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Mutismo selettivo: sviluppo, diagnosi e trattamento multisituazionale (2018) a cura di G. Rezzonico, E. Iacchia, M. Monticelli – Recensione del libro

Il volume Mutismo selettivo: sviluppo, diagnosi e trattamento multisituazionale, edito da Franco Angeli, presenta una panoramica dell’evoluzione concettuale del Mutismo Selettivo e del possibile intervento, illustrando un particolare tipo di trattamento che viene definito multisituazionale (Multi-Situational Treatment, MST).

 

La prima parte del volume è dedicata alla definizione del mutismo selettivo, un disturbo non così noto sfino a qualche anno fa e che ancora oggi presenta non poca confusione anche tra i professionisti.

Mutismo selettivo: la definizione di un disturbo poco conosciuto

Diverse definizioni e classificazioni sono state attribuite a questo disturbo, partendo dall’idea che l’essenza della parola, elemento caratterizzante del disturbo, fosse un comportamento provocatorio messo in atto volontariamente dal bambino fino a giungere all’odierna classificazione del disturbo come disturbo d’ansia e alla sua definizione riassumibile come segue: disturbo caratterizzato dalla costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche in cui ci si aspetta che si parli, nonostante si sia in grado di parlare in altre situazioni.

Dopo un panoramica circa l’esordio, il decorso e gli strumenti di valutazione disponibili, il modello alla base della nascita del disturbo e i trattamenti ad oggi messi in atto, il secondo capitolo illustra il concetto alla base della ricerca condotta dagli autori. L’idea cardine, sia della ricerca sia di questo testo, è quella di presentare un modello di intervento non statico ma integrato che vada a identificare gli elementi chiave che permettono il mantenimento del disturbo, il quale svolge una funzione adattiva nella vita del soggetto. Congiuntamente a questo, l’obiettivo del clinico è quello di creare una relazione interpersonale andando a definire quello che gli autori chiamano trattamento multisituazionale.

Mutismo selettivo: il trattamento multisituazionale

Sessantuno clinici con esperienza nel campo del mutismo selettivo, hanno preso parte a un’intervista semistrutturata. Tali interviste poi sono state analizzate tramite la metodologia della Grounded Theory di base costruttivista. Quello che è emerso è stata la presenza di due grandi temi riassumibili in: fattori di mantenimento e trattamento multisituazionale, ognuno dei quali poi sezionabile in diversi processi analizzati dettagliatamente nel corso del volume.

L’idea centrale è quella di osservare il sintomo con un’altra lente e concepirlo come espressione situazionale, abbandonando la prospettiva che limita la visione solo alla dimensione individuale per ampliare invece lo sguardo al sentire emotivo personale del soggetto che cambia nelle diverse situazioni.

L’importanza di un intervento che sia declinato nelle diverse situazioni è talmente pregnante che la seconda parte del manuale è dedicata alla descrizione dei diversi ambiti di vita del soggetto, soffermandosi in particolare modo sul contesto familiare, scolastico e sull’ambiente terapeutico, anche nelle sue declinazioni quali arte-terapia, tecniche espressive e musicoterapia. Verso la conclusione del testo è presentato un aspetto innovativo ideato e condiviso dagli autori del libro insieme all’Associazione Italiana MUtismo SElettivo: il contesto residenziale dei soggiorni terapeutici i quali rappresentano a loro modo una forma di trattamento rivolta sia ai bambini/ ragazzi sia alle famiglie che partecipano ad attività a loro dedicate.

Il libro Mutismo Selettivo: sviluppo, diagnosi e trattamento multisituazionale è scritto e pensato da autori tra i più esperti nel campo del mutismo selettivo e appare estremamente utile per quei clinici che desiderano approcciarsi a questo disturbo.

Si potrebbe definire un libro quasi tecnico, dedicato agli addetti ai lavori perché definisce un nuovo modello di intervento utilizzabile in ambito cinico e offre alcuni spunti concreti da utilizzare nel rapporto terapeutico.

Il contributo più prezioso che emerge dallo scritto è quello di, riprendendo l’analogia precedente, non limitarsi ad un unico paio di occhiali ma utilizzando lenti diverse osservare tutte le situazioni che il soggetto vive e di comprendere gli elementi che caratterizzano tali situazioni avendo alla fine non una sola via di intervento ma diverse strade trasversali in un approccio che così facendo risulta essere multisituazionale.

Il consumo di MDMA influenza la capacità di essere empatici

È noto che l’uso di MDMA (anche conosciuta come ecstasy) aumenti i propri livelli di empatia nel breve termine, uno studio però sembra suggerire che questi stessi effetti possono prolungarsi anche sul lungo periodo.

 

L’ecstasy o MDMA è classificata come droga di classe A nel Regno Unito e attualmente ne è vietato l’impiego per qualsiasi uso medico. Tra i suoi effetti è noto un aumento del livello di empatia.

Un recente studio pubblicato su Journal of Psichopharmacology e condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Exeter con a capo la Dott.ssa Molly Carlyle, ha voluto confrontare i risultati riguardanti i livelli di empatia di soggetti che facevano uso di differenti tipologie di droga: 25 soggetti assumevano diverse tipologie di droghe (cannabis, cocaina, ketamina) ed anche MDMA, 19 soggetti assumevano diverse droghe (cannabis, cocaina, ketamina) ma non MDMA, infine, 23 soggetti facevano uso solo di alcol.

Tutti i soggetti che sono stati reclutati come campione oggetto di studio erano consumatori che facevano un uso lieve/moderato di MDMA (con utilizzo minimo di 10 volte). Scopo dei ricercatori era infatti quello di verificare non solo che i livelli di empatia di chi consuma questo tipo di droga siano più elevati rispetto a chi fa uso di altre droghe, ma anche se l’uso di tale droga per un periodo prolungato potesse avere conseguenze sul lungo termine tali da poter far ripensare ad un suo utilizzo a fini medici.

Dai risultati ottenuti, è emerso in effetti che coloro che consumavano MDMA riferivano di provare molta più empatia rispetto ai soggetti che non ne facevano uso e che invece privilegiavano altri tipi di droghe. I ricercatori sono stati in grado di arrivare a queste conclusioni attraverso un compito sperimentale il cui scopo era quello di indagare la capacità dei soggetti di discriminare le emozioni delle altre persone.

Lo studio inoltre smentisce i dati provenienti dalla letteratura precedente, secondo cui il consumo di ecstasy è causa di un marcato disagio sociale. Anzi ciò che emerge è che chi consuma MDMA ha un livello di empatia migliore rispetto a chi abusa di altre sostanze ed un livello di empatia simile a chi fa uso solo di alcol.

Il disegno sperimentale

Ai 67 partecipanti dello studio è stato chiesto di completare un questionario che valutava il loro livello di empatia e poi di svolgere alcuni compiti computerizzati nei quali dovevano discriminare le emozioni solamente guardando le espressioni facciali delle immagini, raffiguranti i volti di diverse persone.

Inoltre, ai partecipanti veniva richiesto di riferire come si sentissero, ogni volta, nel vedere le diverse immagini, comunicanti diverse emozioni.

I ricercatori hanno misurato sia il livelo di empatia cognitiva (ovvero l’abilità di riconoscere le emozioni degli altri) sia di empatia emotiva (cioè la capacità di provare determinate emozioni che sono conseguenti alle emozioni degli altri).

Risultati e Conclusioni

Quello che è emerso è che i consumatori di MDMA, durante i compiti svolti al computer, provavano maggiori livelli di empatia emotiva e di empatia cognitiva rispetto ai soggetti che assumevano differenti tipologie di droga. È stata invece riscontrata solo una piccola differenza tra il gruppo di consumatori di MDMA e il gruppo di coloro che faceva abuso di alcol. Tutti i soggetti hanno mostrato un abbassamento dell’umore e dell’autostima in risposta all’esclusione sociale, senza differenze tra i gruppi.

Il livello di empatia e dolore sociale nei consumatori di MDMA erano coerenti con il normale funzionamento psicosociale. Dallo studio si evince anche il fatto che un uso prolungato di MDMA possa causare uno stress sociale amplificato; questo risultato contraddice gli studi precedenti.

Lo studio vuole mostrare come un uso leggero di MDMA non si possa associare ai problemi legati al funzionamento sociale. Inoltre, sembra che chi consumi MDMA abbia un livello di empatia migliore rispetto a chi fa uso di altre droghe e raggiunga livelli simili a chi abusa di alcol.

Per concludere, non si sa se le differenze nella capacità di provare empatia siano dovute esclusivamente all’utilizzo o meno di questa tipologia di droga o se entrino in gioco altri fattori. Sicuramente, sarebbe interessante indagare in futuro l’efficacia dell’uso di MDMA come un possibile trattamento psicofarmacologico, secondo dosi opportunamente testate e precise prescrizioni mediche, dal momento che dai risultati di questo studio si evince che l’uso di MDMA non ha effetti collaterali su alcuni processi sociali cruciali.

La mia vita con un PADRE DOC. Una testimonianza e un caso per riflettere (2018) di Rossella Sardi – Recensione del libro

La mia vita con un “PADRE DOC” è una testimonianza in prima persona delle vicende dell’autrice, una donna di 52 anni intenta a ripercorrere i passaggi generazionali della sua storia di vita, passando dal ruolo di bambina e figlia, a quello di studentessa, moglie, madre e lavoratrice, con la costante presenza del difficile e sofferente rapporto con un padre affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo

 

Secondo l’autrice il DOC del padre sarebbe in comorbidità con Ipocondria e tratti narcisistici della personalità. Costantemente altamente insoddisfatto di tutto e di tutti, pignolo, pedante e pretenzioso perfezionista, di una perfezione che di fatto non esiste, quest’uomo è un padre che persegue la continua, angosciosa e frustrante ricerca di una perfezione che non raggiunge mai, perché spinta e mantenuta soltanto dal suo implacabile bisogno di gestire l’ansia.

La mia vita con un “padre DOC”: il ritratto di una famiglia sofferente

L’autrice esprime attraverso le esperienze della sua vita, la tortura psicologica ed il disagio derivanti dalla pretesa di suo padre affetto da DOC, che è sostanzialmente sempre quella di richiedere alle persone a lui vicine di adeguarsi e soddisfare le sue urgenze, che sono sempre vissute come assolute. Tutto deve essere fatto nel modo assurdo stabilito dal padre, visto che non concepisce altri modi, che pretende un ordine ferreo e una pulizia illogici e che, in sostanza, esigendo senza contraddizioni che tutti i suoi rituali siano appoggiati, impone un modo di essere e agire che appare palesemente senza senso ai suoi familiari, i quali ciononostante tendono ad avallarlo, per evitare i suoi insostenibili momenti di nervosismo, lamentosità e aggressività. Spessissimo era svalutante e denigrante coi suoi familiari.

La mia vita con un “padre DOC”.. e ipocondriaco

Ad aggravare maggiormente questa situazione, la costante preoccupazione di questo padre per le malattie, che lo costringevano ad una costante attenzione sulle proprie sensazioni fisiche: si fissava sui sintomi più disparati, che non venivano mai confermati dai medici. Ignorando il suo medico di base, consultava sempre tanti specialisti, che presto venivano considerati degli incapaci, che non riuscivano a capire i suoi sospetti. Per tutta la sua vita assunse medicine in grande quantità, ma nonostante tutto si lamentava in continuazione dei suoi disturbi con tutti, anche extrafamiliari, come in una cantilena senza fine.

Stanchezza, rabbia, senso di impotenza, frustrazione, mancanza di speranza, paura, vergogna, senso di colpa, i familiari di una persona affetta da DOC navigano in queste acque emotive. I figli cominciano fin da bambini a fare esperienza di questa sofferenza. I familiari di un’ossessivo si ritrovano in casa

come una statua di De Chirico in quelle piazze immobili, fisse, imbalsamate. Una statua che si innalza ferma e morta. Una morte contemporanea dell’uomo e del mondo. (V. Andreoli).

 

La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la terapia cognitiva (2018) – Recensione del libro

Dopo aver letto La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la terapia cognitiva, noi curanti non potremo più dire “io non sapevo cosa fare”, perché la grande equipe clinica e di ricerca che si raccoglie intorno a Francesco Mancini presenta l’armamentario completo che abbiamo a disposizione per attaccare questo oscuro male chiamato depressione.

 

Dopo “La mente ossessiva”, tradotto in molte lingue, il gruppo di clinici e ricercatori che si raduna intorno a Francesco Mancini e alla scuola di psicoterapia cognitiva, condensa oltre venti anni di esperienza con un volume sulla depressione che descrive lo stato dell’arte circa la comprensione della depressione e i molteplici possibili interventi clinici.

La depressione è la malattia che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità comporta la maggiore sofferenza, una grave disabilità con enormi costi economici e un tributo incredibile di morti per suicidio (al primo posto tra le cause di morte dei giovani).

Dopo il volume La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la terapia cognitiva, noi curanti non potremo più dire “io non sapevo cosa fare”, perché la grande equipe clinica e di ricerca che si raccoglie intorno a Francesco Mancini presenta l’armamentario completo che oggi nel mondo si ha a disposizione per attaccare l’oscuro male che è apparentemente senza motivo e che dunque attira le colpevolizzazioni di parenti e amici, che ricordano al disperato che nulla gli manca non riuscendo a capire che invece tutto gli manca e ha perduto persino se stesso per cui il mondo gli appare grigio, freddo, impolverato e privo di ogni attrattiva e ogni giornata un calvario inaffrontabile.

Il depresso si sente triste e vuoto e si lamenta continuamente. Nulla sembra interessarlo e anche le attività comunemente considerate gradevoli non lo attirano e gli appaiono un inutile peso. Si sente stanco e affaticato ed il più piccolo compito gli sembra insormontabile. Si ritiene un fallito, un essere indegno e colpevole della sua situazione e delle sofferenze che provoca negli altri. Verso gli altri, anche i familiari vicini, non prova affetto e se lo rimprovera. Non riesce a concentrarsi e a decidere alcunché. Spesso desidera la morte come l’unica possibile liberazione. In sintesi si ha l’impressione dello spegnimento dell’energia vitale. Come se un po’ fosse già morto. Tutto è ridotto: interessi, desideri, attività, affetti. Gli scambi con l’esterno vanno verso la sospensione. Quello che è peggio e che diventa il fattore principale di rinforzo e mantenimento è il cosiddetto “problema secondario” ovvero il fatto che il soggetto giudica inadeguata, indegna e colpevole la sua stessa reazione (l’essere appunto depresso) e per questo si svaluta e si colpevolizza.

Il depresso è pesante e viene spesso isolato in una società come la nostra che rinnega la sofferenza e persino la morte. Anche per i terapeuti il depresso è defatigante e l’impotenza che ci fa sperimentare attiva talvolta ostilità nei suoi confronti. Quante volte abbiamo sentito un depresso dire che avrebbe preferito un tumore a quel cancro invisibile dell’anima che finisce per essere vissuto come una colpevole mancanza di volontà.

Modello teorico ed esperienza clinica

Il volume La mente depressa prospetta un elegantissimo modello teorico della trappola depressiva che fa entrare il soggetto colpito da una perdita, e che dunque sperimenta tristezza, un’emozione sana e utile, in un loop per cui per non perdere completamente o ancora di più il bene perduto, concentra tutti i suoi sforzi nel tentativo di trattenerlo e di non allontanarsene ulteriormente, con il doppio disastroso risultato di desertificare tutto il resto della sua esistenza che progressivamente perde di valore (anche le persone più care perdono importanza e il soggetto sperimenta “il doloroso sentimento della perdita dei sentimenti” per cui in aggiunta si colpevolizza), la concentrazione sull’oggetto perduto lo rende progressivamente più importante fino a coinvolgere l’amabilità, il valore e la dignità del Sé, e così il dolore paralizzante tende continuamente ad aumentare prospettando la morte come unica grande consolatrice.

Questo modello argomentato profondamente con dati di ricerca ed esperienze cliniche (anche difficili e non soltanto facilmente di successo come si trova spesso nei libri) è utilizzabile anche da curanti con una formazione diversa da quella cognitivista. Allo stesso modo possono essere utilizzate, anche da altri approcci, il ventaglio di tecniche che vengono presentate teoricamente ed esemplificate praticamente, in particolare quelle della cosiddetta “terza ondata” del cognitivismo oggi tanto di moda. Nel libro La mente depressa si affronta anche il problema dello sviluppo dei fattori protettivi rispetto all’insorgenza della depressione e alla prevenzione delle ricadute.

Machine learning: realtà o fantascienza?

Le recenti evidenze provenienti dalle neuroscienze cognitive riguardo i processi decisionali stanno incrementando le conoscenze volte allo sviluppo di sistemi robotici intelligenti ispirati al cervello umano

 

Questi sistemi robotici sarebbero in grado di apprendere in un contesto dinamico reale, contraddistinto da imprevedibilità e rumore, come sottolineato dal focus di Lee e Seymour pubblicato recentemente su Science Robotics.

Lo scopo è quello di accrescere l’insight sui sistemi di controllo delle azioni dei robot a partire da modelli di apprendimento più strutturati ed efficienti sviluppando al contempo nuove teorie circa la computazione delle decisioni umane caratterizzate da continui compromessi tra velocità-efficacia della performance, cooperazione-competizione.

Potremmo sorprenderci spaventati dall’idea di poterci trovare in futuro ad interagire con macchine intelligenti e robot con caratteristiche fisiche simili alle nostre, in grado di muoversi autonomamente nell’ambiente e relazionarsi con il mondo che li circonda al pari dell’uomo.

Per fortuna o sfortuna, dipende dalla propria opinione a riguardo, quel futuro è ancora lontano: attualmente infatti non esistono sistemi di intelligenza artificiale o macchine in grado di equivalere in tutto e per tutto all’uomo in ogni sua singola caratteristica.

Tuttavia quel futuro, per quanto lontano, per certi versi è più prossimo di quanto pensiamo.

Machine learning: sistemi intelligenti che replicano le nostre capacità

Grazie ad alcune recenti evidenze in campo neuroscientifico circa il modo in cui l’essere umano o l’animale apprende, ricorda e utilizza informazioni per rispondere ed adattarsi all’ambiente circostante, si è attualmente in grado di realizzare soluzioni e sistemi “intelligenti”, definiti machine learning, che imparano dall’esperienza e che sono in grado di prendere decisioni selezionando la scelta migliore tra le diverse e più sfaccettate opzioni a disposizione (Lake, Ullman, Tenenbaum & Gershman, 2017) utilizzando come modello teorico di riferimento quello del funzionamento del cervello umano.

In particolare, un modello teorico che sta avendo molto successo nell’ambito delle neuroscienze cognitive per la comprensione dei processi di decision-making umani, di quei processi cioè che consentono ad un sistema di scegliere tra alternative a cui sono associate a loro volta diversi esiti come ad esempio selezionare la linea d’azione reputata migliore per il raggiungimento del proprio scopo o formulare un giudizio a partire da informazioni di vario genere, è quello dell’apprendimento per rinforzo (reinforcement learning; RL; Lee, Seymour, Leibo et al., 2019).

Nel modello computazionale della presa di decisioni, l’apprendimento per rinforzo afferma che la presa di decisioni altro non è che la risoluzione di dilemmi e problemi nella scelta fra diverse opzioni per tentativi ed errori.

L’integrazione tra il linguaggio matematico dei modelli computazionali e gli studi provenienti dalle neuroscienze cognitive non cerca soltanto di creare dei sistemi intelligenti “superperformanti” ma di illuminare i processi che sottostanno la percezione, il controllo dell’azione, l’apprendimento e la memoria, il linguaggio e altri processi cognitivi.

Machine learning e controllo del processo decisionale

La comprensione della mente umana è qualcosa di assai affascinante ma estremamente complesso e pertanto richiede modelli computazionali e algoritmi che possano accuratamente tradurre i meccanismi interni del sistema per poterlo riprodurre.

A tal proposito, seguendo questo modello, evidenze provenienti dallo studio di Daw, Niv & Dayan (2005) suggeriscono che il cervello umano utilizza diversi meccanismi di controllo dei processi decisionali ognuno caratterizzato da prestazioni, previsioni, carichi cognitivi, velocità ed efficienza nell’esecuzione dell’azione diversi.

I processi decisionali umani sono favoriti in particolare da due strategie di controllo, una più basata sulle contingenze ambientali, l’altra maggiormente guidata da finalità e scopi ben precisi, più costosa e impegnativa in termini di risorse cognitive.

Essa infatti consente di apprendere un modello dell’ambiente circostante e utilizzare le informazioni appena ottenute per adattarsi rapidamente ai cambiamenti nella struttura ambientale diversamente dalla prima strategia (Daw, Niv & Dayan, 2005).

Questa distinzione tra le due strategie di apprendimento suggerisce un inevitabile compromesso da parte del sistema nella selezione della strategia di apprendimento più utile per la presa di decisione e una complementarietà quando esso si trova a dover fronteggiare e rispondere a necessità diverse: la prima strategia infatti risulta più veloce e in grado di implementare azioni in automatico ma è anche meno accurata e meno precisa rispetto alla seconda in termini di accuratezza nelle previsioni sull’effetto di quell’azione (Lee, Seymour, Leibo et al., 2019).

Lee, Seymour e colleghi (2019) sottolineano che gli umani, rispetto ai sistemi artificiali, sono in grado di adattarsi rapidamente alle dinamiche ambientali quando queste si modificano improvvisamente e con frequenza, sfruttando le conoscenze a disposizione, anche se ridotte, facendo al contempo un’analisi dei costi-benefici in termini di efficienza/velocità della performance; attualmente gli algoritmi dei sistemi di machine learning hanno bisogno di una quantità di tempo e di dati maggiore.

Machine learning e meta-controllo del processo decisionale

In aggiunta a questo, il nostro sistema ha a disposizione un ulteriore “apparato” che si potrebbe definire di “metacontrollo” che può scegliere di applicare una tra le due diverse strategie di apprendimento e controllo dell’azione da utilizzare in quella specifica situazione o contesto ambientale, dando priorità di volta in volta o ad un’azione più accurata quando è possibile fare una previsione affidabile o ad un’azione più veloce e automatica quando sono poche le informazioni a disposizione a seconda anche del livello di fiducia nelle proprie stime e del grado di incertezza del contesto (Lee, Seymour, Leibo et al., 2019).

Un altro punto importante da riproporre nei sistemi artificiali riguarda l’apprendimento sociale e la presa di decisione nei contesti di interazione in cui spesso si presentano dilemmi competitivi o cooperativi.

Per l’imitazione di tali dinamiche, solitamente si utilizzano due fasi per far sì che i sistemi artificiali apprendano: nella prima vi è una fase di pianificazione nella quale l’ “agente” passa in rassegna tutte le regole del gioco dell’interazione simulando prima con se stesso le varie opzioni per le linee d’azione più o meno cooperative, nella seconda invece si trova ad implementare quelle linee decisionali apprese nella simulazione.

Infine Lee, Seymour e colleghi (2019) sottolineano che gli algoritmi che si basano su Reinforcement Learning sono ancora caratterizzati da un’eccessiva sicurezza nella stima delle loro predizioni circa la performance soprattutto in ambienti complessi e dinamici in cui non sono in grado di apprendere velocemente, caratteristica non presente negli umani che elaborano la propria performance per avere una stima di confidenza o incertezza sui possibili effetti a seguito della linea d’azione scelta: per esempio, un compito semplice o un ambiente circostante stabile potrebbe generare nell’agente che apprende una stima di maggior confidenza sulla propria linea d’azione da adottare, al contrario una maggiore incertezza potrebbe generare strategie d’azione più caute o difensive (Boureau, Sokol-Hessner & Daw, 2015).

 

Per quali motivi la corruzione è così diffusa e difficile da estirpare?

La corruzione è un fenomeno tristemente noto e che accompagna la storia dell’uomo da tempi molto antichi. Qualcuno dà e qualcuno prende, in cambio di qualche favore. Nonostante possa sembrare un processo molto semplice, il fenomeno è in realtà più complesso di quanto si pensi.

 

La portata dell’ammontare monetario che finisce per essere utilizzato ogni anno in operazioni di corruzione di qualsiasi natura è enorme, secondo la World Bank tale cifra si aggira intorno al miliardo di dollari.

Ma quali sono le cause e i motivi che spingono le persone ad accettare di essere corrotte?

Se si riuscisse a rispondere a questa domanda forse potremmo finalmente mettere in atto interventi in grado di modificare e ridurre tale fenomeno.

Lo studio

Alcuni ricercatori della Carnegie Mellon University (Gneezy, Saccardo & van Veldhuizen, 2019) hanno cercato di individuare qual è il motivo principale che si nasconde sotto i fenomeni di corruzione e spinge gli individui ad accettare di essere corrotti.

Nell’esperimento condotto dai ricercatori, veniva chiesto a due partecipanti di inventare delle barzellette da sottoporre poi al giudizio di un terzo soggetto sperimentale che avrebbe svolto il ruolo di giudice in questa gara. I partecipanti avevano inoltre la possibilità di cercare di corrompere sottobanco il giudice, offrendogli fino a 5 dollari.

I risultati di questo esperimento mostrano che, nel momento in cui il giudice poteva accettare solo una delle due mazzette avanzate dai partecipanti, nella valutazione di quale barzelletta premiare, la qualità della stessa veniva praticamente ignorata. Quasi tutti i giudici infatti preferivano prendere i soldi che gli venivano offerti piuttosto che valutare onestamente la qualità della barzelletta scritta dai partecipanti.

Quando invece ai giudici veniva offerta la possibilità di prendere entrambe le mazzette succedeva qualcosa di ben diverso: nell’84% dei casi veniva premiata la barzelletta più divertente anche se la persona che l’aveva scritta aveva presentato una mazzetta di un ammontare inferiore rispetto all’altro partecipante. In tale situazione la qualità della barzelletta tornava dunque ad essere importante.

Nella terza ed ultima situazione sperimentale, ai partecipanti è stato chiesto di aspettare due minuti prima di cercare di corrompere il giudice. Questo ha dato modo al giudice stesso di leggere e valutare le barzellette senza la pressione di un tentativo di corruzione. In questo caso lo scenario cambiava totalmente in quanto per i giudici era più difficile giustificare la propria disonestà ed accettare una mazzetta a fronte di una decisione, almeno mentalmente, già presa. Aumentando pertanto il costo morale della presa di decisione e trovando più difficile il giustificare una decisione presa solamente sulla base del denaro, i giudici hanno scelto la barzelletta migliore nel 81% dei casi.

In conclusione

Sulla base dei risultati appena riportati, secondo gli autori dello studio gli interventi miranti a ridurre l’incidenza della corruzione dovrebbero dunque puntare proprio sul cercare di rendere più salienti i costi morali dell’accettare una mazzetta; ad esempio si potrebbe esplicitamente chiedere alle persone che compiono una valutazione di qualsiasi genere di prenderla seguendo dei criteri oggettivi.

Quella volta che ho giocato a Fortnite con un paziente

Teo ha 14 anni, lo sguardo schivo e il sorriso amaro. È appassionato di informatica, videomaking e videogiochi. All’apparenza, è un tipico adolescente. Teo, però, ha qualcosa in più degli altri..

Vanessa Bottiglieri

 

Teo, quando ha troppa gente sconosciuta intorno, urla: “Ebrei, mi state uccidendo!”, scappa e si ripara sotto i tavoli. Quando non trova i tavoli, si rannicchia in un angolo o si nasconde sotto le sedie. Non c’è modo di fermarlo, non c’è verso di calmarlo, gli si ripete inutilmente di alzarsi in piedi. Teo si decontestualizza, va in blackout e torna tranquillo soltanto se lo ha deciso lui. Quando si diverte batte i pugni sul tavolo, arrossisce e affannato, comincia a sudare.

Fortnite: il modo per conoscere Teo

Quando si arrabbia potrebbe arrivare ad aggredire. Teo ha un discontrollo degli impulsi. Parla velocemente, spesso interrompe chi gli fa una domanda perché ha già capito, ha già risposto. Sa che l’alluminio deriva dalla bauxite e che il vetro si produce dalla sabbia. Ha un Q.I. superiore alla media. La vita di Teo non è stata semplice; un papà assente, una mamma infelice. Due volte Teo ha trascorso alcuni dei suoi giorni da bambino in una comunità e quando sua madre stava bene e andava a prenderlo, lo portava in case fatiscenti nelle quali Teo ha sentito tante parole d’odio e visto chissà cosa nascosto sotto a un tavolo.

Per fortuna, Teo ha una nonna tanto buona che lo ha portato a casa con sé, di notte lo abbraccia e ai compleanni gli fa le torte. Ogni tanto, esasperata, maledice il giorno in cui è andata a prenderlo, allora Teo la guarda, gli salta in collo e avvilito, le chiede: “Ma tu mi vuoi bene?”, poi la perdona. Teo sa che una nonna, a 84 anni, non si aspetta di dover crescere un ragazzino. Teo ha anche una brava terapeuta, l’unica persona alla quale confida che qualche volta si sente triste, l’unica persona che riesce veramente a leggerlo e che è capace di tirare fuori le unghie per i suoi diritti e parole gentili per le sue debolezze.

Ho conosciuto Teo a causa della fama di urlatore che si è guadagnato nel centro di riabilitazione in cui sto svolgendo un tirocinio. La prima volta che l’ho visto era seduto al bar del centro con altri tirocinanti e aveva la testa china su tre babà. Ho pensato subito che era l’unico bambino al mondo al quale piacessero i babà e gliel’ho anche detto, lui, senza guardarmi, ha sorriso ai babà e credo abbia pensato: “Ho 14 anni, mica 6”. Non è stato facile entrare in confidenza con Teo; molte volte mi ha spaventato con le sue urla e mi ha tirato oggetti contro, una volta, per gioco, mi ha chiusa a chiave in una stanza e un’altra volta ho dovuto raccogliere i pezzi di una scrivania che aveva spaccato in più parti. Al centro avevamo capito che, spesso, Teo andava in blackout quando gli si chiedeva di spegnere il computer, pensai, quindi, di avvicinarmi a lui proprio mentre era incollato allo schermo per capire cosa facesse. È così che Teo ha cominciato a parlarmi del suo canale YouTube nel quale pubblica video di giochi per il pc e la consolle, in gergo, i walkthrough, video in cui si registrano e si commentano intere sessioni di gioco, una pratica diffusissima tra youtuber. I video più ricorrenti nel canale di Teo riguardano Fortnite.

Fortnite: riflessività e pianificazione per Teo

Fortnite è un videogioco di successo senza eguali: a distanza di quasi un anno dall’esordio sul mercato, è riuscito a conquistare oltre 125 milioni di utenti sparsi in tutto il mondo.

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Fortnite quando un videogioco diventa prezioso per una terapia foto 2

La metà della popolazione mondiale dei 10-15enni gioca a Fortnite. In Fortnite sono presenti due diverse modalità di gioco: “Salva il mondo” che è ambientato sulla Terra, in uno scenario post-apocalittico in cui in modalità cooperativa fino a 4 giocatori si ha il compito di risolvere diverse missioni, dal procacciamento di risorse alla protezione dei sopravvissuti; e “Battaglia Reale”, che è la modalità di gioco che ha fatto la fortuna di Fortnite. In “Battaglia Reale” 100 giocatori sono catapultati su un’isola e hanno il compito di lottare per sopravvivere, da soli o in squadra. Non appena il numero di giocatori inizia a diminuire perché abbattuti dagli avversari in modi più o meno creativi con armi e trappole, la mappa del gioco inizia a restringersi, dando vita a battaglie intense, fino all’ultimo respiro.

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Fortnite quando un videogioco diventa prezioso per una terapia foto

Vince il giocatore che resta l’unico in vita. Mi fu subito chiaro che se avessi voluto conquistare la fiducia di Teo avrei dovuto imparare a giocare a Fortnite. Ho dimestichezza con i videogiochi e non è stato difficile cominciare quest’avventura, così, di settimana in settimana, raccontavo a Teo dei miei progressi, gli chiedevo consigli su come migliorare le mie prestazioni e ci confrontavamo sulle strategie più efficaci da adottare. La comunicazione con Teo migliorò di volta in volta, i suoi momenti di blackout quasi sparirono, addirittura ci scambiammo l’amicizia sui social e, ovviamente, quella su Fortnite. Teo era entusiasta del nickname che avevo scelto e subito mi scrisse anche il suo, in modo da connetterci. Così, una sera, lo trovai online e nonostante il timore che non mi avrebbe mai risposto, gli scrissi in chat. Difatti, non mi rispose. Quando ci vedemmo la volta successiva, caparbia, gli dissi di stare attento alla chat e ai miei messaggi e, la sera stessa, Teo ed io facemmo la nostra prima partita in modalità “a coppie”. Noi 2 contro 98 persone. L’incontro dei nostri avatar è stato emblematico: nello stesso istante, li abbiamo messi uno difronte all’altro e abbiamo avuto la stessa identica idea di fargli fare un balletto. In quel momento, ho pensato che fosse fatta: io e Teo stavamo facendo davvero amicizia. Non nascondo che all’inizio mi sono sentita in colpa: forse, invogliandolo a giocare, stavo alimentando la sua videodipendenza? Forse, giocando insieme a tarda serata, stavo indirettamente contribuendo alla sua insonnia?

Fortnite: perchè un videogioco può diventare una risorsa in terapia

Mi sono risposta che Teo trascorreva già la maggior parte del suo tempo al computer e che, già da un po’, aveva imparato a fare i conti con il poco sonno di cui ha bisogno, per questo, avere una compagna con la quale dividere tutto questo, a lui che è perennemente solo, poteva servire a potenziare le sue, quasi assenti, abilità sociali. Ho cominciato, quindi, a sfruttare quello che di costruttivo ha questo famigerato videogioco; Fortnite insegna la pazienza. Ogni partita di Fortnite, in modalità “Battaglia Reale”, inizia con i 100 giocatori che devono catapultarsi sull’isola lanciandosi da un autobus volante e, già in questa primissima fase, è indispensabile attendere e scegliere con tattica e prudenza il punto nel quale atterrare onde evitare di finire nel punto in cui sono atterrati tutti, rischiando di farsi uccidere più facilmente. Teo, da buon impulsivo, si lanciava dal bus in volo immediatamente ed è solo da quando gli ho spiegato che l’attesa è necessaria ai fini di una buona partita che aspetta 30 secondi prima di lanciarsi. Fortnite, infatti, è un videogioco stealth ossia una tipologia di videogioco d’azione basato sull’abilità del giocatore di evitare di farsi scoprire dai nemici e che costringe, quindi, ad adottare uno stile di gioco calmo e ponderato. In Fortnite, appunto, muoiono più velocemente i giocatori che affrontano i problemi con un approccio irruento. I videogiochi come Fortnite, quindi, enfatizzano, la precisione, la pianificazione, l’attenta osservazione e le abilità di risoluzione dei problemi invece che l’utilizzo di riflessi veloci.

Parlando con Teo, poi, ho scoperto che gli altri videogiochi di cui è patito sono, appunto, di questa tipologia. È proprio partendo dalla definizione di videogioco stealth, quindi, che si potrebbe agire sull’impulsività di Teo e, a piccole dosi, fargli capire l’importanza della riflessione e della lungimiranza come concetti da estendere alla vita al di fuori dello schermo. Molte ricerche (Resnick, 1986; Gardner, 1991; Clarke & Schoech, 1994), seppure diverse per quanto riguarda il campione, la metodologia e la modalità d’utilizzo dei videogiochi, hanno dimostrato come, nella pratica psicoterapeutica con i bambini e gli adolescenti, l’utilizzo dei videogiochi si rivela molto utile ai fini della costruzione della relazione con il clinico e che il videogioco può essere impiegato come strumento per valutare le competenze cognitive, la tolleranza alla frustrazione e la regolazione affettiva. Anche se basati su campioni esigui, grazie a questi studi, è possibile supporre che i videogiochi forniscono opportunità utili per la terapia con bambini e adolescenti, soprattutto nei casi in cui falliscono gli approcci tradizionali e che aiutano i giovani pazienti a diventare più cooperativi col terapeuta e più entusiasti del trattamento. Come conferma Tolga Atilla Ceranoglu, autrice di uno di questi studi:

Lo stile di gioco di un adolescente può offrire spunti rilevanti sui suoi conflitti intrapsichici e fornire del materiale utile per l’elaborazione di tali conflitti (Ceranoglu, 2010).

A oggi, il mio rapporto con Teo è in fase di crescita; quando ci vediamo, oltre che di Fortnite, parliamo di musica. Ho inquadrato il genere musicale che più gli piace e gli invio e-mail con titoli di canzoni che più potrebbero addirsi ai video del suo canale YouTube. Quasi tutti i giorni ci scriviamo in chat e mi sorprendo quando è lui, per primo, a cercare me. Al suo ultimo compleanno, anch’io gli ho portato una torta; grazie a Fortnite, Teo adesso ha un’altra persona sulla quale contare.

 

Instagram come lo specchio d’acqua di Narciso

L’utilizzo di Instagram sta radicalmente cambiando il modo in cui ci presentiamo al mondo e gestiamo le nostre relazioni. Cosa si nasconde dietro il crescente utilizzo di questo Social Media, soprattutto tra le nuove generazioni?

Francesca Livrieri

 

Specchiò il suo volto su quella levigata e pura superficie e subito l’amore per quell’immagine riflessa lo ammaliò fuori da ogni ragione: sentì di amare una seducente parvenza senza corpo: crede che un corpo sia, quello che è acqua soltanto (…) ammira le doti tutte, per cui egli stesso è oggetto di ammirazione. (…) Ignaro, brama se stesso; mentre loda, è da se stesso lodato; mentre desidera, è desiderato: parimenti causa e scopo della sua passione. Quante volte diede baci vani alla fonte ingannatrice! Quante volte dentro le acque immerse le braccia (…) ed in esse non riuscì a raggiungersi. (…) O creatura vana, perché cerchi inutilmente di afferrare labili parvenze? Quanto brami non esiste in luogo alcuno; volgiti e non vedrai più ciò che ami.

(Metamorfosi di Ovidio, libro III)

 

Chissà cosa racconterebbe Ovidio del Narciso ai tempi di Instagram, Facebook e Twitter.

Ormai numerosi studiosi hanno posto la loro attenzione alla relazione tra esseri umani e Social Media e a come tali strumenti stanno cambiando l’identità di sé, la propria essenza e quella delle relazioni sociali.

Negli ultimi anni, e sopratutto fra le nuove generazioni, abbiamo osservato l’ascesa di Instagram come Social Media di elezione per presentarsi al mondo e gestire le proprie relazioni online, usando un canale comunicativo molto semplice: immagini o brevi video (Lee, Lee, Moon & Sung, 2015) ed è proprio durante tale rivoluzione comunicativa che gli studiosi hanno rilevato un aumento dei tratti di personalità narcisista, sopratutto fra i Millennials (Twenge, Konrath, Foster, Cambell & Bushman, 2008).

Il tratto di personalità narcisistica si caratterizza per una grandiosa considerazione di sé che, entro certi limiti, può essere considerata fisiologica e funzionale ma che può trasformarsi in un quadro psicopatologico quando tali idee di grandiosità, il costante bisogno di ammirazione e la mancanza di empatia divengono caratteristiche fondanti la personalità.

Oltre alla definizione diagnostica del disturbo di personalità narcisistico del DSM-5 (Manuale Diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali), uno studioso ha descritto tre tipologie di personalità narcisista. La prima, ritenuta adattiva, si caratterizza per l’orientamento alle relazioni interpersonali, la seconda e la terza, di tipo disadattivo, sono maggiormente correlate ad un esito psicopatologico e si caratterizzano da una forte attenzione verso se stessi, da nevroticismo e da considerevoli scatti d’ira (Ackerman et al., 2011).

Instagram e Narcisismo

A partire da questa distinzione è stato condotto uno studio volto a valutare la relazione tra narcisismo e tutti quei comportamenti, definiti di autopromozione degli utenti Instagram. Nella fattispecie si parla di pubblicare selfie, aggiornare l’immagine del profilo e mantenere il collegamento all’applicazione durante gran parte della giornata.

Dalla ricerca è emerso che quasi la metà delle foto pubblicate e condivise su Instagram sono classificate come selfie (24,2%) o selfie con gli amici (22,4%).

Gli individui con tratti di personalità di tipo narcisistica pubblicano più selfie e aggiornano più di frequente la loro immagine profilo rispetto a individui che non presentano tale tratto di personalità. Inoltre i narcisisti valutano le loro immagini come fisicamente più attraenti e sono maggiormente preoccupati per il loro aspetto fisico rispetto agli altri e trascorrono più tempo su Instagram.

Nello specifico è emerso che gli individui che presentavano maggiori caratteristiche di narcisismo di tipo disadattivo mettevano in atto più comportamenti di autopromozione rispetto ai soggetti con narcisismo adattivo. Questo dato secondo Wright (2012) suggerisce che i soggetti con narcisismo disadattivo, in quanto deficitari di autostima cercano maggiormente di compensarla tramite comportamenti di autopromozione online, al contrario dei soggetti con narcisismo adattivo, i quali avendo un alto livello di autostima non hanno bisogno di mettere in atto tali comportamenti.

Adolescenti nelle relazioni. Generazioni che co-costruiscono la società-mondo (2018) di Fabio Vanni – Recensione del libro

Adolescenti nelle relazioni è un libro completo secondo vari punti di vista: Fabio Vanni espone innanzi tutto una prospettiva antropologica delineando come il cotesto sociale e adolescenziale si è evoluto nel tempo.

 

Il titolo di questo libro, Adolescenti nelle relazioni, potrebbe trarre un po’ in inganno: forse potrebbe indurci a pensare che tra le mani non abbiamo altro che un manuale volto ad illustrarci in che modo gli adolescenti di oggi si relazionano, tra loro o con altri. Già il sottotitolo però potrebbe in qualche modo chiarirci le idee.

Il termine “Generazioni” non fa altro che mettere in luce il fatto che l’autore di questo libro parte da molto più in là, dando al testo un’impronta quasi antropologica volta a spiegare al lettore come si è evoluto il cosiddetto modo di relazionarsi degli adolescenti, partendo da un’epoca preistorica fino ai giorni nostri.

A questo punto viene spontaneo a noi lettori chiederci: ma l’autore del libro dove vuole arrivare? Si tratta solo di un testo descrittivo avente lo scopo di illustrarci come le generazioni varie hanno fatto sì che le relazioni tra i giovani si evolvessero in un determinato modo?

Assolutamente no!

Con l’andare avanti delle pagine ci si rende ben conto che l’autore di Adolescenti nelle relazioni ha un scopo ben chiaro: far rendere conto a chi legge che il modo di relazionarsi degli adolescenti non è altro che il frutto di un’evoluzione ben precisa, determinato inoltre dal contesto e dell’educazione. Quindi, qualora si voglia prendere un intervento in merito, non bisogna far altro che tener conto della cultura e del contesto educativo in cui l’adolescente è vissuto.

Contesto ed educazione: come influenzano il modo di relazionarsi degli adolescenti

Bisognerebbe quasi tornare indietro nel tempo e analizzare le origini del processo di interazione adolescenziale, un po’ come ha fatto l’autore del libro. Fabio Vanni infatti esordisce illustrandoci dapprima il mondo preistorico, un’epoca in cui il soggetto umano non era altro che un individuo in balia del mondo che lo sovrastava.

I tempi però sono via via cambiati, e attualmente l’uomo rappresenta il dominio del mondo. Vanni ci illustra nel dettaglio come questo marcato cambiamento sia avvenuto, facendo riferimento alle più importanti teorie psicologiche e antropologiche, citando anche i preziosi contributi di Freud, Ellenberger e Bowlby. E dalla dimensione “macro” della socialità passerà inoltre ad illustrarci la dimensione “micro”.

Con l’andare avanti dei capitoli del testo Adolescenti nelle relazioni, Vanni porrà l’accento sul bambino in sé per sé e sull’adolescente. Il passaggio da età infantile a età adolescenziale è tutt’altro che semplice: l’adolescente ha tante paure e incertezza, soprattutto nell’affermarsi in quel mondo e quella società che egli stesso si vede impaziente di dominare. L’adolescenza è un’età di “metamorfosi”, sia in relazione alla sfera fisica e puberale, sia in relazione alla sfera emotiva e relazionale.

E l’autore non dimentica di illustrarci la condizione in cui si trovano gli adolescenti della società odierna, esponendoci i classici disagi esperiti dai ragazzi, ossia l’insoddisfazione corporea, la paura di non essere accettati dal gruppo, le cosiddette trasgressioni.

Fabio Vanni in qualche modo ci catapulta nell’universo adolescenziale facendoci un po’ percepire questo mondo con i loro occhi, il loro stile, il loro linguaggio.

La parte conclusiva del libro Adolescenti nelle relazioni è dedicata all’educazione e all’insegnamento dei giovani di oggi; anche in questo caso Vanni non dimentica l’importanza attribuita al contesto in cui si vive e alle trasformazioni individuali dovute soprattutto alla società e alla situazione genitoriale, che fa da sfondo alla vita relazionale dell’adolescente. Non dimenticherà di porre l’accento sull’adolescenza odierna, esponendo il contesto individuale, sociale e genitoriale dell’adolescente di oggi.

Concludendo

Possiamo dunque affermare che Adolescenti nelle relazioni è un libro completo secondo vari punti di vista: Vanni espone innanzi tutto una prospettiva antropologica delineando come il cotesto sociale e adolescenziale si è evoluto nel tempo.

Un’importanza fondamentale è da attribuire alle ultime pagine del libro, in quanto sono dedicate alle strategie e alle proposte di intervento rivolte a coloro che si trovano a relazionarsi con i giovani di oggi.

E anche stavolta il suggerimento sarà lo stesso: ci si educa nella reciprocità e nella contestualità concreta nella quale si vive.

Il significato dei rimpianti… secondo la scienza

Tutti hanno rimpianti, ma in genere si pensa sempre che quei rimpianti ruotino attorno a ciò che si è fatto, agli errori che si crede di aver commesso e alle decisioni che si sono prese dubitandone poi a posteriori. Un recente studio pubblicato su Emotion indica però che il vecchio detto non ci si pente di ciò che si fa, ma di ciò che non si fa” continua ad essere vero!

Adriano Mauro Ellena

 

In uno studio intitolato “The Ideal Road Not Taken”, alcuni psicologi della Cornell University hanno identificato tre elementi che sembrano influenzare in maniera significativa il proprio senso di sé: il sé reale, il sé ideale e il sé imperativo. Il sé reale consiste in qualità che si credono di possedere; il sé ideale è invece costituito dalle qualità che si desiderano avere; infine il sé imperativo viene identificato con la persona che si dovrebbe essere, in base agli obblighi e alle responsabilità personali.

Nel valutare le risposte di centinaia di partecipanti, i ricercatori hanno scoperto che, di fronte alla domanda su quali fossero i loro più grandi rimpianti nella vita, il 76% dei partecipanti ha parlato di qualcosa che non gli ha permesso di realizzare il proprio sé ideale.

Ma dunque, se il sé ideale si riferisce alle qualità che si desiderano avere e non a quelle che si credono di avere (sé reale) né tantomeno a quelle che dovremmo possedere (sé imperativo), questo ci suggerisce che potremmo avere un atteggiamento e una percezione imperfetti rispetto a ciò che è poi causa dei nostri rimpianti.

I rimpianti per il nostro Sé ideale

Viviamo in un mondo in cui ci viene detto che avremo una vita fantastica se seguiamo alcune precise “regole d’oro”, quindi si calcola che se si fanno tutte le cose che la società si aspetta che si facciano (come essere un buon cittadino, sposarsi al momento opportuno, fare abbastanza soldi per pagare le bollette, ecc.) ci si sentirà felici e soddisfatti della propria vita. Ma queste sono tutte qualità associate al sé reale e al sé imperativo, verso i quali, secondo lo studio, le persone hanno dei rimpianti “limitati”.

Piuttosto, è quando si tratta dei propri sogni e delle proprie aspirazioni (sé ideale) che le persone tendono a lasciarsi prendere dallo sconforto e quando sentono di non averli realizzati. Questo sembra essere ciò che realmente è causa di sofferenza e di rimpianti più tardi nella vita.

Conclusioni

I risultati dello studio ci suggeriscono dunque che non è sufficiente incoraggiare le persone a “fare la cosa giusta” perchè esse siano felici e vivano senza rimpianti. Ciò che è importante, invece, è aiutare le persone a stabilire ciò che è vitale per loro e spingerli ad agire in base alle proprie aspettative e ai propri sogni prima che sia troppo tardi, ricordando loro che non li aiuterà a stare bene e ad essere felici continuare a rimandare il raggiungimento dei propri sogni per un tempo spesso indefinito.

Nel breve periodo, le persone si pentono delle loro azioni più che della “non azione” – ha detto Gilovich, tra gli autori dello studio – ma a lungo termine emergono i rimpianti della “non azione” e questi durano più a lungo.

Smettiamo allora di inventare scuse per le “non azioni” della vita, che altro non sono che causa di durevoli e dolorosi rimpianti.

Quindi impara quella lingua che hai sempre voluto studiare. Intraprendi quel viaggio di cui parli da sempre. Scrivi quel libro che ti è girato in testa per anni. Qualunque cosa sia, grande o piccola, falla e basta. Non lasciarlo a domani. C’è solo oggi, quindi sarebbe meglio afferrare il toro per le corna, perché come dice il vecchio detto: i giorni sono lunghi, ma gli anni sono brevi.

 

Fidarsi dei pazienti (2016) di F. Gazzillo: i test del paziente secondo la Control Mastery Theory – Recensione

A volte un libro che richiede tanto tempo per essere letto è un pregio. Vuol dire che comprende tante informazioni da elaborare e assimilare. Fidarsi dei pazienti è il manuale di Francesco Gazzillo sulla Control Mastery Theory, una teoria degli anni 80 messa a punto da Joseph Weiss e Harold Sampson, psicoanalisti.

 

L’ho cominciato a leggere tipo kamikaze: mentre mangiavo, nei pochi minuti tra un paziente e l’altro, prima di addormentarmi, una volta perfino sulla cyclette in palestra. Poi ho dovuto rallentare perché ci voleva una certa quota di tempo e attenzione per leggere, comprendere e mettere insieme tutti i pezzi.

E forse dovevo concentrarmi anche sul ritmo delle mie pedalate.

Fidarsi dei pazienti: capire di cosa hanno bisogno

Lo studio di questa teoria è arrivato in una fase particolare della mia terapia con un paziente.

In vista dell’ultimo esame prima della laurea, che aveva già sostenuto più volte ma sempre con esito negativo, credevo fosse mio compito sostenerlo ed incoraggiarlo, soprattutto nelle settimane che avvicinavano sempre più la data della sessione. Ma più lo facevo, più il paziente si ritirava e si irritava. Parlava poco durante i nostri incontri, soprattutto dell’esame, era distante, una volta pare si sia dimenticato anche della nostra seduta. “Che strano”, pensai. Poi ragionai che in terapia niente è strano ma deve essere tutto letto in base al profilo interno del paziente e attraverso una piccola metacomunicazione, ho capito che stava succedendo.

Un test. Si eccolo, proprio quello di cui avevo sentito parlare durante una presentazione del libro a Napoli. Quello di cui due giorni prima stavo leggendo a letto, invece di dormire, a pagina 38. Il paziente mi stava testando. Ed io stavo fallendo.

Lui non voleva per nulla essere incoraggiato a dare l’esame. Cercava l’esatto opposto. Voleva sentire che io sarei stata dalla sua parte anche se avesse deciso di non di andare all’università quella mattina, anche se avesse fatto miseramente scena muta davanti al professore o all’assistente di turno. Voleva che facessi diversamente dai suoi genitori: accettarlo anche di fronte ad un fallimento. Non umiliarlo. E così fu. Non troppo stranamente, il paziente affrontò le giornate che precedevano l’esame con uno spirito diverso, si mise a studiare e provò ad impegnarsi organizzando al meglio le ore. Riprese dei vecchi appunti e si confrontava spesso con un collega per ripetere parti del programma.

A quanto pare il paziente si è sentito al sicuro e come è spiegato bene nel manuale, non esiste un modo per far sentire tutti i pazienti in questo modo perché ognuno di essi ha bisogno di cose diversi in tempi diversi, in funzione delle sue credenze e delle sue esperienze di vita.

I pazienti soffrono perché sono ostacolati dai raggiungimento di obiettivi sani e realistici da credenze patogene relative alla realtà e alla moralità; queste credenze fanno loro temere che, qualora provassero a realizzare quegli obiettivi, incorrerebbero in situazioni di pericolo. Non sarebbero al sicuro…queste credenze si formano nell’infanzia a partire da situazioni traumatiche reali da shock o da stress, in genere di natura interpersonali…i pazienti sono profondamente motivati a disconfermare, consciamente e inconsciamente, le loro credenze patogene perché esse sono costrittive e causa di dolore, ma al tempo stesso hanno paura di abbandonarle perché sono adattive, essendo state sviluppate per proteggersi dall’eventualità di nuovi traumi…Per capire in che misura possiamo sentirci al sicuro con una certa persona ed in una certa circostanza…noi mettiamo alla prova…la stessa cosa accade in psicoterapia. I pazienti fanno dei test ai loro terapeuti e se i pazienti li superano, disconfermando così le loro credenze patogene, si sentono più al sicuro nel realizzare i propri obiettivi e iniziano a muoversi in questa direzione… (Gazzillo, 2016, pag. 29).

Fidarsi dei pazienti.. e superare i loro test

Esistono tre tipi di test: test di transfert associati a compiacenza o ribellione nei confronti di genitori traumatici, test di capovolgimento da passivo ad attivo e test osservativi. Rimando al testo per un approfondimento e per leggere degli interessanti esempi clinici.

Nel mio caso, con il mio paziente, si tratta di un test di primo tipo perché la necessità era che io reagissi in modo diverso rispetto al genitore traumatico.

Gazzillo ha scritto un bellissimo testo, curioso e appassionato su una teoria che, ammetto, solo ora sto addentrandomi a scoprire meglio. Fa tanti esempi, pratici, reali. Sfido ogni collega a non ritrovarsi in situazioni simili e a non volere una cornice di riferimento che spieghi come raggirarli. Ed è un libro che consola quando sottolinea la natura errante e umana di noi terapeuti. Il paziente ci testa. Noi falliamo. Possiamo farlo. E se dovesse accadere, recuperiamo. E se non ci riusciamo, fa niente. Non esiste il momento giusto per la terapia efficace né il terapeuta giusto per tutti: l’esito di una terapia basata sulla relazione dipende da tanti elementi molti dei quali sono incontrollabili. Noi esseri umani siamo pezzi di puzzle che si incastrano. Paziente e terapeuti non sono esenti dalle variabili del gioco. Nella nostra mente saperi e teorie non ci salvano sempre da errori. Ma avere bene a mente il profilo del paziente e come esso agisce è un buon punto di partenza. Vale sempre la pena soffermarsi qualche seduta in più per raccogliere e valutare bene il funzionamento del paziente. La terapia deve essere caso-specifica indipendentemente dalla scuola teorica di appartenenza. E deve essere pro-plan, cioè aiutare il paziente nel dirigersi verso quello che vuole.

Fidarsi dei pazienti supera appieno i miei test.

Ah, alla fine, il mio paziente, andò a fare l’esame. E lo superò.

Consumo di cannabis in aumento: quali sono le conseguenze sulla salute mentale?

Da ogni componente della pianta Cannabis sativa originano i cannabinoidi esogeni. La molecola attiva si chiama D9-tetraidrocannabinolo (THC) ed il suo contenuto percentuale varia tra le varie porzioni della pianta, dai semi che ne contengono di meno, allo stelo, alle foglie, ai fiori che ne sono ricchissimi (Bertrand et al,2004).

 

Il THC raggiunge il picco ematico intorno ai 10 minuti dall’assunzione per via respiratoria e da allora declina rapidamente fino al 5-10% della quantità iniziale, in parte perché metabolizzato, in parte perché distribuito come THC non modificato nei tessuti adiposi. L’assunzione abituale dell’uso di cannabis comporta l’accumulo del THC nei tessuti lipidici; ciò conduce alla permanenza della sostanza nei liquidi organici per giorni ed anche per diverse settimane (Guelfi, 2015).

Cannabis: dati e numeri sull’uso

I derivati della cannabis, in base ai dati forniti dai principali organismi internazionali operanti nell’ambito del contrasto alla diffusione delle sostanze stupefacenti, costituiscono la prima droga d’abuso in Europa: 40 milioni di individui l’hanno utilizzata e in media, una persona su quattro, di età compresa tra i 15 ed i 34 anni l’ha provata (Schiavone,2002).

Nella Relazione europea sulla droga del 2018, pubblicata lo scorso 7 giugno dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA), viene riportato che l’Italia è il terzo paese dell’Unione Europea per uso di cannabis. I dati raccolti si riferiscono agli anni 2016-17, ed è stato stimato che la cannabis sia stata consumata da circa 24 milioni di persone con età compresa tra i 15 e i 64 anni, di cui 17,2 milioni con età compresa tra i 15 e i 34 anni.

Secondo dati provenienti da indagini condotte sulla popolazione, in media il 31,6% dei giovani adulti europei (15-34 anni) ha utilizzato la cannabis almeno una volta nella vita, mentre il 12,6% ne ha fatto uso nell’ultimo anno e il 6,9% nell’ultimo mese. Una percentuale ancora più alta di europei appartenenti alla fascia dei 15–24 anni ha utilizzato la cannabis nell’ultimo anno (15,9%) o nell’ultimo mese (8,4%) (Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, 2010).

I dati sul consumo di cannabis potrebbero cambiare ulteriormente se si tiene conto del boom di aperture dei grow shop, le attività commerciali dove si può vendere la cannabis legale.

Nel dettaglio la legge italiana vieta la vendita a scopi ricreativi di cannabis con un principio attivo di THC superiore allo 0,6%, poiché questa provoca degli effetti stupefacenti; è del tutto legittima invece la vendita dei prodotti derivati dalla canapa con un THC notevolmente inferiore alla suddetta soglia (Micocci, 2018).

Oggi si contano più di 600 punti vendita in tutta Italia, alcuni dei quali aperti giorno e notte (Scavo, 2018).

Cannabis: comorbilità con disturbi psichiatrici

Ma quanti conoscono le reali conseguenze del consumo assiduo e reiterato di questa sostanza? Esiste un legame tra l’utilizzo di cannabis e i diversi disturbi psichiatrici?

La comorbilità, o doppia diagnosi, è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come la coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro disturbo psichiatrico.

Il consumo di cannabis si è dimostrato essere associato ad un aumentato rischio di disturbi mentali. Gli effetti collaterali del consumo di cannabis dipendono dalla modalità di somministrazione, dalla dose ricevuta, dal tempo di utilizzo, dalle aspettative del consumatore e dalla sua personalità. Il rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici è molto alto: nei soggetti vulnerabili, comprese le persone che hanno usato cannabis durante l’adolescenza, nei soggetti che in precedenza avevano sperimentato sintomi psicotici e in quelli ad alto rischio genetico di disturbi psichiatrici (Iacucci, 2014).

L’assunzione di cannabis induce la comparsa di effetti psicoattivi che, generalmente, includono anche sensazioni piacevoli: calma, rilassatezza, euforia e emozioni amplificate. Tuttavia, alcuni soggetti possono sperimentare reazioni ben più spiacevoli: dispercezioni, distorsione temporale, depressione, paranoia, depersonalizzazione, derealizzazione, ansia o attacchi di panico, sensazione di perdita del controllo e paura di morire, che, seppur spesso transitorie, nei consumatori abituali possono persistere e ricorrere nel tempo (D’Souza et al, 2009; Thomas, 1993). Può indurre, inoltre, anche in soggetti sani, sintomi psicotici positivi e negativi, nonché deficit cognitivi analoghi a quelli della schizofrenia. Tali sintomi, in genere temporanei, possono comportare in individui vulnerabili successive, severe manifestazioni psichiche correlate alle sostanze (D’Souza et al, 2009).

Cannabis e insorgenza di psicosi

Ci sono due ipotesi che possono spiegare l’insorgenza di psicosi legato al consumo di cannabis. La prima sostiene che lo stato psicotico può verificarsi sia come risultato di uno specifico effetto farmacologico della sostanza, che come il risultato di esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione da cannabis.

La seconda ipotesi è che l’uso della stessa possa generare schizofrenia, o aggravarne i sintomi, in un individuo vulnerabile o predisposto. In particolare l’uso regolare e continuativo sembrerebbe quadruplicare il rischio di sviluppare un Disturbo Schizofrenico (Hautecouverture et al., 2006).

Alcuni studi, che hanno esaminato gli effetti del consumo di cannabis negli adolescenti, hanno rilevato una forte correlazione tra l’uso della sostanza e l‘insorgenza di molti disturbi psichiatrici, come: psicosi da cannabis, depressione e attacchi di panico. Si è rilevato, inoltre, un alto rischio di insorgenza di ideazione suicidaria e di tentativi di suicidio (Iacucci, 2014).

In uno studio longitudinale, condotto in Svezia, su 50.465 maschi svedesi, il follow up condotto dopo 15 anni, ha rilevato che coloro che avevano cominciato a consumare cannabis a 18 anni avevano una probabilità due volte e mezzo maggiore, rispetto ai non consumatori, di ricevere una diagnosi di schizofrenia (Andreasson et al., 1987).

Concludendo, gli studi revisionati hanno dimostrato che gli effetti della cannabis a lungo termine sono spesso sottovalutati e che la maggior parte dei consumatori non conosce i pericoli che un uso/abuso reiterato può causare.

Manuale clinico di mindfulness (2017) di F. Didonna: un sunto perfetto dello stato attuale della pratica e delle sue applicazioni cliniche – Recensione del libro

Alla stesura del Manuale clinico di mindfulness hanno dato il loro prezioso contribuito nomi di spicco del panorama scientifico internazionale, donando al testo un’impronta manualistica che i clinici non potranno far altro che apprezzare.

 

La mindfulness nella sua forma più aderente all’insegnamento di Jon Kabat-Zinn costituisce la più grande innovazione nelle pratiche psicologiche e mediche degli ultimi 40 anni. Oggi questo termine è entrato cosi tanto nel contesto socio culturale nel quale viviamo da essere adottato per descrivere tecniche e pratiche lontane da quelle a cui originariamente il termine si riferiva.

Il Manuale clinico di mindfulness di Fabrizio Didonna (alla sua ultima ristampa nel 2017) restituisce in maniera eccellente valore e significato al termine e alla pratica. Non è un caso che la prefazione del testo sia stata fatta proprio da Jon kabat Zinn in persona, il pioniere degli interventi mindfulness based.

Cosa significa Mindfulness?

Il termine mindfulness sostanzialmente si riferisce allo stato di presenza e consapevolezza che la pratica meditativa promette di sviluppare in chi la coltiva. Questo stato ha enormi implicazioni sul concetto di salute psico-fisica tali che negli ultimi decenni le pubblicazioni di ricerche scientifiche a riguardo sono aumentate in maniera esponenziale.

Il Manuale clinico di mindfulness costituisce un sunto perfetto dello stato attuale di questa pratica e delle sue applicazioni cliniche. Parlo di pratica poiché la mindfulness è una tecnica di meditazione che diversi modelli terapeutici hanno integrato, in particolar modo il mondo della terapia cognitivo-comportamentale. La lente attraverso la quale il testo affronta le varie tematiche è quella appunto delle scienze cognitive.

Struttura e contenuti del Manuale clinico di mindfulness

Alla stesura dell’opera hanno dato il loro prezioso contribuito nomi di spicco del panorama scientifico internazionale, donando al testo un’impronta manualistica che i clinici non potranno far altro che apprezzare.

Il Manuale clinico di mindfulness è suddiviso in quattro parti principali, la prima parte: “Teoria concettualizzazione e fenomenologia” affronta a mio parere un aspetto fondamentale e di enorme importanza, definire a cosa si fa realmente riferimento quando parliamo di mindfulness. Tutta la prima sezione del libro traccia una cornice storico, culturale, epistemologica, filosofica e scientifica dello stato dell’arte della mindfulness. Vengono in particolar modo discusse le origini della tecnica e le implicazioni terapeutiche, fenomenologiche e neurobiologiche che ad essa si accompagnano.

Nella seconda parte del libro, “Applicazioni cliniche: aspetti generali, rationali e fenomenologia”, si discutono le relazioni e le applicazioni specifiche della mindfulness alla psicoterapia. Il lettore comprenderà come concetti provenienti dal contesto culturale in cui la pratica meditativa si è sviluppata vengono applicati alla psicoterapia occidentale. Sono approfonditi concetti come l’accettazione e la compassione che sono tra gli elementi terapeutici più importanti legati alla tecnica. In conclusione l’attenzione viene posta su come è possibile operazionalizzare i concetti della mindfulness per renderli osservabili e misurabili e dare valore scientifico al processo, sostenendo così tutti gli interventi basati su essa.

La terza parte: “interventi basati sulla mindfulness per disturbi specifici”, è quella che il clinico di qualsiasi orientamento troverà non solo interessante ma estremamente utile, poiché essenzialmente costituisce una road map molto esaustiva dei diversi interventi mindfulness based sviluppati per specifici disturbi. L’aspetto interessante sta nel fatto che viene affrontata anche la modalità in cui specifiche caratteristiche della tecnica hanno un impatto terapeutico sullo specifico disturbo. Tutti gli interventi che in questa sessione del Manuale clinico di mindfulness vengono presentati sono supportati da una perfetta integrazione tra il linguaggio appartenente alle scienze cognitive ed quello più squisitamente legato alle pratiche meditative, offrendo cosi al lettore una visone d’insieme chiara ed esaustiva.

Nella quarta ed ultima parte: “Interventi basati sulla mindfulness per popolazioni e setting particolari”, vengono discusse e illustrate modalità di approccio differenti dei vari protocolli in contesti differenti dall’ambito prettamente clinico. In questa sezione l’enfasi è posta sulle applicazione della mindfulness in contesti come le case di riposo, le scuole gli ospedali, e i targhet ad essi associati quindi anziani, bambini e ricoverati. Vengono prese in esame le modalità, le difficoltà e le differenze con cui i vari protocolli vengono applicati a queste particolari fasce della popolazione.

Il manuale si conclude con due appendici, la prima dedicata ad accorgimenti tecnici finalizzati a dare le basi per sperimentare la pratica anche da soli. La seconda propone un elenco di centri italiani nei quali è possibile praticare e formarsi con questa tecnica.

In conclusione

Il Manuale clinico di mindfulness rappresenta un valido aiuto per il clinico che necessita di comprendere ed approfondire modelli mindfulness based. Tutto il manuale consentirà di accrescere in maniera profonda e dettagliata le proprie competenze riguardo alla terza ondata della terapia cognitiva.

Credo che un testo come questo debba essere preso in considerazione dai clinici e dagli studenti di psicologia e medicina, al di là della formazione di provenienza. La mindfulness rappresenta una modello di lavoro trasversale che può arricchire la persona del clinico in primis, la sua efficacia come terapeuta e la visone di quello che è lo stato di benessere ed equilibrio psico-fisico.

Come gestire il disturbo bipolare: l’importanza di intervenire con farmaci e psicoterapia

Il disturbo bipolare è un disturbo dell’umore a lungo termine che può influenzare il modo in cui una persona pensa, sente e si comporta. Senza un trattamento farmacologico il soggetto può sperimentare episodi di umore alterato.

Adriano Mauro Ellena

 

Le persone che soffrono di disturbo bipolare possono vivere un’alternanza tra periodi di forte attivazione, chiamati episodi maniacali, ed episodi depressivi, di bassa attivazione. Durante un episodio maniacale, una persona spesso si sente felice, ha molta energia ed è molto socievole. Durante un episodio depressivo invece può sentirsi triste, avere poca energia e ritirarsi socialmente.

Sebbene non esista una cura definitiva per il disturbo bipolare, in grado di garantirne la remissione permanente, le persone che vivono questa condizione possono sperimentare lunghi periodi durante i quali sono prive di sintomi. Con il trattamento farmacologico e l’autogestione dei sintomi è possibile mantenere uno stato dell’umore stabile per periodi prolungati.

Trattamento e possibilità di cura

Le opzioni di trattamento per il disturbo bipolare sono numerose ed ogni persona può rispondere in modo diverso al tipo di percorso proposto. Un trattamento sia farmacologico che psicoterapeutico è l’opzione che si è dimostrata più efficace nel trattamento di questa tipologia di disturbo.

I farmaci più utilizzati per la cura del disturbo bipolare sono:

  • Stabilizzanti dell’umore, come il litio;
  • Antipsicotici atipici che possono trattare sia gli episodi maniacali che depressivi e aiutano a stabilizzare l’umore;
  • Antidepressivi, anche se non tutti rispondono bene agli antidepressivi (infatti possono innescare episodi maniacali in alcune persone).

Una review del 2014 ha evidenziato che l’uso della psicoterapia combinata con i farmaci è più efficace della sola terapia farmacologica come trattamento per il disturbo bipolare.

Gestione a lungo termine e cura di sé

Una volta che una persona con disturbo bipolare ha trovato la modalità di trattamento più efficace per la sua persona, la coerenza nel seguire questo percorso è cruciale. Attenersi ad un piano di trattamento può ridurre la gravità e la ricorrenza degli episodi di variazione dell’umore.

La ricerca, inoltre, ha messo in evidenza anche l’importanza dell’uso di strategie di autogestione dei sintomi, tra cui:

  • creare un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata
  • costruire relazioni positive
  • avere una dieta salutare
  • fare esercizio fisico
  • dormire abbastanza

I cambiamenti di umore, infatti, potrebbero non essere sempre evitabili ma nel tempo una persona può imparare a riconoscere i primi segni di cambiamento dell’umore e sviluppare strategie per ridurne l’effetto. Strategie come lo yoga e la meditazione possono aumentare la consapevolezza rispetto i propri cambiamenti di umore. Anche altre attività tra cui fare il bagno, leggere, ascoltare musica o tenere un diario, possono aiutare a moderare i cambiamenti dell’umore prima che aumentino.

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo: i correlati neuroanatomici – Introduzione alla Psicologia

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), tra i disturbi d’ansia, è il più frequente all’interno della popolazione generale (Abramowitz, Taylor & McKay, 2009; Veale & Roberts, 2014). 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è composto da ossessioni, cioè pensieri intrusivi e ripetitivi o immagini che ricorrono costantemente e valutate dall’individuo come pericolose, e da compulsioni, ovvero rituali, comportamentali o mentali (rimuginio), utilizzate per alleviare l’ansia che deriva dall’esperire costantemente i pensieri intrusivi.

Succede che uno stimolo esterno attiva delle credenze, o dei pensieri, riguardanti il pericolo, il disagio emotivo e la sofferenza, e alla lunga finiscono per compromettere e tormentare la vita della persona che ne soffre. Più questi pensieri sono considerati, dalla persona, pericolosi più è necessario controllarli attraverso comportamenti compulsivi o tramite altri pensieri. Le persone che soffrono di Disturbo Ossessivo Compulsivo, dunque, presentano una serie di pensieri spaventosi, ovvero inaccettabili, per colui che li sperimenta, che si attivano anche quando non si vorrebbe averli. L’ansia e le altre emozioni negative che conseguono alla valutazione dei pensieri intrusivi, possono essere oggetto di interpretazioni negative. Tali risposte aumentano la probabilità di ulteriori intrusioni e una maggiore risposta emotiva d’ansia. Le compulsioni messe in atto dal paziente per controllare l’ansia alimentano il problema impedendo allo stesso di falsificare le credenze nelle valutazioni disfunzionali delle intrusioni.

In sostanza, nel DOC si verifica un errore logico di valutazione degli stimoli esterni e un’attribuzione di una sorta di potere magico ai rituali e ai propri comportamenti, che sono considerati come deterrente di catastrofi imminenti. In realtà, però, fungono semplicemente da trigger per la messa in atto del rituale successivo.

L’individuo che soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo, inoltre, ha ben definite anche una serie di aspetti emotivi e cognitivi legati al sintomo, come la responsabilità e la colpa nei confronti di terzi nel caso dovesse verificarsi il pensiero tanto temuto. Queste emozioni aggiuntive aumentano e amplificano lo stato emotivo, impedendone la guarigione.

Neuroanatomia nel DOC

Nonostante i dati presenti in letteratura siano ancora in evoluzione, si iniziano a delineare dei modelli sempre più definiti del Disturbo Ossessivo Compulsivo a livello neuro-anatomico.

Da un punto di vista anatomico è stato dimostrato che nei pazienti con DOC si ha una maggiore attivazione della corteccia orbito-frontale sinistra e del nucleo caudato bilaterale, che si associa ad una sovrastima delle conseguenze negative di una determinata azione, che sarebbe alla base dei pensieri ossessivi. Inoltre, la corteccia cingolata anteriore presenta un’attività accentuata nei pazienti con DOC e, di conseguenza, favorisce una maggiore interpretazione della verificabilità di conseguenze negative alla quale è associata una risposta ansiosa, sottesa dall’attivazione del sistema limbico.

Si attiva, anche, il giro temporale superiore di sinistra, il precuneo e la corteccia prefrontale dorso-laterale.

Il circuito fronto-dorso-parietale è implicato nei processi di formazione dei pensieri, nei processi di shifting attentivo e di inibizione dell’attenzione. Tutto questo potrebbe spiegare lo sforzo costante e fallimentari che i pazienti con DOC effettuano per ignorare i pensieri ossessivi e spostare l’attenzione da essi.

Quindi, i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo mostrano delle alterazioni funzionali del network fronto-sottocorticale e un aumento di interazione tra le regioni ventrostriatali e la corteccia orbito frontale mediale, la frontale anteriore, il cingolato anteriore e le regioni paraippocampali. Queste aree sono attivate da due vie: una diretta e una indiretta, e normalmente si bilanciano, ma nel DOC è presente uno sbilanciamento causato dall’iperfunzionamento della via diretta che causa un aumento dell’attività del circuito e delle strutture ad esso correlate. Questa iperattività potrebbe essere dovuta ad un’eccessiva attivazione della corteccia orbito-frontale, che determina un maggior controllo dello striato, ovvero mancanza di inibizione dei pensieri interferenti. Anche il sistema limbico e l’amigdala si attivano, poiché si registra una risposta emotiva di paura e ansia condizionate come reazione ai pensieri disturbanti. Quando si mettono in atto comportamenti compulsivi, si attiva il nucleo caudato e la corteccia orbito-frontale che svolge, in questo caso, una funzione inibitoria.

Da un punto di vista neuropsicologico le funzioni esecutive e la working memory, nei pazienti con DOC sono compromesse e si ha anche un deficit nello shifting attentivo, correlato all’attivazione dei circuiti della corteccia prefrontale laterale e ventro-laterale.

Inoltre, i pazienti con DOC presentano un numero maggiore di lipidi bioattivi: gli endocannabinoidi. Questi ultimi sono delle  sostanze chimiche prodotte naturalmente negli esseri umani e negli animali. I recettori degli endocannabinoidi si trovano lungo tutto il corpo e nel cervello. Il sistema endocannabinoide è implicato in una varietà di processi fisiologici, come: l’appetito, la sensazione di dolore, l’umore, la memoria e, soprattutto, i comportamenti abitudinari e ritualistici. I topi in cui era inibito un recettore degli endocannabinoidi, nel fascicolo neuronale che collega la corteccia orbito-frontale allo striato dorso mediale, non acquisivano comportamenti abitudinari.

Per concludere

I dati sono ancora oggetto di studio e per questo non è possibile affermare che il Disturbo Ossessivo Compulsivo sia un disturbo in cui vi sono implicazioni causali neuroanatomiche, perché le alterazioni riscontrate potrebbero sempre essere di tipo funzionale, e quindi solo correlati biologici di un disturbo psicologico.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Full Metal Jacket (1987) di S. Kubrick – Recensione del film

Kubrick nel 1987, a 14 anni dalla fine della guerra in Vietnam, dice la sua sulla disfatta americana, con uno splendido film dal titolo Full Metal Jacket.

Lorenzo Ricciuti

 

Siamo nella Carolina del sud, nella caserma di Perris Island, dove un battaglione di marines effettuerà il suo addestramento prima di partire per il Vietnam.

Full Metal Jacket: addestramento come disumanizzazione

I cinque minuti iniziali del discorso del sergente Hartman fanno parte della storia del cinema. La sua durezza, e la sua intransigenza faranno subito capire di che pasta è fatto. I suoi insulti, il cambiare nome ai suoi sottoposti sono l’antipasto del trattamento che riserverà alle sue reclute durante l’addestramento.

La sua spietatezza sarà rivolta contro il soldato semplice Leonard Lawrence. Questi è grasso e sembra avere anche qualche ritardo. Il sergente Hartman non avrà pietà per lui, avrà nei suoi confronti un atteggiamento persecutorio, fatto di insulti e offese, date le difficoltà fisiche di Palla di lardo (nome affidatogli dal sergente Hartman) nello svolgere gli esercizi per l’addestramento.

Infierire senza tatto e sensibilità sulle debolezze altrui. Questo è l’infame compito del sergente Hartman e l’impossibilità, dato il contesto militare, per Palla di Lardo di potersi ribellare. 

Kubrick in modo magistrale riesce a sottolineare questo accanimento disumano da parte del sergente Hartman. La disumanizzazione dei soldati deve avvenire prima dell’entrata in guerra. Si vogliono creare dei killer duri e spietati, pronti ad uccidere senza pietà.

Durante un’ispezione il sergente Hartman scoprirà che Palla di lardo ha rubato una ciambella dalla mensa. Come punizione tutti i soldati faranno le flessioni, eccetto Palla di lardo che, solo in mezzo a loro, sarà costretto a mangiare la ciambella.

I suoi compagni non ci stanno e si vendicano. Una notte lo colpiscono in pancia con delle saponette avvolte negli asciugamani mentre lui giace inerme nel sonno.

Full Metal Jacket: le contraddizioni di un’epoca

La misura è colma per Lawrence. Anche il suo sguardo cambia, inizia persino a parlare con il suo fucile. Tutto ciò fa presagire l’irreparabile, che avverrà durante l’ultima notte di addestramento.

Palla di lardo è in bagno con un fucile carico di pallottole full metal jacket. Il soldato Joker gli intima di tornare in stanza altrimenti saranno con la merda fino al collo. Palla di lardo risponde “Io ci sono già con la merda fino al collo”. All’arrivo del sergente Hartman, Palla di lardo spara colpendolo a morte e dopo decide di togliersi la vita.

L’esperienza nel Vietnam del soldato Joker non presenta particolari momenti di rilievo se non uno. Il soldato Joker porta una spilla della pace sulla sua tuta da soldato e sul cappello ha la scritta “Born to Kill”. Un suo superiore gli chiede spiegazioni e lui afferma che il simbolo e la scritta sono i due archetipi della dicotomia junghiana sull’istinto di Eros e su quello di Thanatos. O se vogliamo allargare lo sguardo ad un’altra interpretazione, i due archetipi fotografano le contraddizioni di quella generazione, dove da un lato del mondo regnavano l’amore libero e le istanze pacifiste, mentre nel Vietnam si continuava a combattere e uccidere.

Rimane esemplare la conclusione del film dove il soldato Joker torna a casa sano e salvo e traccia il suo bilancio

Vivo in un mondo di merda questo è vero, ma sono vivo e non ho più paura.

 

Gli stati modificati della coscienza. Neurofisiologia dell’insolito (2006) di Marco Margnelli – Recensione del libro

Ammetto che mi sono avvicinata alla lettura di questo libro forse spinta dalla mia provenienza da un piccolo paesino di provincia, uno di quelli in cui, d’estate, la nonna ti porta nella piazzetta vicino casa e intavola discussioni con le altre anziane del paese sedute su panchine dall’odore di ruggine.

 

Donne segnate dal tempo che trovano sollazzo nel discutere, a modo loro, di quanto la vita sia ancora un mistero da risolvere: e così, quasi in una gara a chi ne sa di più, riportano casi di amici di amici, conoscenti o lontani parenti che avevano vissuto strane esperienze al limite dell’inspiegabile, tra miracoli ed esperienze extracorporee.

Mi affascinavano i loro discorsi, mi piaceva vederle concitate nel cercare di dare spiegazioni a quei misteri da loro raccontati ed è così che il titolo del libro Gli stati modificati della coscienza. Neurofisiologia dell’insolito ha riacceso in me quell’interesse, misto alla voglia di conoscere la spiegazione scientifica da poter dare a quegli aneddoti.

Gli stati modificati della coscienza: un dialogo tra tanti

Il libro rientra nella collana “I dialoghi” che racconta, attraverso delle interviste, i personaggi scientifici, filosofi e matematici che hanno in qualche modo influenzato la scienza attraverso le loro scoperte o pensieri. Nella sezione in cui rientra Gli stati modificati della coscienza. Neurofisiologia dell’insolito, questi dialoghi vanno oltre: si tenta di intervistare personaggi del passato, recente o remoto, dando loro la forma di dialoghi “improbabili” ma al tempo stesso illuminanti.

L’intervistato di questo libro è il dott. Marco Margnelli, medico neurofisiologo e psicoterapeuta, uno dei pionieri nello studio degli stati modificati di coscienza. Ricercatore presso il Cnr, il Karl Ludwig Institut fur physiologie dell’Universita di Lipsia e l’Università del North Carolina, ha fondato il Centro studi e ricerche sulla psicofisiologia degli stati di coscienza a Milano. Marco Margnelli ci ha lasciato qualche anno fa. Nel libro, curato da Padre Emilio Alessandrini, viene data forma alle teorie e al pensiero di Margnelli, partendo dai suoi studi (rigorosamente riportati nella biografia del libro).

La caratteristica più notevole e attuale di Marco Margnelli è stata la sua curiosità scientifica per questioni inusuali e avvincenti (…) Ha imparato a non dare risposte prima di essersi posto con serietà le domande giuste – Spiega Padre E. Alessandrini – Marco Margnelli ha rappresentato una strana sintesi di scienza e mistero. Infatti ha studiato gli stati modificati di coscienza, come neurofisiologo, come addetto ai lavori, per cui quando smette di usare elettroencefalogrammi e dice quello che pensa, non smette di essere intelligente e critico, non parla a vanvera, le sue parole hanno un grande peso. Marco ha rappresentato un’affascinante sintesi di scienziato e bambino curioso

Gli stati modificati della coscienza guida il lettore alla scoperta, riga dopo riga, di temi misteriosi su cui ancora la scienza ha difficoltà a esprimersi e lo fa senza mai cadere in cialtronerie, ma dando una visione in cui si alternano neuroscienze, fisiologia, antropologia e psicologia.

Gli stati modificati della coscienza: la struttura del libro

La prima parte del libro si concentra sugli stati della coscienza così come oggi conosciuti, nonché risposta a una crisi epocale, caratterizzata da un malessere esistenziale generalizzato degli occidentali. Qui il contatto con se stessi è visto come via d’uscita, a volte sbagliando e ricorrendo alle modificazioni chimiche degli stati di coscienza (pensiamo ad esempio alle droghe) ma a volte positivamente, attraverso la meditazione ad esempio, riscoprendo le risorse interiori che ognuno ha dentro di sé.

Si passa poi alla storia della coscienza, quando si inizia a parlarne e a studiarla: ecco che viene presentato il riferimento alla storia della psicologia, della psicofisiologia e della psicoanalisi. Da Charcot a Janet, da Freud a Hofmann si delineano i passi avanti ma anche le lunghe battute d’arresto che lo studio sulla coscienza ha affrontato nel corso della storia.

Il libro si addentra poi nel vivo dei fenomeni più misteriosi di cui ancora oggi è difficile dare spiegazione. Il primo argomento è l’estasi religiosa: cosa succede in chi la vive? Si può parlare di una scarica emozionale di altissima intensità? Che ruolo ha l’amore e la devozione o la cultura di provenienza nel palesarsi di questo fenomeno?

La lettura prosegue sempre sul versante mistico, non dimentichiamo che Marco Margnelli ha a lungo studiato tali fenomeni, arrivando così ad affrontare il caso della comparsa di stigmate e di guarigioni miracolose. Sono riportati alcuni dei casi studiati da Margnelli, anche attraverso le moderne tecnologie e le conclusioni alle quali si è giunti.

Altre tematiche affrontate sono le OBE (out body experiences), ovvero le esperienze extra corporee e le NDE (Near Death Experiences): più oscure le prime, più riconosciute anche da scienziati e medici le seconde. E’ davvero possibile “staccarsi” dal proprio corpo e osservarsi dall’esterno, aleggiando nella stanza in cui ci troviamo?

Tra gli ultimi argomenti, ma comunque sempre ben analizzati, troviamo anche la pranoterapia e i sogni lucidi.

Gli stati modificati della coscienza:

Durante la lettura del libro in realtà molti perché restano sospesi, altrettanti interrogativi non trovano risposta. Un interrogativo tra tutti mi risulta più inappagato: perché non viene dato più spazio, nelle ricerche esposte e nei casi illustrati, anche alla storia di vita di chi manifesta certi fenomeni? Lontani dal patologizzare ma in virtù di uno sguardo più profondo, vien da chiedersi: quanto incide l’ambiente in cui questi individui sono vissuti? Qual è la loro storia di vita? Perché sull’argomento dissociazione non viene spesa qualche parola in più? Forse uno studio più approfondito delle ricerche di Mergnelli potrebbe darmi una risposta.

L’intervista, come abbiamo visto, tocca numerosissimi argomenti senza lasciare mai il filo logico che li lega l’un l’altro. Di notevole utilità è anche la scelta stilistica di chi ha curato il libro, di inserire delle domande volte a riassumere quanto scritto fino a quel momento, specie dopo aver toccato argomenti su cui il pensiero di Margnelli era molto ricco. Il lettore è così aiutato a destreggiarsi meglio tra i contenuti per poter poi proseguire con la lettura delle pagine.

Un libro grazie al quale perdersi tra rigore scientifico e questioni ancora aperte; una lettura per vedere con altri occhi argomenti spesso tabu per la ricerca; in fondo, pagine da sfogliare per riscoprire quanto sia piacevole, a volte, non avere una risposta a tutti i nostri perché.

Le potenzialità dell’intestino sulla salute mentale

Un approfondimento delle modalità di comunicazione tra intestino e cervello attraverso lo studio del microbiota intestinale potrebbe permettere di sviluppare nuove e promettenti terapie che usufruiscono di probiotici per il trattamento di alcuni disturbi come la depressione.

 

L’idea un tempo selvaggia secondo cui i batteri intestinali influenzino la salute mentale si è trasformata in un solido campo di ricerca grazie ad uno studio europeo, pubblicato recentemente su Nature Microbiology, che mette in luce il potenziale neuroattivo del microbioma in associazione alla qualità di vita e alla depressione in due coorti di popolazioni.

Le diverse associazioni tra sistema nervoso centrale e i miliardi di batteri nell’intestino, il microbiota, che hanno battezzato la loro denominazione in un unico asse, l’asse intestino-cervello, sono ora sotto gli occhi della ricerca scientifica che si è prefissa di investigare sempre più nel dettaglio i meccanismi causali attraverso i quali i microorganismi batterici che popolano l’intestino siano partecipi del funzionamento mentale e del comportamento sociale sia negli animali che negli esseri umani e di come questi potrebbero di conseguenza contribuire anche allo sviluppo di alcune condizioni patologiche quali la depressione (Jiang, Ling, Zhang et al., 2016).

Molto di quello che si sa a riguardo proviene prevalentemente da studi correlazionali che rimarcano la presenza di un’associazione tra specifici batteri intestinali e sindromi psicopatologiche, associazioni che però, sottolineano, non sono da intendersi di causa-effetto; un altro limite rappresentato dalle ricerche sull’asse intestino-cervello nella popolazione umana risiede nel fatto che i gruppi sperimentali utilizzati sono molto spesso di modeste dimensioni e pertanto questi studi potrebbero non isolare correttamente le variabili confondenti come diete alimentari insolite, l’uso di antibiotici o antidepressivi che determinano un’alterazione della flora batterica intestinale.

Nonostante ciò, la comunicazione bidirezionale tra i due sistemi suggerisce che il microbiota intestinale svolga un ruolo attivo non solo nella modulazione delle risposte immunitarie, ormonali e neurali dell’organismo che lo ospita, ma anche nella regolazione dell’epitelio intestinale, della permeabilità della barriera ematoencefalica e sia nel metabolismo o nella stimolazione che nella degradazione di componenti neuro attivi quali neurotrasmettitori (serotonina e GABA) e modulatori del sistema immunitario (e.s. acido quinolinico), che a loro volta ne modulano la crescita (Lyte & Brown, 2018).

Lo studio

Il nuovo studio di Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang e colleghi (2019) ha utilizzato sequenze di DNA per l’analisi delle “normali” variazioni del microbiota tramite campioni fecali in un gruppo di oltre mille individui reclutati in Belgio grazie al Belgium’s Flemish Gut Flora Project, confrontandoli con quelli provenienti da individui con una diagnosi di depressione o una bassa qualità di vita.

Il team di ricerca ha correlato differenti popolazioni microbiche con la qualità di vita e l’incidenza di sintomi depressivi utilizzando punteggi provenienti da self-report (The RAND-36 item Health survey e QoL questionnaire; Hays & Mazel, 1993) e diagnosi mediche sia autoriportate che certificate.

Le evidenze sono state ottenute tramite lo sviluppo di complesse metodologie e analisi che hanno consentito la profilatura delle diverse popolazioni microbiche, sia nei soggetti di controllo che in quelli patologici, potendo così generare un “catalogo” di 56 sostanze in grado di descrivere la capacità del microbiota di metabolizzare o degradare molecole cosiddette “neuroattive”, cioè interagenti con il sistema nervoso umano; in particolare due popolazioni di batteri, Coprococcus e Dialister, sono state associate ai campioni provenienti dagli individui affetti da depressione ma non a quelli con un’alta qualità di vita.

I risultati prodotti sulla popolazione belga sono stati validati tramite il confronto con le analisi microbiche provenienti da una popolazione danese reclutata grazie al progetto Dutch LifeLines DEEP trovando l’assenza delle due stesse specie di microrganismi nei soggetti danesi affetti da depressione.

Conclusioni e prospettive future

Nonostante lo studio di Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang e colleghi (2019) non stabilisca alcuna relazione causale, tuttavia costituisce un’associazione osservata su due popolazioni indipendenti e assai numerose. In aggiunta, i ricercatori hanno evidenziato una correlazione positiva tra qualità di vita e la potenziale capacità del microbioma intestinale nel sintetizzare un prodotto di degradazione della dopamina, l’acido 3-4 diidrossifenilacetico implicato nella depressione, che ha costituito il segnale più evidente di come il microbiota sia in grado di influenzare la salute mentale dell’organismo ospitante (Valles-Colomer, Falony, Darzi, Tigchelaar, Wang et., 2019).

A parere del team autore della ricerca, un solido approfondimento delle modalità di comunicazione tra intestino e cervello potrebbe aprire numerose e promettenti porte per nuove terapie che potrebbero usufruire di probiotici per il trattamento ad esempio della depressione o potranno aprire nuove prospettive metodologiche in grado di isolare all’interno del microbioma quei marker che potrebbero contribuire allo sviluppo di un profilo biologico sempre più accurato delle patologie mentali.

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