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Museo della follia, con Eppela sostegno al nuovo ospedale Stella Maris – Comunicato Stampa

Museo della follia: in occasione della mostra è possibile contribuire a realizzare una moderna piscina riabilitativa.

Eppela – Comunicato Stampa

 

Con l’apertura della mostra itinerante curata da Vittorio Sgarbi “Il Museo della Follia” che dal 27 febbraio fa tappa a Lucca, prende il via anche una campagna di crowdfunding sulla piattaforma che coniuga cultura e solidarietà. Il sostegno alla campagna permetterà di devolvere parte del ricavato alla Fondazione Stella Maris per realizzare la piscina riabilitativa del nuovo ospedale dei bambini a Cisanello. La piscina sarà dotata di due vasche per una superficie complessiva di circa 80 metri quadrati, dotata di tutti i supporti necessari non solo per la riabilitazione dei bambini e degli adolescenti della Stella Maris ma per la ricerca scientifica in questo campo.

Museo della follia con Eppela a sostegno del nuovo ospedale Stella Maris

Ogni persona che vuole sostenere il progetto su Eppela può vedere la mostra e sostenere la ricerca: per ogni offerta che sarà ricevuta in crowdfunding, 1 euro sarà devoluto al nuovo ospedale dei bambini della Fondazione Stella Maris, una struttura che avrà elevati standard di accoglienza, comfort, sicurezza e tecnologia applicata alla diagnosi e alla terapia. Per chiunque decida di aderire alla campagna di crowfunding senza ricevere alcuna ricompensa, il totale dell’offerta sarà interamente devoluto alla Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa), unico istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) con sede in Toscana e il solo in Italia dedicato esclusivamente all’assistenza e alla ricerca nell’ambito della neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Un punto di riferimento nazionale e internazionale per tutte le famiglie.

La collaborazione con la piattaforma di crowfunding Eppela e con Museo della Follia che ringraziamo di cuore – dice l’avvocato Giuliano Maffei, presidente della Fondazione Stella Maris – permetterà a chiunque di partecipare alla mostra che si apre ora a Lucca e di contribuire direttamente alla realizzazione di un primo importante tassello del nuovo ospedale della Stella Maris di Cisanello, quello della piscina riabilitativa.

L’Irccs Fondazione Stella Maris è una dinamica realtà che opera nell’ambito della Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. L’integrazione della dimensione assistenziale con quella scientifica è potenziata dalla presenza dell’università di Pisa. Gli specialisti della Fondazione Stella Maris si avvalgono delle più moderne tecnologie e i laboratori sono all’avanguardia per tecniche, apparecchiature e settori di attività (medicina molecolare, Imaging a campo ultra alto, Bioingegneria, Tecnologie robotiche e meccatroniche…). La Stella Maris è sede di centri di riferimento per vari disturbi del neurosviluppo, tra i quali il centro per il trattamento della sindrome da iperattività/deficit di attenzione (Adhd), il centro ad alta Specializzazione per la diagnosi precoce e la presa in carico multiprofessionale dei disturbi dello spettro autistico, il servizio autorizzato al rilascio della certificazione per disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), il centro di riferimento per le malattie rare.

Ogni anno la Stella Maris ricovera migliaia di bambini e ragazzi provenienti da tutta Italia con disturbi neurologici e psichiatrici. Un paziente su 2 proviene da fuori Toscana. Le attività cliniche assistenziali dell’Ircss sono in costante aumento e sviluppo, basti pensare che in dieci anni i ricoveri sono aumentati del 55% e che il 50% dei pazienti ricoverati vengono da fuori Toscana; un dato questo che si attesta al 33% se si considera gli accessi ambulatoriali, che negli ultimi 5 anni hanno visto un incremento superiore al 100%. Attualmente sono oltre 56mila le prestazioni ambulatoriali, cliniche e di laboratorio, registrate ogni anno, a cui vanno aggiunti 3.500 ricoveri.

Il nuovo ospedale dei bambini

La Fondazione Stella Maris è impegnata nella realizzazione del nuovo Ospedale nell’area di via Bargagna a Cisanello, Pisa. Si tratta di una struttura che vuole creare un rapporto nuovo e di sostegno dell’intera famiglia. È il nuovo ospedale dalla forma “leggera”, vestito di vetro e di luce che la Fondazione sta realizzando nell’area di Cisanello a Pisa. Un complesso che non si impone, ma si inserisce armonicamente nel parco che lo attornia, come vele issate a guardare il cielo di uno speciale veliero bianco, a ricordare il viaggio del bambino nel percorso di cura. La nuova struttura avrà elevati standard di accoglienza, comfort, sicurezza e tecnologia applicata alla diagnosi e terapia. Proprio per la sua collocazione geografica il nuovo ospedale ospiterà anche bambini con gravissime patologie. Inserito nel complesso dell’area della ricerca e dell’assistenza biomedica di Cisanello, la Stella Maris svilupperà sinergie assistenziali con il policlinico multi-specialistico e potenzierà la ricerca con gli enti di ricerca pisani. Ma il piano di sviluppo della Fondazione è molto più corposo: dopo la nuova Casa Verde, un complesso architettonico che a San Miniato dialoga con il territorio in cui è immerso, a breve a Marina di Pisa Villa Giotto sarà ristrutturata per ospitare le strutture di Montalto di Fauglia.

Eppela è una piattaforma generalista di crowdfunding reward-based fondata nel 2011 da Nicola Lencioni. Grazie ai suoi 6mila progetti finanziati ed a un volume di offerte di 95 milioni di euro, Eppela si posiziona come la più importante piattaforma reward-based sul mercato italiano. La piattaforma costituisce una concreta opportunità di finanziamento per associazioni, Pmi e artigiani italiani ed in generale per chiunque voglia realizzare un’idea e sceglie di rivolgersi al popolo di internet per raccogliere le risorse necessarie. Eppela offre ai suoi stakeholder un servizio di advisoring completo, seguendo i progettisti con attenzione in ogni fase della campagna, aiutandoli a creare un’identità ed un piano di comunicazione di successo. Grazie al supporto che viene dato dalla piattaforma, il tasso di successo del finanziamento dei progetti arriva al 65%.

Museo della follia

La mostra itinerante è un percorso che unisce testimonianze degli ex ospedali psichiatrici italiani – tra i quali, il ‘nostro’ manicomio di Maggiano raccontato dallo scrittore e medico Mario Tobino – a opere d’arte di pittori o scultori ‘toccati’ dalla follia o che l’hanno scelta come soggetto. Il visitatore sarà accompagnato in un viaggio tematico lungo la storia dell’arte per arrivare, quindi, nella stanza dei ricordi: documenti, immagini, oggetti trattenuti nell’abbandono dell’ex manicomio di Teramo. E ancora, la stanza della griglia: oltre 15 metri di ritratti trovati nelle cartelle cliniche, illuminati da una suggestiva luce a neon. Dopo il modello in formato gigante di un ‘apribocca’, strumento usato negli ospedali psichiatrici, collegato al ritratto ‘L’adolescente’ di Silvestro Lega, si va avanti con la grande opera di Enrico Robusti e con lo spazio dedicato alle fotografie di Fabrizio Sclocchini. E ancora, l’installazione stereoscopica sugli spazi dell’ex ospedale psichiatrico di Mombello e i documentari video sulla legge 180 e su Franco Basaglia. Chiude il museo la videoinchiesta del Senato sugli ospedali psichiatrici giudiziari, contro il degrado di alcune strutture.

Padri dimenticati: la depressione post-partum negli uomini

Secondo un nuovo studio la depressione post-partum non colpisce esclusivamente le neo-mamme, ma può interessare anche i neo-papà.

Adriano Mauro Ellena

 

Sfortunatamente, la mancanza di informazioni sulla depressione post-partum maschile (PPD) ha reso difficile l’individuazione e il trattamento del fenomeno, così poco conosciuto tra gli uomini.

Depressione post-partum nei padri

La Depressione post-partum nei papà è in realtà molto comune, con oltre 3 milioni di casi all’anno in America, e i soggetti con diagnosi di PPD sono a maggior rischio di sviluppare una depressione maggiore più avanti nella vita. La PPD può anche rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di condotte problematiche, tra cui la diminuzione delle capacità genitoriali, l’abuso di sostanze e la violenza domestica.

Nel nuovo studio dell’Università del Nevada, a Las Vegas, i ricercatori hanno approfondito le problematiche dei padri e come possono superare le barriere. Le loro scoperte, che appaiono nel Journal of Family Issues, forniscono una visione dettagliata di nuove manifestazioni della depressione post-partum (PPD).

Tra il 5 e il 10% dei nuovi padri negli Stati Uniti soffre di Depressione post-partum, secondo i dati dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, dal 24 al 50 percento per gli uomini i cui partner soffrono di PPD.

Il team di ricerca guidato dal professor Dr. Brandon Eddy terapeuta di coppia e familiare, ha condotto questo studio qualitativo esaminando dati, provenienti da fonti secondarie come blog, siti Web, forum e chat room ed approfondendoli utilizzando una combinazione di metodi di analisi fenomenologica e del contenuto, in modo tale da comprendere le esperienze di depressione post-partum nei padri.

Depressione post-partum nei padri: i risultati nella ricerca

Dall’analisi dei questi dati sono emersi sei temi:

  • Necessità di maggiore informazione. I padri non sapevano che avrebbero potuto soffrire di PPD e furono sorpresi di apprendere che altri stavano vivendo la stessa condizione.
  • Adesione alle aspettative di genere. I padri tendevano ad aderire agli stereotipi di genere maschile e a comportarsi secondo lo stereotipo dell’uomo “macho”.
  • Repressione delle emozioni. I padri riferivano di essere riluttanti a condividere i loro sentimenti ed emozioni per paura di sembrare ridicoli con le proprie mogli
  • Sensazione di sovraccarico. Parimenti, riferivano difficoltà nell’esprimere le proprie sensazioni di confusione, sfinimento, impotenza, solitudine e la sensazione di essere intrappolati. I genitori spesso soffrono di carenza di sonno dopo la nascita del figlio, che può incrementare lo stress ed esacerbare i sintomi depressivi.
  • Risentimento ed emozioni negative nei confronti del bambino. Difficoltà ad ammettere ed esprimere emozioni negative riguardo la difficoltà del prendersi cura del figlio.
  • Sensazione di abbandono. I padri riferivano di sentirsi dimenticati e trascurati dalle loro mogli, dal sistema sanitario e dalla società.

Non esiste un luogo o un contesto veramente accettabile per gli uomini che rivelino pubblicamente di essere sfidati, molto meno scossi fino al midollo, da ciò che chiamano genitorialità improvvisa – hanno scritto i ricercatori dell’UNLV.

Questa ricerca fornisce informazioni utili che possono aiutare gli operatori sanitari, i ricercatori, i medici e le famiglie a comprendere l’esperienza della depressione post-partum paterna e ad affrontare meglio le sfide che queste famiglie devono affrontare.

Dal dono ai legami generazionali

Il regalare, il gesto del donare non è così banale come potrebbe a prima vista apparire: serve a stabilire legami interpersonali e sociali. Come ci informa Mauss (1922) il dono, inteso come lo scambio senza nessuna costrizione di carattere economico e commerciale, nelle società arcaiche e primitive serve a stabilire relazioni non solo con altri individui, ma costituisce il nucleo dell’intera organizzazione sociale.

 

Donare è prassi quotidiana.

Un gesto che facciamo:

  • al bar la mattina quando offriamo il caffè a un nostro amico o al nostro collega di lavoro;
  • quando invitiamo a pranzo o a cena una persona;
  • elargendo la mancia al cameriere;
  • dando la carità a un povero che incontriamo per strada;
  • in occasione di eventi importanti come matrimoni, battesimi, cresime, anniversari, compleanni, etc.etc.

Donare: scandisce momenti di vita e relazioni

Insomma sono innumerevoli le occasioni in cui ci troviamo a fare regali, a donare anche con piacere e soddisfazione personale. Allo stesso modo sono tanti i momenti in cui aspettiamo con ansia di ricevere un regalo ed è abbastanza evidente la nostra insoddisfazione quando non arriva. Pensiamo per un attimo ai bambini che aspettano impazienti in occasione delle feste comandate i loro regali e gli strepiti nel momento in cui non dovessero riceverli. In Sicilia, addirittura, in occasione della commemorazione dei defunti si soleva (oggi la tradizione si sta un po’ perdendo) portare di nascosto regali ai bambini facendoli passare come doni che venivano dai loro parenti defunti ponendo l’accento che la prassi del donare mette insieme vivi e morti (anche se come vedremo in questo gesto tradizionale, vi era un messaggio più importante e profondo). Per Natale viene Babbo Natale sulla sua slitta a portare i regali in base ai desideri espressi dagli stessi bambini. Babbo Natale viene la notte del 24 dicembre che per la religione cristiana è la notte del dono più grande: ovvero Dio dona se stesso agli uomini condividendone la natura. Grazia Deledda ne Il dono di Natale racconta con impareggiabile maestria il significato del regalo di Natale quando davanti alla curiosità di Felle, la sua amica Lia le dice “È il nostro primo fratellino ….. Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il Gloria. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte”.

I regali della Notte di Natale arrivano dal cielo ovvero mettono in contatto gli uomini con un mondo sconosciuto. Per l’Epifania è la befana a portare i regali distinguendo tra i bambini buoni cui dona ghiottonerie e quelli cattivi cui fa trovare il carbone. Sia la notte di Natale che per l’epifania – così come in Sicilia per la commemorazione dei defunti – i regali si avvolgono di mistero quasi di un potere magico in grado di mettere in contatto il conosciuto con il non conosciuto.

Donare: la funzione di questo gesto nei legami sociali

Infatti, il regalare, il gesto del donare non è così banale come potrebbe a prima vista apparire: serve a stabilire legami interpersonali e sociali. Come ci informa Mauss (1922) il dono, inteso come lo scambio senza nessuna costrizione di carattere economico e commerciale, nelle società arcaiche e primitive serve a stabilire relazioni non solo con altri individui, ma costituisce il nucleo dell’intera organizzazione sociale. Mauss studiando alcune società amerinde della costa del pacifico dell’America descrive una cerimonia chiamata potlach in cui gli organizzatori per mostrare la loro potenza economica distruggevano i loro beni considerati effimeri. Le tribù ospitate a loro volta si sentivano in dovere di contraccambiare organizzando anche loro una cerimonia in cui distruggevano anch’essi i loro beni.

La distruzione dei beni non era fine a se stessa. Infatti, come messo in risalto da Boasz, questo processo serviva anche a rendere evidente il rango sociale dei partecipanti al potlach. Al contrario di quanto avviene nelle società capitalistiche in cui per mostrare la propria posizione economica e sociale si accumulano quanto più beni possibili, nelle società primitive si alienavano i beni. Se ci riflettiamo un attimo ciò che avveniva nel potlach è simile a quanto prescritto nei vangeli e propugnato dalla chiesa cattolica. Gesù nelle sue predicazioni afferma che: è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago piuttosto che un ricco raggiunga il paradiso. Per meritarsi quest’ultimo per Gesù non solo si devono donare tutti i propri beni ma anche se stessi, così come Dio ha donato se stesso agli uomini facendosi uomo. Gli esseri umani per contraccambiare il dono di Dio devono, a loro volta, donarsi agli altri. Ecco che emergono le caratteristiche individuate da Mauss tipiche dell’atto del donare: “Donare, ricevere, contraccambiare”.

Secondo quest’autore al fine di costruire le relazioni interpersonali e sociali, al fine di fare comunità, vi è un legame che unisce il donatore al ricevente: se vi è un dono, vi è un ricevente che si sente in dovere di ricambiare. In questo modo il dono assume un valore simbolico che contiene in sé ciò che lo stesso autore ha individuato come “mana”. Quest’ultimo termine di origine malenisiana e hawaiana può essere tradotto come “forza vitale” o “forza che viene da dentro”. Mircea Eliade sostiene che per l’uomo arcaico un oggetto animato o inanimato che sia nel momento in cui si manifesta è dotato di una sua forza vitale. Il dono ha una sua forza vitale che gli dà il potere di stabilire il legame con l’altro attraverso il ciclo del donare, ricevere, ricambiare.

Donare nelle culture antiche

Il valore del dono come simbolo per costituire legami interpersonali e sociali, per moltissimi anni, anzi millenni, ha costituito l’asse portante e centrale dell’essere e del fare comunità. Infatti, oltre ai dettami della cultura cristiana cui abbiamo accennato, anche la cultura greca e in seguito quella romana hanno dato grande importanza al dono.

Nella Grecia antica, ad esempio, vi era un rituale definito “xenia”- ospitalità – che legava indissolubilmente l’ospite con l’ospitante e tale vincolo era trasmesso alle generazioni future. In sostanza, nella cultura greca ospitare era una prescrizione sacra tutelata da Zeus Xenios il quale garantiva che, a sua volta, l’ospitante possa ricevere in futuro lo stesso trattamento. Nell’Iliade Glauco e Diomede scesi a duello si fermano nel momento in cui Diomede indagando su Glauco scopre che suo padre Onei aveva ospitato in passato Bellofronte, antenato di Glauco e quindi i due gruppi erano legati dal vincolo di ospitalità e per tale motivo non potevano sfidarsi a duello. Diomede per dare significato al vincolo di ospitalità si rivolge a Glauco con la seguente frase: “Io sono per te in Argo ospite caro, tu in Licia, se mai io giunga tra quel popolo”. Un’interessante accezione del dono nasce nella cultura greca ed è quella di dono avvelenato in cui il protagonista per Omero diventa Ulisse. Quest’ultimo offre, insieme ai suoi compagni, il vino a Polifemo per ubriacarlo e accecarlo, e costruisce il famoso cavallo di Troia per sconfiggere definitivamente i troiani. Nell’ Eneide, Virgilio fa dire a Laoconte “timeo Danaos et dona ferentis” (Temo i greci anche quando/se portano doni) nel tentativo di dissuadere i troiani dall’accogliere il dono del cavallo e del trasportarlo dentro le mura. Il dono senza un ricambio, in altre parole quello a senso unico, è un dono ingannevole.

Dal dono avvelenato nasce la patologia nelle relazioni. Scabini e Greco, individuano il dono come forma di coercizione e controllo uno dei fattori scatenanti la suddetta patologia. Essi spiegano

nelle relazioni familiari positive, le persone sentono di dovere molto agli altri, ma tale obbligazione è più dell’ordine della gratitudine che della coercizione. La patologia invece si annida là dove l’obbligatorietà è coatta, e dove il rapporto costi/benifici regge la relazione strutturalmente e non episodicamente. Infatti, quando la coppia, o la famiglia, è ossessivamente centrata sul calcolo dare/avere, cioè sugli aspetti di controllo e reciprocità a breve termine produce relazioni disturbate (Scabini e Greco, 1999) .

Donare secondo Cicerone e Seneca

L’importanza del dono come modalità di interazione interpersonale e sociale nella cultura romana è messa in luce da due testi di Cicerone, De Officiis, e di Seneca, De Beneficiis. I due termini indicano rispettivamente il rapporto o la relazione che si viene a creare tra ricevente e donatore – officium – e quella tra donatore e ricevente (beneficium). A. Accardi, sostiene che ambedue gli autori costruiscono le loro opere sul beneficium come simbolo fondante “la società creando e mantenendo i legami interpersonali”. Per Cicerone il beneficium deve ispirarsi all’utilitas communis, mentre per Seneca sono

benevolentia e amor che soli possono garantire la salvaguardia della relazione e della reciprocità.

L’Accardi mette l’accento sul contraccambiare e su come Seneca sostiene che il beneficium stia nell’atto del donare anche quando non vi è nessuna restituzione. Se non c’è contraccambio, non si deve smettere di donare poiché, come sostiene Seneca, “nullum perit”. Al contrario, il donare senza ricevere niente in cambio porta a guadagnare virtù e sapienza. La perdita legata alla mancata restituzione, invece, inficia il legame poiché se dal beneficium ci si attende un ritorno vuol dire che si dona con ingratitudine. Per Seneca si deve donare con humanitas, senza nessun tipo di arroganza per evitare, da un lato, di mettere in difficoltà il ricevente e, dall’altro, di inserire il beneficium all’interno di un contesto di tipo economico come una pratica usuraia. Inoltre, in caso di mancata restituzione, bisogna perdonare il ricevente. Il termine officium, relativo al contraccambiare, indica un dovere vincolante alla stessa stregua di una norma giuridica. Cicerone afferma che

ricambiare un beneficio è anzi il più necessario fra tutti gli officia.

Infatti, se da un lato, si deve donare senza arroganza poiché il rischio è di scatenare nel ricevente una reazione violenta che può anche portare all’uccisione del donatore. Se si riceve senza contraccambiare, si passa come uomini poco onorevoli. Il donare, quindi, crea un obbligo nel ricevente tant’è che accettare un dono non è cosi semplice perché crea un obbligo. Lantano mette in luce che nella cultura latina il padre (ricordiamo qui che nell’antica Roma i figli erano dei padri) è il “beneficium datae vitae” che fa nascere un legame incondizionato e non risarcibile poiché

le eventuali controprestazioni che quest’ultimo potrebbe erogare a vantaggio del padre dipendono tutte, in ultima analisi, da quel primo beneficio paterno, senza dunque mai poterlo appieno eguagliare.

Il dare la vita, il dono della vita crea un legame inscindibile fra le generazioni. Non è un caso che i romani all’ingresso delle loro case costruivano l’edicola dei lari e dei penati di cui si occupava il capofamiglia offrendo loro quotidianamente il farro (principale cereale coltivato dai romani) e il sale. Il farro per i romani rappresenta le origini e il sale la conservazione della discendenza per cui il rituale del capofamiglia, sul piano simbolico, non fa altro che ricordare che la vita è un beneficio che va custodito e conservato lungo l’arco delle generazioni: la presenza dei lari e dei penati all’interno della casa non fa altro che richiamare il principio del dono della vita.

Donare nella società odierna

Dopo che per millenni il dono ha rappresentato, nelle più svariate culture, l’elemento principale del fare comunità con l’emergere della società industriale fin quasi ai nostri giorni prende corpo il concetto di utilità e il dono passa in secondo piano. Come messo in luce da molti studiosi emerge l’homo oeconomicus volto non tanto alla ricerca del bene comune ma del vantaggio individuale. Il dono, il regalo non ha valore di legame ma solo e semplicemente di utilità. Questa visione può essere riassunta da quanto sostenuto da A. Smith (considerato da molti il padre del capitalismo moderno)

Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, bensì al loro egoismo, e con loro non parliamo mai dei nostri bisogni, bensì dei loro vantaggi.

Nell’ambito di questa nuova visione anche il trasmettere la vita diventa un calcolo di tipo economico ovvero si devono analizzare i vantaggi e gli svantaggi della scelta. O. Fallaci, in Lettera a un bambino mai nato, ci offre una stupenda immagine letteraria del dramma di una donna in carriera che si di fronte al bivio di “dare la vita o negarla” risponde

molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato dalla guerra o da una malattia? …….. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere.

Dare la vita è il dono dei doni con profondi significati generazionali, antropologici e filogenetici. Eppure la società capitalistica riesce a mettere in crisi, in nome del presunto sviluppo, anche ciò che per millenni non è mai stato messo in discussione.

Donare: il richiamo ai bisogni più profondi

La rottura culturale e la messa in discussione dei principi che per due secoli hanno contraddistinto la società industriale avviene con la pubblicazione della “populorum progressio” di Paolo VI e, subito dopo, con la nascita a Parigi di un Movimento denominato MAUSS (movimento antiutilitarista nelle scienze sociali) del quale i maggiori esponenti sono Latouche, Godelier, Godbout e Caillè. L’intento del MAUSS è volto a dare corpo e visione a una società non più basata sull’egoismo dei singoli ma sulla condivisione così come viene a determinarsi nella circolarità del dono. Ciò che è messo in crisi è l’approccio metodologico sia di tipo speculativo sia olistico poiché cambia il paradigma di studio: non più l’interesse individuale ma la relazione, il legame che può essere vivificato attraverso il dono. Per dirla con E. Fromm, l’oggetto di studio non è più l’avere ma l’essere.

Bisogna liberarsi, utilizzando un’espressione di Latouche, di quel “martello economico” che ci batte la testa che guarda solo al soddisfacimento dei bisogni materiali ed economici. Ciò che si propone è un cambiamento epistemologico profondo in cui devono essere valorizzate altre dimensioni dell’esistenza umana anche perché la concezione economica dominante entra in profonda crisi dagli anni novanta. Ihab Hassan, scrive che bisogna chiudere con il

forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale.

Da questa breve esposizione possiamo notare che un gesto apparentemente semplice come fare un regalo, o donare, in effetti, ha forti implicazioni sul piano scientifico e che vede coinvolti quasi tutti i settori delle scienze umane dall’antropologia, alla sociologia, all’economia, alla psicologia, alla letteratura, etc. Ciò perche il donare crea i legami relazionali e sociali ed ha forti implicazioni sullo sviluppo umano e sociale. E’ attraverso il dono, ad esempio, che il bambino inizia il suo riconoscimento come essere culturale e sociale. E’ attraverso il dono che avvengono gli scambi e le trasmissioni generazionali e quindi, è un tema che deve essere attentamente studiato e analizzato. Lo scambio generazionale presuppone il dono della vita, il donarsi agli altri nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiati. Quando la fiducia e/o la speranza vengono meno o il dono è funesto ecco l’emergere, così come messo in luce dai numerosi studi sulla generatività da parte di Scabini e Cigoli, delle patologie individuali e/o relazionali.

Corti da legare: una pièce teatrale dedicata alla Psiconcologia

Cos’è la Psiconcologia? È l’area della psicologia che si occupa specificamente di offrire il necessario supporto al paziente affetto da tumore, ai familiari e all’équipe medica.

 

Nonostante l’importanza dell’argomento troppo poco ancora si parla di quanto gli interventi di natura psicologica siano fondamentali dell’affrontare un evento così drammatico come la diagnosi di malattia oncologica.

Psiconcologia: il teatro come contatto tra Corti da legare e Costellazione Cancro

L’associazione “Corti da legare”, in prima linea nel promuovere conoscenza ed informazione in merito al disagio psichico attraverso la forza evocativa del teatro, ha dedicato la terza serata della rassegna teatrale “Corti da legare” al tema della Psiconcologia.

In linea con il format della rassegna, ha avuto luogo, presso il Nuovo Teatro Orione di Roma, lo spettacolo teatrale “Il primo appuntamento”, scritto e diretto da Carlo Oldani, a cui ha fatto seguito un dibattito in cui gli esperti e il pubblico in sala si sono confrontati sul tema.

L’incontro sulla Psiconcologia è nato come momento di contatto tra la rassegna “Corti da legare” e la rassegna “Costellazione Cancro”, progetto incentrato sulla divulgazione e la corretta informazione rispetto al delicato tema della patologia tumorale.

Così come già avvenuto con gli spettacoli dedicati alla dipendenza sessuale e ai disturbi d’ansia il felice connubio tra psicologia e teatro ha dato vita ad uno spazio di condivisione e di riflessione.

Tante le emozioni messe in scena attraverso la vicenda di Luca, malato di Linfoma di Hodgkin, e della sua fidanzata Emma, interpretati con grande sensibilità da Igor Petrotto e Rebecca Sisti. Abbiamo assistito a come la diagnosi getta scompiglio e disperazione nella vita della giovane coppia, rievocando antiche ferite e minacciando i progetti di un futuro insieme.

Psiconcologia: la storia messa in scena

La storia dei due ragazzi si intreccia con quella del medico oncologo curante, a cui presta il volto Nika Perrone. Un’interpretazione toccante e intensa, che ci mostra una professionista lacerata tra la propria umanità e la profonda difficoltà a gestire l’impatto emotivo, oltre che quello strettamente medico, del percorso di cura. Si tratta di un medico che soffre e che sente il bisogno di trincerarsi dietro al proprio ruolo professionale nel tentativo di salvaguardare se stessa.

La conclusione positiva della vicenda lascia spazio ad uno strascico agrodolce di confessioni e tentativi di rientrare alla normalità; dopo un trauma di tale portata nulla sarà mai come prima, ma si può costruire su nuove basi.

Il dibattito, moderato dalla dott.ssa Federica Sortino, psicologa clinica presidentessa dell’Associazione Corti da Legare, e dall’autore e regista Carlo Oldani, ha visto sul palco, in qualità di esperte, la dott.ssa Silvia Tarsi, psicologa psicoterapeuta esperta in Psiconcologia e fondatrice dell’Associazione Lutto e Crescita, e la dott.ssa Flavia Lanni, psicologa clinica esperta in Psicologia del trauma e delle emergenze e psicoterapeuta in formazione.

Gli interventi delle esperte e del pubblico in sala hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale della Psiconcologia per trattare in modo adeguato le complesse dinamiche relazionali ed emotive legate alla diagnosi di tumore; spesso sia il malato che i familiari e i medici vengono, purtroppo, lasciati da soli nella gestione dell’emergenza. Le buone prassi di sostegno psicologico nei reparti oncologici non rappresentano la regola, ma dipendono, come accade di frequente anche in altri settori, dalle iniziative di privati, professionisti e associazioni, che cercano di colmare i vuoti e di dare risposta adeguata ai bisogni esistenti.

La rassegna “Corti da legare” proseguirà con nuovi incontri dedicati al disturbo borderline e alla dipendenza da Internet.

Meno male che sento dolore! – Il ruolo adattivo della sofferenza

Paradossalmente esperire dolore è un bene, ci consente di sopravvivere. Il non sperimentarlo affatto costituisce una patologia che può portare anche alla morte.

 

Paradossalmente esperire dolore è un bene, ci consente di sopravvivere.

La I.A.S.P. (Associazione Internazionale per lo studio del dolore) definisce il dolore come “una sgradevole esperienza sensoriale ed emotiva”, non c’è nulla di gradevole e tanto meno di desiderabile, nella percezione della sofferenza. Ma il non sperimentarla affatto costituisce una patologia che può portare anche alla morte.

Il ruolo del dolore nella nostra quotidianità

L’insensibilità congenita al dolore è una malattia rara che comporta l’incapacità di percepire la sofferenza fisica a causa di una mutazione genetica, esemplificativo è il caso della signorina C. (Pinel e Barnes, 2018).

La signorina C. era una studentessa universitaria che non sentiva dolore, non sperimentava sensibilità all’acqua ghiacciata o bollente, o in risposta a scosse elettriche; indifferenza che si estendeva anche a livello dei suoi indici fisiologici (battito cardiaco, pressione sanguigna). Mai uno starnuto o un colpo di tosse. Nella sua infanzia arrivò, tra le altre cose, a staccarsi la punta della lingua con un morso e ad ustionarsi restando impassibile.

Una vita senza il peso della sofferenza, apparentemente una vita idilliaca e agognata, ma C. morì a soli 29 anni in seguito a infezioni e traumi alla pelle e alle ossa.

Il dolore ha un ruolo adattivo, costituisce un sistema di allarme, avvisa rispetto a pericoli dai quali difendersi per evitarne conseguenze catastrofiche (Navratilova e Porreca, 2014). Alla ragazza del caso suddetto mancava tale meccanismo protettivo che la mettesse in guardia da traumi e infezioni, non permettendole di intervenire tempestivamente e curarli, ma lasciando che la condizione peggiorasse fino ad arrivare alla morte.

Ricerche recenti hanno individuato in un gene che influenza la sintesi dei canali ionici per il sodio la causa della patologia (Cox et al., 2006), ma diverse sono le alterazioni genetiche collegate all’analgesia (Nahorski, Chen e Woods, 2015).

Dolore e fattori cognitivi ed emotivi

Il dolore può essere controllato da fattori cognitivi ed emotivi (Pinel e Barnes, 2018), è quanto spiegato dalla teoria della barriera di controllo (Melzack e Wall, 1965); segnali cerebrali attiverebbero circuiti nervosi del midollo spinale bloccando l’esperienza sensoriale della sofferenza fisica.

Un ruolo predominante è svolto dal PAG (Grigio Periacqueduttale), come osservato in studi su ratti anestetizzati dalla sua semplice stimolazione (Reynolds, 1969). Sarebbero circuiti sensibili alle endorfine che discendono appunto dal PAG a contribuire alla modulazione della sensazione di dolore (Pinel e Barnes, 2018). L’output del PAG attiva neuroni serotoninergici dei nuclei del rafe, neuroni che eccitano interneuroni midollari sensibili agli oppiacei ostacolando la trasmissione dei segnali di dolore al corno dorsale (Basbaum e Fields, 1978).

Particolari condizioni di attenuazione della sofferenza

Un’alterazione della percezione del dolore può essere osservata in diverse situazioni stressanti. In alcuni riti religiosi, ad esempio, persone con uncini conficcati nella carne non esperiscono la sofferenza che si aspetterebbe osservare in una data situazione; in guerra, i soldati – nonostante le ferite gravi – hanno la soglia del dolore alterata e percepiscono poca sofferenza; in una situazione pericolosa, la percezione del dolore sembra sospesa per riattivarsi solo dopo la fine della situazione d’allerta (Pinel e Barnes, 2018). In generale, lo stress sembra associato a una ridotta percezione del dolore (Bohus et al., 2000), in particolare lo stato dissociativo che si accompagna alla situazione stressante provocherebbe, oltre che una maggiore attivazione fisiologica, un’alterazione dei sensi (tatto, vista e udito) e della propriocezione.

In risposta agli stressor si è osservata l’attivazione dell’ipotalamo che a sua volta determina l’attivazione di nuclei cerebrali e il rilascio di endorfina favorendo un effetto analgesico (Pinel e Barnes, 2018).

L’alterazione nocicettiva collegata a tali esperienze stressanti sottolinea il ruolo adattivo del dolore: non percependo dolore siamo in grado di mettere in atto comportamenti difensivi senza la “distrazione” della sofferenza, senza lasciare che il dolore ci paralizzi in una situazione d’allarme tale che potrebbe costare anche la vita (Molinari e Castelnuovo, 2010).

Come le diseguaglianze socio-economiche modificano le aspettative di mobilità sociale nei giovani

Nella società moderna resta attuale il mito del self-made man (ovvero l’uomo o donna che si è costruito da solo, partendo da poco o niente) e della mobilità sociale intesa come il cambio di livello socio-economico e il desiderio di vivere questo passaggio è ancora più desiderato grazie all’uso dei nuovi social media che propongono l’idea che chiunque possa essere il prossimo Influencer di turno..

 

Nascere in una famiglia con un livello socio-economico basso sembrerebbe rendere più difficile la possibilità di riuscire ad avere accesso a lavori ad alto reddito o a migliorare il proprio status socio-economico. Inoltre le persone nate in contesti svantaggiati avrebbero molta più probabilità di incorrere in comportamenti a rischio, come gravidanze adolescenziali o uso di sostanze.

Attraverso però processi di mobilità sociale (intesa come il passaggio da un livello socio-economico più basso ad uno più alto), anche chi nasce in contesti più svantaggiati può riuscire a fare un salto verso un livello socio-economico più alto. Questo incarna un po’ il sogno americano, il mito del self-made man: l’uomo che si è fatto da sé, che ha avuto successo partendo dal niente o dal poco.

Ma è effettivamente possibile la mobilità sociale? E soprattutto, quanto le diseguaglianze di base influenzano le aspettative delle persone?

Una recentissima ricerca del Boston College (Browman, Destin, Kearney & Levine, 2019) ha cercato di trovare una risposta a queste domande, integrando i metodi e le tecniche dell’economia con quelli della psicologia. Lo studio ha evidenziato che le diseguaglianze economiche a cui i giovani sono esposti fin da piccoli abbassano le aspettative di miglioramento. Tale riduzione si risolve in una diminuita probabilità di agire dei comportamenti che potrebbero favorire la mobilità sociale.

Economia e Psicologia: insieme per un cambiamento concreto

La novità della ricerca di Browman è stata quella di aver integrato ricerche sia economiche, le quali nel passato hanno evidenziato le conseguenze più negative del nascere in contesti svantaggiati, con studi condotti nel campo della psicologia. Riuscendo ad integrare questi due differenti campi di studio, che fino ad ora avevano investigato lo stesso fenomeno ma in parallelo, Browman e colleghi sono riusciti a dimostrare la diminuzione della motivazione a compiere comportamenti di mobilità sociale.

Questo risultato ha enormi implicazioni pratiche rispetto alle politiche volte a favorire la mobilità sociale dei ceti meno abbienti: ad esempio si potrebbero mettere in atto dei progetti che mirino ad aumentare le probabilità di agire dei comportamenti di mobilità sociale, come ad esempio dei programmi di tutoraggio.

Quello che in sostanza andrebbe fatto sarebbe di convincere i giovani provenienti da ceti meno abbienti che la mobilità sociale sia a tutti gli effetti possibile; ovviamente, come sostiene Browman, questo non andrà ad eliminare il problema ma sicuramente porterà dei miglioramenti.

Il desiderio sessuale come fenomeno complesso, espressione di una personalità adulta: non solo riflesso fisiologico ma attribuzione di significato

Il desiderio sessuale: quest’oggetto misterioso. Sembra, infatti, non esistere una definizione univoca ed esaustiva del desiderio sessuale.

 

Il desiderio è, per sua natura, soggettivo e difficile da delimitare, né tanto meno si può misurare come una quantità. Tuttavia, alcuni autori hanno tentato di definirlo, per dare la percezione di tale dimensione umana – fuggevole e mutevole quanto si voglia – ma ormai ineludibile dalla discussione scientifica nelle riflessioni sulle fasi della risposta sessuale.

Etimologicamente, il termine ‘desiderio’ deriva dal latino ‘de’-‘sidus’ il cui significato letterale si può rendere con ‘dall’alto delle stelle’, con un movimento verso il basso inteso quale tentativo di attualizzare il ‘possesso’ o il raggiungimento di quanto agognato. Il desiderio, in generale, è una tensione verso l’appagamento delle esigenze essenziali dell’uomo, quindi anche di quelle sessuali.

Per Levin (1994) si tratta di uno strumento mentale attivato e insoddisfatto, variabile nell’intensità, provocato da stimoli esterni (attraverso gli organi di senso) o interni (attraverso l’immaginazione, la memoria, le capacità associative, e cognitive) che induce la sensazione di bisogno.

Quel che si intende sottolineare è che il desiderio sessuale è una funzione psichica superiore, non spiegabile unicamente in base ad un modello ormonale, biologico, come meccanica attualizzazione di fasi estrali, il cui stile espressivo è sì manifestazione delle caratteristiche biologiche, dell’ereditarietà, dello stato ormonale attuale, ma è altresì espressione della capacità – peculiarità esclusiva della specie umana – di dare significato al comportamento e rilevanza all’aspetto relazionale. Il desiderio nasce, infatti, da fattori biologici, psichici e relazionali.

Sesso e motivazione

Un notevole interesse suscita la posizione affatto originale di un autore, Schnarch, il quale descrive il desiderio sessuale come:

La forma più complessa di motivazione sessuale di tutti gli esseri viventi. È una combinazione di programmazione genetica e di variabili legate all’esperienza di vita, che producono le più sofisticate sfumature e varietà di sesso sulla faccia del pianeta.

Fondamentale è la motivazione alla base del desiderio: il desiderio può nascere da un senso di vuoto e in questo caso è teso ad evitare una solitudine o una frustrazione. Si tratta di un desiderio passivo, dalla natura compensatoria. Di contro, il desiderio può nascere anche da un senso di pienezza e in questo caso non nasce da un bisogno di essere riconosciuto, bensì dal desiderio di esprimersi, di mostrarsi per quello che si è. Questo tipo di sessualità dipende dalla maturità acquisita. Infatti, in chi si può incontrare questo tipo di desiderio se non in un essere umano adulto, altamente differenziato? Questo vuol dire che la sessualità dell’uomo adulto ha un significato profondo ed è correlata molto più alla maturazione personale che ai meri riflessi fisiologici.

Questo a motivo del fatto che la specie umana, unica tra le specie viventi, ha sviluppato la neocorteccia che regola il linguaggio, il concetto di Sé e l’autocoscienza. Pertanto si estende all’ambito sessuale la nostra peculiare capacità di dare un significato alle cose. La neocorteccia influenza la sessualità e di conseguenza il desiderio, cioè permette la modulazione degli impulsi. In quest’ottica, la carenza del desiderio sessuale viene vista come ‘normale’, come una fase normale dell’evoluzione di una coppia che sia emotivamente fusa (sanamente).

Ci sono studi che considerano il desiderio sessuale come un aspetto della personalità, definibile come un elemento “di tratto” o “di stato”. La differenza è abbastanza rilevante in quanto sembra implicita l’idea che – nel primo caso – esso sia una espressione della personalità dell’individuo e per questo motivo sempre presente nella persona, immutabile; nel secondo caso invece si può presumere che sia in relazione a situazioni contestuali che in qualche maniera lo elicitano e caratterizzano.

Fisiologia del desiderio

Le parti del cervello che sono in relazione con il desiderio sessuale sono tre e si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione: il cervello rettiliano, il cervello corticale e la neocorteccia. La prima è la parte posteriore del cervello, appena sopra il midollo spinale e regola le funzioni basilari quali la respirazione, la digestione, l’escrezione; la seconda parte è posta nella sezione mediana del cervello; infine, la neocorteccia, che ha costituito un’espansione della corteccia ed è situata nella sezione frontale.

Il desiderio sessuale ha le sue radici in tutte e tre queste parti in cui è ripartito il cervello e la parte del cervello coinvolta definisce il carattere del desiderio. In questo senso il desiderio sessuale e il conseguente comportamento sessuale rappresentano un fenomeno molto complesso: non si può enfatizzare un aspetto a discapito degli altri, anche se il nostro sistema culturale sottolinea più insistentemente l’aspetto rettiliano/corticale del desiderio sessuale. La complessità di questa variabile umana è mostrata anche dal fatto che – sia pure dal punto di vista semplicemente ormonale – alcuni ormoni che favoriscono il legame seguono anziché precedere il comportamento sessuale.

Il significato della differenziazione

Il paradigma teorico di Schnarch (2001) pone l’enfasi su una sessualità che si sottrae al modello del determinismo biologico – all’interno del quale la componente ormonale rappresentava il principale condizionamento per la risposta sessuale – e si focalizza sul suo significato più profondo, dipendente dalla maturazione personale dell’individuo, intesa come differenziazione personale.

Il termine differenziazione è preso a prestito alla biologia, con riferimento allo sviluppo cellulare. Le cellule originano, inizialmente, dallo stesso ‘materiale’ fino a quando iniziano a differenziarsi sviluppando delle proprietà peculiari per svolgere delle funzioni specifiche. Vi è separazione perciò delle funzioni vitali ma anche correlazione fra esse. Pertanto, maggiore è la differenziazione, più elevato livello di sofisticazione ha la forma di vita.

La differenziazione si riferisce allo sviluppo del Sé all’interno di una relazione di coppia. Questo sviluppo implica sia l’acquisizione di una individualità (affermazione delle istanze personali e realizzazione della unicità della propria identità) sia la relazionalità (ispirata al principio dell’appartenenza). L’equilibrio tra queste due forze evita il decadimento nella fusione emotiva.

Pertanto secondo Schnarch, la differenziazione ha a che fare con la capacità di mantenere il senso del Sé, nel rapporto con le altre persone, soprattutto con quelle più significative. Interessanti le parole testuali dell’Autore:

Le persone ben differenziate possono essere d’accordo senza sentirsi come se stessero ‘perdendo se stesse’ e possono essere in disaccordo senza sentirsi alienate e amareggiate. Esse possono stare unite con le persone che sono in disaccordo con loro, e ancora ‘sapere chi sono’. Non devono abbandonare la situazione per mantenere il loro senso del Sé. (La passione nel matrimonio. Sesso e intimità nelle relazioni d’amore, cit. p. 38).

Questo smaschera il velo ingannatore: due persone sembrano unite solo perché non ci sono contrasti al livello superficiale del rapporto; ma non è questa la reale natura dell’unione. In questo caso, separarsi o allontanarsi sono le uniche mosse percepite a difesa della personale identità e integrità, in un’unione che in realtà è compulsiva. In questo contesto, la separazione è la messa in atto di un comportamento reattivo. Questo significa considerare se stessi come dipendenti dalla relazione in essere. Paradossalmente, in un contesto relazionale invischiato, ciascuno perde la propria identità quando l’altro membro della coppia cambia, proprio perché l’identità dipende dalla relazione e non da un sano sviluppo individuale teso alla differenziazione.

Questo sviluppo verso la maturità è un processo che dura per tutta la vita, e non è automatico. Esso prende l’abbrivio dalle rispettive famiglie di origine e prosegue nelle scelte personali. Infatti, il livello base di differenziazione si stabilisce principalmente nell’adolescenza e potrebbe non evolversi ulteriormente. Se gli stessi genitori non sono molto differenziati possono creare rapporti troppo fusi o distanzianti con i propri figli: non li aiuta a sviluppare le loro abilità di pensare, di sentire, di agire per se stessi.

Essi apprendono a comportarsi soltanto come modi di reagire agli altri. […] Noi scegliamo sempre un partner coniugale che è al medesimo livello di differenziazione nostro. (Ivi, cit. p. 52-55)

Così, la problematica sessuale viene inscritta nel più ampio alveo dello sviluppo della persona. Il desiderio sessuale – o più precisamente la mancanza del desiderio sessuale – non può essere più considerato solo come un sintomo, ma il focus della relazione di coppia, misurando il grado dell’intimità che essa è capace di vivere.

Il padre simbolico e la sua funzione nelle istituzioni

Il ’68 e le sue contestazioni sono il manifesto di una ormai consolidata evaporazione della funzione paterna, che oggi però inizia a pesare in quanto la società senza il nome del padre non può perdurare se non nel Caos e in un mondo privo di leggi.

 

La visione che si aveva tempo fa del padre era quella di padre-padrone che possedeva un’autorità disciplinare e aveva nelle sue mani il potere nei confronti dei figli. La cultura patriarcale si basava su un sistema repressivo, che con gli anni è stato sempre maggiormente capovolto. Già nei primi anni del ‘900 con la comparsa nel panorama politico-storico di figure tiranniche e dispotiche, iniziano, dopo un periodo volto soprattutto al collettivismo e all’omologazione, le prime rivolte nei confronti del Padre, come colui che deteneva le Leggi, le Tradizioni, la Morale.

Nietzsche parlava della morte di Dio e con la morte di Dio, muore anche l’antico retaggio culturale del padre-padrone. Movimenti artistici e correnti filosofiche nel Novecento iniziano a sentire e a mostrare l’assenza del Padre, come della legge e si aprono le porte al nichilismo e al relativismo; basti pensare ai maestri del sospetto quali: Marx, Freud e Nietzsche, ma anche Einstein e scrittori come gli Apocalittici e i Futuristi in Italia ma anche più in generale appartenenti alla corrente del Decadentismo, che rifiutano completamente la funzione del padre e della vita sociale così come era stata prima concepita, percepita ormai come ipocrita e borghese.

Il ’68 e le sue contestazioni diventano il manifesto di una ormai consolidata evaporazione della funzione paterna, che oggi però inizia a pesare in quanto la società senza il nome del padre non può perdurare se non nel Caos e in un mondo privo di Leggi; l’assenza e la morte del padre non rendono fertile il terreno del desiderio e rendono l’esistenza dei figli sterile.

Non è la funzione paterna però ad essere morta, è il suo precedente valore simbolico legato a un tipo di cultura ormai superata ad essere morto, il padre e la sua funzione può essere dunque ricostruito e reinventato ma ciò può avvenire solo se responsabilmente il padre diventi testimone del proprio desiderio per rendere vivo il desiderio del figlio.

La funzione simbolica del padre

Il padre incarna la legge e la parola ed è appunto colui che umanizza la relazione con il figlio e che spezza la fusionalità narcisistica; è necessaria la parola, il linguaggio, per non rendere l’uomo simile all’animale. La funzione paterna, a differenza di quella materna che incarna la gratificazione, è anche simbolo della frustrazione, in quanto impone delle Leggi e delle Norme, cessa il godimento illimitato, ma proprio da lì nasce il desiderio.

Il padre volge il capo del figlio verso l’Altro e tramite il riconoscimento del figlio (“Tu sei mio figlio”) egli dona alla sua vita un senso, un valore. Il padre incarna per questo anche il desiderio dell’Altro, il figlio desiderio dell’altro, essere riconosciuto; essere riconosciuti significa incontrare la nostra singolarità che può avvenire solo grazie alla presenza dell’Altro.

Così come per la funzione materna anche quella paterna ha in sé alcuni rischi; infatti se da una parte la vita umana per essere tale non può prescindere dall’essere riconosciuta dal desiderio dell’Altro, dall’altra quando il desiderio patologico e spasmodico di essere riconosciuto assorbe tutta la vita del soggetto, accade un paradosso: il desiderio del figlio anziché trovarsi nel desiderio dell’Altro si smarrisce. Il desiderio del figlio si umanizza solo grazie al desiderio dell’Altro e attraverso il suo riconoscimento, ma allo stesso tempo il desiderio diventa anche “desiderio di avere un proprio desiderio”. L’identificarsi totalmente con il desiderio dell’Altro o al contrario non incontrare mai l’Altro, sono due forme sintomatiche di approcciare al paterno, l’una che porta all’annullamento di sé per essere completamente sottomesso e omologato al desiderio altrui, l’altro invece porta a rifiutare qualsiasi legame o dipendenza dal padre, annullando qualsiasi eredità. Bisogna sapersi servire del padre senza rinnegare qualsiasi legame con esso e senza prostrarsi continuamente al suo nome.

Il padre nelle istituzioni

Il nome del Padre, il linguaggio, l’Altro, in generale la funzione simbolica paterna fa in modo che il discorso del capitalista, quindi l’anti-discorso, non abiti l’istituzione rendendola mortifera. Infatti se non c’è il nome del Padre con le sue Leggi non ci sono limiti e non c’è freno al godimento e non può nascere il desiderio sia di chi lavora nell’istituzione sia dell’istituzione stessa, come per Bollas (2018), l’assenza del padre come funzione porterebbe all’uccisione della creatività, renderebbe l’uomo uno schiavo e ucciderebbe la soggettività nell’organizzazione.

Il lavoro porta l’individuo a confrontarsi con l’Altro umanizzandolo e ad essere riconosciuto inizialmente nel desiderio dell’Altro, seguendo norme, regole e prescrizioni, per poi prendere in mano il proprio di desiderio e quindi liberarsi dal peso della burocrazia, seguendo le regole e le norme in modo però puramente soggettivo e creativo.

La funzione paterna nel mondo del lavoro sublimizza le pulsioni, gli dà un limite e le rende vitali anziché mortifere, proprio grazie al simbolo del padre, il lavoro, se non alienante e se non conduce all’omologazione, può accendere il desiderio e quindi dare un senso all’esistenza dell’uomo.

Senza il padre l’istituzione, regolata da norme che gestiscono la reciprocità di ordine affettivo, non potrebbe realizzare l’obiettivo primario e non sarebbe più, rifacendoci alla visione di Girard (2011), il primo grande rito per ingannare la violenza, per disinnescare la pulsione di morte. Anche qui però se in un’istituzione vive soltanto la funzione paterna, si rischia che questa si fondi solo sul principio universale della limitazione del godimento, formando così però degli eserciti e un tipo di organizzazione piramidale, una deriva autoritaria, dove il desiderio viene mortificato. Come detto prima l’istituzione è ben funzionante quando funzione materna e paterna convivono reciprocamente.

 

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico: un problema nelle predizioni

Esiste una base biologica o evolutiva per la quale alcuni soggetti sono più esposti allo sviluppo di un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) rispetto ad altri? O è l’essere stati esposti ad un trauma a generare delle “tracce” che potrebbero fungere da marker diagnostici per la psicopatologia?

 

Un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Neuroscience, mostra come possa essere possibile combinare evidenze provenienti da diversi approcci per spiegare la relazione tra differenze individuali nell’apprendimento e gravità della sintomatologia relativa al trauma.

L’essere coinvolti in un evento traumatico quale ad esempio una violenza sessuale, un’aggressione fisica o una partecipazione militare in paesi sconvolti da guerre può avere effetti molto negativi e disabilitanti per la salute mentale.

A seguito del trauma esperito, alterazioni dell’arousal fisiologico e della reattività possono provocare reazioni stressanti, spropositate e non appropriate al contesto, oltre che una maggiore sensibilità a stimoli ambientali, neutri o ambigui, che tendono a venire percepiti come minacciosi o altamente pericolosi. I sintomi più comuni che possono manifestarsi a seguito di un evento traumatico sono solitamente legati alla riproposizione, anche dopo molto tempo dal suo verificarsi, dell’evento sotto forma di incubi notturni, immagini mentali o pensieri intrusivi che si ripresentano nell’arco della giornata in modo persistente e flashback in cui la persona ha di fatto la sensazione di rivivere l’evento traumatico.

Per fronteggiare questi sintomi, la persona sistematicamente mette in atto comportamenti di evitamento di tutti quegli stimoli che potrebbero rievocare il trauma o generare l’intensa paura provata durante l’evento traumatico; tuttavia il progressivo evitamento dei contesti e delle situazioni associate al trauma comporta progressivamente la riduzione dell’esplorazione ambientale e la comparsa di sintomi secondari di abbassamento del tono dell’umore in senso depressivo (Seriès, 2019).

La variabilità individuale nei confronti del trauma: un nuovo studio

La domanda a cui esperti e ricercatori in questo ambito cercano da sempre di rispondere riguarda il peso della variabilità e della sensibilità individuale nei confronti del trauma: esiste una base biologica o evolutiva per la quale alcuni soggetti sono più esposti allo sviluppo di un conseguente PTSD rispetto ad altri? O è l’essere stati esposti ad un trauma a generare delle “tracce” che potrebbero fungere da marker diagnostici per la psicopatologia?

Per cercare di rispondere a questa domanda, Homan, Levy, Schiller e colleghi (2019) del dipartimento di Medicina Comparativa, Neuroscienze e Psicologia dell’Università di Yale e della divisione di Neuroscienze Cliniche applicate al Veterans Affairs National Center for PTSD, hanno messo a punto un modello esplicativo della sintomatologia del PTSD combinando analisi morfologiche, funzionali, computazionali e psicofisiologiche.

Secondo gli autori, gli attuali modelli esplicativi proposti per il PTSD basati sul condizionamento avversivo, su anormalità nei processi di apprendimento, sul fallimento dei processi di estinzione o su deficit nell’acquisizione di associazioni specifiche tra cue ambientali e l’evento traumatico che determinerebbero l’ipergeneralizzazione dei sintomi ansiosi anche verso quegli stimoli ambientali che non sono associati all’evento traumatico, non sono in grado di chiarire o formalizzare i potenziali e specifici componenti di quelle anomalie nei processi di apprendimento che si osservano nel PTSD.

Lo studio di Homan e colleghi (2019), utilizzando il paradigma classico del condizionamento avversivo su un gruppo di 64 militari veterani, reso omogeneo sia per età, per genere che per diagnosi clinica fatta attraverso il CAPS (la Clinician-Administered PTSD Scale, aggiornata al DSM 5), è stato costituito da due fasi: una prima di apprendimento avversivo, nella quale i soggetti sperimentali sono stati istruiti ad associare determinati volti emotigeni a shock elettrici di lieve intensità e una di reversal learning, nella quale i cue precedentemente associati allo shock non venivano più presentati con quest’ultimo, “costringendo” così i soggetti a modificare e riaggiornare gli apprendimenti associativi appena avvenuti.

In particolare, quest’ultima fase ha permesso ai ricercatori l’esplorazione delle modalità attraverso le quali gli individui imparano a costruire predizioni circa il verificarsi dello shock, a partire dall’osservazione di un cue associato con esso e divenuto pertanto avversivo e la loro capacità di modificarle, aggiornarle o perderle in modo flessibile (Seriès, 2019).

Le prime evidenze ottenute hanno mostrato come indipendentemente dalla gravità dei sintomi di PTSD manifestati dai militari, il disturbo non aveva effetto né sull’acquisizione delle risposte condizionate né su quelle dopo la fase di reversal: tutti i soggetti hanno infatti dimostrato uguali capacità di apprendimento anche se sono emerse delle sottili e specifiche differenze interindividuali durante l’apprendimento di associazioni avversive (Homan, Levy, Schiller et al., 2019). Tali sottospecifiche sono state colte tramite l’unione di due modelli computazionali esplicativi dell’apprendimento per rinforzo, che si sono mostrate in linea con le registrazioni di conduttanza cutanea e con le analisi ottenute tramite fMRI.

Il primo modello d’apprendimento preso in riferimento si è focalizzato sul valore attribuito a ciascun cue durante l’apprendimento, valore continuamente aggiornato per ogni trial, basato sulle analisi computazionali compiute dal soggetto per stabilire se, per ogni predizione fatta, vi fosse una discrepanza tra quanto predetto e quanto invece realmente ottenuto. Il tutto misurato tramite l’errore di predizione.

Il secondo invece è stato utilizzato per descrivere e cogliere maggiormente il parametro di “associabilità” che permette di riflettere la quantità di attenzione da allocare a quegli stimoli “nuovi”, sorprendenti, ora predittori di altri outcome diversi da quelli precedentemente appresi, che costituiscono una modifica della predizione.

Conclusioni

Secondo questo modello, l’associabilità dinamicamente guida e modula l’apprendimento del valore accelerando quello di cue che predicono maggiormente un outcome e decelerando quello di quei cue le cui predizioni sono stabili e ormai affidabili: le associazioni più inaffidabili ricevono maggior attenzione in quanto potrebbero rivelarsi inaffidabili anche in futuro e dal momento che non prevedrebbero con certezza un outcome, necessitano in modo preferenziale di un aggiornamento non appena si rendono disponibili nuove informazioni nell’ambiente.

Dalla ricerca è emerso come i veterani che presentavano una maggiore gravità sintomatologica avessero assegnato un valore maggiore agli errori nelle predizione da loro fatte, in quanto probabilmente più sensibili alla loro identificazione; gli autori dello studio ipotizzano che ciò potrebbe essere dovuto al fatto che essi hanno la tendenza a porre maggiore attenzione e a sovrastimare quei cue che si rivelano fallibili.

A livello neurale, la ricerca di Homan e colleghi (2019) ha messo in luce come anche la computazione neurale, osservata tramite fMRI, si associ a questa valutazione alterata dell’errore nelle predizioni e contribuisca al manifestarsi della sintomatologia del PTSD: è stata infatti osservata nei veterani con alti punteggi al CAPS un’alterazione dell’attività neurale computazionale nello striato, a livello ippocampale e nella parte dorsale della corteccia cingolata anteriore.

Ciò suggerisce che l’alta attenzione allocata e l’alto peso assegnato agli errori di predizione quando diminuisce l’associabilità trial dopo trial, osservata nei veterani gravi, si possano sviluppare a seguito di quest’alterazione nelle regioni cerebrali appena citate, deputate alla computazione della minaccia (Li, Schiller et al., 2011) e ciò spiegherebbe anche l’esagerata reattività nei confronti di stimoli o eventi nuovi e inaspettati, così come il bias attentivo e l’avversione per l’ambiguità, nei confronti di informazioni negative percepite patologicamente come inevitabili e non prevedibili (Homan, Levy, Schiller et al., 2019).

Questo nuovo ed innovativo approccio che tenta di integrare e combinare insieme in un unicum, modelli diversi ed evidenze fisiologiche, neurobiologiche, computazionali e funzionali, ci consentirebbe di mettere in relazione quei marker latenti relativi ai processi interni d’apprendimento e di valutazione con le evidenze neuro funzionali che potrebbero costituire obiettivi specifici per lo studio e il trattamento della psicopatologia legata al trauma.

HIV: l’infezione potrà essere ridotta del 67% nel prossimo decennio

L’infezione da HIV colpisce più di 1,1 milioni di americani e ogni anno dal 2013 al 2017 ci sono state 40.000 nuove diagnosi.

 

Queste diagnosi erano altamente concentrate in alcuni gruppi di persone: quasi il 70% era tra uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM), il 50% tra persone che vivevano nel Sud e più del 40% tra gli afroamericani. Anche se si stima che l’incidenza sia diminuita del 15% durante il periodo 2008-2015, la prevalenza è aumentata di circa il 17% durante lo stesso periodo, indicando progressi inadeguati nel controllo dell’epidemia negli Stati Uniti.

Metodi e strumenti per la diagnosi e la prevenzione

Strumenti per la diagnosi, il trattamento e la prevenzione dell’HIV possono ridurre il fenomeno. Test per questo virus estremamente accurati sono disponibili in una varietà di contesti clinici e non clinici. Per le persone con questa diagnosi, le terapie antiretrovirali riducono notevolmente la morbilità e rendono trascurabile il rischio di trasmissione dell’HIV, se assunte coerentemente. Queste terapie sono state anche adattate per l’uso come pre-esposizione altamente efficace (PrEP) e profilassi post-esposizione (PEP). Oltre ai metodi biomedici, le strategie comportamentali, tra cui l’uso del preservativo e gli interventi di riduzione del danno, rimangono valide ed efficaci strategie per prevenire la trasmissione del virus.

Per questa ricerca si sono utilizzati i dati aggiornati di sorveglianza dei Centers for Disease Control and Prevention per stimare i parametri quantitativi degli obiettivi, ambiziosi ma raggiungibili, di prevenzione dell’HIV a livello nazionale.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista AIDS and Behavior.

HIV: la diffusione potrebbe essere ridotta, lo afferma uno studio americano

Si stima che le nuove infezioni da HIV potrebbero essere ridotte fino al 67% e la prevalenza potrebbe iniziare a diminuire entro il 2030 se il 95% degli obiettivi per la diagnosi, per la cura e per la soppressione virale saranno soddisfatti entro il 2025, ed un ulteriore 20% delle trasmissioni sarà evitato attraverso interventi mirati, come la profilassi pre-esposizione. In particolare, ciò richiederebbe modelli innovativi e una sostanziale espansione dei servizi di supporto. Anche se l’obiettivo di riduzione dell’incidenza di HIV del 90%, come svelato dallo State of the Union Address 2019 è probabilmente irraggiungibile con l’attuale kit di intervento, tuttavia è possibile iniziare a ridurre sostanzialmente la prevalenza dell’HIV nel prossimo decennio, con investimenti e innovazione sufficienti.

Secondo uno studio condotto dalla Georgia State University e dalla Università di Albany-SUNY gli interventi di prevenzione mirati per le persone a rischio di Human Immunodeficiency Virus sono rapidamente aumentati.

La Dott.ssa Heather Bradley, autrice principale dello studio e assistente alla cattedra della School of Public Health at Georgia, afferma che:

è importante stabilire obiettivi di prevenzione dell’HIV ambiziosi, ma realistici. È noto che trattare le persone che vivono con l’HIV migliora la loro salute e impedisce la trasmissione dell’infezione da HIV ad altri. Tuttavia, il trattamento di un numero sufficiente di persone per ridurre significativamente le nuove infezioni da HIV ci imporrà di affrontare problemi come povertà, alloggi instabili e condizioni di salute mentale, che impediscano alle persone affette da HIV di accedere alle cure.

Aumentando notevolmente il numero di persone che ricevono cure e trattamenti, combinati con strategie di prevenzione mirate per le persone a rischio di infezione da questo virus, potrebbero verificarsi riduzioni sostanziali delle nuove infezioni nel prossimo decennio.

Riscrivere le memorie funziona: un aiuto – vero – dalle neuroscienze

Affinché sia possibile l’elaborazione di un trauma, è importante che la traccia originale delle memorie traumatiche, localizzata nel nucleo dentato dell’ippocampo, venga riattivata perché si possa verificare la riduzione della paura remota ad essa connessa. In terapia questo trova applicazione nell’uso di tecniche immaginative con il paziente.

Delia Lenzi

 

Un esperimento del gruppo di Neuroscienze di Losanna guidato dal Prof. Johannes Gräffur definisce le basi e i processi neuronali che supportano l’uso di tecniche immaginative (Khalaf et al. Science, 2018) e ne dimostra l’efficacia. In questo esperimento sono state usate tecniche molto sofisticate capaci di localizzare prima e di studiare poi, in-vivo, i singoli neuroni del nucleo dentato dell’ippocampo dei topi, l’area coinvolta nella funzione di codifica, richiamo e riduzione della paura.

I topi sono stati geneticamente modificati inserendo nel loro DNA un gene “reporter”, cioè una proteina fluorescente (i geni sono le istruzioni per produrre proteine), che produce un segnale identificabile e misurabile ogni volta che il neurone si attiva. I ricercatori hanno quindi sottoposto i topi a una serie di stimoli dolorosi (shock elettrici) per indurre memorie traumatiche a lungo termine e hanno identificato la sottopopolazione di neuroni del nucleo dentato coinvolta nell’immagazzinamento di questo tipo di memorie.

A seguire, i topi sono stati sottoposti ad un training di riduzione della paura, simile a quello di esposizione utilizzato nei soggetti umani: passavano alcune sessioni nella gabbia dove erano stati “traumatizzati” ma senza lo stimolo doloroso.

Sorprendentemente, quando i ricercatori hanno guardato nuovamente nel cervello dei topi, hanno riscontrato che quelli che guarivano più velocemente erano i topi che durante l’esposizione avevano attivato maggiormente i neuroni contenenti la memoria del trauma.

Questo dato ha fatto ipotizzare che tale popolazione di neuroni fosse coinvolta sia nell’immagazzinamento che nel processo di attenuazione delle memorie traumatiche. Come controprova i ricercatori hanno ridotto selettivamente l’eccitabilità di questi neuroni contenenti la memoria traumatica durante la terapia espositiva e riscontrato che questi topi non mostravano attenuazione della paura (misurato in secondi di freezing), cosa che invece avveniva nei topi non modificati. Come controllo è stata ridotta l’eccitabilità di altre aree dell’ippocampo e questo effetto non si verificava. Infine, aumentando l’eccitabilità dei neuroni durante l’intervento terapeutico, il topo mostrava un’aumentata riduzione della paura.

Questo insieme di esperimenti ha dimostrato, in sintesi, che la traccia originale mnemonica della paura, localizzata nel nucleo dentato dell’ippocampo, deve essere riattivata affinché si possa verificare la riduzione della paura remota ad essa connessa.

Si tratta di dati che, è importante sottolineare, appaiono solidi e nitidi come di rado accade nell’ambito delle neuroscienze cognitive, dove spesso le difficoltà dovute alle infinite variabili e alla localizzazione di ciò che studiamo rendono gli studi sperimentali così complessi da essere difficilmente riproducibili.

Che implicazioni hanno questi risultati per la psicoterapia?

Negli umani, le memorie traumatiche – principalmente di tipo relazionale – sono la causa trasversale di numerose patologie psichiatriche; è stimato che circa un terzo della popolazione mondiale soffrirà di disordini legati allo stress o alla paura durante la loro vita.

Le immagini mentali legate ad esse sono componenti fondamentali dell’esperienza interna del paziente e ci forniscono dati importanti per la comprensione della sofferenza emotiva ma soprattutto sono un accesso vivo al sistema dei significati ad esse legati. Per questo le tecniche espositive ed immaginative con riscrittura delle memorie traumatiche sono tra le più efficaci e recentemente sono tornate in auge nella comunità cognitivista. (Hackmann, Bennett-Levy e Holmes, 2014; Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, 2019).

L’imagery consiste nel fare rievocare al paziente con l’immaginazione ricordi dolorosi del passato per poterli rielaborare e reinterpretare. In Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI) le tecniche di immaginazione sono uno strumento molto utilizzato per condurre il paziente verso la costruzione di schemi interpersonali più adattivi. La potenza di questa tecnica deriva dal fatto che può essere applicata a diverse fasi della terapia e all’interno di diverse procedure (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore 2019).

Quando in TMI (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) raccogliamo uno o più episodi narrativi facciamo una prima operazione di ricostruzione degli schemi disfunzionali alla base della sofferenza. L’episodio narrativo è un evento preciso, localizzato nel tempo e nello spazio, che ci permette di far emergere in modo chiaro e non distorto da generalizzazione ed intellettualizzazioni cosa il paziente prova in quel tipo di situazioni e in relazione agli altri. Ciò che ci interessa dell’episodio è la componente interpersonale: sulla scena appare il paziente, con un desiderio attivo (es. vorrei sentirmi amato), e l’Altro che nello schema patogeno solitamente risponde al desiderio in maniera disfunzionale (es. non è interessato), creando nella memoria del paziente previsioni “se… allora” del tipo: se desidero essere amato… incontro un Altro che non mi ama.

Utilizzare le tecniche immaginative sulle memorie relazionali che corrispondono agli schemi disfunzionali porta il paziente prima ad individuare in modo chiaro le varie componenti che li compongono: l’immagine di sé e le emozioni ad esse connesse e poi permette di modificare l’immagine di sé all’interno dello schema e non ultimo ad identificare risorse e parti sane che promuovono la comprensione della mente altrui e il decentramento. Questi sono gli elementi fondamentali per la costruzione di schemi interpersonali più funzionali e adattivi.

Detto in termini neurobiologici ipotizziamo – forti dei risultati dell’esperimento descritto – che attraverso l’immaginazione guidata stiamo riattivando i neuroni del nucleo dentato del paziente, custodi della memoria relazionale traumatica, per ridurre l’attivazione ansiosa ad essa connessa e preparare il campo per una nuova memoria relazionale.

E non stupiamoci se l’immagine che abbiamo di noi in questo momento è di un chirurgo sul campo operatorio.

Daniel Siegel: dal concetto di integrazione alla finestra di tolleranza – Introduzione alla Psicologia

Daniel Siegel è autore di diverse pubblicazioni, in Italia sono stati pubblicati diversi suoi libri, tra cui: La mente relazionale (2001), Errori da non ripetere (2005), Mindfulness e cervello (2009), Minsight (2011), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino con Tina Payne Bryson (2012).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La vita

Daniel J. Siegel è nato il 17 luglio 1957 negli stati uniti d’America. Egli ha conseguito la laurea in medicina presso la Harvard Medical School e ha completato la sua formazione post-lauream presso l’università della california, UCLA, specializzandosi in pediatria e psichiatria infantile, adolescenziale e per adulti. Siegel divenne un membro dell’istituto di ricerca per la salute mentale presso l’UCLA, dove svolgeva studi in merito alla relazione esistente tra tipo di attaccamento e emozioni, comportamento, e memoria.

Attualmente, è professore di psichiatria sempre presso l’UCLA ed è fondatore del Mindful Awareness Research Center. Inoltre, è direttore del centro Mindsight Institute, in cui si relizzano corsi di formazione per famiglie e comunità e anche del Life Span Learning Institute e dell’Advisory Board della Blue School di New York City, oltre ad essere membro del Consiglio di fondazione presso l’Istituto Garrison.

Siegel è autore di diverse pubblicazioni, tra cui il libro più note risulta essere: The Developing Mind: come le relazioni e il cervello interagiscono per dare forma a chi siamo, in cui, per la prima volta, si parla di neurobiologia interpersonale.

In Italia sono stati pubblicati diversi suoi libri, tra cui: La mente relazionale (2001), Errori da non ripetere (2005)Mindfulness e cervello(2009), Minsight (2011), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino con Tina Payne Bryson (2012).

Siegel è stato invitato a partecipare a diverse conferenze e convegni in ambito scientifico e non, ad esempio è stato ricevuto dal re di Thailandia, da Papa Giovanni Paolo II, dal Dalai Lama, etc.

Attualmente, Vive nel sud della California con la sua famiglia.

Il Pensiero di Siegel

Siegel è noto per il suo lavoro in ambito di neurobiologia interpersonale e per la mindfulness. Recentemente, ha integrato questi approcci proponendo una pratica volta ad armonizzare la parte interna ed esterna degli individui.

Alla base della teoria di Siegel si ha il concetto di integrazione, un processo che origina dal concetto di gerarchizzazione delle diverse parti del cervello. Siegel, dunque, si rifersce alla teoria del cervello tripartitico di McLean, in base alla quale esistono tre strutture cerebrali che sviluppano in diversi periodi cronologici, generando tre diverse parti del cervello: il troncoenecefalo, evolutivamente più antico; il sistema limbico sottocorticale, più recente rispetto al primo, e la neo-corteccia, ultima a formarsi.
La salute mentale dunque si ha quando le diverse parti sono integrate tra loro fino a rendere fluide tutte le componenti e le funzioni del cervello.

L’Integrazione tra le diverse strutture cerebrali porta alla integrazione della coscienza e delle diverse parti del sé.

Siegel, inoltre, introduce il concetto di finestra di tolleranza, legato alla sfera del tono dell’umore che varia durante l’arco della giornata rispettando un andamento sinusoidale, che varia a seconda delle diverse situazioni esterne che si verificano nell’arco della giornata. Fluttuare all’interno della finestra di tolleranza è normale, ma se si dovesse andare oltre, allora si ha uno stato chiamato disregolazione, ovvero perdita di controllo o apatia. Di conseguenza, si manifesta malessere psichico, che consiste nell’incapacità di trovare strategie di regolazione emotiva che consentano di rientrare all’interno della finestra di tolleranza.
Siegel sostiene che ognuno riesce a individuare la strategia propria per rientrare nella finestra di tolleranza, ma per fare questo è necessario possedere delle buone capacità di mastery, ovvero controllo dei propri stati interni. Inoltre, l’ampiezza della finestra di tolleranza varia con l’età per cui è minima alla nascita e massima in età adulta, solo nel caso in cui si è ottenuto uno sviluppo equilibrato, derivante da un attaccamento sano, che ha consentito una giusta tolleranza alla frustrazione, garantendo l’adeguata gestione degli sbalzi emotivi.

L’attaccamento, dunque, è considerato un processo innato, adattivo, biologicamente determinato, e induce in età adulta a stabilire relazioni simili al tipo di attaccamento infantile sviluppato. Le relazioni di attaccamento consentono al bambino di creare uno schema interno del Sé che è codificato a livello cerebrale e le esperienze infantili modellano i diversi circuiti cerebrali coinvolti. I neuroni attivati creano una mappa mentale o modello specifico di attivazione neurale, che richiama un’immagine mentale o sensoriale o una rappresentazione linguistica di un concetto. Secondo Siegel, si crea di conseguenza un sé emergente, un proto sé, determinato in gran parte da caratteristiche genetiche e innate. Questo senso di sé è radicato nel cervello così come nelle sue interazioni con l’ambiente e in relazione al funzionamento altrui. Inoltre, l’interazione con l’ambiente esterno consente al sé di evolversi e di avere un senso di coerenza essenziale per la crescita e, per questo, il sé diventa integrato.

Il modo in cui il cervello crea le immagini di sé e di altre menti è definita da Siegel mindsight. La mindsight è una capacità complessa che si sviluppa durante l’infanzia e che può essere arricchita durante l’intero arco di vita attraverso l’esperienza (Aitken e Trevarthen, 1997).

La mente, dunque, è un insieme di parti del cervello che funzionano in sinergia ovvero sono integrate tra loro. Quindi, se non esistesse un funzionamento ottimale, a causa di esperienze negative di attaccamento, la mente del bambino potrebbe funzionare come un sistema non integrato. Al contrario i bambini con attaccamento sicuro sembrano avere maggiori risultati durante il loro sviluppo (Cassidy & Shaver, 1999) come: flessibilità emotiva, funzionamento sociale e abilità cognitive. Esperienze e relazioni interpersonali sane, dunque, determinano un normale e naturale processo di resilienza, ovvero un risanamento a livello cerebrale di vecchie ferite impresse dalle esperienze. Questo processo di resilienza è definito sintonizzazione, inteso come la capacità di stabilire relazioni reciproche con gli altri sia a livello verbale sia emotivo sia comportamentale.

Chi presenta un attaccamento disorganizzato, invece, mostra diversi disagi emotivi, relazionali e cognitivi, oltre a una marcata predisposizione alla disregolazione. Quindi, la mancanza di esperienze precoci di sintonizzazione porta al manifestarsi di diverse forme dii disagio, di disregolazione, di scarsa resistenza allo stress, con effetti destabilizzanti anche sul sistema immunitario. L’insieme di questi effetti nocivi può causare una modifica nell’attivazione dei geni, la cosiddetta epigenesi. Quindi, la scelta di un percorso di attivazione piuttosto che un altro può essere influenzata da queste esperienze non sane, che potrebbero essere alla base del disagio psicologico.

Secondo Siegel una buona capacità di mindsight deriva dall’integrazione del funzionamento dell’emisfero destro e sinistro, La dissociazione, invece, si ha nel momento in cui si possiede una scarsa capacità di mindsight. Per cui, buone capacità cognitive e una buona integrazione tra le parti dovute a un attaccamento sano, migliorando la connessione tra i due emisferi e favoriscono la capacità di mindsight.

Se un individuo ha subito un trauma, la mente non è riuscita a integrare i vari aspetti delle esperienze traumatiche o di perdita, e in questi casi i comportamenti diventano riflessivi e la mente attua modelli di risposta inflessibili. Per questo, le emozioni possono inondare la mente e il comportamento consapevole diventa abbastanza alterato (Siegel, 2001). Ciò può produrre reazioni emotive eccessive, turbolenze interiori e un conseguente senso di vergogna e umiliazione. In tali condizioni, l’individuo può essere incline a manifestazioni di rabbia e aggressività o a mettere in atto comportamenti invadenti o violenti, mentre è gravemente compromessa la capacità dell’individuo di mantenere una comunicazione collaborativa con gli altri.

Mindfulness

In base a questi assunti teorici la psicopatologia e i disturbi mentali possono essere considerati come una conseguenza di un deficit di integrazione. Per questo, il terapeuta avrà il compito favorire l’integrazione nel paziente, per produrre maggiore benessere.

Secondo Siegel è possibile raggiungere questo scopo attraverso una consapevolezza mindful. Avere un atteggiamento mindful significa saper guidare consapevolmente la propria attenzione. Infatti, uno degli obiettivi della pratica mindfulness è di aumentare il grado di consapevolezza che consente di osservare il cambiamento, ma anche gli automatismi di pensiero, le emozioni e il modo in cui la mente si lega a questi aspetti mutevoli. Siegel sostiene che riuscire a stabilire una connessione con se stessi, vivere consapevolmente momento per momento, può attivare lo stesso meccanismo risanatore, a livello cerebrale, che si attua nel momento in cui si vivono delle esperienze terapeutiche. Si ottiene in questo modo una vera e propria integrazione neurale. 
Quindi, la mindfulness modifica il cervello promovendo la plasticità neurale e di conseguenza il cambiamento delle connessioni neurali in risposta all’esperienza.

La pratica della consapevolezza mindful coinvolge ed integra varie zone del cervello. Queste aree svolgono un ruolo fondamentale per il benessere, promuovendo funzioni importanti quali: la regolazione corporea, la comunicazione sintonizzata, l’equilibrio emotivo, la flessibilità della risposta, l’empatia, l’insight, la modulazione della paura, l’intuizione, la moralità (Siegel, 2001).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

L’Infanzia dei Dittatori (2018) di Véronique Chalmet – Recensione del libro

Véronique Chalmet, giornalista ed esperta di psicologia e criminologia, ha raccolto, ne L’Infanzia dei Dittatori, i vissuti infantili e le dinamiche familiari di dieci personaggi storici, conosciuti come sanguinari e violenti (Pol Pot, Idi Amin Dada, Stalin, Gheddafi, Hitler, Franco, Mao, Mussolini, Saddam Hussein e Bokassa).

 

Attraverso un linguaggio caratterizzato da un mescolamento di ironia e tragedia, l’autrice ha dimostrato che basta un solo uomo per cambiare la storia mondiale, per uccidere, sterminare e torturare una popolazione intera.

L’infanzia dei dittatori: che cosa li accomuna

In quasi tutte le loro storie d’infanzia si assiste ad uno scenario di estrema negatività; in particolare, questi bambini hanno vissuto in prima persona paure, ansie, frustrazioni e violenze sia fisiche che psichiche.

Nella maggior parte dei casi queste emozioni spiacevoli e queste violenze venivano provocate da padri perturbati psicologicamente, libertini, violenti, alcolizzati.

Pertanto l’assenza di un rapporto sano con i loro padri, ha portato questi personaggi a divenire adulti psicologicamente frustrati, perturbati, privi di empatia ed incapaci di instaurare relazioni interpersonali significative.

Ovviamente la Chalmet sottolinea che non tutti coloro che hanno subito abusi o violenze in età evolutiva diventano degli assassini assetati di potere e che questi elementi biografici rappresentano un fattore di rischio non da solo sufficiente a trasformare un bambino vessato in un dittatore sanguinario.

Oltre a un’infanzia che potremmo definire traumatica i dieci dittatori hanno vissuti comuni, tra cui: la crisi di una civiltà, una guerra e una rivoluzione. I suddetti avvenimenti sociali avrebbero contribuito all’innesco del delirio di onnipotenza, il quale era già dormiente nella psiche tormentata, debole e ferita di questi personaggi.

L’infanzia dei dittatori: le storie di chi ha insanguinato la storia

A Pol Pot, dittatore cambogiano, fu impartita un’educazione rigida ed improntata al rispetto per chi lo nutriva, caratterizzata da una repressione dei propri sentimenti. Sin da bambino si è dimostrato privo di qualsiasi talento, ma nonostante ciò ambizioso.

Idi Amin Dada, dittatore ugandese, è nato da una relazione extraconiugale. La madre era una strega e svolgeva dei rituali magici ma sanguinari, i quali perturbarono in modo non indifferente la psiche del figlio.

Proprio per questa ragione il signore di tutte le bestie della terra e di tutti i pesci del mare (come amava proclamarsi), riprodusse fedelmente quanto appreso dalla madre maga e quando non era abbastanza coinvolto in queste macabre torture, guardava volentieri i grandi classici di Walt Disney. Questo dimostra come i tratti infantili e quelli psicopatici possano coesistere.

Stalin, figlio ottenuto da una relazione extraconiugale, sin da quando era in fasce ha subito dei maltrattamenti da parte di un padre alcolista (conosciuto in tutto il paese come “Beso il Matto”) e di una madre di facili costumi. Entrambi lo picchiavano, il padre perché lo odiava, la madre perché lo amava.

Il padre, anche egli perturbato, mal sopportava che il figlio potesse avere un livello di istruzione superiore al suo, proprio per questa ragione lo picchiava e lo costringeva a lavorare come calzolaio.

Da adulto, l’incapacità di provare affetto e l’incapacità di legarsi alle persone, fa sì che il dittatore russo si disinteressi persino di suo figlio; infatti quando quest’ultimo fu rapito dai tedeschi, lo fece giustiziare perché rifiutò qualsiasi accordo. Giustificò questa azione ritenendo che gli affari di guerra erano affari di guerra.

Mu’ ammar Gheddafi, anch’egli figlio illegittimo di un aviatore francese, fu forse l’unico ad essere amato e viziato, forse fin troppo, dai suoi genitori e dalle sue sorelle. In quanto unico figlio maschio, mandato dal volere divino, secondo i loro genitori, avrebbe trovato da solo il suo avvenire e avrebbe fatto grandi cose.

Il “re dell’Africa” (come egli stesso si dichiarò), passò alla storia per aver ucciso molti uomini, le cui esecuzioni venivano trasmesse con regolarità in televisione, probabilmente per far intimorire chi non voleva piegarsi alla sua dittatura.

Hitler, figlio di genitori consaguinei, ha assistito sin da piccolo sia direttamente sia indirettamente alla violenza. Il “signor padre” (l’appellativo con cui si faceva chiamare) era un donnaiolo e spesso picchiava moglie e figlio.

Una volta, il piccolo Hitler, stanco di vedere soffrire la madre per le violenze fisiche, lanciò un coltello al padre e quest’ultimo lo picchiò talmente tanto da ridurlo quasi in fin di vita. Le innumerevoli violenze ricevute, Adolf, le riproduceva a scuola, infatti, picchiava i suoi compagni di scuola ebrei.

Ciò che il dittatore tedesco si porterà a vita sarà l’odio nei confronti del padre, tanto da distruggere il suo villaggio natale e da costruirci un poligono.

L’infanzia di Franco è anche essa cupa, fu educato in modo rigido e senza svaghi. Il padre aveva molte amanti e la madre era eccessivamente devota, tanto da inculcare il suo credo nel figlio. Non appena sarà diventato adulto, Franco, accecato dall’odio verso suo padre, lo rinnegherà.

Mao, costretto da suo padre a nutrirsi dei suoi avanzi, è anch’egli cresciuto in un clima di violenza e di ingiustizie. Una volta cresciuto, il rancore e l’odio nei confronti di suo padre saranno talmente forti, che lo porteranno ad affermare che non gli sarebbe dispiaciuto torturarlo per potersi vendicare di tutto il male che gli aveva fatto.

L’educazione di Mussolini è stata caratterizzata da una miscela tra violenza ed indottrinamento delle idee politiche del padre. Il padre del Duce era alcolizzato e tradiva spesso la moglie con tante donne e nonostante quest’ultima sapesse delle avventure del marito decise, comunque, di rimanere al suo fianco.

Mussolini eccelleva a scuola e nel teatro, però era un bullo, infatti picchiava senza pietà i suoi coetanei (come a volte faceva il padre per temprargli il carattere).

Saddam Hussein, era il figlio indesiderato ma mandato da Dio. Il padre abbandonò la madre quando scoprì che era incinta, la madre tentò diverse volte di abortire.

Nonostante gli innumerevoli tentativi, Saddam nacque e lei se ne lavò le mani lasciandolo nelle mani del patrigno. L’unico gesto d’amore che ricevette fu da suo zio, che gli regalò un’arma, che Saddam ultilizzò per compiere il suo primo omicidio.

Infine, l’infanzia di Bokassa, è stata segnata dalle torture dei colonizzatori francesi i quali costrinsero ai lavori forzati i suoi genitori e successivamente li uccisero. Il dittatore della Repubblica Centrafricana, crebbe con uno spirito di rivalsa e vendetta. Non appena si arruolò come militare ebbe successo e non appena depose suo cugino, divenne capo dello stato. Nel 1977 si fece incoronare attraverso un rito che si avvicina a quello di Napoleone Bonaparte. La sua carica durò tredici anni e il numero dei morti a suo carico tuttora è sconosciuto. Questo despota prediligeva torturare i prigionieri e quando erano ancora agonizzanti li gettava in pasto o ai leoni o ai coccodrilli.

Impose diverse le leggi, in particolare, costrinse i bambini ad indossare delle uniformi costosissime, tuttavia gli scolari che si opposero a Bokassa furono arrestati, torturati e uccisi.

Non appena i francesi vennero a sapere dell’accaduto gli tolsero il potere.

Le storie hanno un tratto comune, tutti sono stati convinti o dal loro narcisismo o da altre persone di essere degli individui eccezionali e tutti hanno avuto il potere di decidere sul destino dei propri connazionali.

L’autrice dimostra infine, come la mancanza di rimorso, di affetto, di compassione e di sensibilità sia ridondate in queste storie e correlata a difese psichiche attivate per far fronte alla traumaticità dei contesti relazionali in cui sono cresciuti.

 

Immagine corporea e consapevolezza interocettiva: quale relazione?

La percezione del proprio corpo è una fonte essenziale di autocoscienza e identità personale e contribuisce alla regolazione del comportamento ed al mantenimento della salute fisica e mentale.

Adriano Mauro Ellena

 

Il modo in cui viviamo e percepiamo il nostro corpo dipende dai segnali che questo ci invia, oltre che dalle informazioni esterocettive e dalla loro valutazione cognitiva ed affettiva.

La consapevolezza dei segnali interni del proprio corpo, come il battito del cuore o la frequenza respiratoria, può migliorare l’autoimmagine corporea.

Immagine corporea e consapevolezza interocettiva: lo studio

La scoperta deriva da uno studio britannico condotto su un campione di quasi 650 uomini e donne di età compresa tra 18 e 76 anni.

I ricercatori della Anglia Ruskin University spiegano che la consapevolezza interocettiva – la misura in cui le persone sono consapevoli dei segnali interni emessi dal corpo come battito cardiaco o sensazione di disagio o fame – sembra essere associata ad una miglior immagine corporea. Le loro scoperte sono state pubblicate nella rivista Body Image.

Mentre studi precedenti sull’argomento tendevano ad utilizzare campioni composti da piccoli gruppi di giovani donne, questo studio include entrambi i generi in una fascia di età molto ampia. I ricercatori hanno scoperto che le persone che possono sostenere l’attenzione verso i segnali interni del proprio corpo tendono a riportare livelli maggiori di immagine positiva del corpo.

Immagine corporea e consapevolezza interocettiva: i risultati e gli sviluppi futuri

È stato anche scoperto che le persone che si fidano dei segnali interni del proprio corpo hanno maggiori probabilità di avere una visione positiva del proprio fisico e sono meno preoccupate di poter essere in sovrappeso.

L’autrice principale, Jenny Todd, ha dichiarato:

Sfortunatamente, le esperienze di immagine negativa del corpo sono estremamente comuni, nella misura in cui alcuni studiosi considerano questa esperienza normale per le donne nella società occidentale.

La nostra ricerca trova associazioni tra la consapevolezza dei segnali interni del corpo e le misure dell’immagine corporea. Ciò potrebbe avere implicazioni per la promozione di un’immagine corporea positiva, ad esempio modificando la consapevolezza interocettiva attraverso pratiche basate sulla consapevolezza. Tuttavia, la ricerca dimostra anche che la relazione tra consapevolezza interocettiva e immagine corporea è complessa e richiede ulteriori approfondimenti.

La difficoltà di percepire la realtà della morte cerebrale e l’opposizione alla donazione di organi

Banalmente e volgarmente si potrebbe sintetizzare la definizione di morte come “l’unica cosa certa della vita”. Come tale e come simbolo di ignoto per eccellenza, da sempre l’uomo si interroga su questo fenomeno, provandone angoscia, paura, talora sollievo laddove la vita terrena non offra altro che sofferenza.

Alessandra Gottardello, Marco Tanini

 

Per secoli la morte ha rappresentato un argomento che poteva essere trattato, al di là delle dissertazioni filosofiche già presenti fin dall’antichità, solo dalla Chiesa (di qualunque credo), dalla teologia, dalla metafisica, mentre è solo a partire dal XVIII secolo, sulla spinta della rivoluzione illuministica, che ha origine una meditazione più o meno sistematica e scientifica sul tema, proprio in concomitanza della nascita e dello sviluppo della disciplina tanatologica (Sozzi M., 2014).

Lungo il percorso della storia, come si vedrà, molteplici saranno i criteri che si susseguiranno per stabilire il decesso e solo nella seconda metà del secolo scorso si proporrà quello tuttora accettato, almeno nel nostro Paese e seppur non senza dibattiti, della “morte cerebrale totale”.

Donazione degli organi: si parte dalla constatazione della morte

Per lungo tempo, l’ordinamento giuridico non avvertì la necessità di definire cosa fosse la morte; tanto meno, si riteneva la morte un momento che dovesse essere normato, facendo parte della naturale evoluzione della vita, così come la nascita (Pizzetti F.G., in De Ceglia F.P., 2014).

Solo con lo sviluppo, in particolare, delle tecniche rianimatorie, nonché delle possibilità offerte dalla trapiantologia, a partire soprattutto dalla seconda metà del XX secolo, la legge dovette codificare una disciplina che regolasse il momento in cui poteva considerarsi avvenuta la morte.

Infatti, fermo restando che la vita dell’individuo rimane il bene principale e a favore del quale bisogna profondere ogni sforzo atto a salvarla e preservarla, è necessario individuare il momento in cui si può considerare cessata l’esistenza di un soggetto.

Nell’evoluzione normativa si rintraccia un lungo percorso in cui si sono succeduti diversi criteri sulla base dei quali poteva avvenire la dichiarazione di morte di un individuo: dalla L. 644 del 1975 alla L. 578 del 1993, passando per l’emanazione della L. 91 del 1999 in materia di trapianti.

Constazione della morte prima e dopo della L. 578/1993

Il primo atto legislativo che è necessario citare qui è il R.D. 11 gennaio 1891, n. 42, che, agli articoli da 9 a 12, dispone un tempo minimo necessario di 24 ore di osservazione dal momento del presunto decesso prima di poter procedere ad autopsia, imbalsamazione, inumazione o cremazione della salma, salvi i casi in cui il medesimo periodo debba essere prolungato ad un massimo di 48 ore nelle morti improvvise o apparenti, ovvero, al contrario, possa essere ridotto a meno di 24 (nei decessi per malattie contagiose, in presenza di un corpo con evidenti segni di decomposizione o «per altre ragioni speciali»).

Dal brevissimo excursus storico relativo all’evoluzione della normativa di polizia mortuaria e le disposizioni sulle modalità per stabilire la morte di un individuo, appare nitidamente che gli atti sopra nominati avessero come fine precipuo quello di bilanciare le esigenze di scongiurare la sepoltura in vivo, da un lato, e quelle di sanità e igiene pubbliche, dall’altro.

Infatti, oltre ai periodi di osservazione di cui si è dato conto, non viene previsto nessun accertamento medico-legale per determinare il momento della morte. Le conoscenze tanatologiche sono ancora relativamente arretrate o scarse, così come le tecniche rianimatorie devono ancora svilupparsi appieno.

Tuttavia, nella seconda metà degli anni Cinquanta del ‘900, la prima legge sui trapianti introduce all’art. 4 la specifica locuzione «accertamento della realtà della morte», verifica necessaria per poter, in un successivo momento, procedere a prelevare gli organi da donare ad altri soggetti.

Tale accertamento, che deve essere effettuato secondo i criteri della semeiotica medico-legale, ai sensi del D.M. 7 novembre 1961 consta del tracciato elettrocardiotanatodiagnostico, metodo all’epoca ritenuto più rispondente a criteri di sicurezza di diagnosi precoce di morte e di praticità di applicazione. L’esecuzione di detto tracciato veniva assegnata a personale medico qualificato del settore.

Ecco che, dunque, viene introdotto per la prima volta, al di fuori delle leggi di polizia mortuaria peraltro, un primo metodo di accertamento della morte.

Tuttavia, è necessario precisare che, come si vedrà poco oltre, al fine di rendere utilizzabili gli organi potenzialmente prelevabili di quegli individui che, ora, vengono dichiarati morti senza che i più o meno lunghi periodi di osservazione siano spirati, il criterio della “morte cardiaca” rimane non utilizzabile, in quanto l’assenza di perfusione durante il periodo corrispondente a quello di osservazione renderebbe impossibile l’intervento.

Donazione degli organi: il D.M. agosto 1969 denota più attenzione ai trapianti

Pochi anni più tardi, con il D.M. 11 agosto 1969, accanto all’elettrocardiotanatodiagnosi, che rimane il metodo principale da adottare, ne viene introdotto uno ulteriore, limitatamente ai casi di «soggetti sottoposti a rianimazione per lesioni cerebrali primitive», per i quali dovrà essere effettuato il tracciato elettroencefalografico unitamente a mezzi della semeiotica neurologica clinica e strumentale determinati biennalmente dal Ministero della Salute su parere conforme del Consiglio Superiore della Sanità.

La ratio legis è evidente: oltre a raggiungere la certezza della morte del soggetto, si voleva preservare e potenziare la possibilità di procedere a trapianti che, proprio da quegli anni, guadagneranno un ruolo sempre più importante e incidente nella medicina moderna.

Siffatto accertamento verrà svolto da un collegio composto da un medico legale, un medico anestesista rianimatore e da un neurologo esperto in elettroencefalografia. Importante specificare che suddetti medici componenti il collegio accertatore non devono far parte dell’équipe che procederà, se del caso, al trapianto.

Si affaccia, dunque, il modello dell’accertamento elettroencefalografico come metodologia più adeguata alle tecniche e alle esigenze trapiantologiche, in quanto stabilire che la morte irreversibile è quella che sopraggiunge al cessare delle funzioni cerebrali e non cardiocircolatorie permette di risolvere in radice una basilare questione, non solo giuridica.

Infatti, nell’ipotesi di accoglimento della definizione di morte come arresto delle funzioni cardiocircolatorie, l’atto di procedere a espianto del cuore potrebbe essere posto in essere solo nel momento in cui l’organo risulti privo di battiti; ma, in tal caso, fisiologicamente, esso risulterebbe privo anche di flusso sanguigno, in probabile anossia, condizioni che pregiudicherebbero il buon esito dell’intervento. D’altro canto, per scongiurare il rischio di perdere la disponibilità dell’organo da trapiantare, si dovrebbe procedere a prelievo quando esso batta ancora, ossia quando il soggetto donatore tecnicamente risulta ancora vivo.

In altre parole, se la morte fosse diagnosticabile solo attraverso la rilevazione della cessazione delle funzioni cardiocircolatorie, l’espianto dell’organo cardiaco, come di tutti gli organi, ancora in funzione avrebbe comportato la violazione, da parte dei medici, del disposto dell’art. 5 c.c. che vieta tutti gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una lesione permanente dell’integrità psicofisica del soggetto, oltre che la loro esposizione alla legge penale, alla responsabilità civile e deontologica per un’ipotesi di omicidio (Puccini C., 2003).

Si comprende, dunque, che non era possibile sposare siffatta tesi, a meno di incorrere in seri problemi giuridici, bioetici e deontologici, i quali sarebbero, invece, appunto disinnescati nel momento in cui si considerasse la morte come cessazione delle funzioni cerebrali.

Così, paradossalmente, le medesime tecniche rianimatorie che nel frattempo si affinavano sempre più e sempre più permettevano di “riportare in vita” individui colpiti da blocco cardiorespiratorio, quindi rappresentando un potenziale quanto concreto paracadute, al tempo stesso rischiavano di costituire un ostacolo insormontabile ai fini dei trapianti: fintanto che il soggetto fosse stato mantenuto in vita tramite l’assistenza di macchinari per la respirazione, questi non sarebbe mai potuto essere considerato legalmente morto e, dunque, non avrebbe mai potuto candidarsi come donatore di organi.

La soluzione si palesò grazie al cosiddetto “rapporto di Harvard”, le cui conclusioni saranno poi accolte dal Legislatore negli anni successivi (Pizzetti F.G., in De Ceglia F.P., 2014).

Si può affermare, dunque, che i nuovi paradigmi stabiliti dai numerosi interventi legislativi e regolamentari succedutisi nel volgere di pochi anni sono stati introdotti non tanto o non solo per una sentita necessità di giungere ad una determinazione precisa della morte in risposta a bisogni “morali”, ma, piuttosto, per favorire lo sviluppo della nobilissima disciplina dei trapianti, sulla scia anche della storica svolta segnata dal primo trapianto di cuore eseguito in Sudafrica nel 1968 ad opera del dottor Christiann Neethling Barnard.

Si era resa improcrastinabile la necessità di approntare una normativa che consentisse, da un lato, da un punto di vista medico-scientifico, di “sfruttare” al meglio i potenziali organi disponibili ad essere reimpiantati in soggetti che ne necessitavano; da un altro, giuridicamente parlando, di fissare criteri certi e determinati per scongiurare possibili conseguenze circa responsabilità a vario titolo dei sanitari all’atto di prelevare organi vitali quando, in realtà, il donatore poteva essere considerato ancora in vita.

Morte cerebrale: il rapporto di Harvard e l’avvento della L. 578/1993

Ma è solo con la L. 578/1993 che viene chiarito, all’art. 1, che «la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».

Anche se all’art. 2 viene richiamata la morte derivante da arresto cardiaco, essa costituisce solamente una “specie” di morte, dovendosi procedere con le modalità di accertamento previste dalla norma. Sicché, si deduce, se l’arresto cardiaco e la conseguente interruzione della funzione circolatoria e respiratoria non produce la cessazione delle funzioni encefaliche, non è possibile dichiarare la morte del soggetto.

Ecco che, dunque, ora l’unico criterio di accertamento è quello della morte cerebrale.

Per il resto, la legge in oggetto ricalca quella del 1975, demandando a chiare lettere alla fonte regolamentare le modalità clinico-strumentali di accertamento della morte. Questa delegificazione è importante per fugare i dubbi, sorti in precedenza, se il tema de quo fosse contraddistinto da riserva di legge assoluta o relativa: è ora pacifico che il Legislatore fissa le linee fondamentali della disciplina, mentre gli atti regolamentari si occuperanno di quella di dettaglio (ciò che avveniva prima della Legge 644/1975).

Quindi, il D.M. dell’11 aprile 2008, che richiama in larghissima parte (ma formalmente lo sostituisce) quello del 22 agosto 1994, n. 582, emanato subito dopo la legge in parola, definisce nel dettaglio i requisiti clinico-strumentali per l’accertamento della morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a rianimazione e stabilisce un periodo di osservazione durante il quale deve perdurare la situazione richiesta pari a sei ore. All’inizio e alla fine di tale periodo deve essere compiuta la rilevazione della simultaneità delle condizioni richieste da parte di un collegio medico, laddove fino all’avvento del D.M. in parola ne era prevista una terza.

La presente legge e il presente decreto rappresentano oggi l’unico riferimento in materia di accertamento di morte, non mancando, comunque, di suscitare dubbi e critiche anche in capo alla giurisprudenza che, in verità, poche occasioni ha avuto per esternare la sua interpretazione del disposto normativo, nonostante i molteplici problemi sorti.

La differenza oggettiva tra morte biologica e morte clinica costituisce, quindi, il discrimen in base al quale sorge, in capo al Legislatore, la necessità di fissare dei criteri di fronte ai quali, pur non essendosi ancora raggiunta la prima, sia possibile dichiarare la seconda; criteri che devono rispondere, come si è già visto, a esigenze di irreversibilità, certezza, univocità, integralità e tempestività.

Donazione di organi e morte cerebrale

La difficoltà di percepire come morta una persona a cui continua a battere il cuore è l’elemento che determina gran parte del numero di opposizioni alla donazione di organi.

Nell’ anno 2016 il tasso di opposizione si è attestato al 32,8%, mentre nel 2017 questo è sceso al 28,7% con notevoli differenze a livello regionale.

Donazione degli organi e percezione della morte cerebrale img1

 

Incidenza tasso di opposizione in Italia anni 2016/2017

Importante è sottolineare che la morte in quanto tale consta di un’unica definizione, questa però può essere accertata con due metodiche differenti: da una parte la metodica diretta in cui si va a constatare la totale ed irreversibile distruzione dell’encefalo, l’altra indiretta in cui si presuppone che questa distruzione sia avvenuta in seguito alla verifica della cessata attività cardiaca.

l’ipotesi della scelta individuale del criterio

Pur considerando tutte le innumerevoli variabili presentate da ogni singolo caso, si può affermare che il primo atto post mortem è la constatazione del decesso, da cui discende il suo accertamento e, successivamente, la dichiarazione. Ognuno di questi ha un fine precipuo, che va da quello legale e amministrativo a quello puramente sanitario, con possibilità di sconfinare in sede medico-legale qualora si sia in presenza di reato o sospetto tale.

Ma se dal punto di vista medico-legale o tanatologico le questioni di difficile risoluzione sono casi isolati, si può affermare che i veri problemi risiedano a monte, ossia nella qualificazione e individuazione del momento in cui una persona può essere dichiarata morta.

Si è visto che la legge, in proposito, ha dovuto compiere una scelta di quali criteri ritenesse i più validi e certi per dichiarare morta una persona, ma non sono gli unici accoglibili. La stessa pronuncia della Corte costituzionale, di cui si è dato conto, offre il grado di molteplicità di scelte che possono essere compiute in merito, richiamando, sul finire della parte del considerato in diritto, il concetto di “tronco cerebrale”, la cessazione irreversibile delle funzionalità del quale rappresenterebbe il momento della morte.

In realtà, il tronco cerebrale costituisce solo una delle funzioni dell’encefalo, o meglio, la sua distruzione irreversibile sta alla base di una delle concezioni di morte che ancora oggi si contrappongono e contribuiscono a complicare il quadro della materia. Accanto a questa, si richiami la concezione secondo la quale la morte si identifica con la cessazione di tutte le attività encefaliche e quella che richiede la distruzione della corteccia cerebrale, quella che si ritiene essere la sede delle funzioni che connotano l’individuo (Cozzolino U. e Izzo F., 2012).

Oltre questi dubbi, ci si può chiedere anche se quello della Corte costituzionale, laddove parla di “tronco encefalico”, debba qualificarsi come errore o come tentativo consapevole di provare ad introdurre nell’ordinamento un differente concetto da quello di “morte cerebrale totale” accolto dal Legislatore del 1993, e nuove riflessioni si aprono de iure condendo alla luce del contemperamento di più interessi che, se del caso, dovranno essere tenuti in considerazione nell’ipotesi in cui si volessero modificare i criteri di definizione di morte.

Infatti, da un lato vi è il bene primario ed essenziale della vita, che deve essere sempre e quanto più salvaguardato e garantito anche in forza del dettato costituzionale; dall’altro la scienza dei trapianti, che non può essere né limitata, né implementata senza controllo.

Così, è stato prospettato, seguendo gli esempi di New Jersey e Giappone, di permettere a ognuno di decidere, magari in modo simile a quello previsto dalle disposizioni anticipate di trattamento (Di cui alla L. 22 dicembre 2017, n. 219, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), all’interno del ventaglio di possibilità ammesse dalla legge, con quale criterio dovrà essere dichiarata la propria morte, se in base alla cessazione delle funzioni cerebrali oppure a quelle cardiorespiratorie.

Scenario suggestivo questo, ma difficilmente attuabile se appena si consideri la difficoltà che potrebbero incontrare molti soggetti nella comprensione del complesso tema e, ancora più a monte, la necessità che i diversi criteri di morte entro cui scegliere dovrebbero comunque essere già accolti nell’ordinamento, poiché non è ipotizzabile un “trattamento fai da te” sul momento conclusivo dell’esistenza umana.

Essere brutte persone è molto (troppo?) facile. Ecco perchè

Essere brutte persone sarebbe la nostra innata tendenza di esseri umani. Nessuno escluso, saremmo tutti portati a dare il peggio di noi quando ci rapportiamo agli altri.

 

Lo afferma il neuroscienziato Christian Jarrett e ne avrebbe anche le prove.

Leggendo i 10 punti della ricerca di Jarrett riportati da Anna Maria Testa nell’articolo apparso recentemente su L’Internazionale, mi sorprendo a pensare in modo alternato: In effetti forse sarebbe meglio che il genere umano si estinguesse, oppure; Ma io credo nella capacità delle persone di trovare e dare il meglio di se!. Vengono in mente anche le teorie dell’approccio evoluzionista secondo cui per sopravvivere dobbiamo collaborare e cooperare con gli altri. Cooperare, aiutare ed essere empatici ci conviene. Lo sostengono anche alcuni studi neuroscientifici su altruismo ed empatia. Se ne sarebberro accorti i nostri antenati molto prima di arrivare alle forme di società attuali, perchè dovremmo averlo dimenticato proprio noi, oggi?

Essere brutte persone: ma gli altri sono peggio di me!

In effetti qualche dubbio sorge, confrontando quanto afferma Jarrett con le notizie di attualità. Secondo lui tutti tendiamo a considerare meno umane di noi le persone fragili, facenti parte di minoranze o appartenenti a culture molto diverse dalla nostra. E’ una tendenza molto pericolosa, specie se unita ad ignoranza e povertà e se al Governo ci fosse un Ministro della Paura, come quello del comico Antonio Albanese.

Oltretutto commettiamo anche parecchi errori cognitivi. L’hanno affermato premi Nobel come Kahneman. Volendo vedere del marcio ancor più di Jarrett, viene da pensare anche che qualcuno di noi lo sappia e se ne serva deliberatamente e intenzionalmente per “fregare” gli altri. Ad esempio: consideriamo solo una piccola parte di informazioni e rimaniamo in superficie. Poi, sulla base di queste poche cose che sappiamo ci costruiamo opinioni, parliamo al bar, votiamo.. Ah, come se non bastasse, di solito siamo anche convinti di saperne parecchio. In ogni caso, sempre più degli altri. Non importa se non è il nostro lavoro oppure se ci siamo fermati a leggere solo il titolo scorrendo la home di un social oppure se la nostra sia l’eccellente e famigerata Università della Strada.

Essere brutte persone: ognuno ha ciò che si merita

Un altro aspetto che provoca quasi ribrezzo, tra i dieci punti illustrati da Jarret, è la tendenza che abbiamo di pensare che, in fondo in fondo, ognuno ha quello che si merita. Esiste una giustizia divina e ognuno raccoglie quel che ha seminato, che siano malattie, relazioni o condizioni socio-economiche. Un proverbio dice Chi è causa del suo mal, pianga se stesso, in qualche modo escludendo dalle possibili cause la sfortuna, il caso, le difficoltà e non considerando che, come afferma Marsha Linehan, ognuno di noi, sebbene sommerso da enormi difficoltà, fa sempre del suo meglio, ci prova.

Agire correttemente e comportarsi bene è l’altra faccia della medaglia di questa convinzione: se mi impegno, la giustizia divina mi ripagherà, su questa terra e oltre. Se non mi impegno, me la vedrò con il senso di colpa. Ergo: chi se la passa male, chissà cosa avrà combinato per meritarselo.

Preferisco dare fiducia alle persone: mi serve perché non potrei mai vivere in solitudine e ho bisogno come il cibo di calore, amore, affetto ed amicizia. Preferisco dare fiducia alle persone perché la voglio dare anche a me: penso di poter evolvere, migliorare, perdonarmi, volermi bene. Preferisco dare fiducia alle persone perché credo profondamente che si possa crescere umanamente e secondo me si riesce più facilmente all’interno di una relazione in cui l’altro ci dà fiducia.

 

 

HRI – La comunicazione tra uomo e macchina

L’interazione con un’entità artificiale sarebbe simile a quella con un altro essere umano. Quali sono i meccanismi psicologici coinvolti nella comunicazione uomo-robot?

 

Da recenti ricerche emerge che l’interazione con un’entità artificiale è simile a quella con un altro essere umano. Quali sono i meccanismi psicologici coinvolti durante questo processo comunicativo?

 

HUMAN-ROBOT INTERACTION – GUARDA IL VIDEO:

 

I problemi della ‘sicurezza’: l’impatto psicologico e psicosociale della legge 132/2018 – Comunicato stampa AIP

Documento della Associazione Italiana di Psicologia

Comunicato Stampa

 

L’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) è una società scientifica che raccoglie la maggioranza dei ricercatori e professori di discipline psicologiche operanti nelle università italiane.

L’AIP ha tra i propri compiti l’analisi su base scientifica delle politiche pubbliche, dal punto di vista del ruolo dei fattori psicologici e psicosociali implicati. In ragione del suo ambito di competenza, l’AIP ha sviluppato un’analisi delle implicazioni psicologiche e psicosociali delle recenti disposizioni legislative in tema di immigrazione contenute nella Legge 132/2018 (conversione del cd. Decreto sicurezza). L’analisi si è focalizzata sul rapporto tra contesto psicosociale, finalità del legislatore e modalità di perseguirle previste dal dispositivo legislativo, in particolare dal punto di vista della previsione dell’impatto psicologico e psicosociale di medio termine.

A. Aspetti salienti della Legge

La legge 132/18 ha eliminato la figura giuridica del permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria (art. 1). Tale permesso aveva la durata di due anni e consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale. Esso riguardava coloro che, pur sprovvisti dei requisiti previsti per l’asilo politico o per la protezione sussidiaria, avrebbero corso, in caso di rimpatrio, il serio rischio di subire trattamenti disumani o degradanti, o di incorrere in limitazioni rilevanti della libertà. La protezione per ragioni umanitarie ha negli anni scorsi rappresentato la motivazione più frequente per la concessione del permesso di soggiorno (circa il 25% delle richieste di asilo, corrispondenti a circa il 70% dei permessi concessi; riferimento anno 2018; fonte Eurostat). Al suo posto sono stati introdotti una serie di permessi per casi specifici: “protezione speciale”, “per calamità naturale nel Paese di origine”, “per condizioni di salute gravi”, “per atti di particolare valore civile” e “per casi speciali” (vittime di violenza grave o sfruttamento lavorativo).

Di fatto, con la cancellazione della protezione per ragioni umanitarie:

a) la platea di coloro che possono beneficiare del permesso di soggiorno si è significativamente ristretta;

b) la maggior parte dei rifugiati che otterrà il permesso di soggiorno secondo la nuova casistica, si troverà in condizione di maggiore precarietà e minori tutele giuridiche e assistenziali;

c) molti degli attuali rifugiati con il permesso di soggiorno per motivi umanitari non avranno i requisiti per il rinnovo, per cui alla sua scadenza si troveranno in una condizione di irregolarità, anche quelli che nel frattempo si erano regolarmente e proficuamente inseriti nel contesto socio-economico italiano.

Nel complesso, secondo stime conservative [1], nel prossimo biennio, a seguito del decreto sicurezza, il numero di irregolari presenti in Italia potrebbe aumentare notevolmente: 60.000-70.000 persone rischiano di trovarsi prive della possibilità di lavorare e di fruire di qualsiasi forma di tutela giuridica e assistenza socio-sanitaria, destinate dunque ad una condizione di grave marginalità, ulteriormente favorita dal depotenziamento – anch’esso introdotto con il decreto (art. 12) – del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – le strutture di accoglienza che in questi anni hanno operato come fondamentale risorsa per l’integrazione dei migranti).

B. L’impatto psicologico e psicosociale della Legge

Sulla base di una estesa letteratura [ad es. 2-5], è oltremodo plausibile attendersi che la condizione di marginalità (e.g. precarietà, inoccupazione, povertà, impossibilità di fruire di forme di previdenza e assistenza) cui sono destinati molti degli attuali e futuri richiedenti asilo avrà un impatto altamente dannoso sulla loro salute psico-fisica, in termini di maggiore incidenza di malattie, disagio psicologico, disturbi mentali, condotte autolesive e suicidarie.

Vi sono del resto solide basi scientifiche per prevedere che la Legge 132/2018 avrà rilevanti effetti negativi diretti e indiretti anche sulla società italiana, in ciò contravvenendo paradossalmente alle finalità per cui è stato pensato.

Effetti diretti

Dal momento che la condizione di marginalità tende ad alimentare comportamenti antisociali e devianti in coloro che lo subiscono [ad es. 6, 7], è probabile che l’incremento di immigrati in condizione di irregolarità possa portare ad un aumento, piuttosto che ad una riduzione, dell’incidenza di fenomeni di micro-criminalità, degrado urbano, segregazione territoriale, con ovvie conseguenze negative sulla qualità della vita della popolazione italiana generale. Quando accompagnate da inuguaglianza economica, le differenze etniche diventano ulteriore fonte di sfiducia e minaccia per la società. Al contrario, quando l’istituzione mette in atto politiche utili a gestire la diversità etnica e al tempo stesso per ridurre le inuguaglianze economiche generali, non solo l’immigrazione non è più una minaccia da temere ma diventa risorsa per la società. Studi [ad es. 8] hanno evidenziato il ruolo centrale delle istituzioni e delle politiche statali nel modificare e rendere proficui gli effetti dei flussi migratori.

Effetti indiretti

L’effetto negativo più preoccupante è tuttavia indiretto e riguarda la dinamica psicosociale di cui la Legge 132/2018 è al contempo riflesso e vettore.

In via di premessa va riconosciuto che la legge 132/18 rappresenta il tentativo del Legislatore di dare risposta al senso di radicale incertezza sociale ed economica diffusi entro la società italiana, in conseguenza dell’impatto dirompente delle dinamiche della globalizzazione [9-10].

La reazione oggi prevalente all’incertezza è di natura difensiva ed emozionale [11], caratterizzandosi in termini identitari e di “nemicalizzazione” dell’altro, in particolare del non-italiano, che viene connotato come minaccia dalla quale proteggersi. Secondo un recente studio [12, 13], circa il 60% della popolazione adulta italiana, è profondamente sfiduciata, percependosi alle prese con un contesto sociale ed economico inaffidabile e persecutorio; al contempo tale maggioranza di Italiani ha una visione negativa dell’immigrato e più in generale dell’estraneo o del “diverso”, vedendo nell’appartenenza identitaria l’unica possibile difesa dalla minaccia, che percepisce venire dall’esterno.

Nel loro complesso, le disposizioni relative al tema dell’immigrazione contenute nella Legge 132/18 – oltre alle misure sopra richiamate, la Legge prevede: il raddoppio dei tempi di trattenimento nei centri di prima accoglienza; la revoca della cittadinanza in alcuni casi gravi – si prestano obiettivamente ad essere lette come portatrici di una visione dell’immigrazione come problema di sicurezza (è questo del resto il nome con cui è conosciuto il decreto successivamente convertito dalla Legge 132/2018): come una minaccia da cui difendersi (per una discussione del punto comprensiva del panorama europeo, cfr. [14]). In tal modo la Legge 132/18 si sintonizza sul senso di incertezza diffuso. Tuttavia, essa risponde ai timori dei cittadini non tanto ribadendo la giusta e doverosa rigorosità nelle procedure di accoglienza ma in un modo che corre il rischio di assecondare ed alimentare, piuttosto che elaborare, la reazione difensiva, viscerale ed emozionale che caratterizza attualmente una parte consistente della società italiana.

Il rischio, in altri termini è di rinforzare la visione emozionale dell’immigrato come minaccia dalla quale difendere se stessi, la comunità, l’Italia (tale visione trova parzialmente riflesso anche sui media; si veda in proposito [15]) È opportuno precisare che quanto appena affermato non significa negare l’impatto potenzialmente critico dell’immigrazione – specie sui segmenti più svantaggiati della popolazione italiana – dunque il fondamento di realtà che sta alla base della percezione sociale degli immigrati come un problema (per una discussione di questo aspetto dal punto di vista economico, ad es. cfr. [16]). Da un punto di vista psico-sociale, ciò che è in discussione non sono le obiettive criticità che l’immigrazione può comportare da un punto di vista macro e micro economico, ma la natura emozionale della risposta sociale (cioè la trasformazione del fattore di criticità in un nemico) e le sue implicazioni sul ‘capitale sociale’, inteso come atteggiamento sociale di fiducia, congiunto a norme che regolano la convivenza e le reti di impegno civico [17]. Intaccando in modo sostanziale il ‘capitale sociale’ (già in crisi per motivi diversi, ad esempio economici), la “nemicalizzazione” dell’immigrato è un processo che nel medio periodo è destinato a danneggiare la stessa società che lo esercita. Ciò si comprende tenendo conto del fatto che tale processo consiste in una visione viscerale ed emozionale, fondata sullo schema affettivo amico/nemico. Data la sua natura profondamente affettiva, lo schema amico/nemico non resta circoscritto all’oggetto specifico che lo innesca, ma tende inevitabilmente a generalizzarsi trasversalmente ai diversi domini della vita sociale [18-19; per quanto riguarda la mancanza di vincolo tra specifico elemento di innesco e modo generale di interpretare, si veda anche 20]. Ciò significa che, una volta che lo schema affettivo secondo cui si interpreta emozionalmente l’incertezza come causata da un altro/nemico si è insediato nel contesto culturale, esso non si limita ad operare nei confronti di specifiche categorie di ‘altro’, ma tende ad espandere la propria rilevanza su qualsiasi forma di diversità significativa: nazionalità, genere, orientamenti sessuali, appartenenza territoriale, credo religioso, opinione, status professionale, ecc. In questo modo, la ‘nemicalizzazione’ dell’altro e la conseguente polarizzazione delle relazioni diventano elementi endemici del modo di interpretare e agire le relazioni sociali ed interpersonali, non solo con lo “straniero” ma anche all’interno dei gruppi sociali di riferimento (gli italiani, ma anche il territorio, la propria organizzazione di lavoro, eccetera). La crescita di episodi di violenza verbale e fisica (ad es. sulla rete, nei confronti del personale sanitario e delle istituzioni educative) si presta ad essere interpretata come un segnale del processo di generalizzazione cui ci si sta riferendo. Il suo impatto si può misurare in termini di grave decadimento del capitale sociale (fiducia, civismo, reti sociali), di deterioramento delle infrastrutture civiche e istituzionali, di anomia; in definitiva, in uno scadimento complessivo tanto del sistema complessivo quanto della qualità della vita a livello individuale1. Non da ultimo occorre ricordare che questa visione di pericolo costantemente associata al fenomeno della migrazione aumenta nelle persone il senso di minaccia sociale. Molti studi hanno evidenziato che l’aumentare del senso di minaccia è significativamente associato non solo a comportamenti di tipo estremo, ma anche agli orientamenti autoritari, soprattutto nelle persone sensibili a questi aspetti. Vale a dire che la manipolazione del senso di minaccia che deriva dal presentare lo straniero come un nemico è l’anticamera di atteggiamenti che minano alla radice l’agire democratico [ad es. 23-24].

Osservazioni conclusive

Sul ruolo del capitale sociale nel funzionamento dei meccanismi economici e istituzionali si veda, ad es. [21]; sulla dipendenza tra contesto psico-sociale e comportamento economico si veda [22]; sul rapporto tra contesto culturale e percezione di sé: [13].

La ricerca psicologica ha prodotto evidenze in favore del carattere non alternativo ma complementare di identità e diversità [ad es. 25-27]. L’identità di un popolo si fonda sulla molteplicità che solo l’integrazione delle differenze – interne ed esterne – può assicurare: come del resto esperienze pluriennali di paesi come Gran Bretagna e Germania hanno mostrato. Su tale base, è realistico – proprio sulla base delle evidenze delle scienze psicologiche e sociali – suggerire un’inversione radicale nell’approccio culturale, prima ancora che legislativo, al tema immigrazione. È strategico che le politiche in tale ambito passino da una logica “nemicalizzante” ad una orientata invece da scopi di integrazione e valorizzazione della relazione con l’alterità. Ciò non solo, lo ripetiamo, per ragioni di natura etica o di generica disponibilità ad una indiscriminata “accoglienza”; ma soprattutto perché così facendo si introdurrebbe un rilevante fattore di contrasto alla diffusione entro la società italiana della nemicalizzazione dell’altro, un “virus culturale” capace di produrre danni gravi al tessuto umano, civile, socio-economico e istituzionale del nostro Paese.

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