expand_lessAPRI WIDGET

“La mia vita con un padre DOC” (2018) di Rossella Sardi – Recensione del libro

La mia vita con un padre DOC è un libro che racconta la prigione della psicopatologia del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) dalla voce addolorata della figlia di un padre malato.

 

La scrittrice Rossella Sardi si espone in prima persona nella stesura del testo-testimonianza La mia vita con un padre DOC rispetto a quella che è stata la sua vita e la sua esperienza, sin troppo vicina, con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC).

La voce narrante è lei, ma il protagonista della storia è il padre, o forse proprio il Disturbo Ossessivo di cui lui è affetto (in realtà il quadro clinico non è così pulito, vi sono più patologie in comorbidità che vengono raccontate pagina dopo pagina).

L’intento è quello di sensibilizzare, di informare, e forse anche di aiutare tutte le persone che hanno a che fare con una sofferenza che non riceve le giuste attenzioni.

Infatti, secondo il Global Burden Disease condotto dalla Banca Mondiale in collaborazione con l’organizzazione mondiale della sanità il DOC è una delle dieci condizioni più disabilitanti nel mondo. Il DOC ha una prevalenza del 2-3% con un decorso che tende ad essere cronico e delle serie complicazioni sul piano funzionale della persona che ne soffre, ma tuttavia resta ancora un disturbo di cui si parla troppo poco.

L’autrice parte proprio da questa premessa. L’aver capito solo con il tempo, quindi un po’ troppo tardi, che il padre soffriva di una forma molto grave di Disturbo Ossessivo e per il quale non ha mai ricevuto alcuna cura.

La trama

Il libro La mia vita con un padre DOC racconta di una donna che ha sofferto di ansia e di panico per i quali ha chiesto e ricevuto aiuto, ma soprattutto parla di una ragazzina costantemente criticata e sotto la lente di ingradimento del padre che viene descritto come un uomo perennemente insoddisfatto, pignolo, prepotente e critico, incapace a delegare, egoista ed egocentrico.

L’anamnesi famiiare del padre sicuramente lascia spazio alla possibilità di un ruolo dell’ambiente invalidante nello sviluppo della patologia. Ultimo di sei fratelli (di cui uno morto giovane in guerra e uno alla nascita) cresciuti in un contesto dove l’affetto aveva lasciato totalmente il posto per un clima freddo e controllato, scarsamente empatico. Suo padre debole e vulnerabile e una mamma che definiremmo dismissing e descritta come depressa. Solo l’unica figlia femmina (la zia) riesce a uscirne con autonomia e indipendenza restando l’unica persona della famiglia paterna a essere (abbastanza) vicina all’autrice.

Il DOC è descritto piuttosto bene e vengono elencati i numerosi rituali compulsivi che il padre si trova a dover mettere in atto, ma ciò che più emerge è l’atmosfera di terrore che aleggia nella casa dove tutti i componenti restano sotto scacco ad un sistema ossessivo dedito alla perfezione, alla pulizia e al bisogno di una ritualità cristallizzata.

L’autrice, ormai più che consapevole, riconosce il sistema colludente che ha fatto da palco ad anni di ossessioni e compulsioni, scrive con dolore, coltivando la possibilità di riflessione rispetto al bisogno che tali patologie vengano riconosciute e trattate, proprio all’interno del sistema familiare, primo luogo dove solitamente il DOC tende a regnare spesso indisturbato.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo del padre è pertanto legato alla pulizia (di qualsiasi cosa) e alla simmetria nonché al bisogno “che le cose siano apposto” come essere sempre vestito in uno stesso modo, con barba rasata, unghie corte e nessuna possibilità di trasgredire a tali regole. La descrizione dei rituali è dettagliata e lascia emergere sia le difficoltà del padre di star dietro ad un corollario sintomatologico veramente esteso, sia quelle di una figlia in balia di una padre temibile.

La madre è definita la “garante”, figura centrale anche per il suo ruolo inconsapevolmente colludente con la psicopatologia. Tale madre è succube di un uomo difficile, tuttavia è lui a dipendere totalmente da lei proprio per la figura di garante che lei ha rivestito fino alla fine, e sarà la parte in cui arriva la malattia di lei che lascerà la diade padre e figlia da sola a gestirsi un difficilissimo momento con vissuti emotivi di rabbia (ormai di una donna matura) e di rassegnazione che concluderanno il libro molto amaro.

Accanto a tutti i dettagliati rituali vi sono altre patologie che emergono e contirbuiscono a rendere il quadro più grave. Una forma di ipocondria molto grave e un disturbo narcisistico di personalità si aggiugno al DOC. Entrambi concorrono a gran voce a essere i responsabili di tanta sofferenza che emerge dalle parole della scrittrice. Atteggiamenti screditanti, distruttivi, un egocentrismo che non prevede la presenza dell’altro (figuriamoci della sua mente), che si traducono in modi bruschi di enfatizzare gli errori e gli sbagli di chiunque.

Il lettore di La mia vita con un padre DOC si troverà facilmente ad empatizzare con la figlia che viene riconosciuta solo nelle sue vittorie e mai vista (o denigrata) nelle sue sconfitte. Lei, ingiustamente colpevolizzata, trattata da inadeguata, riesce a riprendere in mano la sua vita sciogliendo tutti questi nodi anche grazie ad una terapia alla quale si fa solo un breve accenno e allo sport che l’ha sempre accompagnata.

In conclusione

Il libro La mia vita con un padre DOC lancia un grido amaro di una vita trascorsa sotto la tirannia di una compulsività molto grave, ma che allo stesso tempo vuole essere di riflessione e di speranza per chi come lei possa trovarsi a dover fronteggiare un familiare con questa patologia.

È la voce di una figlia che ha sofferto e che resta con tutto il suo bagaglio emotivo, fatto di rabbia e di rancore, ma che tuttavia resta accanto a questa figura complessa fino alla fine.

La mia vita con un padre DOC è un testo triste che sottolinea come una diagnosi e un trattamento, di conseguenza, possano non solo salvare una persona ma tutto il contesto familiare relativo.

Dipendenza da smartphone: è reale e potrebbe danneggiare il processo decisionale

La dipendenza da smartphone è un concetto controverso ancora non riconosciuto dal manuale diagnostico e statistico per i disturbi mentali (DMS 5). 

 

Secondo i ricercatori una relazione problematica con il proprio cellulare è, di solito, sintomo di problemi fondamentali più profondi, tra cui disfunzioni nelle abilità di decision making. Le evidenze raccolte finora suggeriscono che questo tipo di dipendenza sia associata a una riduzione nelle performance scolastiche e lavorative, disturbi del sonno, sintomi depressivi e sensazione di solitudine, diminuzione del benessere generale e, infine, un aumento del rischio di incidenti stradali.

La dipendenza da smartphone può essere definita attraverso la difficoltà nel controllo dell’utilizzo dello smartphone, una costante preoccupazione riguardo la possibilità di rimanere senza e, infine, cattivo umore nel momento in cui si è senza smartphone. Secondo gli ultimi studi, il numero di soggetti con questa dipendenza ha raggiunto percentuali abbastanza alte: il 25% della popolazione negli Stati Uniti; il 10% di adolescenti nel Regno Unito; e il 43% della popolazione brasiliana.

Proprio per questo motivo, un team di ricercatori della Federal University of Minas Gerais (Brasile) ha condotto uno studio per indagare la correlazione tra dipendenza da smartphone e deterioramento del processo decisionale (decision making), cioè il risultato di processi mentali (cognitivi ed emozionali) che determinano la selezione di una linea d’azione tra diverse alternative e, infine, una scelta finale.

Dipendenza da smartphone e decision making: lo studio

La letteratura precedente riguardante altre forme di dipendenza (incluse le dipendenze da droghe e dal gioco d’azzardo) mostra che nei soggetti con questi tipi di dipendenza i processi decisionali risultano danneggiati in situazioni ambigue e incerte, ma non nelle situazioni in cui i rischi associati alla decisione presa sono ben delineati. Sulla base di queste premesse, la presente ricerca ha voluto indagare se il danneggiamento del processo decisionale fosse presente anche nei soggetti con dipendenza da smartphone.

Nello studio è stata utilizzata la versione brasiliana dello Smartphone Addiction Inventory, creato nel 2014. I ricercatori hanno identificato 47 studenti laureati tra i 18 e i 25 anni con punteggi abbastanza alti da essere qualificati come dipendenti da smartphone. In seguito è stata comparata le performance dei 47 partecipanti con altri 43 soggetti di controllo in due compiti decisionali ampiamente utilizzati: l’Iowa Gambling Task e il Game of Dice Task, entrambi studiati per riproporre il processo decisionale in situazioni ambigue e ricreare situazioni che riflettano la realtà delle decisioni quotidiane, che vengono prese senza alcuna certezza della probabilità degli esiti.

Nell’Iowa Gambling Task, creato per simulare processi decisionali nella vita reale, i partecipanti dovevano ottenere più soldi possibili attraverso la selezione di carte coperte provenienti da quattro differenti mazzi, in cui ogni carta indicava la perdita o il guadagno dei soldi. Due mazzi erano più vantaggiosi nel lungo termine, ma i partecipanti hanno dovuto scoprirlo da soli attraverso prove ed errori. Il secondo compito, il Game of Dice Task, richiedeva ai partecipanti di guadagnare più soldi possibili attraverso una serie di lanci del dado in cui le regole e le probabilità di vincere diverse somme di denaro erano stabili e prevedibili nel corso del compito.

Soggetti con alti punteggi allo Smartphone Addiction Inventory, e dunque con una dipendenza da smartphone, e soggetti del gruppo di controllo hanno ottenuto punteggi simili al Game of Dice Task. Per quanto riguarda l’Iowa Gambling Task, nella media, i punteggi sono stati più negativi: più il soggetto otteneva alti punteggi che confermavano una presunta dipendenza, peggiore era la sua performance decisionale.

I ricercatori hanno inoltre monitorato le conduttanze cutanee di tutti i partecipanti, osservando cambiamenti nei livelli di arousal, i quali hanno indicato la responsività alla ricompensa percepita o alla punizione da parte dei soggetti. In comparazione con il gruppo di controllo, alti punteggi nei soggetti con dipendenza da smartphone hanno mostrato una minore responsività della conduttanza cutanea prima delle scelte svantaggiose, più alta invece dopo le ricompense (la vincita) e minore responsività dopo le punizioni (perdita). Questo suggerisce la difficoltà nel riconoscimento di alternative svantaggiose, alta sensibilità alle ricompense e bassa sensibilità alle punizioni.

Conclusioni

Un’ipotesi avanzata dai ricercatori consiste nella possibilità che le decisioni (per i soggetti con un punteggio alto nei test sulla dipendenza) possano essere guidate dalla ricerca di una ricompensa piuttosto che dall’evitamento di una punizione. Questo potrebbe, inoltre, mantenere o peggiorare la loro dipendenza, le performance accademiche negative e, infine, deteriorare le relazioni sociali.

Da questi risultati, i ricercatori presumono che le persone con una tendenza a favorire il raggiungimento di ricompense piuttosto che l’evitamento di punizioni, sarebbero più propensi a sviluppare una dipendenza da smartphone, la quale potrebbe poi far peggiorare questa tendenza.

Psicologia della procrastinazione: dalle variabili personali ai fattori contestuali

Il costrutto di procrastinazione indica il rinviare i propri impegni, ovvero il temporeggiare non giustificato da condizioni oggettive. Il procrastinare è sintomatico di un limitato autocontrollo che conduce a non rispettare le scadenze nei tempi stabiliti.

 

La procrastinazione è un processo diffuso soprattutto in ambito lavorativo. Essa è imputabile a più fattori, personali e contestuali. Fra le variabili personali sono da citare il deficit di autoregolamentazione, la percezione cognitiva dell’attività lavorativa, la scarsa motivazione, l’incapacità di differire il soddisfacimento della componente edonica della vita quotidiana, la difficoltà di vivere serenamente la pressione del tempo, l’inadeguata abilità di risolvere i problemi, la limitata competenza nei processi di pianificazione e di decisione. Fra i fattori contestuali sono da annoverare la difficoltà del compito da assolvere e lo stress lavorativo.

Keywords: procrastinazione, fattori personali, fattori contestuali.

 

Il costrutto di procrastinazione indica il rinviare i propri impegni, ovvero il temporeggiare non giustificato da condizioni oggettive. Il procrastinare è sintomatico di un limitato autocontrollo che conduce a non rispettare le scadenze nei tempi stabiliti (Steel, 2007).

La tendenza dell’individuo a procrastinare sovente si evidenzia nei contesti lavorativi. Il procrastinare è estremamente diffuso: si calcola che un individuo su cinque presenti questo atteggiamento (Steel, 2007). Fra i maggiori procrastinatori sono da annoverare gli studenti universitari, che frequentemente rinviano la data in cui sostenere gli esami di profitto (Prem e al., 2018). In ambito lavorativo, il non rispetto dei compiti assegnati da parte dei lavoratori dipendenti è stato messo in relazione con l’assolvimento di attività personali durante l’orario di servizio, che, come più ricerche dimostrano, assorbe un intervallo di tempo che va dai 90 ai 180 minuti quotidiani (Paulsen, 2015). Secondo stime economiche statunitensi, la perdita derivante dal tempo di lavoro occupato con attività personali si aggirerebbe intorno agli 8875 dollari all’anno per ciascun lavoratore (D’Abate e Eddy, 2007).

Procrastinazione: tra fattori personali e contestuali

Un concetto importante in ambito lavorativo è la capacità di autoregolamentazione di ciascun lavoratore (Mackey e Perrewé, 2014). L’ autoregolamentazione, la cui mancanza determina la procrastinazione, dipende prevalentemente dalla percezione cognitiva che ciascun individuo ha del proprio lavoro, ovvero se si sente all’altezza dei compiti lavorativi o non li ritiene sintonici con le sue capacità, abilità e competenze (MacKey e Perrewé, 2014).

Frequentemente i soggetti procrastinatori presentano dei deficit motivazionali, che caratterizzano la loro vita anche al di fuori della sfera lavorativa (Prem e al., 2018). Solitamente i soggetti procrastinatori, dal punto di vista clinico, manifestano con più frequenza sintomi ansiosi, vissuti depressivi e hanno una scarsa tolleranza allo stress (Pychyl e Sirois, 2016).

Ultimamente, la procrastinazione è stata correlata alla difficoltà di differire il soddisfacimento della componente edonica del vissuto quotidiano. In altre parole, si trova più facilmente il procrastinare come atteggiamento di fondo negli individui che hanno come finalità del proprio vivere quotidiano la ricerca del piacere immediato e rinviano ad un tempo indefinito gli aspetti più impegnativi della loro esistenza, come l’attendere alle responsabilità (Pychyl e Sirois, 2016).

Inoltre, la tendenza a procrastinare è interrelata a tre fattori personali, ossia alla difficoltà di vivere serenamente la pressione del tempo, alla scarsa capacità di risolvere i problemi e alla mancanza delle abilità di pianificazione e di decisione. In pratica, si trova come strategia di vita il rinviare nella misura in cui l’individuo non sa gestire il proprio tempo, in virtù delle scadenze che lo attendono (Baer e Oldham, 2006); ha difficoltà a risolvere i problemi che via via si presentano (Morgeson e Humphrey, 2006); non riesce a pianificare i propri impegni e a gestire la gerarchia delle priorità, attraverso un processo decisionale (Kubiceck e al., 2015).

La tendenza al rinvio ha anche delle componenti contestuali. Infatti, il procrastinare può dipendere dalla natura del compito che ci si appresta a svolgere. In altri termini, si rinvia nella misura in cui il compito da assolvere si percepisce come difficoltoso (Klingsieck, 2013).

Stress lavorativo e tendenza a procrastinare

Esiste una correlazione spiccata fra il procrastinare e lo stress lavorativo. Nel contesto lavorativo lo stress può essere ascritto a due variabili, ovvero ai compiti lavorativi e all’organizzazione lavorativa. Lo stress derivante dalle mansioni svolte è imputabile al carico di lavoro assegnato, alle responsabilità connesse e alla complessità del lavoro stesso (LaPine e al., 2005). Lo stress derivante dall’organizzazione lavorativa dipende essenzialmente dall’ambiguità del ruolo svolto, dai conflitti di ruolo fra più lavoratori e dalla burocrazia che connota l’assolvimento del compito (LePine e al., 2005). Entrambi i tipi di stress si riflettono sul clima relazionale, per cui si evidenziano più facilmente conflittualità fra i lavoratori, che si ripercuotono negativamente sulle performance lavorative e incrementano la tendenza a procrastinare (Crawford e al., 2010).

In conclusione

La procrastinazione è un processo diffuso soprattutto in ambito lavorativo. Essa è imputabile a più fattori, personali e contestuali. Fra le variabili personali sono da citare il deficit di autoregolamentazione, la percezione cognitiva dell’attività lavorativa, la scarsa motivazione, l’incapacità di differire il soddisfacimento della componente edonica della vita quotidiana, la difficoltà di vivere serenamente la pressione del tempo, l’inadeguata abilità di risolvere i problemi, la limitata competenza nei processi di pianificazione e di decisione. Fra i fattori contestuali sono da annoverare la difficoltà del compito da assolvere e lo stress lavorativo.

Oltre se stessi. Scienza e arte della performance (2019) di Giorgio Nardone e Stefano Bartoli – Recensione del libro

Nel libro Oltre se stessi, Giorgio Nardone e Stefano Bartoli utilizzano la metafora molto suggestiva del diamante per spiegare chi è una persona che ha un talento e per ricordare l’importanza di “maneggiarla” con cura in quanto portatrice di qualcosa tanto prezioso ma al contempo fragile, per cui è importante sapere dove colpire, in modo da poter lavorare escludendo il rischio della sua rottura.

 

“Solo chi rischia di andare troppo lontano avrà la possibilità di scoprire quanto lontano si può andare. “
Thomas Stearns Eliot

 

 

Così si apre l’ultimo libro del prof. Giorgio Nardone, scritto in collaborazione col Dr Stefano Bartoli, esperto di alta prestazione e leadership.

Come gli stessi autori scrivono:

questo testo non intende essere una raccolta di ricette magiche, ma una sorta di guida e mappa alla ricerca del tesoro che ognuno ha dentro di sé.

Oltre se stessi è un testo all’interno del quale ricerca moderna e saggezza antica si coniugano, uniti ai contributi offerti dalle neuroscienze e dall’esperienza trentennale dello stesso Giorgio Nardone, sia nell’ambito clinico che nell’ambito performativo, che mette in luce alcuni aspetti essenziali per un performer, sia esso un professionista, un atleta, un artista o un manager.

Flessibilità, capacità di mutare rimanendo se stessi, capacità di resistere agli urti della vita, di adattarsi, accompagnata all’esercizio, dedizione, sacrificio ed accettazione del rischio di fallimento, questi sono alcuni degli elementi essenziali all’uomo moderno per riuscire ad andare “oltre” i propri limiti. Non un percorso che mira alla perfezione bensì al miglioramento.

“Incoscienza educata”

L’originale concetto coniato dal prof. Giorgio Nardone rimanda ad un aspetto che lo stesso considera essenziale per favorire il cambiamento, sia in ambito clinico che performativo. Con il termine “incoscienza educata” l’autore mette in risalto un aspetto sia fisiologico che psicologico del cervello. Si cerca di superare il dualismo tra coscienza ed incoscienza riconoscendo come molti processi nell’uomo siano incoscienti (da non fraintendere con il concetto freudiano di inconscio) e come la stessa funzionalità per l’uomo di questi aspetti incoscienti, risieda proprio nell’essere autonomi dalla coscienza.

L’accento viene posto sulle nostre emozioni, gestite dal cervello rettile e pertanto molto rapide ed istintive. Nulla di sbagliato se non il non riuscire per l’appunto ad educare i nostri stati emotivi, come la paura o la rabbia ad esempio, pertanto il lavoro mirerà a riuscire, riprendendo le stesse frasi di Nardone, a gestire e non subire! Un lavoro strategico e costante su sensazioni, percezioni e cognizioni che consentono il passaggio ad un’azione ed al cambiamento/miglioramento.

Si nasce o si diventa?

Anche in questo caso gli autori rifiutano un ragionamento che escluda una delle due posizioni, sostenendo una logica e/e. Si nasce e si diventa e ciò che consente di poter mantenere entrambe le posizioni risiede proprio nell’importanza posta sull’esercizio. Un talento non coltivato con costanza e dedizione tenderà a sfumare, non crescere, potendo giungere fino al fallimento, alla pari chi non nasce talentuoso può acquisire abilità e competenze attraverso l’esercizio. Lo stesso Leonardo da Vinci sosteneva la “sapienza è figlia dell’esperienza”. Talenti puri, inespressi, bloccati… bloccati per problematiche personali e relazionali, al professionista che lavora nell’ambito performativo la capacità di comprendere come lavorare.

Oltre se stessi si conclude con una metafora molto suggestiva che vede la persona che possiede un talento come un diamante che va maneggiato con cura, tanto prezioso ma al contempo fragile, dove si deve sapere dove colpire, in che punti, in modo da poter lavorare escludendo il rischio della sua rottura.

Oltre se stessi è un testo ricco di spunti di riflessione, utile all’ampio pubblico di lettori che sicuramente accende curiosità e magari anche voglia di passare all’azione e la voglia di assumersi il rischio di credere in se stessi e sulle proprie risorse.

Lo stesso Plutarco sosteneva: “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”.

Violenza Sessuale. Diniego e minimizzazione (2016) di Rossi-Renier e Lamberti-Bocconi – Recensione del libro

Il testo Violenza Sessuale. Diniego e minimizzazione di Rossi Renier e Lamberti-Bocconi si configura come un essenziale preludio che apre al complesso tema della violenza sessuale.

 

Il percorso che gli autori seguono nella loro trattazione ci porta immediatamente al cuore del discorso, il diniego e la minimizzazione e ad esplorare le diverse e intrecciate definizioni di questi concetti, che sono ritenuti gli atteggiamenti maggiormente frequenti negli aggressori sessuali.

Violenza Sessuale: cosa c’è dietro il diniego e la minimizzazione

Il fenomeno del diniego o della minimizzazione della violenza sessuale può essere inteso come

l’affermare di non aver compiuto l’azione stessa, nel negare o sminuire le proprie responsabilità in merito, nel giustificarsi in qualche modo e nel negare o sottovalutare i danni causati alla vittima. (p. 2)

Il corposo panorama di ricerche e studi su questo fenomeno mettono in risalto la disomogeneità intrinseca alla definizione stessa di tale aspetto, che rende vivo il dibattito in merito. Vengono identificate due prospettive differenti: una visione dicotomica del fenomeno (presenza/assenza del diniego) e una visione multidimensionale (diniego come continuum). Vengono esplorate le possibili funzioni del diniego, in senso strumentale o difensivo. Viene approfondito quello che è considerato il meccanismo alla base dell’atteggiamento di negazione, la distorsione cognitiva, una falsa credenza, che

permette di condonare, giustificare, scusare, minimizzare, razionalizzare e così via il proprio comportamento. (p. 11)

Centrale risulta essere lo studio della relazione tra diniego, minimizzazione e recidiva: che il diniego si configuri come un fattore di rischio o come un bisogno trattamentale sembra essere un elemento fondamentale per orientare l’impostazione dell’intervento sugli aggressori sessuali.

Violenza sessuale: la valutazione e misurazione del diniego

La sezione tecnica relativa agli strumenti di valutazione e misurazione del diniego e della minimizzazione, oltre a illustrare strumenti altri, quali griglie di valutazione, strumenti self-report e basati sulle osservazioni cliniche, presenta in maniera dettagliata il Comprensive Inventory of Denial- Sex Offender Version (CID-SO) ideato dalla psichiatra forense e ricercatrice canadese Sandy Jung nel 2004 e tradotto in italiano dal gruppo della prof.ssa Georgia Zara (Dipartimento di Psicologia di Torino). Lo strumento, composto da 18 items, è specifico per l’indagine sul diniego, inteso come fenomeno multidisciplinare e viene utilizzato in ambito peritale, oltre che in sede di trattamento.

Ed è a quest’ultimo che è dedicata l’ultima parte del testo. Viene presentata l’esperienza canadese (attuata nella Casa di Reclusione di Rocher-Percè), pioniera nella presa in carico globale (valutazione, trattamento, ricerca e formazione) dei sex offenders, a cui si è ispirata l’esperienza italiana realizzata nel Carcere di Bollate dal gruppo guidato dal Dott. Giulini.

Sicuramente, al di là dell’infarinatura teorica e delle schede tecniche, leggere di queste realtà rassicura sull’apertura verso questo tipo di reati e lascia intravedere un atteggiamento volto più alla comprensione e alla cura, che al giudizio e all’esclusione. Questo rimane un fondamento. Il tema è complesso, anche perché si gioca su differenti e molteplici piani: la clinica e la giustizia, il trattamento e la punizione, l’accoglienza e il giudizio. La sensibilità e l’attenzione di chi si avvicina a questo fenomeno è importante e da quanto si legge in queste pagine appare mossa davvero dal desiderio di una presa in carico globale, scevra da giudizi e serrature. La strada è lunga, primi passi ne sono stati fatti e le scarpe si sono dimostrate ben piantate a terra. Non resta che proseguire con fiducia e costanza.

Più siamo vicini agli affetti, più riusciamo ad identificarci con un luogo

Oggi viaggiare o trasferirsi in luoghi nuovi, sconosciuti, affascinanti e a volte anche molto lontani non è più così difficile.. chi non racconta un’esperienza Erasmus nel proprio curriculum?! Viaggiare rende felici. Eppure non ci si può non chiedere se tutta questa lontananza da “casa” non abbia degli effetti anche sulla nostra felicità.

 

Tutte le persone nel corso della loro vita, a un certo punto, si trovano ad affrontare dei cambiamenti: lavoro, relazioni, amici. Questi cambiamenti, talvolta, possono finire per spingerci lontano da quello che è il nostro luogo di nascita, basti pensare ai trasferimenti dovuti ad un cambio di lavoro oppure a causa dell’università. Per quanto a volte questi trasferimenti siano auspicabili e persino ricercati, non è detto che portino ad un aumento della felicità e della soddisfazione per la propria vita. Al contrario, pare che la soddisfazione per la propria vita aumenti quando le persone riescono ad identificarsi con il luogo nel quale risiedono. Tale identificazione sembra tuttavia essere possibile solamente nel caso in cui si resti vicino alle persone che sono emotivamente importanti (amici, famiglia, pari significativi).

Alcuni ricercatori dell’Università di Jena, in Germania, hanno cercato di indagare proprio come l’identificazione e la vicinanza alle persone emotivamente significative contribuisca nell’avere una vita felice e soddisfacente (Borschel, Zimmermann, Crocetti, Meeus, Noack & Neyer, 2019).

Lo studio

Secondo Borschel, tra gli autori dello studio, un senso di appartenenza e di legame con il luogo di residenza è essenziale per essere felici nella vita. La studiosa riconsce però anche che, oggi, è richiesto ai giovani di essere flessibili e mobili per poter prepararsi al meglio all’inizio della loro vita adulta. Sono queste dunque le premesse che hanno guidato i ricercatori dell’Università di Jena nel costruire le loro ipotesi e un preciso disegno di ricerca.

Il campione oggetto di studio ha coinvolto circa 1000 studenti provenienti da tutta la Germania, poi suddivisi in due gruppi sperimentali: un primo gruppo raccoglieva studenti che hanno lasciato il posto nel quale hanno completato gli studi universitari, l’altro gruppo invece studenti che non si sono trasferiti.

Per ciascun gruppo è poi stato misurato quanto fosse importante per i soggetti il luogo di residenza e quali fossero i luoghi di residenza delle persone emotivamente significative per tali soggetti (con lo scopo di misurare la vicinanza delle persone care).

I risultati hanno dimostrato che la vicinanza alle persone emotivamente significative è un fattore chiave per riuscire ad identificarsi con il luogo di residenza. Inoltre sembra che una soddisfazione generale per la vita sia positivamente correlata con la presenza e vicinanza di persone emotivamente significative.

Stando a quanto sostiene il professor Neyer dell’Università di Jena, tra gli autori della ricerca, neanche i mezzi di comunicazione contemporanei, ormai quasi istantanei, come le e-mail o Skype possono compensare la perdita di vicinanza geografica: sembra che più lontani siamo da coloro che sono emotivamente importanti per noi, meno saremo soddisfatti della nostra vita.

In conclusione

Secondo questo studio, la mobilità costituisce inoltre una lama a doppio taglio perché il trasferirsi lontano dalle persone care sembra agire non solo su coloro che partono ma anche, a livello passivo, su quelli che rimangono, perché anche loro risentono della distanza e dell’allontanamento delle persone emotivamente significative e conseguentemente diminuisce anche l’identificazione con il luogo di residenza.

Le implicazioni pratiche di questo lavoro sono dunque enormi, anche a livello di politiche sociali, perché la vicinanza con persone emotivamente significative e quindi la soddisfazione della vita va ad influenzare il tessuto sociale di una società e conseguentemente la vita di tutti.

Bambini tra incudine e martello: essere figli di genitori separati

Il ruolo genitoriale non si esaurisce con il termine di un matrimonio, bensì continua per sempre. Tuttavia, l’esperienza clinica obbliga i professionisti della salute mentale a confrontarsi sempre più spesso con genitori arrabbiati, rancorosi, pieni di odio e rabbia nei confronti del genitore da cui si sono separati.

*In questo articolo farò riferimento a mamma e papà, ma i principi psicologici descritti valgono esattamente per le famiglie omogenitoriali, dove ci sono due mamme o due papà.*

 

Genitori.. anche dopo la separazione

Spesso, con la separazione, mamma e papà restano bloccati in una sorta di agonismo esistenziale, dove il focus della loro attenzione si sposta dal benessere del bambino al pretendere di diventare il genitore migliore del mondo, il genitore perfetto (che non esiste), come se questo potesse riparare al dolore dei figli, sacrificando inevitabilmente il rapporto con l’ex-partner.

Questi genitori perdono di vista un paradosso ingannevole ma dal valore inestimabile: “i ragazzi stanno bene” non quando i genitori tentano di dimostrarsi reciprocamente di essere premurosi, attenti, sensibili, ma quando riescono a dare un’immagine di sé pacifica e collaborativa nei confronti dell’altro genitore. Forse non è possibile spiegare a parole quanto sia importante per qualunque bambino (o forse solo un bambino riesce a farlo) vedere che i propri genitori vanno d’accordo anche se hanno deciso di non vivere più insieme. Attenzione: questo non significa che debbano continuare a volersi bene, capita raramente e i bambini questo lo sanno.

Separazione: due famiglie in gioco

Non è importante che i genitori funzionino bene singolarmente, i bambini devono poter contare sulla loro cooperazione perché é solo questa che garantisce quel senso di sicurezza, quella base sicura in grado di prevenire l’unico vero grande fallimento di una coppia di genitori: l’inversione del ruolo genitoriale, ovvero il fenomeno psicologico nel quale sono i figli a doversi assumere il ruolo adulto di chi riporta calma e pace all’interno di una famiglia già ferita da una separazione, perché i genitori non riescono ad andare d’accordo su niente.

Spesso anche fratelli e sorelle, insieme ai genitori di mamma e papà, contribuiscono all’incremento di questo clima di tensione e odio. Pensando di difendere i diritti del proprio caro, nonni e zii gettano benzina sul fuoco, invece di aiutare mamma o papà a non farsi travolgere dalle emozioni, alimentando l’agonismo nella coppia genitoriale e perdendo così di vista il benessere dei bambini che invece dovrebbe essere sempre al primo posto.

Così i bambini si ritrovano fra incudine e martello, subiscono gli attacchi aggressivi di un genitore verso l’altro e si ritrovano a diventare contenitori di insulti, offese, ripicche e dispetti. Non sorprende che, una volta adolescenti, questi ragazzi possano iniziare a strumentalizzare il rapporto conflittuale dei genitori per ottenere ciò che vogliono o per giustificare comportamenti inadeguati a casa e a scuola, oppure nel gruppo dei pari.

Genitori tra separazione e diagnosi dei figli

Questi principi sono ancora più validi nel momento in cui la separazione dei genitori si verifica subito prima o poco dopo una diagnosi di disturbi del neurosviluppo come il Disturbo dello Spettro Autistico, i DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento), l’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività), il DOP (Disturbo Oppositivo Provocatorio), o la SDT (Sindrome di Tourette). Questi disturbi spesso mettono a dura prova la coppia. La cooperazione attiva tra genitori separati di bambini con una diagnosi di disturbo neurobiologico è ancor più necessaria per il benessere di un figlio già in difficoltà per via del suo disturbo.

Per concludere, non capita di rado che nello studio degli psicologi entrino genitori che pensano di avere un “figlio rotto” e che basti portarlo dallo psicologo per farlo aggiustare. Non é così, é importante prima di tutto fare i conti con se stessi come genitori, ristabilire un contatto cooperativo con l’altro genitore anche quando questo costa molta fatica, perché il benessere di un figlio non può prescindere dal fatto che mamma e papà, anche se separati, riescano ancora a comunicare fra loro per salvaguardare e tutelare la salute mentale della creatura che hanno messo al mondo. Insieme.

Oggetto transizionale e ansia da abbandono: dall’infanzia all’età adulta

L’ oggetto transizionale è quasi sempre una delle cose che circondano abitualmente il bimbo come, appunto, il classico orsacchiotto appoggiato sul suo lettino, un bambolotto, una copertina, e di lui il bimbo si servirà per sperimentare, per la prima volta, una relazione affettuosa con un altro diverso da sé.

 

Immaginiamo la classica scena di un bimbo che dorme abbracciando un orsacchiotto. Quel pupazzo è per lui molto più di un semplice oggetto di pezza. E’ il suo primo tentativo di capire il mondo.

Nei primi mesi di vita il bambino non è in grado di distinguere se stesso da chi si prende cura di lui, lui e la mamma sono la stessa cosa e il resto del mondo non esiste. Con il passare dei mesi inizia a percepire che le cose non stanno proprio così e intorno al primo anno si rende conto che la mamma non è più suo dominio incondizionato. Ma questa realtà non è affatto facile da accettare. L’idea che la mamma non gli appartenga più, che possa staccarsi da lui e magari sparire genera angoscia.

E’ a questo punto che mette in atto una strategia che gli permetterà di superare le sue paure: accanto a lui compare un “oggetto transizionale” il cui ruolo e la cui funzione vengono magistralmente esposte da Winnicott (1974; 2004).

Cos’è l’ oggetto transizionale?

L’ oggetto transizionale è quasi sempre una delle cose che circondano abitualmente il bimbo come, appunto, il classico orsacchiotto appoggiato sul suo lettino, un bambolotto, una copertina, e di lui il bimbo si servirà per sperimentare, per la prima volta, una relazione affettuosa con un altro diverso da sé.

Sempre basandoci sugli studi di Winnicott, vediamo come la madre che lui definisce “sufficientemente buona” nei primi mesi del suo bambino tenderà ad adattarsi completamente ai suoi bisogni, con il passare del tempo, anche valutando la crescente capacità del bimbo di far fronte alla separazione, il suo adattamento diminuirà per lasciare che l’esperienza del distacco venga acquisita e accettata.

I mezzi che il bambino ha di far fronte al venir meno della madre comprendono l’esperienza che la frustrazione è limitata nel tempo, gli inizi dell’attività mentale, il ricordare, rivivere e fantasticare integrando passato, presente e futuro. L’ oggetto transizionale diventa un “sostituto” della mamma nei momenti in cui la sua assenza può generare angoscia. A questo punto, si può dire che l’ oggetto transizionale ottenga l’effetto che era partito col negare: permette alla madre di allontanarsi mentre il bambino se la tiene vicina simbolicamente.

“Il punto essenziale dell’ oggetto transizionale non è il suo valore simbolico – scrive Winnicott – quanto il fatto che esso è reale. E’ un’illusione ma è anche qualcosa di reale”.

L’ oggetto transizionale accompagna il bambino alla scoperta del mondo che lo circonda assolvendo ad un compito: creare la realtà oggettiva dell’oggetto e creare la realtà oggettiva del soggetto, la consapevolezza di quel “Io sono” che sarà la base della costruzione della sua identità.

Naturalmente non è l’oggetto in sé ad essere transizionale ma l’oggetto rappresenta la transizione del bambino dallo stato di fusione con la madre ad uno stato di rapporto con la mamma come di qualcosa di esterno e separato. A questo seguirà la scoperta di altre figure e un’iniziale presa di coscienza dell’esistenza di un mondo esterno a sé.

La capacità di usare un oggetto non è innata ma si sviluppa con la crescita e fa parte del processo maturativo. Winnicott ricostruisce una sequenza che parte dal mettersi in rapporto con l’oggetto alla capacità di usare l’oggetto stesso in modo da renderlo propedeutico al soddisfacimento dei propri bisogni. Tra queste due fasi c’è quella che risulta essere una delle fasi più difficili dello sviluppo, ossia il collocamento dell’oggetto al di fuori dell’area di controllo onnipotente del soggetto, detto in altre parole, il riconoscimento dell’oggetto come fenomeno esterno e non più come entità proiettiva. Questo passaggio, che porta dall’entrare in rapporto con l’oggetto all’uso dell’oggetto stesso, si compie seguendo delle fasi in cui il soggetto distrugge l’oggetto per farlo diventare esterno. L’oggetto può sopravvivere alla distruzione oppure no. Il passaggio per farlo sopravvivere passa da queste tappe:

  • ti ho distrutto (in quanto ti ho posto al di fuori della mia area di controllo onnipotente)
  • ti amo
  • tu hai valore per me perché sei sopravvissuto al mio distruggerti

a questo punto l’oggetto sviluppa la propria autonomia e la propria vita e può essere usato portando il suo contributo al soggetto, a seconda delle sue proprietà.

L’ oggetto transizionale in età adulta

Ma l’oggetto transizionale non è solo l’orsacchiotto e la sua utilità non è confinata al solo periodo dell’infanzia. Il compito di accettazione della realtà non è mai completato, nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna e il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza. Il bisogno di un oggetto specifico o di un modello di comportamento può ricomparire in un’età successiva, ad esempio quando si vive una minaccia di privazione.

Anche in età adulta alcuni oggetti vengono quindi sganciati dalla loro stretta funzionalità oggettiva, acquisiscono un valore affettivo e possono diventare nuovi oggetti transizionali. Sono modalità aggiornate per non sentirsi soli ed essere rassicurati. Alcuni esempi sono la necessità di consultare continuamente i social, di avere sempre con sé il cellulare, il compiere azioni ricorrenti come toccarsi i capelli, tenere in mano la sigaretta, possedere un auto che viene sentita come estensione di sé, della propria posizione e del proprio prestigio.

Troviamo un’interessante spiegazione di questo fenomeno nel libro Psicopatologia del cellulare. Dipendenza e possesso del telefonino” in cui l’autore, lo psicologo Luciano Di Gregorio, ci parla di un sistema simbolico di comunicazione utilizzato da soggetti adulti e dell’utilizzo dei rapporti affettivi nella duplice funzione di tramite per andare verso il nuovo e di rifugio nell’identico a sé, cioè in un possesso rassicurante dei nostri oggetti desiderati. La necessità quasi ossessiva di non separarsi mai dal cellulare ci viene appunto spiegata dall’autore come il segnale di una difficoltà a relazionarsi con il mondo esterno e di una paura intrinseca di essere rifiutati dall’altro e di sentirsi soli. Mandare un SMS, ad esempio, dà la possibilità di sondare il terreno riguardo alle intenzioni e alla disponibilità dell’altro, senza esporsi troppo nel caso di un eventuale rifiuto. Il cellulare può anche essere vissuto come un modo per tenere sotto controllo l’ansia da separazione offrendo un sostegno concreto nel mantenere idealmente viva la presenza dell’altro. Anche se è spento, la sua sola presenza ha un effetto rassicurante, non serve che chiamiamo continuamente la persona di cui sentiamo la mancanza, il solo sapere che potremmo farlo ci tranquillizza. E’ per questo che gli viene attribuito il ruolo di oggetto transizionale, in quanto rappresenta la persona che stiamo cercando di sostituire. E’ un oggetto reale ma al contempo è immaginario, o meglio è immaginario il suo sostituire la persona assente.

La capacità dell’adulto di sopportare la solitudine dipende dal mondo affettivo interno che ha costruito attraverso le esperienze vissute nell’infanzia. Un mondo affettivo fatto di presenze e relazioni significative su cui si basa la costruzione dell’individualità e che rende possibile la fiducia nell’esistenza dell’altro anche durante la sua assenza. La speranza di ritrovare l’oggetto d’amore temporaneamente perduto dà la forza di tollerare la separazione e sopportare la sua momentanea assenza ed è la base per dedicarsi, nella vita reale, alla concentrazione per un compito o una mansione che saranno vissute come temporanea perdita d’impegno affettivo verso l’altro sapendo però che il rapporto potrà poi essere recuperato.

Ed è proprio la rassicurazione che l’altro esiste anche durante la sua assenza a rendere tollerabile la separazione. Come ci spiega Di Gregorio:

“Si finisce per chiamare qualcuno senza un preciso desiderio, ma proprio perché si vuole eludere, al più presto, la pur vaga consapevolezza della potenziale perdita di controllo sull’ambiente di vita, nel quale collochiamo l’altro-da-noi come potenzialmente perduto per sempre”.

Baby (2018) di De Sica e Negri: il rapporto madre-figlia secondo Minuchin – Recensione della serie Netflix

Baby è la serie TV Netflix uscita lo scorso Novembre che tratta di una vicenda realmente accaduta, molto vicina a noi italiani: due ragazze adolescenti del quartiere Parioli di Roma entrano a far parte, inizialmente quasi per gioco, di un giro di prostituzione minorile.

Chiara D’Agnese

 

La serie Baby mette in evidenza sin da subito, non tanto il fatto di cronaca in sé, ma il contesto familiare disfunzionale in cui entrambe le ragazze vivono.

Baby: la storia di un rapporto madre-figlia

Ludovica, una delle protagoniste principali, vive in un contesto familiare disregolato, i genitori sono separati, la sorella vive a New York, mentre lei abita insieme alla madre, Simonetta. Il rapporto con quest’ultima è simbiotico e ambivalente e lo si evince sin dalla prima puntata. Questa simbiosi si nota a partire dall’aspetto fisico, la madre e la figlia hanno lo stesso taglio di capelli, talvolta anche gli stessi atteggiamenti, tanto che il telespettatore arriva a chiedersi chi è realmente l’adolescente tra le due. Questa confusione è resa ancora più evidente nel momento in cui in una delle prime scene tra genitore e figlia, Simonetta si accorge di avere lo stesso smalto della figlia ed esordisce: “Immortaliamo”, pubblicando una foto su Instagram, o quando presenta alla figlia il fidanzato molto più giovane di lei, quasi un coetaneo di Ludovica stessa.

Seppur possa sembrare che la madre sia molto vicina alla figlia, in realtà vi è una forte fragilità di fondo, che genera ambivalenza. Ludovica non ha bisogno di “una mamma per amica”, ma di un punto di riferimento, di qualcuno che si prenda cura di lei. Questa discontinuità nel loro rapporto emerge nel momento in cui è Ludovica a procurarsi i soldi per pagarsi la retta scolastica o quando mette in guardia la madre dal suo giovane compagno, che in realtà vuole solo approfittare dei suoi soldi.

Baby: rappresentazione di un rapporto invischiato

Minuchin (1974), che studiò la famiglia dal punto di vista strutturale, avrebbe definito il rapporto tra Ludovica e Simonetta come invischiato, caratterizzato da confini diffusi e poco chiari tra il sottosistema genitoriale e il sottosistema della figlia; ciò comporta una scarsa differenziazione tra sé e l’altro.

Uno degli obiettivi principali dell’adolescenza è la costruzione della propria identità, che permetterà lo sviluppo del pensiero critico. A questo punto ci si potrebbe chiedere: fino a questo momento il bambino non ha mai avuto un’identità personale? Sì, ma un’identità riflessa, frutto dei giudizi e delle aspettative dei genitori. Affinchè l’adolescente crei la propria identità è necessario che i figli e i genitori intraprendano un processo di individuazione\differenziazione, che porterà il figlio a sviluppare la capacità di prendere decisioni con una certa autonomia dalla famiglia, pur mantenendo con questa un rapporto che si basi sullo scambio, la fiducia, la comunicazione aperta. La mancata differenziazione può portare ad una confusione dei ruoli, come accade tra madre e figlia in Baby.

Baby: in adolescenza il bisogno di genitori è forte

Un altro elemento disfunzionale che emerge chiaramente nella protagonista di Baby è la presenza di uno schieramento, la triangolazione: i coniugi in conflitto tra di loro esigono che il figlio prenda le difese dell’uno o dell’altro. La triangolazione emerge nel momento in cui la madre non vuole che la figlia vada al matrimonio del padre, il quale a sua volta minaccia di non pagare più la retta scolastica in caso di assenza alla cerimonia della figlia.

Questo schieramento si rivela essere disfunzionale poiché Ludovica si trova al centro di un conflitto interpersonale non risolto tra genitori, che genera in lei sensi di colpa per non riuscire a prendere una posizione netta e per sentirsi, anche incosciansciamente, la causa dei loro problemi. La figlia dunque viene utilizzata come mezzo per gestire o diminuire lo stress emotivo legato al conflitto interpersonale, producendo un impatto negativo sul suo benessere psicologico.

L’adolescenza è una delle fasi di vita cruciali, in cui l’adolescente inizia ad emanciparsi dai propri genitori, a costruire una propria identità personale. E’ una fase talvolta di disorientamento, in cui è importante che i genitori restino tali, non perdano la loro autorità per diventare “amici” dei figli, ma promuovano una comunicazione aperta e positiva basata sullo scambio di idee, sulla comprensione dei bisogni. Le reazioni amicali altro non sono che l’espressione delle insicurezze del genitore, una strategia disfunzionale per l’evitamento del conflitto, in realtà importante in questa fase. L’adolescente attraverso il conflitto impara la negoziazione, lo scambio di idee, la creazione di un rapporto reciproco e al tempo stesso il confronto con posizioni solide che permettano di riconoscere i propri limiti e trovare la propria coerenza personale.

Cosa spinge le persone a sacrificarsi per il bene di qualcun altro?

Il collaboration effect sembra essere quel fenomeno che determina la percezione di essere in qualche modo in debito verso chi sta collaborando con noi, rendendo dunque la persona più predisposta a sacrificarsi per l’altro.

 

Quando siamo messi di fronte alla possibilità di sacrificare alcune delle nostre risorse (tempo, denaro, etc.) per il bene di terzi, non abbiamo, evidentemente, sempre la stessa predisposizione d’animo: ci viene più facile sacrificarci per alcune persone e più difficile per altre.

Due ricercatori della Northwestern University dell’Illinois McGrath e Gerber hanno cercato di dare una risposta a questo quesito tramite un recente studio (McGrath & Gerber, 2019) che ha evidenziato come sia più facile sacrificarsi per le persone le cui vite sono da noi considerate come interdipendenti con le nostre.

L’ipotesi di ricerca e le conclusioni degli autori

I due ricercatori ipotizzano l’esistenza di una sorta di “collaboration effect” che funziona creando in coloro che collaborano con noi la percezione di essere in qualche modo in debito verso di noi e rendendoli quindi più predisposti a sacrificarsi. Secondo McGrath, questa spinta al sacrificio è dovuta alla percezione di essere in obbligo verso coloro le cui vite sono interdipendenti con le nostre piuttosto che da un senso più generale di buona volontà verso il prossimo: praticamente è come se ci sentissimo di dovere qualcosa a chi ci è vicino.

McGrath porta anche qualche esempio pratico di questo “collaboration effect”: un politico al quale sia dato un generoso contributo per la sua campagna elettorale sentirà un’innata compulsione a ripagare il debito verso colui che ha donato, il che porta enormi implicazioni pratiche per quanto riguarda la trasparenza delle varie campagne elettorali.

Le origini di questo effetto dovrebbero andare ricercate nel nostro passato come specie umana, difatti anticamente la collaborazione sarebbe stata importante per la sopravvivenza del singolo individuo e questo avrebbe foggiato un innato senso di giustizia negli esseri umani, a causa del quale troviamo più facile sacrificare le nostre risorse per coloro che collaborano con noi e dai quali, in varia misura, dipende o ha dipeso la nostra sopravvivenza.

Sicuramente l’impulso che ci spinge a ripagare i nostri collaboratori è un’ottima cosa in molti scenari, ma rischia, in certe situazioni, di mettere coloro che sono vicini a noi su una corsia preferenziale, il che potrebbe nascondere qualche problema a livello etico (basti pensare all’esempio del politico di poco sopra). Diventa pertanto importante fare attenzione a questo effetto per scongiurare possibili derive poco etiche del “collaboration effect”.

 

Il valore del dono. Dall’utilitarismo alla decrescita serena, fino al riconoscimento

Paolo VI il 26.03.1967 pubblica l’enciclica Popolorum Progressio in cui mette l’accento sul rapporto tra lo sviluppo e la crescita economica: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”.

 

Il Papa, in un periodo – gli anni sessanta- in cui era esaltato il concetto di sviluppo illimitato, nella prima parte dell’enciclica mette subito in chiaro il suo messaggio

la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, ed è urgente una risposta perché i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza.

Il valore del dono nell’enciclica di Paolo VI

Nell’enciclica Paolo VI critica in maniera efficace i teoremi e i concetti che guidano l’homo economicus soprattutto quando fa riferimento alle strutture oppressive e alla proprietà privata. Sulle prime scrive letteralmente

la ricerca esclusiva dell’avere diventa … un ostacolo alla crescita dell’essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale – ed ancora – strutture oppressive, sia che provengano dagli abusi del possesso che da quelli del potere, dallo sfruttamento dei lavoratori che dall’ingiustizia delle transazioni.

Sulla proprietà privata sostiene che

non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario

arrivando ad affermare che

il bene comune esige dunque talvolta l’espropriazione se, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni …, certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva.

Queste ultime affermazioni per una crescita sostenibile, all’interno di uno sviluppo sostenibile non possono non passare attraverso la ricerca dei legami sociali, anche sul piano globale, che spesso la ricerca ossessiva dell’utile e del proprio benessere tende a sottovalutare o, addirittura, a non prendere in considerazione. Se analizziamo attentamente le frasi riportate dall’enciclica Populorum Progressio con la pratica del dono nelle società arcaiche, possiamo trovare vari parallelismi: l’avere che sia economico o possesso dei beni di produzione non deve essere a uso esclusivo, ma deve essere un bene condiviso che nelle società arcaiche si esprimeva attraverso il donare. Vero è che nella pratica del potlac ciò era messo in atto nel tentativo di creare un debito nei confronti del ricevente, ma è anche pur vero che non faceva nascere delle insurrezioni e portava alla pace. Allo stesso modo Paolo VI ammonisce che

Si danno, certo, situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo, ma se riusciamo ad addivenire a una progressione sociale che mette in primo piano le esigenze dell’essere “lo sviluppo” può essere “il nome nuovo della pace” .

Il valore del dono nella descrscita serena di Latouche

S. Latouche, nel breve saggio “Decrescita Serena” (2007), in accordo con quanto sostenuto da Paolo VI, esordisce chiedendosi

Dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta – e continua affermando – tutte le varie espressioni “sviluppo sostenibile”, “vivibile” o “sopportabile” sono solenni imposture: negli ultimi due secoli, lo sviluppo è sempre stato contrario all’idea di sostenibilità, poiché ha cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto. Oggi il vecchio concetto è stato rivestito con una patina d’ecologia, che tranquillizza l’Occidente e nasconde la lenta agonia del pianeta. Lo sviluppo cambia pelle, insomma, ma resta se stesso.

Nella sua critica a un modello individualista, utilitarista e razionale di sviluppo che sembra giunto al collasso, egli propone una decrescita serena i cui cambiamenti potrebbero racchiudersi in otto R:  “rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare”. Rivalutare vuol dire creare un diverso immaginario collettivo caratterizzato da

amore della verità, senso della giustizia, responsabilità, rispetto della democrazia, elogio della differenza, dovere di solidarietà, uso dell’intelligenza.

Si dovrebbero riconcettualizzare e ristrutturare tanto gli apparati produttivi che i rapporti sociali. E’ in questo riconcentualizzare e ristrutturare, insieme alla categoria del ridistribuire, che sono riscoperte gli studi di Mauss sul dono nel senso che quest’ultimo serve ed è utile a creare relazioni e legami. Ridistribuire le risorse e le ricchezze accumulate da Nord a Sud in modo da creare condizioni economiche di vivibilità per tutti. Rilocalizzare vuol dire

produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione.

Rilocalizzare è una sfida forte alla globalizzazione dei mercati con notevoli scambi di merce, al contrario, Latouche ipotizza che questi ultimi devono essere ridotti al minimo in modo da creare condizioni di autosufficienza localizzati. Egli, comunque, non si ferma solo ai prodotti e alle merci sostenendo che

anche la politica, la cultura, il senso della vita devono trovare un ancoraggio territoriale.

Il valore del dono e il contributo di Arendt

In sostanza, come sostenuto da Arednt (1958) si tratta di ritornare all’homo faber cui interessava il prodotto finale con il suo particolare valore d’uso, cui tutto il processo di produzione era finalizzato, il principio di utilità si preoccupa principalmente di stimolare la produttività. Sicché, commenta Arendt,

la vera unità di misura non è l’utilità né l’uso, ma la « soddisfazione », cioè la quantità di pena e di piacere provati nella produzione o nel consumo delle cose

Ridurre le emissioni di gas che stanno seriamente danneggiando la biosfera. E infine utilizzare e riciclare in modo da creare beni durevoli e avere minore impatto possibile sull’ambiente. Mauro Bonaiuti nell’articolo “Decrescita e politica – Per una società autonoma, equa e sostenibile” (2016), a proposito delle teorie di Latouche sostiene che

La “decrescita” rappresenta un orizzonte di senso condiviso, una visione d’insieme, sistemica che accoglie in sé, connettendole, alcune delle istanze di emancipazione portate avanti in questi anni dai movimenti. E’ questo lavoro di tessitura, di proposta di senso condiviso, che occorre portare avanti con forza.

Da questi pochi accenni alle idee di Latouche si capisce immediatamente il senso della nascita del movimento antiutilirista: dare una dimensione antropologica nuova ai comportamenti umani e non svilirla semplicemente nella ricerca a tutti i costi nell’accumulo di denaro da raggiungere con tutti i mezzi possibili. I partecipanti al movimento individuano nelle ricerche sul dono di Mauss la chiave di volta per reinserire l’uomo all’interno di un mondo di legami e relazioni.

Il valore del dono nel paradigma di Caillè

Caillè, con il “Paradigma del dono”, fa una scelta antropologica e metodologica precisa, come scrive in “quelle autre mondalisation?” (2002),

ogni concezione puramente strumentale dell’esistenza, che organizza la vita in funzione di un calcolo o di una logica sistematica dei mezzi e dei fini, per la quale l’azione è sempre compiuta in vista di qualcosa d’altro rispetto a se stessa e ricondotta in fine soltanto al soggetto individuale che viene presupposto come chiuso su se stesso ed unico padrone, destinatario e beneficiario dei suoi atti, oppure ogni dottrina per la quale gli interessi per, le passioni, le emozioni sono o dovrebbero essere degli interessi a : delle passioni utili.

Mentre l’homo oeconumicus mostra solo interesse a, nello scambio e nel dono, si mostra interesse per. Il principale interesse per è quello per la comunità.

In questo Caillè fa forza sulle ricerche di un etologo, Frans de Waal (1989) il quale nei suoi studi sui primati afferma che la moralità umana, sul piano evolutivo, non si differenzia da quella presente nelle specie animali. Anzi, egli bolla come artificiale la visione dell’uomo il quale mostra interesse per la comunità per nascondere una natura profonda essenzialmente egoistica.

Gli animali mostrano interessi per gli altri che estendono dai parenti fino ad arrivare all’intera comunità. L”interesse per la comunità, che nella specie umana sorge sotto la spinta di pressioni evolutive e che rappresenta il

più grande passo compiuto nell’evoluzione della moralità umana, vale a dire il passaggio dalle relazioni interpersonali all’individuazione di un bene più grande.

Franz de Waal introdusse il concetto di empatia per far si che, come scrive Pietro del Re nella prefazione di un’intervista per Repubblica al famoso etologo del 2006, il Bonobo abbracci un suo compagno per consolarlo.

Caillè rilancia il concetto di empatia introducendo l’aimance, per indicare l’apertura e la sollecitudine verso l’altro che è un polo dell’azione altrettanto primario e irriducibile al pari dell’”interesse per sé”, dell’”obbligo” morale e della “libertà”. Nell’”aimance

vanno annoverati l’amicizia, la philia, l’agapè, la caritas, la pietà, la solidarietà, l’altruismo, la cooperazione, l’alleanza, l’associazione: in breve, tutti quei comportamenti ispirati a reciprocità e, diremmo, a una qualche forma di riconoscimento dell’altro, sicché, come nota Caillé, essa, nella varietà delle sue manifestazioni storiche e culturali, è una “modalità simpatetica dell’empatia.

In sostanza, le ricerche etologiche dimostrano che in origine abbiamo un homo donator che mantiene lungo tutto il suo sviluppo filogenetico questa caratteristica. Essere un homo donator non vuol dire non potersi inserire nei processi economici tipici della società industriale e post industriale. Il dono, infatti, riprendendo Mauss, è un atto che prevede un contraccambio e serve a creare legami sociali che possono condurre a risultati positivi o negativi.

Per Caillè l’interesse per e l’interesse a si sovrappongono, cosi come già descritto da Mauss, anche se è solo l’interesse per l’altro che permette lo sviluppo di un interesse a. Egli fa suo il principio di Mauss il quale sosteneva che

le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti, donare, ricevere e, infine, ricambiare. Per poter commerciare, è stato necessario, innanzitutto, deporre le lance. Solo allora è stato possibile scambiare i beni e le persone, non più soltanto da clan a clan, ma anche fra tribù e tribù, fra nazione e nazione e – soprattutto – fra individui e individui. Solo in seguito i popoli hanno saputo crearsi degli interessi, soddisfarli reciprocamente e, infine, difenderli, senza dover ricorrere alle armi. In tal modo, il clan, la tribù, i popoli sono riusciti – e lo stesso devono fare, nel mondo cosiddetto civile, le classi, le nazioni e anche gli individui – a contrapporsi senza massacrarsi, e a “darsi” senza sacrificarsi l’un l’altro. Proprio in questo risiede uno dei segreti permanenti della loro saggezza e della loro solidarietà.

L’incontro con l’altro, infatti, può portare a un accordo, a una pacificazione o invece a un conflitto permanente, alla violenza. Allo stesso modo il dono può essere positivo (portatore di sentimenti di amore, di alleanza, etc.) o, al contrario, portatore di morte e di guerra. Mauss rivede quest’ambivalenza nel termine tedesco Gift che significa nello stesso tempo regalo e veleno.

Quello che maggiormente differenzia Caillè dalle teorie sull’homo oeconomicus è il riconoscimento. Le azioni dell’uomo tendono al farsi riconoscere come attore unico all’interno del palco della vita. Mentre secondo i teorici dell’homo oeconomicus è l’affermazione dell’interesse individuale e l’accumulo dei beni che danno il segno dell’essere, in Caillè è il dono che permette di essere riconosciuti. Addirittura, Caillè sostiene che l’interesse dell’uomo è di apparire e di essere riconosciuto più ché che di accumulare ricchezza. Nel postulare ciò mutua dall’Arendt la quale, nella “Vita della Mente” (1978), sostiene che tutti gli esseri viventi

uomini e animali, non soltanto sono nel mondo, ma sono del mondo, e questo proprio perché sono nello stesso tempo soggetti e oggetti, che percepiscono e sono percepiti.

Il valore del dono nell’ottica di comunità di Saranson

E’ il principio fondamentale del potlach la cui ritualità è rivolta a farsi riconoscere nella propria posizione sociale e gerarchica e, nello stesso tempo, a essere riconosciuti poiché i doni non si possono rifiutare pena la perdita della stima sociale. Il farsi riconoscere tra l’altro, come ci informa Sarason (1919 – 2010) (24), porta a sentirsi appartenente

ad una collettività stabilendo un sistema di rapporti e di interdipendenze a cui subordinare i propri interessi particolari.

Lo stesso autore rileva che questo sistema d’interdipendenza costituisce l’esito di un processo e deve essere volontariamente mantenuto. Ciò implica l’idea che il senso di comunità dipenda dagli investimenti individuali in funzione di uno scopo sovraordinato – il mantenimento di uno specifico sistema di rapporti – e dalla sua condivisione a livello collettivo. Donare, quindi, oltre ad essere un atto volontario, è un atto simbolico che è necessario al fine di mantenere una comunità. L’atto stesso del donare come atto simbolico, mettendoci a contatto con la sacralità, è un atto di riconoscimento che permettere il perpetuarsi del senso di appartenenza alla comunità.

 

Niente (2014) di Janne Teller – Recensione del libro

Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so. Perciò non vale la pena far niente, lo vedo solo adesso.” È con questa frase che Pierre Anthon, tredici anni, rompe il silenzio in un anonimo giorno di scuola, si alza e abbandona la classe per rifugiarsi su un albero. Si apre così Niente di Janne Teller, tra lo stupore di una classe di adolescenti e l’indifferenza dei loro insegnanti.

 

Niente di Janne Teller e la ricerca di senso

Il pensiero nichilista e irremovibile di Pierre Anthon riecheggia dall’alto di un albero di susine in modo sarcastico e sprezzante per tutto il corso del romanzo, facendo scivolare i suoi compagni nello sconforto, che ben presto si trasforma in rabbia e voglia di dimostrargli il contrario. Vogliono portalo giù da quel ramo, fagli vedere che si sbaglia; non vogliono arrendersi davanti a quell’atteggiamento distruttivo e vuoto.

Così si uniscono e decidono di mettersi alla ricerca del significato. Pensano che trovare qualcosa che ha davvero senso possa far ricredere l’amico ribelle e convincerlo che val la pena continuare a credere, sperare, vivere. Decidono così di raccogliere una serie di oggetti e costruire una catasta di significato. La ricerca si incammina inizialmente tra cose semplici, speciali, anche tenere. Le pagine di Niente di Janne Teller si illuminano di speranza e infondono quella voglia piena di respirare a fondo, di esistere, di lottare in nome di quel senso che ci tiene in vita.

Man mano che le pagine scorrono però in maniera sottile ma pungente succede qualcosa: il limite verso cui i ragazzi cominciano a spingersi sembra allargarsi, tanto da diventare sempre più brutale e preoccupante. Ciascun compagno indica ad un altro quale oggetto lasciare, e così via. Man mano che si procede però il gruppo sembra passare dalla ricerca alla sfida, dal suggerimento alla pretesa, dalla alleanza alla vendetta. Le proposte diventano spietate e crude. Ma ormai non ci si può fermare né si può tornare indietro. Questi ragazzi spaesati davanti alla ricerca del significato, che nessun adulto si offre di insegnare, sono ostinati e ormai travolti da loro stessi. Il grado di dolore nel lasciar andare gli oggetti a loro cari diventa il criterio di scelta: il gioco man mano si trasforma in un’escalation, inevitabile per lenire la ferita subìta al proprio turno. Fino al limite e oltre. Oltre il rispetto, oltre l’intimità, oltre il corpo, oltre il sacro, oltre la morte. Le pagine di Niente di Janne Teller si tingono di angoscia e inquietudine, snaturando quel senso iniziale vivo e costruttivo.

Niente di Janne Teller: la drammaticità della perdita

Si apre così una finestra su di un mondo adolescente in cui fa freddo, in cui non ci sono regole, compromessi, dove il coraggio e la forza si confondono con provocazione e disumanità. L’infezione è letale. Questi ragazzi sembrano muoversi alla cieca, senza punti di riferimento, spinti dal desiderio di rivincita sul loro compagno come sulla vita, a quell’età.

Esplode l’epilogo, in maniera incredibile e asciutta. L’ultimo atto restituisce finalmente libertà e rivela la drammaticità della perdita, ma anche la preziosità della scoperta, anche se non ancora del tutto definibile. Una frase riportata dall’io narrante dice:

Piangevamo perché avevamo perduto qualcosa e trovato qualcos’altro. E perché è doloroso, sia perdere che trovare. E perché sapevamo che cosa avevamo perduto, ma non eravamo ancora capaci di definire a parole quello che avevamo trovato.

Il tempo passa, tornano i ricordi, restano le emozioni: “quella strana sensazione nella pancia” che torna a richiamare quello che è stato. E anche se non trova ancora spiegazione, un qualche significato ce l’ha. “E con il significato non si scherza”.

Niente di Janne Teller è un romanzo breve ma inteso, che costringe il lettore a guardare quel diluvio di ogni adolescenza, a cui non sempre l’adulto è attento e pronto e che in fondo teme.

 

TMI intermediate training: primo weekend di formazione

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), proprio per l’attenzione che pone all’uso di tecniche esperienziali e di Imagery nella pratica clinica, non può che essere compresa e appresa attraverso la sperimentazione diretta di queste tecniche. Ma cosa succede in una giornata di training? Addentriamoci insieme in questo viaggio fatto innanzitutto di esperienze che il terapeuta in formazione vive in prima persona.

 

Pescara. Un weekend di febbraio. C’è il sole e un vento fresco che la mattina schiaffeggia un po’ ma ci sta più che bene se devi seguire una lezione di 9 ore. C’è il mare e c’è una spiaggia che ti catapulta ad un lido, in pieno agosto, pennichella delle 14.30. Tutto questo fa da sfondo ad una sala in un carinissimo albergo con 20-25 colleghi psicoterapeuti. Per la precisione stiamo parlando della prima parte di un corso “TMI-intermediate” e di solito in questi weekend accadono cose veramente tanto belle ed importanti. In primis si sta insieme ed anche se può sembrare strano, non necessariamente si parla solo e soltanto di psicologia. Ci si confronta sul vino, sull’alimentazione vegetariana e quella carnivora, ci si prende in giro, ci si supporta nonostante il pigiama di pile con tanto di orsacchiotto e nonostante la lentezza del mattino che contrasta con chi, alle 8.00, è già bello e arzillo e canta Lady Gaga a tutta forza. In training di questo tipo, vissuti intensamente, ci si può sentire all’interno di una piccola famiglia. Almeno per me è stato così: mi guardavo intorno e mi sentivo davvero fortunata.

Veniamo al dunque. Rivediamo tutto l’albero decisionale della TMI, svisceriamo nuovamente i sistemi motivazionali, che non fa mai male, introduciamo il razionale delle tecniche e ci imbattiamo nell’assessment dinamico. Per la precisione stiamo parlando di tecniche esperenziali: drammaturgiche, immaginative e corporee. Le teorie dell’Embodied Cognition e gli studi di Damasio, giusto per citarne qualcuna, offrono uno scenario teorico molto stimolante per quel che concerne il funzionamento e la relazione mente/corpo e spiegano perché tali procedure siano così efficaci e, per certi versi, più veloci del solo lavoro cognitivo. D’altronde, se ci pensiamo bene, la rappresentazione di noi e gli schemi stessi, non comprendono solo pensieri o concetti perché vi è anche e soprattutto una componente emotiva ed incarnata, fatta di sensazioni fisiche, muscolari e viscerali, corporee per l’appunto.
Dopo una mattinata teorica, si passa al pratico. Avete presente quel momento in cui qualcuno si deve offrire volontario? Chi guarda a destra e chi a sinistra, chi improvvisamente ricorda che deve chiamare a casa oppure l’amico che non sente da mesi, chi deve magicamente andare in bagno. Esatto, quello in cui si teme un po’ il giudizio, la vergogna, l’errore. Io, per storia mia di vita personale, che sarebbe troppo complessa da spiegare qui, già so come andrà. E dal pensiero alla realtà trascorrono solo una manciata di secondi: faccio io il terapeuta. E chi fa il paziente? Ci sono persone che conosco da anni, chi da pochi mesi, altri sono sconosciuti. Attendo chi si siederà di fronte a me. Ed ecco, E. che si alza: è una mia collega e amica. Abbiamo viaggiato insieme in auto, 4 ore intense per raggiungere Pescara, fitte di confidenze e confronti. Bene, mi conforta sapere che non sono sola in questa simulazione. Alle mie spalle, Antonella Centonze, la docente del weekend di formazione che mi guida e mi aiuta nella scelta degli interventi. Si parte con il grounding, con la focalizzazione sul respiro, ed entriamo nel merito di un episodio narrativo cercando di afferrare il wish e procediamo: obiettivo dell’esercizio è applicare tecniche esperenziali ed effettuare un rescripting.

I rescripting sono utilissimi per vari motivi ma è bene sottolineare che devono procedere sulla base dello schema del paziente per prepararlo ad agire nel mondo in modo diverso, in direzione del suo wish, e al fine di smussare coping maladattivi; una chicca però c’è: le tecniche su menzionate posso essere utilizzate già in fase precoce di terapia, a fini diagnostici, per rintracciare gli elementi dello schema interpersonale mentre si è soliti pensarle solo come anticipazione di fasi esplorative e comportamentali, tipiche della fase avanzata della terapia (Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, 2019).

Dopo di me anche altri colleghi si sono sperimentati, chi in veste di terapeuta e chi di paziente. Il dibattito che ne seguiva ha permesso, di volta in volta, di sviscerare in modo approfondito quello che accadeva nella sessione, quello che si realizzava nella mente per terapeuta e del paziente, restando spesso sorpresi dell’immediatezza e della potenza di processi poco mediati dal ragionamento cognitivo e più settati su processi bottom-up. Notevoli spunti di riflessione ed intensi momenti di condivisione, proprio per ricordarci ancora una volta quanto la TMI sia, essenzialmente, una terapia che fonda moltissimo sulla dimensione intersoggettiva, relazionale e sulla sintonizzazione emotiva (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013; Safran & Muran, 2003). Nel lavoro con l’imagery, infatti, spesso i pazienti riferiscono di temere l’impatto emotivo dell’esperienza stessa e attuano, a diversi gradi, dei veri e propri evitamenti esperenziali (possono, ad esempio, rifiutare l’esercizio oppure restare su un livello superficiale di esplorazione, non permettendosi di accedere ad alcune scene o parti di esse). Questo può essere regolato: il clinico dovrebbe prima di tutto rendersene conto e successivamente, attraverso interventi relazionali, a partire dall’esplorazione di quello che sta accadendo in tempo reale nella mente del paziente, ed in una ottica validante, cercare di superare l’impasse. Questo è stato oggetto di discussione anche durante il training formativo in quanto è emerso in alcune simulate.

TMI: l’uso delle tecniche esperienziali nelle diverse fasi della terapia

Un aspetto davvero innovativo, quindi, è che l’utilizzo delle tecniche può essere contemplato fin dalle primissime sedute in base allo scopo: in fase di assessment, queste ci permettono di cogliere in modo precoce elementi dello schema e migliorare la metacognizione; in fase avanzata di terapia, le usiamo per lavorare su alcuni episodi della propria autobiografia, magari proprio su quelle scene che hanno determinato lo strutturarsi di uno schema maladattivo. Infine, possono essere utili per preparare ed incoraggiare i pazienti verso esposizioni prettamente comportamentali in cui devono sperimentarsi in un repertorio di azioni più funzionale, interrompendo la messa in atto di coping maladattivi (sia quelli cognitivi, grazie anche all’applicazione di tecniche attentive ad esempio, che comportamentali) ed attuando una autoregolazione emotiva funzionale. Trasversalmente, il paziente svilupperà strategie di mastery sempre più sofisticate, lavorerà sul decentramento, sulla differenziazione e sul suo senso di agency. Il principio è, dunque, che se in immaginazione riusciamo ad agire diversamente da quello che crediamo saremo più predisposti a sperimentarlo al di fuori della seduta e questo rafforzerà l’esperienza avvenuta in studio, costruendo le basi per un vero e proprio, eventualmente del tutto nuovo, apprendimento. È possibile, dunque, utilizzare tali procedure a partire già dalla fase di formulazione del funzionamento oltre che in quella della promozione del cambiamento e per fare questo il contratto terapeutico deve essere centrale, rinegoziato continuamente e strettamente connesso al lavoro sulla relazione.

Giusto per dare un input, tra le varie tecniche menzioniamo il gioco delle due sedie, il role playing o gioco di ruolo, gli enactment. Mi stimola soffermarmi a pensare quanto il terapeuta debba essere aperto, flessibile, curioso oltre che inventivo per mettere a punto tali esercizi, rendendo la seduta interattiva e dinamica. Infatti, sebbene le procedure debbano seguire criteri ben precisi di conduzione, il contenuto può essere costruito ad hoc sul paziente… e subito mi catapulto nel mio studio, coi pazienti della prossima settimana, nella costruzione di interventi esperienziali. Nel momento stesso in cui immagino, mi sembra già di stare lì con loro.

Cosa ci portiamo a casa di tutto questo?

Una quantità di nozioni teoriche, cliniche e relazionali notevole, che credo ci vorrà un po’ per metterle in ordine nella mia mente ma quello che più di tutto mi porto a casa è una conoscenza sempre più marcata dell’importanza di essere pienamente consapevoli di che tipo di terapeuta si vuol essere. E, per concludere, il focus sulle tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee, arricchisce la TMI rendendola ancora più sofisticata ed efficace oltre che profondamente integrata con altre discipline (le tecniche di cui si parla fanno capo, infatti, alle terapie bioenergetiche e reichiane, alla terapia sensomotoria, allo yoga e alle arti marziali). Non aggiungo altro perché credo sia un qualcosa di profondamente esperienziale e va quindi vissuto oltre che studiato e approfondito.

La domenica ci salutiamo dopo un esercizio di gruppo e ripartiamo, tutti più ricchi. Io già so che sentirò il bisogno di mettere nero su bianco quello che ho sentito in questi due giorni e mi godo il viaggio di ritorno in macchina con E. e G.

Immagino (è proprio il caso di dirlo) ed attendo il prossimo week-end. Giampaolo Salvatore sarà il docente. Non sappiamo cosa stia programmando per noi, ma cosa che lui ancora non sa, è che gli proporremo di fare lezione in spiaggia.

To be continued….

Genetica e relazioni sentimentali durature: c’è un legame?

L’ innamoramento tra due persone si può verificare grazie alla presenza di diversi fattori, come una serie di interessi comuni, l’attrazione fisica o la condivisione di valori, etc.

 

Le relazioni di lunga durata, dunque, secondo un recente studio, potrebbero essere facilitate anche dalla presenza di fattori biologici oltre a quelli relazionali e caratteriali.

Genetica e relazioni sentimentali: lo studio

Per questo, i ricercatori della Yale School of Public Health hanno realizzato uno studio per esaminare gli effetti di una variazione genetica dell’ormone ossitocina, che pare svolga un ruolo cruciale nei legami sociali, soprattutto in merito alla soddisfazione coniugale. Quindi, lo scopo in questa ricerca era di dimostrare gli effetti di queste modificazioni sulla soddisfazione coniugale.

Allo studio hanno preso parte 178 coppie sposate di età compresa fra i 37 e i 90 anni; ogni soggetto doveva compilare un questionario circa i propri sentimenti di sicurezza e soddisfazione nella coppia, e fornire anche un campione di saliva per la genotipizzazione.

Genetica e relazioni sentimentali: il ruolo dell’ossitocina

Dai risultati emerge che nelle coppie in cui uno dei due partner ha una variante genetica relativa al gene dell’ossitocina, chiamata genotipo GG, si manifestano sentimenti di sicurezza ed una soddisfazione coniugale significativamente maggiore rispetto alle altre coppie. Inoltre, le persone aventi il genotipo GG presentano un pattern di attaccamento meno ansioso, minori problemi di autostima, bassa sensibilità al rifiuto e minor frequenza di comportamenti volti alla ricerca di approvazione, il che favorisce la stabilità del matrimonio.

Concludendo, è possibile ritenere che l’andamento e la stabilità di una coppia siano certamente dovuti ad esperienze relazionali condivise nel tempo, ma possono essere influenzati anche dalle predisposizioni genetiche proprie di ognuno dei due partner. In futuro sarebbe auspicabile focalizzarsi su come queste varianti genetiche, innate, possano interagire con specifiche esperienze relazionali positive o negative, influenzando di conseguenza la qualità della relazione di coppia.

 

Eventi di vita precoci e Credenze Metacognitive: una revisione della letteratura

L’esposizione a eventi di vita precoci, ovvero eventi stressanti occorsi nei primi 18 anni di vita come abusi, neglect, separazione (Mansueto & Faravelli, 2018) sono ben noti fattori di rischio per i disturbi emotivi (Curran, Adamson, Rosato, De Cock, & Leavey, 2018).

 

Come delineato dai modelli diatesi stress (Zubin & Spring, 1977) l’esposizione a eventi di vita precoci è una condizione necessaria ma non sufficiente nel determinare l’esordio psicopatologico. Se e come gli eventi di vita precoci possano favorire l’insorgenza di disturbi emotivi dipende da fattori di vulnerabilità biologica, temperamentale, ambientale, psicologica (Zubin & Spring, 1977).

Credenze metacognitive: il loro ruolo

In una recente revisione della letteratura condotta dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi è stato esplorato il possibile ruolo delle credenze metacognitive in relazione all’esposizione a eventi di vita precoci (Mansueto, Caselli, Ruggiero, & Sassaroli, 2018). In particolare è stato esplorato quanto eventi di vita precoci e negativi (perdite, abusi e neglect) siano associati allo sviluppo di convinzioni negative, soprattutto inerenti l’incontrollabilità della propria attività mentale e come queste ultime possano agire come mediatore nel rapporto tra storie di vita dolorose e disagio psicologico in età adulta.

La revisione della letteratura ha identificato 5 studi di cui 3 condotti su popolazione clinica (disturbo dello spettro psicotico, disturbo bipolare, dipendenze) e 2 condotti su popolazione generale (Mansueto et al., 2018).

La revisione di tali studi suggerisce che esperienze precoci di abuso (fisico, sessuale, emotivo) e/o neglect possono essere associati alla presenza di metacredenze cognitive disfunzionali. Inoltre appare interessante notare che sia in campioni clinici che in campioni di comunità le metacredenze cognitive sembrano avere un ruolo di mediazione tra esposizione a eventi di vita precoci e disturbi emotivi in età adulta (Mansueto et al., 2018).

Credenze metacognitive: il modello S-REF e la CAS

Questi risultati sono coerenti con il modello S-REF (Wells & Matthews, 1996) secondo il quale il distress, causato dall’esposizione a eventi precoci traumatici, potrebbe attivare credenze metacognitive disadattive le quali a loro volta favorendo l’attivazione del Sindrome Cognitivo Attentiva (CAS; Wells & Matthews, 1996) portando a una maggiore vulnerabilità verso disturbi emotivi. Inoltre, vi sono alcune evidenze di un maggior coinvolgimento delle metacredenze negative sull’incontrollabilità e il pericolo dei pensieri nella relazione tra eventi di vita precoci e disturbi emotivi rispetto alle metacredenze positive (Mansueto et al., 2018).

In conclusione tale revisione della letteratura suggerisce che in soggetti con storia di eventi precoci come abuso o neglect, la credenze metacognitive disfunzionali potrebbero rappresentare fattori di vulnerabilità per l’insorgenza di disturbi emotivi (Mansueto et al., 2018).

Dal punto di vista clinico si potrebbe ipotizzare che in soggetti con eventi di vita precoci di abuso o neglect, la valutazione e successivo trattamento di metacognizioni disfunzionali potrebbe rappresentare una valida strategia per la riduzione della gravità e prevenzione di disturbi emotivi. In tale cornice la terapia metacognitiva proposta da Wells (2009) potrebbe essere considerata come un possibile approccio terapeutico per il trattamento delle conseguenze emotive legate all’esposizione a eventi precoci di abuso e neglect.

Voglia di volare. La narrazione come possibilità di significazione: la storia di O.

L’ emigrazione può costituirsi potenzialmente come una situazione traumatica. La situazione è ancora più faticosa nel caso degli adolescenti immigrati visto che alla fatidica domanda “Chi sono io?”, devono aggiungere e necessariamente integrarne un’altra: “Da dove vengo?”.

 

Andiamo alla casa
del camino acceso
dove la storia
di c’era una volta
comincia ora
vieni e ascolta. (Vivian Lamarque, 2009)

Immigrazione: la condizione del migrante

Lo scrittore Ben Jelloun definisce la condizione del migrante “di solitudine estrema”. L’individuo lascia, abbandona, perde tutto ciò che conosceva e si trova “sospeso fra due mondi” (T. Nathan 1996).

L’identità culturale riguarda l’appartenenza per nascita, per storia, per caratteristiche biologiche a gruppi determinati. Ogni gruppo, popolo o società dispone di tratti culturali propri, che in genere non sono sovrapponibili a quelli di altri popoli ed hanno la funzione di mantenere coesione e continuità in quello specifico gruppo sociale. La cultura è di fatto una “pelle” che avvolge, protegge e sostiene l’individuo ed il suo posizionamento nel mondo.

L’ emigrazione può costituirsi come potenzialmente una situazione traumatica, visto la presenza di numerosi cambiamenti della realtà esterna, con le relative e spesso “catastrofiche” ripercussioni sulla realtà interna. L’ emigrazione è un cambiamento di tale portata che può mettere in pericolo l’identità:

il vincolo sociale del sentimento di identità è quello che viene colpito dall’emigrazione in modo più manifesto, dal momento che effettivamente i cambiamenti maggiori avvengono in rapporto all’ambiente circostante. E nell’ambiente circostante tutto è nuovo, tutto è sconosciuto, come “sconosciuto” è per questo stesso ambiente l’immigrato (Grinberg L. e R., 1990).

La perdita degli “oggetti” è assoluta (persone, cose, luoghi, lingua, cultura, abitudini, clima) e ha ricadute mortifere importanti sul Sé e sui legami corrispondenti agli oggetti perduti.

La situazione è ancora più faticosa nel caso degli adolescenti immigrati visto che alla fatidica domanda “Chi sono io?”, devono aggiungere e necessariamente integrarne un’altra: “Da dove vengo?”.

Costruire un ponte fra culture diverse che portano visioni differenti in merito ai significati esistenziali, può essere una fatica difficile da sostenere per l’adolescente immigrato. Spesso emergono, come movimenti difensivi, la negazione della presenza di qualcosa di buono nelle proprie origini e si tende ad assolutizzare il mondo basandosi su strategie cognitive del tipo o/o invece che e/e.

L’esperienza migratoria può configurarsi come un elemento di lacerazione identitaria.

Il lavoro clinico con adolescenti immigranti diviene una possibilità di sperimentare un tempo ed un luogo in cui sostare per mettere parole, narrare, rintracciare una storia che diventi terreno fertile in cui piantare e far germogliare i semi identitari.

Un contesto in cui partecipare ad una relazione che contiene e sollecita l’attività del pensare della mente in modo creativo e fiducioso. Insomma uno spazio-tempo in cui risignificando, si possa cucire la strappo subito a causa della migrazione.

Immigrazione: l’incontro con O.

Incontro O. in un caldo pomeriggio primaverile; fatico ad individuarla in sala d’attesa fra le tante mamme, i bimbi vocianti e qualche ragazzo a disagio per l’imminente visita.

O. è un ragazza turca di 16 anni, non particolarmente piacevole di aspetto: mi segue senza indugiare, trascinando un corpo pesante e non armonioso; presenta lunghi capelli raccolti malamente a formare una coda e grandi occhiali che coprono il viso.

Tuttavia, una volta entrata in stanza e accomodata sulla sedia, ho modo di incrociare il suo sguardo e vengo colpita da occhi vivaci e curiosi che sorridono, sembrano speranzosi.

Mancanza, il mio nome significa mancanza!” esclama.

Partiamo (è proprio il caso di dirlo) da un nome, da una parola che è ponte fra il tempo della cultura d’origine e il presente-futuro dell’attivarsi della nostra relazione.

O. si permette di dialogare, riportando le traumatiche esperienze vissute ed in tal modo mi consente di entrare a far parte di un processo narrativo che ci permetterà di “co-costruire” significati e sentire insieme emozioni inizialmente indicibili.

La narrazione rappresenta un importante strumento di conoscenza e strutturazione del Sé; la capacità di narrare è una costante umana, “l’uomo pensa per storie” direbbe Bateson, e la significazione che ne consegue acquista un senso solo all’interno di una relazione.

O. racconta ciò che è stato possibile nominare da parte della madre: è giunta in Italia all’età di un anno, con la propria famiglia “aggrappati” ad un barcone. Dalle coste siciliane sono partiti per un lungo viaggio verso l’Inghilterra, dove sono rimasti per cinque anni e là, dove vivono alcuni parenti e dove ricorda di aver pensato di poter trovare casa, una notte “nel buio, all’improvviso è arrivata la polizia che ci ha portati all’aeroporto per farci tornare in Italia”.

Nel descrivere la sequenza di questi drammatici eventi, la ragazza non mostra alcuna emozione: scorrono le parole, vuote, inconsistenti; lettere messe insieme che hanno perso la vitale forza della significazione.

Rientrati in Italia ci hanno portati a Roma dove siamo stati aiutati da una associazione, fino a quando mio fratello ha compiuto 18 anni”, afferma e mi spiega che hanno ricevuto vitto e alloggio per qualche anno.

Quando il fratello è diventato maggiorenne, infatti, non hanno avuto più diritto ad alcuna assistenza, pertanto, per una più proficua ricerca di lavoro, si sono trasferiti a Gallarate.

Intanto il padre, dopo un periodo di importanti litigi con la madre, è rientrato in Turchia e la sorella maggiore si è trasferita in Germania; attualmente la sua famiglia è composta dalla madre, da un fratello di 23 anni e da una sorella minore di due anni.

Racconta, inoltre, che la madre è affetta da una malattia genetica che le provoca una dolorosa deformazione all’anca; “…anch’io ho la stessa malattia!” Aggiunge abbozzando un amaro sorriso.

In quel momento mi viene in mente che “mancanza” deriva da “mancus”, che in latino significa monco, imperfetto e mi chiedo quanto questa informazione nel tempo non abbia in O. lacerato la sua delicata “pelle culturale”. Sembra chiedersi cosa di buono abbia ereditato dalla madre, dalla “terra- madre” e compare la fantasia di una trasmissione culturale che ammala, che colpisce le articolazioni, il poter andare lontano, il poter volare.

Un noto proverbio arabo afferma: “Beato colui che riesce a dare ai propri figli ali e radici.

Mi chiedo come attivare processi di radicamento, affinché O. senta di poter trovare nella propria cultura d’origine tesori da spendere nel proprio viaggio esistenziale.

Immigrazione: il percorso con O.

I° Fase: Prima del Viaggio in Turchia

O. si presenta sempre puntuale, mostra disponibilità a pensare insieme.

Capace di stare in relazione, si lascia contenere contribuendo attivamente alla co-costruzione dei significati di una storia sofferta e dai riferimenti temporali a volte incoerenti, sfumati, quasi onirici. Lentamente proviamo a tessere una trama, nella convinzione che “qualunque dolore può essere sopportato se si traduce in una storia” (Karen Blixen, 1957)

Di fatto O. porta, fin dai primi passi del percorso, il tema della sua femminilità, del suo diventare donna: da un lato la ragazza parla di veli e abiti dai colori autunnali che coprono il corpo, che lo nascondono; dall’altro osserva maglie attillate e jeans stretti, capelli mossi, liberi, sciolti, visibili.

O. appare ferita da entrambe le culture di cui coglie le esasperazioni; si confonde, si perde e tenta un controllo dell’inquietudine attraverso l’uso difensivo dell’intelletualizzazione.

“Chi sono?”

“Quale donna voglio diventare?”

Emerge l’esigenza di integrare in modo creativo le diverse appartenenze, compare la necessità di interpretare la propria storia, il proprio esserci, di costruire un Sé che tenga insieme i diversi aspetti, le diverse origini, le tante traumatiche esperienze.

Ancora, proviamo a modulare le differenze, a porle lungo un continuum che non li veda in contrapposizione; a fare incontrare attraverso un dialogo interno/esterno le peculiarità dei due mondi descritti dalla ragazza in modo da poter uscire dall’area del o/o per approdare in quella del e/e.

Con il fluire del tempo, le parole acquistano consistenza; il contenitore significante che le sedute costituiscono, consente la costruzione di un ponte fra il pensare ed il sentire: le emozioni divengono più digeribili e maggiormente consapevoli, sostenendo un pensiero che perde le caratteristiche della rigidità e della oppositività; compare la possibilità, il dubbio, la tollerabilità del non sapere, del non conosciuto come occasione di crescita autentica. Ci permettiamo di tenere insieme le contraddizione, l’incoerente, le sbavature iniziando a rendersi conto dell’impossibilità di un luogo assolutamente perfetto, dorato. Non la terra dai fiumi di latte, né quella degli angeli eterei e pieni di bontà, O. può cominciare a pensare un viaggio verso un luogo senza aspettative idealizzate ma basate su un senso della realtà più puntuale e accurato.

In questo periodo, assisto ad una trasformazione fisica: O. dimagrisce, slega i capelli e li colora di rosso!

II° Fase: Dopo il Viaggio in Turchia

In estate, O. insieme alla madre e alla sorella programma un viaggio in Turchia.

E’ il primo viaggio verso la propria terra d’origine: l’idealizzazione prende il sopravvento e si alterna a movimenti di svalutazione, creando un’oscillazione emotiva che affatica non poco la ragazza.

Di fatto, siamo costrette ad effettuare una pausa di quasi due mesi … al rientro molto è cambiato!

O. sembra sorpresa dal ritrovarmi e appare provata: i lineamenti sono tesi e lo sguardo tende verso il basso. Porta la fantasia che il suo posto sia stato occupato, che non ci sia più uno spazio per lei, che io sia andata via.

Il potere constatare che perfino i diversi oggetti della stanza di terapia sono al solito posto, sembra permetterle di recuperare fiducia nella relazione.

Rispetto al viaggio, descrive paesaggi assolati, luce accecante e “troppo caldo! … non c’era spazio dove dormire … non potevo uscire da sola!

Si fa avanti un vissuto di estraneità, di “marginalità”: sembra essersi smarrita; riporta di essersi sentita a disagio, addirittura in conflitto con le usanze, le modalità, il modo di relazionarsi che caratterizza la cultura della terra d’origine. Effettivamente racconta di litigi con i cugini e gli zii e di una importante sensazione di solitudine nonostante la numerosità familiare.

Anche il rapporto con la madre appare danneggiato: la conflittualità tipica dell’età adolescenziale con il mondo genitoriale basata su una necessità del ragazzo di sottolineare la differenza generazionale che è anche diversità identitaria, diviene in O. motivo di grande scontro, soprattutto interno, fra modelli culturali che vive in opposizione.

La madre, con il velo e gli abiti tipici delle donne turche; la madre che mostra un atteggiamento dimesso e che chiede alla figlia “rispetto, silenzio e sottomissione” al maschile, riferisce O., le appare lontana, distante, non in ascolto delle sue sconvolgenti emozioni.

Emergono vissuti di abbandono insieme a rabbia e senso di solitudine; O. si costringe a essere diversa dalla madre, prova fastidio perfino verso la lingua della sua terra e verso tutto ciò che proviene dal mondo arabo.

E’ un momento drammatico, doloroso per O.!

Eppure, non possiamo trovare altra strada da seguire che non attraversi il tema del rapporto con la “Madre”: il rapporto madre-figlia vive e impronta di sé la storia personale e collettiva di ogni essere umano; di lì si passa.

Jung direbbe: “Ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia” Continuando con un “…da madre si vive prima, da figlia poi”.

In quale modo si è madre della propria madre prima di poterne essere figlia?

O. porta un vento nuovo nella sua famiglia che indubbiamente mette a soqquadro il precedente assetto, creando l’occasione, per la madre (anche quella interna) e per tutti i suoi familiari, di un divenire, di un passaggio evolutivo basato su il confronto e l’accettazione delle differenze.

Non è facile e non è esente dal dolore!

Se il rapporto madre-figlia viene comunque contenuto dalla relazione terapeutica e sembra nel tempo permettere la nascita di nuovi significati che organizzano il dolore da un alto, e che dall’altro spingono la ragazza ad effettuare passaggi evolutivi; il rapporto padre-figlia appare in O. configurarsi come un’area a cui è più difficile accedere, una sorta di strada senza uscita di cui afferma “non val la pena di parlare … è una perdita di tempo!

Il padre, ancora una volta, non è stato all’altezza delle aspettative della ragazza: si era sentita abbandonata, ancora piccola, quando i genitori avevano preso la decisione di separarsi con il conseguente rientro del padre di O. in Turchia; lo ritrova (ormai quasi una donna), ma sperimenta un’estraneità e una incapacità da parte del padre di dare senso a quel buco temporale in cui non si sono frequentati, che ferisce profondamente O. gettando un’ombra sul genere maschile intero.

Immigrazione: riflessioni sul percorso con O.

Gli adolescenti immigrati si trovano ad affrontare una duplice difficoltà nella costruzione narrativa di un senso di sé: le difficoltà legate alla tipica crisi adolescenziale (Maggiolini, Pietropolli Charmet, 2018), cui si aggiungono quelle derivanti da una storia divisa tra due culture. Essi devono ricucire due mondi separati. Le loro storie mantengono un legame con il passato, ma a causa della necessità di adattarsi ad un nuovo contesto culturale si trovano a vivere “sospesi tra due mondi e due culture” (M. Rose Moro, 2002; 2010).

La migrazione non è semplicemente lo spostamento geografico da un luogo all’altro: rappresenta un cambiamento profondo, che richiede la ridefinizione dei legami di filiazione, di appartenenza e di fedeltà. Ciò induce spesso sentimenti ambivalenti di perdita e separazione che influenzano l’immagine di sé, il rapporto con il paese di accoglienza e con la propria cultura di appartenenza (Demetrio, Favaro, 2004).

Oltre al complesso compito di ridefinire la propria identità in relazione alle trasformazioni corporee, sessuali e cognitive, l’ adolescente immigrato si trova di fronte alla necessità di rinegoziare la propria identità etnica e il proprio senso di appartenenza culturale.

L’esperienza migratoria può configurarsi come un elemento di lacerazione identitaria.

Viaggiando con O. in questo percorso accidentato, è stato necessario avviare un complesso lavoro di risignificazione del proprio mondo e del proprio Sé. Memoria ed oblio si sono fronteggiati continuamente nell’elaborazione del trauma migratorio: abbiamo sentito forte l’esigenza di ricordare così come la necessità di dimenticare per poter “abitare” il presente, spesso vissuto come sospeso in un’ambigua “terra di mezzo”.

Il percorso terapeutico permette di trovare uno spazio ed un tempo, interni oltre che esterni, per raccontare e, in tal modo, letteralmente “ricucire” la propria esperienza: ritessere i fili strappati della trama della propria esistenza.

Oggi O. sperimenta nuovi stili: si chiede quale abbigliamento indossare; quale colore per i propri capelli e come acconciarli. Spesso presenta i suoi lunghi ed indisciplinati capelli color rosso-arancio completamente sciolti come a voler esprimere anche con la propria fisicità il suo bisogno di affermarsi e di essere riconosciuta.

Le lacrime sovente scendono copiose, ma anche queste sembrano voler portare con forza ogni aspetto della propria personalità, anche quello più fragile e bisognoso di caldo contenimento.

La vergogna provata inizialmente e che determinava distanze fra sé ed il suo interlocutore per paura di un eventuale giudizio, cede il posto alla possibilità di lasciarsi tenere, pensare, accudire attraverso il suono delle parole che narrano una storia, la sua storia.

Non posso che concludere con alcune parole di una canzone di uno dei cantanti preferiti di O., Lorenzo Jovanotti: “La vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare

La cibernetica (2017) di Norbert Wiener, a cura di Ciofalo e Leonzi – Recensione del libro

Ciofalo e Leonzi ci propongono una ristampa del libro La cibernetica di Norbert Wiener con i capitoli fondamentali e alcuni aggiornamenti; si tratta di una sintesi sui punti essenziali dell’opera che, nel cuore del Novecento, dà il via a una nuova disciplina: la cibernetica.

 

1948: viene pubblicato Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine, l’opera da cui è tratto questo compendio, che a poco più di 70 anni dalla prima pubblicazione si conferma pietra miliare e ispirazione per studi e applicazioni a venire.

La cibernetica, ovvero un link tra diversi campi scientifici

Wiener è considerato il padre della cibernetica, scienza che studia sistemi biologici e artificiali e le analogie fra di essi: le analogie fra funzioni fisiologiche e intelligenza artificiale permettono analisi e creazione di modelli dei loro meccanismi e di realizzare sistemi sempre più complessi e autonomi.

Infatti secondo Wiener si può parlare di fisiologia meccanica ovvero di una descrizione in termini fisiologici di struttura e funzionamento degli automi: questi ultimi interagiscono con il mondo esterno ricevendo degli input che interpretano ed elaborano attraverso sistemi equivalenti a organi di senso e sistema nervoso umani.

Il grande, storico merito di Wiener è di andare oltre le singole differenziazioni tra discipline ed intuire i collegamenti tra di esse. Wiener la chiama “cyber-netics” per riprendere la parola greca “kubernetes”, ovvero timoniere, pilota, poiché secondo lui è quello il ruolo che la cibernetica deve avere, di guida e controllo: infatti questa disciplina integra i contributi di diversi settori creando un “link” tra campi scientifici. Matematica, fisica, biologia, filosofia, psicologia, concorrono insieme a dare contributi a questa nuova scienza.

Secondo l’autore una cibernetica efficace deve attecchire e lavorare a partire dal campo della comunicazione. Già in quegli anni, ben prima che nascesse internet e tutto ciò che ora conosciamo, Wiener vedeva le potenzialità nello sviluppo di nuovi mezzi informatici.

La cibernetica: Wiener grande precursore

Wiener ci dice – in tempi non sospetti, ormai 70 anni fa – che le potenzialità delle macchine sono infinite. Si passerà dall’essere ‘umani’ all’essere ‘sociali’: dalla dimensione biologica alla natura informazionale. Se l’uomo non può non comunicare e se il linguaggio, in ogni sua forma, trova la massima espressione nell’essere umano, secondo Wiener è necessario ripensare alla comunicazione alla luce delle scoperte e innovazioni in campo tecnologico: queste innovazioni possono portare novità sia in positivo che in negativo. Comunicazione potenziata come risorsa e valore che può portare a trasparenza sociale, culturale, politica ed economica; comunicazione potenziata anche come pericolo: uno ‘sfruttamento grettamente egoistico’ può portare a distorsioni e usi impropri dei media: per esempio, possedere e gestire dei mezzi di comunicazione è una forma di difesa e controllo. Come non pensare a vicende più che mai attuali? Comunicazione politica via social, fake news, nuovi modi di costruire rapporti e interagire. Il suo sguardo è stato così acuto da aver anche previsto i possibili dis-usi di questi mezzi.

Rispetto agli anni in cui Wiener ha concepito le sue idee il mondo è cambiato profondamente. Le innovazioni sono innumerevoli e in continua evoluzione: se nel Diciannovesimo secolo l’automa è la macchina a vapore, ieri l’automa consente di puntare un’arma nel punto in cui il radar individua un aeroplano o risolve complessi calcoli matematici in pochissimo tempo. Oggi l’automa è l’algoritmo, l’intelligenza artificiale, o ancora i big data, tutto quello che definisce non solo la nostra comunicazione on line esplicita (quindi quello che pubblichiamo, quello che scriviamo) ma anche la comunicazione implicita (quindi tutte le tracce che lasciamo nella nostra journey online, come i siti in cui navighiamo o gli interessi che mostriamo con un like).

Con un approccio rigorosamente scientifico, acuto, geniale e precursore dei tempi, Wiener ci stimola ad abbracciare e andare incontro alle nuove tecnologie così come in passato abbiamo abbracciato – all’epoca – impensabili innovazioni. Ogni cambiamento porta con sé novità e timori ma non sarà questo che potrà fermare lo sviluppo e l’evoluzione di sistemi e tecnologie sempre più raffinati.

 

Ruminazione: perché errare è umano mentre perseverare è…ruminare sull’errore

Maggio 2018, seconda prova di campionato regionale, coppia 4 clavette categoria junior-senior: Alice e Giulia, 13 anni, pronte a bordo pedana, buone probabilità di arrivare sul podio.

Valentina Vannucci e Alessandra Pedicelli

 

Le gambe che tremano, l’asciugamano sfregato compulsivamente tra le mani per non far scivolare gli attrezzi, le ultime rassicurazioni e gli ultimi gesti scaramantici prima dell’ingresso in pedana. Come allenatrice gestire questi momenti non è facile: contenere l’ansia delle ginnaste quando il proprio vissuto interiore è esattamente lo stesso, mostrarsi ferme e rassicuranti mentre il proprio stato d’animo è precisamente l’opposto. Serve una buona capacità di regolazione delle proprie emozioni per essere in grado di gestire anche i loro vissuti.

Ruminazione e ginnastica ritmica: accoppiata dannosa

La ginnastica ritmica è uno sport “prestazionale”: in un minuto e mezzo di esercizio, massimo due, la ginnasta, o le ginnaste, devono eseguire una serie combinata di movimenti tecnici ed espressivi, abbinati al maneggio dell’attrezzo (fune, palla, clavette, cerchio o nastro), minuziosamente scelti e adattati al ritmo e al carattere della musica. Su tale ritmo, la ginnasta deve eseguire un elemento dopo l’altro, senza sosta, mantenendo la concentrazione non solo su ogni azione motoria in sé, ma anche sulla sua specifica e corretta modalità di esecuzione. In questo complesso mix di elementi, la probabilità di incorrere in errori è estremamente alta, oltre che fatale: gli errori vengono pagati caro e spesso un solo errore può compromettere l’intera prestazione della ginnasta, facendola rapidamente scendere alle ultime posizioni in classifica.

Alice e Giulia entrano in pedana, la musica si accende ed il tempo sembra come arrestarsi: un minuto e mezzo in una “bolla spazio-temporale” estranea allo scorrere normale del tempo. Osservo da fuori i loro movimenti, un elemento dopo l’altro, guardo i loro volti concentrati, “per ora tutto bene” penso dentro di me, “ok anche il secondo scambio è andato…”, i pensieri non si fermano, le emozioni sono dirompenti ma congelate dentro di me: “per ora stanno facendo una buona prova, oggi potrebbero ottenere il risultato che meritano”. Arriva il momento del terzo scambio: Giulia lancia una clavetta troppo lontana, Alice fa qualche rapido passo per recuperarla, ma niente da fare, la clavetta cade inesorabilmente al suolo. Errore esecutivamente molto pesante. Vedo i loro volti cambiare espressione, il frettoloso recupero dell’attrezzo da terra e la consapevolezza di essere molto probabilmente già fuori dal podio. Iniziano allora a sorgere dentro di me i soliti pensieri: “E adesso? Faranno altri errori?”. Ai pensieri seguono l’ansia e la sensazione che da adesso in poi la prestazione sarà quasi sicuramente fallosa. Sensazione che in effetti viene presto confermata: Alice e Giulia incappano poco dopo in un secondo errore durante un semplice elemento di collaborazione mai sbagliato prima, ed infine terminano con una seconda perdita d’attrezzo. La musica si spenge, saluto alla giuria con gli occhi già pieni di lacrime e la consapevolezza di essersi giocate la gara per un primo errore che ha poi compromesso tutto il resto della prestazione. Un episodio che nella ginnastica ritmica si ripete spesso durante le competizioni, a prescindere dal livello tecnico e dall’età delle ginnaste.

Ruminazione: cos’è e come ci danneggia

Ma perché questo accade? Perché il primo errore di Giulia e Alice ha dato inizio ad una serie di successivi errori? Quali sono i processi psicologici implicati in questa catena di eventi?

Potremmo ipotizzare che il continuare a pensare all’errore commesso e alle sue conseguenze sulla performance possa distogliere l’attenzione dai successivi compiti motori: spostare le risorse cognitive dall’azione corrente ai pensieri negativi relativi all’errore (“adesso per colpa mia arriveremo ultime”, “ho rovinato tutto”, “non dovevo fare quell’errore”) fa conseguentemente aumentare la probabilità di cadere in ulteriori errori. Questo tipo di processo di pensiero, si definisce “ruminazione”.

La ruminazione è caratterizzata da pensieri negativi incontrollabili, ripetitivi e altamente concentrati su di sé, o su un singolo tema o avvenimento appena accaduto o relativo al passato. La ruminazione spesso ostacola le persone dal concentrarsi sui compiti contingenti poiché la mente e le risorse cognitive vengono invase da questi pensieri intrusivi relativi ad eventi o situazioni passate.

Il ruolo della ruminazione è stato indagato in diversi ambiti, non solo quello sportivo, sottolineandone principalmente gli effetti negativi su performance di diverso tipo. Secondo alcuni ricercatori però, parlare di ruminazione in termini esclusivamente negativi, risulta piuttosto riduttivo. Da uno studio di Ciarocco et al. (2010), condotto su soggetti impegnati in diversi compiti di tipo cognitivo, emerge infatti un interessante aspetto relativo alla ruminazione in seguito ad un errore: sembra che solo un tipo specifico di ruminazione, denominata state-rumination, abbia effettivamente un impatto negativo sulla performance dei soggetti coinvolti nell’esperimento, mentre una seconda tipologia di ruminazione, denominata action-rumination abbia addirittura un effetto di miglioramento della performance dei partecipanti. Ma analizziamo meglio la questione: la “state-rumination” viene definita come quel tipo di ruminazione in cui i pensieri si focalizzano sullo stato emotivo del soggetto e sulle implicazioni emotive dell’errore. Alice e Giulia in questo senso potrebbero aver avuto pensieri del tipo: “adesso ho rovinato tutto”, “mi sento in colpa, ho fatto sbagliare anche la mia compagna”, “accidenti a me, adesso andrà malissimo”. La “action-rumination”, invece, implica pensieri più strettamente legati all’azione, all’errore in sé e per sé, incentrati sul compito e su come poter risolvere gli errori appena commessi in modo da migliorare per le occasioni future. I pensieri di Alice e Giulia quindi potrebbero essere stati: “ok, ho sbagliato quel passaggio perché non ho steso bene il braccio, adesso devo ricordarmelo”, “abbiamo fatto quell’errore, non importa, adesso mi riconcentro sul resto”.

I risultati della ricerca di Ciarocco, che confermano risultati simili ottenuti da ricerche precedenti, sembrano mettere in evidenza come i pensieri relativi al proprio stato emotivo, ovvero la “state-rumination”, abbiano un impatto negativo sulla performance perché bloccano l’impiego efficiente di strategie di controllo dell’azione e di focalizzazione dell’attenzione sul compito corrente, incidono sui tempi di presa di decisione che risultano prolungati e rendono più difficile la presa di decisione tra più alternative. Al contrario, pensieri relativi al compito, “action-oriented”, risultano più funzionali alla prestazione, avendo in sé elementi di problem-solving ed essendo concentrati su aspetti più pragmatici e concreti dell’azione.

Traslando questi elementi all’ambito sportivo, ed al caso specifico delle nostre due ginnaste, possiamo ipotizzare che, in seguito al primo errore, Alice e Giulia abbiano concentrato i loro pensieri sui propri stati emotivi e sulle implicazioni emotive che il primo errore ha avuto su di loro, distogliendo le loro risorse cognitive dai successivi compiti motori richiesti. Se avessero avuto pensieri maggiormente “action-oriented”, forse i successivi errori non sarebbero stati commessi, o comunque in misura minore, riuscendo a sfruttare i pensieri relativi al primo errore al fine di non commetterne altri.

Ma come si può intervenire per aiutare gli atleti a gestire efficacemente tutti questi processi interni? Come possiamo aiutare gli atleti a rimanere concentrati sul compito e ad avere pensieri maggiormente “action-oriented”?

Ruminazione: la gestione con skill training o mindfulness

Tradizionalmente il metodo più utilizzato è stato il PST (Psychological Skills Training), basato sui principi dell’approccio cognitivo-comportamentale, applicato principalmente al fine di sviluppare una maggiore capacità di self-control sui propri processi interni sia mentali che emozionali che potevano inibire la performance degli atleti. Negli ultimi anni però, Gardner e Moore (2004) hanno introdotto una nuova metodologia di intervento basata sui principi della mindfulness, specificatamente sviluppata per il miglioramento della performance atletica come alternativa al PST.

L’approccio della mindfulness è finalizzato al raggiungimento di una consapevolezza centrata sul presente e non giudicante, relativamente a stimoli sia esterni che interni. Ciò che si vuole stimolare è una presenza più piena all’esperienza del momento, al qui ed ora, senza cercare di controllare, cambiare o evitare nessuna delle esperienze che occorrono. L’idea di fondo che ha portato all’utilizzo della mindfulness come metodologia di intervento sugli atleti, è che queste tecniche possano avere un’influenza indiretta sulla performance andando ad agire sui processi interni di ruminazione e di regolazione delle emozioni, determinanti per l’andamento della performance.

Da un recente studio di Josefsson et al. (2017), in cui veniva utilizzato un modello di intervento basato su tecniche di mindufulness su atleti professionisti provenienti da diverse discipline sportive, emerge un effetto indiretto positivo di queste tecniche sulla performance degli atleti che passa dal miglioramento delle strategie di coping messe in atto, in particolare con una riduzione della ruminazione e una migliore regolazione delle emozioni.

L’aumento della mindfulness disposizionale negli atleti sembra quindi ridurre i livelli di ruminazione e migliorare la capacità di regolazione delle emozioni, con un effetto positivo indiretto sulla prestazione sportiva. Un atleta quindi che è in grado di regolare le proprie emozioni e di diminuire i processi di ruminazione riesce a concentrare le proprie risorse cognitive e fisiche sul compito richiesto e sui comportamenti diretti all’obiettivo. Gli atleti così riescono a prendere la decisione giusta al momento giusto e rispondere in modo adattivo alle richieste: abilità fondamentali durante una performance dove l’errore è sempre dietro l’angolo, ed è necessario rispondere in modo veloce ed efficace alle nuove sfide.

 

cancel