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Training autogeno: il ruolo della respirazione

Il training autogeno è una tecnica di autorilassamento che riesce a sviluppare la correlazione fra esercizio mentale e risposta dell’organismo per raggiungere un corretto equilibrio psicofisico e alleviare i disturbi legati allo stress. Aumenta la capacità di concentrazione e apporta benefici sia a livello fisico che psicologico.

 

Il training autogeno si basa sull’apprendimento di 6 esercizi che favoriscono la consapevolezza di sé e l’acquisizione della giusta metodica di rilassamento.

La tecnica del training autogeno fu ideata dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz negli anni 30. Schultz si rifece alle tecniche di meditazione e ipnosi allora conosciute per sviluppare un percorso di consapevolezza autoterapico, in cui il paziente fosse in grado di raggiungere da solo, una volta acquisito il giusto allenamento, il raggiungimento dello stato di rilassamento.

Come la respirazione influisce sul training autogeno

La particolarità del training autogeno rispetto ad altre tecniche psicosomatiche è che il corpo si lascia guidare passivamente dalla mente. Questa, a sua volta, acquisisce la capacità di influenzare la risposta psicosomatica senza che il paziente debba intervenire, sfruttando solo le immagini mentali legate a una determinata condizione.

Se pensiamo alla respirazione, ci appare chiaro come già solo questa possa influenzare il nostro stato emotivo e ne sia allo stesso tempo influenzata. Uno stato di stress provoca un respiro corto e affannoso che, di conseguenza, aumenta ancora di più la sensazione di stress.

Una corretta gestione del respiro può, già di per sé, portare grandi benefici a livello psicosomatico. È molto comune, proprio a causa del costante stato di stress in cui si trova la maggior parte di noi, che il nostro respiro si trasformi, passando dalla respirazione naturale a una più forzata. Questa modalità di respirazione, detta toracica, vede il diaframma in una posizione quasi passiva. È infatti la cassa toracica a compiere il movimento per espellere l’aria. In questo modo, però, non si riesce ad effettuare il naturale ricambio totale di aria nei polmoni.

Training autogeno: perché concentrarsi a respirare bene

Gli sportivi, così come chi pratica meditazione o yoga, conoscono perfettamente l’importanza di esercitare il controllo sulla propria respirazione. Con l’esercizio del training autogeno verrà naturale acquisire il giusto modo di respirare, con un ritmo più lento, allungando i tempi di inspirazione e soprattutto di espirazione per garantire un corretto apporto di aria a tutti i tessuti.

Grazie al cosiddetto esercizio del Respiro, il soggetto acquisirà una maggior consapevolezza di come funziona il proprio organismo, fino a rendere automatica la pratica della corretta respirazione diaframmatica. Le prime volte egli dovrà cercare di respirare senza gonfiare la cassa toracica, non alzando le spalle. Egli percepirà nettamente la piacevole sensazione dell’aria che scende verso la pancia. Sarà proprio l’addome a gonfiarsi durante l’inspirazione. Facendo ciò, il diaframma scenderà verso il basso permettendo all’aria di riempire i polmoni.

Più il paziente avanzerà nell’apprendimento della tecnica del training autogeno, più sarà semplice e automatico mantenere il giusto ritmo respiratorio. La sensazione di rilassamento sarà gradualmente sempre maggiore, producendo un vero e proprio senso di benessere generale.

 

Ansia nei bambini e assenze scolastiche

La scuola svolge un ruolo chiave nello sviluppo intellettivo, emotivo e sociale dei bambini. Le frequenti assenze da scuola sono fattori di rischio per molti aspetti.

 

Ad esempio, per quanto riguarda l’isolamento sociale, gli scarsi risultati accademici e la disoccupazione futura. Il dipartimento dell’istruzione ha calcolato che nel Regno Unito, nel 2016, l’ammontare dei giorni di assenza degli alunni a scuola è pari a 56,7 milioni e il 10.8% dei bambini è stato considerato “persistentemente assente” a causa della mancanza di presenze durante l’anno scolastico (10% o più). Naturalmente vi sono diverse ragioni per cui un bambino si assenta da scuola, come problemi di salute, personali, familiari, scolastici e legati alla comunità di appartenenza.

Ansia e assenze a scuola: lo studio

Diversi studi hanno evidenziato come una scarsa salute mentale sia associata ad una ridotta frequenza scolastica e all’ansia; quest’ultima è considerata nella letteratura un importante fattore di rischio per le assenteismo scolastico. Vi sono diversi aspetti legati alla scuola che possono indurre l’ansia nei bambini, ad esempio la separazione dai caregivers primari, le interazioni sociali con i docenti e con i pari e anche lo stress scolastico.

Nei bambini ansiosi si possono presentare anche diversi sintomi somatici come mal di testa, mal di stomaco e stanchezza, questi, perciò, possono contribuire all’assenza scolastica, in particolare se interpretata dagli adulti vicini ai bambini come segni di salute fisica e non come problemi legati alla salute mentale del bimbo.

Un gruppo di ricercatori della University of Exeter Medical School ha condotto uno studio sistematico pubblicato sulla rivista Child and Adolescent Mental Health, il cui scopo era per l’appunto capire il legame tra l’ansia e la scarsa frequenza scolastica, in particolare quella ingiustificata.

La ricerca è stata sostenuta dalla Wellcome Trust and the National Institute for Health Collaboration for Leadership in Applied Health Research and Care (CLAHRC) South West Peninsula (PenCLAHRC).

Di 4.930 studi in quest’area, solo in 11 sono stati soddisfatti i criteri per poterli includere nello studio. La ricerca di questi studi è stata condotta in diversi paesi come il Nord America, l’Europa e l’Asia.

Ansia e assenze a scuola: indicatori della salute dei bambini

Il gruppo di ricercatori ha classificato la frequenza a scuola in diverse categorie: l’assenteismo (totale assenza), assenze dovute a fattori medici, assenze ingiustificate e rifiuto della scuola, ovvero quando il bambino fa fatica a frequentare la scuola, a causa dal disagio provato, sebbene i genitori e gli insegnanti ne siano consapevoli.

I risultati di 8 studi hanno evidenziato una sorprendente associazione tra assenteismo e ansia, nonché il legame atteso tra ansia e rifiuto della scuola.

L’autrice principale dello studio, Katie Finning, sostiene che l’ansia provata dai bambini non solo possa riguardare la scolarizzazione dei giovani, ma che possa portare anche a peggiori risultati accademici, sociali ed economici in futuro. Per questo è importante raccogliere al più presto i segnali di allarme ed aiutare i giovani il prima possibile.

La scuola può scatenare ansia nei bambini, per questo motivo è importante rendersi conto che una grave ansia può avere un impatto significativo nello sviluppo dei bambini.

Per concludere, l’ansia può essere curata con successo grazie ai trattamenti efficaci a disposizione, tuttavia è importante capire che l’ansia può portare ad evitare le situazioni temute.

Per quanto riguarda le prospettive future, in particolare, sono necessari altri studi che monitorino i bambini nel tempo, in modo tale da distinguere chiaramente se l’ansia porti ad una chiara ed evidente scarsa frequenza o viceversa.

Il Narcisismo digitale e le patologie da iperconnessione

La cognizione di una diffusione di tratti narcisistici nella popolazione occidentale ha portato diversi autori a indagarne i motivi, c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo e addirittura di un’epidemia del narcisismo.

Che cos’è il narcisismo? Secondo Wikipedia il narcisismo è spesso sinonimo di egoismo, vanità, presunzione. Applicato a un gruppo sociale, il narcisismo a volte indica elitarismo o indifferenza nei confronti della condizione altrui. In psicologia invece il termine è utilizzato per descrivere un concetto centrale della teoria psicoanalitica, il normale amore per se stessi o per indicare l’insano egocentrismo causato da un disturbo del senso di sé.

Tuttavia, in merito all’ambito psicologico, occorre precisare come il narcisismo sia un tratto della personalità e può essere considerato, secondo la logica di un continuum, uno stato normale. Il narcisismo ha di per sé un’accezione positiva: indica l’amore sano e legittimo per se stessi (Behary, 2013). Perde tale connotazione quando si lega ad un bisogno abnorme di attenzione, affermazione, apprezzamento, gratificazione esterna. Se quest’atteggiamento psicologico interferisce seriamente con i rapporti interpersonali, gli impegni quotidiani e la qualità della vita, può assumere una dimensione patologica culminante nel disturbo narcisistico di personalità.

I criteri diagnostici per fare diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5) ruotano attorno al concetto di grandiosità, nonché al costante bisogno di ammirazione e la mancanza di empatia. Rispetto alla precedente edizione, il DSM 5 compie però un passo in avanti. Per la prima volta vengono indicati i paradossi del narcisismo: l’enorme vulnerabilità dietro la facciata grandiosa e la solitudine profonda dietro l’auto-esaltazione.

Il narcisismo digitale

Con l’arrivo del Web, ed in modo particolare dei social network, si è assistito ad una proliferazione del narcisismo sotto forma di narcisismo digitale. Con l’espressione di “narcisismo digitale” alcuni filoni di ricerca indicano un insieme di pratiche comunicative tipiche dell’universo 2.0 e fondate su un egocentrismo così accentuato da apparire patologico (Zona, 2015). Secondo la Teoria degli usi e gratificazioni (Katz, Blumler, Gurevitch, 1974; Papacharissi, Mendelson, 2011), più l’individuo percepisce che un medium soddisfa alcuni suoi bisogni, più lo userà proprio per quello scopo, in particolare se l’individuo non si sente capace di farlo nell’ambiente reale.

La cognizione di una diffusione di tratti narcisistici nella popolazione occidentale ha portato diversi autori a indagarne i motivi: c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo (Lasch, 1979), e addirittura di un’epidemia del narcisismo (Twenge, Campbell, 2009). In un articolo di Erica Benedetto scritto per l’occasione su State of Mind, ci viene mostrato uno studio condotto tra gli atenei di Swansea e Milano (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, Truzoli, 2018) in cui si afferma che farsi più selfie rinforzerebbe i tratti narcisitici di personalità. I ricercatori hanno preso in esame 74 individui di età compresa dai 18 ai 34 anni, durante un periodo di quattro mesi. Un altro elemento preso in considerazione è stata l’assiduità con cui i partecipanti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat) durante il corso della ricerca. In media, durante l’arco temporale dello studio, i partecipanti hanno usato i social per tre ore al giorno, nonostante qualcuno abbia riportato un utilizzo di ben 8 ore circa. In percentuale, Facebook si è rivelato essere la community digitale più utilizzata (60%), a seguire Instagram (25%) e infine, Twitter e Snapchat (13%). I due terzi dei soggetti coinvolti adoperavano i social principalmente per postare selfie. I social network quindi funzionavano da moltiplicatori del loro desiderio di essere al centro dell’attenzione. Soprattutto perché agiscono principalmente sull’immagine. Inoltre, è stato dimostrato che i partecipanti allo studio che erano soliti postare un numero eccessivo di selfie, in accordo con la scala di misurazione utilizzata, presentavano il 25% dei tratti narcisistici oltre il cut-off clinico per il Disturbo Narcisistico di Personalità. Per la prima volta, grazie a questa ricerca, si è giunti dunque a dimostrare l’esistenza di una correlazione tra la frequenza di utilizzo dei social media e narcisismo in relazione alla pubblicazione dei selfie.

Ed ancora, una collega italiana in forza all’University of Georgia, in uno studio condotto su 130 profili di facebooker, ha evidenziato come il numero di amici, il tipo di immagini, e i commenti associati a un profilo costituiscano una misura attendibile del grado di narcisismo dell’utente. I narcisisti, secondo quanto emerso dallo studio della Dott.ssa Buffardi, pubblicano sulle loro pagine le foto in cui compaiono più belli e trendy mentre i “normali” utilizzano preferenzialmente foto banali, magari scattate al volo con un telefonino o una webcam (Buffardi, 2008). I siti di social networking sembrerebbero quindi offrire l’ambiente ideale per la proliferazione di alcuni tipi di personalità narcisistiche che hanno l’intento di promuovere se stesse e cercare l’ammirazione degli altri su larga scala.

Questo è quello che emerge da uno studio pubblicato sulla rivista CyberPsychology, Behavior and Social Network. Lo studio, tutto italiano di studiosi dell’Università di Firenze, dal titolo Narcisisti grandiosi e vulnerabili: chi è a maggior rischio di dipendenza da Social Network? (Casale, Fioravanti, Rugai, 2016) è stato svolto su un campione di 535 studenti europei. La conclusione della ricerca ci ha mostrato come i narcisisti vulnerabili, che tendono ad essere insicuri e hanno una minore autostima, sono più propensi a sentirsi più sicuri in un ambiente online rispetto ad un’interazione reale tanto che sono indotti a preferire il social network come mezzo per ottenere approvazione e ammirazione. Al contrario i narcisisti grandiosi, che tendono verso l’arroganza e l’esibizionismo, è probabile che cerchino l’ammirazione più apertamente, piuttosto che attraverso i social media.

Sul versante opposto di quanto accennato finora, vi sono però coloro che nei social network trovano terreno fertile per la propria disistima, se confrontata con quella degli altri attraverso i loro contenuti postati. Il fenomeno è noto a tutti come Image Crafting.

Narcisimo digitale e stato di “flow”

L’attrazione da parte dei narcisisti digitali verso i social network non si spiega solamente con la loro capacità di fungere da cassa di risonanza per il loro Sé. Una ricerca condotta dagli psicologi della IULM e della Cattolica di Milano (Cipresso et al., 2010; Mauri et al., 2010) hanno mostrato la capacità dei social network di produrre delle “esperienze ottimali”, definite di “flusso” (flow), in grado di fornire una ricompensa intrinseca ai propri utenti.

Lo stato di Flow o di flusso è uno stato emotivo positivo sviluppato da Mihály Csíkszentmihályi, uno degli psicologi più famosi nell’indagine della psicologia positiva. Quando si è in questo stato, la persona si trova totalmente assorta in un’attività di suo gradimento in cui il tempo vola e azioni, pensieri e movimenti si succedono l’un l’altro senza fermarsi. Questo stato emotivo positivo è caratterizzato dal coinvolgimento totale nell’attività che si sta realizzando mantenendo un livello di concentrazione assoluto. Tuttavia, tale livello di assorbimento nell’attività che stiamo svolgendo, porta ad uno stato di “mancanza di autocoscienza” in cui viene a mancare la concezione egocentrica di sé come attore, tanto è vero che la soddisfazione di alcuni bisogni, come ad esempio mangiare o andare in bagno, potrebbero passare in secondo piano. Come effetto collaterale dell’intensa presenza, lo stato di flow porta ad una alterazione del tempo: si perde la cognizione del tempo che passa senza che ce ne rendiamo conto.

Come si genera lo stato di flow? Lo stato di flow è connesso al nostro livello d’intenzione. Csíkszentmihályi definisce come “intenzione” l’atto di concentrare la nostra attenzione in un’azione o su un obiettivo. Sempre a proposito della Flow experience, in un articolo di State of Mind di Angelica Gandolfi, veniamo a conoscenza di innumerevoli studi che confermano l’occasione di vivere lo stato di flusso psicologico in campi come la scienza, la scrittura letteraria, nell’esperienza estetica ed infine nello sport.

L’oversharing e il selfie: due fenomeni tipici del narcisismo digitale

Il narcisismo digitale si esprime attraverso una serie di azioni “estremizzate” molto diffuse come ad esempio scattarsi dei selfie (pratica che caratterizza maggiormente gli adolescenti, ma ove innumerevoli adulti non fanno eccezione) o condividere momenti, a volte fin troppo intimi, della propria vita quotidiana. Lo share o meglio l’oversharing, vale dire l’eccesso di condivisione di informazioni, fa parte del loro modo di stare nel mondo, diventa un gesto istantaneo… una naturale estensione del Sé. Il mettersi in mostra, talvolta in modo spettacolare, è diventata una maniera di esistere affermata: esistiamo soltanto se possiamo “essere visti” e riconosciuti. Tutto quello che facciamo e che postiamo, personale o pubblico che sia, viene sottoposto alla severa valutazione dei “mi piace” e non “mi piace”. Spazio e tempo nella Rete vengono completamente annullati, per cui ognuno ha la possibilità di negare la propria storia personale e scegliersi di volta in volta nuove biografie in base alle mode.

Diana I. Tamir e Jason P. Mitchell, studiosi di Harvard e autori dello studio Disclosing information about the self is intrinsically rewarding si sono chiesti cosa spinge l’essere umano a cercare di condividere le proprie esperienze con gli altri. Tramite un’indagine effettuata con risonanza magnetica funzionale i due studiosi hanno avuto modo di constatare come le regioni più reattive, nel momento in cui i soggetti si soffermavano a narrare le proprie esperienze, pensieri, emozioni, riflessioni, è correlato fortemente con l’attivazione di aree cerebrali deputate alla percezione di un senso di gratificazione e di piacere. Il che fa sì che il comportamento si possa ripetere. La considerazione finale degli autori li conduce ad affermare che il piacere di parlare di sé agli altri è simile a quello, definito primario, che è intrinseco al cibo ed al sesso. (Tamir, Mitchell, 2012).

Si definisce selfie (dall’inglese “self”, letteralmente sé) una fotografia scattata a se stessi, in genere con uno smartphone, successivamente condivisa sui social network o in rete. Essi testimoniano il desiderio ed il piacere di apparire, di mostrarsi e dimostrare qualcosa di sé valutato come positivo e “degno” di essere condiviso. La loro funzione è quella di ricostruire un racconto delle nostre vite, della nostra quotidianità, sotto la luce migliore. Attraverso la condivisione dei selfie, l’utente è alla ricerca di approvazione che viene espressa attraverso il numero dei ‘mi piace’ ottenuti per ogni autoscatto, condivisione e complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che si vuole dare di sé.

La consapevolezza di ciò spinge la persone che si trova di fronte ad una fotocamera, a preoccuparsi della sua apparizione e quindi a scattare continuamente finché non ottiene l’immagine migliore. Tuttavia, dai semplici autoscatti riguardanti il proprio viso, si è passati a fotografare anche parti di sé o momenti sempre più “intimi”. Legato al concetto di “intimità” è il costrutto di “estimità” fondato nel 2001 dallo psichiatra francese Serge Tisseron. Anche se la paternità di tale neologismo (usato in maniera diversa rispetto a Tisseron) si debba a Jacques Lacan, filosofo francese nonché psichiatra e psicoanalista. Quando Tisseron usò la prima volta il costrutto di “estimità” non si riferiva principalmente ai social media, tant’è che considerava la nascita di tale fenomeno il giorno in cui, negli anni ’80, una donna aveva rivelato in una trasmissione tv di non avere mai avuto un orgasmo con il marito. Soltanto più tardi lo psichiatra francese ne ha circoscritto l’uso alle abitudini digitali e intendendolo come atto pensato per rendere pubblici elementi della vita intima al fine di valorizzarli grazie ai commenti. Per Tisseron:

… il desiderio d’estimità consiste nel mostrare dei frammenti della propria intimità di cui noi stessi ignoriamo il valore, a rischio di provocare il disinteresse od anche il rigetto negli interlocutori, ma con la speranza che il loro sguardo ne riconosca il valore e lo renda tale ai nostri occhi.

L’estimità on line possiede quindi uno scopo specifico: ricavarne autostima, verificando il consenso dei destinatari poiché i contenuti personali sono l’asso nella manica di chi cerca attenzione. Sui social media chi pratica la strada dell’estimità tende a reiterarla, specialmente quando ha un riscontro positivo.

In merito all’uso dei selfie l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus presieduto dalla Dott.ssa Maria Manca nonché membro dell’Advisory Board nazionale del progetto Generazioni Connesse, attraverso un comunicato stampa del 2017 intitolato: Adolescenti iperconnessi. Like addiction, Vamping e Challenge sono le nuove patologie ci offre un interessante quadro della situazione adolescenziale italiana. Su un campione di oltre 8.000 adolescenti di circa 18 regioni italiane, di età compresa tra gli 11 e i 19 anni, possiamo notare come i ragazzi della fascia 14-19 anni mediamente fanno circa 5 selfie al giorno, con punte massime di 100, contro i 2 selfie al giorno dei più piccoli che preferiscono utilizzare maggiormente i video e i messaggi audio. Pur di ottenere più like (fondamentali per il manifestarsi del Like addiction o dipendenza dai like) il 13% ha seguito addirittura una dieta per piacersi di più nei selfie. Tanti like e tante approvazioni accrescono l’autostima, la popolarità e quindi la sicurezza personale. Ovviamente, vale anche il contrario, ovvero commenti dispregiativi e pochi like condizionano l’umore e l’autostima in negativo, tanto che il 34% ci rimane molto male e si arrabbia quando non si sente apprezzato. Come continua a riportare l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus, circa 2 adolescenti su 10 condividono tutti i selfie che fanno sui social network e su WhatsApp, andando a ledere completamente il concetto di privacy e di intimità che ormai si è trasformata in un’intimità condivisa. Rispetto al 2015, anno in cui tale problema riguardava appena il 15%, questo dato è cresciuto. Tralasciando per un momento questi dati occorre però farsi una domanda… E l’Altro? Che compito ha? Quale ruolo svolge? Nell’epoca segnata dai social network l’Altro esiste solo come proiezione di tutto ciò che può rispondere ad un ritorno di ammirazione (in questo caso l’Altro è considerato bello ed è ricercato) oppure come proiezione di parti del Sé negative e frustranti ed in quel caso viene eliminato senza esitazione. Se nel primo caso esso è bello e ricercato, nel secondo caso invece viene “eliminato”. (Faimberg, 2006; Nardulli, 2006).

Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli (Tonino Cantelmi).

Le “patologie” da iperconnessione

Come già affermato all’inizio dell’articolo, secondo alcuni autori il web 2.0 incoraggia lo sviluppo della cultura narcisistica attraverso l’esibizione di identità digitali seducenti e molto spesso fittizie. L’uomo non è più concentrato sul costruirsi per com’è davvero, ma per convincere gli altri a credere chi finge di essere (Cantelmi, 2013). L’iperconnessione caratterizzante il narcisismo digitale ha portato alla nascita di nuovi “disturbi” in qualche maniera legati ad esso, ma non ancora ufficialmente riconosciuti in manuali come l’ICD-11 o il DSM V. Queste “patologie”, se proprio così le vogliamo chiamare, sono note come F.O.M.O (Fear Of Missing Out), Nomofobia, Phubbing e Vamping.

F.O.M.O

L’acronimo F.O.M.O, dall’inglese “Fear of missing out” ovvero “Paura di essere tagliati fuori”, indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con gli eventi nel cyber mondo o con le attività che fanno i nostri amici o parenti, per paura di rimanere esclusi da qualunque avvenimento o situazione che ci offra un’opportunità di interazione sociale. La teoria dell’autodeterminazione o SDT, Self-determination theory (Deci e Ryan, 1985) afferma che il sentimento di parentela o di connessione con gli altri è difatti uno dei tre bisogni psicologici di base che influenza la salute psicologica delle persone.

La F.O.M.O è quella sensazione di agitazione, pentimento e invidia che, precisa Turkle (2012), “crea un turbinio emozionale e un risentimento verso noi stessi o gli altri, insoddisfazione, ansia e sentimento di incapacità” quando ci rendiamo conto di non essere dove vorremmo. Non è una patologia riconosciuta a livello clinico, ma la sua presenza può peggiorare una condizione preesistente di ansia e depressione. La paura di perdersi qualcosa di interessante costringe i “malati” di F.O.M.O a stare costantemente collegati allo smartphone controllando i loro account Facebook, Instagram o gli aggiornamenti degli stati dei propri contatti presenti su Whatsapp. Chi è “afflitto” da F.O. M.O cade in un circolo vizioso senza rendersene conto: egli cerca di riempire la solitudine che prova attraverso i social che solo apparentemente gli danno compagnia, facendolo cadere invece in un senso di solitudine ancora maggiore che cerca di colmare sempre attraverso i social.

Vi è un collegamento importante, difatti, tra F.O.M.O e dipendenza da smartphone: a livello questo costrutto che nasce con l’avvento dei social, è considerato un segnale predittivo dell’insorgenza di dipendenza da smartphone e sofferenza emotiva.

La F.O.M.O in Italia è un fenomeno ancora poco esplorato e non esistono oggigiorno degli studi in merito. Lo psicologo e ricercatore Andrew Przybilski è stato il primo che nel 2013, assieme a ricercatori dell’Università della California, di Rochester e di Essex ha condotto una ricerca empirica su questo costrutto sociale per fornire informazioni su come valutarla in modo affidabile e su come si correli con fattori legati al benessere, al comportamento, a fattori sociali e motivazionali. Dai risultati è emerso che
la F.O.M.O è legata ad un rapporto ambiguo con i social media dove ogni giorno veniamo bombardati da tormentoni, meme, video strani o semplicemente dagli eventi che accadono nel mondo o a cui partecipano i nostri amici. La F.O.M.O È una “forza stimolante” in grado di influenzare il modo di utilizzare i social network.

Il livello di F.O.M.O è più alto negli utenti di giovane età, in particolare di sesso maschile. La F.O.M.O si identifica in maggior livello negli studenti che sono soliti consultare i social network durante le lezioni scolastiche. Inoltre, i livelli di F.O.M.O sono influenzati dalle circostanze sociali. Bassi livelli di soddisfazione della propria vita e dei propri bisogni personali coincidono con alti livelli di F.O.M.O. La F.O.M.O è più alta in chi è spesso distratto e questo può interferire con le attività quotidiane.

Un importante studio pubblicato sulla rivista scientifica Computer in Human Behaviour dal titolo I don’t want to miss a thing: Adolescents’ fear of missing out and its relationship to adolescents’ social needs, Facebook use, and Facebook related stress (Beyens, Frison, Eggermeont, 2016) ha esaminato più di 400 adolescenti, analizzando le loro modalità di utilizzo dei social media, la loro interazione e la possibile presenza di F.O.M.O. Da tale studio si evince che gli adolescenti, più sono connessi è sintonizzati con gli altri, tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network, più percepiscono lo stress e la paura di essere esclusi e respinti dalla propria rete sociale. I soggetti più a rischio e che sono colpiti da stati di ansia, solitudine e abbandono sono in particolare adolescenti con bassa autostima e maggiore insicurezza, che spesso rischiano di confondere la vita reale con quelle create virtualmente nei social network. Ne consegue che per rimanere sempre “a passo con gli altri” gli adolescenti, e non solo, esibiscano nelle varie piattaforme sociali in cui sono iscritti una vita che non è reale ma “costruita”.

Nel 2018, un’altra interessante ricerca straniera intitolata Fear of Missing Out and its Link with Social Media and Problematic Internet Use Among Filipinos (Reyes, Marasingan, Gonzales, Hernandez, Medios, Cayubit, 2018) ha esplorato come ci sia una correlazione significativa tra la F.O.M.O con l’uso dei social media (SMU) e l’utilizzo problematico di Internet (PIU) tra i filippini. Un totale di 1.060 filippini ha completato una batteria di prova composta da tre scale per misurare le suddette variabili: Scala FoMO (Fear of Missing Out), Social Networking Time Use Scale (SONTUS) e Internet Addiction Test (IAT). Le analisi statistiche emerse dai risultati finali hanno comprovato come sia presente un’effettiva correlazione tra la F.O.M.O con l’utilizzo dei social network e l’uso preoccupante del Web.

Nomofobia

La Nomofobia è una patologia ancora scarsamente indagata e ancora troppo poco definita. Il termine Nomofobia, la cui etimologia deriva dalla contrazione di “no-mobilephobia”, è un neologismo che si riferisce all’eccessiva paura/terrore di rimanere senza telefono o senza connessione ad internet o al 4G. La comparsa di questo nuovo vocabolo risale per la prima volta nel 2008 in Gran Bretagna; in occasione di un sondaggio organizzato da un organismo di ricerca con sede nel Regno Unito su un campione di 2.163 persone, era emerso che oltre la metà degli utenti di telefonia mobile (quasi il 53%) tendeva a manifestare stati d’ansia quando era a corto di batteria, credito, senza alcun tipo di copertura oppure senza il cellulare stesso. La ricerca evidenziava inoltre che più di sei ragazzi su dieci tra i 18 e i 29 anni andavano letteralmente a letto in compagnia del telefono.

A quattro anni di distanza, vale a dire nel 2012, una ricerca commissionata dalla società californiana Securenvoy su un campione di 1000 intervistati, ha evidenziato come ben il 66% ha paura di perdere il proprio cellulare. Un aumento del 13% rispetto alla medesima indagine condotta da YouGov’plc del 13%. Secondo il Ceo di SecurEnvoy, Andy Kemshall, le persone intervistate arrivano a controllare circa 34 volte al giorno il proprio cellulare, per assicurarsi che sia sempre presente e connesso.

Recentemente, presso il liceo Cairoli di Pavia, è stato condotto un esperimento dallo psichiatra Maurizio Fea con la collaborazione della professoressa Lucia Durigo. Questa interessante sperimentazione dal semplice scopo, ovvero rimanere 5 giorni senza social, era rivolto a un gruppo di 503 studenti. Di questi, 43 studenti hanno aderito alla sperimentazione, ma soltanto 8 di loro l’hanno portata a termine. Sul portale web del Corriere della Sera, con data 15 febbraio 2019, vi sono riportate le riflessioni a posteriore di una dei partecipanti, Carola Valsecchi. Eccone uno stralcio.

È stato come premere un bottone e ritrovarsi indietro nel tempo… Il primo giorno è filato liscio, è stato dal secondo che tutto è cominciato a sembrarmi così difficile… dal non poter inviare i soliti messaggi ai miei compagni a quella tentazione di controllare i “mi piace” su Instagram. È stata dura prima di andare a letto. Niente foto da commentare, fissavo il soffitto e mi sembrava di essere così sola…

Leggendo le considerazioni della giovane studentessa sorge però spontanea una domanda. È giusto continuare a considerare la nomofobia come semplice fobia? La risposta è negativa poiché i dati a supporti delle precedenti ricerche non collimano con questa “erronea” valutazione. La nomofobia va piuttosto considerata come una dipendenza comportamentale. Tuttavia, si può parlare di dipendenza vera e propria quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo dello strumento, al punto che insorgono disfunzioni significative nelle principali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva.

Ad avvalorare l’ipotesi secondo cui sia più opportuno considerare la nomofobia come dipendenza piuttosto che una fobia, è l’opinione del professore di psichiatria David Greenfield dell’Università del Connecticut. Secondo Greenfield l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello e piacevole, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).

Successivamente Walsh e White nel loro studio dal titolo Over-connected? A qualitative exploration of the relationship between Australian youth and their mobile phones (Walsh, White, 2007) affermano che in alcune giovani persone emerge un attaccamento estremo al cellulare con sintomi di dipendenza comportamentale. I sintomi evidenziati sono: salienza (cognitiva e comportamentale), conflitto, euforia o conforto, tolleranza, ritiro sociale, ricaduta e ripristino della dipendenza. Di notevole interesse sono i sintomi relativi alla salienza cognitiva, all’euforia e al ritiro sociale o impotenza. La salienza cognitiva si presenta quando il pensiero del cellulare esclude, ovvero “distrae” da altri processi di pensiero così da non potersi focalizzare su altre attività. L’euforia (o conforto) associata all’uso del cellulare si riferisce alle sensazioni in cui ci sentiamo amati e/o ben considerati quando riceviamo telefonate o messaggi. Infine il ritiro sociale o impotenza riguarda la spiacevole sensazione di sentirsi incapace di fare determinate cose senza l’ausilio del proprio mobile phone. La maggior parte degli aderenti allo studio inoltre riferiva di percepire, nel momento in cui non poteva essere usare o essere contattata dal proprio cellulare, elevati livelli di disagio personale che derivano dalla sensazione di essere disconnessi dalle altre persone.

Nel 2010, un ulteriore studio condotto dai dei ricercatori brasiliani dell’Università Federale di Rio de Janeiro denominato Nomophobia: the mobile phone in panic disorder with agoraphobia: reducing phobias or worsening of dependance? (King, Valença, Nardi, 2010) dà un ennesimo slancio verso la conferma della nomofobia in quanto dipendenza. I ricercatori brasiliani avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento di tale “malattia”.

Un interessante parallelismo che possiamo fare, parlando ancora di Nomofobia, consiste nel considerare lo smartphone in quanto strumento tecnologico strettamente persuasivo. A tal proposito, la Captologia di Fogg ci dà un enorme contributo. Questa recente area d’indagine esplora lo spazio di confine tra persuasione (influenza, motivazione, cambio di comportamento e così via) e tecnologia del computer. Il campo della captologia cresce rapidamente: ogni giorno nuovi prodotti informatici, inclusi siti web, applicazioni mobili o social network, sono progettati per cambiare ciò che le persone pensano e fanno. Dei 42 diversi principi captologici teorizzati da Fogg per spiegare come le tecnologie attuano la persuasione ve ne sono alcuni che in misura maggiore degli altri, ma senza per questo tralasciare gli altri, possono spiegare come mai il mobile phone sia uno strumento così persuasivo. Gli assiomi di cui vi voglio parlare sono gli stessi che avevo già citato in un mio vecchio articolo pubblicato su State of Mind a proposito di Pokémon Go, ovvero il fattore kairos, il fattore comodità e il principio della semplicità mobile. Senza stare a dilungarmi troppo vi invito a leggere il brano “Oltre l’aspetto ludico: Pokémon Go tra captologia, tecnologia positiva e intelligenza emotiva”.

Phubbing

Il termine phubbing è un neologismo sincretico, coniato nel 2012 presso l’Universitàdi Sidney dall’australiano Alex Haig. Questo termine, nato dalla fusione delle parole phone e snubbing (snobbare) e descrive l’atteggiamento di chi, in compagnia di qualcuno, lo ignora a favore del proprio smartphone (o tablet). Nel 2016, il termine phubbing è stato accettato nell’Oxford English Dictionary.

Nato per mettere in contatto, il cellulare sta diventando una sorta di barriera virtuale e psicologica. In uno studio del 2016, condotto dall’Università di Baylor nel Texas (Roberts, David, 2016), era stata indagata la presenza di questo fenomeno in relazione ai livelli di insoddisfazione e conflitto all’interno di 145 coppie. Gli autori avevano somministrato un questionario in cui si chiedeva di individuare una serie di comportamenti come il tenere il cellulare in mano da parte del partner quando in vicinanza del compagno/a oppure lanciare spesso occhiate al telefono mentre parla con lui/lei. Dai risultati evidenziati dai due ricercatori era emerso che:

a) il 46% ha dichiarato di aver subito phubbing dal partner;
b) il 67% ha provato, di fronte a tale atteggiamento, frustrazione, insoddisfazione e malessere;
c) il 23% ha riportato come questa abitudine abbia provocato un aumento del conflitto nella relazione di coppia.

L’uso eccessivo e in alcuni casi ossessivo dello smartphone, oltre a creare dipendenza, può dunque condurre a conflitti interpersonali, minando il benessere personale e relazionale. Dalla ricerca è emerso che tale effetto è più evidente nelle persone che di per sé presentano ansia e insicurezza nelle relazioni. Gli stessi autori, in un altro studio condotto nel 2017 dal titolo Phubbed and Alone: Phone Snubbing, Social Exclusion, and Attachment to Social Media sostengono che le vittime di tale mania, a loro volta, si rifugiano nel phubbing. Secondo i due ricercatori:

Quando un individuo subisce phubbing si sente socialmente escluso, e questo conduce ad un bisogno molto forte di attenzione. I partecipanti all’indagine – continuano gli studiosi – invece di recuperare l’interazione faccia a faccia, e così ricostruire un senso di inclusione, preferiscono rivolgersi ai social network per riguadagnare quel senso di appartenenza che viene a mancare.

Si viene a creare così un circolo vizioso e deleterio che annichilisce i rapporti.

Un’altra ricerca dell’Università del Kent (Chotpitayasunondh, Douglas, 2018) ha esaminato l’effetto del phubbing nelle situazioni sociali one to one evidenziando come tale fenomeno influisca in maniera negativa sul modo in cui la persona che subisce il phubbing si senta rispetto all’interazione con l’altra persona. 153 partecipanti sono stati invitati a seguire lo svolgersi di una conversazione tra due persone, identificandosi nella coppia. Ad ogni partecipante è stata assegnata una delle tre situazioni in cui immaginarsi: nessun phubbing, phubbing parziale o “ampio phubbing”. I risultati? Più il livello di phubbing aumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era povera e insoddisfacente. I ricercatori hanno così descritto il phubbing come una forma specifica di esclusione sociale che minaccia i bisogni umani fondamentali delle persone come l’autostima, il senso di realizzazione, il controllo e il senso di apparteneza… un fattore importante per la felicità umana. A differenza di altre forme di esclusione sociale il phubbing, secondo gli autori della ricerca, può avvenire ovunque e in qualsiasi momento. Basta solo usare il proprio smartphone ignorando il proprio interlocutore.

Vamping

Il vamping, ovvero la tendenza a restare connessi sui social per l’intera notte, è un fenomeno nato negli Stati Uniti che si sta rapidamente diffondendo anche in Italia. Si tratta di ragazzi che sembrano vivere la propria vita sociale e social nelle ore notturne, sentendosi poi stanchi, fiacchi e inconcludenti nelle ore diurne, nelle quali dovrebbe espletarsi la vera vita adolescenziale. Secondo l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo i segni clinici che contraddistinguono questo fenomeno sono:

  • frequentare e navigare sui social e sui messanger tutta la notte
  • dormire poche ore per notte
  • irritabilità e nervosismo
  • scarsa attenzione
  • scarso rendimento a scuola

Quali sono le cause che scatenano questo fenomeno tra i giovani? E soprattutto, quali sono gli effetti negativi che provoca? L’adolescenza è una delle fasi più delicate e problematiche della vita di una persona: questo periodo segna il passaggio da una fase infantile ad una fase “pre-adulta”. Le cause del vamping si collegano principalmente ad una tendenza di ribellione caratterizzante la fase adolescenziale e alla mancanza di socializzazione con i pari per il solo piacere di farlo. Il bisogno di ribellione spinge i giovani ad aspettare la quiete notturna per collegarsi ed effettuare ciò che non è concesso durante la giornata (ad esempio fare binge watching, chattare su Facebook o postare contemporaneamente foto e selfie su Instagram) liberandosi così dal controllo genitoriale. I ragazzi sperimentano così una sensazione di libertà e un piacevole senso di autonomia, sentendosi padroni della propria vita. Inoltre, l’essere coinvolto in multichat notturne, come nel caso dei gruppi di Whatsapp o Telegram, fa sperimentare al ragazzo la soddisfacente percezione di essere parte di un gruppo unico, sentendosi così speciale.

A proposito delle conseguenze dannose provocate dal vamping troviamo: il disturbo del sonno, un basso rendimento scolastico, una “dipendenza” dalla tecnologia dovuta dalla tendenza a preferire la vita virtuale piuttosto che quella reale, irritabilità, disturbi dell’umore, stanchezza, debolezza cronica, episodi di cybersickness ovvero nausea, vertigine, mal di testa, senso di confusione causati dalla lunga esposizione all’ausilio elettronico (Hui Chang, Wen Pan, Tseng, Stoffreg, 2012). Quando con il touchscreen si sposta lo schermo su e giù, il cervello rivela difatti un movimento ma la confusione provocata dal fatto che il corpo resta fermo genera un senso di nausea. Infine, tra i tanti effetti negativi sopra citati, troviamo un affaticamento oculare scatenato dalla cosiddetta luce blu presente nei dispositivi elettronici che, oltre a portare con sé vari problemi alla vista, altera la secrezione della melatonina che regola il ciclo sonno-veglia, e quindi impedisce l’addormentamento. Inoltre, la carenza stessa di sonno, a lungo andare può portare a evidenti stati di allucinazione che portano i ragazzi a confondere la realtà dalla fantasia. Uno studio intitolato Sleep, Emotional and Behavioural Difficulties in Children and Adolescents (Gregory, Sadeh, 2015) conferma come i bambini che dormono male e poco rischiano di sviluppare problemi come depressione, ansia e disordini alimentari nonché comportamenti antisociali o predisposizione a sviluppare dipendenze da sostanze come alcol e droghe. A spingerli a questa correlazione è stata l’analisi di cinque anni di disturbi e problemi nel sonno dei giovani.

È davvero il vamping una patologia da curare? Siamo di fronte ad una patologia da curare? In un’intervista rilasciata sul portale Sanità Informazione Lino Nobili, neurofisiopatologo e neuropsichiatra responsabile del centro di Medicina del Sonno dell’ospedale Niguarda di Milano, dice:

Piuttosto lo definirei un aspetto sociale importante, da non sottovalutare. Questo disturbo del ritmo del sonno, causato dal Vamping, può creare anche un’alterazione dell’umore. Ma allo stesso tempo, può essere un disturbo dell’umore, già presente, a creare la necessità di un rifugio notturno nel web. Ogni adolescente ha una storia a sé. Per aiutarlo a superare questo attaccamento ad Internet bisogna scoprire quale sia l’origine del circolo vizioso che si è instaurato. È davvero il Vamping a causare l’insonnia, o piuttosto l’insonnia è la conseguenza di un disagio sociale?.

La lingua segreta del corpo. Approfondire il tema della comunicazione non verbale (2017) di A. A. Schützenberger – Recensione del libro

È solo attraverso l’attualizzazione incessante nel e tramite il corpo che l’individuo è nel mondo che lo circonda. Sono queste le parole che concludono il libro di Anne Ancelin Schützenberger La lingua segreta del corpo, un libro che come una matrioska russa affronta il tema della comunicazione non verbale: man mano che si va avanti nella lettura dei capitoli ci si avvicina sempre più a un aspetto particolare del misterioso e ancora molto sconosciuto linguaggio del corpo.

 

La lingua segreta del corpo è un meraviglioso elogio alla bellezza insita nella relazione umana: ogni qualvolta che dialoghiamo con qualcuno dobbiamo tener conto non solo della comunicazione verbale ma anche della comunicazione non verbale, la quale sfugge al controllo sociale razionale e al cosciente. Ma come possiamo afferrarla nella sua totalità ed avere così un’idea chiara di ciò che l’altro ci sta dicendo? È questo che l’autrice Anne Ancelin Schützenberger cercherà di spiegarci mettendo nero su bianco i suoi molteplici studi sull’essenza della conversazione.

La lingua segreta del corpo ci guida in un viaggio che apre gli occhi su tutte le componenti della comunicazione: il corpo, le emozioni, la personalità, attraverso concetti che provengono da molte scienze, dalla psicologia alla fisica, e citazioni di studi di comprovata importanza.

Chi pensa che possa esserci un dizionario del comportamento vive in una falsa credenza: non si può ridurre la comunicazione non verbale ad un insieme di codici universali.

La comunicazione non verbale non informa in maniera neutra e distaccata, essa implica, cioè richiede un’immersione totale degli individui nello scambio comunicativo in atto. È proprio questo non essere codificabile e generalizzabile che ci porta ad una continua interrogazione sulla funzione essenziale del linguaggio: far arrivare alla coscienza ciò che altrimenti rimarrebbe inespresso.

Tutto ciò che esiste è comunicazione e poiché siamo inseriti in una totalità relazionale il nostro modo di parlare all’altro è strettamente non definibile a priori.

Nel suo libro La lingua segreta del corpo, Anne Ancelin Schützenberger sembra dare voce al corpo, luogo centrale della comunicazione, e quest’ultimo sembra invitarci a prestargli un’attenzione particolare, ogni qualvolta si trovi davanti ai nostri occhi. Questo libro dunque è adatto a chi vuol andare oltre il conoscibile, il visibile, il guardabile, a chi vuol capire il complicato mondo delle relazioni umane e vuol sapere quel per di più che il nostro corpo comunica ma che non tutti sanno leggere.

Gli occhi della mente: cosa guardiamo quando non guardiamo nulla?

Possono i nostri occhi muoversi anche quando non c’è nulla da vedere? Un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, ha mostrato come piccoli movimenti oculari possano rivelare lo spazio in cui la persona alloca l’attenzione, uno spazio memorizzato e non visivo.

 

La scoperta condotta dall’Oxford Centre for Human Brain Activity del dipartimento di Psichiatria e dal dipartimento di Psicologia Sperimentale dell’università di Oxford dà il suo contributo nel sottolineare la partecipazione del sistema oculomotore nel focalizzare l’attenzione nello spazio interno della memoria.

Attenzione, memoria e sguardo: come funzionano

L’attenzione spaziale e il controllo oculare dello sguardo da parte di specifiche aree cerebrali sono spesso in associazione tra di loro per quanto riguarda la percezione dello spazio esterno (Krauzlis, Lovejoy & Zénon, 2013): questo perché le informazioni che vengono raccolte tramite la focalizzazione dell’attenzione all’esterno possono guidare e indicare la direzione dello sguardo successivo e far si che l’individuo possa, sulla base di esso, esplorare in modo più approfondito l’ambiente esterno circostante e selezionare di conseguenza il comportamento più adatto.

Il tutto a partire dal controllo dello sguardo e dall’attenzione (Martinez-Conde & Alexander, 2019).

Tuttavia l’attenzione oltre che all’ambiente esterno può essere diretta anche internamente a rappresentazioni contenute nel piano spaziale della memoria di lavoro visiva: è infatti possibile direzionare lo sguardo anche ad oggetti e a persone solo “tratteggiati” nella mente come sottolineato dal nuovo studio del gruppo di ricerca di van Ede, Checkroud e Nobre (2019).

In questo specifico caso, l’incentivo ad utilizzare le risorse attentive per direzionare lo sguardo si verifica quando di fatto non vi è alcun target o oggetto esterno sul quale porre attenzione.

Le evidenze dello studio qui descritto (van Ede, Checkround e Nobre, 2019) sono state ottenute tramite 4 esperimenti, impiegando sia analisi elettroencefalografiche per l’esame dell’attività delle regioni cerebrali associate alla working memory sia analisi simultanee dei movimenti oculari di entrambi gli occhi tramite eye-traker EyeLink 1000 su un gruppo sperimentale di circa 25 studenti volontari.

Attenzione, memoria, sguardo: lo studio

In ciascuno dei quattro esperimenti è stato richiesto ai soggetti di memorizzare numerose barre colorate e orientate in modo diverso nello spazio rispetto ad un punto di fissazione centrale, e di riprodurne, per ciascuna, tramite l’utilizzo della memoria, l’orientamento e il colore mentre nello schermo davanti a loro veniva proiettato soltanto il punto di fissazione centrale.

Nel dettaglio, l’esperimento 1 ha richiesto ai partecipanti di memorizzare due barre di differente colore e orientamento, poste in modo del tutto casuale o a destra o a sinistra rispetto ad una croce centrale che rappresentava il punto di fissazione; dopo circa un intervallo temporale di pochi secondi, la croce cambiava colore per indicare ai soggetti sperimentali di riportare l’orientamento della barra che era precedentemente apparsa.

Nonostante in questa fase non fosse richiesto esplicitamente il coinvolgimento di informazioni mnestiche, cioè di ricordare la posizione della barra ma semplicemente il suo orientamento, i ricercatori hanno comunque osservato un bias nel direzionamento dello sguardo tramite l’eye traker: se la barra appariva a sinistra, di conseguenza vi era un allineamento dello sguardo dei soggetti verso sinistra anche se la barra non era effettivamente presente sullo schermo.

Questo bias dello sguardo rilevato nella direzione della barra memorizzata non è stato sufficientemente ampio da poter costituire uno sguardo tout court, ma è risultato consistente con uno shift nella direzione delle microsaccadi, cioè di quei piccoli movimenti oculari involontari prodotti durante i tentativi di fissazione dello sguardo (van Ede, Checkround e Nobre, 2019).

Il secondo esperimento ha tentato di integrare i risultati del precedente aggiungendo alla serie di barre colorate e orientate anche un cue informativo (neutro o colorato) che avrebbe indicato loro con una validità del 100 % quale item sarebbe apparso dopo l’intervallo di tempo: in questa condizione, il bias nella direzione dello sguardo si è osservato molto dopo la comparsa del cue informativo, anziché dopo la presentazione della barra.

A parere degli autori della ricerca, ciò ha indicato come il cue informativo abbia da solo contribuito e facilitato la focalizzazione dell’attenzione sulla localizzazione spaziale dell’item rilevante senza alcun bisogno delle informazioni provenienti dalla barra che sarebbe comparsa solo successivamente, suggerendo come sia stato sufficiente lo sguardo da solo a rifocalizzare l’attenzione.

Infine, nel quarto esperimento, i ricercatori hanno osservato come il bias nello sguardo, dimostrato nell’esperimento 1 e 2 nel focalizzare l’attenzione verso le direzioni spaziali memorizzate, non riguarda unicamente l’orientamento delle barre ma si manifesta anche nei report circa il colore di quest’ultime.

Attenzione, memoria, sguardo: i risultati dello studio

Le evidenze del gruppo di Oxford hanno innanzitutto indicato come la direzione delle microsaccadi guidi la focalizzazione dell’attenzione seguendo lo spazio interno memorizzato nella working memory e non uno visivo; in secondo luogo, gli esperimenti dimostrano che ciò è possibile grazie anche al coinvolgimento del sistema cerebrale oculomotore con effetti che possono essere osservati, riscontrati nei movimenti oculari e possono essere utilizzati per predire i benefici prestazionali come osservato nell’esperimento dei cue informativi (van Ede, Checkround e Nobre, 2019).

La selezione di un item dalla memoria di lavoro visiva influenza il controllo dello sguardo che va nella direzione della posizione in cui l’item è stato memorizzato, nonostante non ci sia niente da osservare e senza che la memoria spaziale sia stata mai chiamata in causa esplicitamente (Martinez-Conde & Alexander, 2019).

In conclusione, Martinez-Conde & Alexander (2019) del dipartimento di oftalmologia del Downstate Medical Center di Brooklyn, New York, sottolineano come questi bias nello sguardo potranno potenzialmente costituire indicatori diagnostici precoci per deficit mnestici e cognitivi, soprattutto alla luce delle recenti scoperte di alterazioni delle microsaccadi in alcuni disturbi neurologici (Alexander, Macknik & Martinez-Conde, 2018).

Amore, Transfert e Psicopatologia: il caso di Carl Gustav Jung e Sabina Spierlein

Chi era Sabina Spierlein? E quale tipo di relazione ha avuto con Carl Gustav Jung, l’allievo di Freud? La loro storia ci porta a comprendere più da vicino come si legano amore, transfert e psicopatologia nel caso del transfert erotico.

 

Quando morirò voglio che il dottor Jung abbia la mia testa, solo lui potrà aprirla e sezionarla. Voglio che il mio corpo sia cremato e che le ceneri siano sparse sotto una quercia, e voglio che qualcuno scriva: “Anche lei era un essere umano”.

 

Queste parole sono tratte dal film “Prendimi l’anima”, è Sabina Spielrein a pronunciarle, in uno dei periodi più cupi della sua vita.

Sabina Spielrein è nata a Rostov sul Don nel 1885 da una famiglia ebrea benestante dell’Unione Sovietica. A 19 anni, dopo la morte della sorella, emersero delle profonde crisi depressive che la costrinsero ad internarsi in uno dei più importanti ospedali di Zurigo. Fu proprio in quell’ospedale che ricevette delle cure, che, in un anno, la fecero rinvigorire. Ad occuparsi di lei fu il giovane dottor Carl Gustav Jung. Le cure furono diverse rispetto a come venivano trattate le persone che avevano turbe mentali in quel periodo. Il giovane Jung si occupò di aiutare la Spielrein attraverso la parola. Inizialmente la paziente era impaurita e persa nel suo mondo interno, ma a poco a poco, Jung attraverso la parola e le tecniche psicoterapeutiche che aveva appreso dal suo maestro Freud, riuscì a tranquillizzarla e ad instaurare una buona alleanza terapeutica. Per la prima, volta dopo tanto tempo, Sabina si sentì rassicurata e a poco a poco riuscì a raccontarsi e ad aprirsi al giovane e premuroso dottore.

Dai racconti della paziente, Jung riuscì a comprendere e a dare un nome alle sue turbe che le tormentavano l’animo. La ragazza infatti aveva una fissazione sulle feci, che cercava di trattenere in tutti i modi, e problemi di masturbazione compulsiva; soffriva inoltre di «pavor nocturnus», di allucinazioni, accessi di riso, urla e pianto, diversi problemi del comportamento (che oggi potremmo definire borderline) e, infine, di depressione. Jung le diagnosticò un’isteria psicotica.

Secondo alcune ricerche la psicosi isterica potrebbe essere il risultato di uno stile di attaccamento di tipo traumatico (McWilliams, 2011). Tuttavia nella versione attuale del DSM non viene più riportata questa diagnosi; ciò ha indotto i clinici a diagnosticare la schizofrenia, anche nei casi in cui sembrerebbe più corretto prendere in considerazione un processo isteroide di tipo traumatico (McWilliams, 2011).

Jung scrisse a Freud:

… sto applicando attualmente il Suo metodo alla cura di un’isteria. È un caso difficile: una studentessa russa ventenne, ammalata da sei anni. Primo trauma: verso il terzo-quarto anno di vita. La bimba vede il padre che percuote sul sedere nudo il fratello maggiore. Forte impressione. In seguito è costretta a pensare di aver defecato sulla mano del padre. Dal quarto al settimo anno continui tentativi di defecare sui propri piedi, compiuti nel modo seguente: si siede per terra tenendo un piede ripiegato sotto il corpo, preme il calcagno contro l’ano e cerca di defecare e, al tempo stesso, di impedire la defecazione. In questo modo frena più volte l’evacuazione anche per due intere settimane! Non so come sia arrivata a questa storia stranissima; si trattava, così pare, di un fatto di carattere assolutamente pulsionale, accompagnato da una deliziosa sensazione di orrore. In seguito questo fenomeno è stato sostituito da una masturbazione intensa. Le sarei estremamente grato se volesse comunicarmi in poche parole la Sua opinione su questa storia (Freud & Jung, 1990).

Dalle parole di Jung è possibile comprendere che la Spielrein aveva vissuto un evento perturbante in età edipica.

Rimozione, sessualizzazione e regressione

I meccanismi di difesa principalmente implicati nell’isteria, sono: la rimozione, la sessualizzazione e la regressione (McWilliams, 2011).

La rimozione, in accordo con le idee di Freud, è un processo mentale centrale nell’isteria (McWilliams, 2011). Nello specifico, Freud riteneva che i vissuti traumatici infantili (spesso incestuosi) fossero rimossi dai pazienti (McWilliams, 2011). Attraverso l’ipnosi, i pazienti rivivevano i traumi e li riportavano alla coscienza ed i sintomi isterici scomparivano (McWilliams, 2011). Quindi, eliminare la rimozione e far emergere il ricordo traumatico, era uno dei compiti più importanti dell’analista (McWilliams, 2011). Freud infine si convinse che i ricordi che venivano rimossi da questi pazienti, erano fantasie ed impulsi di tipo sessuale, paure ed affetti dolorosi (McWilliams, 2011). In particolare, secondo lo psicoanalista, l’educazione che mira alla censura e alla repressione delle pulsioni sessuali può aumentare il rischio dell’insorgenza di isteria in quanto questa forza biologica viene deviata ma non eliminata (McWilliams, 2011).

Fu proprio da queste considerazioni, che Freud, cominciò a vedere alcune malattie come conversioni dell’impulso in sintomi biologici (McWilliams, 2011). Tuttavia, secondo Freud l’isteria è il risultato della lotta tra l’Es e il Super-Io (McWilliams, 2011).

Oltre la sessualizzazione e la rimozione, le pazienti isteriche utilizzano la regressione, soprattutto nelle situazioni in cui si sentono insicure, rifiutate; per evitare sensi di colpa o paure inconsce, nel tentativo di disarmare chi potrebbe maltrattarle o rifiutarle, adottano un atteggiamento infantile ed indifeso (McWilliams, 2011). Infatti possono diventare dipendenti, piagnucolose, ammalarsi fisicamente e lamentose (McWilliams, 2011).

Il trattamento e la fine della “relazione” terapeutica

Fu proprio attraverso “la parola”, come affermato in precedenza, che Jung si avvicinò a Sabina per condurla alla riappropriazione del senso di sé e reimmetterla nella pensabilità umana. Tuttavia, con la parola le dona confidenze e aspetti di sé fino ad allora custoditi in privato, con la parola la calma, la rassicura, la guarisce, ma anche la seduce.

Sabina, anche grazie alle cure di Jung, guarì, si iscrisse all’Università e si laureò in medicina, specializzandosi in psicoanalisi e pedagogia presso la facoltà di medicina dell’Università di Zurigo. La Spielrein si laureò con una tesi su un caso di schizofrenia: “Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia”, che fu pubblicato nel 1911 sullo Jahrbuch. Nello stesso anno divenne membro della Società di Psicoanalisi di Vienna. La Spielrein parlò nei suoi scritti della paura del sesso nello psicotico, collegandola alla paura di disintegrazione del paziente: la paura di perdere se stessi, di dissolversi in un’altra persona amata. Per questo, secondo la Spielrein gli schizofrenici sostituiscono la realtà con le loro fantasie. Anche nei suoi lavori successivi la Spielrein tornò più volte su questo tema del perdere se stessi.

Nel tempo, intanto, la relazione terapeutica e professionale con Jung era diventata amore: iniziò infatti fra loro una relazione intensa, che sarebbe durata sette anni. Anche Jung si lasciò coinvolgere completamente da questa storia d’amore e vi si spinse forse molto al di là di quanto avrebbe dovuto. Il rapporto fra Jung e la Spielrein andò nettamente in crisi quando, sul finire della relazione, Sabina cominciò pressantemente a chiedere un figlio a Jung che invece, essendo sposato, non voleva darglielo, per non rischiare lo scandalo.

Lo scandalo tuttavia emerse ugualmente in quanto la madre di Sabina un giorno si vide recapitare una lettera (forse scritta in forma anonima dalla moglie di Jung) in cui le si suggeriva di prestare più attenzione ai comportamenti della figlia. Nel 1912 Sabina Spierlein sposa il medico russo Pavel Scheftel, anche se, dentro di lei, non dimenticherà mai Jung (infatti i due continuarono il rapporto epistolare fino al 1919).

La Spierlein e la psicoanalisi

I contributi della Spierlein vengono ripresi dallo stesso Freud, con il quale la donna ha avuto una fitta corrispondenza.

Nel 1913 nasce sua figlia Renate con la quale torna in Russia nel 1923. Si stabilisce a Mosca, che era in pieno fermento per le idee e le riforme introdotte da Lenin. Qui si specializza nel campo della psicoanalisi e della psicologia infantile e diventa direttrice dell’asilo bianco, così chiamato per il colore con il quale erano dipinti i suoi interni. L’asilo bianco, fondato da Vera Schmidt, rappresenta un esperimento ambizioso in cui Sabina non smise mai di credere: in esso i bambini (tra cui anche il figlio di Stalin) venivano fatti crescere in assoluta libertà, per aiutarli a diventare uomini e veramente liberi.

Il sogno dell’asilo bianco si interrompe tuttavia bruscamente durante gli anni della dittatura di Stalin. Il regime fa chiudere l’asilo, bandisce la psicoanalisi, infatti, nel 1924 Stalin dichiarò la psicoanalisi fuori legge, ma Sabina continuò, illegalmente, a praticarla in privato. Durante il regime staliniano morirono sia i fratelli che il marito della Spielrein (1938). Nel 1941 Rostov sul Don fu occupata dall’esercito Tedesco. La psicoanalista non credeva fino in fondo alla crudeltà nazista e per questo si rifiutò di fuggire dalla sua città. Con molti altri ebrei e con le sue due figlie (28 e 18 anni), fu invece portata in una sinagoga e uccisa dai nazisti nell’agosto del 1942. Non si conosce la data precisa della sua morte.

Le ricerche sulla seconda parte della vita della Spielrein sono state difficili, ma hanno avuto una svolta decisiva quando Roberto Faenza, il regista del film “Prendimi l’anima” ha rintracciato per caso il figlio di Vera Schmidt, ultimo sopravvissuto tra i bimbi che avevano frequentato l’asilo bianco. I suoi scritti di psicoanalisi sono stati giudicati interessanti ed originali. Spicca fra tutti l’epistolario intrattenuto con Freud e Jung ed il diario che Sabina scrisse durante la sua relazione terapeutica e sentimentale con Jung stesso, dalla quale esce non solo guarita ma anche desiderosa di condividere con la sua intelligenza la storia della psicoanalisi. Infatti fu la prima donna ad esercitare la psicoanalisi in Russia.

Implicazioni sulla psicoanalisi

Durante la terapia, Sabina idealizza Jung e gli confessa di avere una forte attrazione verso di lui. Inizialmente Jung le conferma e pare che ricambi questi desideri (De Masi, 2012), dopo desiste e cerca in tutti i modi di sopprimere questa pericolosa relazione (De Masi, 2012).

Attraverso la storia di Sabina Spielrein e Jung, è stato possibile studiare ed inserire nelle tipologie di transfert, il transfert passionale-erotico (De Masi, 2012) (che pare abbia accompagnato per diversi anni la Spierlein, anche durante il matrimonio e le gravidanze). Il transfert erotico può prendere avvio da emozioni positive per costruire nuove esperienze condivise oppure, trarre alimento da costruzioni falsificate e distorte (De Masi, 2012). Nel primo caso viene inteso come una forza propulsiva al cambiamento, nel secondo caso corrisponde ad una fuga dalla realtà psichica e può trasformarsi in un vero e proprio delirio (De Masi, 2012). Sul versante clinico, ci sono casi in cui è possibile analizzarlo e ricorda un amore ideale infantile e casi in cui è difficile da trattare e quindi assume un carattere maligno, simile ad uno stato delirante (De Masi, 2012).

Infine, secondo Freud, occorrerebbe mantenere in vita questo tipo di transfert per poterlo interpretare e per poter comprendere le origini infantili e risolverle e nel frattempo l’analista dovrebbe fare affidamento alle sue competenze analitiche per poter resistere alle continue provocazioni delle pazienti (De Masi, 2012).

Nonostante Sabina Spielrein tentasse in tutti i modi di spiegare la natura delle sue fantasie, l’allievo di Freud non le analizzava (De Masi, 2012). Tuttavia la natura delle sue fantasie gli servì per le sue teorizzazioni future (aveva solo 21 anni!) (De Masi, 2012).

 

GUARDA IL TRAILER DEL FILM “PRENDIMI L’ANIMA”:

Lettera aperta del CIPA per contrastare il clima di intolleranza e disumanità che si sta diffondendo nel nostro Paese – Comunicato stampa

Noi soci del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), nel firmare questo appello, vogliamo esprimere con spirito unitario la nostra profonda preoccupazione per il clima di intolleranza e disumanità che si sta diffondendo nel nostro paese, in particolare dopo l’emanazione del “Decreto Sicurezza”.

 

Nel condividere appieno le lettere già inviate sulla questione dei migranti dai colleghi della SPI, dell’AIPA e dell’ARPA al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, vogliamo proporre a tutti i colleghi che lavorano con il disagio mentale di organizzare una manifestazione comune per costituire un movimento d’opinione che sostenga con forza i valori dell’accoglienza e dell’integrazione, proprio come principi cardine della nostra pratica psicoterapeutica, nonché della salute psichica e della vita sociale.

Come recita l’art.2 dello Statuto dell’International Association for Analytical Psychology:

Le Società appartenenti alla IAAP si impegnano a seguire una politica di non discriminazione in base alla razza, alla religione, all’origine etnica, al sesso e all’orientamento sessuale. Tale atteggiamento verrà mantenuto in tutte le attività dei Gruppi IAAP quali l’ammissione di membri alle associazioni, nel training e nei confronti del pubblico invitato ad intervenire alle manifestazioni promosse dalle varie società.

Collegare il problema della sicurezza con l’immigrazione è sbagliato e pericoloso. Perché riduce a tema di ordine pubblico un fenomeno geopolitico di portata storica, figlio di emarginazione, barbarie umana, economica e sociale. Perché annulla la sofferenza di migliaia di esseri umani costretti a fuggire da realtà di morte, tortura, miseria.

Perché, additando un nemico nel diverso, diffonde una cultura razzista e xenofoba, che si incunea nello spaesamento, nello sconcerto, nella paura delle popolazioni occidentali.

Perché dà una risposta sbagliata e riduttiva a un problema vero e complesso.

Perché la sicurezza si costruisce con politiche di accoglienza e integrazione, che valorizzino le singole individualità, che facciano vivere nel tessuto della società il valore dello scambio e del multiculturalismo.

Il nostro lavoro quotidiano ci porta continuamente a misurarci con angosce, paure, sofferenze che sono anche figlie di un clima culturale spaventoso e spaventante. Le conseguenze di questo clima non ricadono soltanto sulle vittime di atteggiamenti razzisti e xenofobi, ma sull’intera nostra società, che rischia di impoverirsi dei valori apportati dal confronto con l’altro e di rifiutare la capacità umana di riconoscere e di avere a che fare con la sofferenza, con il conseguente rischio di generare una società psicopatica, paranoica e autoritaria.

La nostra associazione si è già espressa sui valori dell’accoglienza nello scorso congresso nazionale (Roma 2016) e riaffronterà l’argomento nel prossimo congresso nazionale (Milano 2020), oltreché in diversi seminari tenuti nell’Istituto Meridionale.

Pensiamo che sia però necessario, in un momento così difficile per la cultura e la vita democratica, che tutti coloro che comprendono il valore dell’accoglienza e dell’integrazione per la tutela della salute psichica, individuale e collettiva, si
uniscano per un’azione forte ed efficace nell’organizzazione insieme di iniziative pubbliche di confronto, discussione e testimonianza.

 

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Malattie a trasmissione sessuale. La necessità della prevenzione – Report del convegno di Palermo

Lo scorso 1 Marzo presso il Policlinico Universitario Paolo Giaccone di Palermo si è tenuto un importante momento di confronto sul tema delle malattie sessualmente trasmissibili che ha coinvolto tutti i professionisti che ogni giorno hanno a che fare questo tipo di patologie.

 

Le malattie sessualmente trasmissibili (MST) rappresentano un problema notevole di salute pubblica: clamidia, sifilide, gonorrea, HPV, fino all’ancora attualissimo e mai scomparso AIDS, necessitano di diagnosi tempestive e terapie mirate, ma soprattutto di campagne di prevenzione, di sensibilizzazione all’utilizzo dei sistemi contraccettivi, primi tra tutti del condom nei rapporti occasionali, di strutturazione di programmi di informazione massiccia rivolti in particolar modo ai giovani.

Questo il messaggio forte lanciato in occasione dell’evento sui percorsi diagnostici e assistenziali delle malattie sessualmente trasmessibili, tenutosi a Palermo lo scorso 1 Marzo presso il Policlinico Universitario Paolo Giaccone.

Un dibattito animato da differenti specialità mediche: ginecologi, dermatologi, urologi, in un confronto dove la medicina, in cooperazione con la scienza psicologica, ha mostrato i passi in avanti fatti sul campo e le difficoltà rilevate, le criticità da affrontare per aumentare la consapevolezza dei rischi di esposizione a malattie che possono, se non trattate, condurre a esiti fatali.

Le MST rappresentano un problema temibile per la salute, l’integrità fisica e psichica e la vita stessa – commenta Anna Teresa Palamara, Dipartimento malattie infettive Università Sapienza di Roma – Basti pensare alla sterilità causata dalla clamidia o il cancro dell’utero provocato dal virus HPV. Alla luce del fatto che i sintomi di tali malattie spesso sono silenti, e la malattia asintomatica, è opportuno diffondere la cultura di una prevenzione precoce e disporre il territorio di Centri specifici in cui si garantisca l’anonimato e l’effettuazione di screening di rilevazione delle malattie sessualmente trasmissibili, prima ancora che la patologia si manifesti.

Malattie sessualmente trasmissibili - Report dal convegno di Palermo

La risposta della città di Palermo alle malattie sessualmente trasmissibili

E mentre i relatori presentano i dati nazionali sull’epidemiologia delle MST, con il primato della sifilide nella realtà ospedaliera palermitana, sempre più stringente si fa il riferimento corale a un Centro funzionale per la gestione delle malattie sessualmente trasmissibili, con caratteristiche precise di innovazione e funzionalità.

Nell’Unità che pensiamo con accesso garantito ai più giovani, gratuita e anonima, immaginiamo la presenza dell’infermiere in accoglienza e di un medico prelevatore – spiega Anna Giammanco dell’Università degli studi di Palermo – La figura dello psicologo è importante, ma lo riteniamo più utile nelle fasi successive al primo contatto e per garantire la compliance della terapia. 

Una struttura in cui accedere ancora prima della manifestazione dei sintomi, in cui garantire cure all’intera popolazione italiana, ma estese anche ai migranti, in cui le MST rappresentano un serio problema di sanità.

Povertà, prigionia, esperienze di sesso non protetto magari per effetto dell’assunzione di sostanze disinibenti, come nel recente fenomeno del Chemsex, risultano così alla base della proliferazione dei sintomi delle malattie sessualmente trasmissibili, a volte mortali, che possono trasmettersi alla prole, come per l’herpes simplex, e che richiedono campagne di informazione, centri dedicati, in un cambiamento radicale del modo di intendere sesso, godimento e tutela della salute.

Ansia e Alcool: il ruolo dell’ansia sociale nello sviluppo dell’alcolismo

L’alcolismo spesso costituisce una risposta alle situazioni che generano ansia. Tuttavia esistono diverse tipologie di disturbi d’ansia: qual è in particolare il ruolo dell’ ansia sociale nell’uso o abuso di alcol?

 

Di tutti i disturbi d’ansia, l’ ansia sociale risulterebbe avere un effetto diretto sul rischio di sviluppare una dipendenza da alcol. Lo indica una nuova ricerca della Norwegian Institute of Public Health.

Attraverso la somministrazione di interviste semi-strutturate ad un campione di 2,801 gemelli adulti, i ricercatori del presente studio hanno valutato la correlazione tra alcolismo, disturbo di ansia sociale, disturbo d’ansia generalizzata, disturbo da attacchi di panico, agorafobia e fobie specifiche. Ciò che è emerso è che, tra le diverse tipologie di disturbi d’ansia, il disturbo di ansia sociale è quello che aveva una più forte correlazione con l’ alcolismo.

Nello studio, il disturbo di ansia sociale ha infatti predetto la presenza di sintomi collegabili all’ alcolismo in maniera nettamente superiore rispetto agli altri disturbi d’ansia. In aggiunta, questa tipologia di distubo è risultata correlata a un più alto rischio di sviluppare successivamente una dipendenza da alcol. Non è stato lo stesso per gli altri disturbi d’ansia.

In conclusione

Questi risultati suggeriscono che gli interventi tesi alla prevenzione o al trattamento dell’ ansia sociale potrebbero avere un ulteriore effetto benefico nella prevenzione dell’ alcolismo.

Secondo i ricercatori, è fondamentale riconoscere che molti individui che soffrono di questa tipologia di disturbo non sono in trattamento: questo vuol dire che abbiamo un potenziale sottoutilizzato, non solo per la riduzione dell’enorme quantità di diagnosi di ansia sociale, ma anche per la prevenzione di problemi relativi all’ alcolismo in comorbilità con tale disturbo. A tal proposito, la terapia cognitivo-comportamentale e le sue esposizioni controllate alle situazioni temute ha mostrato ottimi risultati.

Il conformismo della psicoterapia, ovvero il tarlo che tormenta Galimberti

C’è poco da fare, dopo tutti questi anni il timore che la psicoterapia sia un’arma di conformismo sociale di massa continua a tormentare i cosiddetti intellettuali.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 16 marzo 2019

 

La psicoterapia cura l’anima ma crea conformisti? È un sospetto che è stato sollevato non poche volte. La stessa psicoanalisi ne fu accusata quando raggiunse negli anni ‘50 il culmine del suo successo come cura per la sofferenza emotiva. In seguito, da Fromm in poi, ribaltò l’accusa tornando alla testa della contestazione negli anni ’60.

Era vero però che nel decennio precedente alcune forme di psicoanalisi avevano partecipato a un intenso moto di adattamento sociale e psicologico. Un moto che aveva senso: occorreva stabilizzarsi dopo i disastri delle guerre mondiali, dopo gli eccidi della prima metà del secolo. Negli anni ’60 si doveva ridiscutere tutto e così avvenne: fu una rivoluzione sociale e culturale. Inizia in quegli anni la definitiva secolarizzazione di massa dell’occidente, si affacciano alla vita – e al mercato – i teenager, i costumi sessuali si liberalizzano. Esplodono le utopie sia individualistiche che comunistiche, e poco male se in questo sommovimento di idee e d’illusioni la protesta finisca per abbracciare anche un cadavere come il marxismo, ma questa è un’altra storia che sfocia nei più lugubri anni ’70. Nei ’60 fu tutta una festa, beati loro.

C’è poco da fare, dopo tutti questi anni il timore che la psicoterapia sia un’arma di conformismo sociale di massa continua a tormentare i cosiddetti intellettuali. Con una complicazione: prima il campo era tutto della psicoanalisi e il dubbio amletico di essere servi del potere era tutto interno a quell’orientamento. Ora le psicoterapie si sono moltiplicate fin troppo e si preferisce rinfacciarsi il peccato originale a vicenda.

Da qualche anno tocca a Umberto Galimberti dare dei conformisti ad altri psicoterapeuti. A chi, precisamente? Agli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali. Già nel 2005 così si era espresso:

sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto “psicologia del conformismo”, assumono come ideale di salute proprio quell’esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia.

Dal 2005 in poi Galimberti ha varie volte ripetuto questa idea. La risposta infine è arrivata: Giancarlo Dimaggio – che fa terapia cognitiva, naturalmente – si è fatto sentire sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera del 30 dicembre 2018 ripubblicato su State of Mind, ricordando che la psicoterapia cognitivo-comportamentale è – tra tutte le psicoterapie – quella più scientificamente confermata.

Tutto bene? In parte sì. Rimane il sospetto che noi psicoterapeuti – ieri psicoanalisti oggi cognitivisti – sembriamo attardarci un po’ troppo nelle giustificazioni. Troppe volte siamo lì ad assicurare il prossimo che la psicoterapia non è serva del potere o del capitalismo e tantomeno del conformismo. Sarà così? Forse che sì forse che no. O forse è irrilevante e la psicoterapia dovrebbe smetterla di giustificarsi. Che senso ha domandarsi se la psicoterapia sia figlia del capitalismo? La psicoterapia è semplicemente un mestiere, una professione e, come tale, ha i suoi limiti. Laddove invece essa – incolpata di partecipare alla decadenza dei tempi – s’interroghi sul suo impatto sullo spirito del mondo o sul senso dell’esistenza essa tradisce una tentazione sacerdotale. Conviene alla psicoterapia ergersi a movimento spirituale? Fuggevole ma alla lunga deleteria soddisfazione. Troppo spesso ci siamo intrattenuti con la similitudine tra il prete e lo psicoterapeuta, dicendoci forse non solo che il prete di ieri era un po’ come lo psicoterapeuta di oggi perché dava ascolto alle sofferenze emotive della gente, ma anche che lo psicoterapeuta di oggi è come il sacerdote di ieri perché la sua funzione non può limitarsi a quella del professionista della salute e deve incidere sul significato spirituale del nostro esistere nel mondo.

Questa visione non è laica. La psicoterapia si va sempre più professionalizzando e non può occuparsi del dilemma sociale e filosofico del conformismo. Non ne è all’altezza. Semmai deve volgere lo sguardo più in basso. Si richiedono livelli di aderenza a procedure replicabili sempre più precise. Si richiedono livelli di aggiornamento sempre più continuativi nel tempo. Non ci si illuda poi quando si parla un po’ pomposamente di relazione terapeutica. Per quanto in questo termine si annidi una residuale tentazione sacerdotale, man mano che la relazione terapeutica è sempre più studiata essa si proceduralizza a sua volta in misura crescente. Sebbene ci si sia a volte intrattenuti con una definizione vaga e ineffabile di empatia che risuona di accenti estatici e spiritualeggianti, sebbene ci si sia troppo affezionati agli aspetti più affettivi del legame terapeutico, ormai si insiste sempre di più con definizioni operative degli interventi relazionali: formulazione condivisa del caso, condivisione del razionale degli interventi, negoziazione degli obiettivi, regolazione del contratto terapeutico, validazione e self-disclosure. Sebbene nessuno si sogni di sostenere che una buona relazione terapeutica possa essere decisa a tavolino, sempre più è chiaro che essa debba essere promossa proattivamente mediante tecniche specifiche.

Occorre ammetterlo: se per capitalismo si intende la società dell’efficienza e della tecnica, non sta alla psicoterapia, intesa come strumento individuale di cura della salute emotiva, affrontare i possibili guasti sociali e spirituali di questo sistema economico. Al contrario, la psicoterapia come professione moderna deve essere consapevole di essere nata in epoca moderna all’interno del sistema economico capitalistico, non a caso sostituendo il prete per contrasto e non per somiglianza: per inaugurare una impostazione professionistica e non spirituale della cura dell’anima. La psicoterapia non può fare altro che addossarsi il compito di diffondere salute mentale con i modi propri della modernità in cui è nata: professionalità tecnica basata sulla scienza. Più di questo a essa non si può chiedere. Eventuali scenari futuri di superamento dell’attuale sistema capitalistico in favore di una nuova epoca storica post-capitalistica possono essere auspicabili ma sono totalmente al di là di quello che può promettere una buona psicoterapia. Semmai è compito di altre figure, tra le quali forse anche i filosofi di cui parla Galimberti, fare questo. E che lo facciano. Che svolgano il loro compito storico magari puntando a ben altro che a limitarsi a promuovere il counseling filosofico, come sembra suggerire lo stesso Galimberti, in una singolare involuzione acrobatica in cui improvvisamente passa da grandiose aspirazioni di palingenesi spirituale e cosmica a una misera adesione a una pratica di mercato come quella di aprire uno studio di counseling. Più capitalista di così.

7 giorni di Mindfulness. Esercizi per ritrovare se stessi in un mondo frenetico – Recensione del libro

Come si evince dal titolo, 7 giorni di Mindfulness è un piccolo manuale diviso in 7 capitoli, corrispondenti proprio ai 7 giorni della settimana, che ha lo scopo di guidare il lettore ad una pratica quotidiana che potrà essere ripetuta nel tempo. Lo scopo dell’autrice è quello di trasmettere al lettore delle semplici pratiche di meditazione perché si possa ritagliare uno spazio per sé nella quotidianità, abbandonando i pensieri più disturbanti e ritrovando la calma.

 

L’autrice è Maria Beatrice Toro, psicologa psicoterapeuta, direttrice della Scuola in Psicoterapia SCINT, responsabile del corso per istruttori mindfulness presso il Secondo Centro di Terapia Cognitivo Interpersonale e docente di psicologia presso diversi atenei italiani (presso l’Università LUMSA di Roma e presso l’Università Sapienza di Roma), oltre che presso diverse scuole di specializzazione in Psicoterapia.
Toro è autrice di oltre settanta pubblicazioni scientifiche e divulgative, tra cui Mindfulness insieme (2015) e Crescere con la mindfulness: Guida per bambini (e adulti) sotto pressione (2016).

Cos’è la Minfulness?

Jon Kabat-Zinn, dottorato in biologia molecolare, frequentò il corso di meditazione di Philip Kapleau, si avvicinò allo yoga e sviluppò nel 1979 un programma chiamato Stress Reduction and Relaxation Program che successivamente divenne il programma Mindfulness, dedicato al porre attenzione al momento presente, in termini di consapevolezza e accettazione, sospendendo il giudizio. Lo scopo finale della mindfulness è quello di modificare lo stress ed il conseguente disagio, aumentando la consapevolezza dei propri stati e processi mentali in atto. Per approfondire la nascita della mindfulness e le sue potenzialità applicative si rimanda alla lettura dell’articolo di State of Mind Jon Kabat-Zinn, scopriamo la Mindfulness.

A chi è rivolto il libro 7 giorni di Mindfulness?

Il libro 7 giorni di Mindfulness si struttura con un’introduzione alla mindfulness a cui seguono altri sette capitoli suddivisi per giorno della settimana. L’organizzazione stessa del libro permette al lettore di dedicarsi alla lettura di un capitolo al giorno e alla pratica dei relativi esercizi. È ben esplicitato dall’autrice che non è necessario partire dal lunedì per praticare la mindfulness.

Diffusi nel testo si ritrovano principi mindfulness e chiari esercizi. Il libro è dedicato a coloro che si approcciano alla mindfulness per trovare riparo dalla frenetica e stressante quotidianità. Non sono necessarie conoscenze pregresse per affrontare questo percorso. Il linguaggio semplice ed incisivo, oltre all’impaginazione capace di lasciare il giusto spazio alle parole e ad una piacevole grafica, aiutano il lettore a proseguire la lettura con disinvoltura.

L’organizzazione dei 7 giorni di Mindfulness:

Nell’introduzione viene ripreso il senso della mindfulness, ed i principi sui quali muove questa pratica: l’attenzione intenzionale, non giudicante e rivolta al qui ed ora che le persone possono applicare alle sensazioni in entrata che osservano.

Lunedì: “Il gusto di cominciare”

Si inizia il percorso con esercizi di respirazione e di mindfulness eating. Vengono lasciati al lettore spunti per poter svolgere questi esercizi allo scopo di gestire situazioni di tensione per ritrovare calma e serenità (ad esempio, prima di un esame).
A proposito dei benefici a cui ovviamente il lettore ambisce (calma, serenità, migliore gestione dei momenti di tensione), l’autrice ricorda come uno dei principi mindfulness riguarda i risultati:

Il bello della mindfulness è proprio quello di conoscere le proprie intenzioni, ma non divenirne schiavi. Sappiamo di meditare per un motivo (…), ma è fondamentale non farsi ingabbiare da questo motivo. Forse non è davvero lì che si trova il nostro bene. Cerchiamo, allora, di avere la saggezza di praticare per un motivo, ma senza diventarne schiavi. Restiamo aperti all’idea che il percorso stesso potrà toglierci l’esigenza di perseguire le intenzioni inziali, di mostrarcene l’impossibilità o la sostanziale vacuità. Affidiamo alla vita le nostre intenzioni e lasciamo che ce le restituisca: anche se torneranno indietro modificate, andrà bene così. Questa è vera saggezza!

Martedì: “Visualizzare e creare”

Il secondo capitolo di 7 giorni di Mindfulness si gioca attraverso un esercizio di Esplorazione ed uno di Visualizzazione degli elementi cosmici dell’universo. Molta importanza viene data all’immaginazione e all’attenzione, funzioni capaci di influenzare la nostra vita. L’autrice spiega abilmente al lettore il potere dell’attenzione sull’agire quotidiano servendosi del seguente esempio:

Ciò su cui ci concentriamo è il nostro mondo. Immaginiamo due persone che vanno al lavoro. Una è serena e riceve i saluti dei colleghi che le sorridono e le chiedono come sta. Tiene in ordine la scrivania impedendo che regni un ambiente sgradevole agli occhi dei colleghi ed esterni. Quando lavora, ci mette tutto il cuore. Quando fa pausa, vuota la mente e si gode il momento del riposo. Un’altra persona, invece, ogni giorno sussurra a malapena un “ciao” e ormai i colleghi non le sorridono più. Certamente non le chiedono come sta, né le offrono un caffè e magari nemmeno un bicchiere d’acqua. Quando lavora, sbuffa e si lamenta. Quando è in pausa, si isola oppure guarda gli altri, criticandoli dentro di sé. A fine giornata, le due persone, a casa, racconteranno due storie diverse alla domanda “Come è andata la giornata?”, nonostante fossero state nello stesso luogo e nonostante avessero svolto le stesse mansioni. Questo è perché siamo noi a fare la differenza.

Mercoledì: “Muoversi e… prendere una direzione”

Il terzo giorno ci porta verso la pratica della camminata e ad altri esercizi legati al corpo in movimento.

Giovedì: “Passare all’azione”

A metà settimana si apre la porta del “decluttering” o riordino. Gli esercizi di questo capitolo conducono il lettore verso una focalizzazione dei propri valori (tra i possibili troviamo affetto, libertà, rispetto, etc.). Porre consapevolmente l’attenzione sui propri valori permette di mettere in atto gesti coerenti con essi, i quali divengono così guida del proprio vivere, ed un vivere ispirato ai propri sinceri valori non può che portare serenità. Ma come fare a trasformare i propri valori in azioni? Attraverso la formulazione di azioni semplici e concise e l’aiuto dell’autrice per farlo nel migliore dei modi.

Venerdì: “Raccogliere i feedback”.

Arrivati quasi al termine di questi 7 giorni di Mindfulness, è giunto il momento per riflettere sui giorni precedenti e sulle novità riscontrate nella propria quotidianità da quando si pratica mindfulness. Si apre così la strada del “mindfulness loving” (la strada dell’amore) verso sé e gli altri. Aumentare la consapevolezza del proprio amore verso gli altri e se stessi e la consapevolezza dell’amore ricevuto dagli altri, perché come ricordato da un principio mindfulness:

Non permetto a nessuno di mancarmi di rispetto.

Sabato: “Ritirare le energie a te”

Abbandonando e allontanando le tensioni fisiche e mentali, si rientra dallo stress della settimana passata attraverso la meditazione.

Domenica: “Ritrovare se stessi”

Per concludere, l’autrice porta il lettore a focalizzarsi sul presente, sul qui ed ora, su se stesso, sulle cose che lo opprimono per imparare a dire qualche no, ispirandosi al principio “Less Is More”. Visualizzando il luogo sicuro (quel luogo simbolico dentro ciascuno di noi) il lettore potrà esercitarsi a rievocarli e visualizzarlo facilmente perché possa rassicurarsi e rilassarsi dentro se stesso anche nella quotidianità.

Ed è infine, nelle conclusioni del testo, che si ripercorrono tutti gli apprendimenti dei 7 giorni di Mindfulness. Dalla modalità del fare alla modalità dell’essere: così, dalla programmazione, dal giudizio, dal cambiamento, dal pensiero al qui ed ora, all’osservazione, alla sperimentazione di ciò che accade momento dopo momento verso la calma.

Dunque, buona ricerca del luogo sicuro!

Museo della follia, con Eppela sostegno al nuovo ospedale Stella Maris – Comunicato Stampa

Museo della follia: in occasione della mostra è possibile contribuire a realizzare una moderna piscina riabilitativa.

Eppela – Comunicato Stampa

 

Con l’apertura della mostra itinerante curata da Vittorio Sgarbi “Il Museo della Follia” che dal 27 febbraio fa tappa a Lucca, prende il via anche una campagna di crowdfunding sulla piattaforma che coniuga cultura e solidarietà. Il sostegno alla campagna permetterà di devolvere parte del ricavato alla Fondazione Stella Maris per realizzare la piscina riabilitativa del nuovo ospedale dei bambini a Cisanello. La piscina sarà dotata di due vasche per una superficie complessiva di circa 80 metri quadrati, dotata di tutti i supporti necessari non solo per la riabilitazione dei bambini e degli adolescenti della Stella Maris ma per la ricerca scientifica in questo campo.

Museo della follia con Eppela a sostegno del nuovo ospedale Stella Maris

Ogni persona che vuole sostenere il progetto su Eppela può vedere la mostra e sostenere la ricerca: per ogni offerta che sarà ricevuta in crowdfunding, 1 euro sarà devoluto al nuovo ospedale dei bambini della Fondazione Stella Maris, una struttura che avrà elevati standard di accoglienza, comfort, sicurezza e tecnologia applicata alla diagnosi e alla terapia. Per chiunque decida di aderire alla campagna di crowfunding senza ricevere alcuna ricompensa, il totale dell’offerta sarà interamente devoluto alla Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa), unico istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) con sede in Toscana e il solo in Italia dedicato esclusivamente all’assistenza e alla ricerca nell’ambito della neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Un punto di riferimento nazionale e internazionale per tutte le famiglie.

La collaborazione con la piattaforma di crowfunding Eppela e con Museo della Follia che ringraziamo di cuore – dice l’avvocato Giuliano Maffei, presidente della Fondazione Stella Maris – permetterà a chiunque di partecipare alla mostra che si apre ora a Lucca e di contribuire direttamente alla realizzazione di un primo importante tassello del nuovo ospedale della Stella Maris di Cisanello, quello della piscina riabilitativa.

L’Irccs Fondazione Stella Maris è una dinamica realtà che opera nell’ambito della Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. L’integrazione della dimensione assistenziale con quella scientifica è potenziata dalla presenza dell’università di Pisa. Gli specialisti della Fondazione Stella Maris si avvalgono delle più moderne tecnologie e i laboratori sono all’avanguardia per tecniche, apparecchiature e settori di attività (medicina molecolare, Imaging a campo ultra alto, Bioingegneria, Tecnologie robotiche e meccatroniche…). La Stella Maris è sede di centri di riferimento per vari disturbi del neurosviluppo, tra i quali il centro per il trattamento della sindrome da iperattività/deficit di attenzione (Adhd), il centro ad alta Specializzazione per la diagnosi precoce e la presa in carico multiprofessionale dei disturbi dello spettro autistico, il servizio autorizzato al rilascio della certificazione per disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), il centro di riferimento per le malattie rare.

Ogni anno la Stella Maris ricovera migliaia di bambini e ragazzi provenienti da tutta Italia con disturbi neurologici e psichiatrici. Un paziente su 2 proviene da fuori Toscana. Le attività cliniche assistenziali dell’Ircss sono in costante aumento e sviluppo, basti pensare che in dieci anni i ricoveri sono aumentati del 55% e che il 50% dei pazienti ricoverati vengono da fuori Toscana; un dato questo che si attesta al 33% se si considera gli accessi ambulatoriali, che negli ultimi 5 anni hanno visto un incremento superiore al 100%. Attualmente sono oltre 56mila le prestazioni ambulatoriali, cliniche e di laboratorio, registrate ogni anno, a cui vanno aggiunti 3.500 ricoveri.

Il nuovo ospedale dei bambini

La Fondazione Stella Maris è impegnata nella realizzazione del nuovo Ospedale nell’area di via Bargagna a Cisanello, Pisa. Si tratta di una struttura che vuole creare un rapporto nuovo e di sostegno dell’intera famiglia. È il nuovo ospedale dalla forma “leggera”, vestito di vetro e di luce che la Fondazione sta realizzando nell’area di Cisanello a Pisa. Un complesso che non si impone, ma si inserisce armonicamente nel parco che lo attornia, come vele issate a guardare il cielo di uno speciale veliero bianco, a ricordare il viaggio del bambino nel percorso di cura. La nuova struttura avrà elevati standard di accoglienza, comfort, sicurezza e tecnologia applicata alla diagnosi e terapia. Proprio per la sua collocazione geografica il nuovo ospedale ospiterà anche bambini con gravissime patologie. Inserito nel complesso dell’area della ricerca e dell’assistenza biomedica di Cisanello, la Stella Maris svilupperà sinergie assistenziali con il policlinico multi-specialistico e potenzierà la ricerca con gli enti di ricerca pisani. Ma il piano di sviluppo della Fondazione è molto più corposo: dopo la nuova Casa Verde, un complesso architettonico che a San Miniato dialoga con il territorio in cui è immerso, a breve a Marina di Pisa Villa Giotto sarà ristrutturata per ospitare le strutture di Montalto di Fauglia.

Eppela è una piattaforma generalista di crowdfunding reward-based fondata nel 2011 da Nicola Lencioni. Grazie ai suoi 6mila progetti finanziati ed a un volume di offerte di 95 milioni di euro, Eppela si posiziona come la più importante piattaforma reward-based sul mercato italiano. La piattaforma costituisce una concreta opportunità di finanziamento per associazioni, Pmi e artigiani italiani ed in generale per chiunque voglia realizzare un’idea e sceglie di rivolgersi al popolo di internet per raccogliere le risorse necessarie. Eppela offre ai suoi stakeholder un servizio di advisoring completo, seguendo i progettisti con attenzione in ogni fase della campagna, aiutandoli a creare un’identità ed un piano di comunicazione di successo. Grazie al supporto che viene dato dalla piattaforma, il tasso di successo del finanziamento dei progetti arriva al 65%.

Museo della follia

La mostra itinerante è un percorso che unisce testimonianze degli ex ospedali psichiatrici italiani – tra i quali, il ‘nostro’ manicomio di Maggiano raccontato dallo scrittore e medico Mario Tobino – a opere d’arte di pittori o scultori ‘toccati’ dalla follia o che l’hanno scelta come soggetto. Il visitatore sarà accompagnato in un viaggio tematico lungo la storia dell’arte per arrivare, quindi, nella stanza dei ricordi: documenti, immagini, oggetti trattenuti nell’abbandono dell’ex manicomio di Teramo. E ancora, la stanza della griglia: oltre 15 metri di ritratti trovati nelle cartelle cliniche, illuminati da una suggestiva luce a neon. Dopo il modello in formato gigante di un ‘apribocca’, strumento usato negli ospedali psichiatrici, collegato al ritratto ‘L’adolescente’ di Silvestro Lega, si va avanti con la grande opera di Enrico Robusti e con lo spazio dedicato alle fotografie di Fabrizio Sclocchini. E ancora, l’installazione stereoscopica sugli spazi dell’ex ospedale psichiatrico di Mombello e i documentari video sulla legge 180 e su Franco Basaglia. Chiude il museo la videoinchiesta del Senato sugli ospedali psichiatrici giudiziari, contro il degrado di alcune strutture.

Padri dimenticati: la depressione post-partum negli uomini

Secondo un nuovo studio la depressione post-partum non colpisce esclusivamente le neo-mamme, ma può interessare anche i neo-papà.

Adriano Mauro Ellena

 

Sfortunatamente, la mancanza di informazioni sulla depressione post-partum maschile (PPD) ha reso difficile l’individuazione e il trattamento del fenomeno, così poco conosciuto tra gli uomini.

Depressione post-partum nei padri

La Depressione post-partum nei papà è in realtà molto comune, con oltre 3 milioni di casi all’anno in America, e i soggetti con diagnosi di PPD sono a maggior rischio di sviluppare una depressione maggiore più avanti nella vita. La PPD può anche rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di condotte problematiche, tra cui la diminuzione delle capacità genitoriali, l’abuso di sostanze e la violenza domestica.

Nel nuovo studio dell’Università del Nevada, a Las Vegas, i ricercatori hanno approfondito le problematiche dei padri e come possono superare le barriere. Le loro scoperte, che appaiono nel Journal of Family Issues, forniscono una visione dettagliata di nuove manifestazioni della depressione post-partum (PPD).

Tra il 5 e il 10% dei nuovi padri negli Stati Uniti soffre di Depressione post-partum, secondo i dati dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, dal 24 al 50 percento per gli uomini i cui partner soffrono di PPD.

Il team di ricerca guidato dal professor Dr. Brandon Eddy terapeuta di coppia e familiare, ha condotto questo studio qualitativo esaminando dati, provenienti da fonti secondarie come blog, siti Web, forum e chat room ed approfondendoli utilizzando una combinazione di metodi di analisi fenomenologica e del contenuto, in modo tale da comprendere le esperienze di depressione post-partum nei padri.

Depressione post-partum nei padri: i risultati nella ricerca

Dall’analisi dei questi dati sono emersi sei temi:

  • Necessità di maggiore informazione. I padri non sapevano che avrebbero potuto soffrire di PPD e furono sorpresi di apprendere che altri stavano vivendo la stessa condizione.
  • Adesione alle aspettative di genere. I padri tendevano ad aderire agli stereotipi di genere maschile e a comportarsi secondo lo stereotipo dell’uomo “macho”.
  • Repressione delle emozioni. I padri riferivano di essere riluttanti a condividere i loro sentimenti ed emozioni per paura di sembrare ridicoli con le proprie mogli
  • Sensazione di sovraccarico. Parimenti, riferivano difficoltà nell’esprimere le proprie sensazioni di confusione, sfinimento, impotenza, solitudine e la sensazione di essere intrappolati. I genitori spesso soffrono di carenza di sonno dopo la nascita del figlio, che può incrementare lo stress ed esacerbare i sintomi depressivi.
  • Risentimento ed emozioni negative nei confronti del bambino. Difficoltà ad ammettere ed esprimere emozioni negative riguardo la difficoltà del prendersi cura del figlio.
  • Sensazione di abbandono. I padri riferivano di sentirsi dimenticati e trascurati dalle loro mogli, dal sistema sanitario e dalla società.

Non esiste un luogo o un contesto veramente accettabile per gli uomini che rivelino pubblicamente di essere sfidati, molto meno scossi fino al midollo, da ciò che chiamano genitorialità improvvisa – hanno scritto i ricercatori dell’UNLV.

Questa ricerca fornisce informazioni utili che possono aiutare gli operatori sanitari, i ricercatori, i medici e le famiglie a comprendere l’esperienza della depressione post-partum paterna e ad affrontare meglio le sfide che queste famiglie devono affrontare.

Dal dono ai legami generazionali

Il regalare, il gesto del donare non è così banale come potrebbe a prima vista apparire: serve a stabilire legami interpersonali e sociali. Come ci informa Mauss (1922) il dono, inteso come lo scambio senza nessuna costrizione di carattere economico e commerciale, nelle società arcaiche e primitive serve a stabilire relazioni non solo con altri individui, ma costituisce il nucleo dell’intera organizzazione sociale.

 

Donare è prassi quotidiana.

Un gesto che facciamo:

  • al bar la mattina quando offriamo il caffè a un nostro amico o al nostro collega di lavoro;
  • quando invitiamo a pranzo o a cena una persona;
  • elargendo la mancia al cameriere;
  • dando la carità a un povero che incontriamo per strada;
  • in occasione di eventi importanti come matrimoni, battesimi, cresime, anniversari, compleanni, etc.etc.

Donare: scandisce momenti di vita e relazioni

Insomma sono innumerevoli le occasioni in cui ci troviamo a fare regali, a donare anche con piacere e soddisfazione personale. Allo stesso modo sono tanti i momenti in cui aspettiamo con ansia di ricevere un regalo ed è abbastanza evidente la nostra insoddisfazione quando non arriva. Pensiamo per un attimo ai bambini che aspettano impazienti in occasione delle feste comandate i loro regali e gli strepiti nel momento in cui non dovessero riceverli. In Sicilia, addirittura, in occasione della commemorazione dei defunti si soleva (oggi la tradizione si sta un po’ perdendo) portare di nascosto regali ai bambini facendoli passare come doni che venivano dai loro parenti defunti ponendo l’accento che la prassi del donare mette insieme vivi e morti (anche se come vedremo in questo gesto tradizionale, vi era un messaggio più importante e profondo). Per Natale viene Babbo Natale sulla sua slitta a portare i regali in base ai desideri espressi dagli stessi bambini. Babbo Natale viene la notte del 24 dicembre che per la religione cristiana è la notte del dono più grande: ovvero Dio dona se stesso agli uomini condividendone la natura. Grazia Deledda ne Il dono di Natale racconta con impareggiabile maestria il significato del regalo di Natale quando davanti alla curiosità di Felle, la sua amica Lia le dice “È il nostro primo fratellino ….. Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il Gloria. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte”.

I regali della Notte di Natale arrivano dal cielo ovvero mettono in contatto gli uomini con un mondo sconosciuto. Per l’Epifania è la befana a portare i regali distinguendo tra i bambini buoni cui dona ghiottonerie e quelli cattivi cui fa trovare il carbone. Sia la notte di Natale che per l’epifania – così come in Sicilia per la commemorazione dei defunti – i regali si avvolgono di mistero quasi di un potere magico in grado di mettere in contatto il conosciuto con il non conosciuto.

Donare: la funzione di questo gesto nei legami sociali

Infatti, il regalare, il gesto del donare non è così banale come potrebbe a prima vista apparire: serve a stabilire legami interpersonali e sociali. Come ci informa Mauss (1922) il dono, inteso come lo scambio senza nessuna costrizione di carattere economico e commerciale, nelle società arcaiche e primitive serve a stabilire relazioni non solo con altri individui, ma costituisce il nucleo dell’intera organizzazione sociale. Mauss studiando alcune società amerinde della costa del pacifico dell’America descrive una cerimonia chiamata potlach in cui gli organizzatori per mostrare la loro potenza economica distruggevano i loro beni considerati effimeri. Le tribù ospitate a loro volta si sentivano in dovere di contraccambiare organizzando anche loro una cerimonia in cui distruggevano anch’essi i loro beni.

La distruzione dei beni non era fine a se stessa. Infatti, come messo in risalto da Boasz, questo processo serviva anche a rendere evidente il rango sociale dei partecipanti al potlach. Al contrario di quanto avviene nelle società capitalistiche in cui per mostrare la propria posizione economica e sociale si accumulano quanto più beni possibili, nelle società primitive si alienavano i beni. Se ci riflettiamo un attimo ciò che avveniva nel potlach è simile a quanto prescritto nei vangeli e propugnato dalla chiesa cattolica. Gesù nelle sue predicazioni afferma che: è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago piuttosto che un ricco raggiunga il paradiso. Per meritarsi quest’ultimo per Gesù non solo si devono donare tutti i propri beni ma anche se stessi, così come Dio ha donato se stesso agli uomini facendosi uomo. Gli esseri umani per contraccambiare il dono di Dio devono, a loro volta, donarsi agli altri. Ecco che emergono le caratteristiche individuate da Mauss tipiche dell’atto del donare: “Donare, ricevere, contraccambiare”.

Secondo quest’autore al fine di costruire le relazioni interpersonali e sociali, al fine di fare comunità, vi è un legame che unisce il donatore al ricevente: se vi è un dono, vi è un ricevente che si sente in dovere di ricambiare. In questo modo il dono assume un valore simbolico che contiene in sé ciò che lo stesso autore ha individuato come “mana”. Quest’ultimo termine di origine malenisiana e hawaiana può essere tradotto come “forza vitale” o “forza che viene da dentro”. Mircea Eliade sostiene che per l’uomo arcaico un oggetto animato o inanimato che sia nel momento in cui si manifesta è dotato di una sua forza vitale. Il dono ha una sua forza vitale che gli dà il potere di stabilire il legame con l’altro attraverso il ciclo del donare, ricevere, ricambiare.

Donare nelle culture antiche

Il valore del dono come simbolo per costituire legami interpersonali e sociali, per moltissimi anni, anzi millenni, ha costituito l’asse portante e centrale dell’essere e del fare comunità. Infatti, oltre ai dettami della cultura cristiana cui abbiamo accennato, anche la cultura greca e in seguito quella romana hanno dato grande importanza al dono.

Nella Grecia antica, ad esempio, vi era un rituale definito “xenia”- ospitalità – che legava indissolubilmente l’ospite con l’ospitante e tale vincolo era trasmesso alle generazioni future. In sostanza, nella cultura greca ospitare era una prescrizione sacra tutelata da Zeus Xenios il quale garantiva che, a sua volta, l’ospitante possa ricevere in futuro lo stesso trattamento. Nell’Iliade Glauco e Diomede scesi a duello si fermano nel momento in cui Diomede indagando su Glauco scopre che suo padre Onei aveva ospitato in passato Bellofronte, antenato di Glauco e quindi i due gruppi erano legati dal vincolo di ospitalità e per tale motivo non potevano sfidarsi a duello. Diomede per dare significato al vincolo di ospitalità si rivolge a Glauco con la seguente frase: “Io sono per te in Argo ospite caro, tu in Licia, se mai io giunga tra quel popolo”. Un’interessante accezione del dono nasce nella cultura greca ed è quella di dono avvelenato in cui il protagonista per Omero diventa Ulisse. Quest’ultimo offre, insieme ai suoi compagni, il vino a Polifemo per ubriacarlo e accecarlo, e costruisce il famoso cavallo di Troia per sconfiggere definitivamente i troiani. Nell’ Eneide, Virgilio fa dire a Laoconte “timeo Danaos et dona ferentis” (Temo i greci anche quando/se portano doni) nel tentativo di dissuadere i troiani dall’accogliere il dono del cavallo e del trasportarlo dentro le mura. Il dono senza un ricambio, in altre parole quello a senso unico, è un dono ingannevole.

Dal dono avvelenato nasce la patologia nelle relazioni. Scabini e Greco, individuano il dono come forma di coercizione e controllo uno dei fattori scatenanti la suddetta patologia. Essi spiegano

nelle relazioni familiari positive, le persone sentono di dovere molto agli altri, ma tale obbligazione è più dell’ordine della gratitudine che della coercizione. La patologia invece si annida là dove l’obbligatorietà è coatta, e dove il rapporto costi/benifici regge la relazione strutturalmente e non episodicamente. Infatti, quando la coppia, o la famiglia, è ossessivamente centrata sul calcolo dare/avere, cioè sugli aspetti di controllo e reciprocità a breve termine produce relazioni disturbate (Scabini e Greco, 1999) .

Donare secondo Cicerone e Seneca

L’importanza del dono come modalità di interazione interpersonale e sociale nella cultura romana è messa in luce da due testi di Cicerone, De Officiis, e di Seneca, De Beneficiis. I due termini indicano rispettivamente il rapporto o la relazione che si viene a creare tra ricevente e donatore – officium – e quella tra donatore e ricevente (beneficium). A. Accardi, sostiene che ambedue gli autori costruiscono le loro opere sul beneficium come simbolo fondante “la società creando e mantenendo i legami interpersonali”. Per Cicerone il beneficium deve ispirarsi all’utilitas communis, mentre per Seneca sono

benevolentia e amor che soli possono garantire la salvaguardia della relazione e della reciprocità.

L’Accardi mette l’accento sul contraccambiare e su come Seneca sostiene che il beneficium stia nell’atto del donare anche quando non vi è nessuna restituzione. Se non c’è contraccambio, non si deve smettere di donare poiché, come sostiene Seneca, “nullum perit”. Al contrario, il donare senza ricevere niente in cambio porta a guadagnare virtù e sapienza. La perdita legata alla mancata restituzione, invece, inficia il legame poiché se dal beneficium ci si attende un ritorno vuol dire che si dona con ingratitudine. Per Seneca si deve donare con humanitas, senza nessun tipo di arroganza per evitare, da un lato, di mettere in difficoltà il ricevente e, dall’altro, di inserire il beneficium all’interno di un contesto di tipo economico come una pratica usuraia. Inoltre, in caso di mancata restituzione, bisogna perdonare il ricevente. Il termine officium, relativo al contraccambiare, indica un dovere vincolante alla stessa stregua di una norma giuridica. Cicerone afferma che

ricambiare un beneficio è anzi il più necessario fra tutti gli officia.

Infatti, se da un lato, si deve donare senza arroganza poiché il rischio è di scatenare nel ricevente una reazione violenta che può anche portare all’uccisione del donatore. Se si riceve senza contraccambiare, si passa come uomini poco onorevoli. Il donare, quindi, crea un obbligo nel ricevente tant’è che accettare un dono non è cosi semplice perché crea un obbligo. Lantano mette in luce che nella cultura latina il padre (ricordiamo qui che nell’antica Roma i figli erano dei padri) è il “beneficium datae vitae” che fa nascere un legame incondizionato e non risarcibile poiché

le eventuali controprestazioni che quest’ultimo potrebbe erogare a vantaggio del padre dipendono tutte, in ultima analisi, da quel primo beneficio paterno, senza dunque mai poterlo appieno eguagliare.

Il dare la vita, il dono della vita crea un legame inscindibile fra le generazioni. Non è un caso che i romani all’ingresso delle loro case costruivano l’edicola dei lari e dei penati di cui si occupava il capofamiglia offrendo loro quotidianamente il farro (principale cereale coltivato dai romani) e il sale. Il farro per i romani rappresenta le origini e il sale la conservazione della discendenza per cui il rituale del capofamiglia, sul piano simbolico, non fa altro che ricordare che la vita è un beneficio che va custodito e conservato lungo l’arco delle generazioni: la presenza dei lari e dei penati all’interno della casa non fa altro che richiamare il principio del dono della vita.

Donare nella società odierna

Dopo che per millenni il dono ha rappresentato, nelle più svariate culture, l’elemento principale del fare comunità con l’emergere della società industriale fin quasi ai nostri giorni prende corpo il concetto di utilità e il dono passa in secondo piano. Come messo in luce da molti studiosi emerge l’homo oeconomicus volto non tanto alla ricerca del bene comune ma del vantaggio individuale. Il dono, il regalo non ha valore di legame ma solo e semplicemente di utilità. Questa visione può essere riassunta da quanto sostenuto da A. Smith (considerato da molti il padre del capitalismo moderno)

Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, bensì al loro egoismo, e con loro non parliamo mai dei nostri bisogni, bensì dei loro vantaggi.

Nell’ambito di questa nuova visione anche il trasmettere la vita diventa un calcolo di tipo economico ovvero si devono analizzare i vantaggi e gli svantaggi della scelta. O. Fallaci, in Lettera a un bambino mai nato, ci offre una stupenda immagine letteraria del dramma di una donna in carriera che si di fronte al bivio di “dare la vita o negarla” risponde

molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato dalla guerra o da una malattia? …….. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere.

Dare la vita è il dono dei doni con profondi significati generazionali, antropologici e filogenetici. Eppure la società capitalistica riesce a mettere in crisi, in nome del presunto sviluppo, anche ciò che per millenni non è mai stato messo in discussione.

Donare: il richiamo ai bisogni più profondi

La rottura culturale e la messa in discussione dei principi che per due secoli hanno contraddistinto la società industriale avviene con la pubblicazione della “populorum progressio” di Paolo VI e, subito dopo, con la nascita a Parigi di un Movimento denominato MAUSS (movimento antiutilitarista nelle scienze sociali) del quale i maggiori esponenti sono Latouche, Godelier, Godbout e Caillè. L’intento del MAUSS è volto a dare corpo e visione a una società non più basata sull’egoismo dei singoli ma sulla condivisione così come viene a determinarsi nella circolarità del dono. Ciò che è messo in crisi è l’approccio metodologico sia di tipo speculativo sia olistico poiché cambia il paradigma di studio: non più l’interesse individuale ma la relazione, il legame che può essere vivificato attraverso il dono. Per dirla con E. Fromm, l’oggetto di studio non è più l’avere ma l’essere.

Bisogna liberarsi, utilizzando un’espressione di Latouche, di quel “martello economico” che ci batte la testa che guarda solo al soddisfacimento dei bisogni materiali ed economici. Ciò che si propone è un cambiamento epistemologico profondo in cui devono essere valorizzate altre dimensioni dell’esistenza umana anche perché la concezione economica dominante entra in profonda crisi dagli anni novanta. Ihab Hassan, scrive che bisogna chiudere con il

forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale.

Da questa breve esposizione possiamo notare che un gesto apparentemente semplice come fare un regalo, o donare, in effetti, ha forti implicazioni sul piano scientifico e che vede coinvolti quasi tutti i settori delle scienze umane dall’antropologia, alla sociologia, all’economia, alla psicologia, alla letteratura, etc. Ciò perche il donare crea i legami relazionali e sociali ed ha forti implicazioni sullo sviluppo umano e sociale. E’ attraverso il dono, ad esempio, che il bambino inizia il suo riconoscimento come essere culturale e sociale. E’ attraverso il dono che avvengono gli scambi e le trasmissioni generazionali e quindi, è un tema che deve essere attentamente studiato e analizzato. Lo scambio generazionale presuppone il dono della vita, il donarsi agli altri nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiati. Quando la fiducia e/o la speranza vengono meno o il dono è funesto ecco l’emergere, così come messo in luce dai numerosi studi sulla generatività da parte di Scabini e Cigoli, delle patologie individuali e/o relazionali.

Corti da legare: una pièce teatrale dedicata alla Psiconcologia

Cos’è la Psiconcologia? È l’area della psicologia che si occupa specificamente di offrire il necessario supporto al paziente affetto da tumore, ai familiari e all’équipe medica.

 

Nonostante l’importanza dell’argomento troppo poco ancora si parla di quanto gli interventi di natura psicologica siano fondamentali dell’affrontare un evento così drammatico come la diagnosi di malattia oncologica.

Psiconcologia: il teatro come contatto tra Corti da legare e Costellazione Cancro

L’associazione “Corti da legare”, in prima linea nel promuovere conoscenza ed informazione in merito al disagio psichico attraverso la forza evocativa del teatro, ha dedicato la terza serata della rassegna teatrale “Corti da legare” al tema della Psiconcologia.

In linea con il format della rassegna, ha avuto luogo, presso il Nuovo Teatro Orione di Roma, lo spettacolo teatrale “Il primo appuntamento”, scritto e diretto da Carlo Oldani, a cui ha fatto seguito un dibattito in cui gli esperti e il pubblico in sala si sono confrontati sul tema.

L’incontro sulla Psiconcologia è nato come momento di contatto tra la rassegna “Corti da legare” e la rassegna “Costellazione Cancro”, progetto incentrato sulla divulgazione e la corretta informazione rispetto al delicato tema della patologia tumorale.

Così come già avvenuto con gli spettacoli dedicati alla dipendenza sessuale e ai disturbi d’ansia il felice connubio tra psicologia e teatro ha dato vita ad uno spazio di condivisione e di riflessione.

Tante le emozioni messe in scena attraverso la vicenda di Luca, malato di Linfoma di Hodgkin, e della sua fidanzata Emma, interpretati con grande sensibilità da Igor Petrotto e Rebecca Sisti. Abbiamo assistito a come la diagnosi getta scompiglio e disperazione nella vita della giovane coppia, rievocando antiche ferite e minacciando i progetti di un futuro insieme.

Psiconcologia: la storia messa in scena

La storia dei due ragazzi si intreccia con quella del medico oncologo curante, a cui presta il volto Nika Perrone. Un’interpretazione toccante e intensa, che ci mostra una professionista lacerata tra la propria umanità e la profonda difficoltà a gestire l’impatto emotivo, oltre che quello strettamente medico, del percorso di cura. Si tratta di un medico che soffre e che sente il bisogno di trincerarsi dietro al proprio ruolo professionale nel tentativo di salvaguardare se stessa.

La conclusione positiva della vicenda lascia spazio ad uno strascico agrodolce di confessioni e tentativi di rientrare alla normalità; dopo un trauma di tale portata nulla sarà mai come prima, ma si può costruire su nuove basi.

Il dibattito, moderato dalla dott.ssa Federica Sortino, psicologa clinica presidentessa dell’Associazione Corti da Legare, e dall’autore e regista Carlo Oldani, ha visto sul palco, in qualità di esperte, la dott.ssa Silvia Tarsi, psicologa psicoterapeuta esperta in Psiconcologia e fondatrice dell’Associazione Lutto e Crescita, e la dott.ssa Flavia Lanni, psicologa clinica esperta in Psicologia del trauma e delle emergenze e psicoterapeuta in formazione.

Gli interventi delle esperte e del pubblico in sala hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale della Psiconcologia per trattare in modo adeguato le complesse dinamiche relazionali ed emotive legate alla diagnosi di tumore; spesso sia il malato che i familiari e i medici vengono, purtroppo, lasciati da soli nella gestione dell’emergenza. Le buone prassi di sostegno psicologico nei reparti oncologici non rappresentano la regola, ma dipendono, come accade di frequente anche in altri settori, dalle iniziative di privati, professionisti e associazioni, che cercano di colmare i vuoti e di dare risposta adeguata ai bisogni esistenti.

La rassegna “Corti da legare” proseguirà con nuovi incontri dedicati al disturbo borderline e alla dipendenza da Internet.

Meno male che sento dolore! – Il ruolo adattivo della sofferenza

Paradossalmente esperire dolore è un bene, ci consente di sopravvivere. Il non sperimentarlo affatto costituisce una patologia che può portare anche alla morte.

 

Paradossalmente esperire dolore è un bene, ci consente di sopravvivere.

La I.A.S.P. (Associazione Internazionale per lo studio del dolore) definisce il dolore come “una sgradevole esperienza sensoriale ed emotiva”, non c’è nulla di gradevole e tanto meno di desiderabile, nella percezione della sofferenza. Ma il non sperimentarla affatto costituisce una patologia che può portare anche alla morte.

Il ruolo del dolore nella nostra quotidianità

L’insensibilità congenita al dolore è una malattia rara che comporta l’incapacità di percepire la sofferenza fisica a causa di una mutazione genetica, esemplificativo è il caso della signorina C. (Pinel e Barnes, 2018).

La signorina C. era una studentessa universitaria che non sentiva dolore, non sperimentava sensibilità all’acqua ghiacciata o bollente, o in risposta a scosse elettriche; indifferenza che si estendeva anche a livello dei suoi indici fisiologici (battito cardiaco, pressione sanguigna). Mai uno starnuto o un colpo di tosse. Nella sua infanzia arrivò, tra le altre cose, a staccarsi la punta della lingua con un morso e ad ustionarsi restando impassibile.

Una vita senza il peso della sofferenza, apparentemente una vita idilliaca e agognata, ma C. morì a soli 29 anni in seguito a infezioni e traumi alla pelle e alle ossa.

Il dolore ha un ruolo adattivo, costituisce un sistema di allarme, avvisa rispetto a pericoli dai quali difendersi per evitarne conseguenze catastrofiche (Navratilova e Porreca, 2014). Alla ragazza del caso suddetto mancava tale meccanismo protettivo che la mettesse in guardia da traumi e infezioni, non permettendole di intervenire tempestivamente e curarli, ma lasciando che la condizione peggiorasse fino ad arrivare alla morte.

Ricerche recenti hanno individuato in un gene che influenza la sintesi dei canali ionici per il sodio la causa della patologia (Cox et al., 2006), ma diverse sono le alterazioni genetiche collegate all’analgesia (Nahorski, Chen e Woods, 2015).

Dolore e fattori cognitivi ed emotivi

Il dolore può essere controllato da fattori cognitivi ed emotivi (Pinel e Barnes, 2018), è quanto spiegato dalla teoria della barriera di controllo (Melzack e Wall, 1965); segnali cerebrali attiverebbero circuiti nervosi del midollo spinale bloccando l’esperienza sensoriale della sofferenza fisica.

Un ruolo predominante è svolto dal PAG (Grigio Periacqueduttale), come osservato in studi su ratti anestetizzati dalla sua semplice stimolazione (Reynolds, 1969). Sarebbero circuiti sensibili alle endorfine che discendono appunto dal PAG a contribuire alla modulazione della sensazione di dolore (Pinel e Barnes, 2018). L’output del PAG attiva neuroni serotoninergici dei nuclei del rafe, neuroni che eccitano interneuroni midollari sensibili agli oppiacei ostacolando la trasmissione dei segnali di dolore al corno dorsale (Basbaum e Fields, 1978).

Particolari condizioni di attenuazione della sofferenza

Un’alterazione della percezione del dolore può essere osservata in diverse situazioni stressanti. In alcuni riti religiosi, ad esempio, persone con uncini conficcati nella carne non esperiscono la sofferenza che si aspetterebbe osservare in una data situazione; in guerra, i soldati – nonostante le ferite gravi – hanno la soglia del dolore alterata e percepiscono poca sofferenza; in una situazione pericolosa, la percezione del dolore sembra sospesa per riattivarsi solo dopo la fine della situazione d’allerta (Pinel e Barnes, 2018). In generale, lo stress sembra associato a una ridotta percezione del dolore (Bohus et al., 2000), in particolare lo stato dissociativo che si accompagna alla situazione stressante provocherebbe, oltre che una maggiore attivazione fisiologica, un’alterazione dei sensi (tatto, vista e udito) e della propriocezione.

In risposta agli stressor si è osservata l’attivazione dell’ipotalamo che a sua volta determina l’attivazione di nuclei cerebrali e il rilascio di endorfina favorendo un effetto analgesico (Pinel e Barnes, 2018).

L’alterazione nocicettiva collegata a tali esperienze stressanti sottolinea il ruolo adattivo del dolore: non percependo dolore siamo in grado di mettere in atto comportamenti difensivi senza la “distrazione” della sofferenza, senza lasciare che il dolore ci paralizzi in una situazione d’allarme tale che potrebbe costare anche la vita (Molinari e Castelnuovo, 2010).

Come le diseguaglianze socio-economiche modificano le aspettative di mobilità sociale nei giovani

Nella società moderna resta attuale il mito del self-made man (ovvero l’uomo o donna che si è costruito da solo, partendo da poco o niente) e della mobilità sociale intesa come il cambio di livello socio-economico e il desiderio di vivere questo passaggio è ancora più desiderato grazie all’uso dei nuovi social media che propongono l’idea che chiunque possa essere il prossimo Influencer di turno..

 

Nascere in una famiglia con un livello socio-economico basso sembrerebbe rendere più difficile la possibilità di riuscire ad avere accesso a lavori ad alto reddito o a migliorare il proprio status socio-economico. Inoltre le persone nate in contesti svantaggiati avrebbero molta più probabilità di incorrere in comportamenti a rischio, come gravidanze adolescenziali o uso di sostanze.

Attraverso però processi di mobilità sociale (intesa come il passaggio da un livello socio-economico più basso ad uno più alto), anche chi nasce in contesti più svantaggiati può riuscire a fare un salto verso un livello socio-economico più alto. Questo incarna un po’ il sogno americano, il mito del self-made man: l’uomo che si è fatto da sé, che ha avuto successo partendo dal niente o dal poco.

Ma è effettivamente possibile la mobilità sociale? E soprattutto, quanto le diseguaglianze di base influenzano le aspettative delle persone?

Una recentissima ricerca del Boston College (Browman, Destin, Kearney & Levine, 2019) ha cercato di trovare una risposta a queste domande, integrando i metodi e le tecniche dell’economia con quelli della psicologia. Lo studio ha evidenziato che le diseguaglianze economiche a cui i giovani sono esposti fin da piccoli abbassano le aspettative di miglioramento. Tale riduzione si risolve in una diminuita probabilità di agire dei comportamenti che potrebbero favorire la mobilità sociale.

Economia e Psicologia: insieme per un cambiamento concreto

La novità della ricerca di Browman è stata quella di aver integrato ricerche sia economiche, le quali nel passato hanno evidenziato le conseguenze più negative del nascere in contesti svantaggiati, con studi condotti nel campo della psicologia. Riuscendo ad integrare questi due differenti campi di studio, che fino ad ora avevano investigato lo stesso fenomeno ma in parallelo, Browman e colleghi sono riusciti a dimostrare la diminuzione della motivazione a compiere comportamenti di mobilità sociale.

Questo risultato ha enormi implicazioni pratiche rispetto alle politiche volte a favorire la mobilità sociale dei ceti meno abbienti: ad esempio si potrebbero mettere in atto dei progetti che mirino ad aumentare le probabilità di agire dei comportamenti di mobilità sociale, come ad esempio dei programmi di tutoraggio.

Quello che in sostanza andrebbe fatto sarebbe di convincere i giovani provenienti da ceti meno abbienti che la mobilità sociale sia a tutti gli effetti possibile; ovviamente, come sostiene Browman, questo non andrà ad eliminare il problema ma sicuramente porterà dei miglioramenti.

Il desiderio sessuale come fenomeno complesso, espressione di una personalità adulta: non solo riflesso fisiologico ma attribuzione di significato

Il desiderio sessuale: quest’oggetto misterioso. Sembra, infatti, non esistere una definizione univoca ed esaustiva del desiderio sessuale.

 

Il desiderio è, per sua natura, soggettivo e difficile da delimitare, né tanto meno si può misurare come una quantità. Tuttavia, alcuni autori hanno tentato di definirlo, per dare la percezione di tale dimensione umana – fuggevole e mutevole quanto si voglia – ma ormai ineludibile dalla discussione scientifica nelle riflessioni sulle fasi della risposta sessuale.

Etimologicamente, il termine ‘desiderio’ deriva dal latino ‘de’-‘sidus’ il cui significato letterale si può rendere con ‘dall’alto delle stelle’, con un movimento verso il basso inteso quale tentativo di attualizzare il ‘possesso’ o il raggiungimento di quanto agognato. Il desiderio, in generale, è una tensione verso l’appagamento delle esigenze essenziali dell’uomo, quindi anche di quelle sessuali.

Per Levin (1994) si tratta di uno strumento mentale attivato e insoddisfatto, variabile nell’intensità, provocato da stimoli esterni (attraverso gli organi di senso) o interni (attraverso l’immaginazione, la memoria, le capacità associative, e cognitive) che induce la sensazione di bisogno.

Quel che si intende sottolineare è che il desiderio sessuale è una funzione psichica superiore, non spiegabile unicamente in base ad un modello ormonale, biologico, come meccanica attualizzazione di fasi estrali, il cui stile espressivo è sì manifestazione delle caratteristiche biologiche, dell’ereditarietà, dello stato ormonale attuale, ma è altresì espressione della capacità – peculiarità esclusiva della specie umana – di dare significato al comportamento e rilevanza all’aspetto relazionale. Il desiderio nasce, infatti, da fattori biologici, psichici e relazionali.

Sesso e motivazione

Un notevole interesse suscita la posizione affatto originale di un autore, Schnarch, il quale descrive il desiderio sessuale come:

La forma più complessa di motivazione sessuale di tutti gli esseri viventi. È una combinazione di programmazione genetica e di variabili legate all’esperienza di vita, che producono le più sofisticate sfumature e varietà di sesso sulla faccia del pianeta.

Fondamentale è la motivazione alla base del desiderio: il desiderio può nascere da un senso di vuoto e in questo caso è teso ad evitare una solitudine o una frustrazione. Si tratta di un desiderio passivo, dalla natura compensatoria. Di contro, il desiderio può nascere anche da un senso di pienezza e in questo caso non nasce da un bisogno di essere riconosciuto, bensì dal desiderio di esprimersi, di mostrarsi per quello che si è. Questo tipo di sessualità dipende dalla maturità acquisita. Infatti, in chi si può incontrare questo tipo di desiderio se non in un essere umano adulto, altamente differenziato? Questo vuol dire che la sessualità dell’uomo adulto ha un significato profondo ed è correlata molto più alla maturazione personale che ai meri riflessi fisiologici.

Questo a motivo del fatto che la specie umana, unica tra le specie viventi, ha sviluppato la neocorteccia che regola il linguaggio, il concetto di Sé e l’autocoscienza. Pertanto si estende all’ambito sessuale la nostra peculiare capacità di dare un significato alle cose. La neocorteccia influenza la sessualità e di conseguenza il desiderio, cioè permette la modulazione degli impulsi. In quest’ottica, la carenza del desiderio sessuale viene vista come ‘normale’, come una fase normale dell’evoluzione di una coppia che sia emotivamente fusa (sanamente).

Ci sono studi che considerano il desiderio sessuale come un aspetto della personalità, definibile come un elemento “di tratto” o “di stato”. La differenza è abbastanza rilevante in quanto sembra implicita l’idea che – nel primo caso – esso sia una espressione della personalità dell’individuo e per questo motivo sempre presente nella persona, immutabile; nel secondo caso invece si può presumere che sia in relazione a situazioni contestuali che in qualche maniera lo elicitano e caratterizzano.

Fisiologia del desiderio

Le parti del cervello che sono in relazione con il desiderio sessuale sono tre e si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione: il cervello rettiliano, il cervello corticale e la neocorteccia. La prima è la parte posteriore del cervello, appena sopra il midollo spinale e regola le funzioni basilari quali la respirazione, la digestione, l’escrezione; la seconda parte è posta nella sezione mediana del cervello; infine, la neocorteccia, che ha costituito un’espansione della corteccia ed è situata nella sezione frontale.

Il desiderio sessuale ha le sue radici in tutte e tre queste parti in cui è ripartito il cervello e la parte del cervello coinvolta definisce il carattere del desiderio. In questo senso il desiderio sessuale e il conseguente comportamento sessuale rappresentano un fenomeno molto complesso: non si può enfatizzare un aspetto a discapito degli altri, anche se il nostro sistema culturale sottolinea più insistentemente l’aspetto rettiliano/corticale del desiderio sessuale. La complessità di questa variabile umana è mostrata anche dal fatto che – sia pure dal punto di vista semplicemente ormonale – alcuni ormoni che favoriscono il legame seguono anziché precedere il comportamento sessuale.

Il significato della differenziazione

Il paradigma teorico di Schnarch (2001) pone l’enfasi su una sessualità che si sottrae al modello del determinismo biologico – all’interno del quale la componente ormonale rappresentava il principale condizionamento per la risposta sessuale – e si focalizza sul suo significato più profondo, dipendente dalla maturazione personale dell’individuo, intesa come differenziazione personale.

Il termine differenziazione è preso a prestito alla biologia, con riferimento allo sviluppo cellulare. Le cellule originano, inizialmente, dallo stesso ‘materiale’ fino a quando iniziano a differenziarsi sviluppando delle proprietà peculiari per svolgere delle funzioni specifiche. Vi è separazione perciò delle funzioni vitali ma anche correlazione fra esse. Pertanto, maggiore è la differenziazione, più elevato livello di sofisticazione ha la forma di vita.

La differenziazione si riferisce allo sviluppo del Sé all’interno di una relazione di coppia. Questo sviluppo implica sia l’acquisizione di una individualità (affermazione delle istanze personali e realizzazione della unicità della propria identità) sia la relazionalità (ispirata al principio dell’appartenenza). L’equilibrio tra queste due forze evita il decadimento nella fusione emotiva.

Pertanto secondo Schnarch, la differenziazione ha a che fare con la capacità di mantenere il senso del Sé, nel rapporto con le altre persone, soprattutto con quelle più significative. Interessanti le parole testuali dell’Autore:

Le persone ben differenziate possono essere d’accordo senza sentirsi come se stessero ‘perdendo se stesse’ e possono essere in disaccordo senza sentirsi alienate e amareggiate. Esse possono stare unite con le persone che sono in disaccordo con loro, e ancora ‘sapere chi sono’. Non devono abbandonare la situazione per mantenere il loro senso del Sé. (La passione nel matrimonio. Sesso e intimità nelle relazioni d’amore, cit. p. 38).

Questo smaschera il velo ingannatore: due persone sembrano unite solo perché non ci sono contrasti al livello superficiale del rapporto; ma non è questa la reale natura dell’unione. In questo caso, separarsi o allontanarsi sono le uniche mosse percepite a difesa della personale identità e integrità, in un’unione che in realtà è compulsiva. In questo contesto, la separazione è la messa in atto di un comportamento reattivo. Questo significa considerare se stessi come dipendenti dalla relazione in essere. Paradossalmente, in un contesto relazionale invischiato, ciascuno perde la propria identità quando l’altro membro della coppia cambia, proprio perché l’identità dipende dalla relazione e non da un sano sviluppo individuale teso alla differenziazione.

Questo sviluppo verso la maturità è un processo che dura per tutta la vita, e non è automatico. Esso prende l’abbrivio dalle rispettive famiglie di origine e prosegue nelle scelte personali. Infatti, il livello base di differenziazione si stabilisce principalmente nell’adolescenza e potrebbe non evolversi ulteriormente. Se gli stessi genitori non sono molto differenziati possono creare rapporti troppo fusi o distanzianti con i propri figli: non li aiuta a sviluppare le loro abilità di pensare, di sentire, di agire per se stessi.

Essi apprendono a comportarsi soltanto come modi di reagire agli altri. […] Noi scegliamo sempre un partner coniugale che è al medesimo livello di differenziazione nostro. (Ivi, cit. p. 52-55)

Così, la problematica sessuale viene inscritta nel più ampio alveo dello sviluppo della persona. Il desiderio sessuale – o più precisamente la mancanza del desiderio sessuale – non può essere più considerato solo come un sintomo, ma il focus della relazione di coppia, misurando il grado dell’intimità che essa è capace di vivere.

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