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Un braccialetto ci salverà dalla depressione: la ricerca della Fondazione BRF ONLUS

Fondazione BRF – Comunicato Stampa

Un semplice braccialetto per il monitoraggio dell’attività fisica potrà difenderci dalla depressione, annunciandola in anticipo e consentendoci di ricorrere a una terapia precauzionale.

Un po’come accade per le previsioni del tempo, potremo accorgerci del nostro imminente cambio di umore ed evitare la perturbazione.

È questo lo scopo della sperimentazione che sta per essere avviata dalla Fondazione BRF Onlus -Istituto per la ricerca scientifica in psichiatria e neuroscienze nata da pochi mesi che sarà presentata a Lucca, a Palazzo Bernardini, il prossimo 28 novembre dalle 15.30.

La Fondazione BRF Onlus, presieduta da Armando Piccinni, psichiatra e docente dell’Università di Pisa, ha messo a punto lo studio e si appresta a iniziare la sperimentazione che durerà sei mesi. Dai risultati potranno emergere i dati necessari a prevenire gli episodi di malattia. Si potrà così anticipare l’insorgenza della depressione ed evitare che i pazienti possano essere colpiti dalle conseguenze della patologia.

Il disturbo che verrà studiato sarà quello bipolare. Ne soffre ogni anno una fetta di popolazione che varia dall’1 al 2 per cento. Per quattro individui su cinque, il disturbo è destinato a ripetersi periodicamente. L’identikit del paziente affetto da disturbo bipolare è ricco di sfumature, ma nella maggior parte dei casi la patologia si caratterizza per l’alternanza ciclica di episodi depressivi e maniacali, ovvero fasi di eccitamento.

L’idea della Fondazione BRF Onlus – spiega il presidente, il prof. Armando Piccinni – è quella di identificare i marcatori biologici di questi up and down del tono dell’umore. Attraverso dei braccialetti elettronici, come quelli che usano gli sportivi, i pazienti saranno monitorati 24 ore al giorno per sei mesi. Terremo traccia delle variazioni dei battiti cardiaci, dell’alternanza sonno-veglia, dell’attività fisica e, in parte minore, delle abitudini alimentari dei pazienti. I dati saranno analizzati statisticamente per stabilire il rapporto causa-effetto tra le condizioni fisiche e il momento in cui si presenta la fase acuta del disturbo bipolare.

Il fine della ricerca è trasformare il braccialetto, dopo la sperimentazione, in un mezzo in grado di analizzare con un fine ben specifico il nostro stato fisico. In questo modo per gli specialisti, ma anche per i pazienti stessi, sarà più facile interpretare le variazioni che coincidono con le prime avvisaglie di malessere e agire con rapidità per evitare episodi depressivi o maniacali.

La Fondazione BRF ONLUS, infatti, rilascerà un’app per smartphone in grado di dialogare con il braccialetto elettronico. In questo modo una semplice notifica potrà bastare per comprendere il proprio stato di salute e gli elementi da considerare.

Si tratta del primo passo del nostro Istituto Onlus – commenta il prof. Armando Piccinni – La ricerca nell’ambito della psichiatria e delle neuroscienze ha sempre bisogno di nuove energie, umane ed economiche. Con la Fondazione BRF Onlus abbiamo deciso di metterci in gioco perché siamo certi di poter apportare contenuti innovativi per contribuire a combattere i mali del nostro tempo.

 

NELLA PROSSIMA PAGINA:

Nasce la Fondazione BRF Onlus Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze (COMUNICATO STAMPA)

Nasce la Fondazione BRF Onlus Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze 

Rendere meno soli i pazienti psichiatrici e le persone a loro vicine. E’questa la missione della neonata Fondazione BRF Onlus – Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze che verrà presentata il 28 novembre 2015 a Lucca (Palazzo Bernardini, dalle 15.30) in un pomeriggio di scienza.

Nata dall’iniziativa di alcuni clinici e ricercatori dell’Università di Pisa, la Fondazione BRF Onlus è un ente privato e senza fini di lucro, che ha come Presidente il Prof. Armando Piccinni (Università di Pisa) e come responsabile ricerche la Prof.ssa Donatella Marazziti (Università di Pisa) e annovera nel suo comitato scientifico personalità internazionali come Marc Potenza (Yale University), Dan J. Stein (University of Cape Town), ma anche Stephen W. Porges (University of Carolina) e Sue Carter (Indiana University). Fra gli italiani spiccano il Prof. Umberto Galimberti e il Prof. Eugenio Picano (CNR).

Vogliamo creare un polo scientifico – spiega il Presidente Armando Piccinni – che punti a sviluppare e finanziare nuovi progetti di ricerca, affinare le conoscenze di tutti i professionisti del settore medico, ma anche dare un risvolto applicativo alle ricerche per il miglioramento delle condizioni di vita dei malati psichiatrici e in generale dell’uomo. Spesso il paziente psichiatrico soffre per una doppia condizione: quella che gli viene consegnata dalla sua malattia, e quella che invece gli impone con l’isolamento e l’incomprensione la società. Il nostro desiderio è quello di tendere una mano, anche attraverso la divulgazione scientifica, a queste persone e alle loro famiglie.

Il pomeriggio di scienza del 28 novembre vedrà la presenza di tre luminari di chiara fama, che si avvicenderanno con altrettante lezioni. A cominciare sarà il Prof. Enrico Alleva con ‘Ruolo delle neurotrofine nel controllo dello stress e delle emozioni nell’animale e nell’uomo‘, a seguire il Prof. Patrick Pageat con ‘La comunicazione chimica dall’animale all’uomo: l’affascinante storia dei feromoni‘, l’incontro terminerà con il Prof. Fortunato Tito Arecchi e la sua lezione ‘Dal caos al linguaggio: la creatività cognitiva‘.

L’occasione sarà utile anche per illustrare le future ricerche della Fondazione BRF Onlus.

Attualmente – spiega Donatella Marazziti, responsabile ricerche – stiamo portando avanti numerosi studi. Il più importante è forse quello sui pazienti bipolari che sarà condotto in un modo innovativo: per monitorare il disturbo utilizzeremo un braccialetto elettronico che verrà presentato proprio nel corso dell’incontro del 28 novembre e che ci aiuterà nello studiare il comportamento dei pazienti e, attraverso una app, ad anticiparne le crisi.

Importanti sono anche gli studi sulle dipendenze comportamentali, nello specifico sulla food addiction e sulla dipendenza dalle nuove tecnologie supportato anche dall’accordo recentemente siglato con ENPAB (Ente Nazionale di previdenza e di assistenza a favore dei biologi), che ha portato alla nascita di una rete che mira a promuovere indagini sul comportamento alimentare e a favorire l’aggiornamento professionale rispetto alle dipendenze alimentari.

Ulteriori studi in corso – continua il Presidente Armando Piccinni – hanno come focus il temperamento e un approccio teorico ad un nuovo modello di struttura temperamentale, l’utilizzo di nuovi trattamenti nei disturbi d’ansia di sostanze naturali in collaborazione con l’istituto internazionale di ricerca IRSEA –France, lo studio sull’influenza della radiazione luminosa nella cronobiologia dei disturbi dell’umore.

In corso è anche una collaborazione con un’azienda leader mondiale di videogiochi per il riconoscimento precoce dei giocatori patologici; l’incidenza della patologia depressiva nel mondo dello sport agonistico; l’incidenza della food addiction in popolazioni giovanili; la dipendenza da Internet all’interno di popolazioni scolastiche.

Gli interventi in programma il 28 novembre:

  • Ruolo delle neurotrofine nel controllo dello stress e delle emozioni nell’animale e nell’uomo

Prof. Enrico Alleva, Director, Section of Behavioural Neurosciences – Dipartimento di Biologia cellulare e Neuroscienze. Istituto Superiore di Sanità. Presidente, Federazione Italiana di Scienze della Natura e dell’Ambiente –FISNA

  • La comunicazione chimica dall’animale all’uomo: l’affascinante storia dei feromoni

Patrick Pageat, DMV, MSc, PhD, Dipl ECVBM-CA, HDR, Professeur Associéd’Ethologie Appliquée etBien-Etre Animal àl’EI Purpan –INP Toulouse (France). Doyen de la Direction Recherche et En-seignement IRSEA – Institut de Recherche en Semiochimie et Ethologie Appliquée

  • Dal caos al linguaggio: la creatività cognitiva

Fortunato Tito Arecchi. Professor Emeritus of Physics. University of Florence – INO. (Istituto Nazionale di Ottica) – CNR

Comitato Scientifico

  • Presidente della Fondazione BRF è Armando Piccinni.
  • Responsabile delle ricerche è Donatella Marazziti.
  • Fanno parte del Comitato Scientifico illustri scienziati ed esperti di livello nazionale e internazionale. Fra questi Joseph Zohar (Sackler Faculty of Medicine, Tel Aviv, Israel), Marc Potenza (University of Yale, USA), Eric Hollander (Montefiore Medical Center, New York, USA), Stephen Stahl (University of California, San Diego, USA), Stephen W. Porges (Kinsey Institute, Indiana, USA), Sue Carter (Kinsey Institute, Indiana, USA), Konstantin Loganovsky (National Academy of Medicine Sciences of Ukraine), Hans-Jürgen Möller (Ludwig-Maximilians University, Monaco), Dan J. Stein (Universy of Cape Town, South Africa), Patrick Pageat (IRSEA, Apt, France), Siegfried Kasper (Università di Vienna, Austria), Alessandro Cozzi (IRSEA, Apt, France), Umberto Galimberti (Università Ca Foscari, Venezia), Eugenio Picano (NR), Filippo Muratori (IRCSS Stella Maris, Università di Pisa), Luciano Domenici (Università di L’Aquila), Tiziana Stallone (Comitato direttivo ENPAB), Enzo Pasquale Scilingo (Facoltà di Ingegneria, Università di Pisa), Leonardo Romei (ISIA, Urbino), Ilse Melotte (La Quercia, Italy), Laura Bazzichi (Università di Pisa), Antonio Latanà (Università di Pisa), Antonello Veltri (Università di Pisa), Rosa Scaramuzzo (Università di Pisa), Mario Campanella (Giornalista scientifico, Italy).

La depressione post-partum: cos’è e come riconoscerla?

Depressione Post-partum – Il periodo della gravidanza e del post-partum è un momento di grande vulnerabilità per la donna. Fin dal concepimento infatti si verificano una serie di cambiamenti non solo esterni, ma soprattutto interni. Per questo motivo la gravidanza viene considerata un’esperienza di “crisi”, in cui la donna acquisirà una nuova organizzazione psichica.

La gravidanza e il parto

I nove mesi di gestazione da un lato permettono alla futura madre di preparare al neonato un suo spazio fisico nel mondo reale, dall’altro le consente di riorganizzare i propri spazi interiori, di creare nella sua mente uno spazio adatto a contenere l’idea di un bambino e di sé come genitore.

Alcune donne hanno difficoltà ad accettare lo stato di gravidanza, provando sentimenti contrastanti, di felicità, di paura, di preoccupazione per ciò che le attende. Queste reazioni sono in realtà condivise da molte donne, ma non sempre vengono espresse, nel timore di sentirsi “diverse” e giudicate come inadeguate. È molto importante saper “leggere” i propri stati interni, perché tristezza, sconforto e ansia possono trasformarsi in veri e propri sintomi di depressione.

Quando il bambino nasce le cose possono complicarsi ulteriormente, poiché i due neogenitori si trovano spesso impreparati nello svolgimento del loro nuovo ruolo. Inoltre, sappiamo che per la donna il post partum è caratterizzato da un rapido cambiamento ormonale, che può favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. Solo il 10-15% della popolazione generale arriva a manifestare sintomi clinicamente significativi per una depressione post-partum. Questi sintomi non sono transitori e possono persistere anche per diversi anni.

L’interesse riscontrato per la depressione post-partum è legato al forte impatto che ha non solo sulla donna, ma anche sul padre e sul bambino. Ma quali sono i sintomi e come si può riconoscere?

 

Sintomi della Depressione post-partum

Per fare diagnosi di depressione post-partum è necessario individuare almeno cinque sintomi tra i seguenti per un arco di tempo di almeno due settimane:

  • umore depresso
  • anedonia (perdita di piacere)
  • modificazione del peso e/o dell’appetito
  • alterazione del sonno
  • astenia (perdita di energie)
  • isolamento
  • sentimenti di colpa e di inutilità bassa autostima, impotenza e disvalore
  • ansia e relativi connotati somatici
  • perdita della libido
  • riduzione della concentrazione
  • pensieri ricorrenti di morte e/o progettualità di suicidio
  • agitazione o rallentamento psicomotorio.

I sintomi nel linguaggio delle mamme si possono tradurre così:
– Umore depresso, labilità emotiva, tristezza e perdita di piacere:

“Ogni cosa ha perso il suo colore”
“Piangerei sempre”
“Non voglio vedere nessuno”
“Per un attimo mi sento benissimo e un attimo dopo sono di nuovo a terra”

– Mancanza di energia, confusione mentale e difficoltà di concentrazione:

“Sono così stanca…”
“Tutto quello che faccio è una fatica”
“Non riesco a prendere decisioni”
“Sono confusa e ho la mante annebbiata”

– Senso di disperazione, inadeguatezza e pensieri pessimisti, a volte pensieri di morte. Sentirsi prive di valore, senso di colpa e biasimo:

“Non sono capace di fare niente”
“Agli altri interessa solo il mio bambino, non come mi sento io”
“Perché sto così male adesso che ho questo bellissimo bambino?”
“Mi sono appena seduta e il bambino ricomincia a piangere”
“A volte penso che tutti starebbero molto meglio se io non ci fossi più”

– Sintomi ansiosi, irritazione:

“Mi sento in allarme”
“Sento che sto per esplodere”
“Ho le palpitazioni, il respiro corto”
“Mi sento un nodo alla gola”

– Alterazione funzioni neurovegetative (sonno, appetito, libido):
“Non sopporto di essere toccata”
“Mi sveglio presto”
“Non ho appetito”
“Mangio senza un freno”

Alcune donne possono presentare solo alcuni di questi sintomi senza soddisfare i criteri per la diagnosi di depressione post-partum. Si può trattare infatti di altri disturbi come il disturbo dell’adattamento con umore depresso.

Quando lo stress che la donna vive nel periodo immediatamente dopo la nascita del bambino è una reazione momentanea alle richieste del neonato o di altri membri della famiglia, non viene fatta alcuna diagnosi. In questi casi fornire informazioni, rassicurazioni e ascolto possono bastare.
Altre volte le difficoltà a concentrarsi, a prendere decisioni e a prendere sonno possono derivare da ansia grave. A meno che non sia presente anche un umore depresso, non si parla di depressione post-partum, ma di un disturbo d’ansia che necessita comunque di un trattamento specifico. È bene però ricordare che la presenza di un certo grado di ansia in un quadro depressivo è una caratterista comune della depressione post-partum.

 

Quando si manifesta la depressione post-partum?

I primi sintomi possono cominciare a manifestarsi già nella 3-4 settimana successiva al parto, manifestandosi clinicamente tra il quarto e il sesto mese, con segnalazioni di casi anche fino ai nove mesi. Questi sintomi non vanno però confusi con la maternity blues, un lieve disturbo emozionale transitorio di cui soffrono più della metà delle donne nei primi giorni dopo il parto e che si risolve spontaneamente entro una settimana senza particolari conseguenze sulla mamma e sul neonato.

Quando la mamma o le persone che le stanno vicine riconoscono i sintomi della depressione post-partum o notano che il malessere persiste per più di due settimane è bene rivolgersi a uno psicologo, che attraverso un colloquio, specifici test e l’osservazione clinica potrà consigliare il percorso di trattamento migliore. Uno tra i trattamenti più efficaci è quello cognitivo-comportamentale (CBT). Prima si interviene, migliore è la prognosi.

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Sviluppi nei paradigmi psicopatologici

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 3

E’ oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva.

LEGGI ANCHE: Tra analisi scientifica e stigma sociale – (Parte 1/4)

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A lungo, la ricerca e gli studi criminologici hanno operato una serie di semplificazioni e di riduzionismi riguardo al rapporto tra devianza e disagio psicologico; il comportamento deviante e criminale è stato spesso tout court ricondotto a problematiche di natura psicopatologica, che determinerebbero la condotta deviante disinibendo il comportamento e affievolendo le capacità cognitive della persona.

Nonostante questa concezione sia notevolmente radicata nel senso comune e, anche se in maniera minore, in quello psicologico e giuridico, si tratta di un’idea riduzionistica, stereotipata, in quanto è oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva (De Leo, 1998).

Storicamente, le tipologie psichiatriche più frequentemente ritenute predittive della condotta criminale adulta sono state la psicosi, la nevrosi e la personalità psicopatica; per quanto riguarda l’età evolutiva e l’adolescenza l’adozione di queste categorie è stata più limitata, e si è fatto più spesso riferimento ad altre categorie diagnostiche, quali il Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (ADHD), il Disturbo della condotta e il Disturbo oppositivo provocatorio.

In tutti questi casi, la presenza di una etichetta diagnostica non rappresenta di per sé un fattore prognostico per una condotta antisociale o criminale, né ne fornisce una spiegazione univoca e inequivocabile. Ad esempio, l’iperattività diagnosticata durante l’infanzia potrebbe in adolescenza scomparire oppure attenuarsi, confinandosi solo a specifici contesti; allo stesso modo, la cattiva condotta può variare notevolmente in base al contesto e all’età in cui insorge (De Leo, 1998). Per quanto concerne poi l’atteggiamento oppositivo e provocatorio, attualmente si è concordi nel considerarlo parte integrante dell’adolescenza, senza che per questo sia considerato un sintomo, ma piuttosto come un’espressione di bisogni di individuazione e affermazione (Bonino, Cattelino, Ciairano, 2003; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Sono stati dunque messi progressivamente in crisi i modelli nosografici classici e la loro applicazione diretta ad una fase della vita così particolare e delicata come l’adolescenza; tali modelli sembrano ancorati a un’analisi del comportamento umano in termini fortemente positivistici e guidati da criteri ordinativi e descrittivi del fenomeno, inappropriati a cogliere il senso in cui gli adolescenti costruiscono percorsi anomali o devianti (De Leo, 1998). Manca, in sostanza, la considerazione del rapporto tra contesti (affettivi, normativi e sociali) e processi di sviluppo, al cui interno la condotta si verifica e acquista significato.

Le diverse espressioni comportamentali problematiche in adolescenza, come l’aggressività, l’opposizione, le provocazioni, dovrebbero quindi essere intese non come sintomi da ricondurre a una categoria diagnostica, ma come effetti che emergono e assumono significato nell’interazione con diversi contesti produttori di norme e significati. Lo stesso concetto di normalità deve essere sottoposto a valutazioni critiche quando si parla di adolescenza. Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) sostengono che in adolescenza difficilmente la normalità si configura come assenza di sintomi e deve quindi essere valutata in funzione dei compiti che questa fase propone. Gli autori, confermando la scarsa utilità dei sistemi nosografici classici nella valutazione clinica in adolescenza, propongono di considerare il funzionamento psichico formulando la valutazione in termini di bilancio evolutivo; in questa prospettiva, le diverse aree di sviluppo possono essere considerate come sistemi in fase di riorganizzazione e che non hanno ancora trovato un assetto definitivo sufficiente a consentire la valutazione della personalità nel suo complesso, così come avviene per gli adulti.

Al bisogno di modelli e strategie di valutazione clinica che tengano conto della specifica fase evolutiva in cui si trova l’adolescente, con tutte le conseguenze sul piano affettivo, cognitivo, relazionale e sociale, tenta di rispondere l’approccio della psicopatologia evolutiva o developmental psychopathology; tale approccio si basa su concetti e metodologie utili alla comprensione dello sviluppo mentale e patologico durante l’età evolutiva (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004). Secondo questa impostazione teorica, il soggetto si confronta, nella fase di sviluppo in cui si trova, con diversi compiti adattivi, in una relazione dinamica con l’ambiente; la psicopatologia viene dunque considerata un fallimento nella risoluzione dei compiti evolutivi, da cui derivano distorsioni e disadattamenti. Il processo evolutivo è considerato un’interazione dinamica tra organismo e ambiente, in cui si succedono fasi d’adattamento e di crisi che obbligano l’individuo ad elaborare nuove strategie.

Hudziak, Achenbach e colleghi (2007) affermano che la psicopatologia in età evolutiva differisce da quella adulta sotto diversi aspetti. Prima di tutto, l’espressione della psicopatologia nei bambini si modifica sia nella sue manifestazioni che nella sua gravità nel corso dello sviluppo; inoltre, è necessario tenere conto dei cambiamenti riguardo a cosa deve essere considerato normale e adattivo, in quanto alcuni comportamenti considerati patologici ad una certa età possono essere considerati normali ad un’altra età. Infine, l’assessment della psicopatologia in bambini e adolescenti necessita di una molteplicità di fonti di informazioni, tra cui i genitori, gli insegnanti e i ragazzi stessi. Gli autori propongono di affiancare alla diagnosi categoriale proposta dal DSM, una diagnosi di tipo dimensionale, maggiormente adeguata a cogliere gli aspetti peculiari delle manifestazioni psicopatologiche in infanzia e adolescenza, la loro plasticità e il loro cambiamento nel tempo; dal momento che l’uso combinato ed integrato dei due sistemi diagnostici è sensibile alle differenze di età, di genere e della fonte di informazione, è possibile valutare i miglioramenti o peggioramenti del soggetto anche in relazione ai diversi contesti di sviluppo.

La psicopatologia evolutiva propone quindi un approccio evidence-based alle manifestazioni patologiche in infanzia e adolescenza, di grande utilità anche per quanto riguarda la cura e la presa in carico del minore autore di reato (Rossi, 2004). La psicopatologia evolutiva si basa sull’analisi attenta in maniera congiunta, sinergica e interattiva di due tipologie di fattori: quelli di rischio, che aumentano la probabilità di condotte o manifestazioni disadattive, e quelli di protezione, che agiscono in direzione opposta favorendo l’adattamento dell’individuo e modulando l’effetto dei primi (Connor, 2002).

In letteratura vengono elencate diverse tipologie di fattori protettivi e di rischio in rapporto allo sviluppo delle condotte devianti in adolescenza. Ingrascì e Picozzi (2002) elencano a questo proposito cinque specifici fattori di predizione della violenza giovanile: fattori individuali, fattori familiari, fattori contestuali. I fattori individuali comprendono la presenza di caratteristiche psicopatologiche (iperattività, irrequietezza, deficit di attenzione, disturbo della condotta) e la comparsa precoce di comportamenti aggressivi e antisociali, ma non possono essere considerati se non in costante interazione con i tre più importanti e rilevanti contesti relazionali in cui l’adolescente cresce, ovvero la famiglia, la scuola e il gruppo dei coetanei.

Connor (2002) sottolinea inoltre che gli effetti delle relazioni con i genitori e con gli amici non si escludono a vicenda ma, al contrario, sono compresenti e si potenziano reciprocamente; Cattelino e Bonino (1999) confermano questo dato sostenendo che il rischio risiederebbe dunque nell’interazione tra un atteggiamento di scarso controllo da parte dei genitori, uno scarso investimento di tempo trascorso con la famiglia e molto tempo passato con amici che non impongono divieti sufficienti verso comportamenti trasgressivi. Infine Ingrascì e Picozzi annoverano tra i fattori di predizione anche quelli attinenti la sfera socio- culturale, tra i quali la disponibilità di droghe e armi, coinvolgimento nella criminalità di adulti vicini, esposizione alla violenza e al pregiudizio razziale.

Dodge e Zelli (2000) non parlano di fattori di rischio e protezione, ma propongono un modello multidimensionale ed ecologico in cui fattori distali (biologici e socioculturali) sono mediati da fattori prossimali, ovvero esperienze vissute dall’adolescente nei vari contesti di sviluppo:

Nel corso dello sviluppo il funzionamento neuro e psicofisiologico, il contesto socio-culturale e le esperienze vissute con i genitori e con gli altri si influenzano reciprocamente e in modi diversi, che possono favorire od ostacolare il manifestarsi di comportamenti antisociali.

I fattori distali, che rappresentano dunque il bagaglio biologico, genetico e socio-culturale dell’individuo, possono esporre l’adolescente a particolari esperienze a scuola, in famiglia o con i pari; queste esperienze, in maniera interattiva e ricorsiva, interagiscono con i fattori distali, modulandone e mediandone l’impatto in direzione protettiva oppure deviante. L’interazione costante tra i due tipi di fattori riveste dunque un ruolo cruciale nello sviluppo delle condotte devianti o, al contrario, nella loro prevenzione, e nel favorire o ostacolare l’adattamento dell’adolescente ai suoi contesti di vita.

Per quanto riguarda invece i fattori di protezione, Connor (2002) li definisce i fattori come risorse che modificano e migliorano la risposta dell’individuo ad alcuni pericoli ambientali che altrimenti lo predisporrebbero a conseguenze disadattive; i fattori protettivi modulano l’impatto degli agenti stressanti, aumentando le abilità di coping, migliorando l’adattamento e costruendo nuove competenze. L’autore elenca, per esempio, tra i fattori protettivi quelli individuali (buona autostima, competenze sociali, successo scolastico), quelli familiari (attaccamento sicuro con il caregiver, relazioni positive) e quelli extrafamiliari (supporto sociale esterno, relazioni amicali positive).

Connor aggiunge inoltre che la semplice analisi dei fattori di rischio e protezione non è sufficiente per spiegare la reale comparsa del comportamento violento e propone quindi un modello multidimensionale e integrato che prevede la necessaria presenza di altre condizioni, quali la concreta possibilità di compiere il reato, la mancanza di supervisione e di controllo parentale, l’associazione a gruppi delinquenziali e la possibilità di ottenere rinforzi diretti e indiretti alla propria condotta; i vantaggi ottenuti da un crimine non sono solamente di natura materiale, ma riguardano anche il rispetto, l’acquisizione di un certo status all’interno del gruppo dei pari, la paura o l’ammirazione suscitata negli altri (e ciò è particolarmente vero per gli adolescenti), l’esercizio del potere, il piacere della trasgressione (De Leo, 1998; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004).

Secondo questo modello, quindi, il comportamento criminale è preceduto da alcuni fattori di rischio che devono però necessariamente associarsi a fattori precipitanti e di mantenimento della condotta violenta, che portano nel tempo all’assunzione di un ruolo deviante e alla cristallizzazione di un’identità in questo senso. Anche Ingrascì e Picozzi (2002) sottolineano l’importanza di tenere conto, all’interno della dinamica criminogenetica, della catena multicausale che sfocia nell’atto antigiuridico; occorre considerare, dal punto di vista dell’autore, i rapporti tra costi e benefici che l’azione criminale produce e la complessità dei fattori non solo contestuali, situazionali, sociali ma anche psicologici e psicopatologici che circondano l’atto criminale.

L’ottica adottata è quindi multifattoriale, multidimensionale e probabilistica. I comportamenti devianti possono essere letti e interpretati, adottando quest’ottica, come modalità di risposta a costellazioni di fattori cointeressati, superando alcuni limiti storici appartenenti alla criminologia minorile: si pensi ad esempio alle problematiche dell’etichettamento che discendono da una valutazione moralistica della condotta minorile, o alle facili letture dell’agito criminale come esito di una causa precisa e identificabile (Rossi, 2004).

Il contributo che la psicopatologia evolutiva può offrire nella valutazione e nella presa in carico dell’adolescente a rischio di condotte criminali è rilevante, in quanto consente di tenere conto della complessità delle diverse istanze di sviluppo e della loro costante interazione tra loro, fornisce concetti teorici e metodologie qualitativamente adeguate alla fase evolutiva in esame e sostituisce definitivamente la logica universalisitica-determinsitica con una logica probabilistica, dinamica e temporale.

La teoria della mente – Introduzione alla Psicologia nr. 35

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 35)

 

 

Avere una teoria della mente significa riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di queste presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (Sempio et al., 2005).

Si tratta di un’abilità utilizzata quotidianamente e serve ad avere rappresentazioni del funzionamento della mente altrui che permettono di gestire gli stati interni e le relazioni sociali al meglio. Infatti, proprio grazie alla teoria della mente è possibile spiegare, predire e agire sul comportamento proprio e altrui (More, Frye, 1991).

La teoria della mente fa riferimento a stati mentali inferiti da una serie di comportamenti che costituiscono, unitamente, un sistema esplicativo e unitario di rappresentazioni.

La teoria della mente si sviluppa durante i primi anni di vita grazie a una sana interazione con le figure di riferimento e permette di avere uno specchio sulle proprie e altrui capacità cognitive.

Sono state individuate delle variabili che facilitano la formazione di una teoria della mente nel bambino in interazione con un adulto:

  • Attenzione Condivisa, portare la concentrazione contemporaneamente su una stessa cosa o gioco;
  • Imitazione Facciale, riproduzione di particolari mimiche facciali
  • Gioco di Finzione, simulare finti giochi tra adulto e bambino

 

Teoria della mente: “fredda” e “calda”

La teoria della mente, permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003), e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). Sulla base di queste affermazioni, è possibile fare una distinzione tra una teoria della mente “fredda”, usata spesso con fini manipolatori e antisociali, e una teoria della mente “calda”, avente scopi volti al benessere sociale e comunitari.

Dicevamo, che la teoria della mente può essere usata per perseguire scopi manipolatori come nel caso dell’inganno (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999) o per interpretare sentimenti e emozioni altrui, ottenendo vicinanza psicologica come nel caso dell’empatia (McIlwan, 2003) o della comunicazione degli stati emotivi tra madre e bambino (Riva Crugnola, 1999).

La teoria della mente nello sviluppo della psiche dei bambini

Mostrare una padronanza della teoria della mente risulta essere una funzione altamente adattiva per il bambino (Fonagy, Target, 2001). Infatti, quando il bambino riesce a esplicare questa capacità attribuendo stati mentali agli altri diventa in grado di dare un senso al comportamento e a prevedere le reazioni emotive in relazione a un comportamento proprio e altrui. Questa abilità permette, di conseguenza, la messa in atto di comportamenti adatti a ogni situazione sociale.

Secondo Fonagy (2001) il bambino grazie all’interazione con l’altro-adulto, può produrre modelli di rappresentazione del funzionamento di se stesso e dell’altro. Tali modelli gli permettono di adattarsi in maniera funzionale alle situazioni per raggiungere scopi propri e altrui. La mentalizzazione permette di acquisire due abilità: l’autoconsapevolezza e riflessività (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999). Significa, che il bambino è consapevole delle proprie capacità e di quelle altrui ed è capace di riflettere sui propri processi mentali. In questo modo riesce a gestire e a determinare il suo comportamento, riconoscendo di avere dei limiti in alcune funzioni e di avere una serie di conoscenze a cui attingere.

Fonagy e Target (2001), sostennero che la teoria della mente, offre una funzione protettiva per tutti coloro che mostrano delle difficoltà oggettive dovute a traumi subiti, consentendogli di mantenere una sorta di integrità cognitiva ed esperenziale (Fonagy e Target, 2001).

Per concludere, è possibile dire che tale abilità si sviluppa nel tempo e col tempo, quindi non si nasce con una teoria della mente strutturata, ma essa deriva da una serie di attitudini acquisite e da esperienze verificatesi durante la prima infanzia che portano alla formazione di rappresentazioni mentali proprie e altrui che guidano il comportamento sociale del bambino e del futuro adulto.

 

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La psicoterapia modifica il nostro cervello: mente e corpo un’unità ritrovata

Valentina Retto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Psicoterapia: la concezione che la mente e il corpo siano entità separate è anacronistica e limitante nel campo della diagnosi e della cura del ventunesimo secolo. Oggi si presenta un’opportunità importante per la convergenza tra la medicina e la psicologia, attraverso le neuroscienze.

Psicoterapia: Il pregiudizio originale

Ancora troppo diffusa è la credenza che in psicoterapia si facciano solo “chiacchiere”.
Questo pregiudizio, ovvero un giudizio anticipato e prematuro, come altri ha delle fondamenta culturali profonde. E’ nato da una visione dualistica della cultura occidentale che separa nettamente il concetto di mente da quello di corpo.
Dicotomia che ha condotto a una disparità, anche nell’importanza comunemente attribuita in maggior misura alla salute fisica, a discapito di quella mentale. (McClanahan et al., 2006).
Tuttavia, le più recenti scoperte hanno permesso di stabilire con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello, producendo un vero e proprio mutamento dei circuiti neuronali. Le tecniche di neuroimaging dimostrano che il lavoro psicoterapeutico produce le stesse modifiche chimiche che sono apportate dalla terapia psicofarmacologica, indebolendo la concezione dualistica che vede come nettamente separati la mente e il corpo (Gabbard G. O., 2000).

 

Le radici del pregiudizio: il dualismo mente-corpo

In origine, la Psicologia è nata con lo scopo di studiare gli aspetti caratteriali e comportamentali dell’uomo. Il termine psicologia è stato coniato nel XVI secolo, da Rodolfo Goclenio, e deriva dalle parole: psiché (respiro, alito, fiato, principio vitale, ma anche carattere personale e modo di agire), e logos (discorso, pensare, ragion d’essere, studio). Tuttavia, le radici della Psicologia affondano ancora più in profondità nella filosofia dell’Antica Grecia, con il pensiero di Platone (400 a.C.). Dalla sua teoria nasce la contrapposizione tra tutto ciò che è considerato immateriale e intangibile, il mondo delle idee, e ciò che invece è materiale, corporeo.

Successivamente, questo pensiero dicotomico viene rinforzato dalla filosofia Cartesiana del XVII secolo, con la res cogitans e la res extensa, e fino ad oggi ha influenzato, insieme alla cultura Cattolica, il pensiero del mondo occidentale (Damasio, 1995). Da tali basi si è istaurata una netta divisione tra mente e corpo, questo dualismo ci ha portato a concepire l’uomo come un insieme di organi con distinte funzioni, perdendone il senso di unicità. Da un lato, stimolando un elevato sviluppo conoscitivo e tecnologico, “le specializzazioni”, dall’altro, però, ostacolando un approccio multidimensionale allo studio e alla cura dei fenomeni umani, normali e patologici (Trombini, G. & Baldoni, F., 1998).

In un recente studio condotto tra Belgio e Regno Unito, sono stati osservati gli atteggiamenti inerenti il rapporto mente-corpo e le variabili che rappresentano le differenze di tali inclinazioni, in un campione di studenti universitari e operatori sanitari. I sondaggi indicano una predominanza dell’ideologia dualistica. I giovani, le donne, e chi ha credenze religiose sono i più propensi a credere che la mente e il cervello siano separati e negano la fisicità della mente. La fede religiosa è risultata essere il miglior predittore per tale atteggiamento. Tra gli operatori sanitari, invece, la maggior parte è contraria alla presenza di una divisione tra la coscienza e il corpo. Tuttavia, anche una parte considerevole di questi professionisti, medici e paramedici, più di un terzo, sostiene la concezione dualistica (Demertzi, A. et al., 2009).

Psicoterapia e dualismo mente-corpo: un diverso punto di vista

Una prospettiva alternativa la ritroviamo nella cultura orientale, caratterizzata per avere una visione più ampia dell’oggetto osservato, che viene sempre posto in relazione agli altri elementi del contesto (Nisbett R.E. & Masuda T., 2003). Corpo e mente sono visti come aspetti inseparabili; in particolare, nella filosofia Buddista per unicità non si intende che corpo e mente siano identici, ma che non siano separati, essi sono considerati entità distinte di uno stesso essere vivente che dialogano e interagiscono profondamente. (Feldenkrais, M., 1991; Frank R., 2005).

Tra gli approcci più moderni in ambito medico, invece, si cerca di colmare questa distanza con la medicina integrativa, l’approccio olistico, o la psicosomatica. Infine, il concetto di Engel di medicina biopsicosociale suppone una matrice triangolare, in cui il corpo e la mente sono posti in una relazione reciproca e nei confronti di un terzo agente, l’ambiente. Ciò che emerge da questi nuovi approcci è la necessità di un lavoro interdisciplinare, nel quale il paziente venga preso in carico nella sua interezza, in un’ ottica di cura alla persona e non della malattia (Brunnhuber S. & Michalsen A., 2012; Herrmann-L Sargent, P.A. et al., 2012; Santagostino, 2005; Scogliamiglio, 2008).

 

Psicoterapia e pregiudizio occidentale: pillole per il corpo e parole per la mente

A causa del “pregiudizio occidentale”, l’ambito di indagine della psiché ha imboccato due percorsi separati: quello biologico (neurologia e psichiatria) e quello psicologico (psicologia e psicoterapia), creando la distinzione tra le “malattie del cervello” e i “disturbi della mente”. Si è strutturata, così, anche una divisione dell’iter diagnostico e dell’approccio terapeutico; secondo questa visione dicotomica i disturbi della mente devono essere trattati con la psicoterapia, mentre per le “malattie del cervello” vengono utilizzati gli psicofarmaci (Andreasen, N.C., 2004).
In sostanza, vige la credenza secondo la quale il cervello si cura con i farmaci, mentre la mente si cura con le parole, perché queste non hanno effetti sul corpo. In relazione a ciò, nel senso comune si è venuta a formare l’idea che dallo psicoterapeuta “si facciano delle chiacchiere”, e che le figure professionali dello psicologo e dello psicoterapeuta siano serenamente intercambiabili, se non addirittura sostituibili con figure professionali non adeguatamente formate come il counselor, il life-coach e il trainer o il migliore amico.

Dualismo mente-corpo: è davvero così?

Sigmund Freud, nel suo Progetto di una psicologia (1895), ha scritto:

[blockquote style=”1″]Un giorno sarà possibile rappresentare il funzionamento psichico negli elementi organici del Sistema Nervoso.[/blockquote] (Kandel, E.R., 1998).

Oggi, gli studi dimostrano che quell’auspicio si sta avverando.
Le ricerche degli ultimi anni stabiliscono con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello, producendo al suo interno modifiche chimiche del tutto simili a quelle apportate dai farmaci (Frewen, P.A. et al., 2008).
Quindi, questa “terapia della parola” non solo cambia il comportamento, ma è anche in grado di rinnovare i processi di pensiero e, dunque, di mutare i circuiti neurobiologici del cervello (Gabbard, G.O., 2000).

Integrazione mente-corpo: come accade?

Le percezioni, la memoria, i pensieri, le emozioni e i comportamenti sono gestiti da determinati circuiti neuronali. Ogni disturbo cognitivo deriva da un’alterazione della struttura o della funzionalità di queste reti. Il cervello è un organo plastico, capace di modificarsi nel momento in cui l’individuo riflette, apprende e memorizza, ed è in grado di generare, regolare o modificare le funzioni indispensabili per la vita, sia da un punto di vista biologico che sociale (Dolan R.J., 2002; Squire, L. & Kandel, E.R. 2003; Straube T. et al.,2006).
La psicoterapia promuove l’apprendimento di modi alternativi di pensare e comportarsi, ovvero altera la forza delle sinapsi tra i neuroni, portando, quindi, a dei veri e propri cambiamenti morfologici nei neuroni stessi.
Alla luce di queste conoscenze, in campo scientifico si sta già da tempo gradualmente correggendo la dicotomia culturale di partenza, che prevede una rigida distinzione tra i disturbi neurologici, psichiatrici e psicologici, accogliendo un approccio integrato e interdisciplinare (Manna V., 2008).

 

Psicoterapia: come agisce?

Lo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale divide la terapia principalmente in due fasi, in un primo momento raccoglie informazioni personali, familiari e sull’evoluzione del disturbo per il quale la persona ha richiesto assistenza, inoltre, osserva gli schemi di pensiero e di comportamento, lo stile relazionale e la modalità in cui esprime le emozioni. In un secondo momento si apre la fase dell’intervento terapeutico vero e proprio, i cui obiettivi sono concordati esplicitamente con il paziente sulla base delle richieste fatte, e vengono perseguiti con un coinvolgimento attivo da parte di entrambi, applicando tecniche specifiche, che il professionista può conoscere e padroneggiare solo in seguito ad anni di studi e praticantato. Il fine di una corretta psicoterapia non è quello di modificare l’intera struttura di personalità dell’individuo, bensì stimolare l’apprendimento di pensieri e comportamenti più funzionali, ovvero che non generino sofferenza e disadattamento sociale.

 

Psicofarmaci: coadiuvanti della psicoterapia, non sostitutivi

La psicoterapia modifica il cervello, quindi non è meno “biologica” rispetto alla terapia farmacologica. Ciò non significa che la terapia con i farmaci, non sia uno strumento necessario nel processo di trattamento dei pazienti con maggiore disagio. Tuttavia, gli psicofarmaci tendono ad essere prescritti anche quando non necessari, oppure vengono utilizzati in modo sostitutivo della psicoterapia. Questo accade anche quando le evidenze ci insegnano che la psicoterapia, o la terapia associata se necessario, hanno risultati superiori rispetto all’utilizzo esclusivo della terapia farmacologica (DeRubeis, R.J. et al., 2008; Hirvonen, J. et al, 2010; Hollon, S.D., et al., 2005; Praško, J. et al., 2004).

Efficacia della Psicoterapia: che prove abbiamo?

La psicoterapia è efficace, in particolare, l’American Psychiatric Association (APA) ha stilato le linee guida internazionali sulla base di rigorose revisioni della letteratura scientifica, indicando la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) come la più indicata per la gran parte dei disturbi psicologici raccolti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), e la definisce più efficace della terapia psicofarmacologica sul lungo periodo (Evidence-Based Mental Health, 2003; Fonagy, P. et al., 2002; Michielin P. & Bettinardi O., 2004).

Più recentemente, i risultati di una ventina di studi hanno riscontrato che la CBT modifica la disfunzione dei circuiti neuronali correlati al disturbo psicopatologico trattato. I percorsi psicoterapici testati riguardano pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (Apostolova, I. et al., 2010; Baxter, L.R. et al., 1992; Lehto, S.M. et al., 2008; Nakao, T. et al., 2005; Schwartz, J.M. et al., 1996), disturbo depressivo maggiore (Brody A.L. et al., 2001; Goldapple, K. et al., 2004; Hirvonen, J. et al., 2010; Hollon, S.D. et al., 2005; Karlsson, H. et al., 2010), fobia sociale (Furmark, T. et al., 2002), fobia specifica (Johanson A. et al., 2006; Paquette V. et al., 2003; Straube, T. et al., 2006), disturbo da attacchi di panico (Sakai, Y. et al. 2006), schizofrenia (Penadés, R. et al., 2002), disturbo post-traumatico da stress (Felmingham K. et al., 2007; Levin, P. et al., 1999; Peres, J.F.P. et al., 2005), sindrome del colon irritabile (Lackner, J.M. et al., 2006) e disturbo borderline di personalità (Schnell, K. & Herpertz, S.C., 2007).

Gli effetti neurobiologici della psicoterapia possono essere misurati utilizzando metodi di neuroimaging funzionale, che sono visti come estremamente rilevanti sia per le neuroscienze sia per la psicologia, dal momento che possono gradualmente raggiungere una più precisa identificazione dei circuiti neurali associati a disturbi mentali specifici. Studi condotti utilizzando metodi come la tomografia a emissione di singolo fotone (SPECT), la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fRMI), forniscono un importante contributo, dal momento che le dinamiche cerebrali possono essere osservate in vivo e in situazioni controllate (Sargent, P.A., 2000).

 

Psicoterapia, mente e corpo: conclusioni

La concezione che la mente e il corpo siano entità separate è anacronistica e limitante nel campo della diagnosi e della cura del ventunesimo secolo. Oggi si presenta un’opportunità importante per la convergenza tra la medicina e la psicologia, attraverso le neuroscienze.
Ogni cambiamento nei nostri processi psicologici e cognitivi si riflette in variazioni strutturali e funzionali del cervello stesso.
Non si tratta di un sostegno al riduzionismo biologico, l’obiettivo non è certo provare che tutto quello che non si può misurare con strumenti di neuroimaging allora non ha valenza scientifica. Piuttosto, si vuole dire che grazie ai suddetti progressi tecnologici e all’incremento delle conoscenze scientifiche, è possibile osservare come i pensieri e i loro correlati biologici si modificano all’unisono.

Inoltre, si è dimostrato come la psicoterapia cognitivo-comportamentale sia in grado di produrre tali cambiamenti, mutando la chimica celebrale al pari o più a lungo della terapia psicofarmacologica. Un numero sempre maggiore di neuroscienziati e di psicoterapeuti sta costruendo collegamenti sperimentali e concettuali tra questi due rami complementari e interdipendenti della conoscenza.
Quanto raccolto, infine, spezza le radici di quel pregiudizio ancora troppo presente nel senso comune, che tuttora continua a fraintendere l’efficacia e la natura stessa della psicoterapia.

Il legame tra carenza di esercizio fisico e abuso di alcol

 

Da una ricerca su larga scala riguardante uomini e donne afro-americani è emerso che coloro i quali non si dedicano mai all’esercizio fisico, o di rado, hanno circa il doppio delle probabilità di abuso di alcol rispetto a quelli che si allenano con maggiore frequenza.

Tale scoperta potrebbe avere implicazioni su tutti i gruppi sociali. In particolare, dall’indagine, condotta su 5002 uomini e donne afro-americani, è emerso che quelli che non si impegnano per niente in attività fisiche, o solo occasionalmente, hanno una probabilità quasi doppia – tra l’84 e l’88 % in più – di abuso di alcol rispetto a coloro che regolarmente sono coinvolti in attività fisiche, tenendo in considerazione fattori demografici, come caratteristiche di reddito e di vicinato.

I partecipanti della ricerca appartengono alla National Survey of American Life (NSAL), uno studio che ha avuto luogo tra il 2001 e il 2003, diretto a identificare differenze razziali ed etniche nei disordini mentali e in altri disagi psicologici, compresi quelli inclusi nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Lo studio si è basato sulla definizione di abuso di alcol fornita dal DSM-IV, che lo descrive come quel:

‘bere’ che ha conseguenze sociali, professionali e/o giuridiche negative.

Le scoperte della ricerca sono state presentate all’incontro dell’American Public Health Association, tenutosi a Chicago il 2 novembre. April Joy Damian, dottorando nel Dipartimento di Salute Mentale della Scuola di Salute Pubblica Johns Hopkins Bloomberg e autore dello studio, ha affermato che sono state svolte ricerche sull’associazione tra uso di sostanze e relative condizioni di salute in comorbilità, come depressione e ansia, ma ci sono stati pochi studi che hanno esaminato la connessione tra esercizio fisico e il decremento della possibilità di sviluppare un disturbo da abuso di alcol.

Infatti – Damian ha detto – la NSAL ci fornisce semplicemente uno spaccato della situazione in un certo momento del tempo, ma non possiamo dire se impegnarsi nell’attività fisica impedisca lo sviluppo di un disturbo da abuso di alcol o se lo stesso disturbo possa essere trattato prescrivendo dell’attività fisica.

Ad ogni modo, considerando l’elevato tasso di co-occorrenza che il disturbo da abuso di alcol ha con depressione e ansia, il ricercatore asserisce l’importanza dello sviluppo di ulteriori studi a riguardo, sia su Afro-Americani sia su tutti gli altri gruppi etnici. Inoltre l’autore aggiunge:

Dovremmo considerare come l’esercizio fisico incida sui comportamenti alcol-relati e disegnare programmi di intervento per le persone a rischio.

Il Congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg, 20-22 novembre 2015 – report parte 2

L’ECED ha sempre avuto un atteggiamento ecumenico, non rimanendo chiusa ai trattamenti non cognitivi per i disturbi alimentari. 

Tra le cose che abbiamo seguito nel secondo giorno del congresso ci ha convinto un lavoro dello svizzero Dagmar Pauli sull’importanza del trattamento domiciliare per i disturbi alimentari gravi, quelli più restii alla cura e più invischiati nell’ambiente familiare o più danneggiati, mentre il norvegese Kjersti Hognes Berg ci ha aggiornato sull’utilità della fisioterapia per queste pazienti, non solo da un punto di vista fisico ma anche psicologico: la fisioterapia possiede anche un aspetto esperienziale e corporeo che incrementa il benessere in queste pazienti, pur non producendo miglioramenti sintomatici.

Barbara Pearlman ha illustrato come lei integra interventi neuroscientifici cognitivi e psicodinamici nella sua pratica clinica, secondo un modello che sembra dovere molto al lavoro di Peter Fonagy. Puramente psicodinamici invece i modelli della francese Florence Askenazy e della danese Susanne Lunn. Non è una sorpresa. L’ECED ha sempre avuto un atteggiamento ecumenico, non rimanendo chiusa ai trattamenti non cognitivi per i disturbi alimentari.

 

È stato anche un congresso dedicato alla trascurata figura del paziente con disturbo alimentare di sesso maschile. Ne hanno parlato sia lo spagnolo Fernandez-Aranda che le norvegesi Lynn Reas e Stedal. Timea Krizbai dalla Romania ha parlato di ortoressia, questo nuovo disturbo alimentare caratterizzato dall’ossessione di mangiare sano. Krizbai ci ha spiegato che le persone con Ortoressia Nervosa, infatti, mettono in atto dei veri e propri rituali ossessivi, che possono essere suddivisi in 4 fasi (Brytek-Matera, 2012):

1 – forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare, con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi (ad es., cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o ‘artificiali’, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale);

2 – impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;

3 – preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (ad es., cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);

4 – sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

 

Molto interessante la tedesca Elisabeth Kohls che ha dimostrato come una buona ed equilibrata alimentazione prevenga non solo l’anoressia ma anche la depressione. L’australiana Charlotte Keating ha esplorato l’attaccamento insicuro nei disturbi alimentari.

Nel dibattito finale, un must dell’ECED, si sono scontrate l’olandese Isis Elzakkers e la finlandese Anna Keski-Rakhonen, la prima difendendo la bontà della necessità di trattamenti evidence based in nome del rigore scientifico, la seconda attaccandoli nel nome della creatività clinica. L’olandese aveva sostenuto che è difficile difendere una posizione anti evidence in un congresso psicologico psichiatrico e psicoterapeutico di questi tempi, ma certo il ridotto successo del protocollo di Fairburn nelle anoressiche restrittive o binge purge, ha provocato un certo scetticismo, una certa tendenza a essere disillusi sull’efficacia, e invece di arricchire e tentare di comprendere meglio il funzionamento di queste pazienti, si è visto qualche tentativo di ricorrere di nuovo alla necessità del simbolico, dell’interpretativo.

A nostro giudizio molto c’è ancora da fare nel mondo della ricerca sui disturbi alimentari per integrare le conoscenze che provengono dai diversi campi e per arrivare a un modello più fine, esaustivo e preciso del funzionamento di queste pazienti. Basti pensare al ruolo dei processi, come il rimuginio e la ruminazione, ancora del tutto trascurati nelle ipotesi di intervento clinico e psicoterapeutico. Solo questa può essere una premessa a una nuova corrente di ricerca di efficacia psicoterapeutica basata su ipotesi nuove.

Il congresso si è concluso nella consueta atmosfera amichevole e familiare che lo connota da sempre. Arrivederci tra due anni.

Il trauma nel racconto dei rifugiati: la terapia dell’esposizione narrativa (NET)

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014).

[blockquote style=”1″]Quando un essere umano infligge un dolore o un danno ad un altro essere umano, ne deriva una lacerazione a livello umano e personale. Il trauma distrugge il nucleo di umanità caratteristico di ogni contesto sociale: la comunicazione, la parola, la memoria autobiografica, la dignità, la pace e la libertà.[/blockquote]

In questi anni stiamo assistendo ad un planetario fenomeno migratorio, fatto di intere popolazioni in fuga dalla propria terra. Guerre, persecuzioni, disastri naturali, estrema povertà, genocidi e discriminazioni politiche e religiose, alimentano flussi migratori di popolazioni di rifugiati che legittimamente cercano un luogo più sicuro in cui vivere, in cui costruire un futuro e proteggere le proprie famiglie. Questa ricerca di libertà e dignità nasce dall’aver vissuto situazioni gravemente traumatiche nella terra d’origine, ma spesso incontra sulla via di fuga situazioni di ulteriore minaccia alla vita: torture e umiliazioni, lutti e violenze che non trovano rapidamente una soluzione di protezione, ma che vengono al contrario reiterati, lasciando poco spazio alla possibilità di difesa delle vittime.

Che caratteristiche ha la violenza organizzata? Questo tipo di fenomeni ha alla base una strategia sistematica messa in atto da membri di gruppi con struttura centralizzata o con orientamento politico (unità di polizia, organizzazioni ribelli, organizzazioni terroristiche, paramilitari e unità militari). E’ indirizzata agli individui e ai gruppi con differenti orientamenti politici o di diversa nazionalità o che provengono da specifici background culturali, etnici e razziali. La violenza organizzata è caratterizzata dalla sistematica violazione dei diritti umani e le conseguenze si estendono, vaste, nel futuro di una società.

Cosa succede nella mente di chi vive questi traumi? Sentirsi impotenti di fronte a gravi minacce alla propria vita o incolumità fisica è una situazione che la mente umana non può tollerare a lungo e che genera l’innesco di strategie di sopravvivenza che rischiano di rimanere attive anche molto tempo dopo il superamento del pericolo: stati di allerta persistenti, flash back, reazioni intense di collera e reazioni sproporzionate anche a stimoli ambientali di lieve pericolo e minaccia. La cronicizzazione di queste reazioni è responsabile dello sviluppo di disturbo da stress post-traumatico e di PTSD complesso, situazioni cliniche che se prolungate nel tempo aumentano la probabilità di compromettere la salute fisica e mentale delle vittime nell’arco di vita: depressione maggiore (48%), fobie specifiche (30%), abuso di alcol (51,9%), abuso di droghe (34,5%), disturbi della condotta (43,3%); a queste si aggiungono sul piano della salute generale una maggiore incidenza di malattie autoimmuni, infezioni croniche e un’alterata sensibilità al dolore che può manifestarsi con sindromi da dolore cronico molto invalidanti nella vita quotidiana.

Questi dati ci pongono di fronte dunque alla necessità di pensare strategie di intervento multilivello sulle situazioni di emergenza generate dai fenomeni migratori, che tengano conto sia delle necessità a breve termine legate all’accoglienza dei bisogni primari e all’offerta di protezione, sia di quelle a più lungo termine rispetto all’emergere di difficoltà di integrazione, sofferenza psicologica e malattie mediche legati agli esiti emotivi degli eventi traumatici affrontati prima, durante e dopo il viaggio migratorio. L’emergere di situazioni psicopatologiche è in molti casi immediato e richiederebbe un intervento psicologico tempestivo, ma più spesso la sofferenza psicologica trova spazio proprio quando il pericolo è passato e la vita potrebbe iniziare a scorrere di nuovo normalmente. Quali interventi sono disponibili?

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014). Questo metodo terapeutico offre un protocollo breve per intervenire sulle situazioni sopra descritte e che utilizza la narrazione degli eventi traumatici come strumento terapeutico per ottenere un duplice risultato clinico: ridurre sintomi trauma-correlati e offrire la possibilità di una ricostruzione coerente della propria storia, che possa essere utile a recuperare dignità personale e consapevolezza della violazione dei diritti umani subita. Il trauma infatti rende la memoria frammentata e questo rischia di alterare i ricordi o la loro precisa collocazione nel tempo, generando inevitabile confusione nella vittima, dubbi sulla veridicità degli eventi e sulle responsabilità degli stessi, elementi che sul piano clinico possono mantenere e peggiorare il malessere psicologico.

Nella NET il paziente parla ripetutamente di ogni evento traumatico in dettaglio, mentre fa di nuovo esperienza delle emozioni, delle cognizioni, delle sensazioni fisiologiche e sensoriali e dei comportamenti associati all’evento. Allo stesso modo il paziente racconta le esperienze positive. Con l’aiuto e la guida del terapeuta, il paziente costruisce una narrazione della sua vita, focalizzandosi sui dettagli del contesto relativi alle esperienze traumatiche, così come sugli elementi importanti delle reti emozionali e su come tutte queste parti siano tra loro connesse. Il processo narrativo permette di riconoscere che la rete della memoria incentrata sulla paura, che nel presente provoca i sintomi allerta, viene da esperienze passate e che la sua riattivazione nel racconto è nient’altro che un ricordo di quelle esperienze. Attraverso la narrazione ripetuta i pazienti perdono la risposta emotiva al ricordo degli eventi traumatici, il che porta alla lenta remissione dei sintomi post-traumatici. Allo stesso tempo guadagnano l’accesso ai ricordi passati e sviluppano un senso di coerenza, controllo e integrazione.

Di seguito gli elementi della NET risultati efficaci nel trattamento del trauma e ben descritti nel libro:
1. Ricostruzione cronologica attiva della memoria autobiografica/episodica;
2. Esposizione prolungata ai “punti caldi” della memoria e piena riattivazione dei ricordi dolorosi per modificare la rete emotiva attraverso il racconto (es. imparare a distinguere memoria traumatica dalla sua risposta emotiva condizionata, separare piani temporali, comprendere che gli stimoli sono solo temporaneamente associati alla sofferenza attuale);
3. Associazione significativa e integrazione delle risposte fisiologiche, sensoriali, cognitive ed emotive all’ interno del proprio contesto di vita spazio-temporale (es. comprensione del contesto originario di acquisizione e del riemergere delle risposte condizionate nel corso della vita);
4. Rivalutazione cognitiva del comportamento (es. distorsioni cognitive, pensieri automatici, credenze, risposte);
5. Rivisitazione delle esperienze di vita positive per un supporto (mentale) e per aggiustare le assunzioni di base su di sé e sulla propria storia;
6. Recupero della dignità personale attraverso la soddisfazione del bisogno di riconoscimento, attraverso l’orientamento sui diritti umani alla “testimonianza”.

Attraverso una disamina delle ricerche epidemiologiche sul tema dei traumi collettivi e un’analisi attenta delle basi culturali, psicologiche e neurofisiologiche che determinano e mantengono situazioni di sofferenza psicologica, il manuale offre una guida semplice e chiara sul protocollo terapeutico della NET. La descrizione della procedura per fasi e la presenza di molti esempi clinici, rende il testo di Schauer e colleghi un validissimo riferimento per gli operatori e i terapeuti che lavorano con rifugiati o con pazienti sopravvissuti a violenze organizzate di diverso tipo.

Fermare il complotto del silenzio che spesso domina le vite dei sopravvissuti a traumi collettivi è l’obiettivo più alto di questo approccio, sopportare il peso e il dolore della verità è invece la sfida che questo metodo impone ai clinici e a tutti coloro che quotidianamente si occupano di storie di violazione dei diritti umani.

The Flow esperience: la prestazione che genera gratificazione e positività

Csikszentmihalyi (1975) ha concettualizzato il termine flow come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che corrisponde alla “completa immersione nel compito”.

[blockquote style=”1″]The best moments in our lives are not the passive, receptive, relaxing times… The best moments usually occur if a person’s body or mind is stretched to its limits in a voluntary effort to accomplish something difficult and worthwhile.[/blockquote]
Mihaly Csikszentmihalyi (1990).

[blockquote style=”1″]I momenti migliori della nostra vita non sono tempi passivi, ricettivi, rilassanti… I momenti migliori di solito si verificano se il corpo e la mente di una persona sono spinti ai loro limiti nello sforzo volontario di realizzare qualcosa di difficile e per cui ne valga la pena.[/blockquote]

Il concetto di flow è stato introdotto per la prima volta da Csikszentmihalyi (1975), uno psicologo americano che, a partire dagli anni ’70, ha svolto una serie di ricerche sul “flusso di coscienza” come fenomeno riscontrabile in determinate condizioni di operatività. L’attenzione per questo fenomeno nasce da uno studio effettuato sulla creatività (Getzels & Csikszentmihalyi, 1976), dove l’autore è rimasto colpito dal fatto che quando l’artista in questione reputava che la creazione del suo quadro stesse andando bene, egli persisteva nel lavoro senza sosta, ignorando fame, fatica e disagio. Da qui l’interesse a capire e spiegare questo aspetto di motivazione intrinseca, o autotelica, dell’attività stessa, dello svolgere lavori che premiano da sé e per sé, a prescindere dal prodotto finale o da eventuali rinforzi estrinseci. In questo studio si sottolineava il godimento quale motivazione principale all’operosità.

the flow experience

Csikszentmihalyi (1975) ha così concettualizzato il termine flow come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che corrisponde alla “completa immersione nel compito”. La situazione che rende possibile entrare a contatto con questo stato di essere è caratterizzata dalla percezione, da parte dell’individuo, di sufficienti e appropriate opportunità per l’azione (sfide) da parte dell’ambiente e, corrispettivamente, di personali adeguate capacità di agirvi (abilità). Entrare nel flusso dipende, quindi, dall’equilibrio tra queste due componenti, valutate soggettivamente.

Nel caso il soggetto consideri le sfide al di là delle proprie capacità, entrerà in uno stato dapprima di vigilanza e poi di ansia; nel caso contrario, passerà dal rilassamento alla noia. Quando invece percepirà armonia tra i livelli di sfide e abilità, allora potrà esperire la flow experience, l’esperienza ottimale (Figura 1), sperimentando il pieno assorbimento in un’esperienza che coinvolge l’individuo globalmente, concentrando nel compito aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali. La totale armonia con quello che si sta facendo non solo porta al godimento puro, ma offre la possibilità di accrescere le proprie capacità, mettendosi in gioco, testando e imparando nuove competenze, e la propria autostima (Csikszentmihalyi e LeFevre, 1989). L’esperienza ottimale attiva il flusso dinamico di energia mentale che attiva risorse e potenzialità dell’individuo.

Sono stati svolti diversi studi che confermano l’occasione di vivere la flow experience in diversi campi, ad esempio nell’arte e nella scienza (Csikszentmihalyi, 1996), nell’esperienza estetica (Csikszentmihalyi e Robinson, 1990), nello sport (Jackson, 1995) o nella scrittura letteraria (Perry, 1999). È comunque possibile ritrovare esperienze ottimali in altri ambiti comuni e quotidiani, essendo questa relativa a valutazioni soggettive e, quindi, a caratteristiche personali di approccio all’ambiente, dipendenti anche dal contesto culturale in cui si trova la persona. A tal proposito, Csikszentmihalyi (2000) ha ipotizzato l’esistenza di un tipo di personalità autotelica, caratterizzata dalla tendenza a “godersi la vita”, ovvero a fare le cose per se stesse, e da alcune capacità metacognitive, quali ad esempio la curiosità e la disposizione a prestare attenzione a ciò che accade nell’immediato, che portano a ricercare e cogliere le occasioni intrinsecamente appaganti.

Sono stati poi delineati i fattori, in stretta correlazione tra loro, che costituiscono la flow experience (Nakamura e Csikszentmihalyi, 2002):
– bilanciamento tra sfida e abilità: senso che l’individuo si sta impegnando in qualcosa di appropriato per le proprie capacità;
– fusione tra azione e consapevolezza;
– senso di controllo, sia delle proprie azioni, sia delle conseguenze di esse;
– obiettivi prossimali chiari e feedback immediato che permettono lo svolgersi continuo del processo, momento per momento;
– attenzione e concentrazione totale sul compito;
– perdita dello stato di autocoscienza ordinario, perdita, cioè, della concezione egocentrica di sé come attore tanto è l’assorbimento nel compito;
– distorsione della normale percezione temporale (tipicamente sembra che il tempo passi più in fretta);
– gratificazione legata all’esperienza stessa e profondo senso di piacere (Deci, 1975), tali che spesso la meta finale è solo una scusa per iniziare il compito (esperienza autotelica).

Quando è nel flusso, l’individuo funziona a pieno delle sue capacità. Imparare a cogliere e sfruttare opportunità di esperienze ottimali porta quindi numerosi vantaggi, quali l’attivazione e lo sviluppo di capacità personali e l’assaporare uno stato di benessere collegato a forti emozioni positive e a un senso positivo di autostima e autoefficacia. Aggiungendo, per ultimo ma non meno importante, il peculiare contributo nel dotare di valore l’esperienza momentanea che si sta vivendo.

Stress genitoriale come fattore di rischio nel maltrattamento fisico dei bambini

Claudia Rizza – Open school Studi Cognitivi Modena 

Il maltrattamento fisico sui bambini è un fenomeno sfaccettato: tra i diversi fattori di rischio, uno dei principali fenomeni direttamente associati alla violenza fisica è il parenting stress inteso come una specifica forma di stress percepito dai genitori in base alle responsabilità del proprio ruolo.

 

Per maltrattamento fisico si intende “un danno (fisico) non accidentale che è il risultato di atti (o omissioni) da parte dei caregivers i quali violano gli standard comuni riguardanti il trattamento dei bambini” (Kempe & Helfer, 1972).

Prendendo in esame la definizione di Kempe et al., (1972) emerge che, per poter parlare di maltrattamento, è necessario che i caregivers di riferimento mettano in atto intenzionalmente agiti aggressivi e violenti tali da procurare ai bambini un danno fisico significativo e in grado di violare le norme comunitarie di trattamento (come, ad esempio, la Convenzione sui diritti del fanciullo – ONU,1989). E’ interessante notare che nel concetto di maltrattamento fisico rientrano non solo gli atti effettivamente commessi, ma anche tutti quei comportamenti che non vengono agiti direttamente dai caregivers (omissioni). Come sottolineato da Di Blasio (2002), anche la mancata prevenzione di comportamenti potenzialmente pericolosi per i figli può essere considerata una forma di maltrattamento fisico e, proprio la propensione di alcuni genitori a maltrattare, ha permesso alle ricerche di non focalizzarsi soltanto sull’accertamento del danno ma anche sulla modalità di prevenzione e sulla comprensione di tutti quei fattori che possono, in qualche modo, determinare l’azione maltrattante (Milner, 1993).

A partire dalla complessità della definizione, si può facilmente comprendere come il maltrattamento fisico sui bambini sia un fenomeno sfaccettato: infatti, malgrado si stiano facendo numerosi sforzi per salvaguardarne il benessere e per proteggere i bambini dai potenziali pericoli, esistono una vasta gamma di fattori di rischio (ambientali, sociali e psicologici) che in maniera sinergica, contribuiscono ad incrementare la propensione dei genitori ed esercitare azioni maltrattanti verso i propri figli (Dopke & Milner, 2000).

Tra i diversi fattori di rischio, uno dei principali fenomeni direttamente associati alla violenza fisica è il parenting stress inteso come una specifica forma di stress che viene percepita dai genitori in base alle responsabilità e all’assunzione del proprio ruolo (Abidin, 1995; Abidin, Jenkins, & McGaughey, 1992 Azar, Robinson, Hekimian, & Twentyman, 1984; Chan, 1994; Milner, 1993; Rodriguez & Green, 1997; Wolfe, 1987). Per poter meglio comprendere questa particolare forma di stress è necessario prestare attenzione alle sue tre componenti (Abidin,1995):

  • Il distress genitoriale, che fa riferimento alla percezione dei genitori di avere scarse capacità parentali, alla mancanza di libertà personale, alla restrizione in alcuni aspetti della vita genitoriale, alla mancanza di sostegno sociale e alla presenza, talvolta, di vissuti depressivi (Abidin, 1995; Abidin, et.al, 1992; Deater-Deckard & Scarr, 1996);
  • La relazione disfunzionale genitore-figlio, che si riferisce alle percezioni e ai sentimenti che il genitore nutre nei confronti dei figli. Essa dipende dal grado di soddisfacimento ottenuto dalla qualità della relazione con il bambino e dalla relativa gratificazione percepita in relazione al ruolo genitoriale (Abidin et al, 1992; Vondra & Belsky, 1993). La percezione dei genitori di avere una relazione deludente con i figli è strettamente associata a sentimenti di angoscia e alla presenza di sintomi d’ansia e di depressione (Vondra & Belsky, 1993).
  • La percezione di avere un bambino difficile da gestire si riferisce alla percezione distorta dei genitori di avere dei figli con caratteristiche temperamentali e comportamentali difficili (Abidin, 1995). Questa tipologia di bambini vengono spesso descritti come molto irritabili, difficili da contenere e poco sensibili al rispetto delle regole (Owens & Shaw, 2003). In linea con quanto affermato, alcune ricerche (Bradley & Peters, 1991; Dadds, Mullins, McAllister, & Atkinson, 2002; Larrance & Twentyman, 1983) hanno evidenziato come le madri fisicamente maltrattanti siano più propense ad attribuire i comportamenti negativi del proprio bambino a caratteristiche interne e, viceversa, a fattori esterni i comportamenti positivi. A sostegno di ciò, uno studio condotto da Chilamkurti e Milner (1993) ha evidenziato come le madri ad alto rischio di maltrattamento valutino più frequentemente il comportamento del bambino come errato e, tale valutazione distorta, incrementa la loro percezione di avere un figlio difficile da gestire (Larrance & Twentyman, 1983; Milner, 2000). Al contrario, le madri non maltrattanti utilizzano attribuzioni esterne per spiegare sia comportamenti negativi sia positivi sia ambigui (Dadds at al., 2002).

Dalla letteratura emerge quindi che, il principale agente psicologico capace sia di incrementare il livello di stress parentale, sia di aumentare l’utilizzo di strategie fisicamente maltrattanti a danno dei bambini, è la combinazione tra relazione disfunzionale presente tra genitori e figli e la percezione di avere un bambino difficile da gestire (Abidin, 1983; Milner, 1986,1993). Spesso accade che le difficoltà all’interno della relazione diadica genitore-figlio siano originate da situazioni valutate come particolarmente stressanti e, proprio i meccanismi cognitivi, sembrerebbero essere determinanti nella comprensione della propensione di alcuni genitori a maltrattare i propri figli (Milner, 1986, 2003).

I genitori fisicamente maltrattanti sembrano essere caratterizzati da specifici deficit dei processi cognitivi e dal modo con cui questi vengono utilizzati per attribuire significato ai comportamenti dei figli. Ciò accade perché i caregivers ritengono che, ogni singolo comportamento dei bambini (percepito come fastidioso o sbagliato) sia agito allo scopo di indebolire il ruolo parentale (Milner, 2003). Questa percezione (distorta) deriva principalmente dalla presenza degli schemi cognitivi pre-esistenti, dai processi cognitivi implicati nella percezione, interpretazione e valutazione del comportamento e, infine, dalla modalità con cui gli individui eseguono la risposta (Milner, 1993, 1995, 2000, 2003).

Gli schemi cognitivi pre-esistenti sono strutture mentali che esistono a priori nel soggetto e che hanno il compito di processare le nuove informazioni. In questo caso, i genitori, in base all’esperienza vissuta nel contesto di crescita, hanno sviluppato una serie di credenze e di valori globali (relativi ai bambini in generale) e specifici (relativi ai propri figli e alle proprie attività di parenting) e essi vengono utilizzati nelle pratiche di accudimento (Milner, 2003). Ciò significa che i genitori maltrattanti utilizzano gli schemi pre-esistenti come se fossero una guida pratica utilizzabile e facilmente accessibile sia durante la funzione educativa, sia nella costruzione di una relazione effettiva con i bambini (Milner, 2003).

Gli schemi cognitivi, inoltre, sono caratterizzati da una componente cognitiva e da una emotiva: la prima dimensione consente all’individuo di comprendere la natura dell’evento, che, percependo, interpretando e organizzando, immagazzina in memoria le informazioni provenienti dall’ambiente esterno; la seconda è rappresentata dall’insieme delle emozioni esperite durante gli eventi precedentemente vissuti e risulta essere associata alla credenze che i genitori possiedono circa l’evento (Milner, 2003).

Secondo Milner (2003), i genitori fisicamente maltrattanti, utilizzano gli schemi pre-esistenti come unica risposta alle richieste del bambino e, in questo modo, hanno la tendenza ad assumere una prospettiva rigida e limitata. In particolare, tali schemi, vengono utilizzati più frequentemente in situazioni in cui i genitori sperimentano alti livelli di stress o quando si trovano in situazioni problematiche o ambigue con i loro bambini. Inoltre, i genitori maltrattanti, rispetto ai non maltrattanti, si mostrano meno attenti e consapevoli dell’effettivo comportamento dei figli e, più specificatamente, non riescono (o falliscono) a decodificare le informazioni relative al loro comportamento. Questi tipologia di genitori utilizzano più frequentemente una sorta di ‘attenzione selettiva’ e considerano soltanto i comportamenti inappropriati dei figli piuttosto che quelli ‘corretti’ perchè i primi risultano più conformi alle loro aspettative e non devono operare alcuno sforzo cognitivo per modificare i propri schemi pre-esistenti (Milner, 2003). La causa di tali distorsioni di interpretazione dei messaggi comunicativi non sembra essere legata alla disattenzione ma, piuttosto, ad una imprecisione nella codifica e nella detenzione degli indizi durante l’interpretazione delle informazioni ambientali (Milner, 2003).

Milner (2003), inoltre, suggerisce che genitori ad alto rischio di maltrattamento falliscano nell’interpretazione e nell’integrazione delle informazioni riguardanti i figli. Più precisamente, nel momento in cui un bambino trasgredisce ad una regola, il genitore ad alto rischio di maltrattamento utilizza meno le informazioni attenuanti capaci di ridurre la responsabilità dei bambini e propende maggiormente per l’accettazione del comportamento negativo, proprio a causa delle difficoltà relative alla selezione e all’integrazione delle informazioni. Se la situazione è influenzata da alti livelli di stress parentale, diminuisce ancora di più la probabilità che i genitori usino le informazioni attenuanti e sono favorite le strategie punitive e maltrattanti.

Il processo con cui i genitori maltrattanti valutano le risposte corrisponde ad una selezione distorta causata in parte dall’utilizzo degli schemi pre-esistenti e variano in base allo stile genitoriale. Questa rigidità nella risposta rende molto difficile l’interpretazione realistica dei comportamenti dei propri figli e ancora più difficile il cambiamento del comportamento parentale già tendente al maltrattamento. I genitori ad alto rischio di maltrattamento fisico soffrono, quindi, di una mancanza nelle abilità di gestione delle pratiche di cura e nella capacità di rispondere in maniera adeguata alle richieste loro rivolte e, in casi come questi, il parenting stress funge da amplificatore e sembra essere determinate negli agiti potenzialmente pericolosi e maltrattanti a danno dei bambini (Milner, 2003).

Stai alla frutta? #VoltaPagina – il 3° Video

11,2 milioni di italiani assumono psicofarmaci.

Chi va dallo psicologo è matto?

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Seguire il cuore o la ragione nella scelta del lavoro? Il ruolo di abilità e vocazione

La vocazione paga più della precisione tecnica e dei riconoscimenti provenienti dall’esterno. E non solo: la vocazione influisce sui processi cognitivi spingendo l’individuo ad attribuire priorità alle proprie valutazioni, mettendo in secondo piano le informazioni provenienti dal mondo esterno.

[blockquote style=”1″]L’unico modo per fare qualcosa di grande è amare ciò che fai[/blockquote] diceva Steve Jobs.

In un momento storico in cui la ricerca di lavoro sembra costituire un momento difficile per la maggior parte dei giovani sorge spontaneo un interrogativo: inseguire i propri sogni può essere una strategia vincente nella ricerca di un’occupazione? O è più saggio mettere in secondo piano la passione e ambire ad una posizione relativamente stabile e ben retribuita? Idealmente, non avremmo dubbi nell’affermare che la soluzione auspicabile sia un incontro tra questi due aspetti, ma in un contesto di precarietà e incertezza lavorativa le possibilità di trovare un impiego che ci appassioni e ci appaghi, garantendo al tempo stesso buone entrate e sicurezza sembrano scarse. Ci si trova a dover fare una scelta: seguire il cuore o la ragione?

I ricercatori dell’Università di Tel Aviv hanno recentemente indagato questi temi, chiedendosi quanto la presenza di una forte motivazione intrinseca nella scelta del percorso formativo e occupazionale influisca, a distanza di anni, sulla probabilità di trovare effettivamente lavoro nel settore desiderato. E lo hanno fatto scegliendo un settore in cui la conciliazione tra motivazioni intrinseche ed estrinseche sembra particolarmente rara: la carriera musicale.

In uno studio longitudinale della durata di undici anni, 450 ragazzi nella fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, tutti musicisti amatoriali al momento della prima valutazione, sono stati contattati cinque volte e monitorati rispetto alla motivazione, alle abilità e ai progressi di carriera. In particolare, la motivazione intrinseca è stata valutata nei termini di vocazione e misurata con un questionario composto da affermazioni del tipo ‘La mia esistenza sarebbe molto meno significativa senza il mio coinvolgimento nella musica’ oppure ‘In qualche modo, ho sempre in mente la musica’. Le abilità musicali dei partecipanti sono state valutate sia nei termini di abilità percepite dagli stessi, sia come competenze valutate da giudici esperti che hanno esaminato abilità di natura tecnica e performance dei singoli ragazzi. I successi di carriera, invece, sono stati valutati in base al titolo di studio ottenuto e all’occupazione nel settore, considerando come professionale sia le esibizioni e le composizioni, sia l’attività di insegnamento. Sono inoltre stati considerati i premi vinti e i risultati ottenuti nel corso delle audizioni: un musicista di successo deve saper stare sul palco ed esibirsi davanti ad un pubblico.

I risultati della ricerca hanno evidenziato alcuni dati interessanti. Innanzitutto, la vocazione che i ragazzi hanno riferito nel corso della prima valutazione, ad un’età media di 17 anni, è risultata connessa al raggiungimento di obiettivi lavorativi in ambito musicale nel corso della fase conclusiva dello studio. Si noti tuttavia che a mediare tra questi due aspetti sembra essere, secondo quanto riportato dagli autori, l’abilità percepita dai partecipanti. In altri termini, i ragazzi con una vocazione più forte per la musica nel corso dell’adolescenza si sono autovalutati in termini più positivi in età giovanile e, nel corso del tempo, hanno effettivamente avuto più successo.

È interessante notare che alla migliore percezione di abilità non corrispondeva una migliore abilità oggettiva. Insomma, la vocazione paga più della precisione tecnica e dei riconoscimenti provenienti dall’esterno. E non solo: la vocazione influisce sui processi cognitivi spingendo l’individuo ad attribuire priorità alle proprie valutazioni, mettendo in secondo piano le informazioni provenienti dal mondo esterno. Questo spiegherebbe almeno in parte come mai, nonostante le scarse possibilità di successo, i musicisti con una forte vocazione continuino per la propria strada. Seguire il cuore, in fin dei conti, potrebbe essere una buona strategia per essere soddisfatti della propria vita lavorativa.

I neuroni specchio e l’area di Allah

La psicologia corre sempre più il rischio di essere ridotta ad ancella della neurologia. Ma i recenti tragici eventi di Parigi offrono lo spunto per un esperimento mentale utile a riconsiderare il ruolo dello psicologo nella società contemporanea.

Sembra di assistere in tempi recenti a una sistematica abdicazione della psicologia nei confronti delle neuroscienze. Ciò avviene sia nell’ambito della ricerca che in quello (strettamente collegato) dell’università. Per realizzare l’aspirazione di essere accolta a pieno titolo tra le scienze hard, la psicologia ha iniziato a dedicarsi sempre più a confrontare i risultati dei propri esperimenti sul piano della condotta o del comportamento con le variazioni di stato dei circuiti cerebrali. Si sta giungendo anche a valutare i risultati di una psicoterapia in funzione della possibilità di verificare mutamenti nel cervello. La psicologia, in altre parole, tende a identificarsi con la neuropsicologia.

I nuovi ricercatori e aspiranti tali sono a loro volta incoraggiati sempre più dal contesto a specializzarsi in temi neurologici, perché più paganti anche in termini di impact factor e h index (vocaboli esoterici che designano la capacità di far citare i propri lavori da altri). La selezione dei futuri docenti, infatti, lungi dal considerare aspetti come capacità di insegnare, conoscenza e/o esperienza di temi clinici, non esamina più nemmeno tanto il contenuto delle pubblicazioni quanto i fattori oggettivi (se la rivista dove hai pubblicato è ‘rankata’ x, vali x). I corsi di laurea tendono a riflettere questa tendenza, aumentando progressivamente il numero degli esami fondati su nozioni anatomiche più che psicologiche.

È lecito pensare che un buon 90% degli studenti di psicologia sarebbe interessato essenzialmente ad argomenti di carattere tecnico-pratico, utili alla futura professione. Viceversa, è probabile che, ovunque si iscriva, l’aspirante psicologo clinico trovi ad aspettarlo sempre più esami orientati verso argomenti di interesse, in ultima analisi, medico e biologico. Lo studente modello finirà per sapere tutto dei neuroni specchio e di come l’empatia sia, per così dire, oggettivamente osservabile nell’attivazione di certe aree corticali; senza ricavarne nulla nella capacità di stabilire un rapporto empatico con un paziente. Saprà tutto sull’amigdala ma non saprà distinguere l’ansia come stato dall’ansia come tratto.

L’invasione del prefisso neuro- è un fenomeno che non investe soltanto le discipline psicologiche. La possibilità di comprendere il mondo umano sulla base del funzionamento del cervello ha generato la neuropsicologia, la neuropsichiatria e persino la neuropsicoanalisi; ma anche una neurofilosofia, una neuroetica, una neuropolitica e così via. Persino chi si interessa di meditazione ha trovato opportuno tentare di identificare i cambiamenti che tale pratica induce sulla neocorteccia, per provarne l’efficacia. Manca all’appello forse solo una neuro-neurologia (cosa accade al cervello dei neuroscienziati mentre lavorano? proviamo a verificarlo con una risonanza magnetica!).

Absit iniuria verbis: nessuno mette in discussione qui che sia giusto e legittimo sviluppare la ricerca sul cervello e finanziare progetti che si fondano su fMRI, PET ed altri apparecchi le cui sigle misteriose evocano la facoltà finalmente acquisita di verificare l’attivazione dei neuroni. Tuttavia altrettanto legittimo sarebbe pretendere che la psicologia (come nel suo ambito la filosofia) torni ad essere utilizzata come strumento di analisi della condotta umana a prescindere dal sostrato cerebrale e recuperi la sua dignità ermeneutica, che sembra sempre più appannata, anche dal punto di vista della visibilità sui mezzi di comunicazione di massa.

Freud stesso, padre della psicoterapia, era un naturalista convinto ed era certo che un giorno si sarebbe potuto spiegare la psiche individuale in termini di sistemi neuronali (egli stesso provò a farlo, ovviamente senza successo, nel 1895). Era altrettanto certo, tuttavia, che la realtà psichica fosse comunque, appunto, un aspetto della realtà e che occuparsene fosse produttivo. Siamo così certi che il progresso delle neuroscienze abbia modificato così tanto il quadro della psicologia da rendere realmente prossimo ad avverarsi ciò che sognavano Freud e i primi psicologi scientifici, cioè che la comprensione della mente sia riducibile al suo funzionamento fisico?

Suggerirei di procedere con un piccolo esperimento mentale. Ci si chieda se oggi, di fronte alla tragedia appena occorsa a Parigi, sia più utile considerare le azioni dei jihadisti come frutto dell’elaborazione di cervelli o come il risultato delle azioni di individui, che abbiano sviluppato le loro motivazioni in particolari contesti sociali che dovremmo conoscere meglio. Sarà produttivo spiegare l’assenza apparente di dubbi da parte dei protagonisti, nel finire a bruciapelo gente già ferita, in termini di funzionamento (o mancato funzionamento) dei neuroni specchio? O sarà più sensato interpretare una simile condotta sulla base di un processo mentale di deumanizzazione del nemico, cercando di comprenderne i fattori? Porterà maggiori risultati chiedersi se esiste un’area di Allah nel cervello che inneschi determinati comportamenti o domandarsi quali siano le distorsioni cognitive del terrorista e come sia possibile disinnescarle (nel senso più letterale del termine, purtroppo)?

La possibilità che persone capaci di comportamenti adattivi siano anche disposti a porre termine alla propria vita facendosi saltare in aria, onde uccidere allo stesso tempo il maggior numero possibile di supposti nemici è qualcosa che sconvolge profondamente il nostro animo di occidentali. Noi siamo abituati a considerare preziosa la nostra esistenza presente, indipendentemente dalla convinzione di alcuni di noi che esista una vita dopo la morte. L’idea che altri siano convinti che il loro sacrificio costituisca un martirio e che doni loro l’accesso a un Paradiso popolato di un certo numero di vergini pronte a soddisfare i loro desideri per l’eternità non può costituire una spiegazione.

Sposta solo la domanda di una casella, facendoci chiedere come essi acquisiscano una tale convinzione (e se tale convinzione, peraltro, vacilli o meno, o venga rinforzata con ulteriori incentivi e di che tipo). Peraltro, si potrebbe affermare reciprocamente: come ci è incomprensibile la decisione di morire in modo violento se non per effetto della follia, altrettanto è lontana dalla nostra esperienza la precedente morte di tutta la nostra famiglia sotto un bombardamento oppure la vita in un contesto culturale che rifiuta integralmente le nostre convinzioni se non addirittura le ripugna. Si tratta invece di esperienze compiute almeno da alcuni dei jihadisti morti suicidi a Parigi o in altre occasioni meno mediatizzate.

Studiare la psicologia di questi uomini potrebbe essere un passo utile alla comprensione anche di una possibile strategia di reazione. Non è facile decidere a priori se sia opportuno tentare un dialogo con persone che apparentemente il dialogo non lo desiderano; né se un’intensificazione di attività militari contro il cosiddetto Califfato non costituisca, piuttosto che un efficace mezzo per dissuadere da nuovi attentati, un incentivo ad impegnarsi nella ‘guerra santa contro i crociati’.

In effetti la Psicologia dimostra spesso di poter offrire degli strumenti che non vengono poi di fatto utilizzati nel loro pieno potenziale euristico. Philip Zimbardo, per esempio, malgrado fosse già un personaggio universalmente riconosciuto per gli studi sul cosiddetto effetto Lucifero (Zimbardo, 2007), ha tentato invano di offrire la propria interpretazione dei fatti di Abu Ghraib. Si ricorderà della condanna inflitta ai soldati americani che infliggevano umiliazioni ai nemici catturati durante la guerra in Iraq. Zimbardo spiegò in modo del tutto convincente come fosse il contesto a guidare il comportamento di tali soldati, ma nessuno volle prendere in considerazione quanto egli sosteneva, trovandosi molto più comodo spiegare gli abusi come iniziativa dei singoli (Un resoconto della testimonianza di Philip Zimbardo è disponibile qui)

Al contrario, ascoltare Zimbardo avrebbe significato capire le azioni dei condannati, estendere la responsabilità alle gerarchie militari e prevenire eventuali successivi problemi consimili. Nel suo piccolo, chi scrive può ricordare di aver invano offerto con Alessandro Rossi, in tempi non sospetti (Innamorati e Rossi, 2004), tanto delle spiegazioni sui meccanismi del terrorismo nell’epoca di Internet (per ricordarne uno: il funzionamento del franchising del terrore di Al-Qaeda); quanto un esame dei meccanismi aggregativi offerti dalla rete a coloro che in passato erano stati lupi solitari; quanto delle indicazioni su siti che lasciavano comprendere collegamenti tra individui pericolosi (sulla base dell’analisi semiotica e psicologica dei testi presenti nei siti stessi). Scoprire in seguito il concreto e reale valore predittivo di molte ipotesi (a suo tempo assai poco considerate) non è stato per noi un motivo di grande soddisfazione.

Gestire la rabbia: “sfogarsi” o restare fermi finché l’emozione passa?

La rabbia è una delle emozioni di base, che ci segnala che qualcosa sta intralciando il nostro percorso verso un obiettivo importante. Davanti a un’esperienza di rabbia possiamo reagire in tanti modi diversi: alcune persone sono più propense a internalizzare, a tenere tutto dentro, altre cercano di non pensarci evitando l’oggetto della rabbia, altre la sfogano con parole o comportamenti, altre ancora continuano a pensare a quello che ha causato la rabbia, mantenendo contemporaneamente attiva l’emozione. 

Una volta che la rabbia si è attivata e noi vediamo rosso, possiamo evitare le persone che ci hanno fatto arrabbiare, possiamo cercare di discutere della cosa con calma o possiamo esprimere la rabbia verso la persona o la situazione che l’ha causata in modo impulsivo e liberatorio. Ci sfoghiamo. Qualcuno ci taglia la strada e noi suoniamo il clacson, il nostro collega fa un guaio e noi gli urliamo contro, il nostro partner dice una cosa di troppo e si becca la sfuriata.

Se da una parte è stato più volte mostrato come rimuginare in modo rabbioso e tenere il muso sia controproducente sia nella relazione che per la regolazione emotiva, siamo certi che sfogare la rabbia sia di aiuto? Il professor Brad Bushman dice a riguardo che [blockquote style=”1″]Non è detto che una cosa sia positiva solo perché ti fa stare bene. [/blockquote]

In sostanza, facciamo attenzione a sostenere l’utilità dello sfogo solo perché immediatamente dopo ci sentiamo meglio. Bushman ha condotto con il suo team di ricerca una serie di studi sul tema, giungendo a interessanti conclusioni. Una di queste ricerche ha coinvolto 600 studenti (metà maschi e metà femmine) suddivisi in 3 gruppi: a tutti gli studenti è stato chiesto di produrre un testo scritto, che in seguito è stato analizzato e criticato da un compagno; un primo gruppo ha poi ricevuto indicazione di colpire un pungiball immaginando che raffigurasse il compagno critico, un secondo gruppo ha dovuto colpire il pungiball pensando a quanto questo migliorasse la propria forma fisica e un terzo gruppo non ha ricevuto nessuna indicazione e non ha colpito il pungiball, rimanendo in attesa.

Tutti i soggetti hanno poi compilato dei questionari che valutavano la rabbia e l’aggressività. Secondo la teoria della catarsi, sfogarsi colpendo un oggetto e contemporaneamente pensando a una situazione o a una persona che ci ha causato rabbia dovrebbe aiutarci ad abbassare il livello di attivazione emotiva e calmarci. In realtà, è emerso il trend opposto: il gruppo di partecipanti che aveva colpito il pungiball ripensando alla persona che li aveva criticati ha mostrato i maggiori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento, seguito dal campione che aveva colpito il pungiball pensando ad altro. Sorprendentemente, il gruppo di controllo che era rimasto in attesa senza fare nulla ha mostrato i minori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento.

In altre parole, non fare nulla si è mostrato più utile che sfogarsi fisicamente per diminuire i livelli di rabbia. Se questi risultati sono in contraddizione con l’idea di catarsi, sono invece molto allineati con la Teoria Metacognitiva (Wells, 2012): se consideriamo la condizione di “sfogo” più da vicino, questa in sostanza prevede di impegnarsi in una forma di ruminazione rabbiosa, colpendo contemporaneamente il pungiball. Coerentemente con gli studi di Wells e colleghi, le forme di pensiero perseverante contribuiscono a mantenere l’attenzione focalizzata sulla situazione che ha attivato l’emozione negativa, mantenendo al contempo l’emozione stessa (in questo caso, la rabbia). Il fatto di rimanere fermi senza fare nulla (condizione di controllo per questo studio) ha invece molto a che fare con quello che Wells chiama “lasciare in pace i pensieri”: permettere cioè che il pensiero (in questo caso arrabbiato) semplicemente se ne vada come è arrivato, senza alimentarlo con ulteriori risorse cognitive e attentive, che lo mantengono attivato e vivido.

È interessante quindi notare come uno studio che comprende così tanti soggetti, pur partendo da un background teorico completamente differente e proponendosi di indagare meglio il ruolo della catarsi nella risoluzione di dinamiche di rabbia, giunga tuttavia alle stesse conclusioni di tanti studi sulle conseguenze negative del pensiero perseverante in termini attentivi ed emotivi. Questo fa pensare che in qualche misura, soprattutto per le cose che ci stressano nel quotidiano, la soluzione possa davvero essere imparare a lasciarsi in pace.

Forse Esther (2014) di Katja Petrowskaja – Recensione

Una donna alla ricerca delle proprie radici tra un presente invaso dalle informazioni e un passato denso di oscurità.

Katja Petrowskaja è un personaggio che sfugge a ogni semplice etichettatura. Nata in Ucraina da una famiglia di origine ebraica, studia a Tartu e a Mosca in due delle università più prestigiose dell’Unione Sovietica ma per molti anni il suo talento letterario rimane muto. Sposatasi con un esponente di spicco di Greenpeace, si trasferisce a Berlino e sembra del tutto a suo agio nel ruolo di moglie e madre fin’oltre il compimento dei quarant’anni. A un tratto, però, decide di intraprendere la carriera giornalistica e nel giro di qualche mese diviene uno dei columnist più seguiti della Germania, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung con la firma Die östliche Diwa, cioè la Diva dell’est (gioco di parole sul West-östlicher Diwan, ovvero il Divano Occidentale-orientale di Goethe). La Diva, tuttavia, non ancora soddisfatta di una carriera pressoché istantanea e fulminante, decide di mettere in atto un progetto a lungo solo vagheggiato: un libro basato sulla storia delle origini della propria famiglia.

Ne nasce ‘Vielleicht Esther’, che viene pubblicato dalla più prestigiosa casa editrice tedesca (Suhrkamp) e vince prima ancora della pubblicazione il Premio Bachmann nel 2013. All’uscita in Germania, nel 2014, il successo è travolgente: acclamato da molti come un capolavoro, il libro viene subito tradotto in sedici lingue, tra le quali l’italiano. In Italia esce come ‘Forse Esther’ per Adelphi (casa editrice alla quale sembra attagliarsi perfettamente il profilo da outsider dell’autrice) e vince subito un premio letterario anche da noi: la prima edizione del Premio Strega per romanzi stranieri.

In Germania suscita stupore anche l’uso della lingua tedesca da parte di una straniera: una prosa talmente sfaccettata da indurre Suhrkamp a invitare i traduttori a un seminario comune per studiare insieme gli interrogativi stilistici posti dalle rispettive traduzioni. Alcuni critici considerano la scrittura della Petrowskaja una delle più brillanti ed efficaci di questo scorcio di secolo. Lei, tuttavia, non si scompone; abituata ad anni di penombra si limita a rispondere nelle interviste, a chi esprime stupore per la sua tecnica, che comunque lei si fa correggere gli eventuali errori dal marito. Divenuta nota in Germania proprio nel periodo del conflitto russo-ucraino, viene naturalmente invitata varie volte in televisione e si segnala anche per una tendenza naturale a evitare la diplomazia. Lo imparano subito i colleghi giornalisti che si sentono chiedere in diretta televisiva, di fronte all’ambasciatore russo, perché lei si trovi seduta allo stesso tavolo con il rappresentante di un paese che ha appena invaso il suo…

‘Forse Esther’ è una storia di contraddizioni e di oscurità. L’Io narrante si muove in un mondo dove «Google regna su di noi come il Padreterno», o piuttosto dove «Dio ci ‘googla’ la strada, affinché non smarriamo il cammino» (p. 18). Eppure la ricerca del passato si muove tra buchi di informazione paradossali. Il titolo stesso annuncia il primo mistero familiare: il padre della protagonista dichiara che il nome della propria nonna è appunto forse Esther. Come forse?, chiede l’io narrante, come è possibile non ricordarsi il nome della nonna? La risposta è disarmante: i figli la chiamavano mamma e i nipoti babuška. Nessuno quindi pronunciava mai il suo nome. La natura del libro è anch’essa difficilmente riconducibile a una definizione univoca. Si muove al confine tra romanzo e ricerca storica; tra memoria e creazione. Il senso del vissuto non offre punti di riferimento stabili: «Eravamo felici, e tutto in me si ribellava al detto di Tolstoj che ci è stato tramandato, secondo il quale, nella loro felicità, le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre uniche nel loro genere sono solo quelle infelici, un detto che, adescandoci nella sua trappola, suscitava in noi la propensione all’infelicità, come se soltanto dell’infelicità valesse la pena parlare, mentre la felicità era vuota» (p. 23). L’ambivalenza è evocata fin dalla surreale scritta che l’io narrante vede lampeggiare dalla volta dello Hauptbanhof, la stazione centrale di Berlino, all’inizio del suo viaggio verso est: «Bombardier willkommen in Berlin». Senza conoscere il contesto si tradurrebbe con un benvenuto di Berlino ai bombardieri che suona veramente grottesco; in realtà la città ospitava un musical francese di grande successo, appunto ‘Bombardier’.

Fantasmi dai cognomi troppo diffusi si affacciano dal passato: Geller e Heller, Levi e Stern. Soprattutto Stern, come ‘stella’. Sono gli infiniti discendenti di ebrei dallo stesso cognome, dalle stelle gialle perché Stern sulle Yellow Pages di un elenco telefonico americano; alle stelle gialle che contraddistinguevano gli ebrei nei campi di concentramento; alle stelle rosse dei combattenti per l’Unione Sovietica. Una delle stelle rosse, lo zio Vil dell’io narrante, è talmente coinvolta nella fede verso il proprio paese da consolidarla viepiù dopo un episodio atroce. Il plotone del quale fa parte viene mandato all’assalto sotto il fuoco incrociato nemico solo per riempire un fosso anticarro sul quale possono infine passare i panzer; ferito gravemente, viene ritrovato ancora vivo sotto tutti gli altri compagni di plotone. Come non disperare della patria del socialismo? «Chi aveva dubitato non era sopravvissuto» è la risposta (p. 38).

Tutti i personaggi si avvicendano in storie dal contenuto traslucido come la Esther (forse) del titolo, che pare fosse stata uccisa dalla rivoltellata noncurante di un ufficiale tedesco, in risposta alla sua innocua domanda su dove fosse Babij Jar (la fossa comune degli ebrei vicino Kiev). «Osservo questa scena» scrive la Petrowskaja «come fossi Dio, dalla finestra della casa dirimpetto. Forse si scrivono così i romanzi. Oppure anche le fiabe. Siedo in alto, e vedo tutto! A volte mi faccio coraggio e mi avvicino e mi metto alle spalle dell’ufficiale, per ascoltare di nascosto la conversazione. Ma perché mi voltano le spalle? Giro loro attorno, e ne vedo solo le spalle. Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, di vedere i loro volti, quello di babuška e quello dell’ufficiale, per quanto allunghi il collo per riuscire a vederli e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione – non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono» (pp. 186-7). La scrittura si ripiega su se stessa e diventa così interrogativo estetico, domanda sul senso del domandare. Chiunque si occupi di psiche troverà in Forse Esther spunti di riflessione, oltre al puro e trasparente piacere della lettura.

Stigma e qualità della vita nell’obesità: traduzione e adattamento di strumenti valutativi

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Stigma e qualità della vita nell’obesità: traduzione e adattamento di strumenti valutativi

Autore: Elisa Martina Pagani (Università Cattolica del Sacro Cuore Milano)

Abstract

L’équipe del dipartimento di psicologia clinica dell’Università Cattolica di Milano, nel 2012 ha sviluppato un progetto di ricerca per l’analisi della qualità della vita e dello stigma nei soggetti con obesità. La ricerca si è svolta tramite la somministrazione di questionari per rilevare differenti variabili nell’ ambito della patologia e della sanità. Sin da subito i ricercatori si sono resi consapevoli delle difficoltà di adattamento e traduzione degli strumenti dalla lingua inglese a quella italiana, ed hanno dunque indagato la variabilità degli approcci per ottenere una guida semplice e chiara al fine di facilitare l’adozione, l’uniformità e l’uso dei questionari.

 

Abstract (English)

In 2012, the team of the department of clinical psychology at the Catholic University of Milan developed a research project to analyze the quality of life and stigma in people with obesity. The research was conducted by administering questionnaires to detect different variables in the context of disease and health. Right now, researchers have become aware of the difficulties of adaptation and translation tools from English to Italian, and they have therefore investigated the variability of approaches to obtain a clear and simple guidance to facilitate the adoption, uniformity and use of questionnaires.

 

Key words: stigma, obesità, QoL, adattamento, traduzione.

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2 

Il fenomeno della semplice esposizione: ciò che conosciamo ci piace di più

Nicole Savino- OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.

La ricerca in psicologia sociale ha spesso sottovalutato l’influenza che variabili non direttamente analizzabili possono avere nell’orientare le credenze, gli atteggiamenti e le tendenze comportamentali spontanee di ogni individuo. Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare almeno in parte come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.

Con il termine ‘semplice esposizione‘ s’intende una condizione in cui uno stimolo viene reso accessibile alla percezione di un individuo. Questo è il presupposto teorico dal quale si sono sviluppati filoni di ricerca orientati ad indagare i diversi aspetti che sono coinvolti in tale fenomeno. Il percorso che ha caratterizzato la ricerca in questo campo parte dal contributo fondamentale di Zajonc. L’ipotesi principale dalla quale parte l’autore si può così riassumere:

Semplici e ripetute esposizioni ad uno stimolo sono una condizione sufficiente per determinare in un soggetto una disposizione positiva verso tale stimolo ( Zajonc 1968).

L’autore è arrivato a formulare tale ipotesi basandosi sia su indagini di tipo correlazionale che su alcune evidenze sperimentali, ossia:

  • La correlazione tra la connotazione affettiva di una parola e la frequenza con la quale tale parola viene utilizzata;
  • L’effetto provocato dalla manipolazione sperimentale della frequenza d’esposizione a stimoli rappresentati da parole senza significato e simboli, ad esempio ideogrammi, sulla connotazione attrubuita da un soggetto a tali stimoli.

In particolare ciò che Zajonc intendeva sottolinare è la relazione lineare esistente tra frequenza dello stimolo ed effetto ottenuto. Sicuramente già nei suoi presupposti teorici la ricerca sulla mere exposure si contrappone decisamente alle celebrate leggi sull’attività cognitivo-attentiva che hanno imperato dalla fine del diciannovesimo secolo sino alla metà circa del secolo scorso.

Dagli studi condotti all’epoca da autori quali Fechner (1876), James (1890), Pepper (1919) e Maslow (1937), emerse la convinzione che nei processi cognitivi tutto ciò che può risultare troppo familiare, troppo noto ad un soggetto, distoglie la sua attenzione da un fenomeno, al contrario, uno stimolo nuovo può rappresentare una forte fonte d’interesse.

In accordo con questa ipotesi l’industria pubblicitaria, ad esempio, pur riconoscendo il grande potenziale attribuito alla semplice esposizione nell’orientare le scelte del consumatore, si è dedicata spesso ad una forma di pubblicità che rispettasse la nota legge secondo la quale la disposizione positiva verso uno stimolo viene incrementata se quest’ultimo viene presentato in associazione con un altro stimolo considerato piacevole, in grado di catturare immediatamente l’attenzione. Il prodotto reclamizzato quindi viene spesso presentato al pubblico in contiguità con un rinforzo positivo quale, ad esempio, il corpo femminile.

Allo stesso tempo l’industria pubblicitaria cerca di non cadere nella trappola della overexposure, in accordo con la teoria sulla familiarità degli stimoli (Ederly, 1940; Wiebe 1940) secondo la quale nel momennto in cui uno stimolo diventa eccessivamente abituale e familiare per un soggetto perde parte del suo potenziale attrattivo.

Ma è davvero possibile ipotizzzare che sia così semplice orientare i gusti e le preferenze di un individuo? Per tentare di rispondere a questa domanda ci affidiamo ad alcuni studi condotti da Zajonc sulla correlazione tra la frequenza di utilizzo di alcune parole e il loro significato.

Da tali ricerche sperimentali è emerso che i termini aventi un significato positivo sono utilizzati molto più frequentemente rispetto ad altri con una connotazione negativa. Nello specifico tale correlazione è, secondo Zajonc, almeno in parte il risultato di un fenomeno di semplice esposizione.

Da una ricerca condotta da Johnson, Thomson e Frincke (1960) emerge che la presentazione ripetuta di termini senza significato tende a far migliorare la loro valutazione stimata su una scala Likert di tipo ‘good-bad’. Come Zajonc ha dimostrato in seguito, il fenomeno analizzato nella suddetta ricerca non è altro che la coseguenza diretta di ciò che viene chiamata ‘semplice espozione’. Infatti le persone utlizzano più frequentemente parole che hanno un significato positivo non tanto per la natura semantica del termine, ma più semplicemente perchè nelle interazioni sociali esse vengono preferite rispetto al corrispettivo negativo. In pratica un soggetto reagisce più positivamente a parole che rimandano ad un significato positivo in quanto vi è comunque esposto con maggior frequenza.

In ‘Attitudinal effect of mere exposure’ (1968) Zajonc presenta i risultati di alcune ricerche volte ad appurare, in modo più rigoroso, l’esistenza di una relazione tra frequenza d’esposizione ad uno stimolo e la conseguente valutazione dello stimolo stesso.

In un esperimento da lui condotto sono state mostrate ai soggetti 12 immagini rappresentanti ideogrammi cinesi, la cui frequenza di presentazione, manipolata dallo sperimentatore, variava da 0 a 23 esposizioni. Il compito richiesto consisteva unicamente nel prestare attenzione alle immagini presentate. Nella seconda fase gli sperimentatori hanno comunicato ai partecipanti che i caratteri visti in precedenza erano in realtà degli aggettivi appartenenti ad una lingua straniera che avevano un significato positivo o negativo. Il compito dei soggetti sperimentali era ipotizzarne il significato sistemandoli su una scala Likert a 7 punti. I risultati di questa ricerca dimostrarono l’esistenza di una relazione positiva tra frequenza di esposizione e valutazione attribuita agli aggettivi. In pratica i soggetti hanno valutato più positivamente gli stimoli ai quali nella prima fase sperimentale sono stati esposti con maggior frequenza.

In uno studio successivo Zajonc ha indagato fino a punto gli effetti della semplice esposizione possono essere riscontrati utilizzando stimoli a rilevanza sociale. In questo esperimento è stata mostrata ai partecipanti una serie di fotografie di studenti. Anche in questo caso la frequenza di presentazione (0 -25) è stata manipolata dallo sperimentatore. La relazione tra semplice esposizione e conseguente valutazione dello stimolo è stata testata attraverso le risposte ad un differenziale semantico a 7 punti (good-bad) compilato dai soggetti in una seconda fase sperimentale. Ancora una volta i risultati dimostrano che frequenza d’esposizione e desiderabilità modello-stimolo sono positivamente correlate e soprattutto che la positività del giudizio cresce in funzione del numero di esposizioni con cui tale stimolo è stato presentato ai soggetti.

Non è però tutto così semplice come sembra. Ci sono altre variabili che intervengono nel condizionare il comportamento umano.

In uno studio pionieristico condotto da Kunst-Wilson e Zajonc (1980) gli autori hanno dimostrato che i soggetti sperimentali non erano in grado di distinguere percettivamente gli stimoli presentati nella fase d’esposizione da altri (distrattori) mostrati solamente nella seconda fase sperimentale. In un primo momento ai soggetti è stata mostrata per brevissimo tempo (1-2msec) una serie di ottagoni regolari presentati con egual frequenza (5 volte). Successivamente i ricercatori hanno presentato ai partecipanti una coppia di stimoli composta da un ottagono presentato nella prima fase e da uno mai visto. Per ogni coppia veniva chiesto ai soggetti di riconoscere quale fosse lo stimolo già presentato in precedenza e quale tra i due considerrasse più piacevole.

I risultati dimostrano che i soggetti non sono riusciti a distinguere percettivamente le figure mostrate nella prima fase dalle altre, ma erano comunque in grado di discriminarli dal punto di vista ‘affettivo’. Infatti la maggioranza dei soggetti ha giudicato come più piacevole l’immagine presentata nella prima fase sperimentale pur non riuscendo a distinguerla percettivamente dal distrattore inserito successivamente. Questo tipo di evidenza sperimentale ha portato gli autori ad ipotizzare che nel fenomeno della semplice esposizione l’informazione affettiva sia elaborata secondo modalità in gran parte indipendenti dall’elaborazione dell’informazione cognitiva.

Nel suo articolo ‘On the Primacy of Affect‘ (1984) Zajonc sostiene il primato e l’indipendenza dei processi affettivi rispetto all’elaborazione cognitiva dell’informazione. In particolare l’autore si oppone all’eccessiva importanza attribuita da Lazarus (1982) ai processi cognitivi considerati come una condizione che precede necessariamente ogni fenomeno di natura affettiva. Secondo Zajonc numerosi fenomeni emotivi possono essere spiegati senza ricorrere a processi cognitivi di nessun genere. Per supportare tale constatazione l’autore fa riferimento al primato e all’indipendenza dal punto di vista sia filogenetico che ontogenetico di alcune reazioni affettive rispetto ad altre di tipo cognitivo. Ossia, se fenomeni di tipo affettivo precedono processi cognitivi ad alcuni livelli dello sviluppo individuale, allora è lecito affermare che esiste una reale indipendenza tra i due sistemi.

Ciò che Zajonc intende sottolineare è che alcuni fenomeni di natura affettiva possono avere luogo senza essere necessariamente mediati o preceduti da processi cognitivi e quindi senza una rielaborazione cosciente di tali fenomeni. Sicuramente la relazione tra processi cognitivi ed emozioni ha rappresentato un tema di grandissimo interesse per il Cognitivismo e ancora oggi è difficile trarne una verità assoluta e condivisa.

Cibo ed emozioni: qual è lo strumento migliore per valutare questa relazione?

Negli ultimi anni si è venuta a creare una crescente convinzione secondo cui, accanto alla valenza edonica, le reazioni emotive al consumo di alimenti o la percezione di profumi svolgono un ruolo importante nell’accettazione dei prodotti esistenti sul mercato.

Tuttavia, non è ancora chiaro come poter misurare questo fenomeno con uno strumento affidabile. A tal proposito Mojet e colleghi hanno effettuato uno studio con lo scopo di verificare la possibile esistenza di strumenti semplici che siano in grado di misurare l’impatto emotivo nell’utilizzo di un prodotto, e che possa prevederne gli effetti positivi e negativi relativi all’ accettazione futura indipendentemente dagli effetti di gradimento del prodotto.

Al fine di verificare questa possibilità, sono stati confrontati 3 gruppi composti da 24 soggetti, i quali sono stati esposti alla presentazione di una coppia di yogurt della stessa marca e commercializzazione, ma composti da aromi o grassi differenti. Sono stati utilizzati quattro strumenti differenti: l’Eye-tracking, la Lettura Facciale durante la fase di consumo del prodotto, un nuovo Test di Proiezione Emotiva (EPT) dopo aver mangiato il prodotto e un nuovo Test di Congruenza Autobiografica.

Dal confronto tra i diversi metodi di misurazione sulla loro efficacia nel misurare gli effetti emotivi delle consumazioni, è emerso che tre di questi (la Lettura Facciale, il test di Congruenza Autobiografica e Eye-tracking), non sono risultati funzionali e non hanno riscosso alcun successo.
L’unico test risultato efficace e promettente è il Test di Proiezione emotiva. Nel commentare il buon risultato, bisogna però tenere conto del fatto che sia stato utilizzato un solo tipo di prodotto, cosa che ha reso la sperimentazione relativamente più facile.

In conclusione, per ottenere risultati più dettagliati, andrebbe ritestata la combinazione degli strumenti utilizzati nello studio (tranne il Test di Proiezione Autobiografica) utilizzando diverse tipologie di prodotti, così da poter ottenere maggiori informazioni.

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