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Il padre simbolico e la sua funzione nelle istituzioni

Il ’68 e le sue contestazioni sono il manifesto di una ormai consolidata evaporazione della funzione paterna, che oggi però inizia a pesare in quanto la società senza il nome del padre non può perdurare se non nel Caos e in un mondo privo di leggi.

 

La visione che si aveva tempo fa del padre era quella di padre-padrone che possedeva un’autorità disciplinare e aveva nelle sue mani il potere nei confronti dei figli. La cultura patriarcale si basava su un sistema repressivo, che con gli anni è stato sempre maggiormente capovolto. Già nei primi anni del ‘900 con la comparsa nel panorama politico-storico di figure tiranniche e dispotiche, iniziano, dopo un periodo volto soprattutto al collettivismo e all’omologazione, le prime rivolte nei confronti del Padre, come colui che deteneva le Leggi, le Tradizioni, la Morale.

Nietzsche parlava della morte di Dio e con la morte di Dio, muore anche l’antico retaggio culturale del padre-padrone. Movimenti artistici e correnti filosofiche nel Novecento iniziano a sentire e a mostrare l’assenza del Padre, come della legge e si aprono le porte al nichilismo e al relativismo; basti pensare ai maestri del sospetto quali: Marx, Freud e Nietzsche, ma anche Einstein e scrittori come gli Apocalittici e i Futuristi in Italia ma anche più in generale appartenenti alla corrente del Decadentismo, che rifiutano completamente la funzione del padre e della vita sociale così come era stata prima concepita, percepita ormai come ipocrita e borghese.

Il ’68 e le sue contestazioni diventano il manifesto di una ormai consolidata evaporazione della funzione paterna, che oggi però inizia a pesare in quanto la società senza il nome del padre non può perdurare se non nel Caos e in un mondo privo di Leggi; l’assenza e la morte del padre non rendono fertile il terreno del desiderio e rendono l’esistenza dei figli sterile.

Non è la funzione paterna però ad essere morta, è il suo precedente valore simbolico legato a un tipo di cultura ormai superata ad essere morto, il padre e la sua funzione può essere dunque ricostruito e reinventato ma ciò può avvenire solo se responsabilmente il padre diventi testimone del proprio desiderio per rendere vivo il desiderio del figlio.

La funzione simbolica del padre

Il padre incarna la legge e la parola ed è appunto colui che umanizza la relazione con il figlio e che spezza la fusionalità narcisistica; è necessaria la parola, il linguaggio, per non rendere l’uomo simile all’animale. La funzione paterna, a differenza di quella materna che incarna la gratificazione, è anche simbolo della frustrazione, in quanto impone delle Leggi e delle Norme, cessa il godimento illimitato, ma proprio da lì nasce il desiderio.

Il padre volge il capo del figlio verso l’Altro e tramite il riconoscimento del figlio (“Tu sei mio figlio”) egli dona alla sua vita un senso, un valore. Il padre incarna per questo anche il desiderio dell’Altro, il figlio desiderio dell’altro, essere riconosciuto; essere riconosciuti significa incontrare la nostra singolarità che può avvenire solo grazie alla presenza dell’Altro.

Così come per la funzione materna anche quella paterna ha in sé alcuni rischi; infatti se da una parte la vita umana per essere tale non può prescindere dall’essere riconosciuta dal desiderio dell’Altro, dall’altra quando il desiderio patologico e spasmodico di essere riconosciuto assorbe tutta la vita del soggetto, accade un paradosso: il desiderio del figlio anziché trovarsi nel desiderio dell’Altro si smarrisce. Il desiderio del figlio si umanizza solo grazie al desiderio dell’Altro e attraverso il suo riconoscimento, ma allo stesso tempo il desiderio diventa anche “desiderio di avere un proprio desiderio”. L’identificarsi totalmente con il desiderio dell’Altro o al contrario non incontrare mai l’Altro, sono due forme sintomatiche di approcciare al paterno, l’una che porta all’annullamento di sé per essere completamente sottomesso e omologato al desiderio altrui, l’altro invece porta a rifiutare qualsiasi legame o dipendenza dal padre, annullando qualsiasi eredità. Bisogna sapersi servire del padre senza rinnegare qualsiasi legame con esso e senza prostrarsi continuamente al suo nome.

Il padre nelle istituzioni

Il nome del Padre, il linguaggio, l’Altro, in generale la funzione simbolica paterna fa in modo che il discorso del capitalista, quindi l’anti-discorso, non abiti l’istituzione rendendola mortifera. Infatti se non c’è il nome del Padre con le sue Leggi non ci sono limiti e non c’è freno al godimento e non può nascere il desiderio sia di chi lavora nell’istituzione sia dell’istituzione stessa, come per Bollas (2018), l’assenza del padre come funzione porterebbe all’uccisione della creatività, renderebbe l’uomo uno schiavo e ucciderebbe la soggettività nell’organizzazione.

Il lavoro porta l’individuo a confrontarsi con l’Altro umanizzandolo e ad essere riconosciuto inizialmente nel desiderio dell’Altro, seguendo norme, regole e prescrizioni, per poi prendere in mano il proprio di desiderio e quindi liberarsi dal peso della burocrazia, seguendo le regole e le norme in modo però puramente soggettivo e creativo.

La funzione paterna nel mondo del lavoro sublimizza le pulsioni, gli dà un limite e le rende vitali anziché mortifere, proprio grazie al simbolo del padre, il lavoro, se non alienante e se non conduce all’omologazione, può accendere il desiderio e quindi dare un senso all’esistenza dell’uomo.

Senza il padre l’istituzione, regolata da norme che gestiscono la reciprocità di ordine affettivo, non potrebbe realizzare l’obiettivo primario e non sarebbe più, rifacendoci alla visione di Girard (2011), il primo grande rito per ingannare la violenza, per disinnescare la pulsione di morte. Anche qui però se in un’istituzione vive soltanto la funzione paterna, si rischia che questa si fondi solo sul principio universale della limitazione del godimento, formando così però degli eserciti e un tipo di organizzazione piramidale, una deriva autoritaria, dove il desiderio viene mortificato. Come detto prima l’istituzione è ben funzionante quando funzione materna e paterna convivono reciprocamente.

 

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico: un problema nelle predizioni

Esiste una base biologica o evolutiva per la quale alcuni soggetti sono più esposti allo sviluppo di un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) rispetto ad altri? O è l’essere stati esposti ad un trauma a generare delle “tracce” che potrebbero fungere da marker diagnostici per la psicopatologia?

 

Un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Neuroscience, mostra come possa essere possibile combinare evidenze provenienti da diversi approcci per spiegare la relazione tra differenze individuali nell’apprendimento e gravità della sintomatologia relativa al trauma.

L’essere coinvolti in un evento traumatico quale ad esempio una violenza sessuale, un’aggressione fisica o una partecipazione militare in paesi sconvolti da guerre può avere effetti molto negativi e disabilitanti per la salute mentale.

A seguito del trauma esperito, alterazioni dell’arousal fisiologico e della reattività possono provocare reazioni stressanti, spropositate e non appropriate al contesto, oltre che una maggiore sensibilità a stimoli ambientali, neutri o ambigui, che tendono a venire percepiti come minacciosi o altamente pericolosi. I sintomi più comuni che possono manifestarsi a seguito di un evento traumatico sono solitamente legati alla riproposizione, anche dopo molto tempo dal suo verificarsi, dell’evento sotto forma di incubi notturni, immagini mentali o pensieri intrusivi che si ripresentano nell’arco della giornata in modo persistente e flashback in cui la persona ha di fatto la sensazione di rivivere l’evento traumatico.

Per fronteggiare questi sintomi, la persona sistematicamente mette in atto comportamenti di evitamento di tutti quegli stimoli che potrebbero rievocare il trauma o generare l’intensa paura provata durante l’evento traumatico; tuttavia il progressivo evitamento dei contesti e delle situazioni associate al trauma comporta progressivamente la riduzione dell’esplorazione ambientale e la comparsa di sintomi secondari di abbassamento del tono dell’umore in senso depressivo (Seriès, 2019).

La variabilità individuale nei confronti del trauma: un nuovo studio

La domanda a cui esperti e ricercatori in questo ambito cercano da sempre di rispondere riguarda il peso della variabilità e della sensibilità individuale nei confronti del trauma: esiste una base biologica o evolutiva per la quale alcuni soggetti sono più esposti allo sviluppo di un conseguente PTSD rispetto ad altri? O è l’essere stati esposti ad un trauma a generare delle “tracce” che potrebbero fungere da marker diagnostici per la psicopatologia?

Per cercare di rispondere a questa domanda, Homan, Levy, Schiller e colleghi (2019) del dipartimento di Medicina Comparativa, Neuroscienze e Psicologia dell’Università di Yale e della divisione di Neuroscienze Cliniche applicate al Veterans Affairs National Center for PTSD, hanno messo a punto un modello esplicativo della sintomatologia del PTSD combinando analisi morfologiche, funzionali, computazionali e psicofisiologiche.

Secondo gli autori, gli attuali modelli esplicativi proposti per il PTSD basati sul condizionamento avversivo, su anormalità nei processi di apprendimento, sul fallimento dei processi di estinzione o su deficit nell’acquisizione di associazioni specifiche tra cue ambientali e l’evento traumatico che determinerebbero l’ipergeneralizzazione dei sintomi ansiosi anche verso quegli stimoli ambientali che non sono associati all’evento traumatico, non sono in grado di chiarire o formalizzare i potenziali e specifici componenti di quelle anomalie nei processi di apprendimento che si osservano nel PTSD.

Lo studio di Homan e colleghi (2019), utilizzando il paradigma classico del condizionamento avversivo su un gruppo di 64 militari veterani, reso omogeneo sia per età, per genere che per diagnosi clinica fatta attraverso il CAPS (la Clinician-Administered PTSD Scale, aggiornata al DSM 5), è stato costituito da due fasi: una prima di apprendimento avversivo, nella quale i soggetti sperimentali sono stati istruiti ad associare determinati volti emotigeni a shock elettrici di lieve intensità e una di reversal learning, nella quale i cue precedentemente associati allo shock non venivano più presentati con quest’ultimo, “costringendo” così i soggetti a modificare e riaggiornare gli apprendimenti associativi appena avvenuti.

In particolare, quest’ultima fase ha permesso ai ricercatori l’esplorazione delle modalità attraverso le quali gli individui imparano a costruire predizioni circa il verificarsi dello shock, a partire dall’osservazione di un cue associato con esso e divenuto pertanto avversivo e la loro capacità di modificarle, aggiornarle o perderle in modo flessibile (Seriès, 2019).

Le prime evidenze ottenute hanno mostrato come indipendentemente dalla gravità dei sintomi di PTSD manifestati dai militari, il disturbo non aveva effetto né sull’acquisizione delle risposte condizionate né su quelle dopo la fase di reversal: tutti i soggetti hanno infatti dimostrato uguali capacità di apprendimento anche se sono emerse delle sottili e specifiche differenze interindividuali durante l’apprendimento di associazioni avversive (Homan, Levy, Schiller et al., 2019). Tali sottospecifiche sono state colte tramite l’unione di due modelli computazionali esplicativi dell’apprendimento per rinforzo, che si sono mostrate in linea con le registrazioni di conduttanza cutanea e con le analisi ottenute tramite fMRI.

Il primo modello d’apprendimento preso in riferimento si è focalizzato sul valore attribuito a ciascun cue durante l’apprendimento, valore continuamente aggiornato per ogni trial, basato sulle analisi computazionali compiute dal soggetto per stabilire se, per ogni predizione fatta, vi fosse una discrepanza tra quanto predetto e quanto invece realmente ottenuto. Il tutto misurato tramite l’errore di predizione.

Il secondo invece è stato utilizzato per descrivere e cogliere maggiormente il parametro di “associabilità” che permette di riflettere la quantità di attenzione da allocare a quegli stimoli “nuovi”, sorprendenti, ora predittori di altri outcome diversi da quelli precedentemente appresi, che costituiscono una modifica della predizione.

Conclusioni

Secondo questo modello, l’associabilità dinamicamente guida e modula l’apprendimento del valore accelerando quello di cue che predicono maggiormente un outcome e decelerando quello di quei cue le cui predizioni sono stabili e ormai affidabili: le associazioni più inaffidabili ricevono maggior attenzione in quanto potrebbero rivelarsi inaffidabili anche in futuro e dal momento che non prevedrebbero con certezza un outcome, necessitano in modo preferenziale di un aggiornamento non appena si rendono disponibili nuove informazioni nell’ambiente.

Dalla ricerca è emerso come i veterani che presentavano una maggiore gravità sintomatologica avessero assegnato un valore maggiore agli errori nelle predizione da loro fatte, in quanto probabilmente più sensibili alla loro identificazione; gli autori dello studio ipotizzano che ciò potrebbe essere dovuto al fatto che essi hanno la tendenza a porre maggiore attenzione e a sovrastimare quei cue che si rivelano fallibili.

A livello neurale, la ricerca di Homan e colleghi (2019) ha messo in luce come anche la computazione neurale, osservata tramite fMRI, si associ a questa valutazione alterata dell’errore nelle predizioni e contribuisca al manifestarsi della sintomatologia del PTSD: è stata infatti osservata nei veterani con alti punteggi al CAPS un’alterazione dell’attività neurale computazionale nello striato, a livello ippocampale e nella parte dorsale della corteccia cingolata anteriore.

Ciò suggerisce che l’alta attenzione allocata e l’alto peso assegnato agli errori di predizione quando diminuisce l’associabilità trial dopo trial, osservata nei veterani gravi, si possano sviluppare a seguito di quest’alterazione nelle regioni cerebrali appena citate, deputate alla computazione della minaccia (Li, Schiller et al., 2011) e ciò spiegherebbe anche l’esagerata reattività nei confronti di stimoli o eventi nuovi e inaspettati, così come il bias attentivo e l’avversione per l’ambiguità, nei confronti di informazioni negative percepite patologicamente come inevitabili e non prevedibili (Homan, Levy, Schiller et al., 2019).

Questo nuovo ed innovativo approccio che tenta di integrare e combinare insieme in un unicum, modelli diversi ed evidenze fisiologiche, neurobiologiche, computazionali e funzionali, ci consentirebbe di mettere in relazione quei marker latenti relativi ai processi interni d’apprendimento e di valutazione con le evidenze neuro funzionali che potrebbero costituire obiettivi specifici per lo studio e il trattamento della psicopatologia legata al trauma.

HIV: l’infezione potrà essere ridotta del 67% nel prossimo decennio

L’infezione da HIV colpisce più di 1,1 milioni di americani e ogni anno dal 2013 al 2017 ci sono state 40.000 nuove diagnosi.

 

Queste diagnosi erano altamente concentrate in alcuni gruppi di persone: quasi il 70% era tra uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM), il 50% tra persone che vivevano nel Sud e più del 40% tra gli afroamericani. Anche se si stima che l’incidenza sia diminuita del 15% durante il periodo 2008-2015, la prevalenza è aumentata di circa il 17% durante lo stesso periodo, indicando progressi inadeguati nel controllo dell’epidemia negli Stati Uniti.

Metodi e strumenti per la diagnosi e la prevenzione

Strumenti per la diagnosi, il trattamento e la prevenzione dell’HIV possono ridurre il fenomeno. Test per questo virus estremamente accurati sono disponibili in una varietà di contesti clinici e non clinici. Per le persone con questa diagnosi, le terapie antiretrovirali riducono notevolmente la morbilità e rendono trascurabile il rischio di trasmissione dell’HIV, se assunte coerentemente. Queste terapie sono state anche adattate per l’uso come pre-esposizione altamente efficace (PrEP) e profilassi post-esposizione (PEP). Oltre ai metodi biomedici, le strategie comportamentali, tra cui l’uso del preservativo e gli interventi di riduzione del danno, rimangono valide ed efficaci strategie per prevenire la trasmissione del virus.

Per questa ricerca si sono utilizzati i dati aggiornati di sorveglianza dei Centers for Disease Control and Prevention per stimare i parametri quantitativi degli obiettivi, ambiziosi ma raggiungibili, di prevenzione dell’HIV a livello nazionale.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista AIDS and Behavior.

HIV: la diffusione potrebbe essere ridotta, lo afferma uno studio americano

Si stima che le nuove infezioni da HIV potrebbero essere ridotte fino al 67% e la prevalenza potrebbe iniziare a diminuire entro il 2030 se il 95% degli obiettivi per la diagnosi, per la cura e per la soppressione virale saranno soddisfatti entro il 2025, ed un ulteriore 20% delle trasmissioni sarà evitato attraverso interventi mirati, come la profilassi pre-esposizione. In particolare, ciò richiederebbe modelli innovativi e una sostanziale espansione dei servizi di supporto. Anche se l’obiettivo di riduzione dell’incidenza di HIV del 90%, come svelato dallo State of the Union Address 2019 è probabilmente irraggiungibile con l’attuale kit di intervento, tuttavia è possibile iniziare a ridurre sostanzialmente la prevalenza dell’HIV nel prossimo decennio, con investimenti e innovazione sufficienti.

Secondo uno studio condotto dalla Georgia State University e dalla Università di Albany-SUNY gli interventi di prevenzione mirati per le persone a rischio di Human Immunodeficiency Virus sono rapidamente aumentati.

La Dott.ssa Heather Bradley, autrice principale dello studio e assistente alla cattedra della School of Public Health at Georgia, afferma che:

è importante stabilire obiettivi di prevenzione dell’HIV ambiziosi, ma realistici. È noto che trattare le persone che vivono con l’HIV migliora la loro salute e impedisce la trasmissione dell’infezione da HIV ad altri. Tuttavia, il trattamento di un numero sufficiente di persone per ridurre significativamente le nuove infezioni da HIV ci imporrà di affrontare problemi come povertà, alloggi instabili e condizioni di salute mentale, che impediscano alle persone affette da HIV di accedere alle cure.

Aumentando notevolmente il numero di persone che ricevono cure e trattamenti, combinati con strategie di prevenzione mirate per le persone a rischio di infezione da questo virus, potrebbero verificarsi riduzioni sostanziali delle nuove infezioni nel prossimo decennio.

Riscrivere le memorie funziona: un aiuto – vero – dalle neuroscienze

Affinché sia possibile l’elaborazione di un trauma, è importante che la traccia originale delle memorie traumatiche, localizzata nel nucleo dentato dell’ippocampo, venga riattivata perché si possa verificare la riduzione della paura remota ad essa connessa. In terapia questo trova applicazione nell’uso di tecniche immaginative con il paziente.

Delia Lenzi

 

Un esperimento del gruppo di Neuroscienze di Losanna guidato dal Prof. Johannes Gräffur definisce le basi e i processi neuronali che supportano l’uso di tecniche immaginative (Khalaf et al. Science, 2018) e ne dimostra l’efficacia. In questo esperimento sono state usate tecniche molto sofisticate capaci di localizzare prima e di studiare poi, in-vivo, i singoli neuroni del nucleo dentato dell’ippocampo dei topi, l’area coinvolta nella funzione di codifica, richiamo e riduzione della paura.

I topi sono stati geneticamente modificati inserendo nel loro DNA un gene “reporter”, cioè una proteina fluorescente (i geni sono le istruzioni per produrre proteine), che produce un segnale identificabile e misurabile ogni volta che il neurone si attiva. I ricercatori hanno quindi sottoposto i topi a una serie di stimoli dolorosi (shock elettrici) per indurre memorie traumatiche a lungo termine e hanno identificato la sottopopolazione di neuroni del nucleo dentato coinvolta nell’immagazzinamento di questo tipo di memorie.

A seguire, i topi sono stati sottoposti ad un training di riduzione della paura, simile a quello di esposizione utilizzato nei soggetti umani: passavano alcune sessioni nella gabbia dove erano stati “traumatizzati” ma senza lo stimolo doloroso.

Sorprendentemente, quando i ricercatori hanno guardato nuovamente nel cervello dei topi, hanno riscontrato che quelli che guarivano più velocemente erano i topi che durante l’esposizione avevano attivato maggiormente i neuroni contenenti la memoria del trauma.

Questo dato ha fatto ipotizzare che tale popolazione di neuroni fosse coinvolta sia nell’immagazzinamento che nel processo di attenuazione delle memorie traumatiche. Come controprova i ricercatori hanno ridotto selettivamente l’eccitabilità di questi neuroni contenenti la memoria traumatica durante la terapia espositiva e riscontrato che questi topi non mostravano attenuazione della paura (misurato in secondi di freezing), cosa che invece avveniva nei topi non modificati. Come controllo è stata ridotta l’eccitabilità di altre aree dell’ippocampo e questo effetto non si verificava. Infine, aumentando l’eccitabilità dei neuroni durante l’intervento terapeutico, il topo mostrava un’aumentata riduzione della paura.

Questo insieme di esperimenti ha dimostrato, in sintesi, che la traccia originale mnemonica della paura, localizzata nel nucleo dentato dell’ippocampo, deve essere riattivata affinché si possa verificare la riduzione della paura remota ad essa connessa.

Si tratta di dati che, è importante sottolineare, appaiono solidi e nitidi come di rado accade nell’ambito delle neuroscienze cognitive, dove spesso le difficoltà dovute alle infinite variabili e alla localizzazione di ciò che studiamo rendono gli studi sperimentali così complessi da essere difficilmente riproducibili.

Che implicazioni hanno questi risultati per la psicoterapia?

Negli umani, le memorie traumatiche – principalmente di tipo relazionale – sono la causa trasversale di numerose patologie psichiatriche; è stimato che circa un terzo della popolazione mondiale soffrirà di disordini legati allo stress o alla paura durante la loro vita.

Le immagini mentali legate ad esse sono componenti fondamentali dell’esperienza interna del paziente e ci forniscono dati importanti per la comprensione della sofferenza emotiva ma soprattutto sono un accesso vivo al sistema dei significati ad esse legati. Per questo le tecniche espositive ed immaginative con riscrittura delle memorie traumatiche sono tra le più efficaci e recentemente sono tornate in auge nella comunità cognitivista. (Hackmann, Bennett-Levy e Holmes, 2014; Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, 2019).

L’imagery consiste nel fare rievocare al paziente con l’immaginazione ricordi dolorosi del passato per poterli rielaborare e reinterpretare. In Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI) le tecniche di immaginazione sono uno strumento molto utilizzato per condurre il paziente verso la costruzione di schemi interpersonali più adattivi. La potenza di questa tecnica deriva dal fatto che può essere applicata a diverse fasi della terapia e all’interno di diverse procedure (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore 2019).

Quando in TMI (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) raccogliamo uno o più episodi narrativi facciamo una prima operazione di ricostruzione degli schemi disfunzionali alla base della sofferenza. L’episodio narrativo è un evento preciso, localizzato nel tempo e nello spazio, che ci permette di far emergere in modo chiaro e non distorto da generalizzazione ed intellettualizzazioni cosa il paziente prova in quel tipo di situazioni e in relazione agli altri. Ciò che ci interessa dell’episodio è la componente interpersonale: sulla scena appare il paziente, con un desiderio attivo (es. vorrei sentirmi amato), e l’Altro che nello schema patogeno solitamente risponde al desiderio in maniera disfunzionale (es. non è interessato), creando nella memoria del paziente previsioni “se… allora” del tipo: se desidero essere amato… incontro un Altro che non mi ama.

Utilizzare le tecniche immaginative sulle memorie relazionali che corrispondono agli schemi disfunzionali porta il paziente prima ad individuare in modo chiaro le varie componenti che li compongono: l’immagine di sé e le emozioni ad esse connesse e poi permette di modificare l’immagine di sé all’interno dello schema e non ultimo ad identificare risorse e parti sane che promuovono la comprensione della mente altrui e il decentramento. Questi sono gli elementi fondamentali per la costruzione di schemi interpersonali più funzionali e adattivi.

Detto in termini neurobiologici ipotizziamo – forti dei risultati dell’esperimento descritto – che attraverso l’immaginazione guidata stiamo riattivando i neuroni del nucleo dentato del paziente, custodi della memoria relazionale traumatica, per ridurre l’attivazione ansiosa ad essa connessa e preparare il campo per una nuova memoria relazionale.

E non stupiamoci se l’immagine che abbiamo di noi in questo momento è di un chirurgo sul campo operatorio.

Daniel Siegel: dal concetto di integrazione alla finestra di tolleranza – Introduzione alla Psicologia

Daniel Siegel è autore di diverse pubblicazioni, in Italia sono stati pubblicati diversi suoi libri, tra cui: La mente relazionale (2001), Errori da non ripetere (2005), Mindfulness e cervello (2009), Minsight (2011), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino con Tina Payne Bryson (2012).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La vita

Daniel J. Siegel è nato il 17 luglio 1957 negli stati uniti d’America. Egli ha conseguito la laurea in medicina presso la Harvard Medical School e ha completato la sua formazione post-lauream presso l’università della california, UCLA, specializzandosi in pediatria e psichiatria infantile, adolescenziale e per adulti. Siegel divenne un membro dell’istituto di ricerca per la salute mentale presso l’UCLA, dove svolgeva studi in merito alla relazione esistente tra tipo di attaccamento e emozioni, comportamento, e memoria.

Attualmente, è professore di psichiatria sempre presso l’UCLA ed è fondatore del Mindful Awareness Research Center. Inoltre, è direttore del centro Mindsight Institute, in cui si relizzano corsi di formazione per famiglie e comunità e anche del Life Span Learning Institute e dell’Advisory Board della Blue School di New York City, oltre ad essere membro del Consiglio di fondazione presso l’Istituto Garrison.

Siegel è autore di diverse pubblicazioni, tra cui il libro più note risulta essere: The Developing Mind: come le relazioni e il cervello interagiscono per dare forma a chi siamo, in cui, per la prima volta, si parla di neurobiologia interpersonale.

In Italia sono stati pubblicati diversi suoi libri, tra cui: La mente relazionale (2001), Errori da non ripetere (2005)Mindfulness e cervello(2009), Minsight (2011), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino con Tina Payne Bryson (2012).

Siegel è stato invitato a partecipare a diverse conferenze e convegni in ambito scientifico e non, ad esempio è stato ricevuto dal re di Thailandia, da Papa Giovanni Paolo II, dal Dalai Lama, etc.

Attualmente, Vive nel sud della California con la sua famiglia.

Il Pensiero di Siegel

Siegel è noto per il suo lavoro in ambito di neurobiologia interpersonale e per la mindfulness. Recentemente, ha integrato questi approcci proponendo una pratica volta ad armonizzare la parte interna ed esterna degli individui.

Alla base della teoria di Siegel si ha il concetto di integrazione, un processo che origina dal concetto di gerarchizzazione delle diverse parti del cervello. Siegel, dunque, si rifersce alla teoria del cervello tripartitico di McLean, in base alla quale esistono tre strutture cerebrali che sviluppano in diversi periodi cronologici, generando tre diverse parti del cervello: il troncoenecefalo, evolutivamente più antico; il sistema limbico sottocorticale, più recente rispetto al primo, e la neo-corteccia, ultima a formarsi.
La salute mentale dunque si ha quando le diverse parti sono integrate tra loro fino a rendere fluide tutte le componenti e le funzioni del cervello.

L’Integrazione tra le diverse strutture cerebrali porta alla integrazione della coscienza e delle diverse parti del sé.

Siegel, inoltre, introduce il concetto di finestra di tolleranza, legato alla sfera del tono dell’umore che varia durante l’arco della giornata rispettando un andamento sinusoidale, che varia a seconda delle diverse situazioni esterne che si verificano nell’arco della giornata. Fluttuare all’interno della finestra di tolleranza è normale, ma se si dovesse andare oltre, allora si ha uno stato chiamato disregolazione, ovvero perdita di controllo o apatia. Di conseguenza, si manifesta malessere psichico, che consiste nell’incapacità di trovare strategie di regolazione emotiva che consentano di rientrare all’interno della finestra di tolleranza.
Siegel sostiene che ognuno riesce a individuare la strategia propria per rientrare nella finestra di tolleranza, ma per fare questo è necessario possedere delle buone capacità di mastery, ovvero controllo dei propri stati interni. Inoltre, l’ampiezza della finestra di tolleranza varia con l’età per cui è minima alla nascita e massima in età adulta, solo nel caso in cui si è ottenuto uno sviluppo equilibrato, derivante da un attaccamento sano, che ha consentito una giusta tolleranza alla frustrazione, garantendo l’adeguata gestione degli sbalzi emotivi.

L’attaccamento, dunque, è considerato un processo innato, adattivo, biologicamente determinato, e induce in età adulta a stabilire relazioni simili al tipo di attaccamento infantile sviluppato. Le relazioni di attaccamento consentono al bambino di creare uno schema interno del Sé che è codificato a livello cerebrale e le esperienze infantili modellano i diversi circuiti cerebrali coinvolti. I neuroni attivati creano una mappa mentale o modello specifico di attivazione neurale, che richiama un’immagine mentale o sensoriale o una rappresentazione linguistica di un concetto. Secondo Siegel, si crea di conseguenza un sé emergente, un proto sé, determinato in gran parte da caratteristiche genetiche e innate. Questo senso di sé è radicato nel cervello così come nelle sue interazioni con l’ambiente e in relazione al funzionamento altrui. Inoltre, l’interazione con l’ambiente esterno consente al sé di evolversi e di avere un senso di coerenza essenziale per la crescita e, per questo, il sé diventa integrato.

Il modo in cui il cervello crea le immagini di sé e di altre menti è definita da Siegel mindsight. La mindsight è una capacità complessa che si sviluppa durante l’infanzia e che può essere arricchita durante l’intero arco di vita attraverso l’esperienza (Aitken e Trevarthen, 1997).

La mente, dunque, è un insieme di parti del cervello che funzionano in sinergia ovvero sono integrate tra loro. Quindi, se non esistesse un funzionamento ottimale, a causa di esperienze negative di attaccamento, la mente del bambino potrebbe funzionare come un sistema non integrato. Al contrario i bambini con attaccamento sicuro sembrano avere maggiori risultati durante il loro sviluppo (Cassidy & Shaver, 1999) come: flessibilità emotiva, funzionamento sociale e abilità cognitive. Esperienze e relazioni interpersonali sane, dunque, determinano un normale e naturale processo di resilienza, ovvero un risanamento a livello cerebrale di vecchie ferite impresse dalle esperienze. Questo processo di resilienza è definito sintonizzazione, inteso come la capacità di stabilire relazioni reciproche con gli altri sia a livello verbale sia emotivo sia comportamentale.

Chi presenta un attaccamento disorganizzato, invece, mostra diversi disagi emotivi, relazionali e cognitivi, oltre a una marcata predisposizione alla disregolazione. Quindi, la mancanza di esperienze precoci di sintonizzazione porta al manifestarsi di diverse forme dii disagio, di disregolazione, di scarsa resistenza allo stress, con effetti destabilizzanti anche sul sistema immunitario. L’insieme di questi effetti nocivi può causare una modifica nell’attivazione dei geni, la cosiddetta epigenesi. Quindi, la scelta di un percorso di attivazione piuttosto che un altro può essere influenzata da queste esperienze non sane, che potrebbero essere alla base del disagio psicologico.

Secondo Siegel una buona capacità di mindsight deriva dall’integrazione del funzionamento dell’emisfero destro e sinistro, La dissociazione, invece, si ha nel momento in cui si possiede una scarsa capacità di mindsight. Per cui, buone capacità cognitive e una buona integrazione tra le parti dovute a un attaccamento sano, migliorando la connessione tra i due emisferi e favoriscono la capacità di mindsight.

Se un individuo ha subito un trauma, la mente non è riuscita a integrare i vari aspetti delle esperienze traumatiche o di perdita, e in questi casi i comportamenti diventano riflessivi e la mente attua modelli di risposta inflessibili. Per questo, le emozioni possono inondare la mente e il comportamento consapevole diventa abbastanza alterato (Siegel, 2001). Ciò può produrre reazioni emotive eccessive, turbolenze interiori e un conseguente senso di vergogna e umiliazione. In tali condizioni, l’individuo può essere incline a manifestazioni di rabbia e aggressività o a mettere in atto comportamenti invadenti o violenti, mentre è gravemente compromessa la capacità dell’individuo di mantenere una comunicazione collaborativa con gli altri.

Mindfulness

In base a questi assunti teorici la psicopatologia e i disturbi mentali possono essere considerati come una conseguenza di un deficit di integrazione. Per questo, il terapeuta avrà il compito favorire l’integrazione nel paziente, per produrre maggiore benessere.

Secondo Siegel è possibile raggiungere questo scopo attraverso una consapevolezza mindful. Avere un atteggiamento mindful significa saper guidare consapevolmente la propria attenzione. Infatti, uno degli obiettivi della pratica mindfulness è di aumentare il grado di consapevolezza che consente di osservare il cambiamento, ma anche gli automatismi di pensiero, le emozioni e il modo in cui la mente si lega a questi aspetti mutevoli. Siegel sostiene che riuscire a stabilire una connessione con se stessi, vivere consapevolmente momento per momento, può attivare lo stesso meccanismo risanatore, a livello cerebrale, che si attua nel momento in cui si vivono delle esperienze terapeutiche. Si ottiene in questo modo una vera e propria integrazione neurale. 
Quindi, la mindfulness modifica il cervello promovendo la plasticità neurale e di conseguenza il cambiamento delle connessioni neurali in risposta all’esperienza.

La pratica della consapevolezza mindful coinvolge ed integra varie zone del cervello. Queste aree svolgono un ruolo fondamentale per il benessere, promuovendo funzioni importanti quali: la regolazione corporea, la comunicazione sintonizzata, l’equilibrio emotivo, la flessibilità della risposta, l’empatia, l’insight, la modulazione della paura, l’intuizione, la moralità (Siegel, 2001).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

L’Infanzia dei Dittatori (2018) di Véronique Chalmet – Recensione del libro

Véronique Chalmet, giornalista ed esperta di psicologia e criminologia, ha raccolto, ne L’Infanzia dei Dittatori, i vissuti infantili e le dinamiche familiari di dieci personaggi storici, conosciuti come sanguinari e violenti (Pol Pot, Idi Amin Dada, Stalin, Gheddafi, Hitler, Franco, Mao, Mussolini, Saddam Hussein e Bokassa).

 

Attraverso un linguaggio caratterizzato da un mescolamento di ironia e tragedia, l’autrice ha dimostrato che basta un solo uomo per cambiare la storia mondiale, per uccidere, sterminare e torturare una popolazione intera.

L’infanzia dei dittatori: che cosa li accomuna

In quasi tutte le loro storie d’infanzia si assiste ad uno scenario di estrema negatività; in particolare, questi bambini hanno vissuto in prima persona paure, ansie, frustrazioni e violenze sia fisiche che psichiche.

Nella maggior parte dei casi queste emozioni spiacevoli e queste violenze venivano provocate da padri perturbati psicologicamente, libertini, violenti, alcolizzati.

Pertanto l’assenza di un rapporto sano con i loro padri, ha portato questi personaggi a divenire adulti psicologicamente frustrati, perturbati, privi di empatia ed incapaci di instaurare relazioni interpersonali significative.

Ovviamente la Chalmet sottolinea che non tutti coloro che hanno subito abusi o violenze in età evolutiva diventano degli assassini assetati di potere e che questi elementi biografici rappresentano un fattore di rischio non da solo sufficiente a trasformare un bambino vessato in un dittatore sanguinario.

Oltre a un’infanzia che potremmo definire traumatica i dieci dittatori hanno vissuti comuni, tra cui: la crisi di una civiltà, una guerra e una rivoluzione. I suddetti avvenimenti sociali avrebbero contribuito all’innesco del delirio di onnipotenza, il quale era già dormiente nella psiche tormentata, debole e ferita di questi personaggi.

L’infanzia dei dittatori: le storie di chi ha insanguinato la storia

A Pol Pot, dittatore cambogiano, fu impartita un’educazione rigida ed improntata al rispetto per chi lo nutriva, caratterizzata da una repressione dei propri sentimenti. Sin da bambino si è dimostrato privo di qualsiasi talento, ma nonostante ciò ambizioso.

Idi Amin Dada, dittatore ugandese, è nato da una relazione extraconiugale. La madre era una strega e svolgeva dei rituali magici ma sanguinari, i quali perturbarono in modo non indifferente la psiche del figlio.

Proprio per questa ragione il signore di tutte le bestie della terra e di tutti i pesci del mare (come amava proclamarsi), riprodusse fedelmente quanto appreso dalla madre maga e quando non era abbastanza coinvolto in queste macabre torture, guardava volentieri i grandi classici di Walt Disney. Questo dimostra come i tratti infantili e quelli psicopatici possano coesistere.

Stalin, figlio ottenuto da una relazione extraconiugale, sin da quando era in fasce ha subito dei maltrattamenti da parte di un padre alcolista (conosciuto in tutto il paese come “Beso il Matto”) e di una madre di facili costumi. Entrambi lo picchiavano, il padre perché lo odiava, la madre perché lo amava.

Il padre, anche egli perturbato, mal sopportava che il figlio potesse avere un livello di istruzione superiore al suo, proprio per questa ragione lo picchiava e lo costringeva a lavorare come calzolaio.

Da adulto, l’incapacità di provare affetto e l’incapacità di legarsi alle persone, fa sì che il dittatore russo si disinteressi persino di suo figlio; infatti quando quest’ultimo fu rapito dai tedeschi, lo fece giustiziare perché rifiutò qualsiasi accordo. Giustificò questa azione ritenendo che gli affari di guerra erano affari di guerra.

Mu’ ammar Gheddafi, anch’egli figlio illegittimo di un aviatore francese, fu forse l’unico ad essere amato e viziato, forse fin troppo, dai suoi genitori e dalle sue sorelle. In quanto unico figlio maschio, mandato dal volere divino, secondo i loro genitori, avrebbe trovato da solo il suo avvenire e avrebbe fatto grandi cose.

Il “re dell’Africa” (come egli stesso si dichiarò), passò alla storia per aver ucciso molti uomini, le cui esecuzioni venivano trasmesse con regolarità in televisione, probabilmente per far intimorire chi non voleva piegarsi alla sua dittatura.

Hitler, figlio di genitori consaguinei, ha assistito sin da piccolo sia direttamente sia indirettamente alla violenza. Il “signor padre” (l’appellativo con cui si faceva chiamare) era un donnaiolo e spesso picchiava moglie e figlio.

Una volta, il piccolo Hitler, stanco di vedere soffrire la madre per le violenze fisiche, lanciò un coltello al padre e quest’ultimo lo picchiò talmente tanto da ridurlo quasi in fin di vita. Le innumerevoli violenze ricevute, Adolf, le riproduceva a scuola, infatti, picchiava i suoi compagni di scuola ebrei.

Ciò che il dittatore tedesco si porterà a vita sarà l’odio nei confronti del padre, tanto da distruggere il suo villaggio natale e da costruirci un poligono.

L’infanzia di Franco è anche essa cupa, fu educato in modo rigido e senza svaghi. Il padre aveva molte amanti e la madre era eccessivamente devota, tanto da inculcare il suo credo nel figlio. Non appena sarà diventato adulto, Franco, accecato dall’odio verso suo padre, lo rinnegherà.

Mao, costretto da suo padre a nutrirsi dei suoi avanzi, è anch’egli cresciuto in un clima di violenza e di ingiustizie. Una volta cresciuto, il rancore e l’odio nei confronti di suo padre saranno talmente forti, che lo porteranno ad affermare che non gli sarebbe dispiaciuto torturarlo per potersi vendicare di tutto il male che gli aveva fatto.

L’educazione di Mussolini è stata caratterizzata da una miscela tra violenza ed indottrinamento delle idee politiche del padre. Il padre del Duce era alcolizzato e tradiva spesso la moglie con tante donne e nonostante quest’ultima sapesse delle avventure del marito decise, comunque, di rimanere al suo fianco.

Mussolini eccelleva a scuola e nel teatro, però era un bullo, infatti picchiava senza pietà i suoi coetanei (come a volte faceva il padre per temprargli il carattere).

Saddam Hussein, era il figlio indesiderato ma mandato da Dio. Il padre abbandonò la madre quando scoprì che era incinta, la madre tentò diverse volte di abortire.

Nonostante gli innumerevoli tentativi, Saddam nacque e lei se ne lavò le mani lasciandolo nelle mani del patrigno. L’unico gesto d’amore che ricevette fu da suo zio, che gli regalò un’arma, che Saddam ultilizzò per compiere il suo primo omicidio.

Infine, l’infanzia di Bokassa, è stata segnata dalle torture dei colonizzatori francesi i quali costrinsero ai lavori forzati i suoi genitori e successivamente li uccisero. Il dittatore della Repubblica Centrafricana, crebbe con uno spirito di rivalsa e vendetta. Non appena si arruolò come militare ebbe successo e non appena depose suo cugino, divenne capo dello stato. Nel 1977 si fece incoronare attraverso un rito che si avvicina a quello di Napoleone Bonaparte. La sua carica durò tredici anni e il numero dei morti a suo carico tuttora è sconosciuto. Questo despota prediligeva torturare i prigionieri e quando erano ancora agonizzanti li gettava in pasto o ai leoni o ai coccodrilli.

Impose diverse le leggi, in particolare, costrinse i bambini ad indossare delle uniformi costosissime, tuttavia gli scolari che si opposero a Bokassa furono arrestati, torturati e uccisi.

Non appena i francesi vennero a sapere dell’accaduto gli tolsero il potere.

Le storie hanno un tratto comune, tutti sono stati convinti o dal loro narcisismo o da altre persone di essere degli individui eccezionali e tutti hanno avuto il potere di decidere sul destino dei propri connazionali.

L’autrice dimostra infine, come la mancanza di rimorso, di affetto, di compassione e di sensibilità sia ridondate in queste storie e correlata a difese psichiche attivate per far fronte alla traumaticità dei contesti relazionali in cui sono cresciuti.

 

Immagine corporea e consapevolezza interocettiva: quale relazione?

La percezione del proprio corpo è una fonte essenziale di autocoscienza e identità personale e contribuisce alla regolazione del comportamento ed al mantenimento della salute fisica e mentale.

Adriano Mauro Ellena

 

Il modo in cui viviamo e percepiamo il nostro corpo dipende dai segnali che questo ci invia, oltre che dalle informazioni esterocettive e dalla loro valutazione cognitiva ed affettiva.

La consapevolezza dei segnali interni del proprio corpo, come il battito del cuore o la frequenza respiratoria, può migliorare l’autoimmagine corporea.

Immagine corporea e consapevolezza interocettiva: lo studio

La scoperta deriva da uno studio britannico condotto su un campione di quasi 650 uomini e donne di età compresa tra 18 e 76 anni.

I ricercatori della Anglia Ruskin University spiegano che la consapevolezza interocettiva – la misura in cui le persone sono consapevoli dei segnali interni emessi dal corpo come battito cardiaco o sensazione di disagio o fame – sembra essere associata ad una miglior immagine corporea. Le loro scoperte sono state pubblicate nella rivista Body Image.

Mentre studi precedenti sull’argomento tendevano ad utilizzare campioni composti da piccoli gruppi di giovani donne, questo studio include entrambi i generi in una fascia di età molto ampia. I ricercatori hanno scoperto che le persone che possono sostenere l’attenzione verso i segnali interni del proprio corpo tendono a riportare livelli maggiori di immagine positiva del corpo.

Immagine corporea e consapevolezza interocettiva: i risultati e gli sviluppi futuri

È stato anche scoperto che le persone che si fidano dei segnali interni del proprio corpo hanno maggiori probabilità di avere una visione positiva del proprio fisico e sono meno preoccupate di poter essere in sovrappeso.

L’autrice principale, Jenny Todd, ha dichiarato:

Sfortunatamente, le esperienze di immagine negativa del corpo sono estremamente comuni, nella misura in cui alcuni studiosi considerano questa esperienza normale per le donne nella società occidentale.

La nostra ricerca trova associazioni tra la consapevolezza dei segnali interni del corpo e le misure dell’immagine corporea. Ciò potrebbe avere implicazioni per la promozione di un’immagine corporea positiva, ad esempio modificando la consapevolezza interocettiva attraverso pratiche basate sulla consapevolezza. Tuttavia, la ricerca dimostra anche che la relazione tra consapevolezza interocettiva e immagine corporea è complessa e richiede ulteriori approfondimenti.

La difficoltà di percepire la realtà della morte cerebrale e l’opposizione alla donazione di organi

Banalmente e volgarmente si potrebbe sintetizzare la definizione di morte come “l’unica cosa certa della vita”. Come tale e come simbolo di ignoto per eccellenza, da sempre l’uomo si interroga su questo fenomeno, provandone angoscia, paura, talora sollievo laddove la vita terrena non offra altro che sofferenza.

Alessandra Gottardello, Marco Tanini

 

Per secoli la morte ha rappresentato un argomento che poteva essere trattato, al di là delle dissertazioni filosofiche già presenti fin dall’antichità, solo dalla Chiesa (di qualunque credo), dalla teologia, dalla metafisica, mentre è solo a partire dal XVIII secolo, sulla spinta della rivoluzione illuministica, che ha origine una meditazione più o meno sistematica e scientifica sul tema, proprio in concomitanza della nascita e dello sviluppo della disciplina tanatologica (Sozzi M., 2014).

Lungo il percorso della storia, come si vedrà, molteplici saranno i criteri che si susseguiranno per stabilire il decesso e solo nella seconda metà del secolo scorso si proporrà quello tuttora accettato, almeno nel nostro Paese e seppur non senza dibattiti, della “morte cerebrale totale”.

Donazione degli organi: si parte dalla constatazione della morte

Per lungo tempo, l’ordinamento giuridico non avvertì la necessità di definire cosa fosse la morte; tanto meno, si riteneva la morte un momento che dovesse essere normato, facendo parte della naturale evoluzione della vita, così come la nascita (Pizzetti F.G., in De Ceglia F.P., 2014).

Solo con lo sviluppo, in particolare, delle tecniche rianimatorie, nonché delle possibilità offerte dalla trapiantologia, a partire soprattutto dalla seconda metà del XX secolo, la legge dovette codificare una disciplina che regolasse il momento in cui poteva considerarsi avvenuta la morte.

Infatti, fermo restando che la vita dell’individuo rimane il bene principale e a favore del quale bisogna profondere ogni sforzo atto a salvarla e preservarla, è necessario individuare il momento in cui si può considerare cessata l’esistenza di un soggetto.

Nell’evoluzione normativa si rintraccia un lungo percorso in cui si sono succeduti diversi criteri sulla base dei quali poteva avvenire la dichiarazione di morte di un individuo: dalla L. 644 del 1975 alla L. 578 del 1993, passando per l’emanazione della L. 91 del 1999 in materia di trapianti.

Constazione della morte prima e dopo della L. 578/1993

Il primo atto legislativo che è necessario citare qui è il R.D. 11 gennaio 1891, n. 42, che, agli articoli da 9 a 12, dispone un tempo minimo necessario di 24 ore di osservazione dal momento del presunto decesso prima di poter procedere ad autopsia, imbalsamazione, inumazione o cremazione della salma, salvi i casi in cui il medesimo periodo debba essere prolungato ad un massimo di 48 ore nelle morti improvvise o apparenti, ovvero, al contrario, possa essere ridotto a meno di 24 (nei decessi per malattie contagiose, in presenza di un corpo con evidenti segni di decomposizione o «per altre ragioni speciali»).

Dal brevissimo excursus storico relativo all’evoluzione della normativa di polizia mortuaria e le disposizioni sulle modalità per stabilire la morte di un individuo, appare nitidamente che gli atti sopra nominati avessero come fine precipuo quello di bilanciare le esigenze di scongiurare la sepoltura in vivo, da un lato, e quelle di sanità e igiene pubbliche, dall’altro.

Infatti, oltre ai periodi di osservazione di cui si è dato conto, non viene previsto nessun accertamento medico-legale per determinare il momento della morte. Le conoscenze tanatologiche sono ancora relativamente arretrate o scarse, così come le tecniche rianimatorie devono ancora svilupparsi appieno.

Tuttavia, nella seconda metà degli anni Cinquanta del ‘900, la prima legge sui trapianti introduce all’art. 4 la specifica locuzione «accertamento della realtà della morte», verifica necessaria per poter, in un successivo momento, procedere a prelevare gli organi da donare ad altri soggetti.

Tale accertamento, che deve essere effettuato secondo i criteri della semeiotica medico-legale, ai sensi del D.M. 7 novembre 1961 consta del tracciato elettrocardiotanatodiagnostico, metodo all’epoca ritenuto più rispondente a criteri di sicurezza di diagnosi precoce di morte e di praticità di applicazione. L’esecuzione di detto tracciato veniva assegnata a personale medico qualificato del settore.

Ecco che, dunque, viene introdotto per la prima volta, al di fuori delle leggi di polizia mortuaria peraltro, un primo metodo di accertamento della morte.

Tuttavia, è necessario precisare che, come si vedrà poco oltre, al fine di rendere utilizzabili gli organi potenzialmente prelevabili di quegli individui che, ora, vengono dichiarati morti senza che i più o meno lunghi periodi di osservazione siano spirati, il criterio della “morte cardiaca” rimane non utilizzabile, in quanto l’assenza di perfusione durante il periodo corrispondente a quello di osservazione renderebbe impossibile l’intervento.

Donazione degli organi: il D.M. agosto 1969 denota più attenzione ai trapianti

Pochi anni più tardi, con il D.M. 11 agosto 1969, accanto all’elettrocardiotanatodiagnosi, che rimane il metodo principale da adottare, ne viene introdotto uno ulteriore, limitatamente ai casi di «soggetti sottoposti a rianimazione per lesioni cerebrali primitive», per i quali dovrà essere effettuato il tracciato elettroencefalografico unitamente a mezzi della semeiotica neurologica clinica e strumentale determinati biennalmente dal Ministero della Salute su parere conforme del Consiglio Superiore della Sanità.

La ratio legis è evidente: oltre a raggiungere la certezza della morte del soggetto, si voleva preservare e potenziare la possibilità di procedere a trapianti che, proprio da quegli anni, guadagneranno un ruolo sempre più importante e incidente nella medicina moderna.

Siffatto accertamento verrà svolto da un collegio composto da un medico legale, un medico anestesista rianimatore e da un neurologo esperto in elettroencefalografia. Importante specificare che suddetti medici componenti il collegio accertatore non devono far parte dell’équipe che procederà, se del caso, al trapianto.

Si affaccia, dunque, il modello dell’accertamento elettroencefalografico come metodologia più adeguata alle tecniche e alle esigenze trapiantologiche, in quanto stabilire che la morte irreversibile è quella che sopraggiunge al cessare delle funzioni cerebrali e non cardiocircolatorie permette di risolvere in radice una basilare questione, non solo giuridica.

Infatti, nell’ipotesi di accoglimento della definizione di morte come arresto delle funzioni cardiocircolatorie, l’atto di procedere a espianto del cuore potrebbe essere posto in essere solo nel momento in cui l’organo risulti privo di battiti; ma, in tal caso, fisiologicamente, esso risulterebbe privo anche di flusso sanguigno, in probabile anossia, condizioni che pregiudicherebbero il buon esito dell’intervento. D’altro canto, per scongiurare il rischio di perdere la disponibilità dell’organo da trapiantare, si dovrebbe procedere a prelievo quando esso batta ancora, ossia quando il soggetto donatore tecnicamente risulta ancora vivo.

In altre parole, se la morte fosse diagnosticabile solo attraverso la rilevazione della cessazione delle funzioni cardiocircolatorie, l’espianto dell’organo cardiaco, come di tutti gli organi, ancora in funzione avrebbe comportato la violazione, da parte dei medici, del disposto dell’art. 5 c.c. che vieta tutti gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una lesione permanente dell’integrità psicofisica del soggetto, oltre che la loro esposizione alla legge penale, alla responsabilità civile e deontologica per un’ipotesi di omicidio (Puccini C., 2003).

Si comprende, dunque, che non era possibile sposare siffatta tesi, a meno di incorrere in seri problemi giuridici, bioetici e deontologici, i quali sarebbero, invece, appunto disinnescati nel momento in cui si considerasse la morte come cessazione delle funzioni cerebrali.

Così, paradossalmente, le medesime tecniche rianimatorie che nel frattempo si affinavano sempre più e sempre più permettevano di “riportare in vita” individui colpiti da blocco cardiorespiratorio, quindi rappresentando un potenziale quanto concreto paracadute, al tempo stesso rischiavano di costituire un ostacolo insormontabile ai fini dei trapianti: fintanto che il soggetto fosse stato mantenuto in vita tramite l’assistenza di macchinari per la respirazione, questi non sarebbe mai potuto essere considerato legalmente morto e, dunque, non avrebbe mai potuto candidarsi come donatore di organi.

La soluzione si palesò grazie al cosiddetto “rapporto di Harvard”, le cui conclusioni saranno poi accolte dal Legislatore negli anni successivi (Pizzetti F.G., in De Ceglia F.P., 2014).

Si può affermare, dunque, che i nuovi paradigmi stabiliti dai numerosi interventi legislativi e regolamentari succedutisi nel volgere di pochi anni sono stati introdotti non tanto o non solo per una sentita necessità di giungere ad una determinazione precisa della morte in risposta a bisogni “morali”, ma, piuttosto, per favorire lo sviluppo della nobilissima disciplina dei trapianti, sulla scia anche della storica svolta segnata dal primo trapianto di cuore eseguito in Sudafrica nel 1968 ad opera del dottor Christiann Neethling Barnard.

Si era resa improcrastinabile la necessità di approntare una normativa che consentisse, da un lato, da un punto di vista medico-scientifico, di “sfruttare” al meglio i potenziali organi disponibili ad essere reimpiantati in soggetti che ne necessitavano; da un altro, giuridicamente parlando, di fissare criteri certi e determinati per scongiurare possibili conseguenze circa responsabilità a vario titolo dei sanitari all’atto di prelevare organi vitali quando, in realtà, il donatore poteva essere considerato ancora in vita.

Morte cerebrale: il rapporto di Harvard e l’avvento della L. 578/1993

Ma è solo con la L. 578/1993 che viene chiarito, all’art. 1, che «la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».

Anche se all’art. 2 viene richiamata la morte derivante da arresto cardiaco, essa costituisce solamente una “specie” di morte, dovendosi procedere con le modalità di accertamento previste dalla norma. Sicché, si deduce, se l’arresto cardiaco e la conseguente interruzione della funzione circolatoria e respiratoria non produce la cessazione delle funzioni encefaliche, non è possibile dichiarare la morte del soggetto.

Ecco che, dunque, ora l’unico criterio di accertamento è quello della morte cerebrale.

Per il resto, la legge in oggetto ricalca quella del 1975, demandando a chiare lettere alla fonte regolamentare le modalità clinico-strumentali di accertamento della morte. Questa delegificazione è importante per fugare i dubbi, sorti in precedenza, se il tema de quo fosse contraddistinto da riserva di legge assoluta o relativa: è ora pacifico che il Legislatore fissa le linee fondamentali della disciplina, mentre gli atti regolamentari si occuperanno di quella di dettaglio (ciò che avveniva prima della Legge 644/1975).

Quindi, il D.M. dell’11 aprile 2008, che richiama in larghissima parte (ma formalmente lo sostituisce) quello del 22 agosto 1994, n. 582, emanato subito dopo la legge in parola, definisce nel dettaglio i requisiti clinico-strumentali per l’accertamento della morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a rianimazione e stabilisce un periodo di osservazione durante il quale deve perdurare la situazione richiesta pari a sei ore. All’inizio e alla fine di tale periodo deve essere compiuta la rilevazione della simultaneità delle condizioni richieste da parte di un collegio medico, laddove fino all’avvento del D.M. in parola ne era prevista una terza.

La presente legge e il presente decreto rappresentano oggi l’unico riferimento in materia di accertamento di morte, non mancando, comunque, di suscitare dubbi e critiche anche in capo alla giurisprudenza che, in verità, poche occasioni ha avuto per esternare la sua interpretazione del disposto normativo, nonostante i molteplici problemi sorti.

La differenza oggettiva tra morte biologica e morte clinica costituisce, quindi, il discrimen in base al quale sorge, in capo al Legislatore, la necessità di fissare dei criteri di fronte ai quali, pur non essendosi ancora raggiunta la prima, sia possibile dichiarare la seconda; criteri che devono rispondere, come si è già visto, a esigenze di irreversibilità, certezza, univocità, integralità e tempestività.

Donazione di organi e morte cerebrale

La difficoltà di percepire come morta una persona a cui continua a battere il cuore è l’elemento che determina gran parte del numero di opposizioni alla donazione di organi.

Nell’ anno 2016 il tasso di opposizione si è attestato al 32,8%, mentre nel 2017 questo è sceso al 28,7% con notevoli differenze a livello regionale.

Donazione degli organi e percezione della morte cerebrale img1

 

Incidenza tasso di opposizione in Italia anni 2016/2017

Importante è sottolineare che la morte in quanto tale consta di un’unica definizione, questa però può essere accertata con due metodiche differenti: da una parte la metodica diretta in cui si va a constatare la totale ed irreversibile distruzione dell’encefalo, l’altra indiretta in cui si presuppone che questa distruzione sia avvenuta in seguito alla verifica della cessata attività cardiaca.

l’ipotesi della scelta individuale del criterio

Pur considerando tutte le innumerevoli variabili presentate da ogni singolo caso, si può affermare che il primo atto post mortem è la constatazione del decesso, da cui discende il suo accertamento e, successivamente, la dichiarazione. Ognuno di questi ha un fine precipuo, che va da quello legale e amministrativo a quello puramente sanitario, con possibilità di sconfinare in sede medico-legale qualora si sia in presenza di reato o sospetto tale.

Ma se dal punto di vista medico-legale o tanatologico le questioni di difficile risoluzione sono casi isolati, si può affermare che i veri problemi risiedano a monte, ossia nella qualificazione e individuazione del momento in cui una persona può essere dichiarata morta.

Si è visto che la legge, in proposito, ha dovuto compiere una scelta di quali criteri ritenesse i più validi e certi per dichiarare morta una persona, ma non sono gli unici accoglibili. La stessa pronuncia della Corte costituzionale, di cui si è dato conto, offre il grado di molteplicità di scelte che possono essere compiute in merito, richiamando, sul finire della parte del considerato in diritto, il concetto di “tronco cerebrale”, la cessazione irreversibile delle funzionalità del quale rappresenterebbe il momento della morte.

In realtà, il tronco cerebrale costituisce solo una delle funzioni dell’encefalo, o meglio, la sua distruzione irreversibile sta alla base di una delle concezioni di morte che ancora oggi si contrappongono e contribuiscono a complicare il quadro della materia. Accanto a questa, si richiami la concezione secondo la quale la morte si identifica con la cessazione di tutte le attività encefaliche e quella che richiede la distruzione della corteccia cerebrale, quella che si ritiene essere la sede delle funzioni che connotano l’individuo (Cozzolino U. e Izzo F., 2012).

Oltre questi dubbi, ci si può chiedere anche se quello della Corte costituzionale, laddove parla di “tronco encefalico”, debba qualificarsi come errore o come tentativo consapevole di provare ad introdurre nell’ordinamento un differente concetto da quello di “morte cerebrale totale” accolto dal Legislatore del 1993, e nuove riflessioni si aprono de iure condendo alla luce del contemperamento di più interessi che, se del caso, dovranno essere tenuti in considerazione nell’ipotesi in cui si volessero modificare i criteri di definizione di morte.

Infatti, da un lato vi è il bene primario ed essenziale della vita, che deve essere sempre e quanto più salvaguardato e garantito anche in forza del dettato costituzionale; dall’altro la scienza dei trapianti, che non può essere né limitata, né implementata senza controllo.

Così, è stato prospettato, seguendo gli esempi di New Jersey e Giappone, di permettere a ognuno di decidere, magari in modo simile a quello previsto dalle disposizioni anticipate di trattamento (Di cui alla L. 22 dicembre 2017, n. 219, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), all’interno del ventaglio di possibilità ammesse dalla legge, con quale criterio dovrà essere dichiarata la propria morte, se in base alla cessazione delle funzioni cerebrali oppure a quelle cardiorespiratorie.

Scenario suggestivo questo, ma difficilmente attuabile se appena si consideri la difficoltà che potrebbero incontrare molti soggetti nella comprensione del complesso tema e, ancora più a monte, la necessità che i diversi criteri di morte entro cui scegliere dovrebbero comunque essere già accolti nell’ordinamento, poiché non è ipotizzabile un “trattamento fai da te” sul momento conclusivo dell’esistenza umana.

Essere brutte persone è molto (troppo?) facile. Ecco perchè

Essere brutte persone sarebbe la nostra innata tendenza di esseri umani. Nessuno escluso, saremmo tutti portati a dare il peggio di noi quando ci rapportiamo agli altri.

 

Lo afferma il neuroscienziato Christian Jarrett e ne avrebbe anche le prove.

Leggendo i 10 punti della ricerca di Jarrett riportati da Anna Maria Testa nell’articolo apparso recentemente su L’Internazionale, mi sorprendo a pensare in modo alternato: In effetti forse sarebbe meglio che il genere umano si estinguesse, oppure; Ma io credo nella capacità delle persone di trovare e dare il meglio di se!. Vengono in mente anche le teorie dell’approccio evoluzionista secondo cui per sopravvivere dobbiamo collaborare e cooperare con gli altri. Cooperare, aiutare ed essere empatici ci conviene. Lo sostengono anche alcuni studi neuroscientifici su altruismo ed empatia. Se ne sarebberro accorti i nostri antenati molto prima di arrivare alle forme di società attuali, perchè dovremmo averlo dimenticato proprio noi, oggi?

Essere brutte persone: ma gli altri sono peggio di me!

In effetti qualche dubbio sorge, confrontando quanto afferma Jarrett con le notizie di attualità. Secondo lui tutti tendiamo a considerare meno umane di noi le persone fragili, facenti parte di minoranze o appartenenti a culture molto diverse dalla nostra. E’ una tendenza molto pericolosa, specie se unita ad ignoranza e povertà e se al Governo ci fosse un Ministro della Paura, come quello del comico Antonio Albanese.

Oltretutto commettiamo anche parecchi errori cognitivi. L’hanno affermato premi Nobel come Kahneman. Volendo vedere del marcio ancor più di Jarrett, viene da pensare anche che qualcuno di noi lo sappia e se ne serva deliberatamente e intenzionalmente per “fregare” gli altri. Ad esempio: consideriamo solo una piccola parte di informazioni e rimaniamo in superficie. Poi, sulla base di queste poche cose che sappiamo ci costruiamo opinioni, parliamo al bar, votiamo.. Ah, come se non bastasse, di solito siamo anche convinti di saperne parecchio. In ogni caso, sempre più degli altri. Non importa se non è il nostro lavoro oppure se ci siamo fermati a leggere solo il titolo scorrendo la home di un social oppure se la nostra sia l’eccellente e famigerata Università della Strada.

Essere brutte persone: ognuno ha ciò che si merita

Un altro aspetto che provoca quasi ribrezzo, tra i dieci punti illustrati da Jarret, è la tendenza che abbiamo di pensare che, in fondo in fondo, ognuno ha quello che si merita. Esiste una giustizia divina e ognuno raccoglie quel che ha seminato, che siano malattie, relazioni o condizioni socio-economiche. Un proverbio dice Chi è causa del suo mal, pianga se stesso, in qualche modo escludendo dalle possibili cause la sfortuna, il caso, le difficoltà e non considerando che, come afferma Marsha Linehan, ognuno di noi, sebbene sommerso da enormi difficoltà, fa sempre del suo meglio, ci prova.

Agire correttemente e comportarsi bene è l’altra faccia della medaglia di questa convinzione: se mi impegno, la giustizia divina mi ripagherà, su questa terra e oltre. Se non mi impegno, me la vedrò con il senso di colpa. Ergo: chi se la passa male, chissà cosa avrà combinato per meritarselo.

Preferisco dare fiducia alle persone: mi serve perché non potrei mai vivere in solitudine e ho bisogno come il cibo di calore, amore, affetto ed amicizia. Preferisco dare fiducia alle persone perché la voglio dare anche a me: penso di poter evolvere, migliorare, perdonarmi, volermi bene. Preferisco dare fiducia alle persone perché credo profondamente che si possa crescere umanamente e secondo me si riesce più facilmente all’interno di una relazione in cui l’altro ci dà fiducia.

 

 

HRI – La comunicazione tra uomo e macchina

L’interazione con un’entità artificiale sarebbe simile a quella con un altro essere umano. Quali sono i meccanismi psicologici coinvolti nella comunicazione uomo-robot?

 

Da recenti ricerche emerge che l’interazione con un’entità artificiale è simile a quella con un altro essere umano. Quali sono i meccanismi psicologici coinvolti durante questo processo comunicativo?

 

HUMAN-ROBOT INTERACTION – GUARDA IL VIDEO:

 

I problemi della ‘sicurezza’: l’impatto psicologico e psicosociale della legge 132/2018 – Comunicato stampa AIP

Documento della Associazione Italiana di Psicologia

Comunicato Stampa

 

L’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) è una società scientifica che raccoglie la maggioranza dei ricercatori e professori di discipline psicologiche operanti nelle università italiane.

L’AIP ha tra i propri compiti l’analisi su base scientifica delle politiche pubbliche, dal punto di vista del ruolo dei fattori psicologici e psicosociali implicati. In ragione del suo ambito di competenza, l’AIP ha sviluppato un’analisi delle implicazioni psicologiche e psicosociali delle recenti disposizioni legislative in tema di immigrazione contenute nella Legge 132/2018 (conversione del cd. Decreto sicurezza). L’analisi si è focalizzata sul rapporto tra contesto psicosociale, finalità del legislatore e modalità di perseguirle previste dal dispositivo legislativo, in particolare dal punto di vista della previsione dell’impatto psicologico e psicosociale di medio termine.

A. Aspetti salienti della Legge

La legge 132/18 ha eliminato la figura giuridica del permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria (art. 1). Tale permesso aveva la durata di due anni e consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale. Esso riguardava coloro che, pur sprovvisti dei requisiti previsti per l’asilo politico o per la protezione sussidiaria, avrebbero corso, in caso di rimpatrio, il serio rischio di subire trattamenti disumani o degradanti, o di incorrere in limitazioni rilevanti della libertà. La protezione per ragioni umanitarie ha negli anni scorsi rappresentato la motivazione più frequente per la concessione del permesso di soggiorno (circa il 25% delle richieste di asilo, corrispondenti a circa il 70% dei permessi concessi; riferimento anno 2018; fonte Eurostat). Al suo posto sono stati introdotti una serie di permessi per casi specifici: “protezione speciale”, “per calamità naturale nel Paese di origine”, “per condizioni di salute gravi”, “per atti di particolare valore civile” e “per casi speciali” (vittime di violenza grave o sfruttamento lavorativo).

Di fatto, con la cancellazione della protezione per ragioni umanitarie:

a) la platea di coloro che possono beneficiare del permesso di soggiorno si è significativamente ristretta;

b) la maggior parte dei rifugiati che otterrà il permesso di soggiorno secondo la nuova casistica, si troverà in condizione di maggiore precarietà e minori tutele giuridiche e assistenziali;

c) molti degli attuali rifugiati con il permesso di soggiorno per motivi umanitari non avranno i requisiti per il rinnovo, per cui alla sua scadenza si troveranno in una condizione di irregolarità, anche quelli che nel frattempo si erano regolarmente e proficuamente inseriti nel contesto socio-economico italiano.

Nel complesso, secondo stime conservative [1], nel prossimo biennio, a seguito del decreto sicurezza, il numero di irregolari presenti in Italia potrebbe aumentare notevolmente: 60.000-70.000 persone rischiano di trovarsi prive della possibilità di lavorare e di fruire di qualsiasi forma di tutela giuridica e assistenza socio-sanitaria, destinate dunque ad una condizione di grave marginalità, ulteriormente favorita dal depotenziamento – anch’esso introdotto con il decreto (art. 12) – del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – le strutture di accoglienza che in questi anni hanno operato come fondamentale risorsa per l’integrazione dei migranti).

B. L’impatto psicologico e psicosociale della Legge

Sulla base di una estesa letteratura [ad es. 2-5], è oltremodo plausibile attendersi che la condizione di marginalità (e.g. precarietà, inoccupazione, povertà, impossibilità di fruire di forme di previdenza e assistenza) cui sono destinati molti degli attuali e futuri richiedenti asilo avrà un impatto altamente dannoso sulla loro salute psico-fisica, in termini di maggiore incidenza di malattie, disagio psicologico, disturbi mentali, condotte autolesive e suicidarie.

Vi sono del resto solide basi scientifiche per prevedere che la Legge 132/2018 avrà rilevanti effetti negativi diretti e indiretti anche sulla società italiana, in ciò contravvenendo paradossalmente alle finalità per cui è stato pensato.

Effetti diretti

Dal momento che la condizione di marginalità tende ad alimentare comportamenti antisociali e devianti in coloro che lo subiscono [ad es. 6, 7], è probabile che l’incremento di immigrati in condizione di irregolarità possa portare ad un aumento, piuttosto che ad una riduzione, dell’incidenza di fenomeni di micro-criminalità, degrado urbano, segregazione territoriale, con ovvie conseguenze negative sulla qualità della vita della popolazione italiana generale. Quando accompagnate da inuguaglianza economica, le differenze etniche diventano ulteriore fonte di sfiducia e minaccia per la società. Al contrario, quando l’istituzione mette in atto politiche utili a gestire la diversità etnica e al tempo stesso per ridurre le inuguaglianze economiche generali, non solo l’immigrazione non è più una minaccia da temere ma diventa risorsa per la società. Studi [ad es. 8] hanno evidenziato il ruolo centrale delle istituzioni e delle politiche statali nel modificare e rendere proficui gli effetti dei flussi migratori.

Effetti indiretti

L’effetto negativo più preoccupante è tuttavia indiretto e riguarda la dinamica psicosociale di cui la Legge 132/2018 è al contempo riflesso e vettore.

In via di premessa va riconosciuto che la legge 132/18 rappresenta il tentativo del Legislatore di dare risposta al senso di radicale incertezza sociale ed economica diffusi entro la società italiana, in conseguenza dell’impatto dirompente delle dinamiche della globalizzazione [9-10].

La reazione oggi prevalente all’incertezza è di natura difensiva ed emozionale [11], caratterizzandosi in termini identitari e di “nemicalizzazione” dell’altro, in particolare del non-italiano, che viene connotato come minaccia dalla quale proteggersi. Secondo un recente studio [12, 13], circa il 60% della popolazione adulta italiana, è profondamente sfiduciata, percependosi alle prese con un contesto sociale ed economico inaffidabile e persecutorio; al contempo tale maggioranza di Italiani ha una visione negativa dell’immigrato e più in generale dell’estraneo o del “diverso”, vedendo nell’appartenenza identitaria l’unica possibile difesa dalla minaccia, che percepisce venire dall’esterno.

Nel loro complesso, le disposizioni relative al tema dell’immigrazione contenute nella Legge 132/18 – oltre alle misure sopra richiamate, la Legge prevede: il raddoppio dei tempi di trattenimento nei centri di prima accoglienza; la revoca della cittadinanza in alcuni casi gravi – si prestano obiettivamente ad essere lette come portatrici di una visione dell’immigrazione come problema di sicurezza (è questo del resto il nome con cui è conosciuto il decreto successivamente convertito dalla Legge 132/2018): come una minaccia da cui difendersi (per una discussione del punto comprensiva del panorama europeo, cfr. [14]). In tal modo la Legge 132/18 si sintonizza sul senso di incertezza diffuso. Tuttavia, essa risponde ai timori dei cittadini non tanto ribadendo la giusta e doverosa rigorosità nelle procedure di accoglienza ma in un modo che corre il rischio di assecondare ed alimentare, piuttosto che elaborare, la reazione difensiva, viscerale ed emozionale che caratterizza attualmente una parte consistente della società italiana.

Il rischio, in altri termini è di rinforzare la visione emozionale dell’immigrato come minaccia dalla quale difendere se stessi, la comunità, l’Italia (tale visione trova parzialmente riflesso anche sui media; si veda in proposito [15]) È opportuno precisare che quanto appena affermato non significa negare l’impatto potenzialmente critico dell’immigrazione – specie sui segmenti più svantaggiati della popolazione italiana – dunque il fondamento di realtà che sta alla base della percezione sociale degli immigrati come un problema (per una discussione di questo aspetto dal punto di vista economico, ad es. cfr. [16]). Da un punto di vista psico-sociale, ciò che è in discussione non sono le obiettive criticità che l’immigrazione può comportare da un punto di vista macro e micro economico, ma la natura emozionale della risposta sociale (cioè la trasformazione del fattore di criticità in un nemico) e le sue implicazioni sul ‘capitale sociale’, inteso come atteggiamento sociale di fiducia, congiunto a norme che regolano la convivenza e le reti di impegno civico [17]. Intaccando in modo sostanziale il ‘capitale sociale’ (già in crisi per motivi diversi, ad esempio economici), la “nemicalizzazione” dell’immigrato è un processo che nel medio periodo è destinato a danneggiare la stessa società che lo esercita. Ciò si comprende tenendo conto del fatto che tale processo consiste in una visione viscerale ed emozionale, fondata sullo schema affettivo amico/nemico. Data la sua natura profondamente affettiva, lo schema amico/nemico non resta circoscritto all’oggetto specifico che lo innesca, ma tende inevitabilmente a generalizzarsi trasversalmente ai diversi domini della vita sociale [18-19; per quanto riguarda la mancanza di vincolo tra specifico elemento di innesco e modo generale di interpretare, si veda anche 20]. Ciò significa che, una volta che lo schema affettivo secondo cui si interpreta emozionalmente l’incertezza come causata da un altro/nemico si è insediato nel contesto culturale, esso non si limita ad operare nei confronti di specifiche categorie di ‘altro’, ma tende ad espandere la propria rilevanza su qualsiasi forma di diversità significativa: nazionalità, genere, orientamenti sessuali, appartenenza territoriale, credo religioso, opinione, status professionale, ecc. In questo modo, la ‘nemicalizzazione’ dell’altro e la conseguente polarizzazione delle relazioni diventano elementi endemici del modo di interpretare e agire le relazioni sociali ed interpersonali, non solo con lo “straniero” ma anche all’interno dei gruppi sociali di riferimento (gli italiani, ma anche il territorio, la propria organizzazione di lavoro, eccetera). La crescita di episodi di violenza verbale e fisica (ad es. sulla rete, nei confronti del personale sanitario e delle istituzioni educative) si presta ad essere interpretata come un segnale del processo di generalizzazione cui ci si sta riferendo. Il suo impatto si può misurare in termini di grave decadimento del capitale sociale (fiducia, civismo, reti sociali), di deterioramento delle infrastrutture civiche e istituzionali, di anomia; in definitiva, in uno scadimento complessivo tanto del sistema complessivo quanto della qualità della vita a livello individuale1. Non da ultimo occorre ricordare che questa visione di pericolo costantemente associata al fenomeno della migrazione aumenta nelle persone il senso di minaccia sociale. Molti studi hanno evidenziato che l’aumentare del senso di minaccia è significativamente associato non solo a comportamenti di tipo estremo, ma anche agli orientamenti autoritari, soprattutto nelle persone sensibili a questi aspetti. Vale a dire che la manipolazione del senso di minaccia che deriva dal presentare lo straniero come un nemico è l’anticamera di atteggiamenti che minano alla radice l’agire democratico [ad es. 23-24].

Osservazioni conclusive

Sul ruolo del capitale sociale nel funzionamento dei meccanismi economici e istituzionali si veda, ad es. [21]; sulla dipendenza tra contesto psico-sociale e comportamento economico si veda [22]; sul rapporto tra contesto culturale e percezione di sé: [13].

La ricerca psicologica ha prodotto evidenze in favore del carattere non alternativo ma complementare di identità e diversità [ad es. 25-27]. L’identità di un popolo si fonda sulla molteplicità che solo l’integrazione delle differenze – interne ed esterne – può assicurare: come del resto esperienze pluriennali di paesi come Gran Bretagna e Germania hanno mostrato. Su tale base, è realistico – proprio sulla base delle evidenze delle scienze psicologiche e sociali – suggerire un’inversione radicale nell’approccio culturale, prima ancora che legislativo, al tema immigrazione. È strategico che le politiche in tale ambito passino da una logica “nemicalizzante” ad una orientata invece da scopi di integrazione e valorizzazione della relazione con l’alterità. Ciò non solo, lo ripetiamo, per ragioni di natura etica o di generica disponibilità ad una indiscriminata “accoglienza”; ma soprattutto perché così facendo si introdurrebbe un rilevante fattore di contrasto alla diffusione entro la società italiana della nemicalizzazione dell’altro, un “virus culturale” capace di produrre danni gravi al tessuto umano, civile, socio-economico e istituzionale del nostro Paese.

Esercitare il controllo sulla fonte di stress: i possibili benefici in età adolescenziale

Un recente studio ha dimostrato che avere una percezione di controllo sulla fonte causa di stress, in adolescenza, consente di diminuire gli effetti dell’evento o della situazione stressogena in età adulta, fino al punto di ridurre il rischio di un successivo esordio di disturbo mentale.

 

L’esposizione a eventi stressanti durante l’adolescenza intensifica la vulnerabilità e il rischio di sviluppare psicopatologie durante l’età adulta, come per esempio dipendenza da droghe, disturbi dell’umore, ansia, dipendenza dal gioco d’azzardo, disturbo da deficit dell’attenzione e dell’iperattività.

Lo studio

Un recente studio condotto dall’Istituto di Neuroscienze dell’Università Autonoma di Barcellona ha indagato i fattori implicati nella riduzione dello stress utilizzando tre gruppi di ratti di sesso maschile. Un gruppo è stato sottoposto, in età adolescenziale, a diverse sessioni di eventi stressogeni che potevano essere controllati agendo in un certo modo (attraverso l’interruzione o la prevenzione). Il secondo gruppo ha partecipato allo stesso numero di sessioni stressanti, ma il comportamento dei ratti, in questo caso, non aveva alcun effetto sugli eventi (stress incontrollabile). Il terzo gruppo ha svolto la funzione di controllo e non è stato sottoposto a situazioni causa di stress.

Durante queste esposizioni, i ricercatori hanno quantificato l’intensità delle reazioni dei ratti agli stimoli stressanti mediante la misurazione delle risposte endocrine per via dell’attivazione dell’asse ipotalamo-iposfisi-surrene (HPA). Successivamente, nella fase adulta, sono stati condotti ulteriori esperimenti per misurare le variabili cognitive e l’espressione del recettore dopamina del tipo 2 nello striato dorsale, un’area del cervello rilevante per i comportamenti misurati.

I risultati dello studio hanno indicato che l’attivazione dell’asse HPA indotta attraverso lo stress controllabile (gruppo 1) e incontrollabile (gruppo 2) era il medesimo nella prima esposizione. Dopo ripetute esposizioni, invece, il gruppo con la variabile dello stress controllabile ha dimostrato di avere una risposta attenuata dell’HPA. Nella fase adulta, inoltre, il secondo gruppo (esposto allo stress incontrollabile in età adolescenziale) ha sviluppato una maggiore impulsività motoria e una minore flessibilità cognitiva, effetti che non si sono invece presentati negli animali del primo gruppo (stress controllabile). Altri aspetti, come l’attenzione e l’impulsività cognitiva, non sembrano essere stati influenzati dallo stato di stress. Allo stesso tempo, gli effetti comportamentali dello stress incontrollabile sono stati associati ad un aumento dei recettori dopaminergici di tipo 2 nello striato dorsale, struttura coinvolta nell’impulsività e nell’inflessibilità cognitiva.

In conclusione

È chiaro che essere esposti a situazioni stressanti abbia effetti comportamentali e fisiologici negativi a breve e lungo termine, ma ci sono diversi fattori che potrebbero mitigare l’impatto dello stress. Questo studio evidenza proprio come uno di questi fattori sia riferibile alla possibilità di avere una qualche forma di controllo sulla fonte di stress.

Sulla base dei risultati ottenuti attraverso questo studio è possibile dunque ipotizzare ad un piano di intervento preventivo volto a sviluppare strategie mirate all’aumento della propria percezione di controllo sulla fonte di stress in adolescenza, che potrebbero attenuare gli effetti negativi delle esperienze stressanti durante l’età adulta, oltre a ridurre la vulnerabilità a certe psicopatologie.

Il paradosso della bontà: la strana relazione tra cooperazione e aggressività nell’evoluzione umana

Come possono coesistere nell’uomo cooperazione e aggressività? Come mai nella storia umana la violenza diretta verso gruppi nemici è stata così distruttiva?

 

Tante volte i comportamenti umani ci appaiono incomprensibili e fatichiamo a dare loro un senso in quanto si pongono al di fuori di quello schema di azioni che potremmo facilmente ricondurre alla specie umana. Allo stesso tempo, l’uomo dispone di un repertorio comportamentale assai variegato in cui non di rado un’azione risulta essere l’opposto dell’altra. Viene dunque naturale chiedersi come è possibile che la razza umana sia il risultato di questo mix, tendenzialmente ben studiato, di comportamenti, motivazioni e azioni.

E se questa domanda non vi ha fatto passare notti insonni, non preoccupatevi. Al posto vostro, sono stati numerosi gli studiosi, filosofi e antropologi del passato e del presente, che si sono interrogati alla ricerca di una risposta. Per farlo, è venuto naturale ripercorrere la storia evolutiva dell’uomo, alla ricerca di quelle tracce che consentono di spiegare come mai sono stati selezionati alcuni comportamenti e non altri ad eredità del nostro “pacchetto comportamentale”.

Lo studio dei fossili in questo processo è stato di grande aiuto, perchè ha consentito di rintracciare più o meno chiaramente il periodo storico in cui certe azioni possono essere rintracciate nell’essere umano; ad esempio la rilevazione di microscopici segni su ossa vecchie di oltre 2,5 milioni di anni ci suggerisce che tali segni sono stati probabilmente fatti con strumenti di pietra affilati e che dunque l’uomo era già in grado di realizzare attrezzi. Più difficile è invece capire come si sono ad esempio integrati ed evoluti nel tempo tutti quei comportamenti che fanno capo alla cooperazione e all’ aggressività.

È un dibattito in scena da secoli, che trova le sue radici nelle opere di Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau (tra gli altri filosofi), ma tutt’oggi ancora molto vivo. Come possono coesistere nell’uomo cooperazione e aggressività? Come mai la violenza umana diretta verso gruppi percepiti come nemici è stata così distruttiva?

Un recente articolo pubblicato sul The Atlantic, illustra le ipotesi ad oggi più condivise, soffermandosi in particolare sulla teoria di Wrangham.

Alcune ipotesi

Secondo coloro che sostengono una visione hobbesiana della natura umana, radicata nella genetica, l’ aggressività costituisce una caratteristica intrinseca dell’individuo, violento per eredità evolutiva. Ne troviamo prova in numerosi studi e osservazioni condotti sui nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé. Tra gli episodi che raccontano la brutalità che possono raggiungere questi animali, ci colpisce in particolare il racconto di come una madre e una figlia scimpanzé hanno ucciso i bambini di altre femmine del loro gruppo e di come i maschi spesso costringono e picchiano le femmine; ancora, sono diversi gli episodi in cui grandi gruppi di scimpanzé si sono riuniti e, sulla spinta dell’eccitazione e di un’ aggressività crescente, sono andati in “pattuglia” in un modo che sembrava organizzato (hanno camminato lungo il loro confine territoriale) attaccando scimpanzé solitari delle comunità vicine quando li hanno incontrati lungo il percorso.

Ma non tutti gli studiosi si sono lasciati convincere da questa ipotesi, dando fiducia a quella che è la natura buona dell’uomo. Nel corso dei decenni durante i quali ci si concentrava soprattutto sul lato oscuro della natura umana, si sono costantemente accumulate prove che l’uomo, fin dall’inizio del suo sviluppo, è la specie più cooperativa nel mondo dei primati. Infatti, in diversi esperimenti che ricreavano situazioni che richiedevano la collaborazione tra due o più individui per raggiungere un obiettivo, gli essere umani (anche bambini molto piccoli) si comportavano meglio delle scimmie. Nel frattempo, il classico lavoro sugli scimpanzé è stato completato da nuovi studi sui bonobos, l’altro nostro parente stretto.

Aggressività reattiva: l’ipotesi dell’auto-domesticazione

Wrangham introduce un’ipotesi interessante nel tentativo di spiegare il coesistere di aggressività e cooperazione nell’uomo, percependo queste due tendenze come il risultato di una progressiva selezione di alcuni tratti, in particolare l’ aggressività reattiva ridotta, intensa come la tendenza ad attaccare quando un altro individuo si avvicina troppo, invece di tollerare un contatto abbastanza a lungo da consentire una possibile interazione amichevole.

Nei suoi studi Wrangham si è soffermato in particolare su alcuni esperimenti che esplorano l’addomesticamento di volpi selvatiche, visoni e altre specie attraverso la selezione artificiale diretta dall’uomo di alcuni tratti. Tali sforzi di allevamento, avrebbero prodotto, secondo Wrangham, “la sindrome da addomesticamento” generando un cambiamento in una serie di tratti, non solo la bassa aggressività reattiva che gli allevatori hanno deliberatamente individuato, ma anche una faccia più piccola con il muso accorciato e periodi fertili più frequenti (meno stagionalmente circoscritti), che andrebbero in tandem con la docilità.

Qualcosa di simile potrebbe essere successo, secondo Wrangham, anche nell’evoluzione dell’uomo e può essere indagato attraverso lo studio delle differenze tra scimpanzé, bonobos e uomo. Un tempo considerato un tipo di scimpanzé, i bonobos sono ora noti per essere una specie diversa. Rispetto agli scimpanzé, i bonobos si distinguono per una minore aggressività: i bonobos femminili formano forti coalizioni, in parte basate sul sesso tra loro, che tengono sotto controllo la violenza maschile e poiché le femmine gestiscono le cose, i maschi non le attaccano, e anche la violenza tra maschi è estremamente limitata. I bonobos mostrano anche gli altri tratti comuni alla sindrome da addomesticamento, che suggerisce – come nel caso delle volpi – un’ampia dinamica genetica.

Andando però oltre ai motivi genetici ed evolutivi, Wrangham fornisce una spiegazione distintiva di tale divergenza nel comportamento tra scimpanzé e bonobos, proponendo una visione ecologia secondo cui, nel corso di molte generazioni, le realtà ecologiche creano un comportamento specifico per specie. Nel caso dei bonobos, egli suggerisce, un habitat lussureggiante in cui erano protetti dalla concorrenza di scimpanzé o gorilla, ha offerto loro la possibilità di diminuire la propria aggressività reattiva. Al centro della sua argomentazione, inoltre, l’idea che l’uccisione cooperativa di individui incurabilmente violenti ha giocato un ruolo centrale nell’auto-domesticazione. Così come gli scienziati russi avevano dunque eliminato i cuccioli di volpe feroce dal pool di riproduzione, i nostri antenati avrebbero ucciso uomini colpevoli di ripetuti atti di violenza.

L’idea è intrigante, ed è vero che i cacciatori-raccoglitori umani a volte eliminano collettivamente i cattivi attori. Ma tali azioni sono rare, come ha sottolineato l’antropologo canadese Richard Lee. Potrebbe esserci invece un’altra strada che ha consentito la selezione di questo tratto per vincere l’ aggressività: la scelta femminile. La logica evolutiva suggerisce che le giovani donne e i loro genitori, scegliendo compagni meno violenti di generazione in generazione, potrebbero fornire una pressione di selezione costante verso un’ aggressività reattiva più bassa – una pressione più forte di quanto possano fare i rari drammi di pena capitale.

Per concludere dunque con le parole di Wrangham:

L’ aggressività reattiva ridotta deve essere accompagnata da intelligenza, cooperazione e apprendimento sociale come fattore chiave per la nascita e il successo della nostra specie.

 

Corti da legare: in scena il Disturbo Dissociativo dell’Identità

Un modo nuovo per raccontare il Disturbo Dissociativo dell’Identità, quello che nasce dai testi scritti da Carlo Oldani e Claudio Romano Politi per l’Associazione Corti da Legare, dove il teatro diviene spunto di apertura per la discussione di tematiche squisitamente psicologiche.

 

Il disturbo dissociativo dell’identità ha da sempre un posto speciale nell’immaginario collettivo. L’idea che nella stessa persona possano trovare spazio identità differenti è talmente ricca di suggestioni da aver trovato spazio in innumerevoli prodotti artistici: libri, opere teatrali e film.

Il quarto incontro della rassegna “Corti da legare”, ideata dall’omonima associazione con lo scopo di diffondere una corretta informazione su tematiche di natura psicologica attraverso l’arte teatrale, ha preso in esame il tema dell’identità frammentata.

Le Maschere di Belzebù per raccontare il Disturbo Dissociativo dell’Identità

Tenendo fede al format della rassegna, corto teatrale seguito dal dibattito con il pubblico moderato da esperti, è andato in scena, al Nuovo Teatro Orione di Roma, lo spettacolo “Le Maschere di Belzebù”.

L’ambientazione medievale ha fatto da sfondo alla storia di un monaco a cui il proprio superiore assegna un incarico gravoso: accertare la colpevolezza di un presunto assassino. Il serrato confronto verbale tra il monaco e l’accusato riserva non poche sorprese; l’uomo sembra abitato da varie identità (un cavaliere, un vagabondo, una balia, un bambino) che si susseguono in modo imprevedibile nel prendere il controllo della sua persona. Chi è davvero lo straniero sospettato di aver compiuto l’omicidio di un bimbo innocente?

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Dopo l’intenso corto teatrale, animato da dialoghi ad alto impatto emotivo, ha avuto luogo un dibattito in cui la dott.ssa Federica Sorino, presidentessa dell’Associazione Corti da Legare, ha offerto spunti che potessero creare una cornice teorica per poter comprendere meglio alcune delle dinamiche alla base dell’insorgenza di un disturbo così complesso come quello in esame. Si è parlato del nesso con esperienze traumatiche che hanno ostacolato, nel soggetto, il formarsi di un’identità stabile e coesa.

Sul palco sono intervenuti anche Carlo Oldani e Claudio Romano Politi, autori dei testi di “Corti da Legare”, e gli attori protagonisti, che hanno reso partecipi gli spettatori del vissuto generato dall’interpretazione di personaggi dalla psiche così tormentata e frammentaria.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Disturbo Dissociativo dell'Identità: il racconto teatrale dei Corti da Legare

La rassegna teatrale e i prossimi appuntamenti

La rassegna, dopo aver preso in esame la dipendenza sessuale, l’ansia e il panico, la psicologia oncologica e il disturbo dissociativo dell’identità proseguirà con due incontri incentrati sul disturbo borderline e sulla dipendenza da Internet.

Il futuro è già determinato? (2007) di Ilya Prigogine – Recensione del libro

Non capita tutti i giorni di ritrovarsi tra le mani un libro scritto da un premio Nobel per le scienze fisiche e chimiche: Ilya Prigogine, noto per le sue teorie sulle strutture dissipative e sull’irreversibilità.

 

Sebbene una mente eccelsa come quella di Prigogine abbia conquistato l’ambitissimo premio Nobel, egli scrive questo breve libro anni dopo il suo riconoscimento, per illustrarci le ulteriori sue osservazioni e ricerche svolte.

Il futuro è già determinato? La controversia di Parmenide ed Eraclito

Il titolo di questo libro è un bell’interrogativo: “Il futuro è già determinato?”. Una bella domanda; incuriosisce soprattutto la risposta.

La copertina del libro illustra i volti di Parmenide ed Eraclito, due famosi filosofi che hanno portato avanti una ormai nota controversia: Parmenide sosteneva che non vi è nulla di nuovo e che tutto è immutabile; Eraclito insisteva in merito al fatto che esiste un continuo cambiamento e che “tutto scorre”.

Proprio così, Eraclito aveva messo in discussione la visione statica di Parmenide e in questo testo Prigogine si ricollega a ciò, ricordando che dal diciannovesimo secolo in poi il punto di vista di Parmenide era stato occultato da un altro punto di vista più affine alla visione del “Panta Rei”: secondo i nuovi filosofi il tempo non è altro che la nostra visione esistenziale e sicuramente non è immutabile.

Nel suo testo Prigogine non fa altro che inserire il dilemma tra Eraclito e Parmenide in un’ottica più moderna e matematica.

Egli associa la visione di Eraclito alla visione del mondo della termodinamica, secondo la quale tutto va verso una morte termica non prevedibile; al contrario il punto di vista di Parmenide è associabile alla visione del mondo della scienza meccanica, secondo cui tutto ha luogo grazie a delle modalità predeterminate.

Si tratta di due visioni alquanto pessimistiche, e Prigogine ci illustra come tali visioni si basano su una forma troppo ristretta di dinamica.

Il futuro è già determinato? Un dibattito tutt’ora in corso

Il celebre fisico ci dimostra che, mediante una serie di studi e formule matematiche, è possibile giungere a nuove descrizioni della realtà.

Se un tempo la visione statica e meccanica di Parmenide era stata messa da parte per far spazio a una visione più fluida e dinamica, in realtà è possibile asserire che il dibattito è tutt’ora aperto: sono sempre esistiti due punti di vista antitetici della scienza e del mondo e con ottime probabilità esisteranno ancora. Nel descrivere l’universo evoluzionistico la fisica ha fatto solo i primi passi.

La fisica del non equilibrio ha fornito una migliore comprensione del meccanismo della comparsa degli eventi, e tali eventi vengono associati alle biforcazioni.

Naturalmente il libro non è del tutto discorsivo e l’autore giunge alle sue conclusioni mediante una serie di principi e formule matematiche ben dimostrabili.

Dalle osservazioni di Prigogine si giunge ad un’affermazione ben precisa: il futuro non è determinato.

Il futuro è già determinato? O lo costruiamo noi?

E a seguito delle formule matematiche oggettive, Prigogine non tralascia le sue osservazioni soggettive: sarebbe per lui assurdo affermare che tutto è già prestabilito in un’epoca di globalizzazione e di rivoluzione basata sulle reti. Il comportamento individuale è il fattore chiave nel plasmare l’evoluzione dell’intera specie umana. Proprio perché il ruolo degli individui resterà notevolmente importante e non farà altro che contribuire a modificare la realtà in cui viviamo, in maniera a dir poco imprevedibile.

Ed è proprio questa imprevedibilità del mondo che ci circonda che mi ha dato da riflettere: appena mi sono ritrovata il libro tra le mani mi sono immediatamente incuriosita su quale risposta l’autore avrebbe dato al suo interrogativo iniziale.

E ammetto di essere stata piuttosto sollevata dal fatto che una mente brillante con quella di Prigogine afferma che nulla è già determinato; ciò non fa altro che attribuire una maggiore importanza alla persona e all’intenzionalità.

Il futuro ce lo costruiamo noi, una bellissima visione del mondo.

Le ultime pagine del testo sono dedicate a una serie di interviste all’autore. Ciò permette al lettore di conoscere appieno le ideologie di Prigogine e le spiegazioni ad esse che dà.

Un libro brillante e che merita di essere letto, soprattutto da chi è intenzionato ad aprire la propria mente sulle nuove visioni del mondo.

Depressione in carcere: come e perché è importante intervenire

Negli Stati Uniti, in media, il 23% dei prigionieri rilasciati ogni anno dichiara di aver sofferto di depressione maggiore durante il periodo di reclusione in carcere.

 

Nel panorama statunitense la salvaguardia della salute psichica all’interno delle carceri viene messa in secondo piano, infatti i finanziamenti sono delegati ad ogni stato e sono insufficienti rispetto alla domanda: cosi facendo, a volte, i carcerati, quando ritornano nella società, si ritrovano in uno stato di salute mentale peggiore rispetto a quella precedente.

Circa 15 milioni di persone, ogni anno, negli Stati Uniti, sono coinvolte nel sistema penitenziario. Essendo quella carceraria una popolazione molto ampia, dunque, l’insorgere di patologie mentali nei detenuti può esercitare un forte impatto, oltre che sui detenuti stessi, anche sull’intera società e non solo in termini economici.

Depressione in carcere: lo studio con la psicoterapia interpersonale

I ricercatori della Michigan State University hanno testato l’efficacia della psicoterapia interpersonale (IPT) su una popolazione di detenuti con disturbo depressivo maggiore (MDD), per comprendere se questa terapia fosse accessibile nelle carceri mantenendo un costo contenuto. L’IPT è un tipo di terapia che può risultare molto efficace poiché affronta eventi di vita difficili come la povertà, le aggressioni, l’abuso e molto altro, che sono molte volte caratteristici della popolazione carceraria. Il percorso terapeutico è basato sul ritornare con la mente a un determinato momento di difficoltà che ha segnato particolarmente l’individuo, cercando di richiamare le stesse emozioni provate, in modo tale da poterle esprimere, analizzarle e comprenderle sotto la guida del terapeuta, migliorando così la comunicazione e la relazione con il problema.

Un team di terapeuti specializzati e psicologi che già lavoravano in carcere, è stato addestrato per trattare 181 detenuti con la psicoterapia interpersonale. Gli esperti hanno lavorato con i detenuti due volte a settimana per 10 settimane. Ogni detenuto è stato valutato singolarmente in tre momenti: all’inizio, al termine del trattamento e a tre mesi dalla fine del trattamento, per valutare l’impatto della terapia. Tutto ciò ha permesso di contenere i costi poiché non sono stati assunti nuovi professionisti ma soltanto formati quelli già presenti.

Depressione in carcere: trattarla è un vantaggio per tutta la società

Dai risultati emerge che l’IPT ridurrebbe i sintomi depressivi, la mancanza di speranza e i sintomi connessi al disturbo da stress post traumatico. Questa terapia, grazie alla formazione dei professionisti che già lavoravano nelle carceri, si è rivelata efficace con un budget ristretto. Infatti si è stimato un costo medio di 575$ per paziente che è nettamente inferiore rispetto a quello dei possibili trattamenti ai quali gli ex-detenuti vengono sottoposti al rientro nella società.

Quello appena presentato è il primo studio che riesce a suggerire una soluzione terapeutica efficace e conveniente da applicare su una popolazione carceraria molto ampia, rivelando come il metodo analizzato possa realmente migliorare il benessere e la salute mentale di molte persone, prigioniere, prima di tutto, del proprio passato.

La condizione di Languishing e lo stato di malattia nel disturbo bipolare

Per le persone che soffrono di disturbo bipolare lo stato di benessere è fortemente influenzato dalla condizione della malattia in cui si trovano in quel preciso momento. Così, trovarsi in uno stato di mania (o ipomania) oppure vivere un episodio depressivo determina importanti cambiamenti nel modo in cui questi soggetti percepiscono se stessi, gli altri e il mondo che li circonda.

 

Gli studi sulla relazione tra il benessere e la sintomatologia/distress psicologico stanno crescendo. Per quanto riguarda lo studio della malattia mentale, un contributo importante è stato quello fornito da Keyes, il quale si è rifatto al modello della Ryff per definire il concetto di benessere (Ruini, 2017).

Keyes (2005) ritiene che la salute si possa collocare lungo un continuum che va da uno stato di completa salute, ovvero, di flourishing (prosperità/floridezza) ad uno stato completo di malattia, attraverso lo stato di languishing (vulnerabilità), in cui l’individuo risponde ai criteri per uno specifico disturbo psicologico, che corrisponde ad una condizione massima ed estrema di malessere (Keyes, 2005). Il flourishing è caratterizzato da alti livelli di benessere, mentre il languishing è la condizione opposta (Keyes, 2005). All’interno del continuum, Keyes (2005) individua due stati di salute mentale (stato completo e stato incompleto) e due stati di malattia mentale (stato completo e stato incompleto), i quali sono il risultato di una combinazione delle dimensioni di salute mentale e malattia mentale, alti livelli di benessere e assenza di benessere (Keyes, 2005).

I soggetti con disturbo bipolare possono collocarsi in una condizione di malattia mentale completa o malattia mentale incompleta in quanto possono avere o meno delle compromissioni a livello del benessere (Keyes, 2005).

Inoltre, la condizione di malattia è data sia da bassi sia da elevati livelli di benessere delle dimensioni che lo costituiscono, ovvero il benessere edonico, eudamonico e sociale (Johnson & Wood, 2016). Per quanto riguarda la condizione di florushing, gli individui devono avere livelli adeguatamente alti di benessere edonico (alti livelli di emozioni positive, bassi livelli di emozioni negative e un’alta soddisfazione) e livelli adeguatamente alti in almeno sei delle undici sottoscale di benessere eudamonico (in cui è compreso anche il benessere sociale). Invece, per quanto riguarda la condizione di languishing i soggetti devono presentare livelli eccessivamente bassi o elevati sia per quanto riguarda il benessere edonico sia per quanto riguarda il benessere eudamonico (Ruini, 2017).

Il benessere Edonico e il disturbo bipolare

Il benessere edonico (o emotivo), riguarda come gli individui valutano la loro condizione, facendo riferimento alla dimensione emotiva e cognitiva (Keyes & Lopez, 2002).

Durante gli episodi maniacali, la dimensione emotiva è alterata in quanto non c’è un equilibrio tra le emozioni positive e quelle negative (Gross, 2015; Culver, et al., 2009; Barlow, Carl, Soskin & Kerns, 2013; Gruber, 2011a; Gruber, 2011b). Nello specifico, durante gli episodi maniacali e ipomaniacali si assiste ad un’estrema positività ed un eccesso di emozioni positive, dovuto ad un’incapacità di controllarle (Gruber, 2011). Invece, negli episodi depressivi l’individuo presenta dei sintomi opposti, come se non avesse mai esperito episodi di intense emozioni positive (Johnson & Wood, 2016).

La dimensione cognitiva, si riferisce al livello di soddisfazione che gli individui hanno su vari aspetti della vita (Keyes, 2005) che può essere variabile poichè dipende dall’alternanza degli episodi maniacali/ipomaniacali e depressivi (APA, 2014) in quanto durante gli episodi depressivi il livello di soddisfazione è basso, mentre durante gli episodi maniacali è eccessivamente elevato.

Il benessere Eudamonico e il disturbo bipolare

Il benessere eudamonico (o psicologico), in accordo con il modello della Ryff (1989), è composto da sei dimensioni interconnesse tra loro, che sono: l’autoaccettazione, i propositi nella vita, l’autonomia, la crescita personale, le relazioni positive con gli altri e la padronanza ambientale.

L’ autoaccettazione

L’ autoaccettazione concerne l’insieme di atteggiamenti positivi nei confronti di se stessi, il riconoscere ed accettare i molteplici aspetti del sé ed il sentimento positivo nei confronti del proprio passato (Keyes & Lopez, 2002).

I soggetti con disturbo bipolare, negli episodi maniacali, potrebbero presentare bassi livelli di auto-accettazione, i quali producono la presenza di aspettative irrealistiche ed elevate (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011). L’auto-accettazione è collegata all’autostima (Ruini, 2017); nel caso del disturbo bipolare, si assiste alla presenza di un’elevata autostima e sentimenti di grandiosità (APA, 2014). Queste ultime condizioni potrebbero produrre uno scontro con la realtà ed anche compromissione a livello della dimensione sociale (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Secondo la visione psicodinamica, gli apparenti elevati livelli di autostima, corrisponderebbero ad una difesa ai bassi livelli di autostima che inconsapevolmente nascondono (Rainone & Saracino, 2008). Infatti, avendo dei tratti in comune con il narcisismo, il soggetto affetto da disturbo bipolare si percepisce pieno di risorse, dotato di potere e superiore rispetto agli altri (Damour & Hansell, 2007).

Oltre l’apparente autostima elevata, in questi soggetti è presente la cosiddetta condizione di ottimismo irrealistico (Hayward, Jones & Lam, 2002; Berk et al., 2013) .Essi credono che si possano avere maggiori probabilità di ottenere dei risultati positivi, sottovalutando l’eventuale probabilità che si ottengano dei risultati negativi (Bortolotti, Jefferson & Kuzmanovic, 2017). Tuttavia, quando i soggetti falliscono nel raggiungimento dei loro obiettivi, tendono ad attribuire la responsabilità dei loro errori e fallimenti all’esterno, come sarà riportato in seguito (Abramson et al., 1978; Needles & Abramson, 1990).

I propositi nella vita

I propositi nella vita, riguardano la possibilità dell’individuo di avere obiettivi e un senso di direzione nella vita, sensazione che il presente e il passato abbiano un significato nella vita dell’individuo e che le convinzioni personali diano dei propositi nella vita dell’individuo (Keyes & Lopez, 2002).

L’insoddisfazione, che i soggetti con distubo bipolare presentano nei confronti di se stessi, viene camuffata con un’apparente elevata autostima ed autoefficacia, che li motiva a fissare degli obiettivi elevati che non sono in sintonia con le loro reali possibilità (Rainone & Saracino, 2008). L’eccessiva fiducia in se stessi e la sottovalutazione di un eventuale fallimento, spinge gli individui a fissare obiettivi ancora più alti e a volte irraggiungibili, creando così la cosiddetta “spirale verso l’alto” (Moss & Russell, 2013; Rainone & Saracino, 2008).

Gli obiettivi che vengono selezionati maggiormente sono di tipo positivo e riguardano la felicità. La tendenza a fissare obiettivi positivi è dovuta alla credenza che il proprio futuro benessere dipenda dagli obiettivi che vengono raggiunti (Ruini, 2017) e dalla presenza di alterazioni a livello del sistema della ricompensa (Johnson, 2005).

Inoltre, è stato ampiamente dimostrato che le persone che sviluppano sintomi maniacali o ipomaniacali, si mostrano più fiduciosi e speranzosi (Rainone & Saracino, 2008).

Un concetto che risulta altamente connesso alla tendenza a perseguire obiettivi irrealistici è la falsa speranza. Secondo Carver e collaboratori (2010), corrisponderebbe ad una caratteristica individuale che riflette il modo in cui le persone mantengono aspettative irrealistiche o elevate inerenti al proprio futuro. La sindrome della falsa speranza è stata trovata nei soggetti con disturbo bipolare (Ruini, 2017). In questi soggetti si manifesta la tendenza a pianificare degli obiettivi, a fare diversi tentativi per raggiungerli e a fallire continuamente nel raggiungimento degli stessi (Herman & Polivy, 2000; Feldman, Rand, Snyder, King & Woodward, 2002). Il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati avviene perché quest’ultimi sono irrealizzabili in quanto rispecchiano le loro aspettative irrealistiche (Herman & Polivy, 2000; Feldman, Rand, Snyder, King & Woodward, 2002) ma non sono in linea con le abilità e/o i mezzi che possiedono per poterli raggiungere (Feldman, Rand, Snyder, King & Woodward, 2002). L’eccessiva sensibilità del sistema della ricompensa (Damour & Hansell, 2007) unita alla condizione di falsa speranza, nei casi di soggetti con mania, potrebbe suggerire il motivo per cui le persone tentano di perseguire obiettivi che superano le loro vere risorse (Corrigan, 2014).

Un altro aspetto che è stato preso in considerazione all’interno della dimensione dei propositi nella vita è la passione (Keyes, 2005), che assicura un coinvolgimento nell’attività volta ad uno scopo e ad una migliore performance (Ruini, 2017). In accordo con il modello dualistico della passione, gli individui attribuiscono un certo valore ad un’attività che produce gratificazione, infatti la passione è un’inclinazione che porta i soggetti ad investire tempo e risorse (Vallerand, 2012).

Tuttavia, la passione è associata, in base al tipo di affetto coinvolto, a distress. Nel caso del disturbo bipolare, la presenza di passioni è disadattiva, disfunzionale e produce elevati livelli di distress in quanto diventa una caratteristica rigida dell’identità (Vallerand, 2012). Le passioni nei soggetti con disturbo bipolare potrebbero comportare degli importanti costi personali tra cui: aumento dei conflitti sociali (Vallerand, 2012), rigidità nella persistenza volta al conseguimento di obiettivi irraggiungibili (Forest, et al., 2017) ed incapacità di cambiare obiettivo (Ruini, 2017), non riescono ad ammettere i loro fallimenti (nel caso di un mancato raggiungimento di un obiettivo) (Ruini, 2017), possono perdere il controllo delle loro passioni (nonostante sia per loro gratificante ed eccitante seguire le loro passioni, non ricavano dei feedback positivi da parte dell’ambiente) (Vallerand, 2012).

Quando gli obiettivi non vengono raggiunti, per contrastare la frustrazione, i soggetti con disturbo bipolare potrebbero attribuire le cause di questi eventi a fattori esterni (locus of control esterno). Invece, quando riescono a raggiungere gli obiettivi, potrebbero attribuire la causa dei loro successi alle proprie caratteristiche (locus of control interno) (Abramson et al., 1978; Needles & Abramson, 1990).

Se, invece, si trovano all’interno di un gruppo in cui vengono pianificati degli obiettivi (Ruini, 2014), l’eccessiva distraibilità, la spinta insistente a dire le proprie idee, l’aumento della produttività (APA, 2014) rendono l’individuo incapace di lavorare in gruppo e di andare d’accordo con gli altri (Ruini, 2017).

L’ autonomia

L’autonomia riguarda la capacità di resistere alle pressioni sociali per pensare e agire in determinati modi; valutare se stessi secondo gli standard personali (Keyes & Lopez, 2002).
I soggetti con disturbo bipolare sono caratterizzati da mancanza di autonomia, infatti in alcuni emerge la tendenza a ricercare l’approvazione di altre persone piuttosto che a far ricorso ai propri standard personali (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

La crescita personale

La crescita personale riguarda la possibilità di essere aperti alle nuove esperienze, sentimenti di accrescimento e cambiamento conoscitivo e affettivo (Keyes & Lopez, 2002).

Livelli elevati di crescita personale sono il risultato dell’utilizzo di alcuni specifici meccanismi di difesa, in particolare nei soggetti con disturbo bipolare è stato rintracciato il pregiudizio di illusione cognitiva benigna (Ruini, 2017). Essa è una condizione che ostacola l’integrazione tra i processi di apprendimento e le esperienze negative avute in passato e porta gli individui a concentrarsi sugli esiti futuri, che in alcuni casi spingerebbe gli individui a ricercare e a pianificare il raggiungimento di obiettivi positivi (Ruini, 2017) e/o indurrebbe gli individui a mettere in atto dei comportamenti pericolosi per se stessi o per gli altri, sottovalutandone i rischi (APA, 2014).

Le relazioni positive con gli altri

Le relazioni positive con gli altri riguardano la possibilità di avere relazioni calorose, soddisfacenti e fiduciose, preoccupazioni per il benessere degli altri, capacità di forte empatia, affetto e intimità, capacità di comprendere il dare e avere nelle relazioni umane (Keyes & Lopez, 2002).

Nel caso del disturbo bipolare, i soggetti non hanno empatia e di conseguenza non ricercano dei compromessi per sostenere e mantenere importanti relazioni con gli altri (Ruini, 2017). La presenza di obiettivi elevati, come affermato in precedenza, potrebbe produrre delle ripercussioni a livello della dimensione sociale (Vallerand, 2012).

La padronanza ambientale

La padronanza ambientale fa riferimento al sentirsi competenti e in grado di gestire un ambiente complesso, scegliere o creare contesti personali adatti (Keyes & Lopez, 2002).

Alterazioni in questa dimensione implicano, come nel presente caso, una visione dell’ambiente esterno con un ottimismo irrealistico e superficialità nella valutazione dei rischi che possono essere presenti nell’ambiente (Rainone & Saracino, 2008).

Per concludere

Se da un lato l’aumento della produttività, lo stato di benessere vissuto dall’individuo, possono essere valutati positivamente da parte di chi è affetto da disturbo bipolare (Rainone & Saracino, 2008), dall’altro gli stati di attivazione tipici della mania (Damour & Hansell, 2007) possono rendere l’individuo incapace di rilassarsi (Ruini, 2017). Infatti, i soggetti con disturbo bipolare, nonostante presentino un umore elevato e positivo (APA, 2014), non sono in grado di assaporare le emozioni positive e il piacere in modo sano ed adattativo (Ruini, 2017).

Patoplastica: dove operiamo e dove andremo a finire, signora mia!

Con questa parolona che fa pensare alla chirurgia estetica si intende in realtà l’effetto di modellamento che la cultura agisce sull’espressione di una patologia.

 

Utilizzo questo termine per stupire l’uditorio quando parlo del delirio e mi accingo a spiegare la forte incidenza del delirio di gelosia nel territorio dove ho lavorato per decenni e che aveva nei secoli passati visto le gesta eroiche ed erotiche dei Borgia ed in particolare di Lucrezia la cui rocca si staglia netta e possente sullo skyline del paese. Si potrebbe andare oltre ipotizzando che certe culture sono esse stesse patogene (si pensi ai disturbi alimentari connessi al misticismo medievale o, più di recente, alla esaltazione della magrezza dopo Kate Moss).

Se è più facile condividere l’idea dell’espressione fenotipica di un disturbo (di cui a questo punto viene supposta una esistenza a priori), è più discutibile la patogenicità di un certo ambiente perché si tratta di un giudizio di valore su ciò che è buono, giusto, sano o insano che può essere affermato solo da un altro contesto valoriale generando un regresso all’infinito (per fare un esempio banale certi modi di vivere occidentali sono considerati inconcepibili, sciocchi e meritori di condanna a morte dai musulmani e viceversa).

Mi chiedo dunque quali atteggiamenti o ex patologie (dico ex perché non saranno più considerate tali) saranno premiati nell’ambiente socioculturale che si va affermando forse per la prima volta nella storia dell’umanità in modo globalizzato?

Verso la fine del secondo millennio gli uomini hanno dato vita ad una rivoluzione tecnologica (i computer, il web e i loro infiniti derivati, app ecc.) che retroattivamente ha modificato il modo di stare al mondo di miliardi di esseri umani e forse lo stesso cervello che quella rivoluzione ha prodotto (Baricco A. 2018 “the Game, ed. Einaudi, Milano). Considerato che tale rivoluzione riguarda principalmente proprio la codifica e la diffusione della conoscenza e che essa è strettamente connessa, secondo il modello cognitivista, con la salute mentale e lo sviluppo dei disturbi emotivi, viene da chiedersi a che tipo di pressioni selettive sarà sottoposta e dunque quali tipi di pensiero il cervello tenderà col tempo a privilegiare? Ad esempio secondo la interessantissima distinzione di Kahneman (2011) in pensieri veloci e pensieri lenti, il privilegiato sarà evidentemente il pensiero “veloce” con tutti i suoi pregi e gli innumerevoli difetti. Un pensiero intuitivo, automatico, impaziente, mirato alla gratificazione immediata, veloce, superficiale, approssimativo, attento solo all’essenziale, discontinuo, confermazionista, scorrevole, creativo, non faticoso e impegnativo e ne risulteranno penalizzate invece la complessità, lo spirito critico e l’approfondimento, caratteristici del cosiddetto “pensiero lento”.

Esistono e quali sono delle Weltaschuung nel senso di pacchetti di credenze che costituiscono una visione complessiva della realtà e generando un peculiare modo di stare al mondo che prolifereranno più facilmente in un tale ambiente? Con ciò non voglio dire che certe patologie aumenteranno, o meglio, “sì” se si mantenessero inalterati i vecchi criteri diagnostici, ed invece al contrario “no” se valutate in termini di egodistonia personale o di distonia sociale. Qualcosa di simile è già successo durante la stesura del DSM 5 con il dibattito sul conservare o meno nella nosografia il disturbo narcisistico di personalità perché nelle sue forme non estreme e maligne è del tutto allineato con i valori della società occidentale ricca (Liotti G., Lorenzini R. 2018). Del resto tutte le ricerche di psicologia delle grandi riviste internazionali utilizzano campioni cosiddetti “WEIRED” ovvero di soggetti occidentali, istruiti, ricchi, industrializzati e democratici che non rappresentano affatto l’umanità nel suo insieme. La stessa psicoterapia che di tale cultura è un prodotto mentre si sforza di descrivere il funzionamento degli uomini e soprattutto quello disfunzionale dei pazienti, ha un’assoluta cecità verso gli impliciti che ne costituiscono la premessa indiscutibile e che non sono affatto neutri come ci piace pensare ma esprimono i valori della cultura dove la psicoterapia si è sviluppata.

L’atteggiamento “non giudicante”, tanto sbandierato con unanime consenso tra le varie scuole, non afferma in fondo con forza, per usare un ossimoro, un “relativismo assoluto”? Per cui tutto va bene, tutto è ammissibile? Attenzione non sto affermando che questo sia sbagliato, dico solo che bisogna essere consapevoli che anch’esso è una premessa ideologica, non meno assoluta di tante altre e che non rappresenta l’unico modo possibile di stare al mondo. L’intolleranza verso gli intolleranti è pur sempre intolleranza. Voler mettere al rogo i tribunali dell’inquisizione brucia le nostre stesse chiappe. Se è vero che non si può fare a meno di assumere un punto di vista dal quale operare valutazioni, a meno di non votarsi al silenzio assoluto e trascorrere tutto il tempo dell’esistenza da spettatori disinteressati e senza opinione, almeno che si sia coscienti di averlo.

Ancora l’egodistonia e l’autodeterminazione degli obiettivi, regola aurea e faro orientante la prassi psicoterapeutica, mettono al centro di tutto l’individuo, il suo benessere e il conseguente diritto ad autodeterminarsi per ottenerlo che potremo definire come “egocentrismo edonico”. Il messaggio che passa più o meno esplicitamente è “pensa a te, ai tuoi bisogni e desideri” (autodeterminazione) e “fai di tutto per realizzare il tuo benessere” (assertività) con l’unica attenzione a non essere guidato solo dal principio del piacere immediato ma di tener conto anche del principio di realtà per perseguire un piacere che non sia solo a breve ma anche a medio e lungo termine”. Le parole d’ordine sembrano essere “tutto, subito, per me”.

Una volta archiviate con l’illuminismo le religioni teiste gli umani negli ultimi tre secoli hanno elaborato religioni senza Dio che comunque hanno tentato di dare un significato unitario al mondo ponendo al centro di tutto l’uomo stesso e l’ordine naturale delle cose conoscibile, non per rivelazione ma indagabile attraverso la scienza (Harari 2018 A,.Harari 2018 B). Dal ceppo comune dell’umanesimo si sono sviluppati tre filoni. Il liberalismo che ha posto al centro la libertà individuale, l’umanesimo sociale che ha posto in primo piano la socialità e la solidarietà ed infine l’umanesimo evoluzionista che si è tradotto nel nazismo. Il ‘900 è stato il terreno di confronto tra le prime due identificatesi con il capitalismo ed il comunismo ma il problema di una sintesi tra libertà individuale e solidarietà ed equità è tuttora irrisolto. Sul finire del secolo scorso è divenuta patrimonio comune l’idea umanistica che l’uomo ha diritto alla felicità ed è suo dovere rimuovere tutti gli ostacoli che vi si frappongono avendo come unico limite la felicità altrui. Ma che il bilancio della felicità sia individuale o sia riferito ad un gruppo di appartenenza più o meno ampio resta comunque che non esiste altro riferimento al di fuori dell’uomo stesso. Mai era successo prima che ci fosse così unanime accordo sul fatto che i sentimenti dell’uomo costituiscano l’unica misura di tutte le cose. Mi astengo da qualsiasi giudizio in proposito volendo limitarmi a suscitare la consapevolezza che questo è un modello di uomo sano tipico della attuale cultura occidentale di matrice capitalistica in cui ognuno deve darsi da fare al massimo per costruire il proprio personale benessere (tralascio la banalità più superficiale che lo si pensa legato all’avere piuttosto che all’essere e raggiungibile con il fare piuttosto che con il sentire) in un ambiente di libero mercato del benessere in cui il fatto che ognuno persegua il proprio comporta un miglioramento complessivo per tutti. In tale clima di darwinismo sociale l’agonismo spietato per la sopravvivenza del più forte ed il piacere hanno preso il nome molto più presentabile su cui non si può non essere d’accordo di “meritocrazia” che non ha più oppositori essendo considerata appunto una ovvietà e turba alcune anime belle solo quando arriva all’eutanasia dei meno performanti o alla eugenetica mengheliana, che gode però di pessima stampa, di cui però è fatalmente premessa. La cultura capitalista che certamente ha contribuito in modo decisivo alla sconfitta delle piaghe che affliggevano l’umanità come la fame, le malattie e le guerre, è per noi così scontata che non riusciamo a vederla con distacco critico e certe cose ci appaiono del tutto naturali come i sacrifici umani per gli Atzechi o i mortali spettacoli di gladiatori al Colosseo per i romani che non si consideravano affatto incivili.

Le idee vivono nelle menti come virus o parassiti e tendono a diffondersi e moltiplicarsi per proprio conto talvolta anche a discapito dei loro portatori. Se l’evoluzione naturale si basa sull’affermazione dei geni che mirano a replicarsi indifferenti al benessere del loro portatore individuale, l’evoluzione culturale consiste nel diffondersi e nell’affermarsi dei “memi” (unità di informazione culturale o come definita prima una weltaschuung, di cui comunismo, capitalismo, femminismo o nazismo sono alcuni esempi). Le culture vincenti sono quelle che diffondono i loro memi anche a discapito degli umani che ne sono portatori. Tornando ora alla domanda che ci eravamo posti può essere riformulata così: che caratteristiche deve avere oggi una certa conoscenza per affermarsi, diffondersi e proliferare attraverso gli strumenti tecnologici di intermediazione tra gli umani?

Mi sembra che siano sei le dimensioni lungo i cui assi la pressione selettiva sulla conoscenza si va spostando:

La prima è quella della semplicità contro la complessità. Le terribili semplificazioni verso cui metteva in guardia Bateson sono diventate il golden standard della strategia politica e delle comunicazioni sui social media strutturalmente predisposte per essere brevi, cogliere pochi aspetti ed estremizzarli perdendo di vista la complessità e l’approfondimento.

La seconda è quella di essere associata ad un immediata ricompensa edonica e dunque non necessitare di fatica che come il dolore e la morte sono banditi dalla nostra cultura (non a caso forse sul web si resta in eterno).

La terza è la rapidità che comporta che tutto invecchi molto rapidamente ed essere novità rappresenta di per sé un pregio: si sta affermando il pregiudizio che “nuovo” equivalga a “migliore” per cui qualsiasi rottamazione sia buona di per sé trascurando che l’ignoranza del passato porta spesso a ripeterne gli errori. Le notizie invecchiano subito e con altrettanta rapidità se ne perde la memoria. Presto l’amnesico e il demente chiederanno di uscire dalla nosografia perché tener conto solo dell’ultima informazione significherà essere aggiornati, stare sul pezzo, sulla notizia. In questa continua ricerca di stimoli nuovi, di città che non dormono mai, di realtà aumentata, di ipertesti, di prolungamento della vita e di eterna giovinezza mi pare si celi la normalizzazione della maniacalità e dell’abuso di psicostimolanti come la cocaina che sballa le anguille del Tamigi come quelle dell’Arno (se non sapete di cosa sto parlando, molto male, vuol dire che non siete aggiornati).

La quarta è il privilegio della quantità sulla qualità e dunque l’approssimazione sulla precisione. Gli ossessivi saranno sempre più patologizzati e le loro fatiche derise, l’importante è farsi un idea in generale, per poi agire in maniera agile e veloce.

La quinta dimensione potremmo chiamarla il predominio delle narrazioni sui fatti, o come dicono gli esperti, l’affermarsi della “post-verità”. Sappiamo bene che da sempre il mondo in cui vivono gli esseri umani non è fatto solo di cose ma soprattutto di opinioni e narrazioni sulle cose e sono esse che causano emozioni, stati d’animo e comportamenti. Anzi su tale assunto si fonda la teoria e la pratica cognitivista. Tuttavia oggi il legame con la realtà dei fatti concreti è sempre più labile e quasi sovvertito e ciò su cui si hanno opinioni sono, a loro volta, anch’esse opinioni (sarà capitato a tutti di leggere per giorni e giorni commenti su commenti di commenti dopo aver perso completamente di vista il fatto originario che finisce per diventare ininfluente al punto che non si ricorda più l’oggetto del contendere). Oggi la narrazione, lo “story telling” come dicono i più colti, si è sostituito alla realtà oggettiva che ne è un prodotto. Le storie sono la vera realtà e dunque forse aumenterà la consapevolezza che ciascuno di noi vive in un mondo di significati proprio ed autoreferenziale con la speranza che ciò aumenti la tolleranza tra gli individui.

L’ultima dimensione è quella “democratica” per cui nel web “uno vale uno” decretando così la morte degli esperti e delle elitè culturali. Il sapere è a disposizione di tutti, non servono mediatori e i pazienti che arrivano in consulenza sono già informatissimi su diagnosi e terapie per cui anche il ruolo del terapeuta deve modificarsi non godendo più di una autorevolezza tout court, a priori. Il suo ruolo sarà simile a quello del Virgilio della Commedia che accompagna il paziente alla scoperta della conoscenza per lui rilevante facendo da guida e da mediatore ed il suo valore aggiunto sarà nella relazione di sicurezza che riuscirà ad istaurare con il paziente facilitando l’esplorazione esteriore e interiore, per tutto il resto c’è Wikipedia. L’autorità culturale è rifiutata ed il confronto tra le idee si fa più democratico e serrato sui contenuti in sé. Il pericolo, però, è che i rapporti di rango un tempo definiti dal grado di formazione e di cultura (le stesse lauree non contano più) non scompaiano ma vengano fondati sulla violenza delle argomentazioni (si veda l’imbarbarimento dei commenti dei partecipanti ai blog protetti dall’anonimato). Comportamenti un tempo considerati antisociali stanno diventando accettabili nel mondo virtuale dove la possibilità dello scontro fisico che fungeva da moderatrice è assente. L’utopia originaria dei visionari della Silicon valley di una parità tra gli uomini prodotta dal web sta andando delusa e sembrano cambiare solo i criteri per definire il rango, perde terreno la cultura e prende campo la forza e la ricchezza.

E’ importante sottolineare che queste caratteristiche (semplicità, piacevolezza, velocità, leggerezza, attualità) non vengono scelte consapevolmente ma percepite naturalmente come buone e soprattutto esteticamente eleganti e dunque da preferire automaticamente: non scegliamo di comportarci così, lo siamo proprio e lo stiamo diventando sempre più. La cultura in cui si è immersi non si limita a prescrivere certi comportamenti ma ce li fa sembrare buoni e giusti in assoluto modellando gli stessi desideri.

E’ del tutto inutile ancorché sciocco chiedersi se quello verso cui stiamo andando sarà o meno un mondo migliore, da sempre ogni generazione e anche ogni individuo rispetto alla propria storia personale, vede nostalgicamente nel passato l’età dell’oro e nel futuro un degrado dei valori sacri e irrinunciabili anche quando si era alle soglie del rinascimento. Gli uomini grazie proprio a quel processo di continua crescita congetturale della conoscenza ad ogni problema trovano una soluzione che poi nel tempo si dimostrerà essa stessa un problema e sarà a sua volta superata. Ciò che oggi ci spaventa sarà occasione di un ulteriore inaspettato salto in avanti della conoscenza. I nostri figli troveranno soluzioni che oggi non possiamo neppure immaginare e fronteggeranno problemi scientifici, tecnologici ed etici che sono molto oltre ogni nostra possibile fantasia anche sostenuta da pesanti stupefacenti.

E’ scientificamente dimostrato quanta poca previsionalità e controllo abbiamo sugli eventi futuri della nostra esistenza individuale. Siamo in balia del caso per la maggior parte degli accadimenti decisivi dell’esistenza (la nascita e il suo luogo, le fortune e la morte). Minuscoli viventi sparati in un universo sconosciuto ma dotati di quella autoconsapevolezza cosciente che renderebbe la vicenda intollerabile (Ligotti T. 2016) se non fosse bilanciata dai fondamentali bias del cosiddetto narcisismo sano che sono l’illusione di valore, di immortalità e di controllo (Liotti G., Lorenzini R. 2018). A livello sovraindividuale l’umanità si è sempre interrogata su dove stiamo andando e quantunque sia ormai provato che le previsioni sono quasi sempre fallimentari, non smettiamo di provarci e dopo che i fatti sono accaduti con il cosiddetto bias “del senno di poi” ci sembra che le cose non potessero che andare come effettivamente sono andate. Gli storici hanno un compito molto più facile dei profeti.

Che ci sia un architetto esterno che ha per l’umanità un progetto intelligente ma secondo logiche sue a noi imperscrutabili, o che il procedere sia casuale per tentativi ed eliminazione degli errori come nell’evoluzione delle specie viventi, il problema dell’ignoranza sul futuro non cambia. La storia è ben lontana da essere finita con il XX°secolo come ipotizzava il politologo Francis Fukuiama (Fukuyama F. 1992 “la fine della storia” ed BUR, Milano) e ci riserva sempre nuove sorprese, curve pericolose, svincoli inaspettati, tanto da sembrare preoccupata, come un buono sceneggiatore, soprattutto di non annoiare noi spettatori di questo grandioso spettacolo di specie, mondi e civiltà che nascono, si assolutizzano e scompaiono al segnale del capocomico che decreta “avanti un altro!!”.

Sembra proprio difficile intravedere un filo conduttore unitario e hanno buoni argomenti sia i pessimisti (T. Ligotti2016) che intravedono un progressivo imbarbarimento e un futuro di violenza e guerre totali sia gli ottimisti come Serres (Serres M. 2018 “Darwin, Napoleone e il Samaritano. Una filosofia della storia” Bollati Boringhieri, Torino) che descrivono la nostra come la migliore delle epoche dove è solo l’aumentata sensibilità ad evidenziare maggiormente il male che, in realtà non è più accettato e sta battendo rapidamente in ritirata. Il compito di dare un senso all’universo si è spostato da Dio all’uomo.

La felicità non è riducibile al piacere dei sensi ed è strettamente connessa, secondo autorevoli studi scientifici, con l’avere un senso per la propria vita e percepirla come importante e valida, esserne soddisfatti. Una vita che ha senso permette di affrontare ogni cosa, senza un senso dell’esistenza ogni agiatezza è insoddisfacente. Anche se scientificamente la vita non ha alcun senso le illusioni sono salvifiche che siano le antiche religioni o il moderno umanesimo nelle sue varie versioni o più limitatamente l’alimentazione vegana, la perfetta forma fisica o la “magica Roma”. Favorisce il benessere il fatto che le proprie illusioni personali siano sincronizzate con quelle collettive della cultura in cui si vive.

Rispetto alla storia universale forse dobbiamo superare un modello esplicativo unidirezionale che ci porta a chiederci in che direzione vada la storia. L’andamento della storia dell’umanità e forse anche di quella individuale è meglio descrivibile con un modello multidimensionale (di nuovo sono da preferire per descrivere qualsiasi realtà le dimensioni e le sfumature che le categorie dai confini netti) e oscillatorio secondo il quale esistono numerose dimensioni o costrutti esprimibili con polarità estreme contrapposte come, a solo titolo di esempio: mono-oligarchia versus democrazia; individualismo versus solidarietà; localismo versus globalizzazione; espansione versus ritiro; competizione versus cooperazione; creatività versus ripetizione; parità versus disuguaglianza e se ne potrebbero aggiungere decine di altre relativi ai vari campi dell’esperienza umana collettiva e personale.

Ciò che a mio avviso accade è che quanto più si realizza attivamente una polarità ritenuta migliore, più se ne avvertono i difetti e la parzialità che non sono invece avvertite nella polarità non realizzata. E’ lo stesso meccanismo che ci fa autocriticare per le scelte fatte in quanto, dimentichi dei bisogni (ormai soddisfatti) che ce l’hanno fatta preferire, avvertiamo solo i difetti e le mancanze dell’opzione praticata (esempio tipico è la scelta di un percorso che trafficato ci fa rimpiangere quello alternativo il cui traffico o l’eccessiva lunghezza semplicemente non vediamo).

Lo stato delle cose futuro è determinato dalla sommatoria delle oscillazioni su tutte queste dimensioni che si muovono indipendentemente l’una dall’altra dando dunque luogo a possibili infinite combinazioni a nostra protezione dalla noia.

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