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Premio 2015: Racconta la tua tesi e vinci una borsa di studio

Sigmund Freud University Milano 

LOGO SFU MILANO 2015

in collaborazione con

 State of Mind

 Presentano:

 Premio 2015: Racconta la tua tesi

(Un progetto di divulgazione scientifica)

 

Racconta in un video di 90 secondi i contenuti chiave della la tua tesi di Laurea Triennale e vinci una borsa di studio per la Laurea Magistrale in Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University. 

 SCADENZA PER LE ISCRIZIONI: 25 Ottobre 2015

 

COME PARTECIPARE:

Possono partecipare tutti gli studenti in possesso di laurea in Psicologia conseguita negli anni 2014 e 2015 a seguito della frequenza di un Corso di Laurea Triennale Classe L – 24.

 

Formati e modalità di invio:

  • Durata massima del video: 90 secondi
  • Grandezza massima del file: 1 gigabyte
  • Formati ammessi: mp4, mpeg-4, mov, avi, wmv, flv
  • Invio: i file dei video devono essere inviati tramite il servizio gratuito wetransfer.com alla casella di posta  [email protected]
  • Riferimenti: all’interno del messaggio inserire sempre: NOME, COGNOME, DATA DI NASCITA, DATA DI DISCUSSIONE DELLA TESI, ATENEO, TITOLO DELLA TESI, NOME DEL RELATORE.

 

Valutazione dei lavori:

La giuria, composta dal Consiglio del Corso di Laurea Magistrale di Psicologia della Sigmund Freud University Milano, valuterà i video inviati e nominerà i vincitori.

Una selezione dei video inviati dai partecipanti al concorso sarà pubblicata su State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche.

 

Criteri di Valutazione:

  • Qualità del video.
  • Chiarezza dell’esposizione.
  • Scientificità della tesi di laurea.
  • Originalità.

I risultati del concorso saranno resi pubblici il 30 ottobre 2015 

 

PREMI:

Il primo classificato riceverà una borsa di studio per l’esonero totale dalla retta annua base* di ammissione al Corso di Laurea Magistrale in Psicologia.

Il Secondo classificato riceverà una borsa di studio per l’esonero dal 50% della retta annua base* di ammissione al Corso di Laurea Magistrale in Psicologia.

Il terzo classificato riceverà una borsa di studio per l’esonero dal 30% della retta annua base* di ammissione al Corso di Laurea Magistrale in Psicologia.

 

RINNOVO DELLE BORSE DI STUDIO PER IL SECONDO ANNO

La borsa ottenuta per l’a.a. 2015/2016 potrà essere confermata per il secondo anno di corso a condizione che lo studente al termine della sessione autunnale degli esami di profitto del primo anno sia in regola con gli esami previsti dal piano di studi e abbia conseguito una votazione media ponderata non inferiore a 27/30.

 

* Retta annua, composizione e calcolo

La retta annua si compone di una Base e di un Contributo dipendente dal reddito.

Per il Corso di Laurea Magistrale che inizia con l’anno accademico 2015/2016 e terminerà con l’anno accademico 2016/2017 la Base della retta annua è di Euro 5.400.

Il Contributo dipendente dal reddito è un contributo variabile da zero a un massimo di Euro 2.000 per gli studenti che presentano all’atto dell’iscrizione un attestato del proprio reddito famigliare (1) da cui risulti un reddito annuo inferiore a 70.000 Euro. Per tutti gli altri studenti il Contributo è di Euro 2.500.

Il Contributo dipendente dal reddito si determina come segue:

Reddito fino a €Euro 25.000:   zero

Reddito da Euro 25.001 a 40.000: Euro 1.200

Reddito da Euro 40.001 a 70.000: Euro 2.000

Reddito oltre Euro 70.001: Euro 2.500

 

Di conseguenza la retta annua del Corso Biennale (Master) varia da Euro 5.400 a Euro 7.900.

____________________

Note: (1) L’attestato di riferimento è il certificato ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) rilasciato da INPS secondo quanto riportato in   ISEE.pdf

 

Altri documenti o modalità di attestazione del reddito saranno sottoposti alla valutazione insindacabile della Direzione.

Il ruolo dell’ambiente e delle capacità di segmentazione del discorso nello sviluppo linguistico del bambino

La presente ricerca ha considerato come le caratteristiche dell’input verbale e la segmentazione del discorso da parte dei bambini si pongono in relazione e come possono congiuntamente predire le future abilità linguistiche dei bambini.

Come è noto la maggior parte dei bambini acquisisce il linguaggio in modo molto efficiente in un breve lasso di tempo che corrisponde all’incirca al primo anno di vita, tuttavia alcuni bambini non sono così abili e attualmente non si è ancora in grado di stabilire quali siano le capacità di apprendimento di ciascuno. In particolare coloro che si sono occupati di queste tematiche hanno sottolineato soprattutto la capacità dei bambini di segmentare il discorso in singole parole e l’effetto della quantità e della natura dell’input linguistico rivolto ai bambini sulle loro future abilità verbali.

In realtà solo pochi di questi studi hanno esaminato questi due aspetti contemporaneamente, ignorando quindi una loro possibile interazione che potrebbe influenzare le acquisizioni linguistiche dei bambini, infatti da un lato l’input ambientale facilita l’apprendimento che a sua volta migliora la capacità di processare le informazioni linguistiche, dall’altro il fallimento nella capacità di segmentare il discorso può essere alla base di un ritardo specifico nell’acquisizione linguistica.

La presente ricerca quindi ha considerato come le caratteristiche dell’input verbale e la segmentazione del discorso da parte dei bambini si pongono in relazione e come possono congiuntamente predire le future abilità linguistiche dei bambini. Per quanto concerne in particolare l’input linguistico lo studio ha considerato le caratteristiche lessicali, osservando come l’uso di un lessico ricco da parte delle madri sia generalmente importante, come la ripetizione delle parole abbia un effetto soprattutto nel primo anno di vita e come invece la diversità delle parole sia importante solo successivamente.

La ricerca ha preso in esame 121 diadi madre-bambino coinvolgendole in un progetto longitudinale della durata di due anni, infatti i bambini sono stati testati all’età di 7-15 mesi con un compito di segmentazione e poi all’età di due anni quando sono state valutate le loro capacità linguistiche. Durante il compito di segmentazione i bambini venivano fatti sedere sulle gambe delle loro madri all’interno di una cabina; all’inizio del trial compariva un segnale luminoso e non appena i bambini rivolgevano lo sguardo verso di esso iniziava l’input linguistico che continuava fino a quando il bambino distoglieva lo sguardo per almeno due secondi consecutivi dalla luce.

Il compito di segmentazione prevedeva una fase di familiarizzazione e una fase test, durante la prima i bambini ascoltavano due parole che venivano ripetute per 30 secondi ciascuna, durante la seconda invece venivano fatte ascoltare delle frasi che contenevano le due parole familiari e due parole nuove; successivamente il tempo di ascolto delle frasi con le parole familiari veniva confrontato con il tempo di ascolto delle frasi con le parole nuove. Alla fine del compito di segmentazione alle madri veniva chiesto di giocare con i loro bambini per 15 minuti.

I risultati hanno confermato le ipotesi di ricerca, mostrando in primo luogo che la capacità di segmentare il discorso a 7-15 mesi può prevedere le future abilità linguistiche dei bambini a due anni di età, in particolare i ricercatori hanno osservato che sono le parole nuove del compito di segmentazione e non quelle familiari a determinare delle capacità verbali migliori. Tuttavia il fatto che nello studio presente i bambini sembrano preferire la novità potrebbe essere attribuito alle caratteristiche stesse del compito di segmentazione che, a differenza di quelli che sono stati usati nelle ricerche precedenti, è più semplice perché tutti i bambini sono sottoposti allo stesso tipo di compito e ascoltano parole monosillabiche pronunciate sempre dalla stessa voce.

In secondo luogo si è osservato che le abilità linguistiche a due anni di età sono più elevate nel caso dei bambini le cui madri fornivano un input linguistico ricco, differenziato e che tendevano a ripetere le parole; questo dato ha permesso di confermare l’ipotesi secondo cui la quantità e la natura dell’input linguistico materno che i bambini ricevono a 7-15 mesi predicono le capacità verbali a due anni di età. Inoltre, sia l’ input materno che la capacità di segmentazione valutati a 7-15 mesi, predicono congiuntamente le abilità linguistiche a due anni di età anche se poi si caratterizzano per effetti indipendenti.

Infine non si sono osservati effetti significativi né del genere dei bambini né del tipo di educazione ricevuta. Quindi lo studio in questione, nonostante i limiti che lo caratterizzano come il fatto di aver considerato solo bambini che presentano uno sviluppo linguistico tipico, sottolinea il ruolo critico sia delle abilità dei bambini che quello dell’ambiente, suggerendo ai genitori, agli insegnanti e a tutti coloro che si occupano di educazione come massimizzare le capacità si sviluppo dei più piccoli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’importanza dell’emisfero destro, la regressione in terapia & la Schema Therapy – Report dal Congresso Attaccamento e trauma 2015

L’intervento di Allan Schore è stato all’insegna di una rivincita dell’impulsivo emisfero destro rispetto all’analitico emisfero sinistro, sostenuta da una dettagliata disanima dei più recenti studi nell’ambito della neurobiologia interpersonale.

 

LEGGI I REPORT DELLA PRIMA GIORNATA E DELLA SECONDA GIORNATA 

Schore definisce l’emisfero destro come la sede di alcune tra le funzioni cognitive umane più raffinate: regolazione dello stress, intersoggettività, umorismo, empatia, compassione, moralità e creatività.
Al centro della competenza clinica e della pratica psicoterapeutica occorre pertanto collocare la capacità di potenziare l’elaborazione nell’emisfero destro, piuttosto che nel sinistro.

L’emisfero destro è sede dei processi creativi, primari, intuitivi, e analogici, che si trovano talvolta al di sotto del livello di coscienza, e considerando che i traumi relazionali precoci vengono impressi nel processo primario non verbale, è fondamentale che in terapia venga anche lasciato spazio a qualche “regressione controllata”, che permetta al materiale inconscio di esprimersi e di evocare preziosi insight.
Per regressione si intende una ripresa del contatto con gli stati precoci del corpo e del sé e con le prime forme di relazioni oggettuali; in terapia, paziente e terapeuta riattualizzano una relazione oggettuale patologica traumatica, una rappresentazione interattiva di un sé disregolato che interagisce con un oggetto non sintonizzato.

Nel paziente, la regressione a uno stato traumatico di arousal emotivo disregolante ha luogo nel cervello destro, poiché implica la riattualizzazione di una memoria implicita e procedurale dell’attaccamento precoce, e implica la comunicazione con l’originale oggetto di attaccamento.
Chiaro che la regressione in terapia deve essere adattiva e reciprocamente controllata, e non replicazione di un fallimento dei meccanismi inibitori corticali superiori, come spesso accade ad esempio ai pazienti con patologia bordeline.
A questo scopo, ci si aspetta che il cervello destro del terapeuta sia fonte di regolazione interattiva degli affetti disregolati del paziente.
A lungo termine e in ottica terapeutica, è importante sviluppare nei pazienti più fragili la capacità di regolare le proprie emozioni in maniera autonoma, implicita e automatica.

Grazie infatti agli enactment finalizzati alla riparazione e alla regolazione, il terapeuta può rafforzare il Sé integrato del paziente, il quale può poi inserire nella propria memoria autobiografica una nuova esperienza personale a cui accedere nelle situazioni pertinenti.
Il sistema di ampliamento della memoria autobiografica nel contesto terapeutico costituisce infatti il fondamento di una migliore competenza interpersonale, intesa come capacità di interagire e comunicare con gli altri, condividere il proprio punto di vista, comprendere le emozioni e opinioni altrui, collaborare con gli altri e risolvere i conflitti.

Eckhard Roediger ha presentato un modello di Schema Therapy interpersonale pensata per il trattamento delle difficoltà di coppia.
Si parte dall’assunto che la chimica degli schemi guida anche la scelta del partner, e che quindi ci ritroviamo spesso a sceglierci compagni che ci ricordano le prime persone significative di riferimento, con il rischio di riattivare nel rapporto adulto vecchi mode disadattavi.
L’intervento di schema therapy può essere effettuato sia con entrambi i partner che in sedute individuali, ma in quest’ultimo caso è comunque indispensabile ottenere l’appoggio del partner assente per il cambiamento, e occorre includerlo anche se solo tramite l’attività immaginativa.
Per la coppia è previsto anche un breve intervento di psicoeducazione su alcune tematiche rilevanti nei casi di difficoltà relazionali, ovvero gli stili di coping dominanti (resa come sottomissione, fuga come evitamento, attacco come dominanza o controllo), le quattro emozioni di base (Paura/Panico, Dolore, Disgusto/Irritazione e Rabbia) e i due sistemi sottostanti (attaccamento e assertività).

Alle coppie vengono inoltre assegnate le cosiddette “flashcards sul ciclo di mode” ossia delle griglie di automonitoraggio che ricordano un po’ gli ABC di matrice cognitivista, poiché i pazienti sono chiamati ad annotare le cause scatenanti degli episodi critici (A) la voce interiore (B) e la modalità di coping messa in atto (C) con in più un riferimento al bisogno di base trascurato e alla soluzione che metterebbe in pratica l’adulto sano.
Compatibile con l’impostazione cognitivista, anche l’assegnazione di una serie di compiti a casa, a metà strada tra la psicoterapia e il buon senso:

– Fermare gli scontri tra mode
– Compilare regolarmente le flashcards sul ciclo dei mode
– Allenare continuamente le abilità comunicative
– Dare feedback positivi al partner, almeno una volta al giorno
– Dedicare un pomeriggio alla coppia ogni settimana
– Prendere appuntamenti per attività congiunte
– Provare una riconnessione fisica
– Trascorrere periodicamente un week end libero da soli

A conclusione della mattinata Stephan Doering ha illustrato i principi fondamentali della psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP), approccio che vede nella relazione terapeutica la fonte più ricca di informazioni sul mondo interiore del paziente, in quanto il rapporto e gli affetti che ne emergono (le componenti del transfert e controtransfert) sono immediatamente osservabili e non inquinati dall’intellettualizzazione che può subire l’eventuale materiale storico rievocato in seduta.

In sintesi, il razionale della TFP prevede che:
– Le relazioni oggettuali precoci interiorizzate e scisse si riattivano all’interno della relazione di transfert tra paziente e terapeuta
– Il terapeuta osserva, identifica e dà un nome a questi pattern relazionali
– Si effettua un’interpretazione del transfert, tecnica base della TFP
– Il paziente riconosce le parti scisse del proprio sé, ne fa esperienza affettiva e ciò porta all’integrazione e al superamento della diffusione d’identità
– L’ integrazione dell’identità che ne consegue porta ad un miglioramento del funzionamento della personalità e ad una remissione dei sintomi.
Un approccio dall’impianto quindi fortemente analitico, ma sostenuto da studi clinici randomizzati che ne hanno dimostrato l’efficacia.

 

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Attaccamento e Trauma 2014

Attaccamento e Trauma 2015

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Schore A., I disturbi del sé. La disregolazione degli affetti. Astrolabio Ubaldini, 2010
  • Simeone-DiFrancesco C., Roediger E., Stevens B., Healing Relationships: Schema Therapy for Couples, Oxford. Wiley-Blackwell, 2014
  • Clarkin J.F., Yeomans F.E., Kernberg O.F., Psicoterapia delle personalità borderline, Raffello Cortina Editore, 2000

La strada verso casa: le relazioni fra sonno e memoria spaziale

Davide Di Vitantonio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il sonno REM in particolare avrebbe un ruolo determinante per la maturazione del sistema nervoso; infatti durante la fase REM si assiste ad un incremento dell’attività cerebrale.

Il sonno è definibile come uno stato comportamentale caratterizzato dalla sospensione temporanea dello stato di coscienza vigile. E’ un fenomeno biologico durante il quale si verifica la riduzione o la sospensione parziale del funzionamento dei centri nervosi con la conseguente diminuzione delle varie funzioni organiche: circolazione, respirazione, metabolismo e altre. Gli studiosi hanno evidenziato che il sonno non è uguale per tutta la sua durata ma è caratterizzato dalla presenza di due fasi principali: la fase Non-REM o sonno ortodosso, e la fase REM o sonno paradosso.

La fase non REM può essere suddivisa in quattro stadi, che segnano la progressiva discesa nel sonno profondo, caratterizzato da un abbassamento della temperatura corporea, un rallentamento del battito cardiaco e del respiro, il rilassamento della muscolatura e dalla comparsa di onde cerebrali (Theta, fusi del sonno e complessi K) più lunghe e meno rapide rispetto a quelle tipiche dello stato di veglia (Alfa e Beta). Lo stadio 4 è un sonno profondamente ristoratore ed è in questa fase che, secondo gli studi, il cervello libera gli ormoni della crescita. In questa fase è molto difficile svegliare una persona: è il momento, dell’interruzione dei collegamenti sensoriali con l’esterno.

La fase REM è definita sonno paradosso in quanto caratterizzata da eventi che denotano una situazione tutt’altro che tranquilla e rilassante, associabile all’idea canonica di riposo notturno. E’ in questa fase che le persone sognano. Il termine REM sta per Rapid Eye Moviment (movimenti rapidi degli occhi) ponendo l’attenzione sul fatto che in questa fase si assiste a bruschi movimenti degli occhi accompagnati da un aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria. Dalle rilevazioni riguardanti l’encefalogramma si rileva la comparsa di onde Delta, più “agitate” rispetto a quelle del sonno profondo, accompagnate da brevi apparizioni di onde Alfa e Beta, tipiche dello stato di veglia. In contrasto con l’aumentare dell’attività dei muscoli involontari (cuore e polmoni), i muscoli volontari vengono letteralmente paralizzati.

Quest’ultima fase descritta, la fase REM, è quella che al momento ci interessa di più per i seguenti motivi; nel corso della fase in questione, numerose ricerche hanno evidenziato come il sonno possa influenzare in senso sia positivo sia negativo i processi di memoria. Gli effetti positivi si rilevano soprattutto nelle ricerche che hanno mostrato un miglioramento del ricordo del materiale appreso se il soggetto dorme durante la fase di ritenzione, cioè tra la fine dell’apprendimento e il momento del controllo (sleep effect), oppure in quelle che hanno mostrato un’incapacità di ricordare il materiale appreso immediatamente dopo il risveglio (prior sleep effect), dopo un periodo di deprivazione di sonno (Jenkins & Dallenbach, 1924;; Ekstrand et al., 1977; Hockey et al., 1972).

Il sonno REM in particolare avrebbe un ruolo determinante per la maturazione del sistema nervoso; infatti durante la fase REM si assiste ad un incremento dell’attività cerebrale. In studi sperimentali uomini sottoposti a sessioni intensive di apprendimento presentavano un aumento significativo del sonno REM, espressione del processo di fissazione dei dati appresi. Dunque, come accennato sopra, le cavie sottoposte ad ipossia sviluppano deficit irreversibili di apprendimento, ivi compreso l’apprendimento visuospaziale.

Per quanto riguarda nello specifico la fase REM, o sonno paradosso, verrebbe naturale chiedersi perché si sogni: precedentemente si è esposto come gli studiosi ritengano che questa fase del sonno, svolga un ruolo primario nella maturazione del sistema nervoso centrale, ed in particolare, si è enfatizzato come la consolidazione delle tracce mnestiche, sembri attuarsi proprio in questa fase. In particolare, uno studio affascinante ha evidenziato che nei ratti, cellule ippocampali che mostrano attività quando l’animale si trova in una determinata posizione all’interno di un percorso (place-cells), si riattivano selettivamente durante il sonno seguente l’apprendimento, plausibilmente partecipando al processo di memorizzazione; ne segue, che disturbando selettivamente il sonno in un gruppo di animali dopo un periodo di apprendimento visuo-spaziale, (attraverso la metodologia del “Morris Water-Maze) ci si dovrebbe aspettare un livello di memorizzazione seguente al sonno nettamente inferiore se paragonato ad un gruppo di cavie di controllo; ma la ricerca in questione non si fermerebbe certo qui.

Diversi lavori, (Magnusson., Scruggs., et al. 2003- Gallagher., Burwell., et al. 1993) hanno mostrato un calo significativo di prestazione al test del Morris Water-Maze correlato con l’età delle cavie. In breve, cavie più anziane mostravano un livello di apprendimento significativamente inferiore rispetto alle cavie più giovani : è risaputo inoltre, che il declino cognitivo associato all’invecchiamento negli umani mostri in primo luogo dei deficit relativi proprio al processo di memorizzazione. E’ possibile concludere evidenziando come uno degli effetti comportamentali dell’invecchiamento risieda proprio nelle alterazioni del sonno, che come gli esperimenti dimostrano chiaramente, inficia direttamente le capacità di orientamento visuo-spaziale mettendo a rischio l’anziano nelle più semplici attività quotidiane.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Motivazione e soddisfazione lavorativa: l’importanza di questi fattori secondo la visione di Herzberg

Dalle ricerche di Herzberg emerge che vi sono due tipi di fattori che incidono sulla soddisfazione e sull’insoddisfazione lavorativa: i fattori igienici e i fattori motivanti.

 

Cosa si intende con il termine “Motivazione”?

Sono molti gli autori che tempi addietro hanno analizzato questo costrutto, elaborando una serie di valide teorie a proposito.
Una definizione completa e condivisa in letteratura di “Motivazione” è la seguente: “Forza motrice che porta un individuo a comportarsi in un determinato modo al fine di raggiungere uno scopo” (Westen, 2002).

Il concetto di motivazione è stato sovente esteso al mondo del lavoro.
Tutti i comportamenti umani sono determinati da un perché, da un motivo.
E ovviamente anche le attività lavorative intraprese dall’individuo hanno uno scopo ben preciso.
Bisogna però tener presente che la motivazione al lavoro non è rappresentata (come molti credono) esclusivamente dalla remunerazione economica; perché infatti anche il collaborare verso il raggiungimento di un risultato professionale, il sentirsi parte di un gruppo, ricevere le giuste gratificazioni sono degli obiettivi lavorativi.
Non bisogna dimenticare poi che la motivazione diviene fondamentale affinché i lavoratori diano il meglio di sé nello svolgimento delle proprie mansioni, perché solo i soggetti che credono in quel che fanno, che perseguono il proprio obiettivo con lo spirito giusto, saranno quelli che forniranno performance lavorative migliori.

Ed è proprio per questa ragione che risulta essere fondamentale che i lavoratori siano motivati nei confronti della propria professione, affinché sia garantito lo sviluppo costante e lineare dell’organizzazione in cui sono coinvolti i lavoratori stessi.
L’esponente più importante che ha analizzato il concetto di “Motivazione” è sicuramente Abraham Maslow (cit. in Westen, 2002), il quale colloca i bisogni umani in una gerarchia piramidale, i cui gradini sono i seguenti:
– bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza immediata;
– bisogni di sicurezza fisica ed emotiva;
– bisogni di affiliazione, amore e appartenenza;
– bisogni di stima di sé;
– bisogni di autorealizzazione.

Secondo questa teoria nel momento in cui un bisogno viene soddisfatto non è più motivante, piuttosto l’individuo tenderà a perseguire un obiettivo collocato su un gradino più alto della gerarchia. Inoltre nessun bisogno potrà mai essere motivante se non viene prima soddisfatto un bisogno di ordine inferiore ad esso.

La teoria di Maslow ha avuto un gran peso applicata ai contesti lavorativi, ma il contributo che offre è insufficiente a stabilire linee guida e strategie utili a soddisfare intere organizzazioni. Questo per vari motivi: ogni individuo percepisce e soddisfa i propri bisogni in modo differente; l’intensità con cui i bisogni si manifestano varia da individuo a individuo; non va poi tralasciato il fatto che ciascun bisogno subisce rilevanti influssi culturali (Tancredi, 2008).

Un’importante teoria motivazionale che prende come riferimento la “Gerarchia dei Bisogni” di Maslow e che ha trovato maggiore applicazione in ambito organizzativo è la teoria “motivazione-igiene” di Herzberg (cit. in Tancredi, 2008).
Secondo questo autore il compito dell’organizzazione è quello di stimolare, individuare e rendere operanti i fattori motivazionali positivi dell’individuo attraverso il lavoro stesso.
Egli ha condotto una serie di studi nel 1959 e, ricollegandosi alla teoria elaborata da Maslow, indagò il modo in cui si sviluppano i bisogni di stima e di autorealizzazione del lavoratore.

Dalle sue ricerche emerge che vi sono due tipi di fattori che incidono sulla soddisfazione e sull’insoddisfazione lavorativa: i fattori igienici e i fattori motivanti.
I fattori igienici si collegano al contesto ambientale del lavoro e alla sua retribuzione. Esempi di essi potrebbero essere lo stipendio, le relazioni interpersonali con pari e superiori, l’ambiente fisico di lavoro, le condizioni di sicurezza, le procedure di impresa. Per l’autore questi fattori non sono direttamente motivanti, ma se non sono presenti inducono una certa insoddisfazione. Sicuramente si tratta di elementi indispensabili al fine di ridurre il malcontento lavorativo, ma per poter ottenere una motivazione durevole nei confronti del proprio lavoro è opportuno che siano presenti i cosiddetti fattori motivanti, ossia il raggiungimento di risultati significativi, il riconoscimento dei risultati raggiunti, il livello di responsabilità, le possibilità di avanzamento professionale. Fattori insomma relativi al soddisfacimento di bisogni di livello superiore.

La distinzione tra questi due fattori sta nel fatto che i fattori igienici sono inerenti al “contesto” lavorativo, mentre i fattori motivanti riguardano i “contenuti” del lavoro in sé.
La teoria di Herzberg è infatti nota come “Teoria del fattori duali”, e sfida l’erronea convinzione che se una persona risulta insoddisfatta di qualche aspetto del proprio lavoro, come ad esempio potrebbe essere la retribuzione economica, bisogna far sì che tale aspetto venga modificato per accrescere la motivazione.
Ma non è esattamente così, in quanto insoddisfazione lavorativa non equivale a scarsa motivazione, così come una diminuzione di insoddisfazione non si tradurrà nella comparsa di soddisfazione che indurrà i lavoratori ad operare con il giusto stimolo.
Per ottenere una soddisfazione positiva sarebbe opportuno che si agisca non sui fattori igienici, ma sui fattori motivanti e quindi relativi al contenuto del proprio lavoro (Ostinelli, 2005).

Herzberg asserisce che soddisfazione e insoddisfazione lavorativa non sono due valori positivi e negativi, l’uno l’opposto dell’altro, bensì due dimensioni distinte che si muovono su due piani paralleli.
Qualora siano assenti i fattori igienici sarà sicuramente presente un certo malcontento, ma se sono presenti riducono il livello di insoddisfazione senza accrescere la motivazione.

I fattori motivanti migliorano invece effettivamente la prestazione, modificando la natura stessa del lavoro, rendendolo più stimolante e gratificante. Riguardano infatti quegli elementi relativi al soddisfacimento di bisogni superiori e di conseguenza portano ad una maggiore produttività.
L’assenza di questi fattori non determina insoddisfazione, ma non consente nemmeno di fare quel cosiddetto “passo in più”, di avere la giusta motivazione.

Questa teoria è al giorno d’oggi molto attuale, e sarebbe per cui opportuno che le organizzazioni, per stimolare la giusta motivazione professionale dei lavoratori, si adoperino nel conseguire le seguenti condizioni organizzative (Tancredi, 2008):
1. Continuo aggiornamento legato ai contenuti dei lavori di ciascuno;
2. Allargamento dell’area di responsabilità individuale;
3. Aumento delle capacità di assumersi i rischi delle proprie mansioni;
4. Creazione di un clima volto a conseguire una reale crescita psicologica al di là dei legami con i colleghi e con l’organizzazione.

Concludendo si può quindi asserire che “non insoddisfazione”, e quindi lavoro senza evidenti malcontenti, non equivale a lavoro “stimolante”, motivante, in grado di dare quella spinta in più nel raggiungere gli obiettivi preposti con lo stimolo giusto.

Herzberg sostiene che le persone possono essere classificate secondo due atteggiamenti: “ricercatori di motivazione”, alla ricerca di soddisfazione intrinseca al lavoro, e “ricercatori di igiene”, alla ricerca di benessere economico, ambiente fisico confortevole, tranquilla collaborazione tra colleghi.
Ricollegandosi per cui alla teoria di Maslow, solo la prima categoria di individui è avviata verso una piena maturazione psicologica che porterà poi alla giusta autorealizzazione professionale.
Ed il lavoratore che si sente effettivamente realizzato sarà al contempo anche colui maggiormente soddisfatto e disposto a dare sempre il meglio di sé nello svolgimento dei propri compiti, favorendo in questo modo anche l’organizzazione nella quale si trova ad operare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bonazzi G. (2008), “Storia del pensiero organizzativo”, Milano: Franco Angeli.
  • Decastri M., Tomasi D., Hinna A. (2004), “Motivazione Organizzazione d’azienda – Materiali di studio”, Roma: Aracne.
  • Hackman J R., Oldham G. R. (1976), “Motivation through the Design of Work: Test of a Theory”, Organizational Behavior and Human Performance, N. 16, pp 250 – 279.
  • Ostinelli G. (2005), “Motivazione e comportamento: le variabili psicologiche necessarie per raggiungere obiettivi”, Trento: Erickson.
  • Tancredi A. (2008), “La Motivazione al lavoro”, Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, Materiale didattico.  DOWNLOAD
  • Westen D. (2002), “Psicologia. La storia , i metodi, i meccanismi fisiologici e cognitivi del comportamento”, Volume 1, Bologna: Zanichelli.

Depressione: quando la causa è anche la cura!

Se da un lato è molto sano e utile prendersi cura di sé e agire quando si ha la necessità di chiedere un aiuto, anche farmacologico, dall’altro il farmaco potrebbe essere utilizzato come una forma di evitamento, per non concederci di toccare stati emotivi intensi e negativi che abbiamo paura di non saper gestire e tollerare.

Attualmente la depressione interessa 350 milioni di persone e causa 850mila morti ogni anno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ipotizza che nel 2020 arriverà a essere la seconda causa di disabilità lavorativa, subito dopo le malattie cardiovascolari, con pesanti ricadute a livello sociale e ovviamente individuale. Inoltre, negli anni più recenti l’età di insorgenza dei disturbi depressivi si è estesa a macchia d’olio, allargando l’hot spot dei 20/40 anni e includendo manifestazioni precoci (adolescenza compresa) e tardive (pensionamento compreso). Mentre tra i fattori di rischio rientra praticamente ogni aspetto della vita delle persone, dalla vulnerabilità genetica al contesto sociale, dalle relazioni affettive alle condizioni lavorative, recentemente uno studio americano ha ipotizzato e testato un particolare esame dei valori ematici che consentirebbe la diagnosi precoce di Disturbo Depressivo Maggiore (Bilello et al., 2015).

I disturbi depressivi sono caratterizzati da una serie di sintomi che vanno a creare un quadro di “mancanze” (dell’interesse, dell’energia, del piacere), affiancato da un tono dell’umore abbassato e da pensieri orientati in senso negativo e incentrati sulla colpa e sulla responsabilità. In base alla gravità dell’episodio depressivo, possono presentarsi pensieri di morte o ideazione suicidaria, mentre sono più frequenti alterazioni del sonno, dell’alimentazione e dell’attività psicomotoria.

I farmaci preposti alla terapia di questo tipo di disturbi sono gli antidepressivi, che comprendono diversi tipi di molecole. Sicuramente, l’introduzione degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), più tollerabili dei vecchi triciclici, ha contribuito a un rapido aumento nell’assunzione di antidepressivi.

La cosa interessante è che, secondo uno studio condotto a Baltimora nel 2015 su più di mille soggetti seguiti per oltre 30 anni (Takayanagi et al.), il 69% delle persone che assumevano antidepressivi non soddisfaceva i criteri clinici sufficienti per ricevere una diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore. In altre parole, sul totale di persone che stavano assumendo antidepressivi al momento dell’indagine, più della metà non aveva mai ricevuto una diagnosi pertinente alla terapia nel corso della vita. Consapevoli che spesso gli antidepressivi, soprattutto gli SSRI, vengono prescritti anche per altri tipi di patologia, gli autori hanno approfondito la presenza di altre diagnosi psichiatriche nel campione che assumeva SSRI, concludendo che il 38% di queste persone non solo non era clinicamente depressa, ma non aveva nessuna altra diagnosi psichiatrica. Ci mettiamo in più che dal 1998 al 2008 l’utilizzo di antidepressivi è aumentato del 400% e che al momento attuale l’11% della popolazione americana assume regolarmente questi farmaci.

Uscendo da un’ottica utilitaristica (che valuterebbe il grande costo sociale ed economico dell’utilizzo improprio di questi farmaci), è sufficiente ricordare che un uso prolungato di antidepressivi espone la persona a effetti collaterali con ricadute importanti sullo stato di salute e sul benessere generale.

Se questo è il dato, possiamo fare alcune ipotesi sul motivo per cui una percentuale così importante di persone assuma farmaci senza che la sintomatologia sia abbastanza accentuata da soddisfare una diagnosi coerente. Sarebbe come farsi ricoverare per un mal di testa o mettere i punti di sutura per un taglietto. Ovviamente le interpretazioni sono tutte possibili, volendone abbozzare alcune probabilmente il fronte è duplice, e come al solito comprende l’individualità e la percezione del singolo da una parte e le richieste o pressioni della società dall’altra. È innegabile che oggi ci sia davvero poca tolleranza per la sofferenza, la propria e quella altrui. Il contesto sociale spinge perché tutto sia sempre al massimo, sia in contesti lavorativi dove il profitto non è mai abbastanza, che in contesti sociali, dove si deve essere sempre impegnati ai massimi livelli.

La sensazione è che facciamo sempre più fatica a “stare”, a considerare i momenti di difficoltà emotiva come fasi di passaggio e a tollerare di non essere completamente in controllo del nostro stato psicologico. In questo senso, se da un lato è molto sano e utile prendersi cura di sé e agire quando si ha la necessità di chiedere un aiuto, anche farmacologico, dall’altro il farmaco potrebbe essere utilizzato come una forma di evitamento, per non concederci di toccare stati emotivi intensi e negativi che abbiamo paura di non saper gestire e tollerare. In quest’ultimo caso, come per tutti i comportamenti (o i non-comportamenti) di evitamento, il rischio è che tamponando all’origine una difficoltà, e non consentendo a noi stessi di gestirla e di valutare attraverso l’esperienza che a volte la tristezza è solo tristezza, non impariamo le strategie utili per l’autoregolazione e corriamo ai ripari senza che ci sia un effettivo danno. La stessa dinamica si riscontra spesso in pazienti che hanno sofferto di depressione e ne sono usciti, oppure in persone che hanno affiancato pazienti depressi nel corso della vita: spesso si sviluppa in questi casi una sorta di fobia per gli stati interni dolorosi, che vengono quindi evitati e soffocati con la copertina di linus dei serotoninergici.

Nell’estremo rispetto per ogni situazione individuale, e non dimenticando che in una buona percentuale l’assunzione di psicofarmaci è consigliabile e utile per un miglioramento significativo della salute psicofisica, dobbiamo ricordare che l’esplorazione è utile anche per le cose dolorose: spesso avere il coraggio di entrare in qualcosa di spaventoso è l’unica cosa che fa passare la paura, mostrandoci che spesso abbiamo molte più risorse di quelle che crediamo di avere. In più, mentre il farmaco rimane qualcosa di esterno che viene introdotto nell’organismo, concederci di sviluppare risorse maggiori è qualcosa che rimane dentro di noi e ci consente anche di modificare la nostra definizione di noi stessi e di sentirci più efficaci nel lungo termine. A volte ci vuole coraggio per lasciarci sorprendere dalle nostre stesse capacità.

 

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Il fenomeno del closing-in nei pazienti affetti da lesione cerebrale focale

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Il fenomeno del closing-in nei pazienti affetti da lesione cerebrale focale

Autore: Maria Antignano (Seconda Università degli Studi di Napoli)

Abstract

Il closing-in è un fenomeno che si manifesta nei compiti visuo-costruttivi e di imitazione, e consiste nella tendenza del paziente a realizzare la copia di uno stimolo in prossimità del modello, o in sovrapposizione ad esso. Tale comportamento è frequentemente osservato nella demenza di Alzheimer, di cui rappresenta un marker neuropsicologico (Gainotti et al., 1992). Sono state formulate due principali interpretazioni del fenomeno: l’ipotesi della compensazione, che lo riconduce a deficit visuo-spaziali, e l’ipotesi della attrazione, che ne sostiene la natura frontale/esecutiva. L’obiettivo del presente studio è investigare le basi cognitive del closing-in nei pazienti con danno cerebrale focale. Il ruolo dei deficit esecutivi e dei deficit visuo-spaziali è stato investigato in un campione di 30 pazienti affetti da lesione cerebrale focale, di cui 15 con lesione emisferica destra e 15 con lesione emisferica sinistra. I risultati rilevano la scarsa incidenza del closing-in nel campione considerato, e la sua mancata correlazione con prestazioni significativamente deficitarie ai test sensibili alle abilità visuo-spaziali e frontali/esecutive. Tuttavia, è stato riscontrato un effetto del doppio compito sul comportamento di avvicinamento al modello, che fornisce supporto all’ipotesi dell’attrazione e alla natura frontale/esecutiva del fenomeno.

Abstract (English)

Closing-in behaviour appears in visuo-constructive and imitation tasks; it is patient’s tendency to realize the copy of a figure close to the model, or overlapping it. This phenomenon is usually observed in Alzheimer Disease, and is considered a neuropsychological marker of it (Gainotti et al., 1992). In literature, we find two main interpretations of closing-in: compensation hypothesis, that attributes it to visuo-spatial deficiency, and attraction hypothesis, that sustains the frontal/executive nature of closing-in. Purpose of this experimental study is investigating the cognitive basis of closing-in in patients with focal brain damage. The role of executive and visuo-spatial deficiencies was investigated in 30 patients with focal brain damage, 15 with right and 15 with left hemispheric damage. Results reveal a poor presence of closing-in in the sample, and no correlation of it with demaged performances in visuo-spatial nor frontal/executive tasks. Anyway, a double-task effect has been observed: this result supports the attraction hypothesis and the frontal/executive nature of closing-in behaviour.

Key words: closing-in, lesione cerebrale focale, deficit visuo-spaziale, deficit frontale-esecutivo, doppio compito

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

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Vittime di bullismo: l’esercizio fisico riduce i tentativi di suicidio

Irene Rossi

Un nuovo studio dimostra che proprio l’esercizio fisico regolare riduce significativamente sia pensieri che atti suicidari tra gli studenti vittime di bullismo.

L’incidenza del bullismo all’ interno della scuola inferiore e superiore è ormai noto sia in ambito accademico che clinico, con particolare attenzione verso le conseguenze devastanti che può avere sulla vita di coloro che ne sono vittime. Nonostante numerosi studi si siano focalizzati sull’analisi delle conseguenze ben poco è stato fatto al giorno d’oggi per indagarne i precursori che svolgono un’azione protettiva.

Nonostante le scuole pubbliche continuino a ridurre le ore dedicate all’ educazione fisica e artistica, un nuovo studio dimostra che proprio l’esercizio fisico regolare riduce significativamente sia pensieri che atti suicidari tra gli studenti vittime di bullismo.

I ricercatori dell’Università del Vermont hanno analizzato i dati raccolti su 13.583 studenti delle scuole superiori degli Stati Uniti, tramite l’iniziativa di “Indagine Nazionale sui comportamenti a rischio nei giovani”. Ciò che hanno trovato è che fare attività fisica per 4 o più giorni alla settimana si traduce in una riduzione del 23% dei pensieri ed atti suicidari nei ragazzi vittime di bullismo, i quali risultano essere generalmente anche più soggetti a livelli di autostima più bassi, ansia, depressione, tristezza e abuso di sostanze.

Complessivamente il 30 percento degli studenti che hanno partecipato al sondaggio hanno riportato di essersi sentiti tristi per due o più settimane nell’ anno precedente, mentre più del 22 per cento ha riportato ideazione suicidaria e l’8,2 percento ha riportato effettivi tentativi di suicidio nel medesimo periodo di tempo. I ragazzi vittime di atti di bullismo, se comparati a studenti non vittime di tali atti, risultano essere due volte più soggetti a sentimenti di tristezza e tre volte più soggetti a ideazioni o azioni suicidarie.

Ma il dato più sorprendente sta nel fattore protettivo che l’attività fisica ha su questo genere di problematiche.

Questo dato emerge proprio in un momento storico in cui l’attività sportiva, l’educazione artistica e gli intervalli durante la giornata scolastica vengono gradualmente ma sempre più drammaticamente ridotti per dedicare tale tempo ad attività meramente intellettive.

In generale è stato stimato che solo la metà dei giovani studenti americani fa almeno 60 minuti al giorno di attività fisica, abitudine indicata come importante e necessaria anche dalle linee guida elaborate dal Dipartimento Statunitense di Salute e dei Servizi Umani.

La speranza è che la pubblicazione della ricerca in oggetto dia ancora maggior risonanza alla necessità di attività fisica in età adolescenziale, un’età di per sè critica, in cui essere vittime di bullismo è sempre più frequente con conseguenti vissuti di tristezza, ansia, depressione che possono portare ad atti estremi come il tentato suicidio.

 

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inside out (2015) e il suo utilizzo come homework in psicoterapia – Psicoeducazione

Federica Di Francesco, Marika Di Egidio

 

Inside out costituisce un valido strumento, da utilizzare come homework, per integrare l’intervento di psicoeducazione sulle emozioni, facilitando l’immediata comprensione da parte del paziente dei processi che legano cognizioni ed emozioni e il ruolo fondamentale che quest’ultime giocano nella messa in atto dei comportamenti di ognuno di noi.

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out, successivamente di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni mentre la scorsa settimana ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza (NdR).

 

Insideout: la trama

Inside Out è un film d’animazione del 2015 realizzato dai Pixar Animation Studios e distribuito dalla Walt Disney Pictures. Il film, diretto da Pete Docter insieme al co-regista Ronnie del Carmen, è basato su un’idea originale dello stesso Docter.

Protagonista di Inside Out è la giovane Riley, una ragazzina di 11 anni, costretta ad abbandonare il suo amato Minnesota per trasferirsi con la famiglia nella caotica San Francisco.

L’arrivo nella nuova città la costringe a fare i conti con un turbinio di emozioni fortissime e contrastanti: Gioia è il motore del gruppo, simpatica e ottimista, garantisce allegria e felicità cercando sempre di vedere il lato positivo delle cose, Paura è una sorta d’impiegato super stressato la cui funzione è proteggere Riley dai pericoli, Rabbia è perennemente arrabbiato e quando è troppo esasperato la sua testa prende fuoco; la sua missione è assicurare il senso di equità e giustizia. Disgusto è molto protettiva nei confronti di Riley e le impedisce di avvelenarsi sia fisicamente che socialmente; Tristezza è divertente, anche nel suo essere triste: è intelligente e sempre previdente ma non ha ancora ben capito quale sia il suo ruolo. Le emozioni convivono nel Quartier Generale della mente di Riley e guidano la sua quotidianità.

Il trasferimento a San Francisco è un evento difficile da affrontare per la ragazzina e anche le sue emozioni non sanno bene come gestire la nuova condizione. Tristezza cerca di assumere il controllo della situazione, ma Gioia, decisa a proteggere Riley da qualsiasi sofferenza, fa di tutto per impedirglielo.

Ecco che Gioia e Tristezza in uno dei frequenti battibecchi vengono “risucchiate” dal tubo aspirante che porta i ricordi dal Quartier Generale alla memoria a lungo termine.

È così che, d’un tratto, a prendere in mano le redini della mente di Riley arrivano Rabbia, Paura e Disgusto, disperatamente in attesa del ritorno di Gioia e Tristezza, finite dall’altra parte del suo cervello. Le due emozioni nel loro tentativo di tornare al Quartier Generale si trovano ad affrontare molteplici disavventure, nel corso delle quali Gioia si ostina a proteggere Riley dalla sofferenza e dal malessere legate all’intervento di Tristezza. I tentativi di Gioia si rivelano comunque fallimentari e sarà proprio il contatto con Tristezza che permetterà alla piccola Riley, di esprimere e condividere la propria sofferenza con i genitori, permettendole di uscire da quel “blocco” emotivo.

 

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM:

 

Inside Out in Psicoterapia

Inside Out diventa una valida rappresentazione delle fasi di crisi che caratterizzano il passaggio all’adolescenza.

Lasciarsi alle spalle determinati ricordi nel lungo e difficile percorso verso l’età adulta diventa doloroso ma indispensabile per permettere una sana costruzione della nostra identità e personalità.

È infatti riconosciuto che alla base di molti disturbi psicologici c’è spesso un mancato riconoscimento del legame tra emozioni e azioni, e tra emozioni e relativi correlati somatici.

Nella psicoterapia cognitivo-comportamentale una delle fasi fondamentali è rendere il paziente consapevole del suo problema e del legame esistente tra pensieri ed emozioni.

A tal proposito Inside out costituisce un valido strumento, da utilizzare come homework, per integrare l’intervento di psicoeducazione sulle emozioni, facilitando l’immediata comprensione da parte del paziente dei processi che legano cognizioni ed emozioni e il ruolo fondamentale che quest’ultime giocano nella messa in atto dei comportamenti di ognuno di noi.

La visione del film vuole essere per il paziente un’occasione per incrementare le sue capacità autoriflessive e comprendere che tutte le emozioni sono funzionali e nessuna di esse può essere totalmente eliminata, ma bisogna solamente imparare a gestirle nei momenti di particolare disagio.

Inside out, inoltre, ha il vantaggio di essere trasversale alle varie fasce d’età: un film per i piccoli, ma anche e soprattutto per i grandi, che ci ricorda come nella vita un singolo evento scatenante può condizionare il nostro stesso modo di vedere il mondo perché influenzato da diverse emozioni!

 

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BIBLIOGRAFIA

  • Apparigliato, M., e Lissandron, S. (2010). La cura delle emozioni in terapia cognitiva. Roma: Alpes Italia srl

 

Fiducia epistemica, resilienza e resistenza al cambiamento – Report dal Congresso Attaccamento e Trauma 2015

La seconda giornata del congresso è iniziata con l’intervento di Peter Fonagy sulla correlazione tra attaccamento, fiducia epistemica e resilienza nei disturbi di personalità.

 

LEGGI IL REPORT DELLA PRIMA GIORNATA

Si è partiti da un concetto abbastanza assodato, e cioè che esperienze precoci di trascuratezza e abuso interferiscono con lo sviluppo di un sano legame di attaccamento e costituiscono potenziali precursori di quadri psicopatologici in età adulta. Su questo, ormai, sembrava che in sala ci fosse un consenso piuttosto unanime.

Fonagy ha cercato, partendo da questo assunto, di spiegare come la distruzione della fiducia nei confronti della figura di attaccamento possa generare una sfiducia epistemica generalizzata, che impedisce ai pazienti di fidarsi poi, tra gli altri, anche del terapeuta.
La sfiducia epistemica può essere sintetizzata come l’incapacità (o impossibilità) dei pazienti di credere a quanto viene loro detto, in quanto presuppongono che le intenzioni del parlante siano diverse da quelle dichiarate o comunque maligne e pericolose.
La conseguenza più rilevante, da un punto di vista psicoterapeutico, è che il normale processo di modificazione delle credenze, dato dall’avere informazioni da una fonte ritenuta affidabile, rimane bloccato.

Ecco perché secondo Fonagy il disputing alla Beck rischia di costituire, per quanto effettuato in tono conciliante, un intervento iatrogeno.
I pazienti con disturbo di personalità si trovano spesso in uno stato di equivalenza psichica, in cui la realtà mentale e quella esterna si equivalgono. Il pensiero è dominante, ha tutta la valenza del mondo fisico e non tollera la dimensione del dubbio o dell’alternativa.
Contrastare e discutere le convinzioni (per quanto errate) dei pazienti rischierebbe quindi di aumentare il loro senso di non essere capiti, di essere esclusi dalla comunicazione e di non potersi fidare.

Fonagy aggiunge che questi pazienti non hanno abilità resilienti, sono ipersensibili ai segnali dall’esterno e ipervigilanti, ma allo stesso tempo faticano a considerarli rilevanti e a farli propri. In terapia possono anche riconoscere e apprezzare la gentilezza e gli sforzi del terapeuta, ma ciò non toglie che restino impermeabili alle indicazioni ricevute.
L’obiettivo terapeutico, secondo Fonagy, dovrebbe quindi essere quello di creare una relazione che sia in grado di ribaltare la sfiducia epistemica.
In che modo? Riconoscendo e validando l’agentività dei pazienti e promuovendone continuamente la mentalizzazione (anche esplorando il contesto emotivo in seduta), perché nella relazione terapeutica i pazienti possono acquisire la capacità di interpretare in modo più funzionale l’esperienza sociale e di utilizzarla come modello per un funzionamento mentale più sano ed efficace.

A seguire l’intervento di Kathy Steele incentrato sulla problematica della resistenza al cambiamento, in particolare in pazienti con dissociazione di personalità. Steele riconosce che il concetto di resistenza è spesso utilizzato con una connotazione negativa che qualifica il paziente come refrattario a quel cambiamento che pur sostiene di voler perseguire. La studiosa invita i terapeuti a considerare la resistenza come, in realtà, un evitamento fobico dell’esperienza interiore, e quindi come un fisiologico meccanismo di difesa. Si tratta del cosidetto mindflight, ossia l’incapacità della mente di soffermarsi sui vissuti dolorosi.

Inoltre, pone l’attenzione sul fatto che la resistenza non è mai un problema esclusivamente del paziente, bensì legato alla relazione: il paziente può ad esempio non sentirsi al sicuro in seduta oppure troppo attivato, e quindi alla ricerca di un’attivazione del sistema di attaccamento nel terapeuta.
Questo aspetto può mettere in difficoltà il clinico, che si ritrova a dover gestire richieste e bisogni estremi, pretese, regressioni, minacce e condotte autolesive.
Occorre quindi riuscire a trovare un equilibrio che tuteli sia il paziente che il clinico, il quale può inizialmente proteggersi esprimendo il proprio dispiacere di fronte alle recriminazioni dei pazienti (riparando l’eventuale rottura) e validandone l’esperienza dolorosa.

Più di ogni cosa, il terapeuta dovrebbe evitare di mettersi sulla difensiva con i pazienti; un atteggiamento difensivo è inevitabile ma, se presente, occorre riconoscerlo, ammetterlo e procedere ad una nuova sintonizzazione e alla riparazione.
Inoltre, sono necessari confini coerenti e fermi, una cornice terapeutica che contenga le esperienze intersoggettive di paziente e terapeuta, entrambi portati prevalentemente ad agire, anziché a riflettere.
L’approccio per gestire la resistenza dovrebbe partire da un atteggiamento curioso del terapeuta (capire le credenze che la rinforzano, in che maniera è di aiuto, i costi che comporta, le emozioni associate).
Allo stesso tempo, occorre mantenere un ritmo che il paziente possa tollerare, concentrarsi sulla collaborazione più che sulla dipendenza, fare continuamente ritorno agli obiettivi prefissati dal paziente, indagare eventuali conflitti e non assumersi come obiettivo personale i cambiamenti del paziente.

Giancarlo Dimaggio ha presentato nel dettaglio i principi base della Terapia Metacognitiva Interpersonale mettendo in evidenza, in linea con il filo conduttore del congresso, il ruolo cruciale della trascuratezza dei genitori nella genesi dei disturbi di personalità e Arnoud Arntz ha proposto una panoramica degli interventi proposti dal filone Schema Therapy riguardo al trattamento di disturbi correlati a traumi, concentrandosi in particolar modo sull’imagery rescripting (tecnica in cui il terapeuta “entra” nel ricordo traumatico e procede alla sua riscrittura rassicurando il paziente-bambino, confortandolo e soddisfacendo i suoi bisogni).

A seguire una dettagliata (forse troppo) analisi degli studi di outcome e dei risultati di efficacia dei trattamenti Schema Therapy, in particolare a confronto con gli altri trattamenti.
Una piccola virata competitiva subito smorzata dal clima assolutamente politically correct della tavola rotonda finale, moderata da Giovanni Liotti, in cui i relatori protagonisti della giornata si sono enfaticamente lodati a vicenda, sottolineando gli aspetti in comune dei vari approcci ed apprezzando le tecniche peculiari degli approcci altrui.

In chiusura, una riflessione collettiva sull’importanza dell’alleanza terapeutica e sul fatto che non debba essere confusa con un semplice atteggiamento compassionevole nei confronti del paziente; Arntz raccomanda di tener sempre presente che la terapia è una collaborazione, Steele invita a muoversi tenendo presenti le difese dei pazienti e Fonagy e Dimaggio riportano l’attenzione sulle responsabilità del clinico e sulla necessità di riparare continuamente eventuali rotture nel rapporto terapeutico.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fonagy F., Gyorgy G., Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé. Raffaello Cortina Editore,2005.
  • Van Der Hart O., Nijenhius E.R.S., Steele K., Fantasmi nel sé. Raffello Cortina Editore, 2011.
  • Dimaggio G., Montano A., Poppolo R., Salvatore G., Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Raffaello Cortina Editore, 2013.
  • Arntz, A. & van Genderen H. La schema therapy per il disturbo borderline di personalità. Raffaello Cortina Editore, 2011.

Statue in movimento: attività fisica e prevenzione del decadimento cognitivo

Davide Di Vitantonio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

L’esercizio fisico è un importante fattore protettivo e preventivo: proteggendo la salute cerebrale, si può prevenire il rischio di una futura demenza e ritardare lo sviluppo del danno cognitivo età-correlato.

La vita umana è tendenzialmente inconcepibile da un punto di vista statico. L’essere umano, come quasi la totalità degli organismi animali multicellulari, riempie la sua intera esistenza attraverso il movimento fisico, inteso come azione diretta ad uno scopo nell’ambiente. Un’ipotesi affascinante (Schmidt-Kittler N, 2011), sostiene che il movimento risulti dal fatto che gli organismi eterotrofi (opposti ad autotrofi) non essendo in grado di produrre autonomamente il nutrimento, necessitino di un sistema di locomozione muscolare, al fine di interagire con l’ambiente a scopi alimentari: secondo questa ipotesi dunque, non ci sarebbe alcun motivo di immaginare l’esistenza di alberi e piante dotati di gambe, in quanto, a causa della loro natura autotrofa, il sistema motorio non risponderebbe ad alcun fine evolutivo.

Non è possibile in effetti negare l’eleganza e la funzionalità di questa ipotesi e in aggiunta, risulta estremamente difficoltoso, se non impossibile, immaginare un movimento naturale non diretto verso uno scopo, ma in realtà un semplicissimo esperimento mentale può provare che l’ipotesi esposta in precedenza presenta una lacuna non trascurabile. Immaginiamo che un essere umano sia costretto artificialmente fin dalla nascita su un letto d’ospedale e che ogni nutrimento gli venga somministrato tramite flebo; non è difficile a questo punto che si ricordino i numerosi casi di atrofia muscolare, infarto e soffocamento dovuti ad eccessiva immobilità riportati da numerose riviste scientifiche e non.

Considerando quindi l’azione nutritiva, come fine necessario ma non ultimo del movimento, quale potrebbe essere dunque la funzione vitale fondamentale di un sistema muscolare? La risposta a questa domanda è l’omeostasi, l’equilibrio biologico interno. Il movimento assume il ruolo preponderante del mantenimento dell’equilibrio molecolare fra le parti, in quanto mantiene livelli ottimali (o quasi) di concentrazione di elementi vitali come ossigeno, glucosio e lipidi nei tessuti umani.

E’ noto come l’esercizio fisico costruisca e modelli i muscoli, migliori le funzioni di cuore e polmoni, migliori lo stato d’animo ed il benessere generale. Poiché dunque l’esercizio fisico mantiene e migliora la condizione fisica, può apportare di conseguenza anche dei benefici a livello cognitivo? Un crescente corpo di studi (The LIFE study investigators, 2006; Rejeski WJ et al., 2005) ha dimostrato esattamente questo. Basandosi sui risultati degli studi che indagavano le basi neurobiologiche degli effetti positivi dell’esercizio fisico sul cervello, gli studiosi sono venuti a conoscenza del fatto che il fitness ha una funzione neuro protettiva per gli uomini che invecchiano, in quanto protegge sia la struttura che la funzione del cervello.

Il miglioramento delle funzioni cognitive è dovuto principalmente a:
– Aumento del flusso sanguigno al cervello, quindi aumento della vascolarizzazione e dei capillari, sia del numero delle connessioni delle sinapsi neuronali.
– Un aumento della neuro genesi in quanto influenza le proteine che stimolano la crescita neuronale, in maniera prominente il fattore neuro-trofico dell’ippocampo, area centrale per l’apprendimento e per la memoria.
– Aumento della capacità dei neurotrasmettitori.
– Migliore efficienza neuronale.

In base a questi presupposti, gli studiosi hanno condotto una serie di studi (Bassuk SS, Wypij D, Berkman LF, 2000) atti ad assicurare l’impatto dell’esercizio fisico sulle funzioni cognitive arrivando a queste conclusioni:
– L’allenamento aerobico migliora la vitalità cognitiva in anziani in salute.
– L’esercizio indotto non solo migliora il fitness aerobico, ma ha anche effetti psicologici a breve e a lungo termine.
– Gli adulti fisicamente in forma compivano meglio i semplici compiti cognitivi rispetto a quelli non in forma.

Un miglioramento del fitness, osservabile a livello del flusso sanguigno cardiovascolare aiuta a ridurre gli effetti deleteri dell’età sulla cognizione e sulla struttura del cervello.

Bisogna ricordare come alcuni studiosi si siano spinti ancora oltre nel definire il legame intercorrente fra attività fisica e funzioni cognitive superiori, analizzando la possibile associazione fra attività fisica e rischio di sviluppo di demenza fra gli anziani. I risultati degli studi (Rejeski WJ, Fielding RA, Blair SN, Guralnik JM, Gill TM, Hadley EC, 2005) sperimentali sono largamente d’accordo con l’ipotesi che l’attività fisica riduca il rischio di declino cognitivo e di demenza nella vecchiaia: una regolare attività fisica, comparata al non esercizio, è associata ad un rischio ridotto di danno cognitivo (Dvorack 1998).

Le evidenze in supporto (The LIFE study investigators, 2006), dimostrano che l’esercizio fisico è un importante fattore protettivo e preventivo: proteggendo la salute cerebrale, si può prevenire il rischio di una futura demenza e ritardare lo sviluppo del danno cognitivo età-correlato.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’importanza della comunicazione nel costruire delle buone relazioni terapeutiche

L’essere umano è sempre stato considerato un’entità sociale, che vive immerso in una contestualità, la cui peculiarità è data proprio dalle relazioni che si instaurano fra le persone.

Keywords: relazione, comunicazione, mimetismo, ascolto attivo, comunicazione efficace.

Abstract

Le relazioni terapeutiche sono occasioni nelle quali si può creare benessere nel paziente, ma anche nell’ operatore sanitario. L’articolo illustra alcuni costrutti, come il mimetismo, l’ascolto attivo e il parlare adeguatamente, che consentono di connotare positivamente questa relazionalità.

La relazione con l’alterità

L’essere umano è sempre stato considerato un’entità sociale, che vive immerso in una contestualità, la cui peculiarità è data proprio dalle relazioni che si instaurano fra le persone. Laddove questa relazionalità è improntata sui parametri positivi, essa è fonte di benessere e quindi di un miglioramento della qualità della vita. La relazione è caratterizzata dalla comunicazione, ossia ogni rapporto si basa e si connota in virtù della comunicazione che si instaura fra i membri. Questa comunicazione è fatta di linguaggio verbale, ma sopratutto di quello non verbale. Perché una relazione sia foriera di benessere essa deve nascere da un desiderio costruttivo. In altre parole, entrambi i membri di una relazione devono impegnarsi nel riconoscimento dell’altro come persona, ovvero di un individuo portatore di una ricchezza intellettuale, morale e culturale da rispettare. [blockquote style=”1″]Questo significa che le parti si riconoscono reciprocamente e agiscono in quanto persone, concedendo l’uno all’ altro il rispetto e la considerazione che desiderano a loro volta ricevere […] [/blockquote](Fioretto, Ott, Ghirardini, Andrioli Stagno, Cardone, De Feo, Conte, 2015, pag. 24).

Il rispetto per l’alterità si estrinseca nell’andare verso l’altro, che è fatto di [blockquote style=”1″][…] curiosità […] interesse al suo vissuto e al suo modo di vivere un’esperienza […] riconoscimento […] legittimazione dei sentimenti e delle emozioni che prova […][/blockquote] (op. cit., pag. 25).

La relazione con se stessi come base della relazione con l’alterità

Affinché ci sia una buona relazione con l’alterità, è necessario avere un buon rapporto con se stessi, che è fatto della completa accettazione di sé e del dare diritto di cittadinanza alle proprie opinioni, alle proprie emozioni. Questo è il paradigma fondante di ogni buona relazione, in quanto l’accettazione di sé permette di non traslare il significato della relazione, non vivendola, cioè, come un momento per la conferma o la disconferma del proprio sé da parte dell’altro.

Empatia, unipatia e simpatia nella relazione terapeutica

Nel rapporto con l’alterità un ruolo chiave lo svolgono gli stati d’animo, che ognuno dei membri porta nella relazione. In altre parole, chi è curato porta con sé una dose di sofferenza. Nei confronti di questo disagio, si possono vivere tre condizioni:
– l’empatia, nella quale ci si mette nei panni dell’altro, immaginando la sua sofferenza, senza però farsene carico emotivo (op. cit., pag. 27);
– l’unipatia, che è una condizione nella quale avviene il contagio emotivo, ovvero i problemi dell’altro divengono i propri (op. cit., pag. 27);
– la simpatia, una situazione in cui chi ascolta partecipa emotivamente alla sofferenza dell’altro.
Chiaramente fra le tre, l’atteggiamento emotivo migliore è quello empatico, che consente di comprendere il disagio dell’altro, senza esserne coinvolto emotivamente. Ciò concede di mantenere il giusto distacco che permette di essere il più oggettivi possibile per poter lenire fattivamente il disagio dell’altro.

Il mimetismo alla base di una relazione terapeutica efficace

Una delle premesse per una relazione terapeutica efficace, è il fenomeno che può essere definito mimetismo. Esso può essere:
comportamentale;
gestuale;
vocale;
linguistico;
sensoriale.

Nel mimetismo comportamentale il curante rispecchia alcune caratteristiche comportamentali del curato, esprimendole con il linguaggio del corpo. Il mimetismo gestuale è caratterizzato dal ripetere volontario di alcune gestualità che sono peculiari di chi si sta ascoltando. Il mimetismo vocale ha la particolarità di far adeguare la melodia, il timbro della voce, la velocità dell’eloquio a quelle del nostro interlocutore. Nel mimetismo linguistico si tende ad usare il lessico che caratterizza il paziente.

Il mimetismo sensoriale ha come elemento distintivo l’utilizzare lo stesso canale sensoriale prevalente, con il quale il nostro interlocutore si rapporta con la realtà. Esistono tre canali percettivi, attraverso i quali gli individui si relazionano con la realtà, ovvero il canale visivo, cinestesico e uditivo.

A questo riguardo Fioretto, Ott, Ghirardini, Andrioli Stagno, Cardone, De Feo, Conte (op. cit., pag. 28) spiegano [blockquote style=”1″][…] Una persona che utilizza o predilige prevalentemente le percezioni visive fornirà un maggior numero di dettagli visivi (colori, luci, dettagli estetici) nelle sue descrizioni e utilizzerà parole e espressioni del tipo “Vedi?” “È chiaro, no?”. Una persona prevalentemente cinestetica darà più dettagli sulle sue percezioni (profumi, descrizioni tattili, sensazioni) nelle sue descrizioni e utilizzerà parole ed espressioni del tipo “Non me la sento”, “Percepisco qualcosa di speciale”, “Sento che tutto andrà bene”. Infine, una persona che utilizza o predilige prevalentemente le percezioni uditive fornirà più dettagli sonori (rumori, suoni, parole dette e riportate esattamente), nelle sue descrizioni si servirà di parole ed espressioni del tipo “Senti!”, “Ascolta questo” […].[/blockquote]

L’ascolto attivo

La migliore forma di ascolto che si può fare del racconto dell’alterità è rappresentato dall’ ascolto attivo. In esso l’ascoltatore ha un ruolo partecipante. Egli, infatti, si sintonizza su quello che ascolta, restituendo dei feedback, che dimostrano quanto sia stato attento alle parole dette. I feedback possono essere espressi con il linguaggio extraverbale e con il linguaggio verbale. I segni extraverbali sono appannaggio del linguaggio del corpo e possono essere compendiati in tutti quei segni che indicano apertura verso l’altro. I feedback verbali sono rappresentati dalle seguenti tecniche:
– rispecchiare (con questa tecnica si ripete quanto è stato detto dall’interlocutore);
– parafrasare (con questa metodica si esprime quanto è stato riferito con parole differenti);
– esplicitare (con questa procedura si rende manifesto il non detto);
– chiarificare (è il procedimento che consente di fare delle domande per capire meglio quello che si è ascoltato);
– focalizzarsi (è il portare l’attenzione del nostro interlocutore su di una parte del discorso che ha fatto);
– riassumere (è il processo che consente di ricapitolare quanto si è ascoltato) (op. cit., pag. 30).

Affinché l’operatore sanitario possa essere incisivo è necessario che conosca i bisogni del suo interlocutore, sappia quello che deve comunicare, ovvero abbia un obiettivo che vuole perseguire, e il suo dire deve essere sintetico, essenziale e pragmatico, intendendo con tale termine la sintonia di quanto detto con la finalità che si persegue (op. cit., pag. 30). Inoltre una comunicazione è efficiente, quando la persona che parla esprime le sue opinioni o emozioni, facendole sempre precedere dal pronome io. Inficiano la validità quelli che Fioretto (2015) definisce i killer della comunicazione, cioè i discorsi ambigui che lasciano l’interlocutore nel dubbio e le generalizzazioni, che banalizzano con luoghi comuni i discorsi. In conclusione, l’adeguatezza della comunicazione è stata sintetizzata dalle quattro massime di Grice (1993), citate in Fioretto, Ott, Ghirardini, Andrioli Stagno, Cardone, De Feo, Conte (op. cit., pag. 32) [blockquote style=”1″][…] Sii sincero, fornisci informazione veritiera, secondo quanto sai […] Fornisci l’informazione necessaria, né più, né di meno […] Sii pertinente […] Sii chiaro (evitare oscurità di espressione e ambiguità, essere brevi, procedere in modo ordinato) […].[/blockquote]

 

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Le emozioni & la percezione dei colori: il (mancato) colore della tristezza

Da un recente studio dell’Università di Rochester (Thorstenson, Pazda & Elliot, 2015) sembra che lo stato emotivo giochi veramente un ruolo importante nella percezione dei colori.

Tante volte è capitato di sentire nelle narrazioni di pazienti depressi espressioni come “vedo tutto nero”, “non riesco a vedere la luce in fondo al tunnel”, che rimarcano la difficoltà ad assumere una visione alternativa della situazione, un po’ più positiva o anche solo un po’ meno disastrosa. Ecco, può darsi che queste espressioni siano metaforiche solo fino a un certo punto.

Da un recente studio dell’Università di Rochester (Thorstenson, Pazda & Elliot, 2015) sembra che lo stato emotivo giochi veramente un ruolo importante nella percezione dei colori. I ricercatori hanno condotto due studi separati, prima manipolando lo stato emotivo dei partecipanti e successivamente testando le loro capacità di distinguere i colori.

Nel primo esperimento, 129 soggetti appartenenti alla popolazione generale sono stati assegnati in modo casuale a due gruppi: a metà dei partecipanti è stato mostrato un filmato divertente, all’ altra metà un filmato triste. In seguito, tutti i soggetti hanno eseguito un compito di identificazione cromatica. Infine, tutti i soggetti hanno compilato autonomamente un questionario sullo stato emotivo evocato dal filmato.

I risultati hanno mostrato che i soggetti che avevano visionato il filmato triste riportavano punteggi significativamente peggiori nel compito di riconoscimento di colori per quanto riguarda l’asse cromatico blu-giallo rispetto a quelli che avevano visionato il filmato divertente. Per confrontare i risultati con una condizione neutra, in un secondo studio i ricercatori hanno eliminato il filmato divertente e inserito una condizione di controllo, in cui i soggetti prima del compito di riconoscimento cromatico guardavano una sorta di salvaschermo senza connotazione emotiva. I risultati hanno replicato quanto emerso nel primo studio, confermando così una maggiore difficoltà a identificare i colori nell’asse blu-giallo per i soggetti che erano stati sottoposti alla visione del filmato triste.

I meccanismi neurali con cui la tristezza incide sulla capacità di distinguere i colori partono da processi di basso ordine: la tristezza porta a un rallentamento generale e ad una diminuzione dell’arousal, il che a sua volta limita la contrazione pupillare che consente alla luce di colpire la retina (Bradley, Miccoli, Escrig, & Lang, 2008; Harrison, Singer, Rotshtein, Dolan, & Critchley, 2006). In secondo luogo, la tristezza è associata a una diminuzione di dopamina, che contribuisce a peggiorare il funzionamento della retina (Bodis-Wollner, 1990; Tebartz van Elst, Greenlee, Foley, & Lücking, 1997).

Interessante però: i risultati degli studi riportati mostrano che in entrambi gli esperimenti le difficoltà di riconoscimento interessavano solo l’asse blu-giallo, escludendo quindi il potere causale sia della diminuzione di dopamina che della limitata contrazione pupillare, che in questo caso avrebbero portato a una difficoltà di riconoscimento anche per l’asse cromatico rosso-verde. Sembra quindi che l’induzione di uno stato emotivo abbia portato a difficoltà di identificazione di alcuni colori, sulla linea di precedenti studi che avevano mostrato per esempio come la rabbia aumentasse la propensione delle persone a vedere rosso in stimoli ambigui (Fetterman, Robinson, Gordon, and Elliot, 2011).

Le conseguenze di questa alterazione non si limitano solo a un errore di percezione. Precedenti studi, infatti, hanno individuato come i colori non abbiano solo una funzione estetica, ma influenzino il modo in cui ci sentiamo, cosa pensiamo e come ci comportiamo. Per esempio, negli anni è stato visto come il colore rosso sia in grado di aumentare l’attrazione per chi lo indossa (Re, Whitehead, Xiao, & Perrett, 2011), di ridurre il consumo di cibo (Genschow, Reutner, & Wänke, 2012) e di peggiorare le prestazioni in compiti cognitivi (Elliot, Maier, Moller, Friedman, & Meinhardt, 2007). È evidente quindi che se lo stato emotivo influenza il modo in cui le persone percepiscono il mondo esterno, questo a sua volta può influenzare l’umore, i pensieri e i comportamenti, in un circolo vizioso che contribuisce a ostacolare il benessere psicologico.

 

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La tristezza può compromettere la percezione dei colori?

 

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Gli effetti del trauma sui sintomi ansiosi e depressivi: a volte migliorano. Scopriamo perchè!

Un nuovo studio longitudinale suggerisce che l’esposizione a un trauma acuto può portare, in alcuni individui, ad un miglioramento di preesistenti sintomi di ansia o depressione.

La ricerca, condotta da Anthony Mancini della Pace University, Heather Littleton della East Carolina University e Amie Grills della Boston University, ha studiato la resilienza umana in seguito alla sparatoria del 2007 al Virginia Polytechnic Institute, il secondo più grave massacro scolastico nella storia degli USA. La sparatoria ha causato 33 morti (incluso l’omicida, uno studente sudcoreano) e 29 feriti.

La vita di molte persone e delle loro famiglie è stata con certezza segnata in modo profondamente negativo da questo tragico evento, ma i ricercatori dello studio in questione hanno ipotizzato che l’esposizione al trauma possa aver motivato alcuni studenti a cercare maggiore connessione sociale con gli altri e che questo maggiore sentimento di connessione possa aver contribuito a migliorare preesistenti sintomi legati alla depressione e ansia.

Mancini e colleghi hanno esaminato i dati di uno studio longitudinale su studenti che frequentavano diverse università al momento della sparatoria. Hanno analizzato i dati di 368 giovani del Virginia Tech testati per sintomi di depressione e ansia prima della sparatoria e 2, 6 e 12 mesi dopo la sparatoria. Dopo la sparatoria, i ricercatori hanno valutato il livello di esposizione all’evento traumatico, la perdita di persone care, e il livello di minaccia percepita dei partecipanti allo studio.

Esaminando i sintomi di depressione e ansia nel corso del tempo, i ricercatori hanno individuato modelli distinti di adattamento: la maggior parte dei partecipanti ha mostrato profili relativamente costanti nel tempo – o hanno iniziato con livelli relativamente bassi di sintomi che sono rimasti bassi nel corso dello studio (56% per i sintomi di ansia, il 59% per i sintomi della depressione), o hanno iniziato con livelli relativamente alti di sintomi che sono rimasti alti nel corso del tempo (8% per i sintomi di ansia, il 15% per i sintomi della depressione).
Come ci si aspetta in seguito ad un evento traumatico, alcuni individui hanno mostrato un forte aumento dei sintomi dopo la sparatoria (23% per i sintomi di ansia, 19% per i sintomi della depressione).

Ma i ricercatori hanno anche identificato un quarto gruppo di individui che ha riportato una diminuzione dei sintomi nel corso del tempo (13,2% per i sintomi di ansia, 7,4% per i sintomi della depressione).
In accordo con le ipotesi dei ricercatori, ulteriori analisi hanno indicato che i soggetti che hanno mostrato questa “traiettoria di miglioramento” mostravano anche un aumento del sostegno sociale nel corso del tempo.

Dato che le relazioni sociali sono un elemento chiave del funzionamento psicologico sano, i risultati suggeriscono che il trauma, in alcuni individui, può essere associato a miglioramenti nel funzionamento psicologico, in quanto aumenta i sentimenti di vicinanza con amici e familiari.
I risultati nel complesso forniscono una più profonda comprensione degli effetti psicologici del trauma di massa e suggeriscono che un elemento chiave del coping adattivo è la valorizzazione delle relazioni intime.

 

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Il Provocatore Parte Seconda – Tracce del Tradimento Nr. 25

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO XXV: Il Provocatore Parte Seconda

 

Il rapporto tra provocatore e provocato è un continuo minuetto: io, provocatore, mi allontano fino a che tu non ti allarmi e mi insegui a riprova di quanto mi ami, se poi indignato ti allontani offeso, sarò io a spaventarmi e ad inseguirti.

Un continuo negarsi e inseguire: tutti gli altri, amanti occasionali o stabili per la vita non sono che semplici comparse in un gioco che è tutto della coppia originale. Si tratta delle coppie ad elastico che hanno un’ottima resistenza a meno che per errore l’elastico non venga tirato troppo forte. Talvolta entrambi i coniugi condividono la stessa visione delle cose e sono entrambi dei provocatori: si controlleranno per tutta la vita non fidandosi l’uno dell’altro e alimenteranno costantemente la gelosia dell’altro con amanti più o meno immaginari.

Il loro sarà un rapporto burrascoso, mai sereno e scontato, apparentemente sempre in bilico e sul punto di finire ma, in realtà, solidissimo e ricco di emozioni. Anche la sessualità sarà particolarmente vivace perché mai scontata e sempre popolata di altri fantasmi con cui confrontarsi. Se due provocatori stanno insieme il gioco, ancorché impegnativo, può essere divertente e le emozioni per i partecipanti assicurate; la strategia ottiene esattamente lo scopo per cui era stata creata: mantenere alte le emozioni del sistema, senza tuttavia mettere a repentaglio la stabilità del sistema stesso. Il clima costante di conquista possibile e di perdita possibile è continuamente presente per la gioia di entrambi. Anche i figli, i parenti e gli amici tutti inizialmente sono allarmati dalla burrascosità del rapporto, si mettono in mezzo, propongono mediazioni, accorrono premurosi al capezzale della coppia sempre agonizzante, poi, dopo tanti Al lupo! Al lupo! si rendono conto che quello è il loro modo di stare insieme e finiscono per sopportarli annoiati o per evitarli.

Cosa succede se le provocazioni non sono raccolte? Se il coniuge sicuro della relazione non si allarma e sottovaluta le tracce lasciate dal provocatore? In questo caso quest’ultimo è costretto ad alzare il tiro. Le tracce vengono lasciate con più frequenza e vengono quasi sbattute in faccia al coniuge per richiamare la sua attenzione. Il comportamento tranquillo del coniuge è sentito come una minaccia dal provocatore che vede confermate le sue ipotesi circa il disinteresse che il coniuge prova nei suoi confronti e ciò lo spinge da un lato a lasciare, quasi con rabbia, tracce sempre più evidenti e dall’altro a sovradimensionare l’importanza del rapporto con l’amante che potrebbe diventare il nuovo rapporto di riferimento se tutte le manovre di rianimazione della passione nel precedente rapporto dovessero fallire.

In questo caso il gioco per riattivare il rapporto conduce invece alla sua fine. Infatti un conto è il motivo per cui si fanno le cose, un conto è l’effetto che si ottiene: non sempre l’effetto ottenuto è quello desiderato e quella che doveva essere una relazione di supporto al rapporto principale può improvvisamente scardinarlo e invertire i ruoli. Lo spostamento di centralità da uno all’altro rapporto può determinarsi se il provocatore avverte il secondo rapporto più importante del primo, proprio perché più a rischio e dunque più denso di possibili escursioni emotive. In quel caso l’escluso diventa finalmente importante ma resterà sempre per lui il marchio di non essere stato scelto per quello che è ma per essere una provocazione rispetto al partner originale. In genere questo secondo rapporto, anche quando sostituirà il primo, non avrà le basi per essere duraturo perché non nasce come fine in sé quanto piuttosto come strumento di comunicazione all’interno di un’altra coppia.

Romano, di cui abbiamo parlato nell’articolo XXIV di questa serie, effettivamente tirò troppo la corda e finì per mettere incinta una sua amante occasionale non più importante delle precedenti. Era intenzionato a interrompere la gravidanza ma non altrettanto la sua compagna che avvertì la moglie aprendo una crisi che condusse al divorzio. Successivamente si sposò con la nuova compagna ed ebbe da lei altri due figli conducendo un’esistenza serena e forse anche felice. Tuttavia ancora oggi dopo quasi vent’anni quando usa il termine moglie state pur certi che si riferisce alla sua prima moglie.

Normalmente tuttavia le cose vanno come sperato dal provocatore: il coniuge si insospettisce e manifesta crescente gelosia, i suoi pensieri e le sue attenzioni tornano a concentrarsi sul provocatore che si sente rassicurato circa l’amore del coniuge, sperimenta una ritrovata beatitudine e smette di seminare tracce. A questo punto inizia le manovre di distanziamento dall’amante che tuttavia possono essere più complesse del previsto e richiedere un certo tempo; durante questo tempo possono crearsi vari incidenti di percorso.

Ad esempio il coniuge, ormai allertato, percepisce e ricerca tracce anche molto modeste, nonostante il provocatore abbia smesso di lasciarle e finisce per perdere la pazienza: se il coniuge minaccia l’abbandono o lo mette in atto siamo all’apoteosi! Il provocatore prova un dolore di perdita intenso che lo rassicura definitivamente anche sul sentimento che lui prova verso il coniuge e dunque pianta in asso immediatamente l’amante e si tuffa rapidamente nel rito della grande pacificazione: la coppia vive una rinnovata luna di miele, spesso ci sono viaggi di nozze bis e un rifiorire dell’attività sessuale. L’amante mollato su due piedi a volte viene persino ringraziato (dopo il danno pure la beffa) per aver aiutato il nostro provocatore a ritrovare ciò che veramente conta nella sua esistenza.

Dalla lettera di Luisa al suo amante Marco ‘…Forse in questo momento di dolore non lo crederai ma per me resterai qualcosa di unico nella mia vita, tu mi hai fatto ritrovare me stessa, una Luisa che non conoscevo più e che avevo perso nella monotonia della quotidianità. Grazie a te ho riscoperto le cose che veramente contano come i miei figli e la mia famiglia, compreso mio marito, e che ora amo più di prima e nello stesso tempo li odio perché mi allontanano per sempre da te…’

Naturalmente non tutti gli amanti ci stanno a essere messi alla porta così improvvisamente e possono dunque opporsi con forza alla manovra di rientro nei ranghi del provocatore; il malcapitato può a questo punto sentirsi in pericolo perché il coniuge lo controlla e non gli perdonerebbe altri passi falsi ed allora può tentare un’alleanza con il coniuge stesso, confessando tutto e chiedendogli esplicitamente di dargli una mano ad allontanare l’ex amante ormai diventato ingombrante. Le alleanze si ribaltano improvvisamente la complicità non è più tra i due amanti a danno del coniuge, ma tra i due coniugi a danno dell’amante: il doppio tradimento è consumato nella sua forma perfetta. Non sempre la soluzione di una crisi come questa è incruenta, si leggono casi in cui per tutelare la coppia originaria dalle pressioni di un amante che non vuole mollare la presa vengono agiti comportamenti violenti. E’ recente la storia di cronaca di una ragazza uccisa a vent’anni da un uomo che non accettava che la gravidanza di lei mettesse in discussione sua moglie e la sua precedente famiglia. In genere se si vuole spingere per soluzioni a proprio favore e si è l’amante è conveniente non essere sole o almeno essere in situazioni pubbliche in modo da potersi tutelare qualora si abbia a che fare con degli aspetti del proprio amante che emergono improvvisi e che possono costituire una minaccia per la propria vita.

Ma di solito le cose vanno più tranquillamente, la coppia si riconcilia e dopo la grande pacificazione la vita riprende serena nel ricordo del trambusto appena passato. A lungo andare la quotidianità riprenderà i suoi ritmi e la monotonia assopirà di nuovo le emozioni e prima o poi ci sarà necessità di una nuova riedizione del dramma. Spesso ad assumersi il ruolo di provocatore è il coniuge che nella puntata precedente aveva il ruolo di vittima, ma non è detto che sia sempre così. Talvolta invece dell’equilibrio si preferisce premiare la specializzazione cosicché il provocatore ripete la propria parte con maggiore maestria e la vittima, ormai espertissima nella ricerca di segnali, ci metterà meno tempo dell’altra volta a dare lo scacco matto.

L’alternanza dei ruoli consente a ciascuno di scegliere il tempo giusto per riattivare il rapporto e quindi le esigenze di entrambi vengono maggiormente rispettate. Se al contrario è sempre uno dei due a iniziare è possibile che lo faccia con una eccessiva frequenza per i gusti dell’altro e ciò potrebbe prima irritarlo e poi annoiarlo, conducendo ad un allontanamento che il gioco vorrebbe proprio evitare. Lo stesso risultato di una precarietà del rapporto che mantiene vivo il desiderio e le emozioni inerenti lo stare insieme è ottenibile senza il coinvolgimento di un amante e senza innescare il meccanismo della provocazione: lo si vede attivo in quelle coppie che litigano sempre e su tutto e che gli amici si chiedono perché mai non si lascino. Sono in realtà coppie saldissime che non si lasceranno mai: il litigio è per loro la vera dimensione dell’amore. Attraverso il conflitto mantengono sempre il rapporto in un territorio ibrido, dove si sta insieme e si sta sempre sull’orlo dell’abbandono e della insoddisfazione, in una continua altalena di emozioni, prova certa del reciproco amore. L’oggetto su cui litigare può essere sempre lo stesso (soldi, educazione dei figli, rapporti con le famiglie di origine, sedentarietà versus attivismo) ma si può cambiare oggetto ogni volta. Basta comunque litigare.

 

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Affido familiare: la sfida della co-genitorialità. Tra processo di separazione e attaccamento

Giuseppina Ferrer, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

Diversamente dall’adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’affido consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

“…I vostri figli non sono figli vostri. Sono figli e figlie della sete che la vita ha di se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benchè vivano con voi non vi appartengono…la vita procede e non s’attarda sul passato.
Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.
L’arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e vi tende con forza affinchè le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell’Arciere;
poichè come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell’arco.” (Kahlil Gibran)

In Italia l’istituto dell’Affido Familiare è regolamentato dalla legge 149/01, in cui si afferma il diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia e, in mancanza di essa, a poter fruire delle cure di una famiglia altra, che possa quindi esercitare una funzione vicariante.
Attualmente i minori in affidamento in Italia sono circa 16.800, si tratta pertanto di un fenomeno estremamente diffuso nel nostro Paese, che riguarda tutte le fasce di età e comprende tanto gli affidi etero-familiari quanto quelli intra-familiari (Moretti et al., 2009).

Diversamente dall’adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’affido consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.
L’Affido Familiare, pertanto, si configura come intervento di accompagnamento e supporto alla famiglia di origine, avendo come obiettivo il successivo rientro del minore nel contesto familiare naturale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia, l’intervento di affidamento familiare avviene ad opera dei servizi territoriali di Tutela Minori su incarico dell’Autorità Giudiziaria Minorile, che è garante della protezione dei più piccoli in casi di potenziale pregiudizio.

Ma quali situazioni configurano un rischio tale da giustificare un intervento di tal genere?
Possono essere molteplici le situazioni che rendono necessario tale intervento: la malattia di un genitore, la sua carcerazione, la fragilità psicologica fino a giungere a franchi quadri psicopatologici di un genitore, sono solo alcuni dei motivi che possono condurre il Tribunale per i Minorenni a disporre l’Affido eterofamiliare di un bambino. In condizioni di questo tipo il genitore può faticare nell’esercizio del proprio ruolo educativo ed affettivo, rischiando così di condizionare negativamente il funzionale percorso evolutivo dei più piccoli.

Numerose le potenzialità di tale intervento ma altrettanto numerosi i rischi che esso racchiude. L’inserimento in un’altra famiglia, infatti, può permettere al bambino di sperimentare nuovi stili di attaccamento (Bowlby, 1983), con la conseguente possibilità di modificare nel tempo i propri modelli operativi interni, che costituiscono l’ossatura dell’idea di sè e del mondo; tale intervento può quindi fornire un’esperienza emotiva e relazionale correttiva utile a disinnescare eventuali cicli interpersonali disfunzionali sperimentati nella famiglia di origine ed interiorizzati come propri.

Ciononostante, complessa e rischiosa è la sfida rappresentata dall’affido familiare: esso, infatti, espone i diversi protagonisti coinvolti all’esperienza della perdita. Se da un lato, infatti, il bambino viene separato dal contesto famigliare di appartenenza, dal suo ambiente sociale e relazionale, sperimentando così la perdita delle proprie abitudini e dei propri punti di riferimento, dall’altro questi dovrà confrontarsi con la perdita della possibilità di essere curato opportunamente, a causa di una genitorialità trascurante o inadeguata. Ciò implica la perdita per il bambino della possibilità di ricevere dai propri genitori risposte ai suoi bisogni e questo vissuto lo accompagnerà durante tutto il corso dell’affido (Carminati et al., 2012).

Ma perchè parlare di “sfida” considerate le enormi potenzialità di tale intervento?
Come diceva Bowlby:

[blockquote style=”1″]La propensione ad esperire angoscia per la separazione e il dolore per la perdita sono i risultati ineluttabili di una relazione d’amore, del fatto di voler bene a qualcuno[/blockquote] (Bowlby, 1973).

Come è noto, il sistema dell’attaccamento e quello esplorativo sono antagonisti: nel momento in cui il piccolo è sopraffatto dalla perdita non può esplorare cognitivamente ed emotivamente il nuovo contesto famigliare. Shock, negazione, protesta, disperazione, distacco rappresentano le naturali reazioni alla separazione; in questa fase ai genitori affidatari è richiesto il faticoso compito di sintonizzarsi sulla perdita, rispecchiando i vissuti di rabbia e tristezza del bambino nei confronti della propria famiglia di origine. Solo tale faticosa attitudine della famiglia affidataria potrà lentamente permettere al bambino di iniziare ad esplorare il nuovo contesto di vita nel quale è stato calato.

Allo stesso tempo, il tema della perdita è centrale anche nei vissuti dei genitori naturali, che sentono di essere sopraffatti e delegittimati del proprio ruolo, almeno in parte esclusi dal percorso evolutivo di coloro che loro stessi hanno dato alla luce. Tali dolorosi vissuti, acuiti dal contesto coatto in cui tali interventi vengono spesso attuati, rende difficilissima la condivisione del progetto di affido da parte dei genitori naturali, che rischiano così di ostacolarne l’attuazione, minando la possibilità che esso vada a buon esito.

I genitori affidatari, dal canto loro, consapevolmente ed inconsapevolmente, con le loro nuove proposte quanto a riti quotidiani e a stili relazionali, stimolano nel bambino l’attività di pensiero e di confronto relativamente a vecchi e nuovi modus vivendi. Tali confronti, che naturalmente vengono effettuati dal bambino, rischiano talvolta di alimentare il cosiddetto conflitto di lealtà. D’altra parte, è proprio dal confronto tra le due diverse famiglie che discende la possibilità per il bambino di ripensare circa la modalità di vivere, viversi e relazionarsi (Kaneklin et al., 2013).

L’instaurarsi di un conflitto di lealtà rappresenta uno dei principali motivi per cui l’affido è così complesso da attuare e gestire nel tempo.

Il bambino, in particolare, potrà sperimentare preoccupazione ed irritazione nel timore di essere sleale nei confronti della propria famiglia di origine; anche le famiglie, dal canto loro, rischiano di sentirsi molto a disagio, oppresse dai continui reciproci confronti. Tuttavia, tale conflitto è parte integrante e imprescindibile dell’affido stesso, e deve poter essere utilizzato in modo strumentale per permettere al bambino di comprendere che possono coesistere diversi modus vivendi, e che lui stesso, nel faticoso percorso di crescita di cui è protagonista, potrà compiere delle scelte e percorrere la strada maggiormente in linea con il perseguimento dei suoi scopi.
Questa è l’enorme opportunità insita nei complessi progetti di affido: offrire al bambino una possibilità di scelta, dandogli la possibilità di non ripercorrere necessariamente il “solco” tracciato dalla propria famiglia di origine, spesso caratterizzata da traumi transgenerazionali la cui origine non è più nemmeno identificabile.

In conclusione, l’affido rappresenta una successione di attaccamenti e separazioni che deve essere adeguatamente sostenuta e monitorata al fine di evitare interruzioni traumatiche dei legami. L’affido, infatti, è per sua natura temporaneo e prevede la compresenza delle due famiglie, tra le quali il minore transita e rispetto alle quali fa riferimento. Al bambino è quindi richiesto un faticoso lavoro dentro e fuori di sè, alla ricerca del miglior modo per avvicinarsi ed allontanarsi, mescolarsi per poi differenziarsi, alla ricerca di una propria personale visione di sè e del mondo che possa, in conclusione, permettergli di ricongiungersi, anche solo internamente, alla famiglia di appartenenza, pur se così differente e complessa.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bowlby, J. (1973a). Attaccamento e perdita,vol. 2: La separazione dalla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1975.
  • Bowlby, J. (1983). Attaccamento e perdita, vol.3, 1980, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1983.
  • Carminati, M., Chistolini, M., Colombo, F., Ferrario, G., Gagliardi E., Gatti, M., et al. (2012). Nuove sfide per l’affido. Milano: Franco Angeli.
  • Gibran, K. (1991). Il profeta. Tr. it. Feltrinelli.
  • Moretti, E., Ricciotti, R., Zelano, M., Andolfi, V., (2009). “Bambini e ragazzi ‘fuori famiglia’: dimensione e caratteristiche del fenomeno” in Belotti V. (a cura di), Accogliere bambini, biografie, storie e famiglie, “Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza”, n.48, Istituto degli Innocenti, Firenze.
  • Kaneklin & Comelli (2013). Affido familiare: sguardi e orizzonti dell’accoglienza. Milano: Vita e Pensiero.

Evitamento – Definizione Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

 IN COLLABORAZIONE CON:

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L’evitamento è una strategia comportamentale messa in atto per riuscire a gestire al meglio le emozioni. Lo scopo, dunque, è sottrarsi dall’esporsi a situazioni, persone, eventi temuti per evitare di affrontare l’emozione negativa che ne deriva.

L’evitamento, perciò, è un meccanismo difensivo, o strategia di fronteggiamento, dei problemi, tipica dei disturbi d’ansia. Infatti, uno dei sintomi caratteristici di molti disturbi d’ansia è proprio l’evitare di entrare in contatto con la situazione o con la cosa temuta. Di fronte a una minaccia, reale o immaginaria, che produce una reazione di allarme, l’individuo evita il affrontarlo. Le fobie sono un esempio clinico calzante che coinvolge massicciamente questo meccanismo. Se si avesse la fobia dei rettili, chiaramente, sarebbero evitate tutte le situazioni che includono i rettili. Nei casi più gravi la fobia può essere scatenata addirittura dalla vista di un serpente raffigurato in un libro o una rivista.

Inoltre, l’evitamento, sebbene fornisca un momentaneo sollievo, non fa altro che confermare ripetutamente la necessità di evitare. Quindi, ogni volta che un ansioso evita, conferma a se stesso di non poter fare a meno di evitare e ciò dà luogo a un circolo vizioso che renderà più probabile in futuro l’evitamento di altre situazioni affini.

Dal punto di vista psicoterapeutico è possibile trattare con successo gli evitamenti attraverso un programma di esposizione graduale durante il quale il soggetto gradatamente prova a scardinare il circolo vizioso che si è creato, e a entrare in contatto con le situazioni ansiogene in modo da farle diventare normali e accettabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (2006). Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore: Milano.

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Bravi, gli ambiversi (bella trovata) – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Domenica 30 Agosto 2015

 

Uno studio esalta le doti di chi è un po’ introverso e un po’ estroverso. Ma bastava rileggersi Aristotele: conta l’intelligenza emotiva.

Direttamente dalle pagine del Wall Street Journal: hanno scoperto gli ambiversi! Chi pensa a una nuova forma di sessualità o di specie di pesce abissale non ancora classificata sbaglia. Si tratta di persone comuni che più comuni non si può. Qual è la loro nicchia ecologica? Lontano dagli opposti polari di introversione ed estroversione.

Ambiversi, appunto, a volte socievoli e chiacchieroni, altre volte portati alla passeggiata col cane e all’uso intensivo del telecomando. Una via di mezzo tra il collega musone e silenzioso e la vicina d’ombrellone che più volte avete fantasticato di sopprimere.

Adam Grant, University of Pennsylvania Wharton School, ci ha fatto una ricerca su, pubblicata su Psychological Science. Ha scoperto che gli impiegati di un call-center classificati come ambiversi vendevano di più degli introversi e, destando un certo scalpore in chi aveva fiducia in loro, degli estroversi. Grant si rifà all’Aristotele dell’Etica Nicomachea: ‘Lodevole è la disposizione di mezzo‘.

La descrizione di questo nuovo tipo di personalità svelato dalla scienza più o meno suona così: è socialmente flessibile, sta bene sia da solo che con gli altri; ha abilità comunicative, sa ascoltare e parlare. È di atteggiamento moderato – Aristotele ne sarebbe felice – non è né troppo aperto né troppo riservato. È adattabile e cambia approccio a seconda della situazione. Certo, messa così è il tipo di persona che vorreste sposare, avere vicino in spiaggia. Assumere! Finalmente la soluzione alla crisi economica di Grecia e Sud Italia: assumete più ambiversi e il Pil si impenna.

I soliti menagramo obietteranno: negli Stati Uniti ce ne sono di più, da noi ve n’è carenza. Ma no, fidatevi, lo dice Grant stesso: sono i due terzi della popolazione, parola di accademico americano. Certo, verrebbe da chiedergli: guardi, dovrei assumere cinque impiegati, con il suo metodo ne ho selezionati sessanta, mi dà informazioni un filino più precise?

Confesso, la mente degli americani continua a restarmi misteriosa. Da un lato sono capaci di introspezione e finezze inarrivabili. Penso alla complessità dei personaggi di True Detective, Dr. House, Trono di Spade, penso a Paul Auster. Dall’altro non hanno ancora dimenticato John Wayne: monoliticamente buono, di stucchevole unidimensionalità.

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Bravi gli ambiversi_bella trovata

 

Molti psicologi americani, ahimè, avranno visto troppi film di John Ford e l’uomo descritto da Pirandello, Calvino, Pessoa, Borges, appare loro incomprensibile. Sono gli psicologi dei tratti di personalità, che caratterizzano gli umani a seconda di quanto siano coscienziosi, gradevoli, aperti, nevrotici e, appunto, estroversi.

In un accesso di profondità, osservano che l’ambiverso può avere difficoltà nel decidere quale lato della personalità mostrare. Insomma, vendono di più, si adattano meglio ma gli tocca pensare.

Gli psicologi che trovano la psicologia dei tratti imbarazzante sono tanti. Quello che interessa è sapere cosa porta la persona a comportarsi diversamente al mutare dei contesti. Cosa passava nella mente di Eduardo De Filippo da portarlo a dire: ‘Sulla scena so esattamente come muovermi. Nella vita sono uno sfollato’. Perché Peter Parker, il nerd per eccellenza, occhialuto, timido, imbranato ha la battuta sempre pronta quando indossa la maschera di Spiderman? Il protagonista di American Sniper: sul campo di battaglia è sicuro di sé, spiritoso, energico, incoraggia tutti, un eroe. Tornato a casa ha una moglie deliziosa, due figli e neanche una parola da dire. L’altra faccia di John Wayne. Un disadattato. Che gli succede nei due diversi contesti?

A qualcuno passerebbe in mente di accomunare Eduardo, Spiderman e Chris Kyle nella categoria ambiverso? Allora, perché l’articolo del Wall Street Journal suscita interesse? Perché comunque gli psicologi ci vedono lungo: ci servono strumenti per prevedere il comportamento delle persone. Si tratta solo di usare gli arnesi giusti. La domanda è: quali processi e capacità psicologiche portano a compiere decisioni migliori sul lavoro, nella vita sentimentale?

Tra i tanti, mi viene subito da pensare all’intelligenza emotiva: la capacità di leggere le emozioni degli altri, ragionarci su e usare questa conoscenza per risolvere le difficoltà relazionali. Chi ne è dotato è più soddisfatto, ha più successo a scuola e nel lavoro. Adolescenti con maggiore intelligenza emotiva sono meno soli e soffrono meno delle conseguenze drammatiche della solitudine.

Uno studio di Wilderon, olandese, con colleghi sud-coreani e cinesi – tre economie funzionanti – evidenzia come l’intelligenza emozionale dei manager sia legata alla coesione all’interno del negozio che si traduce in vendite migliori.

In sintesi, il problema non è essere introversi, estroversi o ambiversi. Se vogliamo scegliere meglio chi ci guida e chi esegue i compiti dobbiamo guardare altrove, scrutarne le capacità di capire le emozioni degli altri e di utilizzare tale conoscenza nel prendere decisioni. La flessibilità dei cosiddetti ambiversi può dipendere da vari fattori, inclusa una più raffinata capacità di agire dopo avere osservato la mente di chi li circonda. Se siamo buoni lettori di emozioni intuiamo quando è il momento per una battuta spiritosa e quando è meglio andare a guardare la puntata di Trono di Spade che abbiamo saggiamente registrato in anticipo.

 

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