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Le abilità cognitive sono affamate: gli effetti dell’insicurezza alimentare nell’infanzia e nella prima adolescenza

Con il termine insicurezza alimentare si intende l’accesso limitato ad alimenti sufficientemente genuini e nutrienti.

 

Una recente ricerca condotta dall’Imperial College di Londra e il BITS Pilani di Goa dimostra che l’ insicurezza alimentare, ovvero l’accesso limitato ad alimenti sufficientemente genuini e nutrienti, ha effetti negativi sulle abilità di apprendimento degli adolescenti indiani. Il team di ricerca ha indagato le disuguaglianze nei risultati relativi all’apprendimento a 12 anni. Lo stesso team ha poi esaminato se l’ insicurezza alimentare all’età di 5, 8 e 12 anni fosse correlata a punteggi più bassi nei test a 12 anni.

Circa il 47% dei bambini partecipanti allo studio ha sperimentato, ad un certo punto della propria vita, uno stato di insicurezza alimentare in famiglia (saltare i pasti, mangiare meno del necessario e la reale mancanza di cibo in tavola per problemi economici). Il 18% delle famiglie più benestanti che hanno partecipato allo studio ha ugualmente sperimentato insicurezza alimentare, sottolineando che questo non è un problema esclusivamente economico.

Insicurezza alimentare e apprendimento

È emerso che l’ insicurezza alimentare, a ogni età, influenza l’apprendimento: i risultati hanno mostrato, infatti, nella prima adolescenza un vocabolario meno vasto come anche bassi punteggi nella lettura, in matematica, nel linguaggio locale (Telegu) e in Inglese. In particolare, i bambini che ne hanno sofferto a 5 anni o in maniera cronica hanno ottenuto i punteggi più bassi su ogni compito. Un’ insicurezza alimentare precoce e cronica si è dimostrato dunque il più potente predittore di deterioramento delle abilità cognitive a 12 anni, soprattutto nello sviluppo del vocabolario e della lettura. L’ insicurezza alimentare nella seconda metà dell’infanzia e nella prima adolescenza era associata più a disfunzioni in abilità matematiche e nell’inglese.

Gli effetti dell’ insicurezza alimentare sono vari e colpiscono diverse abilità: quella di lettura, di costruzione di un vocabolario vasto, l’abilità matematica e nell’acquisizione di una lingua straniera. L’ insicurezza alimentare, quindi, nelle fasi precoci di vita potrebbe intaccare lo sviluppo di queste abilità di base. In particolare, sulla matematica ha effetti immediati e a lungo termine.

Le conseguenze di questo tipo di insicurezza si riflettono sulla salute e sul benessere economico futuro, importante non solo per gli individui ma anche per lo sviluppo economico dell’intero paese. Il presente studio è stato pertanto condotto con l’obiettivo di creare programmi educazionali indirizzati a bambini ad alto rischio di insicurezza alimentare. Inoltre, l’obiettivo è quello di utilizzare I risultati per programmi alimentari e altre iniziative sociali in modo da sensibilizzare al tema.

In base ai risultati riguardanti I bambini di 5 anni, i ricercatori consigliano:

  • Rinforzo alimentare nelle strutture educative, per esempio includendo la colazione o delle razioni da portare a casa nelle aree a rischio
  • Aumentare il contenuto nutrizionale del cibo ricevuto nei sistemi di distribuzione pubblici per le famiglie con figli in età pre-scolare
  • Migliorare la generale qualità dell’educazione per assicurare un vantaggio futuro

I risultati del presente studio sottolineano come anche le primissime esperienze di insicurezza alimentare possono avere effetti a lungo termine, durante il corso di tutta la vita, effetti che prescindono dal tipo di scolarizzazione e dalle caratteristiche individuali dei bambini (come indagato nel presente studio).

Un nuovo training di Realtà Virtuale per i pazienti affetti dalla malattia di Parkinson

Le nuove tecnologie e in particolare i moderni sistemi di realtà virtuale sono spesso un prezioso aiuto alla medicina e alla riabilitazione: questo succede anche nel caso del trattamento del morbo di Parkinson, che causa deficit di movimento e coordinazione.

Adriano Mauro Ellena

 

Le persone affette dal morbo di Parkinson soffrono di deficit del movimento e della coordinazione, per questo il rischio di cadute ed incidenti è maggiore che nel resto della popolazione.

Alcuni tipi di riabilitazione, come il tapis roulant o il potenziamento della forza muscolare, si sono dimostrati molto utili per il miglioramento dell’equilibrio e della mobilità in generale. Questo tipo di allenamento, però, presenta un limite: viene spesso eseguito in clinica e per questo non rispecchia le difficoltà che i pazienti affetti da Parkinson hanno nel fronteggiare gli ostacoli normalmente incontrati nella vita di tutti i giorni.

Per cercare di risolvere questo problema un gruppo di ricercatori dell’Università dello Utah ha ricreato un ambiente di realtà virtuale (VR) che include ostacoli e diversi tipi di terreni, la cui difficoltà può essere modificata in risposta alle prestazioni dell’utente. È previsto inoltre un protocollo di training, utilizzato per implementare la possibilità di migliorare le capacità funzionali di tali pazienti.

Lo studio

Lo studio è stato realizzato selezionando un campione di partecipanti con età superiore ai 40 anni affetti dal morbo di Parkinson. I soggetti sono stati testati previamente utilizzando il Functional Gait Assessment (FGA, utilizzato per misurare la stabilità posturale a seguito di una serie di prove) e il 6-minutes walk test (6MWT, che permette una misura delle capacità funzionali). Inoltre, sono state raccolte misure di capacità spaziotemporali in un laboratorio di Motion Capture, nel quale si richiedeva ai pazienti di provare a superare ostacoli via via sempre più complessi.

A seguito di questi test iniziali, i partecipanti hanno completato un protocollo di Realtà Virtuale della durata di 6 settimane e con una frequenza di 3 sessioni a settimana. Ogni sessione di training consisteva in 30 minuti di camminata su un tapis roulant, la cui velocità veniva adattata al paziente, mentre si “navigava” attraverso i sistemi di Realtà Virtuale cercando di superare una serie di ostacoli a circa 5 metri l’uno dall’altro.

Dopo il training, i pazienti hanno eseguito un post-test per valutare nuovamente le variabili prese in considerazione durante il pre-test.

I risultati conclusivi hanno mostrato un significativo incremento, da parte di ciascun partecipante, delle capacità funzionali, supportando la Realtà Virtuale come strumento ottimo per il loro potenziamento e sviluppo delle capacità motorie in pazienti con morbo di Parkinson.

Alla luce di una candela. Diario di una giovane donna in gravidanza (2013) di Marta Zucchero – Recensione del libro

La gravidanza rappresenta un momento molto delicato nel percorso di vita di una donna. Nella mente della madre in attesa si fanno strada, giorno dopo giorno, speranze, timori e aspettative.

 

Nel suo diario Marta, l’autrice, esprime le emozioni legate alla fase che sta vivendo. Si tratta di una testimonianza autentica, senza filtri, in cui trovano spazio riflessioni sul rapporto con Giorgio, il compagno e padre in attesa e con la propria famiglia di origine.

Alla luce di una candela: pensieri ed emozioni di una donna in gravidanza

Nel prepararsi a diventare madre, Marta si ritrova a confrontarsi con la propria madre; si domanda se sarà all’altezza. Si chiede che tipo di genitore sarà. Pensa con trepidazione alla bimba in arrivo, ad Emma, che sta crescendo nel suo grembo.

Ad Emma si indirizzano i pensieri, le riflessioni e le emozioni presenti nel racconto. Il diario diventa occasione sia per prendere coscienza di sé e dei propri vissuti, che terreno di dialogo e di scambio tra la madre in attesa e la figlia in arrivo.

In Alla luce di una candela Marta condivide con la sua bambina e con il lettore l’esperienza di preparazione alla maternità, la quale è fonte di emozioni ambivalenti: da un lato la gioia, dall’altra la paura.

Marta si sente fragile e ha timore di veder minacciata la propria identità ed indipendenza; teme che, a causa dell’inesperienza, la sua competenza come madre verrà messa in discussione. Per questa ragione rivendica più volte, nelle sue pagine, il diritto a fare da sé, senza sentirsi obbligata ad accettare l’aiuto degli altri, per quanto animati dalle migliori intenzioni.

Ciò non vuol dire che Marta voglia isolarsi, tagliando i ponti col mondo. Sa di aver bisogno di aiuto, ma desidera il supporto di qualcuno che non la giudichi, sostituendosi a lei per dirle cosa sarebbe meglio fare. In questo senso la figura della sua terapeuta, più volte menzionata nel racconto, rappresenta una presenza protettiva e non invadente, grazie alla quale Marta avverte un senso di comprensione e di riconoscimento.

Alla luce di una candela: quando si avvicina il parto

Con l’avvicinarsi della data del parto le tensioni si amplificano; il desiderio di conoscere, finalmente, la sua bambina, si intreccia con la paura che qualcosa possa non andare per il verso giusto. Il racconto si conclude con la nascita di Emma, così attesa dalla sua mamma. Alla luce di una candela, il diario di Marta, rappresenta una testimonianza fresca e ricca di umanità; il momento della gravidanza viene mostrato mettendo in evidenza tutta la complessità emotiva di cui è portatore. Marta è felice e spaventata al tempo stesso e si ritrova a fare i conti con la propria storia. Ripensare a sé stessa come figlia e al rapporto con la propria famiglia di origine fa nascere in lei una cascata di riflessioni.

Da questa fase di confusione, in cui tutte le certezze sembrano evaporare, nasce una nuova Marta, che vive giorno per giorno un processo di trasformazione. Come afferma Osho Rajneesh:

Nel momento in cui nasce un bambino, nasce anche la madre. Lei non è mai esistita prima. Esisteva la donna, ma la madre mai. Una madre è qualcosa di assolutamente nuovo.

Questo diario ci racconta, quindi, la storia di una doppia nascita: la nascita di Emma e la nascita di Marta, la sua mamma.

Il dono nella società industriale – Utilitarismo e relazione

Con la nascita della società industriale si sono scontrate due teorie sociologiche: quella utilitaristica rappresentata da Locke e quella solidaristica da Durkeim.

 

Locke (1632 – 1704) considera l’interesse come l’impulso dominante di un individuo autonomo e autoafferamativo e, quindi, il legame sociale come il prodotto di rapporti contrattuali e l’ordine come effetto di scelte razionali.

Il dono nell’economia di mercato

In questa concezione il dono acquista valore solo ed esclusivamente commerciale.

Barbara Spinelli, giornalista, in un articolo apparso sulla Stampa riporta un reportage del 2007 di RAI1 in cui il conduttore afferma:

Adesso vi diciamo sui regali di Natale qualcosa che vi compiacerà. Qualcosa che in tanti pensate silenziosamente ma che io oso dire a voce alta: non tutti i regali sono graditi, anzi alcuni sono enormemente sgraditi.

La definizione di Locke si avvicina a quanto sostenuto da Adam Smith (1776) da tutti considerato il padre della moderna economia di mercato:

Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, bensì al loro egoismo, e con loro non parliamo mai dei nostri bisogni, bensì dei loro vantaggi.

Ludwig von Mises (1949) sostiene che:

l’economia di mercato è il sistema sociale della divisione del lavoro e della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ognuno agisce per proprio conto; ma le azioni di ognuno tendono tanto alla soddisfazione dei bisogni degli altri che dei propri. Agendo, ognuno serve i suoi concittadini. D’altra parte, ognuno è servito dai suoi concittadini. Ognuno è in sé stesso mezzo e fine; fine ultimo per sé stesso e mezzo per gli altri nei loro tentativi di raggiungere i propri fini.

Nelle società improntate all’economia di mercato, il dono è contraddistinto da uno scambio tra equivalenti e come ci informa Sabino Fortunato (2012):

l’esito più favorevole di tale meccanismo si apprezza in termini di “giustizia retributiva” (scambio di equivalenti), ma esso trascura poiché tali le questioni di “giustizia distributiva” nella società, partendo dalla teorizzazione di un homo oeconomicus come individuo razionale la cui azione è mossa dal principio di massimizzazione dell’interesse personale.

Dono, felicità ed economia di mercato secondo Kennedy

R. Kennedy durante la campagna elettorale del 1968 mise in luce i limiti di un sistema che aveva assunto come presupposto di base l’economia di mercato senza tenere conto dei risvolti sociali e dei legami sociali. In una kermesse elettorale l’8 marzo 1968 disse:

Troppo e troppo a lungo nel nostro paese abbiamo fatto coincidere i valori della nostra società con la pura e semplice accumulazione delle cose materiali. Il nostro prodotto interno lordo è oggi di 800 miliardi di dollari, ma se dovessimo misurare il valore del nostro paese dal PIL, ci accorgeremmo che esso comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre strade dai morti e feriti per incidenti stradali. Comprende il costo delle serrature di sicurezza delle nostre case e quello delle prigioni per coloro che la violano. Comprende la distruzione delle nostre foreste e la perdita del paesaggio distrutto dall’edilizia selvaggia. Aumenta con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e dei veicoli blindati della polizia per fermare le rivolte nelle nostre strade.

Comprende le armi e i coltelli e i programmi televisivi che esaltano la violenza per vendere giocattoli per i nostri figli. Il prodotto interno lordo non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione, della gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della poesia o la solidità dei valori familiari; non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali e della integrità dei pubblici funzionari. Non misura la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra conoscenza e la solidarietà verso il prossimo. Esso misura tutto, all’infuori di quello che rende la vita meritevole di essere vissuta. E ciò è vero sia per l’America sia per tutti i paesi del mondo.

In sostanza Kennedy mette in luce i limiti di un sistema che, sotto la spinta delle teorie liberiste e del positivismo, aveva esaltato il possesso individuale come base per la ricerca del benessere e della felicità collettiva.

Il dono prima dell’economia di mercato

Al contrario nelle società arcaiche descritte da Mauss, lo scambio è di tipo asimmetrico. Lo stesso autore scrive:

i doni non hanno lo stesso scopo del commercio e dello scambio nelle nostre società più elevate. Lo scopo è prima di tutto morale, l’oggetto è quello di produrre un sentimento di amicizia tra le due persone interessate e se l’operazione non ottenesse questo effetto tutto verrebbe meno (op. cit).

Polany (1937), in aperta contrapposizione con Smith, sostiene che:

nessuna società potrebbe, naturalmente, sopravvivere per un qualsiasi periodo di tempo senza avere un’economia di qualche genere, tuttavia prima del nostro tempo non è mai esistita un’economia che anche in linea di principio fosse controllata dai mercati.

Quest’ultimo autore recentemente è stato parecchio rivalutato soprattutto in riferimento alla globalizzazione e alle sue conseguenze. In particolare, l’interesse è stato centrato sulle sue considerazioni riguardo alla non omologazione dell’economia come la panacea di tutti i mali e, soprattutto, isolabile dal resto delle attività umane e tra l’altro non crede alle virtù regolatrici del mercato.

Il dono in nuove forme economiche

Tra gli autori che hanno preso come modello il pensiero di Polany, possiamo citare l’economista francese Fitoussi e l’indiano Prem Shankar Jha che in “Il caos prossimo venturo” analizza gli effetti devastanti delle ricorrenti crisi finanziarie a livello globale. Grazie a questi studi il dono è stato posto al centro dell’attenzione, soprattutto, nella descrizione di nuove forme economiche che guardano alla solidarietà e al volontariato.

Al contrario di Locke, le teorie di Durkheim (1858 – 1917), vedono l’individuo assoggettato alle regole della sua cultura e società e, quindi, a seconda del sistema socio-economico di riferimento, i legami possono essere il frutto del dono o di concezioni tipicamente economiche anche se, soprattutto in “Divisione del Lavoro Sociale” (1893), il concetto più importante diventa quello di solidarietà per cui per capire la società bisogna partire da un gruppo di organismi legati da vincoli di solidarietà. In base ai vincoli possono essere distinti due tipi di società:

  • Le società semplici in cui, essendoci una forte similitudine tra gli individui, è presente una solidarietà meccanica frutto di una non differenziazione e nelle quali è presente una coscienza collettiva rappresentata dal sacro. E’ questo il caso delle società arcaiche;
  • Le società complesse in cui la crescita delle popolazioni comporta una divisione del lavoro che rende gli individui interdipendenti. Infatti, Durkeim sostiene che la solidarietà in questo tipo di società è organica nel senso che il corpo sociale si comporta come l’organismo umano. La coesione sociale, che secondo l’autore in questo tipo di società sostituisce la religione, è frutto dalla considerazione che gli individui diventano sempre più dipendenti gli uni dagli altri, perché ognuno ha bisogno di beni forniti da chi svolge un lavoro diverso dal proprio.

E’ nella solidarietà sia di tipo meccanicistico sia organico che il dono trova la sua espressione. Nelle società semplici è il dono così come lo aveva descritto Mauss, mentre nelle società complesse è la divisione del lavoro, che fa dipendere gli uni dagli altri, la matrice del dono.

Con la nascita della società industriale uno dei grandi problemi è stato la costruzione di una società e di una governance che facesse da contrappeso al mercato. Nel discorso elettorale di Kennedy, ad esempio, possiamo rilevare che il PIL (prodotto interno lordo) ha costituito il misuratore del benessere dello stato e degli individui. Kennedy giustamente fa notare che non tutto è misurabile attraverso l’accumulo di ricchezza se spesso questo comporta un benessere semplicemente apparente. Ciò che comunque è stato complicato mettere in relazione è la costruzione dei legami sociali attraverso ragioni semplicemente economiche. Il PIL è stato introdotto, nella sua formulazione iniziale da A. Smith, e non è altro che un indice che dovrebbe misurare il benessere di una nazione o di una popolazione in base al valore degli scambi che avvengono sul mercato. A parte le critiche introdotte da R. Kennedy, esso non misura o tiene fuori dal calcolo tutte quelle a titolo gratuito: restano quindi escluse le prestazioni nell’ambito familiare, quelle attuate dal volontariato (si pensi al valore economico del non-profit) etc. In sostanza resta escluso dal calcolo del PIL il dono così come concepito da Mauss e altri. Ciò sebbene l’ONU abbia formulato altri indici di misurazione del livello di benessere collettivo e individuale come il GPI (Indicatore del Progresso Reale), il FLI (Felicità Nazionale Lorda), il ISU (Indice di Sviluppo Umano) e altri ancora, la mattina ci svegliamo e siamo in attesa che i principali istituti di statistica pubblicano i dati del PIL al fine di capire se stiamo andando bene o male.

Il dono in una società del benessere

Ciò che si cerca di misurare è il benessere e come conseguenza è la felicità degli individui all’interno di un sistema sociale di riferimento.

La ricerca sul benessere collettivo non è un tema nuovo essendo stato teorizzato è sviluppato da Bentham (1748 – 1832). Bentham partiva dalla considerazione che l’uomo tende a fuggire da tutte le situazioni dolorose per ricercare la felicità. In quest’ambito egli introdusse il concetto o meglio riformulò un principio caro agli illuministi “massima felicità per il massimo numero di persone”.

Nella sua teoria dell’utilitarismo, egli formula una sorta di algebra morale ovvero di un calcolo che misura le azioni che producono la felicità. In quest’ambito le buone azioni sono quelle che promuovono la felicità non solo per il singolo, ma per l’intera collettività e viceversa, le cattive azioni sono quelle che la ostacolano.

Il presupposto di base che contraddistingue tutte queste teorie è l’ipotizzare in senso anche antropologico la nascita dell’homo oeconomicus ovvero di un individuo che, nella sfera della produzione e dello scambio, può avere un solo comportamento sensato e cioè quello razionale e utilitaristico. Come fa rilevare Graziano Lingua (2013) nell’homo economicus possono essere individuate tre caratteristiche basilari:

  • L’individualismo che parte dalla concezione che l’uomo è intrinsecamente “asociale, isolato, unidirezionalmente votato all’interesse personale (self-interest) e privo di ogni legame relazionale”. Secondo questa prospettiva il comportamento collettivo è il frutto della somma dei comportamenti individuali.
  • L’utilitarismo per cui ogni individuo agisce unicamente seguendo il principio di autointeresse, la cui funzione di utilità «dipende direttamente dal volume e dalla qualità di beni e servizi consumati, ma non dal contesto sociale nel quale l’azione di consumo si sviluppa” (L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Roma 2009, p. 12). Ho già parlato della teoria di Benthan sull’utilitarismo e dai suoi seguaci come gli Stuart Mill i quali sostengono che utile individuale deve integrarsi con l’utile generale; tant’è che Bentham criticando il concetto di giusnaturalismo sostiene che le norme statali devono promuovere le azioni volte al raggiungimento del piacere di tutti e punire tutte quelle volte ad ostacolare il piacere. Attualmente il concetto di utilitarismo è stato portato al suo estremo come ad esempio ipotizzato da B. Blackwell, J. Coleman e T. J. Fararo (1992) con Rational Choice Theory per cui il differenziale di utilità individuale diventa l’unica ragione dell’azione.
  • Razionalità calcolante per cui l’unico metro d’interesse è il rapporto tra mezzi e fine. Ciò che conta è la ricerca dei massimi profitti attraverso calcoli di tipo razionali; tutto il resto dei comportamenti o motivi sono irragionevoli e irrazionali.

Un “occhio” attento ai segnali precoci della schizofrenia e dei disturbi neurologici

Un’accurata valutazione dell’occhio e dei meccanismi che consentono la visione potrebbe aiutare i clinici a identificare i segnali precoci e di rischio per l’esordio di alcuni disturbi neurologici e psichiatrici e a sviluppare nuovi e promettenti strumenti per il perfezionamento dei processi diagnostici come evidenziato dal recente approfondimento di Woo, apparso su Nature Outlook. 

 

Nonostante molte conoscenze si siano accumulate per la comprensione dei meccanismi sottostanti l’eziologia, la genesi, il decorso nel tempo e il trattamento farmacologico della schizofrenia e per l’individuazione dei suoi sintomi prodromici nonché dei suoi fattori di rischio, la sua diagnosi risulta ancora oggi complicata e in alcuni punti problematica in quanto troppo legata a parametri soggettivi del clinico o dello psichiatra (Woo, 2019).

Pertanto, al fine di ottenere una quantità sempre maggiore di evidenze oggettive che possano concorrere al perfezionamento della sua diagnosi, nell’ultimo decennio le ricerche si sono concentrate nel rintracciare i cosiddetti “biomarker”, cioè quei segnali fisiologici tangibili e misurabili che possano indicare e “suggerire” l’innesco di un esordio o la progressione di una condizione medica o psichiatrica, a partire dall’occhio.

Biomarker e visione: l’uso per le diagnosi di sclerosi multipla

Il principio che ha dato avvio a questo filone di ricerca in particolare trae la sua origine dall’ipotesi che soprattutto la retina rappresenti la struttura cardine che potrebbe “riflettere” eventuali anomalie che si stanno sviluppando a livello cerebrale.

L’importanza data a quest’organo di senso e ai suoi componenti deriva da modelli neurofisiologici per cui la visione, per poter essere implementata, richiede il coinvolgimento di più della metà dei network cerebrali e pertanto tutto ciò che ne modifica il funzionamento o la conformazione andrebbe ad impattare in modo particolare la vista, la sua reattività agli stimoli luminosi e i movimenti oculari, che a loro volta hanno un effetto sul cervello stesso (Silverstein et al., 2015).

Un primo esempio di questa influenza reciproca, bidirezionale tra occhio e cervello, è presente nel lavoro di Talman, Galetta, Balcer e colleghi (2010) del dipartimento di neurologia e oftalmologia dell’Università della Pennsylvania a proposito della sclerosi multipla, un disturbo determinato dagli “attacchi” del sistema immunitario alla mielina, una sostanza che costituisce la guaina midollare e che funge sia da protezione per le cellule nervose sia da meccanismo che consente la conduzione del segnale elettrico.

Questo processo autodistruttivo, generato dal sistema immunitario, danneggia irreparabilmente molte vie nervose tra cui il nervo ottico e altre che contribuiscono alla visione: i pazienti con sclerosi multipla mostrano infatti una compromissione nel riconoscimento e nella lettura ad esempio di parole scritte in colore nero, presentate su sfondo bianco.

In concomitanza alla generazione di nuovi approcci neurofisiologici volti alla diagnosi precoce tramite i biomarker, le nuove evidenze apportate hanno dato avvio a filoni di ricerca più focalizzati sullo sviluppo di strumenti, test e metodologie più efficaci, oggettivi e appropriati nell’ identificare e monitorare i sintomi della sclerosi attraverso un’attenta valutazione dell’occhio come il King-Devick test per la valutazione delle funzioni cerebrali preposte al controllo dei movimenti oculari o il Mobile Universal Lexicon Evaluation System (MULES), nel quale si chiede ai partecipanti di nominare degli oggetti rappresentati tramite immagini il più velocemente possibile, con il fine di valutare ad ampio spettro altre componenti legate alla visione che fino a quel momento erano state escluse, come la percezione dei colori o il riconoscimento degli oggetti (Talman, Galetta, Balcer et al., 2010).

Insieme al nervo ottico che costituisce il collegamento “fisico” tra occhio e cervello, anche la retina è stato oggetto di ricerche in questo ambito in quanto essa, sviluppandosi a partire dal medesimo tessuto embrionale dal quale ha avuto origine l’encefalo, può essere considerata un’estensione di esso (Woo, 2019).

Visione e biomarker: l’uso nella diagnosi della schizofrenia

Una ricerca condotta da Silverstein & Rosen (2015), appartenenti al dipartimento di Psichiatria della Rutgers University in Piscataway, New Jersey, ha infatti ravvisato nello spessore della retina e nella sua più elevata fotosensibilità, segnali precoci di un esordio di schizofrenia, a partire dal riscontro di questi segnali negli individui già affetti da questa condizione.

Anche in questo caso, partendo dallo studio di Silverstein e colleghi (2015), è stato sviluppato un nuovo strumento di valutazione più accurato come l’elettroretinografia, un test semplice e non invasivo che misura le reazioni elettriche della retina a fasci di luce, applicato non solo alla schizofrenia ma anche al disturbo depressivo maggiore, in quanto essa sembra in grado di differenziare precisamente i cambiamenti nella sensibilità e nella responsività alla luce dei coni e dei bastoncelli (Maziade, Hébert, Mérette et al., 2017).

Grazie allo sviluppo di nuove e perfezionate tecnologie, più semplici e meno invasive, è stato quindi possibile esaminare nel dettaglio e più da vicino l’occhio e i meccanismi sottostanti la visione con il fine di prevenire, diagnosticare e monitorare la salute mentale e le sue condizioni patologiche.

L’avvento di un’altra nuova tecnica di imaging non invasiva come la tomografia ottica a coerenza di fase (OCT), ha reso possibile lo studio, il monitoraggio e potenzialmente la diagnosi di disturbi neurologici tramite un’immagine tridimensionale e dettagliata sempre a partire dalla retina: infatti essa ha consentito di mettere in luce diverse correlazioni tra l’assottigliamento della stessa e i problemi visivi nella sclerosi multipla.

La tomografia ottica recentemente è risultata promettente nell’identificare biomarker precoci per il morbo di Parkinson e Alzheimer dando spazio alla possibilità di trattarli e di poter cogliere e valutare gli eventuali benefici determinati dagli interventi clinici ancor prima della comparsa della sintomatologia (Hébert, Maziade, Gagné et al., 2010).

Lo studio di O’bryhim, Apte e colleghi dell’Università di Washington (2018) ha infatti evidenziato come nei soggetti che presentavano elevati livelli nella retina dell’ amiloide- β, un peptide legato al morbo di alzheimer, ma che non esibivano i sintomi del morbo, vi fosse una zona foveale non vascolarizzata della retina in media più grande rispetto a soggetti che presentavano una condizione della retina nella norma.

In aggiunta a questo, lo studio di Ahn, Lee, Kim e colleghi (2018) del dipartimento di oftalmologia dell’Università di Seul ha evidenziato come un assottigliamento della retina fosse correlata sia con una maggiore gravità nella sintomatologia legata al morbo di Parkinson sia con la degenerazione dei neuroni responsabili della produzione di dopamina, neurotrasmettitore particolarmente interessato da questa patologia.

A conclusione di tale panoramica, nonostante l’avanzamento di nuovi modelli, tecniche e strumenti incoraggianti per la diagnosi precoce tramite il riconoscimento di biomarker all’interno dell’ambito della visione, appare necessario fare delle considerazioni: prima fra tutte il fatto che nessun test o esame elettroretinografico attualmente è in grado di predire con affidabilità e precisione la comparsa di un disturbo neuropsichiatrico senza che si tenga conto del contesto in cui si sviluppa la sintomatologia, l’esposizione a specifici stimoli ambientali o l’impatto della genetica.

In secondo luogo, affinché l’OCT o altri metodi possano fungere a diritto da strumenti diagnostici per il morbo di Alzhaimer o possano essere utilizzati per stabile il trattamento d’elezione per tale condizione, occorrerebbe prima dimostrare la loro efficacia nel rilevare individui a rischio in una popolazione target come quella anziana o in una nella quale vi sia un’alta familiarità a questa condizione patologica (Woo, 2019).

Il desiderio di un figlio: dalla ferita della sterilità alla scelta adottiva

Nel processo di adozione, costruire un senso di appartenenza significa riconoscere che la genitorialità adottiva è, dal punto di vista affettivo, diversa da quella naturale, ma è anche sentire il bambino come realmente proprio, sviluppando un senso di sicurezza nel ruolo di veri genitori.

 

Diventare genitori può essere considerato da un punto di vista psicologico, un’esperienza che attiva un processo di cambiamento e sviluppo in ogni singolo soggetto e lo mantiene lungo un percorso in cui i ruoli e le relazioni sono in continua trasformazione (Benvenuti, Valoriani, 2007).

La filiazione adottiva non è uguale e neppure sovrapponibile a quella naturale (Barletta, 1991). Se nelle coppie biologiche la transizione alla genitorialità è sostenuta dalla gravidanza che costituisce una fase di mutamenti, sensazioni fisiche e fantasie, riccamente variegata sia per la donna che per l’uomo che la sostiene, e rappresenta un momento pregnante e fecondo per l’instaurarsi dell’attaccamento affettivo, nelle coppie adottive questa transizione è accompagnata da dinamiche specifiche.

Innanzitutto diventare genitori adottivi si fonda, spesso, su un’esperienza di “vuoto”, di privazione della gravidanza e dei processi psicobiologici a essa collegati. È soprattutto la donna a soffrire di questa mancanza. Quel bambino, originato nelle sue fantasie infantili, immaginato successivamente come oggetto d’amore, non riesce concretamente a svilupparsi all’interno del suo corpo. Le potenzialità presenti nella donna trovano nel vuoto generativo un limite doloroso da assimilare ma la creatività materna può svincolarsi dallo stereotipo riproduttivo onnipotente ed essere valorizzata attraverso possibilità innovative, facendo della maternità adottiva un rinnovato esempio della capacità di donarsi.

L’adattamento della coppia alla genitorialità adottiva

La mancanza, felicemente compensata dall’ adozione, non annulla comunque il sentimento di privazione di un’esperienza irrimediabilmente perduta. Non bisogna infatti dimenticare che gli anni di terapia per risolvere l’infertilità, il senso di delusione, la ferita narcisistica, i conflitti coniugali e tutti i sentimenti irrisolti legati ai fallimenti subiti sono solo alcuni dei fattori che possono influenzare l’adattamento alla genitorialità adottiva e lo sviluppo del bambino.

La disposizione della coppia infertile alla genitorialità adottiva può essere influenzata da diversi fattori come il tempo che trascorre dalla diagnosi di infertilità al momento dell’ adozione, i meccanismi di coping messi in atto durante il periodo di ricerca del concepimento, l’intensità dei sentimenti di deprivazione derivati dalla perdita della propria capacità riproduttiva che la coppia si raffigura definitiva.

Nonostante queste difficoltà iniziali, alcuni studi (Brodzinsky, 1990) hanno dimostrato che nelle coppie adottive infertili la difficoltà di adattamento al ruolo di genitori non crea danni nell’esperienza di adozione: la deprivazione vissuta prima di diventare genitori può addirittura aumentare il senso di gratificazione associato alla genitorialità. Il processo dell’adattamento all’ adozione può essere osservato anche alla luce della teoria dell’attaccamento enunciata da Bowlby (1969). Bowlby afferma che il lutto che vive la coppia infertile è quello per un bambino immaginato e atteso che non è mai arrivato, verso il quale si è anche stabilito una sorta di attaccamento. La coppia genitoriale deve elaborare questo lutto per poter superare le fantasie non realizzate e sostituirle con una realtà adeguata e appagante. Non sempre però questo processo di elaborazione è appagato quando si verifica l’adozione contribuendo ad aumentare il rischio che questa immagine “fantasmatica” venga usata come termine di paragone con il comportamento del bambino adottato. È importante quindi che i futuri genitori adottivi sappiano riconoscere ed essere consapevoli di aver costruito un’immagine di “bambino ideale” nel periodo di ricerca del figlio biologico ed è importante sapersi interrogare su quanto questa immagine possa influire sulle loro aspettative a riguardo del figlio che arriverà (Lebovici 1989a). Il bambino che arriverà non sarà il bambino immaginario, tanto idealizzato, ma sarà un bambino in carne ed ossa con proprie caratteristiche e peculiarità magari molto differenti rispetto a quelle che si erano desiderate (Monaco, 2013).

A tal proposito, diverse ricerche hanno mostrato che i genitori adottivi presentano una tendenza maggiore, rispetto ai genitori biologici, a idealizzare i loro figli (Rosnati, 2010). Più è forte il senso di idealizzazione, più consistente sarà il senso di privazione e sarà importante trovare le parole per esprimere il proprio dolore e attivare così l’elaborazione del lutto. Infatti uno degli aspetti più importanti dell’elaborazione del lutto e del definitivo risolversi dei vissuti di infertilità è il sapersi svelare agli altri, cioè essere capaci di comunicare apertamente i propri sentimenti sia al partner sia agli amici più intimi che alla famiglia, affrontare cioè la realtà della perdita (Freud, 1931). Inoltre se il lutto non viene elaborato, il momento del confronto con il bambino reale può essere fonte di delusione e frustrazione per la coppia che rischia di incidere negativamente sulla riuscita dell’ adozione.

Nella formazione del legame non si può sottovalutare il ruolo rivestito dal figlio adottivo. Il bambino adottato, a differenza di quello naturale, ha un passato segnato da perdite e traumi. Infatti ogni adozione presuppone un abbandono: la costruzione di nuove relazioni affettive e di una nuova relazione nasce sulle macerie della propria continuità genealogica.

La costruzione dell’identità del nucleo familiare adottivo

Al momento dell’ adozione, il bambino perde ogni sicurezza affettiva costruita a fatica in ambienti dove spesso diverse figure si sono prese cura di lui. In casi come questi la personalità e la resilienza del bambino possono avere un ruolo importante nella formazione del nuovo legame di attaccamento e si può ritenere che questo sia compiuto quando sia i genitori che il bambino sentono che l’altro rappresenta una parte insostituibile di sé e della propria vita.

Costruire un senso di appartenenza significa riconoscere che la genitorialità adottiva è, dal punto di vista affettivo, diversa da quella naturale, ma è anche sentire il bambino come realmente proprio, sviluppando un senso di sicurezza nel ruolo di veri genitori.

Importante in questo contesto è anche il processo di formazione dell’identità nei genitori, nel figlio e nella nuova famiglia appena formata. Uno degli autori che più ci aiutano a comprendere lo sviluppo dell’identità è Erickson (1950) che, attraverso la teoria psicosociale degli stadi di sviluppo, fornisce un’idea dell’importanza della risoluzione dei conflitti a ogni stadio per avanzare verso quello seguente. Il bambino adottato può avere maggiori difficoltà nella costruzione di un proprio senso d’identità perché può sentirsi privo di una propria storia familiare e non ancora pienamente coinvolto nella storia della famiglia adottiva. Dal canto loro i genitori devono essere consapevoli delle difficoltà che il proprio figlio può affrontare. Difficoltà che possono dipendere non solo da caratteristiche temperamentali del bambino ma anche dalle aspettative disattese dei genitori che idealizzano il bambino adottato proiettando su di lui le fantasie che avevano riposto precedentemente sul figlio naturale, mai arrivato.

Altri fattori che bisogna prendere in considerazione riguardano l’incertezza del progetto adottivo a cui si accompagna spesso il tempo indefinito dell’attesa e il riuscire ad affrontare l’integrazione di questo nuovo membro, estraneo, che porta con sé la propria storia che essendo parte della sua realtà va considerata nella sua interezza.

I bambini adottati non hanno bisogno di genitori generici ma di genitori che sappiano tener conto realisticamente dei loro bisogni e dei loro vissuti per poterli superare integrandoli in un’esperienza comunicativa positiva.

Adozione: tra genitorialità e generatività

Una riflessione importante che è opportuno sottolineare prima di concludere è quella proposta da Erickson secondo cui la genitorialità adottiva rientrerebbe nella cosiddetta generatività sociale (Erickson,1982). Con tale termine fa riferimento:

a quella preoccupazione di creare e dirigere una nuova generazione che si esplicita nella capacità di prendersi cura delle persone, dei prodotti e delle idee verso cui si è preso un impegno (Erickson, 1982, pag. 88).

Snarey (1993) riprende il concetto di generatività di Erickson e ne distingue tre tipi:

  • generatività biologica che coincide con il dare la vita;
  • generatività parentale che corrisponde alla cura dei propri figli e alla capacità di saper sviluppare le loro potenzialità e la loro autonomia;
  • generatività sociale ovvero il prendersi cura di una generazione successiva. Corrisponde al contributo creativo dato alla società in generale.

In quest’ottica è facile dedurre che la genitorialità adottiva corrisponde maggiormente ad una generatività sociale in cui il legame genitoriale si fonda sull’assenza di continuità genetica, sul riconoscimento di una differente origine e la genitorialità stessa risulta legittimata come risposta a un bisogno sociale (Rosnati, 1998).

In conclusione, lo sviluppo di una famiglia adottiva, a differenza di quello di una famiglia naturale, segue un percorso diverso e a volte più tortuoso: parte dalla risoluzione dei sentimenti legati all’infertilità e passa attraverso il riconoscimento e l’accettazione delle differenze fino ad affrontare la percezione sociale negativa dell’ adozione. Proprio da un punto di vista sociale è importante che la coppia impari a vivere la propria condizione non come segreta e causa di disagio emotivo e imbarazzo, come se fossero quasi dei genitori di “serie b”, ma come padri e madri che al di là dei pregiudizi hanno un compito affettivo ed educativo identico agli altri genitori.

Ossitocina e obesità: l’ormone che modulerebbe i comportamenti alimentari

Una recente ricerca presentata durante la conferenza annuale della Società di Endocrinologia (ENDO 2019) ha proposto una nuova modalità di trattamento sperimentale per l’ obesità che prevede l’inalazione per via nasale di ossitocina

 

L’ ossitocina è un ormone noto per l’importante ruolo che gioca nelle interazioni sociali e per questo spesso definito “ormone dell’amore”; normalmente rilasciato durante il parto e l’allattamento, quando la relazione mamma-bambino sta iniziando a prendere forma, l’ ossitocina sembra giocare un ruolo importante anche nel controllo dell’assunzione di cibo e del peso.

Sulla base di queste scoperte, alcuni ricercatori hanno provato a testare la possibilità di introdurre l’uso dell’ ossitocina nel trattamento di diverse problematiche alimentari, quali ad esempio abbuffate o obesità. A conferma di quanto ipotizzato dai ricercatori, studi precedenti avevano già evidenziato che la somministrazione di ossitocina attraverso spray nasale avesse un effetto sulle vie cerebrali coinvolte nel comportamento alimentare diminuendo il consumo di cibo negli uomini.

Lo studio

Questo studio assume particolare importanza all’interno del panorama scientifico poiché mostra come l’ ossitocina è in grado di modulare i percorsi cerebrali, specialmente in riferimento alle risposte ad alimenti altamente appetibili e gratificanti. Obiettivo dei ricercatori è stato quindi quello di esaminare il sistema di ricompensa cerebrale su cui ha effetto questo ormone. La ricerca è stata avviata sulla base di risultati di studi precedenti che dimostravano che l’ ossitocina riduce effettivamente l’attivazione dell’area ventrale tegmentale (VTA), una regione centrale per il sistema di ricompensa.

Lo studio prevedeva l’utilizzo di fMRI, una tecnica di neuroimmagine utilizzata in ricerca per misurare l’attività cerebrale attraverso la rilevazione di cambiamenti associati al flusso sanguigno. L’utilizzo di questa tecnica è stato utile per indagare come l’ ossitocina impatta sulla connettività funzionale tra la VTA e il resto del cervello.

Il campione oggetto di studio era coposto da 10 soggetti in salute ma in sovrappeso e 10 giovani soggetti con obesità; ciascuno di loro è stato incontrato in due visite, condotte all’interno di un setting laboratoriale, nel corso delle quali veniva sottoposto alla somministrazione di ossitocina o di un placebo (a seconda del fatto che fosse stato assegnato, in maniera del tutto casuale, al gruppo sperimentale o a quello di controllo). Durante ogni visita, ogni soggetto, a digiuno, doveva autosomministrarsi attraverso spray nasale una singola dose di ossitocina o di placebo. Ognuno dei soggetti era inconsapevole di quale trattamento stesse assumendo.

Innanzitutto, i risultati hanno dimostrato come la somministrazione di ossitocina non avesse alcun effetto collaterale sui soggetti. Inoltre, lo studio prevedeva che dopo un’ora dalla somministrazione del farmaco o del placebo, i soggetti venissero sottoposti a fMRI mentre osservavano immagini raffiguranti: alimenti ad alto contenuto calorico, alimenti a basso contenuto calorico, oppure oggetti non comprendenti cibo. È  emerso che i soggetti con obesità, in comparazione con i soggetti del gruppo di controllo, mostravano un’iper-attivazione anomala del sistema cerebrale di ricompensa quando messi di fronte a immagini con alimenti calorici. Questo risultato si presentava anche nel momento in cui i soggetti erano sazi, suggerendo così una spiegazione per il comportamento osservato nelle abbuffate e, allo stesso tempo, un potenziale target per il trattamento farmacologico con ossitocina. Nel gruppo sperimentale (partecipanti che avevano ricevuto il trattamento con ossitocina), a differenza del gruppo di controllo (trattamento placebo), l’ ossitocina indeboliva la connettività funzionale tra la VTA e le aree cerebrali coinvolte nell’assunzione del cibo di fronte alla visione di immagini riguardanti alimenti ipercalorici.

In conclusione

Questi risultati dimostrerebbero che effettivamente l’ ossitocina interverrebbe nel modulare i comportamenti alimentari. L’ obesità è una malattia altamente invalidante sia a livello fisiologico che psicologico. È pertanto necessario approfondirne cause, conseguenze e possibili trattamenti. Il presente studio fornisce dunque un punto di partenza per l’approfondimento di nuovi e rivoluzionari metodi di trattamento.

Un pianeta che non c’è – Recensione della canzone e intervista a Frankavilla

Quando un vortice emozionale ci sequestra ogni battito e i pensieri sembrano rincorrere senza sosta ricordi e memorie di un passato che non sbiadisce, forse è il domani che sta forgiando per noi, istante dopo istante, la chiave per ripartire e finalmente, esistere.

 

A veicolare il messaggio è il mottolese Frankavilla che affida le sue riflessioni al brano Un pianeta che non c’è (prodotto da Beat Sound Milano di Beppe Stanco e Giovanni Rosina), in rotazione radiofonica e su tutte le piattaforme digitali dall’otto marzo, data scelta per omaggiare l’universo femminile di un ideale e graditissimo bouquet musicale.

Il lavoro segna l’atteso ritorno di un artista – reduce dai riscontri incassati con la cover di Edoardo Bennato e con il pezzo Vivo così con il quale ha aperto nel 2018 la Partita del Cuore giocata allo stadio Marassi di Genova – che annovera nel suo bagaglio anche la partecipazione come ospite al Premio Lunezia, storico evento strettamente legato al Festival di Sanremo, ideato dal patron Stefano de Martino per esaltare il valore musical-letterario delle canzoni (kermesse che ha visto avvicendarsi sul palco mostri sacri della musica italiana).

Ma Frankavilla non smette di stupire.

VIVO COSì – GUARDA IL VIDEO:

 

Un pianeta che non c’è – il nuovo singolo di Frankavilla

Lo dimostra con il suo ultimo singolo, tassello esistenziale tradotto in note accattivanti impreziosite da una semplicità strutturale che non scivola mai nella banalità ma che sa sfiorare le corde più intime dell’animo umano.

Empatia. Respirare le esperienze altrui perdendosi in occhi non nostri per poi trasporle in musica miscelandole al proprio vissuto. Si, empatia. È racchiuso lì il segreto della musica d’autore.

E Frankavilla centra l’obiettivo.

Lo fa, di nuovo, con Un pianeta che non c’è che custodisce tutti gli ingredienti di un successo annunciato: un affascinante sound anni ottanta, un velluto melodico ricamato su cadenzati che ben si muovono tra il ritmo della batteria e il sensuale sax d’apertura. Chiudono il cerchio, un arrangiamento che del classico ruba solamente la purezza ed un testo affatto scontato.

Ci parlano del rapporto ideazione/realtà passaggi come

Ti stai svegliando
mentre un nuovo sole sta nascendo
la luna va morendo. Qui non passa il tempo
Mentre penso a cosa stai facendo

dove il cognitivo spazia fra i desideri pronto ad accogliere, fluendo nella sfera del cognitivo, quel riflesso di noi che ancora non ci appartiene.

Un voler stringere i sogni convinti che dalla loro finestra (si consenta una citazione personale) filtri sempre la realtà.

UN PIANETA CHE NON C’E’ – GUARDA IL VIDEO:

Un pianeta che non c’è: intervista a Frankavilla

Quanto sono importanti per il cantante pugliese? Parliamone con lui.

Intervistatore (I): Qual è a tuo avviso, se esiste, il confine tra i nostri sogni e la realtà che viviamo?

Frankavilla (F): Innanzitutto devo ammettere di essere un sognatore, io che molte volte sogno ad occhi aperti. Il confine tra i sogni e la realtà secondo me è rappresentato da una linea sottile. Questa linea sottile è l’avventura della nostra esistenza. I miei sogni mi han sempre dato la spinta per andare avanti. Noi essere umani passiamo 1/3 della nostra vita a dormire, di conseguenza a sognare. Ecco perché dico che i sogni e la realtà son divisi tra loro da una linea sottilissima. C’è chi sostiene che i sogni aiutino a vivere. Io seguo questa tesi. Poi chiaramente dipende sempre dall’entità dei sogni che ognuno di noi ha. Perché i sogni per me sono uno stimolo per raggiungere degli obiettivi. Io ho sempre sognato di fare musica, ho sempre sognato di far ascoltare le mie canzoni a più gente possibile. E questo sogno a poco a poco si è avverato. Un altro sogno che ho sempre avuto è quello di vedere un mondo in pace, armonia e civiltà. Ma questo non è un sogno, bensì utopia. E le utopie si sa, sono irrealizzabili.

I: Nel singolo parli di pianeta: “Sospeso su un pianeta che non c’è / suona un vecchio vinile mentre scrivo qui per te”. Il tuo pianeta ideale è abitato da…?

F: Il mio pianeta ideale è abitato per l’appunto dalla pace, dall’armonia. Sul mio pianeta vige il rispetto per gli altri, prima che per noi stessi. È un pianeta in cui sono sempre verdi quei valori morali, quelle tradizioni andatesi via via smarrendo. Un pianeta utopistico direi, perché la realtà è totalmente diversa. Mi rifugio su questo pianeta per trovare la mia vera dimensione. Proprio perché non mi riconosco in questa società con ritmi frenetici, nella quale il dio denaro, la cattiveria, l’invidia e l’egoismo ormai la fanno da padrone.

I: I ricordi sgradevoli preferisci archiviarli o rileggerli in un nuovo format? Come dire, le ferite del passato per te sono un peso o un dono che comunque arricchisce?

F: Tra archiviarli e rileggerli in un nuovo format, preferisco inserire i ricordi sgradevoli nella seconda ipotesi. Perché secondo me i vissuti, il passato, rappresentano sempre un dono, mai un peso. Al di là che si parli di ricordi positivi o negativi. Questo, perché ho sempre cercato di far tesoro dei miei vissuti. Soprattutto quando ho commesso degli errori, ho provato subito a correggermi, a limarli. E se mi ritrovo ad essere un uomo buono, equilibrato, generoso, socievole, lo devo soprattutto alla mia esperienza. Il fatto di essere una persona vera poi, mi porta a non avere rimorsi o rimpianti. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto finora.

I: Grazie per l’intervista e grazie, a nome dei tuoi fan, per il tuo ultimo prodotto discografico.

F: Grazie a te e alla redazione di State of Mind per lo spazio dedicato.

Il ruolo dell’empatia nella risoluzione di un dilemma morale

Specifici aspetti dell’ empatia hanno un alto potere predittivo sul tipo di giudizio morale. Tra le più famose condizioni create per studiare il modo in cui l’individuo compie un giudizio morale ritroviamo il dilemma Trolley e il dilemma Footbridge.

 

Secondo il modello del doppio processo di Greene e collaboratori (2001, 2004, 2008), la risoluzione di un dilemma morale è guidato dall’interazione di due sistemi in competizione: un processo veloce, automatico ed emozionale e uno più lento, controllato e cognitivo. Nello specifico, il sistema cognitivo indirizzerebbe verso la scelta utilitaristica mentre quello emozionale verso la decisione non utilitaristica. Secondo questo modello il diverso coinvolgimento del sistema emozionale spiegherebbe i differenti pattern nel giudizio morale.

Secondo Mehrabian e collaboratori (1988) persone con livelli di empatia più elevati si mostrano più impegnati in comportamenti altruistici, sono meno aggressivi, più affiliativi, valutano i tratti sociali positivi come più importanti, hanno punteggi più alti sulle misure di giudizio morale, e sono più propense ad aiutare volontariamente gli altri.

Choe e Min (2011) grazie ad un loro studio sulla relazione tra diversi tratti disposizionali e giudizio morale, hanno dimostrato che alti punteggi nei tratti di empatia, misurata con l’Emotional Empathic Tendency Scale (Mehrabian et al., 1988), portavano ad un decremento della scelta utilitaristica nei dilemmi morali personali.

Empatia e giudizio morale: il dilemma Trolley e il dilemma Footbridge

Gleichgerrcht e Young (2013), invece, hanno cercato di indagare il potere predittivo di specifici aspetti dell’ empatia per diversi gruppi di decisori morali. Nel primo dei loro tre esperimenti, gli autori hanno presentato ai partecipanti due dilemmi morali: il dilemma Trolley e il dilemma Footbridge.

Nel primo dilemma una locomotiva senza controllo si sta dirigendo verso cinque operai che stanno lavorando sui binari e che stanno per essere investiti: è possibile salvarli tirando una leva per deviare il corso del treno su un altro binario dove si trova una sola persona. Al decisore morale si chiede di scegliere se tirare la leva sacrificando la vita di una sola persona per salvarne cinque oppure lasciare che gli eventi seguano il corso intrapreso. Nel secondo dilemma invece la persona che deve prendere la decisione assiste alla scena da un ponte sopra ai binari e gli si chiede se spingerebbe personalmente una persona giù dal ponte, uccidendola, per salvare i cinque operai in pericolo.

In base al tipo di risposta che le persone avevano fornito a tali dilemmi, hanno suddiviso i partecipanti in 4 gruppi: Utilitaristi, ossia coloro che rispondevano ad entrambi i dilemmi in maniera utilitaristica; Non Utilitaristi, ovvero quelli che rispondevano ad entrambi i quesiti in modo non utilitaristico; Maggioranza, ossia coloro che rispondevano come la maggioranza delle persone, cioè in modo utilitaristico al dilemma Trolley e non utilitaristico al dilemma Footbridge; e Atipici, ovvero coloro che rispondevano in modo non utilitaristico al dilemma Trolley e utilitaristico al dilemma Footbridge.

I partecipanti dovevano compilare una serie di questionari tra cui l’Interpersonal Reactivity Index (IRI), che misura le diverse componenti dell’ empatia individuate da Davis (1983): perspective taking, la tendenza spontanea ad adottare il punto di vista altrui; empathic concern, la capacità di sentire compassione e preoccupazione per gli altri; fantasy, tendenza ad immergersi grazie all’immaginazione nelle sensazioni di personaggi fittizi; personal distress, la tendenza delle persone a sentire ansia e disagio a contatto con la sofferenza altrui.

Dai risultati è emerso che non c’era nessuna differenza tra i gruppi per quanto riguarda le sottoscale di fantasy, prespective taking e personal distress, mentre è stata messa in luce una differenza significativa a livello di empathic concern: il gruppo Utilitarista mostrava un livello di empathic concern significativamente inferiore rispetto a tutti gli altri gruppi. Per quanto riguarda il tipo di scenario, nel caso del Trolley, nessuna differenza significativa è stata rilevata tra i gruppi Utilitarista e Non Utilitarista in nessuna delle sottoscale dell’ empatia. Nello scenario Footbridge, invece, i partecipanti utilitaristi mostravano un livello di empathic concern significativamente minore rispetto ai non utilitaristi. In conclusione, da questo studio è risultato che, nel complesso dominio dell’ empatia, i giudizi utilitaristici vengono predetti solo dal livello di empathic concern, e non dalle altre tre componenti dell’ empatia.

Un passo oltre.. lo studio di Sarno e collaboratori

Nello studio di Sarlo e collaboratori (2014), gli autori si prefiggevano di investigare se e come la dimensione cognitiva e affettiva dell’ empatia potesse influire sul giudizio morale. Sono stati utilizzati 72 dilemmi morali, 30 tipo Footbridge, 30 tipo Trolley e 12 dilemmi filler che non implicavano la morte delle persone coinvolte.

Ogni dilemma veniva presentato in tre slides successive: la prima descriveva lo scenario, la seconda descriveva l’opzione A (non utilitaristica) e la terza descriveva l’opzione B (utilitaristica). Il partecipante doveva scegliere una delle due opzioni. Al termine della prova sperimentale con i dilemmi, i partecipanti compilavano l’IRI. Il dato principale emerso dallo studio è stato che la componente affettiva e non quella cognitiva modulava le risposte dei partecipanti ai dilemmi morali. Differenze individuali nella componente affettiva dell’ empatia erano associate alla percentuale di risposte utilitaristiche e ai livelli di spiacevolezza esperita durante la decisione.

Per i dilemmi tipo Footbridge e non per i dilemmi tipo Trolley, i punteggi della sottoscala del personal distress erano negativamente correlati con la percentuale di risposte utilitaristiche, ossia più alto era il punteggio alla scala PD minore era il numero di risposte utilitaristiche. Il personal distress quindi promuoverebbe un comportamento pro-sociale, ma motivato da ragioni egoistiche, ossia per diminuire il proprio stato di disagio di fronte ad una situazione emozionalmente aversiva. Inoltre, in entrambi i tipi di dilemmi, l’empathic concern era negativamente correlata alla valenza. E’ interessante però notare come questo risultato non fosse correlato alla decisione effettuata dal partecipante. Gli autori hanno perciò suggerito che nel contesto dei dilemmi morali la motivazione altruistica non guidi la scelta dell’individuo.

Empatia, giudizio morale e alessitimia

Infine, nello studio di Patil e Silani (2014), gli autori hanno cercato di individuare quale fosse il ruolo dell’ empatia nel giudizio morale e per fare ciò hanno testato dei partecipanti con alessitimia. L’alessitimia è un costrutto dimensionale di personalità caratterizzato dalla riduzione nella capacità di provare emozioni, dall’incapacità di riflettere sulle proprie emozioni, dalla difficoltà con l’identificazione di sentimenti e sensazioni fisiche associate all’arousal emozionale e dalla incapacità di descrivere tali sensazioni agli altri (Nemiah et al., 1976).

Ai partecipanti venivano presentati due dilemmi, uno personale e uno impersonale, e per entrambi dovevano giudicarne l’appropriatezza morale su una scala Likert a 7 punti. Ognuno dei soggetti doveva compilare l’IRI per misurare l’ empatia e il TAS-20 (Tornoto Alexitimia Scale-20) per misurare l’alessitimia. Dallo studio è emerso, a conferma della letteratura esistente al riguardo, che l’alessitimia era associata a bassi livelli di empathic concern e di perspective taking e ad alti livelli di personal distress. Il risultato più importante di questo studio è stato che il ridotto livello di empathic concern negli alessitimici li portava a valutare come più appropriato uccidere la persona nel dilemma Footbridge per salvare gli altri in pericolo, ma non si riscontrava lo stesso pattern nei dilemmi tipo Trolley. La spiegazione data dagli autori è che quando tali persone si trovano di fronte a questo dilemma, non sperimentando la forte attivazione emozionale che solitamente questi dilemmi dovrebbero elicitare, riescono a ragionare seguendo principi logici e razionali, supportando così le scelte di tipo utilitaristico. Nei dilemmi tipo Trolley, invece, non c’è aumento delle risposte utilitaristiche, perché questi tipo di dilemmi sono comunque meno emozionalmente salienti (Greene et al., 2009).

Into the wild: la natura selvaggia fuori e dentro di sé. Una riflessione psicologica sul film di Sean Penn

Into the wild è un film tratto da una storia realmente accaduta, che suscita interesse per la peculiarità del viaggio, della partenza, della ricusazione di un mondo ‘corrotto’, a favore di un mondo puro e incorrotto che accomuna, almeno nello spirito, tanti giovani uomini.

 

“La fragilità del cristallo non è una debolezza ma una raffinatezza”.

La voce narrante descrive e introduce alla storia – personale e di vita – di un ragazzo dell’alta borghesia americana che, dopo il conseguimento della laurea, decide di abbandonare il suo mondo borghese e di mettersi in viaggio da solo e senza mezzi verso l’Alaska, meta e metafora – per lui – del mondo selvaggio e primordiale, perfetta antitesi del suo mondo borghese e formale.

Into the wild è un film tratto da una storia realmente accaduta, che suscita interesse per la peculiarità del viaggio, della partenza, della ricusazione di un mondo ‘corrotto’, a favore di un mondo puro e incorrotto che accomuna, almeno nello spirito, tanti giovani uomini.

Parafrasando l’incipit (citazione tratta dal film attraverso le parole della sorella minore) si delinea la natura di Christopher, il protagonista di Into the wild: diverso rispetto ai suoi coetanei, con una sensibilità e finezza d’animo che rappresentano di primo acchito più una singolarità di temperamento che una discrepanza rispetto a comportamenti ‘normati’.

La personalità e i suoi tratti

Il primo tratto distintivo che emerge della sua personalità è un bisogno di ricerca inesausta, un’esigenza – vestita dei panni di una quasi necessità – d’indomabile superamento continuo del limite e soprattutto del limitante orizzonte della vita borghesemente intesa.

In questa sete, il suo assetto di fronte alla vita si fonda, solo apparentemente, su un approccio vivo alle cose, che tiene conto – e cerca di mantenerne la sua originale unità – del rapporto tra la realtà fuori di sé e il proprio mondo interiore, attraverso tante domande che “le cose” destano nella sua mente. Egli stesso dice che ciò che sommamente cerca è la verità: una ricerca quasi maniacale. Più che i soldi, più che il benessere apparente, più che il successo professionale o un rapporto amoroso, è la verità il suo solo traguardo, sempre irraggiungibile.

Verità è la sua meta ‘spirituale’; Alaska la meta ‘esistenziale’. Dunque, per lui la verità è perseguibile solo all’interno del contesto primitivo (come luogo fisico) e primordiale (come impostazione non borghese) della natura selvaggia e selvatica, decostruita e destrutturata di inutili orpelli, per l’appunto Into the wild.

Christopher vive dentro una grande solitudine (rispetto a rapporti amicali o altre relazioni) che potrebbe, all’apparenza, non rappresentare una sua ‘stranezza’ o un suo ipotetico ‘isolamento sociale’, coperta dal desiderio di trovare la corrispondenza alla sua voragine interiore nell’autorevolezza di autori che lo accompagnano in intense letture e meditazioni.

Con il suo stile di vita e la sua decisione di abbandonare tutto vuole sottolineare l’opportunità di cambiare il modo solito di guardare le cose, come egli stesso afferma: non necessariamente, e non solo, nei rapporti con le persone ma attraverso una comunione più ampia con il ‘sistema natura’.

Per farlo ha bisogno di cambiare anche il nome: Jung direbbe che il nome che hai è la tua essenza. Per separarsi dal passato aveva dunque bisogno di un nuovo nome, simbolo della sua vera essenza: Alexander Supertramp, un nome (perciò una essenza) superlativo. Quasi megalomane.

Il contesto familiare e l’ambiente

La scaturigine esistenziale (come accidente storico) di questa inarrendevolezza e inquietudine è la storia familiare: i suoi rapporti con i genitori sono burrascosi, con la scoperta – nel tempo – di un segreto familiare che riguarda direttamente la sua nascita e da cui inevitabilmente vengono modellati i rapporti parentali. Infatti, entrambi i figli sono nati da una relazione extraconiugale, mantenuta segreta, rispetto all’altra famiglia del padre, vissuta da questi apertamente.

Christopher ha un legame sotterraneo e forte con la sorella, anche se questo non gli impedisce di negarsi anche a lei nelle sue ragioni di fuga.

La considerazione che ha degli altri non è positiva. Per lui le gioie della vita non vengono principalmente dai rapporti tra le persone, che sono in qualche misura, malvagie. Solo la natura è veramente amica.

Una lettura clinica di Into the wild

In Into the wild il modo estremo attraverso cui Christopher asseconda questa inestinguibile sete rivela per certi versi una matrice adolescenziale, che può introdurci alla considerazione della congruità personale rispetto all’esame di realtà. Partendo dal presupposto che l’esame di realtà – oltre alla capacità di differenziare sé dagli altri – implica la capacità di valutare realisticamente le personali concezioni e i propri comportamenti nel quadro della ‘norma’ sociale (quindi una matrice ecologica, batesonianamente intesa, che tiene conto del rapporto profondo tra la propria natura e la natura del contesto).

L’esame di realtà può essere valutato in svariate circostanze che gli si presentano durante il suo lungo viaggio verso l’Alaska. Poco realistico il suo misurarsi, errata considerazione delle reali forze da lui possedute e del pericolo di fronte al quale si trova: l’affronto del mare, il buttarsi dalla scogliera senza saper nuotare o il non tener in debito conto le condizioni della natura esterna ed estrema, non controllabile, ma considerare come unico scopo quello di ‘sentirsi forte’, come sua dimostrazione o dimostrazione di sé.

In Into the wild il concetto di fuga dal reale (inteso come circostanze, all’interno delle quali l’individuo si trova a dover affrontare problematiche e soluzioni) è ipostatizzato fino all’atto estremo della fuga fisica; ciò che rende drammatica questa forma di fuga è la totale negazione del contesto, negazione che lo pone in una specie di utopia. Una psicosi apparentemente senza delirio: delirano gli atti compiuti. Selvaggio è ciò che non si conosce, ‘selvaggia’ è l’angoscia psicotica.

Altro tratto adolescente è la credenza che vivere, molto ed intensamente, coincida con una quantità piuttosto che con una qualità. Come se la vita ordinaria, nei ritmi sempre uguale a se stessa, e la variegata vorticosità del globetrotter possano essere pesati, in diminuzione della prima.

L’esame di realtà si ritrova nella concezione radicalizzata della natura umana: quasi solo istinto, enfasi, azione; l’esercizio del pensiero quasi non esiste.

Nella considerazione, poi, delle relazioni interpersonali, queste sembrano quasi – kleinianamente – trasformate in rappresentazioni interiorizzate di relazioni in cui esse non corrispondono affatto al ‘reale oggetto esterno’.

Chris ha una concezione delle persone abbastanza polarizzata sul versante estremo negativo. Eppure, non si accorge che, contrariamente a tale concezione, tutte le persone che incontra lungo il suo cammino sono benevole con lui, gli portano un pezzo di esperienza cui lui può attingere. Colgono in lui l’aspetto positivo: “Sembri un bambino che è stato amato”, lo descrive la donna della coppia di girovaghi in caravan. Sembra strano che non riesca a trarre le conseguenze da questi incontri. Nemmeno dal rapporto ‘paterno’ con l’anziano che – metafora della trasmissione delle generazioni – lo vorrebbe designare erede dei suoi beni. Chi genera fa anche ereditare. E sembra quasi che ci sia per lui una possibilità di riposare in quel rapporto, in cui ogni condizione di pace è ravvisabile, ma l’immagine preconcetta della verità che lui inseguiva ed aveva in testa non lo ha smosso: negando il suo stesso principio delle ‘nuove esperienze’ come motore della conoscenza, raggiungibile per lui soltanto nelle terre selvagge.
Ma, antitesi simbolica di questo, è l’orso bruno che – fiutando l’odore della morte ormai imminente in lui – si volge e gli passa oltre. La natura selvaggia – da lui prefigurata amica e meta ultima del suo cammino – è in realtà indifferente al dramma ultimo che si compie in lui.

Nel suo testamento scritto (i suoi appunti), ultima ed estrema consapevolezza, forse c’è la risposta – non goduta in vita – al grido che è stata la sua esistenza totale: “La felicità è reale solo quando condivisa”.

 

INTO THE WILD – Guarda il trailer del film:

Not just right experience – Un racconto di fantapsicologia

La signora Lina ha appena terminato il caffè che avvia la giornata. Squilla inaspettato il campanello della porta…

 

La tenda a grandi fiori gialli della finestra di sala è gonfiata dalla corrente d’aria con la porta di casa aperta per accogliere la raccomandata RR dal postino, che invece di consegnare rapido la missiva dallo spiraglio e dileguarsi verso altre minacciose consegne di multe, chiede di firmare i numerosi indispensabili moduli che autodichiarano che si è proprio se stessi, che l’esistenza in vita è momentaneamente garantita e che oggi è proprio oggi sul calendario gregoriano e siamo esattamente sulla soglia della abitazione che ci appartiene per successione dal povero babbo, come risulta dai documenti di provenienza custoditi dal notaio Bollettini; sventola come una bandiera durante l’intrepido assalto all’arma bianca di un drappello suicida di fanti e sembra avvolgere volontariamente e voluttuosamente il vaso sull’architrave del cammino contenente le ceneri di zia Alfonsina e con decisione ribaltarlo sul pavimento.

La signora Lina con nelle orecchie il colpo secco dell’infrangersi del vaso soffoca una antica bestemmia di origine parentale (è figlia di due toscani) e richiude bruscamente la porta alle spalle dell’incolpevole, fin quando la pignoleria non sarà una colpa, postino. Ha sempre odiato quel macabro ricordo dell’odiosa e tirchissima zia Alfonsina alla cui assistenza Artemio, orfano e da lei cresciuto, aveva dedicato i primi anni del loro matrimonio trascorsi tra la scelta e la gestione di transitorie badanti di tutto il terzo mondo, pannoloni pisciati e minestrina da imboccare nei loro giorni di riposo.

Artemio avrebbe sicuramente colto l’occasione del crash urnare per rimproverarla della sua disattenzione, trascuratezza per la casa ed in particolare per il menefreghismo (peraltro vero, consapevole ed esibito) verso le cose cui lui teneva.

Insomma il piccolo incidente domestico sarebbe diventato un casus belli di cui non si sentiva alcun bisogno in quel burrascoso e forse preterminale periodo della loro vita di coppia.

Il tappeto Kilim e il sottostante parquet di mogano del Niger avevano attutito il colpo e l’urna si era divisa in soli tre grandi frammenti dai margini piuttosto netti. Un tempo non avrebbe voluto che segreti si frapponessero tra lei e Artemio, ma questo quando lui era “il suo Artemio” e lei “la sua Lina”. Ormai il territorio del “non detto” era sconfinato e popolato di segreti più o meno grandi e persino di vere e proprie menzogne con l’attenuante di essere a fin di bene, per quieto vivere, perché l’altro non potrebbe capire e la spiegazione troppo faticosa e inutile.

Un vaso rotto si poteva aggiungere tranquillamente a questa moltitudine, accomodandosi tra la troppo prolungata stretta di mano del preside e l’assegno a suo fratello minacciato dagli usurai. L’operazione avvenne sul tavolo della cucina che poteva essere più facilmente ripulito. La colla “Artiglio” dopo aver tenuto pressate l’un l’altra le superfici precedentemente ripulite dalla polvere o meglio dalla cenere per il tempo indicato sul tubetto giallo tigre e anche un tantinello di più per eccesso di scrupolo, restituì un vaso perfetto soprattutto dopo che Lina approfittò dell’occasione per pulirlo a fondo con un panno leggermente inumidito che usava per gli schermi dei video di casa. Se per un motivo lo si sarebbe notato non sarebbe stato certo per le due sottilissime crepe come capelli che lo percorrevano longitudinalmente ma semmai per lo splendore, da tempo perduto, dei mesti colori. Se il funebre vaso faceva parte dello skyline casalingo e l’occhio poteva talvolta soffermarcisi, certamente mai nessuno dal momento della sua chiusura si era mai interessato al contenuto e dunque??? Nonostante ciò Lina aveva pensato, superando il disgusto di raccogliere le ceneri utilizzando delicatamente il suo pennello per la cipria e di rimetterle nell’urna, se ne sarebbero perse tra le fughe del parquet non più del 10%, l’equivalente di un braccio di zia Alfonsina, ma il grosso sarebbe tornato compatto ad aspettare il momento della resurrezione trionfale della carne. Solo allora la mancanza del braccio sarebbe stata notata, ma tutti sarebbero stati in quel frangente occupati a rifarsi il trucco e la cosa sarebbe passata inosservata. Ci si poteva stare. La caduta sul tappeto rendeva però il progetto impraticabile. Il folletto aspirò la vecchia zia in un attimo e dopo un breve trasporto senza troppe cerimonie del sacchetto in bagno lo sciacquone diede l’ultimo saluto alla taccagna. Pensò anche di lasciar cadere sull’acqua del fondo un petalo di rosa ma il senso del ridicolo ebbe il sopravvento.

Nei giorni seguenti Lina non staccava gli occhi di dosso al vaso per esaminare dalle varie prospettive possibili se fosse visibile ciò che solo lei sapeva esserci: una insanabile frattura che lo rendeva nella sostanza irrimediabilmente diverso da ciò che era stato. Provando un brivido che forse era il motivo per cui lo faceva, chiedeva ad Artemio, Livia e Andrea se vedessero qualcosa di strano. Né il marito, né i figli adolescenti notavano alcunché e si interrogavano tra loro sentendosi colpevoli su quale fosse il cambiamento in mamma che avrebbero dovuto cogliere. Passarono in rassegna l’abbigliamento, il taglio e il colore di capelli nonché lo smalto delle unghie, tutti i particolari su cui in genere davano prova di colpevole disattenzione verso di lei. I due maschi si raccomandavano soprattutto a Livia che normalmente segnalava a tutti i particolari per cui mostrare di default sorpresa e, alcune volte (per non esagerare perdendo di credibilità) entusiasmo. Il fatto che nessuno si accorgesse di nulla rassicurava moltissimo Lina che tuttavia serbava dentro di sé l’idea che il vaso all’apparenza perfetto fosse difettato in modo irrecuperabile.

Il vissuto della difettualità nascosta ma insanabile si diffondeva fino a coinvolgere lei stessa, la relazione col marito, tutta la famiglia. La mattina quando si rigirava nel letto in attesa di alzarsi le sembrava che il danno coinvolgesse l’universo intero, che tutto fosse semplicemente reincollato e celasse una frattura definitiva, orribile, irrecuperabile. Qualunque ulteriore intervento di restauro anche professionale cui aveva pensato non poteva riportare indietro il tempo: l’era del vaso rotto era iniziata lasciando per sempre alle spalle quella dell’integrità.

Nella sua ricerca di rassicurazioni e contemporaneamente di quel brivido eccitante che provava all’idea di essere scoperta si spingeva sempre oltre chiedendo a Ileana, la donna di servizio ex badante di Alfonsina, di lucidare energicamente l’urna sperando e temendo contemporaneamente e con la stessa intensità che le si sgretolasse tra le mani davanti alla famiglia riunita. Si sarebbe liberata del suo segreto e certamente la fantasia di Artemio detto “l’omnisciente” perchè non accettando di non sapere qualcosa, trovava spiegazioni pseudoscientifiche per ogni evento, avrebbe sicuramente spiegato l’assenza al suo interno delle ceneri della stronza vegliarda. L’idea di questa imperfezione profonda e irrimediabile, avrebbe detto poi il suo inutile psicoanalista, le ricordava l’irreversibilità del tempo che passa e dunque la sua perduta, forse sprecata gioventù.

Andrea, il più sensibile ai cambiamenti di umore della mamma, la sentiva così distante e assorta nel suo mondo interiore che iniziò a pensare che avesse un amante e nonostante gli sembrasse impensabile e disgustoso si mise a frugare nel suo cellulare e nella cronologia del suo computer. Se amante c’era doveva trattarsi di un restauratore o di un antiquario o di un qualche conduttore televisivo di trasmissioni per bambini tipo “Art attack” per i numerosi tutorial sul “bricolage di riparazione e manutenzione degli oggetti casalinghi e sulla resistenza dei materiali che aveva trovato.

Il trenta gennaio, giorno del loro anniversario di matrimonio che per come le cose stavano precipitando lasciava sospettare fosse l’ultimo da celebrare sotto lo stesso tetto, lo skyline di casa al risveglio appariva nettamente cambiato: sul camino al posto dell’urna c’era un meraviglioso centenario olivo bonsai ritorto e avvinghiato ad un masso intrappolato tra le sue radici. Artemio annunciò che aveva voluto trasformare quel promemoria di morte in un segno di vita acquistando un olivo bonsai della stessa età della zia e mischiando le sue ceneri alla terra del vaso. Ora la zia avrebbe avuto nuova vita e si sarebbe reincarnata nelle minuscole foglioline. Indugiando troppo a lungo con lo sguardo su Lina come a comunicargli un segreto disse che l’operazione per non sporcare l’aveva compiuta in garage ma il vaso era così sigillato e duro che aveva dovuto romperlo a martellate per recuperare le ceneri. Disse che sembrava di acciaio, aggiungendo un “incredibilmente” di troppo che Lina immaginò rivolto a lei. I cocci li aveva ammassati sotto il tagliaerba rotto e arrugginito che andava anch’esso buttato. Lina però sapeva che quei cocci erano difettati e avrebbero contaminato per colpa sua l’intera discarica di Malagrotta, tutta l’AMA e la stessa città eterna.

Il parroco Padre Isidoro, rispettoso delle regole, si rifiutò di celebrare in chiesa il funerale di una donna che tutti sapevano suicida e fu proprio L’AMA, il servizio comunale dei rifiuti ad occuparsi della cremazione e dello smaltimento delle ceneri considerato che nessuno le aveva richieste. Già il 30 gennaio dell’anno successivo entrarono in casa i nuovi inquilini che ritenendo il bonsai una violenza sulla natura spostarono la piantina in garage esattamente accanto al tagliaerba, l’avrebbero fatta buttare insieme a quei cocci dall’AMA appena possibile.

ADHD: gli esiti di una buona compliance al trattamento farmacologico

I risultati ottenuti da un recente studio sono sorprendenti e mostrano un aumento del 50% della probabilità di utilizzare antidepressivi nell’adolescenza in soggetti con ADHD quando la terapia con il metilfenidato nell’infanzia viene seguita con ottima aderenza.

 

Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è un’entità psicopatologica complessa e multifattoriale ed una delle più comuni diagnosi psichiatriche nei bambini e negli adolescenti, con una prevalenza stimata fra il 3,4% e il 7,2%.

Il trattamento comprende l’utilizzo a lungo termine di stimolanti, come il metilfenidato, comunemente conosciuto con il nome commerciale di Ritalin. L’utilizzo di questo farmaco, in aumento esponenziale negli ultimi anni, è diventato un interesse di salute pubblica sia per l’alto numero di prescrizioni che per la bassa compliance dovuta agli effetti collaterali e all’attitudine negativa dei genitori verso la terapia.

L’aderenza al trattamento può essere un fattore di protezione rispetto a future patologie?

Madjar e colleghi (2019), ipotizzando una relazione fra una buona aderenza al trattamento con il metilfenidato nell’infanzia, iniziato fra i 6 e gli 8 anni, e il minor utilizzo di antidepressivi nell’adolescenza, hanno svolto uno studio longitudinale della durata di 12 anni su un ampio campione di 6830 soggetti. I ricercatori hanno sviluppato questa ipotesi basandosi sulla ben documentata relazione multimodale fra ADHD e disregolazione emotiva. È stato poi scelto un campione di soggetti ad insorgenza precoce poiché vi sono importanti differenze cliniche relative all’età di onset, mentre, generalmente, gli studi longitudinali in quest’ambito non controllano in modo specifico questa caratteristica.

Contrariamente a quanto riportato in letteratura, i risultati mostrano tuttavia una tendenza opposta a quella prevista dai ricercatori, con un aumento del 50% della probabilità di utilizzare antidepressivi nell’adolescenza quando la terapia con il metilfenidato nell’infanzia veniva seguita con ottima aderenza.

Sono state date diverse interpretazioni relative al pattern emerso. È possibile, ad esempio, che i pazienti con una maggiore compliance presentassero forme più gravi del disturbo, che la diagnosi di ADHD derivi spesso dal non riconoscimento di disturbi d’ansia e depressivi nel bambino, che la buona riuscita della farmacoterapia porti a ricercare questo tipo di trattamento più avanti nella vita o che sia proprio il lungo utilizzo di metilfenidato la causa eziologica dei disturbi dell’umore in questa fascia di popolazione.

Sicuramente sono necessarie altre ricerche per definire il nesso causale di questa associazione. Lo studio mette comunque in luce importanti fattori di rischio presenti nella popolazione pediatrica affetta da ADHD, sottolineando come la diagnosi di questo disturbo, nonostante molto frequente, sia difficile ed eterogenea e che la terapia con stimolanti potrebbe presentare effetti collaterali anche a lungo termine.

Depressione e neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

Nel trattamento della depressione è importante indurre anche piccoli cambiamenti nella vita delle persone perché è così possibile facilitare alcune modificazioni sull’attività neurotrasmettitoriale e cambiamenti positivi a livello neurale che si traducono in un miglioramento della qualità della vita.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La depressione è una patologia caratterizzata da umore depresso e anedonia. Per il depresso tutto sembra aver perso valore e significato e la vita stessa non merita di essere più vissuta, prevale un senso di disperazione, vuoto, mancanza di piacere e motivazione nel fare le cose che prima destavano interesse e soddisfazione, scarsa energia e stanchezza. Le persone depresse, spesso lamentano anche problemi legati al sonno e all’appetito, scarsa concentrazione, e si sentono in un vortice di pensieri autovalutativi negativi e ripetitivi (ruminazione): si crea una sorta di spirale di pensieri a contenuto negativo, volti a raggiungere un picco di tristezza che, nel lungo periodo, diventa una condizione permanente. Quindi, la mente è bloccata in un turbinio di pensieri ricorsivi e svalutativi dai quali difficilmente si riesce a uscire in maniera autonoma.

Neuroscienze e depressione

Da un punto di vista neuropsicologico le aree principalmente coinvolte nella depressione sono 
le aree prefrontale, il cingolo anteriore e il sistema limbico, collegati da una serie di circuiti a essi correlati (Beevers, 2005).

La corteccia prefrontale è principalmente coinvolta nell’esecuzione delle funzioni superiori e nel controllo degli impulsi. Studi di neuroimaging rilevano che nella corteccia frontale dei depressi vi sia meno densità gliale (Havekes & Abel, 2017; Samara et al, 2018). Inoltre, la parte orbitofrontale laterale risulta essere esclusa dal meccanismo delle gratificazione determinando, di conseguenza, il senso di perdita e di delusione vissuti dai depressi. Questa area essendo anche coinvolta nel processamento della percezione di se stessi, nel depresso genera il senso di perdita personale e la scarsa autostima (Disner, Beevers, Haigh, & Beck, 2011).

Inoltre, la corteccia del giro cingolato anteriore dorsale è ipoattiva, quella rostrale, al contrario, è iperattiva. Queste attivazioni, dunque, deriverebbero dalla gestione dello stato affettivo che un depresso mette in atto in risposta alle richieste dal contesto ambientale (Elliott, Rubinsztein, Sahakian, & Dolan, 2002). Il giro cingolato anteriore stimola, a sua volta, il lobo frontale a intervenire nell’ulteriore elaborazione del processo emotivo, ma a causa dell’ipoattività lo stato emotivo non è risolvibile e permane l’umore depresso (Hamilton, & Gotlib, 2008).

Un altro sistema coinvolto è il sistema limbico, sede dell’affettività e delle emozioni (Redlich et al., 2018). Nei pazienti depressi si determina una disfunzione dell’ippocampo nell’elaborazione di risposte affettive adeguate al contesto ambientale, che spesso risultano inappropriate. Inoltre, l’amigdala è implicata nell’apprendimento e nella rievocazione di ricordi a contenuto emozionale, per cui un’eccessiva stimolazione da parte dell’amigdala delle aree corticali deputate all’elaborazione dei ricordi è alla base del continuo ruminare dei depressi (Keedwell, Andrew, Williams, Brammer, & Phillips, 2005). 

È stato individuato un modello integrato, strutturale e funzionale, della depressione secondo il quale una patologia neurologica oppure fattori genetici possono determinare una disfunzione di una o più componenti neuroanatomiche dei circuiti implicati nella genesi della depressione e indurre quindi una sindrome depressiva maggiore (Victor, Furey, Fromm, Öhman, & Drevets, 2010). 
Nella depressione, ciò che risulta non funzionare bene, dunque, è la comunicazione e l’interazione tra la corteccia prefrontale e il sistema limbico: la corteccia prefrontale, dovrebbe regolare l’emotività e l’impulsività innescate dal sistema limbico. Quindi, una riduzione di connettività nelle aree coinvolte nei meccanismi di formazione e rievocazione della memoria, quali il lobo temporale mediale e il giro paraippocampale, non consente il normale svolgimento delle funzioni e da qui si genera la ridotta capacità di concentrarsi sui ricordi felici e la focalizzazione solo su ricordi tristi tipici della depressione (Mayberg, 2003).

La depressione, infine, deriverebbe da due processi chiave, il primo relativo ai bias cognitivi ed il secondo al diminuito controllo cognitivo (Disner, Beevers, Haigh, & Beck, 2011). Il primo rispecchia un processo bottom-up che origina dall’iperattività del sistema limbico che poi proietta l’informazione alla corteccia frontale e prefrontale. Si ottiene, di conseguenza, una risposta funzionale agli stimoli emotivi amplificata, che influenza la capacità di interpretare le informazioni. Il secondo deriverebbe invece da un’ipoattività del sistema top-down regione-specifico volto a inibire l’attivazione eccessiva delle aree cerebrali relative al processamento emotivo e quindi permetterebbe la perseverazione dell’attività bottom-up disfunzionale (Siegle, Steinhauer, Thase, Stenger, & Carter, 2002).

Neurotrasmettitori

L’insorgere della depressione dipende anche dall’azione di un numero molto ampio di neurotrasmettitori, che generalmente sono rilasciati dal cervello e svolgono diversi tipi di funzioni (Korb, 2015). Quando alcuni di questi neurotrasmettitori non funzionano come dovrebbero si possono osservare alcuni sintomi tipici della depressione. In particolare, la depressione è determinata dalla presenza di bassi livelli di noradrenalina, serotonina o dopamina. Quindi, agire in tal senso agevola la risoluzione del problema (Redlich, et al., 2018).

Uno dei sintomi più comuni della depressione è la scarsa qualità del sonno. Un sonno non riposante peggiora il tono dell’umore, diminuisce la soglia del dolore e interferisce con i processi di apprendimento e memoria (Havekes & Abel, 2017). Di conseguenza, si è meno concentrati, più irritabili e marcatamente stanchi. A livello cerebrale, la mancanza di sonno ha delle ripercussioni negative a livello della corteccia prefrontale e dell’ippocampo, e scompensa i livelli di serotonina, di dopamina e di noradrenalina.

Conclusioni

Per concludere, se si apportassero dei piccoli cambiamenti nella vita si otterrebbero, di conseguenza, delle modificazioni sull’attività neurotrasmettitoriale e cambiamenti positivi a livello neurale, che si traducono in modificazioni dell’attività elettrica del cervello. Questi cambiamenti determinano un miglioramento della qualità della vita, ovvero maggiore livelli di serotonina.

Quando l’ippocampo riconosce che il contesto è cambiato, allora stimola la corteccia prefrontale a trovare nuove risposte e il circuito, la spirale negativa, inizia a invertire marcia producendo, a catena, uno stato di nuovo benessere. Tutto questo è possibile ottenerlo grazie anche all’ausilio della psicoterapia e, in alcuni casi, dei farmaci.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Studiare Psicologia alla Sigmund Freud University: online il bando per le borse di studio riferite all’anno accademico 2019/2020

Sono online i bandi per l’assegnazione delle borse di studio per i corsi di Laurea Triennale e Magistrale in Psicologia. Occorrerà verificare di essere in possesso dei requisiti richiesti, e presentare richiesta entro il 6 settembre (corso triennale) oppure entro il 13 settembre (corso magistrale) 2019.

 

Al fine di agevolare gli studenti meritevoli ammessi ai corsi di Laurea in Psicologia, la SFU – Sigmund Freud University di Milano prevede l’assegnazione di 6 borse di studio per il corso triennale e 4 borse di studio per il corso magistrale.

Per candidarsi ai bandi occorre verificare di possedere tutti i requisiti richiesti e presentare domanda entro le scadenze indicate:

  • 06 settembre per il Corso Triennale
  • 13 settembre per il Corso Magistrale.

Laurea in Psicologia: i bandi delle borse di studio

La SFU Sigmund Freud University prevede l’assegnazione di 3 borse di studio per l’esonero totale e 3 borse di studio per l’esonero parziale dal pagamento della retta annua base del primo anno di Corso di Laurea Triennale.

LEGGI IL BANDO – Laurea in Psicologia TRIENNALE

La SFU prevede inoltre l’assegnazione di 2 borse di studio per l’esonero totale e 2 borse di studio per l’esonero parziale dal pagamento della retta annua base del primo anno di Corso di Laurea Magistrale

LEGGI IL BANDO – Laurea in Psicologia MAGISTRALE

 

Guarda sotto la superficie: i corsi di subacquea che ci insegnano il valore della diversità

Corsi di subacquea per bambini (dagli 8 anni in su) con sindrome di Down, sindrome dell’X Fragile, autismo, deficit sensoriali, alterazione della comunicazione, paralisi cerebrale infantile o altre forme di ritardo mentale. Anche gli adulti con disabilità sono i benvenuti e, naturalmente, vengono formati gruppi omogenei per età, in modo da favorire la socialità.

 

Guarda sotto la superficie: non lasciarti sfuggire la qualità o il valore intrinseco delle cose

 

Così scriveva Marco Aurelio, filosofo e imperatore romano, nell’opera Colloqui con se stesso, nel 180. Le sue sono parole che non dovrebbero invecchiare mai. Fermarsi all’apparenza è l’errore che, a volte, commettiamo quando abbiamo di fronte una persona con disabilità. Per mancanza di conoscenza tendiamo a caratterizzare quella persona sulla base, esclusivamente, della sua “diversità”.

Per abbattere la diffidenza e, soprattutto, per rendere la vita del disabile uguale a quella di tutti gli altri, è nato un corso di subacquea, per adesso unico in Italia, per bambini e adulti che soffrono di disabilità fisica o psichica.

Il merito della brillante idea è di Aqua Project Firenze, un’associazione di volontariato del capoluogo toscano, formata da un’équipe di istruttori subacquei e psicologi.

Disabilità e subaquea: Aqua Project Firenze

Il corso ha durata di due mesi, si svolge tutti i giovedì nella piscina del CTO dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Careggi (Firenze) e si conclude con un’immersione in mare, ad Antignano (Livorno). L’immersione in acque libere, seppure a profondità minima, richiede ad ogni ragazzo un impegno particolare per la completa diversità dall’abituale ambiente, sopra e sotto l’acqua, i pesci, la corrente, la temperatura, le distrazioni.

Pensare di immergere un bambino con disabilità psichica con muta e bombole in piscina può sembrare un’utopia. Non è così. È dalla proposta di Luca Fiaschi, oggi responsabile sub del progetto, dal titolo “Tutti sott’acqua”, che molti disabili si sono avvicinati all’attività subacquea, con entusiasmo e ottenendo soddisfazioni.

Ci piace pensare alla disabilità – sono convinti i promotori dell’iniziativa – come ad un qualcosa in più che appartiene alla persona, ma che non fa la persona, non la determina e non la definisce in tutto quello che è.

Il metodo dell’associazione Aqua Project Firenze è stato apprezzato anche dalla Regione Toscana, con la quale, da tempo, è in atto una convenzione. “Tutti sott’acqua” nasce nel 2008, soltanto con sei ragazzi, come forma di sperimentazione che mescola fasi di gioco e di lavoro, vista come riabilitazione psico-educativa attraverso la subacquea (PES, Percorsi psico-educativi subacquei).

Oggi, invece, si tratta di un metodo consolidato e il numero di partecipanti, ogni anno, è in crescita. La subacquea diventa, così, veicolo di integrazione sociale, sviluppando le dinamiche psicoeducative del lavoro di gruppo, per arrivare ad un miglioramento delle condizioni di vita, come confermano i genitori di tanti iscritti al corso.

I professionisti di Aqua Project Firenze accolgono bambini – dagli 8 anni in su – con sindrome di Down, sindrome dell’X Fragile, autismo, deficit sensoriali con alterazione della comunicazione, paralisi cerebrale infantile, o altre forme di ritardo mentale. Anche gli adulti con disabilità sono i benvenuti e, naturalmente, vengono formati gruppi omogenei per età, in modo da favorire la socialità.

Il percorso in piscina prevede varie fasi, a partire dalla presa di confidenza con l’acqua, dal divertimento, fino ad arrivare ad usare le attrezzature: i giovani indossano la muta, le pinne, impugnano la zavorra, e sono pronti per il tuffo in mare, sotto gli occhi attenti degli accompagnatori (ce ne sono due in acqua per ogni utente ed un supervisore sulla barca). Il team è composto da: Luca Fiaschi, Alberto Simonti, Giovanni Sereni, istruttori subacquei, Giulia Nuccioni e Lara Zannoni, psicologhe dell’età evolutiva e disabilità, Camilla Bing, Marco Moresi e Vincenzo Fundarò, accompagnatori.

È un percorso nuovo e speciale, – sostengono gli operatori – dove la diversità di ciascuno sfuma, lasciando spazio alle potenzialità di tutti: di noi istruttori e psicologi, come guide pronte a rispondere ed interpretare le esigenze di ciascuno, e dei ragazzi, sempre disposti a mettersi in gioco con i loro tempi e le loro particolarità, in un contesto di apprendimento e scambio continuo.

L’iniziativa è lodevole e ha già ottenuto buoni risultati: esperti e genitori notano un aumento dell’autostima, dell’autonomia e dell’espansività dei ragazzi. L’unione di subacquea adattata e disabilità psichica è stata per Aqua Project Firenze una scommessa che si può dire vinta.

Traditi dal cuore: la dipendenza affettiva raccontata da Luca Napoli – Recensione del libro

In Traditi dal cuore, Luca Napoli cerca di rispondere ad una tra le questioni da secoli oggetto di discussioni e riflessioni da parte dell’umanità: che cos’è l’amore e quando diventa amore malato, dipendenza affettiva?

 

Ci hanno fatto credere che ognuno di noi è la metà di una mela
 e che la vita ha senso solo quando riusciamo a trovare l’altra metà. 
Non ci hanno detto che nasciamo interi, che mai nessuno nella nostra vita
 merita di portarsi sulle spalle la responsabilità di 
completare quello che ci manca: si cresce con noi stessi. 
Se stiamo in compagnia è semplicemente più gradevole.

John Lennon

 

Possiamo definirci esseri totalmente indipendenti? Anche quando crediamo di esserlo, in qualche misura, dipendiamo dagli altri. Ricerchiamo approvazione, empatia, desideriamo conferme e ammirazione da parte degli altri. Tutto ciò per ricevere sostegno e per regolare la nostra autostima. Ma quando la dipendenza dagli altri diventa patologica? Dov’è il confine oltre il quale si accetta una quotidiana violenza psicologica o fisica; si sopportano maltrattamenti e umiliazioni? In che momento decidiamo di annullare la nostra individualità per dedicarci totalmente all’Altro?

La dipendenza affettiva rientra nelle “new addiction”, o anche dette dipendenze senza sostanze. All’interno di questo tipo di dipendenze, l’individuo non ricerca una sostanza esterna a lui ma è dipendente da un oggetto o da una persona con la quale stabilisce una condizione psicologica di esclusività e di legame in grado di modificare temporaneamente lo stato di dolorosa sofferenza psichica.

Per quanto questo disturbo non sia ancora presente in nessun manuale diagnostico, i sintomi sperimentati da coloro che ne soffrono sono ben noti ai clinici, oltre ad essere gli stessi provati dai dipendenti da sostanze. Ciò che il soggetto percepisce come amore diventa una sorta di droga e, conseguentemente, egli proverà, in primis, una sensazione di piacere nel momento in cui sarà insieme al partner; sofferenza, poi, nei periodi di distacco. Il soggetto, inoltre, finirà con il ricercare “dosi” sempre più massicce di tempo da poter dedicare al partner, finendo con il ridurre il tempo dedicato a se stesso e ai propri contatti con il mondo esterno, altro dalla coppia.

Traditi dal cuore: un libro che racconta la dipendenza affettiva

In Traditi dal cuore, Luca Napoli cerca innanzitutto di rispondere ad una tra le questioni da secoli oggetto di discussioni e riflessioni da parte dell’umanità: che cos’è l’amore? Prendendo come primo riferimento il Simposio di Platone, l’autore fornisce diverse visioni del concetto di amore, terminando col chiedersi, attraverso le parole di Aristofane, “perché l’uomo sia quasi condannato a passare la vita a cercare la metà mancante della propria sfera”. Alcibiade ci insegna che l’amore è reciprocità “io vorrei qualcosa che tu hai ed esisto anche senza possedere ciò, ma che bramo e desidero”. Il legame d’amore, dunque, coinvolge il soggetto che è anche l’oggetto di desiderio. Rappresenta una completezza ideale alla quale auspichiamo e l’amore è il raggiungimento di quella completezza.

Ma che succede quando si vuole solamente fuggire dalla propria mancanza e tapparla con qualcosa che possiede l’amato? Il rischio è quello di vedere svanire la propria soggettività, la quale scompare gradualmente nell’ombra del proprio oggetto di desiderio.

È proprio alla luce di queste riflessioni che diventa possibile definire la dipendenza affettiva, la quale diventa una forma di amore patologica caratterizzata da un’assenza di reciprocità nella vita affettiva. In questo caso la vicinanza e il legame con un’altra persona, spesso assente o sfuggente, diventa per il dipendente lo scopo unico e ultimo della propria esistenza, nonché il solo modo per riempire i propri vuoti affettivi. Ciò comporta un costante stato di tensione, perché l’Altro diventa questione di vita o di morte: i bisogni individuali dell’individuo sono riposti nel dimenticatoio, negati e annullati all’interno di un legame a senso unico.

Da cosa nasce la dipendenza affettiva e come superarla?

Secondo l’autore di Traditi dal cuore, le radici di questo disturbo potrebbero essere influenzate dalle modalità individuali di attaccamento, utili per la costruzione del concetto di sé. In base al tipo di attaccamento, il soggetto, avrà un livello più o meno buono di autostima e autoefficacia, sarà più o meno capace di fare affidamento su di sé e sugli altri e potrà considerandosi più o meno degno di amore e di importanza. In età adulta, tutti questi fattori saranno determinanti nell’instaurare delle relazioni amorose funzionali; questa funzionalità nei rapporti sentimentali sarà proprio quello che mancherà al dipendente affettivo.

Ma il principale scoglio nella risoluzione della dipendenza affettiva è proprio ammettere di avere un problema. Il confine tra ciò che in una coppia è normale e ciò che è dipendenza è molto labile. La spinta verso il cambiamento arriva nel momento in cui ci si trova a un passo dal baratro e si sperimenta profonda disperazione. Ed è proprio in questo momento che entra il gioco il supporto psicologico. Alla ricerca delle possibili e molteplici radici della dipendenza affettiva, segue l’esposizione da parte dell’autore di un modello di intervento terapeutico per trattare questo tipo di dipendenza.

Per via delle caratteristiche potenzialmente comuni, il modello di intervento per la dipendenza affettiva combacia inizialmente con il percorso terapeutico usato per la tossicodipendenza. A prescindere dal tipo di psicoterapia e setting, il trattamento di una dipendenza affettiva deve necessariamente seguire tre fasi:

  1. Consapevolezza: presa di coscienza di essere coinvolti in una relazione sbagliata;
  2. Richiesta d’aiuto: bisogno di avere un supporto esterno ed esperto;
  3. Recupero: fase di remissione che richiede al dipendente motivazione e impegno nel perseguire la guarigione.

Dopo aver provveduto a una spiegazione chiara e dettagliata di queste tre fasi, Luca Napoli passa in rassegna il trattamento di suddetta patologia dal punto di vista di vari approcci psicoterapeutici: l’approccio psicodinamico, punta a migliorare l’autoconsapevolezza e a diminuire l’influenza del passato sul presente, oltre a conferire un livello di insight; la psicoterapia cognitivo-comportamentale risulta utile per rompere il ciclo del pensiero malsano e negativo e per imparare nuovi comportamenti e nuove abilità; l’approccio umanistico si focalizza principalmente sull’empatia per arrivare alla comprensione del sé ideale e della discrepanza con il sé attuale, migliorando inoltre l’autostima e l’educazione emotiva del dipendente affettivo; infine, la bioenergetica pone al centro il corpo utilizzando esercizi e tecniche di sblocco energetico e di respirazione.

L’autore, infine, descrive in maniera dettagliata la dipendenza affettiva nella pratica clinica, soffermandosi sul ruolo dell’attaccamento e le ferite dolorose derivanti da esso, le quali suscitano nell’individuo specifici bisogni affettivi da appagare all’interno dei rapporti caratterizzati da dipendenza affettiva. Infatti, il modo d’amare che ci hanno insegnato in passato sarà la caratteristica di ogni nostro rapporto futuro.

Nei capitoli conclusivi di Traditi dal cuore, Luca Napoli propone un trattamento consistente in “otto passi verso il cambiamento”, caratterizzato da: focalizzazione sulle proprie emozioni, tecniche sull’attaccamento, esercizi di meditazione e fantasie guidate, esercizi corporei, esercizi sull’assertività e sull’autostima e, infine, l’abbandono delle “emozioni sequestranti”.

Ma non lasciatevi tradire! Il trattamento degli otto passi così descritto è molto riduttivo, pertanto non vi resta che aprire le pagine di Traditi dal cuore e farvi rapire da questo manuale esaustivo, completo e stimolante.

Respira prima di rispondere!

Un recente studio del gruppo di lavoro di Noam Sobel del dipartimento di neurobiologia del Weizmann Institute of Science, pubblicato su Nature Human Behaviour, mostra come le persone, poco prima di cominciare compiti cognitivi matematici, lessicali e visuo-spaziali, spontaneamente abbiano la tendenza ad inspirare.

 

Questo studio inoltre ha messo in luce come il processamento neurale che consente l’esecuzione del compito sia differente sulla base dell’inspirazione o dell’esalazione d’aria: una differenza che va ad incrementare la prestazione.

Respirazione: molto più che olfatto

Nell’evoluzione del cervello dei mammiferi, l’olfatto sembrerebbe essere il senso più antico, il primordiale: infatti le regioni cerebrali che sottintendono questo senso quali il bulbo olfattivo e la corteccia piriforme sono state le prime a svilupparsi dal punto di vista evolutivo e sono quelle che hanno ricevuto il primo impulso e una maggiore estensione nel corso dell’encefalizzazione (Rowe, Macrini & Luo, 2011).

In linea con le evidenze raccolte da Rowe (2011), è stato ipotizzato che l’elaborazione olfattiva, a cui è stato attribuito il primato nell’evoluzione cerebrale, potrebbe aver modellato e dato impulso anche allo sviluppo di altre aree cerebrali tramite l’inalazione di aria, andando ben oltre l’esclusivo sviluppo della sensibilità olfattiva.

Secondo questa ipotesi evolutiva, le molecole contenute nell’aria, attraversando la cavità nasale e il suo epitelio colmo di recettori olfattivi, avrebbero determinato un incremento di informazioni sensoriali al cervello, sottoforma di segnali nervosi, favorendo così la crescita di nuovi neuroni e potenziando la crescita e la sincronizzazione di connessioni sinaptiche in altre aree cerebrali associate, che si stavano formando e che si stavano preparando per il processamento delle informazioni appena ricevute.

Le inalazioni nasali pertanto avrebbero funto non solo da input per la neurogenesi ma soprattutto avrebbero preparato le aree corticali all’elaborazione, non esclusivamente olfattiva, di nuove informazioni, generando di conseguenza dei link funzionali e delle connessioni tra sistema olfattivo e altre aree non inerenti all’ olfatto (Rowe, Macrini & Luo, 2011).

Respirazione prima di compiti impegnativi: lo studio

Partendo da queste considerazioni, Sobel e colleghi (2019) hanno voluto indagare l’ipotesi per la quale le inalazioni nasali, cioè l’inspirare aria, possa influenzare il processamento di informazioni non olfattive nelle aree corticali sottese alle più alte funzioni cognitive; come già sottolineato dallo studio di Herrero, Khuvis e colleghi (2017) nel quale il controllo volontario della respirazione nasale aveva modulato la coerenza delle oscillazioni neurali nel circuito frontotemporale incrementandola e determinando una maggiore consapevolezza enterocettiva nei soggetti sperimentali o dallo studio di Brown & Gerbard (2005) sulla respirazione nell’ambito della meditazione.

Per testare gli effetti dell’inalazione nasale in specifici compiti cognitivi e verificare la loro ipotesi, i ricercatori del Weizmann Institute of Science hanno sottoposto 31 partecipanti a diversi compiti cognitivi di natura matematica (i soggetti dovevano giudicare la correttezza delle soluzioni di diverse equazioni), lessicale (giudicare se le parole comparse nello schermo avessero un significato semantico) e visuo-spaziale (scegliere tra due forme geometriche tridimensionali quella che potrebbe effettivamente esistere nella realtà).

Durante tutta l’esecuzione del compito, a ciascun partecipante è stato misurato il flusso d’aria inspirato tramite una cannula nasale collegata ad uno spirometro, senza che essi fossero a conoscenza del fatto che le loro inspirazioni venissero registrate per una ragione specifica (Perl, Ravia, Sobel, 2019).

Durante l’esecuzione dei compiti da parte dei soggetti, i ricercatori si sono accorti che questi spontaneamente, un attimo prima di iniziare il compito schiacciando il bottone di avvio, in modo significativo e per tutti e tre i compiti sperimentali tendevano ad inspirare e che vi fosse un incremento del flusso d’aria coinciso tra l’altro con l’esatto momento in cui essi iniziavano i vari compiti.

Per tale ragione, i ricercatori hanno voluto indagare se vi fosse un’associazione tra l’inalazione spontanea e la prestazione cognitiva chiedendo specificatamente ai soggetti di inspirare ed espirare a comando e se la prima si riflettesse in qualche modo nell’attività cerebrale, misurata tramite elettroencefalogramma.

Respirazione, cervello e cognizione: molte prospettive ancora aperte

Lo studio qui descritto (Perl, Ravia, Sobel, 2019) ha evidenziato come nel gruppo di soggetti, ai quali era stato chiesto di espirare aria prima di iniziare il compito, vi fosse un’accuratezza significativamente peggiore per il compito visuo-spaziale rispetto al gruppo che al contrario era stato istruito a inspirare al momento di iniziare e che come le prestazioni dell’intero gruppo sperimentale fossero in linea con specifiche fasi respiratorie.

In particolare è stato osservato come la prestazione nel compito visuo spaziale fosse migliore durante l’inalazione, peggiore durante l’espirazione e migliore quando inalavano di nuovo, suggerendo ai ricercatori che questo andamento respiratorio riscontrato avesse in qualche modo un impatto sul comportamento dei soggetti.

In aggiunta a ciò, è stata ravvisata una differenza consistente nell’attività cerebrale soprattutto negli intervalli temporali tra un’inalazione ed un’espirazione a carico di regioni non limbiche e non direttamente implicate nel sistema olfattivo, come se l’inalazione, oltre a trasportare un maggiore apporto di ossigeno al cervello, lo preparasse in toto all’arrivo dell’informazione per permettere a questa di essere elaborata e, una volta acquisita, è stato osservato come l’inalazione ne ottimizzi il processamento neurale in specifici pattern cerebrali implicati nel compito cognitivo (Perl, Ravia, Sobel, 2019).

In conclusione, gli autori dello studio precisano che, nonostante le numerose limitazioni presenti nel disegno sperimentale e nello metodologie utilizzate, è stato possibile mettere in luce un ulteriore meccanismo che consente l’interazione tra fasi respiratorie, cervello e cognizione, indicando un promettente sviluppo di questa anche per l’apprendimento e non solo per la riduzione dello stress, del dolore cronico o dell’ansia.

I risultati ottenuti da Sobel e colleghi (2019) infatti suggeriscono un miglioramento prestazionale soprattutto durante le fasi di inalazione e ciò potrebbe apportare degli avanzamenti per l’uso di tecniche di respirazione e di controllo volontario della stessa per problematiche relative all’attenzione e all’apprendimento

Stereotipi e pregiudizi nei bambini. Origini del fenomeno e strategie di intervento a scuola

“Maestra io vicino ad Abdul non ci voglio stare, perché è nero e puzza!” “Maestra ma perché gli arabi vogliono invaderci? Io li odio perché non vogliono farci più credere a Gesù”

 

E’ più facile spezzare un atomo che un pregiudizio.
(Albert Einstein)

 

“Maestra io vicino ad Abdul non ci voglio stare, perché è nero e puzza!” “Maestra ma perché gli arabi vogliono invaderci? Io li odio perché non vogliono farci più credere a Gesù”. Spaccati di vita quotidiana, all’interno di una classe terza elementare. I casi come questi sono rari, per fortuna, ma esistono e purtroppo sono in continuo aumento. E’ vero che le caratteristiche delle società e i relativi cambiamenti si riflettono nello psichismo del singolo, come dimostrato già all’inizio del ‘900 dagli studi di Linton e Kardiner (Kardiner, 1973), e che stiamo vivendo in un’epoca segnata dall’odio verso il diverso, soprattutto se nero e povero, ma è altresì innegabile che fenomeni di razzismo ci sono sempre stati. Cosa sta cambiando allora? A nostro avviso, il fattore più preoccupante è che tali fenomeni si stiano diffondendo sempre più anche tra i bambini, come dimostra anche un recente fatto di cronaca avvenuto in una scuola di Gerenzano (VA), dove ad una bambina di colore è stato detto “Con te non gioco perché sei nera, non ti prendo per mano perché sei sporca”.

Ma cerchiamo di affrontare il problema con ordine.

Stereotipi e pregiudizi: le basi del razzismo

Innanzitutto che cos’è il razzismo? Il razzismo è un fenomeno che si basa sull’idea, scientificamente errata, che esistano delle differenze biologiche tali per cui alcune razze possono essere definite superiori a delle altre; tale ideologia è sempre stata usata storicamente per giustificare forme di oppressione e discriminazione nei confronti degli stranieri.

Il concetto di razza, studiato nel tempo (Linneo, 1735) oggi viene categoricamente disconfermato: non si può definire la differenziazione della razza umana, come avviene per gli animali, quindi si è sostituito al concetto di razza quello di etnia, che invece sposta l’accento su una differenziazione culturale e antropologica tra i gruppi umani, più che biologica e genetica.

Ma cosa porta un gruppo ad essere razzista nei confronti di un altro? Il fenomeno si può spiegare considerando i processi mentali che influenzano la percezione degli altri e che portano alla formazione di stereotipi e pregiudizi.

Con pregiudizio intendiamo la tendenza a considerare in maniera ingiustamente sfavorevole le persone appartenenti a un determinato gruppo sociale; a questo concetto si lega strettamente anche quello di stereotipo, una credenza radicata che porta gli individui a giudicare malamente un altro gruppo o un’altra categoria sociale (Mazzara, 1997). Lo stereotipo è un insieme di rappresentazioni mentali che contengono la nostra conoscenza, le nostre credenze e aspettative circa un gruppo sociale. Essi assomigliano molto a degli schemi mentali, poiché utilizzandoli, noi non facciamo altro che adoperare una scorciatoia mentale affidandoci all’ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria. Lo stereotipo può degenerare in pregiudizio e portare alla valutazione dei soggetti in base alla loro appartenenza a gruppi percepiti come significativamente diversi dal nostro, sulla base di voci e/o opinioni comuni e quindi di generalizzazioni (Arcuri, 1995).

Ma come fanno pregiudizi e stereotipi a diffondersi nella società, portando alla diffusione di veri e propri fenomeni di razzismo anche tra i più piccoli? Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto la Teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1999), secondo cui c’è una parte della nostra identità, l’identità sociale appunto, che deriva dal fatto di appartenere a un determinato gruppo (ingroup), che quindi va valorizzato e categorizzato positivamente, anche al fine di aumentare la propria autostima, in contrapposizione ad altri gruppi (outgroup), formati da individui che non hanno le caratteristiche dei membri dell’ingroup e che quindi vanno connotati in modo negativo, sminuiti e svalorizzati.

Stereotipi e pregiudizi nei bambini: tra sviluppo cognitivo e cause ambientali

Questi processi si attivano molto precocemente: molti studi degli ultimi decenni, che si sono occupati di indagare la questione dei pregiudizi e degli stereotipi in età evolutiva, infatti, hanno dimostrato che, al netto delle influenze sociali, sin dai primissimi anni di vita i bambini iniziano a sviluppare un senso di appartenenza all’ingroup che genera pregiudizi e stereotipi verso l’outgroup (Arcuri & Cadinu, 1998). Tutto questo sarebbe legato ai normali processi di categorizzazione e alle scorciatoie cognitive insite nello sviluppo cognitivo e già messi in luce da Piaget (Piaget, 1999). Verso i 7 anni, quando i bambini giungono a uno stadio del pensiero più flessibile e meno legato ai principi di economizzazione, la rigidità e la persistenza dei pregiudizi e degli stereotipi inizia ad allentarsi e ad influenzare meno le credenze e le azioni dei bambini, che iniziano a valutare le differenze anche come fattori positivi per discriminare i soggetti e conoscere cose nuove.

Al di là della dimensione cognitiva dobbiamo però anche considerare che i bambini assorbono tutto ciò che accade nel loro ambiente, mezzi di comunicazione e gruppo dei pari compresi, ed è innegabile che anche questo abbia delle ricadute su pensieri, atteggiamenti e comportamenti. Per evitare che crescano rafforzando i loro pregiudizi è importante, quindi, che gli adulti di riferimento (famiglia, insegnanti, educatori) siano un buon esempio, sia a livello di dialogo che di comportamento e che intervengano immediatamente di fronte agli atteggiamenti discriminanti e scorretti dei bambini. In una società come la nostra, sempre più globalizzata e multietnica, è fondamentale educare al rispetto della diversità. Per questo si dovrebbe parlare di razzismo ai bambini: bisognerebbe “sfruttare” la loro curiosità nei confronti di ciò che è diverso, facendo nascere in loro la voglia di aprirsi alle diversità attraverso la scoperta del mondo circostante.

Stereotipi e pregiudizi: come combatterli a scuola per sconfiggere il razzismo

Incoraggiare bambini e ragazzi ad assumere la prospettiva di un individuo appartenente ad un gruppo stigmatizzato e ad empatizzare con lui, può portare ad una riduzione del pregiudizio, per le generazioni future, nei confronti dell’intero gruppo e all’attuazione di comportamenti di aiuto.

Siccome nell’età scolare la dimensione del gruppo dei pari è di grande importanza, a scuola si possono proporre diverse attività collegiali per riflettere sul tema: partendo dalla lettura di una storia o di un fatto di cronaca, in base all’età dei bambini, si può attivare un circle-time o un brainstorming, in cui i bambini a turno esprimo il proprio parere sull’argomento, mentre l’adulto interviene solo come moderatore in caso di necessità. E’ importante ricordare che la modificazione del comportamento è molto più efficace quando accompagnata dalla riflessione e dal dialogo, piuttosto che attraverso la sterile imposizione di norme.

Per altre attività si può sfruttare il cooperative learning, per cui, ad esempio, i bambini divisi in gruppi ricercano usanze e tradizioni dei paesi del mondo per poi presentarli alla classe; questo tipo di lavoro sfrutta molto la curiosità dei bambini, di cui sono per natura molto dotati, e soprattutto nelle classi dove sono presenti bambini stranieri, aiuta l’inclusione, facilita i bambini a conoscersi meglio e a cementificare l’identità di classe.

Insegnare, quindi, la diversità ai bambini come naturale e necessaria può essere il modo migliore per cercare di superare o quantomeno arginare i pregiudizi e gli stereotipi.

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