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La psicoterapia cognitiva non è figlia del capitalismo

Noi psicoterapeuti agiamo guidati dalla responsabilità verso un referente terzo: dobbiamo e vogliamo rendere conto della nostra prassi.

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 23 Gen. 2019

Entra nella mia stanza di psicoterapeuta un avvocato di quarant’anni, disperato. Intelligente, capace, ma non riesce più a lavorare. Soffre di attacchi di panico: si è fermato sulla tangenziale e da allora non guida, ha paura di svenire e perdere il controllo.

Articolo pubblicato sulla rubrica Lettura de Il Corriere della Sera

 

Per andare in ufficio prende il taxi, ai colleghi ha mentito: “Sono stanco di guidare”, è esausto. Un terapeuta cognitivista non fatica a curare il panico. Dopo due mesi riprende la macchina. Ma aveva un problema più complesso, quello che il manuale diagnostico, il DSM 5, chiama Disturbo Evitante di Personalità: è schiacciato da timore del giudizio, vergogna, l’idea di parlare in pubblico lo fa sudare. In terapia, nel corso di un anno, risolveremo anche quel problema. Torna a fare il suo lavoro, sereno, e la sua giornata si colora della dimenticata passione per fantascienza e fantasy. Discutiamo sul rapporto tra Darth Vader e Luke Skywalker, sul passato di Voldemort. Giochiamo. Ha riconquistato libertà dalla sofferenza e capacità di scelta. Sono contento.

Ma se ascoltassi Umberto Galimberti mi vedrei con altri occhi. La sua posizione nei confronti della psicoterapia, cognitiva in particolare, è spietata. Scopro di essere un disciplinato figlio del capitalismo, asservito alla techne, la tecnica. Finalmente mi rendo conto che non curo i pazienti, ma li normalizzo, ne offusco il vero io, li rendo automi, incapaci di voltarsi a Delfi, apatici ingranaggi della società produttiva. Tanti Charlot alla catena di montaggio in Tempi Moderni, mucche al pascolo.

Galimberti è parco di punti interrogativi quando parla di psicopatologia e psicoterapia. Un esempio: viviamo in una società senza morale e la sofferenza depressiva non è più legata alla colpa. Punto. Telefono d’urgenza al mio collega Francesco Mancini che credeva di essere un esperto riconosciuto internazionalmente di Disturbo Ossessivo Compulsivo (diagnosticato secondo il DSM 5 che naturalmente Galimberti disprezza): “Francesco, perdonami, non hai capito niente”. Gli spiego amorevolmente che i suoi studi di psicopatologia sperimentale non hanno senso. Ha dimostrato come alla radice di sintomi quali: lavarsi ripetutamente le mani, controllare incessantemente di aver chiuso il gas, rimuginare all’infinito sull’avere causato un danno ai figli ci sia il senso di colpa. Di tipo deontologico: la colpa morale. Ho trasgredito alla norma e questo mi rende sporco, immondo, mi deprimo. Mi lavo le mani, controllo, mi pulisco, alla lettera, corpo e coscienza. Mancini fa risalire l’ipotesi che le ossessioni siano generate dalla colpa all’arcivescovo Taylor, nel 1650. I suoi esperimenti mostrerebbero che l’idea tiene. Lo psicoanalista Francesco Gazzillo dà la stessa rilevanza alla colpa.

Come faccio a convincerli che hanno dedicato la loro professione a un’illusione? Che i nostri pazienti non provano più colpa? Che oggi la sofferenza nasce dal senso di inadeguatezza: “Ce la faccio, non ce la faccio?”. Vorrei avere certezze, purtroppo la vocazione empirica mi porta a seminare punti interrogativi un po’ ovunque. Posso ipotizzare che le persone siano depresse per colpa, per vergogna all’idea di fallire, per timore di restare sole e abbandonate. Poi studio gli esperimenti, ascolto i pazienti, scopro che tutti e tre i percorsi sono possibili e devo adattare la mia azione al caso specifico. E a quel punto la depressione passa. Ma cosa dico ai miei colleghi cognitivisti che pensano che curare la psicopatologia significhi ridare respiro, quiete, tempo di vita ai pazienti? Sarò in grado di fargli capire che stanno partorendo cyborg pre-programmati?

Un momento. Mi viene il sospetto che Galimberti non abbia molto chiaro cosa siano le terapie cognitive. Per dire, nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia sostiene che si basino sul modello ABC dove A sarebbe l’ambiente, B (behaviour) il comportamento, C le conseguenze. Descrivesse così l’ABC cognitivista lo studente di una scuola di psicoterapia cognitiva sarebbe bocciato. In termini cognitivi A è l’antecedente, B (belief) l’interpretazione dell’evento, C le conseguenze in termini di emozioni e comportamenti: un collega mi critica, penso che abbia ragione e non valgo niente, mi vergogno e mi isolo. Ma tant’è, perché essere precisi nel descrivere la tecnica di noi vassalli del conformismo?

Il filosofo brillante solleva dubbi – magari non ne ha, ma li solleva – e nella mia mente se ne affastellano molti. Che lavoro fanno i miei colleghi che curano il disturbo post-traumatico da stress? Pazienti che sono stati vittime di violenza, abuso, hanno assistito a scene disumane che riaffiorano nella veglia, nei sogni. Non si calmano mai. Ripenso a chi lavora nei centri di accoglienza: lì storie di tortura e stupro sono la regola. Il mio collega Antonio Onofri mi racconta come da cognitivista utilizzi tecniche corporee e immaginative per ridurre il senso di allerta, far rivivere i germogli del senso di sicurezza. L’ingenuità non gli appartiene: non vuole convincerli che il mondo è un posto sicuro. Non lo è. Vuole ricreare un senso di sicurezza soggettivo. E nel farlo adotta tecniche di efficacia empiricamente supportata. Un modo di ragionare che molti psicoanalisti condividono.

Agiamo, noi psicoterapeuti, guidati dalla responsabilità verso un referente terzo: dobbiamo e vogliamo rendere conto della nostra prassi. Possiamo promettere salute? In che misura e a quali condizioni? Siamo testimoni di una scienza imperfetta, incapaci di rispondere a molte domande e di prevedere tutte le conseguenze delle nostre pratiche. Ma, pur in uno stato di costante imprecisione, ci proviamo. Il rischio di fallire ogni giorno è elettricità tonificante per chi fa scienza. Giochiamo oneste partite a carte che una mano sfortunata ci può far perdere, insistiamo perché l’esercizio costante affina il talento.

Gli attacchi del filosofo alla psicoterapia scientifica sono disinteressati? Forse no. Quando propone come alternativa il counseling filosofico – mi affretto a dire: non è gratuito – che ci siano sotto motivi economici? Logica vuole che sì, ma è una pratica senza supporto empirico. Non ho niente in contrario al rivolgersi a un filosofo per parlare di cose della vita, per carità. Come non mi dà pena che ci si indirizzi a preti, astrologi, guru. Ognuno cerca il senso dove vuole. Io nella psicoterapia fondata empiricamente e questo offro ai pazienti.

Poi a fine giornata, a luci spente penso che: i filosofi curano l’anima meglio degli psicoterapeuti; Gandalf è il padre di Harry Potter; dietro la maschera di Darth Vader c’è Batman. Non temo smentite.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Galimberti, U. (2018). Nuovo dizionario di psicologia. Psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze. Feltrinelli
  • Francesco Mancini (a cura di) (2016). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. 2016 Cortina
  • DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. 2014. Cortina
  • La Rosa, C. Onofri, A. (a cura di) (2017). Dal basso in alto (e ritorno…). Nuovi approcci bottom up: psicoterapia cognitiva, corpo, EMDR. Edizioni Apertamenteweb: Roma 2017
 
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