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La violenza come manipolazione mentale

La cronaca racconta di donne picchiate e uccise spesso da persone che amano o hanno amato nella propria vita. Solo in Italia, nel 2018, si sono verificati 106 femminicidi: uno ogni 72 ore.

 

Anche se non sempre viene evidenziato dai mass media, tale violenza è sempre accompagnata da comportamenti di manipolazione mentale da parte dell’abusante, anche se tali comportamenti possono essere messi in atto anche senza una violenza fisica.

La suddetta violenza psichica è, in parte sovrapponibile, a quella impiegata sui prigionieri di guerra: diversi studi hanno messo in luce come la manipolazione mentale può avvenire in svariati modi, tra le tattiche assume una particolare rilevanza quella del “lavaggio del cervello” (the Brainwashing Process), la cui finalità è assoggettare la persona alle esigenze e richieste dell’altro poiché le vittime – quando perdono la loro autonomia, autostima e dignità – tendono ad assumere un ruolo passivo e rimanere in situazioni di abuso (Russell, D. E. 1990).

Violenza domestica: comprenderla attraverso la Biderman’s Chart

La Biderman’s chart è una carta, stilata dal sociologo Albert Biderman, che evidenzia le tattiche adottate in Corea per manipolare e influenzare la mente dei soldati americani durante la loro prigionia al fine di passivizzarli e renderli inermi (Biderman, A. D. 1957).

Di seguito le otto strategie individuate da Albert Biderman e riportate nel proprio elaborato:

  1. L’isolamento (totale, parziale o dal gruppo), il quale riduce la capacità di resistere e di fronteggiare l’abusante deprivando la vittima di tutti i supporti esterni.
  2. La manipolazione della percezione – messa in atto mediante l’alterazione dell’ambiente (buio o luce, ambiente sterile, scarsa possibilità di movimento, cibo monotono) – la quale favorisce il rispetto delle regole, rinforza i comportamenti conformistici, fissa l’attenzione sulla situazione contingente di ansia.
  3. L’induzione di debilitazione ed esaurimento, la quale agisce mediante l’indebolimento della capacità mentale e fisica di resistere agli eventi stressanti.
  4. Le minacce, le quali favoriscono l’insorgere di vissuti d’ansia e disperazione.
  5. Le indulgenze occasionali, le quali forniscono una motivazione positiva per la conformità alle regole e alle imposizioni.
  6. Le dimostrazioni di onnipotenza e onniscienza, le quali – mediante le manifestazioni di controllo completo sul destino altrui – inducono il senso di inutilità di ogni resistenza.
  7. La degradazione e lo svilimento, i quali favoriscono la focalizzazione dell’attenzione sulla necessità di dover resistere e sopravvivere.
  8. Le esecuzioni di compiti banali, i quali agiscono mediante la normalizzazione delle abitudini di conformità.

La Birderman’s chart è uno degli strumenti con cui si valutano, in vari contesti, i comportamenti di compliance (adesione) delle vittime ai loro abusanti (Mann, R., 1994): relativamente alla violenza domestica, le donne maltrattate tendono a colludere con i propri aguzzini perché private dell’autostima, della capacità di pensare razionalmente, dell’indipendenza e autonomia.

Le donne maltrattate, a causa della manipolazione mentale esercitata su di loro, imparano ad avere paura della persona che amano e cominciano a cambiare i propri comportamenti per evitare di suscitare reazioni aggressive dal partner, si identificano con il problema, si sentono sbagliate, percepiscono sensi di colpa e iniziano a pensare di non essere psicologicamente stabili. Studi hanno evidenziato, coerentemente con quanto esposto, come le donne che vivono uno stato cronico di maltrattamento, temendo per la propria vita e restando in attesa di un attacco successivo, mostrano ipervigilanza, sfinimento, confusione e disorientamento (Grant, C. A. 1995).

Violenza domestica e Brainwashing Process

Il Brainwashing Process o lavaggio del cervello, nel contesto della violenza domestica, viene adottato mediante cinque principali tattiche: l’isolamento, gli attacchi imprevedibili, le false accuse, le umiliazioni, le minacce e le ricompense occasionali.

Infatti, gli abusanti privano le loro partner dal supporto sociale limitando il contatto con amici e familiari, rendendole più ricettive e polarizzate sulle proprie esigenze e diventando l’unico punto di riferimento e sostegno per l’autostima della compagna; gli abusanti minacciano personalmente le persone che affermano di “amare” e i loro figli, favorendo sentimenti di paura, destabilizzano le partner e creano caos mentale, alternando aspre critiche e atti “gentili”. Inoltre, gli abusanti manipolano la mente dei partner al punto che questi ultimi iniziano a considerarsi biasimevoli e meritevoli di violenze e attacchi.

Più precisamente, il clima angoscioso determinato dalle suddette cinque modalità di manipolazione mentale, induce uno stato di allarme perenne, il quale spinge la donna a focalizzare la propria attenzione principalmente all’evitamento di agiti violenti e di successive aggressioni (Johnson, M. P., & Leone, J. M. 2005).

Infatti, è proprio la paura ciò che favorisce un atteggiamento passivizzante delle donne durante gli atti di violenza domestica: le donne evitano attivamente determinate situazioni per placare l’ira ed evitare conseguenze peggiori sulla sicurezza futura propria e dei figli e tendono a essere inermi di fronte agli attacchi fisici (Brown, G., & Mitchell L. R., 2005).

Violenza domestica: le strategie messe in atto per fronteggiare l’abusante

Tra le strategie messe in atto dalle vittime per porre fine agli abusi sono risultate inefficaci: il tentativo di ottenere dal loro partner promesse che la violenza si sarebbe fermata; minacciare di chiamare la polizia; evitare i comportamenti non desiderati dal compagno; andare via di casa per alcuni periodi.

Studi hanno evidenziato, invece, come strategie efficaci per contrastare la violenza domestica siano la ricerca di un intervento esterno, il supporto emotivo delle persone significative e il rivolgersi a un legale. La difficoltà di mettere in atto quest’ultime strategie ha origine nelle dinamiche costituenti il processo del Brainwashing Process, il quale – come già detto – genera sensi di colpa che inducono le persone maltrattate a pensare di non essere adeguate, di essere sbagliate e di meritare il male che gli viene inflitto.

Il rapporto con i figli adottivi: affrontare i momenti di crisi

I disagi maggiori per i figli adottivi iniziano generalmente nel periodo adolescenziale. Il ragazzo inizia a prendere consapevolezza della sua condizione e la volontà di “ri-conoscere” le proprie radici diventa spesso insostenibile.

 

Periodi in cui il rapporto genitori-figli assume aspetti critici possono capitare indifferentemente sia nel caso di figli biologici che di figli adottivi. Con questi ultimi, però, diventa particolarmente importante una corretta gestione della relazione. Quelli che, a un occhio poco attento, potrebbero sembrare semplici ribellioni adolescenziali, infatti, possono nascondere un disagio psicologico che deve essere assolutamente compreso e accolto. Solo così sarà possibile aiutare il ragazzo a superare il problema, creando le giuste basi per vederlo essere, un giorno, un adulto indipendente e sereno.

Figli adottivi: la ricerca di un passato che non esiste

I disagi maggiori per i figli adottivi iniziano generalmente nel periodo adolescenziale. Il ragazzo inizia a prendere consapevolezza della sua condizione e la volontà di “ri-conoscere” le proprie radici diventa spesso insostenibile. Molte volte, anche volendo rispondere alle sue insistenti domande, non è possibile essere d’aiuto perché i genitori nemmeno conoscono i particolari di quella che era la sua vita prima dell’adozione. Il tribunale, infatti, è tenuto ad informare i genitori adottivi solo “di fatti rilevanti” che riguardano il passato del figlio.

Si può assistere impotenti, in questo periodo, a profonde crisi del ragazzo che invece ha bisogno, senza nemmeno rendersene conto, di trovare un modo per “testare” l’amore e l’attaccamento che i genitori adottivi nutrono per lui. Le carenze di informazione che possiede riguardo al suo passato lo rendono più sensibile e più soggetto alla paura di sentirsi rifiutato. Metterà in atto allora dei comportamenti “ribelli”, che altro non sono che un tentativo inconscio di dimostrare a se stesso che i suoi genitori lo amano indipendentemente dal suo modo di essere, dal suo modo di comportarsi e di rapportarsi a loro. Questo avviene un po’ in tutti i ragazzi adolescenti, ma nel caso dei figli adottivi può essere una fase molto evidente, capace di mettere a dura prova gli equilibri familiari.

Questa dinamica si accentua nel caso di bambini adottati già in età scolare o quando i tratti somatici sono molto differenti da quelli dei genitori, come nel caso di bambini che provengono da un altro continente.

Qual è il ruolo del genitore in questo delicato momento? Padre e madre devono riuscire in un delicato compito: trovare il giusto compromesso fra accogliere e comprendere i comportamenti del figlio adottivo, e il saperli frenare e contenere. I genitori non devono cedere ai comportamenti di sfida e scoraggiarsi, ma nemmeno combatterli con eccessiva coercizione.

In questo delicato rapporto, i genitori si trovano ad affrontare due difficoltà:

  • La paura di perdere l’amore del figlio;
  • La difficoltà di accettare la propria impotenza di fronte alle difficoltà del figlio adottivo.

Quest’ultimo punto è molto importante, perché implica che anche i genitori intraprendano un lavoro di consapevolezza su se stessi, riconoscendo di non poter alleviare la sofferenza e l’inquietudine del figlio sempre e comunque. Sarà invece possibile condividere con lui questi momenti di “gestazione del dolore” con fiducia nella potenzialità relazionale.

L’importanza di essere sinceri con i figli adottivi

Per prevenire le crisi che possono vivere i figli adottivi, ormai gli studiosi sono concordi nell’affermare l’importanza di essere sempre sinceri con il proprio figlio.

Nascondere la verità sull’adozione per poi rivelarla di punto in bianco al figlio adottivo è un comportamento che può rivelarsi deleterio. I genitori pensano, così facendo, di salvaguardare il più possibile il figlio da possibili disagi, in realtà rischiano di fargli vivere vere e proprie crisi psicologiche. Il figlio adottivo vive il momento della rivelazione come una perdita di fiducia nei suoi genitori, che gli hanno mentito fino a quel momento sulle sue origini. La sincerità è alla base per mantenere una relazione basata sul rispetto e sulla fiducia reciproca.

Questo è anche quanto traspare dalle testimonianze dei figli adottivi. Le famiglie che sono state capaci, durante la crescita del ragazzo, di integrare nella più totale credibilità il racconto sul suo arrivo in famiglia, vivono in età adulta un rapporto molto migliore e più stabile con il figlio, che ha maggiori possibilità di accettare con serenità la sua condizione vivendola positivamente.

Il fenomeno della deumanizzazione nei confronti delle persone obese

L’ obesità è una condizione medica complessa dovuta a diversi fattori: genetici, ambientali e sociali. 

 

Nonostante l’ obesità sia una patologia abbastanza diffusa (in italia il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni è in eccesso ponderale e di questi 1 su 10 è obeso), le persone obese riportano frequentemente esperienze di maltrattamento a causa del loro aspetto. Tali discriminazioni influiscono negativamente sulla salute fisica e mentale di chi soffre di obesità.

In psicologia sociale sono numerosi gli studi che riguardano discriminazioni, stereotipi e pregiudizi. Per spiegare il comportamento umano in merito a questi fenomeni è stato ad esempio sviluppato il concetto di deumanizzazione esplicita, che si riferisce alla tendenza a ritenere che un soggetto sia meno umano rispetto ad un altro. “Deumanizzare” qualcuno potrebbe dunque causare, facilitare e/o giustificare i maltrattamenti inflitti.

Oggi questo fenomeno è studiato soprattutto nelle relazioni interrazziali. Uno studio pubblicato sulla rivista Obesity e condotto presso l’Università di Liverpool, ha invece cercato di capire se la tendenza alla deumanizzazione è presente anche nei confronti di chi soffre di obesità e se questo fenomeno potrebbe permettere di predire la discriminazione che queste persone purtroppo spesso vivono.

Lo studio

I partecipanti allo studio, provenienti dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e dall’India, erano più di 1500. A ciascuno di loro è stato chiesto di valutare, tramite sondaggi online, quanto fossero evoluti (considerati più o meno umani) diversi gruppi di persone, sia normopeso che obese, su una scala da 0 a 100. I ricercatori hanno inoltre registrato il BMI (Body Mass Index) di coloro che completavano il sondaggio per verificare se la deumanizzazione dell’ obesità fosse più comune tra le persone normopeso, e hanno anche indagato se la deumanizzazione influisse sull’idea del sostegno sanitario rivolto alle persone discriminate per il loro peso.

In media i partecipanti hanno valutato i soggetti obesi come “meno evoluti” e “meno umani” rispetto alle persone normopeso. La deumanizzazione si riscontrava soprattutto tra i partecipanti più magri, nonostante tale fenomeno fosse presente anche nei soggetti sovrappeso e obesi.

Dallo studio si evince inoltre che le persone che avevano deumanizzato in maniera palese i soggetti obesi, avevano più probabilità di sostenere politiche sanitarie discriminanti verso gli individui affetti da questa patologia. Il fatto che i livelli di disumanizzazione fossero predittivi del sostegno a politiche sanitarie discriminanti suggerisce che la disumanizzazione potrebbe facilitare altri pregiudizi nei confronti di queste persone.

In conclusione

La tendenza del considerare le persone obese “meno umane” è una prova ulteriore dello stigma riguardante l’ obesità.

Spesso quando si parla di obesità si utilizza un linguaggio disumanizzante, adoperando parole appartenenti al mondo degli animali per descrivere i problemi legati al cibo (es. “pigging out”: mangiare come maiali) o immagini lesive verso la dignità delle persone. È importante dunque fare attenzione a quello che per quanto rappresenti un bias inconscio ha conseguenze ed effetti molto gravi sulle persone.

Mediazione familiare: l’importanza di un aiuto esterno nelle separazioni

La mediazione familiare è un intervento extragiudiziale che sta trovando sempre più consensi nel campo delle separazioni e dei divorzi. Il numero di coppie che decidono di interrompere il loro percorso di vita insieme è purtroppo in vertiginoso aumento.

 

Sono quindi sempre di più anche i coniugi che si ritrovano in tribunale a dover discutere, nel corso di cause giudiziali lunghissime, i dettagli della separazione. Gli accordi sono difficili da trovare e le parti entrano in conflitto senza riuscire a trovare un punto di incontro.

Ecco che in questi casi il ruolo del mediatore familiare può essere fondamentale. La coppia deve avere la volontà di collaborare e di mettersi in discussione per evitare guerre spesso estenuanti. Il mediatore familiare sarà allora quella figura di riferimento che aiuterà i coniugi a vedere la separazione nella giusta ottica e li accompagnerà fino al raggiungimento di un accordo equo per entrambe le parti.

Mediazione familiare: come aiuta la coppia

Viviamo in un’epoca sociale in cui sembra naturale vivere sempre in competizione con gli altri. La vita diventa una continua corsa alla prevaricazione. Questo accade anche durante le separazioni. Alcuni coniugi arrivano ad arrecare danni economici e psicologici all’altro pur di non scendere a compromessi e sopraffare l’ex compagno.

Quando nella coppia ci sono figli minorenni, il pericolo è quello di far pesare anche a loro i conflitti della separazione dei genitori, facendo vivere questo momento ancora più stressante e drammatico. I genitori, presi dalle loro guerre giudiziali, trascurano il benessere psicologico dei bambini che avvertono tutto il disagio della situazione. Per loro diventa molto difficile accettare e comprendere quello che sta avvenendo.

È fondamentale che i coniugi riescano a pensare prima di tutto al benessere dei loro figli, sforzandosi a tal proposito di trovare un equilibrio nei rapporti con l’ex partner per ritrovare al più presto la serenità e un nuovo equilibrio familiare. In questo processo il mediatore familiare si pone come individuo neutrale, al di sopra delle parti, che non cerca un ricongiungimento, ma solo il raggiungimento di un rapporto fra i coniugi di rispetto e fiducia, pur da separati. Ciò deve essere visto come obiettivo comune per il benessere dei figli e delle parti coinvolte.

È necessario che entrambi i coniugi siano consapevoli dell’importanza di questo percorso e siano intenzionati ad affrontarlo positivamente.

Mediazione familiare: i limiti nei casi di violenza

Un caso in cui la mediazione familiare è fortemente sconsigliata si verifica quando vi siano casi certi o presunti di violenza familiare o domestica.

Nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, dell’11 Maggio 2011, nota come Convenzione di Istanbul, art. 48, punto 1 si riporta che:

Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.

Il pericolo, piuttosto concreto, è che il partner violento utilizzi la mediazione familiare come un prolungamento del controllo e della volontà di dominio sulla vittima, non accettando la volontà di questa a separarsi. Il partner violento è infatti incapace di riconoscere la separazione, ovvero la perdita dell’oggetto del suo controllo.

È indispensabile altresì che il mediatore familiare sia correttamente formato e si tenga aggiornato sul riconoscimento delle varie forme di violenza, anche quando la donna non sia pienamente consapevole delle oppressioni subite. Nel caso il mediatore si accorga di essere alla presenza di un possibile caso di violenza, dovrebbe sospendere la mediazione e accompagnare la vittima verso un percorso di presa in carico e sostegno da parte di centri adeguati.

 

“Le faremo sapere!” Evitare il precariato preparandosi ai colloqui

A chi non è mai capitato di sentire la frase “Le faremo sapere!” al termine di un colloquio di lavoro. Ma da cosa dipende il successo di un colloquio lavorativo

 

Per rispondere a questa domanda è necessario partire dalla definizione di selezione. La selezione del personale è quel processo mediante il quale un’azienda decide chi può entrare a far parte del suo organico. Tale processo decisionale è fondamentale per il successo aziendale, perciò una buona selezione può portare benefici nel medio-lungo termine. È necessario, dunque, allocare la risorsa giusta per la corretta posizione lavorativa. Ciò implica uno sforzo sia da parte del selezionatore, sia da parte del candidato.

Non c’è solo il colloquio! Quali sono le fasi del processo di selezione?

Il processo di selezione è generalmente composto da quattro fasi con step intermedi di verifica degli obiettivi raggiunti. Le quattro fasi principali sono:

  • Job Analysis: si tratta di operazioni preliminari in cui ci si interroga sulle caratteristiche della mansione per cui si effettua la selezione. Harvey (1991) definisce la job analysis come “l’insieme dei dati che descrivono i comportamenti osservabili dei lavoratori, includendo sia la performance, sia le tecnologie impiegate per ottenere i risultati e, inoltre, le caratteristiche dell’ambiente con cui i lavoratori interagiscono”;
  • Reclutamento: consiste nell’attività di ricerca di persone con qualità tali da soddisfare le esigenze dell’azienda. Al giorno d’oggi, grazie allo sviluppo tecnologico, si riscontrano varie modalità di reclutamento: dagli annunci su siti e sui social network fino a modalità di e-recruitment (l’utilizzo di banche dati sui siti aziendali in cui i candidati possono inserire il proprio curriculum vitae);
  • Selezione: possono essere utilizzate diverse metodologie per la selezione dei candidati. La scelta metodologica dipende dalla job analysis, dalle esigenze del committente (solitamente le selezioni sono commissionate dai vertici aziendali) e dalla professionalità del selezionatore. L’esaminatore, infatti, si pone come obiettivo quello di far emergere la personalità, gli interessi e le motivazioni del candidato. In alcuni casi si può decidere di strutturare la selezione in più prove. Il selezionatore, quindi, stabilisce una graduatoria dei soggetti maggiormente rispondenti al profilo del candidato ideale. In più, attraverso la conoscenza dei comportamenti verbali e non verbali, l’esaminatore durante il colloquio deve scoprire eventuali “integration” (cioè comportamenti messi in atto dal candidato per riscuotere un’impressione positiva) e di “deception” (cioè di omissione di aspetti personali o professionali che egli considera negativi). Una volta terminata questa fase, il selezionatore redige il profilo del candidato e l’esito viene presentato alla committenza affinché questa possa compiere una scelta tra la rosa dei candidati proposta.
  • Inserimento: l’azienda, dalla rosa dei candidati, sceglie la risorsa da assumere e avvia le ultime fasi del processo di selezione relative all’accoglimento e all’inserimento. L’accoglimento è composto dall’insieme di iniziative e di contatti programmati volti a fornire al neoassunto tutte le informazioni utili per il lavoro e le regole generali da rispettare all’interno dell’organizzazione. L’inserimento consiste, invece, in un programma di azioni di formazione, addestramento e assistenza, volto a consentire al nuovo assunto la conoscenza e l’adeguamento delle procedure ai metodi di lavoro e alle prassi organizzative dell’azienda.

È importante che un’organizzazione svolga il processo di selezione secondo buone pratiche perché assumere una risorsa non idonea può avere effetti negativi sull’azienda in termini sia produttivi sia economici.

Tips & triks per il candidato: come affrontare al meglio un colloquio di lavoro

Dal punto di vista del candidato è consigliabile che, prima di una prova di selezione, la persona possa riflettere su alcuni aspetti per prepararsi nel migliore dei modi alla/e prova/e. Si suggerisce, perciò, di focalizzarsi su alcune dimensioni, quali:

  • La storia formativa e professionale (a partire dal cv): bisogna riflettere sul perché sono state fatte alcune scelte professionali/lavorative piuttosto che altre oppure concentrarsi su quali sono state le esperienze più significative;
  • Gli obiettivi professionali: è necessario riflettere sulla motivazione alla base di una scelta lavorativa;
  • Il profilo professionale ricercato dall’azienda: è necessario essere informati sull’azienda per cui ci si sta proponendo, sulla sua evoluzione, sui suoi prodotti/servizi (facendo attenzione all’annuncio inserito dall’azienda per il reclutamento).

Un esempio per comprendere l’importanza di questa preparazione iniziale da parte del candidato deriva dal film “Il diavolo veste Prada”. In particolare, nella scena del colloquio per l’inserimento della nuova assistente Andy (Anne Hathaway), la prova di selezione risulta inizialmente fallimentare. Ciò che in un primo momento colpisce la direttrice del giornale Runway, Miranda Priestly (Meryl Streep), è il modo in cui la ragazza è vestita, la sua scarsa motivazione a lavorare in quel contesto e, per di più, la mancanza di conoscenza dell’ambiente lavorativo. In seguito, il far riferimento da parte della candidata alle sue competenze (evidenziando, ad esempio, la velocità di apprendimento) determinano il successo del colloquio di lavoro.

Se sei paranoico non sei mai solo! Dalla diffidenza al delirio paranoico (2017) di Muriana, Verbitz – Recensione del libro

Il titolo ironico Se sei paranoico non sei mai solo! Dalla diffidenza al delirio paranoico e l’immagine in copertina (con uno sguardo di estrema diffidenza) rimandano il lettore al tema centrale del libro ossia la paranoia, caratterizzata da sospettosità, un atteggiamento vigile volto a non abbassare mai la guardia perché come scrivono le autrici “il nemico è tra noi”.

 

Il nemico è tra noi: nel collega, nel vicino di casa, o ancora peggio in famiglia; nella nostra rete amicale ma anche nella società, nei politici che governano e tutti hanno nome e cognome.

 

All’interno del libro Se sei paranoico non sei mai solo! viene offerta una dettagliata descrizione degli aspetti che caratterizzano il paranoico quali diffidenza, sospettosità, tendenza a dubitare dell’altro fino a sfociare in una diffidenza ossessiva ed infine sconfinare in un’ideazione delirante, dove il dubbio lascia il suo posto ad una certezza assoluta. La diffidenza può riguardare Sé/Altro o Sé/Sé.

Dalla classificazione diagnostica alla descrizione di chi è una persona paranoica

Nella parte iniziale del libro Se sei paranoico non sei mai solo! viene fornita una panoramica storica sul disturbo nell’ambito della psichiatria e della psicologia per poi passare all’approfondimento di dimensioni centrali nella nascita e nel mantenimento del disturbo stesso. Un passaggio dunque dal dubbio di poter ricevere un danno, di poter essere ingannati, non accettati, rifiutati, alla certezza sconveniente.

Una volta che una persona crede (o sente) che qualcosa sia vero, indipendentemente dal fatto che lo sia oppure no, agirà come se lo fosse – Bertrand Russel.

Attualmente scomparso all’interno dei sistemi nosografici come disturbo paranoide in sé per sé, nell’attuale classificazione proposta dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali giunta alla quinta versione (DSM 5) viene inserito all’interno del Disturbo Delirante e nello specifico il sottotipo di tipo persecutorio, ma le autrici preferiscono rifarsi alla precedente edizione (DSM-IV) per evitare di cadere in un riduttivismo che vede nel delirio l’unica forma di espressione della paranoia.

Il libro Se sei paranoico non sei mai solo! dunque offre una ricca descrizione di molti aspetti che caratterizzano la persona paranoica quali: rabbia (esternalizzata, internalizzata, controllata) la vergogna (per non sentirsi capace di sentirsi diversamente), l’invidia, la tendenza ad attribuire agli altri malevoli intenzionalità (persone, fato, destino) il ritenersi eticamente e moralmente al di sopra degli altri, avere una visione catastrofica delle cose (“tutto andrà storto; non cambierà mai nulla” e per questo spesso confusi con depressi) rinunciare a cambiare per senso di impotenza vivendo un costante stato di frustrazione, depressione, tendenza all’isolamento, sopravvalutare gli insuccessi e sottovalutare i successi, gelosia patologica all’interno della vita sentimentale che può esprimersi in continui controlli, sospetti ripetuti fino a condotte aggressive.

Dal dubbio alla sospettosità come stile relazionale del vivere quotidiano fino al delirio persecutorio, il libro è arricchito da riferimenti a casi clinici e protocolli di trattamenti sviluppati dalla Psicoterapia Breve Strategica, che si rifanno a stratagemmi e tecniche paradossali, basate su anni di studi e di ricerche condotte dalla stessa scuola, che ne dimostrano l’efficacia.

In conclusione

Se sei paranoico non sei mai solo! è una lettura dagli spunti utili per gli addetti ai lavori, scritto con un linguaggio chiaro che offre la possibilità di arricchire la visione sulle varie modalità di manifestazione dell’ideazione paranoide, oltre a consigli sul piano operativo.

Come suggeriscono le autrici del libro infatti, aldilà della diagnosi primaria per la quale i pazienti giungono in studio, riuscire ad individuare ed identificare la presenza aggiuntiva di un’ideazione paranoide nel paziente, che può interferire e/o bloccare l’intervento terapeutico, può servire per lavorare sulla ristrutturazione della stessa e favorire il cambiamento atteso.

 

Allucinazioni: cosa accade a livello neurale quando percepiamo qualcosa che non esiste

Diversi studiosi trattano il complesso fenomeno del percepire, non tanto come un insieme di sensazioni, fruite passivamente, che vengono poi influenzate dall’elaborazione cognitiva, ma piuttosto come la capacità di cogliere attivamente informazioni rilevanti dal flusso continuo di dati in cui siamo immersi.

 

Non si parla di sensi in questo caso, ma di un sistema percettivo atto a mediare le interazioni con l’ambiente. 

Allucinazioni: scherzi del nostro processo percettivo?

Ad esempio, anche se le immagini sulla nostra retina sono in due dimensioni, è grazie alla conoscenza del concetto di profondità, intrinseco nel percepirci come osservatori, che possiamo fruire la tridimensionalità. La trasduzione di segnali sensoriali in informazioni che ci permettono di comprendere il mondo è un processo di elaborazione. Perché noi possiamo percepire è necessario che l’oggetto sui cui poniamo la nostra attenzione venga “prodotto” dalla nostra mente. Questo processo può essere indotto anche in assenza di stimoli, come nel caso delle allucinazioni, ma le modalità con cui questo accade non sono ancora del tutto chiare.

I fenomeni allucinatori vengono da anni studiati, non solo per aiutare i pazienti con questo tipo di sintomatologia, ma in generale poiché forniscono un importante punto di vista sui meccanismi che sottendono la percezione.

Allucinazioni: gli studi che ne propongono una spiegazione

Una nuova ricerca sul modello animale (Michaiel, Parker, & Niell, 2019) ha fornito nuovi insight relativamente a questi processi. I ricercatori, attraverso l’inoculazione di un potente allucinogeno, il 2,5-Dimetossi-4-iodanfetamina (DOI), hanno potuto studiare come il processamento visivo del topo viene alterato dalle allucinazioni. Questa sostanza è un agonista selettivo dei recettori 5-HT2A, la cui attività alterata è infatti implicata nelle allucinazioni sensoriali. Utilizzando registrazioni di risposta elettrofisiologica di neuroni singoli, tecniche di imaging ad ampio spettro e la visualizzazione delle concentrazioni di calcio extracellulare è stato possibile studiare questi fenomeni su più livelli.

Nonostante non vi siano differenze fra cavie e controlli nelle proprietà di tuning neurale di base, e quindi nella codifica dello stimolo visivo sulla corteccia visiva primaria, i risultati mostrano come vi sia un’alterata integrazione a valle di questo processo. La somministrazione di DOI altera il controllo automatico del guadagno dei neuroni, ovvero la regolazione dell’ampiezza di un segnale in ricezione atta ad evitare fenomeni di distorsione a causa della troppa forza o debolezza. Questa disregolazione porta ad una comunicazione ridotta fra i neuroni delle aree del cervello responsabili della fruizione delle informazioni visive.

Lo studio porta nuove evidenze sul fatto che sia un ridotto processamento bottom-up dell’informazione a causare le allucinazioni, evidenziando il ruolo dei recettori 5-HT2A nel sistema percettivo che collega inestricabilmente il mondo esterno alla coscienza.

Una musica anche per me​ – La campagna di crowdfunding dell’Associazione Passo Passo per portare la musicoterapia alle famiglie del territorio

Suoni, melodie, ritmi e note musicali per migliorare la qualità della vita dei bambini bolognesi con disabilità, affetti da autismo o con difficoltà relazionali, questa l’essenza di ​Una musica anche per me..

 

Utilizzare suoni, melodie, ritmi e note musicali per migliorare la qualità della vita dei bambini bolognesi con disabilità, affetti da autismo o con difficoltà relazionali, questa l’essenza di ​Una musica anche per me​, la campagna di ​crowdfunding lanciata da Passo Passo​, associazione di Marzabotto attiva in tutta l’area metropolitana di Bologna. In che modo? Rendendo accessibili alle famiglie del territorio in difficoltà economiche dei percorsi di ​musicoterapia​.

La musicoterapia è una tecnica che, grazie al coinvolgimento di un musicoterapeauta qualificato, utilizza la musica e i suoi elementi per migliorare le ​capacità comunicative​, ​relazionali​, ​espressive​, di ​concentrarsi e di ​riconoscere le emozioni delle persone con diverse forme di disabilità o ​affette da autismo​. I miglioramenti che si possono ottenere con la musicoterapia sono notevoli, proprio come è successo ad ​Andrea​, che ha fruito della musicoterapia grazie al sostegno di Passo Passo.

La storia di Andrea è alla base del nostro desiderio di rendere la musicoterapia accessibile a più ragazzi possibili – ha dichiarato ​Danilo Rasia, presidente dell’Associazione Passo Passo​.

Andrea ha 15 anni, nato prematuro alla ventiquattresima settimana è cieco, sordo e muto. Compiuti i tre anni ad Andrea è stato impiantato un sensore cocleare che gli ha permesso di recuperare in parte l’udito, ma con l’inizio della scuola ha cominciato a mostrare un ​comportamento aggressivo e delle ​difficoltà a rapportarsi con i compagni​. In accordo con la neuropsichiatria infantile Andrea ha iniziato un percorso di musicoterapia, per migliorare la sua capacità di relazionarsi e di esprimere le emozioni.

Una musica anche per me musicoterapia e disabilita - Crowdfunding IMM1

Imm. 1 e Imm. 2 – Andrea durante le sedute di musicoterapia

Inizialmente non è stato facile – ha proseguito Rasia – durante le sedute Andrea si dondolava e non voleva ascoltare quel che gli accadeva intorno. ​All’undicesimo mese di terapia però c’è stata la svolta

Andrea infatti non ha più voluto togliersi i sensori cocleari per non ascoltare, ha cominciato a ​muoversi in sincrono con la musica, a emettere suoni che assomigliano a un accenno melodico vocale e, soprattutto, a condividere a livello affettivo la musica​ con la musicoterapeuta ​suonando anche lui il pianoforte​.

Nel tempo Andrea ha fatto ulteriori progressi, acquisendo consapevolezza delle proprie capacità e interessandosi a sé e agli altri; per questo motivo vogliamo ​rendere disponibile la musicoterapia a tanti altri ragazzi e chiediamo alla comunità di aiutarci a farlo​ – ha continuato Danilo Rasia.

L’obiettivo della campagna ​Una musica anche per me ​è di raccogliere ​9.000 euro​, che saranno utilizzati da Passo Passo per aiutare le ​famiglie di 15 bambini del territorio bolognese a coprire parte delle spese da sostenere per fruire ciascuna di ​un ciclo di 30 sedute di musicoterapia nel corso di un anno.

Per sostenere la campagna di crowdfunding è sufficiente selezionare il progetto ​Una musica anche per me sulla piattaforma ​Ideaginger.it e donare tramite PayPal, carta di credito e bonifico bancario. Passo Passo ha previsto diverse ricompense per i sostenitori, tra cui anche la possibilità di recapitare un proprio personale messaggio a una delle famiglie che beneficeranno del progetto.

Aiutateci, insieme possiamo rendere la musicoterapia accessibile anche alle ​famiglie in difficoltà economiche della nostra comunità​. Chiunque con una donazione può aggiungere la propria nota a uno spartito armonioso da suonare tutti insieme, quello della solidarietà – ha concluso Danilo Rasia.

 

Informazioni e contatti

Luca Borneo:

Mantieni il bacio: Massimo Recalcati racconta il suo ultimo libro con una Lectio Magistralis al Teatro Franco Parenti

È nella suggestiva cornice del Teatro Franco Parenti a Milano che alcuni giorni fa Massimo Recalcati ha presentato il suo ultimo libro Mantieni il bacio, una raccolta delle sette lezioni che l’autore ha ideato per il fortunato programma televisivo Lessico Amoroso, che negli ultimi mesi ha accompagnato nottambuli e telespettatori appassionati.

 

Mantieni il bacio è un libro che raccoglie lezioni brevi sull’amore da una prospettiva naturalmente psicoanalitica, quale è quella dell’autore Massimo Recalcati. Nel libro ritroviamo i testi inediti delle sette puntate televisive che hanno visto Massimo Recalcati protagonista, ma in realtà c’è anche qualcosa in più, come ci racconta ridendo l’autore stesso, che nelle pagine del libro ritrova la possibilità di esprimersi in libertà, non più costretto dai rigidi tempi televisivi.

Lectio Magistralis al Teatro Franco Parenti

Il teatro è già pieno quando Massimo Recalcati fa il suo ingresso, ad attenderlo sul palco solo una sedia e un microfono perché per parlare d’amore non serve molto altro.

Quella a cui stiamo assistendo non è tuttavia soltanto la presentazione del suo ultimo libro Mantieni il bacio, ma una vera e proprio lectio magistralis, potremmo definirla l’ottava lezione del Lessico Amoroso, che riunisce tutte le precedenti dando una visione d’insieme sull’amore e sulle relazioni amorose.

Mantieni il bacio (2019) di M. Recalcati e il successo di Lessico Amoroso

Attraverso le parole di chi prima di lui ha provato a parlare dell’amore, Massimo Recalcati cerca innanzitutto di darne una definizione secondo la prospettiva psicoanalitica attuale che, pur essendo estremamente riconoscente alle scoperte del suo fondatore Sigmund Freud, è tuttavia chiamata ad andare oltre. L’amore non può più essere spiegato solo come una coazione a ripetere e come ricerca dell’Altro come mezzo per soddisfare una passione narcisistica dell’Io per se stesso, o meglio, per il suo ideale narcisistico.

L’amore che racconta Massimo Recalcati, e che ritroviamo nel suo libro Mantieni il bacio, non è solo pulsione o desiderio. L’amore è incontro, incontro con l’altro, e come tale ha una forza generatrice immensa. In tale incontro nasce un mondo nuovo, nel quale le nostre esperienze hanno un sapore diverso da quello che avevano prima, e nasce anche una nuova parte di noi, che prima non conoscevamo.

Diventa chiaro dunque perché la fine di una relazione può essere così dolorosa e perché il separarsi dall’altro possa costare tanta fatica: chi sarebbe disposto ad abbandonare quanto di nuovo ha trovato senza lottare nemmeno un po’? La fine di una relazione amorosa non è dunque soltanto perdita dell’altro ma è anche, e soprattutto, la perdita di tutto ciò che di nuovo si è trovato nell’amore.

Probabilmente per le stesse ragioni, l’amato è mosso da una “spinta appropriativa” nei confronti dell’altro: vuole l’altro vicino a sé come co-autore di questo nuovo mondo nascente. Per usare le parole di Massimo Recalcati tale spinta si identifica con il “voler possedere l’altro mentre è libero, possedere la sua libertà, lasciandolo libero di scegliere me sempre”. O per lo meno questo è quello che succede in quelle relazioni amorose che possono essere definite “sane”.

Questo concetto ci traghetta verso quello che è un tema centrale della lectio di Recalcati, che ribalta tutte le visioni dell’amore come mezzo necessario per colmare una mancanza e una frattura dell’anima. Secondo l’autore, l’amore è piuttosto causa stessa di una mancanza. Per non sperimentare tale mancanza l’amore può farsi violento, diventa appropriazione dell’altro e negazione della sua libertà, quella stessa libertà che precedentemente era creatrice di un mondo nuovo e condiviso. Il discorso si sposta dunque su temi di attualità aprendo una riflessione su tutte le forme di violenza e sottomissione che purtroppo oggi sono così spesso oggetto di cronaca.

In conclusione

Massimo Recalcati ci racconta dell’amore in un modo nuovo. In Mantieni il bacio e nelle sue lezioni ritroviamo tutto il sapere psicoanalitico accompagnato da una grande fiducia nei confronti dell’amore, che ci espone al rischio folle di farci un gran male ma che al tempo stesso “ogni volta ci salva dalle ferite del mondo”.

Ci insegna inoltre, riprendendo le parole di Lacan che “l’amore è sempre eterosessuale” nel senso che l’amore, quello vero, è solo l’amore per ciò che è “hetero”: altro, diverso (da me).

Sono forse insegnamenti semplici ma non per questo meno preziosi, che solo se tenuti nella mente e nel cuore possono permetterci di godere di tutta la bellezza e la gioia dell’incontro d’amore.

Alla ricerca della sintonizzazione

Prerequisito indispensabile per una buona alleanza (e di una buona terapia) è la sintonizzazione tra terapeuta e paziente, tra due persone che interagiscono tra di loro. Intendo per sintonizzazione una forma di legame che va al di là dell’autoriflessività del terapeuta o del paziente, della comprensione dei bisogni dell’utente, del perseguimento di obiettivi comuni o della soddisfazione delle aspettative di entrambi i membri della relazione.

 

Si suggerisce l’ascolto di Something Stupid di Lola Marsh durante la lettura.

Si parla e si è parlato molto di alleanza terapeutica e di come preservarla. Gli autori da citare sarebbero decine ma non è questa la sede. Tuttavia, prerequisito indispensabile per una buona alleanza (e di una buona terapia) è la sintonizzazione tra terapeuta e paziente, tra due persone che interagiscono tra di loro. Intendo per sintonizzazione una forma di legame che va al di là dell’autoriflessività del terapeuta o del paziente, della comprensione dei bisogni dell’utente, del perseguimento di obiettivi comuni o della soddisfazione delle aspettative di entrambi i membri della relazione. Va al di là anche delle classiche dinamiche di rottura e riparo della relazione di cui tanto è ricca la letteratura. Una sintonizzazione scarsa o assente tra terapeuta e paziente diventa un problema: “Prima che per ciò che genera, per ciò che non genera: non genera le risposte adeguate a una serie di domande implicite poste dal paziente” (Salvatore, 2018). Ma allora che cos’è la sintonizzazione e dove si trova? Come si acquisisce? La risposta è…42 (Adams, 1980). Scherzo (o forse no)!!!

La sintonizzazione è…

E’ più semplice “sentire” la sintonizzazione dentro di sé, piuttosto che spiegarla, è più facile “trovarla” che cercarla. Si è scritto tanto sulla sintonizzazione preriflessiva tra madre e neonato, tuttavia forme molto raffinate di connessione si possono trovare in qualsiasi tipo di relazione: tra amici, fidanzati, conoscenti, ma anche con lo sconosciuto in ascensore. A volte sono scambi che durano meno di mezzo secondo: uno sguardo di intesa, una risata assieme, una battuta, un semplice saluto, oppure un gesto di scuse. In ogni caso, sono sempre accompagnati da un correlato somatico positivo: calore alla pancia, muscoli distesi, postura aperta, sorriso, rilassamento, ecc. Sintonizzazione preriflessiva è: “La percezione immediata di essere simile all’altro” (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).

Si tratta di aspetti prosociali che non sono ragionati e sono anche difficilmente verbalizzabili, tuttavia capitano e ci fanno sentire bene. Esattamente come la famosa mamma sintonizzata (decantata dalla letteratura di psicologia evolutiva degli ultimi 60 anni) che gioca col neonato. Lei non lo fa di proposito, non decide cosa dire e come agire, lo fa e sa come farlo. Sono processi relazionali continui, spesso inconsapevoli, in cui ci si scambia e si comunica in modo sintonizzato (Stern, 2005). Winnicott parlava di “rispecchiamento” (Winnicott, 1971). Si tratta di un automatismo neurofisiologico che favorisce la sintonizzazione preriflessiva e profonda con l’altro (Rizzolati et al., 2002). Non vi è nessuna logica o inferenza, è una procedura automatica inconsapevole, preverbale e paraverbale che connette gli stati mentali dell’uno e dell’altro (Gallese, 2003). Sono connessioni sensomotorie, che permettono la co-regolazione emotiva e somatica dei partecipanti ma anche la loro postura, la gestualità, il grado di vicinanza o di distanza tra loro (Ogden, Fisher, 2015). Una sintonizzazione deficitaria o assente nei legami genitori-neonati, genitori-bambini e più in generale nei legami intimi, può portare ad avere relazioni affettive insoddisfacenti in età adulta. La persona può avere difficoltà a sintonizzarsi anche nelle relazioni più intime, non riesce a entrare in risonanza affettiva con gli altri, è assente quella condizione del sentirsi connessi e vicini agli altri, magari si riesce a comprendere gli altri ma se ne rimane distanti, provando sofferenza, senso di inefficacia e indegnità (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).

Con pazienti gravi o con scarsa capacità di sintonizzazione diventa perciò fondamentale creare un buon clima relazionale in seduta fin da subito, questo non è però cosa scontata da realizzarsi, è importante che il terapeuta trovi dei modi adatti per innescare e alimentare questa compartecipazione, parlando anche di altro: sport, musica, cinema o interessi comuni (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017) e riconoscendo costantemente cosa accade nella “pancia” del terapeuta mentre il paziente è di fronte a lui. Il terapeuta capisce quando risulta più produttivo sospendere le sue pratiche terapeutiche cercando di sintonizzarsi con il paziente. Dialoga con lui all’interno di “nicchie di condivisione” relative a temi di interesse comune non inerenti la terapia (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017). Operazioni del genere favoriscono la sintonia tra terapeuta e paziente, abbassano le difese e il disagio del paziente, favoriscono l’accesso a stati mentali interni positivi, innescano la curiosità e la cooperatività (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).

Momenti di significativa sintonizzazione reciproca possono anche diventare la causa principale del cambiamento in terapia (BCPSG, 2012). D’altronde è più che normale: si tratta di persone che non hanno mai esperito stati del genere, da neonati venivano allattati o cullati senza alcuna risonanza affettiva, da bambini giocavano da soli, da ragazzini non venivano incoraggiati nelle loro scelte o interessi e da adolescenti non capiti nei loro legittimi desideri esplorativi.

Dobbiamo essere noi terapeuti a far loro vivere e rivivere questi stati, spesso mettendo da parte le tecniche, le nostre conoscenze, gli ABC o altri strumenti che paradossalmente possono aumentare la distanza e l’invalidazione, dimenticare per un attimo gli anni di studi e i libri (“Il terapeuta troppo efficiente che diventa deficiente” cit. da supervisione individuale), modulando la nostra fretta di “guarirli” e semplicemente “stando” con loro in modo autentico e sentito. Un po’ bisogna esplorare i temi e gli argomenti comuni, altre volte invece è necessario che rilassiamo le spalle e ci lasciamo andare (e qui la disciplina interiore, gli schemi e l’autoriflessività del terapeuta giocano un ruolo fondamentale), senza cercare la risposta giusta o l’argomento ottimale, senza pensarci troppo. Una buona sintonizzazione quindi soddisfa almeno due obiettivi terapeutici: oltre a favorire momenti di condivisione emozionale profondi e sentiti (raramente sperimentati da pazienti con strutture di personalità così rigide e pervasive), favorisce in loro una migliore comprensione del proprio mondo interno, stimolando maggiore autoriflessività e la differenziazione. Queste due funzioni sovracorticali: condivisone emotiva e autoriflessività, diventano il punto di partenza di ogni cambiamento clinico.

Nelle oscure stanze, la sintonizzazione “in vivo”

Vediamo adesso cosa succede nello studio e come si manifesta questa sintonizzazione tra terapeuta e paziente durante il dialogo clinico. Faccio alcuni esempi reali esponendo ogni caso attraverso la ricostruzione dello schema di funzionamento dei pazienti seguendo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale: TMI (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013).

Diego, 45 anni, prima seduta, paziente con funzionamento narcisistico, molto spento e devitalizzato, desiderio di autonomia ed esplorazione, la procedura interiorizzata è: “Se mi espongo gli altri mi scoraggiano o ci rimangono male, quindi mi vedo bloccato, non supportato e provo un senso di oppressione e di colpa”. Le conseguenze (coping strutturatisi negli anni) sono il ritiro sociale e il dismissing. Esordisce dicendo che ha sempre pensato che lo psicologo che lo avrebbe preso in trattamento sarebbe dovuto andare anche lui dallo psicologo. Gli rispondo ironicamente che ci vado già da anni e lui mi sorride sorpreso. Parliamo del più e del meno e mi dice che guarda spesso in TV “Quattro Ristoranti”, con lo chef Alessandro Borghese. Lo lascio parlare ma mentre ascolto ho un desiderio forte di condividere con lui che a me piace tantissimo “Quattro Hotel” con Bruno Barbieri, sento l’impulso come quando a scuola la prof interroga un tuo amico, sai la risposta benissimo e la vorresti dire. Mi inserisco in una pausa, faccio questo piccolo autosvelamento e lui per mezzo secondo si illumina, mi rivela che in effetto lo preferisce a “Quattro Ristoranti” e ci rammarichiamo assieme del fatto che è finito. Commentiamo qualche puntata e gli faccio notare questo suo stralcio di rivitalizzazione, lo cogliamo e lo fissiamo e per un attimo ne rimane sorpreso. Ecco, questa è un cellula di cambiamento. Io ho sentito quello che sentiva lui, basandomi su quello che avevo dentro io, condividendolo, lui si è reso conto di questo aspetto vitale di se, sempre scoraggiato o ignorato da se stesso e/o dagli altri. Poi ovviamente ritorna al suo coping di chiusura e inibizione emotiva, non batte più ciglio al riguardo, nonostante fosse una delle sue trasmissioni preferite. Gli faccio notare questo suo cambiamento di stato e quasi si pietrifica, vorrei fargli notare anche questo ma per adesso preferisco non insistere, come primo colloquio va già bene così.

Paola ha 25 anni, schema borderlinedipendente: desidero cure, riconoscimento identitario, essere vista nella mia esistenzialità, l’altro mi rifiuta, non mi considera o è ambivalente, quando ciò accade avverto un vuoto indescrivibile e mi sento sprofondare, scomparire. Mi racconta che durante una vacanza con il suo ragazzo, lei parlava entusiasta di ciò che stavano vedendo (un monumento), si gira verso di lui e il suo volto è perso nel nulla, non la stava ascoltando, non ricordava nemmeno cosa lei aveva appena detto, litigata davanti al monumento. Mi dice che si è sentita insignificante, invisibile, come Amelie Poulain in una scena del film, nel bar, in cui lei si liquefa quando il suo corteggiatore non la nota proprio. Piange a singulti. La capisco, ma qui per un motivo diverso, stavolta mi identifico con il comportamento invalidante del suo ragazzo, riconosco le volte che capita anche a me di metterlo in atto involontariamente con mia moglie o con i miei figli, perché magari penso al lavoro, a qualche articolo (anche a questo) o ad altro. Ecco, davanti a me, ho la conseguenza reale di come ci si può sentire in certi momenti. Stavolta è il mio senso di colpa ad avvicinarmi a lei, mi sintonizzo con lei grazie a questo. Oltretutto, lo stato doloroso della paziente mi fornisce un’occasione preziosissima per incrementare la mia di autoriflessività riguardo questo mio modo di fare (spero raro) con la mia famiglia o i miei cari. Quante cose possono insegnarci i pazienti se stiamo un poco attenti.

Un paziente con schema evitante, Davide 35 anni, ha uno stile di vita solitario e ritirato, mi fa tanta tristezza. Ricordo un periodo preadolescenziale in cui litigai con un amico caro e per settimane non volli frequentare nessuno, era anche estate, ero proprio depresso. Parliamo di musica, mi dice che gli piace il rock e dei gruppi musicali che nessuno ascolta. Spesso va ai concerti da solo. Lo dice alzando il capo diagonalmente e socchiudendo gli occhi, in questo gesto di mezzo secondo ci sono 35 anni di invalidazione, dalla famiglia, dagli amici o chissà da chi. Mi vengono in mente le volte in cui sono stato criticato o preso in giro per i miei gusti musicali (e non solo) e rivivo quelle emozioni di vergogna, umiliazione e tristezza, forse le stesse che prova lui in quel gesto che ha fatto. Gli dico che capitava anche a me quando ero metallaro, capellone e giravo in pantacollant, gli racconto che oscillavo continuamente tra vergogna, paura dell’umiliazione e rabbia. Rabbia perché a me la mia musica piaceva, mi fa e mi faceva stare bene e loro non avevano il diritto di giudicare. In quel momento sorride un pochino e mi dice che capita anche a lui di provare emozioni simili, riconosce la vergogna del vedersi diverso, strano, manchevole rispetto agli altri, gli è capitato tantissime volte. Abbassa il capo e le spalle, in quel gesto rivedo le tante volte in cui io non mi sono sentito accettato e capito, non solo per la mia musica ma anche per altri motivi. Gli dico che in casi del genere io mi sentivo anche un po’ triste, riconosce in lui la tristezza, e il fatto che spesso si è sentito solo ed escluso dagli altri. Continuiamo a parlare di musica, mi cita i Green Day, non è il mio genere ma conosco bene un paio di dischi: “Dookie” e “American Idiot”. Gliene parlo, ci confrontiamo su alcuni brani e questi due dischi, lui non si smuove molto ma si vitalizza un pochino quando mi dice che effettivamente dopo “American Idiot” non hanno fatto più album decenti. Bene, ci siamo, stiamo in un rally, io pilota e lui navigatore o viceversa, siamo in fuga.

Schema narcisistico, Matteo ha 50 anni, mi dice che gli piace il cinema, ma non i soliti film di Hollywood o le commedie italiane attuali. Con tono sprezzante e un po’ altezzoso dice: “Mi piacciono quei film introspettivi indipendenti americani”. E qui sento un subbuglio nello stomaco, quante volte mi è capitato di soffermarmi su film intensissimi sconosciuti facendo zapping in TV, il cinema realista indipendente americano degli ultimi 20 anni. Quello che va da “Buffalo ’66” al Sundance Festival per intenderci (anche se ormai Hollywood ci ha messo il naso sopra), molti non sono veramente indie, ma di certo lontani dal mainstream. Dice: “Mi piacciono quei film in cui non succede niente ma succede tutto, dove non c’è morale, catarsi o soluzione, non ci sono messaggi sentimentali o pipponi intellettuali ma solo descrizioni di personaggi che si muovono sulla scena, senza alcuna differenza tra noi spettatori e loro, ad esempio…”. Rimango a bocca aperta e col respiro sospeso, due film mi ronzano in testa, aspetto col fiato bloccato e una linea di tensione che mi sale dalla pancia alla gola, come quando flirti la prima volta con una che ti piace. Attendo che faccia lui la prima mossa. Fuori i titoli: “Tre manifesti a Ebbing” e “Manchester by the sea”. Sono gli stessi che avevo io in testa. Mi commuovo (sul serio), vorrei abbracciarlo, mantengo contegno, ma condivido con lui il mio entusiasmo per questi film. Ripenso a come mi sono sentito mentre guardavo questi film, condividiamo emozioni e sensazioni e scopriamo che sono molto simili. Non è più borioso e antipatico adesso, gli faccio notare che lo vedo più rilassato, lui si sorprende e mi dice che è vero, si sente capito, per un attimo non ha avuto bisogno di proteggersi e di mostrarsi superiore agli altri, siamo due bambini in spiaggia a giocare con la sabbia.

Giovanni ha 25 anni, lo schema è il seguente: ho un desiderio di autonomia ma se faccio quello che veramente mi piace e vorrei fare gli altri ci rimangono male, saranno delusi da me e li faccio soffrire. Questo mi fa sentire molto in colpa e provo anche vergogna. Lavora 12 ore al giorno in un ambito che non gli piace. “Si Doc, se mi vado a prendere un caffè al bar con gli amici o dormo fino a tardi anche se è domenica, mi sento in colpa”. Ricordo qualche episodio in cui mi sono sentito anche io così, quasi come se potessi in qualche modo danneggiare i miei cari, farli soffrire o apparire ai loro occhi come un irresponsabile, la pecora nera della famiglia. Immagini dolorose di me che tentavo in tutti i modi di tenere lontane, anche se non vere, anche sacrificando la mia autonomia, anche se era estate e sarei voluto andare al mare con i miei amici ma i miei genitori volevano che lavorassi per guadagnare qualcosa, che i soldi non bastavano mai e la scuola costava. Certo che lo capisco. Lui continua a parlare, mentre io navigo nei miei ricordi con tristezza: “Mi vedo come un debosciato, un parassita, come…”. Indovinate chi mi cita? Mentre lui parla io già me lo rappresento in vestaglia, White Russian e capelli inzevati: “Il grande Lebowsky”, dice lui, io da sopra a lui: “Il drugo!!!”. Ed entrambi ridiamo mentre i nostri corpi si rilassano, la postura diventa morbida e ci sentiamo e posizioniamo più vicini. Commentiamo qualche scena del film. Io ho un piacevole calore alla pancia, siamo quasi commossi ma contenti.

Con Morgan (27 anni) dopo 20 interminabili minuti di seduta non succede niente, ma proprio nulla. L’atmosfera è grigia, i suoi occhi sono inespressivi e il volto è piatto. E’ chiuso in un mutismo coartato, io comincio a dissociare, mi perdo nei suoi occhi e la stanza gira, ho anche freddo. C’era un mio ex datore di lavoro con cui mi sentivo così, lo ricordo bene. Solo la sua presenza, mi faceva sentire giudicato e minacciato nel mio valore, anzi peggio, proprio come se non esistessi, forse così si sente Morgan con me adesso. Ha ragione a essere coartato, lo potrei umiliare, schiacciare o fargli del male. Ritorno in me, gli dico che ho un po’ freddo e che mi sembra che entrambi stiamo congelando, lui annuisce e dice che è vero, gli dico che deve essere molto “fastidioso” trovarsi in una stanza con una persona e provare sensazioni simili. Gli chiedo se gli è capitato altre volte, mi risponde freddo: “Ogni giorno”, e colgo un velo di tristezza nella sua voce. “Non deve essere per niente bello vero?” gli dico con voce calda. E lui: “E no…”. Lo sento molto più vicino adesso. Gli propongo di uscire da questo stato, è un bravo chitarrista, io un discreto tastierista, ho gli strumenti in sala d’aspetto. Che cosa stiamo aspettando? Dopo 3 minuti di musica la stanza è colorata e il calore avvolge entrambi.

Pazientina psicotica, Clara 20 anni, nonostante il disturbo piuttosto serio (ha spesso delle crisi di angoscia molto intense e dolorose) è una tipa molto fashion, legata alle frivolezze estetiche e ai dettami della moda. Truccata in modo abbondante, abiti e abbinamenti scelti con cura, microgonna e scollatura stile “femme fatale” o “Amici di Maria”, borsa che costa uno stipendio statale e risatine incontrollate a profusione. Io ultraquarantenne cerebrale, con pancia e calvizie avanzata, vestito alla meno peggio. Cosa possiamo mai condividere? Dove ci sintonizziamo? E invece cominciamo a ridere e a scherzare su quanto sono buffi e rompiscatole i bambini, raccontiamo aneddoti e scenette, lei dei suoi nipotini, io dei miei figli. Ridiamo di gusto per un buon quarto d’ora. Mette la mano davanti alla bocca e le lacrime, stavolta di riso, la struccano un poco, si è scomposta ma è contenta, come raramente forse le accade.

Ecco, tutto questo è per me “sintonizzazione” e perché è fondamentale per una buona terapia. Almeno per adesso, meglio non so descriverla.

(Grazie a G. Salvatore per i preziosi spunti e suggerimenti)

Antropologia del dono. Dal dono alla relazione

Quante volte nel corso della nostra vita ci siamo trovati a scegliere un regalo, a dedicare tempo agli altri e a essere compiaciuti nell’immaginare la felicità dell’altro di fronte al nostro dono.

 

Adorno scrive che

la vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l’altro come un soggetto..

In sostanza, donare, per dirla con Mauss, vuol dire creare una relazione con l’altro.

Nel famoso saggio Essai sur le don (1922), egli sostiene che il dono nelle società arcaiche e primitive rappresenterebbe lo scambio, libero e non costrittivo, attraverso il quale si creerebbero le relazioni non solo tra singoli individui ma dell’intera società. Lo scambio di doni inteso come l’alternarsi tra il dare e il ricevere, senza la stipula di nessun contratto di tipo economico e commerciale, porta alla nascita delle relazioni sociali e al mantenimento del sistema sociale.

Il dono tra i pastori sardi della parradura

A tal proposito, voglio portare ad esempio una pratica tipica delle comunità della Sardegna definita paraddura che era una modalità solidale con cui i pastori facevano fronte a situazioni di emergenza. Nel momento in cui un gregge era colpito da un’epidemia o qualsiasi altro evento distruttivo non dipendente dalla volontà del proprietario, tutti gli altri pastori donavano, allo sfortunato pastore, una pecora giovane in modo che si potesse ricostituire il gregge. Tale gesto era effettuato nella speranza e nella fiducia che l’incolpevole pastore in casi simili si comportasse allo stesso modo.

Paolo Carboni ne “Il tema del dono nella letteratura di viaggio e nella demologia sulla Sardegna tra Ottocento e Novecento” riporta la descrizione della paraddura di Padre Bresciani, un viaggiatore che visitò la Sardegna nell’800:

Voi dovete sapere che nelle Marghine, nel Goceano, nella Barbagia e nella Gallura, luoghi ov’ha molti pastori di vacche, di pecore e di montoni, incontrano alcuni accidenti che disertano i bestiami; siccome una larga caduta di neve in sui monti, o una pestilenza, od altre sciagure. La onde alcuna volta interviene che un pastore agiato di molti capi di bestie perde a mano a mano la mandria, e cade in povertà. Il che suol accadere alcuna volta anche per liti domestiche, per avidità de procuratori, per crudeltà degli avversari, per vendetta di qualche nimico, e per rapina di ladroni. Ed ecco il pover’uomo con molta famiglia di figliuoli venuto nell’inopia, e non aver luogo d’uscirne, ove il lodato animo e generoso de suoi consorti, amici e conoscenti non gli afferissero via di ristorare la scaduta fortuna. Veduto il loro paesano in quello stremo, s’adunano a consiglio i buoni uomini del contorno, e discorrono i modi di sovvenirle. Indi, convenuti fra loro in sul partito da usare, chiamano il pastore tapino, e consolatolo di buone parole, e bevuto un tratto alla sua salute, ciascuno gli presenta in dono una vitella del suo armento, e pregandogli da Dio ogni buona ventura, il rimandano colla novella torma raccogliticcia alle sue capanne. Di che il poverello del pastore, donde poverissimo partito s’era il mattino, ritorna se non ricco, almeno bastevolmente fornito di venti e sin trenta capi di bestie. Intanto il pastore, fatto miglior massaio, procura il suo gregge con ogni sollecitudine, e d’anno in anno, favorendolo Iddio, accresce la sua mandria per guisa da tornare alla prima agiatezza. Né egli professa altr’obbligo ai donatori, che quello d’esser presto, ov’altri cada in bisogno, di  porgere quel ristoro ch’ei ricevette dall’altrui liberalità.

Non vi è dubbio che il dono dei pastori sardi non era solo un gesto di solidarietà ma serviva anche a mantenere in equilibrio il sistema economico e sociale. Il pastore che si trovava senza gregge doveva pur sfamare la famiglia e, quindi, poteva prendere strade diverse come quella di rubare il bestiame.

Una comunità si fonda sui legami e, per dirla con Cigoli, nel mondo di questi ultimi vi è un triangolo sacro che a che fare con fiducia, speranza, giustizia. Sono i tre elementi presenti nella paraddura: la speranza e la fiducia che il gesto sia ricompensato alla prossima occasione; l’eticità del gesto sia sul versante economico sia su quello sociale (giustizia).

Il dono nelle società primitive amerinde

Se il dono crea legami, vuol dire che cura l’incontro con l’altro che non è necessariamente un tu ma l’intera collettività. Mauss, sulla base degli studi svolti presso alcune società primitive amerinde della costa nord-occidentale del pacifico degli Stati Uniti e del Canada, osservò che queste tribù (Haida, i Tlingit, i Tsimshian, i Salish, i Nuu-chah-nulth e i Kwakiutl) praticavano una cerimonia rituale chiamata potlach. Tale cerimonia consisteva in un banchetto a base di carne di foca o di salmone in cui erano distrutti i beni considerati effimeri mostrando così la potenza alle tribù ospitate che, a loro volta, erano costrette a eseguire lo stesso comportamento nel momento in cui organizzavano loro il potlach. Inoltre, durante la cerimonia avvenivano molti scambi di doni che spesso erano distrutti nel momento stesso in cui erano donati, come ci informa F. Boas nei suoi studi sugli indiani Kwakiutl (1987). Il potlach, comunque, non serviva esclusivamente a mostrare la propria potenza economica alle altre tribù ma anche ad affermare la posizione gerarchica dei vari membri che attraverso la distruzione di beni considerevoli mostravano il loro rango. Era, infatti, una sorta di gara al fine di mostrare il proprio valore economico. Ciò che colpisce in questa pratica è che la propria potenza economica o rango sociale non è mostrata attraverso l’accumulo di beni e possedimenti, come avviene nelle società occidentali fondate sulla legge di mercato, ma attraverso ciò che Mauss definisce l’economia del dono. Infatti, la caratteristica principale del potlach è la distruzione dei beni, mentre nelle moderne società capitalistiche e fondate sulle economie di mercato è il mostrare i beni e i possedimenti. Pensiamo per un attimo alla griffe di moda o ai gioielli con cui si accompagnano le signore a ogni uscita pubblica e, ancora, alla cura con cui si scelgono gli abiti delle migliori sartorie. In sostanza nel potlach si deve dare per mostrare la propria potenza, nelle società postmoderne e capitalistiche, al contrario, si deve accumulare.

Il dono e il donare come dare-ricevere-ricambiare

Prima di Mauss, Malinowski nel suo famoso saggio “Gli Argonauti del Pacifico Occidentale” (1922) descrive un cerimoniale di scambio di doni simbolici da parte degli abitanti delle isole Trobiand. Essi percorrevano migliaia di chilometri in canoa per scambiarsi collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche. Il rituale prevedeva dei giri a cerchio per cui quelli provenienti da nord portavano collane e quelli provenienti da sud braccialetti, in modo che lo scambio era sempre di una collana per un braccialetto e viceversa. I due oggetti secondo la tradizione locale erano impregnati di significati magici e avevano una forte influenza sugli spiriti del mare e delle spiagge. Lo scambio di doni produceva sul piano strettamente pratico, anche se non voglio tralasciare il potere magico del dono, lo stabilirsi di un rapporto di fiducia reciproca attraverso la quale avveniva anche uno scambio di prodotti materiali come indumenti, cibo e altro ancora.

Per andare a giorni più vicini a noi, si fa per dire, anche Cristoforo Colombo o gli altri conquistatori del nuovo mondo portavano dei doni per creare dei legami amicali con le popolazioni indigene.

Gli studi di Mauss, infatti, hanno come scopo la ricerca dei principi su cui si fondano le società e lo individua nella pratica del dono che è in grado di realizzare una relazione libera e obbligatoria nello stesso tempo.

Egli sostiene che il dono contiene tre caratteristiche fondamentali: “dare, ricevere, ricambiare” e mostra come i tre fondamenti del dono fossero essenzialmente obbligatori all’interno delle comunità primitive da lui studiate. Si deve “dare” per mostrare la propria potenza, la propria ricchezza; si è nell’obbligo di “ricevere”, cioè non si può rifiutare il dono, pena la scomunica della comunità e il disonore; si deve “ricambiare”, cioè restituire alla pari o accrescendo ciò che si è ricevuto: restituire meno di ciò che si è ricevuto, è un’offesa al donatore.

Il dono comporta un dare e un ricevere ed anche un contraccambiare che è già insito nella stessa etimologia del termine.

Il dono e il donare: l’etimologia del termine

Stefania De Donatis (2005), riprendendo Benveniste (1971), fa rilevare che nelle lingue indoeuropee il significato di «dare» è espresso dalla radice dô. In seguito, uno studio sul verbo ittita «dâ», che avrebbe significato di «prendere» e non quello di «dare», ha generato un po’ di confusione in merito a questa delicata quanto interessantissima questione linguistica: quale tra questi due verbi doveva essere l’originale? Prendendo in considerazione il termine stesso di «dono», è possibile notare che questo, pur mantenendo in generale la radice «dô», si differenzia in forme nominali che acquistano significato variabile secondo il contesto. Queste sono: dôs, dósis, dôron, dôreá, dôtínê, cinque parole tra loro distinte, ma tutte uniformemente traducibili con «dono, regalo».

La prima, dôs, è il modo più semplice di esprimere il dono, l’idea del dono, cioè, nella sua forma più astratta: «donare è bene, sottrarre è male» si legge in Esiodo. Dósis è, invece, l’atto del donare suscettibile di attuarsi in dono, è il dono in potenza, è il dono promesso in anticipo come ricompensa di un atto di audacia. È possibile scorgere in questo caso l’indiretto riferimento a entrambi i significati della radice verbale dôs: infatti, perché si possa rendere concreto il dono promesso (affinché si possa dare), deve essere esaudita la condizione di partenza, si deve, cioè, ricevere qualcosa in cambio (si deve poter prendere). Dôron e dôreá presi insieme, indicano, il primo, il dono materiale, il dono stesso, il secondo, il fatto di portare, di destinare in dono, l’azione di donare che si dispiega in forma gratuita e senza obbligo di ricambiare. Dôtínê, infine, indica il dono che obbliga a un controdono; la dôtínê ha lo scopo di provocare un dono in cambio, qualcosa che compensi un dono precedente. Tale nozione consiste, dunque, nell’attualizzazione dell’idea di reciprocità, di rapporto, di scambio, nella circolazione di doni che ricambiano e che chiedono d’essere ricambiati. La parola dôtínê, più delle altre, ha chiaro nel suo significato il concetto di scambio reciproco esplicitato sotto forma di patti, alleanze, amicizie, ospitalità.

Il dono e la sua forza magica

Un’altra caratteristica insita nel dono e individuata da Mauss è il mana. In sostanza egli sostiene che il dono è dotato di un forte potere magico nello stabilire la relazione con l’altro o gli altri. Il termine mana è di origine malenisiana e in generale è tradotto come “forza sovrannaturale”, “potere spirituale”, “efficacia simbolica” e può essere tradotto con “forza vitale”. Nelle hawaii il termine mana assume il significato di “forza che viene da dentro”.

Mircea Eliade (7) (1948), nel suo “Trattato di Storia delle Religioni” sostiene che il mana è insito nella corporeità delle cose: per l’uomo arcaico un oggetto animato o inanimato che sia nel momento in cui si manifesta è dotato di una sua forza vitale. Il dono ha una sua forza vitale che gli dà il potere di stabilire il legame con l’altro.

Questa forza magica insita nel dono ci darà in appresso la possibilità di parlare del legame e del mito che spesso è stato analizzato e vissuto come potere sovrannaturale e magico.

 

Praticare uno sport di squadra porterebbe benefici al cervello dei bambini

A livello cerebrale, è ormai noto, la depressione risulta associata ad un ridotto volume dell’ ippocampo. Evidenze recenti invece mostrano un aumento del volume dell’ ippocampo in bambini che praticano sport di squadra. Alcuni ricercatori hanno pertanto cercato di studiare se tra questi fattori esiste un qualche tipo di relazione.

 

Da tempo è noto che la depressione negli adulti risulti associata ad un restringimento della zona cerebrale dell’ ippocampo, regione che gioca un ruolo fondamentale nella memoria e nella risposta allo stress. In tal caso, il volume della regione cerebrale in questione potrebbe essere un fattore di protezione per evitare lo sviluppo della depressione in età adulta.

Alcuni ricercatori della Washington University di St. Louis si sono interrogati sull’importanza del volume dell’ ippocampo nell’insorgere del disturbo e su come eventualmente il volume dell’ ippocampo potrebbe essere aumentato.

Lo studio

Una recente ricerca (Gorham, Jernigan, Hudziak & Barch, 2019) ha permesso ad alcuni ricercatori statunitensi di mettere in evidenza come il volume dell’ ippocampo sia significativamente maggiore in bambini che praticano sport di squadra rispetto ad individui di età simile che non praticano sport. Sulla base di questi risultati, si sono dunque interrogati se praticare sport di squadra da bambini possa costituire un possibile fattore di protezione nello sviluppo di depressione in età adulta.

Il campione oggetto di studio contava 4191 bambini di entrambi i sessi, con un’età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Nel corso dello studio i ricercatori hanno raccolto attraverso i genitori informazioni riguardanti la partecipazione dei figli ad attività sportive e attività non-sportive, oltre a dati relativi a possibili sintomi depressivi. Per misurare il volume della regione ippocampale sono poi state effettuate delle scansioni cerebrali sui bambini.

Ciò che è importante notare è che la connessione trovata dai ricercatori di St. Louis sia correlazionale e non causale, pertanto non è possibile determinare se gli sport di squadra siano un fattore di protezione per la depressione: potrebbe essere che bambini depressi abbiano meno voglia di partecipare in attività di gruppo e che questo abbia influenzato i risultati della ricerca. La correlazione positiva tra larghezza del volume ippocampale e la pratica di sport di squadra suggerisce che potrebbe essere una combinazione di esercizio fisico e supporto sociale, che deriva dal far parte di un team, a funzionare nell’ottica della prevenzione della depressione, e addirittura tale combinazione potrebbe rivelarsi un buon trattamento per i giovani pazienti depressi.

Limiti e prospettive future

Il fatto che sia i sintomi depressivi che il coinvolgimento in attività sportive non sia stato misurato direttamente, ma riportato dai genitori, costituisce un grave limite del presente studio in quanto questo potrebbe andare ad inficiare la qualità dei dati raccolti. Sarebbe opportuno effettuare un ulteriore studio cercando maniere alternative per misurare entrambe le variabili, come ad esempio l’osservazione diretta o i questionari self-report.

Giù la maschera! La sindrome dell’impostore: un’inconsapevole alleata dell’effetto Dunning-Kruger?

La sindrome dell’impostore è un mix di senso di colpa per i traguardi raggiunti, mancata introiezione del successo, paura della valutazione e sentimenti di indegnità e inefficienza professionale e formativa.

 

Spesso funziona così: un gruppo di persone, un tema, delle opinioni. I primi due cambiano di volta in volta: il gruppo di persone può essere composto da utenti del web o dai parenti in fase post-prandiale a Natale; il tema può essere l’ultimo referendum oppure cosa sia meglio per lo sviluppo psicologico dei bambini.

Il copione delle opinioni invece resta per lo più invariato: c’è chi sostiene fortemente la sua opinione, ostentatamente, spesso attaccando chi la pensa in modo diverso, giocandosi sempre quei dati dall’attendibilità ambigua a proprio favore (il famoso “cugino di mio cugino che è un esperto in materia”) e poi ci sei tu, magari con una laurea, una specializzazione, o forse un master o un dottorato nel tema di cui si dibatte che resti in silenzio, non ti senti pronto a intervenire, chissà magari ricordi male, potresti dire cose di cui non sei proprio sicuro, e allora preferisci stare a guardare gli altri che dibattono dal monitor del pc o dalla sedia alla destra del nonno quasi invidiandolo per quella levetta sull’off del suo apparecchio acustico.

Perché, molto spesso, “chi non sa insegna” ma chi sa non interviene?

Negli ultimi anni si è sentito parlare di effetto Dunning-Kruger, ovvero quel fenomeno per cui molte persone tendono a sovrastimare le proprie conoscenze, nonostante queste siano davvero molto limitate. I due ricercatori hanno sottoposto i soggetti del loro studio a dei test di umorismo, grammatica e logica. Hanno poi selezionato gli individui con punteggi inferiori (punteggio medio reale 12) e hanno chiesto loro di fare una stima dei punteggi ottenuti ai test. I soggetti hanno notevolmente sovrastimato i propri risultati, fino ad ottenere un punteggio medio stimato pari a 62!

Dunning e Kruger hanno spiegato questo effetto proprio alla luce della stessa incompetenza dei soggetti: quanto più qualcuno è incompetente su un tema, tanto più questi non è in grado di padroneggiare quelle strategie metacognitive che permetterebbero una maggiore consapevolezza dei propri limiti.

Oltre all’effetto Dunning-Kruger.. la sindrome dell’impostore

Ciò che forse non molti sanno è che, purtroppo, esiste un altro fenomeno che non permetterebbe all’ effetto Dunning-Kruger di ridimensionarsi: molto spesso chi è davvero competente, formato e informato, soffre della cosiddetta sindrome dell’impostore.

La prima a parlare della sindrome dell’impostore è stata Pauline Clance (1978) che ha identificato il fenomeno in un gruppo di donne di successo, le quali non si sentivano meritevoli del prestigioso ruolo ricoperto. Successivamente è stato osservato come la sindrome dell’impostore non si diffonde solo tra le donne, ma tra una vasta fetta di popolazione colta e istruita che ricopre ruoli in diversi settori, tra cui istruzione, assistenza sanitaria, contabilità, finanza, legge e marketing (Arena & Page, 1992; Byrnes & Lester, 1995; Clance & Imes, 1978; Crouch, Powell, Grant, Posner-Cahill & Rose, 1991; Fried-Buchalter, 1997; Huffstutler & Varnell, 2006; Mattie, Gietzen, Davis & Prata, 2008; Parkman & Beard, 2008; Zorn, 2005).

Numerosi studi e articoli hanno documentato la prevalenza del fenomeno in coloro che hanno un’istruzione superiore: studenti e docenti universitari sono particolarmente propensi a manifestare la sindrome dell’impostore (McDevitt, 2006).

I soggetti colpiti da questa sindrome credono che i loro successi formativi e lavorativi siano dovuti più a fattori esterni (nonostante le prove a supporto siano contrarie) che a fattori interni: non credendosi degni di promozioni, riconoscimenti e ricompense, preferiscono credersi dei cialtroni piuttosto che vedersi come persone meritevoli di successo e in gamba. Spesso chi si crede un impostore giustifica i propri successi minimizzando gli standard raggiunti (“E’ stato un esame facile, per questo ho preso la lode!”), chiamando in causa il lavoro di rete o il proprio aspetto fisico (“Se ho avuto il posto sarà perché altri miei amici lavorano lì” oppure “perché hanno visto il mio aspetto da bravo ragazzo!”) (Clance, 1985; Cowman & Ferrari, 2002; Fried-Buchalter, 1997; Kets de Vries, 2005; Kumar & Jagacinski, 2006).

La sindrome dell’impostore è dunque un mix di senso di colpa per i traguardi raggiunti, mancata introiezione del successo, paura della valutazione e sentimenti di indegnità e inefficienza professionale e formativa (Clance & Imes, 1978; Clance & O’Tool, 1988; Young, 2003).

Tutto ciò porta l’individuo a mettere in atto delle “auto-pressioni” affinché non venga mai smascherata la sua reale incapacità e non venga mai scoperto il suo grande bluff. Così facendo è estremamente facile, per chi soffre della sindrome dell’impostore, andare incontro a perfezionismo e a un controllo maniacale del proprio lavoro, concentrando eccessivamente la propria attenzione sugli errori e le relative conseguenze a lungo termine. Lo stress e l’ansia diventano compagni costanti, aumentando notevolemente anche il rischio di burnout (Cowman & Ferrari, 2002; Kets de Vries, 2005; Kumar & Jagacinski, 2006).

Si crea in questo modo un circolo vizioso: l’individuo non si sente meritevole dei riconoscimenti professionali e, cercando di non farsi smascherare, aumenterà il suo controllo e il suo perfezionismo al lavoro, alzando di gran lunga gli standard da raggiungere e ponendosi obiettivi irrealistici che di fatto sono irraggiungibili; il lungo sforzo per raggiungerli porterà l’individuo a sentirsi in ansia, frustrato e incapace e ciò aumenta la percezione di non meritarsi il successo e i traguardi raggiunti (Cowman & Ferrari, 2002; Sakulku & Alexander, 2011; Thompson, Foreman, & Martin, 2000, Clance & Imes, 1978; Cowman & Ferrari, 2002; Harvey & Katz, 1985; Hutchins, 2015; Kets de Vries, 2005, Clance, 1985).

Uno degli atteggiamenti più tipici di chi soffre della sindrome dell’impostore è, secondo Kolligian e Sternberg (1991), il ricorso all’umorismo, sotto forma di autodeprecazione, per rispondere agli elogi e al riscontro positivo da parte degli altri.

Per concludere

Verrebbe quindi da chiedersi cosa porta una persona a non avere abbastanza fiducia nelle proprie capacità. Chi soffre della sindrome dell’impostore è a conoscenza di come viene visto dagli altri ma non lo sente vero, i meriti che gli vengono attribuiti non sono altro che una falsa riconoscenza (Clance, 1985; Sakulku & Alexander, 2011).

Il fenomeno è stato collegato al background familiare (Castro, Jones, e Mirsalimi 2004; King & Cooley, 1995; Sakulku & Alexander, 2011; Sonnak & Towell, 2001). Harvey e Katz (1985) hanno trovato che la sindrome dell’impostore è più frequente negli individui che per primi in famiglia riescono a raggiungere importanti traguardi nella carriera o nell’istruzione e a superare le aspettative degli altri.

Anche gli stili genitoriali sembrerebbero incidere sul fenomeno: negli studenti universitari che presentano tale sindrome i ricercatori hanno riscontrato una correlazione con la mancanza di cure genitoriali nell’infanzia (Sannak e Towell, 2001) ma anche con la presenza di un padre eccessivamente controllante (Li, Hughes e Thu, 2014; Sonnak & Towell, 2001; Want & Kleitman, 2006).

Come è facilmente comprensibile, la sindrome dell’impostore risulta anche negativamente correlata ai livelli di autostima (Ghorbanshirodi, 2012). Ross e colleghi inoltre (2001) hanno messo in luce come gli impostori possono mostrare due tipi di disturbi di personalità: disturbo di personalità evitante e disturbo di personalità dipendente.

Se dopo anni di esami, voti, pubblicazioni, menzioni e aperte manifestazioni di stima da parte di superiori e colleghi, togliervi la maschera che credete di indossare vi risulta ancora molto difficile, si può sempre iniziare da piccoli passi: ripercorrete con la mente il vostro percorso formativo e lavorativo, individuate i momenti in cui vi siete sentiti riconosciuti e i momenti in cui vi siete posti delle aspettative troppo alte. Molto probabilmente combaceranno: forse è il caso di rivedere le vostre aspettative e concedervi finalmente di abbassarle.

Ma prima di tutto, alla prossima discussione post-prandiale in famiglia su cosa sia meglio per lo sviluppo psicologico dei bambini, iniziate col mettere la levetta dell’apparecchio acustico del nonno sull’on e raccontategli di quando quella volta, all’esame di Psicologia dello Sviluppo, avete preso 30!

“Designing your life”: come applicare il Design Thinking per progettare la propria vita

Bill Burnett e David Evans sono gli ideatori e docenti di uno dei più popolari corsi della Stanford University. Nelle loro lezioni insegnano il Design Thinking e la sua applicazione con l’approccio del design, ovvero la risoluzione creativa, propria dei designer, ai problemi e alle grandi domande della vita, per giungere a una piena realizzazione personale e professionale.

 

Il corso si intitola infatti “Designing Your Life”, da cui deriva l’omonimo libro.

Design Thiking: cos’è

L’approccio del design è strettamente connesso al concetto di Design Thinking.

Codificato attorno agli anni 2000 all’Università di Stanford, il Design Thinking (DT) è sia una ideologia che un modello progettuale utilizzato per risolvere problemi complessi o poco definiti per mezzo di una visione creativa. È quindi un processo di problem solving centrato sulla persona, il quale attinge agli strumenti del designer e per tale ragione ne prende il nome.

Il processo di Design Thinking prevede 5 fasi di progettazione, come mostra il grafico sottostante (Imm. 1) in cui la prima fase consiste nell’empatizzare con il problema al fine di poter chiaramente definire l’obiettivo per poi giungere, attraverso la sperimentazione, alla soluzione innovativa.

Non si tratta di un processo lineare ma ricorsivo, è quindi previsto il ritorno alle fasi precedenti in funzione degli esiti della prototipazione e del test.

Desining your life il design thinking per la propria vita processo

(Imm. 1) Design Thinking – Il processo

Designing your life: il corso della Stanford University

Il corso nasce dall’interesse dei due autori ad applicare l’approccio innovativo del design alla trasformazione personale fornendo gli strumenti per fronteggiare il più importante dei problemi che una persona può trovarsi a gestire: la propria vita.

L’intento degli autori è quello di aiutare tutti coloro che fronteggiano il difficile processo decisionale riguardo il cosa fare nella propria vita, specialmente i ragazzi che, non più studenti, si trovano al bivio tra “seguire le proprie passioni” e non sapere cosa voler fare da grandi.

L’assunto di partenza, nonché obiettivo del corso, è smascherare l’indicazione a seguire le proprie passioni, assumere che bisogna necessariamente conoscere la “strada” da intraprendere, perché la maggioranza delle persone non sa a priori quale sia la sua passione finché non inizia a impegnarsi in qualcosa per poi scoprire se gli piace o meno.

Parafrasando le parole di Burnett, non vige la tesi del “Dimmi qual è la tua passione e ti dirò di cosa hai bisogno” bensì il messaggio è: “Non sappiamo come il tuo futuro dovrà essere ma siamo qui per navigarlo e scoprirlo”.

Tanti degli insegnamenti veicolati nel corso e nel libro derivano dall’esperienza ventennale nelle aziende tecnologiche della Silicon Valley in cui Burnett e Evans hanno operato, essi infatti assicurano come la maggior parte dei laureati non lavora nel campo per cui ha studiato e che c’è sempre la possibilità di fare qualcosa di diverso, di “cambiare strada”.

In linea con il concetto di Design Thinking, il corso “Designing your life” è un invito alla sperimentazione, all’improvvisazione e all’accettazione del fallimento, inteso come parte integrante del processo e come opportunità di crescita piuttosto che sconfitta.

Desining your life: la struttura del corso

La struttura del corso, la cui prima edizione risale al 2010 e che ha una durata semestrale, si articola in due parti.

La prima parte si focalizza sulla ristrutturazione dei problemi, agendo sulle credenze disfunzionali, ovvero quelle che in tanti credono verità incontrovertibili ma che oltre a non essere vere, causano l’ansia di non fare la scelta giusta.

Una delle più comuni credenze disfunzionali che i ragazzi hanno è quella che il proprio corso di studi determinerà cosa fare per il resto della vita o che ci sia una e una sola soluzione possibile e mancando o sbagliando quella si è definitivamente spacciati. Evans evidenzia come ciò sia completamente assurdo:

Ci sono tantissimi te, tantissime risposte giuste.

A seguito della fase di reframing del problema, viene fornito un set di strumenti ed idee i quali consistono in consigli ed esercitazioni pratiche, basate sul Design Thinking, che guidano nel capire dove indirizzarsi.

Una di queste è il journal flow, ovvero un diario personale in cui annotare non solo le proprie esperienze ma anche le reazioni ad esse, evidenziando quelle positive, neutre e negative. Il consiglio è poi quello di focalizzarsi sulle attività in cui ci si è sentiti completamente immersi, si è esperito quello che Csikszentmihalyi (1990) definisce flow experience o stato di flusso: uno stato mentale in cui si è consci solo dell’attività in corso, nella quale si è così assorbiti e appagati che nessun disturbo esterno o pensiero riesce ad interferire.

Aspetto centrale della filosofia del designer è la prototipazione: una volta definito il potenziale ambito di interesse, il prototipo sarà quello di intervistare qualcuno che sia nel suddetto ambito, affiancarlo per alcune settimane e valutare se è il caso di proseguire o cambiare.

Questo evidenzia come si tratti di un metodo sperimentale e ricorsivo, che implica il fallimento come parte integrante del processo di progettazione della vita. Il fallimento non è l’eccezione, è la regola. E la regola, gli autori sostengono, è Prova, Fallisci, Fallisci di nuovo nell’ottica di sviluppare una immunità al fallimento.

Tuttavia essi raccomandano anche come, per diventare immuni al fallimento, non è sufficiente ristrutturare le convinzioni disfunzionali bensì trarre profitto dal fallimento, riflettendo su cosa essi hanno insegnato e come evitare che si ripetano in futuro.

Tornando al corso, il cuore del progetto, consiste nel compito di elaborare tre possibili prototipi o “Piani di Odissea” come li chiama Evans; si tratta di tre progetti di vita, radicalmente diversi tra loro, riguardanti i 5 anni successivi. Tale attività funge anche da esame finale per decretare il superamento o meno del corso.

Designing your life: a chi si rivolgono gli insegnamenti

A un primo sguardo sembrerebbe che il target principale del corso siano solo studenti universitari, particolarmente all’ultimo anno di studi o appena laureati, i quali non sanno cosa fare da grandi e vivono con l’opprimente convinzione e responsabilità di doverlo sapere a priori.

In realtà, Burnett e Evans si rivolgono a chiunque, in qualsiasi momento, si trovi nella situazione di non sapere cosa fare della propria vita o di voler reinventarsi ma non sapere come farlo.

Essi veicolano l’approccio del design come il metodo ottimale per affrontare e risolvere questo problema.

Del resto, gli stessi autori, pur essendo entrambi laureatisi a Stanford e avendo lavorato alla Apple, hanno avuto percorsi totalmente diversi, come raccontano in una intervista al New York Times.

Evans, si è inizialmente approcciato agli studi di biologia, solo per l’influsso esercitato da uno speciale televisivo sulle immersioni visto da bambino. Studi che ha successivamente abbandonato per dedicarsi all’ingegneria meccanica. Quando la Apple lo chiamò, lui rifiutò in prima battuta perché riteneva che i computer lo annoiassero. In seguito, ha affermato di aver violato molti dei principi che ora insegna nei suoi corsi, ovvero quello di essere sempre aperti e predisposti a quella che lui e il suo collega chiamano la “meraviglia dormiente”.

Burnett, ha avuto invece un percorso più lineare, trovando subito la sua strada e realizzando la sua vocazione di designer dopo la laurea in design. Tuttavia, dice, sentiva che il suo metodo era un cammino al buio, senza strategie e che, pur seguendo l’istinto, aveva l’impressione di non sapere dove questo lo avrebbe portato.

In conclusione, stando all’approccio del design, il miglior modo per progettare la propria vita si racchiude in semplici ma efficaci mosse: essere curiosi, sperimentarsi, provare tante cose; è questo è il segreto, afferma Burnett nel suo TED talk, per una vita ben vissuta e felice.

Trovare la propria strada, cambiando strada.

GUARDA IL VIDEO DI BILL BURNETT – DESIGNING YOUR LIFE:

 

Sensibilità al dolore: il ruolo chiave degli ormoni sessuali – Quali conseguenze nel trattamento farmacologico?

Nonostante il dolore non sia una sensazione piacevole, tuttavia risulta necessario: esso infatti ci segnala la presenza di un pericolo o di un danno al nostro organismo e ci permette in questo modo di allertarci e porvi rimedio per evitare conseguenze negative ancor più gravi o irreparabili a tessuti o nervi.

 

Anche se il dolore si sviluppa dagli stessi sistemi nocicettivi, l’esperienza dell’intensità del dolore differisce da persona a persona: per alcuni esso si risolve in poco tempo, per altri al contrario si protrae nel tempo e da acuto si cronicizza, risultando invalidante nonostante la ferita che l’ha generato sia stata sanata.

Dolore: uomini e donne non lo sentirebbero nella stessa maniera

Di conseguenza sembrerebbe che vi sia una natura soggettiva della sensazione e dell’esperienza del dolore che una persona sperimenta.

La ricerca nell’ambito del dolore si complica ulteriormente se, all’interno dell’esperienza soggettiva del dolore, si inserisce la differenza tra sessi biologici: a seguito di una medesima stimolazione dolorosa infatti, la ricerca ha evidenziato come le risposte fisiologiche osservate in maschi e femmine non siano le medesime (Dance, 2019).

Le ricerche sul dolore hanno da tempo messo in luce come la sensazioni sgradevoli o il dolore stesso siano gli esiti di specifiche vie biologiche e come in particolare l’ipersensività al dolore sia generata da “strade” nocicettive che si differenziano notevolmente tra maschi e femmine attraverso  tipologie distinte di cellule immunitarie che contribuiscono al disagio e alla sensazione nocicettiva (Sorge, Mapplebeck et al., 2015).

Lo studio di Sorge e colleghi (2015) dell’Università dell’Alabama, Birmingham, condotto sui ratti, è stato tra i primi ad evidenziare con robuste evidenze il ruolo cruciale di particolari cellule immunitarie, chiamate microglia, presenti nel midollo spinale, per il processamento del dolore cronico.

Nell’investigazione dei meccanismi nocicettivi, Sorge, in collaborazione con le equipe di ricerca canadesi di Jeffrey Mogil della McGill University a Montreal e di Michael Salter dell’università di Toronto, è stato in grado di determinare sia nei topi maschi che nelle femmine una riduzione delle funzioni della microglia attraverso la somministrazione di farmaci e anticorpi e di farsi spettatore di una dissimile reazione al dolore da parte dei due sessi.

A seguito di questa manipolazione farmacologica infatti, tra i topi maschi si è rilevata una riduzione nelle risposte al dolore provocato, effetto che non è manifestato nelle femmine dove il meccanismo del dolore era stato prevalentemente attivato da altre cellule immunitarie, le cellule T.

Lo stesso danno, arrecato nella medesima posizione lungo il nervo sciatico afferente al midollo spinale, sia nei topi maschi che femmine, aveva determinato una forma di ipersensibilità al dolore negli arti inferiori – il dolore cronico può manifestarsi come un’ipersensibilità a stimoli in potenza non dolorosi – con la differenza che tale ipersensibilità nei maschi spariva se veniva bloccata la microglia mentre nelle femmine tendeva a persistere.

Questa differenza nella generazione del dolore è stata associata al testosterone, l’ormone maschile che potrebbe aver reso le cellule T meno capaci di mediare il dolore nei maschi e aver al contrario favorito la microglia per cui se nei ratti maschi veniva ridotto drasticamente il livello di testosterone, la via nervosa che produceva il dolore passava dalla microglia a quella che lo produceva nelle femmine cioè le cellule T (Sorge, Mapplebeck, Rosen et al., 2015).

Dolore cronico: nel soffre il 20% della popolazione mondiale

Questo importante studio ha rappresentato nel campo della ricerca sul dolore un importante spartiacque in quanto ha aperto gli occhi sull’amplissimo spettro delle risposte differenti tra maschi e femmine e sul ruolo chiave degli ormoni sessuali nella loro diversa produzione e modulazione.

Dopo la pubblicazione di questa ricerca infatti, molti studiosi del dolore hanno iniziato a considerare il sesso biologico come un’importante variabile all’interno dei loro studi biomedici e a selezionare con maggiore attenzione le popolazioni animali sulle quali effettuare i loro studi, anche sulla base del loro sesso per evitare complicazioni o effetti di queste differenze nei risultati.

Oltre a ciò, la pubblicazione dello studio di Sorge e colleghi (2015) ha aperto le porte anche a nuovi avanzamenti medici e farmaceutici favoriti dall’incremento di ricerche sull’esperienza del dolore cronico nelle popolazioni umane, sia di sesso maschile che femminile; questi studi hanno messo in luce che circa il 20 % della  popolazione mondiale è affetta da questa malattia invalidante e che una grande fetta di questa popolazione è costituita da donne (Dance, 2019).

Di conseguenza, se le vie del dolore sono differenti per maschi e femmine, va da sé che alcuni farmaci o terapie del dolore possano apportare benefici solo ad alcuni individui e non ad altri, richiedendo di tenere in considerazione per la loro somministrazione alcune specifiche circa le fluttuazioni ormonali degli individui nel corso della loro vita.

Oltre a ciò, si aggiunge la problematica che per alcuni individui, a causa di alcune loro caratteristiche genetiche, di sviluppo e ormonali, potrebbe non essere immediato l’inserimento in una delle due classi biologiche.

Dolore: differenze di genere nei processi infiammatori

Un recente studio del neurofarmacologo Ted Price dell’Università del Texas e collaboratori (2019) ha raccolto le prime evidenze sulle differenze di genere nei processi infiammatori, tramite l’analisi dei tessuti nervosi rimossi a seguito di lesioni tumorali: è emerso il coinvolgimento di differenti cellule immunitarie nella generazione del dolore tra maschi e femmine; per i primi la generazione del dolore implicherebbe infatti la presenza di cellule immunitarie macrofage, mentre per le seconde risulterebbero necessari alcuni specifici peptidi (North, Li, Ray et al., 2019).

Da qui la necessità per la farmacologia di avere a disposizione dei trattamenti antidolorifici e classi farmacologiche “sesso-specifiche” dal momento che è stato evidenziato come alcune molecole, tra le quali la metformina, in alte dosi sia efficace nella riduzione del dolore esclusivamente nei maschi ma non nelle femmine (Inyang, Price, Szabo-Pardi et al., 2019).

Allo stesso modo, affinché vi siano i medesimi effetti antidolorifici nelle femmine e nei maschi, è necessaria una posologia e una quantità maggiore anche di morfina, il cui principio oltre a bloccare i neuroni della materia grigia periacqueduttale allo stesso tempo è in grado di attivare nelle femmine la microglia che ostacola e neutralizza gli effetti antidolorifici della prima (Doyle, Eidson, Sinkiewicz et al., 2017).

In conclusione, nonostante per molte decadi si sia assunto che maschi e femmine percepissero il dolore allo stesso modo e grazie ai medesimi meccanismi interni, oggi è possibile affermare che ciò è vero solo apparentemente: da un punto di vista biologico esiste un “pain gap” tra maschi e femmine.

PTSD e Bambini: la ruminazione come fattore di vulnerabilità

Alcuni bambini riescono più facilmente di altri a riprendersi dopo un evento traumatico, mentre altri sviluppano un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) che potrebbe durare mesi, anni o addirittura accompagnarli fino all’età adulta. 

 

Una recente ricerca della University of East Anglia ha messo in evidenza come la possibilità che un bambino sviluppi o meno un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) a seguito di un evento traumatico possa dipendere dal modo in cui il bambino pensa e giudica la sua reazione all’evento traumatico. In altre parole, sembra che ci siano maggiori rischi di sviluppare un PTSD nel momento in cui si pensa di avere difficoltà nel processare il trauma e si percepiscono i sintomi come segno di qualcosa di assolutamente sbagliato.

I sintomi tipici del PTSD possono rappresentare una reazione comune al trauma nei bambini e negli adolescenti: memorie intrusive, incubi e flashbacks. Proprio perché considerati come una reazione normale al trauma, i professionisti della salute mentale non forniscono una diagnosi di PTSD se tali sintomi perdurano nel primo mese dopo il trauma.

I ricercatori della University of East Anglia hanno dunque voluto indagare perché, in alcuni bambini, i sintomi conseguenti ad un trauma svaniscono anche senza trattamento mentre altri bambini continuano a sperimentare problemi persistenti.

Lo studio

Il campione dello studio era composto da 200 bambini di età compresa tra gli 8 e i 17 anni, ognuno dei quali aveva vissuto un’esperienza in pronto soccorso a seguito di un incidente traumatico (incidenti stradali, aggressioni, attacchi da parte di cani e altre emergenze mediche).

I soggetti dello studio sono stati intervistati e valutati per il PTSD in due tempi: tra le due e quattro settimane in seguito al trauma e, ancora, dopo due mesi. Il team di ricerca ha suddiviso le reazioni dei bambini in tre gruppi: un gruppo “resiliente” che non ha sviluppato sintomi traumatici clinicamente significativi in entrambi i momenti di misurazione; un gruppo “recovery” che ha mostrato i sintomi inizialmente, ma che al follow up due mesi dopo non erano più presenti; un gruppo “persistente” caratterizzato da sintomi di PTSD in entrambi i tempi della ricerca. Il team ha anche esaminato la presenza di un supporto sociale per valutare se aver discusso il trauma con amici e parenti potesse essere stato un fattore protettivo contro i problemi persistenti dopo i due mesi. Inoltre, i ricercatori hanno tenuto conto di altri fattori quali gli eventi di vita stressanti e se il bambino stesse provando dolore in quel momento.

I risultati dello studio hanno dimostrato che i sintomi di PTSD sono abbastanza comuni nelle prime fasi, tra due e quattro settimane, dopo un trauma. Queste prime reazioni sono indotte da alti livelli di paura e confusione vissuti durante il trauma. Nonostante ciò, la maggioranza dei bambini e degli adolescenti sembra superare in maniera naturale questi vissuti senza alcun intervento.

È molto interessante notare come la gravità dei danni fisici non abbia predetto il PTSD, come neanche gli eventi di vita stressanti, la quantità del supporto sociale su cui contare o l’auto-colpevolizzazione. Al contrario, ciò che è emerso è che, i soggetti che hanno mantenuto i sintomi del PTSD fino ai due mesi a seguito del trauma, sono stati quelli più inclini a pensare in maniera negativa al trauma e alle loro reazioni ad esso. La ruminazione è risultata essere determinante: essi, infatti, percepivano i sintomi come se ci fosse qualcosa di serio, permanente e sbagliato in loro, erano meno fiduciosi verso le altre persone e pensavano di non essere in grado di reagire.

Nel caso di molti soggetti dello studio, i tentativi deliberati di processare il trauma (per esempio: provare a rifletterci o parlarne con amici e famiglia) erano in realtà associati ad un peggior decorso del PTSD. Infatti, i bambini che hanno mantenuto i sintomi sono proprio quelli che hanno riportato di aver trascorso molto tempo nel ricercare un senso al loro trauma. Mentre per alcuni il cercare di dare un senso al trauma può essere funzionale, sembra che per alcuni bambini vi sia il rischio di rimanere bloccati in un processo ruminativo.

In conclusione

Il presente studio evidenzia come la ruminazione, il focalizzarsi sul trauma e il prestare attenzione alle proprie reazioni e ai propri sintomi siano fattori di vulnerabilità per il PTSD.

L’attenzione come antidoto alle Fake News

Le fake news, più comunemente chiamate bufale, sono notizie volutamente inventate il cui intento è quello di danneggiare e/o screditare un individuo (o gruppi di individui) per fini molto spesso di natura politica, ma non solo. 

 

Oggi stiamo assistendo a una crescita esponenziale di queste notizie false, la cui paternità si deve per la maggior parte a profili anonimi anch’essi fasulli (i cosiddetti troll) che proliferano in rete indisturbati, causando accese discussioni sui social network e manipolando le opinioni degli altri utenti. È il web infatti il luogo di elezione in cui le fake news trovano il canale più semplice e veloce tramite cui diffondersi a macchia d’olio.

Tale è la portata del fenomeno in questione che molti studiosi hanno ormai da tempo sentito la necessità di comprendere le dinamiche con cui si generano e diffondono le notizie false, facendo luce sui meccanismi della rete (e in particolare delle piattaforme social) che veicolano questi processi di mantenimento e condivisione di materiale non veritiero.

Uno dei massimi esperiti italiani in materia è il professor Giuseppe Riva il quale in uno dei suoi recenti libri (Riva, 2018) descrive le principali proprietà delle fake news, ovvero le caratteristiche delle bufale online che permettono uno spargimento di disinformazione mai visto prima, aumentando quindi la probabilità che altri utenti non solo le prendano per notizie autentiche ma vengano spinti a condividerle a loro volta sui propri profili social, convinti della veridicità dei contenuti.

Caratteristiche delle Fake News

Tra le peculiarità di una fake news c’è la capacità di innescare una forte risposta emotiva nel lettore, in particolare sdegno e rabbia che possono offuscare la riflessione e motivare il soggetto (in balia della forte emotività) a partecipare attivamente alla loro diffusione attraverso la condivisione. Non a caso esse vengono create ad hoc per specifici gruppi di utenti in modo da far leva su sentimenti negativi verso tematiche per loro significative, spesso introducendo contenuti falsi a fatti realmente accaduti per rendere attendibile l’informazione (quindi non inventando di sana pianta notizie strambe che farebbero fatica a sembrare credibili, ma introducendo contenuti francamente distorti).

Le fake news inoltre vengono rese virali attraverso l’uso di programmi informatici (i bot) che hanno il compito di condividerle in automatico al fine di attribuire loro più popolarità e farle quindi apparire nelle bacheche di un numero cospicuo di persone. Altra caratteristiche distintiva è quella di essere create in un formato multimediale, in particolare immagini visive e testi sovrapposti, che permettono una visualizzazione rapida senza la necessità di prestare molta attenzione; a renderle ulteriormente credibili è la formattazione del testo o il plagio di indirizzi di siti di notizie, ovvero vengono scritte con una grafia simile a quella utilizzata da giornali online accreditati, sostituendo dettagli impercettibili per il lettore disattento.

Fake News: Emozione e Attenzione

Da questa breve sintesi si delineano due concetti cari alle neuroscienze: emozione e attenzione.

Per quanto riguarda il primo concetto, l’emozione, oltre ad essere una reazione fisiologica a un evento (che può essere interno come ad esempio un pensiero o un ricordo, o esterno ovvero ciò che accade al soggetto, un fatto verso cui ha una reazione emotiva), ha un’importante funzione adattiva e rappresenta una fonte essenziale di informazione su di sé e sugli altri, sui significati che attribuiamo agli eventi (ripeto: interni o esterni) e sulle motivazioni sottostanti i nostri comportamenti. Il sistema limbico, deputato all’elaborazione dell’informazione emotiva, e le aree corticali superiori ad esso collegate permettono un’attribuzione di significato all’emozione esperita, la quale guida il soggetto verso comportamenti orientati a uno scopo. Ecco perché l’emozione diventa bersaglio e allo stesso tempo mezzo attraverso cui diffondere fake news: “colpire” l’emotività del soggetto-utente, evocando rabbia e disprezzo verso un fatto o individui/gruppi, aumenta la probabilità di motivarlo alla condivisione della notizia causa di sdegno, creando le condizioni ideali per il propagarsi nella rete dell’informazione distorta che acquisterà popolarità e quindi più visualizzazioni (e ri-condivisioni da parte di altri utenti, in un processo inarrestabile).

Il secondo concetto, l’attenzione, rappresenta la vittima prediletta dalle fake news. Innanzitutto, come spiega Riva, negli ultimi anni si è assistito a un calo disastroso dell’attenzione per i contenuti digitali, passando da una media di 12 secondi a quella di 8, per cui i creatori di bufale trovano condizioni eccellenti per il loro lavoro: gli utenti passano in rassegna una quantità enorme di informazioni (post, foto, video, notizie), scorrendo velocemente pagine e pagine senza prestare la dovuta attenzione ai contenuti, guidati più dall’impatto visivo ed emotivo che dalla sostanza del materiale online. Insomma, tanta emotività, tanti automatismi e poca attenzione e quindi scarsissima riflessione. Come osserva Matteo Grandi (2017) “La velocità sottrae tempo alla riflessione”, riflessione intesa come prodotto di processi di elaborazione lenti che consentono un’analisi più accurata e meno istintiva: si può raggiungere così una conoscenza approfondita e di conseguenza una capacità di scelta nettamente più consapevole. L’attenzione infatti è una funzione imprescindibile per la coordinazione di tutta una serie di attività del nostro cervello, in particolare le funzioni esecutive (con sede nei lobi frontali) tra cui processo decisionale, controllo dell’impulsività, memoria di lavoro, più in generale strategie di problem solving. L’importanza dell’attenzione è dunque facilmente intuibile ed è per questo che chi crea fake news, con l’intento di disinformare e confondere gli utenti, approfitta del calo attentivo riscontrabile oggi nella popolazione generale per promuovere la menzogna.

In conclusione, sebbene il fenomeno delle fake news sia di difficilissima gestione, per la velocità e l’incontrollabilità con cui le bufale prosperano per mezzo dei canale digitali, un primo passo per difenderci dalla disinformazione è quello di recuperare la nostra attenzione affievolita, allenandola e rafforzandola attraverso un sano esercizio di riflessione, consapevolezza e pensiero critico.

Una buona relazione! Un “antidoto” alla demotivazione scolastica

Da una recente ricerca condotta dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica (2018) emerge tra le maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano, la gestione degli alunni che presentano bisogni educativi speciali o disturbi dell’apprendimento (13,6%).

Francesca Rendine

 

Una difficoltà scolastica, un bisogno educativo speciale non accolto o un disturbo dell’apprendimento non rilevato, comporta per il bambino lo sperimentare continui “fallimenti scolastici” che inducono un’esperienza generale di demotivazione. Un processo di apprendimento per esser definito “buono” non può dunque guardare esclusivamente al voto finale, poiché legato, oltre che a fattori cognitivi, anche a fattori emotivi e motivazionali, dipendenti tanto dal risultato della prestazione quanto dalla relazione che si instaura fra l’insegnante e gli alunni.

Cosa succede dunque a questi processi e alle variabili coinvolte, quando un alunno sperimenta difficoltà o incapacità di raggiungere un obiettivo didattico?

Apprendimento e motivazione

Sebbene l’elemento “visibile” resti il calo della prestazione e dunque un voto insufficiente, sperimentare un fallimento in maniera prolungata e ripetuta nel tempo, può portare a maturare un’idea negativa di sé in ambito scolastico.

L’esistenza di più modalità di apprendimento ed il coinvolgimento di fattori emotivo – motivazionali, ci spiegano quanto possano esser diversificate le strategie che possiamo utilizzare per apprendere. La ricerca che ha portato alla concettualizzazione del modello di Borkowsky e colleghi (1990) ci spiega l’esistenza di un legame fra strategie di apprendimento, stati personali motivazionali e conoscenza di sé. La combinazione di uno stato personale motivazionale ed il grado di conoscenza di sé generano un modo specifico di effettuare una prestazione, ovvero un percorso unico di selezione, uso e monitoraggio di una strategia. La motivazione che accompagna questo percorso fa riferimento ad una duplice dimensione: intrinseca ed estrinseca.

La prima dimensione è spiegata dal legame fra il feedback ottenuto dalla performance (sia esso positivo o negativo) ed il conseguente modellamento degli stati di motivazione, che determinano una variazione del livello di competenza nel saper riconoscere e scegliere una strategia adeguata al compito.

La seconda dimensione, ovvero quella estrinseca, colloca nei processi di apprendimento, come “antidoto” alla demotivazione scolastica, una buona relazione insegnante-alunno.

Si potrebbe dire che una relazione è buona quando si desidera arricchirsi di essa, e si è motivati a realizzarne e viverne sempre di più, e quando, attraverso di essa, si riescono a costruire livelli di sviluppo più alti e desiderabili, in noi e negli altri. (Le Guide Erickson)

La relazione insegnante-alunno con DSA

Com’è possibile costruire una buona relazione fra l’insegnate e l’alunno che presenta delle difficoltà nell’apprendimento?

  • Attribuendo un valore positivo all’alunno e riconoscendone il suo valore a prescindere dal suo livello di apprendimento. E’ implicito in questo aspetto un riconoscimento della persona ancor prima del ruolo di alunno;
  • Offrendo ascolto attivo e dunque prestando profonda attenzione al suo funzionamento specifico, in particolar modo in presenza di bisogni educativi speciali. Questa possibilità permette all’insegnante di non “colpevolizzare” le difficoltà relative all’apprendimento, ma di poterle osservarle in termini di bisogni specifici;
  • Ponendosi in maniera proattiva, ovvero come guida che ha un piano di azione, con obiettivi specifici, pensato per e con l’alunno e che dunque porta in sé delle aspettative positive di realizzazione.

L’attribuzione di valore alla persona, la possibilità di ricevere un ascolto attivo e la proattività generano una buona relazione, in cui reciprocamente, l’alunno e l’insegnante si sentono percepiti rispettivamente nei loro bisogni e nelle loro capacità di coglierli. Poter curare gli aspetti relazionali in ambito scolastico, ci permette di costruire un fattore protettivo, per gli studenti con ogni tipo di difficoltà legata all’apprendimento ed al contempo per l’insegnante, che potrà riconoscere nella diversità dei modi di apprendere dei suoi studenti un’occasione sempre nuova di “sperimentarsi” e “sperimentare”. E’ in questa “occasione” che l’apprendimento si fa strada a dispetto della demotivazione scolastica.

Nell’azione proattiva si cerca di migliorare l’autostima dell’alunno e anche quella dell’insegnante. Se l’azione sta andando bene, l’autostima aumenta, e con essa l’autoefficacia, la motivazione intrinseca, la curiosità e gli interessi, la ricerca di nuovi obiettivi sempre più avanzati (Le Guide Erickson)

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