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Niente (2014) di Janne Teller – Recensione del libro

Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so. Perciò non vale la pena far niente, lo vedo solo adesso.” È con questa frase che Pierre Anthon, tredici anni, rompe il silenzio in un anonimo giorno di scuola, si alza e abbandona la classe per rifugiarsi su un albero. Si apre così Niente di Janne Teller, tra lo stupore di una classe di adolescenti e l’indifferenza dei loro insegnanti.

 

Niente di Janne Teller e la ricerca di senso

Il pensiero nichilista e irremovibile di Pierre Anthon riecheggia dall’alto di un albero di susine in modo sarcastico e sprezzante per tutto il corso del romanzo, facendo scivolare i suoi compagni nello sconforto, che ben presto si trasforma in rabbia e voglia di dimostrargli il contrario. Vogliono portalo giù da quel ramo, fagli vedere che si sbaglia; non vogliono arrendersi davanti a quell’atteggiamento distruttivo e vuoto.

Così si uniscono e decidono di mettersi alla ricerca del significato. Pensano che trovare qualcosa che ha davvero senso possa far ricredere l’amico ribelle e convincerlo che val la pena continuare a credere, sperare, vivere. Decidono così di raccogliere una serie di oggetti e costruire una catasta di significato. La ricerca si incammina inizialmente tra cose semplici, speciali, anche tenere. Le pagine di Niente di Janne Teller si illuminano di speranza e infondono quella voglia piena di respirare a fondo, di esistere, di lottare in nome di quel senso che ci tiene in vita.

Man mano che le pagine scorrono però in maniera sottile ma pungente succede qualcosa: il limite verso cui i ragazzi cominciano a spingersi sembra allargarsi, tanto da diventare sempre più brutale e preoccupante. Ciascun compagno indica ad un altro quale oggetto lasciare, e così via. Man mano che si procede però il gruppo sembra passare dalla ricerca alla sfida, dal suggerimento alla pretesa, dalla alleanza alla vendetta. Le proposte diventano spietate e crude. Ma ormai non ci si può fermare né si può tornare indietro. Questi ragazzi spaesati davanti alla ricerca del significato, che nessun adulto si offre di insegnare, sono ostinati e ormai travolti da loro stessi. Il grado di dolore nel lasciar andare gli oggetti a loro cari diventa il criterio di scelta: il gioco man mano si trasforma in un’escalation, inevitabile per lenire la ferita subìta al proprio turno. Fino al limite e oltre. Oltre il rispetto, oltre l’intimità, oltre il corpo, oltre il sacro, oltre la morte. Le pagine di Niente di Janne Teller si tingono di angoscia e inquietudine, snaturando quel senso iniziale vivo e costruttivo.

Niente di Janne Teller: la drammaticità della perdita

Si apre così una finestra su di un mondo adolescente in cui fa freddo, in cui non ci sono regole, compromessi, dove il coraggio e la forza si confondono con provocazione e disumanità. L’infezione è letale. Questi ragazzi sembrano muoversi alla cieca, senza punti di riferimento, spinti dal desiderio di rivincita sul loro compagno come sulla vita, a quell’età.

Esplode l’epilogo, in maniera incredibile e asciutta. L’ultimo atto restituisce finalmente libertà e rivela la drammaticità della perdita, ma anche la preziosità della scoperta, anche se non ancora del tutto definibile. Una frase riportata dall’io narrante dice:

Piangevamo perché avevamo perduto qualcosa e trovato qualcos’altro. E perché è doloroso, sia perdere che trovare. E perché sapevamo che cosa avevamo perduto, ma non eravamo ancora capaci di definire a parole quello che avevamo trovato.

Il tempo passa, tornano i ricordi, restano le emozioni: “quella strana sensazione nella pancia” che torna a richiamare quello che è stato. E anche se non trova ancora spiegazione, un qualche significato ce l’ha. “E con il significato non si scherza”.

Niente di Janne Teller è un romanzo breve ma inteso, che costringe il lettore a guardare quel diluvio di ogni adolescenza, a cui non sempre l’adulto è attento e pronto e che in fondo teme.

 

TMI intermediate training: primo weekend di formazione

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), proprio per l’attenzione che pone all’uso di tecniche esperienziali e di Imagery nella pratica clinica, non può che essere compresa e appresa attraverso la sperimentazione diretta di queste tecniche. Ma cosa succede in una giornata di training? Addentriamoci insieme in questo viaggio fatto innanzitutto di esperienze che il terapeuta in formazione vive in prima persona.

 

Pescara. Un weekend di febbraio. C’è il sole e un vento fresco che la mattina schiaffeggia un po’ ma ci sta più che bene se devi seguire una lezione di 9 ore. C’è il mare e c’è una spiaggia che ti catapulta ad un lido, in pieno agosto, pennichella delle 14.30. Tutto questo fa da sfondo ad una sala in un carinissimo albergo con 20-25 colleghi psicoterapeuti. Per la precisione stiamo parlando della prima parte di un corso “TMI-intermediate” e di solito in questi weekend accadono cose veramente tanto belle ed importanti. In primis si sta insieme ed anche se può sembrare strano, non necessariamente si parla solo e soltanto di psicologia. Ci si confronta sul vino, sull’alimentazione vegetariana e quella carnivora, ci si prende in giro, ci si supporta nonostante il pigiama di pile con tanto di orsacchiotto e nonostante la lentezza del mattino che contrasta con chi, alle 8.00, è già bello e arzillo e canta Lady Gaga a tutta forza. In training di questo tipo, vissuti intensamente, ci si può sentire all’interno di una piccola famiglia. Almeno per me è stato così: mi guardavo intorno e mi sentivo davvero fortunata.

Veniamo al dunque. Rivediamo tutto l’albero decisionale della TMI, svisceriamo nuovamente i sistemi motivazionali, che non fa mai male, introduciamo il razionale delle tecniche e ci imbattiamo nell’assessment dinamico. Per la precisione stiamo parlando di tecniche esperenziali: drammaturgiche, immaginative e corporee. Le teorie dell’Embodied Cognition e gli studi di Damasio, giusto per citarne qualcuna, offrono uno scenario teorico molto stimolante per quel che concerne il funzionamento e la relazione mente/corpo e spiegano perché tali procedure siano così efficaci e, per certi versi, più veloci del solo lavoro cognitivo. D’altronde, se ci pensiamo bene, la rappresentazione di noi e gli schemi stessi, non comprendono solo pensieri o concetti perché vi è anche e soprattutto una componente emotiva ed incarnata, fatta di sensazioni fisiche, muscolari e viscerali, corporee per l’appunto.
Dopo una mattinata teorica, si passa al pratico. Avete presente quel momento in cui qualcuno si deve offrire volontario? Chi guarda a destra e chi a sinistra, chi improvvisamente ricorda che deve chiamare a casa oppure l’amico che non sente da mesi, chi deve magicamente andare in bagno. Esatto, quello in cui si teme un po’ il giudizio, la vergogna, l’errore. Io, per storia mia di vita personale, che sarebbe troppo complessa da spiegare qui, già so come andrà. E dal pensiero alla realtà trascorrono solo una manciata di secondi: faccio io il terapeuta. E chi fa il paziente? Ci sono persone che conosco da anni, chi da pochi mesi, altri sono sconosciuti. Attendo chi si siederà di fronte a me. Ed ecco, E. che si alza: è una mia collega e amica. Abbiamo viaggiato insieme in auto, 4 ore intense per raggiungere Pescara, fitte di confidenze e confronti. Bene, mi conforta sapere che non sono sola in questa simulazione. Alle mie spalle, Antonella Centonze, la docente del weekend di formazione che mi guida e mi aiuta nella scelta degli interventi. Si parte con il grounding, con la focalizzazione sul respiro, ed entriamo nel merito di un episodio narrativo cercando di afferrare il wish e procediamo: obiettivo dell’esercizio è applicare tecniche esperenziali ed effettuare un rescripting.

I rescripting sono utilissimi per vari motivi ma è bene sottolineare che devono procedere sulla base dello schema del paziente per prepararlo ad agire nel mondo in modo diverso, in direzione del suo wish, e al fine di smussare coping maladattivi; una chicca però c’è: le tecniche su menzionate posso essere utilizzate già in fase precoce di terapia, a fini diagnostici, per rintracciare gli elementi dello schema interpersonale mentre si è soliti pensarle solo come anticipazione di fasi esplorative e comportamentali, tipiche della fase avanzata della terapia (Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, 2019).

Dopo di me anche altri colleghi si sono sperimentati, chi in veste di terapeuta e chi di paziente. Il dibattito che ne seguiva ha permesso, di volta in volta, di sviscerare in modo approfondito quello che accadeva nella sessione, quello che si realizzava nella mente per terapeuta e del paziente, restando spesso sorpresi dell’immediatezza e della potenza di processi poco mediati dal ragionamento cognitivo e più settati su processi bottom-up. Notevoli spunti di riflessione ed intensi momenti di condivisione, proprio per ricordarci ancora una volta quanto la TMI sia, essenzialmente, una terapia che fonda moltissimo sulla dimensione intersoggettiva, relazionale e sulla sintonizzazione emotiva (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013; Safran & Muran, 2003). Nel lavoro con l’imagery, infatti, spesso i pazienti riferiscono di temere l’impatto emotivo dell’esperienza stessa e attuano, a diversi gradi, dei veri e propri evitamenti esperenziali (possono, ad esempio, rifiutare l’esercizio oppure restare su un livello superficiale di esplorazione, non permettendosi di accedere ad alcune scene o parti di esse). Questo può essere regolato: il clinico dovrebbe prima di tutto rendersene conto e successivamente, attraverso interventi relazionali, a partire dall’esplorazione di quello che sta accadendo in tempo reale nella mente del paziente, ed in una ottica validante, cercare di superare l’impasse. Questo è stato oggetto di discussione anche durante il training formativo in quanto è emerso in alcune simulate.

TMI: l’uso delle tecniche esperienziali nelle diverse fasi della terapia

Un aspetto davvero innovativo, quindi, è che l’utilizzo delle tecniche può essere contemplato fin dalle primissime sedute in base allo scopo: in fase di assessment, queste ci permettono di cogliere in modo precoce elementi dello schema e migliorare la metacognizione; in fase avanzata di terapia, le usiamo per lavorare su alcuni episodi della propria autobiografia, magari proprio su quelle scene che hanno determinato lo strutturarsi di uno schema maladattivo. Infine, possono essere utili per preparare ed incoraggiare i pazienti verso esposizioni prettamente comportamentali in cui devono sperimentarsi in un repertorio di azioni più funzionale, interrompendo la messa in atto di coping maladattivi (sia quelli cognitivi, grazie anche all’applicazione di tecniche attentive ad esempio, che comportamentali) ed attuando una autoregolazione emotiva funzionale. Trasversalmente, il paziente svilupperà strategie di mastery sempre più sofisticate, lavorerà sul decentramento, sulla differenziazione e sul suo senso di agency. Il principio è, dunque, che se in immaginazione riusciamo ad agire diversamente da quello che crediamo saremo più predisposti a sperimentarlo al di fuori della seduta e questo rafforzerà l’esperienza avvenuta in studio, costruendo le basi per un vero e proprio, eventualmente del tutto nuovo, apprendimento. È possibile, dunque, utilizzare tali procedure a partire già dalla fase di formulazione del funzionamento oltre che in quella della promozione del cambiamento e per fare questo il contratto terapeutico deve essere centrale, rinegoziato continuamente e strettamente connesso al lavoro sulla relazione.

Giusto per dare un input, tra le varie tecniche menzioniamo il gioco delle due sedie, il role playing o gioco di ruolo, gli enactment. Mi stimola soffermarmi a pensare quanto il terapeuta debba essere aperto, flessibile, curioso oltre che inventivo per mettere a punto tali esercizi, rendendo la seduta interattiva e dinamica. Infatti, sebbene le procedure debbano seguire criteri ben precisi di conduzione, il contenuto può essere costruito ad hoc sul paziente… e subito mi catapulto nel mio studio, coi pazienti della prossima settimana, nella costruzione di interventi esperienziali. Nel momento stesso in cui immagino, mi sembra già di stare lì con loro.

Cosa ci portiamo a casa di tutto questo?

Una quantità di nozioni teoriche, cliniche e relazionali notevole, che credo ci vorrà un po’ per metterle in ordine nella mia mente ma quello che più di tutto mi porto a casa è una conoscenza sempre più marcata dell’importanza di essere pienamente consapevoli di che tipo di terapeuta si vuol essere. E, per concludere, il focus sulle tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee, arricchisce la TMI rendendola ancora più sofisticata ed efficace oltre che profondamente integrata con altre discipline (le tecniche di cui si parla fanno capo, infatti, alle terapie bioenergetiche e reichiane, alla terapia sensomotoria, allo yoga e alle arti marziali). Non aggiungo altro perché credo sia un qualcosa di profondamente esperienziale e va quindi vissuto oltre che studiato e approfondito.

La domenica ci salutiamo dopo un esercizio di gruppo e ripartiamo, tutti più ricchi. Io già so che sentirò il bisogno di mettere nero su bianco quello che ho sentito in questi due giorni e mi godo il viaggio di ritorno in macchina con E. e G.

Immagino (è proprio il caso di dirlo) ed attendo il prossimo week-end. Giampaolo Salvatore sarà il docente. Non sappiamo cosa stia programmando per noi, ma cosa che lui ancora non sa, è che gli proporremo di fare lezione in spiaggia.

To be continued….

Genetica e relazioni sentimentali durature: c’è un legame?

L’ innamoramento tra due persone si può verificare grazie alla presenza di diversi fattori, come una serie di interessi comuni, l’attrazione fisica o la condivisione di valori, etc.

 

Le relazioni di lunga durata, dunque, secondo un recente studio, potrebbero essere facilitate anche dalla presenza di fattori biologici oltre a quelli relazionali e caratteriali.

Genetica e relazioni sentimentali: lo studio

Per questo, i ricercatori della Yale School of Public Health hanno realizzato uno studio per esaminare gli effetti di una variazione genetica dell’ormone ossitocina, che pare svolga un ruolo cruciale nei legami sociali, soprattutto in merito alla soddisfazione coniugale. Quindi, lo scopo in questa ricerca era di dimostrare gli effetti di queste modificazioni sulla soddisfazione coniugale.

Allo studio hanno preso parte 178 coppie sposate di età compresa fra i 37 e i 90 anni; ogni soggetto doveva compilare un questionario circa i propri sentimenti di sicurezza e soddisfazione nella coppia, e fornire anche un campione di saliva per la genotipizzazione.

Genetica e relazioni sentimentali: il ruolo dell’ossitocina

Dai risultati emerge che nelle coppie in cui uno dei due partner ha una variante genetica relativa al gene dell’ossitocina, chiamata genotipo GG, si manifestano sentimenti di sicurezza ed una soddisfazione coniugale significativamente maggiore rispetto alle altre coppie. Inoltre, le persone aventi il genotipo GG presentano un pattern di attaccamento meno ansioso, minori problemi di autostima, bassa sensibilità al rifiuto e minor frequenza di comportamenti volti alla ricerca di approvazione, il che favorisce la stabilità del matrimonio.

Concludendo, è possibile ritenere che l’andamento e la stabilità di una coppia siano certamente dovuti ad esperienze relazionali condivise nel tempo, ma possono essere influenzati anche dalle predisposizioni genetiche proprie di ognuno dei due partner. In futuro sarebbe auspicabile focalizzarsi su come queste varianti genetiche, innate, possano interagire con specifiche esperienze relazionali positive o negative, influenzando di conseguenza la qualità della relazione di coppia.

 

Eventi di vita precoci e Credenze Metacognitive: una revisione della letteratura

L’esposizione a eventi di vita precoci, ovvero eventi stressanti occorsi nei primi 18 anni di vita come abusi, neglect, separazione (Mansueto & Faravelli, 2018) sono ben noti fattori di rischio per i disturbi emotivi (Curran, Adamson, Rosato, De Cock, & Leavey, 2018).

 

Come delineato dai modelli diatesi stress (Zubin & Spring, 1977) l’esposizione a eventi di vita precoci è una condizione necessaria ma non sufficiente nel determinare l’esordio psicopatologico. Se e come gli eventi di vita precoci possano favorire l’insorgenza di disturbi emotivi dipende da fattori di vulnerabilità biologica, temperamentale, ambientale, psicologica (Zubin & Spring, 1977).

Credenze metacognitive: il loro ruolo

In una recente revisione della letteratura condotta dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi è stato esplorato il possibile ruolo delle credenze metacognitive in relazione all’esposizione a eventi di vita precoci (Mansueto, Caselli, Ruggiero, & Sassaroli, 2018). In particolare è stato esplorato quanto eventi di vita precoci e negativi (perdite, abusi e neglect) siano associati allo sviluppo di convinzioni negative, soprattutto inerenti l’incontrollabilità della propria attività mentale e come queste ultime possano agire come mediatore nel rapporto tra storie di vita dolorose e disagio psicologico in età adulta.

La revisione della letteratura ha identificato 5 studi di cui 3 condotti su popolazione clinica (disturbo dello spettro psicotico, disturbo bipolare, dipendenze) e 2 condotti su popolazione generale (Mansueto et al., 2018).

La revisione di tali studi suggerisce che esperienze precoci di abuso (fisico, sessuale, emotivo) e/o neglect possono essere associati alla presenza di metacredenze cognitive disfunzionali. Inoltre appare interessante notare che sia in campioni clinici che in campioni di comunità le metacredenze cognitive sembrano avere un ruolo di mediazione tra esposizione a eventi di vita precoci e disturbi emotivi in età adulta (Mansueto et al., 2018).

Credenze metacognitive: il modello S-REF e la CAS

Questi risultati sono coerenti con il modello S-REF (Wells & Matthews, 1996) secondo il quale il distress, causato dall’esposizione a eventi precoci traumatici, potrebbe attivare credenze metacognitive disadattive le quali a loro volta favorendo l’attivazione del Sindrome Cognitivo Attentiva (CAS; Wells & Matthews, 1996) portando a una maggiore vulnerabilità verso disturbi emotivi. Inoltre, vi sono alcune evidenze di un maggior coinvolgimento delle metacredenze negative sull’incontrollabilità e il pericolo dei pensieri nella relazione tra eventi di vita precoci e disturbi emotivi rispetto alle metacredenze positive (Mansueto et al., 2018).

In conclusione tale revisione della letteratura suggerisce che in soggetti con storia di eventi precoci come abuso o neglect, la credenze metacognitive disfunzionali potrebbero rappresentare fattori di vulnerabilità per l’insorgenza di disturbi emotivi (Mansueto et al., 2018).

Dal punto di vista clinico si potrebbe ipotizzare che in soggetti con eventi di vita precoci di abuso o neglect, la valutazione e successivo trattamento di metacognizioni disfunzionali potrebbe rappresentare una valida strategia per la riduzione della gravità e prevenzione di disturbi emotivi. In tale cornice la terapia metacognitiva proposta da Wells (2009) potrebbe essere considerata come un possibile approccio terapeutico per il trattamento delle conseguenze emotive legate all’esposizione a eventi precoci di abuso e neglect.

Voglia di volare. La narrazione come possibilità di significazione: la storia di O.

L’ emigrazione può costituirsi potenzialmente come una situazione traumatica. La situazione è ancora più faticosa nel caso degli adolescenti immigrati visto che alla fatidica domanda “Chi sono io?”, devono aggiungere e necessariamente integrarne un’altra: “Da dove vengo?”.

 

Andiamo alla casa
del camino acceso
dove la storia
di c’era una volta
comincia ora
vieni e ascolta. (Vivian Lamarque, 2009)

Immigrazione: la condizione del migrante

Lo scrittore Ben Jelloun definisce la condizione del migrante “di solitudine estrema”. L’individuo lascia, abbandona, perde tutto ciò che conosceva e si trova “sospeso fra due mondi” (T. Nathan 1996).

L’identità culturale riguarda l’appartenenza per nascita, per storia, per caratteristiche biologiche a gruppi determinati. Ogni gruppo, popolo o società dispone di tratti culturali propri, che in genere non sono sovrapponibili a quelli di altri popoli ed hanno la funzione di mantenere coesione e continuità in quello specifico gruppo sociale. La cultura è di fatto una “pelle” che avvolge, protegge e sostiene l’individuo ed il suo posizionamento nel mondo.

L’ emigrazione può costituirsi come potenzialmente una situazione traumatica, visto la presenza di numerosi cambiamenti della realtà esterna, con le relative e spesso “catastrofiche” ripercussioni sulla realtà interna. L’ emigrazione è un cambiamento di tale portata che può mettere in pericolo l’identità:

il vincolo sociale del sentimento di identità è quello che viene colpito dall’emigrazione in modo più manifesto, dal momento che effettivamente i cambiamenti maggiori avvengono in rapporto all’ambiente circostante. E nell’ambiente circostante tutto è nuovo, tutto è sconosciuto, come “sconosciuto” è per questo stesso ambiente l’immigrato (Grinberg L. e R., 1990).

La perdita degli “oggetti” è assoluta (persone, cose, luoghi, lingua, cultura, abitudini, clima) e ha ricadute mortifere importanti sul Sé e sui legami corrispondenti agli oggetti perduti.

La situazione è ancora più faticosa nel caso degli adolescenti immigrati visto che alla fatidica domanda “Chi sono io?”, devono aggiungere e necessariamente integrarne un’altra: “Da dove vengo?”.

Costruire un ponte fra culture diverse che portano visioni differenti in merito ai significati esistenziali, può essere una fatica difficile da sostenere per l’adolescente immigrato. Spesso emergono, come movimenti difensivi, la negazione della presenza di qualcosa di buono nelle proprie origini e si tende ad assolutizzare il mondo basandosi su strategie cognitive del tipo o/o invece che e/e.

L’esperienza migratoria può configurarsi come un elemento di lacerazione identitaria.

Il lavoro clinico con adolescenti immigranti diviene una possibilità di sperimentare un tempo ed un luogo in cui sostare per mettere parole, narrare, rintracciare una storia che diventi terreno fertile in cui piantare e far germogliare i semi identitari.

Un contesto in cui partecipare ad una relazione che contiene e sollecita l’attività del pensare della mente in modo creativo e fiducioso. Insomma uno spazio-tempo in cui risignificando, si possa cucire la strappo subito a causa della migrazione.

Immigrazione: l’incontro con O.

Incontro O. in un caldo pomeriggio primaverile; fatico ad individuarla in sala d’attesa fra le tante mamme, i bimbi vocianti e qualche ragazzo a disagio per l’imminente visita.

O. è un ragazza turca di 16 anni, non particolarmente piacevole di aspetto: mi segue senza indugiare, trascinando un corpo pesante e non armonioso; presenta lunghi capelli raccolti malamente a formare una coda e grandi occhiali che coprono il viso.

Tuttavia, una volta entrata in stanza e accomodata sulla sedia, ho modo di incrociare il suo sguardo e vengo colpita da occhi vivaci e curiosi che sorridono, sembrano speranzosi.

Mancanza, il mio nome significa mancanza!” esclama.

Partiamo (è proprio il caso di dirlo) da un nome, da una parola che è ponte fra il tempo della cultura d’origine e il presente-futuro dell’attivarsi della nostra relazione.

O. si permette di dialogare, riportando le traumatiche esperienze vissute ed in tal modo mi consente di entrare a far parte di un processo narrativo che ci permetterà di “co-costruire” significati e sentire insieme emozioni inizialmente indicibili.

La narrazione rappresenta un importante strumento di conoscenza e strutturazione del Sé; la capacità di narrare è una costante umana, “l’uomo pensa per storie” direbbe Bateson, e la significazione che ne consegue acquista un senso solo all’interno di una relazione.

O. racconta ciò che è stato possibile nominare da parte della madre: è giunta in Italia all’età di un anno, con la propria famiglia “aggrappati” ad un barcone. Dalle coste siciliane sono partiti per un lungo viaggio verso l’Inghilterra, dove sono rimasti per cinque anni e là, dove vivono alcuni parenti e dove ricorda di aver pensato di poter trovare casa, una notte “nel buio, all’improvviso è arrivata la polizia che ci ha portati all’aeroporto per farci tornare in Italia”.

Nel descrivere la sequenza di questi drammatici eventi, la ragazza non mostra alcuna emozione: scorrono le parole, vuote, inconsistenti; lettere messe insieme che hanno perso la vitale forza della significazione.

Rientrati in Italia ci hanno portati a Roma dove siamo stati aiutati da una associazione, fino a quando mio fratello ha compiuto 18 anni”, afferma e mi spiega che hanno ricevuto vitto e alloggio per qualche anno.

Quando il fratello è diventato maggiorenne, infatti, non hanno avuto più diritto ad alcuna assistenza, pertanto, per una più proficua ricerca di lavoro, si sono trasferiti a Gallarate.

Intanto il padre, dopo un periodo di importanti litigi con la madre, è rientrato in Turchia e la sorella maggiore si è trasferita in Germania; attualmente la sua famiglia è composta dalla madre, da un fratello di 23 anni e da una sorella minore di due anni.

Racconta, inoltre, che la madre è affetta da una malattia genetica che le provoca una dolorosa deformazione all’anca; “…anch’io ho la stessa malattia!” Aggiunge abbozzando un amaro sorriso.

In quel momento mi viene in mente che “mancanza” deriva da “mancus”, che in latino significa monco, imperfetto e mi chiedo quanto questa informazione nel tempo non abbia in O. lacerato la sua delicata “pelle culturale”. Sembra chiedersi cosa di buono abbia ereditato dalla madre, dalla “terra- madre” e compare la fantasia di una trasmissione culturale che ammala, che colpisce le articolazioni, il poter andare lontano, il poter volare.

Un noto proverbio arabo afferma: “Beato colui che riesce a dare ai propri figli ali e radici.

Mi chiedo come attivare processi di radicamento, affinché O. senta di poter trovare nella propria cultura d’origine tesori da spendere nel proprio viaggio esistenziale.

Immigrazione: il percorso con O.

I° Fase: Prima del Viaggio in Turchia

O. si presenta sempre puntuale, mostra disponibilità a pensare insieme.

Capace di stare in relazione, si lascia contenere contribuendo attivamente alla co-costruzione dei significati di una storia sofferta e dai riferimenti temporali a volte incoerenti, sfumati, quasi onirici. Lentamente proviamo a tessere una trama, nella convinzione che “qualunque dolore può essere sopportato se si traduce in una storia” (Karen Blixen, 1957)

Di fatto O. porta, fin dai primi passi del percorso, il tema della sua femminilità, del suo diventare donna: da un lato la ragazza parla di veli e abiti dai colori autunnali che coprono il corpo, che lo nascondono; dall’altro osserva maglie attillate e jeans stretti, capelli mossi, liberi, sciolti, visibili.

O. appare ferita da entrambe le culture di cui coglie le esasperazioni; si confonde, si perde e tenta un controllo dell’inquietudine attraverso l’uso difensivo dell’intelletualizzazione.

“Chi sono?”

“Quale donna voglio diventare?”

Emerge l’esigenza di integrare in modo creativo le diverse appartenenze, compare la necessità di interpretare la propria storia, il proprio esserci, di costruire un Sé che tenga insieme i diversi aspetti, le diverse origini, le tante traumatiche esperienze.

Ancora, proviamo a modulare le differenze, a porle lungo un continuum che non li veda in contrapposizione; a fare incontrare attraverso un dialogo interno/esterno le peculiarità dei due mondi descritti dalla ragazza in modo da poter uscire dall’area del o/o per approdare in quella del e/e.

Con il fluire del tempo, le parole acquistano consistenza; il contenitore significante che le sedute costituiscono, consente la costruzione di un ponte fra il pensare ed il sentire: le emozioni divengono più digeribili e maggiormente consapevoli, sostenendo un pensiero che perde le caratteristiche della rigidità e della oppositività; compare la possibilità, il dubbio, la tollerabilità del non sapere, del non conosciuto come occasione di crescita autentica. Ci permettiamo di tenere insieme le contraddizione, l’incoerente, le sbavature iniziando a rendersi conto dell’impossibilità di un luogo assolutamente perfetto, dorato. Non la terra dai fiumi di latte, né quella degli angeli eterei e pieni di bontà, O. può cominciare a pensare un viaggio verso un luogo senza aspettative idealizzate ma basate su un senso della realtà più puntuale e accurato.

In questo periodo, assisto ad una trasformazione fisica: O. dimagrisce, slega i capelli e li colora di rosso!

II° Fase: Dopo il Viaggio in Turchia

In estate, O. insieme alla madre e alla sorella programma un viaggio in Turchia.

E’ il primo viaggio verso la propria terra d’origine: l’idealizzazione prende il sopravvento e si alterna a movimenti di svalutazione, creando un’oscillazione emotiva che affatica non poco la ragazza.

Di fatto, siamo costrette ad effettuare una pausa di quasi due mesi … al rientro molto è cambiato!

O. sembra sorpresa dal ritrovarmi e appare provata: i lineamenti sono tesi e lo sguardo tende verso il basso. Porta la fantasia che il suo posto sia stato occupato, che non ci sia più uno spazio per lei, che io sia andata via.

Il potere constatare che perfino i diversi oggetti della stanza di terapia sono al solito posto, sembra permetterle di recuperare fiducia nella relazione.

Rispetto al viaggio, descrive paesaggi assolati, luce accecante e “troppo caldo! … non c’era spazio dove dormire … non potevo uscire da sola!

Si fa avanti un vissuto di estraneità, di “marginalità”: sembra essersi smarrita; riporta di essersi sentita a disagio, addirittura in conflitto con le usanze, le modalità, il modo di relazionarsi che caratterizza la cultura della terra d’origine. Effettivamente racconta di litigi con i cugini e gli zii e di una importante sensazione di solitudine nonostante la numerosità familiare.

Anche il rapporto con la madre appare danneggiato: la conflittualità tipica dell’età adolescenziale con il mondo genitoriale basata su una necessità del ragazzo di sottolineare la differenza generazionale che è anche diversità identitaria, diviene in O. motivo di grande scontro, soprattutto interno, fra modelli culturali che vive in opposizione.

La madre, con il velo e gli abiti tipici delle donne turche; la madre che mostra un atteggiamento dimesso e che chiede alla figlia “rispetto, silenzio e sottomissione” al maschile, riferisce O., le appare lontana, distante, non in ascolto delle sue sconvolgenti emozioni.

Emergono vissuti di abbandono insieme a rabbia e senso di solitudine; O. si costringe a essere diversa dalla madre, prova fastidio perfino verso la lingua della sua terra e verso tutto ciò che proviene dal mondo arabo.

E’ un momento drammatico, doloroso per O.!

Eppure, non possiamo trovare altra strada da seguire che non attraversi il tema del rapporto con la “Madre”: il rapporto madre-figlia vive e impronta di sé la storia personale e collettiva di ogni essere umano; di lì si passa.

Jung direbbe: “Ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia” Continuando con un “…da madre si vive prima, da figlia poi”.

In quale modo si è madre della propria madre prima di poterne essere figlia?

O. porta un vento nuovo nella sua famiglia che indubbiamente mette a soqquadro il precedente assetto, creando l’occasione, per la madre (anche quella interna) e per tutti i suoi familiari, di un divenire, di un passaggio evolutivo basato su il confronto e l’accettazione delle differenze.

Non è facile e non è esente dal dolore!

Se il rapporto madre-figlia viene comunque contenuto dalla relazione terapeutica e sembra nel tempo permettere la nascita di nuovi significati che organizzano il dolore da un alto, e che dall’altro spingono la ragazza ad effettuare passaggi evolutivi; il rapporto padre-figlia appare in O. configurarsi come un’area a cui è più difficile accedere, una sorta di strada senza uscita di cui afferma “non val la pena di parlare … è una perdita di tempo!

Il padre, ancora una volta, non è stato all’altezza delle aspettative della ragazza: si era sentita abbandonata, ancora piccola, quando i genitori avevano preso la decisione di separarsi con il conseguente rientro del padre di O. in Turchia; lo ritrova (ormai quasi una donna), ma sperimenta un’estraneità e una incapacità da parte del padre di dare senso a quel buco temporale in cui non si sono frequentati, che ferisce profondamente O. gettando un’ombra sul genere maschile intero.

Immigrazione: riflessioni sul percorso con O.

Gli adolescenti immigrati si trovano ad affrontare una duplice difficoltà nella costruzione narrativa di un senso di sé: le difficoltà legate alla tipica crisi adolescenziale (Maggiolini, Pietropolli Charmet, 2018), cui si aggiungono quelle derivanti da una storia divisa tra due culture. Essi devono ricucire due mondi separati. Le loro storie mantengono un legame con il passato, ma a causa della necessità di adattarsi ad un nuovo contesto culturale si trovano a vivere “sospesi tra due mondi e due culture” (M. Rose Moro, 2002; 2010).

La migrazione non è semplicemente lo spostamento geografico da un luogo all’altro: rappresenta un cambiamento profondo, che richiede la ridefinizione dei legami di filiazione, di appartenenza e di fedeltà. Ciò induce spesso sentimenti ambivalenti di perdita e separazione che influenzano l’immagine di sé, il rapporto con il paese di accoglienza e con la propria cultura di appartenenza (Demetrio, Favaro, 2004).

Oltre al complesso compito di ridefinire la propria identità in relazione alle trasformazioni corporee, sessuali e cognitive, l’ adolescente immigrato si trova di fronte alla necessità di rinegoziare la propria identità etnica e il proprio senso di appartenenza culturale.

L’esperienza migratoria può configurarsi come un elemento di lacerazione identitaria.

Viaggiando con O. in questo percorso accidentato, è stato necessario avviare un complesso lavoro di risignificazione del proprio mondo e del proprio Sé. Memoria ed oblio si sono fronteggiati continuamente nell’elaborazione del trauma migratorio: abbiamo sentito forte l’esigenza di ricordare così come la necessità di dimenticare per poter “abitare” il presente, spesso vissuto come sospeso in un’ambigua “terra di mezzo”.

Il percorso terapeutico permette di trovare uno spazio ed un tempo, interni oltre che esterni, per raccontare e, in tal modo, letteralmente “ricucire” la propria esperienza: ritessere i fili strappati della trama della propria esistenza.

Oggi O. sperimenta nuovi stili: si chiede quale abbigliamento indossare; quale colore per i propri capelli e come acconciarli. Spesso presenta i suoi lunghi ed indisciplinati capelli color rosso-arancio completamente sciolti come a voler esprimere anche con la propria fisicità il suo bisogno di affermarsi e di essere riconosciuta.

Le lacrime sovente scendono copiose, ma anche queste sembrano voler portare con forza ogni aspetto della propria personalità, anche quello più fragile e bisognoso di caldo contenimento.

La vergogna provata inizialmente e che determinava distanze fra sé ed il suo interlocutore per paura di un eventuale giudizio, cede il posto alla possibilità di lasciarsi tenere, pensare, accudire attraverso il suono delle parole che narrano una storia, la sua storia.

Non posso che concludere con alcune parole di una canzone di uno dei cantanti preferiti di O., Lorenzo Jovanotti: “La vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare

La cibernetica (2017) di Norbert Wiener, a cura di Ciofalo e Leonzi – Recensione del libro

Ciofalo e Leonzi ci propongono una ristampa del libro La cibernetica di Norbert Wiener con i capitoli fondamentali e alcuni aggiornamenti; si tratta di una sintesi sui punti essenziali dell’opera che, nel cuore del Novecento, dà il via a una nuova disciplina: la cibernetica.

 

1948: viene pubblicato Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine, l’opera da cui è tratto questo compendio, che a poco più di 70 anni dalla prima pubblicazione si conferma pietra miliare e ispirazione per studi e applicazioni a venire.

La cibernetica, ovvero un link tra diversi campi scientifici

Wiener è considerato il padre della cibernetica, scienza che studia sistemi biologici e artificiali e le analogie fra di essi: le analogie fra funzioni fisiologiche e intelligenza artificiale permettono analisi e creazione di modelli dei loro meccanismi e di realizzare sistemi sempre più complessi e autonomi.

Infatti secondo Wiener si può parlare di fisiologia meccanica ovvero di una descrizione in termini fisiologici di struttura e funzionamento degli automi: questi ultimi interagiscono con il mondo esterno ricevendo degli input che interpretano ed elaborano attraverso sistemi equivalenti a organi di senso e sistema nervoso umani.

Il grande, storico merito di Wiener è di andare oltre le singole differenziazioni tra discipline ed intuire i collegamenti tra di esse. Wiener la chiama “cyber-netics” per riprendere la parola greca “kubernetes”, ovvero timoniere, pilota, poiché secondo lui è quello il ruolo che la cibernetica deve avere, di guida e controllo: infatti questa disciplina integra i contributi di diversi settori creando un “link” tra campi scientifici. Matematica, fisica, biologia, filosofia, psicologia, concorrono insieme a dare contributi a questa nuova scienza.

Secondo l’autore una cibernetica efficace deve attecchire e lavorare a partire dal campo della comunicazione. Già in quegli anni, ben prima che nascesse internet e tutto ciò che ora conosciamo, Wiener vedeva le potenzialità nello sviluppo di nuovi mezzi informatici.

La cibernetica: Wiener grande precursore

Wiener ci dice – in tempi non sospetti, ormai 70 anni fa – che le potenzialità delle macchine sono infinite. Si passerà dall’essere ‘umani’ all’essere ‘sociali’: dalla dimensione biologica alla natura informazionale. Se l’uomo non può non comunicare e se il linguaggio, in ogni sua forma, trova la massima espressione nell’essere umano, secondo Wiener è necessario ripensare alla comunicazione alla luce delle scoperte e innovazioni in campo tecnologico: queste innovazioni possono portare novità sia in positivo che in negativo. Comunicazione potenziata come risorsa e valore che può portare a trasparenza sociale, culturale, politica ed economica; comunicazione potenziata anche come pericolo: uno ‘sfruttamento grettamente egoistico’ può portare a distorsioni e usi impropri dei media: per esempio, possedere e gestire dei mezzi di comunicazione è una forma di difesa e controllo. Come non pensare a vicende più che mai attuali? Comunicazione politica via social, fake news, nuovi modi di costruire rapporti e interagire. Il suo sguardo è stato così acuto da aver anche previsto i possibili dis-usi di questi mezzi.

Rispetto agli anni in cui Wiener ha concepito le sue idee il mondo è cambiato profondamente. Le innovazioni sono innumerevoli e in continua evoluzione: se nel Diciannovesimo secolo l’automa è la macchina a vapore, ieri l’automa consente di puntare un’arma nel punto in cui il radar individua un aeroplano o risolve complessi calcoli matematici in pochissimo tempo. Oggi l’automa è l’algoritmo, l’intelligenza artificiale, o ancora i big data, tutto quello che definisce non solo la nostra comunicazione on line esplicita (quindi quello che pubblichiamo, quello che scriviamo) ma anche la comunicazione implicita (quindi tutte le tracce che lasciamo nella nostra journey online, come i siti in cui navighiamo o gli interessi che mostriamo con un like).

Con un approccio rigorosamente scientifico, acuto, geniale e precursore dei tempi, Wiener ci stimola ad abbracciare e andare incontro alle nuove tecnologie così come in passato abbiamo abbracciato – all’epoca – impensabili innovazioni. Ogni cambiamento porta con sé novità e timori ma non sarà questo che potrà fermare lo sviluppo e l’evoluzione di sistemi e tecnologie sempre più raffinati.

 

Ruminazione: perché errare è umano mentre perseverare è…ruminare sull’errore

Maggio 2018, seconda prova di campionato regionale, coppia 4 clavette categoria junior-senior: Alice e Giulia, 13 anni, pronte a bordo pedana, buone probabilità di arrivare sul podio.

Valentina Vannucci e Alessandra Pedicelli

 

Le gambe che tremano, l’asciugamano sfregato compulsivamente tra le mani per non far scivolare gli attrezzi, le ultime rassicurazioni e gli ultimi gesti scaramantici prima dell’ingresso in pedana. Come allenatrice gestire questi momenti non è facile: contenere l’ansia delle ginnaste quando il proprio vissuto interiore è esattamente lo stesso, mostrarsi ferme e rassicuranti mentre il proprio stato d’animo è precisamente l’opposto. Serve una buona capacità di regolazione delle proprie emozioni per essere in grado di gestire anche i loro vissuti.

Ruminazione e ginnastica ritmica: accoppiata dannosa

La ginnastica ritmica è uno sport “prestazionale”: in un minuto e mezzo di esercizio, massimo due, la ginnasta, o le ginnaste, devono eseguire una serie combinata di movimenti tecnici ed espressivi, abbinati al maneggio dell’attrezzo (fune, palla, clavette, cerchio o nastro), minuziosamente scelti e adattati al ritmo e al carattere della musica. Su tale ritmo, la ginnasta deve eseguire un elemento dopo l’altro, senza sosta, mantenendo la concentrazione non solo su ogni azione motoria in sé, ma anche sulla sua specifica e corretta modalità di esecuzione. In questo complesso mix di elementi, la probabilità di incorrere in errori è estremamente alta, oltre che fatale: gli errori vengono pagati caro e spesso un solo errore può compromettere l’intera prestazione della ginnasta, facendola rapidamente scendere alle ultime posizioni in classifica.

Alice e Giulia entrano in pedana, la musica si accende ed il tempo sembra come arrestarsi: un minuto e mezzo in una “bolla spazio-temporale” estranea allo scorrere normale del tempo. Osservo da fuori i loro movimenti, un elemento dopo l’altro, guardo i loro volti concentrati, “per ora tutto bene” penso dentro di me, “ok anche il secondo scambio è andato…”, i pensieri non si fermano, le emozioni sono dirompenti ma congelate dentro di me: “per ora stanno facendo una buona prova, oggi potrebbero ottenere il risultato che meritano”. Arriva il momento del terzo scambio: Giulia lancia una clavetta troppo lontana, Alice fa qualche rapido passo per recuperarla, ma niente da fare, la clavetta cade inesorabilmente al suolo. Errore esecutivamente molto pesante. Vedo i loro volti cambiare espressione, il frettoloso recupero dell’attrezzo da terra e la consapevolezza di essere molto probabilmente già fuori dal podio. Iniziano allora a sorgere dentro di me i soliti pensieri: “E adesso? Faranno altri errori?”. Ai pensieri seguono l’ansia e la sensazione che da adesso in poi la prestazione sarà quasi sicuramente fallosa. Sensazione che in effetti viene presto confermata: Alice e Giulia incappano poco dopo in un secondo errore durante un semplice elemento di collaborazione mai sbagliato prima, ed infine terminano con una seconda perdita d’attrezzo. La musica si spenge, saluto alla giuria con gli occhi già pieni di lacrime e la consapevolezza di essersi giocate la gara per un primo errore che ha poi compromesso tutto il resto della prestazione. Un episodio che nella ginnastica ritmica si ripete spesso durante le competizioni, a prescindere dal livello tecnico e dall’età delle ginnaste.

Ruminazione: cos’è e come ci danneggia

Ma perché questo accade? Perché il primo errore di Giulia e Alice ha dato inizio ad una serie di successivi errori? Quali sono i processi psicologici implicati in questa catena di eventi?

Potremmo ipotizzare che il continuare a pensare all’errore commesso e alle sue conseguenze sulla performance possa distogliere l’attenzione dai successivi compiti motori: spostare le risorse cognitive dall’azione corrente ai pensieri negativi relativi all’errore (“adesso per colpa mia arriveremo ultime”, “ho rovinato tutto”, “non dovevo fare quell’errore”) fa conseguentemente aumentare la probabilità di cadere in ulteriori errori. Questo tipo di processo di pensiero, si definisce “ruminazione”.

La ruminazione è caratterizzata da pensieri negativi incontrollabili, ripetitivi e altamente concentrati su di sé, o su un singolo tema o avvenimento appena accaduto o relativo al passato. La ruminazione spesso ostacola le persone dal concentrarsi sui compiti contingenti poiché la mente e le risorse cognitive vengono invase da questi pensieri intrusivi relativi ad eventi o situazioni passate.

Il ruolo della ruminazione è stato indagato in diversi ambiti, non solo quello sportivo, sottolineandone principalmente gli effetti negativi su performance di diverso tipo. Secondo alcuni ricercatori però, parlare di ruminazione in termini esclusivamente negativi, risulta piuttosto riduttivo. Da uno studio di Ciarocco et al. (2010), condotto su soggetti impegnati in diversi compiti di tipo cognitivo, emerge infatti un interessante aspetto relativo alla ruminazione in seguito ad un errore: sembra che solo un tipo specifico di ruminazione, denominata state-rumination, abbia effettivamente un impatto negativo sulla performance dei soggetti coinvolti nell’esperimento, mentre una seconda tipologia di ruminazione, denominata action-rumination abbia addirittura un effetto di miglioramento della performance dei partecipanti. Ma analizziamo meglio la questione: la “state-rumination” viene definita come quel tipo di ruminazione in cui i pensieri si focalizzano sullo stato emotivo del soggetto e sulle implicazioni emotive dell’errore. Alice e Giulia in questo senso potrebbero aver avuto pensieri del tipo: “adesso ho rovinato tutto”, “mi sento in colpa, ho fatto sbagliare anche la mia compagna”, “accidenti a me, adesso andrà malissimo”. La “action-rumination”, invece, implica pensieri più strettamente legati all’azione, all’errore in sé e per sé, incentrati sul compito e su come poter risolvere gli errori appena commessi in modo da migliorare per le occasioni future. I pensieri di Alice e Giulia quindi potrebbero essere stati: “ok, ho sbagliato quel passaggio perché non ho steso bene il braccio, adesso devo ricordarmelo”, “abbiamo fatto quell’errore, non importa, adesso mi riconcentro sul resto”.

I risultati della ricerca di Ciarocco, che confermano risultati simili ottenuti da ricerche precedenti, sembrano mettere in evidenza come i pensieri relativi al proprio stato emotivo, ovvero la “state-rumination”, abbiano un impatto negativo sulla performance perché bloccano l’impiego efficiente di strategie di controllo dell’azione e di focalizzazione dell’attenzione sul compito corrente, incidono sui tempi di presa di decisione che risultano prolungati e rendono più difficile la presa di decisione tra più alternative. Al contrario, pensieri relativi al compito, “action-oriented”, risultano più funzionali alla prestazione, avendo in sé elementi di problem-solving ed essendo concentrati su aspetti più pragmatici e concreti dell’azione.

Traslando questi elementi all’ambito sportivo, ed al caso specifico delle nostre due ginnaste, possiamo ipotizzare che, in seguito al primo errore, Alice e Giulia abbiano concentrato i loro pensieri sui propri stati emotivi e sulle implicazioni emotive che il primo errore ha avuto su di loro, distogliendo le loro risorse cognitive dai successivi compiti motori richiesti. Se avessero avuto pensieri maggiormente “action-oriented”, forse i successivi errori non sarebbero stati commessi, o comunque in misura minore, riuscendo a sfruttare i pensieri relativi al primo errore al fine di non commetterne altri.

Ma come si può intervenire per aiutare gli atleti a gestire efficacemente tutti questi processi interni? Come possiamo aiutare gli atleti a rimanere concentrati sul compito e ad avere pensieri maggiormente “action-oriented”?

Ruminazione: la gestione con skill training o mindfulness

Tradizionalmente il metodo più utilizzato è stato il PST (Psychological Skills Training), basato sui principi dell’approccio cognitivo-comportamentale, applicato principalmente al fine di sviluppare una maggiore capacità di self-control sui propri processi interni sia mentali che emozionali che potevano inibire la performance degli atleti. Negli ultimi anni però, Gardner e Moore (2004) hanno introdotto una nuova metodologia di intervento basata sui principi della mindfulness, specificatamente sviluppata per il miglioramento della performance atletica come alternativa al PST.

L’approccio della mindfulness è finalizzato al raggiungimento di una consapevolezza centrata sul presente e non giudicante, relativamente a stimoli sia esterni che interni. Ciò che si vuole stimolare è una presenza più piena all’esperienza del momento, al qui ed ora, senza cercare di controllare, cambiare o evitare nessuna delle esperienze che occorrono. L’idea di fondo che ha portato all’utilizzo della mindfulness come metodologia di intervento sugli atleti, è che queste tecniche possano avere un’influenza indiretta sulla performance andando ad agire sui processi interni di ruminazione e di regolazione delle emozioni, determinanti per l’andamento della performance.

Da un recente studio di Josefsson et al. (2017), in cui veniva utilizzato un modello di intervento basato su tecniche di mindufulness su atleti professionisti provenienti da diverse discipline sportive, emerge un effetto indiretto positivo di queste tecniche sulla performance degli atleti che passa dal miglioramento delle strategie di coping messe in atto, in particolare con una riduzione della ruminazione e una migliore regolazione delle emozioni.

L’aumento della mindfulness disposizionale negli atleti sembra quindi ridurre i livelli di ruminazione e migliorare la capacità di regolazione delle emozioni, con un effetto positivo indiretto sulla prestazione sportiva. Un atleta quindi che è in grado di regolare le proprie emozioni e di diminuire i processi di ruminazione riesce a concentrare le proprie risorse cognitive e fisiche sul compito richiesto e sui comportamenti diretti all’obiettivo. Gli atleti così riescono a prendere la decisione giusta al momento giusto e rispondere in modo adattivo alle richieste: abilità fondamentali durante una performance dove l’errore è sempre dietro l’angolo, ed è necessario rispondere in modo veloce ed efficace alle nuove sfide.

 

Autostima: che sia alta o bassa, preservarla a tutti i costi può danneggiarci

L’ autostima è la valutazione, positiva o negativa, che un individuo dà di se stesso (Smith, E. R., & Mackie, D.m. 2011). L’abilità di valutarsi adeguatamente ha un ruolo fondamentale nella funzione adattiva del sé: un’accurata conoscenza delle nostre capacità guida l’esistenza facendo vivere in maniera adeguata i bisogni, i limiti e le esperienze.

 

Tuttavia, le persone valutano le proprie capacità influenzate da pensieri, stati emotivi e desideri poiché il giudizio e la percezione sono soggetti a bias cognitivi (scorciatoie di pensiero) che, semplificando il ragionamento, fanno sì che gli individui – durante il processo decisionale e valutativo – considerino un numero di informazioni parziali (Castelli, L., 2011).

Autostima: cosa comporta valutare in maniera errata le proprie capacità?

Sottostimare le proprie abilità favorisce emozioni quali la paura e l’ansia che, spingendo alla fuga piuttosto che a un maggiore determinazione e perseveranza nel perseguimento dei propri obiettivi, diminuiscono la volontà di mettersi alla prova e inibiscono la messa in atto di comportamenti, potenzialmente in grado di modificare e correggere le convinzioni erronee, creando un circolo vizioso (bassa autostima – evitamento – fallimento – riduzione ulteriore dell’autostima).

Sovrastimare le proprie capacità, oltre a favorire un atteggiamento ottimista, può condurre anche ad aspettative irrealistiche, valutazioni fallaci, decisioni azzardate e spingere le persone a fare il cosiddetto “passo più lungo della gamba”, favorendo – in seconda istanza – momenti di forte sconforto, confusione e demoralizzazione (Huggins, E. T., Bond, R. N., Klein, R., & Straumann, T. 1986).

Autostima: quando la “tendenza” a preservare l’autostima diventa disfunzionale?

Indipendentemente dalla tendenza a sovrastimare o sottostimare se stesso, l’uomo ha un intrinseco desiderio di valutarsi in una luce positiva: le persone quando ne hanno la possibilità scelgono le situazioni in cui brillare, circostanze che permettono loro di migliorare la prestazione, accrescono il proprio contributo in progetti comuni qualora quest’ultimi terminino in un successo, accumulano maggiormente ricordi in cui hanno assunto un ruolo importante o rivendicano l’appartenenza a gruppi di successo rispetto a quelli non popolari (Gluck, J.,& Blucìck, S., 2007).

Delle volte il tentativo di preservare la propria autostima – indipendente se questa sia percepita elevata o bassa – non si limita a un semplice “sponsorizzazione di se stessi”, ma si manifesta attraverso una serie di comportamenti in cui le persone giocano un ruolo attivo.

Le persone possono mettere in atto le cosiddette strategie autolesive a fine utilitaristico, ossia possono ricercare auto-impedimenti (Baumeister, R. F., & Berglas, S. 1996). Quest’ultimi sono distinti essenzialmente in due tipologie: inventarsi o crearsi ostacoli che rendono meno probabile una prestazione ed evitare di impegnarsi adeguatamente in modo tale da facilitare un probabile fallimento.

Questo tipo di strategie autolesive sono mosse da meccanismi di preservazione della propria autostima e immagine sociale, dato che permettono di giustificare un eventuale fallimento e rendono un successo ancora più eclatante dati gli impedimenti esterni. In altre parole, le strategie autolesive a fine utilitaristico sono un tentativo attivo ma disfunzione di gestire l’immagine di sé.

Quanto maggiori sono le aspettative e le valutazioni da parte degli altri tanto è più probabile l’impiego di strategie di auto-impedimento. In altre parole, nonostante possa sembrare assurdo, alcune persone sabotano la propria prestazione per giustificare un eventuale fallimento.

Autostima e tentativi di preservarla: tre casi noti nella cronaca

Alexandre Deschapelles è un famoso scacchista francese che, dopo aver collezionato una serie di vittorie, per paura di incontrare giocatori più abili, decise di giocare solo con avversari che accettavano il vantaggio “del pedone e della prima mossa”, ossia continuò a giocare solamente se l’avversario avesse acconsentito a giocare con un pedone in più e per primo. Questa dinamica rendeva difficile la vittoria per Deschapelles, ma al contempo gli favoriva un’importante via di fuga in caso di sconfitta e un grande talento in caso di vittoria, preservando l’autostima intatta.

Eugene Fodor – il primo americano a vincere il premio Čajkovskij per violini a Mosca – dopo la vittoria, ricevette un’accoglienza da eroe ma all’apice della sua carriera si percepì non all’altezza delle aspettative e iniziò ad assumere stupefacenti. Fu arrestato in possesso di 24 grammi di cocaina dopo un’irruzione in una camera d’albergo, ottenendo più attenzione di quanto ne avesse mai avuta.

L’ex senatore americano Gray Hart, al culmine della sua campagna elettorale per la nomina a candidato presidenziale democratico, tenne una conferenza per fronteggiare i sospetti della sua infedeltà coniugale incoraggiando i giornalisti a seguirlo per il resto della sua campagna. Poche settimane dopo fu fotografato con la modella Donna Rice segnando sia la fine della sua carriera sia il rapporto con l’amante.

 

La comunicazione menzognera – Introduzione alla Psicologia

Il processo del comunicare è alla base di ogni relazione umana, poiché garantisce lo scambio di informazioni, di emozioni, di motivazioni e di cognizioni, tra persone che prendono parte allo scambio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

 Comunicare, dunque, significa trasmettere informazioni, di diversa natura, garantendo di conseguenza un flusso di informazioni in entrata e in uscita. Si tratta di un fenomeno ampio che coinvolge diversi processi, sia verbali sia non verbali. Si comunica per svariati scopi: esprimere un opinione, mostrare interesse, giungere a degli obbiettivi, e ogni situazione comunicativa svolge una determinata funzione a seconda del tipo di contenuto che si intende esprimere.

La comunicazione potrebbe mostrare aspetti impliciti, ovvero quanto si intende comunicare, e aspetti espliciti ovvero cosa effettivamente si comunica.

Comunicazione, discomunicazione e comunizione menzognera

Una comunicazione nella quale gli aspetti impliciti predominano su quelli espliciti si definisce discomunicazione. In questo caso, l’ intenzione comunicativa di chi parla è diversa da quella reale, per cui si ha una opacità comunicativa intenzionale. La discomunicazione all’interno di una conversazione aumenta e facilita le possibilità comunicative tra due o più parlanti, perché crea elementi su cui poter continuare a discutere.

Esistono diverse tipologie di discomunicazioni, le principali sono: ironica, seduttiva e menzognera.

  • La comunicazione ironica è una comunicazione obliqua in cui si nasconde il reale senso di ciò che si intende comunicare. L’ironia espressa durante una conversazione non mostra un solo significato, ma diversi a seconda dell’interpretazione data e per questo rappresenta l’emblema della discomunicazione.
  • La comunicazione seduttiva non avviene mai a livello diretto, ma superficiale per suscitare ed evocare il raggiungimento di uno scopo delle persone che prendono parte alla conversazione.
  • La comunicazione menzognera, nota forma di discomunicazione, rappresenta un fenomeno comunicativo complesso. Fondamentalmente, le proprietà che la caratterizzano sono la non veridicità del contenuto, consapevolezza di tale falsità e intenzione di ingannare il destinatario. Quindi, la menzogna è un atto comunicativo consapevole e volto deliberatamente a ingannare una persona che non è consapevole, a sua volta, di essere ingannato.

La comunicazione menzognera consta anche di aspetti non verbali, come tono, velocità dell’eloquio, postura e movimenti del corpo, che svolgono un ruolo cruciale nella comunicazione.

La menzogna è diversa dal commettere un errore, in cui chi parla non è conscio della falsità di quanto asserisce, e dalla finzione, il cui scopo è voler essere scoperto.

La menzogna si caratterizza in base allo scopo rappresentato, che potrebbe essere di

1. Omissione, se colui che parla nasconde informazioni importanti per chi ascolta;
2. Occultamento, se il parlante aggiunge delle informazioni per mascherare la mancanza dell’informazione nascosta;
3. Falsificazione, se il parlante munisce informazioni non veritiere;
4. Mascheramento, il parlante introduce informazioni false per celare quelle vere.

Comunicazione menzognera e teoria del carico cognitivo

Secondo la teoria del carico cognitivo la comunicazione menzognera è complicata da sostenere, poiché generare un messaggio dal nulla, che sia credibile tenendo a mente le tempistiche e dettagli di quanto detto, crea un carico cognitivo non indifferente. Inoltre, la menzogna può essere pianificata precedentemente, o spontanea perché generata all’istante. Inoltre, potrebbe essere ad alto contenuto emotivo e carica di dettagli oppure a basso contenuto e quindi scarsamente emotigena e poco ricca di particolari.

Secondo la manipulation information theory, la menzogna rappresenta un particolare tipo di comunicazione, ovvero una comunicazione all’interno della quale si violano intenzionalmente e consapevolmente tutte o alcune massime conversazionali come quelle di quantità, verità, chiarezza e pertinenza. Invece, la teoria dell’inganno interpersonale e della discomunicazione menzognera definisce la menzogna come una forma di comunicazione a sé stante e distinta da quella non menzognera e sottolinea l’aspetto strategico della stessa, considerandola una comunicazione che si sviluppa attraverso mosse e contromosse da parte dei due parlanti per ingannare e non essere ingannati.

In particolare, si ottiene una comunicazione strategica quando il parlante si mostra in modo credibile, attraverso la messa in atto di messaggi ambigui e non rilevanti, pieni di pause, con poca interazione visiva e riesce ad allontanare da sé ogni sospetto mostrandosi sorridente e disponibile. Si parla di comunicazione menzognera non strategica quando il mentitore non è capace di controllare il proprio discorso, presentando diversi disagi emotivi e di incompetenza comunicativa.

Comunicazione menzognera: le caratteristiche

Anolli ha identificato delle caratteristiche relative allo stile menzognero:

  • Ambiguità: uso di modificatori dubitativi nel discorso, come quasi, forse e uso di predicatori epistemici come penso, credo;
  • Prolissità, lunghezza nell’esprimere i propri pensieri pieni di particolari non necessari;
  • Assertività ed evitamento ellittico, che consistono nell’avvicinamento o fuga da situazioni che potrebbero portare a svelare la verità;
  • Impersonalizzazioni, frequente uso di pronomi in terza persona e stili non verbali con aumento o diminuzione dell’attività motoria ma senza un repertorio fisso e ricorrente.

In ambito clinico sono presenti diversi disturbi, che presentano comportamenti menzogneri, allo scopo di poter ottenere dei vantaggi come ad esempio per l’antisocialità, il disturbo narcisistico, l’istrionico e la tossicodipendenza.

In generale, il mentire potrebbe essere determinato da diverse cause, a esempio sfuggire a una punizione, ottenere una ricompensa non facile, proteggere un’altra persona, guadagnare l’ammirazione altrui e ottenere consensi.

Per concludere,

Sospetto che dietro la menzogna ci siano delle ragioni che non rientrano nella suddetta semplificazione. Parlo delle menzogne cosiddette a fin di bene, raccontate per tatto o gentilezza, inganni banali che difficilmente possono riassumersi in poche categorie (Ekman, 1989).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il rito per celebrare un ritorno

La nostra cultura è ricca di riti di penitenza e di espiazione della colpa ma povera di cerimonie che celebrano la gioia della vita, della guarigione e del ritorno, manca un rito che festeggi il reinserimento sociale del malato, che ne celebri il rientro in comunità.

 

Il rito nasce per dare un senso e un significato agli eventi più importanti del nostro vivere, ai nostri compiti evolutivi.

Il linguaggio simbolico del rito consente il contenimento delle emozioni e la ristrutturazione del senso che l’evento stesso contiene.

La cerimonia rituale convoglia esperienze ed emozioni all’interno di una cornice di senso.

Rito: i significati per una comunità

Al rito è presente tutta la comunità che condivide gli stessi valori, il momento è solenne e induce un’intensa attivazione emotiva, che a sua volta conferisce importanza e potenza al rito.

A volte accade che i riti di tipo religioso, diventino delle cerimonie formali, dove si ripetono meccanicamente gesti e parole; diviene così un evento che non ha la forza di generare un cambiamento. La partecipazione al cerimoniale religioso è sempre più scarsa nelle nuove generazioni, i riti sembrano non essere più in sintonia con i cambiamenti storici che si sono verificati negli ultimi anni; eppure c’è un grande bisogno di partecipazione, di sentirsi parte di un tutto che dia un senso e un significato.

Durante il medio evo, in bilico tra santità e dannazione c’era la figura del “folle di dio”, poteva essere semplicemente un malato mentale in difficoltà e quindi emarginato dalla sua comunità o una persona che aveva scelto l’isolamento e la povertà per avvicinarsi a dio. Il “santo folle” poteva quindi riferire dei contenuti deliranti ma anche, protetto dalla sua condizione di alienato, dare voce al pensiero della collettività con delle verità, era temuto ma anche ascoltato. Molto raramente il folle di dio rientrava nella sua comunità di appartenenza come accade oggi dopo un percorso di diagnosi, cura e riabilitazione.

Rito nell’antichità

Il cristianesimo negli anni ha sviluppato una diffusa ritualità della colpa (confessione, penitenza, espiazione) ma pochi riti di partecipazione alla sofferenza altrui e cerimonie di solidarietà. C’è una mancanza di riti che celebrano la gioia del sentirsi vivi grazie all’altro, che ne celebrano la guarigione, il ritorno, il rientro.

Occorre ritrovare un rito che sancisca formalmente il momento di ricongiunzione alla comunità, dopo un lungo periodo di malattia o allontanamento. Uno spazio e un tempo dove la compassione sociale si componga in una cerimonia partecipata, dove il malato, il sofferente, il recluso, è riaccolto e si ricongiunge con la sua comunità.

Nella cura antica il principale agente terapeutico era il rito, molto spesso la cerimonia di guarigione era una ripetizione, sotto forma di recitazione drammatica, del trauma iniziale. Un esempio di trattamento collettivo dove la comunità tutta si adopera per la cura di un loro membro, è narrata da un missionario gesuita, padre Raguenau che descrive la “festa dei sogni” presso gli indiani dell’America nordorientale:

Gli Uroni facevano distinzione fra tre cause di malattia: cause naturali, stregoneria, desideri insoddisfatti. Dei desideri insoddisfatti alcuni erano noti altri no ma potevano essere rivelati in sogno. Tali sogni tuttavia potevano venire poi dimenticati; inoltre c’erano dei desideri che non si rivelavano neppure in sogno. Alcuni Divinatori erano capaci di determinare quali fossero questi desideri inconsci; quando c’erano possibilità di guarigione i divinatori solevano enumerare gli oggetti che si supponeva fossero desiderati dal paziente e si organizzava una “festa dei sogni”. Si faceva una raccolta fra le tribù e gli oggetti raccolti venivano dati al paziente nel corso di un banchetto che comprendeva danze e altre manifestazioni pubbliche di allegria. Non si parlava di restituire tali oggetti al donatore, in questo modo, non solo il paziente guariva dal male con tutti i desideri esauditi, ma talvolta diventava anche ricco. D’altra parte, alcuni dei donatori potevano divenire a loro volta malati e sognare di ricevere qualche compenso per la perdita. Una festa dei sogni era quindi una combinazione di terapia, allegria pubblica e scambi di proprietà (Ellenberger, Henry F., 1970 – La scoperta dell’inconscio)

I riti primitivi erano anche delle terapie da bellezza, grazie ai canti e ai costumi, erano altresì manifestazioni pubbliche di gioia dove ci si aspettava che la persona rientrasse al suo posto, accolto da questa certezza.

Obesità e depressione: un trial clinico su un trattamento integrato

Può un trattamento integrato migliorare la perdita di peso e i sintomi depressivi nei pazienti affetti da obesità e depressione?

 

In questo nuovo studio, i ricercatori hanno confrontato il trattamento di routine usato per il trattamento dei sintomi depressivi e per l’obesità, con un nuovo trattamento comportamentale incentrato sulla perdita di peso e sulle strategie di problem solving costruttive, utilizzate per far fronte alle esperienze di vita stressanti.

Obesità e depressione in comorbilità

I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati su Journal of the American Medical Association, a marzo 2019.

Le persone affette da obesità hanno un rischio maggiore di sviluppare la depressione e spesso obesità e depressione si presentano insieme.

I pazienti affetti da entrambe le condizioni mediche sono soliti visitare più professionisti, come dietologi, psicologi e psichiatri, ecc. Inoltre, molto spesso, i pazienti abbandonano la terapia, ancora in corso, a causa della sua lunga durata e per il fatto che devono confrontarsi con tanti professionisti diversi. Oltre a ciò, spesso questi servizi sono costosi e per questo non usufruibili da tutti.

I risultati dello studio mostrano che promuovere una terapia integrata incentrata sia sulla cura dell’ obesità che della depressione in un unico programma integrato, servendosi dell’aiuto di uno psichiatra e di un medico di base che lavorino in equipe in modo integrato, sia efficace nel ridurre il peso e migliori i sintomi depressivi.

I dati sono stati raccolti dallo studio clinico Research Aimed at Improving Both Mood and Weight (RAINBOW). Il trial ha voluto verificare l’efficacia di un programma integrato di assistenza collaborativa per il trattamento dell’ obesità e della depressione concomitante. L’intervento per promuovere la perdita di peso previsto dallo studio RAINBOW fornisce indicazioni per seguire un’alimentazione sana e svolgere attività fisica, mentre la parte psicologica si concentra sulle capacità di problem solving del soggetto; inoltre se necessario è prevista la sommistrazione di farmaci antidepressivi.

Obesità e depressione: lo studio sul trattamento integrato

Allo studio hanno partecipato a 409 pazienti affetti da obesità e depressione. Tutti i partecipanti hanno ricevuto le cure mediche abituali dai loro medici di base, e sono stati fornite loro informazioni sui servizi di assistenza sanitaria per l’ obesità, per la depressione e sui tracker wireless dell’attività fisica.

Il primo gruppo, composto da 204 partecipanti, ha ricevuto un programma integrato di assistenza collaborativa e i soggetti sono stati monitorati per un anno. Nei primi sei mesi, il primo gruppo ha partecipato a nove sessioni di consulenza medica individuale e hanno guardato alcuni video riguardanti stili di vita sani. Nei sei mesi successivi, i partecipanti mensilmente venivano contattati telefonicamente dallo psichiatra sia dal medico di base.

Gli altri 205 soggetti sono stati assegnati a un gruppo di controllo standard e non hanno ricevuto alcun intervento aggiuntivo.

I partecipanti al programma di assistenza integrata hanno ottenuto una maggiore perdita di peso e un miglioramento dei sintomi depressivi nell’arco di un anno, rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo.

In media, i pazienti nel programma integrato hanno visto un calo dell’indice di massa corporea (BMI) da 36,7 a 35,9 mentre i partecipanti al gruppo di controllo non hanno modificato il BMI. I partecipanti che hanno ricevuto terapia integrata hanno riportato un calo dei punteggi di gravità della depressione in base alle risposte a un questionario (SCL-20) da 1,5 a 1,1, rispetto a un cambiamento da 1,5 a 1,4 tra quelli nel gruppo di controllo.

Attualmente, i ricercatori stanno studiando i modi per adattare la terapia per i singoli pazienti, analizzando i meccanismi neurocomportamentali sottostanti, per migliorare ulteriormente i risultati di efficacia.

La Coppia strategica: guida pratica ad un sano rapporto di coppia (2019) di D. Algeri, V. Guarasci, S. Lauri – Recensione del libro

Davide Algeri, Valentina Guarasci, Simona Lauri hanno pensato di fornire in questo libro La Coppia strategica: guida pratica ad un sano rapporto di coppia tutti gli accorgimenti necessari per vivere la vita di coppia al meglio in ogni sua fase, compresa l’eventuale rottura.

 

La coppia felice che si riconosce nell’amore
sfida l’universo e il tempo; è sufficiente a se stessa,
realizza l’assoluto
(Simone de Beauvoir)

 

Quando si incomincia una storia d’amore, ciò che afferma Simone de Beauvoir, è sicuramente vero. Una coppia felice si basta e non necessita di altro.

Per fare sì che la storia continui, però, sono necessari diversi altri ingredienti. Se questi elementi mancano sin dall’inizio, la “coppia felice” presto o tardi potrebbe smettere di essere così felice e alla lunga anche di essere una coppia.

La coppia strategica: struttura del libro

Davide Algeri, Valentina Guarasci, Simona Lauri hanno pensato di fornire, allora, nel loro libro La coppia strategica tutti gli accorgimenti necessari per vivere la vita di coppia al meglio in ogni sua fase, compresa l’eventuale rottura.

Gli autori dell’opera sono un gruppo di psicologi e psicoterapeuti di orientamento strategico breve e lavorano tra Milano, Prato e Camaiore come Valentina Guarasci. La prefazione del testo è ad opera di Luca Mazzucchelli, vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi di Milano.

In La coppia Strategica: guida pratica per un sano rapporto di coppia gli autori si rivolgono idealmente alle neo-coppie. L’approccio è inizialmente teorico. Nella prima parte vengono presentate e illustrate le diverse fasi del ciclo di vita ideale nella coppia: simbiosi, differenziazione, sperimentazione, riavvicinamento e interdipendenza.

Due partner avranno una relazione tanto più sana, quanto più saranno in grado di vivere ogni fase serenamente e con consapevolezza fino alla fase più matura della vita di coppia, consapevoli che ogni rapporto va sempre mantenuto in evoluzione.

Più avanti vengono spiegate anche le dinamiche che portano una relazione ad essere disfunzionale, come, ad esempio, quelle coppie in cui uno dei due soffre di dipendenza affettiva o quelle nelle quali il partner è affetto da un’immaturità cronica.

Per arrivare al lettore e facilitare la comprensione del testo, le dinamiche disfunzionali sono accostate a personaggi del libro di J. M. Barry “Peter Pan”, quindi è descritta la nota sindrome di Peter Pan, ma anche quella di Wendy o Campanellino.

La coppia strategica: perché si può entrare in crisi e come uscirne

La parte centrale dell’opera ci focalizza sulla crisi e sui motivi che possono condurre a incomprensioni, frustrazioni e litigi.

Nella seconda parte del testo, si passa invece alla pratica. Algeri e gli altri autori, propongono un vero e proprio protocollo per superare le eventuali crisi a cui si va incontro quando due persone stanno insieme.

La coppia strategica, infine, si conclude con una sezione con tutti i falsi miti da sfatare sull’amore e le relazioni, del tipo “il mio compagno mi completerà?”, “una buona relazione richiede l’assenza di problemi” o “la coppia funziona solo se si è sempre sinceri?” e le risposte non sono scontate.

La coppia strategica: a chi è destinato questo libro?

Il testo può essere utile a chi si avvicina per la prima volta all’argomento. A chi si chiede, magari, dove sbaglia sempre nelle relazioni e a chi vorrebbe avere degli strumenti per non commettere gli errori del passato nella relazione presente.

Il linguaggio con cui è scritto è molto semplice e la lettura risulta scorrevole. In alcune parti, forse il tema è toccato in maniera un po’ superficiale, per esempio riguardo le diverse dinamiche disfunzionali, presentate in maniera poco approfondita.

Originale comunque l’idea di offrire consigli e suggerimenti per una vita di coppia felice e non già un protocollo per riparare una coppia in crisi!

Il ruolo delle strategie di coping nella psicopatologia

Compiacenza, sottomissione, perfezionismo, idealizzazione, evitamento, vuoto devitalizzato. Ruminazione. Utilizzo di droghe. Può sembrare un elenco di parole messe in fila, così, a caso, ma in realtà ci portano ad un aspetto molto importante della psicopatologia. I coping!

 

No, non è un’altra ennesima parola della lista. Quello che accomuna questi termini è che sono tutte strategie di coping e svolgono una funzione specifica, di difesa e di protezione, per essere precisi.

Coping: strategie.. utili?

Aiutano o, meglio, sembrano aiutare a tenere sotto controllo il dolore emotivo che emerge in alcuni tipi di interazioni con gli altri. Per dirla nella lingua della terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) le strategie di coping sono un tentativo di gestione dell’attivazione dello schema maladattivo interpersonale. Facciamo degli esempi?

Il capo non mi apprezza nonostante gli enormi sacrifici dell’ultimo periodo. Per la precisione, mi ignora. Mi sento un fallimento e provo una certa quota di vergogna e tristezza. A questo punto, mi impegno ancora di più, lavorando in modo eccessivo, di notte, di domenica, nonostante sia pieno agosto e tutti gli amici stiano al mare. Mi sembra che questo non sia un peso per me, anzi, mi piace perché quasi quasi mi fa sentire vitalizzata. Ma il timore dell’errore, la paura di risultare un fallimento agli occhi dell’altro, sono spariti?

Altro scenario a partire da un altro wish: questa volta vorrei sentirmi parte del gruppo di colleghi. Ogni martedì escono a cena insieme ma io li evito sistematicamente. La sola idea di stare lì e non sentirmi integrata, vedermi sola e percepirmi perfino diversa mi costringe a scegliere di non andare. Per un po’ sto meglio perché non provo più ansia ma il martedì successivo, sarò pronta ad andare a cena? Beh, non lo so, ma sono certa che ci ruminerò su nei giorni a venire, nella speranza di giungere ad una decisione.

Vediamone un altro. Wish: autonomia. Finalmente credo sia importante per me andare via di casa. Nel momento stesso in cui lo pianifico già sento la voce di mamma che mi dice che non ce la potrò mai fare ma soprattutto che non ce la farà lei senza di me. Senso di colpa. Quanto è semplice passare le ore a ruminare su questo mio stato interno? Vado o non vado? Le propongo di venire con me? Forse è meglio rinunciare, sì, da sola non ce la posso fare e non prendo più quell’appartamento, per il momento è meglio soprassedere!! Ma come la mettiamo con quel viaggio all’estero di 10 giorni il prossimo mese?

Quello che accomuna questi esempi è che partono da un wish sano di esplorazione, di ricerca di apprezzamento, di inclusione ed esitano in comportamenti che sembrano proteggere temporaneamente dal dolore che, invece, riapparirà appena possibile e, in certe occasioni, ancora più forte di prima.

Coping: ad ogni patologia le sue strategie

Per essere precisi, i coping non sono soltanto comportamentali perché molti di essi sono cognitivi, e vanno distinti in perseverativi attivanti oppure disattivanti (PCCS-Perseverative Cognitive Coping Strategies). La ruminazione, ad esempio è molto comune nei vissuti dei nostri pazienti (ammettiamolo, anche nei nostri) così come il worry: sono rispettivamente pensieri persistenti sul passato e sul futuro. Ci si può anche focalizzare sul presente, non me ne voglia il momento contingente!! Questi tentativi di autoregolazione amplificano la durata e la pervasività delle emozioni, a volte i pazienti riferiscono un vero e proprio affaticamento cognitivo quando si rendono conto del tempo e delle energie che vi investono. I pazienti con depressione ruminano e tanto, i pazienti con attacchi di panico si perdono negli evitamenti di molte situazioni, i pazienti ipocondriaci monitorano costantemente il loro corpo e così via. Nei disturbi di personalità il focus è sulla relazione con gli altri ma il processo è il medesimo. Ad esempio non è raro il monitoraggio della relazione oppure il gap filling, cioè il tornare sui dettagli minuziosi di un momento vissuto nel tentativo di captare un significato, un elemento che avrebbe potuto fare andare le cose diversamente.

Coping: come, quando, perchè trattarlo in terapia

Perché al clinico dovrebbe sempre interessare il lavoro sulle strategie di coping?

Nella fase di condivisione del funzionamento, per il paziente è fondamentale notare che si affanna in comportamenti o in ruminazioni cognitive disfunzionali. Oltre alla condivisione dello schema maladattivo interpersonale, perciò, dobbiamo restituire l’idea che le i coping vanno smussati, eliminati e sostituiti, sempre in un’ottica validante anche perché, queste strategie di coping possono attivare dei cicli interpersonali problematici: se io non vado mai a cena è normale che dopo un po’ nessuno me lo chiederà più e se le mie amiche notano che disprezzo ogni aspetto delle loro vite, è normale che non mi racconteranno più niente, se mi va bene, perché i risvolti potrebbero anche essere peggiori. Quindi se l’obiettivo è gestire uno stato mentale ed emotivo problematico, ma questo non accade, aumenterà la sofferenza ed in alcuni casi la sintomatologia e, a questo punto, il paziente deve rivedere la sua procedura, spesso automatica ed inconsapevole, e deve sviluppare delle nuove strategie adattive di autoregolazione.

Rinunciare ai coping può essere davvero molto difficile. Alcuni sono così radicati nella storia di vita che sembra impensabile farne a meno ma ad oggi sappiamo che è bene lavorarci fin dalle prime fasi della terapia, grazie alla condivisione del contratto terapeutico, per capire cosa è possibile fare e in che momenti, soprattutto quando alcuni di essi limitano di molto la terapia stessa. Pensiamo, ad esempio, a quei pazienti che arrivano in seduta dopo aver fatto uso di sostanze!! Per questi interventi così precoci, è essenziale che vi sia una buona alleanza terapeutica. Anche le PCCS sono oggetto di intervento precoce in quanto rappresentano la base dei coping di tipo comportamentale quasi come se fossero ordinate gerarchicamente (Ottavi et al., 2017) e questo spiega perché talvolta chiedere al paziente di rinunciare ad esempio alla sbronza serale non funziona perché bisogna identificare il coping cognitivo che lo precede ed in un certo modo lo prepara.

Grazie ai vari step della terapia metacognitiva interpersonale, e grazie allo sviluppo di strategie di mastery sempre più sofisticate, il paziente potrà gestire l’attivazione dello schema ed il dolore che ne segue in modi diversi. Giusto per dare qualche spunto di riflessione, la mindfulness aiuta a non indugiare troppo a lungo sui pensieri ricorrenti e a non considerarli come dati di realtà assoluta. Si suggerisce, comunque, di utilizzare la mindfulness dopo che il paziente sia stato reso consapevole dei suoi schemi e di come essi fanno soffrire nella loro natura rappresentazionale: gli eventi, quindi possono essere osservati da una posizione decentrata. Oltre al classico MBCT, citiamo il MIMBT (Metacognitive Interpersonal Mindfulness-Based Training), un training metacognitivo basato sulla mindfulness, della durata di 9 incontri settimanali, che aiuta a rivolgere attenzione alle relazioni interpersonali e soprattutto a riconoscere in tempo reale l’attivazione di emozioni negative per gestirle in modo più funzionale (Ottavi et al., 2019) ed infine come non citare tutte le tecniche wellsiane che fanno capo alla terapia metacognitiva per i disturbi di ansia e della depressione (Wells, 2012).

 

Psicoanalisi relazionale e tecniche

Il debito mio, dei miei colleghi più stretti e direi, come Magistrale stesso osserva, della corrente cognitivo-evoluzionista verso quella psicoanalisi è immenso e impagabile.

 

Ho letto la bella risposta di Giuseppe Magistrale alla mia provocazione sulla psicoanalisi vetero-pulsionale o, diciamola tutta, basata su fantasticherie.

I concetti che esprime, con chiarezza e semplicità, li condivido pienamente. La mia pratica clinica, credo e spero, potrebbe per lunghi passaggi essere scambiata, da chi osservasse le mie sedute, per una psicoanalisi relazionale. Il debito mio, dei miei colleghi più stretti e direi, come Magistrale stesso osserva, della corrente cognitivo-evoluzionista verso quella psicoanalisi è immenso e impagabile. Una cosa di cui sono orgoglioso è che la traduzione italiana del capolavoro (senza mezzi termini, non segue dibattito) di Safran e Muran Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica è stata effettuata dalla mia copia personale autografata da Jeremy Safran. La conservo gelosamente.

Ci sono alcuni punti della replica di Magistrale su cui discordo, ma entriamo qui nel gusto del dibattito, perché le sue posizioni le sento in grandissima parte vicine alle mie.

Il primo è il primato della relazione a scapito delle tecniche. Conosco molto bene e dal di dentro i problemi del cognitivismo protocollato. I pazienti rispondono così e così all’approccio puramente tecnico e come appena appena insorgono problemi relazionali o i pazienti non fanno gli homework i giovani cognitivisti si perdono. Potrei fare una lunga lista di errori terapeutici dovuti dai tentativi disperati di applicare le tecniche cognitive da manuale quando invece bisognerebbe passare a lavorare sulla personalità, sulla relazione terapeutica e sul negoziare il contratto invece di spingere il paziente verso esercizi che non ha scelto ancora di applicare.

Ma d’altra parte, pensare che certi meccanismi propri dei disturbi sintomatici, spariscano solo col lavoro relazionale credo oggi si possa dire che non è vero. I meccanismi alla base delle ossessioni, del rimuginio non vanno via solo grazie all’interazione della relazione terapeutica come riparativa. La psicopatologia sperimentale, in Italia molto belli i lavori di Francesco Mancini, e l’attenzione allo smantellamento dei meccanismi che il laboratorio ha evidenziato, generano strumenti dai quali il terapeuta moderno oggi non può prescindere.

Ho a lungo contestato il paradigma monopersonale-arelazionale di Caselli, Ruggiero e Sassaroli, ma questo non significa che il clinico possa esimersi dal dedicare parte del lavoro in seduta all’interruzione dei circuiti rimuginatori. O dall’interrompere previo contratto gli evitamenti comportamentali o dal concordare l’attivazione comportamentale.

È un po’ il vecchio problema: ho inviato moltissimi miei allievi e colleghi in psicoterapia di stampo psicodinamico, sempre relazionale o Control-Mastery Theory, perché il lavoro dei colleghi dell’ISiPSé e del Control Mastery Theory-Italian Group è eccellente e una fonte di ispirazione quotidiana. Quando Francesco Gazzillo e io, di solito in pizzeria, parliamo di casi clinici, ci ritroviamo sempre tantissimo e io ascoltandolo vedo sempre qualcosa di nuovo.

Ma mi dispiace vedere che i terapeuti psicodinamici non pensano di fare un giro di apprendimento delle tecniche cognitive, secondo me ne verrebbero fuori come terapeuti più completi.

Infine, Giuseppe Magistrale è stato molto chiaro nel dire che la corrente a cui appartiene si è completamente distaccata dalla psicoanalisi pulsionale.

Ma il problema generale è grave. Mi spiego.

Apro la pagina web dell’International Journal of Psychoanalysis. Voglio dire, mica pizza e fichi mentre leggiamo il giornale della parrocchia.

Il primo articolo che vedo del 2019 è: “Oedipality and oedipal complexes reconsidered: On the incest taboo as key to the universality of the human condition” di Barnaby B. Barratt (BBB se posso permettermi). Voglio essere chiaro: pensare a un paziente che va da un terapeuta che si basa su queste letture mi genera brividi di preoccupazione.

Attenzione perché se la psicoanalisi non si distacca in modo netto e ufficiale da cose del genere il passo successivo è Maurizio Crozza e la psicobanalisi.

Bowlby, Mitchell, Greenberg, Arnold Modell (per me un mostro di bravura e profondità), Joseph Weiss, Lester Luborsky, Lewis Aron scomparso pochi giorni fa, meritano di essere distinti da questo.

 


Leggi i precendenti articoli sul tema:

1 – Per favore diteci: cosa è la psicoanalisi? Pratica empiricamente supportata o fantasticheria? – di Giancarlo Dimaggio, 01 Marzo 2019

2 – La psicoanalisi: terapia empiricamente supportata, ma non scientista – di Giuseppe Magistrale, 08 Marzo 2019

3 – Psicoanalisi e Cognitivismo alla prova (ineludibile e complessa) della scienza – di Simone Cheli, 22 Marzo 2019

 

Depressione e alimentazione: mangiare meglio fa stare meglio?

Come altri studi epidemiologici, longitudinali e cross-sectional (Jacka, Pasco, Mykletun, 2010) anche diverse meta-analisi come quella recente di Wang, Zhou, Chen e colleghi (2018) hanno evidenziato l’associazione tra la qualità del proprio piano nutrizionale e la salute mentale.

 

In particolare vi sarebbe un’associazione con i sintomi ansiosi e depressivi. Di conseguenza hanno supportato numerosi interventi e trial preliminari incentrati sul miglioramento della dieta alimentare per il trattamento della sintomatologia psicopatologica (Berk & Jacka, 2019).

Depressione e alimentazione: gli studi fatti

Una recente meta-analisi di Firth, Marx e colleghi (2019) del dipartimento di psicologia dell’Università di Manchester, dell’Unità di Psichiatria dell’ospedale di Padova, e del NICM Health Research Institute di Sydney, Australia, ha confermato la significativa efficacia degli interventi alimentari nella riduzione dei sintomi depressivi, nonostante la maggior parte degli studi presi in considerazione abbiano riscontrato questi effetti su popolazioni generali, subcliniche e non patologiche.

Questa importante limitazione metodologica, e cioè l’utilizzo di un campione poco idoneo, spesso selezionato attraverso criteri di inclusione ed esclusione poco rigorosi, ha spinto altri ricercatori a effettuare ricerche cliniche randomizzate sul tema. Il recente studio europeo MooDFOOD, pubblicato su Jama Psychiatry, da Bot, Brouwer e colleghi (2019) dell’Amsterdam Public Health Research Institute e del dipartimento di psichiatria e psicoterapia dell’Università di Leipzig, in Germania, ne è un esempio.

Lo studio longitudinale ha avuto lo scopo di investigare con una più precisa e scrupolosa metodologia gli effetti di specifici interventi nutrizionali nella prevenzione di disturbi depressivi in un gruppo di adulti sovrappeso ad alto rischio (BMI da 25 a 40) con elevati punteggi nella scala della depressione del Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9), confrontato con un gruppo non clinico e di controllo che non ha presentato episodi depressivi per almeno sei mesi, composto da individui provenienti da quattro diverse nazioni europee.

Bot e colleghi (2019) hanno sviluppato trial longitudinali confrontando pazienti nella condizione placebo, con e senza alcuna terapia in corso, con soggetti con e senza terapia che avevano ricevuto piani alimentari multi nutrizionali.

Depressione e alimentazione: il progetto MooFOOD per la riduzione dei sintomi

Il progetto, definito MooDFOOD, ha mostrato come le due diverse strategie alimentari adottate, e cioè l’intervento multi nutrizionale implicante un maggiore apporto di omega 3, acidi grassi, selenio, acido folico, calcio e vitamine e la promozione della dieta mediterranea nel piano alimentare, inserite nei piani terapeutici non abbiano apportato una significativa riduzione dei sintomi depressivi né aumentato i punteggi relativi alla qualità di vita percepita rispetto le stime fatte a priori. Tuttavia è stata rilevata una tendenza lieve verso una maggiore efficacia degli interventi di promozione della dieta mediterranea (Bot, Brouwer, Roca, Kohl set al., 2019).

A parere dei ricercatori, gli scarsi risultati ottenuti potrebbero essere dovuti al fatto che l’inserimento di studi nutrizionali in un ambito come quello della prevenzione della sintomatologia depressiva abbia ulteriormente aggiunto sfide metodologiche e difficoltà legate soprattutto all’aderenza dei gruppi sperimentali alle indicazioni nutrizionali dettate e al controllo della stessa da un punto di vista sperimentale-metodologico.

Un altro report, legato al progetto RAINBOW di Ma e colleghi (2019) riguardante la combinazione di interventi alimentari e psicoterapeutici su gruppi clinici con obesità e sintomi depressivi, ha evidenziato al contrario come il gruppo che aveva ottenuto l’intervento psiconutrizionale completo rispetto al trattamento standard aveva prodotto un miglioramento significativo dei sintomi a distanza di un anno, tanto da essere inserito tra gli interventi di prima linea per i pazienti obesi con alti punteggi nelle scale relative alla depressione.

In conclusione, nonostante i pareri sui potenziali benefici dell’alimentazione sui sintomi depressivi siano in alcuni casi discordi, non unanimi e provenienti da ricerche con una bassa potenza, mettono comunque in luce come l’inserimento all’interno di un trattamento psicoterapeutico di un piano alimentare possa condurre a dei risultati più robusti nella riduzione della sintomatologia psicopatologica nel lungo termine, tanto da poter essere inseriti in alcuni casi nei piani di intervento (Berk & Jacka, 2019).

 

“Scusi ma non riconosco la sua voce”: alla scoperta della fonoagnosia

La fonoagnosia viene definita come un deficit nel riconoscere voci di persone familiari e/o di discriminare differenti voci (e.g. indicare se due parole sono pronunciate dalla stessa persona). Alla stregua della prosopagnosia, la fonoagnosia, essendo specifica per le voci, non è associata a deficit nel riconoscimento di altri suoni (e.g. musicali, ambientali).

Virginia Aglieri

 

Fonoagnosia: il disturbo di chi non riconosce le voci

Chiunque abbia seguito un corso di psicologia avrà probabilmente sentito parlare della prosopagnosia (dal greco pròsopon = faccia e agnosìa = ignoranza), in inglese conosciuta anche come “face blindness” (cecità per i volti). Le persone affette da questo disturbo hanno infatti difficoltà nel riconoscere i volti di persone conosciute (celebrità, amici, parenti) ma anche nel discriminare differenti volti (per esempio, individuare due volti che appartengono allo stesso individuo tra differenti volti presentati).

Il primo caso di prosopagnosia congenita, ovvero presente dalla nascita e non associato a lesioni di strutture cerebrali rilevanti, fu descritto nel 1976 da McConachie. Da allora le neuroscienze si sono interessate molto a questo disturbo e ad oggi i suoi correlati neurali sono stati individuati attraverso numerosi studi di neuroimmagine, che si sono focalizzati sul funzionamento di alcune aree visive, come l’area fusiforme facciale nel lobo occipitale, ma anche sui fasci di materia bianca che connettono aree visive ad aree nel lobo temporale implicate in processi mnemonici. E’ interessante notare come questo disturbo non abbia attirato solamente l’attenzione di psicologi e neuroscienziati, ma anche quella dei media: per fare un esempio, sul web si possono trovare numerose notizie riguardo alla presunta prosopagnosia di Brad Pitt. Inoltre, il libro di Oliver Sacks dal titolo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ha contribuito a far conoscere questo deficit al di fuori della comunità scientifica.

Tale notorietà non colpisce un disturbo “cugino” della prosopagnosia, la fonoagnosia, tant’è che una breve ricerca su internet svelerà che non esiste ancora una pagina di Wikipedia che definisce il termine in italiano. Come suggerito dal termine, questo tipo di agnosia riguarda l’ambito uditivo (phōnḗ = voce in greco). Nello specifico, la fonoagnosia viene definita come un deficit nel riconoscere voci di persone familiari e/o di discriminare differenti voci (e.g. indicare se due parole sono pronunciate dalla stessa persona). Alla stregua della prosopagnosia, la fonoagnosia, essendo specifica per le voci, non è associata a deficit nel riconoscimento di altri suoni (e.g. musicali, ambientali).

La Dott.ssa Diana Van Lancker (anche conosciuta come Diana Sidtis, dopo aver assunto il cognome del marito) fu la prima ad aver introdotto il termine “fonoagnosia” in uno studio del 1982 pubblicato sulla rivista Brain and Cognition in cui ha osservato che pazienti con lesioni localizzate nell’emisfero destro avevano difficoltà a identificare le voci di personaggi famosi, ma anche volti – un risultato che ha dimostrato come il riconoscimento di voci e volti possa essere collegato a meccanismi cerebrali simili. Studi successivi su pazienti sembrano confermare che lesioni situate nell’emisfero destro, in particolare nelle aree parietali e temporali, sono più spesso associate a deficit nella percezione delle voci, e quindi a una fonoagnosia che si definisce “acquisita”.

Fonoagnosia: gli studi raccolti

La prima osservazione della fonoagnosia congenita risale però al 2009, motivo per il quale questo disturbo rimane molto meno conosciuto e studiato rispetto alla prosopagnosia. Attorno al 2009 una donna di 60 anni (KH) senza alcun problema di natura neurologica si è rivolta ai ricercatori dell’University College of London spontaneamente, accusando difficoltà nel riconoscere le voci dei suoi cari e di attori famosi. A suo dire, l’unica voce che riusciva a riconoscere era quella di Sean Connery, probabilmente a causa del forte accento scozzese. Lucìa Garrido e colleghi, che hanno firmato un articolo del giornale Neuropsychologia hanno quindi sviluppato una batteria di test per mettere alla prova le sue capacità di riconoscere differenti tipi di suoni (musica, voci, versi di animali), stimoli visivi (e.g. volti, nomi), oltre che le abilità linguistiche di KH, per escludere un deficit percettivo generale o linguistico. Attraverso questo esperimento, gli autori hanno potuto concludere che il deficit di KH era specifico per le voci, dimostrando così che nella popolazione generale vi possono essere individui affetti da fonoagnosia.

Un successivo studio pubblicato nella rivista Current Biology da Roswandowitz e colleghi ha quindi approfondito l’aspetto della prevalenza della fonoagnaosia nella popolazione generale, servendosi delle nuove tecnologie. I ricercatori hanno infatti sviluppato un test online di riconoscimento di voci, così da raccogliere un gran numero di dati; attraverso un’ulteriore sessione in laboratorio nella quale i soggetti venivano sottoposti a diversi tipi di test, per escludere deficit di differente natura, due persone sono state considerate affette da fonoagnosia. Secondo questo studio, la prevalenza di questo disturbo, almeno nella popolazione tedesca, sembra quindi essere dello 0.2 %.

Un risultato simile è stato raggiunto da un altro studio di Aglieri e colleghi, pubblicato sulla rivista Behavioral Research Methods, i quali hanno ideato un test online di cinque minuti che richiede di imparare 8 voci e successivamente di riconoscerle fra altre mai ascoltate; la stessa procedura veniva ripetuta per dei suoni di campanelle, in modo che si potesse ottenere un punteggio differenziale che stimi le due diverse abilità. Attraverso questo breve test sono riusciti a raccogliere i risultati di circa 1000 individui e ad arrivare a una stima della fonoagnosia congenita di 0.3 % nella popolazione generale. Più recentemente Shilowich e colleghi hanno stimato un’incidenza più alta della fonoagnosia (3.2%) raccogliendo numerosi dati nella popolazione generale statunitense utilizzando questa volta un test di riconoscimento di voci di personaggi famosi (i precedenti test citati richiedevano invece di imparare delle voci non familiari durante l’esperimento).

Fonoagnosia: tipologie e conseguenze per chi ne soffre

Dai risultati di questi pochi ma importanti studi si può trarre una conclusione generale, ovvero che molti individui potrebbero essere inconsapevoli di avere un deficit di riconoscimento delle voci siccome le situazioni che richiedono di riconoscere una persona a partire dalla sua voce sono al giorno d’oggi piuttosto limitate (si pensi per esempio che ormai usiamo prevalentemente telefoni che ci mostrano il nome del nostro interlocutore). Inoltre, non vi è ancora un accordo su quale sia il tipo di test più adatto (riconoscimento di voci familiari o non familiari) per trovare soggetti fonoagnosici. E’ possibile inoltre che vi siano due tipi di fonoagnosia, una specifica per il riconoscimento di voci familiari (associativa) e l’altra per la discriminazione di voci non familiari (appercettiva).

Sebbene la fonoagnosia sia un deficit molto meno invalidante della prosopagnosia e quindi non sia particolarmente interessante dal punto di vista clinico, il suo studio risulta importante da un punto di vista neurocognitivo. Una maggior comprensione della fonoagnosia potrebbe infatti aiutare a caratterizzare i meccanismi coinvolti nel riconoscimento della persona: per esempio, la fonoagnosia potrebbe essere causata da un malfunzionamento di aree uditive specifiche per la percezione della voce, oppure di aree multimodali che processano l’identità della persona, indifferentemente dalla modalità percettiva. Come è stato precedentemente osservato per la prosopagnosia da Avidan e colleghi, la fonoagnosia potrebbe essere meglio compresa studiando la connettività strutturale e funzionale fra aree percettive e aree “superiori”, implicate in processi mnemonici per il recupero di informazioni relative alla persona.

Ad oggi, il maggior scoglio per lo studio della fonoagnosia rimane però la difficoltà di trovare soggetti affetti da questo deficit nella popolazione generale; per questo, sembra particolarmente importante farla conoscere al grande pubblico, cosicché da un lato i professionisti della salute (medici, psicologici, logopedisti) potrebbero eventualmente segnalare il deficit ad alcuni ricercatori; dall’altro, i potenziali fonoagnosici potrebbero trovare una spiegazione alla loro impressione di non riconoscere e distinguere le voci, che può causare problemi dal punto di vista sociale e lavorativo.

 

Disturbo bipolare e comportamenti suicidari: il contributo della Psicologia Positiva

L’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica il disturbo bipolare come il 12° più disabilitante della salute mondiale. Infatti, i soggetti con disturbo bipolare (soprattutto le donne), presentano un peggioramento della loro qualità della vita (De la Cruz, Goodrich, Lai, & Kilbourne, 2013).

 

Questo quadro psicopatologico rappresenta una delle condizioni di salute più costose (infatti i costi nel 2009 si aggiravano intorno 151 miliardi di dollari, che comprendevano l’impatto dei costi indiretti di morbilità e mortalità precoce) (Dilsaver, 2011).

Il rischio di mortalità per suicidio è elevato; i tentativi di suicidio si aggirerebbero intorno al 25-50% e il rischio per le persone affette da disturbo bipolare è 15 volte maggiore in questo caso rispetto ad altri disturbi (De la Cruz, Goodrich, Lai, & Kilbourne, 2013), circa l’11-19 % si toglie la vita (Abreu, Baca-Garcia, Lafer, & al., 2009; Goodwin & Jamison, 2007; Etain, Parmentier, Yon, & al., 2012).

Il rischio potrebbe essere maggiore soprattutto all’inizio del disturbo e quando esistono delle comoribilità associate (De la Cruz, Goodrich, Lai, & Kilbourne, 2013). I fattori di rischio per suicidio includono una predominante presenza di depressione, abuso di alcol e sostanze o disturbi da dipendenza, essere giovani e maschi, recente inizio della malattia, ansia significativa, impulsività, storia familiare di suicidio, isolamento sociale ed eventi di vita stressanti (De la Cruz, Goodrich, Lai, & Kilbourne, 2013).

Alcuni studi hanno dimostrato che il litio riduce a lungo termine il rischio di suicidio (Angst, Angst, Gerber-Werder, & Gamma, 2005), proprio per questa ragione sembrerebbe opportuno incrementare la compliance farmacologica ed in questo caso anche la componente psicoeducativa potrebbe giocare un ruolo determinante (Halgin e Whitbourne, 2000; Damour e Hansell, 2007).

Disturbo bipolare: i tentativi di suicidio e gli interventi della psicologia positiva

Le cause del suicidio nel disturbo bipolare sono dovute a differenti ragioni, che principalmente riguardano sia la presenza di distress sia l’assenza di benessere; facendo riferimento a questi due fattori si può intervenire su due linee (Johnson & Wood, 2016).

In primo luogo, il suicidio risulta essere dovuto ad una completa assenza di benessere, quindi risulterebbe importante raccogliere informazioni o segnali circa le intenzioni suicidarie del soggetto, aspetti che sono difficili da individuare (Johnson & Wood, 2016).

In secondo luogo, applicando i concetti di psicologia positiva si ha un modo differente per comprendere il suicidio e si hanno a disposizione delle strategie per intervenire (Johnson & Wood, 2016).

Secondo gli approcci tradizionali, i soggetti potrebbero tentare il suicidio in seguito ad eventi indesiderati e l’obiettivo della terapia è quello di minimizzare, ridurre o eliminare l’impatto di queste esperienze (Johnson & Wood, 2016).

Oltre agli eventi indesiderati, secondo diversi studi la presenza di eccessivi propositi nella vita è uno dei fattori che potrebbe incrementare il rischio che il soggetto metta in atto dei tentativi di suicidio (Heisell & Flett, 2004).

Quando i soggetti non riescono a conseguire gli obiettivi irrealistici, il quadro patologico potrebbe peggiorare, infatti i soggetti possono mettere in atto dei tentativi di suicidio, perché a causa della loro inflessibilità cognitiva (Ruini, 2017), credono che il benessere possa essere raggiunto o possa dipendere dal conseguimento dell’obiettivo (Boddana, MacLeod, & Vincent, 2004).

La conseguente disperazione, provocata dal mancato raggiungimento dell’obiettivo, può indurre ai soggetti a mettere in atto dei tentativi di suicidio, in quanto ritengono che togliersi la vita sia l’unico modo per evadere dalla situazione spiacevole in cui si trovano (Boddana, MacLeod, & Vincent, 2004).

Quindi, una delle possibili cause che spinge i soggetti al suicidio ed ai comportamenti parasuicidari riguarda la presenza di obiettivi irrealizzabili (Hamilton, 2016; Boddana, MacLeod, & Vincent, 2004).

Tra gli interventi di psicologia positiva, volti a ridurre il rischio di suicidio che possono essere applicati nei pazienti con disturbo bipolare, si può individuare: il Goal-setting and Planning, che si concentra sulla riduzione del rischio di suicidio attraverso il miglioramento della selezione e pianificazione degli obiettivi (Coote & MacLeod, 2012).

Questa strategia a differenza dei GOALS (Fulford & Johnson, 2009), può essere applicata per prevenire e ridurre il rischio di suicidio (Coote & MacLeod, 2012).

Disturbo bipolare: Goal-setting and Planning per prevenire il suicidio

Facendo riferimento al modello del benessere psicologico della Ryff (1996) avere degli obiettivi e un senso di direzione verso di essi fa parte delle componenti che costituiscono il benessere psicologico.

Infatti, livelli adeguati di benessere motivano gli individui a raggiungere degli obiettivi (Johnson & Wood, 2016), tuttavia, un eccesso di obiettivi in caso di malattia mentale produce l’effetto opposto (Johnson, 2005b).

Per ridurre le condizioni che sono state precedentemente descritte, i soggetti hanno bisogno di sostituire gli obiettivi irraggiungibili con obiettivi più realistici (Corrigan, 2014); riducendo così il possibile rischio di suicidio e di comportamenti parasuicidari (Hamilton, 2016; Boddana, MacLeod, & Vincent, 2004).

Oltre la selezione di obiettivi più raggiungibili, anche la pianificazione per raggiungerli è un elemento su cui si può intervenire (Coote & MacLeod, 2012).

Un intervento che può far migliorare gli aspetti sopracitati, ed anche l’autocontrollo, è il Goal-setting and Planning (GAP) (Coote & MacLeod, 2012), elaborato da MacLeod, Coates e Hetherton (2008).

Quest’intervento è stato applicato a dei pazienti depressi, per ridurre le emozioni negative ed aumentare quelle positive e per migliorare la soddisfazione della loro vita (Coote & MacLeod, 2012).

Tuttavia, questo intervento non si concentra sui problemi o sui sintomi associati alla depressione, piuttosto enfatizza l’identificazione e lo spostamento verso obiettivi di vita più realistici (Coote & MacLeod, 2012); proprio per questa ragione viene anche applicato a soggetti che hanno tentato il suicidio e presentano alterazioni a livello della pianificazione per raggiungere gli obiettivi (Johnson & Wood, 2016).

Lo scopo del GAP è lo sviluppo di obiettivi positivi per migliorare il benessere (Coote & MacLeod, 2012), producendo la soluzione dei problemi e non focalizzarsi direttamente sulla riduzione di sintomi depressivi o sul distress (Ruini, 2017).

La GAP complessivamente dura circa cinque settimane ed è composta da tre parti (Coote & MacLeod, 2012).

L’individuo utilizza un manuale per lavorare da solo, infatti all’interno del manuale sono inclusi i fogli di lavoro (Coote & MacLeod, 2012).

Nella prima parte, che dura approssimativamente due settimane, si introducono i concetti di benessere, obiettivi e piani (Coote & MacLeod, 2012).

Si guida il lettore, in questa fase iniziale, a pensare ad obiettivi specifici e alla pianificazione per poterli raggiungere, attraverso l’utilizzo di fogli di lavoro che vengono forniti dal manuale (Coote & MacLeod, 2012).

Infine, si rivedono i progressi fatti e gli obiettivi raggiunti dal paziente, attraverso il contatto telefonico (Coote & MacLeod, 2012).

La seconda parte, la cui durata è di circa due settimane, si indagano gli eventuali ostacoli che si frappongono tra l’individuo e l’obiettivo e si pianifica il lavoro per la prossima fase (Coote & MacLeod, 2012).

Infine, l’ultima parte, spiega ai pazienti come mantenere i progressi ottenuti attraverso l’utilizzo delle tecniche GAP, continuando ad applicare quanto appreso (Coote & MacLeod, 2012).

 

Emozioni e diffidenza: come gli stati emotivi influenzano la nostra fiducia negli altri

Una ricerca dell’università di Zurigo e dell’Università di Amsterdam evidenzia che le emozioni spiacevoli possono ridurre l’abilità di fiducia verso gli altri, anche se queste emozioni sono state innescate da eventi estranei alla decisione di fidarsi.

 

Non è un segreto che i sentimenti provati verso una specifica persona possono influenzare l’interazione e i livelli di fiducia.

Emozioni: come influenzano le nostre interazioni sociali

Per esempio, se un amico critica il nostro nuovo taglio di capelli e subito dopo ci chiede in prestito la macchina, è meno probabile che gli si dirà di si. Ma cosa succede se le emozioni spiacevoli sono scatenate da eventi che non hanno nulla a che vedere con quella persona? Cosa succede, per esempio, se è il capo a criticarci e a urlarci contro subito prima che l’amico ci chieda in prestito la macchina? Nel campo della psicologia, queste emozioni sono chiamante “accidentali”, proprio perché innescate da eventi non relazionati alle nostre interazioni sociali attualmente in corso. E’ stato dimostrato che le emozioni accidentali si presentano quotidianamente nelle interazioni con gli altri, anche se non ne siamo pienamente consapevoli. A tal proposito, il presente studio si è posto come obiettivo quello di indagare se le emozioni negative accidentali possono, in qualche modo, influenzare i comportamenti di fiducia e quali potrebbero essere i network cerebrali associati alle interazioni sociali.

Emozioni spiacevoli e fiducia negli altri: lo studio

Per creare uno stato prolungato di emozioni spiacevoli, il team di ricerca ha usato un metodo ben strutturato noto come metodo di minaccia-shock, nel quale i partecipanti sono minacciati attraverso una sgradevole scossa elettrica, in quanto è stato dimostrato che, l’attuazione di tale minaccia, provoca negli individui un’ansia anticipatoria. Nel frattempo, I soggetti hanno partecipato a un gioco di fiducia, consistente nel dover prendere decisioni circa la quantità di denaro da investire in un estraneo (l’estraneo aveva l’opportunità di ripagare in gesti o, in alternativa, di tenere tutto il denaro per sé).

Nell’esperimento, I partecipanti si sono mostrati meno fiduciosi nel momento in cui sperimentavano più ansia riguardo l’essere sottoposti a scosse elettriche, nonostante la minaccia fosse indipendente dalla decisione di fidarsi dell’estraneo. Durante lo studio, le risposte cerebrali dei partecipanti sono state registrate attraverso l’fMRI. Le immagini della risonanza magnetica hanno rilevato che la regione cerebrale più implicata nella comprensione delle credenze altrui, la giunzione temporoparietale (TPJ), era significatamente soppressa quando i partecipanti si sentivano minacciati, ma non quando si percepivano al sicuro. Inoltre, la connettività tra la TPJ e l’amigdala era soppressa in maniera significativa dalle emozioni difficoltose. In ogni caso, sotto condizioni sicure, la forza della connettività tra TPJ e altre importanti regioni cerebrali, come il solco temporale superiore e posteriore e la corteccia prefrontale dorsomediale, hanno predetto quanta fiducia i partecipanti riponessero negli altri.

Nell’esperimento, l’associazione tra l’attività cerebrale e comportamentale è stata neutralizzata nel momento in cui i soggetti hanno sperimentato ansia. I risultati mostrano che le emozioni spiacevoli impattano, in maniera significativa, sulle nostre interazioni sociali, specialmente sulla fiducia verso gli altri. Inoltre, lo studio rivela gli effetti sottostanti delle emozioni negative sui circuiti cerebrali: esse sopprimono i meccanismi neurali implicati nelle cognizioni sociali, i quali risultano importanti per capire e predire il comportamento altrui. In conclusione, le emozioni “negative” possono avere conseguenze sostanziali nel modo in cui ci approcciamo a livello sociale e interpersonale. Esse potrebbero addirittura distorcere il nostro modo di prendere importanti decisioni sociali, come per esempio il voto politico.

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