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I problemi della ‘sicurezza’: l’impatto psicologico e psicosociale della legge 132/2018 – Comunicato stampa AIP

Documento della Associazione Italiana di Psicologia

Comunicato Stampa

 

L’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) è una società scientifica che raccoglie la maggioranza dei ricercatori e professori di discipline psicologiche operanti nelle università italiane.

L’AIP ha tra i propri compiti l’analisi su base scientifica delle politiche pubbliche, dal punto di vista del ruolo dei fattori psicologici e psicosociali implicati. In ragione del suo ambito di competenza, l’AIP ha sviluppato un’analisi delle implicazioni psicologiche e psicosociali delle recenti disposizioni legislative in tema di immigrazione contenute nella Legge 132/2018 (conversione del cd. Decreto sicurezza). L’analisi si è focalizzata sul rapporto tra contesto psicosociale, finalità del legislatore e modalità di perseguirle previste dal dispositivo legislativo, in particolare dal punto di vista della previsione dell’impatto psicologico e psicosociale di medio termine.

A. Aspetti salienti della Legge

La legge 132/18 ha eliminato la figura giuridica del permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria (art. 1). Tale permesso aveva la durata di due anni e consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale. Esso riguardava coloro che, pur sprovvisti dei requisiti previsti per l’asilo politico o per la protezione sussidiaria, avrebbero corso, in caso di rimpatrio, il serio rischio di subire trattamenti disumani o degradanti, o di incorrere in limitazioni rilevanti della libertà. La protezione per ragioni umanitarie ha negli anni scorsi rappresentato la motivazione più frequente per la concessione del permesso di soggiorno (circa il 25% delle richieste di asilo, corrispondenti a circa il 70% dei permessi concessi; riferimento anno 2018; fonte Eurostat). Al suo posto sono stati introdotti una serie di permessi per casi specifici: “protezione speciale”, “per calamità naturale nel Paese di origine”, “per condizioni di salute gravi”, “per atti di particolare valore civile” e “per casi speciali” (vittime di violenza grave o sfruttamento lavorativo).

Di fatto, con la cancellazione della protezione per ragioni umanitarie:

a) la platea di coloro che possono beneficiare del permesso di soggiorno si è significativamente ristretta;

b) la maggior parte dei rifugiati che otterrà il permesso di soggiorno secondo la nuova casistica, si troverà in condizione di maggiore precarietà e minori tutele giuridiche e assistenziali;

c) molti degli attuali rifugiati con il permesso di soggiorno per motivi umanitari non avranno i requisiti per il rinnovo, per cui alla sua scadenza si troveranno in una condizione di irregolarità, anche quelli che nel frattempo si erano regolarmente e proficuamente inseriti nel contesto socio-economico italiano.

Nel complesso, secondo stime conservative [1], nel prossimo biennio, a seguito del decreto sicurezza, il numero di irregolari presenti in Italia potrebbe aumentare notevolmente: 60.000-70.000 persone rischiano di trovarsi prive della possibilità di lavorare e di fruire di qualsiasi forma di tutela giuridica e assistenza socio-sanitaria, destinate dunque ad una condizione di grave marginalità, ulteriormente favorita dal depotenziamento – anch’esso introdotto con il decreto (art. 12) – del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – le strutture di accoglienza che in questi anni hanno operato come fondamentale risorsa per l’integrazione dei migranti).

B. L’impatto psicologico e psicosociale della Legge

Sulla base di una estesa letteratura [ad es. 2-5], è oltremodo plausibile attendersi che la condizione di marginalità (e.g. precarietà, inoccupazione, povertà, impossibilità di fruire di forme di previdenza e assistenza) cui sono destinati molti degli attuali e futuri richiedenti asilo avrà un impatto altamente dannoso sulla loro salute psico-fisica, in termini di maggiore incidenza di malattie, disagio psicologico, disturbi mentali, condotte autolesive e suicidarie.

Vi sono del resto solide basi scientifiche per prevedere che la Legge 132/2018 avrà rilevanti effetti negativi diretti e indiretti anche sulla società italiana, in ciò contravvenendo paradossalmente alle finalità per cui è stato pensato.

Effetti diretti

Dal momento che la condizione di marginalità tende ad alimentare comportamenti antisociali e devianti in coloro che lo subiscono [ad es. 6, 7], è probabile che l’incremento di immigrati in condizione di irregolarità possa portare ad un aumento, piuttosto che ad una riduzione, dell’incidenza di fenomeni di micro-criminalità, degrado urbano, segregazione territoriale, con ovvie conseguenze negative sulla qualità della vita della popolazione italiana generale. Quando accompagnate da inuguaglianza economica, le differenze etniche diventano ulteriore fonte di sfiducia e minaccia per la società. Al contrario, quando l’istituzione mette in atto politiche utili a gestire la diversità etnica e al tempo stesso per ridurre le inuguaglianze economiche generali, non solo l’immigrazione non è più una minaccia da temere ma diventa risorsa per la società. Studi [ad es. 8] hanno evidenziato il ruolo centrale delle istituzioni e delle politiche statali nel modificare e rendere proficui gli effetti dei flussi migratori.

Effetti indiretti

L’effetto negativo più preoccupante è tuttavia indiretto e riguarda la dinamica psicosociale di cui la Legge 132/2018 è al contempo riflesso e vettore.

In via di premessa va riconosciuto che la legge 132/18 rappresenta il tentativo del Legislatore di dare risposta al senso di radicale incertezza sociale ed economica diffusi entro la società italiana, in conseguenza dell’impatto dirompente delle dinamiche della globalizzazione [9-10].

La reazione oggi prevalente all’incertezza è di natura difensiva ed emozionale [11], caratterizzandosi in termini identitari e di “nemicalizzazione” dell’altro, in particolare del non-italiano, che viene connotato come minaccia dalla quale proteggersi. Secondo un recente studio [12, 13], circa il 60% della popolazione adulta italiana, è profondamente sfiduciata, percependosi alle prese con un contesto sociale ed economico inaffidabile e persecutorio; al contempo tale maggioranza di Italiani ha una visione negativa dell’immigrato e più in generale dell’estraneo o del “diverso”, vedendo nell’appartenenza identitaria l’unica possibile difesa dalla minaccia, che percepisce venire dall’esterno.

Nel loro complesso, le disposizioni relative al tema dell’immigrazione contenute nella Legge 132/18 – oltre alle misure sopra richiamate, la Legge prevede: il raddoppio dei tempi di trattenimento nei centri di prima accoglienza; la revoca della cittadinanza in alcuni casi gravi – si prestano obiettivamente ad essere lette come portatrici di una visione dell’immigrazione come problema di sicurezza (è questo del resto il nome con cui è conosciuto il decreto successivamente convertito dalla Legge 132/2018): come una minaccia da cui difendersi (per una discussione del punto comprensiva del panorama europeo, cfr. [14]). In tal modo la Legge 132/18 si sintonizza sul senso di incertezza diffuso. Tuttavia, essa risponde ai timori dei cittadini non tanto ribadendo la giusta e doverosa rigorosità nelle procedure di accoglienza ma in un modo che corre il rischio di assecondare ed alimentare, piuttosto che elaborare, la reazione difensiva, viscerale ed emozionale che caratterizza attualmente una parte consistente della società italiana.

Il rischio, in altri termini è di rinforzare la visione emozionale dell’immigrato come minaccia dalla quale difendere se stessi, la comunità, l’Italia (tale visione trova parzialmente riflesso anche sui media; si veda in proposito [15]) È opportuno precisare che quanto appena affermato non significa negare l’impatto potenzialmente critico dell’immigrazione – specie sui segmenti più svantaggiati della popolazione italiana – dunque il fondamento di realtà che sta alla base della percezione sociale degli immigrati come un problema (per una discussione di questo aspetto dal punto di vista economico, ad es. cfr. [16]). Da un punto di vista psico-sociale, ciò che è in discussione non sono le obiettive criticità che l’immigrazione può comportare da un punto di vista macro e micro economico, ma la natura emozionale della risposta sociale (cioè la trasformazione del fattore di criticità in un nemico) e le sue implicazioni sul ‘capitale sociale’, inteso come atteggiamento sociale di fiducia, congiunto a norme che regolano la convivenza e le reti di impegno civico [17]. Intaccando in modo sostanziale il ‘capitale sociale’ (già in crisi per motivi diversi, ad esempio economici), la “nemicalizzazione” dell’immigrato è un processo che nel medio periodo è destinato a danneggiare la stessa società che lo esercita. Ciò si comprende tenendo conto del fatto che tale processo consiste in una visione viscerale ed emozionale, fondata sullo schema affettivo amico/nemico. Data la sua natura profondamente affettiva, lo schema amico/nemico non resta circoscritto all’oggetto specifico che lo innesca, ma tende inevitabilmente a generalizzarsi trasversalmente ai diversi domini della vita sociale [18-19; per quanto riguarda la mancanza di vincolo tra specifico elemento di innesco e modo generale di interpretare, si veda anche 20]. Ciò significa che, una volta che lo schema affettivo secondo cui si interpreta emozionalmente l’incertezza come causata da un altro/nemico si è insediato nel contesto culturale, esso non si limita ad operare nei confronti di specifiche categorie di ‘altro’, ma tende ad espandere la propria rilevanza su qualsiasi forma di diversità significativa: nazionalità, genere, orientamenti sessuali, appartenenza territoriale, credo religioso, opinione, status professionale, ecc. In questo modo, la ‘nemicalizzazione’ dell’altro e la conseguente polarizzazione delle relazioni diventano elementi endemici del modo di interpretare e agire le relazioni sociali ed interpersonali, non solo con lo “straniero” ma anche all’interno dei gruppi sociali di riferimento (gli italiani, ma anche il territorio, la propria organizzazione di lavoro, eccetera). La crescita di episodi di violenza verbale e fisica (ad es. sulla rete, nei confronti del personale sanitario e delle istituzioni educative) si presta ad essere interpretata come un segnale del processo di generalizzazione cui ci si sta riferendo. Il suo impatto si può misurare in termini di grave decadimento del capitale sociale (fiducia, civismo, reti sociali), di deterioramento delle infrastrutture civiche e istituzionali, di anomia; in definitiva, in uno scadimento complessivo tanto del sistema complessivo quanto della qualità della vita a livello individuale1. Non da ultimo occorre ricordare che questa visione di pericolo costantemente associata al fenomeno della migrazione aumenta nelle persone il senso di minaccia sociale. Molti studi hanno evidenziato che l’aumentare del senso di minaccia è significativamente associato non solo a comportamenti di tipo estremo, ma anche agli orientamenti autoritari, soprattutto nelle persone sensibili a questi aspetti. Vale a dire che la manipolazione del senso di minaccia che deriva dal presentare lo straniero come un nemico è l’anticamera di atteggiamenti che minano alla radice l’agire democratico [ad es. 23-24].

Osservazioni conclusive

Sul ruolo del capitale sociale nel funzionamento dei meccanismi economici e istituzionali si veda, ad es. [21]; sulla dipendenza tra contesto psico-sociale e comportamento economico si veda [22]; sul rapporto tra contesto culturale e percezione di sé: [13].

La ricerca psicologica ha prodotto evidenze in favore del carattere non alternativo ma complementare di identità e diversità [ad es. 25-27]. L’identità di un popolo si fonda sulla molteplicità che solo l’integrazione delle differenze – interne ed esterne – può assicurare: come del resto esperienze pluriennali di paesi come Gran Bretagna e Germania hanno mostrato. Su tale base, è realistico – proprio sulla base delle evidenze delle scienze psicologiche e sociali – suggerire un’inversione radicale nell’approccio culturale, prima ancora che legislativo, al tema immigrazione. È strategico che le politiche in tale ambito passino da una logica “nemicalizzante” ad una orientata invece da scopi di integrazione e valorizzazione della relazione con l’alterità. Ciò non solo, lo ripetiamo, per ragioni di natura etica o di generica disponibilità ad una indiscriminata “accoglienza”; ma soprattutto perché così facendo si introdurrebbe un rilevante fattore di contrasto alla diffusione entro la società italiana della nemicalizzazione dell’altro, un “virus culturale” capace di produrre danni gravi al tessuto umano, civile, socio-economico e istituzionale del nostro Paese.

Esercitare il controllo sulla fonte di stress: i possibili benefici in età adolescenziale

Un recente studio ha dimostrato che avere una percezione di controllo sulla fonte causa di stress, in adolescenza, consente di diminuire gli effetti dell’evento o della situazione stressogena in età adulta, fino al punto di ridurre il rischio di un successivo esordio di disturbo mentale.

 

L’esposizione a eventi stressanti durante l’adolescenza intensifica la vulnerabilità e il rischio di sviluppare psicopatologie durante l’età adulta, come per esempio dipendenza da droghe, disturbi dell’umore, ansia, dipendenza dal gioco d’azzardo, disturbo da deficit dell’attenzione e dell’iperattività.

Lo studio

Un recente studio condotto dall’Istituto di Neuroscienze dell’Università Autonoma di Barcellona ha indagato i fattori implicati nella riduzione dello stress utilizzando tre gruppi di ratti di sesso maschile. Un gruppo è stato sottoposto, in età adolescenziale, a diverse sessioni di eventi stressogeni che potevano essere controllati agendo in un certo modo (attraverso l’interruzione o la prevenzione). Il secondo gruppo ha partecipato allo stesso numero di sessioni stressanti, ma il comportamento dei ratti, in questo caso, non aveva alcun effetto sugli eventi (stress incontrollabile). Il terzo gruppo ha svolto la funzione di controllo e non è stato sottoposto a situazioni causa di stress.

Durante queste esposizioni, i ricercatori hanno quantificato l’intensità delle reazioni dei ratti agli stimoli stressanti mediante la misurazione delle risposte endocrine per via dell’attivazione dell’asse ipotalamo-iposfisi-surrene (HPA). Successivamente, nella fase adulta, sono stati condotti ulteriori esperimenti per misurare le variabili cognitive e l’espressione del recettore dopamina del tipo 2 nello striato dorsale, un’area del cervello rilevante per i comportamenti misurati.

I risultati dello studio hanno indicato che l’attivazione dell’asse HPA indotta attraverso lo stress controllabile (gruppo 1) e incontrollabile (gruppo 2) era il medesimo nella prima esposizione. Dopo ripetute esposizioni, invece, il gruppo con la variabile dello stress controllabile ha dimostrato di avere una risposta attenuata dell’HPA. Nella fase adulta, inoltre, il secondo gruppo (esposto allo stress incontrollabile in età adolescenziale) ha sviluppato una maggiore impulsività motoria e una minore flessibilità cognitiva, effetti che non si sono invece presentati negli animali del primo gruppo (stress controllabile). Altri aspetti, come l’attenzione e l’impulsività cognitiva, non sembrano essere stati influenzati dallo stato di stress. Allo stesso tempo, gli effetti comportamentali dello stress incontrollabile sono stati associati ad un aumento dei recettori dopaminergici di tipo 2 nello striato dorsale, struttura coinvolta nell’impulsività e nell’inflessibilità cognitiva.

In conclusione

È chiaro che essere esposti a situazioni stressanti abbia effetti comportamentali e fisiologici negativi a breve e lungo termine, ma ci sono diversi fattori che potrebbero mitigare l’impatto dello stress. Questo studio evidenza proprio come uno di questi fattori sia riferibile alla possibilità di avere una qualche forma di controllo sulla fonte di stress.

Sulla base dei risultati ottenuti attraverso questo studio è possibile dunque ipotizzare ad un piano di intervento preventivo volto a sviluppare strategie mirate all’aumento della propria percezione di controllo sulla fonte di stress in adolescenza, che potrebbero attenuare gli effetti negativi delle esperienze stressanti durante l’età adulta, oltre a ridurre la vulnerabilità a certe psicopatologie.

Il paradosso della bontà: la strana relazione tra cooperazione e aggressività nell’evoluzione umana

Come possono coesistere nell’uomo cooperazione e aggressività? Come mai nella storia umana la violenza diretta verso gruppi nemici è stata così distruttiva?

 

Tante volte i comportamenti umani ci appaiono incomprensibili e fatichiamo a dare loro un senso in quanto si pongono al di fuori di quello schema di azioni che potremmo facilmente ricondurre alla specie umana. Allo stesso tempo, l’uomo dispone di un repertorio comportamentale assai variegato in cui non di rado un’azione risulta essere l’opposto dell’altra. Viene dunque naturale chiedersi come è possibile che la razza umana sia il risultato di questo mix, tendenzialmente ben studiato, di comportamenti, motivazioni e azioni.

E se questa domanda non vi ha fatto passare notti insonni, non preoccupatevi. Al posto vostro, sono stati numerosi gli studiosi, filosofi e antropologi del passato e del presente, che si sono interrogati alla ricerca di una risposta. Per farlo, è venuto naturale ripercorrere la storia evolutiva dell’uomo, alla ricerca di quelle tracce che consentono di spiegare come mai sono stati selezionati alcuni comportamenti e non altri ad eredità del nostro “pacchetto comportamentale”.

Lo studio dei fossili in questo processo è stato di grande aiuto, perchè ha consentito di rintracciare più o meno chiaramente il periodo storico in cui certe azioni possono essere rintracciate nell’essere umano; ad esempio la rilevazione di microscopici segni su ossa vecchie di oltre 2,5 milioni di anni ci suggerisce che tali segni sono stati probabilmente fatti con strumenti di pietra affilati e che dunque l’uomo era già in grado di realizzare attrezzi. Più difficile è invece capire come si sono ad esempio integrati ed evoluti nel tempo tutti quei comportamenti che fanno capo alla cooperazione e all’ aggressività.

È un dibattito in scena da secoli, che trova le sue radici nelle opere di Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau (tra gli altri filosofi), ma tutt’oggi ancora molto vivo. Come possono coesistere nell’uomo cooperazione e aggressività? Come mai la violenza umana diretta verso gruppi percepiti come nemici è stata così distruttiva?

Un recente articolo pubblicato sul The Atlantic, illustra le ipotesi ad oggi più condivise, soffermandosi in particolare sulla teoria di Wrangham.

Alcune ipotesi

Secondo coloro che sostengono una visione hobbesiana della natura umana, radicata nella genetica, l’ aggressività costituisce una caratteristica intrinseca dell’individuo, violento per eredità evolutiva. Ne troviamo prova in numerosi studi e osservazioni condotti sui nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé. Tra gli episodi che raccontano la brutalità che possono raggiungere questi animali, ci colpisce in particolare il racconto di come una madre e una figlia scimpanzé hanno ucciso i bambini di altre femmine del loro gruppo e di come i maschi spesso costringono e picchiano le femmine; ancora, sono diversi gli episodi in cui grandi gruppi di scimpanzé si sono riuniti e, sulla spinta dell’eccitazione e di un’ aggressività crescente, sono andati in “pattuglia” in un modo che sembrava organizzato (hanno camminato lungo il loro confine territoriale) attaccando scimpanzé solitari delle comunità vicine quando li hanno incontrati lungo il percorso.

Ma non tutti gli studiosi si sono lasciati convincere da questa ipotesi, dando fiducia a quella che è la natura buona dell’uomo. Nel corso dei decenni durante i quali ci si concentrava soprattutto sul lato oscuro della natura umana, si sono costantemente accumulate prove che l’uomo, fin dall’inizio del suo sviluppo, è la specie più cooperativa nel mondo dei primati. Infatti, in diversi esperimenti che ricreavano situazioni che richiedevano la collaborazione tra due o più individui per raggiungere un obiettivo, gli essere umani (anche bambini molto piccoli) si comportavano meglio delle scimmie. Nel frattempo, il classico lavoro sugli scimpanzé è stato completato da nuovi studi sui bonobos, l’altro nostro parente stretto.

Aggressività reattiva: l’ipotesi dell’auto-domesticazione

Wrangham introduce un’ipotesi interessante nel tentativo di spiegare il coesistere di aggressività e cooperazione nell’uomo, percependo queste due tendenze come il risultato di una progressiva selezione di alcuni tratti, in particolare l’ aggressività reattiva ridotta, intensa come la tendenza ad attaccare quando un altro individuo si avvicina troppo, invece di tollerare un contatto abbastanza a lungo da consentire una possibile interazione amichevole.

Nei suoi studi Wrangham si è soffermato in particolare su alcuni esperimenti che esplorano l’addomesticamento di volpi selvatiche, visoni e altre specie attraverso la selezione artificiale diretta dall’uomo di alcuni tratti. Tali sforzi di allevamento, avrebbero prodotto, secondo Wrangham, “la sindrome da addomesticamento” generando un cambiamento in una serie di tratti, non solo la bassa aggressività reattiva che gli allevatori hanno deliberatamente individuato, ma anche una faccia più piccola con il muso accorciato e periodi fertili più frequenti (meno stagionalmente circoscritti), che andrebbero in tandem con la docilità.

Qualcosa di simile potrebbe essere successo, secondo Wrangham, anche nell’evoluzione dell’uomo e può essere indagato attraverso lo studio delle differenze tra scimpanzé, bonobos e uomo. Un tempo considerato un tipo di scimpanzé, i bonobos sono ora noti per essere una specie diversa. Rispetto agli scimpanzé, i bonobos si distinguono per una minore aggressività: i bonobos femminili formano forti coalizioni, in parte basate sul sesso tra loro, che tengono sotto controllo la violenza maschile e poiché le femmine gestiscono le cose, i maschi non le attaccano, e anche la violenza tra maschi è estremamente limitata. I bonobos mostrano anche gli altri tratti comuni alla sindrome da addomesticamento, che suggerisce – come nel caso delle volpi – un’ampia dinamica genetica.

Andando però oltre ai motivi genetici ed evolutivi, Wrangham fornisce una spiegazione distintiva di tale divergenza nel comportamento tra scimpanzé e bonobos, proponendo una visione ecologia secondo cui, nel corso di molte generazioni, le realtà ecologiche creano un comportamento specifico per specie. Nel caso dei bonobos, egli suggerisce, un habitat lussureggiante in cui erano protetti dalla concorrenza di scimpanzé o gorilla, ha offerto loro la possibilità di diminuire la propria aggressività reattiva. Al centro della sua argomentazione, inoltre, l’idea che l’uccisione cooperativa di individui incurabilmente violenti ha giocato un ruolo centrale nell’auto-domesticazione. Così come gli scienziati russi avevano dunque eliminato i cuccioli di volpe feroce dal pool di riproduzione, i nostri antenati avrebbero ucciso uomini colpevoli di ripetuti atti di violenza.

L’idea è intrigante, ed è vero che i cacciatori-raccoglitori umani a volte eliminano collettivamente i cattivi attori. Ma tali azioni sono rare, come ha sottolineato l’antropologo canadese Richard Lee. Potrebbe esserci invece un’altra strada che ha consentito la selezione di questo tratto per vincere l’ aggressività: la scelta femminile. La logica evolutiva suggerisce che le giovani donne e i loro genitori, scegliendo compagni meno violenti di generazione in generazione, potrebbero fornire una pressione di selezione costante verso un’ aggressività reattiva più bassa – una pressione più forte di quanto possano fare i rari drammi di pena capitale.

Per concludere dunque con le parole di Wrangham:

L’ aggressività reattiva ridotta deve essere accompagnata da intelligenza, cooperazione e apprendimento sociale come fattore chiave per la nascita e il successo della nostra specie.

 

Corti da legare: in scena il Disturbo Dissociativo dell’Identità

Un modo nuovo per raccontare il Disturbo Dissociativo dell’Identità, quello che nasce dai testi scritti da Carlo Oldani e Claudio Romano Politi per l’Associazione Corti da Legare, dove il teatro diviene spunto di apertura per la discussione di tematiche squisitamente psicologiche.

 

Il disturbo dissociativo dell’identità ha da sempre un posto speciale nell’immaginario collettivo. L’idea che nella stessa persona possano trovare spazio identità differenti è talmente ricca di suggestioni da aver trovato spazio in innumerevoli prodotti artistici: libri, opere teatrali e film.

Il quarto incontro della rassegna “Corti da legare”, ideata dall’omonima associazione con lo scopo di diffondere una corretta informazione su tematiche di natura psicologica attraverso l’arte teatrale, ha preso in esame il tema dell’identità frammentata.

Le Maschere di Belzebù per raccontare il Disturbo Dissociativo dell’Identità

Tenendo fede al format della rassegna, corto teatrale seguito dal dibattito con il pubblico moderato da esperti, è andato in scena, al Nuovo Teatro Orione di Roma, lo spettacolo “Le Maschere di Belzebù”.

L’ambientazione medievale ha fatto da sfondo alla storia di un monaco a cui il proprio superiore assegna un incarico gravoso: accertare la colpevolezza di un presunto assassino. Il serrato confronto verbale tra il monaco e l’accusato riserva non poche sorprese; l’uomo sembra abitato da varie identità (un cavaliere, un vagabondo, una balia, un bambino) che si susseguono in modo imprevedibile nel prendere il controllo della sua persona. Chi è davvero lo straniero sospettato di aver compiuto l’omicidio di un bimbo innocente?

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Dopo l’intenso corto teatrale, animato da dialoghi ad alto impatto emotivo, ha avuto luogo un dibattito in cui la dott.ssa Federica Sorino, presidentessa dell’Associazione Corti da Legare, ha offerto spunti che potessero creare una cornice teorica per poter comprendere meglio alcune delle dinamiche alla base dell’insorgenza di un disturbo così complesso come quello in esame. Si è parlato del nesso con esperienze traumatiche che hanno ostacolato, nel soggetto, il formarsi di un’identità stabile e coesa.

Sul palco sono intervenuti anche Carlo Oldani e Claudio Romano Politi, autori dei testi di “Corti da Legare”, e gli attori protagonisti, che hanno reso partecipi gli spettatori del vissuto generato dall’interpretazione di personaggi dalla psiche così tormentata e frammentaria.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Disturbo Dissociativo dell'Identità: il racconto teatrale dei Corti da Legare

La rassegna teatrale e i prossimi appuntamenti

La rassegna, dopo aver preso in esame la dipendenza sessuale, l’ansia e il panico, la psicologia oncologica e il disturbo dissociativo dell’identità proseguirà con due incontri incentrati sul disturbo borderline e sulla dipendenza da Internet.

Il futuro è già determinato? (2007) di Ilya Prigogine – Recensione del libro

Non capita tutti i giorni di ritrovarsi tra le mani un libro scritto da un premio Nobel per le scienze fisiche e chimiche: Ilya Prigogine, noto per le sue teorie sulle strutture dissipative e sull’irreversibilità.

 

Sebbene una mente eccelsa come quella di Prigogine abbia conquistato l’ambitissimo premio Nobel, egli scrive questo breve libro anni dopo il suo riconoscimento, per illustrarci le ulteriori sue osservazioni e ricerche svolte.

Il futuro è già determinato? La controversia di Parmenide ed Eraclito

Il titolo di questo libro è un bell’interrogativo: “Il futuro è già determinato?”. Una bella domanda; incuriosisce soprattutto la risposta.

La copertina del libro illustra i volti di Parmenide ed Eraclito, due famosi filosofi che hanno portato avanti una ormai nota controversia: Parmenide sosteneva che non vi è nulla di nuovo e che tutto è immutabile; Eraclito insisteva in merito al fatto che esiste un continuo cambiamento e che “tutto scorre”.

Proprio così, Eraclito aveva messo in discussione la visione statica di Parmenide e in questo testo Prigogine si ricollega a ciò, ricordando che dal diciannovesimo secolo in poi il punto di vista di Parmenide era stato occultato da un altro punto di vista più affine alla visione del “Panta Rei”: secondo i nuovi filosofi il tempo non è altro che la nostra visione esistenziale e sicuramente non è immutabile.

Nel suo testo Prigogine non fa altro che inserire il dilemma tra Eraclito e Parmenide in un’ottica più moderna e matematica.

Egli associa la visione di Eraclito alla visione del mondo della termodinamica, secondo la quale tutto va verso una morte termica non prevedibile; al contrario il punto di vista di Parmenide è associabile alla visione del mondo della scienza meccanica, secondo cui tutto ha luogo grazie a delle modalità predeterminate.

Si tratta di due visioni alquanto pessimistiche, e Prigogine ci illustra come tali visioni si basano su una forma troppo ristretta di dinamica.

Il futuro è già determinato? Un dibattito tutt’ora in corso

Il celebre fisico ci dimostra che, mediante una serie di studi e formule matematiche, è possibile giungere a nuove descrizioni della realtà.

Se un tempo la visione statica e meccanica di Parmenide era stata messa da parte per far spazio a una visione più fluida e dinamica, in realtà è possibile asserire che il dibattito è tutt’ora aperto: sono sempre esistiti due punti di vista antitetici della scienza e del mondo e con ottime probabilità esisteranno ancora. Nel descrivere l’universo evoluzionistico la fisica ha fatto solo i primi passi.

La fisica del non equilibrio ha fornito una migliore comprensione del meccanismo della comparsa degli eventi, e tali eventi vengono associati alle biforcazioni.

Naturalmente il libro non è del tutto discorsivo e l’autore giunge alle sue conclusioni mediante una serie di principi e formule matematiche ben dimostrabili.

Dalle osservazioni di Prigogine si giunge ad un’affermazione ben precisa: il futuro non è determinato.

Il futuro è già determinato? O lo costruiamo noi?

E a seguito delle formule matematiche oggettive, Prigogine non tralascia le sue osservazioni soggettive: sarebbe per lui assurdo affermare che tutto è già prestabilito in un’epoca di globalizzazione e di rivoluzione basata sulle reti. Il comportamento individuale è il fattore chiave nel plasmare l’evoluzione dell’intera specie umana. Proprio perché il ruolo degli individui resterà notevolmente importante e non farà altro che contribuire a modificare la realtà in cui viviamo, in maniera a dir poco imprevedibile.

Ed è proprio questa imprevedibilità del mondo che ci circonda che mi ha dato da riflettere: appena mi sono ritrovata il libro tra le mani mi sono immediatamente incuriosita su quale risposta l’autore avrebbe dato al suo interrogativo iniziale.

E ammetto di essere stata piuttosto sollevata dal fatto che una mente brillante con quella di Prigogine afferma che nulla è già determinato; ciò non fa altro che attribuire una maggiore importanza alla persona e all’intenzionalità.

Il futuro ce lo costruiamo noi, una bellissima visione del mondo.

Le ultime pagine del testo sono dedicate a una serie di interviste all’autore. Ciò permette al lettore di conoscere appieno le ideologie di Prigogine e le spiegazioni ad esse che dà.

Un libro brillante e che merita di essere letto, soprattutto da chi è intenzionato ad aprire la propria mente sulle nuove visioni del mondo.

Depressione in carcere: come e perché è importante intervenire

Negli Stati Uniti, in media, il 23% dei prigionieri rilasciati ogni anno dichiara di aver sofferto di depressione maggiore durante il periodo di reclusione in carcere.

 

Nel panorama statunitense la salvaguardia della salute psichica all’interno delle carceri viene messa in secondo piano, infatti i finanziamenti sono delegati ad ogni stato e sono insufficienti rispetto alla domanda: cosi facendo, a volte, i carcerati, quando ritornano nella società, si ritrovano in uno stato di salute mentale peggiore rispetto a quella precedente.

Circa 15 milioni di persone, ogni anno, negli Stati Uniti, sono coinvolte nel sistema penitenziario. Essendo quella carceraria una popolazione molto ampia, dunque, l’insorgere di patologie mentali nei detenuti può esercitare un forte impatto, oltre che sui detenuti stessi, anche sull’intera società e non solo in termini economici.

Depressione in carcere: lo studio con la psicoterapia interpersonale

I ricercatori della Michigan State University hanno testato l’efficacia della psicoterapia interpersonale (IPT) su una popolazione di detenuti con disturbo depressivo maggiore (MDD), per comprendere se questa terapia fosse accessibile nelle carceri mantenendo un costo contenuto. L’IPT è un tipo di terapia che può risultare molto efficace poiché affronta eventi di vita difficili come la povertà, le aggressioni, l’abuso e molto altro, che sono molte volte caratteristici della popolazione carceraria. Il percorso terapeutico è basato sul ritornare con la mente a un determinato momento di difficoltà che ha segnato particolarmente l’individuo, cercando di richiamare le stesse emozioni provate, in modo tale da poterle esprimere, analizzarle e comprenderle sotto la guida del terapeuta, migliorando così la comunicazione e la relazione con il problema.

Un team di terapeuti specializzati e psicologi che già lavoravano in carcere, è stato addestrato per trattare 181 detenuti con la psicoterapia interpersonale. Gli esperti hanno lavorato con i detenuti due volte a settimana per 10 settimane. Ogni detenuto è stato valutato singolarmente in tre momenti: all’inizio, al termine del trattamento e a tre mesi dalla fine del trattamento, per valutare l’impatto della terapia. Tutto ciò ha permesso di contenere i costi poiché non sono stati assunti nuovi professionisti ma soltanto formati quelli già presenti.

Depressione in carcere: trattarla è un vantaggio per tutta la società

Dai risultati emerge che l’IPT ridurrebbe i sintomi depressivi, la mancanza di speranza e i sintomi connessi al disturbo da stress post traumatico. Questa terapia, grazie alla formazione dei professionisti che già lavoravano nelle carceri, si è rivelata efficace con un budget ristretto. Infatti si è stimato un costo medio di 575$ per paziente che è nettamente inferiore rispetto a quello dei possibili trattamenti ai quali gli ex-detenuti vengono sottoposti al rientro nella società.

Quello appena presentato è il primo studio che riesce a suggerire una soluzione terapeutica efficace e conveniente da applicare su una popolazione carceraria molto ampia, rivelando come il metodo analizzato possa realmente migliorare il benessere e la salute mentale di molte persone, prigioniere, prima di tutto, del proprio passato.

La condizione di Languishing e lo stato di malattia nel disturbo bipolare

Per le persone che soffrono di disturbo bipolare lo stato di benessere è fortemente influenzato dalla condizione della malattia in cui si trovano in quel preciso momento. Così, trovarsi in uno stato di mania (o ipomania) oppure vivere un episodio depressivo determina importanti cambiamenti nel modo in cui questi soggetti percepiscono se stessi, gli altri e il mondo che li circonda.

 

Gli studi sulla relazione tra il benessere e la sintomatologia/distress psicologico stanno crescendo. Per quanto riguarda lo studio della malattia mentale, un contributo importante è stato quello fornito da Keyes, il quale si è rifatto al modello della Ryff per definire il concetto di benessere (Ruini, 2017).

Keyes (2005) ritiene che la salute si possa collocare lungo un continuum che va da uno stato di completa salute, ovvero, di flourishing (prosperità/floridezza) ad uno stato completo di malattia, attraverso lo stato di languishing (vulnerabilità), in cui l’individuo risponde ai criteri per uno specifico disturbo psicologico, che corrisponde ad una condizione massima ed estrema di malessere (Keyes, 2005). Il flourishing è caratterizzato da alti livelli di benessere, mentre il languishing è la condizione opposta (Keyes, 2005). All’interno del continuum, Keyes (2005) individua due stati di salute mentale (stato completo e stato incompleto) e due stati di malattia mentale (stato completo e stato incompleto), i quali sono il risultato di una combinazione delle dimensioni di salute mentale e malattia mentale, alti livelli di benessere e assenza di benessere (Keyes, 2005).

I soggetti con disturbo bipolare possono collocarsi in una condizione di malattia mentale completa o malattia mentale incompleta in quanto possono avere o meno delle compromissioni a livello del benessere (Keyes, 2005).

Inoltre, la condizione di malattia è data sia da bassi sia da elevati livelli di benessere delle dimensioni che lo costituiscono, ovvero il benessere edonico, eudamonico e sociale (Johnson & Wood, 2016). Per quanto riguarda la condizione di florushing, gli individui devono avere livelli adeguatamente alti di benessere edonico (alti livelli di emozioni positive, bassi livelli di emozioni negative e un’alta soddisfazione) e livelli adeguatamente alti in almeno sei delle undici sottoscale di benessere eudamonico (in cui è compreso anche il benessere sociale). Invece, per quanto riguarda la condizione di languishing i soggetti devono presentare livelli eccessivamente bassi o elevati sia per quanto riguarda il benessere edonico sia per quanto riguarda il benessere eudamonico (Ruini, 2017).

Il benessere Edonico e il disturbo bipolare

Il benessere edonico (o emotivo), riguarda come gli individui valutano la loro condizione, facendo riferimento alla dimensione emotiva e cognitiva (Keyes & Lopez, 2002).

Durante gli episodi maniacali, la dimensione emotiva è alterata in quanto non c’è un equilibrio tra le emozioni positive e quelle negative (Gross, 2015; Culver, et al., 2009; Barlow, Carl, Soskin & Kerns, 2013; Gruber, 2011a; Gruber, 2011b). Nello specifico, durante gli episodi maniacali e ipomaniacali si assiste ad un’estrema positività ed un eccesso di emozioni positive, dovuto ad un’incapacità di controllarle (Gruber, 2011). Invece, negli episodi depressivi l’individuo presenta dei sintomi opposti, come se non avesse mai esperito episodi di intense emozioni positive (Johnson & Wood, 2016).

La dimensione cognitiva, si riferisce al livello di soddisfazione che gli individui hanno su vari aspetti della vita (Keyes, 2005) che può essere variabile poichè dipende dall’alternanza degli episodi maniacali/ipomaniacali e depressivi (APA, 2014) in quanto durante gli episodi depressivi il livello di soddisfazione è basso, mentre durante gli episodi maniacali è eccessivamente elevato.

Il benessere Eudamonico e il disturbo bipolare

Il benessere eudamonico (o psicologico), in accordo con il modello della Ryff (1989), è composto da sei dimensioni interconnesse tra loro, che sono: l’autoaccettazione, i propositi nella vita, l’autonomia, la crescita personale, le relazioni positive con gli altri e la padronanza ambientale.

L’ autoaccettazione

L’ autoaccettazione concerne l’insieme di atteggiamenti positivi nei confronti di se stessi, il riconoscere ed accettare i molteplici aspetti del sé ed il sentimento positivo nei confronti del proprio passato (Keyes & Lopez, 2002).

I soggetti con disturbo bipolare, negli episodi maniacali, potrebbero presentare bassi livelli di auto-accettazione, i quali producono la presenza di aspettative irrealistiche ed elevate (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011). L’auto-accettazione è collegata all’autostima (Ruini, 2017); nel caso del disturbo bipolare, si assiste alla presenza di un’elevata autostima e sentimenti di grandiosità (APA, 2014). Queste ultime condizioni potrebbero produrre uno scontro con la realtà ed anche compromissione a livello della dimensione sociale (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Secondo la visione psicodinamica, gli apparenti elevati livelli di autostima, corrisponderebbero ad una difesa ai bassi livelli di autostima che inconsapevolmente nascondono (Rainone & Saracino, 2008). Infatti, avendo dei tratti in comune con il narcisismo, il soggetto affetto da disturbo bipolare si percepisce pieno di risorse, dotato di potere e superiore rispetto agli altri (Damour & Hansell, 2007).

Oltre l’apparente autostima elevata, in questi soggetti è presente la cosiddetta condizione di ottimismo irrealistico (Hayward, Jones & Lam, 2002; Berk et al., 2013) .Essi credono che si possano avere maggiori probabilità di ottenere dei risultati positivi, sottovalutando l’eventuale probabilità che si ottengano dei risultati negativi (Bortolotti, Jefferson & Kuzmanovic, 2017). Tuttavia, quando i soggetti falliscono nel raggiungimento dei loro obiettivi, tendono ad attribuire la responsabilità dei loro errori e fallimenti all’esterno, come sarà riportato in seguito (Abramson et al., 1978; Needles & Abramson, 1990).

I propositi nella vita

I propositi nella vita, riguardano la possibilità dell’individuo di avere obiettivi e un senso di direzione nella vita, sensazione che il presente e il passato abbiano un significato nella vita dell’individuo e che le convinzioni personali diano dei propositi nella vita dell’individuo (Keyes & Lopez, 2002).

L’insoddisfazione, che i soggetti con distubo bipolare presentano nei confronti di se stessi, viene camuffata con un’apparente elevata autostima ed autoefficacia, che li motiva a fissare degli obiettivi elevati che non sono in sintonia con le loro reali possibilità (Rainone & Saracino, 2008). L’eccessiva fiducia in se stessi e la sottovalutazione di un eventuale fallimento, spinge gli individui a fissare obiettivi ancora più alti e a volte irraggiungibili, creando così la cosiddetta “spirale verso l’alto” (Moss & Russell, 2013; Rainone & Saracino, 2008).

Gli obiettivi che vengono selezionati maggiormente sono di tipo positivo e riguardano la felicità. La tendenza a fissare obiettivi positivi è dovuta alla credenza che il proprio futuro benessere dipenda dagli obiettivi che vengono raggiunti (Ruini, 2017) e dalla presenza di alterazioni a livello del sistema della ricompensa (Johnson, 2005).

Inoltre, è stato ampiamente dimostrato che le persone che sviluppano sintomi maniacali o ipomaniacali, si mostrano più fiduciosi e speranzosi (Rainone & Saracino, 2008).

Un concetto che risulta altamente connesso alla tendenza a perseguire obiettivi irrealistici è la falsa speranza. Secondo Carver e collaboratori (2010), corrisponderebbe ad una caratteristica individuale che riflette il modo in cui le persone mantengono aspettative irrealistiche o elevate inerenti al proprio futuro. La sindrome della falsa speranza è stata trovata nei soggetti con disturbo bipolare (Ruini, 2017). In questi soggetti si manifesta la tendenza a pianificare degli obiettivi, a fare diversi tentativi per raggiungerli e a fallire continuamente nel raggiungimento degli stessi (Herman & Polivy, 2000; Feldman, Rand, Snyder, King & Woodward, 2002). Il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati avviene perché quest’ultimi sono irrealizzabili in quanto rispecchiano le loro aspettative irrealistiche (Herman & Polivy, 2000; Feldman, Rand, Snyder, King & Woodward, 2002) ma non sono in linea con le abilità e/o i mezzi che possiedono per poterli raggiungere (Feldman, Rand, Snyder, King & Woodward, 2002). L’eccessiva sensibilità del sistema della ricompensa (Damour & Hansell, 2007) unita alla condizione di falsa speranza, nei casi di soggetti con mania, potrebbe suggerire il motivo per cui le persone tentano di perseguire obiettivi che superano le loro vere risorse (Corrigan, 2014).

Un altro aspetto che è stato preso in considerazione all’interno della dimensione dei propositi nella vita è la passione (Keyes, 2005), che assicura un coinvolgimento nell’attività volta ad uno scopo e ad una migliore performance (Ruini, 2017). In accordo con il modello dualistico della passione, gli individui attribuiscono un certo valore ad un’attività che produce gratificazione, infatti la passione è un’inclinazione che porta i soggetti ad investire tempo e risorse (Vallerand, 2012).

Tuttavia, la passione è associata, in base al tipo di affetto coinvolto, a distress. Nel caso del disturbo bipolare, la presenza di passioni è disadattiva, disfunzionale e produce elevati livelli di distress in quanto diventa una caratteristica rigida dell’identità (Vallerand, 2012). Le passioni nei soggetti con disturbo bipolare potrebbero comportare degli importanti costi personali tra cui: aumento dei conflitti sociali (Vallerand, 2012), rigidità nella persistenza volta al conseguimento di obiettivi irraggiungibili (Forest, et al., 2017) ed incapacità di cambiare obiettivo (Ruini, 2017), non riescono ad ammettere i loro fallimenti (nel caso di un mancato raggiungimento di un obiettivo) (Ruini, 2017), possono perdere il controllo delle loro passioni (nonostante sia per loro gratificante ed eccitante seguire le loro passioni, non ricavano dei feedback positivi da parte dell’ambiente) (Vallerand, 2012).

Quando gli obiettivi non vengono raggiunti, per contrastare la frustrazione, i soggetti con disturbo bipolare potrebbero attribuire le cause di questi eventi a fattori esterni (locus of control esterno). Invece, quando riescono a raggiungere gli obiettivi, potrebbero attribuire la causa dei loro successi alle proprie caratteristiche (locus of control interno) (Abramson et al., 1978; Needles & Abramson, 1990).

Se, invece, si trovano all’interno di un gruppo in cui vengono pianificati degli obiettivi (Ruini, 2014), l’eccessiva distraibilità, la spinta insistente a dire le proprie idee, l’aumento della produttività (APA, 2014) rendono l’individuo incapace di lavorare in gruppo e di andare d’accordo con gli altri (Ruini, 2017).

L’ autonomia

L’autonomia riguarda la capacità di resistere alle pressioni sociali per pensare e agire in determinati modi; valutare se stessi secondo gli standard personali (Keyes & Lopez, 2002).
I soggetti con disturbo bipolare sono caratterizzati da mancanza di autonomia, infatti in alcuni emerge la tendenza a ricercare l’approvazione di altre persone piuttosto che a far ricorso ai propri standard personali (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

La crescita personale

La crescita personale riguarda la possibilità di essere aperti alle nuove esperienze, sentimenti di accrescimento e cambiamento conoscitivo e affettivo (Keyes & Lopez, 2002).

Livelli elevati di crescita personale sono il risultato dell’utilizzo di alcuni specifici meccanismi di difesa, in particolare nei soggetti con disturbo bipolare è stato rintracciato il pregiudizio di illusione cognitiva benigna (Ruini, 2017). Essa è una condizione che ostacola l’integrazione tra i processi di apprendimento e le esperienze negative avute in passato e porta gli individui a concentrarsi sugli esiti futuri, che in alcuni casi spingerebbe gli individui a ricercare e a pianificare il raggiungimento di obiettivi positivi (Ruini, 2017) e/o indurrebbe gli individui a mettere in atto dei comportamenti pericolosi per se stessi o per gli altri, sottovalutandone i rischi (APA, 2014).

Le relazioni positive con gli altri

Le relazioni positive con gli altri riguardano la possibilità di avere relazioni calorose, soddisfacenti e fiduciose, preoccupazioni per il benessere degli altri, capacità di forte empatia, affetto e intimità, capacità di comprendere il dare e avere nelle relazioni umane (Keyes & Lopez, 2002).

Nel caso del disturbo bipolare, i soggetti non hanno empatia e di conseguenza non ricercano dei compromessi per sostenere e mantenere importanti relazioni con gli altri (Ruini, 2017). La presenza di obiettivi elevati, come affermato in precedenza, potrebbe produrre delle ripercussioni a livello della dimensione sociale (Vallerand, 2012).

La padronanza ambientale

La padronanza ambientale fa riferimento al sentirsi competenti e in grado di gestire un ambiente complesso, scegliere o creare contesti personali adatti (Keyes & Lopez, 2002).

Alterazioni in questa dimensione implicano, come nel presente caso, una visione dell’ambiente esterno con un ottimismo irrealistico e superficialità nella valutazione dei rischi che possono essere presenti nell’ambiente (Rainone & Saracino, 2008).

Per concludere

Se da un lato l’aumento della produttività, lo stato di benessere vissuto dall’individuo, possono essere valutati positivamente da parte di chi è affetto da disturbo bipolare (Rainone & Saracino, 2008), dall’altro gli stati di attivazione tipici della mania (Damour & Hansell, 2007) possono rendere l’individuo incapace di rilassarsi (Ruini, 2017). Infatti, i soggetti con disturbo bipolare, nonostante presentino un umore elevato e positivo (APA, 2014), non sono in grado di assaporare le emozioni positive e il piacere in modo sano ed adattativo (Ruini, 2017).

Patoplastica: dove operiamo e dove andremo a finire, signora mia!

Con questa parolona che fa pensare alla chirurgia estetica si intende in realtà l’effetto di modellamento che la cultura agisce sull’espressione di una patologia.

 

Utilizzo questo termine per stupire l’uditorio quando parlo del delirio e mi accingo a spiegare la forte incidenza del delirio di gelosia nel territorio dove ho lavorato per decenni e che aveva nei secoli passati visto le gesta eroiche ed erotiche dei Borgia ed in particolare di Lucrezia la cui rocca si staglia netta e possente sullo skyline del paese. Si potrebbe andare oltre ipotizzando che certe culture sono esse stesse patogene (si pensi ai disturbi alimentari connessi al misticismo medievale o, più di recente, alla esaltazione della magrezza dopo Kate Moss).

Se è più facile condividere l’idea dell’espressione fenotipica di un disturbo (di cui a questo punto viene supposta una esistenza a priori), è più discutibile la patogenicità di un certo ambiente perché si tratta di un giudizio di valore su ciò che è buono, giusto, sano o insano che può essere affermato solo da un altro contesto valoriale generando un regresso all’infinito (per fare un esempio banale certi modi di vivere occidentali sono considerati inconcepibili, sciocchi e meritori di condanna a morte dai musulmani e viceversa).

Mi chiedo dunque quali atteggiamenti o ex patologie (dico ex perché non saranno più considerate tali) saranno premiati nell’ambiente socioculturale che si va affermando forse per la prima volta nella storia dell’umanità in modo globalizzato?

Verso la fine del secondo millennio gli uomini hanno dato vita ad una rivoluzione tecnologica (i computer, il web e i loro infiniti derivati, app ecc.) che retroattivamente ha modificato il modo di stare al mondo di miliardi di esseri umani e forse lo stesso cervello che quella rivoluzione ha prodotto (Baricco A. 2018 “the Game, ed. Einaudi, Milano). Considerato che tale rivoluzione riguarda principalmente proprio la codifica e la diffusione della conoscenza e che essa è strettamente connessa, secondo il modello cognitivista, con la salute mentale e lo sviluppo dei disturbi emotivi, viene da chiedersi a che tipo di pressioni selettive sarà sottoposta e dunque quali tipi di pensiero il cervello tenderà col tempo a privilegiare? Ad esempio secondo la interessantissima distinzione di Kahneman (2011) in pensieri veloci e pensieri lenti, il privilegiato sarà evidentemente il pensiero “veloce” con tutti i suoi pregi e gli innumerevoli difetti. Un pensiero intuitivo, automatico, impaziente, mirato alla gratificazione immediata, veloce, superficiale, approssimativo, attento solo all’essenziale, discontinuo, confermazionista, scorrevole, creativo, non faticoso e impegnativo e ne risulteranno penalizzate invece la complessità, lo spirito critico e l’approfondimento, caratteristici del cosiddetto “pensiero lento”.

Esistono e quali sono delle Weltaschuung nel senso di pacchetti di credenze che costituiscono una visione complessiva della realtà e generando un peculiare modo di stare al mondo che prolifereranno più facilmente in un tale ambiente? Con ciò non voglio dire che certe patologie aumenteranno, o meglio, “sì” se si mantenessero inalterati i vecchi criteri diagnostici, ed invece al contrario “no” se valutate in termini di egodistonia personale o di distonia sociale. Qualcosa di simile è già successo durante la stesura del DSM 5 con il dibattito sul conservare o meno nella nosografia il disturbo narcisistico di personalità perché nelle sue forme non estreme e maligne è del tutto allineato con i valori della società occidentale ricca (Liotti G., Lorenzini R. 2018). Del resto tutte le ricerche di psicologia delle grandi riviste internazionali utilizzano campioni cosiddetti “WEIRED” ovvero di soggetti occidentali, istruiti, ricchi, industrializzati e democratici che non rappresentano affatto l’umanità nel suo insieme. La stessa psicoterapia che di tale cultura è un prodotto mentre si sforza di descrivere il funzionamento degli uomini e soprattutto quello disfunzionale dei pazienti, ha un’assoluta cecità verso gli impliciti che ne costituiscono la premessa indiscutibile e che non sono affatto neutri come ci piace pensare ma esprimono i valori della cultura dove la psicoterapia si è sviluppata.

L’atteggiamento “non giudicante”, tanto sbandierato con unanime consenso tra le varie scuole, non afferma in fondo con forza, per usare un ossimoro, un “relativismo assoluto”? Per cui tutto va bene, tutto è ammissibile? Attenzione non sto affermando che questo sia sbagliato, dico solo che bisogna essere consapevoli che anch’esso è una premessa ideologica, non meno assoluta di tante altre e che non rappresenta l’unico modo possibile di stare al mondo. L’intolleranza verso gli intolleranti è pur sempre intolleranza. Voler mettere al rogo i tribunali dell’inquisizione brucia le nostre stesse chiappe. Se è vero che non si può fare a meno di assumere un punto di vista dal quale operare valutazioni, a meno di non votarsi al silenzio assoluto e trascorrere tutto il tempo dell’esistenza da spettatori disinteressati e senza opinione, almeno che si sia coscienti di averlo.

Ancora l’egodistonia e l’autodeterminazione degli obiettivi, regola aurea e faro orientante la prassi psicoterapeutica, mettono al centro di tutto l’individuo, il suo benessere e il conseguente diritto ad autodeterminarsi per ottenerlo che potremo definire come “egocentrismo edonico”. Il messaggio che passa più o meno esplicitamente è “pensa a te, ai tuoi bisogni e desideri” (autodeterminazione) e “fai di tutto per realizzare il tuo benessere” (assertività) con l’unica attenzione a non essere guidato solo dal principio del piacere immediato ma di tener conto anche del principio di realtà per perseguire un piacere che non sia solo a breve ma anche a medio e lungo termine”. Le parole d’ordine sembrano essere “tutto, subito, per me”.

Una volta archiviate con l’illuminismo le religioni teiste gli umani negli ultimi tre secoli hanno elaborato religioni senza Dio che comunque hanno tentato di dare un significato unitario al mondo ponendo al centro di tutto l’uomo stesso e l’ordine naturale delle cose conoscibile, non per rivelazione ma indagabile attraverso la scienza (Harari 2018 A,.Harari 2018 B). Dal ceppo comune dell’umanesimo si sono sviluppati tre filoni. Il liberalismo che ha posto al centro la libertà individuale, l’umanesimo sociale che ha posto in primo piano la socialità e la solidarietà ed infine l’umanesimo evoluzionista che si è tradotto nel nazismo. Il ‘900 è stato il terreno di confronto tra le prime due identificatesi con il capitalismo ed il comunismo ma il problema di una sintesi tra libertà individuale e solidarietà ed equità è tuttora irrisolto. Sul finire del secolo scorso è divenuta patrimonio comune l’idea umanistica che l’uomo ha diritto alla felicità ed è suo dovere rimuovere tutti gli ostacoli che vi si frappongono avendo come unico limite la felicità altrui. Ma che il bilancio della felicità sia individuale o sia riferito ad un gruppo di appartenenza più o meno ampio resta comunque che non esiste altro riferimento al di fuori dell’uomo stesso. Mai era successo prima che ci fosse così unanime accordo sul fatto che i sentimenti dell’uomo costituiscano l’unica misura di tutte le cose. Mi astengo da qualsiasi giudizio in proposito volendo limitarmi a suscitare la consapevolezza che questo è un modello di uomo sano tipico della attuale cultura occidentale di matrice capitalistica in cui ognuno deve darsi da fare al massimo per costruire il proprio personale benessere (tralascio la banalità più superficiale che lo si pensa legato all’avere piuttosto che all’essere e raggiungibile con il fare piuttosto che con il sentire) in un ambiente di libero mercato del benessere in cui il fatto che ognuno persegua il proprio comporta un miglioramento complessivo per tutti. In tale clima di darwinismo sociale l’agonismo spietato per la sopravvivenza del più forte ed il piacere hanno preso il nome molto più presentabile su cui non si può non essere d’accordo di “meritocrazia” che non ha più oppositori essendo considerata appunto una ovvietà e turba alcune anime belle solo quando arriva all’eutanasia dei meno performanti o alla eugenetica mengheliana, che gode però di pessima stampa, di cui però è fatalmente premessa. La cultura capitalista che certamente ha contribuito in modo decisivo alla sconfitta delle piaghe che affliggevano l’umanità come la fame, le malattie e le guerre, è per noi così scontata che non riusciamo a vederla con distacco critico e certe cose ci appaiono del tutto naturali come i sacrifici umani per gli Atzechi o i mortali spettacoli di gladiatori al Colosseo per i romani che non si consideravano affatto incivili.

Le idee vivono nelle menti come virus o parassiti e tendono a diffondersi e moltiplicarsi per proprio conto talvolta anche a discapito dei loro portatori. Se l’evoluzione naturale si basa sull’affermazione dei geni che mirano a replicarsi indifferenti al benessere del loro portatore individuale, l’evoluzione culturale consiste nel diffondersi e nell’affermarsi dei “memi” (unità di informazione culturale o come definita prima una weltaschuung, di cui comunismo, capitalismo, femminismo o nazismo sono alcuni esempi). Le culture vincenti sono quelle che diffondono i loro memi anche a discapito degli umani che ne sono portatori. Tornando ora alla domanda che ci eravamo posti può essere riformulata così: che caratteristiche deve avere oggi una certa conoscenza per affermarsi, diffondersi e proliferare attraverso gli strumenti tecnologici di intermediazione tra gli umani?

Mi sembra che siano sei le dimensioni lungo i cui assi la pressione selettiva sulla conoscenza si va spostando:

La prima è quella della semplicità contro la complessità. Le terribili semplificazioni verso cui metteva in guardia Bateson sono diventate il golden standard della strategia politica e delle comunicazioni sui social media strutturalmente predisposte per essere brevi, cogliere pochi aspetti ed estremizzarli perdendo di vista la complessità e l’approfondimento.

La seconda è quella di essere associata ad un immediata ricompensa edonica e dunque non necessitare di fatica che come il dolore e la morte sono banditi dalla nostra cultura (non a caso forse sul web si resta in eterno).

La terza è la rapidità che comporta che tutto invecchi molto rapidamente ed essere novità rappresenta di per sé un pregio: si sta affermando il pregiudizio che “nuovo” equivalga a “migliore” per cui qualsiasi rottamazione sia buona di per sé trascurando che l’ignoranza del passato porta spesso a ripeterne gli errori. Le notizie invecchiano subito e con altrettanta rapidità se ne perde la memoria. Presto l’amnesico e il demente chiederanno di uscire dalla nosografia perché tener conto solo dell’ultima informazione significherà essere aggiornati, stare sul pezzo, sulla notizia. In questa continua ricerca di stimoli nuovi, di città che non dormono mai, di realtà aumentata, di ipertesti, di prolungamento della vita e di eterna giovinezza mi pare si celi la normalizzazione della maniacalità e dell’abuso di psicostimolanti come la cocaina che sballa le anguille del Tamigi come quelle dell’Arno (se non sapete di cosa sto parlando, molto male, vuol dire che non siete aggiornati).

La quarta è il privilegio della quantità sulla qualità e dunque l’approssimazione sulla precisione. Gli ossessivi saranno sempre più patologizzati e le loro fatiche derise, l’importante è farsi un idea in generale, per poi agire in maniera agile e veloce.

La quinta dimensione potremmo chiamarla il predominio delle narrazioni sui fatti, o come dicono gli esperti, l’affermarsi della “post-verità”. Sappiamo bene che da sempre il mondo in cui vivono gli esseri umani non è fatto solo di cose ma soprattutto di opinioni e narrazioni sulle cose e sono esse che causano emozioni, stati d’animo e comportamenti. Anzi su tale assunto si fonda la teoria e la pratica cognitivista. Tuttavia oggi il legame con la realtà dei fatti concreti è sempre più labile e quasi sovvertito e ciò su cui si hanno opinioni sono, a loro volta, anch’esse opinioni (sarà capitato a tutti di leggere per giorni e giorni commenti su commenti di commenti dopo aver perso completamente di vista il fatto originario che finisce per diventare ininfluente al punto che non si ricorda più l’oggetto del contendere). Oggi la narrazione, lo “story telling” come dicono i più colti, si è sostituito alla realtà oggettiva che ne è un prodotto. Le storie sono la vera realtà e dunque forse aumenterà la consapevolezza che ciascuno di noi vive in un mondo di significati proprio ed autoreferenziale con la speranza che ciò aumenti la tolleranza tra gli individui.

L’ultima dimensione è quella “democratica” per cui nel web “uno vale uno” decretando così la morte degli esperti e delle elitè culturali. Il sapere è a disposizione di tutti, non servono mediatori e i pazienti che arrivano in consulenza sono già informatissimi su diagnosi e terapie per cui anche il ruolo del terapeuta deve modificarsi non godendo più di una autorevolezza tout court, a priori. Il suo ruolo sarà simile a quello del Virgilio della Commedia che accompagna il paziente alla scoperta della conoscenza per lui rilevante facendo da guida e da mediatore ed il suo valore aggiunto sarà nella relazione di sicurezza che riuscirà ad istaurare con il paziente facilitando l’esplorazione esteriore e interiore, per tutto il resto c’è Wikipedia. L’autorità culturale è rifiutata ed il confronto tra le idee si fa più democratico e serrato sui contenuti in sé. Il pericolo, però, è che i rapporti di rango un tempo definiti dal grado di formazione e di cultura (le stesse lauree non contano più) non scompaiano ma vengano fondati sulla violenza delle argomentazioni (si veda l’imbarbarimento dei commenti dei partecipanti ai blog protetti dall’anonimato). Comportamenti un tempo considerati antisociali stanno diventando accettabili nel mondo virtuale dove la possibilità dello scontro fisico che fungeva da moderatrice è assente. L’utopia originaria dei visionari della Silicon valley di una parità tra gli uomini prodotta dal web sta andando delusa e sembrano cambiare solo i criteri per definire il rango, perde terreno la cultura e prende campo la forza e la ricchezza.

E’ importante sottolineare che queste caratteristiche (semplicità, piacevolezza, velocità, leggerezza, attualità) non vengono scelte consapevolmente ma percepite naturalmente come buone e soprattutto esteticamente eleganti e dunque da preferire automaticamente: non scegliamo di comportarci così, lo siamo proprio e lo stiamo diventando sempre più. La cultura in cui si è immersi non si limita a prescrivere certi comportamenti ma ce li fa sembrare buoni e giusti in assoluto modellando gli stessi desideri.

E’ del tutto inutile ancorché sciocco chiedersi se quello verso cui stiamo andando sarà o meno un mondo migliore, da sempre ogni generazione e anche ogni individuo rispetto alla propria storia personale, vede nostalgicamente nel passato l’età dell’oro e nel futuro un degrado dei valori sacri e irrinunciabili anche quando si era alle soglie del rinascimento. Gli uomini grazie proprio a quel processo di continua crescita congetturale della conoscenza ad ogni problema trovano una soluzione che poi nel tempo si dimostrerà essa stessa un problema e sarà a sua volta superata. Ciò che oggi ci spaventa sarà occasione di un ulteriore inaspettato salto in avanti della conoscenza. I nostri figli troveranno soluzioni che oggi non possiamo neppure immaginare e fronteggeranno problemi scientifici, tecnologici ed etici che sono molto oltre ogni nostra possibile fantasia anche sostenuta da pesanti stupefacenti.

E’ scientificamente dimostrato quanta poca previsionalità e controllo abbiamo sugli eventi futuri della nostra esistenza individuale. Siamo in balia del caso per la maggior parte degli accadimenti decisivi dell’esistenza (la nascita e il suo luogo, le fortune e la morte). Minuscoli viventi sparati in un universo sconosciuto ma dotati di quella autoconsapevolezza cosciente che renderebbe la vicenda intollerabile (Ligotti T. 2016) se non fosse bilanciata dai fondamentali bias del cosiddetto narcisismo sano che sono l’illusione di valore, di immortalità e di controllo (Liotti G., Lorenzini R. 2018). A livello sovraindividuale l’umanità si è sempre interrogata su dove stiamo andando e quantunque sia ormai provato che le previsioni sono quasi sempre fallimentari, non smettiamo di provarci e dopo che i fatti sono accaduti con il cosiddetto bias “del senno di poi” ci sembra che le cose non potessero che andare come effettivamente sono andate. Gli storici hanno un compito molto più facile dei profeti.

Che ci sia un architetto esterno che ha per l’umanità un progetto intelligente ma secondo logiche sue a noi imperscrutabili, o che il procedere sia casuale per tentativi ed eliminazione degli errori come nell’evoluzione delle specie viventi, il problema dell’ignoranza sul futuro non cambia. La storia è ben lontana da essere finita con il XX°secolo come ipotizzava il politologo Francis Fukuiama (Fukuyama F. 1992 “la fine della storia” ed BUR, Milano) e ci riserva sempre nuove sorprese, curve pericolose, svincoli inaspettati, tanto da sembrare preoccupata, come un buono sceneggiatore, soprattutto di non annoiare noi spettatori di questo grandioso spettacolo di specie, mondi e civiltà che nascono, si assolutizzano e scompaiono al segnale del capocomico che decreta “avanti un altro!!”.

Sembra proprio difficile intravedere un filo conduttore unitario e hanno buoni argomenti sia i pessimisti (T. Ligotti2016) che intravedono un progressivo imbarbarimento e un futuro di violenza e guerre totali sia gli ottimisti come Serres (Serres M. 2018 “Darwin, Napoleone e il Samaritano. Una filosofia della storia” Bollati Boringhieri, Torino) che descrivono la nostra come la migliore delle epoche dove è solo l’aumentata sensibilità ad evidenziare maggiormente il male che, in realtà non è più accettato e sta battendo rapidamente in ritirata. Il compito di dare un senso all’universo si è spostato da Dio all’uomo.

La felicità non è riducibile al piacere dei sensi ed è strettamente connessa, secondo autorevoli studi scientifici, con l’avere un senso per la propria vita e percepirla come importante e valida, esserne soddisfatti. Una vita che ha senso permette di affrontare ogni cosa, senza un senso dell’esistenza ogni agiatezza è insoddisfacente. Anche se scientificamente la vita non ha alcun senso le illusioni sono salvifiche che siano le antiche religioni o il moderno umanesimo nelle sue varie versioni o più limitatamente l’alimentazione vegana, la perfetta forma fisica o la “magica Roma”. Favorisce il benessere il fatto che le proprie illusioni personali siano sincronizzate con quelle collettive della cultura in cui si vive.

Rispetto alla storia universale forse dobbiamo superare un modello esplicativo unidirezionale che ci porta a chiederci in che direzione vada la storia. L’andamento della storia dell’umanità e forse anche di quella individuale è meglio descrivibile con un modello multidimensionale (di nuovo sono da preferire per descrivere qualsiasi realtà le dimensioni e le sfumature che le categorie dai confini netti) e oscillatorio secondo il quale esistono numerose dimensioni o costrutti esprimibili con polarità estreme contrapposte come, a solo titolo di esempio: mono-oligarchia versus democrazia; individualismo versus solidarietà; localismo versus globalizzazione; espansione versus ritiro; competizione versus cooperazione; creatività versus ripetizione; parità versus disuguaglianza e se ne potrebbero aggiungere decine di altre relativi ai vari campi dell’esperienza umana collettiva e personale.

Ciò che a mio avviso accade è che quanto più si realizza attivamente una polarità ritenuta migliore, più se ne avvertono i difetti e la parzialità che non sono invece avvertite nella polarità non realizzata. E’ lo stesso meccanismo che ci fa autocriticare per le scelte fatte in quanto, dimentichi dei bisogni (ormai soddisfatti) che ce l’hanno fatta preferire, avvertiamo solo i difetti e le mancanze dell’opzione praticata (esempio tipico è la scelta di un percorso che trafficato ci fa rimpiangere quello alternativo il cui traffico o l’eccessiva lunghezza semplicemente non vediamo).

Lo stato delle cose futuro è determinato dalla sommatoria delle oscillazioni su tutte queste dimensioni che si muovono indipendentemente l’una dall’altra dando dunque luogo a possibili infinite combinazioni a nostra protezione dalla noia.

La Bella e la Bestia: al di là delle apparenze – Riflessioni psicologiche sul Musical in scena a Palermo

La storia de La Bella e la Bestia ha radici profonde, quando si cercava di insegnare a piccole spose-bambine come fosse possibile amare mariti molto più grandi di loro, così simili ai loro occhi al Mostro di questo racconto.. ma non fermiamoci qui, qual è il messaggio che questa storia ci riporta sull’amore?

 

Lei, Bella, nell’aspetto fisico e nel nome; lui, il Mostro, tanto nel fisico quanto nell’animo, intriso di rabbia e scortesia.

La Luce e l’Ombra di junghiana memoria destinati a incontrarsi e scontrarsi, il Negativo che si converte nel suo opposto, grazie alla Luce dell’amore, capace di andare oltre alle apparenze del Brutto, e che si trasforma nel Buono e Positivo della gentilezza, mitigando le proprie asprezze, frutto di sofferenze e incapacità di sano altruismo.

Questo il messaggio forte del musical La Bella e la Bestia che, tra pomposi costumi di scena e dialoghi dalle tonalità pedagogiche, è andato in scena lo scorso 17 Febbraio a Palermo, presso il teatro Lelio. E così, ripercorrendo le celeberrime scene di una delle storie d’amore più note di tutti i tempi, il tema dell’Amore-Luce che sconfigge la Morte-Mostruosità riecheggia tra balli e musiche.

L’accettazione delle imperfezioni dietro il miracolo dell’amore

Si parte con l’Amore di Belle che, per salvare il padre, accetta di vivere nel Castello del Mostro, una Bestia sgarbata, irrispettosa ed egoista, incapace di vera empatia, di comprensione dei bisogni altrui (come il dolore di Belle per la lontananza dal padre), secondo gli insegnamenti cari a Carl Rogers.

Una Bestia, disumana all’apparenza, eppur capace di sentimenti, incapace di gentilezza e perciò aiutato dai saggi governanti a “mostrarsi gentile per fare innamorare, puntando sulla bellezza interiore”. Una lotta per lo svincolamento da una condizione primitiva di egocentrismo verso una condizione di maturità emotivo-relazionale che condurrà il Mostro insensibile a “decidere” in favore della sua amata, anche a scapito della propria supremazia, della mania di possesso.

Perché se la maturità emotiva e l’assunzione di responsabilità, intimità e solidarietà, conducono alla formazione della coppia, con il superamento di una visione autocentrata (e ben si intravede il sesto stadio dello sviluppo sociale delineato da Erikson) lo strumento che rende possibile il “miracolo dell’amore” è accettare (e superare) le proprie e le altrui imperfezioni. Ecco che passeranno in secondo piano il Buio, il Brutto, l’Ombra e risalterà la Luce dell’altruismo e il rispetto verso se stessi e gli altri, palesando una Bellezza interiore nascosta, in grado di attirare, coinvolgere, affascinare, al di là delle apparenze.

 

Correlazione tra uso di cannabis in adolescenza e sviluppo di depressione in età adulta

Il consumo di cannabis, durante l’adolescenza, è associato a un rischio di poter sviluppare successivamente, nella prima età adulta, depressione, ansia e suicidio?

 

I risultati di questa nuova ricerca sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista Jama Psychiatry, nel mese di febbraio, si tratta di una metanalisi di 11 studi.

Cannabis e adolescenti: i rischi connessi

Il campione è composto da 23.317 individui, tutti adolescenti. Lo studio ha lo scopo di dimostrare come il consumo di cannabis durante l’adolescenza sia associato ad aumento del rischio di poter sviluppare ansia, depressione e commettere un suicidio nel corso della vita, anche in assenza di una condizione premorbosa.

I ricercatori della Oxford University con sede in Canada hanno scoperto che gli adolescenti, con età inferiore a 18 anni, spesso provano la cannabis e questo aumenta il rischio poter incorrere nella depressione e in pensieri suicidari nel corso della loro vita. Per questo motivo esortano i politici e i responsabili della salute a prendere misure ad evitare il consumo di cannabis tra gli adolescenti. Per quanto riguarda il rischio di sviluppare l’ansia non vi è stata nessuna correlazione significativa.

Gli studiosi sostengono che una buona consapevolezza ed un’educazione riguardo gli effetti nocivi della cannabis a lungo termine siano necessari per la prevenzione della depressione.

Cannabis e adolescenti: un problema di salute pubblica

Il professor Andrea Cipriani, autore dello studio dell’Università di Oxford, sostiene che ci sarebbe un 7% in meno di persone depresse se la popolazione non usasse la cannabis: cioè circa 400.000 casi di depressione negli Stati Uniti, 25.000 in Canada o circa 60.000 casi di depressione nel Regno Unito che potrebbero essere evitati se gli adolecenti smettessero con l’assunzione di cannabis. Cipriani lo ha definito un grosso problema di sanità pubblica e salute mentale.

Gli esperti concordano nel dire che nel Regno Unito circa il 4% degli adolescenti, di età compresa tra gli 11 e i 15 anni, utilizzano cannabis e se questa connessione con la depressione fosse vera, sarebbe motivo di preoccupazione.

Il team di ricercatori ha esaminato altri 11 studi che includevano un totale di circa 23.000 persone. È stato analizzato il loro consumo di droghe, mentre la loro salute mentale è stata valutata dal primo episodio in cui avevano provato la cannabis per la prima volta, fino all’età di 34 anni.

I risultati di questo studio hanno dimostrato che non vi fosse alcun legame tra l’uso di cannabis e i disturbi d’ansia. Inoltre, si evidenzia, nella ricerca, un aumento del 37% nel rischio di poter sviluppare depressione, se precedentemente, in adolescenza, si era fatto uso di cannabis. Tuttavia il Prof. Cipriani sostiene che la cannabis, da sola, non possa essere causa della depressione, poiché vi sono altri fattori legati allo stile di vita, alla famiglia, alla condizione socioeconomica che influiscono.

Cannabis e adolescenti: manca informazione e consapevolezza

La Dott.ssa Gabriella Gobbi, della McGill University in Canada e prima autrice dello studio, ha dichiarato:

Alcuni adolescenti pensano che sia una pianta che non danneggi. Per questo è importante informare gli adolescenti sui rischi e sul tipo di cannabis che usano.

Oggi, a differenza degli anni ’80 e ’90, dove la concentrazione di THC era di circa il 6%, abbiamo delle concentrazioni di 10-15% di THC o più. Il THC è il tetraidrocannabinolo, il principale costituente psicoattivo della cannabis è uno dei 113 cannabinoidi presenti nella cannabis.

Sebbene la dimensione degli effetti negativi della cannabis possa variare tra i singoli adolescenti e non sia possibile prevedere il rischio esatto per ciascun adolescente, l’uso diffuso della cannabis tra le giovani generazioni lo rende un importante problema di salute pubblica.

L’uso regolare durante l’adolescenza è associato a minori risultati a scuola, psicosi da dipendenza e declino neuropsicologico, aumento del rischio di incidenti automobilistici, così come i problemi respiratori associati al fumo.

Tramite questo studio, si vuole sensibilizzare il pubblico sul fatto che il consumo di cannabis sia un grande problema di sanità e pubblica e salute mentale e che dei provvedimenti debbano essere presi.

La psicoanalisi: terapia empiricamente supportata, ma non scientista

Giancarlo Dimaggio, nel suo articolo pubblicato su state of mind il 1/3/2019 pone una domanda provocatoria a tutti gli psicoanalisti: “se un paziente va in uno studio di terapia cognitiva sa con una certa sicurezza che le tecniche applicate appartengono a un repertorio supportato empiricamente. Se un paziente va in uno studio di psicoanalisi, magari avendo letto che è una disciplina supportata empiricamente tanto quanto il cognitivismo, cosa andrà a ricevere?”

 

Per sostenere la domanda cita due articoli pubblicati su due riviste psicoanalitiche indicizzate su pubmed, entrambi a opera dello stesso autore, in cui viene usato un linguaggio veteroanalitico, ovvero il classico linguaggio oscuro ai più che ha attirato varie antipatie (legittime) nei confronti della psicoanalisi. Dimaggio coglie in pieno un punto di cui bisogna rendere conto: la psicoanalisi è stata a lungo usata come strumento di potere e resa volutamente incomprensibile. Basti pensare a come tutto è iniziato: mentre Freud parlava di io, “esso” e super-io (Ich, Es, Über-Ich), una triade linguisticamente trasparente, all’estero veniva tradotto chissà perché in latino, con gli ormai famosi ego, id e super-ego. Tuttavia, come Dimaggio sa bene, gran parte della psicoanalisi contemporanea non solo si è distaccata da quel modo di raccontarsi (con un linguaggio che neanche Freud utilizzava), ma è stata capace di rivoluzionarsi a fondo, abbracciando modelli della mente e della relazione empiricamente fondati e contribuendo alle conoscenze contemporanee sul funzionamento mentale. Andiamo per gradi:

1 Una psicologia della relazione

La psicoanalisi contemporanea non è più una psicologia della pulsione, ma della relazione. Il modello pulsionale, che produceva tutti quei discorsi sulle trasformazioni della libido che oggi suonano senza fondamento scientifico, è ormai usato da una parte di psicoanalisi da cui gli approcci contemporanei si sono emancipati. L’abbandono del modello bipulsionale (Eros e Thanatos) è un fatto avvenuto ormai diverse decine di anni fa, dapprima nella teoria, nell’opera di autori come Harry Stack Sullivan, di Fairbairn e Guntrip, in parte nel lavoro di Winnicott e in modo più marcato nei lavori di Heinz Kohut (molti dei contributi clinici di questi autori sono centrali in alcune frecce all’arco della psicoterapia cognitiva, come la Schema Therapy) (Greenberg & Mitchell, 1983). Ciò che questi autori hanno fatto (in modo più o meno esplicito) è mettere da parte il ruolo delle pulsioni e dare importanza alle relazioni reali e a come queste diano forma al pensiero (e, quindi, alla patologia). Il lavoro è poi proseguito in maniera empirica, a partire dagli studi dello psicoanalista Lou Sander sull’influenza reciproca tra madre e bambino, abbracciando la teoria dei sistemi dinamici non lineari.

Gran parte di ciò che si sa nelle scienze cognitive sulla regolazione emotiva della prima infanzia ha le sue radici nell’infant research, un filone di ricerca iniziato e proseguito da psicoanalisti, primo dei quali lo stesso Sander (Sander, 1987). Dal lavoro di Lou Sander, infatti, sono poi proseguite le ricerche sperimentali di Daniel Stern (Stern, 1992) e di Beatrice Beebe (Beebe, 2006), per non parlare del lavoro di Karlen Lyons-Ruth e Ed Tronick e in generale del gruppo di studio Boston Change Process Study Group (BCPSG, 2012). A eccezione di Ed Tronick, i personaggi citati sono tutti analisti. I loro lavori empirici non solo hanno ispirato buona parte della svolta relazionale anche in ambito cognitivo (basti vedere il lavoro di Gianni Liotti), ma sono ad oggi le descrizioni scientifiche più accurate del legame inscindibile tra le relazioni tra esseri umani e il funzionamento mentale. La psicoanalisi contemporanea, sia nella sua versione relazionale che intersoggettiva, fa riferimento a un modello della mente informato da questi studi.

In sintesi, si è passati da una metapsicologia pulsionale a una metapsicologia relazionale e da un inconscio pulsionale a un inconscio relazionale. Mentre Freud e chi ha ritenuto il modello pulsionale ha inferito lo sviluppo dell’uomo dalla patologia adulta, i nuovi modelli leggono la patologia adulta sulla base dei dati empirici e dei bambini “reali” osservati nel corso dello sviluppo. Molte delle teorie contemporanee sulla coscienza, curiosamente, sono a loro volta informate proprio da questi studi sullo sviluppo umano attraverso le relazioni con i caregiver. Damasio stesso (2003) fa moltissimi rimandi a Stern e al suo concetto di forme vitali (Stern, 2011) per assimilarlo al suo concetto di “background feelings”. In ambito enattivista (si tratta del filone di studi relativo alla cognizione incarnata – studi che lo stesso Dimaggio cita di frequente quando parla degli schemi interpersonali), diversi autori si rifanno al lavoro di Karlen Lyons-Ruth per spiegare la “conoscenza relazionale implicita” preverbale, di tipo corporeo (Fuchs, 2004; Fuchs & de Jaegher, 2009; Fuchs & Schlimme, 2009; Gallagher & Zahavi, 2013).

Lo stesso Bowlby e tutta la ricerca sull’attaccamento che è derivata dalla sua teoria sono oggi nel repertorio di ogni psicoanalista, tanto che Mitchell, nel descrivere il modello relazionale, vi dedica un intero capitolo (2002). Nonostante Bowlby fosse antipatico alla psicoanalisi classica, si è definito psicoanalista fino alla sua morte (Nino Dazzi, comunicazione personale).

2 Una psicoanalisi relazionale

La psicoanalisi contemporanea è una psicoanalisi relazionale, in questo senso si orienta la sua clinica.  Questo è una diretta conseguenza del primo punto. La relazione terapeutica è sempre stata al centro dello studio analitico (basti pensare ai concetti di transfert e controtransfert, ormai usati anche in ambito cognitivo). Se nell’analisi classica la relazione era il teatro in cui si agitavano pulsioni e difese, nella psicoanalisi contemporanea la relazione è il focus stesso della clinica. Mentre prima la relazione era il fine per la risoluzione dei conflitti pulsionali attraverso il transfert con l’analista, ora la relazione e la fiducia nella relazionalità è il fine stesso dell’analisi. La sofferenza psicologica è una sofferenza relazionale che, inevitabilmente, verrà messa in scena nella relazione con l’analista (da qui il termine enactment). Molte forme di psicopatologia hanno origine nel tessuto relazionale e “storico” del paziente, e il terapeuta lavora con il paziente rimettendo involontariamente in atto la stessa sofferenza di cui egli è stato vittima (e da cui il paziente continua a proteggersi nelle relazioni con gli altri esseri umani). Su questi assunti si basa la disciplina empiricamente fondata della control/master theory che Dimaggio conosce bene e il concetto di rottura e riparazione dell’alleanza terapeutica, che Jeremy Safran ha operazionalizzato (Safran & Kraus, 2014).

Se ciò che si trova nella control/master theory era già seminale nell’opera di Freud, il concetto di rottura/riparazione dell’alleanza è presente dai tempi Heinz Kohut, è stato studiato empiricamente nel lavoro di Ed Tronick sulla relazione madre bambino e nel lavoro di Beatrice Beebe. In generale, l’attenzione alla relazione è proprio al centro del movimento relazionale su cui la teoria di Safran si basa ed è sempre stata presente nella tradizione psicoanalitica, seppur in forme diverse.

3 Focus terapeutico sulla relazione

Se proprio ci vogliamo soffermare sulle evidenze, qui c’è un grosso punto a favore di un focus terapeutico sulla relazione: anche se Dimaggio sottolinea l’importanza dei fattori specifici evidence-based, al momento sembra che il predittore più stabile e valido del successo di una psicoterapia sia la qualità della relazione stessa e non gli ingredienti delle specifiche terapie (Norcross & Wampold, 2011). Forse è proprio per questo che molti approcci terapeutici stanno vivendo le loro svolte relazionali. Un terapeuta cognitivo evoluzionista, dispiace dirlo, lavora molto più come uno psicoanalista relazionale che come un terapeuta Beckiano da protocollo. Così come un terapeuta relazionale è molto più simile a un terapeuta cognitivo-costruttivista rispetto a uno psicoanalista pulsionale.

4 Psicoanalisi non scientista

La psicoanalisi non è una pratica scientista, anche se si avvale della ricerca empirica per costruire le proprie fondamenta. Lo scientismo viene descritto dal Devoto Oli come quel «movimento intellettuale sorto nell’ambito del positivismo francese (seconda metà del XIX secolo), tendente ad attribuire alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo». La psicoanalisi non è così ambiziosa (o illusa), anche se si affida alla scienza. Anche se si accumulano trial controllati randomizzati sull’efficacia della psicoterapia analitica e delle sue forme e diramazioni nella cura di vari disturbi, la psicoanalisi contemporanea è una psicoterapia della complessità e pertanto non è possibile pensarla come un protocollo x per un disturbo y. Anche se incidentalmente il lavoro analitico sembra alleviare la sintomatologia psichiatrica non meno della terapia cognitiva, negli ambiti in cui è stata studiata (Fonagy, 2015; Leichsenring, 2005; Leichsenring & Klein, 2014; Leichsenring & Rabung, 2008), lo stesso lavoro non è necessariamente focalizzato sulla sintomatologia psichiatrica. La necessità di indagare gli effetti della psicoterapia dinamica e analitica sui vari disturbi nasce più da esigenze pratiche che da un obiettivo della psicoterapia dinamica. Per fare un esempio, per un analista una persona non sta male perché ha un disturbo d’ansia (per cui magari c’è una terapia efficace), ma sta male perché può aver avuto (anche qui, solo un esempio tra tanti possibili) una madre ansiosa. Per un analista una persona non è arrabbiata perché è borderline, è arrabbiata perché qualcosa lo ha ferito e continua a ferirlo nelle relazioni con gli altri. Per capire il dolore di quella persona, l’analista non farà riferimento a un modello del funzionamento dell’ansia. Più frequentemente si affiderà all’uso dell’empatia, rifletterà su cosa provocano in lui questi vissuti, su situazioni simili che può aver vissuto e avrà presente il suo impatto nel processo analitico. Questi elementi sono il focus dell’azione terapeutica e su questi si fonda la clinica. La clinica analitica è centrata sul senso individuale della sintomatologia del paziente e su come questa è intessuta nel tessuto relazionale della sua vita. La conoscenza analitica, seppur informata dalla teoria, è sempre una conoscenza costruita collaborativamente tra paziente e terapeuta.  Per questo motivo, il pensiero disturbo/protocollo/cura per quanto molto pratico, si allontana molto da ciò che succede dallo studio di un analista.  Per questo, inoltre, per un terapeuta a orientamento dinamico al più è interessante la ricerca sul processo come quella di Wilma Bucci sull’attività simbolica e subsimbolica (Bucci, 2000). A eccezione di chi ha ideato specifici protocolli su base psicoanalitica come la transference focused therapy (Kernberg, Yeomans, Clarkin, & Levy, 2008) e la terapia basata sulla mentalizzazione (Bateman & Fonagy, 2010), che ormai sono gold standard per il disturbo borderline di personalità, è difficile che a un analista interessi così tanto la ricerca sull’efficacia. In questo, la terapia analitica non è una terapia scientista. Non si può ridurre un incontro analitico a ciò che è evidence based, come probabilmente non si può ridurre un incontro tra un terapeuta cognitivo-comportamentale e un suo paziente al protocollo che applica.

Nella psicoanalisi relazionale questo è tenuto sempre in conto: ogni incontro terapeutico è un incontro tra uno specifico analista con il suo passato e il suo punto di vista sul mondo e un paziente con il proprio. Dei due, il primo è “allenato” a riflettere su di sé, sul proprio impatto sul paziente e di conseguenza sulla relazione. E’ davvero possibile eliminare questo aspetto dalla ricerca sull’efficacia? Se sì, perché è molto più facile trovare un terapeuta migliore di un altro rispetto a una terapia migliore di un’altra (Miller, Hubble, & Chow, 2018; Miller, Hubble, Chow, & Seidel, 2013)?

Conclusioni

In altre parole, presi in considerazione tutti questi punti proviamo a ribaltare la domanda di Dimaggio: se tutte le terapie funzionano, se la relazione tra terapeuta e paziente predice l’esito di una psicoterapia, perché dovrei affidarmi a ingredienti specifici empiricamente supportati? Ad oggi, la ricerca empirica li valuta praticamente come quasi irrilevanti nonostante l’accumularsi di RCT per questo o quel disturbo (Ahn & Wampold, 2001): usarli per spiegare l’esito di una psicoterapia, è come pensare che Usain Bolt sia veloce perché porta un particolare tipo di scarpe.  Se ad oggi il miglior predittore di esito è la relazione (Norcross & Wampold, 2011), perché non dovremmo focalizzare i nostri sforzi clinici e di ricerca sulla relazione stessa tra quel paziente e quel terapeuta, come la svolta relazionale analitica e cognitiva stanno facendo da qualche tempo? Questo tipo di pensiero clinico comincia ad accumulare solide evidenze sperimentali (Norcross & Wampold, 2018).  Pensare che a far bene ai pazienti sia un dato protocollo non è forse ridurre la complessità dell’incontro terapeutico tra due persone molto complesse a una pratica psicoterapeutica standard che non rende conto di quella particolare unicità? Pensare che i pazienti borderline (così come i narcisisti, i depressi e via dicendo) siano un gruppo di persone che hanno bisogno tutte di uno stesso protocollo evidence-based non è esattamente il contrario del pensare alla relazione? Nella scienza della psicoterapia cognitiva, come fa l’evidenza a lasciare da parte il fattore umano? A differenza di Dimaggio, non credo che un paziente vada in terapia per curare il suo disturbo o per cercare una terapia che funzioni. Un paziente va in terapia per sentirsi meglio, e in genere perché un paziente si senta meglio, deve trovare un terapeuta che sia capace di comprendere il modo in cui soffre.

Preoccupazione per l’immagine corporea ed esiti del trattamento in adolescenti con anoressia nervosa 

La preoccupazione per l’ immagine corporea è un costrutto fondamentale della terapia cognitivo comportamentale, uno dei due principali trattamenti raccomandati per i disturbi dell’alimentazione in pazienti adolescenti con anoressia nervosa.

 

Come tale, la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E), adattata anche per gli adolescenti, presenta un modulo specifico per affrontare le preoccupazioni per l’immagine corporea.

Immagine corporea e componenti cognitive nell’anoressia

Un recente studio condotto presso la Casa di Cura Villa Garda ha mostrato come le tre componenti cognitive “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo”, “Paura di ingrassare” e “Sentirsi grassa” possono, in effetti, predire gli esiti della terapia cognitivo comportamentale in un campione di pazienti adulti con anoressia nervosa. Secondo la teoria transdiagnostica proposta da Fairburn, tali componenti sono le principali espressioni cognitive dell’ “Eccessiva valutazione per il peso, la forma del corpo e per il loro controllo”, considerata il nucleo psicopatologico centrale dei disturbi dell’alimentazione.

Sulla base del precedente studio, il gruppo di clinici e ricercatori italiani dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale di Villa Garda ha ipotizzato che la CBT-E per gli adolescenti sia associata a un significativo miglioramento delle preoccupazioni per l’immagine corporea dopo un anno e che alcune o tutte le componenti dell’immagine corporea al basale potrebbero predire cambiamenti nella psicopatologia specifica dell’anoressia nervosa. Per questo motivo, l’obiettivo di tale studio è stato quello di verificare il ruolo della preoccupazione per l’immagine corporea al basale nei cambiamenti del centile dell’indice di massa corporea (IMC) e degli esiti psicopatologici associati alla CBT-E negli adolescenti con anoressia nervosa.

Immagine corporea e trattamento CBT-E: lo studio

Lo studio ha incluso 62 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa ricoverati presso la clinica, con età compresa tra i 13 e i 18 anni, la maggior parte dei quali era di sesso femminile (96,8%). I pazienti sono stati trattati con la versione ospedaliera della CBT-E. La terapia prevedeva un periodo di 13 settimane di ricovero seguito da 7 settimane di day-hospital. Per tutti i pazienti sono stati registrati il centile dell’IMC prima e dopo il trattamento e nei follow-up a 26 e 52 settimane dalla fine del ricovero; oltre a questo sono stati somministrati al basale e alla dimissione l’intervista Eating Disorder Examination (EDE), per misurare la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, e il Brief Symptom Inventory (BSI), per misurare, invece, la psicopatologia generale. Tramite la versione italiana convalidata dell’EDE, sono stati registrati i punteggi nelle sottoscale “Restrizione alimentare” e “Preoccupazione per l’alimentazione”, utilizzati come variabili di esito specifiche per l’anoressia nervosa. Oltre a questo per ogni paziente sono state valutate le tre componenti cognitive legate alla preoccupazione per l’ immagine corporea; nello specifico, la “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo” è stata valutata tramite la domanda “Hai speso molto tempo a pensare alla tua forma del corpo o al tuo peso?”, poiché, secondo la definizione di “preoccupazione” richiede che vi sia compromissione nella concentrazione. La componente legata alla “Paura di ingrassare” è stata invece valutata tramite l’item “Hai avuto paura di aumentare il peso?” e la domanda “Ti sei sentita grassa?” è stata usata per valutare la terza componente riguardante la “Sentirsi grassa”.

I risultati hanno mostrato che gli adolescenti con anoressia nervosa trattati con la CBT-E intensiva hanno ottenuto un miglioramento significativo e duraturo per quanto riguarda il centile di IMC, con più del 96% dei pazienti che ha raggiunto alla dimissione un centile di IMC corrispondente al cut-off del peso normale all’età di 18 anni e più dell’80% ha mantenuto questo risultato dopo un 1 anno dalla fine della terapia. Inoltre, il trattamento era associato ad una significativa riduzione dei punteggi nella psicopatologia generale e in quella specifica. Le tre componenti cognitive legate alla preoccupazione per l’immagine corporea erano strettamente correlate l’una con l’altra, confermando che costituiscono un costrutto più ampio. Inoltre, la CBT-E è stata associata a riduzioni significative in tutte e tre tali componenti.

Immagine corporea e trattamento CBT-E: i risultati

Punteggi più elevati al basale della “Paura di ingrassare” e “Sentirsi grassa”, hanno predetto un miglioramento più lento nel tempo del centile di IMC. Questo sta ad indicare come tali componenti siano variabili clinicamente rilevanti, che dovrebbero essere sempre valutate dai clinici al basale. Detto questo, i ricercatori sostengono che questi dati non implicano alcuna relazione tra il cambiamento di componenti della preoccupazione per l’ immagine corporea che si verifica durante il trattamento e il cambiamento del centile di IMC nel tempo. Se interpretato alla luce del suo modello teorico di riferimento, questo risultato conferma che la CBT-E, come indicato nel manuale di trattamento originale, funziona nel suo complesso; in altre parole, il miglioramento del peso corporeo sembra essere mediato dalla applicazione complessiva della CBT-E piuttosto che dalle sue singole componenti. Riprendendo le parole di Fairburn, infatti, “la CBT-E non è semplicemente una collezione di tecniche: la somma è più delle sue parti”.

Lo studio ha, inoltre, mostrato come punteggi più alti al basale nelle componenti considerate predicessero punteggi più bassi nelle variabili “Preoccupazione per l’alimentazione”, “Restrizione alimentare” e nella psicopatologia generale al momento della dimissione. Ciò indica che la preoccupazione per l’ immagine corporea può giocare un ruolo centrale nel trattamento dell’esito del trattamento psicopatologico nei pazienti adolescenti con tale diagnosi.

Uno dei principali punti di forza di questo studio è dato dal numeroso campione di pazienti adolescenti con anoressia nervosa, che è stato possibile trattare con una terapia basata sull’evidenza e in un contesto reale. Inoltre, questo è il primo studio longitudinale che ha analizzato le specifiche componenti della preoccupazione per l’ immagine corporea e il loro ruolo negli esiti del trattamento in pazienti adolescenti con anoressia nervosa. Tuttavia, si possono riscontrare alcuni limiti dello studio: infatti, pur avendo raccolto i dati del centile di IMC ai follow-up, non è stata valutata la psicopatologia specifica in questi momenti. Inoltre, per valutare le diverse componenti della preoccupazione per l’ immagine corporea, sono stati selezionati solo alcuni item, come fatto in precedenza in altri studi che valutavano la preoccupazione per l’ immagine corporea in pazienti con disturbi dell’alimentazione. Ciononostante, i dati di questo studio risultano essere molto rilevanti, poiché da un lato fanno luce sui meccanismi che mantengono l’anoressia nervosa in pazienti adolescenti e dall’altro suggeriscono che la CBT-E intensiva è in grado di produrre una significativa riduzione della preoccupazione per l’ immagine corporea e della psicopatologia, oltre alla normalizzazione del peso corporeo, in circa l’80% dei pazienti al follow-up di 1 anno.

È importante, infine, sottolineare che lo studio fornisce anche un supporto all’ipotesi che la preoccupazione per l’ immagine corporea sia una caratteristica fondamentale della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, piuttosto che un semplice epifenomeno.

Autorealizzazione 2.0

In un mondo in cui la prestazione e il raggiungere i propri obiettivi a tutti i costi e con ogni mezzo, sono diventati due paradigmi fondamentali e costitutivi dell’uomo “moderno”, il concetto di autorealizzazione diventa quanto più ambiguo ma allo stesso tempo fondamentale.

 

Il concetto di autorealizzazione in psicologia fu un termine di rottura con quelle che erano state le teorie prettamente meccanicistiche, come psicanalisi e comportamentismo, che aprì le porte alla così detta psicologia umanistica.

Autorealizzazione 2.0: cosa significa realizzarsi oggi?

Il termine autorealizzazione stava ad indicare il divenire veramente e pienamente Se stessi, che trascende il soddisfare i soli bisogni istintuali (Rogers, 1970; Maslow, 1971). Guardando ora alle proposte della società contemporanea e alla propaganda dell’ autorealizzazione a tutti i costi non si possono non notare delle notevoli differenze nell’evoluzione, o involuzione per meglio dire, del concetto stesso. L’ autorealizzazione dell’uomo moderno nell’epoca della globalizzazione e di quella che Bauman definiva società liquida sembra essere legata a beni di consumo, dunque al possesso di oggetti materiali, al divertimento a tutti i costi o all’estremo opposto al dover essere vittime sacrificali della perfezione a tutti i costi, all’essere sempre in tempo e sempre aggiornati, ad apparire in un determinato modo per essere più appetibili su quello che è diventato il mercato sociale, dove social network come Facebook e Instagram mettono in saldo ogni giorno l’immagine distorta di chiunque, che allo stesso tempo spera di essere gradito a gran parte degli acquirenti.

Autorealizzazione: il significato originario

L’ autorealizzazione 2.0, niente di più lontano dal concetto di cui avevano parlato psicologi come Maslow o Rogers (Rogers, 1970; Maslow, 1974). Se per loro l’ autorealizzazione veniva dall’interno e aveva a che fare con il conoscere, accettare e far crescere ciò che realmente siamo, oggi è un processo estrinseco all’essere umano e proprio per questo più semplice da ottenere. Una volta ottenuta non genera quella gioia e quella pienezza che può dare il sentirsi veramente coerenti a se stessi, sentire che si sta dando il proprio contributo per rendere il mondo un posto migliore, anzi ci si sente spesso vuoti, depressi e senza uno scopo nella propria esistenza. Ciò che rende intimamente felice l’uomo non è il raggiungere facilmente degli obiettivi, ma che questi obiettivi ne valgano la pena, che appartengano realmente a se stessi e non agli altri.

Rogers descriveva una persona funzionante e orientata all’ autorealizzazione come: aperta e non difensiva, consapevole, che accetta se stessa, che riesce ad adattarsi in modo creativo alle novità, sa vivere con gli altri in armonia. Quante persone possono descriversi così?

Ripensare e rendere più umano il concetto di autorealizzazione e aprirlo a prospettive che vadano maggiormente incontro all’altro, con comportamenti pro sociali e di responsabilità civica e ambientale, servirebbe per capire ciò che realmente ci rende esseri umani, alla nostra essenza e come provare ad avvicinarsi alla felicità e alla gioia di vita.

 

È possibile che fumare troppo danneggi la vista? – Gli effetti del fumo sulla discriminazione dei colori

Stando a una recentissima ricerca della Rutgers University (Fernandes, Silverstein, Almeida & Santos, 2019) del New Jersey, è possibile che un consumo smodato di tabacco conduca gli individui a problemi visivi.

 

Il problema del fumo interessa milioni di persone in ogni parte del mondo. Si stima che nei soli Stati Uniti siano 34,3 milioni gli adulti che giornalmente fumano tabacco e circa 16 milioni le persone che si trovano ad affrontare una malattia, la maggior parte delle quali interessano l’apparato cardiovascolare, causata dal fumo. Stimando la popolazione degli USA in 300 milioni (approssimativamente), tali cifre indicano che 1 persona su 10 fuma ed 1 su 20 si ammala a causa del fumo. Tali cifre indicano l’esistenza di un problema reale e diffuso.

Fumo e capacità visive: lo studio

Lo studio ideato dai ricercatori della Rutgers ha coinvolto 71 persone considerate non smodatamente fumatrici (<15 sigarette al giorno) e 60 persone smodatamente fumatrici (>20 sigarette al giorno); i partecipanti avevano tra i 25 ed i 45 anni e nessuno di loro presentava problemi visivi. Gli autori dello studio hanno valutato come i soggetti sperimentali distinguessero i contrasti tra i vari colori mostrati su uno schermo di 19” posto a circa un metro e mezzo dal soggetto.

I ritrovamenti vanno nel senso delle ipotesi, nel senso che è stato riscontrato che il consumo smodato di una sostanza neurotossica (come il tabacco) comporta dei problemi visivi: in particolar modo i soggetti del gruppo di persone smodatamente fumatrici hanno avuto più problemi dei soggetti dell’altro gruppo nel discriminare tra i vari colori. Generalizzando, questo indicherebbe che un consumo eccessivo di sigarette può portare a una diminuzione delle capacità visive nei consumatori.

Fumo: l’impatto sulla vista

Nonostante la ricerca non abbia fornito una spiegazione a livello fisiologico del perché i fumatori accaniti mostrino dei problemi visivi, uno dei ricercatori, Silverstein, sostiene che questo sia dovuto a dei danni nei vasi sanguigni e nei neuroni a livello della retina che la nicotina ed il fumo sembrano creare, dato che è stato dimostrato che tali sostanze agiscano in modo dannoso sul sistema cardiovascolare.

Questo studio, pertanto, va ad aggiungersi alla lista delle ricerche che hanno dimostrato quanto il fumo sia dannoso. Di conseguenza diventano molto importanti gli interventi di salute pubblica mirati alla prevenzione: ad esempio potrebbero essere messi in atto dei programmi di informazione e sensibilizzazione sui rischi che porta il fumo, magari includendo anche i risultati di Fernandes e colleghi.

L’ incidenza della patologia psichica e la valutazione del rischio suicidario in carcere – Analisi di 128 casi di nuovi giunti presso la Casa Circondariale di Pistoia

Oggi si vuole che la pena detentiva abbia un carattere più rieducativo che retributivo. Cattive condizioni carcerarie possono non solo vanificare la funzione rieducativa della carcerazione, ma anche influire negativamente sullo stato di salute psichica dei detenuti

Marco Tanini, Letizia Bracali, Mario Salzano, Rosa Cirone, Loredana Stefanelli, Simona Leone, Federica Benifei, Giuseppe Pettenati

 

Il carcere è stato visto per anni come luogo dove scontare una pena retributiva: con questo termine si intende la sanzione erogata da un potere statale come corrispettivo per avere violato un comando dell’ordine giuridico, ed è la riaffermazione del diritto da parte dello Stato (Eusebi L. 1989).

Oggi si vuole che la pena detentiva abbia un carattere più rieducativo che retributivo, la sanzione rieducativa è capace di perseguire gli obiettivi di prevenzione e di controllo delle condotte umane che le vengono assegnati (Troncone P. 2006).

Cattive condizioni carcerarie possono non solo vanificare la funzione rieducativa della carcerazione, ma anche influire negativamente sullo stato di salute psichica dei detenuti.

La situazione delle carceri italiane e la sentenza Torreggiani

Ad interferire con la funzione riabilitativa della detenzione carceraria possono contribuire diversi fattori, tra queste ve ne è uno che ormai affligge praticamente tutte le strutture carcerarie italiane: il sovraffollamento (Ruotolo M. 2014). Relativamente al sovraffollamento delle carceri è utile ricordare la cd sentenza Torreggiani (Corte Europea Diritti dell’Uomo 2013) che ha condannato l’ Italia per il trattamento inumano e degradante cui erano sottoposti i detenuti in alcuni carceri a causa dell’ esiguo spazio in cui dovevano vivere.

Nella sentenza, secondo i giudici di Strasburgo, viene affermato che la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato.

Per ovviare al problema di nuove possibili condanne, che si traducono per lo stato italiano in risarcimenti pecuniari da versare come compenso per una inumana detenzione o in uno sconto di pena teso ad abbreviare l’ esposizione a condizioni di sovraffollamento carcerario, si è pensato di diminuire il tempo di permanenza dei detenuti all’ interno delle celle, questo avviene attraverso un modello che viene definito “di sorveglianza dinamica”.

La sorveglianza dinamica

Con le circolari 206745 e 36997, rispettivamente del 30 maggio 2012 e 29 gennaio 2013, è stato avviato un percorso di cambiamento del sistema organizzativo e gestionale dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro già preannunciato dai vertici del Dipartimento fin dal mese di aprile dello scorso anno. Un cambiamento strategico ed operativo che mira a recuperare compiutamente il senso della norma, costituzionale ed ordinamentale, richiamato anche dalle direttive europee e dalle recenti sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per trattamento inumano e/o degradante. La revisione dei circuiti penitenziari, accompagnata dalla razionalizzazione e diffusione delle buone prassi, già in essere in molte realtà penitenziarie, costituisce il presupposto del cambiamento auspicato nell’intero sistema penitenziario nazionale, attraverso il recupero consapevole da parte di tutta l’organizzazione, centrale e territoriale, del dettato normativo (Min. Grazia e Giustizia 2013).

L’introduzione della sorveglianza dinamica e del sistema a “custodia aperta” rappresenta un grandissimo cambiamento che ha recentemente investito il sistema carcerario italiano e che forse più di ogni altro ha inciso sull’esperienza della quotidianità detentiva dei ristretti e delle ristrette, nonché sul modus operandi della polizia penitenziaria. Si tratterebbe della apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14, la possibilità per gli stessi di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente all’infuori di essa e di usufruire di spazi più ampi per le attività e il contestuale mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia penitenziaria, non più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione della persona detenuta (Valentini E. 2011).

La casa circondariale di Pistoia e la Sorveglianza dinamica

La casa circondariale di Pistoia è una struttura in cui viene applicato il modello della sorveglianza dinamica, sulla popolazione dei nuovi giunti abbiamo deciso di intraprendere uno studio per verificare l’ incidenza di patologie psichiatriche, dipendenze e valutazione del rischio suicidario.

Materiale e metodi

Nel periodo compreso tra il 18 aprile 2016 e il 30 aprile 2017, sono stati condotti presso la C.C. di Pistoia 128 nuovi giunti provenienti dalla libertà. I nuovi giunti sono classificati tali secondo la Circolare “Tutela della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati ”, n. 3233/5683 del Ministero della Giustizia, del 30/12/1987.

Di essi sono state rilevate alcune caratteristiche sociodemografiche (età, cittadinanza, residenza, occupazione) e cliniche (la presenza di un disturbo psichiatrico di asse I, l’abitudine all’uso di sostanze e/o alcol, il rischio suicidario) e gli interventi, sia custodiali che specialistici, che si sono resi necessari nella loro gestione (grande sorveglianza, prescrizione di terapia psicotropa a scopo sintomatico, presa in cura, colloqui di supporto).

Risultati

Caratteristiche socio-demografiche del gruppo analizzato. Dei 128 nuovi giunti provenienti dalla libertà, 46 risultano possedere una cittadinanza italiana, 24 nigeriana, 23 cittadinanza marocchina, 15 albanese, 4 tunisina, 3 rumena, 3 egiziana, 2 peruviana, 2 brasiliana, 1 ungherese, 1 pakistana, 1 iraniana, 1giorgiana, 1 senegalese, 1 domenicana.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - imm1Imm. 1 – Nazionalità del campione

L’età dei nuovi giunti è compresa tra i 18 ed i 69 anni con una media di circa 34 anni. La fascia di età maggiormente rappresentata è quella compresa tra 25 e i 34 anni.

  • 18-24 anni 29
  • 25-34 anni 48
  • 35-44 anni 29
  • 45-55 anni 15
  • 55 anni 7

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm2Imm. 2 – Età del campione

Tra i nuovi giunti 22 risultano SFD e 73 sono disoccupati al momento dell’arresto, 1 solo nuovo giunto era studente ed 1 pensionato.

Valutazione e monitoraggio rischio suicidario

Tutti i nuovi giunti sono stati sottoposti a screening per il rischio suicidario attraverso la somministrazione della “Check List di Arboleda Florez e successive modifiche ed integrazioni” da parte del personale medico/infermieristico in occasione della visita di primo ingresso. Tale test di screening, che è specifico per la popolazione carceraria, non ha un cut-off definito ma una risposta affermativa ad una o più delle domande può indicare un rischio di suicidio maggiore, e quindi la necessità di un ulteriore intervento (il detenuto ha pregressi comportamenti suicidari; ha familiarità per suicidio; ha poche risorse di supporto; è stato segnalato rischio suicidario da parte delle forze dell’ordine al momento dell’ingresso; è affetto da patologia psichiatrica (preso in carico da un CSM o all’inizio di una presa in carico) è affetto da tossicodipendenza (preso in carico da un SerT o all’inizio di una presa in carico); sono presenti avversità significative recenti oltre la carcerazione; è presente forte conflittualità nella rete familiare o relazionale di riferimento; il detenuto ha lasciato in sospeso, a causa dell’arresto, situazioni importanti per la sua vita futura; è alla prima carcerazione).

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm3Imm. 3 – Item della checklist di ArboledaFlorez e successive modifiche ed integrazioni

Contemporaneamente vengono valutati i sintomi di rischio di suicidio imminente (ideazione suicidaria, elevata intenzionalità autosoppressiva, progetti concreti di realizzazione del suicidio, agitazione, disforia, impulsività, scarsa capacità di giudizio, gravi sintomi psichiatrici, tentativo di suicidio nelle ore precedenti ed in tal caso violenza, letalità e intenzionalità del tentativo, se siano state prese precauzioni per non essere salvato o il paziente si rammarica di essere salvato).

Per 111 nuovi giunti la check list ha dato un esito positivo ovvero almeno 1 item a cui viene data una risposta affermativa.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm4Imm. 4 – Positività della checklist

In caso di positività all’item riguardante la prima carcerazione la misura custodiale della Grande Sorveglianza è stata applicata indipendentemente dall’esito della valutazione clinica specialistica.

La definizione del livello di rischio è stata effettuata in base al risultato ottenuto dalla valutazione clinica e dalla check list secondo la seguente tabella:

  • check list negativa e valutazione clinica negativa» rischio suicidario minimo/basso
  • check list negativa e valutazione clinica positiva oppure check list positiva e valutazione clinica negativa » rischio suicidario medio, check list positiva e valutazione clinica positiva» rischio suicidario alto/massimo.

Le valutazioni cliniche (mediche generali e specialistiche) sono risultate negative per ulteriori elementi di rischio suicidario oltre quelli rilevati nella check list nella maggior parte dei casi.

La distribuzione del rischio suicidario complessivo pertanto è risultata la seguente:

  • 17 detenuti a rischio basso
  • 106 detenuti a rischio medio
  • 5 detenuti a rischio alto.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm5Imm. 5 – Numerosità per ciascuna classe di rischio

Al fine di individuare precocemente i bisogni della persona ristretta e predisporre specifiche azioni di prevenzione del disagio e dell’autolesionismo, nonché per gestire e monitorare il rischio suicidario, viene istituito lo staff multidisciplinare.

Lo staff multidisciplinare è composto dal direttore dell’istituto, dal responsabile del presidio sanitario (o suo delegato), dallo psichiatra, dallo psicologo, dal responsabile dell’area trattamentale, dagli educatori, dal comandante di Polizia Penitenziaria ( o suo delegato). All’occorrenza vengono coinvolte altre figure professionali quali operatori del SerT, personale infermieristico, assistenti sociali e mediatori culturali.

Lo staff multidisciplinare si riunisce a cadenza settimanale e viene redatto apposito verbale contenente la sintesi del caso trattato e i provvedimenti/interventi che verranno adottati o revocati.

I provvedimenti di Grande Sorveglianza sono stati 101, di cui 66 per prima carcerazione, 2 per disagio psichico e prima carcerazione, 17 per valutazione e monitoraggio adattamento, 2 per tipo di reato, 4 per rischio autolesivo, 1 per alterazioni comportamentali indotte dall’ alcol, 9 per tossico/alcol dipendenza.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm6Imm. 6 – Motivazione per attivazione Grande Sorveglianza

In 3 casi, in seguito a valutazione da parte dello staff multidisciplinare è stato necessario incrementare il livello di sorveglianza custodiale a Grandissima Sorveglianza (in due casi per scompenso psicopatologico del detenuto ed in un caso per gravi alterazioni comportamentali alcol indotte).

I provvedimenti di Grandissima Sorveglianza per rischio suicidario alto sono stati 3; in due casi i detenuti avevano posto in essere agiti anticonservativi anche se di natura verosimilmente dimostrativa ed in un caso il detenuto aveva ulteriori elementi di rischio oltre quelli rilevati dalla check list (età avanzata, gravità del reato, importanti patologie mediche concomitanti.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm7Imm. 7 – Tipologia di sorveglianza adottata

Caratteristiche cliniche psichiatriche

Per 28 detenuti è stata necessaria una presa in cura, ovvero la prescrizione di terapia psicotropa specifica che richiedeva rivalutazione specialistica. Tra questi la, prescrizione avveniva, in 8 casi, in prima visita per continuità terapeutica: un paziente non era in carico al servizio territoriale ma in trattamento con farmaci specifici per un Disturbo d’Ansia Generalizzata, un altro era in carico ad un servizio territoriale per la salute mentale per uno Stato Misto del tono dell’umore in 6 casi i pazienti erano in trattamento con farmaci specifici per disturbo bipolare di tipo II, disturbo depressivo, DAP e claustrofobia, per disturbo d’Ansia Generalizzata e ex novo in 6 casi (uno per schizofrenia paranoide in deficit intellettivo, uno per intenso stato ansioso in un paziente con anamnesi positiva per gesti anticonservativ,i uno per alterazioni comportamentali in un paziente con sospetta diagnosi di schizofrenia e in due casi in cui si erano verificati agiti anticonservativi in un caso per discontrollo degli impulsi). In un caso la presa in cura è avvenuta in seguito ad ulteriori colloqui con il detenuto durante i quali il soggetto iniziava a manifestare ideazione anticonservativa.

Terapia sintomatica per lievi stati ansiosi ed insonnia è stata prescritta in 38 casi di cui 29 prima visita mentre in 9 si è resa necessaria successivamente.

Per 30 detenuti si è ritenuto opportuno provvedere a colloqui psichiatrici di supporto; per questi detenuti, infatti, non era stata necessaria la prescrizione di terapia psicotropa nemmeno a scopo sintomatico ma necessitavano di sostegno emotivo.

Dei 128 nuovi giunti, 43 hanno dichiarato uso di sostanze stupefacenti e tra questi 10 dichiaravano anche abuso di alcol. In 4 casi i detenuti dichiaravano esclusivamente abuso di alcol e non di sostanze. In 11 detenuti erano in carico al SerT territoriale al momento dell’arresto.

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Patologia psichica e valutazione del rischio suicidario in carcere - Imm8Imm. 8 – Confronto tra popolazione nuovi giunti e incidenza dipendenze

Per il nuovo giunto che, al momento della visita di primo ingresso, dichiari uso di sostanze stupefacenti, vengono contattati gli operatori del SerT Penitenziario.

Lo specialista in tossicologia medica, provvede a visitare il detenuto e dispone il prelievo di un campione urinario per la ricerca dei metaboliti delle più comuni sostanze di abuso. Nel caso il detenuto risultasse già in carico ad un servizio territoriale con diagnosi di tossico/alcoldipendenza accertata, lo specialista prende contatti con il servizio di riferimento per la continuità terapeutica ed assistenziale. Nel caso, invece, il detenuto non fosse in trattamento presso un SerT territoriale al momento dell’arresto, oltre alla valutazione clinica ed al prelievo urinario, viene effettuato un test estemporaneo sul campione urinario raccolto al fine di impostare precocemente il trattamento farmacologico più opportuno. Lo specialista, in ogni caso, imposta la frequenza delle successive visite mediche di controllo e dispone, se necessario, ulteriori interventi terapeutico-riabilitativi con il coinvolgimento dello psicologo SerT e dell’assistente sociale SerT.

Nel periodo preso in esame sono state eseguite le seguenti prestazioni:

  • visite specialistiche psichiatriche (1° visite): 107
  • visite specialistiche psichiatriche di controllo: 182
  • visite specialistiche psichiatriche: 16
  • colloquio psichiatrico (senza esame obiettivo): 26

Conclusioni

Il suicidio è la seconda causa di morte in carcere. E le scelte suicidarie, e anche quelle autolesive, sono in molti casi conseguenza non necessariamente di condizioni di patologia, quanto delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena (Regione Toscana 2015)

Già agli inizi del secolo scorso un’indagine svolta presso un carcere di massima sicurezza nello stato di New York aveva mostrato un tasso elevato di morbosità psichiatrica tra i detenuti, confermato in molti studi successivi. L’esempio più recente lo possiamo trovare in un lavoro del 2012, nel quale vengono riportate le stime della diffusione dei disturbi psicotici (3,6% degli uomini e 3,9% delle donne) e della depressione maggiore (rispettivamente 10,2% e 14,1%) nella popolazione detenuta. A questi, ovviamente, si aggiungono i disturbi da dipendenza da alcol (17-30% degli uomini e 10-24% delle donne) e da sostanze (rispettivamente 10-48% e 30-60%). (Fazel S 2006).

La maggioranza dei detenuti nel nostro gruppo di studio è di cittadinanza Italiana, tuttavia il numero degli stranieri con cittadinanza varia supera il numero degli italiani.

L’ età media della popolazione è di circa 34 anni; tale dato si associa ad un’ incidenza di patologia psichica decisamente più elevato rispetto a quello atteso per la popolazione non detenuta.

La valutazione del rischio di gesti autolesionistici effettuata con la Check list di ArboledaFlorez mostra un numero altissimo (87%) di detenuti che mostrano positività di almeno un item e che pertanto necessitano di ulteriori approfondimenti. In particolare, il dato relativo al rischio medio di suicidio risulta prevalere con un incidenza dell’ 83%.

È utile ricordare che una positività agli screening per il rischio autolesionistico obbliga l’ adozione di provvedimenti di aumento dell’ intensità di sorveglianza con tutte le problematiche che possono essere presenti nei carceri italiani afflitti da sovraffollamento.

Oltre alle patologie psichiche, anche le dipendenze sono estremamente frequenti.

Nonostante l’ alta incidenza di patologia psichica e/o di dipendenza il ricorso a richiesta di visite specialistiche psichiatriche appare al di sotto della media nazionale. Elemento questo che potrebbe essere correlato al modello di sorveglianza dinamica ed alle attività a cui i detenuti del carcere di Pistoia possono accedere.

Un modello detentivo incardinato sulla sorveglianza dinamica e su attività rieducative può quindi contribuire a migliorare lo stato di salute psichica del detenuto e forse a facilitare la rieducazione ed il reinserimento.

 

Psicoterapia psicodinamica e psicoanalisi – Introduzione alla Psicologia

La psicoterapia psicodinamica comprende diverse teorie oltre alla psicoanalisi, quali: la psicologia analitica Junghiana, la psicoanalisi Lacaniana e la psicologia individuale di Adler.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il modello psicodinamico è una branca della psicologia derivante dalla psicoanalisi classica.

Freud, fondatore della psicoanalisi, aveva coniato il termine metapsicologia per indicare l’insieme degli assunti teorici che costituiscono la teoria psicoanalitica.

Secondo la metapsicologia freudiana l’apparato psichico è rappresentato da tre diverse parti:

  • topico, che costituisce il luogo in cui si sviluppano i processi psicologici e le istanze. In una prima topica l’apparato psichico, secondo Freud, era diviso in inconscio, preconscio e conscio. Nella seconda topica il primo modello fu trasformato in Io, Es e Super io;
  • dinamico, secondo cui i fenomeni psichici derivano del conflitto di forze motivazionali antagoniste, tra cui le più rilevanti sono quelle mosse dall’inconscio, che prova costantemente ad accedere alla coscienza, ma è osteggiato da una forza contraria che ne impedisce l’attuazione dei contenuti.
  • economico, fa riferimento alle pulsioni divise in primarie, tipiche dell’Es che è determinato dal principio del piacere, e secondarie derivanti dell’Io, regolato dal principio di realtà.

Il modello psicodinamico, dunque, è una parte della metapsicologia e raggruppa le diverse correnti psicologiche che valorizzano i meccanismi psicogenetici alla base della costruzione psichica e del comportamento. Il termine psicodinamico, infatti, deriva dall’assunto teorico secondo il quale l’apparato psichico è visto come dinamico, ossia in movimento tra interno ed esterno, tra inconscio e conscio.

In sostanza, la psicoterapia psicodinamica origina dalla psicoanalisi, ma si evolve da essa, inglobando concetti e aspetti riferitesi a diverse teorie e modelli psicologici, che si concentrano principalmente sulle relazioni oggettuali dell’individuo e sulle pulsioni. La psicoterapia psicodinamica comprende diverse teorie tra cui si ricordano, oltre a Freud, la psicologia analitica Junghiana, la psicoanalisi Lacaniana e la psicologia individuale di Adler.

Le diverse branche teoriche all’interno della psicoterapia psicodinamica

La psicoterapia psicodinamica comprende quattro ampie aree teoriche di derivazione psicoanalitica:

  1. La psicologia dell’Io, derivata dalla teoria di Freud, secondo la quale il mondo intrapsichico è in conflitto tra le istanze, e questo conflitto provoca angoscia. Qui, entrano in gioco le difese che hanno lo scopo di proteggere l’Io contro le richieste istintuali dell’Es.
  2. La teoria delle relazioni oggettuali, che origina dal pensiero di Melanie Klein, Fairbairn, Winnicott e Balint. In base a questa teoria le pulsioni emergono nel contesto di una relazione e non possono essere mai separate da esse. Il conflitto inconscio, dunque, deriva dallo scontro tra coppie contrapposte di unità interne di relazioni oggettuali. Si formano, di conseguenza, dei Sé narrativi coerenti da cui si evincono diverse emozioni.
  3. La psicologia del Sé, fondata da Heinz Kohut e successivamente implementata, cerca di dimostrare che tutte le forme di psicopatologia si basano su difetti presenti nella struttura del Sé e che questi sono dovuti a disturbi delle relazioni Sé/oggetto-Sé verificatesi nell’infanzia. Secondo tale approccio le relazioni esterne facilitano il mantenimento di una buona autostima e una coesione del Sé.
  4. Le teorie post moderne e la teoria dell’attaccamento, in base alle quali la verità oggettiva è contenuta nel paziente, inserito in una diade, terapeuta–paziente che si scambiano le prospettive da diversi punti di vista. Inoltre, il tipo di attaccamento diventa il sistema motivazionale centrale nei primi anni di vita e muove il bambino a mantenere la vicinanza fisica alla figura di attaccamento per ottenerne la protezione e l’accudimento.

L’assunto di base

L’assunto di base della psicoterapia psicodinamica consiste nel considerare il comportamento dell’individuo come mosso da motivazioni, cause e dinamiche profonde o inconsce. L’interpretazione rappresenta, quindi, lo strumento di intervento principale per riuscire a modificare la presenza di comportamenti patologici. Per questo, i comportamenti realizzati quotidianamente derivano e risultano da queste forze inconsce che sono in relazione dinamica, fluida, tra loro.

Di conseguenza, il malessere psicologico è considerato come il risultato di un conflitto, nato da forze inconsce che tendono a palesarsi, e per questo sono soggette a un costante controllo esercitato da forze opposte e coscienti. Quindi, l’inconscio volge un ruolo fondamentale nel determinare il comportamento della persona ed è responsabile del benessere psichico. Ad esempio i sogni, i lapsus, le dimenticanze della vita quotidiana sono tutte manifestazioni inconsce che influenzano e determinano la vita di ogni persona.

Lo scopo della psicoterapia psicodinamica

Lo scopo della psicoterapia psicodinamica consiste nell’attribuire un nuovo significato alla storia di vita del paziente, partendo da una rivalutazione critica delle vicende individuali. L’individuo si sperimenta come attivo, dinamico, nel processo del proprio cambiamento, comprendendo le dinamiche patologiche che determinano il sintomo. Il sintomo a sua volta si manifesta nelle relazioni interpersonali e rende il rapporto con gli altri insoddisfacente.

La richiesta che la persona porta al terapeuta è di tipo emotivo e comprende aspetti di sé e della relazione con l’ambiente. Compito dello psicoterapeuta è di indagare i significati emotivi ed inconsci che il soggetto attribuisce agli eventi che lo circondano, alle problematiche che lo hanno indotto a richiedere il consulto. Lo psicoterapeuta, dunque, non deve riproporre gli stessi stili relazionali, poco adattivi, che il soggetto sperimenta nelle sue relazioni abituali, ma deve presentare al paziente una relazione nuova, svincolata da condizionamenti e pregiudizi, che disconfermi idee non del tutto razionali. Quindi, sperimentando una relazione diversa da quelle passate, i sintomi diventano sempre più consci alla persona. Di conseguenza, l’inconscio diventa conscio e si offre alla persona la possibilità di una scelta di vita più serena e consapevole. Lo scopo terapeutico è stato portato a termine.

Per concludere

Una psicoterapia psicodinamica ha come obiettivo quello di affrontare e curare il disagio e la sofferenza psichica ed emotiva, avendo come cornice teorica la psicoanalisi. Però, un percorso di psicoterapia psicodinamica si sviluppa meno di frequente e con una durata ridotta rispetto al vero e proprio trattamento psicoanalitico.

Il trattamento può durare un numero stabilito di incontri oppure variare in base alle esigenze del paziente. In ogni caso, un trattamento psicodinamico prevede non solo il trattamento dei sintomi, ma un intervento più ampio finalizzato allo sviluppo delle risorse personali.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le mie Ossessioni (2018) di Valentina Nocito – Recensione del libro

Le mie Ossessioni, che trae ispirazione nel titolo dall’opera di Silvio Pellico, è un libro che nasce dalle richieste di persone che si rivolgono all’autrice per Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

 

Il libro ha l’intento di fornire informazioni e consigli a coloro i quali soffrono di ossessioni e compulsioni con l’obiettivo di aiutarli a comprendere che si tratta di uno stile di pensiero che può essere riconducibile al DOC e che un aiuto professionale può rivelarsi utile.

La cornice teorica di riferimento è quella cognitivo-comportamentale.

Le mie ossessioni: le caratteristiche del funzionamento DOC

Il libro Le mie ossessioni esordisce con una descrizione delle caratteristiche di funzionamento tipiche del DOC proponendo anche fattori di sviluppo e mantenimento. La Nocito cita Salkovskis per aspetti relativi alla perdita, al pericolo e alla colpa implicati in questo tipo di disturbo. È inoltre ampiamente sottolineato lo stretto legame che intercorre tra pensieri, emozioni e comportamenti mostrando come questi si delineano nei meccanismi caratteristici del DOC.

Nel secondo capitolo sono riportati gli attuali criteri diagnostici del DOC proposti dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013). L’autrice offre poi una definizione di ossessionicompulsioni con relativa panoramica sui contenuti più comuni. Sono infatti illustrate ossessioni e compulsioni relativamente a: la paura del contagio, il controllo, l’accumulo, ordine e simmetria, un pensiero o un’immagine su comportamenti indesiderati inaccettabili (come pensieri a contenuto aggressivo o sessuale) e pensieri superstiziosi. L’autrice, portando esempi derivanti dalla pratica clinica, mostra come non sia infrequente che più ossessioni e compulsioni possano coesistere in una stessa persona.

Nel terzo capitolo, centrato sul senso di colpa e il senso morale che caratterizza il pensiero del DOC, è proposto un legame con il contesto cattolico e viene riportato un esempio di un paziente.

Le mie ossessioni: la terapia cognitivo-comportamentale

L’ultima parte del libro è dedicata ad un approfondimento sulla Terapia Cognitivo-Comportamentale la quale è basata sulle componenti cognitive – emotive – comportamentali del disturbo. Nello specifico, è illustrata la tecnica dell’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) in cui la persona viene esposta (in immaginazione o in vivo) difronte al proprio dubbio. Il capitolo è arricchito da brevi esempi di applicazione dell’ERP per i vari contenuti di ossessioni e compulsioni.

Infine, partendo dagli 8 passi di Buddha, è presente un approfondimento sulla Mindfulness, una tecnica che ricade nella Terapia Cognitivo-Comportamentale di terza generazione ed applicabile nel trattamento del DOC. Ne vengono illustrati gli obiettivi generali senza ricorrere a particolari esempi riferiti al DOC.

A conclusione del libro la Nocito sottolinea come aspetti normali, quali l‘attenzione per igiene, se esasperati e irrigiditi (ad esempio dedicando molte ore al giorno ai lavaggi) possono diventare disadattivi. Proprio per questo il lettore è invitato a chiedere un confronto con un professionista in grado di guidarlo nell’intricato labirinto di dubbi in cui quotidianamente si trova.

Questo breve testo, scritto con un linguaggio semplice e accessibile, si può considerare uno strumento per divulgare una maggiore conoscenza e consapevolezza su quello che è il DOC.

Virtual Reality: trattare le fobie nei pazienti con disturbo dello spettro autistico

L’uso della realtà virtuale può essere un utile strumento per adattare la terapia alle caratteristiche di particolari tipologie di pazienti, come nel trattamento delle fobie specifiche in pazienti con autismo.

Adriano Mauro Ellena

 

Un recente studio pilota condotto su soggetti adulti affetti da autismo ha mostrato interessanti risultati rispetto al trattamento delle loro paure ed un significativo miglioramento della loro qualità di vita reale attraverso l’utilizzo della realtà virtuale (VR). In questo studio, l’utilizzo della realtà virtuale è stato associato ad una psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT).

Paure e fobie sono comuni nelle persone con disturbo dello spettro autistico e possono avere un impatto significativo sulla loro capacità di svolgere semplici attività quotidiane. Secondo i dati disponibili in letteratura, circa la metà dei bambini con disturbo dello spettro autistico soddisfano i criteri per almeno un disturbo d’ansia; tra i diversi tipi di disturbi d’ansia, la fobia specifica è la più comune, con stime di prevalenza che vanno dal 31 al 64%.

L’esposizione graduale a stimoli che causano ansia è un approccio ampiamente riconosciuto nel trattamento di questi disturbi nella popolazione generale, ma più volte ci si è chiesti se nell’applicazione di questo metodo con soggetti autistici potrebbero emergere particolari difficoltà, dal momento che l’esposizione in vivo (nella vita reale) potrebbe avere un impatto molto forte, e forse sconvolgente, sulle persone con autismo perché possa rivelarsi un trattamento efficace.

Lo studio

Per rispondere a questo interrogativo e trovare una risposta efficace al trattamento delle paure e delle fobie nei soggetti con autismo, alcuni ricercatori hanno sviluppato un primo studio volto a valutare l’efficacia di un intervento di targeting dell’ansia in cui si combinava terapia cognitivo-comportamentale ed esposizione attraverso la realtà virtuale. Siccome questo intervento ha riportato risultati positivi con giovani pazienti con un disturbo dello spettro autistico, i ricercatori hanno poi condotto un nuovo studio utilizzando lo stesso intervento con soggetti adulti affetti da autismo.

Lo studio ha coinvolto 8 soggetti adulti con autismo (con un’età compresa tra i 18 e 57 anni), i quali hanno partecipato ad una sessione di psico-educazione e poi a quattro sessioni, di 20 minuti ciascuna, di esposizione graduale con un terapeuta in una sala per l’immersione nella realtà virtuale. Il primo dato che è interessante notare è che tutti i partecipanti hanno completato tutte le sessioni di esposizione, ciò dimostra che questo tipo di intervento è sia pratico che accettabile, affermano i ricercatori.

Successivamente, il mantenimento dei risultati ottenuti con il trattamento è stato monitorato a distanza di sei settimane e di sei mesi dopo l’intervento. Sulla base di questi dati, 5 degli 8 partecipanti sono stati dunque classificati come “rispondenti all’intervento” e, a 6 mesi dalla conclusione del trattamento, hanno sperimentato miglioramenti funzionali della vita reale.

Questi risultati preliminari, pubblicati sulla rivista Autism in Adulthood, suggeriscono che l’esposizione effettuata attraverso la realtà virtuale insieme ad un trattamento CBT può costituire una modalità efficace nell’aiutare pazienti adulti autistici affetti da fobie specifiche.

Le fobie comunemente si co-verificano con l’ autismo e spesso causano un disagio significativo – ha detto Christina Nicolaidis, professore associato di medicina e salute pubblica presso la Portland State University in Oregon – Nonostante i risultati siano molto preliminari, è emozionante vedere strategie innovative per un problema che è stato così difficile da trattare.

 

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