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Infedeltà emotiva o sessuale: quale delle due fa soffrire di più? Uomini e donne la pensano diversamente

Una ricerca norvegese dimostra che gli uomini e le donne la pensano diversamente e reagiscono in modo differente all’infedeltà.

Se il partner fa sesso con qualcun’altro si considera tradimento anche se non vi e’ alcun coinvolgimento affettivo? Oppure si tratta di tradimento se vi è una vicinanza relazionale e affettiva con l’altro anche in assenza di rapporti sessuali?

Una ricerca norvegese dimostra che gli uomini e le donne la pensano diversamente e reagiscono in modo differente all’infedeltà. Secondo la letteratura vi sarebbero due principali tipi di infedeltà:

  • avere rapporti sessuali con una persona altra rispetto al/alla partner della propria relazione stabile (infedeltà sessuale);
  • sviluppare un coinvolgimento affettivo e sentimentale – indipendentemente dalla presenza di rapporti sessuali- con una persona altra rispetto al partner della propria relazione stabile (infedeltà emotiva).

Nello studio pubblicato su Personality and Individual Differences ai soggetti è stato chiesto di rispondere a una serie di questionari sulla gelosia in relazione a scenari di infedeltà emotiva e/o sessuale che comprendevano sia misure continue (scale likert) sia aspetti qualitativi. L’obiettivo era proprio indagare quale tipologia di infedeltà fosse considerata più sconvolgente e dolorosa per l’individuo.

Mentre gli uomini sarebbero più gelosi di fronte a situazioni di infedeltà sessuale, è invece l’infedeltà emotiva a rendere l’esperienza del tradimento più dolorosa per le donne, in maniera statisticamente significativa rispetto agli uomini. Dunque vi sono marcate differenze di genere nella reazione all’infedeltà del proprio partner partner.

Gli autori fanno riferimento alla psicologia evoluzionista per spiegare il risultato: uomini e donne per migliaia di generazioni hanno dovuto far fronte a molteplici sfide riguardanti la riproduzione della propria specie, tra cui appunto l’infedeltà. Per il maschio diventa importante decidere se egli è realmente il padre del futuro nascituro allo scopo di investire risorse per la protezione del figlio: chiaramente per come funziona il concepimento umano la fiducia nella partner diventa centrale. Quindi la funzione della gelosia di fronte alla infedeltà sessuale si baserebbe sulla credenza di un maggior controllo della partner allo scopo di diminuire la probabilità del tradimento.

Per la donna se non si pone il problema della certezza dell’essere la vera madre del figlio, diviene invece fondamentale assicurare il più possibile risorse e sicurezza per lo sviluppo e la crescita della prole anche attraverso il coinvolgimento del padre in tale progetto evolutivo. Quindi la più grande minaccia per la donna sarebbe costituita dal fatto che l’uomo spenda tempo, risorse, attenzione ed energie con altre partners: da qui una maggiore sensibilità all’infedeltà emotiva del partner.

Il VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia (Assisi 2015): una palestra per il confronto scientifico

Si è svolto ad Assisi il VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia, organizzato dalle scuole di psicoterapia “Studi Cognitivi” e APC/SPC (Associazione di Psicologia Cognitiva e Scuola di Psicoterapia Cognitiva).

I giorni del congresso, dal 16 al 18 ottobre 2015, sono trascorsi rapidi e pieni d’interesse e passione. Il forum è riservato ai giovani allievi delle due scuole, senza intromissioni di ricercatori e clinici già formati e più anziani. È una palestra per incoraggiare i futuri terapisti a presentare pubblicamente le loro idee e abituarsi al confronto scientifico. Uno dei rischi di questa professione infatti è la sclerosi nella solitudine della propria attività, nel chiuso del proprio studio in compagnia della processione dei pazienti. Il forum intende inoculare precocemente la passione dello scambio d’informazioni e della formazione continua.

Le presentazioni del forum hanno rispecchiato i recenti sviluppi della terapia cognitivo-comportamentale.

Si privilegia lo studio dei processi a scapito di quello sulle credenze. Rimuginio, ruminazione, evitamento mentale ed esperienziale, mindfulness, training attenzionale e altri simili argomenti hanno avuto assoluta preminenza nelle presentazioni. Ricerche importanti con ricadute sulla clinica significative, poiché implicano interventi di processo sulla gestione dell’attenzione e sul controllo dello stile di pensiero. Il focus terapeutico si sposta dalla discussione verbale all’addestramento dello stato mentale.

Accanto a questo vi era il filone delle ricerche sul trauma e sul trattamento senso-motorio. Anche in questo caso l’implicazione clinica porta a dare più centralità a interventi di gestione degli stati mentali. Si tratta d’interventi non metacognitivi ma corporei, in cui ciò che conta non è l’apprendimento consapevole e top-down di un modo diverso di gestire l’attività mentale, ma un’esperienza corporea che modifichi i processi distorti in direzione bottom-up.

Non che siano mancate le ricerche più classiche. Alcuni allievi di Studi Cognitivi hanno riproposto lo storico interesse della loro scuola per il ruolo del controllo e della storia di vita nella psicopatologia. Entrambi questi due concetti cognitivi stanno subendo una rielaborazione in senso processuale, soprattutto il tema del controllo, variabile che peraltro non essendo una self-belief ma un descrittore di una modalità di gestione sia della realtà che dei propri stati mentali era già almeno per metà (quella attinente al controllo degli stati mentali) una variabile di processo. La storia di vita in Studi Cognitivi è sempre stata motivo di riflessione clinica e di valorizzazione costruttivista, pur al tempo stesso marcando il confine con altri modelli che ne accentuano troppo il significato catartico, come la schema therapy di Young.

Anche molti allievi dell’APC/SPC hanno sviluppato lo storico interesse della loro scuola per l’esplorazione della colpa nel disturbo ossessivo-compulsivo, con nuovi disegni di ricerca sperimentali che hanno portato a ulteriori conferme di quello che è il principale risultato di ricerca dell’APC/SPC, ovvero la distinzione tra senso di colpa deontologico e altruistico, il primo preoccupato per la possibile violazione delle regole e il secondo intimorito dal rischio di fare del male agli altri. Nel senso di colpa deontologico si annida anche il rischio dell’ossessività.

Assisi FORUM Formazione in Psicoterapia
Assisi 2015

 

Quali sono i campi ancora inesplorati?

Forse deve aumentare il numero di ricerche sulla tecnica di intervento e sulle applicazioni dei protocolli. Con un’unica eccezione: la mindfulnes, la cui applicazione è molto studiata. La mindfulness è però più di un semplice intervento, costituendo quasi un paradigma. Ma sono mancate ricerche su interventi più specifici, come la disputa o il training attenzionale. Forse tecniche e protocolli sono ancora troppo considerati conseguenze meccaniche e automatiche della teoria. Naturalmente è comprensibile che i giovani siano affascinati dagli aspetti teorici e filosofici, ma è anche auspicabile che si diffonda una visione più concreta e professionale e meno artistica della psicoterapia.

 

La lezione magistrale

L’unico momento non riservato ai giovani è stata la presentazione di Hans Nordhal dell’università di Trondheim in Norvegia, che ha illustrato l’applicazione del modello metacognitivo di Adrian Wells al disturbo borderline di personalità. Applicazione che richiede un aggiustamento della pratica clinica del modello, con maggiore attenzione all’alleanza psicoterapeutica e alla costruzione di una rete protettiva sociale intorno al paziente. C’è da dire che però il nocciolo del modello rimane del tutto invariato e che Nordhal non propone un’alternativa teorica a Wells. I suoi sono aggiustamenti di buon senso e di good-practice.

Accanto alle presentazioni scientifiche ci sono stati gli eventi sociali, sempre gradevoli e coinvolgenti: la cena di gala e il ballo fino al cuore della notte. Finito di ballare molti si sono riversati per le stradine e le scalinate di Assisi. La città a misura d’uomo consentiva a tutti di incontrarsi più volte nei vari bar, sempre a portata di passeggiata in un informale after-hours conviviale e ambulante.

 

Lo sguardo che ostacola l’espressione: autismo e legame alterato tra contatto visivo e imitazione dell’espressione

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Non basta osservare quali capacità sono alterate nei soggetti autistici, serve anche comprendere come ciascuna funzione interagisce con le altre.

L’attenzione condivisa, infatti, nei soggetti normali aiuterebbe la mimesi facciale (si tratta di due capacità base per l’interazione sociale umana), mentre negli autistici avverrebbe il contrario. Lo suggerisce un nuovo studio pubblicato su Autism Research.

L’empatia (la capacita di immedesimarsi e comprendere le emozioni degli altri) ha molte componenti, alcune sofisticate che coinvolgono processi di pensiero complessi, altre tanto basilari quanto essenziali. Fra queste ultime ci sono l’attenzione condivisa – la capacità che due, o più, individui hanno di porre attenzione allo stesso oggetto, e che viene avviata dal contatto visivo tra due persone – e la mimesi facciale – la tendenza a riprodurre sul proprio viso le espressioni emotive degli altri. Le persone affette da autismo hanno difficoltà con entrambe, ma secondo una nuova ricerca pubblicata su Autism Research, il segreto starebbe nell’interazione fra queste due funzioni.

L’empatia è una caratteristica umana fondamentale nelle relazioni sociali – spiega Sebastian Korb, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, fra gli autori della ricerca. – Secondo le teorie dell’embodied cognition (cognizione incorporata) per meglio capire l’espressione che vediamo sul viso di chi ci sta davanti riproduciamo la stessa espressione sul nostro viso.

Questo non significa che per forza quando vediamo qualcuno sorridere dobbiamo sorridere a nostra volta, anche se a volte succede davvero. Più spesso però i muscoli facciali coinvolti nel sorriso si attivano, ma in maniera talmente lieve che il movimento non è visibile a occhio nudo.

La nota difficoltà delle persone autistiche nell’interpretare le emozioni degli altri potrebbe avere le sue radici proprio in una ridotta mimesi facciale, poiché molti studi hanno dimostrato che in questi soggetti questa funzione è deficitaria. Altri studi hanno mostrato che anche l’attenzione condivisa è intaccata negli autistici. Anche questa funzione ha un’enorme rilevanza nell’interazione sociale. Ciò nonostante, i deficit di mimesi facciale e di attenzione condivisa nell’autismo rimangono dibattuti e poco conosciuti. Per questo:

Noi crediamo che si debba porre molta attenzione all’interazione fra queste due capacità – spiega Korb – Nei nostri esperimenti infatti abbiamo osservato che nelle persone con tratti autistici più marcati, l’attenzione condivisa ‘disturbava’ la mimesi facciale, mentre nei soggetti normali la agevolava.

Una questione di interazione

Va sottolineato che i 62 soggetti che hanno partecipato all’esperimento non erano persone con una diagnosi di autismo. Invece, i ricercatori hanno utilizzato un questionario per misurare la tendenza all’autismo in persone normali. Infatti, è stato dimostrato che in ogni individuo si possono trovare tratti più o meno autistici, che però nella più parte dei casi sono lievi e quindi non portano a una diagnosi.

Durante gli esperimenti i soggetti interagivano con un avatar, una faccia tridimensionale interattiva (nel senso che adattava il suo comportamento a quello del soggetto). All’inizio di ogni prova l’avatar rimaneva a occhi bassi, ma non appena lo sguardo del soggetto (monitorato con un sistema di eye-tracking) andava verso la zona degli occhi dell’avatar il suo sguardo si alzava e poteva incontrare lo sguardo del soggetto (condizione con attenzione condivisa) o muovere gli occhi verso l’alto (condizione senza attenzione condivisa). Successivamente, lo sguardo dell’avatar si muoveva di lato verso un oggetto (scelto fra due visibili), mentre il sistema di monitoraggio registrava se lo sguardo del soggetto seguiva quello dell’avatar. A quel punto l’avatar poteva sorridere o assumere un’espressione di disgusto. Durante la prova, la mimesi facciale del soggetto veniva misurata con l’elettromiografia facciale (un metodo per registrare l’attivazione dei muscoli).

Quello che abbiamo osservato è che nelle condizioni con attenzione congiunta e dove l’avatar sorrideva, nei soggetti con tratti autistici più marcati i muscoli del sorriso si attivavano poco, mentre in quelli poco o per niente autistici la risposta espressiva era molto più amplificata – spiega Korb – Gli individui senza autismo tendono ad avere una risposta empatica (e una mimesi facciale) più forte con le persone con hanno avuto contatto visivo e stabilito un’attenzione condivisa. Ma se ci sono tendenze autistiche il contatto visivo al contrario può distrubare e diminuire la mimesi facciale.

Conclude Korb:

Per comprendere sia i meccanismi base di una buona interazione sociale, che i processi alterati alla base dell’autismo, è dunque importante non solo osservare quali funzioni sono danneggiate, ma anche come queste lavorino in concerto

La ricerca è stata svolta in collaborazione con l’Università di Reading, Regno Unito, (è stata coordinata dal Bhismadev Chakrabarti) e altri istituti di ricerca europei.

ALLEGATO 1

 

IMMAGINI: Avatar simili a quelli usati negli esperimenti. Crediti: Sebastian Korb

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Maggiori informazioni sulla SISSA

 

The gaze that hinders expression: autism and altered connections between eye contact and facial mimicry

It is not enough to observe what abilities are altered in autistic subjects, we also need to understand how each function interacts with the others. In fact, whereas in normal subjects joint attention appears to facilitate facial mimicry (both are skills relevant for human social interaction), the opposite holds true for autistic subjects. That is what a new study, just published in Autism Research, suggests.

Empathy – the ability to identify and understand other people’s emotions – has many components, some sophisticated and involving complex thought processes, others basic but essential nonetheless. The latter include joint attention – which is activated by direct eye contact between two or more individuals, and allows them to focus their attention on the same object; and facial mimicry – the tendency to reproduce on one’s own face the expressions of emotion seen in others. Subjects suffering from autism have difficulty with both these abilities, but according to a new study just published in Autism Research, it is also important to study how these two functions interact.

Empathy is an essential human trait in social relations – explains Sebastian Korb, a researcher at the International School for Advanced Studies (SISSA) in Trieste and one of the study authors – According to embodied cognition theories, to better understand the facial expression of the person in front of us we reproduce the same expression on our face.

This does not necessarily mean that if we see someone smiling we smile as well, even though this does happen sometimes. More often, however, the facial muscles involved in smiling are indeed activated, but so subtly that the movement is invisible to the naked eye.

The known difficulty autistic people have in interpreting other people’s emotions could stem from reduced facial mimicry, since many studies have demonstrated that this function is defective in these subjects. Other studies have shown that joint attention is also impaired in autism, and this is another function that has huge relevance for social interaction. Nevertheless, the impairments in facial mimicry and joint attention in autism remain controversial and poorly understood. For this reason:

We believe the interaction between these two abilities deserves plenty of attention – explains Korb – In our experiments, we saw that in persons with more pronounced autistic traits, joint attention tended to ‘disturb’ facial mimicry, whereas in normal subjects it facilitated it.

A question of interaction

It should be noted that the 62 subjects who took part in the experiment were not individuals with a clinical diagnosis of autism. Instead, researchers used a questionnaire measuring the autistic tendencies of normal persons. In fact, it has been demonstrated that everyone has more or less autistic traits, although in most cases these tend to be mild and therefore do not lead to a diagnosis.

During the experiment, the subjects interacted with an avatar, a three­‐dimensional interactive face (in the sense that it responded to the subject’s gazing behaviour). At the beginning of each trial, the avatar looked down, but as soon as the subject’s gaze (monitored by means of an eye-­‐ tracking system) moved towards the avatar’s eye region, the avatar looked up and he could either make eye contact with the subject (condition of joint attention) or avert his gaze and look up (condition of no joint attention). Subsequently, the avatar shifted his gaze to focus on one of two objects to the side, while the eye-­‐tracker recorded whether or not the subject’s gaze followed that of the avatar. At that point, the avatar could either smile or make an expression of disgust.

During the trial, the subject’s facial mimicry was measured by facial electromyography (a method used for recording muscle activation).

What we observed is that in conditions of joint attention and where the avatar smiled, the subjects with more pronounced autistic traits tended to show less activation of the major smile muscle, whereas those with milder or no autistic traits showed a much more amplified expressive response – explains Korb – Individuals without autism tend to display a stronger empathic response (and facial mimicry) to persons with whom they have established eye contact and joint attention. However, if the subject has autistic tendencies then the eye contact can disturb and diminish facial mimicry.

Korb concludes:

In order to understand both the mechanisms underlying normal social interaction and the altered processes involved in autism, it is therefore important to observe not only which functions are impaired but also how these functions work together.

The study was carried out in collaboration with the University of Reading, United Kingdom (it was coordinated by Professor Bhismadev Chakrabarti) and other European research institutes.

Quale empatia? L’importanza di utilizzare l’empatia con flessibilità

Could a greater miracle take place than for us to look through each other’s eyes for an instant?

(H.D.Thoreau)

L’utilizzo dell’empatia è una questione di etica professionale, dal momento che contribuisce al principio basilare del rispetto dell’autonomia del paziente. Eppure va utilizzata in maniera flessibile, a seconda delle persone o delle situazioni in cui interagiamo.

In un recente articolo su una rivista di dermatologia, la dott.ssa S. Olbricht spiega l’importanza dell’empatia nel contesto medico. La definisce come il processo di esperire, comprendere, prendere consapevolezza ed essere sensibili alle emozioni, ai pensieri e ai vissuti di altre persone sia nel momento presente, che in ricordi passati, senza provare o aver provato in prima persona quelle emozioni, pensieri e vissuti, e senza che essi siano stati comunicati in maniera esplicita. Un’altra definizione, o più semplicemente un altro modo di concepire l’empatia, è vedendola come la curiosità per la prospettiva emotiva di un’altra persona. Non è la partecipazione, che consiste invece nel condividere le emozioni di un’altra persona influenzandosi reciprocamente, e non è la compassione, che è l’emozione che ci induce ad aiutare qualcuno.

Piuttosto, l’empatia è una forma di conoscenza, pur riflessiva e personale: utilizzando il paragone con le relazioni di cura (delle quali la diade medico-paziente è un esempio) è come se il medico fosse per un attimo al posto del paziente. Un medico empatico conserva sempre il senso di sé, così da poter essere determinato ed obbiettivo nel valutare le informazioni che gli vengono fornite. L’empatia è apertura verso sé stessi (chiedendosi ad esempio: Perché ho questa strana sensazione riguardo al modo in cui il paziente mi sta guardando?), e apertura verso l’altro (chiedendosi invece Perché il suo piede si sta muovendo nervosamente?). Non solo una forma di conoscenza, ma un’abilità che può essere praticata e in cui si può diventare esperti, l’empatia è fatta di osservazione, ascolto, introspezione e riflessione, ripetute ciclicamente fino al momento in cui si riesce a giungere ad una conclusione. E’ un processo cognitivo che riconosce la presenza di un conflitto di interessi in maniera rispettosa e non giudicante. E’ una manifestazione del fatto che il curante è pienamente presente alla situazione e alla persona, ma senza provare in prima persona le emozioni di preoccupazione e pietà.

L’autrice di questo articolo passa in rassegna alcune buone motivazioni per cui i medici dovrebbero aggiungere l’empatia alla loro cassetta degli attrezzi. Innanzitutto, anche se la fisiologia dell’empatia non è compresa appieno, è certo che abbia un effetto fisiologico nella relazione medico-paziente: la concordanza della conduttanza cutanea tra paziente e medico è risultata positivamente correlata con la percezione del paziente dell’empatia del medico (Marci et al., 2007). Inoltre, alcuni studi hanno verificato che l’empatia del medico, misurata come l’abilità di comprendere i bisogni del paziente, incoraggia la collaborazione del paziente, favorisce il sollievo dal dolore e la guarigione stessa, in studi su pazienti con cancro in stadio avanzato (Lelorain et al., 2015) o che hanno subito un intervento chirurgico conseguente ad un trauma (Steinhausen et al., 2014). Inoltre, l’empatia può rendere più facile e veloce il processo del prendere una decisione condivisa riguardo ad un piano di trattamento.

L’utilizzo dell’empatia è una questione di etica professionale, dal momento che contribuisce al principio basilare del rispetto dell’autonomia del paziente. Promuove il lavoro di squadra e un approccio integrato nella cura del paziente. L’empatia può avere un suo spazio terapeutico specifico: dalle ricerche di psicologia cognitiva (Decety et al., 2015) emerge che l’empatia consente di gestire le emozioni in maniera positiva e funzionale a livello sociale, in modo da facilitare anche l’adattamento ai cambiamenti del contesto. L’empatia riduce il rischio di incorrere nei sintomi e nelle conseguenze del burnout, sindrome a cui sono particolarmente esposti tutti i professionisti nell’ambito della salute.

Un articolo di O. Klimecki apparso pochi giorni fa su Social Neuroscience conferma che le emozioni sociali sopra citate, l’empatia e la compassione, oltre a facilitare le interazioni interpersonali, possono anche essere allenate con training specifici, grazie alla plasticità neurale funzionale dei circuiti che ad esse sottendono. Tuttavia, da questo articolo emerge che un eccessiva condivisione empatica della sofferenza può incrementare le emozioni negative e l’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore (circuito neurale della minaccia e della disconnessione sociale). Al contrario, il training per la compassione può rafforzare le emozioni positive e l’attivazione della corteccia mediale orbito-frontale e dello striato (circuito neurale della ricompensa e della connessione sociale). Tali evidenze di neuroimaging sono in linea con i risultati degli esperimenti comportamentali (Leiberg et al., 2011) che sottolineano come la compassione sia connessa a gesti di aiuto e perdono, mentre lo stress empatico non solo diminuisce i comportamenti di aiuto, ma è anche associata con l’incremento dei comportamenti aggressivi.

In linea con questo studio, c’è anche chi, provocatoriamente ma non troppo, sostiene che il mondo abbia bisogno di un po’ meno empatia. Oliver Burkeman (2014), in un articolo apparso sulla rivista Internazionale lo scorso anno, riferendosi alle parole dello psicologo Paul Bloom (2014), passa in rassegna i bias (gli errori sistematici) a cui essa è soggetta: ad esempio, ci è più facile provarla per le persone che hanno un bell’aspetto e per quelle della nostra stessa razza. Siamo anche soggetti alla trappola della vittima identificabile, che ci fa preoccupare di più per un unico bambino scomparso che non per le migliaia che potrebbero essere danneggiate da una certa politica del governo.

Un eccesso di empatia può provocare in chi la prova esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri. Anche nel processo decisionale, evitare le personalizzazioni si rivela spesso la strategia più utile: l’economista T. Cowen (2014) sottolinea che per chiedere un’opinione è meglio non usare la formula Che cosa ne pensa?, ma Secondo lei, che cosa pensa la maggior parte delle persone?. Allo stesso modo, per prendere una decisione razionale ed equilibrata, può essere utile, paradossalmente, prendere le distanze anche da noi stessi, cercando di uscire dal fiume di pensieri ed emozioni in cui siamo immersi nel momento presente, non nascondendoli o rifiutandoli, ma vedendoli come eventi discreti, prodotti della nostra mente, non riflesso diretto della realtà, o reazione incondizionata ad essa. Ad esempio, infatti, nello strumento di indagine psicologica di matrice costruttivista, l’Autocaratterizzazione (Kelly, 1955), si chiede alla persona di scrivere un profilo di sé, ma in terza persona, così come potrebbe scriverlo un amico che la conosce molto bene, forse meglio di chiunque l’abbia mai conosciuta. Anche Bloom arriva alla conclusione che, più che di empatia, abbiamo bisogno di compassione: un sentimento più freddo e razionale, un modo più distaccato di amare, essere gentili e preoccuparci per gli altri.

Citando il comico J. Handey:

Prima di criticare qualcuno fatti una passeggiata di un chilometro nei suoi panni, così sarai a un chilometro di distanza e potrai tenerti i suoi panni. Ma se vuoi aiutarlo, forse ti conviene tenerti i tuoi vestiti. Invece di provare il suo dolore, non sarebbe meglio fare qualcosa?

Tuttavia, la soluzione potrebbe essere, piuttosto che rinunciare all’empatia, riuscire a decidere in maniera flessibile quando, come e quanto attivare il sentimento empatico, a seconda delle situazioni e della persona o del contesto sociale in cui interagiamo.

Ma per fare questo, essa deve essere un’abilità iperappresa, con cui abbiamo familiarità, che abbiamo fatto nostra e che quindi non ci spaventa. Per modulare in maniera sapiente la distanza di sicurezza dall’altro, dobbiamo non sentire la necessità di mettere una barriera tra noi e gli altri (se metto una barriera, non importa quanto sono vicino o lontano dagli altri, perché sono comunque separato da loro).

Di quest’idea è anche l’ideatore del Museo dell’Empatia, il filosofo Roman Krznaric, che ha ideato l’installazione interattiva A mile in my shoes: creata in collaborazione con gli abitanti di un quartiere a sud di Londra, il progetto si è svolto dal 4 al 27 Settembre 2015 sulle rive del Tamigi: i passanti entravano in un negozio dove un commesso sceglieva per loro un paio di scarpe della giusta misura, appartenute ad un’altra persona: potevano essere di un rifugiato, come di un anziano banchiere Etoniano. La persona era poi invitata a camminare lungo il fiume, ascoltando, in una cuffia, la storia del proprietario, per avvicinarsi al suo vissuto e alle sue emozioni. Questa mostra itinerante farà, secondo i progetti, il giro del mondo, fermandosi in più di 50 località, arricchendosi man mano delle storie di nuove persone: nell’immediato è previsto che venga portata in varie città dell’Inghilterra, e nel 2016 si trasferirà a Perth. Oltre a questa mostra itinerante, è stata creata un interessante Libreria dell’Empatia, una risorsa digitale che racchiude centinaia di suggerimenti e recensioni di libri e film che c’entrano, in diversi modi, con il mettersi nei panni dell’altro. La libreria è interattiva: chiunque può registrarsi e aggiungere le sue preferenze. Cosa aspettate ad esplorarla e ad allenare la vostra empatia?

Morality would frown upon
Decency look down upon
The scapegoat fate’s made of me
But I promise you, my judge and jurors
My intentions couldn’t have been purer
My case is easy to see
I’m not looking for a clearer conscience
Peace of mind after what I’ve been through
And before we talk of repentance
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes
Now I’m not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes

(Depeche Mode, Try walk in my shoes, Songs of faith and devotion, 1993)

Il valore dell’Ascolto Riflessivo con i gravi Disturbi di Personalità

Barbara Brignoni – Open school Studi Cognitivi Milano

La gravità di alcuni pazienti, ha costretto numerosi operatori a chiedersi quali potessero essere le tecniche più efficaci per instaurare una relazione di alleanza e di fiducia che potesse portare benefici alla persona e costituire una buona base per un lavoro terapeutico.

 

I percorsi di psicoterapia offerti dai servizi pubblici di Salute Mentale, presentano alcune differenze sostanziali rispetto a quelli che si prospettano nel privato, per svariati motivi: sicuramente per la disponibilità di risorse e per i programmi standardizzati regionali, non è prevedibile una presa in carico strutturata a lungo termine pensata per tutti i pazienti che afferiscono al servizio, i numeri sicuramente non aiutano e non lo consentono; inoltre analizzando le tipologie di utenti, nel bacino del pubblico accedono anche persone con background sociale compromesso, con problematiche strutturate in diverse aree e con prognosi negative.

La gravità di questi pazienti, ha costretto numerosi operatori a chiedersi quali potessero essere le tecniche più efficaci per instaurare una relazione di alleanza e di fiducia che potesse portare benefici alla persona e costituire una buona base per un lavoro terapeutico.

La riflessione si è spostata dunque sulle tecniche preliminari della relazione d’aiuto, quelle incentrate sulla motivazione e sulla creazione di un’alleanza terapeutica, che trovano una dimensione strutturata nell’approccio del Counselling Motivazionale sistematizzato da Miller e Rollnick.

Le problematiche che rendono difficoltoso un percorso di psicoterapia strutturata, nel caso di gravi disturbi di personalità, sono:

  • L’egosintonicità del paziente, che non problematizza alcuni suoi comportamenti e atteggiamenti, tentando paradossalmente di mantenere il proprio equilibrio disfunzionale;
  • La ridotta consapevolezza dell’opportunità di cambiamento;
  • La scarsa motivazione.

La presenza radicata di paure (del rifiuto, di affrontare la verità, del giudizio, delle emozioni, di perdere il controllo, di essere pazzo o malato…), i sentimenti sperimentati come intollerabili, come la colpa o la vergogna, le convinzioni pervasive che impediscono l’espressione personale, ed i pregiudizi interni, sono tutti fattori che rendono ulteriormente difficile la costruzione di un’alleanza terapeutica basata su un rapporto di fiducia reciproca.

Dal paziente con un grave disturbo di personalità, l’Altro è talvolta investito di significati personali appresi nel corso delle proprie esperienze relazionali, spesso fallimentari; l’operatore può essere vissuto come un avversario per cui il paziente lo contrasta, lo interrompe o si estranea dalla relazione, generando a sua volta una reazione nell’Altro. All’interno della relazione terapeutica si attivano cicli interpersonali a cui porre grande attenzione.

Proprio per tutte queste difficoltà, è necessario adottare un approccio relazionale strutturato, strategico e tecnico, che attraverso specifiche abilità tenda:

  • A mantenere la relazione, il contatto con il paziente;
  • A gestire i comportamenti e gli atteggiamenti di resistenza al cambiamento;
  • A verificare e monitorare lo stato della motivazione del paziente;
  • A promuovere la responsabilizzazione e l’orientamento ai vari strumenti di cura, cessando eventuali comportamenti problematici.

In particolare il Counseling Motivazionale si propone come un approccio centrato sul cliente, orientato, per affrontare e risolvere un conflitto di ambivalenza in vista di un cambiamento del comportamento (Miller & Rollnick, 2014).

Questo approccio è fondato su tre principi: collaborazione, autonomia e maieutica; in questa cornice di riferimento, le tecniche sono orientate ad esplorare piuttosto che esortare, a sostenere piuttosto che persuadere, con una costante attenzione alle aspirazioni della persona, che è libera di accettare o rifiutare le indicazioni che le vengono suggerite.

Nell’approccio del Counseling Motivazionale, il colloquio si modula tra il trattenersi dal desiderio di ‘correggere’ il paziente, incoraggiare e promuovere il suo empowerment, comprendendone la sua visione del mondo e le sue motivazioni, ascoltandolo in modo attivo e non giudicante.

A livello terapeutico ci sono dei fattori comuni e trasversali a diversi modelli di trattamento (Dialectical Behavior Therapy, Mentalization Based Therapy, Transference-Focused Psychotherapy ) che incidono nella buona riuscita di un percorso con un paziente con grave disturbo di personalità:

  • Una buona alleanza di lavoro;
  • Un atteggiamento supportivo e orientato al cambiamento;
  • Un’alta strutturazione degli interventi;
  • La presenza di un’equipe multidisciplinare specificatamente formata;
  • Regolari supervisioni d’equipe.

Nello specifico, i diversi modelli di trattamento del Disturbo Borderline di Personalità , identificano con linguaggi teorici differenti, tre difficoltà sintomatologiche sostanziali:

  • Abnorme risposta emotiva alla separazione reale o immaginata, temuta;
  • Non integrata rappresentazione di sé e degli altri;
  • Difficoltà nel gestire le reazioni emotive .

Le più recenti evoluzioni degli studi sulla clinica dei Disturbi di Personalità e del Disturbo Borderline in particolare, si rifanno alla Teoria dell’Attaccamento proposta originariamente da Bowlby negli anni ’70 per spiegare a livello eziopatogenetico, le manifestazioni di queste condizioni patologiche.

La Teoria dell’Attaccamento postula l’esistenza nell’Uomo, di una tendenza innata a ricercare per tutto l’arco di vita la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta ogni volta che si costituiscano situazioni di pericolo, dolore, fatica, solitudine, offrendo all’individuo un vantaggio in termini di sopravvivenza e adattamento.

Il corretto sviluppo di un sistema di attaccamento tra madre e bambino, teso a garantire a quest’ultimo protezione e vicinanza, gli permetterà di strutturare un’idea coerente di Sé e degli altri influenzando anche le sue future relazioni. L’esperienza di relazioni primarie stabili e sicure, diviene il prerequisito indispensabile per lo sviluppo armonico di tutte le altre competenze personali e sociali. La figura di attaccamento, generalmente il caregiver, dovrebbe costituire per il bambino, una base sicura che gli permetta di sviluppare fiducia in se stesso, consentendogli di muoversi nell’ambiente circostante con sufficiente e progressiva autonomia.

Dagli studi sui vari esiti dei legami di attaccamento, ne sono emerse quattro tipologie: sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente, disorganizzato. In pazienti con gravi disturbi di personalità, negli anni si è sempre più frequentemente riscontrato un attaccamento fortemente problematico di tipo disorganizzato: in questi casi, la figura di attaccamento è rappresentata come incoerente ed ostile, a causa di traumi irrisolti e maltrattamenti subiti, causando nel paziente una mancata integrazione del proprio senso identitario. Il paradosso è legato al fatto che la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di minaccia e soluzione di questo stato emotivo, con conseguente disorganizzazione del comportamento.

Nella letteratura scientifica clinica, tutti i riferimenti raccomandano l’importanza dell’accoglienza, dell’atteggiamento supportivo e della motivazione nella pratica di trattamento. Anche nella clinica dei gravi disturbi di personalità, i vari modelli di psicoterapia sottolineano l’importanza dell’accettazione e dell’empatia ed il monitoraggio dei cicli interpersonali.

Nella pratica clinica rivestono particolare importanza alcuni elementi di base trasversali ai vari modelli di cura:

  • La centratura sul paziente: l’accettazione e la comprensione del suo mondo e del suo modo di sentire e pensare, che facilitano la collaborazione ad un progetto di cura condiviso;
  • La relazione come base sicura: sentirsi compresi e riconosciuti contribuisce alla costruzione del “posto sicuro” dove poter esprimere e condividere esperienze e sentimenti anche pesanti e dolorosi senza timore;
  • L’essere con: l’empatia e la centratura garantiscono al paziente che non sarà solo, perché l’operatore comprende cosa dice, come si può muovere, accetta i suoi limiti e lo accompagna e non lo prende strattonandolo né lo lascia solo, deluso.

La tecnica dell’Ascolto Riflessivo riassume in sé tutte le caratteristiche della relazione empatica e di accoglienza, con il vantaggio di essere riproducibile, codificata e strutturata; è la comunicazione di una ragionevole supposizione sul significato delle parole del paziente, restituita dall’operatore sotto forma di una affermazione. Consiste nel proporre un’ipotesi su ciò che il paziente vuole dire ed è un buon modo per verificarla.

Questa tecnica rimanda al paziente l’attenzione dell’operatore, che fornisce così un feedback controllato; comunica accettazione e comprensione. L’Ascolto Riflessivo può essere un potente strumento a valenza psicoterapeutica, consente infatti di sperimentare un funzionamento relazionale di attaccamento riparativo, permettendo al paziente di ricostruire in modo coerente la propria storia, anche imparando strategie di modulazione emotiva.

L’Ascolto Riflessivo si propone dunque come strumento relazionale comunicativo di validazione dell’intenzionalità del paziente, favorendo la funzione riflessiva, di mentalizzazione e di ricostruzione.

Il potere del placebo: gli esiti sull’assunzione di psicofarmaci in persone depresse

Daniela Sonzogni 

Una ricerca dimostra che se una persona depressa risponde bene ad un farmaco placebo, questa riuscirà ad avere un aiuto dai farmaci reali.

Coloro che sono naturalmente equipaggiati con una predisposizione a rispondere positivamente al placebo nel trattamento della depressione, a quanto sembra, hanno un vantaggio nel superare i sintomi con l’aiuto di un farmaco.

I risultati ottenuti presso la University of Michigan Medical School aiutano a spiegare la variazione di risposta al trattamento e la recidiva che tormenta i pazienti con depressione e le loro squadre di assistenza. La scoperta apre la porta anche a nuove ricerche su come amplificare la risposta naturale del cervello in modo nuovo, per migliorare il trattamento della depressione. I risultati potrebbero aiutare anche coloro che sviluppano e sperimentano nuovi farmaci che, attraverso l’ effetto placebo, saranno in grado di misurare l’effetto di un farmaco.

Lo studio è stato svolto da una squadra di ricercatori che ha studiato l’effetto placebo per più di un decennio, utilizzando sofisticate tecniche di scansione cerebrale in persone sane.

Volevano dimostrare che il sistema naturale del cervello antidolorifico chiamato sistema mu-oppioidi, ha risposto al dolore quando i pazienti hanno utilizzato un placebo. Hanno studiato anche la variazione genetica che rende alcune persone più propense a rispondere a finti antidolorifici.

Per la nuova ricerca, hanno studiato la chimica del cervello di 35 persone con depressione maggiore,che hanno accettato di provare quello che pensavano fosse un nuovo farmaco per la depressione, prima di ricevere i farmaci già approvati per curare la malattia.

Il team ha scoperto che i partecipanti che hanno segnalato un miglioramento dei sintomi di depressione dopo aver utilizzato il placebo, ha avuto anche una risposta da parte del sistema mu-oppioidi, nelle regioni del cervello coinvolte nelle emozioni e nella depressione. Questi individui avevano anche la probabilità di sperimentare meno sintomi una volta assunto un farmaco vero e proprio.

Questa è la prima evidenza oggettiva che il sistema degli oppioidi del cervello è coinvolto nella risposta sia agli antidepressivi sia al placebo e che la variazione in questa risposta è associata a variazioni di sollievo dei sintomi. Si può immaginare che aumentando gli effetti placebo, si potrebbe essere in grado di sviluppare in maniera semplice e veloce antidepressivi migliori.

Nello studio è stato osservato che l’effetto placebo derivava non solo dal fatto che i partecipanti credevano di ricevere un vero farmaco, ma anche dall’impatto prodotto dall’ambiente di trattamento in cui veniva effettuato l’esperimento.
I risultati suggeriscono che alcune persone sono più sensibili al trattamento della depressione, e la terapia può quindi risultare migliore se le psicoterapie o terapie cognitive sono integrate agli antidepressivi. Studi che testano gli antidepressivi contro metodi placebo suggeriscono che il 40% di risposta ai farmaci è dovuta all’effetto placebo.

Se nel 40% dei casi, i soggetti guariscono da una malattia cronica senza un farmaco e se metà della risposta ad un farmaco è dovuta all’effetto placebo, occorre scoprire cosa rende questi soggetti diversi da quelli che non presentano lo stesso miglioramento. Questo potrebbe includere effetti genetici che sono ancora da scoprire.

Le nuove scoperte sono state effettuate utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, o PET, una scansione di una sostanza che si attacca ai recettori delle cellule cerebrali che si legano alle molecole mu-oppioidi. I soggetti hanno partecipato con la consapevolezza che non avrebbero saputo tutti i dettagli dello studio né gli obiettivi da raggiungere fino alla sua fine.

I partecipanti sono stati sottoposti a due settimane di trattamento con la pillola placebo, ma durante una delle due settimane, ai soggetti è stato comunicato di star assumendo una sostanza che si riteneva attivasse dei meccanismi interni che avessero proprietà antidepressive. Alla fine della settimana i soggetti sono stati chiamati per una scansione cerebrale. Gli sperimentatori, inoltre, hanno sottoposto i soggetti ad un’iniezione di acqua salata innocua facendo credere loro che avrebbe potuto avere una rapida azione antidepressiva. Dopo le due settimane e dopo la scansione gli individui sono stati sottoposti ad un vero e proprio trattamento con antidepressivi. I soggetti hanno riportato i loro sintomi di depressione attraverso scale di misurazione standard per tutto lo studio.

Oltre ad aiutare la ricerca di migliori farmaci antidepressivi, il nuovo studio potrebbe aiutare a identificare i pazienti che possono trarre vantaggio da strategie non farmacologhe aiutando così le persone che non ricevono sollievo dal trattamento con gli antidepressivi. Queste strategie includono ECT (terapia elettroconvulsiva), la stimolazione cerebrale profonda e la TMS (stimolazione magnetica transcranica).

 

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Effetto Placebo: un viaggio tra mente e corpo. Intervista a Fabrizio Benedetti

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Il rapporto tra padre e figlia nel nuovo film di Muccino: un legame mai scontato

Già dal titolo ci si può immaginare quanto il tema sia toccante, profondo, delicato. Il rapporto tra padre e figlia ha da sempre affascinato gli psicologi perché rappresenta un legame mai scontato.

Nel film di Gabriele Muccino, Jack, uno scrittore di successo, sembra avere ogni risorsa e capacità per offrire un attaccamento sicuro alla figlia Katie, una deliziosa e dolce bambina bionda che fin da piccola è chiamata a fare i conti con un destino crudele. La morte della madre è il primo grave trauma di Katie, ma l’elaborazione del lutto è favorita da un padre presente, affettuoso, premuroso, che come unico obiettivo nella vita ha quello di prendersi cura della figlia. Gli scambi di gioco, verbali e di silente affetto, tra i due sono commoventi, e ricordano che l’amore di un genitore può tutto, anche far superare la perdita e l’assenza dell’altro.

La tenera bambina diventa una donna molto bella, si laurea in psicologia, con un desiderio e una capacità incredibili di aiutare gli altri, ma con un vuoto interiore che lei stessa non riesce a definire alla sua terapeuta. L’angoscia che prova ogni volta che sente questo vuoto la porta ad agire comportamenti autodistruttivi, come avere rapporti sessuali occasionali con persone sconosciute o arrivare a bere così tanto da ubriacarsi spesso. E allora inizi a pensare a com’è possibile che con un padre come il suo abbia sviluppato un vuoto tanto incolmabile, cominci a chiederti perché non riesca ad avvicinarsi e ad entrare in intimità con le persone, nonostante nella sua infanzia abbia goduto di un amore paterno così profondo, sano e sicuro.

Poi, come spesso accade nella vita delle persone, avviene qualcosa che può curare la paura, che aiuta a capirla e a prendere le distanze dai comportamenti disfunzionali che si mettono in atto per difendersene. Tante volte questo qualcosa è una psicoterapia, altre volte sono eventi di vita, altre ancora incontri con persone disposte a comprenderti, a starti accanto per aiutarti a cambiare, a farti modificare i tuoi timori sostituendoli con delle sicurezze. Capita anche che tutte queste cose accadano insieme, e il circolo, allora, da vizioso si trasforma in virtuoso.

È quanto succede a Katie: una grande soddisfazione nell’ ambito professionale che la mette a stretto contatto coi suoi temi dolorosi, la psicoterapia, l’incontro con un uomo disposto ad amarla e a starle accanto senza giudicarla, mentre lei si sforza di essere diversa. Certo, il percorso non è così lineare, Katie continua ad aver paura non sa di cosa e continua a farsi del male per stare lontana dai suoi temi dolorosi. Katie non può e non vuole sentirsi di nuovo amata e poi abbandonata, piuttosto che correre questo rischio preferisce la solitudine e la lontananza dalle persone. La frase del compagno “Non tutte le persone che ti amano prima o poi ti abbandonano” colpisce e risuona nella giovane donna. La morte della madre non è l’unico abbandono nella vita di Katie, la sua cognizione negativa di essere in pericolo quando è amata, è supportata da altre esperienze che le hanno confermato come le persone che ti amano possano sparire, lasciarti, abbandonarti.

Il film ha un lieto fine nel quale sinceramente speravo, ma nel quale non credevo.
Infine, una riflessione che il film a mio avviso suggerisce con grande efficacia: Katie si sarebbe concessa la possibilità di stare meglio se, invece di avere un padre come Jack, avesse avuto un padre assente, che la trascurava o, ancora peggio, che non la “vedeva”?

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La cultura classica scompare dai programmi scolastici? Niente panico, non è una tragedia

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta il 11/10/2015

 

Si riaccende il dibattito sulla morte della cultura classica, e lo riaccende la riforma della scuola in Spagna, che prevede una forte riduzione delle ore d’insegnamento della filosofia. Altrove si apprende che in vari Paesi europei calano sempre più le ore dedicate all’insegnamento delle lingue classiche. Non si insegnano più greco e latino, soprattutto nei Paesi dell’Europa del nord, e non da pochi anni. La sparizione iniziò negli anni ’60 e può ritenersi compiuta negli anni ’80. Al loro posto, corsi più generici di “civiltà classica” o “civiltà antica” in cui si legge qualche classico in traduzione.

È un fenomeno di cui spesso in Italia non ci rendiamo conto, abituati al congruo numero di ore che ancora dedichiamo alla cultura classica nei licei. Quando incontriamo conoscenti o colleghi europei non è così facile rendersi conto di questo gap. I discorsi si mantengono opportunamente su un piano leggero, se è il caso si parla di lavoro e non certo di Omero. La citazione classica –che a qualche italiano reduce dal liceo scappa- suona goffa. Peggio: suona incomprensibile. La citazione classica è goffa proprio perché quella cultura, quel mondo, è uscito fuori dall’immaginario comune. Nella conversazione può cadere qualche riferimento alle riduzioni cinematografiche di Omero e, andando sul moderno, Shakespeare. Se faranno il film o videogiochi sull’Inferno –mi pare di averne sentito parlare- si potrà citare per qualche mese Dante. Al tempo del Gladiatore si poté parlare per un po’ di impero romano, ma non per questo diventarono più comuni le citazioni dai versi dell’Eneide, fosse anche il “consunto sunt lacrimae rerum”, che probabilmente a un collega europeo farebbe l’effetto di un’incomprensibile espressione gergale forse legata alla nostra cultura locale, curiosa ma rispettabile. Insomma, latino e greco sono avviate a diventare l’affascinante curiosità etnica dell’Europa meridionale e soprattutto dell’Italia, ma non sono più il vocabolario di base di una cultura vivente. Nell’immaginario comune occidentale ci sono il cinema e la musica pop/rock.

Questo avviene non solo per greco e latino, ma anche per quelli che erano i classici dell’età moderna. Balzac, Dickens e Tolstoj sono ormai anch’essi droppati dalla cultura comune, a meno che non ci sia la solita riduzione cinematografica a ridare loro un po’ di vita per qualche mese. E non basta. Queste riduzioni, facciamoci caso, funzionicchiano solo per alcuni classici: un po’ di Shakespeare (più “in love” che davvero trasposto fedelmente) e non molto altro. Il cinema è un’arte troppo matura per limitarsi a trasporre Guerra e Pace. Risultato? Citare Pierre Bezuchov in una conversazione è irrimediabilmente bislacco ed esibizionistico.

Un tempo c’erano gli sceneggiati TV che mantenevano viva una certa conoscenza. Ricordo la bellissima Odissea o la Freccia Nera. Anche quel tenue legame è svanito. Le serie TV americane e ora anche italiane sono ormai un genere troppo sviluppato e –ammettiamolo- appassionante; non hanno alcun bisogno di rubare una sceneggiatura a un romanziere di due secoli fa. E già, ormai due secoli ci separano dai romanzieri dell’Ottocento. L’Ottocento intero, con i suoi androni e gli uffici postali in legno che ancora popolano i ricordi della nostra infanzia, svanisce. I colorati e informatizzati uffici postali di oggi hanno perso quel colore da sceneggiato TV, quella sensazione ammuffita di poter trovare un personaggio da romanzo dietro lo sportello.

Parliamo di morte della cultura classica, ma forse faremmo meglio a parlare di morte di una delle sue reincarnazioni. La sparizione della cultura classica dai programmi scolastici è in realtà la fine della resurrezione che essa ebbe quando fu promossa, nella seconda metà dell’Ottocento, la scolarizzazione di massa. In tutta Europa fu introdotta la scuola dell’obbligo, e lo studio dei classici antichi e moderni parve –giustamente- il modo migliore per alfabetizzare la nuova piccola borghesia, abituarla allo studio e alla lettura. La lettura dei classici sostituì la cultura popolare diffusa oralmente.

Tuttavia, non dimentichiamo che quelli che oggi sono i classici moderni, Balzac e Dickens, furono all’epoca la prima forma di cultura popolare scritta di massa e per tutto l’Ottocento non entrarono nello studio scolastico. I loro romanzi costituivano il corrispettivo delle serie TV di oggi, e anch’ essi uscivano a puntate. Erano una produzione industriale e di massa; accanto ai Balzac e ai Dickens c’era una pletora di autori dimenticati dal tempo. Chi si ricorda di Eugène Sue? Vendeva più di Balzac. L’alfabetizzazione avvenne anche in quel modo, e non solo a scuola studiando i classici.

Il mito della cultura classica è stato già abbattuto varie volte, insomma. E varie volte è risorto, abbattendo il mito della morte della cultura classica. Risorse nel Rinascimento, risorse al tempo della Rivoluzione Francese e risorse ancora nel tardo Ottocento. In Italia lo studio dei classici greci e latini ricevette un ulteriore impulso dalla riforma Gentile del 1923 che ribadì l’assoluta preminenza delle materie umanistiche.

La riforma spagnola va nella direzione dell’abbattimento, ma non è il caso di innervosirsi troppo. In un’età sempre più tecnica, non è errato che ai ragazzi e alle ragazze si insegnino anche materie finanziare. Non so se questo andrà a scapito dello spirito critico o meno. Non è detto. Vi è anche una critica gratuita, astratta e inconcludente, pedante e malata di letteratura e filosofia, troppo spesso ancora troppo diffusa nelle popolazioni studentesche occidentali, non a caso soprattutto tra quelle che sono state ancora soggette all’insegnamento classico nelle scuole.

È un fenomeno che si osserva anche in psicologia. Il declino di una certa psicoanalisi antiscientifica che ultimamente si era sempre più compromessa con la filosofia ermeneutica e destrutturante francese è l’ultimo frutto -un po’ marcio- della cultura dei licei umanistici fondati nell’Ottocento. Quindi bene che muoia la cultura classica, abbattiamo questo mito. In attesa che risorga ancora consentendoci di abbattere il mito della morte della cultura classica.

La scuola del montaggio sovietico e la comunicazione di massa – Cinema & Psicologia

La scuola di montaggio sovietico” aveva come propria ideologia quella che il mezzo cinema dovesse in qualche modo assolvere il concetto di utilità ed infatti questo nuovo mezzo espressivo fu sfruttato moltissimo come arte di comunicazione di massa. I diversi esperimenti linguistici, abbastanza forzati anche dalla povertà dei mezzi a disposizione, erano quindi essenzialmente incentrati sul montaggio (si riutilizzavano spessissimo pellicole di altri film) e sulle molteplici espressioni comunicative che si potevano mettere in atto attraverso l’uso particolare di questo.

Il nostro sistema sensoriale riceve stimoli attraverso le interazioni che abbiamo con tutto ciò che ci circonda ed elabora informazioni e reazioni legate a queste ultime. Alla base di ogni processo di comunicazione ci sono quindi una serie di atti percettivi.

Nella percezione visiva, ad esempio, le informazioni sono acquisite non solo da ciò che vediamo, il messaggio infatti unisce diverse informazioni tra ciò che vede, l’ambiente materiale che ci circonda e le nostre conoscenze ed esperienze precedenti. Ciò che è percepito è diverso dall’oggetto esterno che rappresenta; ognuno di noi costruisce, quindi, significati diversi di una stessa cosa che sono ulteriormente soggettivi essendo influenzati dal momento in cui avviene lo stimolo, il grado di attenzione, i nostri bisogni e le nostre motivazioni.

Nonostante la soggettività del nostro essere, ci sono delle intuizioni, delle chiavi di lettura che forse, a livello arcaico rendono alcune esperienze, momenti o messaggi, comuni a tutti. Posto l’argomento, interessante è stato rispolverare un po’ la storia del cinema e volgere attenzione alla “scuola del montaggio sovietico”.

La scuola di montaggio sovietico” aveva come propria ideologia quella che il mezzo cinema dovesse in qualche modo assolvere il concetto di utilità ed infatti questo nuovo mezzo espressivo fu sfruttato moltissimo come arte di comunicazione di massa. I diversi esperimenti linguistici, abbastanza forzati anche dalla povertà dei mezzi a disposizione, erano quindi essenzialmente incentrati sul montaggio (si riutilizzavano spessissimo pellicole di altri film) e sulle molteplici espressioni comunicative che si potevano mettere in atto attraverso l’uso particolare di questo.

Tra i diversi a distinguersi in questa scuola, Kuleshov giocò sulla percezione dei significati con questo nuovo mezzo espressivo e su come le associazioni siano indotte per logica. In un suo esperimento dimostrò che la sensazione che un’inquadratura trasmette allo spettatore è influenzata in maniera determinante dalle inquadrature precedenti e successive. Cosa fece nello specifico? Da un vecchio film dell’epoca zarista, scelse un primo piano abbastanza inespressivo dell’attore principale, e montò subito dopo questa prima inquadratura, altre differenti scene alternate, ovvero nel primo montaggio, oltre al primo piano dell’attore, subito a seguire inserì il piano di un tavolo sul quale si trovava una scodella di zuppa, nel secondo caso, il piano di un cadavere disteso, nel terzo una donna nuda. Questi tre differenti montaggi furono proiettati al un pubblico che, interrogato su cosa trasmettesse per loro l’espressione dell’attore, alla prima proiezione risposero fame, alla seconda tristezza, alla terza, desiderio.

Kuleshov sfruttò quindi la capacità che attuiamo nello stabilire legami logici attraverso il montaggio regalando al cinema un nuovissimo canale comunicativo. “La scuola del montaggio sovietico” non si arresterà su questa scia e moltissimi altri linguaggi verranno sperimentati e diverranno alfabeto nella settima arte.

Il nostro cervello elabora gli stimoli visivi in modo attivo e il linguaggio filmico creato da questi pionieri sfrutta tale competenza. Attraverso messaggi subliminali, ripezioni di sequenze, piani associati e il montaggio, avviene una manipolazione di pensieri, sentimenti e convinzioni ideologiche. Il cinema pertanto porta con sé un’ enorme responsabilità, quella di essere ai tempi di allora come oggi una potente arma di comunicazione sociale che riproduce e documenta ma che, sfruttando queste nostre capacità influenza e plasma consciamente o inconsciamente intere popolazioni.

Carving Narcissism at its joint: il Perfezionismo da Autopresentazione

Sara Covili Faggioli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Mentre i tratti dimensionali del Perfezionismo riflettono un bisogno di essere perfetti, il Perfezionismo da Autopresentazione riflette il bisogno di “sembrare” perfetti davanti agli altri.

La ricerca tra perfezionismo e narcisismo, considerati singolarmente come costrutti, si è sviluppata soprattutto negli ultimi decenni; più limitati sono invece gli studi di ricerca che indagano la loro relazione. Pur originando da ambiti diversi, è indubbio che esistano aree di sovrapposizione fra i due costrutti.
“Perfezionismo” è un termine usato da molti e adoperato sempre più spesso; tuttavia il suo orizzonte di significato non è definito. Non è un termine tecnico dal punto di vista psicologico, ma deriva dal linguaggio della psicologia divulgativa (Ulrike Zollner, “Sindrome da perfezionismo”). Nè in psicologia clinica, né in psichiatria è possibile trovare questo termine per definire un gruppo di individui. In un articolo su Psychology Today, lo psichiatra David Burns definisce perfezionisti [blockquote style=”1″]coloro i cui standard di comportamento risultano irragionevoli e ben al di sopra delle loro possibilità[…] che si affannano incessantemente in modo ossessivo per conseguire degli obiettivi impossibili; individui portati a misurare i propri meriti esclusivamente in termini di produttività e di risultati raggiunti.[/blockquote]

Burns aggiunge che, in certi casi, il desiderio di perfezione può arrivare a compromettere la funzionalità di una persona. Sebbene il comportamento perfezionista sia stato descritto in termini positivi come fattore di adattamento e realizzazione (Hamachek, 1978), il perfezionismo ha assunto infatti una connotazione negativa includendo sensazioni caratterologiche di fallimento, colpa, indecisione, procrastinazione, vergogna e bassa autostima (Hamachek, 1978; Hollender, 1965; Pacht, 1984; Solomon & Rothblum, 1984; Sorotzkin, 1985), così come forme più serie di psicopatologia quali alcolismo, anoressia, depressione e disturbi di personalità (e.g., American Psychiatric Association, 1987; Burns & Beck, 1978; Pacht, 1984). Si ritiene che tali difficoltà di adattamento insorgano da tendenze perfezionistiche nel prefissarsi standard e obiettivi irrealistici e nello sforzarsi per raggiungerli, nell’attenzione selettiva e generalizzata sui propri errori, su un’autovalutazione rigorosa e nella tendenza a porsi in una modalità di pensiero “tutto-nulla” per cui gli esiti possono essere solo o totalmente fallimentari o totalmente vincenti (Burns, 1980; Hamachek, 1978; Hollander, 1965; Pacht, 1984). Si ritiene che queste caratteristiche possano originare, in parte, da ospedalizzazioni cognitive circa gli schemi del Sè-ideale (Hewitt & Genest, 1990).

Alla base del distinguo tra Perfezionismo e Perfezionismo da Autopresentazione vi è l’evidenza che soggetti perfezionisti differiscono tra loro in base alla loro necessità di apparire perfetti agli altri oppure di nascondere le proprie imperfezioni in pubblico (Hewitt & Flett, 1991). Questo fa pensare che alcuni perfezionisti siano focalizzati primariamente sull’impressione che di se stessi danno in pubblico, che deve essere assolutamente ineccepibile. Mentre i tratti dimensionali del Perfezionismo riflettono un bisogno di essere perfetti, il Perfezionismo da Autopresentazione riflette il bisogno di sembrare perfetti davanti agli altri.

Avendolo presentato come costrutto multidimensionale, gli autori Hewitt & Flett (1991) hanno proposto differenti facets del costrutto del perfezionismo da autopresentazione. Un fattore di differenziazione delle tre variabili è se il focus sia centrato maggiormente sulla “self-promotion”, volta a cercare di dimostrare la propria supposta perfezione agli altri, piuttosto che minimizzare il “pubblic display e/o disclosure” dei propri errori, debolezze o scarse prestazioni. Hewitt e Flett sostengono nel loro lavoro l’importanza della distinzione fra “promotion” e “concealment” come elemento centrale per la comprensione del perfezionismo da auto-presentazione. Quest’ultimo ha due componenti motivazionali generali che riguardano lo sforzo effettuato per mostrare la propria “perfezione” o lo sforzo effettuato per celare ogni propria possibile “imperfezione”.

La facet “Self- Promotion” implica il mostrare apertamente la propria supposta perfezione, sul piano morale e sociale. Risulta concettualmente simile allo stile descritto da E.E.Jones e Pittman (1982), che implica il tentativo di far impressione sugli altri facendo sfoggio delle proprie abilità e competenze al fine di guadagnare ammirazione e rispetto. Secondo Hewitt e Flett questo stile di “self- presentation” è indotto patologicamente e ostile sul piano interpersonale. La seconda facet, “Nondisplay of Imperfection”, implica uno stile di comportamento evitante e comunque limitativo: il desiderio di trattenersi dal manifestare alcuna imperfezione implica il tentativo di prevenire che gli altri scorgano alcun aspetto del proprio comportamento che non sia “del tutto perfetto”.

Individui con alti livelli dimensionali in questa facet tendono a rifuggire quelle situazioni in cui il proprio comportamento possa divenire oggetto di scrutinio, e le proprie imperfezioni ed errori rivelati. La terza facet, “Nondisclosure of Imperfection“, è anch’ essa rappresentata da uno stile evitante di comportamento e concerne l’evitare di svelare (verbalmente) qualsiasi aspetto di sé percepito come imperfetto. La nozione secondo la quale i perfezionisti difficilmente esprimono verbalmente le proprie preoccupazioni e ammettono i propri errori è in linea con la loro paura di essere respinti nelle loro relazioni interpersonali, fattore che alla base del loro stile comportamentale perfezionistico (Weisinger &Lobsenz, 1981), e con la loro titubanza nell’esprimersi nei contesti sociali (Flett, Hewitt, Endler, & De Rosa,1996). La tendenza ad evitare di esporre aspetti negativi del sè potrebbe essere in linea con l’indagine di ricerca secondo cui soggetti perfezionisti preoccupati dal giudizio sociale tendono ad essere ansiosi (Flett, Hewitt, Endler, & Tassone, 1994), oltre a descrivere se stessi come riluttanti nell’esporre i propri errori specialmente in circostanze critiche (Frost et al., 1995).

Il concetto di Narcisismo viene utilizzato sia per riferirsi ai normali sentimenti ed atteggiamenti che le persone hanno verso se stesse, come ad esempio la ricerca della propria salute e l’autostima positiva, la consapevolezza delle proprie possibilità dei propri limiti, la presenza di un’immagine positiva di sé e tutto ciò che è fondamentale per la sopravvivenza e l’adattamento, sia per indicare caratteristiche patologiche della personalità che possono svilupparsi nel momento in cui le caratteristiche proprie del “narcisismo normale” non si sviluppano in maniera armoniosa realistica ma distorta (Stone, 2001). Le componenti nucleari identificate per l’inclusione all’interno della diagnosi di disturbo narcisistico di personalità, secondo il DSM IV attualmente sono: senso grandioso di importanza, fantasie di limitato successo, potere, fascino, bellezza, convinzione di essere unici, richieste di eccessiva ammirazione, sensazione che tutto sia dovuto, sfruttamento interpersonale, mancanza di empatia, invidia nei confronti degli altri e comportamenti arroganti e presuntuosi (APA,1994).

La maggior parte della letteratura sul narcisismo ha associato questo costrutto con attitudini e comportamenti arroganti, egocentrici e prepotenti, tutte caratteristiche che si potrebbero inserire all’interno del concetto di grandiosità narcisistica (Pincus, Ansell, Pimentel, Cain, Wright & Levy, 2009). Solo nelle ultime due decadi sono state svolte ricerche empiriche sul disturbo narcisistico di personalità, molte delle quali sono state stimolate dal DSM III e dalle successive edizioni. Queste ricerche hanno rivelato che le descrizioni del DSM mal si adattano ad un utilizzo di tipo clinico e che vi sono notevoli differenze tra le caratteristiche che i clinici rilevano in soggetti affetti dalla sindrome in questione ed i criteri del DSM. Le descrizioni cliniche di persone con patologia narcisistica infatti manifestano un consistente accordo nel rilevare la presenza di un certo numero di caratteristiche chiave: una ridotta capacità di sviluppare legami emotivi con altre persone, di trarre piacere dalle proprie attività e di sperimentare il lutto e la tristezza nonché la presenza di sentimenti interiori di indifferenza e noia (Cooper, 2001).

Se dunque il DSM III e le sue versioni successive hanno enfatizzato la presentazione del disturbo narcisistico di personalità nella sua forma aggressiva, manifesta ed estrovertita (“Narcisismo Overt”), nel corso degli ultimi anni un congruo numero di ricercatori ha sottolineato la presenza di una forma alternativa in cui la patologia narcisistica può manifestarsi con sentimenti o stati del sè cronici che implicano l’esperienza cosciente di mancanza di aiuto, svuotamento, mancanza di autostima e vergogna (Narcisismo Covert). Il Narcisismo Covert è un’etichetta che raggruppa soggetti che appaiono ipersensibili, ansiosi insicuri ma anche caratterizzati da fantasie grandiose nascoste (Kohut,1971). E’ interessante sottolineare come la tendenza alla manipolazione e il sentirsi in diritto sembrino rappresentare un nucleo psicopatologico che accomuna sia il sottotipo Overt che quello Covert della patologia narcisistica (Fossati e Borroni, 2008).

Con l’intento di indagare la natura dell’associazione tra Narcisismo e Perfezionismo da Autopresentazione, è stato condotto di recente uno studio su una popolazione non clinica di adolescenti liceali (446 studenti di 7 diversi licei lombardi), valutandone le caratteristiche legate ai tratti di personalità e agli stili di attaccamento. Ad ogni soggetto è stata somministrata singolarmente una batteria testale composta da dati personali (età, sesso, tipologia di scuola frequentata) e quattro test autosomministrati: Perfectionistic Self Presentation Scale (PSPS), Hewitt et al., 2003; Pathological Narcissism Inventory (PNI-52), Pincus, Ansell, Pimentel, Cain, Wright e Levy, 2009); HEXACO Personality Inventory Revised (HEXACI-PI-R, Lee & Ashtone, 2004); 4) Attachment Style Questionnaire (ASQ), Feeney, Noller e Hanrahan, 1994).

Le analisi dei risultati presi in considerazione confermano l’ipotesi iniziale secondo la quale il perfezionismo da autopresentazione e il narcisismo patologico siano due costrutti fortemente correlati pur restando indipendenti e non sovrapponibili. Per indagare più approfonditamente la natura di questa correlazione si è proceduto quindi ad effettuare delle analisi di regressione tra i due costrutti prendendo in considerazione lo stile di attaccamento misurato con ASQ ed i tratti di personalità misurati con HEXACO. Considerando questi ultimi è emerso chiaramente come Narcisismo Patologico e Perfezionismo da Autopresentazione presentino un profilo personologico piuttosto similare, caratterizzato da: bassa Onestà/Umiltà, bassa Gradevolezza, alta Apertura ed alta Emozionalità.

Le analisi di regressione più determinanti nel comprendere la natura dell’associazione tra i due costrutti nonché l’origine della patologia mistica sono state quelle in cui si è esaminata l’influenza dell’Attaccamento. Nonostante infatti le conseguenze dello sviluppo di un tipo di personalità narcisistico siano state documentate ampiamente e in maniera sempre crescente negli ultimi anni, poca attenzione è stata invece rivolta all’esaminare gli aspetti latenti del costrutto, nonché in che modo esso origini. Se ad una prima analisi di regressione la Secondarietà delle Relazioni, basata sul concetto di Bartholomew di attaccamento “dismissing” sembrava costituire il nucleo comune i due costrutti, nelle regressioni finali è emerso invece come la Secondarietà delle Relazioni caratterizzi unicamente il Perfezionismo da Autopresentazione.

Com’era lecito aspettarsi, quest’ultimo è inoltre caratterizzato da Bisogno d’Approvazione, che riflette il concetto di Bartholomew di attaccamento preoccupato/timoroso. La scala Preoccupazione per le Relazioni, elemento cardine del concetto di Hazan & Shaver (1987) di attaccamento ansioso/ambivalente, appare invece l’elemento nucleare del Narcisismo Patologico. In questo modo è possibile ricondurre i due costrutti a due categorie di attaccamento differenti: se il Perfezionismo sembra inserirsi più in un quadro di attaccamento Evitante, il Narcisismo Patologico è caratterizzato nuclearmente dall’ansia, e quindi da uno stile di attaccamento Ansioso.

L’Egocentrico Parte Seconda – Tracce del Tradimento Nr. 27

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXVII: L’Egocentrico Parte Seconda

 

Il guaio degli egocentrici è l’incapacità di uscire da se stessi: il loro egocentrismo olimpico li rende odiosi perché vengono scambiati per feroci egoisti. Ma non è così.

Sono solo incapaci di immaginare pensieri ed emozioni proprie e altrui. Questa incapacità di assumere una prospettiva esterna si rivela un danno soprattutto per loro. Anche nell’ambito del tema che stiamo trattando la loro goffaggine finisce per condurli alla perdita di uno dei due partner: prima o poi, infatti, il coniuge o l’amante si stufano e dunque essi non hanno più ciò che avrebbero potuto mantenere se solo avessero usato un po’ di attenzione; il risultato che ottengono non è in linea con i loro scopi.

 

Del resto è fuori dubbio che per perseguire i propri scopi in un ambiente sociale sia assolutamente decisiva la capacità di prevedere il comportamento altrui e per fare ciò è necessario avere una teoria sul funzionamento della mente e una rappresentazione degli scopi che guidano le persone che ci interessano e delle credenze che hanno. Se conosciamo i desideri del nostro partner, le cose a cui tiene, cosa non sopporta e lo irrita, cosa pensa di sé, di noi e del mondo, siamo in grado di agire in modo da farlo felice, se è questo che vogliamo ottenere, o di farlo arrabbiare colpendo duro dove sappiamo che più fa male e sappiamo anche come ottenere le cose che desideriamo da lui. Tanto più è sofisticata la costruzione che abbiamo della mente di un’altra persona e tanto più siamo in grado di prevederne e influenzarne il comportamento. L’egocentrico non riesce in questo compito e va dritto per la sua strada alla ricerca della soddisfazione dei propri bisogni; agisce come se gli altri non esistessero e, proprio per questo, è molto probabile che fallisca e non raggiunga i suoi scopi.

È come deprivato del feed-back relazionale sul proprio comportamento. Non si accorge dei mutamenti del suo modo di fare da quando frequenta l’amante che invece sono segnali evidentissimi per il coniuge; pensa che se una cosa è dentro di lui e non la esterna apertamente sia invisibile agli altri. Così non pensa che il moltiplicarsi delle uscite immotivate, il sorgere di nuovi interessi, la ricerca di spazi propri da cui sia escluso il coniuge, l’umore mutevole, l’irritabilità per i weekend trascorsi in famiglia possano essere letti coerentemente dal coniuge come tante tessere di un unico mosaico, come tanti indizi che finiscono per costituire una prova certa del tradimento.

Per ognuno degli indizi ha una sua spiegazione ingenua che irrita e spesso delude dolorosamente il coniuge che si sente trattato male e talvolta è più ferito dalla mancanza di attenzione per la sua sofferenza che non per il tradimento.

Una signora sposata con un egocentrico assoluto lamentava con rabbia il continuo, sfacciato lasciar tracce del marito proprio come segno di disattenzione nei suoi confronti o di scarsa stima nella sua intelligenza e sosteneva la necessità di attenersi ad un preciso codice etico anche nel tradimento. I primi due articoli di tale codice prevedono di fare sempre di tutto perché nessuno si accorga mai di niente e non confessare mai per liberarsi la coscienza: in effetti lei aveva tradito per anni il marito e lo faceva tuttora in modo impeccabile.

Così come non si accorge dei segnali che manda e delle tracce che lascia, l’egocentrico non si avvede neppure dei segnali che gli manda l’altro. È cieco di fronte all’insofferenza, alla preoccupazione, al dolore e all’irritazione del coniuge, non se ne accorge e dunque non ne tiene conto e prosegue per la propria strada, senza poter recuperare. Il canale della comunicazione con l’altro è ostruito sia in un senso che nell’altro. Per questo queste persone vengono lasciate in malo modo e ciò li colpisce molto soprattutto perché ai loro occhi l’evento giunge del tutto inaspettato. Si meravigliano enormemente perché non c’erano segnali di malcontento da parte dell’altro, non c’erano avvisaglie di crisi: come è potuto succedere all’improvviso tutto questo?

A queste affermazioni l’altro si sente ancora più offeso perché si rende conto di essere stato trasparente, avverte che tutti i suoi sforzi per mandare segnali di disagio, per chiedere al partner di badare al suo stato d’animo sono stati inutili, sono andati perduti. L’offesa si trasforma in ostilità aperta se l’egocentrico ad un certo punto lo rimprovera, con tutta l’ingenuità di cui è capace, di non aver detto nulla, di non aver espresso il suo disagio. Essere egocentrici è una caratteristica individuale e dunque lo si è in tutti i rapporti e non soltanto in uno, non lo fanno apposta e pertanto non possono non farlo. Anche con l’amante sono insensibili e lo feriscono senza neppure accorgersene. Per l’egocentrico l’altro è un oggetto da utilizzare per i propri scopi, in modo incosciente e dunque senza colpa, per parlare di colpa occorre parlare di responsabilità e il deficit dell’egocentrico lo rende irresponsabile. Il problema per lui sta nel fatto che l’altro non è affatto un oggetto e non tenendo conto di questo piccolo particolare non riesce ad ottenere ciò che desidera da lui.

Giovanni non riusciva a darsi ragione dell’ostilità della moglie che evidentemente era una cosa seria se aveva iniziato a parlare di separazione. Lui non si dedicava ad altro che al lavoro e alla famiglia, ed anche lo stesso lavoro in fondo era finalizzato al benessere della famiglia. Tutto il tempo libero dal lavoro, dalla palestra e dagli amici del club della sua squadra del cuore lo trascorreva con le figlie che a volte aveva persino portato allo stadio con lui. In estate faceva sempre scegliere a lei dove andare in vacanza e quando lei presentava i conti del mese lui, magari con un po’ di ritardo, metteva sempre la metà che gli spettava anche quando non condivideva del tutto le spese. Della sua storia con Silvia, la moglie non aveva mai avuto prove certe e se all’inizio, ormai dodici anni fa, si era accorta di qualcosa ormai non diceva più niente anche perché la situazione era assolutamente stabilizzata, non c’erano scossoni o sorprese e anche il sesso non sembrava mancarle da quando si dedicava soprattutto al suo ruolo di madre. L’unica cosa che gli sembrava plausibile e che lei avesse conosciuto qualcuno e si fosse messa dei grilli in testa al punto di rovinare un matrimonio solido e perfetto come il loro.

L’egocentrismo patologico non è necessariamente associato al sesso maschile ma certamente essere maschi è un fattore di rischio non indifferente. Le donne, forse per la predisposizione sociale al tenere unita la famiglia e al loro ruolo di madri in cui è indispensabile mettersi nei panni dell’altro per coglierne i bisogni, raramente raggiungono le vette degli uomini. Sulla base di una predisposizione innata, la tendenza a divenire degli egocentrici è facilitata da un infanzia in cui si è circondati da adulti estasiati pronti a soddisfare tutti i bisogni prima ancora che vengano espressi, evitando la seppur minima frustrazione e che mai chiedono al piccolo di tener conto dei bisogni degli altri: tutto ciò mantiene queste persone in uno stato di egocentrismo assoluto in cui gli altri non esistono se non per soddisfare i propri bisogni compito per il quale dovrebbero eternamente gioire. In seguito una formazione tecnico-scientifica perfeziona il quadro che spesso si ritrova allo stato puro in ingegneri figli unici con genitori anziani di classe medio-alta.

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Sviluppo della visione infantile: cosa ci dice lo studio dell’attività cerebrale?

Daniela Sonzogni

Un nuovo studio fornisce nuove prospettive sulla maturazione delle aree visive della corteccia nelle prime settimane di vita, che dimostrano come il cervello visivo nei neonati di 7 settimane sia sorprendentemente maturo.

Le funzioni visive, come la percezione della direzione del movimento, iniziano a svilupparsi subito dopo la nascita e continuano maturando nel tempo, aiutando i bambini ad acquisire esperienza del mondo.

Tuttavia la prova diretta di come questo processo di maturazione si svolga nel cervello è stato carente poiché non vi sono stati studi di imaging funzionale su bambini molto piccoli durante la veglia o mentre sono impegnati visivamente. Un nuovo studio fornisce una visione diretta nella maturazione delle aree visive della corteccia nelle prime settimane di vita, che dimostrano come il cervello visivo nei neonati di 7 settimane sia sorprendentemente maturo.

In questo studio è stata utilizzata la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per registrare l’attività cerebrale di bambini di 7 settimane di vita sia quando erano visivamente impegnati sia durante il sonno. Gli autori forniscono così le prime mappe della funzione corticale visiva nei neonati, fornendo informazioni circa la plasticità neurale che risulta essere molto precoce nella vita: inaspettatamente scoprono che le regioni associative della corteccia responsabili dei processi di movimento rispondono allo stesso modo sia a 7 settimane di vita sia negli adulti. Ciò che sembra essere in ritardo a 7 settimane è lo sviluppo di connessioni funzionali tra queste aree associative e la corteccia visiva primaria, principale bersaglio corticale degli input visivi negli adulti.

Testare bambini molto piccoli con uno scanner fMRI mentre sono svegli e osservano uno schermo è una sfida enorme. Per questo motivo, per incoraggiare i bambini a guardare lo stimolo visivo, i ricercatori hanno scelto uno stimolo saliente per l’età e per rassicurarli venivano tenuti tra le braccia dello sperimentatore durante la scansione. I bambini hanno guardato gli stimoli per un tempo abbastanza lungo per rendere l’acquisizione dei dati affidabile. Una scansione verticale che può permettere alla madre di tenere il bambino in grembo faciliterebbe l’acquisizione dei dati, ma questi tipi di scanner non sono ancora disponibili.

In un primo esperimento fMRI, il team ha registrato l’attività cerebrale in dodici bambini di 7 settimane mentre guardavano modelli di puntini che si muovevano sia in maniera casuale sia secondo traiettorie coerenti. I ricercatori hanno dimostrato che, proprio come gli adulti, i bambini hanno mostrato maggiori risposte al movimento coerente rispetto al moto casuale in una vasta rete di regioni cerebrali, comprese le aree associate con la percezioni del corpo-movimento.

I ricercatori sostengono che la simile attività di queste regioni sia nei neonati sia negli adulti suggerisce che i neonati possono avere un senso della posizione del corpo.

In un esperimento fMRI di follow-up, i ricercatori hanno testato 9 degli stessi bambini mentre dormivano. Quando hanno analizzato i pattern di attività nelle regioni sensibili al movimento identificati nel primo esperimento, hanno trovato somiglianze tra bambini e adulti, ma anche alcune differenze: i pattern di correlazione tra alcune regioni erano diverse nei bambini rispetto agli adulti, in particolare la corteccia visiva primaria ha mostrato pattern di connettività immaturi.

Nel loro insieme i risultati mostrano che le principali aree che servono per l’elaborazione del movimento negli adulti sono operativi già dalla settima settimana di vita. Più sorprendente è l’evidenza che i neonati sembrano essere già in grado di percepire la posizione del loro corpo.

I risultati possono avere importanti implicazioni cliniche. La visione è compromessa in molti disturbi dello sviluppo neurologico, come l’autismo e le paralisi cerebrali. Studi come questi forniscono conoscenze necessarie circa la posizione esatta delle diverse aree visive del cervello infantile e la portata della loro maturazione, che possono poi guidare i medici nel tentativo di selezionare strategie di riabilitazione appropriate in opportune finestre temporali.

Terapia Metacognitiva per disturbi d’ansia e depressione: Adrian Wells ospite a Milano – Report dal Workshop

UN EVENTO REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON:

  • Studi Cognitivi Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale
  • SITCC – Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva
  • Metacognitve Therapy Institute
  • Sigmund Freud University Milano

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Adrian Wells ha tenuto un seminario sulla terapia metacognitiva (MCT): nella MCT la sofferenza è data non da valutazioni errate sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo di regolazione dell’attività mentale.

Adrian Wells ha tenuto un seminario sulla terapia metacognitiva (MCT – metacognitive therapy) per i disturbi d’ansia e dell’umore a Milano venerdì 9 e sabato 10 ottobre 2015. Il prof. Wells, che insegna all’Università di Manchester, ha esposto i principi della sua terapia.

Nella MCT la sofferenza è data non da valutazioni errate sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo di regolazione dell’attività mentale.

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Terapia Metacognitiva per disturbi d'ansia e depressione Wells ospite a Milano - Report_ IMG 2
Prof. Adrian Wells

L’errore principale consiste nel ritenere che sia conveniente pensare in maniera perseverante ai problemi e che sia impossibile non prestare molta attenzione ai problemi. Entrambe queste strategie sono errate e, invece di aiutarci ad affrontare le difficoltà, ci danneggiano, determinando agitazione e sofferenza emotiva.

 

In termini più tecnici, la teoria metacognitiva dei disturbi psicologici si fonda sul principio che la maggior parte dei disturbi/o psicologici è causata da uno schema di pensiero ripetitivo (repetitive thinking) chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (Cognitive Attentive Syndrome – CAS) costituito da pensieri vissuti nella forma di preoccupazioni. La CAS è spinta da credenze di fondo riguardo al pensiero che ricadono dentro due categorie di credenze: positive (es. mi devo preoccupare allo scopo di farcela) e credenze negative (es. certi pensieri sono pericolosi). Uno schema che concentra l’attenzione sulle minacce e che porta a effetti paradossali. In particolare, l’eccesso di attenzione ai problemi ci rende meno efficienti nel risolvere i problemi e ci assorbe invece in un circolo vizioso di logorante agitazione. Tutto questo (come viene efficacemente descritto da Wells in un intervista rilasciata a State of Mind – NdR) invece di fermare il pensiero negativo, lo amplia.

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Il seminiario di MCT tenutosi nelle aule della Sigmund Freud University Milano

 

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La terapia metacognitiva si concentra sul rimuovere la CAS in risposta ai pensieri e alle esperienze negative stimolando la consapevolezza di questo processo e promuovendo un controllo selettivo dello stesso.

In questo modo si mettono in discussione le credenze metacognitive. Alla fine del trattamento i pazienti sono più flessibili nelle loro risposte ai pensieri negativi e meno dipendenti dagli schemi mentali consolidati e controllo cognitivo come strategia di gestione delle esperienze emozionali.
Rispetto alla terapia cognitiva tradizionale, il modello di Wells propone un rovesciamento delle gerarchie: al centro della teoria non ci sono i contenuti dei pensieri, anzi c’è l’idea che i pensieri non sono così importanti ma che ciò che conta è la reazione delle persone a quei pensieri.

La MCT si concentra sugli stili di pensiero e regolazione mentale piuttosto che sul contenuto dei pensieri. Non opera dei controlli di realtà sui pensieri o sulle credenze generali riguardo se stessi e il mondo ma su come noi stessi riteniamo di regolare i nostri stessi pensieri.

Il principale intervento terapeutico della MCT è l’addestramento a gestire i pensieri negativi in una attitudine chiamata detached mindfulness (DM). La DM, sebbene condivida in parte il nome, non va confusa con la mindfulness. Con mindfulnes Wells intende la consapevolezza dei pensieri (awareness of thoughts) che identifica la specifica consapevolezza metacognitiva e l’abilità di distinguere un pensiero negativo dalla preoccupazione (worry) conseguente o dalla risposta ruminativa a quel pensiero. Con DM Wells intende il fermare o disconnetere ogni risposta a quel pensiero e in chiave più profonda, esperire il sé come separato dal pensiero e semplice osservatore di esso.

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Il seminario è consistito nell’esposizione dei concetti teorici e in esercitazioni di accertamento MCT e di gestione in DM di pensieri negativi. Infine Wells ha esposto l’applicazione del suo modello a disturbi specifici, in particolare il disturbo d’ansia generalizzata e il disturbo post-traumatico da stress. La partecipazione è stata numerosa e l’interesse elevato. Le reazioni in generale sono state molto positive, con qualche difficoltà nell’accettare una certa tendenza di Wells a ritenere che l’efficienza della MCT renda quasi inutile valutare e gestire l’alleanza terapeutica attraverso interventi di sostegno e accoglimento. In realtà Wells ritiene che questi interventi, pur importanti, facciano parte della cosiddetta good-practice, ovvero delle abilità di base del terapista, un presupposto professionale che non è necessario teorizzare nel suo modello, essendo già stato fatto in altri.

Post-traumatic Growth: non tutto il male viene per nuocere

Post-Traumatic Growth: oltre alle ricadute negative che un trauma può avere, questo può anche facilitare cambiamenti positivi nella persona, conosciuti come post-traumatic growth (PTG), che possono includere lo sviluppo di nuove prospettive personali e di una vera e propria crescita individuale (Kleim & Ehlers, 2009), come riferiti nel 30-90% di casi di situazioni traumatiche (Sawyer & Ayers, 2009).

Il trauma può essere definito come un evento che modifica profondamente gli schemi di una persona, così come le sue credenze, i suoi obiettivi e la sua capacità di fronteggiare le difficoltà emotive; inoltre, questo evento si pone come uno spartiacque tra un prima e un dopo nella vita dell’individuo, che arriva a narrare se stesso e gli altri in un modo diverso (Sheikh, 2008). Un trauma può essere qualcosa che è accaduto direttamente alla persona, come un abuso, una violenza, una rapina, o un qualunque evento che si ponga come minaccia alla propria incolumità; ma anche essere esposti a un evento che minacci gravemente l’incolumità di terzi, soprattutto se significativi, può avere conseguenze ugualmente traumatiche sull’osservatore.

La reazione al trauma varia in modo significativo da persona a persona, e mentre alcuni sviluppano solamente una fisiologica risposta di paura e allarme che spesso si risolve spontaneamente nell’arco di qualche mese (Horowitz, 2004), altri possono sperimentare un disturbo dell’adattamento o un più grave disturbo da stress post-traumatico, caratterizzato dalla mancata integrazione dell’esperienza traumatica con una visione di sé e del mondo più complessiva e globale.

Post-Traumatic Growth: i cambiamenti positivi conseguenti al trauma

Oltre alle ricadute negative che un trauma può avere, questo può anche facilitare cambiamenti positivi nella persona, conosciuti come Post-Traumatic Growth (PTG), che possono includere lo sviluppo di nuove prospettive personali e di una vera e propria crescita individuale (Kleim & Ehlers, 2009), come riferiti nel 30-90% di casi di situazioni traumatiche (Sawyer & Ayers, 2009).

Se la resilienza è una caratteristica che ci permette di essere più pronti a fronteggiare in modo positivo eventi negativi, la Post-Traumatic Growth si configura come qualcosa di ancora differente.

Nello specifico, la Post-Traumatic Growth viene definita come l’esperienza soggettiva fatta di cambiamenti psicologici positivi come esito di un’esperienza traumatica (Zoellner & Maercker, 2006). Mentre alcuni autori includono la Post-Traumatic Growth all’interno delle strategie di coping della persona, altri la descrivono più come un insieme di nuove competenze che si sviluppano a seguito di un evento traumatico.

Inoltre, la Post-Traumatic Growth è stata concettualizzata come costrutto multidimensionale, caratterizzato cioè da diversi aspetti, tra cui un maggiore apprezzamento della vita, la tendenza a creare relazioni più strette, l’identificazione di nuove possibilità, una maggiore forza personale e un cambiamento spirituale positivo (King & Hicks, 2009).

Un esempio di crescita personale include la capacità di trarre maggiore piacere da situazioni precedentemente date per scontate, così come un cambiamento nell’ordine di priorità intorno alle quali si organizza la quotidianità. Inoltre, a seguito della propria riuscita nel fronteggiare un evento traumatico, una persona può percepire se stessa come più competente, ridimensionando la propria definizione di sé in un modo più positivo. Anche se intuitivamente si potrebbe vedere la Post-Traumatic Growth come un fattore di protezione contro lo sviluppo di disturbi psicologici a seguito di un trauma, in realtà i risultati delle ricerche sono finora discordanti. Ciononostante, sono degni di nota due studi longitudinali che hanno rilevato sia minori sintomi depressivi che una minore probabilità di sviluppare un disturbo da stress post-traumatico a seguito di un trauma nelle persone che prima del trauma riportavano maggiori livelli di Post-Traumatic Growth.

 

Le caratteristiche di personalità di chi sviluppa Post-Traumatic Growth

Ma quali fattori incidono sulla capacità individuale di sviluppare Post-Traumatic Growth a seguito di un evento traumatico? Tra le caratteristiche demografiche, sembra che la Post-Traumatic Growth sia più probabile nelle donne e nelle persone giovani; risulterebbe inoltre correlata con una migliore situazione economica e con un’educazione più elevata (Linley & Joseph, 2004).

Tra le caratteristiche di personalità, sembra che la Post-Traumatic Growth sia più frequente tra le persone estroverse, aperte alle nuove esperienze e con un carattere amicale (Sheikh, 2008). Rispetto alle caratteristiche di coping, cioè al modo con cui le persone tipicamente fronteggiano le situazioni e reagiscono alle difficoltà, la Post-Traumatic Growth è risultata più alta in chi tende a rileggere la situazione nelle sue caratteristiche positive (chi reagisce alle difficoltà con il reappraisal) e in chi è più propenso a cercare supporto sociale (Prati & Pietrantoni, 2009).

Infine, la speranza è risultata correlata con una maggiore Post-Traumatic Growth; più nello specifico, uno studio svolto su 1025 soggetti ha mostrato come la presenza di traumi nell’infanzia fosse legata a una minore speranza, e di conseguenza a una minore possibilità di reagire positivamente a un trauma in età adulta (Creamer, et al., 2009). Come dire, la nostra capacità di trarre giovamento da una situazione negativa, e di progredire a partire da questa, dipende da quanto siamo speranzosi, ma questo a sua volta dipende dal tipo di infanzia che abbiamo alle spalle.

Sicuramente la Post-Traumatic Growth è un costrutto che necessita di ulteriori approfondimenti sia per un migliore inquadramento concettuale che per una più chiara collocazione tra tutti i costrutti che vengono tirati in ballo quando si parla di trauma. In un modo del tutto preliminare, però, sembra essere qualcosa di promettente, che consente anche di prestare attenzione a quello che un evento traumatico può costruire, e non solo a quello che tende a distruggere.

Il calo delle adozioni: dalla crisi dell’adozione a un modello di adozione protettivo, resiliente e ad alto valore sociale

 

Negli ultimi anni associazioni, giornali e ricercatori hanno documentato il problema del calo delle adozioni internazionali. Si è di fronte quindi ad un fenomeno sociale importante da riconoscere e soprattutto da valutare.

Dal 2010, anno in cui si è registrato l’ultimo trend positivo nell’adozione internazionale, si è assistito ad una diminuzione del 30% degli ingressi dei minori (Cai 2013, report statistico). A livello internazionale il calo delle adozione raggiunge cifre importanti che superano il 50%. Si è di fronte quindi ad un fenomeno sociale che è importante riconoscere e soprattutto valutare.

Le associazioni e i giornali riportano come motivazione la crisi economica del nostro paese, i costi delle adozioni internazionali, un percorso di valutazione della coppia vissuto in modo eccessivamente intrusivo, l’età dei bambini che si attesta attorno ad una media dei 5,5 anni e l’alta presenza di bambini con special needs.

Sicuramente tutti questi fattori hanno contribuito al calo delle adozioni, ma non sono gli unici responsabili di questo fenomeno: infatti, in gioco non c’è semplicemente la valutazione di situazioni che rendono complessa l’adozione, ma la scelta stessa dell’adozione e, quindi, di un percorso di genitorialità sociale.

Il dato importante da tenere presente riguarda la diminuzione delle dichiarazioni di disponibilità all’adozione nazionale e internazionale da parte degli aspiranti genitori adottivi, anch’essa in picchiata. E’ quest’ultima, infatti, che ci permette di capire che siamo di fronte ad una transizione culturale che investe la scelta di intraprendere un percorso di genitorialità sociale.

L’entusiasmo che ha coinvolto famiglie, operatori e associazioni degli anni 90, i valori legati all’istituto dell’adozione hanno lasciato il posto alle preoccupazioni per un percorso di genitorialità comunemente rappresentato come complesso.

Inoltre negli ultimi anni il dibattito generale ha contribuito alla formazione di una rappresentazione sociale del bambino adottato intrisa di immagini negative. Gli aspiranti genitori adottivi sono bombardati da notizie sulla complessità del comportamento del bambino adottato: i blog, gli articoli scientifici, divulgativi sono pieni di riferimenti ai bambini adottivi descritti come difficili, passivi, anaffettivi, reattivi, incontenibili. A questa si aggiunge il dibattito sulla crisi e i fallimenti adottivi che in assenza di una valutazione puntale dei fattori che concorrono alla formazione di queste situazioni, incrementa una rappresentazione sociale di timore e paura nelle famiglie.

Il risultato finale è il calo delle adozioni, espressione di una società sempre più resistente ad implicarsi in percorsi che hanno anche un risvolto sociale; non è un caso che le motivazioni comuni ampiamente riportate nei giornali riguardano i costi, i problemi, le difficoltà come se la genitorialità, anche biologica, potesse essere una scelta scevra da questi aspetti.

Eppure l’adozione di un figlio è una scelta che ha come principale ricaduta sociale la protezione dell’infanzia e il diritto del bambino a vivere in una famiglia, in assenza della propria. La genitorialità adottiva è una scelta di genitorialità sociale centrata sull’accoglienza di un figlio che ha subito un abbandono che dovrebbe essere incoraggiata e supportata dalla società. Infatti, a fianco alla dimensione privata della scelta adottiva, che riguarda la storia della coppia e le difficoltà legate alla procreazione di un figlio biologico, esistono anche motivazioni di carattere sociale che, se oggi magari sono meno visibili rispetto alle informazioni sulla crisi e il fallimento dell’adozione, rappresentano comunque la finalità principale dell’adozione. Le coppie che arrivano a scegliere l’adozione partono da una dimensione privata per arrivare a conoscere il significato sociale dell’adozione relativo all’accoglienza di un figlio che ha subito il trauma dell’abbandono e per comprendere il significato e l’impegno realistico della genitorialità adottiva.

Lavorare sulla rappresentazione sociale dell’adozione riprendendo i valori della legge 184/1983 permette di ricordarsi delle importanti funzioni protettive di questo istituto che è principalmente orientato al bambino. E’ per questo che è importante divulgare non solo i temi legati alla crisi dell’adozione, ma anche quelli relativi al benessere della famiglia adottiva: si ricorda che i successi adottivi, infatti, sono meno rappresentati nel dibattito nonostante i dati confermino che rappresentano il 90/95% della realtà dell’adozione. Quindi è fondamentale lavorare per diffondere una cultura dell’adozione positiva, riparativa e resiliente fondata su un un percorso psico-sociale in grado di sostenere in modo concreto la genitorialità e la filialità adottiva.

Su questa linea diventano strategici i percorsi di preparazione all’adozione che devono essere concepiti come percorsi di maturazione della scelta adottiva, di preparazione alla genitorialità adottiva e di sviluppo delle competenze genitoriali; il percorso di indagine psicosociale orientato ad accompagnare la coppia nella auto-valutazione delle competenze genitoriali richieste in questo percorso; i percorsi di sostegno post-adozione nella fase dell’abbinamento – adozione per permettere alla coppia di accogliere quel figlio nella consapevolezza della sua storia, dell’impegno genitoriale richiesto in tutte le fasi del ciclo di vita della famiglia adottiva; il sostegno alla filialità adottiva che possa accompagnare il bambino nei momenti cruciali del proprio percorso di crescita e di elaborazione della storia personale. Il sostegno alla filialità adottiva è un aspetto che non è stato approfondito pur avendo implicazioni importantissime sul benessere personale e delle relazioni famigliari; a titolo di esempio si ricorda l’importanza della preparazione all’adozione del bambino e del sostegno nella fase di inserimento del nucleo famigliare.

L’adozione, in questa prospettiva, ritorna ad essere uno strumento psicosociale protettivo per l’infanzia, con un’importante funzione riparativa nei confronti delle esperienze sfavorevoli vissute dal bambino, resiliente rispetto al suo percorso di vita, ad alto valore sociale per il bambino, per i genitori e per la comunità. Affrontare il tema dell’ adozione come esperienza positiva, protettiva, resiliente e ad alto valore sociale non significa evitare di considerare le problematiche che influenzano la crisi dell’adozione, ma circoscriverle sia sul piano statistico, sia sul piano psicosociale per valutare i fattori di rischio, ma soprattutto i fattori protettivi del percorso adottivo ( Palacios J. 2007, Brodzinsky D.M, Palacios J., 2010, Paradiso, 2015).

La plasticità neurale e i cambiamenti prodotti dalla psicoterapia nel cervello

Luana Lazzerini, Valentina Reda, Manuela Cammarata, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La psicoterapia, può produrre modifiche del comportamento attraverso nuove esperienze e nuovi apprendimenti. Tali esperienze vengono registrate nelle reti neuronali che formano il cervello.

Introduzione

Negli ultimi venti anni, l’avvento di nuove modalità di indagine delle neuroscienze (PET, fMRI, ERPs…) ha permesso di studiare sempre più approfonditamente i cambiamenti nel sistema cerebrale umano vivente. La capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente è chiamata plasticità neurale.

La plasticità neurale permette la formazione della mente umana tramite l’interazione tra i processi neurofisiologici cerebrali e le esperienze vissute. Queste ultime costituiscono il nostro patrimonio più importante in quanto influenzano e guidano il nostro modo di elaborare le diverse informazioni.
Le principali evidenze sulla plasticità neurale derivano da studi relativi ai processi di apprendimento e memoria che mettono in luce come sia possibile, in seguito ad esperienze ambientali e interpersonali, andare a modificare la struttura cerebrale.

Quasi tutti i comportamenti umani sono frutto di un processo di apprendimento. Anche quando compiamo azioni apparentemente automatiche, in realtà stiamo mettendo in atto un processo cognitivo complesso che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva attraverso il processo di memorizzazione. Quando si apprende e si memorizza qualcosa di nuovo, questa nuova esperienza lascia una traccia nel nostro sistema nervoso. È ormai evidente, quindi, che qualsiasi processo mentale intrapsichico o relazionale deriva da meccanismi che avvengono a livello neuronale nel cervello e che, viceversa, qualsiasi esperienza che facciamo, ogni cambiamento dei nostri processi psicologici e cognitivi modifica plasticamente le strutture anatomiche cerebrali corrispondenti.

La reciproca interazione tra cervello ed esperienza si nota anche nei disturbi psicopatologici. Questi, infatti, sono caratterizzati sia da un tipico pattern sintomatologico ricorrente che da tipici pattern di attivazione cerebrale. I pazienti che soffrono di disturbi d’ansia e depressione maggiore, ad esempio, mostrano spesso un’eccessiva attivazione di alcune strutture cerebrali e un ridotto funzionamento di altre.

La riduzione sintomatologica in tali disturbi la si ottiene sia a seguito di trattamenti farmacologici che a seguito di trattamenti psicoterapici.
Come si può facilmente intuire le terapie farmacologiche, messe a punto per ottenere un miglioramento sintomatologico nei disturbi psicopatologici, agiscono a livello biochimico in maniera mirata sul sistema nervoso centrale. Meno intuibile invece risulta il meccanismo tramite il quale la psicoterapia produca un sollievo sintomatologico negli stessi disturbi. Eppure la psicoterapia, in particolare la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC), è considerata un trattamento di provata efficacia nei Disturbi d’Ansia e nei Disturbi dell’Umore. La TCC mira a modificare i nostri schemi cognitivi (strutture di conoscenza che ci permettono di dare significato alle nostre esperienze, modalità tipiche che determinano il nostro modo di comportarci e di pensare), avvalendosi dell’integrazione di tecniche cognitive e comportamentali.
Le prime hanno lo scopo di modificare le convinzioni disfunzionali relative a se stessi e al mondo esterno; le seconde mirano all’acquisizione di nuove strategie tramite esercizi comportamentali condivisi tra terapeuta e paziente.

La psicoterapia, può produrre, quindi, modifiche del comportamento attraverso nuove esperienze e nuovi apprendimenti. Tali esperienze vengono registrate nelle reti neuronali che formano il cervello.
In questa sede prenderemo in eseme i cambiamenti neurali che si verificano in seguito al trattamento psicoterapico. Per far ciò illustreremo più in dettaglio cosa si intende per plasticità neurale, in che modo si esprime e come viene studiata; parleremo della psicoterapia, in particolare della TCC, illustrandone i principi sui quali si basa e le tecniche che utilizza; ed infine illustreremo i cambiamenti neurali prodotti dalla psicoterapia in accordo con la letteratura scientifica recente.

La Plasticità Neurale

L’interazione reciproca tra cervello e comportamento è fatto noto e ormai radicato, anche perché, per molti risulta essere tanto straordinario quanto misterioso. Quando si dice che il comportamento e l’esperienza modificano il cervello si vuol proprio intendere che essi modificano il cervello fisicamente. Il cervello di un bambino cresciuto in Italia si costruisce con una struttura cerebrale diversa da quella di un bambino cresciuto in Finlandia. Questa è la ragione per cui il primo, da adulto, capirà l’italiano facilmente e il secondo no. In questo caso non si può esattamente dire quali siano le differenze strutturali, ma si sa che una parte del cervello è stata modificata da esperienze diverse. Numerosi sono gli esempi che dimostrano come l’esperienza abbia modificato il numero o la dimensione dei neuroni oppure il numero o la dimensione dei collegamenti tra neuroni. Woollett, K., & Maguire nel 2011, ad esempio, hanno dimostrato che il cervello dei guidatori di taxi londinesi rispetto a quello dei cittadini londinesi non guidatori di taxi è caratterizzato da un maggior volume dell’area posteriore dell’ippocampo, struttura cerebrale cruciale per la memoria e la ricerca visuo-spaziale.

La capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente è chiamata plasticità neurale.
La dottrina tradizionale, ritenuta valida fino a pochi anni fa, sosteneva che le cellule nervose non fossero in grado di riprodursi dopo la nascita: si trattava di un patrimonio fisso, passibile solo di perdite nel corso della vita.
William James nel 1890 descrisse la plasticità come[blockquote style=”1″] il processo di una struttura abbastanza debole da cedere ad un’ influenza, ma abbastanza forte da non cedere all’improvviso. Il tessuto nervoso sembra dotato in misura straordinaria di questo tipo di plasticità, cosicché possiamo stabilire […] che negli esseri viventi i fenomeni di abitudine sono dovuti alla plasticità dei materiali organici di cui sono composti i loro corpi.[/blockquote]

Nei decenni successivi, inoltre, la ricerca ha permesso di evidenziare che il cervello è dotato di una plasticità ancora maggiore di quella che James sospettasse: per esempio l’esperienza visiva dei gatti in via di sviluppo dirige la formazione di connessioni nel cervello (Cabelli et all, 1995); l’apprendimento di un compito in una lumaca di mare rafforza la connessione tra due neuroni specifici (Bailey e Chen, 1988).

Nel corso degli anni la scoperta della formazione di nuove cellule nervose nel cervello adulto ha letteralmente sovvertito il dogma vigente in passato.
L’affascinante caratteristica della plasticità neurale intriga gli sfaccettati ambiti della psicologia. L’interesse degli psicologi è rivolto al modo in cui l’esperienza modifica fisicamente il cervello e di conseguenza il comportamento futuro.
L’importante massa di informazioni circa i fenomeni di plasticità è stata fornita, negli anni, da numerosi studi condotti sia in assenza che in presenza di una lesione encefalica o periferica.
Tale fenomeno infatti risulta essere di primaria importanza per spiegare, ad esempio, la tendenza dei deficit neurologici conseguenti a lesione cerebrale a carattere non evolutivo a regredire nel tempo, sia spontaneamente che in seguito ad interventi neuro riabilitativi.

Meccanismi alla base della plasticità neurale

Il termine plasticità viene utilizzato in riferimento a fenomeni molto eterogenei.

  • Neurogenesi
    Con il termine neurogenesi ci si riferisce alla formazione di nuove cellule nervose nel cervello adulto (Gage, 2002). Questo fenomeno avviene in particolare in due aree: l’ippocampo e la zona subventricolare.
    La neurogenesi è resa possibile dalle cellule staminali, cellule primitive non specializzate capaci di trasformarsi in qualsiasi altro tipo di cellula. Le cellule staminali dette ‘pluripotenti’, ad esempio, possono dare origine a più popolazioni cellulari specifiche di un tessuto. In questo caso, quindi, cellule staminali del tessuto nervoso possono originare solo cellule nervose.
  • Sprouting
    Con il termine sprouting (germogliazione) ci si riferisce a quel fenomeno caratterizzato dall’aumento dei collaterali assonici (parte terminale delle cellule nervose tramite i quali gli impulsi vengono inviati da un neurone all’altro) con conseguente formazione di nuove sinapsi (connessioni tra le cellule nervose). In presenza di un danno cerebrale, i neuroni sopravvissuti in prossimità della lesione, ad esempio, emettono ‘germogli’ cosicché le fibre nervose crescano e raggiungano nuove terminazioni nervose.
  • Rimappaggio corticale dopo una lesione periferica
    A seguito di una lesione di un nervo di senso o di un amputamento di una parte del corpo si depriva selettivamente la sua rappresentazione corticale. L’area corticale deprivata dalla stimolazione originaria si riorganizza in modo da diventare area di rappresentazione corticale delle aree corporee adiacenti. Il fenomeno dell’arto fantasma è un esempio di rimappaggio corticale a seguito di una lesione periferica.
  • Modificabilità della trasmissione sinaptica
    Attraverso la trasmissione sinaptica l’impulso nervoso viaggia da un neurone all’altro tramite il rilascio di uno specifico neurotrasmettitore. Questo viene rilasciato da un neurone, chiamato presinaptico, ed entra in contatto con un secondo neurone, chiamato postsinaptico.
    La plasticità neurale si può tradurre in due tipi di modifiche che riguardano la trasmissione sinaptica. Può, infatti, variare la quantità di neurotrasmettitore liberato nella sinapsi (cambiamento funzionale), o può modificarsi la struttura dell’elemento presinaptico e/o postsinaptico (cambiamento morfologico)

Metodi di indagine

Dagli anni ’60 in poi, la ricerca negli ambiti delle scienze cognitive si è avvalsa di tecniche di indagine sempre più sofisticate per indagare l’attività cerebrale associata ai processi sensoriali, motori e cognitivi. Queste tecniche comprendono la registrazione dei Potenziali Relati ad Eventi (Event-Related Potentials, ERPs), la Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron Emission Tomography, PET) e la Risonanza Magnetica Funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI)

  • ERPs
    Gli ERPs rappresentano i cambiamenti nell’attività elettrica cerebrale temporaneamente associati alla presentazione di un evento (es. comparsa di uno stimolo).
    A livello neurofisiologico, si ritiene che gli ERPs riflettano l’attività elettrica delle popolazioni di neuroni delle varie strutture cerebrali.
  • PET
    La PET consente di creare delle immagini tridimensionali rappresentanti la quantità di sangue passata in un dato punto del cervello (flusso cerebrale ematico). Dal momento che un’elevata attività sinaptica si associa ad un aumento della domanda energetica (glucosio e ossigeno), il segnale PET permette di misurare l’attività cerebrale.
  • fMRI
    La fMRi, come la PET, permette di misurare indirettamente l’attività neurale, sfruttando i cambiamenti di flusso ematico associati all’aumento del metabolismo a sua volta legato all’aumento dell’attività sinaptica.

Plasticità neurale e memoria

Molti studiosi sono convinti che, perché vi siano ricordi a lungo termine, siano necessari modificazioni talmente grandi nel sistema nervoso da risultare visibili al microscopio. Cambiamenti strutturali, in seguito all’esercizio, appaiano anche in altre parti del corpo. Ad esempio, in seguito all’esercizio fisico cambiano la massa e/o la forma dei muscoli e delle ossa. Allo stesso modo le sinapsi potrebbero aumentare o diminuire in funzione dell’addestramento. Ma non si possono considerare solo le sinapsi esistenti. L’addestramento può aumentare il numero di terminazioni della via che è stata usata oppure farsì che una via più utilizzata prenda il posto di altre meno utilizzate.
Le prime esperienze di elettrofisiologia dell’apprendimento hanno dimostrato che se, ad esempio, si stimola una radice dorsale del midollo spinale con impulsi elettrici ad alta frequenza e si registra la risposta riflessa dalla radice ventrale ad essa collegata da un’unica sinapsi, ci si accorge che a seguito di questa stimolazione la normale risposta è potenziata e che questo potenziamento permane nel tempo.

Un contributo interessante alla memoria biologica viene da esperimenti sul ‘potenziamento a lungo termine’ che consistono nel dare stimolazioni ripetute a delle strutture cerebrali, le quali potenziano le loro risposte per un lungo periodo di tempo come se avessero conservato “memoria” dello stimolo ricevuto. Le sinapsi, quindi, con ripetute stimolazioni, possono andare incontro a modificazioni strutturali permanenti sia per ipertrofia, creando nuove sinapsi per stimoli ripetuti, sia per atrofia, riducendo il numero delle sinapsi per mancanza di stimoli.
Kandel (2001) ha dimostrato che la dopamina, un neurotrasmettitore implicato nei processi attentivi, è in grado di facilitare la consolidazione di sinapsi specifiche implicate nei processi di memorizzazione, le quali condizionano a loro volta, la persistenza dell’informazione attraverso la plasticità.

L’interesse di Kandel alla plasticità neurale parte, quindi, da studi relativi ai processi di apprendimento e memoria che mettono in luce come sia possibile, in seguito ad esperienze ambientali e interpersonali, andare a modificare la struttura sinaptica dei neuroni.
Interessante notare che quasi tutti i comportamenti umani sono frutto di un processo di apprendimento. Anche quando compiamo azioni apparentemente automatiche, in realtà stiamo mettendo in atto un processo cognitivo complesso che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva attraverso il processo di memorizzazione.
La psicoterapia è anch’essa una forma di apprendimento per cui, alla luce di quanto detto, è ragionevole pensare che possa portare a una modifica dell’espressione genica e alterare cosi le connessioni sinaptiche.

Platicità neurale: Psicoterapia e cambiamento

Le neuroscienze avvicinandosi sempre di più a una maggiore e migliore conoscenza della mente e del cervello avvalorano sempre continuamente l’ipotesi che la psicoterapia sia uno dei modi migliori per esaminare, comprendere e modificare l’esperienza soggettiva dell’individuo.
La psicoterapia, infatti, si propone come strumento di cambiamento, necessario per l’acquisizione di nuove capacità e per il raggiungimento del benessere del paziente che manifesta un disagio. Tale processo di cambiamento si sviluppa all’interno di una relazione che coinvolge reciprocamente paziente e terapeuta, la cui finalità principale è quella di aiutare il soggetto in difficoltà a comprendere i propri meccanismi ed accompagnarlo in questo processo evolutivo in un contesto strutturato. Questo lavoro terapeutico si fonda sulla fiducia reciproca, sull’alleanza e tiene sempre in considerazione l’intersoggettività fra paziente e terapeuta.

L’obiettivo della terapia è quello del raggiungimento di un cambiamento positivo volto ad un divenire che permetta al paziente di acquisire maggiore consapevolezza di sé, del proprio modo di funzionare e delle proprie fragilità.
Questo tipo di cambiamento permette inoltre al soggetto di adattarsi alla propria condizione in termini di accettazione e superamento e quindi una modifica delle proprie strutture psichiche, del proprio modo di concepire la realtà, il mondo, se stessi e gli altri.
L’esperienza psicoterapeutica, attraverso questo scambio continuo tra terapeuta e paziente, rappresenta un’importante opportunità di ri-organizzazione della mente e del cervello che produce dunque una modificazione e la scoperta di nuovi funzionamenti.

Tutte le psicoterapie sono basate su processi di apprendimento e cambiamento, ma qui prenderemo in considerazione la terapia Cognitivo Comportamentale che è quella che maggiormente si è occupata di studiare i disturbi d’ansia e dell’umore e i cui risultati si sono rivelati efficaci al pari delle terapie farmacologiche.

Tale terapia si fonda sul presupposto che esista una stretta correlazione tra pensieri, emozioni e comportamenti e che il nostro malessere derivi da ciò che pensiamo e facciamo nel presente e dal modo in cui interpretiamo le varie situazioni dando significato agli eventi. Alla base di tale approccio vi è l’idea che esiste una relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti e sostiene che alla base dei disturbi vi siano delle credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, provocando sofferenza nel soggetto e che sono difficili da modificare poiché si basano su meccanismi di mantenimento.
Secondo tale teoria le persone cercano di dare un senso a ciò che le circonda interpretando e organizzando le varie esperienze. Durante tutto l’arco di vita le varie interpretazioni portano ad alcuni convincimenti e apprendimenti che sono più o meno funzionali alla persona e che possono portare a delle distorsioni cognitive che originano e mantengono il disturbo. Quindi non è l’evento in sé che genera malessere, ma il modo in cui esso viene interpretato e vissuto dal soggetto.

Il nostro pensiero si basa su tre livelli di cognizione:
– convinzioni profonde o schemi cognitivi, che sono delle strutture di base con cui la persona interpreta se stesso e gli altri e attraverso cui organizza il proprio pensiero. È una tendenza stabile ad attribuire un determinato significato ai vari eventi.
– convinzioni intermedie che sono interpretazioni su di sé, sugli altri e sul mondo tali da permettere di organizzare la propria esperienza, di prendere decisioni e orientarsi nelle varie relazioni. Esse sono costituite da regole, opinioni e assunzioni.
– pensieri automatici che sono le cognizioni più lontane dalla consapevolezza e da cui dipendono le emozioni.
Secondo tale modello le convinzioni profonde influenzano le convinzioni intermedie che, a loro volta, influenzeranno i pensieri automatici i quali interferiscono con lo stato emotivo della persona.

A partire da questi schemi cognitivi, l’individuo interpreta la realtà e le attribuisce un significato.
In base a tale teoria dunque non è la situazione a determinare direttamente ciò che sentiamo o come ci comportiamo, ma la nostra emozione dipende dal significato che attribuiamo all’evento o alla situazione. Pertanto una medesima situazione può essere vissuta in due modi diversi da due persone, portando quindi a differenti reazioni emotive e comportamentali.

Come già accennato questi pensieri sono direttamente collegati alle emozioni esperite, che di per sé non sono disfunzionali, ma lo diventano nella misura in cui il soggetto le percepisce come invalidanti. È quindi possibile spiegare le varie reazioni emotive e i comportamenti disfunzionali che ne conseguono con l’interpretazione personale degli eventi che si basa sui propri processi cognitivi.
Andando ad indagare, riconoscere e successivamente modificare i pensieri disfunzionali, è possibile produrre un cambiamento a livello emotivo e comportamentale. Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso 1) un metodo cognitivo che permette di andare a modificare i pensieri negativi che causano emozioni vissute come negative e invalidanti, e 2) un metodo comportamentale che ha lo scopo di modificare i comportamenti disadattivi a favore di nuovi comportamenti più funzionali.

Plasticità neurale e psicoterapia: le tecniche

La terapia Cognitivo Comportamentale è considerata un trattamento di provata efficacia nei Disturbi d’Ansia e nei Disturbi dell’Umore e mira a far apprendere nuove modalità comportamentali e cognitive.
Si avvale quindi, come già detto, di diverse tecniche che sono sia cognitive che comportamentali. Le prime sono volte alla ristrutturazione cognitiva vera e propria, attraverso un processo di analisi della correlazione pensiero disfunzionale – emozione. Le seconde sono relative a esercizi comportamentali, volti all’attivazione comportamentale, all’esercizio pratico e all’acquisizione di nuove strategie.

Nello specifico, attraverso un processo di ristrutturazione cognitiva è possibile modificare le convinzioni disfunzionali relative a se stessi e al mondo esterno. Questa tecnica consiste nell’esaminare i pensieri del soggetto in relazione alle proprie emozioni e comportamenti e serve ad aiutarlo a mettere in atto un processo di cambiamento tale per cui andrà a modificare il proprio modo di pensare e le reazioni ad esso collegate.
La tecnica più utilizzata in questo senso è quella dell’ABC, attraverso cui vengono analizzati e messi in relazione gli eventi, la loro interpretazione cognitiva (pensiero) e le reazioni emotive e comportamentali. Attraverso tale strumento è possibile identificare e riconoscere i pensieri che la persona formula sugli eventi che risultano essere disfunzionali e che creano disagio e sofferenza.

La tecnica di ristrutturazione cognitiva prevede che vengano messi in discussione i pensieri disfunzionali aiutando il paziente al riconoscimento del meccanismo che genera e mantiene l’emozione negativa e invalidante che produce sofferenza.
Tra le varie tecniche comportamentali, invece, nel trattamento dei Disturbi d’Ansia si fa spesso uso di tecniche di “esposizione”. Si tratta di esercizi in cui il paziente si sottopone volontariamente alla situazione problematica che genera ansia o paura. L’esposizione può avvenire in diversi modi:
– In immaginazione, in cui la situazione che genera ansia è visualizzata mentalmente;
– In simulata, in cui la situazione temuta viene messa in scena;
– In vivo, in cui la situazione fonte d’ansia viene vissuta pienamente nella condizione reale temuta.

Con l’aiuto del terapeuta è possibile per il paziente fare un’esperienza diversa, rispetto a quella fino ad ora vissuta, che possa aiutarlo a modificare le proprie convinzioni circa la situazione temuta e ridurre quindi l’ansia esperita.
Un’altra tecnica comportamentale utilizzata è quella della desensibilizzazione sistematica, che consiste nell’associare allo stimolo ansiogeno tecniche di rilassamento allo scopo di far estinguere la risposta d’ansia e di sostituirla con una risposta diversa, più funzionale. Insieme al terapeuta, il paziente immagina situazioni che provocano un livello minimo di ansia fino ad arrivare a quelle sempre più ansiogene, imparando a mantenere uno stato di rilassamento che può essere esteso a situazioni via via più generalizzate.

EMDR e plasticità neurale

Una tecnica recente, che affonda le sue radici nella terapia Cognitivo Comportamentale, ma da cui poi si è allontanata per incorporare strategie e conoscenze da anche altri ambiti, è l’EMDR, acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing (Desensibilizzazione e Riprocessamento attraverso i Movimenti Oculari). Attraverso tale tecnica si è scoperto come alcuni tipi di stimolazione esterna, in particolare oculare, possono aiutare una persona ad elaborare un evento traumatico. Con questa tecnica il paziente viene invitato a seguire il movimento della mano del terapeuta, mentre contemporaneamente è invitato a pensare all’evento traumatico. Ciò permette di riprendere o accelerare l’elaborazione delle informazioni contenute nel cervello relativamente al trauma subito. Lo scopo dell’approccio EMDR alla psicoterapia è quello di facilitare la guarigione del paziente e il superamento del trauma attraverso il riprocessamento dei ricordi ed è particolarmente utile nel Disturbo Post Traumatico da Stress.

La psicoterapia cognitiva e comportamentale agisce quindi su emozioni, schemi e comportamenti. Spesso i pazienti mettono in atto strategie dannose in presenza di emozioni forti e apparentemente non regolabili, nel tentativo di gestire un’ attivazione emotiva vissuta soggettivamente come terribile e incontrollabile. Gli eventi influenzano le nostre emozioni ma sono poi i nostri pensieri che determinano la loro intensità e la loro durata.
Secondo la psicoterapia cognitivo-comportamentale la sofferenza nasce quando le emozioni dolorose (es. ansia, rabbia, vergogna, depressione, colpa) diventano talmente intense e invadenti nella vita del soggetto tale per cui questo esperisce la sensazione di esserne sopraffatto. Per regolarne l’intensità vengono messi in atto comportamenti disfunzionali che nell’immediato possono dare un sollievo apparente ma che si rivelano controproducenti e dannosi. Grazie ad un percorso psicoterapico il paziente diviene consapevole degli schemi che lo guidano, dei pensieri che sottendono certi comportamenti e man mano che aumenta la consapevolezza aumenta la capacità di controllo delle emozioni negative, che restano, ma in modo molto meno intenso e duraturo, tornando a svolgere la loro funzione adattiva nella vita quotidiana.

Plasticità neurale, cambiamenti cerebrali e psicoterapia

Come abbiamo detto, è fatto ormai evidente che qualsiasi processo mentale intrapsichico o relazionale deriva da meccanismi che avvengono a livello neuronale nel cervello e che, viceversa, qualsiasi esperienza che facciamo, ogni cambiamento dei nostri processi psicologici e cognitivi modifica plasticamente le strutture anatomiche cerebrali corrispondenti. Sono state ampiamente superate posizioni riduzionistiche e dualistiche del passato secondo cui la psicoterapia va bene solo per un problema a base psicologica, ma se il problema deriva da uno squilibrio di sostanze cerebrali, allora solo i farmaci possono essere d’aiuto.
Ciò significa che ciascun cambiamento nei nostri processi psicologici si riflette in uno o più cambiamenti nel funzionamento o nelle strutture del cervello e che la psicoterapia produce modificazioni osservabili sul cervello.

Come è possibile che la “cura parlata” modifichi il cervello?

La psicoterapia genera l’apprendimento di nuovi modi alternativi di pensare e comportarsi. Tutto questo è stato ben spiegato da Eric Kandel, psichiatra statunitense premio Nobel per la medicina e la fisiologia che considera la psicoterapia  un vero e proprio trattamento biologico. L’apprendimento genera nel cervello nuove condizioni, modifica l’encefalo producendo un rafforzamento delle sinapsi, ossia delle interconnessioni dei neuroni.
Le connessioni sinaptiche possono essere modificate in modo stabile dalle nuove esperienze.

Il nostro cervello è suscettibile di modificazioni. Una delle scoperte più importanti relative agli studi sulla plasticità è stata la dimostrazione che le esperienze, il pensiero, la memoria e l’apprendimento sono in grado di andare a modificare la nostra struttura cerebrale. La mente umana si forma grazie all’interazione tra processi neurofisiologici ed esperienze vissute.
La convinzione di base è che la comprensione dei processi biologici dell’apprendimento e della memoria rendano possibile capire il comportamento e la sintomatologia psicologica e psichiatrica. La psicoterapia, può produrre dei cambiamenti attraverso l’apprendimento, alterando la forza delle sinapsi tra i neuroni modificando in modo stabile il cervello, una vera e propria cura biologica che produce modifiche del comportamento attraverso nuove esperienze e nuovi apprendimenti che cambiano in modo evidente le connessioni sinaptiche e causano modifiche strutturali  cerebrali che a loro volta agiscono sull’interconnessione delle cellule nervose.

Plasticità neurale: dai cambiamenti del cervello ai meccanismi della psicoterapia.

La psicoterapia è volta a modificare e migliorare nel paziente la capacità di autoregolazione emotiva, la capacità di problem solving, l’autopercezione, gli schemi disfunzionali che contribuiscono a generare e mantenere il problema, le competenze metacognitive. Tutte queste abilità implicano l’attivazione di diverse aree della corteccia prefrontale, deputata alla regolazione dei pensieri e al controllo cognitivo (Frewen et al. 2008).
Si può ipotizzare, ad esempio, che il meccanismo alla base dell’efficacia della terapia cognitiva per pazienti con depressione maggiore sia un aumento della funzione regolatrice della corteccia prefrontale connessa con il controllo cognitivo delle emozioni (azione di tipo “top-down”).

Analoghe considerazioni possono essere fatte per i confronti fatti su pazienti con disturbo di panico (Beutel et al., 2010) e per pazienti con disturbo bordeline di personalità trattati con DBT (Schnell e Herpertz, 2007).
La pratica psicoterapica può essere vista come un modo di riorganizzare l’assetto delle connessioni: la terapia, grazie ai meccanismi su cui si basa, produrrebbe un potenziamento sinaptico della funzione di controllo inibente della corteccia sull’amigdala (LeDoux 1996).  L’amigdala ha un ruolo fondamentale nel sistema di allarme del cervello per questo è in grado di prevaricare il lobo prefrontale (in cui ha sede la razionalità) per far fronte al pericolo reale o supposto. Informazioni che segnalano la presenza di stimoli pericolosi dall’ambiente raggiungono l’amigdala attraverso percorsi velocissimi e diretti provenienti dal talamo (strada bassa) e poi da percorsi più lenti e coscienti che vanno dal talamo alla corteccia all’amigdala (strada alta). La strada bassa non potendo sfruttare l’elaborazione corticale (cognitiva) fornisce all’amigdala solo una rappresentazione essenziale dello stimolo permettendo di innescare una risposta meramente emotiva e consentendo al cervello di cominciare a rispondere al possibile pericolo.

Un’elaborazione più dettagliata arriva dalla strada alta attraverso cui le informazioni arrivano all’ippocampo e alla corteccia prefrontale. L’ippocampo riveste un ruolo importante nel compiere confronti con le nostre esperienze passate ed è in grado di fornire informazioni contestuali. La corteccia prefrontale rappresenta una sorta di sistema di regolazione delle emozioni automatiche della paura. Qui vengono integrate tutte le informazioni sensoriali, emozionali, culturali e personali in modo più consapevole.

Inoltre, le emozioni rilasciano nel corpo ormoni e altre sostanze a lunga durata, che tornano al cervello e tendono a bloccarlo in quello stato di attivazione: per questo è difficile per la corteccia prefrontale riuscire ad inibire l’amigdala. L’amigdala può, quindi, controllare con grande facilità la corteccia, poichè le basta eccitare una serie di aree cerebrali in modo non specifico per determinare un alto livello di attivazione; la corteccia al contrario non può fare lo stesso con l’amigdala (LeDoux, 1996). Ecco perché le emozioni sono difficili da “controllare” quando entrano in gioco. Ed è proprio su questi aspetti che agisce la psicoterapia.

Le esperienze lasciano segni duraturi su di noi, in quanto sono immagazzinate come memorie all’interno dei circuiti sinaptici e, dal momento che la terapia stessa rappresenta un’esperienza di apprendimento, essa implica anche dei cambiamenti nelle connessioni sinaptiche.
Dunque, circuiti cerebrali ed esperienze psicologiche non sono cose distinte, ma due diverse modalità per descrivere la medesima cosa.
La psicoterapia è di fatto un processo di apprendimento per i suoi pazienti e come tale un modo di cambiare l’assetto delle connessioni cerebrali: è in tal senso, che la psicoterapia usa meccanismi biologici per curare i disturbi psichici. Le difficoltà di regolazione emotiva potrebbero essere anche legate, quindi, a differenze funzionali di processazione emozionale da parte della corteccia sull’amigdala. Di conseguenza, il lavoro terapeutico potrebbe basarsi sulla necessità di aumentare la capacità della corteccia di influire in modo significativo, riuscendo a contestualizzare in modo adeguato l’esperienza affettiva, aumentando la capacità di simbolizzazione e diminuendo stati affettivi troppo intensi connessi a certe esperienze. Si rende così possibile una maggiore libertà da parte del cervello corticale di elaborare cognitivamente ed influenzare le successive esperienze affettive.
Fondare la psicoterapia su basi scientifiche ed esplorare le sue implicazioni sul piano biologico permette di individuare le forme di psicoterapia più efficaci per le diverse categorie di pazienti.
Viene a delinearsi la necessità di un’ apertura nei confronti di una ricerca multidisciplinare integrata, che apra all’elaborazione di modelli sempre più complessi ed efficaci su cui fondare trattamenti evidence-based.

Plasticità neurale: gli studi sugli effetti della psicoterapia a livello cerebrale

Il primo studio in questo senso risale al 1992. Venne comparata, su pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, terapia farmacologica con fluoxetina e terapia comportamentale dimostrando cambiamenti analoghi a livello di strutture cerebrali.
A questo hanno fatto seguito numerosi altri studi condotti utilizzando tecniche di neuroimaging che hanno evidenziato come la psicoterapia produca una modificazione delle funzioni cerebrali in pazienti con ansia sociale, disturbo di panico, fobie specifiche, disturbo post traumatico da stress, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo depressivo maggiore e disturbo borderline di personalità (Karlsson, 2011).

Negli studi in cui si sono confrontati i cambiamenti neurobiologici indotti da un trattamento psicologico e quelli prodotti da una terapia farmacologica è emerso che la psicoterapia e il farmaco sono entrambi efficaci nella cura delle diverse patologie psichiche indagate, ossia sono entrambe in grado di indurre un significativo miglioramento clinico nei soggetti in questione, e che tali modalità di trattamento agiscono entrambe a livello cerebrale, modificando l’attività neuronale delle stesse aree del cervello e, a livello neurobiologico, inducendo un uguale cambiamento di alcuni parametri biologici come di determinati fattori neuroendocrini (Baxter, Schwartz et al. 1992).

In particolare, i disturbi d’ansia e dell’umore sono associati a cambiamenti funzionali del cervello che coinvolgono il “circuito della paura” che include la corteccia prefrontale, l’ippocampo e l’amigdala. I pazienti che soffrono di disturbi d’ansia e depressione maggiore mostrano spesso un’eccessiva attivazione dell’ amigdala e un ridotto funzionamento della corteccia prefrontale.
La psicoterapia favorisce una normalizzazione funzionale di tale circuito determinando un incremento dell’attivazione prefrontale e della sua attività inibitoria sull’amigdala. (Quide et al. 2013).
Ad esempio è stato dimostrato che dopo un trattamento del disturbo di panico tramite CBT c’è una ridotta attivazione per la risposta condizionata alla paura a livello prefrontale correlata con una riduzione di sintomi agorafobici e una maggiore connettività tra le regioni prefrontali e le regioni del circuito della paura a dimostrazione del legame tra i correlati cerebrali cognitivi (corteccia prefrontale) ed emotivi (amigdala) (Kircher et al.2013).

Una riduzione dell’attivazione e una normalizzazione della rete della paura è stata dimostrata anche dopo trattamenti CBT di fobie specifiche (Schienle et al. 2014) e Fobia Sociale (Furmark et al. 2002).
La maggior parte di questi studi ha dimostrato effetti di cambiamento a livello cerebrale analoghi alla terapia farmacologica ma alcuni hanno anche evidenziato come le modifiche non sempre avvenissero a carico delle stesse strutture per la terapia farmacologica e quella psicoterapica. Ad esempio è stato ipotizzato che, mentre il meccanismo alla base dell’efficacia della terapia cognitiva sia un aumento della funzione regolatrice della corteccia prefrontale connessa con il controllo cognitivo delle emozioni, gli antidepressivi agiscano in modo più diretto ed indiscriminato sull’amigdala coinvolta nella generazione di emozioni negative (Karlsson, 2011).

Indagini di neuroimaging sugli effetti della psicoterapia nel trattamento del disturbo post-traumatico da stress (PTSD), tramite l’EMDR hanno riportato evidenze sulle modifiche del flusso ematico cerebrale (PET), del volume e densità neuronale (RM) nonchè del segnale elettrico cerebrale (EEG). I cambiamenti neurobiologici correlati all’EMDR sono stati monitorati durante la terapia stessa e si è evidenziato uno spostamento dell’ attivazione massima dal sistema limbico “emotivo” a regioni corticali “cognitive”. Sono stati riportati cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo l’EMDR la prima forma di psicoterapia con un effetto neurobiologico comprovato. (Pagani et al. 2013).
La rilevanza di questi studi è indubbiamente legata al valore della ricerca evidence based in terapia. In questo modo è possibile comprendere accuratamente i meccanismi di azione alla base di uno o più modelli terapeutici in modo da poterli confrontare, modificare e migliorare alla luce dei paradigmi e delle teorie psicologiche alla base di ciascun modello.

Conclusioni

La psicoterapia, quindi, non è solo un efficace trattamento psicologico, capace di indurre dei significativi cambiamenti nella sfera intrapsichica e relazionale dei soggetti affetti da un disturbo. La psicoterapia apporta dei significativi cambiamenti nell’attività funzionale del cervello alterando l’espressione dei geni che producono cambiamenti nell’attività funzionale di alcune aree del cervello (Kandel, 1999). Questi cambiamenti cerebrali sono correlati al miglioramento sintomatologico di tali soggetti, per cui solo quando alla fine di un periodo di trattamento psicologico si osserva una significativa riduzione dei sintomi clinici è rinvenibile un cambiamento significativo dell’attività funzionale del cervello (Wykes-Brammer-Mellers et al. 2002). Questi cambiamenti strettamente correlati agli esiti terapeutici sono localizzati nei lobi frontali.

La psicoterapia è un’opportunità di apprendimento relazionale. Attraverso l’instaurarsi di una relazione cooperativa e correttiva può agire nelle sinapsi attraverso la sua azione sui geni e rendersi quindi responsabile di trasformazioni “plastiche” quali basi anatomofunzionali di cambiamenti nella personalità. L’ambiente è fondamentale nell’attivare o rendere silente la trascrizione genica di alcune parti di cromosomi. La terapia della parola crea una condizione di plasticità neuronale e sinaptica quale base organica per la memorizzazione di una esperienza correttiva che accade all’interno del setting terapeutico.

La rilevanza degli studi in questo senso, come anche precedentemente riportato, è indubbiamente legata al valore della ricerca evidence based in terapia. In questo modo è possibile comprendere accuratamente i meccanismi di azione alla base di uno o più modelli terapeutici in modo da poterli confrontare, modificare e migliorare sulla base di riscontri oggettivi che mettano in evidenza il parallelismo tra il cambiamento del funzionamento “psicologico” e “biologico”.

Attualmente la psicoterapia cognitivo-comportamentale è considerata uno dei modelli più efficaci per il trattamento dei disturbi psicopatologici ed è sostenuta da prove di efficacia e validità secondo la Evidence Based Medicine. Il parallelismo sopra descritto all’interno di una cornice cognitiva si delinea nel corso di una terapia che permette di imparare a regolare e gestire un’ attivazione emotiva vissuta come incontrollabile. L’acquisizione di una maggior consapevolezza sul proprio funzionamento e la sostituzione di pensieri automatici e ricorrenti e schemi disfunzionali d’interpretazione della realtà con schemi flessibili e funzionali amplia la capacità di controllo delle emozioni negative e in generale il range di scelta nei comportamenti della nostra vita perché, come ci insegnano le neuroscienze, il cervello cognitivo impara a dominare su quello emotivo.

La memoria autobiografica – Introduzione alla Psicologia Nr. 29

La memoria autobiografica organizza quell’ insieme di conoscenze dichiarative riguardanti i fatti e gli episodi della vita personale in relazione a schemi o percorsi di significato, impliciti o espliciti, consapevoli o inconsci.
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 29)

 

La scorsa settimana su questa rubrica abbiamo parlato delle differenze tra memoria semantica e memoria episodica (NdR).

 

Introduzione

Cosa giunge alla vostra mente nel momento in cui vi dico di pensare alla parola casa?
Sicuramente, delle immagini o dei ricordi che in qualche modo hanno qualcosa in comune con questa parola e che ricordano eventi di vita vissuta. Secondo Galton (1893) il bagaglio di conoscenza in nostra possesso, che deriva da storia di vita vissuta, è immagazzinata all’interno della la memoria autobiografica.

Memoria autobiografica: che cos’è

La memoria autobiografica, dunque, immagazzina fatti e eventi accaduti alla persona in relazione a schemi o percorsi di significato, impliciti o espliciti, consapevoli o inconsci. La memoria autobiografica unifica consapevolmente le diverse esperienze di vita accumunandole da un significato comune, coerente tra i diversi ricordi facenti parte della stessa categoria. L’insieme di tutte queste informazioni costituisce il bagaglio di conoscenza che ognuno di noi possiede e che dipende, sostanzialmente, dalle esperienze effettuate.

Tracce mnestiche riguardanti situazioni accadute lontano nel tempo possono essere vivide alla nostra memoria. Questo accade perché i ricordi sono inglobati in una rete di significati più ampia che riguarda la conoscenza di noi, del mondo e delle relazioni sociali. Il ricordo, dunque, dopo essere stato rielaborato sarà inglobato all’interno di una di queste categorie. La nitidezza del ricordo è dettata dal significato emotivo o comportamentale a esso correlato. .

Per concludere, tutti costruiamo significati di esperienze vissute dotandoli di significato, legandoli ad aree che permettono di includere il ricordo e classificarlo in una rete di ricordi correlati a emozioni o a comportamenti significativi per l’individuo.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La schizofrenia e l’autoreferenzialità nella percezione dei segnali sociali

Gli individui affetti da schizofrenia presentano dei movimenti facciali meno variabili e complessi, una minore coordinazione tra i movimenti facciali e il discorso e un minor numero di gesti manuali rispetto sia ai soggetti sani sia ai pazienti depressi; inoltre i pazienti psicotici hanno una minore capacità imitativa e, pur essendo in grado di identificare i gesti archetipici tendono a giudicare comunicativi dei gesti che in realtà sono accidentali.

È largamente noto che una delle limitazioni che caratterizza i pazienti schizofrenici riguarda la cognizione sociale e la comunicazione interpersonale, cioè la capacità di esprimere in modo comprensibile le proprie intenzioni ed inferire quelle degli altri; queste difficoltà spesso precedono la comparsa dei sintomi positivi e sono peggiorate dal fatto che questi pazienti hanno delle relazioni sociali molto limitate così come dei bassi tassi occupazionali.

Tuttavia mentre la comunicazione verbale è stata largamente studiata, poche ricerche si sono occupate di quella non verbale che è altrettanto importante dato che la postura, i gesti, i movimenti del corpo e l’espressione facciale, mediano anch’essi l’interazione interpersonale soprattutto quando sono presenti delle difficoltà linguistiche a causa di fattori situazionali o personali. In particolare, gli individui affetti da schizofrenia presentano dei movimenti facciali meno variabili e complessi, una minore coordinazione tra i movimenti facciali e il discorso e un minor numero di gesti manuali rispetto sia ai soggetti sani sia ai pazienti depressi; inoltre i pazienti psicotici hanno una minore capacità imitativa e, pur essendo in grado di identificare i gesti archetipici tendono a giudicare comunicativi dei gesti che in realtà sono accidentali.

Quest’ultimo aspetto, cioè pensare che gli eventi ambientali siano rivolti a se stessi quando in realtà non lo sono, può essere considerato un bias di autoreferenzialità che è tipico dei pazienti che presentano deliri e che è particolarmente importante, dato che comprendere chi è il destinatario di una comunicazione guida il modo e la maniera in cui il soggetto agisce sul messaggio che sta trasmettendo. Il bias di autoreferenzialità può essere la conseguenza di una disfunzione a livello percettivo come la perdita di acuità visiva, uditiva o di un’esperienza allucinatoria, a livello cognitivo come processi attentivi o di analisi del contesto poco adeguati, oppure a livello metacognitivo.

Lo studio presente si è quindi posto l’obiettivo di indagare come i pazienti schizofrenici percepiscono i gesti che osservano, basando l’analisi sul livello meramente percettivo, cioè il riconoscimento del gesto, sul livello contestuale e sul livello metacognitivo che è particolarmente interessante in quanto ricerche recenti hanno mostrato che alcuni dei substrati anatomici che mediano i processi metacognitivi sono anche alla base della cognizione sociale.

In particolare il fatto che i precedenti studi non abbiano riscontrato alcuna differenza tra i pazienti con schizofrenia e i soggetti sani nella sensibilità con cui viene riconosciuto il gesto ha guidato l’ipotesi secondo cui i pazienti psicotici sono in grado di identificare senza problemi i gesti archetipici; secondariamente i ricercatori hanno ipotizzato che gli individui affetti da schizofrenia, a differenza dei controlli, sono più in difficoltà quando devono modificare la comprensione del gesto in base alle informazioni contestuali cioè, a causa del bias di autoreferenzialità, tenderebbero a considerare i gesti come sempre rivolti a se stessi nonostante le evidenze esterne; infine si è ipotizzato che le valutazioni metacognitive dei pazienti schizofrenici siano meno accurate rispetto a quelle dei soggetti sani.

La ricerca ha quindi considerato 29 individui affetti da schizofrenia o da disturbo schizoaffettivo e 25 soggetti sani, sottoponendoli alla visione di un video di tre secondi in cui un attore riproduceva movimenti accidentali o gesti comunicativi; entrambi i tipi di azione potevano essere completamente rivolti all’osservatore, ambigui cioè alcuni indizi non verbali venivano diretti all’osservatore mentre altri no o completamente non rivolti all’osservatore. Al termine dei video i partecipanti, attraverso un compito a scelta forzata, dovevano indicare che tipo di gesto avevano visto e l’accuratezza della loro risposta; infine veniva chiesto loro di giudicare se si consideravano o meno i destinatari dei movimenti osservati e ancora una volta valutare l’affidabilità del loro giudizio.

I risultati hanno mostrato che i pazienti schizofrenici riescono a comprendere il significato dei gesti allo stesso modo dei soggetti sani, tuttavia rispetto ai controlli essi tendono a considerarsi i destinatari dei gesti ambigui e di quelli che in realtà non sono rivolti a loro. Ciò farebbe pensare ad un’organizzazione modulare della mente, in quanto nei pazienti schizofrenici sarebbe preservata la capacità di inferire informazioni a partire da messaggi comunicativi di basso livello ma mancherebbe l’abilità di tenere conto degli indizi contestuali. I ricercatori hanno ipotizzato che questa condizione potrebbe essere la conseguenza di un disturbo della teoria della mente o della memoria di lavoro, oppure l’esito di un deficit percettivo, infatti i pazienti psicotici presentano delle particolari alterazioni a livello della via dorsale che è implicata nell’elaborazione di caratteristiche globali.

Questa ipotesi potrebbe essere supportata anche dall’evidenza che i soggetti schizofrenici rispetto a quelli sani fanno più fatica ad integrare le informazioni locali all’ interno dello spazio o a concentrarsi su alcuni stimoli target quando essi sono presentati tra tanti distrattori. Inoltre, a fronte della buona capacità di riconoscere i gesti, è stato possibile osservare delle difficoltà nell’esprimere autogiudizi e nel determinare l’accuratezza delle proprie risposte, dimostrando che nei pazienti il problema non è relativo al sistema specchio quanto piuttosto alle capacità di monitoraggio. A differenza degli studi precedenti invece la ricerca presente non ha osservato alcuna associazione tra la gravità dei deliri, la percezione dei gesti e la loro rappresentazione metacognitiva.

Quindi in conclusione lo studio ha osservato che i pazienti schizofrenici sono in grado di codificare i gesti che osservano ma, a causa del bias di autoreferenzialità, tendono a considerarli sempre come rivolti a se stessi e ciò può ulteriormente compromettere i loro scambi interpersonali; per questo degli interventi psicoterapeutici comportamentali sarebbero particolarmente auspicabili.

 

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Riconoscere la voce delle emozioni: deficitarietà nella schizofrenia

BIBLIOGRAFIA:

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