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Non giudicare un libro dalla sua copertina: l’importanza dell’immagine corporea nell’epoca moderna

Viviamo in un’epoca dove la bellezza e l’apparenza sembrano essere gli unici ideali da perseguire, spingendoci alla ricerca di una perfezione difficile da conquistare.

Massimiliano Padovani e Camilla Rugi

 

Ci troviamo cosi, sopraffatti da esercizi estenuanti in palestra, dalla conduzione di diete malsane, dall’acquisto di prodotti di bellezza, dall’utilizzo di filtri per le immagini sui social network e per i più “fortunati” dall’utilizzo della chirurgia estetica.

Ma è davvero così importante raggiungere questa innaturale perfezione? Cosa spinge le persone a sentire l’esigenza di doversi adeguare ad un’immagine omologata che non gli appartiene? Perché è importante essere attraenti e ricevere conferma dagli altri? Perché ci sentiamo tanto sbagliati se la nostra immagine corporea non rispecchia le norme sociali di bellezza? Ma soprattutto, perché valutiamo positivamente chi persegue certi ideali?

Personalità e Immagine Corporea: qual è il legame?

La letteratura scientifica ha a lungo suggerito una forte connessione tra personalità e peso corporeo.

Le persone che ottengono punteggi elevati di coscienziosità, per esempio, tendono ad avere un peso più basso (Sutin, Ferrucci, Zonderman, & Terracciano, 2011) e hanno un rischio a lungo termine inferiore di sviluppare obesità (Jokela et al., 2013); mentre le persone con livelli più elevati di nevroticismo tendono ad avere emozioni più negative rispetto ai loro corpi (Armon, Melamed, Shirom, Shapira, & Berliner, 2013).

Inoltre, gli individui che hanno livelli più elevati di nevroticismo mostrano atteggiamenti più negativi verso l’obesità, maggiore paura del grasso, parlano negativamente del loro corpo agli amici e sono più sensibili al giudizio circa il peso (Allen, Vella, Swann, & Laborde, 2018; Allen & Walter, 2016; Sutin & Terracciano, 2016).

Un recente studio portato avanti dai ricercatori della Florida State University suggerisce che i 5 tratti di personalità di un individuo (Big Five) – Coscienziosità, Gradevolezza, Apertura mentale, Nevroticismo ed Estroversione – siano direttamente correlati alle loro convinzioni circa il corpo degli altri e sui modi in cui tali convinzioni sono espresse nelle interazioni sociali (Sutin, & Terracciano, 2019).

Questi risultati sono stati raggiunti grazie allo studio condotto da Sutin e Terracciano (2019) che hanno intervistato 3.099 donne. I risultati riportano che un livello maggiore di nevroticismo predice atteggiamenti più negativi riguardo il peso corporeo, mentre un livello maggiore di coscienziosità predice atteggiamenti e comportamenti più positivi rispetto al peso. Non solo, dalle ricerche è stato possibile osservare una relazione significativa tra la coscienziosità e la paura del grasso corporeo.

Pertanto, anche le persone obese o in sovrappeso, che possiedono questo tratto, manifestano poca tolleranza verso il grasso, poiché una delle caratteristiche della coscienziosità è proprio quella di adeguarsi alle norme della società.

Immagine corporea e personalità: giudichiamo in base alla bellezza

Recenti ricerche hanno riportato che quando incontriamo nuove persone, le nostre prime impressioni sulla loro personalità possono dipendere, almeno in parte, dalla forma del loro corpo.

A tal proposito merita attenzione uno studio condotto da Hu, Parde, Hill, Mahmood e O’Toole (2018) dell’Università del Texas. Tale studio sostiene che le persone deducano un’ampia gamma di tratti della personalità semplicemente guardando le caratteristiche fisiche di un’altra persona.

Gli stereotipi basati sulla forma del corpo possono contribuire nel modo in cui giudichiamo e interagiamo con nuovi conoscenti ed estranei. Perciò, comprendere questi pregiudizi è importante per considerare come formiamo le prime impressioni.

Ai partecipanti allo studio (76 studenti universitari) è stato chiesto di osservare una serie di modelli di corpi maschili e femminili, di varie dimensioni.

Dai risultati è emerso che associavano modelli corporei più robusti a tratti più negativi, come essere pigri e incuranti; mentre modelli corporei più snelli a tratti più positivi, come essere sicuri di sé ed entusiasti.

I corpi classicamente femminili (ad esempio, a forma di pera) e maschili (ad esempio, con le spalle larghe) venivano associati a tratti “attivi”, come essere litigiosi, estroversi e irritabili. I corpi maschili e femminili che erano più rettangolari, d’altra parte, erano associati a tratti relativamente “passivi”, come essere affabili, timidi, affidabili e calorosi (Hu, Parde, Hill, Mahmood, & O’Toole, 2018).

La tendenza a dedurre i tratti della personalità, a partire dalla forma del corpo, sembra che sia probabilmente universale, nonostante le conclusioni che le persone traggano variano in base alla loro cultura, etnia e persino all’età.

Social: gli effetti sull’immagine corporea

Recentemente, gli effetti dei Social media sulla nostra salute mentale e il benessere sono stati oggetto di molti dibattiti.

In particolare, un recente studio di Hougue e Mills (2019) della York University, ha riportato che quando le giovani donne si dedicano ad attività sui social media, come osservare le immagini di amici più attraenti di loro, successivamente si sentono peggio rispetto al proprio aspetto fisico.

La ricerca si è concentrata su 118 studentesse di età compresa tra i 18 e i 27 anni, alle quali era stato chiesto sei mesi prima di riportare su un questionario il loro grado di soddisfazione/insoddisfazione rispetto al proprio aspetto. In fase sperimentale, le studentesse sono state divise in due gruppi. Al gruppo sperimentale, è stato chiesto di accedere a Facebook e Instagram per un periodo di cinque o più minuti e di trovare una persona della stessa età che ritenevano fosse più attraente di loro e dopo aver guardato le foto, è stato chiesto loro di lasciare un commento a loro scelta. Mentre al gruppo di controllo è stato chiesto di svolgere lo stesso compito rispetto alle immagini di un familiare (Hogue, & Mills, 2019).

I risultati hanno mostrato che queste giovani donne si sentivano più insoddisfatte del loro corpo e del loro aspetto dopo aver guardato le immagini sui social di qualcuno che percepivano come più attraente di loro, cosa che non succedeva rispetto ad un familiare (Hogue, & Mills, 2019).

Possiamo concludere che confrontarsi con altre persone abbia il potenziale di influenzare la valutazione di noi stessi. Allo stesso tempo, possiamo notare come alcuni tratti di personalità di un individuo possano predisporre ad atteggiamenti più negativi e come la semplice visione di forme corporee più robuste possa portare ad attribuire aspetti di personalità più negativi. Detto ciò, i social media sembrano confermare le credenze già possedute senza lasciare alcuno spazio a una possibile disconferma.

Infine, ci sembra utile quanto mai prima di ora, educare i giovani all’uso dei social media, in particolare su come questi potrebbero farli sentire e su come ciò potrebbe essere collegato all’insoddisfazione per la propria immagine corporea.

 

Effetti dell’istituzionalizzazione sulla sua struttura e sul funzionamento dell’amigdala

L’ amigdala è una struttura implicata nella elaborazione e nella risposta di informazioni di tipo emotivo (Davis & Whalen, 2001) ed è sensibile a precoci eventi stressanti o negativi sia negli animali che negli umani (Suomi, 1997; Teicher, Andersen, Polcari, Anderson, Navalta & Kim, 2003).

 

Mehta e colleghi (2009) hanno cercato di esaminare la relazione tra l’amigdala e la deprivazione dovuta all’istituzionalizzazione.

Amigdala: uno studio per capire le conseguenze dell’istituzionalizzazione

Il campione utilizzato dai ricercatori era di 14 adolescenti presi dai 165 dell’ English and Romanian Adoptees Study (ERA). Il confronto venne fatto tra il gruppo di adolescenti romeni (adottati da famiglie in Gran Bretagna) e un gruppo di controllo mai istituzionalizzato di 11 partecipanti. Oltre ad un volume ridotto della materia bianca e grigia, il gruppo precedentemente istituzionalizzato presentava un’ amigdala relativamente più grande comparata al controllo, particolarmente nella parte destra. L’ amigdala sinistra risultava essere l’unica regione che correlava in modo significativo con il tempo trascorso in orfanotrofio. Quelli con volume dell’ amigdala sinistra minore avevano trascorso più tempo in istituto.

Tottenham e colleghi (2010), invece, si sono posti come obbiettivo di esaminare lo sviluppo delle strutture limbiche, con l’utilizzo della risonanza magnetica (MRI), e la regolazione delle emozioni in bambini che hanno vissuto avversità precoci. Il campione era composto da 78 partecipanti (38 precedentemente istituzionalizzati, 40 mai istituzionalizzati). L’ amigdala in questi bambini aveva uno sviluppo anormale e correlava con la durata della permanenza in orfanotrofio. Il tipo di cure offerte in un istituto vengono quindi viste come uno fattore di stress psicologico per i bambini che influenza la traiettoria evolutiva di un importante sistema neuro anatomico coinvolto nell’elaborazione delle emozioni. Da notare inoltre la forza di questo effetto che rimaneva visibile anche dopo anni dall’abbandono dell’istituto dopo l’affidamento.

Gli studiosi hanno inoltre misurato le differenze nella regolazione del comportamento durante la presentazione di stimoli sociali emotivamente attivanti. Tutti i bambini mostravano una performance migliore quando il blocco di stimoli conteneva espressioni facciali positive e quando le espressioni emotive erano i target rispetto a quando erano i distrattori. Nonostante ciò i bambini che avevano passato più tempo in istituto facevano più errori nei blocchi di trial che contenevano più espressioni a valenza negativa. Gli errori sono stati interpretati come un errore nella regolazione del comportamento a causa del fatto che le risorse cognitive venivano catturate da eventi emotivamente salienti. Un outcome comune nei bambini precedentemente istituzionalizzati, infatti, è il comportamento chiamato di “indiscriminata socievolezza” (Zeanah, Smyke & Dumitrescu, 2002), che consiste in una reticenza ridotta e un comportamento di approccio atipico nei confronti di tutti gli adulti, inclusi gli estranei. Tizard e Hodges (1978) notarono che questo comportamento era la fonte di lamentele maggiore da parte degli insegnanti, perché i bambini si impegnavano in comportamenti atti alla ricerca di attenzioni, cercando di attrarre l’attenzione degli insegnanti troppo spesso e in momenti inopportuni, in un modo che disturbava l’intera classe.

Amigdala e deprivazione materna precoce

Olsavsky e colleghi (2013) hanno voluto testare l’ipotesi che una deprivazione materna precoce è associata con una attenuazione della discriminazione da parte dell’amigdala tra madre ed estraneo e ad un comportamento di indiscriminata socievolezza. Per fare ciò hanno scelto un gruppo di 75 partecipanti (età media 11 anni), di cui 37 mai istituzionalizzati e 38 precedentemente istituzionalizzati adottati da famiglie negli Stati Uniti tramite adozione internazionale. Dei 75 bambini, solo 67 sono stati inclusi nello studio. La procedura si divideva in due sessioni: la prima includeva misure comportamentali indagate attraverso dei questionari, e la seconda parte in cui veniva svolto il compito all’interno della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Il compito sperimentale consisteva nel mostrare ai bambini delle foto a colori della madre (adottiva o biologica) e di un individuo sconosciuto che era la madre di uno degli altri partecipanti. Si è osservato che il gruppo precedentemente istituzionalizzato (PI) mostrava una risposta dell’amigdala equivalente alla madre e all’estraneo. I bambini PI avevano una risposta atipicamente elevata per gli estranei, mentre i due gruppi mostravano risposte equivalenti alla foto della propria madre. Da notare che un’età precoce di adozione era associata ad un pattern più tipico di differenziazione tra madre ed estraneo, mentre bambini adottati ad un età superiore avevano una capacità di discriminazione ridotta. In più, dai questionari era emerso che il gruppo PI mostrava un comportamento di indiscriminata socievolezza, il quale correlava con il pattern di risposta dell’amigdala: partecipanti con una ridotta capacità discriminatoria madre/estraneo tendevano ad esibire un comportamento maggiore di indiscriminata socievolezza.

 

Salute mentale, territorio e psicoterapia: la tavola rotonda a San Benedetto del Tronto

Come già scritto nell’articolo di Roberto Lorenzini, il primo marzo 2019 è stata ufficialmente inaugurata la nuova sede di Studi Cognitivi, che opera ormai da quasi un ventennio nelle Marche producendo cultura psicologica per tutto il territorio ed eventi formativi di rilievo nazionale e internazionale.

 

In occasione della tavola rotonda sul tema “Salute mentale, territorio e psicoterapia” a cui hanno partecipato esponenti di vari servizi della salute mentale presenti sul territorio del centro-Italia, si è toccato un tema a me caro: l’intrinseco rapporto tra l’uso e abuso di sostanze e le conseguenze dannose che ne derivano.

Salute mentale, territorio e psicoterapia: i dati sull’uso di sostanze

Vorrei riportare alcuni dati ISTAT in merito: le cifre parlano da sole. Le dimissioni ospedaliere dai dipartimenti di salute mentale con diagnosi di disturbi mentali associati a disturbi da uso di sostanze (doppia diagnosi), hanno avuto un incremento in questi ultimi anni, con numeri assoluti molto alti (circa 40 mila) e soprattutto con un aumento dei tassi di incidenza nella fascia di età più giovane, 15-24 anni, che è arrivato allo stesso livello degli adulti di 25-44 anni. L’allarme è anche maggiore per i ricoveri di urgenza, con diagnosi principale o secondaria relative a uso di droghe ed è sempre nella fascia d’età 15-24 anni che si registra la crescita più veloce dei consumi.

In generale, nel nostro Paese, il numero complessivo di accessi al Pronto Soccorso per motivi psichiatrici è pari a 585.087, e rappresenta circa il 2% del totale di accessi al PS. Il 6,8% degli accessi psichiatrici (39.785 accessi) è riconducibile a casi di alcolismo e tossicomanie. E questi dati trovano conferma anche in uno studio sui 273 clienti, tra i 18 e i 30 anni, di cinque club romani: il 78% riferiva un pregresso utilizzo delle cosiddette “nuove sostanze psicoattive” (NPS), mentre l’89% parlava di utilizzo corrente di cocaina.

Tutto ciò porta a un aumento di casi difficili e sempre più spesso ci troviamo di fronte a sintomi nuovi che ci trovano impreparati. C’è confusione su come gestire i nostri pazienti: ci si chiede se la presa in carico debba esser fatta dalla Psichiatria o dal Serd di competenza territoriale, se si tratta di una patologia psichiatrica o se siano gli effetti della sostanza assunta ad aver causato lo scompenso, se il trattamento può esser fatto in regime semiresidenziale o residenziale. Ci si chiede a quali sostanze psicoattive debba esser attribuito lo stato di intossicazione: in un mercato delle droghe che viaggia a una velocità più incalzante rispetto alle conoscenze scientifiche, le sostanze psicoattive utilizzate non sempre sono rilevabili ai comuni test tossicologici.

Salute mentale, terriorio e psicoterapia: il fabbisogno di supporto psicologico

A partire da queste considerazioni portate avanti all’unisono, si è sottolineata l’esigenza di elaborare linee-guida per l’organizzazione di interventi che tenga conto di una gestione “modernizzata” e integrata dei servizi e una politica di programmazione basata sulle evidenze scientifiche prodotte dalla letteratura di ricerca e clinica. Tuttavia, se la valutazione dell’efficienza va intesa come la capacità di un’organizzazione di massimizzare il rapporto tra i professionisti impiegati nelle attività ed i risultati ottenuti, non possiamo ignorare il bisogno di formare un’equipe in cui ci siano più figure professionali a unire le loro forze.

Con ciò, sarebbe importante prendere in considerazione la necessità di assumere più Psicologi nei Servizi affinché possa essere offerto un approccio sempre più integrato e specifico. In altre parole, credo che in questo momento di grande difficoltà economica per il nostro Paese, investire sulla figura dello psicologo significherebbe offrire un servizio mirato ai nuovi bisogni della salute mentale e, di conseguenza, risparmiare notevolmente sui costi futuri che le conseguenze di tale comorbilità, se non opportunamente trattate, potrebbero comportare: decorso e minore risposta ai trattamenti sia del disturbo psichico, sia dell’uso di sostanze, maggiore rischio di suicidio e di comportamenti violenti, incrementato rischio di patologie fisiche, di complicanze legali e di deriva sociale (disoccupazione, divorzi e separazioni, stigmatizzazione ed emarginazione). E, considerando che i dati ISTAT riportati sopra fanno riferimento ad anni addietro, direi che stiamo già pagando qualche conseguenza.

Con l’inaugurazione della nuova sede di Studi Cognitivi le Dott.sse Sassaroli e Mezzaluna hanno creato un’occasione in cui vecchie e nuove generazioni hanno ragionato sui nuovi bisogni emergenti, unendo gli anni di esperienza alla curiosità di chi si è appena formato con corsi aggiornati sulle ultime evidence-based.

Con questo articolo esprimo il mio augurio a tutti noi che operiamo nella salute mentale affinchè le riflessioni emerse in questo evento siano solo un punto di partenza per rispondere a queste urgenze che di certo non possiamo più ignorare.

 

 

Immagini dell’inaugurazione della nuova sede di Studi Cognitivi a San Benedetto del Tronto

Il Dono e i Legami Familiari

Godbout, in Lo Spirito del dono (1993), individua nella famiglia uno dei tre assi in cui si esplica il dono come legame. Egli, nelle sue riflessioni sul contraccambiare, individua nel sistema familiare l’unica istituzione in cui non vi è un obbligo di restituzione e che è, nel contempo, palestra per lo sviluppo delle rete amicali e sociali.

 

La famiglia

è solo la punta dell’iceberg di quella rete complicata di obblighi che ci assegniamo verso i nostri amici, i nostri vicini, i nostri parenti e il cui cuore si situa sempre, probabilmente ancora per molto tempo, nelle reti familiari e di parentela.

Il dono e il donare all’interno della famiglia

All’interno della famiglia, il dono si esplica nella relazione tra coniugi in cui dà senza tener in conto il restituire:

In un rapporto di scambio tra coniugi ad ognuno può capitare di ricevere più di quanto non dia, in cui ciascuno si senta in debito verso l’ altro, piuttosto che considerare che l’altro sia in debito verso di lui.

Spesso i conti si fanno alla fine di un rapporto nel momento in cui si ragiona su uno scambio tra equivalenti – Gli ho dato tanto – piuttosto che considerare l’asimmetria che deve essere presente in un rapporto stabile di coppia. Il legame sociale può essere alimentato solo da una relazione di dono di tipo asimmetrico. Godbout, infatti, sostiene che possiamo definire

dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone.

Il dare, quindi, all’interno della coppia può essere giustificato da “un’economia della gratitudine”. In quest’ambito, il dono mette al centro la donna come custode del focolare domestico poiché il suo lavoro non prevede nessun tipo di scambio di tipo salariale. Ci troviamo di fronte, ancora una volta, al dono asimmetrico. Chiaramente Godbout con queste affermazioni si è attirato le critiche, piuttosto fondate, di tutti i circoli femminili e femministe. Però dobbiamo dire che al di là delle caratteristiche sessuali ciò che vuole affermare è che il lavoro domestico – indipendentemente svolto da maschi o femmine- non prevedendo nessun obbligo di tipo salariale, è un dono che non prevede nessuna restituzione se non quella dei sentimenti. Anche la nascita è un dono, così come impartire l’educazione:

Un’educazione riuscita consiste nell’imparare a dare, e a ricevere, senza rimetterci” e ancora “Il piacere che si prova a fare la catena viene di là. Questo modo di fare simboleggia ogni sistema di dono: dare, ricevere, ricambiare; in una parola trasmettere….

E’ nella generatività, come vedremo in seguito, il compimento dell’esplicazione antropologica del dono. Ancora Godbout afferma

Il dono al figlio è forse la forma più specifica del dono moderno e il debito contratto il più difficile da assumere. Il figlio è la sola persona cui la società moderna permette di dare senza contare. Ogni decisione di questo tipo trasmette al bambino un messaggio che definisce i valori che contano.

Dono e famiglia nell’arte

Salvatore Incorpora (1920 -2010), pittore e scultore, in due monumenti ai caduti siti nei comuni di Fiumefreddo di Sicilia e Solicchiata frazione di Castiglione di Sicilia ci da un esempio brillante della generatività. La particolarità dei due monumenti sta nei soggetti scelti dell’artista: donne incinte e non più soldati con il fucile e la baionetta in mano. Nel primo, quello sito a Fiumefreddo di Sicilia, sono rappresentati due uomini e una donna al centro con un bambino in braccio ed uno in grembo. Lo scultore commentando l’opera con il figlio dentro la fonderia afferma:

Una resistenza non vinta, ma che, alla luce della vita che nascerà, proietta oltre la soglia del male e del tempo, l’uomo (trasmettere nella visione di Godbout i valori che contano).

Nello sgomento e nel ricordo per i “caduti di tutte le guerre”, così come si intitola l’opera, emerge il donare la vita per i figli. Posso anche morire nel momento in cui ho garantito il passaggio generazionale. Emblematico è anche il raffigurare gli uomini nudi con il pene in bella vista per un autore che a mia memoria non ha mai fatto sculture e disegni di nudi. Incorpora sembra indicarci una via ovvero lo scopo e la funzione dell’uomo donare la vita ed il pene è il simbolo della virilità che permette tutto questo.

Nell’altro monumento ai caduti, quello di Solicchiata nel comune di Castiglione di Sicilia, va ancora più in là perché rappresenta, credo per la prima volta nei monumenti ai caduti, una donna con tre bambini di cui uno in braccio, uno in grembo ed un altro attaccato alla gamba con una manina affettuosamente sul grembo materno. E’ questa mano protesa al grembo materno che ci indica la via: la morte si vince ridando la vita. I figli sono il dono lasciato alle generazioni future. La mano quasi accarezzante sul grembo materno ci proietta, inoltre, nel sacro e non solo perché la vita è sacra ma perche ci riporta alla visita di Maria alla cugina Elisabetta. Quest’ultima la accoglie dicendo: “Ave Maria, piena di grazia, beata tu fra le donne e il frutto del tuo seno Gesù”. La donna incinta è beata perché da la vita. Il dare la vita è la speranza del vaso di Pandora che può sconfiggere tutti i mali.

La vita può continuare a patto che doniamo la vita nella speranza e nella fiducia di poter essere contraccambiati dalle generazioni future a loro volta impegnati a ridare la vita. Qualcuno dirà è la continuazione della specie, a mio modo di vedere c’è di più e mi piace ricordare il mana ovvero il potere magico insito nel dono come strumento e mito per definire i legami generazionali.

Guidieri (op. cit.) nel descrivere, come abbiamo visto precedentemente, il dono come una pratica che può essere raggiunta attraverso la transcedenza parla di mimes ovvero di un dono vincolante che si presenta in termini mimetici in quanto il ricevere non implica un rendere:

Ricevo e cercherò di dare allo stesso modo: il dono insegna il dono. Il vero dono, il dono come matrice del dono è antropologico in quanto atto specifico della specie: la riproduzione. Così la relazione genitore-discendente.

I tratti del valore di dono della relazione genitore- figlio è una caratteristica sempre presente nella sacralità della rappresentazione grafica.

Nel fare queste considerazioni ci rivolgiamo al critico medico-psichiatra e psiconalista Jean Starobinski che negli anni ’90 organizzò una mostra al Louvre di Parigi dal titolo “Largesse” dedicata alla rappresentazione del donare. Dal lavoro di questa mostra scaturirà un libro “A piene mani” (1994) in cui sono contenute tutte le schede critiche che accompagnano le opere messe in mostra. Al di là, comunque, del contenuto del testo, ciò che ci interessa qui (anche perché riprenderemo il lavoro di Starobinski a proposito del dono fastoso e del dono funesto) è mettere in luce che la critica serve a superare la distinzione tra arte, letteratura e scienze umane attraverso la nozione di “sguardo”, attraverso il continuo collegamento tra testo e contesto storico e l’incrociarsi degli approcci strutturale, tematico e psicoanalitico può consentire di far luce sul significato di un’opera. Allo stesso modo la rappresentazione trova significazione all’interno di un contesto storico che in qualche modo tende a rappresentare attraverso l’oggettivazione degli stati emotivi.

Interessante risulta, ad esempio, la funzione di Babbo Natale in Goudbout (op. cit.) all’interno del ciclo del dono all’interno della famiglia. Babbo Natale venendo dal polo nord ed essendo universalmente riconosciuto collega i bambini a tutto l’universo e al passato:

porta i regali dall’universo e con la sua presenza autorizza i genitori a essere anch’essi dei figli.

Cigoli, “nell’Albero della Discedenza” (2008), analizzando i legami familiari mette in risalto il valore del dono così come è rappresentato nel quadro di Jan Steen “La festa di San Nicola” conservato presso il Rijsksmuseum di Amsterdam. La festa di San Nicola si osserva in Olanda, non il 25 dicembre, ma il 6, alla vigilia del quale i bambini appendono le scarpe e le calze e, se sono stati buoni e attenti negli studi, Babbo Natale riempie con leccornie, mentre ci sarà una bacchetta in salamoia per gli indisciplinati.

La lettura di Cigoli risulta interessante poiché mette in risalto come i legami familiari e generazionali possono essere contraddistinti dal dono. Scrive Cigoli

… il centro è occupato dalla bambina bionda che stringe a sé il regalo tanto desiderato, la bambola mentre la madre la invita a fargliela vedere. A sinistra il figlio più grande frigna perché chi e cattivo non riceve doni, e suo fratello si prende gioco di lui. In realtà la nonna lo invita con il dito a seguirla; dietro la tenda c’è infatti un dono anche per lui. Infine il padre con in braccio il più piccolo dei figli invita a guardare verso l’alto, la da dove Santa Klaus viene per lasciare doni. Qui dunque il sacro assume la forma della magia del dono, un segno del bene incondizionato che deve venire dalle generazioni precedenti.

La famiglia però, come sottolinea Godbout e le ricerche psicoanalitiche, è anche la sede del “dono avvelenato” determinato dal rapporto tra le persone. In letteratura abbiamo molti esempi dei doni perversi che avvengono negli scambi familiari come doni che legano indissolubilmente il figlio alla madre o minano l’indipendenza e lo svincolo come vedremo in seguito.

Il dono in letteratura

Anche in letteratura abbiamo esempi di dono che creano debiti positivi e negativi.

Nel Dono di Natale di M. G. Deledda, in un contesto di povertà assoluta, il papà di Lia porta in dono alla famiglia un fratellino che ha acquistato a mezzanotte precisa la notte di Natale le cui ossa non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Il papà dà una grande gioia alla famiglia portando il Divino Bambino. Al contrario, nella novella di Verga “la roba” viene descritto il dramma della mancanza del dono, dell’incapacità di donare.

L’analfabeta Mazzarò è il contadino che diventa ricchissimo a forza di lavoro e sacrifici e che per evitare di sperperare e dividere il suo patrimonio non si sposa e non ha figli. Diventato vecchio dovendosi confrontare con la morte uccide parte del suo bestiame nel tentativo di portarselo con sé nell’aldilà in quanto dopo la morte e Mazzarò ne è purtroppo cosciente, la “roba” accumulata in vita non varrà più niente. L’incapacità a donare porta all’annullamento del sé, alla mancanza di prospettive.

L’incapacità a donare non è visibile solo sui beni materiali ma anche nel non riuscire a dare all’altro ciò di cui ha bisogno e necessità. Nadia Somma e Mario De Maglie, in un articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 7 gennaio 2013, nell’analizzare la Madame Bovary di Flaubert concentrano la loro attenzione sul dramma di Berthe, la figlia nata dal matrimonio con Chalrles Bovary. Flaubert fa stare Berthe sullo sfondo, quasi in un cantuccio e Emma Bovary non prende mai in considerazioni i bisogni della figlia in quanto desiderava un figlio maschio. Emma prova un grande dolore quando le nasce una figlia femmina in quanto “una donna ha continui impedimenti. Ha un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene.” Si avverte che Berthe si sente abbandonata, la mancanza di dono materno sicuramente la espone ad insicurezza e a perdere la speranza e la fiducia.

Dalle analisi fin qui svolte possiamo intravedere come un gesto apparentemente semplice che noi ripetiamo quasi quotidianamente implica delle riflessioni che hanno attraversato varie scienze e discipline come la filosofia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia, etc. Il donare, infatti, nelle varie culture e società ha valenze di carattere simbolico e riguarda rapporti con gli altri uomini, con Dio o con gli dei. Avendo valenza simbolica prevede dei rituali e, quindi, può essere ascritto alla sfera del sacro che non necessariamente riguarda i rapporti con entità superiori ma anche e semplicemente i rapporti e le relazioni con gli uomini e tra gli uomini. In particolare, la sacralità lo pone come aspetto culturale e, quindi, ci rimanda ai miti che sovraintendono l’agire umano.

Ecco allora che nel dono emergono una serie di keyword che, per gli scopi del presente lavoro vanno analizzati: legami, rituali, simbolo, mito ben sapendo che li possiamo dividere solo per comodità di studio poiché essi si presentano come elementi interdipendenti.

 

Generation Like: quando un “mi piace” ha effetti… anche a livello neurale

È ormai noto come l’utilizzo dei social media abbia un effetto sul benessere psicologico dell’individuo, ma cosa succede a livello neurale? Può un numero elevato di like alle fotografie postate influenzare il nostro comportamento e il nostro cervello quando navighiamo sui social?

Martina Giglioli e Olga Durante

 

I social network hanno notevolmente cambiato il nostro modo di comunicare, relazionarci ed esprimerci.

Social network: la diffusione

Ormai è più il tempo che passiamo online che offline, i social network sono infatti diventati dei mondi virtuali che sempre più spesso sostituiscono il mondo reale.

In questo momento utenti da ogni parte del mondo aggiornano il loro stato su Facebook, controllano i like su Instagram, condividono notizie su Twitter o pubblicano foto su Snapchat.

Sebbene queste piattaforme online siano utilizzate da persone di tutte le età, gli utenti che passano una gran parte della loro giornata scorrendo le pagine dei vari social network sono gli adolescenti. Essi infatti usano i social media non solo per creare e mantenere legami sociali con gli amici ma anche per costruire la loro reputazione e affermare la propria identità.

Le statistiche sui social network per il 2018 mostrano che la diffusione dei social media è in aumento: il numero di persone che in tutto il mondo utilizzano i social è cresciuto di oltre 100 milioni nei primi tre mesi del 2018, raggiungendo quasi i 3,3 miliardi con un incremento del 13%.

Il più noto social network, Facebook, vanta oltre 1,09 miliardi di utenti attivi ogni giorno. La seconda piattaforma di social media più popolare invece è Instagram che, a differenza di Facebook, si concentra principalmente sulla condivisione di foto con lo scopo di promuovere il proprio concetto di sé piuttosto che connettersi con gli altri (Jackson, C. A., & Luchner, A. F; 2018).

Like: l’ifluenza sul benessere psicologico

Una delle ragioni principali dell’utilizzo dei social network è quella del dare e ricevere feedback tramite like, il famoso pollice in su di Facebook o il cuore di Instagram. Circa la metà (44%) degli utenti mette like ai contenuti pubblicati dai loro amici almeno una volta al giorno, generandone circa 4,5 miliardi ogni giorno (Scissors, L., Burke, M., & Wengrovitz, S.; 2016).

Questo modo di interagire sui social è utilizzato soprattutto dagli adolescenti poiché il like fornisce una misura semplice, veloce e quantificabile dell’approvazione da parte dei pari e permette un confronto immediato con loro rispetto all’interazione offline che invece è di tipo qualitativo e implica un’interpretazione soggettiva.

Numerosi sono gli studi che hanno sottolineato la forte influenza che il maggiore o minore numero di like ottenuto sui social esercita sul benessere psicologico dell’individuo e su correlati psicologici quali l’autostima, la percezione del supporto sociale, sintomi depressivi e livello di autocritica.

Solo negli ultimi anni però l’interesse si è spostato sulle possibili influenze esercitate dalla numerosità dei like a livello neurale, soprattutto nell’adolescenza, periodo critico per lo sviluppo cognitivo sociale e per quello di numerosi circuiti neurali.

Nello specifico le regioni sottocorticali associate all’elaborazione delle emozioni e alla ricompensa subiscono notevoli cambiamenti e riorganizzazioni durante la pubertà. Il sistema dopaminergico e le regioni correlate nello striato, sono potenziali meccanismi alla base di due fenomeni osservabili durante l’adolescenza: un incremento dei comportamenti a rischio e un maggiore desiderio di ottenere l’approvazione dei pari.

Effetto dei like sulle risposte neurali e comportamentali: lo studio

In un recente studio, Sherman e colleghi (2016) hanno riscontrato che il numero di Like su Instagram (denominato da loro QSE, “approvazione sociale quantificabile”) e quindi la popolarità delle foto pubblicate, influenzano le risposte sia comportamentali che neurali a queste stesse fotografie. Gli autori hanno infatti dimostrato come gli adolescenti siano più propensi a mettere il like a foto già ritenute popolari dai loro coetanei, un effetto riscontrabile anche a livello cerebrale.

Ad un campione di adolescenti, sottoposti a risonanza magnetica funzionale, è stato quindi chiesto di valutare fotografie pubblicate da loro stessi e da loro coetanei su un social Network costruito ad hoc simile ad Instagram. Le immagini presentate potevano essere neutre (ad es. animali, paesaggi, cibo) oppure rappresentanti comportamenti a rischio quali uso di alcol o di droghe. Dai risultati è emerso che la popolarità di una fotografia ha un effetto significativo sul modo in cui essa viene percepita dagli utenti.

Essi infatti tendono ad apprezzare maggiormente le immagini che avevano ricevuto più like da parte dei coetanei, anche quelle raffiguranti comportamenti a rischio (Sherman, L.E., Payton, A. A., Greenfield, P. M., Hernandez, L. M., Dapretto, M; 2016).

Questo effetto si è riscontrato anche a livello neurale: infatti i partecipanti hanno mostrato una maggiore attività cerebrale per fotografie più popolari, in particolare nelle aree implicate nella cognizione sociale e memoria sociale tra cui il precuneo, la corteccia prefrontale mediale, l’ippocampo e il giro frontale inferiore, implicato nell’imitazione.

Inoltre, è stata riscontrata una maggiore attivazione nella corteccia visiva di fronte alla vista di un maggior numero di like, dato che suggerisce una scansione più accurata di tali immagini da parte degli adolescenti, oltre a quella del nucleo accumbens, regione implicata nel circuito della ricompensa e piacere, soprattutto in relazione alle foto pubblicate da loro stessi.

Like e comportamenti a rischio: c’è correlazione?

Dallo studio è emerso un dato importante: è stata rilevato un decremento significativo nell’attivazione delle regioni neurali considerate il centro del sistema esecutivo centrale fronto-parietale (CEN) deputato al controllo cognitivo quando si osservavano immagini “rischiose” rispetto a immagini neutre, incluse parti della corteccia prefrontale dorsomediale (dmPFC), corteccia prefrontale laterale (lPFC) e corteccia parietale posteriore (pPFC). Il CEN viene spesso attivato durante le attività che coinvolgono la funzione esecutive, tra cui l’inibizione della risposta e il controllo cognitivo.

Certamente la visualizzazione di immagini on line non costituisce di per sé un rischio ma questa diminuzione dell’attivazione del network frontale probabilmente riflette una minore capacità di inibire stimoli di scenari ad alto rischio e di esercitare un controllo cognitivo, aumentando così la probabilità di intraprendere tali comportamenti.

Ma questa sotto regolazione si verifica anche nell’età adulta?

Lo studio successivo effettuato da Sherman e colleghi (2017) ha messo a confronto studenti delle scuole superiori (circa 16 anni) con studenti universitari (circa 20 anni) utilizzando lo stesso protocollo sperimentale.

I risultati evidenziano come vi sia una maggiore attivazione delle aree coinvolte nei meccanismi della ricompensa anche negli studenti universitari ma, a differenza degli studenti delle scuole superiori, essi non hanno mostrato una diminuzione dell’attività nelle regioni di dmPFC e lPFC del sistema esecutivo centrale fronto-parietale (CEN). Quindi gli studenti della scuola superiore, ma non quelli universitari, hanno mostrato un decremento dell’attività nelle regioni di controllo cognitivo frontale durante la visualizzazione delle immagini di comportamenti a rischio. Questa differenza potrebbe dipendere dal processo di sviluppo della corteccia frontale che non raggiunge la completa maturazione fino alla prima età adulta (Sherman, L.E., Greenfield, P. M., Hernandez, L. M., Dapretto, M; 2017).

I risultati delle ricerche, quindi, hanno riportato dati molto interessanti soprattutto per quanto riguarda le risposte comportamentali e neurali in risposta ai like sui social. Ci aspettavamo infatti che all’aumentare del numero dei like ad una foto l’interesse e l’attenzione degli adolescenti aumentasse ma il dato sorprendente è stato quello di tale influenza anche a livello neurale per foto di coetanei raffiguranti comportamenti a rischio come l’abuso di alcol o di droghe.

Quando gli adolescenti guardavano queste foto di comportamenti “rischiosi” avveniva un fattosorprendente: si aveva un decremento dell’attività del circuito frontale di controllo cognitivo.

Dato l’utilizzo continuo dei social da parte degli adolescenti quindi pensiamo sia giusto dare una maggiore importanza a questo fenomeno di influenza online che potrebbe influire sul comportamento reale degli adolescenti rendendoli più vulnerabili e propensi ad intraprendere comportamenti pericolosi per se e per gli altri.

 

Il Sé e la Psicologia Transpersonale

Pubblichiamo con piacere l’interessante articolo di Federico Frosoni sul e la Psicologia Transpersonale. Aggiungiamo qui un’avvertenza sullo statuto empirico degli aspetti più audacemente spirituali di questo lavoro. Sebbene questi aspetti non possano -e nemmeno vogliano- aspirare a una conferma empirica di tipo tradizionale, essi sono basati su una tradizione speculativa rigorosa entro i suoi criteri sicuramente non riducibili alla scienza empirica ma -a nostro parere- stimolanti anche per noi (Giovanni Maria Ruggiero).

 

Gli strumenti operativi della psicologia transpersonale sono le cosiddette “tecnologie del sacro”, ovvero modalità di cura che trascendono i confini della mente razionale e lavorano sugli stati di coscienza. Questi strumenti contengono un vero e proprio calderone di prassi che include: il viaggio sciamanico, canti, danze, visioni e intuizioni, ipnosi, ripetizioni verbali, sogni per modificare lo stato di coscienza.

 

Storicamente la psicologia transpersonale (definita quarta forza), nasce alla fine degli anni ‘60. La psicologia umanistica rispetto alla psicoanalisi e al comportamentismo, si proponeva di sviluppare un modello più completo di psiche, comprendente non solo le dinamiche di una mente malata, ma anche quelle di una mente sana. In tal modo, aveva esaminato i processi di sviluppo delle potenzialità umane, di creatività e di autorealizzazione dell’io. La psicologia transpersonale si propone invece di studiare i processi che portano oltre l’io.

Tra i suoi maggiori rappresentanti annoveriamo: Abraham Maslow, Charles Tart, Ken Wilber, Stanisalv Grof, Michael Washburn e, tra i suoi precursori, spiccano soprattutto William James, Carl Gustav Jung, Roberto Assagioli. Da questi autori emerge l’idea che, al di là di ciò che vediamo come realtà immanente, esiste anche una dimensione più vasta della coscienza, che va oltre i confini dell’io psicologico come lo conosciamo normalmente.

Non a caso lo studioso Ken Wilber, una figura di spicco della psicologia transpersonale, parla di “spettro della coscienza” (Wilber,1993). Secondo Wilber esiste una sola, unica ed indivisa coscienza alla base di tutto ciò che si manifesta, ed ogni aspetto dell’universo, quindi, non è altro che un aspetto della coscienza unica.

A questa coscienza unica possiamo dare molti nomi: dio, assoluto, brahman, vuoto, ātman, energia cosmica ma nessun nome è in grado di poterla davvero definire. La coscienza unica, immergendosi nello spazio e nel tempo, apparentemente si suddivide e si frammenta in tanti io che si credono separati, dando origine così alla molteplicità delle forme che riempiono l’Universo. Questa frammentazione è solo apparente e funzionale, perché l’assoluto resta comunque indiviso: solo la sua manifestazione sembra molteplice. Si creano “due mondi a partire da uno” (Wilber,1977)

Il termine transpersonale quindi significa propriamente “tutto ciò che va al di là della persona” e transculturale significa “tutto ciò che va al di là della propria cultura”.

Ho preso in considerazione anche il termine transculturale proprio perché un limite, o meglio, un ostacolo all’applicazione della psicologia transpersonale, è sicuramente la chiusura e limitatezza della propria cultura d’origine, che va assolutamente trascesa in questo approccio.

Obiettivi e strumenti della psicologia transpersonale

Gli strumenti operativi della psicologia transpersonale sono le cosiddette “tecnologie del sacro”, ovvero modalità di cura che trascendono i confini della mente razionale e lavorano sugli stati di coscienza. Questi strumenti contengono un vero e proprio calderone di prassi che include: il viaggio sciamanico, canti, danze, visioni e intuizioni, ipnosi, ripetizioni verbali, sogni per modificare lo stato di coscienza.

Il vero processo transpersonale consiste quindi, con l’aiuto delle tecniche prima descritte, nell’esplorazione del mondo interiore di sensazioni, emozioni, percezioni che conducono, senza alcun significato apparente, verso l’indagine, verso il graduale affrancamento della propria storia individuale e verso la dimensione transpersonale come luogo reale che racchiude le capacità spirituali dell’uomo.

Sviluppare una maggiore sensibilità e consapevolezza di sé, sono obbiettivi fondamentali nel lavoro transpersonale. La trascendenza dell’ego è uno sviluppo evolutivo naturale della psiche in cui, contattando liberamente bisogni irrisolti, traumi, desideri rimossi e paure che si sono direttamente legate alla struttura caratteriale, diventa possibile aprirsi ad una dimensione che trascende l’io separato. Molti psicoterapeuti transpersonali dicono che si deve realizzare il nostro sé superiore, trovare la parte più autentica e profonda dentro di noi.

Realizzare il sé significa comprendere che il tuo vero sé non è l’ego, ma dio cioè la coscienza, il vasto oceano dello spirito che ha manifestato per qualche tempo la piccola onda di consapevolezza che ora consideri te stesso (Yogananda, 2009).

Possiamo dunque affermare che la psicologia transpersonale è lo studio e l’applicazione di quelle esperienze che sembrano portarci oltre il nostro ordinario materiale psichico, verso uno stato ‘trascendente’, della coscienza.

Psicologia transpersonale: la coscienza umana e il sé transpersonale

Come dicevamo, fin dalla sua nascita, la psicologia transpersonale è ricorsa sempre alle antiche tradizioni spirituali per trarne uno stimolo ed un’indicazione operativa. Per giovane che sia, possiamo comunque indicare alcuni importanti punti al suo interno che aiutano a comprendere la coscienza umana. Nel regno dell’esperienza umana possiamo infatti dire che è possibile per gli umani sperimentare un grande allargamento ed espansione della coscienza che fa apparire la coscienza ordinaria, per comparazione, una manifestazione molto ristretta e limitata della più grande totalità del sé. Uno dei momenti più frequenti in cui questa espansione avviene spontaneamente e senza l’induzione artificiale è nelle famose esperienze di premorte chiamate N.D.E (near dead experience).

Anche il padre della psicosintesi e uno dei fondatori della psicologia transpersonale affermava:

In realtà noi non abbiamo un sé è un sé che ha noi (Assagioli,1971).

Il viene chiaramente inteso come “realtà ontologica” come il motore immobile aristotelico ovvero come un qualcosa che è e che non diviene.

Assagioli insisteva molto sul “proclamare e celebrare il ed aprirsi al suo mistero” ed insisteva molto su come il lavoro psicosintetico transpersonale fosse un processo che dura tutta la vita e non un singolo momento esperienziale indotto da tecniche. Per Assagioli in ognuno di noi esiste una parte saggia, pura, buona che lui chiama “sé transpersonale”. Una volta risvegliato questo sé transpersonale, o meglio aver compreso di essere un sé transpersonale, attraverso le tecniche e i metodi della psicosintesi da lui creata, l’individuo inizia un progressivo lavoro di armonizzazione della personalità, del corpo-mente e delle relazioni grazie appunto all’elevazione ed espansione della coscienza (Assagioli,1971). Difatti la psicologia transpersonale non è un aut aut, ma un trascendere ed includere, ovvero non si combatte, non si giudica e non si nega un sintomo di disagio, ma impariamo attraverso gli strumenti metodologici a trascenderlo ed includerlo all’interno del sé (Lattuada,2004).

Affrontare le crisi transpersonali: tra religione, spiritualità e psicologia

Non si deve commettere l’errore secondo cui lo sviluppo transpersonale porta a una gioia e a un benessere assoluti, una condizione di beatitudine. Infatti, in realtà, il processo di sviluppo transpersonale, come qualunque altro sviluppo, ha grandi difficoltà da superare, che possono emergere in qualunque stadio del percorso.

Oggi queste difficoltà alcune volte necessitano di un intervento di carattere clinico. Nell’antichità invece le crisi transpersonali erano trattate all’interno di un contesto religioso. Ma sempre oggi le pratiche contemplative e le discipline esoteriche sono alla portata del grande pubblico. Quindi attualmente gli psicologi e gli psichiatri occidentali studiano e trattano numerosi casi di crisi transpersonali, interpretandoli in chiave psicologica più che spirituale e questa metodologia comporta molti rischi ma anche alcuni benefici: il rischio maggiore è che la maggior parte degli psicologi e psichiatri occidentali ha scarse conoscenze riguardo alle pratiche e alle crisi transpersonali. Molti di essi sono ad indirizzo materialista e nella migliore delle ipotesi negano il valore dell’esperienza transpersonale o addirittura la attribuiscono a gravi patologie.

Dal punto di vista della diagnosi ci sono due pericoli principali che Ken Wilber chiama “equivoco pre/trans”: il pericolo del riduzionismo, quindi il mancato riconoscimento della natura transpersonale di una crisi che viene vista come esclusivamente patologica, e l’elevazionismo, ovvero confondere una grave patologia, come ad esempio, la schizofrenia con un processo transpersonale.

Purtroppo non è sempre facile distinguere bene tra regressioni pre-personali e progressioni transpersonali. Solo da poco tempo si sono delineate alcune linee guida, e inoltre esistono numerose forme ibride in cui coesistono elementi sia patologicici sia transpersonali (Walsh & Vaughan, 2012).

Errori diagnostici e conseguentemente terapeutici, possono portare a grandi problemi che spesso culminano nel processo di trascendimento dell’io nella soppressione di sintomi attraverso psicofarmaci che non fanno altro che aumentare i problemi. La scelta operativa ideale sarebbe una saggia integrazione dell’antica saggezza contemplativa e delle attuali scoperte cliniche e scientifiche.

In genere le esperienze problematiche transpersonali si dividono in 3 tipologie di manifestazione:

  1. Le esperienze transpersonali emergono insieme ad una grave condizione di patologia, ad esempio durante una psicosi o un delirio. La spiegazione di questo fenomeno è riscontrabile nella possibilità che quando le normali funzioni cognitive si disintegrano, la psiche può venire inondata da tanti elementi trascendenti o patologici provenienti dai vari stati dell’inconscio. Questo stato viene definito “disturbi psicotici con elementi mistici”.
  2. Le esperienze transpersonali emergono come conseguenza di una semplice patologia passeggera, alla quale segue una crisi evolutiva che diviene fonte di sviluppo positivo: un disturbo psicologico temporaneo è seguito da una risoluzione e guarigione che condurranno ad un livello più elevato di funzionamento rispetto a quello precedente alla crisi. Il disturbo è un’occasione di crescita. Queste crisi hanno nel tempo avuto diversi nomi: disintegrazioni positive, malattie creative, processi rigenerativi, rinnovamenti. Se queste crisi poi si associano ad elementi transpersonali, vengono definite come, nello sciamanesimo,“malattie divine”,“nascite spirituali”,“crisi transpersonali”.
    Se queste crisi sono affrontate con successo, il caos disorganizzato può divenire strumento per abbandonare vecchi stili di vita limitanti. Vecchie credenze, obbiettivi e stili identitari possono essere riformulati. Quindi la sofferenza psicologica può essere vista come transizione evolutiva e di crescita. L’esito dipende molto da una diagnosi e cura corrette.
    Questo chiaramente non significa che tutti i disturbi psicologici siano crisi evolutive o che tutte le crisi evolutive possano portare maggiore crescita e benessere, anzi, per alcuni individui non predisposti possono essere fonte di grossi danni. La psicologia transpersonale deve cercare di individuare le pratiche inadatte agli individui che sono a rischio di crisi evolutive. Queste crisi infatti possono essere innescate dallo stress o indotte da specifiche pratiche psicologiche o spirituali. In alcuni casi si presentano addirittura in maniera spontanea senza che l’individuo ne abbia controllo. Secondo i maggiori esponenti della psicologia transpersonale prima citati, queste crisi o forze evolutive che colpiscono l’individuo sono spinte verso l’individuazione, la realizzazione di sé, la trascendenza di sé. Si possono vedere come una tensione dinamica tra le forze della crescita e l’inerzia della routine. La psiche pare non tollerare la situazione di ristagno che si crea nella routine quotidiana e induce una crisi per forzare lo sviluppo.
    Le crisi psicologiche però, se da una parte possono attivare il percorso transpersonale, dall’altro possono complicarlo. Possono infatti emergere precedenti problemi psicologici irrisolti e difficoltà di carattere interpersonale. Questi problemi ed ostacoli psicologici possono manifestarsi in qualunque stadio del cammino, quando le difese si allentano ed emerge materiale dall’inconscio. Ken Wilber a tale proposito elabora delle mappe transculturali dello sviluppo e delle loro terapie appropriate, attingendo dalle tradizioni contemplative (Wilber, 1993).
  3. Le esperienze transpersonali possono generare problemi in contesti di difficoltà interpersonali. Iniziare una pratica spirituale, magari in un contesto comunitario, può portare a problematiche sia con la propria famiglia e sia con i membri della comunità stessa. I leader o guru delle comunità spirituali, a loro volta, possono essere estremamente esigenti anche in modo patologico e questo può creare grandi difficoltà. Anche l’assenza di esperienze transpersonali nel lungo termine può creare problemi. Questo avviene di solito perché la persona le ignora o perché volontariamente le reprime. Maslow dichiara che la mancanza di esperienze transpersonali è la causa della patologia sociale contemporanea (che lui chiama “meta-patologia” derivante appunto dalla mancata soddisfazione di meta-bisogni e delle meta-aspirazioni). Questo induce appunto una serie infinita di disturbi psicologici e sociali, dalle crisi di mezza età, alle crisi globali indotte dal consumismo odierno (Maslow,1968). Il risalto che negli ultimi anni si è dato all’origine biologica di molti disturbi, concentrandosi solo su aspetti fisiologici (ad esempio nelle varie forme di dipendenza) viene interpretato da come una gratificazione sostitutiva delle esperienze transpersonali che l’individuo non è riuscito a vivere.
    L’esperienza transpersonale, possiamo quindi dire, è in definitiva quella condizione nella quale il sé comincia ad aggregarsi intorno ad un centro di coscienza superiore e a superare i conflitti connessi con la mente duale, aprendosi ad una visione unitiva e disidentificata da interessi esclusivamente personali (Lattuada, 2004).

Gli assunti fondamentali della psicoterapia transpersonale

Cerchiamo di capire quali sono gli assunti fondamentali della psicoterapia transpersonale, usando la sintesi elaborata da Frances Walsh e Roger Vaughan:

  • La necessità di guarigione e di crescita a tutti i livelli dello spettro di identità. Dobbiamo risolvere e superare la nostra identità egoico-mentale quella che genera immagini e rappresentazioni del sé illusorie perché frutto di identificazioni errate, di sub-personalità, di meccanismi di adattamento e di difesa. Il compito della psicologia transpersonale dovrebbe essere proprio quello di facilitare lo sviluppo di un’identità egoica stabile e coesa se questò è ciò che serve al paziente, sviluppare una migliore percezione di se stessi cercando di integrare anche gli aspetti ombra.
  • La consapevolezza spirituale deve essere centrale nel processo di terapia. Considerare una terapia transpersonale significa lavorare alla realizzazione del sé, il centro profondo dell’essere. Il terapeuta transpersonale non deve vedere i pazienti da una prospettiva egoica e quindi considerarli separati da sé ma deve, in maniera transpersonale, considerarli come parte integrante di un tutto tra esseri umani e altre creature viventi. Il paziente deve essere visto come un’espressione individualizzata di un sé universale che tutti condividiamo. Tanto più la visione sarà ampia da parte del terapeuta tanto più il cliente viene aiutato ad abbandonare le idee limitanti che egli ha su di se e sul mondo e ad espandere il senso della sua identità. Una vera consapevolezza curativa.
  • L’importanza di un risveglio nel paziente, da un’identità inferiore ad una superiore, attraverso la natura terapeutica della consapevolezza e dell’intuizione, e il potenziale trasformativo del rapporto terapeutico non solo per il paziente ma per il terapeuta stesso. Nella psicoterapia transpersonale la guarigione comporta l’emersione di un’identità più grande che viene alla luce quando abbandoniamo le vecchie idee su noi stessi e sul mondo. Abbandonando l’identificazione con la struttura limitata egoica entriamo più in profondità nell’identità esistenziale, trascendendo ciò che pensavamo di essere ci avviciniamo a ciò che siamo realmente, finché non ritroviamo quel sé che non abbiamo mai lasciato. Durante la terapia e nel processo di risveglio, il paziente abbandona gradualmente le resistenze e le difese dell’identità inferiore, entrerà probabilmente nella notte oscura, ovvero nella crisi di risveglio, diventa acutamente consapevole che il suo vecchio stile di vita ha poco da offrire in termini di vitalità e creatività. Il terapeuta transpersonale deve accompagnarlo durante questa crisi e poi fare da “levatrice” alla nuova nascita.
  • La psicoterapia transpersonale facilita il processo di risveglio sviluppando la consapevolezza e l’intuizione. Secondo la filosofia perenne, la verità è dentro di noi e la salvezza deriva dall’espansione della consapevolezza interiore. Si deve imparare a rivolgere l’attenzione all’interno del nostro nucleo interiore e diventare pienamente consapevoli delle proprie dimensioni, sviluppare la propria saggezza interiore liberandosi dal dominio della mente giudicante e spostare l’attenzione dall’esterno all’interno.
  • La psicoterapia transpersonale offre nel rapporto terapeutico uno strumento di risveglio sia per il paziente che per il terapeuta stesso. A differenza degli altri approcci classici la psicologia transpersonale offre al terapeuta l’opportunità per guarire le sue ferite e realizzare più pienamente la sua autenticità. Il terapeuta transpersonale ha l’opportunità, durante il processo terapeutico, di realizzare più pienamente la sua autenticità nel trascendere l’io separato. Possiamo dunque affermare che la psicologia transpersonale prima e il suo modello terapeutico dopo, cioè la psicoterapia transpersonale, siano strumenti che vanno a cogliere la profondità della radice di un disagio, cercando soprattutto di non reprimerlo ma di lasciarlo manifestare, accompagnandolo e quindi di non etichettarlo come un disturbo ma solo come una fase evolutiva del flusso di coscienza.

Psicoanalisi e Cognitivismo alla prova (ineludibile e complessa) della scienza

Non è possibile che noi psicologi non abbiamo ancora fatto pace con il novecento, con la sudditanza dalla filosofia, con i complessi nei confronti delle scienze naturali, in breve con l’autonomia (non autarchia) epistemologica della nostra disciplina (Greenwood, 2015).

 

Con una delle sue ben note e riuscite provocazioni Giancarlo Dimaggio ha suscitato un accalcarsi di commenti con il suo post su “Per favore diteci: cosa è la psicoanalisi? Pratica empiricamente supportata o fantasticheria?” (Dimaggio, 2019).

A voler essere indulgenti con un lettore distratto il titolo e almeno un paio di asserzioni, se decontestualizzate, lasciavano adito a dubbi su una malevolenza preconcetta da parte dell’autore. In realtà Dimaggio, come dimostrato da numerosi suoi scritti e dalle sue risposte ai commenti, ha una lunga frequentazione con psicoanalisi e psicoanalisti, citandoli senza remore e con convinzione.

Quel che però ha (ri-)attivato il post è una querelle infinita che da quando ho per la prima volta solcato le soglie di un’aula di psicologia mi sento costretto a (ri-)elaborare. Avendo sempre vissuto professionalmente tra clinica e ricerca, ho dato spesso per scontato che non fosse possibile rinfocolare ancora tale dibattito, sino al dovermi confrontare con tutte e cinque le fasi del lutto (Kübler Ross, 1976). Il dibattito in questione verte sul declinare o meno i principi variamente definiti scientifici, empirici, scientisti, empiricisti, positivisti, etc. nella psicologia. E l’elaborazione del mio lutto nasce dalla negazione iniziale: “no, non è possibile che ancora siamo a disquisire di scienza ed empirismo in psicologia!”. Non è possibile che noi psicologi non abbiamo ancora fatto pace con il novecento, con la sudditanza dalla filosofia, con i complessi nei confronti delle scienze naturali, in breve con l’autonomia (non autarchia) epistemologica della nostra disciplina (Greenwood, 2015).

Pur non volendo passare in rassegna tutte le possibili argomentazioni e contro-argomentazioni a riguardo, mi limiterò a riportare in maniera volutamente concisa alcune posizioni, che temo richiederanno un’ulteriore elaborazione del mio lutto e che magari autori ben più saggi potranno meglio argomentare.

Quelli che la psicologia è altro dalla scienza

Il must have di simili dibattiti consiste nel collocare la psicologia in un mondo tutto suo dove la scienza non possa raggiungerla e piegarla ad assurde pretese. L’asserzione comune è che la scienza abbia un iter metodologico, argomentativo ed applicativo non conciliabile ex cathedra con la psicologia. Alcuni tra i più comuni assunti sono che la scienza sia ben poco distinguibile dalla concezione positivistica per cui vi è “un reale in opposizione al chimerico” (Comte, 185, p. 47) e quindi dalle sue implicazioni ortodosse per cui il metodo è uno, immutabile ed incontestabile. Molti dei commenti fatti al post di Dimaggio sembrano infatti assumere che la scienza offra questo. Chiariamoci: purtroppo schiere di cognitivisti, comportamentisti, psicoanalisti, sistemici-familiari, gestaltisti e chi più ne ha più ne metta credono davvero che la scienza, come una sorta di sapere papale, sia rimasta immutata negli ultimi 150 anni ed usano tale paradosso storico per giustificare un’indolenza o un’incapacità nel cercare di migliorare le loro prassi. Ma se vogliamo portare avanti un dibattito sufficientemente prolifico dovremmo forse superare l’empasse originatosi nel misunderstanding linguistico tra tedeschi ed americani a fine ottocento, quando questi ultimi pensarono che la scienza humboltiana fosse solo quella naturale e non un’integrazione con quella umanistica (Anderson, 2014). Il rigore metodologico, la coerenza deontologica ed empirica tra teoria e prassi dovrebbe esser la stessa per un biologo ed uno psicologo. Mi vien da dire che in quanto fornitori di prestazioni sanitarie Kant, Levinàs, Bϋber e chiunque abbia parlato di etica non gradirebbe forse il nostro ripetuto sottrarsi dal tema delle evidenze.

Quelli che ma la meccanica quantistica

Un altro grande classico è la carta segreta del citare nella maniera più generalista e fumosa possibile la meccanica quantistica quasi fosse lo studiato gesto di un mentalista di lunga esperienza. “Non sei aggiornato, la meccanica quantistica ha provato che tutto è soggettivo e il vecchio metodo scientifico non è buono a niente”. Ora, se innamorati della fisica come chi scrive avete provato a studiare (invano ahimè) libri di fisica, andando anche a seguire (inutilmente) da uditore alcuni corsi universitari, e se addirittura avete sfogliato oltre che agli immancabili testi divulgativi anche gli articoli scientifici (sic!) di Schrödinger, forse, dico forse, non citereste la meccanica quantistica in un simile dibattito. Non oso certo affermare di sapere cosa sia la meccanica quantistica, posso però ipotizzare, con un limitato margine di errore, che i fisici ne parlino (e l’abbiano formulata) tramite un metodo che loro definiscono scientifico! Schrödinger, Poincaré, Feynman e tutti i grandi fisici moderni non hanno mai abbandonato il metodo sperimentale, le evidenze e la ricerca. Hanno seguito, rideclinato, ampliato ed arricchito i principi che a suo tempo Galileo formulò. Quello che è cambiato è l’enormità e la complessità delle argomentazioni e riprove che le moderne teorie della fisica richiedono (Feynman, 1985).

Quelli che la relazione non è misurabile

Ed arriviamo quindi al Santo Graal dei dibatti tra psicoterapeuti: la relazione. Consigliamo a tutti di rivedere il dibattito avviato da Caselli e colleghi e le risposte date da Dimaggio ed altri su State of Mind, risparmiandovi dunque un’ennesima rassegna. Vorrei solo rimarcare quella che al sottoscritto (come dicevo l’elaborazione del mio lutto è ancora ben lungi dall’accettazione) sembra un’ovvietà. Se la psicologia è riconducibile ad una scienza integrata come inizialmente formulata da Humboldt e se tale scienza, anche quando produce paradossi filosofici di infinita portata come la meccanica quantistica, è riconducibile al metodo sperimentale forse abbiamo la risposta davanti agli occhi. Secondo un principio di parsimonia caro ad Occam se senti un rumore di zoccoli pensa ad un cavallo prima che ad una zebra. E dunque il fatto che la relazione sia di difficile misurazione e concettualizzazione forse è la riprova che mancano ancora tante prove, tentativi ed errori prima di formulare una risposta evidence-based. Forse il tema è così complesso non perché imponderabile (e quindi inesplorabile scientificamente) quanto perché appunto complesso. Posizioni agnostiche come quelle di un certo cognitivismo che si disinteressano del tema o fideistiche di una certa psicoanalisi che ritualizzano il già noto ben poco servono alla psicoterapia. Lakatos (1978) era solito dire che un programma di ricerca è progressivo nella misura in cui riesce ad includere le anomalie inizialmente inspiegate, trasformando, almeno in parte, se stesso. Dunque, se la psicoterapia ambisce a sopravvivere dovrebbe dedicare le sue migliori risorse a sviscerare, con metodo scientifico sperimentale (forse addirittura scientista!), quei rompicapo della relazione terapeuta-paziente e dell’efficacia delle terapie.

Il lascito di Jeremy Safran

Mi preme ricordare l’esempio di Jeremy Safran che, per oltre 30 anni, ha dedicato il suo impeccabile rigore filosofico e scientifico al tema della relazione condizionando ed essendo apprezzato tanto da cognitivisti quanto da psicoanalisti. Una riflessione sul suo lascito non può non prendere le mosse da come sia divenuto famoso declinando in ambito cognitivo una sua rilettura psicoanalitica dell’opera di Harry Stuck Sullivan (Safran 1990a; 1990b). In un numero speciale di Psychotherapy Research dedicato alla sua memoria i curatori sembrano concordare sul fatto che Safran fosse un pluralista aperto al dialogo ed un ricercatore rigoroso ed entusiasta sempre pronto a mettere a verifica le sue ipotesi (Muran, Eubanks & Samstag, 2018). Ben felice di esser sconfermato, ma sembrerebbe la definizione di uno scienziato che Galileo, Schrödinger e Lakatos sottoscriverebbero assai volentieri. In conclusione, prima di stilare concordati per la separazione tra psicologia e scienza, dovremmo forse chiederci a quale costrutti facciamo riferimento.

Una delle critiche a Dimaggio sembra ad esempio presupporre una sorta di inestricabile interconnessione tra ricerca di evidenze e approccio nomotetico alla diagnosi, tra empirismo e complessità (Magistrale, 2019). Con simili presupposti la scienza appare una scienza dell’ovvio, la psicologia della complessità. Ed a quel punto non saprei davvero dove collocare fisici delle particelle ed astrofisici! Limitiamoci dunque a presupporre che una scienza della complessità non può non basarsi sul metodo sperimentale, sulla ricerca di evidenze e su “un approccio unificato alla conoscenza” (Byrne & Callaghan, 2014, p. 37) e questo vale tanto per la psicologia quanto per la fisica, per la ricerca sui processi e sull’efficacia. Altrimenti la complessità di un rito sciamanico batterebbe di gran lunga il povero Fonagy e le evidenze sulla Terapia Basata sulla Mentalizzazione a poco varrebbero. Ed in un mondo caratterizzato da incremento costante della domanda sanitaria bypassare con un’argomentazione teorica la sostenibilità ed il rapporto costi-benefici degli interventi parrebbe ai miei occhi abdicare alle sfide della complessità.

 


Leggi i precendenti articoli sul tema:

1 – Per favore diteci: cosa è la psicoanalisi? Pratica empiricamente supportata o fantasticheria? – di Giancarlo Dimaggio, 01 Marzo 2019

2 – La psicoanalisi: terapia empiricamente supportata, ma non scientista – di Giuseppe Magistrale, 08 Marzo 2019

 

 

Training autogeno: il ruolo della respirazione

Il training autogeno è una tecnica di autorilassamento che riesce a sviluppare la correlazione fra esercizio mentale e risposta dell’organismo per raggiungere un corretto equilibrio psicofisico e alleviare i disturbi legati allo stress. Aumenta la capacità di concentrazione e apporta benefici sia a livello fisico che psicologico.

 

Il training autogeno si basa sull’apprendimento di 6 esercizi che favoriscono la consapevolezza di sé e l’acquisizione della giusta metodica di rilassamento.

La tecnica del training autogeno fu ideata dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz negli anni 30. Schultz si rifece alle tecniche di meditazione e ipnosi allora conosciute per sviluppare un percorso di consapevolezza autoterapico, in cui il paziente fosse in grado di raggiungere da solo, una volta acquisito il giusto allenamento, il raggiungimento dello stato di rilassamento.

Come la respirazione influisce sul training autogeno

La particolarità del training autogeno rispetto ad altre tecniche psicosomatiche è che il corpo si lascia guidare passivamente dalla mente. Questa, a sua volta, acquisisce la capacità di influenzare la risposta psicosomatica senza che il paziente debba intervenire, sfruttando solo le immagini mentali legate a una determinata condizione.

Se pensiamo alla respirazione, ci appare chiaro come già solo questa possa influenzare il nostro stato emotivo e ne sia allo stesso tempo influenzata. Uno stato di stress provoca un respiro corto e affannoso che, di conseguenza, aumenta ancora di più la sensazione di stress.

Una corretta gestione del respiro può, già di per sé, portare grandi benefici a livello psicosomatico. È molto comune, proprio a causa del costante stato di stress in cui si trova la maggior parte di noi, che il nostro respiro si trasformi, passando dalla respirazione naturale a una più forzata. Questa modalità di respirazione, detta toracica, vede il diaframma in una posizione quasi passiva. È infatti la cassa toracica a compiere il movimento per espellere l’aria. In questo modo, però, non si riesce ad effettuare il naturale ricambio totale di aria nei polmoni.

Training autogeno: perché concentrarsi a respirare bene

Gli sportivi, così come chi pratica meditazione o yoga, conoscono perfettamente l’importanza di esercitare il controllo sulla propria respirazione. Con l’esercizio del training autogeno verrà naturale acquisire il giusto modo di respirare, con un ritmo più lento, allungando i tempi di inspirazione e soprattutto di espirazione per garantire un corretto apporto di aria a tutti i tessuti.

Grazie al cosiddetto esercizio del Respiro, il soggetto acquisirà una maggior consapevolezza di come funziona il proprio organismo, fino a rendere automatica la pratica della corretta respirazione diaframmatica. Le prime volte egli dovrà cercare di respirare senza gonfiare la cassa toracica, non alzando le spalle. Egli percepirà nettamente la piacevole sensazione dell’aria che scende verso la pancia. Sarà proprio l’addome a gonfiarsi durante l’inspirazione. Facendo ciò, il diaframma scenderà verso il basso permettendo all’aria di riempire i polmoni.

Più il paziente avanzerà nell’apprendimento della tecnica del training autogeno, più sarà semplice e automatico mantenere il giusto ritmo respiratorio. La sensazione di rilassamento sarà gradualmente sempre maggiore, producendo un vero e proprio senso di benessere generale.

 

Ansia nei bambini e assenze scolastiche

La scuola svolge un ruolo chiave nello sviluppo intellettivo, emotivo e sociale dei bambini. Le frequenti assenze da scuola sono fattori di rischio per molti aspetti.

 

Ad esempio, per quanto riguarda l’isolamento sociale, gli scarsi risultati accademici e la disoccupazione futura. Il dipartimento dell’istruzione ha calcolato che nel Regno Unito, nel 2016, l’ammontare dei giorni di assenza degli alunni a scuola è pari a 56,7 milioni e il 10.8% dei bambini è stato considerato “persistentemente assente” a causa della mancanza di presenze durante l’anno scolastico (10% o più). Naturalmente vi sono diverse ragioni per cui un bambino si assenta da scuola, come problemi di salute, personali, familiari, scolastici e legati alla comunità di appartenenza.

Ansia e assenze a scuola: lo studio

Diversi studi hanno evidenziato come una scarsa salute mentale sia associata ad una ridotta frequenza scolastica e all’ansia; quest’ultima è considerata nella letteratura un importante fattore di rischio per le assenteismo scolastico. Vi sono diversi aspetti legati alla scuola che possono indurre l’ansia nei bambini, ad esempio la separazione dai caregivers primari, le interazioni sociali con i docenti e con i pari e anche lo stress scolastico.

Nei bambini ansiosi si possono presentare anche diversi sintomi somatici come mal di testa, mal di stomaco e stanchezza, questi, perciò, possono contribuire all’assenza scolastica, in particolare se interpretata dagli adulti vicini ai bambini come segni di salute fisica e non come problemi legati alla salute mentale del bimbo.

Un gruppo di ricercatori della University of Exeter Medical School ha condotto uno studio sistematico pubblicato sulla rivista Child and Adolescent Mental Health, il cui scopo era per l’appunto capire il legame tra l’ansia e la scarsa frequenza scolastica, in particolare quella ingiustificata.

La ricerca è stata sostenuta dalla Wellcome Trust and the National Institute for Health Collaboration for Leadership in Applied Health Research and Care (CLAHRC) South West Peninsula (PenCLAHRC).

Di 4.930 studi in quest’area, solo in 11 sono stati soddisfatti i criteri per poterli includere nello studio. La ricerca di questi studi è stata condotta in diversi paesi come il Nord America, l’Europa e l’Asia.

Ansia e assenze a scuola: indicatori della salute dei bambini

Il gruppo di ricercatori ha classificato la frequenza a scuola in diverse categorie: l’assenteismo (totale assenza), assenze dovute a fattori medici, assenze ingiustificate e rifiuto della scuola, ovvero quando il bambino fa fatica a frequentare la scuola, a causa dal disagio provato, sebbene i genitori e gli insegnanti ne siano consapevoli.

I risultati di 8 studi hanno evidenziato una sorprendente associazione tra assenteismo e ansia, nonché il legame atteso tra ansia e rifiuto della scuola.

L’autrice principale dello studio, Katie Finning, sostiene che l’ansia provata dai bambini non solo possa riguardare la scolarizzazione dei giovani, ma che possa portare anche a peggiori risultati accademici, sociali ed economici in futuro. Per questo è importante raccogliere al più presto i segnali di allarme ed aiutare i giovani il prima possibile.

La scuola può scatenare ansia nei bambini, per questo motivo è importante rendersi conto che una grave ansia può avere un impatto significativo nello sviluppo dei bambini.

Per concludere, l’ansia può essere curata con successo grazie ai trattamenti efficaci a disposizione, tuttavia è importante capire che l’ansia può portare ad evitare le situazioni temute.

Per quanto riguarda le prospettive future, in particolare, sono necessari altri studi che monitorino i bambini nel tempo, in modo tale da distinguere chiaramente se l’ansia porti ad una chiara ed evidente scarsa frequenza o viceversa.

Il Narcisismo digitale e le patologie da iperconnessione

La cognizione di una diffusione di tratti narcisistici nella popolazione occidentale ha portato diversi autori a indagarne i motivi, c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo e addirittura di un’epidemia del narcisismo.

Che cos’è il narcisismo? Secondo Wikipedia il narcisismo è spesso sinonimo di egoismo, vanità, presunzione. Applicato a un gruppo sociale, il narcisismo a volte indica elitarismo o indifferenza nei confronti della condizione altrui. In psicologia invece il termine è utilizzato per descrivere un concetto centrale della teoria psicoanalitica, il normale amore per se stessi o per indicare l’insano egocentrismo causato da un disturbo del senso di sé.

Tuttavia, in merito all’ambito psicologico, occorre precisare come il narcisismo sia un tratto della personalità e può essere considerato, secondo la logica di un continuum, uno stato normale. Il narcisismo ha di per sé un’accezione positiva: indica l’amore sano e legittimo per se stessi (Behary, 2013). Perde tale connotazione quando si lega ad un bisogno abnorme di attenzione, affermazione, apprezzamento, gratificazione esterna. Se quest’atteggiamento psicologico interferisce seriamente con i rapporti interpersonali, gli impegni quotidiani e la qualità della vita, può assumere una dimensione patologica culminante nel disturbo narcisistico di personalità.

I criteri diagnostici per fare diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5) ruotano attorno al concetto di grandiosità, nonché al costante bisogno di ammirazione e la mancanza di empatia. Rispetto alla precedente edizione, il DSM 5 compie però un passo in avanti. Per la prima volta vengono indicati i paradossi del narcisismo: l’enorme vulnerabilità dietro la facciata grandiosa e la solitudine profonda dietro l’auto-esaltazione.

Il narcisismo digitale

Con l’arrivo del Web, ed in modo particolare dei social network, si è assistito ad una proliferazione del narcisismo sotto forma di narcisismo digitale. Con l’espressione di “narcisismo digitale” alcuni filoni di ricerca indicano un insieme di pratiche comunicative tipiche dell’universo 2.0 e fondate su un egocentrismo così accentuato da apparire patologico (Zona, 2015). Secondo la Teoria degli usi e gratificazioni (Katz, Blumler, Gurevitch, 1974; Papacharissi, Mendelson, 2011), più l’individuo percepisce che un medium soddisfa alcuni suoi bisogni, più lo userà proprio per quello scopo, in particolare se l’individuo non si sente capace di farlo nell’ambiente reale.

La cognizione di una diffusione di tratti narcisistici nella popolazione occidentale ha portato diversi autori a indagarne i motivi: c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo (Lasch, 1979), e addirittura di un’epidemia del narcisismo (Twenge, Campbell, 2009). In un articolo di Erica Benedetto scritto per l’occasione su State of Mind, ci viene mostrato uno studio condotto tra gli atenei di Swansea e Milano (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, Truzoli, 2018) in cui si afferma che farsi più selfie rinforzerebbe i tratti narcisitici di personalità. I ricercatori hanno preso in esame 74 individui di età compresa dai 18 ai 34 anni, durante un periodo di quattro mesi. Un altro elemento preso in considerazione è stata l’assiduità con cui i partecipanti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat) durante il corso della ricerca. In media, durante l’arco temporale dello studio, i partecipanti hanno usato i social per tre ore al giorno, nonostante qualcuno abbia riportato un utilizzo di ben 8 ore circa. In percentuale, Facebook si è rivelato essere la community digitale più utilizzata (60%), a seguire Instagram (25%) e infine, Twitter e Snapchat (13%). I due terzi dei soggetti coinvolti adoperavano i social principalmente per postare selfie. I social network quindi funzionavano da moltiplicatori del loro desiderio di essere al centro dell’attenzione. Soprattutto perché agiscono principalmente sull’immagine. Inoltre, è stato dimostrato che i partecipanti allo studio che erano soliti postare un numero eccessivo di selfie, in accordo con la scala di misurazione utilizzata, presentavano il 25% dei tratti narcisistici oltre il cut-off clinico per il Disturbo Narcisistico di Personalità. Per la prima volta, grazie a questa ricerca, si è giunti dunque a dimostrare l’esistenza di una correlazione tra la frequenza di utilizzo dei social media e narcisismo in relazione alla pubblicazione dei selfie.

Ed ancora, una collega italiana in forza all’University of Georgia, in uno studio condotto su 130 profili di facebooker, ha evidenziato come il numero di amici, il tipo di immagini, e i commenti associati a un profilo costituiscano una misura attendibile del grado di narcisismo dell’utente. I narcisisti, secondo quanto emerso dallo studio della Dott.ssa Buffardi, pubblicano sulle loro pagine le foto in cui compaiono più belli e trendy mentre i “normali” utilizzano preferenzialmente foto banali, magari scattate al volo con un telefonino o una webcam (Buffardi, 2008). I siti di social networking sembrerebbero quindi offrire l’ambiente ideale per la proliferazione di alcuni tipi di personalità narcisistiche che hanno l’intento di promuovere se stesse e cercare l’ammirazione degli altri su larga scala.

Questo è quello che emerge da uno studio pubblicato sulla rivista CyberPsychology, Behavior and Social Network. Lo studio, tutto italiano di studiosi dell’Università di Firenze, dal titolo Narcisisti grandiosi e vulnerabili: chi è a maggior rischio di dipendenza da Social Network? (Casale, Fioravanti, Rugai, 2016) è stato svolto su un campione di 535 studenti europei. La conclusione della ricerca ci ha mostrato come i narcisisti vulnerabili, che tendono ad essere insicuri e hanno una minore autostima, sono più propensi a sentirsi più sicuri in un ambiente online rispetto ad un’interazione reale tanto che sono indotti a preferire il social network come mezzo per ottenere approvazione e ammirazione. Al contrario i narcisisti grandiosi, che tendono verso l’arroganza e l’esibizionismo, è probabile che cerchino l’ammirazione più apertamente, piuttosto che attraverso i social media.

Sul versante opposto di quanto accennato finora, vi sono però coloro che nei social network trovano terreno fertile per la propria disistima, se confrontata con quella degli altri attraverso i loro contenuti postati. Il fenomeno è noto a tutti come Image Crafting.

Narcisimo digitale e stato di “flow”

L’attrazione da parte dei narcisisti digitali verso i social network non si spiega solamente con la loro capacità di fungere da cassa di risonanza per il loro Sé. Una ricerca condotta dagli psicologi della IULM e della Cattolica di Milano (Cipresso et al., 2010; Mauri et al., 2010) hanno mostrato la capacità dei social network di produrre delle “esperienze ottimali”, definite di “flusso” (flow), in grado di fornire una ricompensa intrinseca ai propri utenti.

Lo stato di Flow o di flusso è uno stato emotivo positivo sviluppato da Mihály Csíkszentmihályi, uno degli psicologi più famosi nell’indagine della psicologia positiva. Quando si è in questo stato, la persona si trova totalmente assorta in un’attività di suo gradimento in cui il tempo vola e azioni, pensieri e movimenti si succedono l’un l’altro senza fermarsi. Questo stato emotivo positivo è caratterizzato dal coinvolgimento totale nell’attività che si sta realizzando mantenendo un livello di concentrazione assoluto. Tuttavia, tale livello di assorbimento nell’attività che stiamo svolgendo, porta ad uno stato di “mancanza di autocoscienza” in cui viene a mancare la concezione egocentrica di sé come attore, tanto è vero che la soddisfazione di alcuni bisogni, come ad esempio mangiare o andare in bagno, potrebbero passare in secondo piano. Come effetto collaterale dell’intensa presenza, lo stato di flow porta ad una alterazione del tempo: si perde la cognizione del tempo che passa senza che ce ne rendiamo conto.

Come si genera lo stato di flow? Lo stato di flow è connesso al nostro livello d’intenzione. Csíkszentmihályi definisce come “intenzione” l’atto di concentrare la nostra attenzione in un’azione o su un obiettivo. Sempre a proposito della Flow experience, in un articolo di State of Mind di Angelica Gandolfi, veniamo a conoscenza di innumerevoli studi che confermano l’occasione di vivere lo stato di flusso psicologico in campi come la scienza, la scrittura letteraria, nell’esperienza estetica ed infine nello sport.

L’oversharing e il selfie: due fenomeni tipici del narcisismo digitale

Il narcisismo digitale si esprime attraverso una serie di azioni “estremizzate” molto diffuse come ad esempio scattarsi dei selfie (pratica che caratterizza maggiormente gli adolescenti, ma ove innumerevoli adulti non fanno eccezione) o condividere momenti, a volte fin troppo intimi, della propria vita quotidiana. Lo share o meglio l’oversharing, vale dire l’eccesso di condivisione di informazioni, fa parte del loro modo di stare nel mondo, diventa un gesto istantaneo… una naturale estensione del Sé. Il mettersi in mostra, talvolta in modo spettacolare, è diventata una maniera di esistere affermata: esistiamo soltanto se possiamo “essere visti” e riconosciuti. Tutto quello che facciamo e che postiamo, personale o pubblico che sia, viene sottoposto alla severa valutazione dei “mi piace” e non “mi piace”. Spazio e tempo nella Rete vengono completamente annullati, per cui ognuno ha la possibilità di negare la propria storia personale e scegliersi di volta in volta nuove biografie in base alle mode.

Diana I. Tamir e Jason P. Mitchell, studiosi di Harvard e autori dello studio Disclosing information about the self is intrinsically rewarding si sono chiesti cosa spinge l’essere umano a cercare di condividere le proprie esperienze con gli altri. Tramite un’indagine effettuata con risonanza magnetica funzionale i due studiosi hanno avuto modo di constatare come le regioni più reattive, nel momento in cui i soggetti si soffermavano a narrare le proprie esperienze, pensieri, emozioni, riflessioni, è correlato fortemente con l’attivazione di aree cerebrali deputate alla percezione di un senso di gratificazione e di piacere. Il che fa sì che il comportamento si possa ripetere. La considerazione finale degli autori li conduce ad affermare che il piacere di parlare di sé agli altri è simile a quello, definito primario, che è intrinseco al cibo ed al sesso. (Tamir, Mitchell, 2012).

Si definisce selfie (dall’inglese “self”, letteralmente sé) una fotografia scattata a se stessi, in genere con uno smartphone, successivamente condivisa sui social network o in rete. Essi testimoniano il desiderio ed il piacere di apparire, di mostrarsi e dimostrare qualcosa di sé valutato come positivo e “degno” di essere condiviso. La loro funzione è quella di ricostruire un racconto delle nostre vite, della nostra quotidianità, sotto la luce migliore. Attraverso la condivisione dei selfie, l’utente è alla ricerca di approvazione che viene espressa attraverso il numero dei ‘mi piace’ ottenuti per ogni autoscatto, condivisione e complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che si vuole dare di sé.

La consapevolezza di ciò spinge la persone che si trova di fronte ad una fotocamera, a preoccuparsi della sua apparizione e quindi a scattare continuamente finché non ottiene l’immagine migliore. Tuttavia, dai semplici autoscatti riguardanti il proprio viso, si è passati a fotografare anche parti di sé o momenti sempre più “intimi”. Legato al concetto di “intimità” è il costrutto di “estimità” fondato nel 2001 dallo psichiatra francese Serge Tisseron. Anche se la paternità di tale neologismo (usato in maniera diversa rispetto a Tisseron) si debba a Jacques Lacan, filosofo francese nonché psichiatra e psicoanalista. Quando Tisseron usò la prima volta il costrutto di “estimità” non si riferiva principalmente ai social media, tant’è che considerava la nascita di tale fenomeno il giorno in cui, negli anni ’80, una donna aveva rivelato in una trasmissione tv di non avere mai avuto un orgasmo con il marito. Soltanto più tardi lo psichiatra francese ne ha circoscritto l’uso alle abitudini digitali e intendendolo come atto pensato per rendere pubblici elementi della vita intima al fine di valorizzarli grazie ai commenti. Per Tisseron:

… il desiderio d’estimità consiste nel mostrare dei frammenti della propria intimità di cui noi stessi ignoriamo il valore, a rischio di provocare il disinteresse od anche il rigetto negli interlocutori, ma con la speranza che il loro sguardo ne riconosca il valore e lo renda tale ai nostri occhi.

L’estimità on line possiede quindi uno scopo specifico: ricavarne autostima, verificando il consenso dei destinatari poiché i contenuti personali sono l’asso nella manica di chi cerca attenzione. Sui social media chi pratica la strada dell’estimità tende a reiterarla, specialmente quando ha un riscontro positivo.

In merito all’uso dei selfie l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus presieduto dalla Dott.ssa Maria Manca nonché membro dell’Advisory Board nazionale del progetto Generazioni Connesse, attraverso un comunicato stampa del 2017 intitolato: Adolescenti iperconnessi. Like addiction, Vamping e Challenge sono le nuove patologie ci offre un interessante quadro della situazione adolescenziale italiana. Su un campione di oltre 8.000 adolescenti di circa 18 regioni italiane, di età compresa tra gli 11 e i 19 anni, possiamo notare come i ragazzi della fascia 14-19 anni mediamente fanno circa 5 selfie al giorno, con punte massime di 100, contro i 2 selfie al giorno dei più piccoli che preferiscono utilizzare maggiormente i video e i messaggi audio. Pur di ottenere più like (fondamentali per il manifestarsi del Like addiction o dipendenza dai like) il 13% ha seguito addirittura una dieta per piacersi di più nei selfie. Tanti like e tante approvazioni accrescono l’autostima, la popolarità e quindi la sicurezza personale. Ovviamente, vale anche il contrario, ovvero commenti dispregiativi e pochi like condizionano l’umore e l’autostima in negativo, tanto che il 34% ci rimane molto male e si arrabbia quando non si sente apprezzato. Come continua a riportare l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus, circa 2 adolescenti su 10 condividono tutti i selfie che fanno sui social network e su WhatsApp, andando a ledere completamente il concetto di privacy e di intimità che ormai si è trasformata in un’intimità condivisa. Rispetto al 2015, anno in cui tale problema riguardava appena il 15%, questo dato è cresciuto. Tralasciando per un momento questi dati occorre però farsi una domanda… E l’Altro? Che compito ha? Quale ruolo svolge? Nell’epoca segnata dai social network l’Altro esiste solo come proiezione di tutto ciò che può rispondere ad un ritorno di ammirazione (in questo caso l’Altro è considerato bello ed è ricercato) oppure come proiezione di parti del Sé negative e frustranti ed in quel caso viene eliminato senza esitazione. Se nel primo caso esso è bello e ricercato, nel secondo caso invece viene “eliminato”. (Faimberg, 2006; Nardulli, 2006).

Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli (Tonino Cantelmi).

Le “patologie” da iperconnessione

Come già affermato all’inizio dell’articolo, secondo alcuni autori il web 2.0 incoraggia lo sviluppo della cultura narcisistica attraverso l’esibizione di identità digitali seducenti e molto spesso fittizie. L’uomo non è più concentrato sul costruirsi per com’è davvero, ma per convincere gli altri a credere chi finge di essere (Cantelmi, 2013). L’iperconnessione caratterizzante il narcisismo digitale ha portato alla nascita di nuovi “disturbi” in qualche maniera legati ad esso, ma non ancora ufficialmente riconosciuti in manuali come l’ICD-11 o il DSM V. Queste “patologie”, se proprio così le vogliamo chiamare, sono note come F.O.M.O (Fear Of Missing Out), Nomofobia, Phubbing e Vamping.

F.O.M.O

L’acronimo F.O.M.O, dall’inglese “Fear of missing out” ovvero “Paura di essere tagliati fuori”, indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con gli eventi nel cyber mondo o con le attività che fanno i nostri amici o parenti, per paura di rimanere esclusi da qualunque avvenimento o situazione che ci offra un’opportunità di interazione sociale. La teoria dell’autodeterminazione o SDT, Self-determination theory (Deci e Ryan, 1985) afferma che il sentimento di parentela o di connessione con gli altri è difatti uno dei tre bisogni psicologici di base che influenza la salute psicologica delle persone.

La F.O.M.O è quella sensazione di agitazione, pentimento e invidia che, precisa Turkle (2012), “crea un turbinio emozionale e un risentimento verso noi stessi o gli altri, insoddisfazione, ansia e sentimento di incapacità” quando ci rendiamo conto di non essere dove vorremmo. Non è una patologia riconosciuta a livello clinico, ma la sua presenza può peggiorare una condizione preesistente di ansia e depressione. La paura di perdersi qualcosa di interessante costringe i “malati” di F.O.M.O a stare costantemente collegati allo smartphone controllando i loro account Facebook, Instagram o gli aggiornamenti degli stati dei propri contatti presenti su Whatsapp. Chi è “afflitto” da F.O. M.O cade in un circolo vizioso senza rendersene conto: egli cerca di riempire la solitudine che prova attraverso i social che solo apparentemente gli danno compagnia, facendolo cadere invece in un senso di solitudine ancora maggiore che cerca di colmare sempre attraverso i social.

Vi è un collegamento importante, difatti, tra F.O.M.O e dipendenza da smartphone: a livello questo costrutto che nasce con l’avvento dei social, è considerato un segnale predittivo dell’insorgenza di dipendenza da smartphone e sofferenza emotiva.

La F.O.M.O in Italia è un fenomeno ancora poco esplorato e non esistono oggigiorno degli studi in merito. Lo psicologo e ricercatore Andrew Przybilski è stato il primo che nel 2013, assieme a ricercatori dell’Università della California, di Rochester e di Essex ha condotto una ricerca empirica su questo costrutto sociale per fornire informazioni su come valutarla in modo affidabile e su come si correli con fattori legati al benessere, al comportamento, a fattori sociali e motivazionali. Dai risultati è emerso che
la F.O.M.O è legata ad un rapporto ambiguo con i social media dove ogni giorno veniamo bombardati da tormentoni, meme, video strani o semplicemente dagli eventi che accadono nel mondo o a cui partecipano i nostri amici. La F.O.M.O È una “forza stimolante” in grado di influenzare il modo di utilizzare i social network.

Il livello di F.O.M.O è più alto negli utenti di giovane età, in particolare di sesso maschile. La F.O.M.O si identifica in maggior livello negli studenti che sono soliti consultare i social network durante le lezioni scolastiche. Inoltre, i livelli di F.O.M.O sono influenzati dalle circostanze sociali. Bassi livelli di soddisfazione della propria vita e dei propri bisogni personali coincidono con alti livelli di F.O.M.O. La F.O.M.O è più alta in chi è spesso distratto e questo può interferire con le attività quotidiane.

Un importante studio pubblicato sulla rivista scientifica Computer in Human Behaviour dal titolo I don’t want to miss a thing: Adolescents’ fear of missing out and its relationship to adolescents’ social needs, Facebook use, and Facebook related stress (Beyens, Frison, Eggermeont, 2016) ha esaminato più di 400 adolescenti, analizzando le loro modalità di utilizzo dei social media, la loro interazione e la possibile presenza di F.O.M.O. Da tale studio si evince che gli adolescenti, più sono connessi è sintonizzati con gli altri, tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network, più percepiscono lo stress e la paura di essere esclusi e respinti dalla propria rete sociale. I soggetti più a rischio e che sono colpiti da stati di ansia, solitudine e abbandono sono in particolare adolescenti con bassa autostima e maggiore insicurezza, che spesso rischiano di confondere la vita reale con quelle create virtualmente nei social network. Ne consegue che per rimanere sempre “a passo con gli altri” gli adolescenti, e non solo, esibiscano nelle varie piattaforme sociali in cui sono iscritti una vita che non è reale ma “costruita”.

Nel 2018, un’altra interessante ricerca straniera intitolata Fear of Missing Out and its Link with Social Media and Problematic Internet Use Among Filipinos (Reyes, Marasingan, Gonzales, Hernandez, Medios, Cayubit, 2018) ha esplorato come ci sia una correlazione significativa tra la F.O.M.O con l’uso dei social media (SMU) e l’utilizzo problematico di Internet (PIU) tra i filippini. Un totale di 1.060 filippini ha completato una batteria di prova composta da tre scale per misurare le suddette variabili: Scala FoMO (Fear of Missing Out), Social Networking Time Use Scale (SONTUS) e Internet Addiction Test (IAT). Le analisi statistiche emerse dai risultati finali hanno comprovato come sia presente un’effettiva correlazione tra la F.O.M.O con l’utilizzo dei social network e l’uso preoccupante del Web.

Nomofobia

La Nomofobia è una patologia ancora scarsamente indagata e ancora troppo poco definita. Il termine Nomofobia, la cui etimologia deriva dalla contrazione di “no-mobilephobia”, è un neologismo che si riferisce all’eccessiva paura/terrore di rimanere senza telefono o senza connessione ad internet o al 4G. La comparsa di questo nuovo vocabolo risale per la prima volta nel 2008 in Gran Bretagna; in occasione di un sondaggio organizzato da un organismo di ricerca con sede nel Regno Unito su un campione di 2.163 persone, era emerso che oltre la metà degli utenti di telefonia mobile (quasi il 53%) tendeva a manifestare stati d’ansia quando era a corto di batteria, credito, senza alcun tipo di copertura oppure senza il cellulare stesso. La ricerca evidenziava inoltre che più di sei ragazzi su dieci tra i 18 e i 29 anni andavano letteralmente a letto in compagnia del telefono.

A quattro anni di distanza, vale a dire nel 2012, una ricerca commissionata dalla società californiana Securenvoy su un campione di 1000 intervistati, ha evidenziato come ben il 66% ha paura di perdere il proprio cellulare. Un aumento del 13% rispetto alla medesima indagine condotta da YouGov’plc del 13%. Secondo il Ceo di SecurEnvoy, Andy Kemshall, le persone intervistate arrivano a controllare circa 34 volte al giorno il proprio cellulare, per assicurarsi che sia sempre presente e connesso.

Recentemente, presso il liceo Cairoli di Pavia, è stato condotto un esperimento dallo psichiatra Maurizio Fea con la collaborazione della professoressa Lucia Durigo. Questa interessante sperimentazione dal semplice scopo, ovvero rimanere 5 giorni senza social, era rivolto a un gruppo di 503 studenti. Di questi, 43 studenti hanno aderito alla sperimentazione, ma soltanto 8 di loro l’hanno portata a termine. Sul portale web del Corriere della Sera, con data 15 febbraio 2019, vi sono riportate le riflessioni a posteriore di una dei partecipanti, Carola Valsecchi. Eccone uno stralcio.

È stato come premere un bottone e ritrovarsi indietro nel tempo… Il primo giorno è filato liscio, è stato dal secondo che tutto è cominciato a sembrarmi così difficile… dal non poter inviare i soliti messaggi ai miei compagni a quella tentazione di controllare i “mi piace” su Instagram. È stata dura prima di andare a letto. Niente foto da commentare, fissavo il soffitto e mi sembrava di essere così sola…

Leggendo le considerazioni della giovane studentessa sorge però spontanea una domanda. È giusto continuare a considerare la nomofobia come semplice fobia? La risposta è negativa poiché i dati a supporti delle precedenti ricerche non collimano con questa “erronea” valutazione. La nomofobia va piuttosto considerata come una dipendenza comportamentale. Tuttavia, si può parlare di dipendenza vera e propria quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo dello strumento, al punto che insorgono disfunzioni significative nelle principali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva.

Ad avvalorare l’ipotesi secondo cui sia più opportuno considerare la nomofobia come dipendenza piuttosto che una fobia, è l’opinione del professore di psichiatria David Greenfield dell’Università del Connecticut. Secondo Greenfield l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello e piacevole, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).

Successivamente Walsh e White nel loro studio dal titolo Over-connected? A qualitative exploration of the relationship between Australian youth and their mobile phones (Walsh, White, 2007) affermano che in alcune giovani persone emerge un attaccamento estremo al cellulare con sintomi di dipendenza comportamentale. I sintomi evidenziati sono: salienza (cognitiva e comportamentale), conflitto, euforia o conforto, tolleranza, ritiro sociale, ricaduta e ripristino della dipendenza. Di notevole interesse sono i sintomi relativi alla salienza cognitiva, all’euforia e al ritiro sociale o impotenza. La salienza cognitiva si presenta quando il pensiero del cellulare esclude, ovvero “distrae” da altri processi di pensiero così da non potersi focalizzare su altre attività. L’euforia (o conforto) associata all’uso del cellulare si riferisce alle sensazioni in cui ci sentiamo amati e/o ben considerati quando riceviamo telefonate o messaggi. Infine il ritiro sociale o impotenza riguarda la spiacevole sensazione di sentirsi incapace di fare determinate cose senza l’ausilio del proprio mobile phone. La maggior parte degli aderenti allo studio inoltre riferiva di percepire, nel momento in cui non poteva essere usare o essere contattata dal proprio cellulare, elevati livelli di disagio personale che derivano dalla sensazione di essere disconnessi dalle altre persone.

Nel 2010, un ulteriore studio condotto dai dei ricercatori brasiliani dell’Università Federale di Rio de Janeiro denominato Nomophobia: the mobile phone in panic disorder with agoraphobia: reducing phobias or worsening of dependance? (King, Valença, Nardi, 2010) dà un ennesimo slancio verso la conferma della nomofobia in quanto dipendenza. I ricercatori brasiliani avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento di tale “malattia”.

Un interessante parallelismo che possiamo fare, parlando ancora di Nomofobia, consiste nel considerare lo smartphone in quanto strumento tecnologico strettamente persuasivo. A tal proposito, la Captologia di Fogg ci dà un enorme contributo. Questa recente area d’indagine esplora lo spazio di confine tra persuasione (influenza, motivazione, cambio di comportamento e così via) e tecnologia del computer. Il campo della captologia cresce rapidamente: ogni giorno nuovi prodotti informatici, inclusi siti web, applicazioni mobili o social network, sono progettati per cambiare ciò che le persone pensano e fanno. Dei 42 diversi principi captologici teorizzati da Fogg per spiegare come le tecnologie attuano la persuasione ve ne sono alcuni che in misura maggiore degli altri, ma senza per questo tralasciare gli altri, possono spiegare come mai il mobile phone sia uno strumento così persuasivo. Gli assiomi di cui vi voglio parlare sono gli stessi che avevo già citato in un mio vecchio articolo pubblicato su State of Mind a proposito di Pokémon Go, ovvero il fattore kairos, il fattore comodità e il principio della semplicità mobile. Senza stare a dilungarmi troppo vi invito a leggere il brano “Oltre l’aspetto ludico: Pokémon Go tra captologia, tecnologia positiva e intelligenza emotiva”.

Phubbing

Il termine phubbing è un neologismo sincretico, coniato nel 2012 presso l’Universitàdi Sidney dall’australiano Alex Haig. Questo termine, nato dalla fusione delle parole phone e snubbing (snobbare) e descrive l’atteggiamento di chi, in compagnia di qualcuno, lo ignora a favore del proprio smartphone (o tablet). Nel 2016, il termine phubbing è stato accettato nell’Oxford English Dictionary.

Nato per mettere in contatto, il cellulare sta diventando una sorta di barriera virtuale e psicologica. In uno studio del 2016, condotto dall’Università di Baylor nel Texas (Roberts, David, 2016), era stata indagata la presenza di questo fenomeno in relazione ai livelli di insoddisfazione e conflitto all’interno di 145 coppie. Gli autori avevano somministrato un questionario in cui si chiedeva di individuare una serie di comportamenti come il tenere il cellulare in mano da parte del partner quando in vicinanza del compagno/a oppure lanciare spesso occhiate al telefono mentre parla con lui/lei. Dai risultati evidenziati dai due ricercatori era emerso che:

a) il 46% ha dichiarato di aver subito phubbing dal partner;
b) il 67% ha provato, di fronte a tale atteggiamento, frustrazione, insoddisfazione e malessere;
c) il 23% ha riportato come questa abitudine abbia provocato un aumento del conflitto nella relazione di coppia.

L’uso eccessivo e in alcuni casi ossessivo dello smartphone, oltre a creare dipendenza, può dunque condurre a conflitti interpersonali, minando il benessere personale e relazionale. Dalla ricerca è emerso che tale effetto è più evidente nelle persone che di per sé presentano ansia e insicurezza nelle relazioni. Gli stessi autori, in un altro studio condotto nel 2017 dal titolo Phubbed and Alone: Phone Snubbing, Social Exclusion, and Attachment to Social Media sostengono che le vittime di tale mania, a loro volta, si rifugiano nel phubbing. Secondo i due ricercatori:

Quando un individuo subisce phubbing si sente socialmente escluso, e questo conduce ad un bisogno molto forte di attenzione. I partecipanti all’indagine – continuano gli studiosi – invece di recuperare l’interazione faccia a faccia, e così ricostruire un senso di inclusione, preferiscono rivolgersi ai social network per riguadagnare quel senso di appartenenza che viene a mancare.

Si viene a creare così un circolo vizioso e deleterio che annichilisce i rapporti.

Un’altra ricerca dell’Università del Kent (Chotpitayasunondh, Douglas, 2018) ha esaminato l’effetto del phubbing nelle situazioni sociali one to one evidenziando come tale fenomeno influisca in maniera negativa sul modo in cui la persona che subisce il phubbing si senta rispetto all’interazione con l’altra persona. 153 partecipanti sono stati invitati a seguire lo svolgersi di una conversazione tra due persone, identificandosi nella coppia. Ad ogni partecipante è stata assegnata una delle tre situazioni in cui immaginarsi: nessun phubbing, phubbing parziale o “ampio phubbing”. I risultati? Più il livello di phubbing aumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era povera e insoddisfacente. I ricercatori hanno così descritto il phubbing come una forma specifica di esclusione sociale che minaccia i bisogni umani fondamentali delle persone come l’autostima, il senso di realizzazione, il controllo e il senso di apparteneza… un fattore importante per la felicità umana. A differenza di altre forme di esclusione sociale il phubbing, secondo gli autori della ricerca, può avvenire ovunque e in qualsiasi momento. Basta solo usare il proprio smartphone ignorando il proprio interlocutore.

Vamping

Il vamping, ovvero la tendenza a restare connessi sui social per l’intera notte, è un fenomeno nato negli Stati Uniti che si sta rapidamente diffondendo anche in Italia. Si tratta di ragazzi che sembrano vivere la propria vita sociale e social nelle ore notturne, sentendosi poi stanchi, fiacchi e inconcludenti nelle ore diurne, nelle quali dovrebbe espletarsi la vera vita adolescenziale. Secondo l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo i segni clinici che contraddistinguono questo fenomeno sono:

  • frequentare e navigare sui social e sui messanger tutta la notte
  • dormire poche ore per notte
  • irritabilità e nervosismo
  • scarsa attenzione
  • scarso rendimento a scuola

Quali sono le cause che scatenano questo fenomeno tra i giovani? E soprattutto, quali sono gli effetti negativi che provoca? L’adolescenza è una delle fasi più delicate e problematiche della vita di una persona: questo periodo segna il passaggio da una fase infantile ad una fase “pre-adulta”. Le cause del vamping si collegano principalmente ad una tendenza di ribellione caratterizzante la fase adolescenziale e alla mancanza di socializzazione con i pari per il solo piacere di farlo. Il bisogno di ribellione spinge i giovani ad aspettare la quiete notturna per collegarsi ed effettuare ciò che non è concesso durante la giornata (ad esempio fare binge watching, chattare su Facebook o postare contemporaneamente foto e selfie su Instagram) liberandosi così dal controllo genitoriale. I ragazzi sperimentano così una sensazione di libertà e un piacevole senso di autonomia, sentendosi padroni della propria vita. Inoltre, l’essere coinvolto in multichat notturne, come nel caso dei gruppi di Whatsapp o Telegram, fa sperimentare al ragazzo la soddisfacente percezione di essere parte di un gruppo unico, sentendosi così speciale.

A proposito delle conseguenze dannose provocate dal vamping troviamo: il disturbo del sonno, un basso rendimento scolastico, una “dipendenza” dalla tecnologia dovuta dalla tendenza a preferire la vita virtuale piuttosto che quella reale, irritabilità, disturbi dell’umore, stanchezza, debolezza cronica, episodi di cybersickness ovvero nausea, vertigine, mal di testa, senso di confusione causati dalla lunga esposizione all’ausilio elettronico (Hui Chang, Wen Pan, Tseng, Stoffreg, 2012). Quando con il touchscreen si sposta lo schermo su e giù, il cervello rivela difatti un movimento ma la confusione provocata dal fatto che il corpo resta fermo genera un senso di nausea. Infine, tra i tanti effetti negativi sopra citati, troviamo un affaticamento oculare scatenato dalla cosiddetta luce blu presente nei dispositivi elettronici che, oltre a portare con sé vari problemi alla vista, altera la secrezione della melatonina che regola il ciclo sonno-veglia, e quindi impedisce l’addormentamento. Inoltre, la carenza stessa di sonno, a lungo andare può portare a evidenti stati di allucinazione che portano i ragazzi a confondere la realtà dalla fantasia. Uno studio intitolato Sleep, Emotional and Behavioural Difficulties in Children and Adolescents (Gregory, Sadeh, 2015) conferma come i bambini che dormono male e poco rischiano di sviluppare problemi come depressione, ansia e disordini alimentari nonché comportamenti antisociali o predisposizione a sviluppare dipendenze da sostanze come alcol e droghe. A spingerli a questa correlazione è stata l’analisi di cinque anni di disturbi e problemi nel sonno dei giovani.

È davvero il vamping una patologia da curare? Siamo di fronte ad una patologia da curare? In un’intervista rilasciata sul portale Sanità Informazione Lino Nobili, neurofisiopatologo e neuropsichiatra responsabile del centro di Medicina del Sonno dell’ospedale Niguarda di Milano, dice:

Piuttosto lo definirei un aspetto sociale importante, da non sottovalutare. Questo disturbo del ritmo del sonno, causato dal Vamping, può creare anche un’alterazione dell’umore. Ma allo stesso tempo, può essere un disturbo dell’umore, già presente, a creare la necessità di un rifugio notturno nel web. Ogni adolescente ha una storia a sé. Per aiutarlo a superare questo attaccamento ad Internet bisogna scoprire quale sia l’origine del circolo vizioso che si è instaurato. È davvero il Vamping a causare l’insonnia, o piuttosto l’insonnia è la conseguenza di un disagio sociale?.

La lingua segreta del corpo. Approfondire il tema della comunicazione non verbale (2017) di A. A. Schützenberger – Recensione del libro

È solo attraverso l’attualizzazione incessante nel e tramite il corpo che l’individuo è nel mondo che lo circonda. Sono queste le parole che concludono il libro di Anne Ancelin Schützenberger La lingua segreta del corpo, un libro che come una matrioska russa affronta il tema della comunicazione non verbale: man mano che si va avanti nella lettura dei capitoli ci si avvicina sempre più a un aspetto particolare del misterioso e ancora molto sconosciuto linguaggio del corpo.

 

La lingua segreta del corpo è un meraviglioso elogio alla bellezza insita nella relazione umana: ogni qualvolta che dialoghiamo con qualcuno dobbiamo tener conto non solo della comunicazione verbale ma anche della comunicazione non verbale, la quale sfugge al controllo sociale razionale e al cosciente. Ma come possiamo afferrarla nella sua totalità ed avere così un’idea chiara di ciò che l’altro ci sta dicendo? È questo che l’autrice Anne Ancelin Schützenberger cercherà di spiegarci mettendo nero su bianco i suoi molteplici studi sull’essenza della conversazione.

La lingua segreta del corpo ci guida in un viaggio che apre gli occhi su tutte le componenti della comunicazione: il corpo, le emozioni, la personalità, attraverso concetti che provengono da molte scienze, dalla psicologia alla fisica, e citazioni di studi di comprovata importanza.

Chi pensa che possa esserci un dizionario del comportamento vive in una falsa credenza: non si può ridurre la comunicazione non verbale ad un insieme di codici universali.

La comunicazione non verbale non informa in maniera neutra e distaccata, essa implica, cioè richiede un’immersione totale degli individui nello scambio comunicativo in atto. È proprio questo non essere codificabile e generalizzabile che ci porta ad una continua interrogazione sulla funzione essenziale del linguaggio: far arrivare alla coscienza ciò che altrimenti rimarrebbe inespresso.

Tutto ciò che esiste è comunicazione e poiché siamo inseriti in una totalità relazionale il nostro modo di parlare all’altro è strettamente non definibile a priori.

Nel suo libro La lingua segreta del corpo, Anne Ancelin Schützenberger sembra dare voce al corpo, luogo centrale della comunicazione, e quest’ultimo sembra invitarci a prestargli un’attenzione particolare, ogni qualvolta si trovi davanti ai nostri occhi. Questo libro dunque è adatto a chi vuol andare oltre il conoscibile, il visibile, il guardabile, a chi vuol capire il complicato mondo delle relazioni umane e vuol sapere quel per di più che il nostro corpo comunica ma che non tutti sanno leggere.

Gli occhi della mente: cosa guardiamo quando non guardiamo nulla?

Possono i nostri occhi muoversi anche quando non c’è nulla da vedere? Un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, ha mostrato come piccoli movimenti oculari possano rivelare lo spazio in cui la persona alloca l’attenzione, uno spazio memorizzato e non visivo.

 

La scoperta condotta dall’Oxford Centre for Human Brain Activity del dipartimento di Psichiatria e dal dipartimento di Psicologia Sperimentale dell’università di Oxford dà il suo contributo nel sottolineare la partecipazione del sistema oculomotore nel focalizzare l’attenzione nello spazio interno della memoria.

Attenzione, memoria e sguardo: come funzionano

L’attenzione spaziale e il controllo oculare dello sguardo da parte di specifiche aree cerebrali sono spesso in associazione tra di loro per quanto riguarda la percezione dello spazio esterno (Krauzlis, Lovejoy & Zénon, 2013): questo perché le informazioni che vengono raccolte tramite la focalizzazione dell’attenzione all’esterno possono guidare e indicare la direzione dello sguardo successivo e far si che l’individuo possa, sulla base di esso, esplorare in modo più approfondito l’ambiente esterno circostante e selezionare di conseguenza il comportamento più adatto.

Il tutto a partire dal controllo dello sguardo e dall’attenzione (Martinez-Conde & Alexander, 2019).

Tuttavia l’attenzione oltre che all’ambiente esterno può essere diretta anche internamente a rappresentazioni contenute nel piano spaziale della memoria di lavoro visiva: è infatti possibile direzionare lo sguardo anche ad oggetti e a persone solo “tratteggiati” nella mente come sottolineato dal nuovo studio del gruppo di ricerca di van Ede, Checkroud e Nobre (2019).

In questo specifico caso, l’incentivo ad utilizzare le risorse attentive per direzionare lo sguardo si verifica quando di fatto non vi è alcun target o oggetto esterno sul quale porre attenzione.

Le evidenze dello studio qui descritto (van Ede, Checkround e Nobre, 2019) sono state ottenute tramite 4 esperimenti, impiegando sia analisi elettroencefalografiche per l’esame dell’attività delle regioni cerebrali associate alla working memory sia analisi simultanee dei movimenti oculari di entrambi gli occhi tramite eye-traker EyeLink 1000 su un gruppo sperimentale di circa 25 studenti volontari.

Attenzione, memoria, sguardo: lo studio

In ciascuno dei quattro esperimenti è stato richiesto ai soggetti di memorizzare numerose barre colorate e orientate in modo diverso nello spazio rispetto ad un punto di fissazione centrale, e di riprodurne, per ciascuna, tramite l’utilizzo della memoria, l’orientamento e il colore mentre nello schermo davanti a loro veniva proiettato soltanto il punto di fissazione centrale.

Nel dettaglio, l’esperimento 1 ha richiesto ai partecipanti di memorizzare due barre di differente colore e orientamento, poste in modo del tutto casuale o a destra o a sinistra rispetto ad una croce centrale che rappresentava il punto di fissazione; dopo circa un intervallo temporale di pochi secondi, la croce cambiava colore per indicare ai soggetti sperimentali di riportare l’orientamento della barra che era precedentemente apparsa.

Nonostante in questa fase non fosse richiesto esplicitamente il coinvolgimento di informazioni mnestiche, cioè di ricordare la posizione della barra ma semplicemente il suo orientamento, i ricercatori hanno comunque osservato un bias nel direzionamento dello sguardo tramite l’eye traker: se la barra appariva a sinistra, di conseguenza vi era un allineamento dello sguardo dei soggetti verso sinistra anche se la barra non era effettivamente presente sullo schermo.

Questo bias dello sguardo rilevato nella direzione della barra memorizzata non è stato sufficientemente ampio da poter costituire uno sguardo tout court, ma è risultato consistente con uno shift nella direzione delle microsaccadi, cioè di quei piccoli movimenti oculari involontari prodotti durante i tentativi di fissazione dello sguardo (van Ede, Checkround e Nobre, 2019).

Il secondo esperimento ha tentato di integrare i risultati del precedente aggiungendo alla serie di barre colorate e orientate anche un cue informativo (neutro o colorato) che avrebbe indicato loro con una validità del 100 % quale item sarebbe apparso dopo l’intervallo di tempo: in questa condizione, il bias nella direzione dello sguardo si è osservato molto dopo la comparsa del cue informativo, anziché dopo la presentazione della barra.

A parere degli autori della ricerca, ciò ha indicato come il cue informativo abbia da solo contribuito e facilitato la focalizzazione dell’attenzione sulla localizzazione spaziale dell’item rilevante senza alcun bisogno delle informazioni provenienti dalla barra che sarebbe comparsa solo successivamente, suggerendo come sia stato sufficiente lo sguardo da solo a rifocalizzare l’attenzione.

Infine, nel quarto esperimento, i ricercatori hanno osservato come il bias nello sguardo, dimostrato nell’esperimento 1 e 2 nel focalizzare l’attenzione verso le direzioni spaziali memorizzate, non riguarda unicamente l’orientamento delle barre ma si manifesta anche nei report circa il colore di quest’ultime.

Attenzione, memoria, sguardo: i risultati dello studio

Le evidenze del gruppo di Oxford hanno innanzitutto indicato come la direzione delle microsaccadi guidi la focalizzazione dell’attenzione seguendo lo spazio interno memorizzato nella working memory e non uno visivo; in secondo luogo, gli esperimenti dimostrano che ciò è possibile grazie anche al coinvolgimento del sistema cerebrale oculomotore con effetti che possono essere osservati, riscontrati nei movimenti oculari e possono essere utilizzati per predire i benefici prestazionali come osservato nell’esperimento dei cue informativi (van Ede, Checkround e Nobre, 2019).

La selezione di un item dalla memoria di lavoro visiva influenza il controllo dello sguardo che va nella direzione della posizione in cui l’item è stato memorizzato, nonostante non ci sia niente da osservare e senza che la memoria spaziale sia stata mai chiamata in causa esplicitamente (Martinez-Conde & Alexander, 2019).

In conclusione, Martinez-Conde & Alexander (2019) del dipartimento di oftalmologia del Downstate Medical Center di Brooklyn, New York, sottolineano come questi bias nello sguardo potranno potenzialmente costituire indicatori diagnostici precoci per deficit mnestici e cognitivi, soprattutto alla luce delle recenti scoperte di alterazioni delle microsaccadi in alcuni disturbi neurologici (Alexander, Macknik & Martinez-Conde, 2018).

Amore, Transfert e Psicopatologia: il caso di Carl Gustav Jung e Sabina Spierlein

Chi era Sabina Spierlein? E quale tipo di relazione ha avuto con Carl Gustav Jung, l’allievo di Freud? La loro storia ci porta a comprendere più da vicino come si legano amore, transfert e psicopatologia nel caso del transfert erotico.

 

Quando morirò voglio che il dottor Jung abbia la mia testa, solo lui potrà aprirla e sezionarla. Voglio che il mio corpo sia cremato e che le ceneri siano sparse sotto una quercia, e voglio che qualcuno scriva: “Anche lei era un essere umano”.

 

Queste parole sono tratte dal film “Prendimi l’anima”, è Sabina Spielrein a pronunciarle, in uno dei periodi più cupi della sua vita.

Sabina Spielrein è nata a Rostov sul Don nel 1885 da una famiglia ebrea benestante dell’Unione Sovietica. A 19 anni, dopo la morte della sorella, emersero delle profonde crisi depressive che la costrinsero ad internarsi in uno dei più importanti ospedali di Zurigo. Fu proprio in quell’ospedale che ricevette delle cure, che, in un anno, la fecero rinvigorire. Ad occuparsi di lei fu il giovane dottor Carl Gustav Jung. Le cure furono diverse rispetto a come venivano trattate le persone che avevano turbe mentali in quel periodo. Il giovane Jung si occupò di aiutare la Spielrein attraverso la parola. Inizialmente la paziente era impaurita e persa nel suo mondo interno, ma a poco a poco, Jung attraverso la parola e le tecniche psicoterapeutiche che aveva appreso dal suo maestro Freud, riuscì a tranquillizzarla e ad instaurare una buona alleanza terapeutica. Per la prima, volta dopo tanto tempo, Sabina si sentì rassicurata e a poco a poco riuscì a raccontarsi e ad aprirsi al giovane e premuroso dottore.

Dai racconti della paziente, Jung riuscì a comprendere e a dare un nome alle sue turbe che le tormentavano l’animo. La ragazza infatti aveva una fissazione sulle feci, che cercava di trattenere in tutti i modi, e problemi di masturbazione compulsiva; soffriva inoltre di «pavor nocturnus», di allucinazioni, accessi di riso, urla e pianto, diversi problemi del comportamento (che oggi potremmo definire borderline) e, infine, di depressione. Jung le diagnosticò un’isteria psicotica.

Secondo alcune ricerche la psicosi isterica potrebbe essere il risultato di uno stile di attaccamento di tipo traumatico (McWilliams, 2011). Tuttavia nella versione attuale del DSM non viene più riportata questa diagnosi; ciò ha indotto i clinici a diagnosticare la schizofrenia, anche nei casi in cui sembrerebbe più corretto prendere in considerazione un processo isteroide di tipo traumatico (McWilliams, 2011).

Jung scrisse a Freud:

… sto applicando attualmente il Suo metodo alla cura di un’isteria. È un caso difficile: una studentessa russa ventenne, ammalata da sei anni. Primo trauma: verso il terzo-quarto anno di vita. La bimba vede il padre che percuote sul sedere nudo il fratello maggiore. Forte impressione. In seguito è costretta a pensare di aver defecato sulla mano del padre. Dal quarto al settimo anno continui tentativi di defecare sui propri piedi, compiuti nel modo seguente: si siede per terra tenendo un piede ripiegato sotto il corpo, preme il calcagno contro l’ano e cerca di defecare e, al tempo stesso, di impedire la defecazione. In questo modo frena più volte l’evacuazione anche per due intere settimane! Non so come sia arrivata a questa storia stranissima; si trattava, così pare, di un fatto di carattere assolutamente pulsionale, accompagnato da una deliziosa sensazione di orrore. In seguito questo fenomeno è stato sostituito da una masturbazione intensa. Le sarei estremamente grato se volesse comunicarmi in poche parole la Sua opinione su questa storia (Freud & Jung, 1990).

Dalle parole di Jung è possibile comprendere che la Spielrein aveva vissuto un evento perturbante in età edipica.

Rimozione, sessualizzazione e regressione

I meccanismi di difesa principalmente implicati nell’isteria, sono: la rimozione, la sessualizzazione e la regressione (McWilliams, 2011).

La rimozione, in accordo con le idee di Freud, è un processo mentale centrale nell’isteria (McWilliams, 2011). Nello specifico, Freud riteneva che i vissuti traumatici infantili (spesso incestuosi) fossero rimossi dai pazienti (McWilliams, 2011). Attraverso l’ipnosi, i pazienti rivivevano i traumi e li riportavano alla coscienza ed i sintomi isterici scomparivano (McWilliams, 2011). Quindi, eliminare la rimozione e far emergere il ricordo traumatico, era uno dei compiti più importanti dell’analista (McWilliams, 2011). Freud infine si convinse che i ricordi che venivano rimossi da questi pazienti, erano fantasie ed impulsi di tipo sessuale, paure ed affetti dolorosi (McWilliams, 2011). In particolare, secondo lo psicoanalista, l’educazione che mira alla censura e alla repressione delle pulsioni sessuali può aumentare il rischio dell’insorgenza di isteria in quanto questa forza biologica viene deviata ma non eliminata (McWilliams, 2011).

Fu proprio da queste considerazioni, che Freud, cominciò a vedere alcune malattie come conversioni dell’impulso in sintomi biologici (McWilliams, 2011). Tuttavia, secondo Freud l’isteria è il risultato della lotta tra l’Es e il Super-Io (McWilliams, 2011).

Oltre la sessualizzazione e la rimozione, le pazienti isteriche utilizzano la regressione, soprattutto nelle situazioni in cui si sentono insicure, rifiutate; per evitare sensi di colpa o paure inconsce, nel tentativo di disarmare chi potrebbe maltrattarle o rifiutarle, adottano un atteggiamento infantile ed indifeso (McWilliams, 2011). Infatti possono diventare dipendenti, piagnucolose, ammalarsi fisicamente e lamentose (McWilliams, 2011).

Il trattamento e la fine della “relazione” terapeutica

Fu proprio attraverso “la parola”, come affermato in precedenza, che Jung si avvicinò a Sabina per condurla alla riappropriazione del senso di sé e reimmetterla nella pensabilità umana. Tuttavia, con la parola le dona confidenze e aspetti di sé fino ad allora custoditi in privato, con la parola la calma, la rassicura, la guarisce, ma anche la seduce.

Sabina, anche grazie alle cure di Jung, guarì, si iscrisse all’Università e si laureò in medicina, specializzandosi in psicoanalisi e pedagogia presso la facoltà di medicina dell’Università di Zurigo. La Spielrein si laureò con una tesi su un caso di schizofrenia: “Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia”, che fu pubblicato nel 1911 sullo Jahrbuch. Nello stesso anno divenne membro della Società di Psicoanalisi di Vienna. La Spielrein parlò nei suoi scritti della paura del sesso nello psicotico, collegandola alla paura di disintegrazione del paziente: la paura di perdere se stessi, di dissolversi in un’altra persona amata. Per questo, secondo la Spielrein gli schizofrenici sostituiscono la realtà con le loro fantasie. Anche nei suoi lavori successivi la Spielrein tornò più volte su questo tema del perdere se stessi.

Nel tempo, intanto, la relazione terapeutica e professionale con Jung era diventata amore: iniziò infatti fra loro una relazione intensa, che sarebbe durata sette anni. Anche Jung si lasciò coinvolgere completamente da questa storia d’amore e vi si spinse forse molto al di là di quanto avrebbe dovuto. Il rapporto fra Jung e la Spielrein andò nettamente in crisi quando, sul finire della relazione, Sabina cominciò pressantemente a chiedere un figlio a Jung che invece, essendo sposato, non voleva darglielo, per non rischiare lo scandalo.

Lo scandalo tuttavia emerse ugualmente in quanto la madre di Sabina un giorno si vide recapitare una lettera (forse scritta in forma anonima dalla moglie di Jung) in cui le si suggeriva di prestare più attenzione ai comportamenti della figlia. Nel 1912 Sabina Spierlein sposa il medico russo Pavel Scheftel, anche se, dentro di lei, non dimenticherà mai Jung (infatti i due continuarono il rapporto epistolare fino al 1919).

La Spierlein e la psicoanalisi

I contributi della Spierlein vengono ripresi dallo stesso Freud, con il quale la donna ha avuto una fitta corrispondenza.

Nel 1913 nasce sua figlia Renate con la quale torna in Russia nel 1923. Si stabilisce a Mosca, che era in pieno fermento per le idee e le riforme introdotte da Lenin. Qui si specializza nel campo della psicoanalisi e della psicologia infantile e diventa direttrice dell’asilo bianco, così chiamato per il colore con il quale erano dipinti i suoi interni. L’asilo bianco, fondato da Vera Schmidt, rappresenta un esperimento ambizioso in cui Sabina non smise mai di credere: in esso i bambini (tra cui anche il figlio di Stalin) venivano fatti crescere in assoluta libertà, per aiutarli a diventare uomini e veramente liberi.

Il sogno dell’asilo bianco si interrompe tuttavia bruscamente durante gli anni della dittatura di Stalin. Il regime fa chiudere l’asilo, bandisce la psicoanalisi, infatti, nel 1924 Stalin dichiarò la psicoanalisi fuori legge, ma Sabina continuò, illegalmente, a praticarla in privato. Durante il regime staliniano morirono sia i fratelli che il marito della Spielrein (1938). Nel 1941 Rostov sul Don fu occupata dall’esercito Tedesco. La psicoanalista non credeva fino in fondo alla crudeltà nazista e per questo si rifiutò di fuggire dalla sua città. Con molti altri ebrei e con le sue due figlie (28 e 18 anni), fu invece portata in una sinagoga e uccisa dai nazisti nell’agosto del 1942. Non si conosce la data precisa della sua morte.

Le ricerche sulla seconda parte della vita della Spielrein sono state difficili, ma hanno avuto una svolta decisiva quando Roberto Faenza, il regista del film “Prendimi l’anima” ha rintracciato per caso il figlio di Vera Schmidt, ultimo sopravvissuto tra i bimbi che avevano frequentato l’asilo bianco. I suoi scritti di psicoanalisi sono stati giudicati interessanti ed originali. Spicca fra tutti l’epistolario intrattenuto con Freud e Jung ed il diario che Sabina scrisse durante la sua relazione terapeutica e sentimentale con Jung stesso, dalla quale esce non solo guarita ma anche desiderosa di condividere con la sua intelligenza la storia della psicoanalisi. Infatti fu la prima donna ad esercitare la psicoanalisi in Russia.

Implicazioni sulla psicoanalisi

Durante la terapia, Sabina idealizza Jung e gli confessa di avere una forte attrazione verso di lui. Inizialmente Jung le conferma e pare che ricambi questi desideri (De Masi, 2012), dopo desiste e cerca in tutti i modi di sopprimere questa pericolosa relazione (De Masi, 2012).

Attraverso la storia di Sabina Spielrein e Jung, è stato possibile studiare ed inserire nelle tipologie di transfert, il transfert passionale-erotico (De Masi, 2012) (che pare abbia accompagnato per diversi anni la Spierlein, anche durante il matrimonio e le gravidanze). Il transfert erotico può prendere avvio da emozioni positive per costruire nuove esperienze condivise oppure, trarre alimento da costruzioni falsificate e distorte (De Masi, 2012). Nel primo caso viene inteso come una forza propulsiva al cambiamento, nel secondo caso corrisponde ad una fuga dalla realtà psichica e può trasformarsi in un vero e proprio delirio (De Masi, 2012). Sul versante clinico, ci sono casi in cui è possibile analizzarlo e ricorda un amore ideale infantile e casi in cui è difficile da trattare e quindi assume un carattere maligno, simile ad uno stato delirante (De Masi, 2012).

Infine, secondo Freud, occorrerebbe mantenere in vita questo tipo di transfert per poterlo interpretare e per poter comprendere le origini infantili e risolverle e nel frattempo l’analista dovrebbe fare affidamento alle sue competenze analitiche per poter resistere alle continue provocazioni delle pazienti (De Masi, 2012).

Nonostante Sabina Spielrein tentasse in tutti i modi di spiegare la natura delle sue fantasie, l’allievo di Freud non le analizzava (De Masi, 2012). Tuttavia la natura delle sue fantasie gli servì per le sue teorizzazioni future (aveva solo 21 anni!) (De Masi, 2012).

 

GUARDA IL TRAILER DEL FILM “PRENDIMI L’ANIMA”:

Lettera aperta del CIPA per contrastare il clima di intolleranza e disumanità che si sta diffondendo nel nostro Paese – Comunicato stampa

Noi soci del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), nel firmare questo appello, vogliamo esprimere con spirito unitario la nostra profonda preoccupazione per il clima di intolleranza e disumanità che si sta diffondendo nel nostro paese, in particolare dopo l’emanazione del “Decreto Sicurezza”.

 

Nel condividere appieno le lettere già inviate sulla questione dei migranti dai colleghi della SPI, dell’AIPA e dell’ARPA al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, vogliamo proporre a tutti i colleghi che lavorano con il disagio mentale di organizzare una manifestazione comune per costituire un movimento d’opinione che sostenga con forza i valori dell’accoglienza e dell’integrazione, proprio come principi cardine della nostra pratica psicoterapeutica, nonché della salute psichica e della vita sociale.

Come recita l’art.2 dello Statuto dell’International Association for Analytical Psychology:

Le Società appartenenti alla IAAP si impegnano a seguire una politica di non discriminazione in base alla razza, alla religione, all’origine etnica, al sesso e all’orientamento sessuale. Tale atteggiamento verrà mantenuto in tutte le attività dei Gruppi IAAP quali l’ammissione di membri alle associazioni, nel training e nei confronti del pubblico invitato ad intervenire alle manifestazioni promosse dalle varie società.

Collegare il problema della sicurezza con l’immigrazione è sbagliato e pericoloso. Perché riduce a tema di ordine pubblico un fenomeno geopolitico di portata storica, figlio di emarginazione, barbarie umana, economica e sociale. Perché annulla la sofferenza di migliaia di esseri umani costretti a fuggire da realtà di morte, tortura, miseria.

Perché, additando un nemico nel diverso, diffonde una cultura razzista e xenofoba, che si incunea nello spaesamento, nello sconcerto, nella paura delle popolazioni occidentali.

Perché dà una risposta sbagliata e riduttiva a un problema vero e complesso.

Perché la sicurezza si costruisce con politiche di accoglienza e integrazione, che valorizzino le singole individualità, che facciano vivere nel tessuto della società il valore dello scambio e del multiculturalismo.

Il nostro lavoro quotidiano ci porta continuamente a misurarci con angosce, paure, sofferenze che sono anche figlie di un clima culturale spaventoso e spaventante. Le conseguenze di questo clima non ricadono soltanto sulle vittime di atteggiamenti razzisti e xenofobi, ma sull’intera nostra società, che rischia di impoverirsi dei valori apportati dal confronto con l’altro e di rifiutare la capacità umana di riconoscere e di avere a che fare con la sofferenza, con il conseguente rischio di generare una società psicopatica, paranoica e autoritaria.

La nostra associazione si è già espressa sui valori dell’accoglienza nello scorso congresso nazionale (Roma 2016) e riaffronterà l’argomento nel prossimo congresso nazionale (Milano 2020), oltreché in diversi seminari tenuti nell’Istituto Meridionale.

Pensiamo che sia però necessario, in un momento così difficile per la cultura e la vita democratica, che tutti coloro che comprendono il valore dell’accoglienza e dell’integrazione per la tutela della salute psichica, individuale e collettiva, si
uniscano per un’azione forte ed efficace nell’organizzazione insieme di iniziative pubbliche di confronto, discussione e testimonianza.

 

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Malattie a trasmissione sessuale. La necessità della prevenzione – Report del convegno di Palermo

Lo scorso 1 Marzo presso il Policlinico Universitario Paolo Giaccone di Palermo si è tenuto un importante momento di confronto sul tema delle malattie sessualmente trasmissibili che ha coinvolto tutti i professionisti che ogni giorno hanno a che fare questo tipo di patologie.

 

Le malattie sessualmente trasmissibili (MST) rappresentano un problema notevole di salute pubblica: clamidia, sifilide, gonorrea, HPV, fino all’ancora attualissimo e mai scomparso AIDS, necessitano di diagnosi tempestive e terapie mirate, ma soprattutto di campagne di prevenzione, di sensibilizzazione all’utilizzo dei sistemi contraccettivi, primi tra tutti del condom nei rapporti occasionali, di strutturazione di programmi di informazione massiccia rivolti in particolar modo ai giovani.

Questo il messaggio forte lanciato in occasione dell’evento sui percorsi diagnostici e assistenziali delle malattie sessualmente trasmessibili, tenutosi a Palermo lo scorso 1 Marzo presso il Policlinico Universitario Paolo Giaccone.

Un dibattito animato da differenti specialità mediche: ginecologi, dermatologi, urologi, in un confronto dove la medicina, in cooperazione con la scienza psicologica, ha mostrato i passi in avanti fatti sul campo e le difficoltà rilevate, le criticità da affrontare per aumentare la consapevolezza dei rischi di esposizione a malattie che possono, se non trattate, condurre a esiti fatali.

Le MST rappresentano un problema temibile per la salute, l’integrità fisica e psichica e la vita stessa – commenta Anna Teresa Palamara, Dipartimento malattie infettive Università Sapienza di Roma – Basti pensare alla sterilità causata dalla clamidia o il cancro dell’utero provocato dal virus HPV. Alla luce del fatto che i sintomi di tali malattie spesso sono silenti, e la malattia asintomatica, è opportuno diffondere la cultura di una prevenzione precoce e disporre il territorio di Centri specifici in cui si garantisca l’anonimato e l’effettuazione di screening di rilevazione delle malattie sessualmente trasmissibili, prima ancora che la patologia si manifesti.

Malattie sessualmente trasmissibili - Report dal convegno di Palermo

La risposta della città di Palermo alle malattie sessualmente trasmissibili

E mentre i relatori presentano i dati nazionali sull’epidemiologia delle MST, con il primato della sifilide nella realtà ospedaliera palermitana, sempre più stringente si fa il riferimento corale a un Centro funzionale per la gestione delle malattie sessualmente trasmissibili, con caratteristiche precise di innovazione e funzionalità.

Nell’Unità che pensiamo con accesso garantito ai più giovani, gratuita e anonima, immaginiamo la presenza dell’infermiere in accoglienza e di un medico prelevatore – spiega Anna Giammanco dell’Università degli studi di Palermo – La figura dello psicologo è importante, ma lo riteniamo più utile nelle fasi successive al primo contatto e per garantire la compliance della terapia. 

Una struttura in cui accedere ancora prima della manifestazione dei sintomi, in cui garantire cure all’intera popolazione italiana, ma estese anche ai migranti, in cui le MST rappresentano un serio problema di sanità.

Povertà, prigionia, esperienze di sesso non protetto magari per effetto dell’assunzione di sostanze disinibenti, come nel recente fenomeno del Chemsex, risultano così alla base della proliferazione dei sintomi delle malattie sessualmente trasmissibili, a volte mortali, che possono trasmettersi alla prole, come per l’herpes simplex, e che richiedono campagne di informazione, centri dedicati, in un cambiamento radicale del modo di intendere sesso, godimento e tutela della salute.

Ansia e Alcool: il ruolo dell’ansia sociale nello sviluppo dell’alcolismo

L’alcolismo spesso costituisce una risposta alle situazioni che generano ansia. Tuttavia esistono diverse tipologie di disturbi d’ansia: qual è in particolare il ruolo dell’ ansia sociale nell’uso o abuso di alcol?

 

Di tutti i disturbi d’ansia, l’ ansia sociale risulterebbe avere un effetto diretto sul rischio di sviluppare una dipendenza da alcol. Lo indica una nuova ricerca della Norwegian Institute of Public Health.

Attraverso la somministrazione di interviste semi-strutturate ad un campione di 2,801 gemelli adulti, i ricercatori del presente studio hanno valutato la correlazione tra alcolismo, disturbo di ansia sociale, disturbo d’ansia generalizzata, disturbo da attacchi di panico, agorafobia e fobie specifiche. Ciò che è emerso è che, tra le diverse tipologie di disturbi d’ansia, il disturbo di ansia sociale è quello che aveva una più forte correlazione con l’ alcolismo.

Nello studio, il disturbo di ansia sociale ha infatti predetto la presenza di sintomi collegabili all’ alcolismo in maniera nettamente superiore rispetto agli altri disturbi d’ansia. In aggiunta, questa tipologia di distubo è risultata correlata a un più alto rischio di sviluppare successivamente una dipendenza da alcol. Non è stato lo stesso per gli altri disturbi d’ansia.

In conclusione

Questi risultati suggeriscono che gli interventi tesi alla prevenzione o al trattamento dell’ ansia sociale potrebbero avere un ulteriore effetto benefico nella prevenzione dell’ alcolismo.

Secondo i ricercatori, è fondamentale riconoscere che molti individui che soffrono di questa tipologia di disturbo non sono in trattamento: questo vuol dire che abbiamo un potenziale sottoutilizzato, non solo per la riduzione dell’enorme quantità di diagnosi di ansia sociale, ma anche per la prevenzione di problemi relativi all’ alcolismo in comorbilità con tale disturbo. A tal proposito, la terapia cognitivo-comportamentale e le sue esposizioni controllate alle situazioni temute ha mostrato ottimi risultati.

Il conformismo della psicoterapia, ovvero il tarlo che tormenta Galimberti

C’è poco da fare, dopo tutti questi anni il timore che la psicoterapia sia un’arma di conformismo sociale di massa continua a tormentare i cosiddetti intellettuali.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 16 marzo 2019

 

La psicoterapia cura l’anima ma crea conformisti? È un sospetto che è stato sollevato non poche volte. La stessa psicoanalisi ne fu accusata quando raggiunse negli anni ‘50 il culmine del suo successo come cura per la sofferenza emotiva. In seguito, da Fromm in poi, ribaltò l’accusa tornando alla testa della contestazione negli anni ’60.

Era vero però che nel decennio precedente alcune forme di psicoanalisi avevano partecipato a un intenso moto di adattamento sociale e psicologico. Un moto che aveva senso: occorreva stabilizzarsi dopo i disastri delle guerre mondiali, dopo gli eccidi della prima metà del secolo. Negli anni ’60 si doveva ridiscutere tutto e così avvenne: fu una rivoluzione sociale e culturale. Inizia in quegli anni la definitiva secolarizzazione di massa dell’occidente, si affacciano alla vita – e al mercato – i teenager, i costumi sessuali si liberalizzano. Esplodono le utopie sia individualistiche che comunistiche, e poco male se in questo sommovimento di idee e d’illusioni la protesta finisca per abbracciare anche un cadavere come il marxismo, ma questa è un’altra storia che sfocia nei più lugubri anni ’70. Nei ’60 fu tutta una festa, beati loro.

C’è poco da fare, dopo tutti questi anni il timore che la psicoterapia sia un’arma di conformismo sociale di massa continua a tormentare i cosiddetti intellettuali. Con una complicazione: prima il campo era tutto della psicoanalisi e il dubbio amletico di essere servi del potere era tutto interno a quell’orientamento. Ora le psicoterapie si sono moltiplicate fin troppo e si preferisce rinfacciarsi il peccato originale a vicenda.

Da qualche anno tocca a Umberto Galimberti dare dei conformisti ad altri psicoterapeuti. A chi, precisamente? Agli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali. Già nel 2005 così si era espresso:

sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto “psicologia del conformismo”, assumono come ideale di salute proprio quell’esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia.

Dal 2005 in poi Galimberti ha varie volte ripetuto questa idea. La risposta infine è arrivata: Giancarlo Dimaggio – che fa terapia cognitiva, naturalmente – si è fatto sentire sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera del 30 dicembre 2018 ripubblicato su State of Mind, ricordando che la psicoterapia cognitivo-comportamentale è – tra tutte le psicoterapie – quella più scientificamente confermata.

Tutto bene? In parte sì. Rimane il sospetto che noi psicoterapeuti – ieri psicoanalisti oggi cognitivisti – sembriamo attardarci un po’ troppo nelle giustificazioni. Troppe volte siamo lì ad assicurare il prossimo che la psicoterapia non è serva del potere o del capitalismo e tantomeno del conformismo. Sarà così? Forse che sì forse che no. O forse è irrilevante e la psicoterapia dovrebbe smetterla di giustificarsi. Che senso ha domandarsi se la psicoterapia sia figlia del capitalismo? La psicoterapia è semplicemente un mestiere, una professione e, come tale, ha i suoi limiti. Laddove invece essa – incolpata di partecipare alla decadenza dei tempi – s’interroghi sul suo impatto sullo spirito del mondo o sul senso dell’esistenza essa tradisce una tentazione sacerdotale. Conviene alla psicoterapia ergersi a movimento spirituale? Fuggevole ma alla lunga deleteria soddisfazione. Troppo spesso ci siamo intrattenuti con la similitudine tra il prete e lo psicoterapeuta, dicendoci forse non solo che il prete di ieri era un po’ come lo psicoterapeuta di oggi perché dava ascolto alle sofferenze emotive della gente, ma anche che lo psicoterapeuta di oggi è come il sacerdote di ieri perché la sua funzione non può limitarsi a quella del professionista della salute e deve incidere sul significato spirituale del nostro esistere nel mondo.

Questa visione non è laica. La psicoterapia si va sempre più professionalizzando e non può occuparsi del dilemma sociale e filosofico del conformismo. Non ne è all’altezza. Semmai deve volgere lo sguardo più in basso. Si richiedono livelli di aderenza a procedure replicabili sempre più precise. Si richiedono livelli di aggiornamento sempre più continuativi nel tempo. Non ci si illuda poi quando si parla un po’ pomposamente di relazione terapeutica. Per quanto in questo termine si annidi una residuale tentazione sacerdotale, man mano che la relazione terapeutica è sempre più studiata essa si proceduralizza a sua volta in misura crescente. Sebbene ci si sia a volte intrattenuti con una definizione vaga e ineffabile di empatia che risuona di accenti estatici e spiritualeggianti, sebbene ci si sia troppo affezionati agli aspetti più affettivi del legame terapeutico, ormai si insiste sempre di più con definizioni operative degli interventi relazionali: formulazione condivisa del caso, condivisione del razionale degli interventi, negoziazione degli obiettivi, regolazione del contratto terapeutico, validazione e self-disclosure. Sebbene nessuno si sogni di sostenere che una buona relazione terapeutica possa essere decisa a tavolino, sempre più è chiaro che essa debba essere promossa proattivamente mediante tecniche specifiche.

Occorre ammetterlo: se per capitalismo si intende la società dell’efficienza e della tecnica, non sta alla psicoterapia, intesa come strumento individuale di cura della salute emotiva, affrontare i possibili guasti sociali e spirituali di questo sistema economico. Al contrario, la psicoterapia come professione moderna deve essere consapevole di essere nata in epoca moderna all’interno del sistema economico capitalistico, non a caso sostituendo il prete per contrasto e non per somiglianza: per inaugurare una impostazione professionistica e non spirituale della cura dell’anima. La psicoterapia non può fare altro che addossarsi il compito di diffondere salute mentale con i modi propri della modernità in cui è nata: professionalità tecnica basata sulla scienza. Più di questo a essa non si può chiedere. Eventuali scenari futuri di superamento dell’attuale sistema capitalistico in favore di una nuova epoca storica post-capitalistica possono essere auspicabili ma sono totalmente al di là di quello che può promettere una buona psicoterapia. Semmai è compito di altre figure, tra le quali forse anche i filosofi di cui parla Galimberti, fare questo. E che lo facciano. Che svolgano il loro compito storico magari puntando a ben altro che a limitarsi a promuovere il counseling filosofico, come sembra suggerire lo stesso Galimberti, in una singolare involuzione acrobatica in cui improvvisamente passa da grandiose aspirazioni di palingenesi spirituale e cosmica a una misera adesione a una pratica di mercato come quella di aprire uno studio di counseling. Più capitalista di così.

7 giorni di Mindfulness. Esercizi per ritrovare se stessi in un mondo frenetico – Recensione del libro

Come si evince dal titolo, 7 giorni di Mindfulness è un piccolo manuale diviso in 7 capitoli, corrispondenti proprio ai 7 giorni della settimana, che ha lo scopo di guidare il lettore ad una pratica quotidiana che potrà essere ripetuta nel tempo. Lo scopo dell’autrice è quello di trasmettere al lettore delle semplici pratiche di meditazione perché si possa ritagliare uno spazio per sé nella quotidianità, abbandonando i pensieri più disturbanti e ritrovando la calma.

 

L’autrice è Maria Beatrice Toro, psicologa psicoterapeuta, direttrice della Scuola in Psicoterapia SCINT, responsabile del corso per istruttori mindfulness presso il Secondo Centro di Terapia Cognitivo Interpersonale e docente di psicologia presso diversi atenei italiani (presso l’Università LUMSA di Roma e presso l’Università Sapienza di Roma), oltre che presso diverse scuole di specializzazione in Psicoterapia.
Toro è autrice di oltre settanta pubblicazioni scientifiche e divulgative, tra cui Mindfulness insieme (2015) e Crescere con la mindfulness: Guida per bambini (e adulti) sotto pressione (2016).

Cos’è la Minfulness?

Jon Kabat-Zinn, dottorato in biologia molecolare, frequentò il corso di meditazione di Philip Kapleau, si avvicinò allo yoga e sviluppò nel 1979 un programma chiamato Stress Reduction and Relaxation Program che successivamente divenne il programma Mindfulness, dedicato al porre attenzione al momento presente, in termini di consapevolezza e accettazione, sospendendo il giudizio. Lo scopo finale della mindfulness è quello di modificare lo stress ed il conseguente disagio, aumentando la consapevolezza dei propri stati e processi mentali in atto. Per approfondire la nascita della mindfulness e le sue potenzialità applicative si rimanda alla lettura dell’articolo di State of Mind Jon Kabat-Zinn, scopriamo la Mindfulness.

A chi è rivolto il libro 7 giorni di Mindfulness?

Il libro 7 giorni di Mindfulness si struttura con un’introduzione alla mindfulness a cui seguono altri sette capitoli suddivisi per giorno della settimana. L’organizzazione stessa del libro permette al lettore di dedicarsi alla lettura di un capitolo al giorno e alla pratica dei relativi esercizi. È ben esplicitato dall’autrice che non è necessario partire dal lunedì per praticare la mindfulness.

Diffusi nel testo si ritrovano principi mindfulness e chiari esercizi. Il libro è dedicato a coloro che si approcciano alla mindfulness per trovare riparo dalla frenetica e stressante quotidianità. Non sono necessarie conoscenze pregresse per affrontare questo percorso. Il linguaggio semplice ed incisivo, oltre all’impaginazione capace di lasciare il giusto spazio alle parole e ad una piacevole grafica, aiutano il lettore a proseguire la lettura con disinvoltura.

L’organizzazione dei 7 giorni di Mindfulness:

Nell’introduzione viene ripreso il senso della mindfulness, ed i principi sui quali muove questa pratica: l’attenzione intenzionale, non giudicante e rivolta al qui ed ora che le persone possono applicare alle sensazioni in entrata che osservano.

Lunedì: “Il gusto di cominciare”

Si inizia il percorso con esercizi di respirazione e di mindfulness eating. Vengono lasciati al lettore spunti per poter svolgere questi esercizi allo scopo di gestire situazioni di tensione per ritrovare calma e serenità (ad esempio, prima di un esame).
A proposito dei benefici a cui ovviamente il lettore ambisce (calma, serenità, migliore gestione dei momenti di tensione), l’autrice ricorda come uno dei principi mindfulness riguarda i risultati:

Il bello della mindfulness è proprio quello di conoscere le proprie intenzioni, ma non divenirne schiavi. Sappiamo di meditare per un motivo (…), ma è fondamentale non farsi ingabbiare da questo motivo. Forse non è davvero lì che si trova il nostro bene. Cerchiamo, allora, di avere la saggezza di praticare per un motivo, ma senza diventarne schiavi. Restiamo aperti all’idea che il percorso stesso potrà toglierci l’esigenza di perseguire le intenzioni inziali, di mostrarcene l’impossibilità o la sostanziale vacuità. Affidiamo alla vita le nostre intenzioni e lasciamo che ce le restituisca: anche se torneranno indietro modificate, andrà bene così. Questa è vera saggezza!

Martedì: “Visualizzare e creare”

Il secondo capitolo di 7 giorni di Mindfulness si gioca attraverso un esercizio di Esplorazione ed uno di Visualizzazione degli elementi cosmici dell’universo. Molta importanza viene data all’immaginazione e all’attenzione, funzioni capaci di influenzare la nostra vita. L’autrice spiega abilmente al lettore il potere dell’attenzione sull’agire quotidiano servendosi del seguente esempio:

Ciò su cui ci concentriamo è il nostro mondo. Immaginiamo due persone che vanno al lavoro. Una è serena e riceve i saluti dei colleghi che le sorridono e le chiedono come sta. Tiene in ordine la scrivania impedendo che regni un ambiente sgradevole agli occhi dei colleghi ed esterni. Quando lavora, ci mette tutto il cuore. Quando fa pausa, vuota la mente e si gode il momento del riposo. Un’altra persona, invece, ogni giorno sussurra a malapena un “ciao” e ormai i colleghi non le sorridono più. Certamente non le chiedono come sta, né le offrono un caffè e magari nemmeno un bicchiere d’acqua. Quando lavora, sbuffa e si lamenta. Quando è in pausa, si isola oppure guarda gli altri, criticandoli dentro di sé. A fine giornata, le due persone, a casa, racconteranno due storie diverse alla domanda “Come è andata la giornata?”, nonostante fossero state nello stesso luogo e nonostante avessero svolto le stesse mansioni. Questo è perché siamo noi a fare la differenza.

Mercoledì: “Muoversi e… prendere una direzione”

Il terzo giorno ci porta verso la pratica della camminata e ad altri esercizi legati al corpo in movimento.

Giovedì: “Passare all’azione”

A metà settimana si apre la porta del “decluttering” o riordino. Gli esercizi di questo capitolo conducono il lettore verso una focalizzazione dei propri valori (tra i possibili troviamo affetto, libertà, rispetto, etc.). Porre consapevolmente l’attenzione sui propri valori permette di mettere in atto gesti coerenti con essi, i quali divengono così guida del proprio vivere, ed un vivere ispirato ai propri sinceri valori non può che portare serenità. Ma come fare a trasformare i propri valori in azioni? Attraverso la formulazione di azioni semplici e concise e l’aiuto dell’autrice per farlo nel migliore dei modi.

Venerdì: “Raccogliere i feedback”.

Arrivati quasi al termine di questi 7 giorni di Mindfulness, è giunto il momento per riflettere sui giorni precedenti e sulle novità riscontrate nella propria quotidianità da quando si pratica mindfulness. Si apre così la strada del “mindfulness loving” (la strada dell’amore) verso sé e gli altri. Aumentare la consapevolezza del proprio amore verso gli altri e se stessi e la consapevolezza dell’amore ricevuto dagli altri, perché come ricordato da un principio mindfulness:

Non permetto a nessuno di mancarmi di rispetto.

Sabato: “Ritirare le energie a te”

Abbandonando e allontanando le tensioni fisiche e mentali, si rientra dallo stress della settimana passata attraverso la meditazione.

Domenica: “Ritrovare se stessi”

Per concludere, l’autrice porta il lettore a focalizzarsi sul presente, sul qui ed ora, su se stesso, sulle cose che lo opprimono per imparare a dire qualche no, ispirandosi al principio “Less Is More”. Visualizzando il luogo sicuro (quel luogo simbolico dentro ciascuno di noi) il lettore potrà esercitarsi a rievocarli e visualizzarlo facilmente perché possa rassicurarsi e rilassarsi dentro se stesso anche nella quotidianità.

Ed è infine, nelle conclusioni del testo, che si ripercorrono tutti gli apprendimenti dei 7 giorni di Mindfulness. Dalla modalità del fare alla modalità dell’essere: così, dalla programmazione, dal giudizio, dal cambiamento, dal pensiero al qui ed ora, all’osservazione, alla sperimentazione di ciò che accade momento dopo momento verso la calma.

Dunque, buona ricerca del luogo sicuro!

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