività rieducative può quindi contribuire a migliorare lo stato di salute psichica del detenuto e forse a facilitare la rieducazione ed il reinserimento.

 

Psicoterapia psicodinamica e psicoanalisi – Introduzione alla Psicologia

La psicoterapia psicodinamica comprende diverse teorie oltre alla psicoanalisi, quali: la psicologia analitica Junghiana, la psicoanalisi Lacaniana e la psicologia individuale di Adler.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il modello psicodinamico è una branca della psicologia derivante dalla psicoanalisi classica.

Freud, fondatore della psicoanalisi, aveva coniato il termine metapsicologia per indicare l’insieme degli assunti teorici che costituiscono la teoria psicoanalitica.

Secondo la metapsicologia freudiana l’apparato psichico è rappresentato da tre diverse parti:

  • topico, che costituisce il luogo in cui si sviluppano i processi psicologici e le istanze. In una prima topica l’apparato psichico, secondo Freud, era diviso in inconscio, preconscio e conscio. Nella seconda topica il primo modello fu trasformato in Io, Es e Super io;
  • dinamico, secondo cui i fenomeni psichici derivano del conflitto di forze motivazionali antagoniste, tra cui le più rilevanti sono quelle mosse dall’inconscio, che prova costantemente ad accedere alla coscienza, ma è osteggiato da una forza contraria che ne impedisce l’attuazione dei contenuti.
  • economico, fa riferimento alle pulsioni divise in primarie, tipiche dell’Es che è determinato dal principio del piacere, e secondarie derivanti dell’Io, regolato dal principio di realtà.

Il modello psicodinamico, dunque, è una parte della metapsicologia e raggruppa le diverse correnti psicologiche che valorizzano i meccanismi psicogenetici alla base della costruzione psichica e del comportamento. Il termine psicodinamico, infatti, deriva dall’assunto teorico secondo il quale l’apparato psichico è visto come dinamico, ossia in movimento tra interno ed esterno, tra inconscio e conscio.

In sostanza, la psicoterapia psicodinamica origina dalla psicoanalisi, ma si evolve da essa, inglobando concetti e aspetti riferitesi a diverse teorie e modelli psicologici, che si concentrano principalmente sulle relazioni oggettuali dell’individuo e sulle pulsioni. La psicoterapia psicodinamica comprende diverse teorie tra cui si ricordano, oltre a Freud, la psicologia analitica Junghiana, la psicoanalisi Lacaniana e la psicologia individuale di Adler.

Le diverse branche teoriche all’interno della psicoterapia psicodinamica

La psicoterapia psicodinamica comprende quattro ampie aree teoriche di derivazione psicoanalitica:

  1. La psicologia dell’Io, derivata dalla teoria di Freud, secondo la quale il mondo intrapsichico è in conflitto tra le istanze, e questo conflitto provoca angoscia. Qui, entrano in gioco le difese che hanno lo scopo di proteggere l’Io contro le richieste istintuali dell’Es.
  2. La teoria delle relazioni oggettuali, che origina dal pensiero di Melanie Klein, Fairbairn, Winnicott e Balint. In base a questa teoria le pulsioni emergono nel contesto di una relazione e non possono essere mai separate da esse. Il conflitto inconscio, dunque, deriva dallo scontro tra coppie contrapposte di unità interne di relazioni oggettuali. Si formano, di conseguenza, dei Sé narrativi coerenti da cui si evincono diverse emozioni.
  3. La psicologia del Sé, fondata da Heinz Kohut e successivamente implementata, cerca di dimostrare che tutte le forme di psicopatologia si basano su difetti presenti nella struttura del Sé e che questi sono dovuti a disturbi delle relazioni Sé/oggetto-Sé verificatesi nell’infanzia. Secondo tale approccio le relazioni esterne facilitano il mantenimento di una buona autostima e una coesione del Sé.
  4. Le teorie post moderne e la teoria dell’attaccamento, in base alle quali la verità oggettiva è contenuta nel paziente, inserito in una diade, terapeuta–paziente che si scambiano le prospettive da diversi punti di vista. Inoltre, il tipo di attaccamento diventa il sistema motivazionale centrale nei primi anni di vita e muove il bambino a mantenere la vicinanza fisica alla figura di attaccamento per ottenerne la protezione e l’accudimento.

L’assunto di base

L’assunto di base della psicoterapia psicodinamica consiste nel considerare il comportamento dell’individuo come mosso da motivazioni, cause e dinamiche profonde o inconsce. L’interpretazione rappresenta, quindi, lo strumento di intervento principale per riuscire a modificare la presenza di comportamenti patologici. Per questo, i comportamenti realizzati quotidianamente derivano e risultano da queste forze inconsce che sono in relazione dinamica, fluida, tra loro.

Di conseguenza, il malessere psicologico è considerato come il risultato di un conflitto, nato da forze inconsce che tendono a palesarsi, e per questo sono soggette a un costante controllo esercitato da forze opposte e coscienti. Quindi, l’inconscio volge un ruolo fondamentale nel determinare il comportamento della persona ed è responsabile del benessere psichico. Ad esempio i sogni, i lapsus, le dimenticanze della vita quotidiana sono tutte manifestazioni inconsce che influenzano e determinano la vita di ogni persona.

Lo scopo della psicoterapia psicodinamica

Lo scopo della psicoterapia psicodinamica consiste nell’attribuire un nuovo significato alla storia di vita del paziente, partendo da una rivalutazione critica delle vicende individuali. L’individuo si sperimenta come attivo, dinamico, nel processo del proprio cambiamento, comprendendo le dinamiche patologiche che determinano il sintomo. Il sintomo a sua volta si manifesta nelle relazioni interpersonali e rende il rapporto con gli altri insoddisfacente.

La richiesta che la persona porta al terapeuta è di tipo emotivo e comprende aspetti di sé e della relazione con l’ambiente. Compito dello psicoterapeuta è di indagare i significati emotivi ed inconsci che il soggetto attribuisce agli eventi che lo circondano, alle problematiche che lo hanno indotto a richiedere il consulto. Lo psicoterapeuta, dunque, non deve riproporre gli stessi stili relazionali, poco adattivi, che il soggetto sperimenta nelle sue relazioni abituali, ma deve presentare al paziente una relazione nuova, svincolata da condizionamenti e pregiudizi, che disconfermi idee non del tutto razionali. Quindi, sperimentando una relazione diversa da quelle passate, i sintomi diventano sempre più consci alla persona. Di conseguenza, l’inconscio diventa conscio e si offre alla persona la possibilità di una scelta di vita più serena e consapevole. Lo scopo terapeutico è stato portato a termine.

Per concludere

Una psicoterapia psicodinamica ha come obiettivo quello di affrontare e curare il disagio e la sofferenza psichica ed emotiva, avendo come cornice teorica la psicoanalisi. Però, un percorso di psicoterapia psicodinamica si sviluppa meno di frequente e con una durata ridotta rispetto al vero e proprio trattamento psicoanalitico.

Il trattamento può durare un numero stabilito di incontri oppure variare in base alle esigenze del paziente. In ogni caso, un trattamento psicodinamico prevede non solo il trattamento dei sintomi, ma un intervento più ampio finalizzato allo sviluppo delle risorse personali.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le mie Ossessioni (2018) di Valentina Nocito – Recensione del libro

Le mie Ossessioni, che trae ispirazione nel titolo dall’opera di Silvio Pellico, è un libro che nasce dalle richieste di persone che si rivolgono all’autrice per Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

 

Il libro ha l’intento di fornire informazioni e consigli a coloro i quali soffrono di ossessioni e compulsioni con l’obiettivo di aiutarli a comprendere che si tratta di uno stile di pensiero che può essere riconducibile al DOC e che un aiuto professionale può rivelarsi utile.

La cornice teorica di riferimento è quella cognitivo-comportamentale.

Le mie ossessioni: le caratteristiche del funzionamento DOC

Il libro Le mie ossessioni esordisce con una descrizione delle caratteristiche di funzionamento tipiche del DOC proponendo anche fattori di sviluppo e mantenimento. La Nocito cita Salkovskis per aspetti relativi alla perdita, al pericolo e alla colpa implicati in questo tipo di disturbo. È inoltre ampiamente sottolineato lo stretto legame che intercorre tra pensieri, emozioni e comportamenti mostrando come questi si delineano nei meccanismi caratteristici del DOC.

Nel secondo capitolo sono riportati gli attuali criteri diagnostici del DOC proposti dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013). L’autrice offre poi una definizione di ossessionicompulsioni con relativa panoramica sui contenuti più comuni. Sono infatti illustrate ossessioni e compulsioni relativamente a: la paura del contagio, il controllo, l’accumulo, ordine e simmetria, un pensiero o un’immagine su comportamenti indesiderati inaccettabili (come pensieri a contenuto aggressivo o sessuale) e pensieri superstiziosi. L’autrice, portando esempi derivanti dalla pratica clinica, mostra come non sia infrequente che più ossessioni e compulsioni possano coesistere in una stessa persona.

Nel terzo capitolo, centrato sul senso di colpa e il senso morale che caratterizza il pensiero del DOC, è proposto un legame con il contesto cattolico e viene riportato un esempio di un paziente.

Le mie ossessioni: la terapia cognitivo-comportamentale

L’ultima parte del libro è dedicata ad un approfondimento sulla Terapia Cognitivo-Comportamentale la quale è basata sulle componenti cognitive – emotive – comportamentali del disturbo. Nello specifico, è illustrata la tecnica dell’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) in cui la persona viene esposta (in immaginazione o in vivo) difronte al proprio dubbio. Il capitolo è arricchito da brevi esempi di applicazione dell’ERP per i vari contenuti di ossessioni e compulsioni.

Infine, partendo dagli 8 passi di Buddha, è presente un approfondimento sulla Mindfulness, una tecnica che ricade nella Terapia Cognitivo-Comportamentale di terza generazione ed applicabile nel trattamento del DOC. Ne vengono illustrati gli obiettivi generali senza ricorrere a particolari esempi riferiti al DOC.

A conclusione del libro la Nocito sottolinea come aspetti normali, quali l‘attenzione per igiene, se esasperati e irrigiditi (ad esempio dedicando molte ore al giorno ai lavaggi) possono diventare disadattivi. Proprio per questo il lettore è invitato a chiedere un confronto con un professionista in grado di guidarlo nell’intricato labirinto di dubbi in cui quotidianamente si trova.

Questo breve testo, scritto con un linguaggio semplice e accessibile, si può considerare uno strumento per divulgare una maggiore conoscenza e consapevolezza su quello che è il DOC.

Virtual Reality: trattare le fobie nei pazienti con disturbo dello spettro autistico

L’uso della realtà virtuale può essere un utile strumento per adattare la terapia alle caratteristiche di particolari tipologie di pazienti, come nel trattamento delle fobie specifiche in pazienti con autismo.

Adriano Mauro Ellena

 

Un recente studio pilota condotto su soggetti adulti affetti da autismo ha mostrato interessanti risultati rispetto al trattamento delle loro paure ed un significativo miglioramento della loro qualità di vita reale attraverso l’utilizzo della realtà virtuale (VR). In questo studio, l’utilizzo della realtà virtuale è stato associato ad una psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT).

Paure e fobie sono comuni nelle persone con disturbo dello spettro autistico e possono avere un impatto significativo sulla loro capacità di svolgere semplici attività quotidiane. Secondo i dati disponibili in letteratura, circa la metà dei bambini con disturbo dello spettro autistico soddisfano i criteri per almeno un disturbo d’ansia; tra i diversi tipi di disturbi d’ansia, la fobia specifica è la più comune, con stime di prevalenza che vanno dal 31 al 64%.

L’esposizione graduale a stimoli che causano ansia è un approccio ampiamente riconosciuto nel trattamento di questi disturbi nella popolazione generale, ma più volte ci si è chiesti se nell’applicazione di questo metodo con soggetti autistici potrebbero emergere particolari difficoltà, dal momento che l’esposizione in vivo (nella vita reale) potrebbe avere un impatto molto forte, e forse sconvolgente, sulle persone con autismo perché possa rivelarsi un trattamento efficace.

Lo studio

Per rispondere a questo interrogativo e trovare una risposta efficace al trattamento delle paure e delle fobie nei soggetti con autismo, alcuni ricercatori hanno sviluppato un primo studio volto a valutare l’efficacia di un intervento di targeting dell’ansia in cui si combinava terapia cognitivo-comportamentale ed esposizione attraverso la realtà virtuale. Siccome questo intervento ha riportato risultati positivi con giovani pazienti con un disturbo dello spettro autistico, i ricercatori hanno poi condotto un nuovo studio utilizzando lo stesso intervento con soggetti adulti affetti da autismo.

Lo studio ha coinvolto 8 soggetti adulti con autismo (con un’età compresa tra i 18 e 57 anni), i quali hanno partecipato ad una sessione di psico-educazione e poi a quattro sessioni, di 20 minuti ciascuna, di esposizione graduale con un terapeuta in una sala per l’immersione nella realtà virtuale. Il primo dato che è interessante notare è che tutti i partecipanti hanno completato tutte le sessioni di esposizione, ciò dimostra che questo tipo di intervento è sia pratico che accettabile, affermano i ricercatori.

Successivamente, il mantenimento dei risultati ottenuti con il trattamento è stato monitorato a distanza di sei settimane e di sei mesi dopo l’intervento. Sulla base di questi dati, 5 degli 8 partecipanti sono stati dunque classificati come “rispondenti all’intervento” e, a 6 mesi dalla conclusione del trattamento, hanno sperimentato miglioramenti funzionali della vita reale.

Questi risultati preliminari, pubblicati sulla rivista Autism in Adulthood, suggeriscono che l’esposizione effettuata attraverso la realtà virtuale insieme ad un trattamento CBT può costituire una modalità efficace nell’aiutare pazienti adulti autistici affetti da fobie specifiche.

Le fobie comunemente si co-verificano con l’ autismo e spesso causano un disagio significativo – ha detto Christina Nicolaidis, professore associato di medicina e salute pubblica presso la Portland State University in Oregon – Nonostante i risultati siano molto preliminari, è emozionante vedere strategie innovative per un problema che è stato così difficile da trattare.

 

Neurodiversità e creatività. Ostacoli e talento nello Spettro Autistico – Report dal convegno

In occasione della giornata mondiale della Sindrome di Asperger, si è tenuto a Milano l’incontro “Neurodiversità e creatività. Ostacoli e talento nello Spettro Autistico”, organizzato da Spazio Asperger ONLUS.

 

L’evento è stato ospitato da Superstudio Più, una realtà culturale milanese che dal 2000 si occupa di eventi, arte e cultura.

Gisella Borioli, CEO di Superstudio Più, apre la giornata condividendo con il pubblico la motivazione personale che l’ha portata ad avvicinarsi alla neurodiversità e che oggi la incoraggia nel voler creare collaborazioni e progetti che aprano le porte alla creatività e al talento.

Neurodiversità e creatività: il contributo di Atwood sulla Sindrome di Asperger

La giornata ha un duplice obiettivo: presentare il libro edito da Edra “Guida completa alla Sindrome di Asperger”, di Tony Attwood, uno dei massimi esperti della Sindrome di Asperger, curato da Davide Moscone e David Vagni, e dare uno spazio alle testimonianze e agli interventi di persone Asperger e neurotipiche che hanno a che fare con la creatività.

Neurodiversità e creatività. Ostacoli e talento nello Spettro Autistico foto1

Durante la prima parte della giornata Davide Moscone, psicologo psicoterapeuta, Presidente di Spazio Asperger ONLUS e direttore di Cuorementelab, introduce il lavoro di Tony Atwood presentando la storia di Hans Asperger che, per primo, descrisse bambini con specifiche caratteristiche definendoli “bambini professori”.

Oggi paghiamo il ritardo nella traduzione del lavoro di Asperger

afferma Moscone riferendosi alla prima traduzione dei lavori di Asperger solo nel 1980 da parte di Lorna Wing, nonostante le ricerche di Asperger fossero iniziate quarant’anni prima.

Ciò ha permesso la diffusione della visione kanneriana di autismo che ha avuto un peso culturale importante. Ad oggi, dopo l’eliminazione della Sindrome di Asperger dal manuale diagnostico DSM V nel 2103, ha ancora senso parlare di Sindrome di Asperger? “Assolutamente sì” ribadisce Moscone. Non solo la specificazione di un funzionamento Asperger è fondamentale per l’individuo, la famiglia e le figure di riferimento che ruotano attorno ad essi ma, se ci si fermasse alla sola diagnosi del DSM V, si potrebbe incorrere nel rischio di appiattimento di interventi e risorse adatti a casi con difficoltà maggiori. Come afferma Atwood in un intervista del 2015

Il termine Sindrome di Asperger continuerà ad esistere e io, gli altri genitori, gli insegnanti e le persone Asperger continueremo ad usarlo. In altre parole, è un termine utile al livello sia pratico che clinico. (Intervista condotta da Davide Moscone e David Vagni nel 2015 in occasione della seconda conferenza dell’autore organizzata a Roma da Spazio asperger ONLUS).

Neurodiversità e creatività: come conoscerle e comprenderle

Il volume di Atwood è una vera e propria guida rivolta a persone Asperger e neurotipiche con l’obiettivo di comprendere come una persona Asperger è e perché si comporta in modo differente dagli altri e di

ricordare che un comportamento apparentemente eccentrico ha sempre una spiegazione.

Moscone procede nella presentazione toccando brevemente ogni capitolo del libro: cos’è la Sindrome di Asperger, la diagnosi e tutte le aree che caratterizzano il funzionamento umano specificandone la caratterizzazione Asperger, con il contributo delle esperienze e i vissuti di persone Asperger adulte.

Neurodiversità e creatività. Ostacoli e talento nello Spettro Autistico foto2

La seconda parte della giornata è dedicata agli interventi di persone Asperger che condividono i propri vissuti e le proprie esperienze lavorative. Creatività e Asperger è un binomio possibile: nonostante il primo studio sulla creatività nell’autismo sia datato solo 2015, le testimonianze cui abbiamo assistito in questa giornata confermano che le persone Asperger possono raggiungere livelli di affermazione artistica e professionale elevati.

Neurodiversità e creatività: le testimonianze

“Parola ai neurodiversi”: così Moscone introduce i professionisti Asperger che portano la loro esperienza umana e lavorativa. Pur nella diversità individuale, ogni persona ha condiviso con il pubblico il significato di aver ricevuto la diagnosi:

E’ stata una chiave di volta nella lettura di me stessa – dice Elisa 2B, illustratrice e fumettista – ha dato dignità a caratteristiche di me che consideravo difetti.

Giorgio, sviluppatore di applicazioni per iOs e Android e di videogiochi, ci mostra una foto del prima e dopo diagnosi e condivide con noi quali sono per lui i vantaggi e gli svantaggi di essere Asperger:

Essere Asperger e vivere di videogiochi è possibile – dice Giorgio – trova la tua ossessione, fanne un lavoro e non sarai mai stanco, nemmeno un giorno

Non nascondono però anche l’altro lato della medaglia, la fatica, i compromessi a cui bisogna scendere per continuare a lavorare. Giovanni Morandini dell’incontro/scontro del suo essere Asperger in una società a maggioranza di neurotipici ne fa un pezzo teatrale, “Il colloquio”, in scena il 4 giugno al Teatro Parenti di Milano. Beatrice Squitti, artista, mostra come vede la vita attraverso i suoi collage, alcuni dei quali afferma di non saper spiegare. Fabrizio Acanfora, cimbalista e pianista, ci dice di quanto è stata liberatoria la diagnosi e di come è poi riuscito ad incanalare la sua passione per la musica, dapprima vissuta in solitudine, nel lavoro di docente al master di Musicoterapia a Barcellona, in un blog su musica e autismo e in un libro in cui si racconta.

Le cose stanno cambiando nell’autismo – afferma David Vagni, Vicepresidente di Spazio Asperger ONLUS e Direttore Scientifico di Cuorementelab – si sta passando da una visione basata sui deficit ad una visione di punti di forza e sta aumentando la consapevolezza che le persone Asperger non sono incapaci da un punto di vista sociale ma hanno uno stile sociale non convenzionale.

L’incontro quindi tra il mondo Asperger e quello neurotipico delle aziende rimane una questione aperta e importante poiché si stanno creando realtà aziendali significative. Il progetto MAJA , ad esempio, si occupa di comprendere i valori delle due culture, neurodiversa e neurotipica, e trovare una chiave che permetta l’incontro e quindi un inserimento lavorativo degno per le persone Asperger; le multinazionali Specialisterne e Auticon già si occupano con successo del matching persona Asperger-azienda in un’ottica di valorizzazione delle caratteristiche individuali supportando il processo di avvicinamento e inclusione offrendo al mercato le skills della neurodiversità: in 15 anni sono stati creati 1000 posti di lavoro in 39 città in 21 paesi nel mondo da Specialisterne e Auticon ha, ad oggi, molti sedi in tutto il mondo e contatti con le maggiori realtà aziendali internazionali che si occupano di informatica.

L’autismo non è un errore di sistema, è un diverso sistema operativo (Auticon)

Il controtransfert nel mondo interno del terapeuta

Professiamo molte cose sagge. Aiutiamo i pazienti nella identificazione e nella modulazione emotiva. Smerciamo elementi di mindfulness e suggeriamo tecniche per gestire le crisi come manna nel deserto. E noi? Noi terapeuti, nella nostra vita quotidiana, come siamo e cosa facciamo?

 

Quando ero una ancora una studentessa universitaria, mi piaceva dire che “un conto è essere terapeuta ed un conto è farlo”, credendo di comprendere a pieno che cosa volesse dire. Avevo imparato che quella frase, magari pronunciata con un tono poetico e con un determinato movimento delle mani, aveva un certo effetto sulle persone, le quali, con una espressione bizzarra, affermavano quasi sempre “ahh…si, giusto”. A quel punto io sollevavo le spalle, come in una sorta di soddisfazione per aver infuso un’ondata di mistero in chi chiedeva quanto potesse essere semplice ma anche controproducente sovrapporre la propria vita privata a quella professionale.

Fare il terapeuta, quello seduto comodamente su una larga poltrona, rigorosamente con le rotelle, in una stanza che deve necessariamente avere una lampada capace di diffondere una luce soffusa, anche se poi non la si accende mai, non vuol dire essere persone perfette, risolte, consapevoli o fruitori di segreti o risposte a domande come “dov’è nascosto il Santo Graal?”, “quanto è lunga la Muraglia Cinese?”. Nessun paziente, alla fine della più brillante psicoterapia, con il miglior terapeuta del mondo, saprà questo. Ma se sarà andato tutto liscio, avrà certamente fatto esperienza di condivisione e calore. Si cerca di comprendere, di vedere da vicino cosa ci spinge a fare determinate scelte e si prova a smussare delle parti dolorose, ad allenare quelle nuove e adattive, a gestire le emozioni negative. Si cambia, certo. Si può cambiare e tanto ma ci potranno anche essere aspetti che in quel momento storico della vita non si è disposti ad analizzare oppure a smuovere. Divenire consapevoli anche di questo, è un ulteriore traguardo.

Quello che, dopo pochi anni dall’inizio della mia pratica clinica, ho cominciato a sentire è che i pazienti hanno delle storie molto simili alle vite dei terapeuti e, dall’incontro relazionale, a volte ne usciamo con qualche spunto di riflessione. Infatti, in questi ultimi mesi, mi sono ritrovata molte volte a fare i conti con quello che mi portavo a casa alla fine di alcune delle mie giornate di lavoro. Per essere tecnici si chiama “arousal” ed è il corpo che ci avvisa che è accaduto qualcosa dentro di noi. Quest’attivazione dura il tempo che dura e possiamo farci varie cose: la subiamo, la lasciamo lì, la osserviamo, la regoliamo, oppure le diamo una cornice di significato e nome e vediamo dove ci porta.

Ci sono stati pazienti che con le loro storie hanno toccato corde mie personali e problematiche ed ho pensato a tutte quelle volte che mi sono sentita dire che un terapeuta deve essere perfettamente risolto. Ma cosa vuol dire “perfettamente”? Vuol dire una volta per tutte? Cosa vuol dire “risolto”? Vuol dire che si arriva ad una conoscenza così profonda di se stessi che dopo possiamo trascorrere gli anni della nostra vita ad osservarci tipo attori in un film, reagendo in modo funzionale ad ogni minimo turbamento? No, la questione non mi convinceva prima e di certo non riesce a convincermi adesso, per niente. La terapia non dovrebbe essere considerata uno spartiacque tra un prima, fatto eventualmente di sintomi e relazioni problematiche, ed un dopo in cui diventiamo immuni a tutti. Se pensiamo questo e se, poco poco trasmettiamo questo messaggio ai nostri pazienti, non staremmo forse esagerando?

Se fosse tutto così semplice potrei dire: bene, la mia terapia l’ho fatta, le mie supervisioni anche. Sono apposto. Eppure come spieghiamo tutto questo?

Alcuni esempi pratici

D. una paziente, con un grave disturbo dell’umore aveva incontrato due, tre terapeuti prima di me che avevano capito poco o niente. In una seduta mostra i suoi deliri, chiaro inizio di una fase maniacale. Dopo molti mesi di terapia, ed un durissimo lavoro sulla nostra relazione, oltre a tutto quello sulla sintomatologia che le rendeva davvero difficile viversi la quotidianità, D. con le lacrime negli occhi mi dice quanto fosse felice di aver incontrato qualcuna capace di guardarla senza paura, nonostante le sue parti oscure, dure, disturbanti. Pensai subito a quanto dovesse essersi fidata di me e questo mi gratificò. Però nello stesso momento, sentii paura. Già dal corpo la riconoscevo. Avevo mal di testa, la fronte corrucciata, il corpo rigido ed un passo lento. Non è da me. Quando mi fermai a pensare cosa avessi nella mia mente, vi ritrovai la paura del fallimento. Sì, proprio quella che avevo cercato di smussare con la mia terapia personale. Meglio ancora, era la paura di deluderla dopo che si era affidata a me. Mi son dovuta regolare un bel po’, concettualizzare tutto nella testa e capire che quello che stava succedendo era una roba che mi porto tipo seconda pelle da quando ero una poppante di 5 anni e pur sapendo da dove è nata e come si è cementata dentro me, a volte ritorna.

M. era un paziente con un disturbo dipendente di personalità che non riusciva a lasciare la sua compagna. Solo a pensarci, entrava in uno stato di dolore inquantificabile. Abbiamo lavorato tanto sull’attivazione del suo schema interpersonale maladattivo e sulle strategie di coping che metteva in atto. Quando d’improvviso incontrò una donna che lo faceva sentire come avrebbe sempre desiderato, non incapace di stare solo, non indispensabile, ma gli prospettava la possibilità di fare quello che lui stesso desiderava, essere e dire quello che lui stesso voleva, entrò in crisi. Per la prima volta poteva scegliere, essere e fare senza sentire necessariamente di doverlo fare. Dopo averlo sinceramente validato, per aver avuto la forza di accogliere l’amore, ne ho apprezzato la capacità di non lasciarsi bloccare dalla paura. Ricordo che in un momento difficile della mia vita privata, alla fine di una seduta con lui, mi trovai abbandonata in quella poltrona; era estate e quindi non fu molto piacevole notare che le mie spalle si erano completamente fuse con la finta pelle della sedia. Ero triste e sapevo che era un’attivazione mia relativa a quello che stavo vivendo in quel periodo. Ad essere più precisi, ci fu una roba ancora più pensate che ho sentito dentro di me. La vogliamo chiamare con il vero nome? Posso provarci? Ok, si chiama invidia. E mi sentivo quasi una cattiva terapeuta. Non dovrei essere incondizionatamente dalla parte del mio paziente e gioire insieme a lui? Non stava andando proprio così. O meglio, ero sinceramente felice per lui e grata a me stessa per il nostro lavoro insieme ma non potevo fare a meno di pensare che quella sua storia mi stava mettendo di fronte ad una parte di me vulnerabile.

In conclusione

Questi sono soltanto dei piccoli esempi di come i pazienti, spesso e volentieri, toccano le corde più profonde di noi terapeuti. Credere nella possibilità di cambiare è un fondamentale per poterli accompagnare nel percorso di crescita personale ma, nel cammino insieme, teniamo bene a mente quello che accade dentro di noi.

Se qualcosa risuona in modo troppo intenso, e notiamo che è un’attivazione eccessiva, fermiamoci perché forse c’è qualcosa che va rivisto. Ed oggi so che non c’è niente di male in questo. Anzi, so che può anche essere espressa, d’altronde, l’hanno concettualizzata molto bene. Si chiama “controtransfert”. Autori come Tauber e Cohen ne hanno parlato abbastanza e nel corso della storia della psicoterapia il punto di vista è cambiato notevolmente. Infatti oggi si guarda al controtransfert come un qualcosa che non necessariamente interferisce con il lavoro con il paziente. Se sappiamo cosa farne, ovviamente. Se sappiamo riconoscerlo, soprattutto.

Thompson (1964) parla di controtransfert razionali e irrazionali per indicare quello che accade nel terapeuta e quello che invece accade come riflesso dell’attivazione del paziente. La terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) spiega sotto una veste più fresca e moderna la questione:

per regolare la relazione terapeutica è utile che il terapeuta volga l’attenzione su di sé, si guardi dentro e analizzi e riconosca le emozioni e le sensazioni che il paziente procura… la reazione soggettiva del terapeuta informa sulla realtà interna del paziente, ma non completamente…. Il terapeuta deve compiere interventi tecnici… e se non ci riesce deve esplorare il suo mondo interno… nel momento in cui si rende conto che non sta tanto reagendo al paziente ma a determinate figure interiorizzate, differenzia egli stesso e trova la lucidità per uscire dall’impaccio relazionale… (Dimaggio et al., 2013; pag.96).

Gli effetti terapeutici dell’attività motorio-sportiva nei disturbi da uso di sostanze

Molte ricerche hanno evidenziato gli aspetti positivi che l’attività fisica svolge sul bisogno della sostanza, agendo sui sintomi legati all’ astinenza e incrementando la durata dell’ astinenza stessa.

 

I disturbi da uso di sostanze sono delle sindromi psichiatriche di un certo rilievo, per via dei riverberi che essi producono sulla salute fisica e mentale di chi ne è affetto. Fra di essi si possono citare il disturbo da uso di alcol, il disturbo da uso di oppiacei, il disturbo da uso di stimolanti e il disturbo da uso di tabacco. L’approccio terapeutico ai disturbi da uso di sostanze è avvenuto su due fronti, preventivo e curativo. Dal punto di vista preventivo, si sono implementate le strategie per ridurre il numero delle persone che si accostano all’uso di tali sostanze. In ambito curativo, sono stati messi a punto dei protocolli terapeutici, che prevedono l’utilizzo di farmaci e di trattamenti psicoterapeutici. Il percorso terapeutico non è affatto agevole: difatti, esiste un alto numero di ricadute, che si attesta fra il 70-85%. In virtù di ciò, diversi studi si sono occupati di ricercare terapie coadiuvanti, che possano far persistere nel tempo i risultati terapeutici ottenuti e, quindi, limitare il numero delle ricadute. Un posto di rilievo, in questo ambito, lo occupa l’attività motorio-sportiva. Essa dimostra una certa efficacia nell’ambito della terapia delle dipendenze: infatti, sembra svolgere un ruolo attivo nella riduzione dei sintomi da astinenza.

Keywords: disturbi da uso di sostanze, trattamenti terapeutici, attività motorio-sportiva.

 

I disturbi da uso di sostanze sono delle sindromi psichiatriche di un certo rilievo, per via dei riverberi che essi producono sulla salute fisica e mentale di chi ne è affetto. Fra di essi si possono citare il disturbo da uso di alcol, il disturbo da uso di oppiacei, il disturbo da uso di stimolanti e il disturbo da uso di tabacco.

Il disturbo da uso di alcol è caratterizzato da un uso eccessivo di bevande alcoliche nel corso della giornata, difficoltà a controllare la quantità di alcol ingerita, desiderio eccessivo di assumere alcol in più momenti della quotidianità, compromissione delle attività lavorative, sociali e ricreative a causa del consumo di alcol. Con il passare del tempo, il soggetto ha necessità di incrementare la quantità di alcol assunta per ottenere lo stesso risultato iniziale (tolleranza) (DSM – 5, 2014). Allorquando il consumo di alcol viene sospeso, si presenta una sindrome da astinenza, caratterizzata da una sintomatologia ben specifica. Fra i sintomi legati all’ astinenza, si possono annoverare iperattività, tremore alle mani, insonnia, senso costante di nausea, allucinazioni, che possono essere visive, tattili e uditive, stato marcato di ansia, convulsioni (DSM – 5, 2014).

Il disturbo da uso di oppiacei presenta le stesse caratteristiche cliniche del disturbo da uso di alcol, con il relativo fenomeno della tolleranza. I sintomi da astinenza sono simili a quelli osservati nell’ astinenza da alcol, con aggiunta di febbre, diarrea e dolori muscolari diffusi (DSM – 5, 2014).

Anche il disturbo da uso di stimolanti (cocaina) mostra la stessa sintomatologia descritta per le altre dipendenze e le stesse peculiarità dell’ astinenza. Parimenti anche nel disturbo da uso di tabacco si riconoscono alcune delle manifestazioni cliniche elencate per le altre dipendenze. La sindrome da astinenza da tabacco è contrassegnata da irritabilità, ansia, difficoltà di concentrazione, incremento dell’appetito, agitazione, insonnia, umore depresso (DSM – 5, 2014).

A livello mondiale, l’11,5% dei decessi sono imputabili alle conseguenze del disturbo da uso di tabacco (Reitsma e al., 2017), il 3,8% sono correlati al disturbo da uso di alcol (Rehm e al., 2009) e lo 0,4% all’utilizzo di droghe (Fisher e Roget, 2009). Infatti, il tabagismo è alla base di molte neoplasie polmonari, di malattie cardiovascolari e polmonari. Le conseguenze legate all’abuso di alcol sono rappresentate da differenti patologie, ovvero un incremento di neoplasie, disturbi cardiovascolari e malattie psichiatriche (Room e al., 2005). L’utilizzo di droghe è, frequentemente, correlato con malattie infettive (aids, epatiti virali) e disturbi psichiatrici (Chen e Lin, 2009).

L’attività motorio-sportiva nel trattamento dei disturbi da uso di sostanze

L’approccio terapeutico ai disturbi da uso di sostanze è avvenuto su due fronti, preventivo e curativo (Colledge e al., 2018). Dal punto di vista preventivo, si sono implementate le strategie per ridurre il numero delle persone che si accostano all’uso di tali sostanze. In ambito curativo, sono stati messi a punto dei protocolli terapeutici, che prevedono l’utilizzo di farmaci e di trattamenti psicoterapeutici (Leshner, 1999). L’obiettivo che questi trattamenti hanno, soprattutto nell’ambito dell’alcolismo e della tossicodipendenza, è quello di favorire la disintossicazione e, al contempo, di contenere la sintomatologia legata all’ astinenza, in vista di un completo abbandono dell’uso della sostanza (Kleber e al., 2006). Il percorso terapeutico non è affatto agevole: difatti, esiste un alto numero di ricadute, che si attesta fra il 70-85% (Ferguson e al., 2005; Moos e Moos, 2006; Xie e al., 2005). In virtù di ciò, diversi studi si sono occupati di ricercare terapie coadiuvanti, che possano far persistere nel tempo i risultati terapeutici ottenuti e, quindi, limitare il numero delle ricadute.

Un posto di rilievo, in questo ambito, lo occupa l’attività motorio-sportiva. Molte ricerche hanno evidenziato gli aspetti positivi che l’attività fisica svolge sul bisogno della sostanza, agendo sui sintomi legati all’ astinenza e incrementando la durata dell’ astinenza stessa. Dal punto di vista neurobiologico, tali effetti potrebbero essere imputabili ad una riduzione dell’attività della corteccia prefrontale (Dietrich, 2009) e ad un incremento della secrezione di BDNF (fattore di crescita delle cellule nervose) e di alcuni neurotrasmettitori, fra cui la dopamina (Heyman e al., 2012).

Fra le diverse ricerche che si sono occupate di stabilire l’efficacia dell’attività motorio-sportiva nei disturbi da uso di sostanze si possono citare le seguenti:

  • Russel e al. (1988) hanno preso in considerazione 42 donne, che fumavano una media di 23 sigarette al giorno da oltre 10 anni e che manifestavano il desiderio di smettere di fumare. Con loro sono state fatte tre sedute alla settimana di attività motorio-sportiva, che includevano il camminare e il correre. Quelle che avevano smesso di fumare mantenevano tale abitudine anche a distanza di 3, 6 e 18 mesi dall’inizio dell’attività motorio-sportiva.
  • La ricerca di Marcus e al. (1999) ha avuto come gruppo sperimentale 134 donne, che fumavano una media di quasi 23 sigarette al giorno da oltre 22 anni e avevano la necessità di smettere di fumare. Esse sono state sottoposte a tre sedute settimanali di attività aerobica per 30-40 minuti. La conseguenza di tale attività è che l’ astinenza dal fumo era ancora presente a 8, 20 e 60 settimane dall’inizio della sperimentazione.
  • Lo studio di Patten e al. (2017) è intervenuto su 15 fumatrici, attraverso un protocollo che prevedeva 3 sedute alla settimana di attività aerobica intensa della durata di 20-30 minuti per ciascuna sessione. Le fumatrici, in seguito all’attività, avevano smesso di fumare e tale abitudine risultava essere presente a distanza di sei mesi.
  • La ricerca di Roessler e al. (2017) è intervenuta su 62 alcolisti adulti, per circa 6 mesi, attraverso due sedute settimanali, della durata di 25-45 minuti ciascuna, di attività fisica di gruppo (camminare e correre). La sperimentazione ha dimostrato che i soggetti partecipanti avevano ridotto considerevolmente la quantità di alcol assunta nel periodo della sperimentazione.
  • La ricerca di Mamen (2011) ha considerato 33 adulti che facevano uso di differenti droghe. Con loro è stato preparato un programma motorio-sportivo di 15 mesi, che prevedeva delle sessioni quotidiane dedicate al jogging, al ciclismo e ad uno sport di squadra. Nel periodo della sperimentazione i soggetti avevano ridotto il consumo di droghe.
  • Lo studio di Trivedi e al. (2017) ha esaminato 152 adulti che presentavano dipendenze da varie droghe e che avevano intrapreso un percorso di disintossicazione. Con loro è stato attuato un programma motorio per 12 settimane, che prevedeva tre sedute settimanali di corsa. Alla fine della sperimentazione, l’attività motoria aveva ridotto i sintomi legati all’ astinenza.

In conclusione, l’attività motorio-sportiva dimostra una certa efficacia nell’ambito della terapia delle dipendenze dall’uso di sostanze. In particolare, sembra svolgere un ruolo attivo nella riduzione dei sintomi da astinenza.

L’uso terapeutico della caffeina sui bambini prematuri

Nei bambini prematuri il cervello alla nascita non risulta ancora completamente sviluppato, per questo motivo alcune sue funzioni che normalmente vengono svolte in automatico risultano deficitarie. Grazie alla caffeina sembra possibile intervenire su tali disfunzioni, incrementando ad esempio il funzionamento polmonare.

 

Una tazza di caffè durante la giornata per molti è un momento irrinunciabile ma per l’unità di terapia intensiva neonatale una dose giornaliera di caffeina è molto di più!
Non stiamo parlando della caffeina assunta dai neogenitori, che rappresenta sicuramente un valido aiuto nella veglia e nell’assistenza ai loro bambini, bensì alla caffeina somministrata proprio ai bambini prematuri (ovvero nati sotto le 29 settimane).

Secondo un recente studio, infatti, somministrare caffeina ai bambini prematuri porterebbe importanti benefici a livello del loro sviluppo cerebrale.

Effetti della caffeina sullo sviluppo cerebrale

Dopo gli antibiotici, la caffeina è la sostanza più utilizzata nella terapia intensiva neonatale. Ma con quale scopo?

Nei bambini prematuri il cervello alla nascita non risulta ancora completamente sviluppato, per questo motivo alcune sue funzioni che normalmente vengono svolte in automatico risultano deficitarie. La caffeina permette di intervenire su tali disfunzioni, per esempio viene utilizzata per stimolare e incrementare le funzioni polmonari dei bambini prematuri: nello specifico, la caffeina aiuterebbe i bambini prematuri nelle attività di respirazione generando un’accelerazione del battito cardiaco e un conseguente maggiore apporto di sangue al cervello che riceve in questo modo più ossigeno, necessario per lo svolgimento delle funzioni vitali dell’organismo tra cui anche la respirazione.

Alcuni ricercatori hanno dimostrato che iniziando la terapia a base di caffeina già due giorni dopo la nascita si riduce il tempo in cui i bambini prematuri hanno bisogno di essere sottoposti a ventilazione meccanica. Inoltre, si riduce anche il rischio di displasia broncopolmonare, una patologia che intacca il funzionamento dei polmoni.

Alcune evidenze scientifiche: uno studio sperimentale

L’Università della Columbia Britannica, di Montreal e l’Ospedale Mount Sinai di Toronto hanno svolto una ricerca volta ad indagare proprio come questo tipo di terapia a base di caffeina possa influire a lungo termine sullo sviluppo dei bambini prematuri.

Nello studio, sono stati analizzati i dati ottenuti da 26 unità di terapia intensiva neonatale canadesi, comprendenti valutazioni di follow-up condotte a 18-24 mesi di età dei bambini prematuri che riguardavano il loro sviluppo cognitivo, linguistico e motorio; è stato indagato come questi bambini fossero in grado di capire parole semplici, riconoscere immagini, gattonare, rimanere in equilibrio e coordinare le varie funzioni motorie.

Dai risultati si evince che questo tipo di trattamento non apporta nessun tipo di effetto negativo a lungo termine sullo sviluppo neurale dei bambini prematuri, anzi è associato a punteggi cognitivi maggiori e a un minor numero di casi di paralisi cerebrali e compromissioni uditive.

Secondo i ricercatori, la caffeina contribuirebbe ad aumentare la crescita dei dendriti, le parti del neurone che si diramano per ricevere il segnale da altri neuroni, ma anche all’allungamento e all’espansione polmonare, alla pressione sanguigna e alla quantità di sangue che può essere pompato. Questi effetti portano ad una riduzione del rischio di malattie polmonari croniche, lesioni cerebrali e riducono anche l’utilizzo di macchinari per la respirazione assistita.

Una riflessione sulla neurobiologia dell’individualità a partire dall’ambiente

Cosa ci rende individui unici, ineguagliabili, diversi gli uni dagli altri?

 

Questa è da sempre stata la domanda che fin dai primordi ha caratterizzato la ricerca psicologica sperimentale, la quale ha realizzato nel tempo diversi paradigmi, setting di laboratorio e metodologie sperimentali sempre più strutturate, valide e controllate, per poter individuare nel dettaglio quelle variabili e quei meccanismi che potessero contribuire alla caratterizzazione della variabilità interindividuale e che potessero altresì investigare le interazioni tra questi generando dei modelli appropriati per la loro spiegazione.

Semplificando la complessità e l’enorme quantità di ricerche in questo ambito, fin da subito, tra gli elementi caratterizzanti e definenti in sostanza l’individualità e la personalità, è stata identificata ed enfatizzata come cruciale l’interazione tra gli aspetti (neuro)biologici-genetici e l’ambiente di sviluppo e di vita nella sua complessità per la definizione dei suoi effetti finali sul fenotipo (Kempermann, 2019).

Il paradigma degli “ambienti critici” o enrichment environments (ENRs)

Un paradigma sperimentale centrale, utilizzato inizialmente sugli animali per l’esplicazione e l’approfondimento di tale interazione, è quello degli “ambienti arrichiti” o enrichment environments (ENRs), definiti dal suo ideatore Mark Rosenzweig come degli ambienti caratterizzati da una combinazione di maggiori stimolazioni multimodali, inanimate e sociali rispetto ad un ambiente standard (Rosenzweig & Bennet, 1996).

L’aspetto centrale di questo paradigma riguarda il fatto che animali, topi o ratti, geneticamente identici si espongano e possano esplorare gabbie più grandi con la presenza di altri animali simili e altri strumenti da poter utilizzare come scalette, nascondigli e altri percorsi spaziali più complessi e alternativi che richiedono una navigazione più accurata; in questo paradigma classico gli effetti fisiologici e comportamentali misurati nella gabbia “arricchita” per un periodo di tempo ben definito venivano poi confrontati sia con quelli ottenuti da animali in gabbie standard meno popolate e stimolanti sia con quelli ottenuti dagli stessi animali osservati nella gabbia standard prima di poter esplorare quella arricchita. Ciò ha reso possibile sia le analisi longitudinali sugli effetti dell’esposizione ad ambienti ENR sia le valutazioni delle traiettorie di sviluppo degli animali grazie anche al contributo di informazioni provenienti dalla neurobiologia sulle modificazioni cerebrali funzionali osservate nel cervello di questi.

Nel corso del tempo a questi dati si sono poi affiancati studi prettamente comportamentali rappresentati dal paradigma ENRs, giungendo ad un nuovo e più aggiornato paradigma che ha posto il suo focus non più su un’eredità (biologica) “arricchita” ma su una plasticità cerebrale “arricchita” come descritto da Kempermann sulla recente Opinion pubblicata su Nature Review Neuroscience (2019).

Crescenti evidenze tra le quali lo studio di Rampon, Jiang e colleghi (2000) sottolineano infatti come l’ENR abbia dei significativi effetti su più livelli a partire da quello molecolare-genetico e cellulare, in particolare rappresentato da una maggiore proliferazione e genesi cellulare a seguito dell’impatto di questi aspetti ambientali sulla modulazione dei processi biochimici quali per esempio neurotrasmettitori, fattori neurotrofici, ormoni e fattori immunitari fino ad arrivare a quello comportamentale-sociale.

Per quanto riguarda le modificazioni indotte da ENR a livello molecolare e cellulare, quelle epigenetiche e relative all’espressione genica sono le più interessanti, osservate soprattutto nelle generazioni di topi nati successivamente al gruppo animale sottoposto ad ambienti ENR: è stato infatti evidenziato come la maggiore neurogenesi e plasticità sinaptica dei network cerebrali sottostanti i sistemi sensorimotori, affettivi e cognitivi, presente nei “genitori”, fosse stata ereditata dalle generazioni successive ad esse (Maruoka, Kodomari et al., 2009).

Nello specifico è risultato evidente come tra gli effetti più rilevanti ed esemplificativi determinati dallo sviluppo in ambienti ENR vi fosse un incremento in età adulta della neurogenesi delle cellulle ippocampali e delle loro connessioni a livello del giro dentato, con conseguente aumento delle abilità dell’animale nell’integrazione di nuovi contenuti a conoscenze già preesistenti con maggior flessibilità, un aumento dei tempi nell’apprendimento spaziale e nella memoria, oltre che una maggiore capacità di recupero a seguito di deterioramenti; il tutto a suggerimento del fatto che ambienti di sviluppo multisensoriali e stimolanti abbiano effetti anche a lungo termine e sul fenotipo, come dedotto dai comportamenti osservati negli animali (Freund, Brandmaier et al., 2013).

Limiti e Prospettive future

Nonostante il paradigma ENR sia stato classicamente considerato come situazione sperimentale nella quale è stato possibile studiare gli effetti dell’ambiente sul fenotipo, dato un retroterra genetico fisso (vedi studi sui gemelli), tuttavia questo approccio per quanto riguarda lo studio della variabilità interindividuale non è in grado di cogliere o controllare, soprattutto negli umani, quegli aspetti dovuti all’impatto degli ambienti di vita non-condivisi da animali con identico patrimonio genetico.

In questa visione, il comportamento individuale infatti è sia conseguenza di ambienti arrichiti, come descritto poc’anzi, ma anche causa degli ambienti stessi in quanto esso è a sua volta in grado di modificare e determinare modificazioni nell’ambiente; date queste evidenze, è necessario quindi che l’attuale modello teorico sia maggiormente bidirezionale e contempli al suo interno anche il concetto di “ambienti non condivisi”, in quanto per comprendere il modo in cui l’animale risponde all’ambiente nel tempo e nella sua complessità, è necessario che la costruzione dell’ambiente da parte dell’animale sia considerata attiva e che non sia semplicemente da intendersi vissuta in modo passivo da quest’ultimo (Kempermann, 2019).

Quest’evoluzione del paradigma dei ENR appena descritta è in continua trasformazione: in essa l’ambiente “arrichito”, che potenzia il processo che porta allo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali, dà avvio a nuovi comportamenti che a loro volta influiscono nel lungo termine sulle strutture stesse, responsabili della messa in atto di azioni nuove in futuro, che alterano l’ambiente a chiusura del circolo.

Camminare. Un gesto sovversivo (2018) di Erling Kagge – Recensione del libro

L’autore del libro Camminare. Un gesto sovversivo è un esploratore norvegese che ha camminato in solitaria ai tre poli e in cima all’Everest (ma anche nelle fogne di New York e lungo i boulevard Los Angeles), quindi è uno che si intende abbastanza di passeggiate.

 

 

Ma non si tratta di un libro d’avventura o di un diario di viaggio, in quanto l’attività del camminare viene analizzata in ogni aspetto, da quello poetico e letterario a quello scientifico; alla fine delle centotrenta pagine viene ovviamente voglia di mettersi in movimento, anche solo nel corridoio di casa o per andare al lavoro a piedi.

I racconti del tragitto di tre chilometri dalla propria casa in Norvegia all’ufficio della casa editrice da lui fondata sembrano delle bellissime esperienze di mindfulness, ove il percorso apparentemente ripetitivo, è in realtà sempre diverso e ricco di spunti di osservazione. Il camminare è un’attività che può essere infatti sufficientemente lenta da farci apprezzare tutto il mondo che ci circonda nel quotidiano e come scrive Kagge “dilata ogni attimo e dà un senso di libertà”.

Camminare. Un gesto sovversivo.. che assomiglia molto a meditare

In certe parti del libro, anche se non esplicitato dall’autore, si ha come l’impressione che il camminare diventi quasi un’attività meditativa. I capitoli sono sufficientemente brevi, come dei piccoli passi, ma ricchissimi di spunti di riflessione, citazioni di poesie o racconti sul tema e studi scientifici su questa attività salutare, per certi versi importante (e prescrivibile) come una medicina, in grado anche di potenziare la creatività.

Kagge racconta che camminando si lasciano i problemi alle spalle, così come racconta della popolazione artica degli Inuit che quando si arrabbiano fino a non controllarsi più vengono invitati a camminare in linea retta attraverso il paesaggio bianco finché la rabbia non passa. Non mancano inoltre i racconti straordinari dei viaggi polari intrisi di presenza mentale e consapevolezza (l’esperienza veramente più mindful è quando Kagge racconta che gli cade un acino d’uva nella neve e lo raccoglie con la bocca mettendosi carponi e assaporandolo come nel famoso esercizio dell’uvetta dei protocolli MBSR). Credo sia un libro davvero utile anche per terapeuti e pazienti perché come scrive Kagge

Camminare può essere un bellissimo viaggio di scoperta all’interno di sé stessi.

Favola psicoeducativa – Un racconto di Fantapsicologia

Dove nasce il concetto di bellezza spesso esaltato in molte favole? E per quale motivo è così importante raccontarci che tutti, bambini e futuri adulti, prima o poi raggiungeremo questo ideale di bellezza?

 

Ai bimbi brutti, perché, sia detto per inciso, esistono anche i bimbi brutti che appaiono tali a tutti tranne che alla mamma affetta dal noto bias dello “scarafone” sviluppatosi a protezione della diversità genetica contro l’affermarsi dell’eugenetica fai da te da cassonetto, è da sempre raccontata la consolatoria favola del brutto anatroccolo, il quale comunque i suoi guai li aveva essendo stato abbandonato in un altro nido da mamma cigna, forse perchè frutto di una relazione extraconiugale infrequente nel monogamo mondo dei lunghi colli pennuti.

La favola comunque non mette in discussione il valore assoluto della bellezza ma anzi lo esalta. L’effetto rassicurante che genera nei bambini e nei preadolescenti impegnati negli inquietanti mutamenti del corpo è dovuto a due argomentazioni che sembra suggerire. La prima, evidentemente fallace, suggerisce che la bruttezza sia transitoria come l’influenza che prima o poi passa quando evidentemente non è così: se si è brutti tali si resta e semmai si può anche peggiorare sovrapponendoci le stimmate fisiche e psicologiche della tristezza e della rabbia per la propria condizione ritenuta ingiusta. La seconda, più sofisticata e meno evidente, è che la bellezza è un concetto relativo dipendente dai criteri dell’osservatore che cambiano da persona a persona (“dipende dai gusti”) e ancora più evidentemente da un epoca all’altra e da cultura a cultura.

Insomma non è che i cigni siano belli e le anatre no o viceversa, semplicemente ognuno apprezza i propri simili e tende a rifiutare e maltrattare i diversi soprattutto se arrivano dall’acqua (con ciò non si vuole paragonare Salvini ad un’oca, povere bestie!).

Naturalmente è facile identificarsi con il brutto anatroccolo perché ognuno di noi si sente un po’ brutto e suscita simpatia finché resta tale prima dell’impennata di orgoglio dello scoprirsi cigno che rischia rapidamente di rendercelo odioso.

Nella nostra cultura occidentale dove il narcisismo evaso dalle segregazioni nosografiche si è accasato all’attico dei valori esibiti sarebbe forse meglio raccontare ai bimbi belli e soprattutto alle bimbe belle sottocategoria “I only have it”, la favola della cigna farcita scritta da Kurt Andersen il fratellastro cattivo di Hans Christian cresciuto in orfanatrofio.

“I only have it”: non esiste solo la favola del brutto anatroccolo

Ciù Ciù era una cignetta nata nel nido giusto vezzeggiata da genitori e fratelli per la sua bellezza. Il collo che sembrava tracciato da Modigliani, fingendo modestia, lo nascondeva piegato sotto le grandi ali dalle penne candide e forti che boriosamente arruffate la assomigliavano ad una meringa da divorare. Il profilo del ciuffo di piume sul sedere, degno di una locandina di Tinto Brass, era consapevole fosse l’attrazione principale di tutto lo stagno. Tutti i maschi che la corteggiavano venivano sdegnosamente respinti, nessuno ritenuto degno di nuotarle a fianco, figuriamoci di montarle sopra. Godeva dell’invidia delle compagne per cui rappresentava un odiato benchmark. Le dighe e le canne si aprivano al suo passaggio, le ninfee fiorivano e odoravano in suo omaggio, tutto le era dovuto.

Non doveva preoccuparsi di niente, tutto le si porgeva come doveroso tributo alla sua bellezza. All’inizio ne gioiva ma col tempo le sembrò scontato iniziando ad irritarsi per le piccole mancanze e i ritardi di quanti presupponeva eterni servitori che prese a maltrattare.

Una stagione di siccità che non si ricordava a memoria d’uomo prostrò la contea: uomini e animali patirono la fame. Tutti preoccupati di ben altro trascurarono la bellezza di Ciù Ciù e i servigi nei suoi confronti cessarono. Del resto anche lei era smagrita e le morbide curve del suo corpo si erano inspigolite, la lucentezza delle piume opacizzata e il nero del becco ingrigito. Ovviamente era fieramente single e in una specie assolutamente monogama come quella dei Cigni divenne difficile persino concedersi un’avventuretta con i compagni delle altre che la guardavano in cagnesco per la sua passata spavalderia.

Spinta dalla fame si avvicinò alla fattoria per beccare nella ciotola di Artù il cane del fattore, non le sembrava giusto che avesse tutto quel cibo. Il pastore maremmano non la prese bene e la morse all’attaccatura dell’ala che da quel giorno iniziò a trascinarsi pendente. Ma la sua fiera ribellione, pensò, doveva pur essere servita a qualcosa perchè da allora i contadini preparavano ogni giorno un pappone di segale e granturco soltanto per lei in un piccolo recinto ai bordi dello stagno dove nessuno poteva sottrarglielo.

Non credo per i cigni si usi questo termine, ma il drammatico “insight” lo ebbe i primi di dicembre quando si rese conto che ormai da mesi tutti i tacchini erano stati venduti ai ricchi che potevano permetterseli e il Natale era alle porte. Indurita com’era necessitò di una cottura molto prolungata, che non bastò a evitare la sentenza del piccolo Mario “fa proprio schifo!”.

 

Le relazioni al tempo degli smartphone

Le nuove tecnologie ormai sono ovunque, in particolare gli smartphone sono sempre con noi. Sono con noi al supermercato, dal medico e persino nel letto prima di dormire.

 

Il 50% degli intervistati in una ricerca condotta in America riferisce di non poter vivere senza. Chiunque, in compagnia di un amico, un familiare o un partner, è stato distratto dal cellulare e ha sperimentato che l’utilizzo dello smartphone possa aver lasciato nell’altra persona un senso di vuoto e allontanamento. In linea con ciò esiste un filone di ricerche che analizza la tecnofobia e la potenziale interferenza dei “Device” nelle interazioni sociali faccia a faccia.

Smartphone e relazioni: lo studio

I ricercati dell’Università dell’Arizona e dell’Università Wayne State di Detroit hanno cercato di dar alcune risposte alle motivazioni delle “tecnoferenze”. Una delle spiegazioni per cui siamo cosi attratti dagli smartphone anche in situazioni in cui siamo con i nostri cari, potrebbe essere causata dalla nostra storia evolutiva. Gli essere umani nel corso della storia hanno sempre fatto affidamento alle strette relazioni familiari o amicali per la sopravvivenza. Queste relazioni erano fondate su principi basilari come la fiducia e la cooperazione, che nascono soltanto quando si inizia a rivelare informazioni personali su se stessi e sugli altri.

Pertanto attraverso gli smartphone possiamo creare reti molto grandi e lontane; in più, grazie ad un accesso costante ad internet e alla rete telefonica possiamo scambiare messaggi e molto altro, rendendo sempre più facile il divulgare informazioni personali e rispondere agli altri con i social network. I ricercatori affermano come le nuove tecnologie siano in qualche modo connesse ai moduli molto vecchi del funzionamento cerebrale attivando cosi comportamenti similari ai nostri antenati, caratterizzati da due elementi: l’autorivelazione e la reattività.

A causa di questi ultimi due fattori può capitare che parlando con un familiare ci si imbatta nei social network attraverso lo smartphone, e ci si distragga, attratti dal bisogno di divulgare informazioni ed essere sempre reattivi a tutti gli stimoli che si presentano, come le notifiche o i post tipici dei social.

Smartphone e relazioni: una riflessione necessaria

Per gli studiosi questo fenomeno potrebbe incentivare uno squilibrio tra i comportamenti sociali che consolidano le relazioni sociali e quelli che creano una nuova cerchia sociale. Infatti queste tecnologie potrebbero avere effetti indesiderati sulle relazioni attuali, proprio come afferma uno studio in cui il 70% dei partecipanti hanno riferito come ciò già accade nelle loro relazioni.

Concludendo, gli autori di questi studi non vogliono demonizzare le nuove tecnologie, anche perchè queste offrono molti vantaggi per la salute e il benessere, ma il fenomeno che hanno esplorato deve comunque essere approfondito con nuove ricerche incentrate sul ruolo degli smartphone nelle relazioni sociali, analizzando le forze sociali che le caratterizzano.

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