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Cronache dal congresso di Scienza Cognitiva 2015 – Report del Prof. Bruno Bara

Cronache dal congresso di Scienza Cognitiva 2015: I giornata

(23 luglio 2015)

 

Questa estate il prof Bruno Bara dell’Università di Torino ha partecipato al congresso di Scienza Cognitiva organizzato dal 23 al 25 luglio a Pasadena, USA. Pubblichiamo con piacere la sua intensa corrispondenza dal congresso.

Eccomi a Pasadena per i quattro giorni più intensi di questo viaggio, al Convegno Annuale di Scienza Cognitiva. Oltre 900 partecipanti, 10 sessioni parallele, non mi sogno di fare un riassunto oggettivo, scrivo solo di quello che a me è sembrato eccellente.

La prima lecture plenaria è di Richard Ivry sui processi decisionali incarnati, gli Embodied Decision Making. Ivry regna sovrano sul Dipartimento di Neuroscienze di Berkeley grazie alle sue ricerche mozzafiato sul cervelletto, tema noioso ma non quando ne parla lui. Illustra oggi l’interazione fra cervelletto e corteccia prefrontale, nell’esecuzione dei movimenti e nella scelta delle azioni. Il cervelletto è un sistema incapsulato, sordo alla strategia decisionale, selezionato per chiedersi solo se il movimento desiderato è stato eseguito. La corteccia si dedica invece a controllare se l’obiettivo è stato raggiunto, non le importa dello specifico movimento.

Evoluzionisticamente i due sistemi lavorano mano nella mano, ma cosa succede quando salta la sinergia, usualmente perché uno dei due sistemi è danneggiato? Tipicamente il cervelletto è avventuroso e pronto a prendersi rischi, mentre la corteccia prefrontale è conservativa e decisa a non rischiare, pronta a dimenticarsi del movimento non riuscito. La corteccia non piange sul latte versato, dice Ivry, comanda strategicamente sul breve ma poi si distrae e il cervelletto riparte per conto suo.

Per fare un esempio, l’ultima volta che siete stati dopo cena su un divano con un attraente partner mai baciato prima chiedendovi se era il caso di provarci, la corteccia comandava di rimanere immobili, mentre il cervelletto era pronto a rischiare. Inibire la corteccia prefrontale dei nuovi partner ed eccitare il loro cervelletto garantirebbe il successo, ma non si sa ancora come fare, spiacente.

Daniel Richardson, del potentissimo University College di Londra, presenta un lavoro su la mente di gruppo, la Group Mind. Mai visto prima un oratore col cappello, ma i postdoc devono inventarsi un modo per farsi notare e non tutti hanno stile.

Si chiede se siamo più intelligenti in gruppo di quanto lo siamo da soli, e la risposta basica è no, ma con evidenza a volte contraddittoria e non troppo convincente. La cosa mai vista prima è una conferenza col pubblico tutto connesso grazie agli smartphone, che risponde in diretta ai quesiti che lui pone, divertendosi un mondo e falsificando parecchie delle ipotesi che Richardson presenta.

Altissima tecnologia, debole teoria. Il momento di suo massimo sconforto, che gli ho rimarcato nelle domande finali, ma di massimo entusiasmo del pubblico, è quando Richardson cerca di dimostrare che le strategie di dating (come tradurre? Appuntamentologia a scopo sessuale?) variano fra maschi e femmine. Le femmine secondo lui e Wlodarski convergono su un unico tipo maschile a causa della influenza sociale, mentre i maschi divergono nelle scelte a causa della competizione fra di loro. Falso! Le femmine del pubblico divergono, e infatti le femmine umane competono fra loro per il partner migliore, mentre i maschi convergono, e infatti i maschi umani hanno criteri biologici forti di scelta della partner, primo fra tutti la sua stimata capacità riproduttiva. Malgrado le smentite alle sue teorie, l’innovativa tecnologia usata -oltre al tragico cappello- rende la conferenza di Richardson indimenticabile per tutti noi.

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Cronache dal congresso di Scienza Cognitiva 2015: II giornata

(24 luglio 2015)

Nel secondo round ricordo la presentazione di Jay McClelland di Stanford sulla cognizione matematica. McClelland ha vinto il premio Heineken, equivalente del Nobel per le neuroscienze. Nonostante la mia stima per lui, una intera ora su come insegnare a un computer a contare fino a 5 risulta difficile da digerire.

Il premio per la presentazione più modesta lo vince Rosalind Picard, dei leggendari Media Laboratory del MIT, che dovrebbe parlarci di nuovi dati sulle Emozioni nella Vita Reale. Purtroppo anche i grandi scivolano male, lei scivola proprio male, accumula dati senza criteri di raccolta, si arrampica sugli specchi quando arrivano le domande scetticamente serie, fa un mega spot pubblicitario sulle sue due aziende, che si chiamano Empatica una e Affectiva l’altra, con prezzi dei prodotti inclusi. Diventerà anche ricca, ma la stima dei colleghi se la è giocata.

Risolleva lo spirito il simposio sulla Simbiosi Uomo-Macchina, con la giovanissima e già super premiata Leila Takayama che parla di virtualità incarnata, mostrandoci l importanza che i robot esibiscano emozioni quando interagiscono con noi, e il grande David Woods che spazia dalla medicina alle navicelle spaziali. Ci fanno un quadro della situazione attuale: un computer a testa per ogni essere umano sulla terra già nel 2014; sostengono che soffriamo per un eccesso di successo tecnologico, ci fanno sorridere amaro sulle aspettative che poniamo sui computer, rapidi sui compiti banali ma incapaci di gestire le situazioni complicate, pur rassicurandoci sul fatto che sono le macchine intelligenti a doversi adeguare a noi. Per i clinici, sappiate che la resilienza dei computer applicati, ovvero cosa combinano quando sono spinti all’estremo, è il tema centrale del lavoro di Woods.

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Cronache dal congresso di Scienza Cognitiva 2015: III giornata

(25 luglio 2015)

I fuochi d artificio arrivano alla fine, con l’ultima presentazione in plenaria, di Martha Farah, della Pennsylvania, su Neuroscienze e Società: Passato, Presente e Futuro. Inizia ricordando come il comune interesse sia quello di comprendere, predire e influenzare il comportamento umano, facendo un riassunto delle stimolazioni e inibizioni di aree cerebrali a fini clinici.

Ricorda che, sebbene sappiamo qualcosa della stimolazione superficiale, nulla sappiamo di cosa succeda con quella profonda, e mostra come siano in vendita apparecchi per la autostimolazione, che le persone possono usare a loro discrezione, per quanto tempo desiderano. Considera questi apparecchi una nuova frontiera oltre i farmaci, e mostra come ci siano imprevisti aspetti di medicalizzazione delle Neuroscienze. Dato che gli apparecchi in vendita non sono considerati come farmaci, nessuno li controlla, e non ci si può aspettare che i produttori siano sinceri sulle controindicazioni. Parla anche del crescente ruolo legale delle Neuroscienze, e dei problemi etici connessi.

Si scatena un putiferio, perché alcuni neuroscienziati illustri sono stati negli scorsi mesi convocati a Washington da una commissione presidenziale sulla utilizzazione clinica delle Neuroscienze, e le visioni sono diverse, con Farah vissuta come paladina estremista dell’etica. Le posizioni a confronto sono due, una che sostiene che non si debba utilizzare nulla di cui non si sia provata la efficacia, e una che sostiene che si deve permettere la utilizzazione di strumenti la cui efficacia non sia provata ma che possano giovare ai pazienti, al limite solo come effetto placebo. I clinici tendono a essere su questa seconda posizione, gli scienziati duri sulla prima, ma non pensate che sia semplice risolvere il problema, ciascuno presenta ottime ragioni.

Cosa certa è che fra poco avremo un’invasione di apparecchi per la stimolazione cerebrale, con presunti vantaggi su cefalea, concentrazione, e coì via. Prepariamoci a una nuova frontiera oltre i farmaci, cui rispondere con prudenza.

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Dopo il congresso: Incontro con Ezra Bayda

(28 luglio 2015)

Il Dipartimento di Neurologia dell’University of California, Irvine, ha varato un programma sull’insegnamento della Gentilezza agli specializzandi e ha chiesto a me di costruirlo. Dato che non ho intenzione di trasferirmi qui per il tempo necessario, ho proposto di agire come consulente e non come docente, e in questa veste sono loro ospite.

Il primo passaggio è stato quello di andare a parlare con la persona che mi sembra più qualificata per tenerlo, quindi stamattina sulla obbligatoria BMW spider del Direttore Steven Small, con targa personalizzata Broca dato che è un esperto di afasia (non stupitevi, siamo in California, il filosofo John Searle ha chiamato il suo cane Ludwig, però lui ha una Porsche spider. È appena uscito il suo nuovo libro sulla percezione, di certo lo stanno traducendo in italiano) andiamo a un appuntamento con Ezra Bayda a La Jolla, cento km più a Sud.

Ezra Bayda è un maestro Zen schivo e importante, i cui libri sono tradotti anche in italiano da Astrolabio, che viaggia poco e non si fa pubblicità. Parliamo per due ore in un ristorante italiano di meditazione e come presentarla a specializzandi in neurologia presumibilmente poco interessati, ci riempie generosamente di consigli, addirittura ha preparato due pagine dattiloscritte su come svolgere una seduta sulla Meditazione di Gentilezza Amorevole (Loving
Kindness è il termine tecnico). Suggerisce di rivolgerla sia agli altri sia a se stessi, come ben sappiamo è molto difficile essere gentili nei propri confronti.

Quando Small gli chiede se è disposto a venire lui personalmente a svolgerla a Irvine, rifiuta ogni compenso e dà una disponibilità di principio, da verificarsi in base alle date delle lezioni. Pone come condizione che il Direttore stesso provi però prima che effetto gli fa meditare dieci minuti al giorno sulla Gentilezza Amorevole, e rimangono che si sentiranno fra un po’, dato che la prima lezione è a novembre. Non ha alcuna fretta, è chiaramente pacificato rispetto al tempo e al denaro, ossessioni di tutti ma qui enfatizzate, vuol sapere di noi e risponde serenamente a tutte le mie domande sulla sua storia di vita.

Bayda regala a entrambi un suo libro con dedica, ci dice quel che pensa del boom della mindfulness, fa domande sulla mia pratica meditativa e sul maestro Corrado Pensa che conosce di fama, è curioso di cosa facciamo come scienziati, racconta la sua esperienza di vita al limite del drammatico, offre consigli proprio perché non siamo suoi discepoli, finiamo per chiacchierare di figli e amori.

Small è colpito, io emozionato, sono a contatto con una persona molto avanti sul sentiero della consapevolezza, percepisco la fortuna che ho di poter parlare con lui a cuore aperto. Gli dico che spero di rivederlo al più tardi nel novembre 2016, quando proprio a La Jolla ci sarà il II congresso di Contemplative Studies, mi invita a passarlo a trovare in quei giorni o quando ripasso da Irvine. Adoro questi appuntamenti senza scadenza, gli sono sinceramente grato.

Il ristorante lo ha scelto Bayda, nonostante sia italiano in California sorprende piacevolmente noialtri scettici, il Red Snapper (un dentice del Pacifico, il miglior pesce che potete mangiare in questo emisfero) alla livornese fresco e saporito, il caffè addirittura buono, ritorniamo verso Irvine rilassati e soddisfatti. Non abbiamo ancora deciso nulla, ma siamo sulla buona strada.

Vi lascio con una poesia di un maestro di Tai-Chi, Loy Ching-Yuen, che ci sollecita a vivere con gioia il momento presente:

Una oncia di tempo è una oncia di oro:
Fanne tesoro.
Apprezza la sua natura volatile.
Oro mal riposto si ritrova facilmente,
Tempo mal speso è perso per sempre.

 

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Attaccamento e Trauma 2015 – La cronaca del Convegno

The Giver, il mondo di Jonas (2014) di P. Noyce – Recensione

Come una società evoluta risolve il problema delle passioni e dell’aggressività…

In una società in cui le comunità sono luoghi sereni e idilliaci, non si può mentire e si deve usare un linguaggio preciso quando si parla, ossia epurato da ogni forma di emozione, sembra che la vita scorra tranquilla e senza problemi né turbamenti per gli abitanti del mondo. In questa Terra i bambini sono generati dai genetisti e nati da donne incaricate di essere le partorienti.

Ogni differenza, sociale, economica, culturale, individuale, è stata sanata, portando a un’uniformità generalizzata. Finalmente si può vivere in un luogo dove tutto è sotto controllo, poiché è stato bandito ogni impulso che potrebbe creare discordie e separare una persona dal resto della comunità.

Fin dai primi giorni di vita gli esseri umani sono infatti sottoposti ad un esame che verifica la loro conformità ad uno standard predefinito, pena il congedo. Per mantenere questa condizione, tutti i cittadini sono obbligati ad un’iniezione quotidiana che li anestetizza completamente da ogni genere di emozione, immergendoli in un limbo neutro.

Insomma, l’alessitimia come cura delle discordie e metodo per preservare pace ed ordine! Questi sono solo alcuni dei mezzi che il Sommo Saggio e il Consiglio utilizzano per evitare che la forza prorompente e distruttiva della rabbia, dell’invidia, della gelosia, possa prendere il sopravvento sugli esseri umani e generare disordine e sofferenza.

E’ questo lo scenario che si presenta davanti agli occhi dello spettatore che sta guardando The Giver – Il mondo di Jonas. Certo lo spettatore psicologo si chiederebbe che fine farebbe il proprio lavoro in un mondo così e ovviamente troverebbe mostruosa l’eliminazione delle emozioni. Ma del resto tutto funziona…ognuno ha una famiglia e una casa. Certo, la gente vive in unità abitative, dove tutto è definito per legge e non scelto, come l’arredamento, che genera un’atmosfera finta priva di qualsiasi calore umano. E i bambini non crescono in famiglie, ma in unità famigliari, in cui i rapporti di parentela sono solo una forma senza sostanza e ogni legame è privo di qualsiasi sentimento che non sia neutrale (‘Papà tu mi ami?’ ‘Usa un linguaggio preciso Jonas, non so cos’è l’amore, posso dirti che ti stimo e ti rispetto’). Tutto funziona ma gli uomini non sembrano persone, bensì solo semplici esseri viventi.

E di che colore potrebbe essere il mondo se qualcuno gli rubasse le sue sfumature più belle e più brutte? Semplice, bianco e nero. Un monotono, scialbo, insapore, alternarsi di tempo e spazio, senza nemmeno più stagioni, una dimensione vuota perché non sarebbe movimentata dall’incessante fremito delle passioni umane, che rendono la realtà così interessante. In questo futuro non esiste un passato, non c’è una memoria collettiva che unisca l’umanità dando coerenza, unità e significato al presente.

Per fortuna che in ogni generazione, tra i vari incarichi che le autorità assegnano durante la Cerimonia dei 12, vi è un prescelto che sarà l’Accoglitore delle Memorie, ossia il Custode della storia e di conseguenza delle emozioni; costui è l’uomo che da anziano diventerà il Donatore, appunto The Giver, trasmettendo il suo sapere e il suo sentire al proprio successore. Una sola persona, scelta dai controllori per rammentare cosa accadrebbe se nella società tornassero le emozioni. Il Donatore tiene così sulle proprie spalle il peso del mondo, riempiendosi sia del dolore lacerante legato alle perdite e alle crudeltà perpetrate dall’uomo, sia della gioia luminosa dell’amore e della condivisione della vita con gli affetti più cari.

In questa realtà futuristica l’animo umano sembra alleggerito dal fardello dell’ansia, della paura, della tristezza, ma in realtà è solo svuotato della sua ricchezza, perché l’equilibrio e l’armonia derivano dalla capacità dell’uomo di mantenere e accogliere dentro di sé i vari colori del mondo, i più allegri e chiari così come i più cupi.

La visione di questo film rende ancora più chiaro ciò che noi psicologi conosciamo già così bene: la vera maturità emotiva non consiste nel distacco dalle emozioni e dalle sensazioni, nell’appiattimento che invece ricorda l’assenza del sentire che caratterizza alcune delle più gravi condizioni psichiatriche. La competenza emotiva risiede invece nel riconoscimento delle emozioni, positive e negative, segnali essenziali che ci indicano i nostri bisogni, oltre che nell’abilità di regolarle quando non ci permettono di affrontare la situazione. Non esistono realtà senza difficoltà e problemi, per cui non possono esistere mondi senza emozioni. Questo film ci fa inoltre comprendere che un mondo perfetto e organizzato sarebbe arido, freddo e sterile, perché il libero arbitrio è anche ciò che rende possibile l’individualità, l’unicità e non in ultimo la creatività, con le emozioni che si trasformano in musica e opere d’arte.

Non è un caso che proprio i primi sentimenti che il protagonista inizia a provare, dopo essersi sottoposto all’addestramento che lo ha scongelato, siano proprio quelli dettati dai nostri sistemi motivazionali innati: l’accudimento per un bimbo che avverte come simile a lui, con il quale sembra avere un vero imprinting fin dal primo sguardo e l’attrazione per un’amica, un legame che unisce sessualità, cooperazione e attaccamento.

The Giver ci ricorda che i più bei dipinti derivano dall’abilità del pittore di intingere il pennello in una tavolozza fatta da migliaia di colori, scegliendo la sfumatura che meglio si adatta a quella situazione e riuscendo a cambiare tonalità in base al paesaggio che si presenta di fronte ai suoi occhi.

E ci rammenta che in un mondo così imperfetto come il nostro, abbiamo la fortuna di poter provare emozioni, e solo tramite esse poter rappresentare sulla tela della vita capolavori sempre diversi, talvolta brillanti, talvolta cupi, ma sempre riflesso della vita, così variopinta e unica.

Geniale questo film paradossale e futuristico. Ottimo per gli adolescenti che hanno in comune con il protagonista il vivere le tensioni e le preoccupazioni per il diventare grande, maturare un’identità propria e scegliere. Ottimo per tutti, per ricordarci dell’originalità che ci distingue gli uni dagli altri ed apprezzarne le differenze. Ottimo per coloro che hanno dimenticato il valore delle emozioni!

 

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Inside Out: La teoria cognitiva della mente e le funzioni delle emozioni

Quando il corpo parla: l’emicrania in Psicosomatica

Elena Maggio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

L’emicrania è strettamente collegata al pensiero psicosomatico e alla diade inscindibile mente-corpo, aventi validità scientifica dimostrata da ampie ricerche in neuroscienze ed in ambito clinico.

L’emicrania dal greco hemikranion, un lato del capo, è una cefalea primaria episodica caratterizzata dalla combinazione di sintomi psicologici, gastrointestinali e neurovegetativi, è un tipo di mal di testa, spesso molto intenso. Una prima differenziazione è quella tra cefalee primarie e secondarie.

Le forme primarie vengono suddivise in 4 grandi assi diagnostici:

 

Cefalee di tipo emicranico:

Sono quelle vascolari e hanno un’incidenza del 34%. Le più comuni forme di cefalea vascolare sono l’emicrania classica, l’emicrania comune, l’emicrania emiplegica e quella oftalmoplegica. Durante una crisi di emicrania classica si può avere la cosiddetta ‘aura’ che è caratterizzata da una serie di sintomi neurologici focali (disturbi visivi, senso di intorpidimento, debolezze in un lato del corpo, tremori, brividi, afasia transitoria, difficoltà di parola, vertigini e pallore), i quali scompaiono in 15-30 minuti e che sono generalmente premonitori della crisi anche se talvolta compaiono durante la fase della cefalea. Comprendono anche sintomi neurologici transitori che precedono la comparsa del dolore (disturbi visivi quali luci lampeggianti, figure che si muovono nel campo visivo e linee parallele zigzaganti, e disturbi sensitivi come i formicolii). Gli attacchi emicranici si presentano con una frequenza molto variabile (da pochi attacchi in un anno ad attacchi 2-3 volte alla settimana).

Si differenzia dall’emicrania comune, perché in quest’ultima la fase di vasocostrizione non è apparentemente abbastanza intensa da provocare un’aura o deficit neurologici focali, che possono però presentarsi come ‘equivalenti emicranici’ negli intervalli tra le crisi. L’emicrania oftalmoplegica è meno comune ed è caratterizzata dalla paralisi dei nervi oculomotori. L’emicrania emiplegica, invece, è data oltre che dal sintomo, da un deficit motorio a carico di un arto.

Nella dinamica clinica dell’attacco cefalgico si hanno modificazioni sia nei vasi intracranici che periferici, corrispondenti a tre momenti: l’iniziale vasocostrizione (che nell’ emicrania classica provoca i sintomi dell’aura), la vasodilatazione e l’infiammazione sterile (che provocano dolore), l’edema e l’abnorme sensibilità durante la fase post cefalgica. L’attacco di emicrania può essere associato a vari disturbi quali nausea, vomito, inappetenza, intolleranza alla luce e al rumore, brividi e pallore e può a volte essere preannunciato da disturbi, come irritabilità, stanchezza, sonnolenza e tendenza a cambiare umore. Gli attacchi sono di solito unilaterali e associati con anoressia, nausea e vomito.

 

Cefalee di tipo tensivo:

sono un disturbo molto comune, spesso definito anche cefalea muscolare o da tensione. Si possono distinguere le forme acute, in genere occasionali, causate da episodi sporadici di cefalee da contrazione che possono anche non venir mai sottoposti all’attenzione del medico, ed essere controllati facilmente con i farmaci da banco. Le forme subacute sono, invece, caratterizzate da attacchi della durata di un giorno anche 2 o 4 episodi settimanali. Molto spesso queste acquistano con il tempo un andamento cronico, divenendo così cefalea quotidiana. Questa cefalea muscolo – tensiva cronica determina un dolore diffuso costante, non pulsante, una sensazione di costrizione bitemporale, occipitale, una morsa che stringe la testa a casco, il famoso ‘cerchio’, di irrigidimento del collo o della parte superiore del dorso. E’ la forma più diffusa di mal di testa. Può essere episodica (meno di quindici giorni al mese) oppure cronica (per più di quindici giorni al mese). Il dolore che caratterizza la cefalea tensiva si localizza spesso nella parte posteriore, media e inferiore del cranio ed è bilaterale. Generalmente è di lieve intensità e non pregiudica le normali attività. Così come l’emicrania, anche la cefalea tensiva interessa, in genere, più le donne che gli uomini. Affligge le persone che trascorrono molte ore sedute in posizioni scorrette o accumulano stress e tensione. Questo tipo di cefalea viene raramente associato a nausea, vomito o fastidio per la luce e il rumore.

Cefalea a grappolo:

non è comune, è tipica del sesso maschile, inizia nell’età matura. Non dura più di due ore, ma può manifestarsi con attacchi ravvicinati. Il dolore è molto intenso, localizzato intorno agli occhi e allo zigomo, può essere accompagnato da arrossamenti, lacrimazioni, chiusura della narice della parte colpita, generalmente monolaterale. E’ una forma di mal di testa abbastanza rara ma molto dolorosa. L’espressione a grappolo si riferisce a crisi che avvengono in determinati periodi dell’anno (primavera, autunno e periodi di cambiamento climatico) separati da periodi con assenza di crisi, raggruppati in ben definiti periodi del giorno. Durante il grappolo si possono avere da un minimo di una crisi ogni due giorni, ad un massimo di otto crisi nelle 24 ore. L’attacco inizia in maniera rapida, raggiungendo la massima intensità entro 15 minuti e può durare fino a tre ore.

 

Cefalee: Le forme non associate a lesioni strutturali.

Le cefalee secondarie, così come classificate dall’IHS (International Headache Society),sono invece sintomo di un’altra malattia. Si manifestano come conseguenza di: traumi cranici o lesioni del capo; malattie o disfunzioni dei vasi sanguigni della circolazione celebrale,per esempio ischemia, trombosi, aneurisma ed emorragia cerebrale; malattie del cervello o delle strutture circostanti, come tumori o meningiti; assunzione di sostanze come alcool, caffeina, oppiacei; infezioni virali o batteriche; malattie del metabolismo, come diabete o malattie renali; dolori facciali legati a patologie del cranio, del collo, delle orecchie, del naso, dei denti, della bocca; nevriti e nevralgie craniche.(G.C.Manzoni, P.Torelli)

Le cause dell’emicrania non si conoscono del tutto, nell’anamnesi di pazienti emicranici è presente di frequente una familiarità per il disturbo in uno o in entrambi i genitori con percentuali che vanno dal 50-60% (Lance Anthony, 1966) al 73% di uno studio effettuato da Dalsgaard-Nielsen nel 1965 su pazienti di sesso femminile. La ricerca fra i parenti di primo grado con sintomatologia e storia naturale similare a quella del paziente cefalgico ha fatto sospettare la trasmissione genetica del disturbo. L’ipotesi di una familiarità genetica è sostenuta da diversi autori, sebbene questa ipotesi non trovi molto accredito. E’ possibile infatti che esista un terreno biologico predisponente che, in particolari condizioni ed in risposta a certi stimoli, possa facilitare l’insorgenza del disturbo. L’emicrania presenta un’elevata predisposizione familiare (circa nel 50% dei casi) e colpisce più le donne che gli uomini, in un rapporto dì circa 3 a 1. Di contro, recenti studi condotti su popolazioni infantili sembrerebbero indicare che la trasmissione del disturbo non è, in alcuni casi, tanto genetica, quanto comportamentale (Pisani R.,Arzilli A., 1994).

La difficoltà nel rintracciare con sicurezza le cause del mal di testa risiede nel fatto che la cefalea può configurarsi essa stessa come vera e propria malattia oppure come sintomo di altre patologie. È perciò importante distinguere tra cause e fattori scatenanti: mentre per cause si intendono quelle alterazioni di fattori fisiologici interni al nostro organismo (alterazioni di tipo vascolare, nervoso, muscolare, ormonale) che sono responsabili dell’insorgere del dolore, i fattori scatenanti sono rappresentati dall’insieme di elementi e situazioni in grado di indurre le modifiche funzionali che causano il dolore, quali stress, l’esercizio fisico, l’insonnia, il cioccolato, il glutammato monosodico, il vino rosso e altri alimenti, la disidratazione, la fame, le allergie, i cambiamenti meteorologici, l’altitudine, una postura scorretta (specie al computer), l’esposizione alle luci al neon, l’esposizione a particolari fattori ambientali, il fumo, l’alimentazione inadeguata, il consumo eccessivo di alcool.

Emicranie e cefalee sono un incubo per milioni di individui, che si trovano a fronteggiare una malattia sottovalutata e spesso mal curata. In uno studio basato sulla popolazione in Svezia, Anu Molarius, Ake Tegelberg et all nel 2006 spiegano perché i disturbi di emicrania costituiscano un notevole problema di salute pubblica, abbiano conseguenze diffuse tra coloro che ne soffrono e rappresentino i sintomi più frequentemente riportati nella popolazione generale.

E’ stato provato che i disturbi di emicrania sono associati ad un peggioramento della qualità di vita, all’aumentata incidenza della depressione, al dolore muscolo-scheletrico, all’inabilità, così come all’incremento dell’uso dei farmaci. Anche se i disturbi di emicrania conducono al ricorso frequente delle cure mediche, ad una grande percentuale di coloro che ne soffrono non è mai diagnosticata o curata regolarmente. Il tipo di farmaco più delle volte usato è l’analgesico. E’ stato rilevato che meno del 20% dei sofferenti di emicrania e circa il 40% delle persone affette da cefalea da tensione ha segnalato che la loro emicrania è stata completamente alleviata dal farmaco usato, mentre, per la maggioranza di coloro che soffrivano di mal di testa, il dolore è stato alleviato solo parzialmente. Notevole è l’effetto dei disturbi di emicrania sulla prestazione a lavoro nella popolazione generale. In questo studio, il 43% degli impiegati con emicrania e il 12% dei soggetti impiegati con cefalea da tensione risultavano assenti da lavoro per uno o più giorni a causa del mal di testa, la maggior parte di essi perdevano 1 su 7 giorni lavorativi all’anno. Lo studio sulla distribuzione demografica della popolazione per genere e età ha rilevato che la diffusione generale di mal di testa ricorrente/emicrania era il 10% fra gli uomini e il 23% fra le donne e che la diffusione dell’emicrania era più alta fra la fascia che comprendeva i 35 e i 49 anni.

Inoltre, i soggetti con mal di testa ricorrente/emicrania riportavano più spesso di aver avuto bisogno di assistenza medica senza poi cercarla. Il motivo più comune era non ottengo comunque alcun aiuto. Per quanto riguarda il carico socio-economico dei disturbi di emicrania, viene spiegato che essa comprende entrambi i costi diretti connessi all’utilizzo delle cure mediche ed i costi connessi al mancato lavoro dovuto all’ assenza per malattia. Notevoli, quindi, sono i costi che gravano sulla società, costi dovuti all’alta prevalenza dei disturbi di emicrania nella popolazione generale.

Cefalee dal punto di vista psicosomatico

Relativamente al punto di vista della medicina psicosomatica, l’ipotesi alla base è l’unità funzionale psiche e soma. Il termine psicosomatico viene storicamente associato ad una serie di malattie psicosomatiche, nella cui eziologia e patogenesi è stata dimostrata una significativa presenza di fattori mentali, quali esperienze emozionali stressanti, fattori di personalità e condizioni conflittuali di ordine psicologico (Gala, Colombo, 1996).

L’American Psychiatric Association definisce come psicosomatico tutto ciò che fa riferimento a una costante e inseparabile interazione della psiche e del soma (APA, 1980). La medicina psicosomatica attribuisce notevole rilievo alle correlazioni tra aspetti somatici e psichici considerati all’interno della concezione unitaria dell’individuo. A tal proposito il modello epistemologico della Complessità bio-psico-sociale di Morin (Fulcheri M.,2005) sostiene che le malattie psicosomatiche devono essere studiate in un’ottica complessa che possa coinvolgere non solo fattori medici, ma anche varie relazioni psicologiche e sociali che incorrono tanto nello sviluppo quanto nell’etiopatogenesi della malattia. Pertanto il disturbo psicosomatico segue un modello di complessità di fattori che determinano l’insorgenza del problema, spiegando come il disturbo sia causato da fattori di tipo somatico e genetico, e da fattori interpersonali e ambientali.

Con F. Alexander e altri allievi di Freud nel 1938 si è costituita la ‘American Psychosomatic Society’ che si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Oggi, vi sono diverse visioni della psicosomatica stessa, quello cognitivo-comportamentale, familiare, psicoanalitico, neurofisiologico. L’approccio psicosomatico, con qualsiasi tipo di paziente si instauri e in qualsiasi forma specifica di intervento esso si manifesti, è essenzialmente basato sulla relazione interpersonale a più livelli, ovvero si propone di studiare e aiutare l’essere umano nei suoi aspetti psicologici e in quelli corporei.

Il paziente psicosomatico spesso rimugina, mette dentro, ingoia, è un uomo caratterizzato da bocconi amari e dai sentimenti ingoiati. Il corpo sostituisce la parola e dice, con la sua malattia, ciò che la parola non sa e non può comunicare. In effetti, è il soggetto stesso ad aver rinunciato alla parola: forse, egli ha constatato che, in diverse situazioni, la parola si è rivelata inutile, pericolosa, paradossale, e così è ricorso ad una forma di comunicazione, quella dei sintomi somatici che, sebbene più dolorosa e ambigua, proprio per la sua ambiguità offre, nel momento in cui il soggetto vi si ritira, maggiori garanzie al suo equilibrio psicologico (Agresta F., 2002). Una caratteristica degli psicosomatici è infatti spesso l’alessitimia (Agresta F., 2002), definita per la prima volta da P. Sifneos che attraverso l’analisi delle trascrizioni letterali di colloqui , insieme ad altri colleghi nel MIT di Boston, riscontrò nella maggior parte dei pazienti un’ evidente difficoltà a descrivere i propri sentimenti, accompagnata da un’attività immaginativa povera. Definì questa condizione ‘alessitimia’ che letteralmente significa emozione senza parola (o mancanza di parole per esprimere le emozioni).

L’alessitimia coinvolge sia la sfera affettiva che quella cognitiva, cioè l’incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, ma soprattutto di verbalizzarle. Nella sfera cognitiva si assiste al pensiero operativo e concreto, tendenza all’agito, e all’inibizione della fantasia. Nella sfera affettiva emerge incapacità a verbalizzare i sentimenti, incapacità di specificare bene tra emozioni spiacevoli e piacevoli, vocabolario povero riguardo alla possibilità di esprimere emozioni e descrivere i sentimenti. Le risposte stesse sono descrizioni delle azioni che compiono in quelle circostanze, spesso accompagnate da irritazione. Per quanto riguarda la percezione del corpo in questi pazienti è vissuto come parte scissa dalla mente, c’è un tipo di rappresentazione disturbata dello schema corporeo ed è inadeguatamente connesso a sé.

 

Cefalee e stati emotivi

Entrando nel fulcro del problema, verrà ora spiegato in che modo un’emozione, un atteggiamento emotivo possano produrre un attacco emicranico o uno stato cronico.

La testa è la struttura organica sede della coscienza, del pensiero e della ragione. La testa è la sede di tutte le attività cognitive come il pensiero, l’immaginazione, la ragione, infatti, l’attività mentale in preda a un attacco di cefalea, è inibita alla radice, non si riesce più a ragionare, si ha una sorta di black out della mente. Pensare fa molto male. In questo modo si esprime il desiderio inconsapevole di tenere lontani pensieri troppo invadenti o che possono turbare. Perciò il mal di testa può essere visto come una difesa rigida che blocca sul nascere la presa di coscienza. Secondo P. Marty, la cefalea rappresenterebbe una dolorosa inibizione dell’ atto del pensare (Marty P., 1951).

Parlare di personalità del cefalgico può sembrare a prima vista troppo generalizzante, dato il gran numero di persone che ne soffrono e la molteplicità di forme del sintomo stesso. Tuttavia, pur tenendo conto che ogni malattia è legata ad una storia personale che insorge in relazione a vissuti estremamente soggettivi, si può notare qualche somiglianza tra coloro che ne soffrono. Esistono alcuni tratti di personalità che li accomunano, una matrice comune che si divide poi in molteplici sfaccettature.

N. Hendler (1981), per mezzo dell’ MMPI, sottolinea come questi soggetti abbiano una tendenza a somatizzare i pensieri disturbanti. Le caratteristiche di personalità sembrano evidenziare una particolare reattività allo stress, per cui queste persone riferiscono di sentirsi sotto pressione sia in casa che a lavoro e di avere pochissime occasioni per rilassarsi o distrarsi.

Secondo P. Marty in caso di emicrania siamo di fronte ad una difesa di emergenza verso un determinato pensiero, mentre nel caso delle cefalee croniche persistenti l’intera funzione del pensiero risulta costantemente inibita. Molti autori hanno studiato questi sintomi. H . G . Wolff, per esempio, è stato uno dei primi autori ad occuparsi della correlazione tra cefalea e personalità (1937). Egli osservava come rigidità, perfezionismo ed ambizione fossero tratti caratteriali molto comuni nei pazienti emicranici, considerando la cefalea come una conseguenza dell’inibizione della propria aggressività. Per O. Knopf questi soggetti sono ambiziosi, riservati, dignitosi, dominatori, sprovvisti di senso umoristico. A. Wolf rivela altre caratteristiche: perfezionismo, ambizione, rivalità esagerata, rigidità, incapacità ad affidare ad altri compiti di responsabilità. Si rileva, in questi pazienti, un atteggiamento di risentimento che deriva dall’incapacità di sostenere le responsabilità assunte per autocostrizione, di mantenersi al livello richiesto della loro ambizione di perfezione (Atti XI Congresso Nazionale Della S.I.M.P.,Vol. XI Fasc. 1-2-1989).

Pertanto da numerosi studi condotti da un punto di vista psicosomatico sulle cefalee ed emicranie emergono tre aspetti che accomunano questi pazienti. La contrapposizione tra ragione ed emozione: la F. Reichmann, ritiene che i pazienti emicranici rappresentino l’espressione di un’ opposizione tra razionalità e sentimento(emozione), che proverrebbe dalla vita in famiglie ligie alle convenzioni e con forte orgoglio e rigidità. In queste famiglie sono severamente puniti i sentimenti di ostilità con l’espulsione dal gruppo e quindi con la perdita della protezione familiare. Il paziente quindi deve controllare i suoi atteggiamenti aggressivi e quando l’aggressività aumenta cerca di scaricarla in un attacco di emicrania. I sintomi cefalgici appaiono cioè quando un atteggiamento di ostilità viene diretto in particolare verso individui emotivamente vicini al soggetto e il senso di colpa che si genera di conseguenza va a scaricarsi sul paziente stesso con il risultato del dolore (Reichmann F., 1937).

Un secondo filone vede invece nell’ attacco cefalico-emicranico il risultato di un atteggiamento cronico di controllo dell’ aggressività che non può esprimersi all’esterno e che viene rivolta verso di sé.

Infine è stata rilevata la sopravvalutazione della funzione del pensiero e la sua inibizione durante l’attacco cefalgico, per cui nei soggetti affetti da cefalea ed emicrania esiste una sopravvalutazione delle attività logico-razionali nella gestione dei problemi e in generale nell’interazione con la realtà esterna. Pensare è la facoltà più usata e maggiormente valutata, il blocco del pensiero realizza la difesa della coscienza da contenuti sentiti come dannosi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bussone-Casucci-Frediani-Manzoni-Bonavita: Le cefalee: manuale teorico-pratico,Ed. Springer.
  • Alexander F. (1951) Medicina Psicosomatica. Giunti Barbera, Firenze.
  • Fulcheri M. (2005) Le attuali frontiere della psicologia clinica,Centro Scientifico Editore.
  • Agresta F. (2002). Problemi di Psicologia generale e clinica,Ed. Nuove Prospettive in Psicologia.
  • Agresta F. (2007) Problemi di Psicosomatica Clinica,Ed Quaderni del CSPP, n.3.
  • Gala C. Colombo E. (1996) Disturbi psicosomatici. In Invernizzi G, ed Manuale di psichiatria e psicologia clinica Milano: McGraw-Hill, 1996.
  • Marty P. (1955): Les cephalalages. Enc. Med. Chir., 10.
  • Molarius, A., Tegelberg, A. (2006) Recurrent headache and migraine as a public health problem – a population-based study in Sweden, Headache; 46(1):73-81.

Cosa ci spinge a bere un drink dopo l’altro? La risposta nei nostri neuroni

Sabrina Guzzetti

Un nuovo studio ha dimostrato che l’alcol è in grado di modificare sia la struttura che la funzionalità di una specifica popolazione di neuroni situata nella regione del cervello nota per regolare le nostre azioni dirette a uno scopo: sono queste alterazioni che parrebbero spingerci ad un ulteriore consumo di alcool.

Una ricerca condotta dal Dipartimento di Neuroscienze dell’Università del Texas, in collaborazione con il Dipartimento di Neurologia dell’Università della California, ha dimostrato che l’alcol è in grado di modificare sia la struttura che la funzionalità di una specifica popolazione di neuroni situata in una regione del cervello nota per regolare le nostre azioni dirette a uno scopo. Sono proprio queste alterazioni che parrebbero spingerci ad un ulteriore consumo di alcool.

Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista The Journal of Neuroscience e, secondo il Dr. Wang, primo autore della ricerca, apre nuove potenziali prospettive per il trattamento dell’alcolismo. La regione del cervello coinvolta è lo striato dorso-mediale, una formazione di sostanza grigia situata alla base di ciascuno dei due emisferi cerebrali. La maggioranza delle cellule che lo compongono è costituita dai cosiddetti neuroni spinosi medi, che sono ricoperti da recettori di dopamina, un neurotrasmettitore rilasciato in presenza di stimoli che producono motivazione e ricompensa. Questi recettori possono avere un’azione eccitatoria, se di tipo D1, o inibitoria, se di tipo D2, sui comportamenti diretti ad uno scopo.

In un esperimento sui topi, gli autori hanno dimostrato che cicli ripetuti di somministrazione sistematica di alcool non solo inducono un aumento persistente dell’attività e dell’eccitabilità dei neuroni spinosi medi di tipo D1, ma incrementano anche la complessità della loro ramificazione dendridica, con un’azione che si estende quindi alla loro struttura cellulare.

Si tratta dunque di una forma di plasticità sinaptica e strutturale di tipo maladattivo, in cui un’ampia popolazione di neuroni che controlla l’apprendimento legato al rinforzo subisce una modifica sia funzionale, che morfologica. Spiega il Dr. Jun Wang:

L’assunzione periodica di una grande quantità di alcool abbassa la soglia di attivazione dei neuroni D1, dando vita ad un circolo vizioso: più si assume alcool, più aumenta la voglia di bere.

Aspetto ancora più interessante per i possibili risvolti in ambito clinico, è la scoperta che il blocco dell’attività dei neuroni D1 determina, nei topi ‘alcolisti’, una diminuzione del loro consumo di alcool.

Questa ricerca non soltanto mette in luce i meccanismi cellulari che contribuiscono all’alcolismo, ma apre anche nuovi e promettenti scenari per il possibile sviluppo di un trattamento specifico che riduca il desiderio di alcool andando proprio ad agire sui neuroni dello striato dorso-mediale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Rivista Italiana di Costruttivismo: online il quinto numero

La Rivista Italiana di Costruttivismo nasce dall’interesse di un gruppo di psicologi nel diffondere il Costruttivismo, nelle sue varie applicazioni, in lingua italiana.

È un semestrale scientifico scaricabile gratuitamente in formato pdf previa iscrizione al sito – nel quale sono ospitati articoli di autori italiani e stranieri, oltre a interviste e book review.

Questo nuovo numero vanta una molteplicità di argomenti trattati e illustra l’applicazione del Costruttivismo in ambiti disciplinari diversi. Dalla riabilitazione psichiatrica alla lettura in chiave PCP (Personal Construct Psychology) dell’autismo, passando per l’utilizzo del modello costruttivista nelle imprese, il quinto numero vuole essere uno spunto per tutti coloro che possono essere interessati, a vario titolo, a questi argomenti.

La Rivista Italiana di Costruttivismo la presente anche su Facebook, Linkedin e Academia.

 

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Le emozioni della viralità online

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 04/10/2015

La rete propaga i suoi contenuti con la contagiosità dei virus, e la metafora funziona e cattura le menti. Non è un fenomeno nuovo, cambia solo il medium del contagio.

Un video su Youtube, una fotografia su Istagram, una frase su Twitter e un po’ di tutto su Facebook possono essere virali. La rete propaga i suoi contenuti con la contagiosità dei virus, e la metafora funziona e cattura le menti. Non è un fenomeno nuovo, cambia solo il medium del contagio. Un tempo fu il passaparola, i sussurri e le grida della comunicazione orale. Poi si aggiunse la scrittura, i papiri, le pergamene, i libri e i giornali. Intanto il teatro, la pittura e la musica avevano tenuto alta la bandiera della comunicazione orale e visiva contro il potere del mezzo scritto. In seguito i nuovi mezzi audiovisivi, la televisione, il cinema, la fotografia, la musica riprodotta favorirono un ribaltamento delle posizioni a scapito della scrittura. Infine la rete, dove tutti i mezzi di comunicazioni confluiscono e dove tutto è comunicazione, propagazione, virus, contagio.

Iniziamo fin da piccoli a convergere emotivamente con chi ci circonda, imitando. Il contagio virale in psicologia è imitazione emotiva e perfino motoria e contatto immediato e affettivo con gli altri in assenza di una mediazione cognitiva ponderata e riflessiva. È una convergenza emotiva, un’imitazione automatica e involontaria delle espressioni facciali, della voce e della postura di un’altra persona. Allo stesso modo nella viralità online irresistibilmente cerchiamo, visualizziamo, ascoltiamo, clicchiamo e diffondiamo contenuti mediatici che ci appaiono già preda della popolarità. Imitiamo, tentiamo di accodarci a una massa che già gradisce un certo contenuto e, in tal modo, speriamo di poter partecipare a qualcosa di più grande che sia in grado di farci dimenticare la solitudine in cui siamo sprofondati dalla nascita. Come bambini, percepiamo quel che ci si attende da noi e aderiamo, felici e disperati.

L’imitazione è la forma più primitiva della capacità empatica, abilità superiore che presuppone non solo l’adesione o immedesimazione emotiva, la condivisione dell’emozione dell’altro, ma anche la capacità di discriminare e riconoscere le emozioni espresse dall’altro e la capacità di assumere la prospettiva e il ruolo dell’altro, di mettersi nei panni dell’altro.

Naturalmente, e purtroppo in alcuni casi, alcuni individui più di altri riescono a contagiare chi li circonda. Questi grandi comunicatori sono in possesso di almeno tre caratteristiche: sembrano provare forti emozioni, devono essere capaci di esprimerle e quando gli altri provano emozioni incompatibili con le loro, devono essere relativamente insensibili e indifferenti. Ci sono poi i loro complementari, le persone molto sensibili al contagio emotivo. Anche questi recettori di contagio presentano alcune caratteristiche ben precise: sono più concentrate sugli altri che su stessi, si comportano e pensano tenendo conto soprattutto delle opinioni degli altri e sono capaci di interpretare con sbalorditiva precisione le comunicazioni emotive degli altri, il tono di voce, gli atteggiamenti e le posture (Hatfield, Cacioppo e Rapson, 1997).

Il contagio emotivo è più frequente per alcune aree della vita umana, purtroppo non tra le più positive: nei comportamenti trasgressivi, per esempio il fumo nei giovani, l’abuso di stupefacenti e la delinquenza; nei comportamenti autolesivi e suicidari; nelle abitudini di consumo e nei comportamenti finanziari. Insomma, nulla di rassicurante. Non siamo però ancora al peggio. C’è un campo dove il contagio psicologico è ancor più inquietante. Ed è il contagio che ci induce a condannare sommariamente e a riprodurre forme di linciaggio sia pure solo mediatico. La modalità con cui si propagano e si commentano i casi giudiziari del momento, o anche casi totalmente online come quello di Justine Sacco che scrisse una goffa frase inappropriata su Twitter ci fanno capire che la giustizia formale può essere sostituita da condanne e punizioni online in grado di stabilire una verità con velocità fulminea. E addio al giusto processo e alle garanzie dell’imputato.

È il meccanismo del capro espiatorio, di cui ho già scritto altrove. La teoria del capro espiatorio descrive come gli uomini riescano a gestire i conflitti emotivi incanalandoli in comportamenti d’imitazione e di contagio psicologico ritualizzati. Il meccanismo dell’imitazione virale in questa teoria è centrale. In questa teoria i conflitti generano contagio psicologico perché chi prevale diventa un modello di comportamento e di pensiero per gli altri.

Ovviamente oltre un certo limite i conflitti diventano intollerabili. Il web, come in generale ogni ambiente umano, è affetto da situazioni di rabbia rivalitaria e imitativa, la cui gestione non è semplice e che si propagano viralmente e imitativamente. Gli individui sono in agonismo perenne e competono per posizioni di rango in cui si sentano riconosciuti, ammirati, abbiano accesso alle risorse materiali e, soprattutto, destino, ammirazione, seguito e imitazione virali. Nello gestire tutto questo ce la caviamo alternando continuamente scontri ritualizzati e riconciliazioni, provocazioni verbali e riconoscimenti reciproci, sfottò e offese e scuse.

Assistiamo a un rovesciamento della funzione positiva del contagio psicologico sul web e i comportamenti imitatori da emulatori e positivi diventano violenti e linciatori. Fenomeno osservabile anche nel contagio virale, in cui si passa dalla condivisione di un video musicale alla propagazione di un messaggio di odio. Odiando qualcuno in gruppo e viralmente nel web riusciamo a superare le antipatie e le incomprensioni reciproche, sia pure solo per un attimo nell’entusiasmo passeggero di un clic. Contagioso e virale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Hatfield, E., Cacioppo, J., Rapson, R. (1997). Il contagio emotivo. Roma: San Paolo Edizioni.

Memoria semantica vs memoria episodica – Introduzione alla Psicologia Nr. 28

La memoria episodica è un sistema in grado di immagazzinare informazioni ed eventi in merito a situazioni che avvengono in un determinato arco temporale; invece la memoria semantica è composta da significati, da simboli e dalle relazione che si creano tra loro. Insieme, la memoria semantica e episodica formano la conoscenza esplicita, caratterizzata da tutto ciò che è immediatamente conoscibile per l’individuo.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 28)

 

La memoria è un magazzino di informazioni all’interno del quale si conservano tutte le nostre esperienze di vita. Esistono diversi magazzini di memoria aventi funzioni diverse. In generale, è possibile riscontrare l’esistenza di due forme generali di memoria: a breve termine in cui la traccia mnestica staziona per poco tempo, e a lungo termine, in cui l’informazione rimane più a lungo. Tulving individuò all’interno della memoria a lungo termine due scomparti: la memoria episodica e la memoria semantica. Nel dettaglio: la memoria episodica è un sistema in grado di immagazzinare informazioni ed eventi in merito a situazioni che avvengono in un determinato arco temporale; invece la memoria semantica è composta da significati, da simboli e dalle relazione che si creano tra loro. Insieme, la memoria semantica e episodica formano la conoscenza esplicita, caratterizzata da tutto ciò che è immediatamente conoscibile per l’individuo.

In tempi recenti è stato scoperto, grazie a studi svolti su pazienti con trauma cranico, che la memoria in realtà è formata da molti parti, e ognuna svolge specifiche funzioni. Tulving e Schacter (1194) teorizzarono l’esistenza di 5 diversi sistemi mnestici:

Memoria di lavoro, magazzino a breve termine, è imputata al mantenimento temporaneo di poche informazioni linguistiche, visive, spaziali e di rappresentazioni di situazioni interne impiegate in operazioni cognitive di più alto livello;

Memoria episodica, immagazzina informazioni situazionali, riguardanti eventi specifici in relazioni a particolari eventi di vita.

Memoria semantica: si tratta di informazioni episodiche deprivate dalle coordinate spazio-temporali per divenire il patrimonio di conoscenza generale sul mondo del soggetto;

Memoria procedurale: riguarda l’apprendimento di abilità motorie e cognitive, come suonare il pianoforte o andare in bicicletta. La caratteristica di questo magazzino è di essere in grado di continuare a funzionare nonostante i sottosistemi di cui è formato siano danneggiati.

Sistema di rappresentazione percettiva: individua forme e strutture il cui significato è elaborato nella memoria semantica. Infatti, in caso di lesione cerebrale dell’area in questione gli individui sono in grado di riconoscere e individuare gli oggetti senza però capirne il significato.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Adozione e disturbo da deficit di attenzione e iperattività: un problema caldo

Nicoletta Carta e Laura Casnaghi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Al VII Congresso Nazionale sul disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Padova, 2009), S. Giribone, I. Maraucci e D. Besana (SOC Neuropsichiatria Infantile dell’ A. O. di Alessandria) tennero un intervento intitolato “Adozione e ADHD”: durante la loro presentazione mostrarono che dai dati emersi nel loro reparto, il 12% dei bambini con diagnosi DDAI risultava adottato.

Estate. Un campo estivo pieno di bambini. Sono vivaci, giocano e scherzano fra di loro. Partendo da queste informazioni, secondo voi, quanti di loro hanno un disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI)? La soluzione, facendo riferimento ai dati riportati dal sito dell’Istituto Superiore di Sanità riguardo all’epidemiologia del DDAI è circa l’1%.
Se vi dicessi che gli educatori di questi bambini a sera si ritrovano sfiniti e stanchi dopo ore passate con loro, questa informazione modificherebbe la soluzione alla domanda precedente? No, non avrebbe nessun effetto.
E se invece vi dicessi che molti di questi bambini sono mandati al campo estivo dai loro genitori adottivi? Se, andando a vedere i dati dei bambini del campo, ci accorgessimo che molti di loro sono stati istituzionalizzati per un certo periodo della loro vita? Queste informazioni che effetto avrebbero sulla risposta alla domanda precedente?
Abbastanza da modificare la risposta. Anzi, da non farci avere una risposta chiara.

Al VII Congresso Nazionale sul disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Padova, 2009), S. Giribone, I. Maraucci e D. Besana (SOC Neuropsichiatria Infantile dell’ A. O. di Alessandria) tennero un intervento intitolato “Adozione e ADHD”: durante la loro presentazione mostrarono che dai dati emersi nel loro reparto, il 12% dei bambini con diagnosi DDAI risultava adottato. Durante lo stesso intervento riferirono che, dal registro nazionale italiano, risultava che addirittura il 43% dei bambini diagnosticati DDAI in Italia erano stati adottati. Questi dati indicherebbero che, prendendo una popolazione di bambini con un gran numero di figli adottivi, la possibilità di trovare tra loro soggetti con DDAI aumenta.

Per quanto nei successivi Congressi nazionali italiani sul DDAI non siano più stati riportati interventi sulla sua prevalenza nei bambini adottati, la ricerca non ha tralasciato l’argomento.

Nel 2001 uno studio di S. DosReis, J. M. Zito, D. J. Safer e K. L. Soeken sull’affluenza ai Servizi di Salute mentale negli stati della zona medio-Atlantica degli Stati Uniti da parte della popolazione giovanile ha riscontrato una maggiore richiesta di cure da parte di minorenni affidati a cure adottive rispetto a giovani appartenenti ad altre categorie beneficiarie di aiuti statali; tra i disturbi prevalenti si presentava proprio il DDAI, insieme a depressione e disturbi dello sviluppo.

Se in questo studio all’interno del gruppo di bambini considerati affidati alle cure adottive vi erano sia bambini affidati a famiglie sia bambini istituzionalizzati, un successivo studio di K. L. Wiik, M. M. Loman, M. J. Van Ryzin e altri (2011) condotto tra il Minnesota e il Wisconsin, ha evidenziato uno specifico fattore di rischio per i sintomi ADHD nei bambini adottati dopo essere stati istituzionalizzati, rispetto ad altri bambini adottati o non adottati.

Uno studio del 2012 (N. Abrines, N. Garcons et al, 2012) ha messo in luce che il paese di origine dei bambini adottati influenza l’emergere dei sintomi ADHD e, in particolare, i bambini provenienti dall’Europa orientale mostrano maggiore iperattività e maggiori problemi di attenzione delle ragazze adottate cinesi. Inoltre i soggetti adottati con un attaccamento sicuro, mostrano problemi di attenzione e iperattività significativamente minori.
Nel 2013, M. M. Loman e collaboratori indagarono ulteriormente i correlati neurocomportamentali del funzionamento attentivo di bambini post istituzionalizzati: individuarono, tramite la misurazione del potenziale evento-correlato (EREPs) durante compiti attivanti le funzioni attentive, una minore attivazione in bambini post istituzionalizzati rispetto a bambini adottati non istituzionalizzati e a bambini non adottati.
I problemi rilevati nei compiti di attenzione sostenuta (difficoltà del controllo inibitorio e del monitoraggio delle funzioni cognitive) sarebbero compatibili con la maggiore prevalenza in questo tipo di popolazione di disturbi da deficit di attenzione.

Ma cos’è esattamente il disturbo da deficit di attenzione e iperattività e cosa sappiamo sulla sua eziologia?
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività ha certamente un’origine neurobiologica ed è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo, che ostacola lo svolgimento delle comuni attività quotidiane e interferisce con il normale sviluppo psicologico (Marzocchi, 2003). Il bambino con DDAI spesso non riesce a orientare i propri comportamenti rispetto a quanto atteso dall’ambiente esterno, o in funzione del trascorrere del tempo e degli obiettivi da raggiungere. Inoltre, circa la metà dei soggetti con DDAI manifestano anche altre psicopatologie principalmente riconducibili a 4 tipi di sintomatologie, che riguardano comportamenti aggressivi, difficoltà cognitive (disturbi specifici dell’apprendimento, DSA), problemi associati all’emotività (disturbi depressivi e ansiosi) e quelli inerenti all’interazione sociale (interazioni difficili e rifiuti) (Righetti e Sabati, 2007). Affinché sia fatta diagnosi col DSM-5 (APA, 2013) di ADHD, sigla inglese del DDAI, i sei o più sintomi tra quelli elencati devono presentarsi prima dei 12 anni, mentre a partire dai 17 anni bastano cinque criteri per attribuire al soggetto un quadro da deficit di attenzione ed iperattività. I sintomi presentati si dividono, come nel DSM IV, in due ambiti: “inattenzione” e “iperattività e impulsività”.

Per quanto riguarda l’eziologia del disturbo, non sono state identificate cause dirette e sembrerebbe che siano le interazioni gene-ambiente a spiegare l’origine di questo disordine (Nigg, Nikolas, e Burt, 2010). Tra i fattori neurobiologici, si evidenziano differenze strutturali e funzionali in diverse regioni cerebrali come il lobo pre-frontale, il cervelletto e i gangli della base (Castellanos et al. 2002). Sembrerebbe inoltre che la maggior parte degli studi mostri evidenze a supporto dell’esistenza di un’influenza genetica nel DDAI (Faraone et al., 2005; Hudziak, Derks, Althoff, Rettew e Boomsma, 2005). Tuttavia altre pubblicazioni hanno contestato questi risultati (Joseph, 2000; Heiser et al., 2006).

Per quanto riguarda gli aspetti ambientali, essi sembrano influire sul manifestarsi del disordine, come fattori prenatali (tabacco e/o alcol consumato dalla madre durante la gravidanza, esposizione ad alti livelli di piombo, etc.) e fattori perinatali quali complicazioni alla nascita (Eubig, Aguiar, e Schantz, 2010; Purper-Ouakil, Lepagnol-Bestel, Grosbellet, Gorwood, e Simonneau, 2010). Infine anche variabili di ordine sociale ( stato socio-economico, dinamica familiare disorganizzata, psicopatologia famigliare) sono considerate elementi che favoriscono il presentarsi del deficit.
Non ci è ancora dato sapere con certezza quanto l’insorgere di un disturbo DDAI in bambini adottati sia dovuto all’influenza dell’istituzionalizzazione e quanto alle variabili legate ai genitori biologici.

Per quanto riguarda i casi di bambini dati in affidamento, uno studio danese (Fallesen e Wildeman, 2015) ha riportato che l’aumento del numero di trattamenti medici per il DDAI ha influito, diminuendone il numero, sui casi di bambini che sono stati dati in affido: la cura del disturbo ha infatti reso non più necessario l’allontanamento di alcuni minori dalle famiglie biologiche. Uno studio analogo condotto negli Stati Uniti ha trovato che il 75% dei bambini dati in affido aveva ricevuto diagnosi di DDAI prima del loro allontanamento dalle famiglie biologiche: tale dato suggeriva che i problemi comportamentali possono aumentare le possibilità che bambini con situazioni famigliari difficili vengano collocati in strutture o famiglie affidatarie (McMillen et al. 2005).

Alla luce di quanto esposto, individuare quali siano gli elementi che concorrono all’emergere di un quadro di deficit di attenzione e iperattività nei casi di adozione resta una problematica molto ampia, che non ha ad oggi risposte certe.
Magari troveremo una soluzione proprio osservando i nostri iperattivi e disattenti bambini adottati che frequentano il campo estivo…

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’Egocentrico Parte Prima – Tracce del Tradimento Nr. 26

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTOXXVI: L’Egocentrico Parte Prima 

 

Quel che manca agli egocentrici è la capacità di leggere la mente dell’altro, di mettersi nei suoi panni. L’egocentrico, al contrario del codardo e del provocatore, non ha nessuna intenzione di produrre un cambiamento nel rapporto, sarebbe ben contento di avere il suo amante e contemporaneamente mantenere saldo il rapporto con il coniuge e non vuole mandare consapevolmente a quest’ultimo nessun messaggio.

Nella sua testa i due rapporti dovrebbero rimanere ben separati e non interferire l’uno con l’altro; ciascuno dei due soddisfa bisogni diversi (i bisogni sono naturalmente sempre i suoi, in quanto è difficile che l’ egocentrico possa assumere una prospettiva diversa dalla sua) ed in questo trova la sua ragione di essere.

Poiché non vogliono una modifica del rapporto con il coniuge e tanto meno la sua fine, non hanno la benché minima intenzione di essere scoperti. Gli egocentrici lasciano tracce perché non si accorgono di farlo. Sembrano semplicemente sbadati e superficiali ma invece la situazione è decisamente più grave: il problema centrale è proprio la loro impossibilità ad uscire da se stessi e costruire il punto di vista dell’altro. In primo luogo non si avvedono di ciò che tolgono al coniuge a motivo della relazione con l’amante. Pensano di non fare alcun male perché si comportano da buoni partner come prima, si occupano dei compiti domestici e portano i bambini a scuola esattamente nello stesso modo. Le argomentazioni sono estremamente concrete, le valutazioni tutte assolutamente materialiste, totalmente assenti sono le emozioni. Tutto ciò li preserva completamente dal senso di colpa: a ben guardare non danneggiano nessuno e se non c’è danno non può esserci colpa.

Non ritengo affatto di avere qualcosa di cui rimproverarmi perché non ho smesso per un istante di fare quello che è il mio dovere verso i miei figli e mia moglie come è sempre stato da quando ci siamo sposati. Mia moglie non si può certo lamentare perché semmai qualcuno si tira indietro quando c’è da fare l’amore, questa è lei e non certamente io. Non dico mai di no alle sue richieste e comunque garantisco un tenore di vita a lei ed ai figli che semmai è recentemente aumentato. Non sottraggo neppure del tempo perché sarebbe comunque tempo che trascorrerei fuori casa per lavoro e dunque non potrei stare con loro. Anzi se vogliamo vedere come stanno le cose fino in fondo il fatto di avere una relazione con quella che è il mio capo mi comporta degli evidenti vantaggi professionali di cui tutti hanno beneficio. Con ciò non voglio dire che mi sacrifico per il bene della famiglia, ma il risultato è in fondo esattamente questo. Non c’è stato in me nessun cambiamento; io funziono esattamente come prima.

Il proprio mondo emotivo è piuttosto offuscato, le stesse emozioni sono considerate un optional inutile se non dannoso e comunque desueto per una persona adulta e appropriato soltanto nei bambini piccoli. Per questo motivo anche il rapporto con l’amante nasce per la soddisfazione di bisogni concreti piuttosto che per sperimentare emozioni e intimità: in genere la motivazione fondamentale è quella sessuale. Se il proprio mondo emotivo è scarsamente differenziato, poco conosciuto ed esplorato, quello degli altri è assolutamente inconcepibile, non esiste e dunque non sono assolutamente in grado di avvedersi della sofferenza che provocano, così come, peraltro non sono in grado di capire cosa fare per far felice l’altro, se non soddisfare dei suoi bisogni concreti (sesso, regali, soldi, e così via).

In loro dunque non c’è intenzione di far soffrire l’altro, non sono cattivi, è semplicemente che non riescono ad immaginare come l’altro starà in base al loro comportamento e del resto non hanno un grande interesse a scoprirlo. La non conoscenza dell’altro non si limita al mondo emotivo; essi hanno anche difficoltà in generale a cogliere i segnali che dall’altro giungono loro e dunque non si avvedono facilmente che l’altro è preoccupato o irritato per il loro comportamento e li ha messi sotto osservazione: non badano a ciò che l’altro fa a meno che non sia un segnale chiaro e forte. Non ci si può aspettare che capiscano al volo le cose, occorre dirgliele chiaramente, anzi gridargliele a brutto muso ed a quel punto resteranno meravigliati e increduli: ‘perché questa bufera a ciel sereno?’

Le avvisaglie prima ce ne erano state molte ma loro le avevano assolutamente ignorate. Gli indizi che lasciano in giro, abbastanza evidenti, per loro non sono tali; non pensano che l’altro possa pensare, che faccia dei ragionamenti e formuli ipotesi per spiegare delle anomalie evidenti del loro comportamento: ‘perché dovrebbe pensare che ho una storia se quando mi telefona al lavoro non mi trova mai; potrebbero esserci mille motivi!‘ ‘Se arrivo più tardi a casa potrebbe semplicemente essere che si è moltiplicato il lavoro e per questo la domenica ho bisogno di distrarmi ed andare in barca con gli amici! Perché dovrebbe immaginare altro?’

L’egocentrico stupisce per l’ingenuità che mostra nei ragionamenti che riguardano come funzionano gli esseri umani. Sembra quasi che consideri gli altri completamente stupidi; in questo possono risultare francamente irritanti come nella storiella in cui il marito rimprovera la moglie dicendole ‘passi che tu mi metta le corna, ma non sopporto che quando torno a casa tu mi accolga gridando: Olè!’

Alla fine Mauro rimase solo. Non che ciò lo facesse soffrire fuor di misura; piuttosto lo stupiva, non riusciva a darsene una ragione, a trovarne il motivo. La moglie continuava a lagnarsi delle sue assenze ma lo faceva nell’ultimo periodo non di più di come lo avesse sempre fatto elencando quelle che, agli occhi di lei, erano le sue mancanze di marito e di padre, ma poi a letto si ricomponeva sempre tutto e lei non si era mai negata. Neppure quando aveva capito della sua storia con Carla aveva rifiutato di fare sesso con lui ed era stato sufficiente un po’ d’insistenza da parte sua perché tutto riprendesse normalmente. Durante tutto il periodo della malattia della madre di lei lui si era tirato in disparte e per quasi sei mesi non aveva chiesto niente organizzandosi tutti i fine settimana con gli amici e con Carla e portando le figlie da sua madre in modo che lei potesse stare in ospedale senza occuparsi di nulla. Il comportamento delle donne gli sembrava del tutto insensato, misterioso, inspiegabile; la stessa Carla perché fino a luglio era così presa da lui e poi a settembre non ne voleva più sapere? Decise che sarebbe andato a leggersi le mail che lei gli aveva inviato durante il mese di agosto, forse avrebbe capito il perché di quel comportamento … ma tutto sommato era fatica sprecata perché, testarda com’era, non sarebbe tornata indietro e forse non ne valeva neppure troppo la pena. Si, effettivamente, un po’ gli dispiaceva per le bambine ma in fondo le avrebbe potute vedere durante il week end che spettava a lui quando le avrebbe portate dalla madre.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Prendersi cura di un malato di Alzheimer: più stress per i coniugi

Sabrina Guzzetti

Come vivono i caregivers dei pazienti con Alzheimer? L’assistenza di un malato affetto da questa patologia comporta altissimi livelli di carico sia fisico, che emotivo per chi gli è accanto. Secondo un recente lavoro i coniugi e i familiari con sintomi depressivi subirebbero livelli di distress più alti.

 

Con il progressivo invecchiamento della popolazione si sta assistendo ad un aumento di incidenza delle malattie dementigene, Malattia di Alzheimer (MA) in primis, che vanno costituendo sempre più una vera e propria emergenza sanitaria.

La demenza comporta infatti un alto grado di compromissione funzionale, che limita drasticamente la capacità del malato di svolgere le proprie attività quotidiane, fino a determinare una completa disabilità e una situazione di totale dipendenza nei confronti dei familiari.

L’assistenza di un malato affetto da questa patologia comporta altissimi livelli di carico sia fisico, che emotivo, che possono andare a minare la salute psico-fisica dello stesso caregiver, il quale va spesso configurandosi come una vera e propria seconda vittima della malattia. Numerosi sono infatti i fattori stressogeni cui è sottoposto.

Una prima tipologia di fattori stressogeni include il livello di deterioramento cognitivo del paziente, la frequenza con cui si verificano problemi comportamentali e il numero di ore settimanali impiegato per fornirgli assistenza. Una seconda tipologia di stressor deriva dal frequente progressivo deterioramento della relazione tra caregiver e malato e dall’insorgenza di conflitti tra il caregiver e gli altri membri della famiglia. Un’ultima tipologia di fattori stressogeni deriva dalla difficoltà del caregiver nell’adempimento degli altri propri ruoli familiari, professionali e sociali e dalla diminuzione del tempo dedicato ai propri bisogni.

Secondo un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Geriatric Psychiatry and Neurology, sarebbero i coniugi e i familiari con sintomi depressivi a subire generalmente livelli di distress più alti. Questi i risultati di uno studio pluriennale guidato dalla dottoressa Tarja Välimäki, PhD e ricercatrice del Dipartimento di Scienze Infermieristiche della University of Eastern Finland.

La ricerca ha coinvolto 236 coppie di caregiver familiari e pazienti, seguite per 36 mesi dopo la diagnosi di MA. Il distress psicologico dei caregiver è stato valutato utilizzando il General Health Questionnaire (GHQ), un questionario sul benessere psichico che indaga la presenza di sintomi somatici, ansia, disturbi in ambito sociale e depressione.

I ricercatori hanno così potuto identificare le categorie di caregiver familiari più a rischio di esaurimento psico-fisico: i coniugi in generale e tutti i caregiver familiari che presentano sintomi depressivi, anche molto lievi, già al tempo della diagnosi. Dai risultati è emerso infatti che il distress psicologico del caregiver non dipende unicamente dalla severità dei sintomi neuropsicologici del malato di cui si prende cura, ma anche dalla relazione lo lega al malato, dal suo benessere psichico e dalle sue capacità di coping.

Lo studio mette in luce quanto sia importante valutare e monitorare nel tempo anche lo stato di benessere dei caregiver, in modo tale da poter mettere in atto tempestivamente dei programmi di supporto e sostegno in caso di riscontro di una qualche fragilità, che potrebbe per altro avere un impatto molto negativo anche sulla salute stessa del malato di Alzheimer.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Dall’indipendenza alla felicità, e ritorno…

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 27/09/2015

Autonomia è la possibilità di fare ciò che ci piace. Non si tratta solo di fare ciò sappiamo fare bene, che ci fa sentire bravi e competenti, ma di fare ciò che semplicemente ci piace in ogni momento della vita e della giornata.

L’indipendenza, l’autonomia, la capacità di darsi da soli una direzione e una regola di vita, è il feticcio della modernità. Nasconde il rischio dell’anarchia, dell’indipendenza che diventa legge personale, ma siamo disposti a correre il rischio e mai rinunceremmo. Autonomia è la possibilità di fare ciò che ci piace. Non si tratta solo di fare ciò sappiamo fare bene, che ci fa sentire bravi e competenti, ma di fare ciò che semplicemente ci piace in ogni momento della vita e della giornata. Da questo atto dannatamente egoistico nasce l’individualità e l’individualismo, croce e delizia delle nostre giornate.

Non è solo opinione ma scienza. Deci e Ryan dell’Università di Rochester (USA) hanno confermato l’ipotesi in un esperimento. Alcuni individui sistemati in una sala d’attesa erano invitati a eseguire due diversi compiti: alcuni potevano fare ciò che volevano mentre altri dovevano leggere le riviste messe a disposizione sul tavolo. C’è poco da fare: i soggetti forzati a leggere erano poco concentrati, infastiditi e annoiati. Gli altri, i liberi, erano anche forti e sereni. Autorizzati a scegliere come passare il tempo nel modo che più piaceva, ad esempio parlando tra di loro o leggendo il giornale per libera scelta, manifestavano una concentrazione più elevata in quel che facevano e più pazienza e più tolleranza nell’attesa.

L’autonomia moderna è un ambiente che ci circonda, una situazione che ci definisce, una cultura che ci caratterizza. Ci sta intorno, ma è anche dentro di noi. È un ethos, l’ethos della modernità, una dimensione del carattere che prende in nome tecnico di autodirezionalità o self-directedness, ovvero l’indice del nostro grado di autosufficienza, responsabilità, capacità di porci e conseguire obiettivi con efficacia. È anche la capacità di modificare il nostro comportamento in accordo con le nostre scelte individuali e i nostri obiettivi.

È un concetto meno semplice e immediato di quel che sembra. L’autodirezionalità comprende cinque dimensioni, che si definiscono meglio delimitando il loro contrario. E quindi abbiamo il senso di responsabilità contrapposto alla colpevolizzazione degli altri, ovvero l’essere agenti indipendenti e dotati di volontà personale contro il sentirsi controllati, vittimizzati o abusati; la proposizionalità contrapposta alla mancanza di scopi, ovvero il senso di libertà di scelta per ciò che è desiderato contro la mancanza di direzione verso un obiettivo: la ricchezza di risorse contro il senso di inadeguatezza, che vuol dire la consapevolezza delle proprie intenzioni contro la mancanza di autosufficienza e identità; l‘accettazione di sé contro la lotta con sé, ovvero la soddisfazione emotiva di se stessi e degli altri in opposizione all’eterno discontento per come siamo fatti noi stessi o gli altri o di come va il mondo; e infine il senso di illuminazione, il senso di bontà intrinseca in tutte le cose contro la percezione di corruzione e perversione nel mondo.

Quest’ultimo aspetto, l’illuminazione, introduce una nota di ottimismo e di spiritualità non sempre presente nella concezione europea dell’individualismo, più pessimistica e amara, intrisa di disincanto. In questo disincanto c’è il rischio del compiacimento, rischio che la cultura europea si porta sempre dietro.

Come accade spesso di questi tempi, anche per il senso d’indipendenza e di autonomia si è cercato un corrispettivo nel cervello, insomma qualcosa di meno impalpabile e più solido nel campo delle neuroscienze. E lo si è trovato nell’attivazione della corteccia prefrontale mediale durante lo svolgimento di compiti esecutivi. Rischia di essere una tautologia, essendo la corteccia prefrontale la sede della volontà esecutiva: abbiamo trovato la sede del libero arbitrio! È sempre una consolazione sapere che le nostre evanescenti idee e sensazioni interiori hanno un’ancora materiale. A volte non si va oltre questo, il trovare una lucina che si accende nel cervello esplorato con macchinari complessi, ma ci va bene lo stesso.

Torniamo al senso di autonomia. Ancora dati di scienza. Sappiamo che l’individuo con bassa autodirezionalità tende a essere poco integrato, irresponsabile, inetto, infruttuoso, povero di iniziativa e in fondo depresso. Non sono solo dati, ma è una teoria che prende il nome di Self Determination Theory elaborata dai due studiosi che abbiamo già incontrato: Deci e Ryan dell’Università di Rochester, naturalmente in USA.

Quel che colpisce in queste ricerche è la concezione che c’è dietro, la ragionevole determinazione a dimostrare la bontà del senso di autonomia e indipendenza, il desiderio –realizzato- di confermare scientificamente che egoismo e indipendenza sono distinte e inconfondibili tra loro. Secondo Deci e Ryan, fornendo sostegno all’autonomia, si raggiungono forme di motivazione intrinseca, il motore di ogni attività svolta con fiducia e passione. E questo vale fin dall’infanzia: l’autonomia e l’indipendenza si ottengono attraverso il soddisfacimento dei tre bisogni psicologici fondamentali del sentirsi capaci, della possibilità di compiere scelte autonome e della costruzione di legami sociali positivi (De Beni, Carretti, Moè e Pazzaglia, 2014).

Colpisce anche il tentativo di costruire un legame tra autonomia, felicità personale e benessere sociale. Tentativo sostanzialmente riuscito e in netta contrapposizione con le visioni pessimistiche dell’uomo e della vita. Quasi a rassicurarci, ma con buone ragioni, che ci sia un’armonia tra il nostro desiderio di vivere una buona vita ricca di soddisfazioni personali (e non egoistiche) e il l’equilibrio ecologico del mondo esterno. Solo a queste condizioni può sorriderci il mondo mentre perseguiamo i nostri successi e il nostro desiderio di piacere può diventare diritto alla felicità. Un percorso jeffersoniano che va dalla dichiarazione d’indipendenza al diritto alla felicità e al contrario, compiendo un ideale circolo virtuoso.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • De Beni, R., Carretti, B., Moè, A., Pazzaglia, F. (2014). Psicologia della personalità e delle differenze individuali. 2.ed. Bologna: Il Mulino.
  • Deci, E. e Ryan, R. (1985). Intrinsic motivation and self-determination in human behaviour. New York, Plenum Press

Invecchi e la memoria perde colpi? Fai training di memoria multifattoriali!

Un programma di training che prevede sia l’addestramento in più aree critiche che l’addestramento nelle abilità di codifica e recupero viene definito programma di training multifattoriale (Herrmann e Searleman, 1992).

La memoria costituisce una delle attività cognitive più facilmente influenzate dall’ invecchiamento. In campo scientifico ci sono numerose ricerche a riguardo, condotte allo scopo sia di individuare le principali cause che determinano il decadimento di domini mnestici specifici, sia di identificare gli interventi maggiormente utili per il recupero delle capacità perdute o comunque per rallentarne il deterioramento.

Da un punto di vista metacognitivo quello che si riscontra è che spesso gli anziani lamentano problemi di memoria enfatizzandone la reale entità (Taylor et al., 1992; Craik et al., 1995). Tali autovalutazioni errate e pessimistiche sono la conseguenza di credenze ed atteggiamenti sbagliati riguardo la vecchiaia, concetto spesso associato all’idea di una perdita inevitabile di efficienza mnestica generica che continua a peggiorare con il passare degli anni. Questi elementi costituiscono aspetti in grado di influenzare l’andamento del calo mnestico legato all’età (Hertzog e Dixon, 1994; Craik et al., 1995).

I training di memoria nell’ambito dell’invecchiamento prendono in considerazione anche questi fattori e nascono proprio dall’ipotesi che i deficit di memoria siano causati, non solo dal normale invecchiamento biologico, ma anche da deficit metacognitivi e strategici superabili, in parte, con opportuni addestramenti. I training sono infatti in grado di accrescere l’autostima dell’anziano e la sensazione di avere un ruolo determinante nell’esito delle proprie prestazioni di memoria, poiché portano ad un miglioramento nei compiti mnemonici.
Secondo Jenkins (1979) esistono interazioni tra attività di codifica (organizzazione, ripetizione, mnemotecniche), caratteristiche soggettive (abilità, capacità verbali, capacità attentive, credenze, stato emotivo), fattori di recupero (tipologia di test di memoria) e natura del materiale da memorizzare (verbale o visivo).

Delineando le caratteristiche di queste interazioni sarebbe possibile comprendere meglio la memoria e il suo funzionamento ipotizzando più aree da rinforzare per migliorarla (Herrmann e Searleman, 1992). Un programma di training che prevede sia l’addestramento in più aree critiche che l’addestramento nelle abilità di codifica e recupero viene definito programma di training multifattoriale (Herrmann e Searleman, 1992). In particolare il punto di vista multifattoriale prende in considerazione, oltre alle abilità di memoria, anche gli stati emotivi (livelli d’ansia e di stress), le strutture di credenza (credenze di auto-efficacia) e le abilità attentive.

Un approccio multifattoriale consentirebbe di rimediare alla perdita di memoria nell’invecchiamento (Stigsdotter e Bäckman, 1989) e favorirebbe una performance migliore rispetto all’approccio tradizionale, in cui vengono addestrate solo le abilità di codifica e recupero. Il miglioramento con un approccio multifattoriale risulterebbe più forte, duraturo e generalizzabile ad altri contesti (Herrmann e Searleman, 1992).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Craik, F. I. M. e Anderson, N. D. (1995). Memory changes in normal ageing. In A. D. Baddley, B. A. Wilson e F. N. Watts (Eds.), Handbook of Memory Disorders (pp. 211-241). London: John Wiley & Sons Ldt.
  • Herrmann, D. J. e Searleman, A. (1992). Memory improvement and memory theory in historical perspective. In D. J. Herrmann, H. Weingartner, A. Searleman e C. McEvoy (Eds.), Memory improvement: implications for memory theory (pp. 8-20). New York: Springer-Verlag.
  • Hertzog, C. e Dixon, R. A. (1994). Metacognitive development in adulthood and old age. In J. Metcalfe e A. Q. P. Shimamura (Eds.), Metacognition: Knowing about Knowing (pp. 227-251). Cambridge: MIT Press.
  • Hill, R. D., Bäckman, L. e Stigsdotter Neely, A. (2000), Cognitive Rehabilitation in Old Age, Oxford: Oxford University Press.
  • Jenkins, J. J. (1979). Four points to remember: a tetrahedral model of memory experiments. In J. C. Cermak e F. M. I. Craik (Eds.), Levels of processing in human memory (pp. 429-446). Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Stigsdotter, A. e Bäckman, L. (1989). Multifactorial memory training with older adults: How to foster maintenance of improved performance. Gerontology, 35, 260-267.
  • Taylor, J. L., Miller, T. P. et al. (1992). Correlates of memory decline: a 4-years longitudinal study of older adults with memory complaints. Psychology and Aging, 7, 185-193.

Inside out regala un volto alle emozioni: l’educazione emotiva arriva al cinema

Annalisa Gagliardi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

In questo è racchiuso il vero senso del film: l’invito ad esprimere le proprie emozioni da un lato e la legittimazione da parte di chi ci sta vicino di quanto sia giusto esprimere il proprio stato d’animo. La validazione emotiva diviene, pertanto, un elemento essenziale delle relazioni che funzionano bene, in cui si vive l’esperienza di sentirsi compresi per ciò che si prova.

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out, successivamente di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni mentre la scorsa settimana ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Pochi giorni fa abbiamo invece analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia- psicoeducazione (NdR).

Inside out rivoluziona il futuro dell’educazione emotiva, concedendo lustro alle emozioni del quotidiano e ponendo in primo piano un vero e proprio elogio della tristezza. In un epoca divorata dal reale, satura di tecnica e tecnologia, ci ritroviamo sorprendentemente immersi nell’evanescente mondo delle emozioni.

Hai mai pensato perché a volte ti senti in un certo modo?’ questo l’incipit del nuovo vanto della Pixar, che con la maestria alla quale ci ha in questi anni abituati, mette in scena quello che accade nella testa di Riley, una vivace undicenne che si trasferisce insieme alla sua famiglia dal Minnesota a San Francisco.

Già dal titolo, letteralmente ‘Dentro e fuori’, ci predisponiamo ad una riflessione circa la natura contaminante delle emozioni, di quanto esse siano in grado di prendere il sopravvento dentro e fuori di noi, secondo un ordine di priorità che ha animato le discussioni teoriche di decenni. Ci imbarchiamo in un viaggio alternato dentro e fuori dalla nostra testa, avvolti in quel vortice emotivo che condiziona simultaneamente il nostro stato d’animo e le nostre azioni.

Per una ragazzina di undici anni, trasferirsi significa lasciare la bella casa dove sei cresciuta, lasciare la tua migliore amica e la squadra di Hockey, inserirsi in un nuovo ambiente, nuova scuola, nuovi amici, nuove sensazioni. Se l’ambiente che la circonda perde di stabilità, il Quartier generale a capo delle sue emozioni, entra legittimamente in subbuglio.

Tra i registi della nostra vita interiore troviamo Gioia, allegra, forte, ottimista, luminosa. Avvolta in un grosso maglione, troviamo, invece, Tristezza, di blu dipinta e nascosta dietro un paio di sottili occhialoni tondi, ci sorprende per quanto possa essere buffa, e altresì risolutiva nelle sfide che la vita ci propone. Rabbia è un ometto tarchiato tipicamente rosso, che evita a Riley di subire ingiustizie. Quando entra in azione Rabbia, l’utopia del controllo tipicamente fallisce. In verde Disgusto è ‘colei che evita che Riley venga avvelenata, fisicamente e socialmente’ e infine, nei panni del nerd filiforme, violaceo e un po’ stressato troviamo Paura, pronto ad attivarsi quando il pericolo è in agguato.

Queste 5 emozioni prescelte, interpretano il mondo esterno e guidano le azioni della protagonista nell’affrontare le difficoltà che, una qualunque undicenne, potrebbe affrontare nel trovarsi catapultata in una nuova città.

La sensazione di sradicamento e abbandono, che emergono dall’esperienza del trasferimento innescheranno il conflitto interiore. E’ risaputo che cambiare città, può incidere sull’abilità dell’individuo di adattarsi al nuovo ambiente, influenzando il benessere personale e la capacità di creare nuove relazioni. Un cambiamento di tale portata può essere profondamente destabilizzante per una bambina di undici anni e come rappresentato nel film, Gioia perde il dominio del Quartier generale. Tristezza comincerà a contaminare i bei ricordi passati di Riley, mentre Gioia e il suo inattaccabile ottimismo farà di tutto per salvare il salvabile. Troppo triste anche per se stessa, Tristezza scappa, si perde, fino a compiere un inaspettato auspicio: insegnarci che la tristezza può essere sdoganata, può essere vissuta ed esternata, divenendo lo strumento per raggiungere una felicità più piena e consapevole.

Attraverso Tristezza, Riley imparerà a sentirsi legittimata ad esprimere il dolore, ricevendo di riflesso il caldo abbraccio di chi le vuole bene. In questo è racchiuso, a mio avviso, il vero senso del film, l’invito ad esprimere le proprie emozioni da un lato e la legittimazione da parte di chi ci sta vicino di quanto sia giusto esprimere il proprio stato d’animo. La validazione emotiva diviene, pertanto, un elemento essenziale delle relazioni che funzionano bene, quelle relazioni in cui si va oltre il ‘non ci pensare’, ma in cui si vive l’esperienza di sentirsi compresi e giudicati per ciò che si prova.

Definito da molti ‘L’elogio della tristezza’, il film affronta con coraggio un tema scomodo per un cartone per bambini, ma la poesia che ne scaturisce, non è certo un inno al pessimismo, bensì una fotografia tutt’altro che patinata della realtà, dove il tema del cambiamento e della perdita sono parte integrante del normale corso della vita.

L’intento del film è quello di rappresentare cosa accade nella testa di una undicenne, impresa assai complessa, considerato che ad oggi non esiste ancora un reale accordo in merito alle teorie scientifiche sulle emozioni. Un mistero che affascina e appassiona gli studiosi fin dai primi studi di W. James (James, 1884) che definiva l’emozione come il sentire i cambiamenti neurovegetativi a seguito di uno stimolo, e cosi, la casa di animazione di John Lasseter, che annovera tra i suoi successi capolavori come ‘Monsters’ e ‘Up’ ha intrapreso la sfida di fare delle emozioni, un viaggio avventuroso e non privo di insidie, all’esplorazione della complessità della vita.

Il lavoro per arrivare al film è stato molto lungo, gli autori sono andati a scavare tra gli scritti di Freud e Jung, il regista stesso definisce la teoria da loro creata per la realizzazione del film una versione un po’ più pop di Jung. Tra i consulenti scientifici troviamo l’illustre Paul Ekman (professore emerito di psicologia della University of California, San Francisco) pioniere nelle ricerche sul riconoscimento delle emozioni e Dacher Keltner (professore di psicologia della University of Calfornia, Barkeley) che si occupa dello studio delle emozioni e della loro funzione sociale.

Pete Docter, regista del film, dopo essersi attentamente documentato sulle teorie più accreditate sulle emozioni, ha messo sul piedistallo 5 stati d’animo: gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto. I consulenti scientifici del film, avrebbero voluto includere altre emozioni, ad esempio la sorpresa, ma secondo Docter, utilizzare più emozioni sarebbe stato confusivo. Si tratta pur sempre di un cartone per bambini e un canovaccio troppo ricco di personaggi sarebbe stato poco fruibile.

Ad ogni modo, il film richiama con maestria alcuni presupposti teorici fondamentali delle emozioni. Mostrandoci la mente delle altre persone, scopriamo che tutti gli esseri umani possiedono il medesimo corredo emozionale, seppur caratterizzato da peculiarità proprie. Nel film ogni emozione ha caratteristiche salienti, un look ben definito e ciascun personaggio ospita nella sua testa le proprie emozioni personalizzate secondo una loro unicità.

Esploriamo così il concetto di universalità delle emozioni e l’influenza degli effetti di personalità e temperamento nella loro espressione. Nella storia osserviamo che la mamma, il papà e gli amici di Riley, sono tutti dotati dello stesso assetto emotivo, ma ognuno di loro esprime le emozioni secondo le personali propensioni, secondo il genere e secondo l’interpretazione che fanno della realtà.

Non mancano a tale proposito i momenti di comicità nello scambio di opinioni tra madre e padre, dal quale emerge tutto lo stereotipo delle dinamiche uomo-donna nell’interpretazione emotiva della realtà.

Usando le parole di Klaus Scherer, le emozioni assumono la funzione di mediatori tra i bisogni dell’organismo e le richieste dell’ambiente. Il concetto di ‘valutazione cognitiva’ delle situazioni emerge con forza: le emozioni sono caratterizzate da rappresentazioni cognitive della realtà, e parimenti possono influenzare il ragionamento razionale, influenzando le percezioni del mondo e le funzioni della memoria. In merito a ciò nella trama è possibile osservare il contagio cromatico che compie Tristezza avvicinandosi alle sfere del ricordo, colorandole di blu e modificandone la loro essenza iniziale.

Inside out sembra aprire un varco in una nuova era, in cui l’educazione emotiva diviene centrale nel percorso di formazione dei bambini. Riconoscere il senso e il valore delle emozioni sembra poter sdoganare la legittimità delle fragilità umane, che danno slancio al contatto con noi stessi e con gli altri.

Dagli studi di J. Gottman e Declaire (Declaire, Gottman, 1997) si evince che:

i figli emotivamente allenati ottengono migliori risultati a scuola, stanno meglio in salute e stabiliscono relazioni positive con i coetanei. Hanno anche minori problemi di comportamento e riescono a riprendersi più rapidamente dopo esperienze negative. L’intelligenza emotiva permette di essere più preparati ad affrontare i rischi e le sfide della vita.

La qualità di vita di un bambino è influenzata dal modo in cui apprende a conoscere e gestire le proprie emozioni. Se troppo agitati o turbati sarà molto difficile mettere in moto le proprie risorse di concentrazione, attenzione e memorizzazione, con ripercussioni negative sull’apprendimento. Il ruolo delle emozioni diviene, quindi, rilevante nel meccanismo dell’apprendimento stesso, raggiungendo la medesima importanza del ruolo fino ad oggi egemonico concesso a intelligenza e razionalità. Conoscere le emozioni, vuol dire saper dare un nome ai propri stati emotivi e ai propri pensieri, fino ad acquisire fondamentali abilità di autoregolazone del proprio comportamento.

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Al contrario, la protagonista del film, nasconde la sua tristezza e come materia liquida si diffonde nelle trame più sottili della sua personalità, contaminando sogni e ricordi. Riley temeva di piangere, di protestare e di stare nella sua tristezza, come se talvolta, sulla carreggiata della quotidianità ci fosse affisso un divieto di stare nel proprio dolore, come se l’unico modo per essere felici fosse fuggire dalla propria tristezza.

La difficoltà che deriva nell’espressione e nel riconoscimento delle emozioni, influenza negativamente sia le prestazioni scolastiche, sia l’interpretazione degli eventi di vita. Imparando a conoscere e riconoscere le proprie emozioni, invece, il bambino impara a muoversi in un territorio non più sconosciuto, forte della consapevolezza e senza sentirsi totalmente assoggettato dall’emotività (Di Pietro, 1992).

Nella psicologia naif il concetto di emozione è sempre stato associato a un’eccitazione disorganizzata priva di una precisa finalità, ma a partire dagli studi di Darwin è possibile attribuire alle emozioni una funzione essenziale per la sopravvivenza. Cosa sarebbe l’essere umano senza la paura? Quell’emozione che ci mette in condizione di fuggire dinnanzi ad un pericolo è che allo stesso tempo può divenire disfunzionale se eccessiva, incontrollabile e paralizzante.

Da ciò è possibile considerare l’intelligenza emotiva, secondo la definizione individuata da Salovey e Mayer (Emotional intelligence, 1990) come un composto di processi di valutazione, espressione, regolazione e utilizzo delle emozioni. E proprio sul concetto di valutazione cognitiva, secondo la teoria dell’Appraisal (Arnold, 1960) le emozioni ci permettono di:

  • Regolare l’attenzione: monitorando l’ambiente e mantenendo l’allerta per gli eventi importanti
  • Dirigere la motivazione: preparandoci o motivandoci ad affrontare gli eventi

Le emozioni, pertanto, organizzano sapientemente il pensiero razionale e diversamente da quanto si è sempre creduto esse non lo confondono, ma lo guidano. La valutazione cognitiva delle emozioni permette ad ogni individuo di sperimentare il suo personale modo di provare le emozioni e di dominarle. Per compiere nella maniera più efficace tale compito è necessario imparare a riconoscere, esprimere, comprendere, modulare e sfruttare le proprie emozioni. Il raggiungimento di un’adeguata regolazione emotiva é considerato uno degli obiettivi di maggior rilievo dello sviluppo infantile. La capacità di regolare le emozioni, influenza lo sviluppo della personalità del bambino.

Fin dai primi mesi di vita, come dimostrato dalle ricerche basate sul paradigma dello Still Face (Tronick, 1989, 2007), l’essere umano possiede un corredo di strategie comportamentali che gli permettono di regolare l’intensità delle emozioni: il neonato in condizione di disagio, distoglie lo sguardo o si autoconsola toccando i capelli o mettendo il dito in bocca, imparando gradualmente ad utilizzare lo sguardo, il sorriso e il pianto come strumenti per comunicare il suo stato emotivo all’adulto, creando quella particolare relazione di scambio che viene definita da Stern ‘sintonizzazione affettiva’. Quando il bambino percepisce il volto della madre come inespressivo, si attiva per intensificare le sue espressioni comunicative, finalizzate alla condivisione e all’interazione con l’altro. Lo scambio emotivo madre bambino, avvia il primordiale sviluppo della competenze emotiva, dal quale il bambino imparerà prima a riconoscere le emozioni nell’altro e in seguito a riconoscerle in se stesso. Inutile sottolineare quanto in questo processo il ruolo del genitore sia fondamentale, la qualità del legame di attaccamento risulta decisiva nella costruzione del meccanismo di regolazione emotiva e nella rappresentazione di se come efficace nei suoi tentativi comunicativi.

L’analfabetismo emozionale che ancora oggi dilaga sui banchi di scuola e di riflesso nella società, è figlio della difficoltà della maggior parte delle persone di esprimere, decodificare e comunicare agli altri le proprie emozioni. Sebbene la cultura di riferimento rappresenti un varco tra le modalità socialmente accettabili di esprimere le emozioni e le proprie fragilità, è erroneamente diffusa l’idea che l’intelligenza emotiva sia una competenza di serie B. Essa può essere coltivata nel corso di tutta la vita e ci allena ad una elasticità nei confronti degli altri e degli eventi della vita.

Malgrado molti siano tentati di nascondere e reprimere le emozioni negative, Inside out rivoluziona e insegna a grandi e piccini che per vivere appieno la gioia è necessario sperimentare e conoscere la tristezza. Accettare le difficoltà che la vita ci presenta, esprimendo senza timori la propria tristezza, permette di manifestare all’altro il proprio stato d’animo, elicitando l’empatia, l’ascolto e la condivisone.

Inside out, oltre a dare un nome alle emozioni, attribuisce volto e caratteristiche salienti, aiutando i bambini a dare una collocazione precisa a quelle sensazioni che a tutte le età sentiamo nel cuore e nella pancia. Possedere un vocabolario emotivo consente al bambino di esprimere a parole il suo stato d’animo, esternarlo e quindi condividerlo. Nel difficile compito dell’educazione emotiva, John Gottman suggerisce a genitori e insegnanti di indossare i panni degli allenatori, accettando e ascoltando le emozioni dei figli, interessandosi alle loro vite, imparando a riconoscere e regolare i comportamenti prima che si trasformino in una crisi.

Al termine del film il primo passo per conoscere le proprie emozioni potrebbe essere quello di immaginarle, disegnarle, chiedendosi ad esempio di che colore è la paura? Cosa indossa la vostra tristezza? Insomma, che faccia hanno le vostre emozioni?  Questo film riesce con apparente semplicità a spiegare alcuni intricati meccanismi della nostra mente, ma qualcosa sembra mancare, secondo Keltner, consulente scientifico del film, grande assente in Inside out è l’amore. Su questo tema la letteratura é controversa, poiché l’amore non é consistentemente considerato un’emozione. Poeti, filosofi e scienziati hanno tentato di definirne contorni, composizione e generalità, forse tale sfida era troppo ardua anche per la genialità della Pixar o forse l’assenza dei tumulti dell’amore fanno presagire un seguito, nella stagione della massima confusione emotiva, l’adolescenza.

 

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La famiglia Belier. Un film che vi farà star bene – Recensione 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bonomi A., Borgna E., (2011) Elogio della depressione, Einaudi.
  • Di Pietro M.(1992), Educazione razionale-emotiva, Erickson, Trento.
  • Gottman J., De Claire J., Intelligenza emotiva per un figlio, La Feltrinelli.
  • Stern D. N (2004), trad.it. Il momento presente, Milano, Raffaello Cortina, 2005
  • Tronick E.Z. (1989), Le emozioni e la comunicazione affettiva nelle prime relazioni, trad.it in Riva Crugnola, C.(a cura di), La comunicazione affettiva tra il bambino e i suoi partner, Milano, Raffaello Cortina, 1999
  • Tronick E.Z.(2007), The neurobehavioural and socio-Emotional development of infants and children, New York, Norton&Company

Come i suicidi delle celebrità modificano la ricerca di un aiuto online

Daniela Sonzogni

A seguito del suicidio di una celebrità, il forum SuicideWatch, forum di supporto al suicidio, mostra un aumento di post ed espressioni che indicano maggiori e più esplicite tendenze al voler metter fine alla propria vita.

Esiste un forum ampiamente utilizzato per il supporto a persone con pensieri suicidi chiamato SuicideWhatch su Reddit, piattaforma online che consente la partecipazione anonima. Le persone che si iscrivono a questo forum sono in cerca di un sostegno e di una guida da parte di un gruppo di esperti che si presentano come moderatori addestrati. Sono inoltre presenti degli utenti anonimi facenti parte dei social media di volontariato per estendere l’aiuto a chi ha bisogno.

Una nuova ricerca del Georgia Institute of Technology ha rilevato che l’attività su questo forum cambia drasticamente a seguito di suicidio praticato da celebrità.

Il forum mostra un aumento di post ed espressioni che indicano maggiori e più esplicite tendenze suicide. I partecipanti nei contenuti dei loro messaggi, nei giorni e nelle settimane successive al suicidio di una celebrità, mostrano maggiori livelli di rabbia e ansia.

I ricercatori hanno analizzato quasi 66 mila post provenienti da 19 mila utenti collegati da ottobre 2013 a dicembre 2014. I ricercatori hanno notato come è cambiato il linguaggio nelle settimane prima e dopo 10 suicidi di celebrità, tra cui la morte nel 2014 di Robin Williams.

Ad esempio i messaggi prima di suicidi erano Forse dovrei farlo! e Ho bisogno di aiuto…mi sento proprio sul bordo. Dopo i suicidi di personaggi famosi, invece, le frasi presentano una diminuita preoccupazione sociale e mostrano significati carichi di ansia, rabbia ed emozioni negative.

I partecipanti, inoltre, scrivono meno relativamente ad altre persone, meno post sulla famiglia e sugli amici, concentrando i loro messaggi più su se stessi, sull’‘Io’ e sul ‘Me’. Nei loro commenti è emersa tristezza e una maggiore consapevolezza di sé e dei propri vissuti. I ricercatori sottolineano come gli utenti non si siano collegati per discutere delle celebrità ma hanno parlato della loro vita e sul potenziale di porvi fine.

Lo studio riflette l’effetto Werther, ossia un aumento del numero dei suicidi effettivi o tentati suicidi dopo il suicidio di una celebrità. Gli studi in letteratura su questo tema riguardano le azioni concrete delle persone, questo studio invece utilizza i social media per acquisire nuove informazioni circa i pensieri e ciò che sottende un’ideazione suicidaria in un gruppo di persone che è unita attorno al tema del suicidio.

I ricercatori hanno potuto esplorare ciò che le persone pensano e come si sentono, ossia analizzare i marcatori di ideazione suicidaria. I risultati possono essere utilizzati per offrire un miglior supporto online per le persone che sono più vulnerabili psicologicamente. Ad esempio i moderatori potrebbero controllare il sito più frequentemente dopo suicidi di celebrità, creare algoritmi in grado di sviluppare punteggi di rischio sulla base di variazioni linguistiche prima e dopo suicidi di persone famose.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’effetto della discriminazione razziale sui livelli di cortisolo diurno

E’ lo stress sociale dovuto all’appartenenza etnica e la discriminazione percepita ad influenzare lo stress biologico, i livelli di cortisolo diurno e l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.

La discriminazione razziale attualmente è un fenomeno molto diffuso e sentito in quanto, data la relativa stabilità della categorizzazione razziale e le persecuzioni etniche che hanno caratterizzato soprattutto la storia della società americana, gioca un ruolo cruciale nel determinare il benessere delle minoranze etniche. In particolare diverse ricerche hanno permesso di osservare che è lo stress sociale dovuto all’appartenenza etnica e la discriminazione percepita ad influenzare lo stress biologico, i livelli di cortisolo diurno e l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA).

Il rilascio di cortisolo dipende dal ritmo circadiano, infatti i livelli dell’ormone sono elevati al momento del risveglio, aumentano ulteriormente nei 30-40 minuti successivi e poi diminuiscono nel corso della giornata fino a raggiungere il picco minimo intorno alla mezzanotte; l’attività dell’asse HPA è adattiva al fine di far fronte a situazioni di stress acuto che a loro volta possono determinare variazioni della quantità di cortisolo rilasciata. Infatti i livelli di cortisolo al risveglio aumentano in presenza di fattori di stress giornalieri mentre diminuiscono quando gli eventi stressanti sono particolarmente traumatici e si accompagnano a sintomi tipici del disturbo post traumatico da stress; questa condizione di ipocortisolismo in presenza di situazioni traumatiche si verifica anche per le quantità di cortisolo che possono essere registrate durante la giornata mentre invece un appiattimento dei livelli dell’ormone è legato a depressione e a patologie cardiovascolari.

Le condizioni stressanti o traumatiche che possono influenzare il rilascio di cortisolo possono essere legate, tra le altre cose, proprio al subire discriminazioni giornaliere o al vivere episodi di razzismo, tuttavia non sono molte le ricerche empiriche che si sono occupate di valutare tale relazione.

Quindi lo studio presente ha considerato 112 soggetti (50 di colore e 62 bianchi) al fine di testare l’impatto della discriminazione razziale percepita sui livelli di cortisolo diurno, misurato per una settimana attraverso dei campioni di saliva raccolti tre volte al giorno (al risveglio, 30 minuti dopo il risveglio e di notte). Inoltre non sono stati considerati episodi di emarginazione recenti o attuali ma situazioni croniche vissute a partire dall’adolescenza o dalla prima età adulta, questo perché non solo gli eventi che si verificano nel tempo entrano a far parte del cambiamento biologico e psicologico dell’individuo, ma anche perché soprattutto l’adolescenza rappresenta un periodo di trasformazione e di sviluppo della propria identità, per cui episodi di discriminazione vissuti in questa fase possono maggiormente influenzare il cortisolo adulto rispetto al subire gli stessi episodi in periodi successivi. Sono state anche controllate delle variabili contestuali o legate alla salute che possono impattare sul rilascio di cortisolo e quindi viziare gli esiti della ricerca.

I risultati, in linea con quelli degli studi precedenti, dimostrano che esperienze croniche di discriminazione causano un appiattimento del livello di cortisolo diurno e un abbassamento di quello registrato al risveglio e mentre il primo dato caratterizza sia i soggetti di colore che i bianchi, il secondo è stato riscontrato solo per quelli di colore. Inoltre, a conferma delle ipotesi di ricerca, si è osservato che i soggetti che sono stati protagonisti di episodi di emarginazione durante l’adolescenza mostrano, al momento della misurazione, alterazioni maggiori dei livelli di cortisolo rispetto a quelli che vivono gli stessi episodi nella prima età adulta; ciò è vero in particolare per i partecipanti di colore che mostrano un pattern di ipocortisolismo.

Quindi, nonostante i limiti che caratterizzano lo studio in questione, come la mancata considerazione delle discriminazioni razziali occorse nella prima infanzia, la difficile generalizzazione dei risultati e l’assenza di un’analisi dei fattori di protezione, esso può essere considerato la prima ricerca che ha esaminato la relazione tra l’emarginazione vissuta nel tempo e i livelli di cortisolo in età adulta, sottolineando in questo modo l’impatto dello stress cronico, a differenza degli studi precedenti che invece si sono concentrati solo sugli episodi di discriminazione razziale recenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Attaccamento e Trauma 2015 – La cronaca del Convegno

Eleonora Natalini – Tinnitus Center – European Hospital, Roma

 

Sembra la notte degli Oscar per chi è del mestiere. Le stelle si alternano sul palco a ritirare applausi ed ammirazione. Non siamo al Dolby Theatre di Hollywood, ma al teatro Brancaccio di Roma. E non è notte qui, ma sono le 8 del mattino di un venerdì autunnale. Dopo una fila piuttosto impegnativa per la registrazione inizia lo show. 

Su State of Mind abbiamo parlato delle diverse giornate del convegno Attaccamento e Trauma: abbiamo scritto della prima giornata e dell’Importanza della contingenza nello sviluppo infantile; abbiamo inoltre riportato quanto detto nella seconda giornata del convegno a proposito di Fiducia Epistemica, resilienza e resistenza al cambiamento. Abbiamo infine pubblicato il report della terza giornata, incentrata sul Ruolo dell’ emisfero destro, la regressione in terapia e la Schema Therapy (NdR).

 

Presentazione iniziale in grande stile. Le bandiere che rappresentano i paesi da cui provengono gli oltre 1200 spettatori, si alternano sul grande schermo. Alessandro Carmelita è il presentatore ufficiale dell’evento, ottimo padrone di casa e mediatore.

Daniel Siegel apre i battenti per la sfilata sul tappeto rosso. Parla di attaccamento, riprendendo l’ormai nota ricerca sulla Strange Situation, di energia, informazione, possibilità, neurobiologia interpersonale e ovviamente Mindfulness. Sono confusa? Forse si, la neurobiologia mi confonde. Le idee diventano però più chiare quando rimango incantata nel vederlo fare esercizi di stretching mentre ascolta le altre presentazioni. E’ lì in piedi e resto ammaliata nell’osservare quei movimenti lenti. Predica bene e razzola bene mi viene da pensare. Vederlo mi avvicina alle sue idee sull’interconnessione, l’attenzione al presente e al corpo. E per questo mi conquista.

Dopo il coffee break un po’ ritardato, Edward Tronick porta dati, statistiche, grafici e psicobiologia. A tratti mi distraggo, assetata di psicoterapia e pratica clinica. Le osservazioni sono ottime, ma non del tutto innovative. Parla della correlazione tra stress acuto continuo (senza riparazione) e trauma nel sistema di attaccamento tra il bambino e il caregiver, durante il quale non vengono a formarsi stati diadici di coscienza necessari alla creazione del significato sul proprio sé. Questo in maniera semplice si osserva nel video della Still Face in cui vediamo come uno stress lieve è generato dalla mancata risposta dell’Altro. In pochi attimi il bambino è in uno stato di disagio effettivo; nel video ovviamente avviene la riparazione (riunione); facile immaginare cosa può accadere in contesti simili ripetuti e senza compensazione.

Il post pranzo si apre con la presentazione molto bella di Pat Odgen. Ovvio parla di trauma e corpo, e in maniera del tutto chiara. Ci ha stupiti quando ha indossato una maschera bianca dimostrandoci come il solo movimento corporeo ci fa intuire le espressioni facciali e, di conseguenza, lo stato d’animo della persona. Diretto e semplice. Il messaggio è arrivato. Trovo la Psicoterapia Sensomotoria una buona base da cui iniziare nei trattamenti, specialmente per i pazienti gravemente compromessi e con scarse abilità metacognitive. Mi porterò dietro una riflessione importante della Odgen per la pratica clinica: sono più accessibili i ricordi in sintonia con la posizione assunta dal paziente.

Il sabato, con il sole romano, ha portato splendide presentazioni. Apre la giornata Peter Fonagy, ironico e divertente, e ci mostra chiaramente cosa vuol dire mentalizzare. E’ in ogni sua parola, immagine, slide. Mostra una foto di lui, sorella e genitori con i pensieri di ognuno a fumetto. Vari punti di vista, abbiamo letto nella mente dell’Altro, abbiamo mentalizzato insieme. Il discorso si sofferma poi sulla fiducia epistemica. Il paziente con disturbo di personalità ne è carente, non si fida, è ipervigilante. La comunicazione e l’apprendimento, a causa di maltrattamento o abuso, sono falliti. Il lavoro clinico deve tenere tutto questo in considerazione e la mentalizzazione, ovviamente, ci viene in aiuto.

Kathy Steele parla dei pazienti altamente resistenti ed è interessante la correlazione che fa tra il trauma e l’evitamento fobico –mindflight-. Questo significa che il paziente teme tutto ciò che reputa eccessivamente travolgente per prenderne consapevolezza. La Steele tiene a precisare che la resistenza che porta il paziente, o una sua parte dissociata, stimola reazioni diverse sul terapeuta che può, a sua volta, rispondere con una nociva controresistenza da monitorare costantemente per non caderne intrappolati.

Per pochi attimi, favoriti dal luogo che ci ospita, sembra di assistere ad una vera e propria audizione. Brillante, e bonariamente provocatorio, Giancarlo Dimaggio si esibisce nel ballo e nella recitazione. Sul canto non è dato sapere. Sulle sue capacità di terapeuta non ci sono dubbi. La videoregistrazione di un suo role-playing girato in Australia ne è la prova: il paziente cambia volto, postura e quindi stato d’animo in pochi minuti, tutto durante la magistrale autoapertura del terapeuta. Da manuale. Dimaggio conferma che le tecniche della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) funzionano. Stanno raccogliendo dati di efficacia e siamo soltanto in trepida attesa.

Molto visibile la Schema Therapy. Chiude la giornata Arnoud Arntz che ci presenta i dati, quelli che servono a validare, a far dire a tutti ‘ok, questo funziona’.

Eckhard Roediger parla il giorno seguente e ci presenta i fatti: il video di una sua seduta con una coppia in crisi. Interessante e molto. Ci mostra i modi, le sedie su cui farli sedere (carina l’idea di averle di colori diversi in studio), ma anche il corpo, la prossimità o la lontananza e l’importanza di questo. Ovvio c’è l’esposizione immaginativa. E se la fai bene vinci. E lui ha vinto.

Difficile rimanere attenti durante l’ultima giornata. Apre le presentazioni Allan Schore e ci dice (o meglio legge) che nella psicoterapia il cervello destro è dominante, poiché rappresenta la parte creativa in grado di direzionare il trattamento dei traumi di attaccamento. Proprio quella creatività associata all’ apertura mentale dei Big Five. A me è venuto in mente il pilastro della Mindfulness che fa riferimento alla mente del principiante: sguardo curioso e interessato al paziente come se fosse ogni volta uno sconosciuto da esplorare. Tanta, troppa teoria però, infinite citazioni, e il mio cervello destro non ha stimoli nuovi da elaborare e si addormenta miseramente.

Si riprende con l’intervento di Roediger, prima descritto, ma ricrolla spaventosamente con Stephan Doering che parla della Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP). Il trattamento, empiricamente validato, è specifico per il disturbo borderline di personalità. Mi perdo nei discorsi. C’è il transfert e il controtranfert questo è chiaro. Mi viene in mente la resistenza e la controresistenza della Steele…che ci siano delle somiglianze? Curioso come spesso si associa la terapia ad una danza, per dare l’idea della collaborazione, e poi con la terminologia facciamo riferimento, invece, alla lotta, alla sfida (contro). Curioso. Avrei forse dovuto chiedere spiegazioni a Russell Meares che, con il suo Modello Conversazionale nel trattamento del trauma relazionale, pone l’attenzione sulle parole e la struttura della conversazione terapeutica. Il linguaggio del dialogo interiore è di tipo analogico. Ci fa ascoltare uno scambio. Il terapeuta interviene poco, quando lo fa spesso completa le frasi della paziente o fa in modo che lo faccia lei. Approccio bel lontano dall’attenzione al corpo a cui eravamo stati abituati con gli interventi precedenti.

Chairmen delle tavole rotonde, che concludono ogni giornata, sono Onofri, Liotti e Veglia. Il primo inizia portando l’attenzione sul corpo, protagonista indiscusso degli interventi della giornata; il secondo chiedendo ai relatori di trovare differenze e somiglianze sui loro approcci; il terzo narrando un caso clinico personale da discutere.

Gli argomenti trattati sono stati stimolanti, ma il tempo a disposizione non ha aiutato nella gestione delle domande da parte del pubblico. Nell’ultima giornata le mani alzate sono rimaste tali. Il consiglio che posso dare, a chi non ha avuto risposte, è quello di accettare senza giudizio, rimanendo nel momento presente, facendo si che l’adulto sano consoli il bambino vulnerabile, cercando soluzioni alternative con il cervello destro, ponendo attenzione al corpo e ai suoi movimenti, utilizzando tutte le abilità metacognitive a disposizione, senza porre resistenze inutili e attendere le prossime nomination perché, come promette fortunatamente Carmelita, see you next year!

 

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Davide Di Vitantonio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

E’ possibile distinguere fra “aggressione impulsiva” e “aggressione strumentale”; la prima, è definibile come il comportamento manifestatosi in uno stato di rabbia insorto rapidamente in risposta a un determinato stimolo, mentre la seconda come un comportamento organizzato, goal-directed, non emergente da disfunzioni casuali.

L’aggressione

Per gli archeologi, gli storici e gli studiosi della guerra in generale, risulta sempre bizzarro ammettere, al di là di elucubrazioni astratte, che le azioni violente verificatesi sui campi di battaglia di tutto il mondo siano sempre state messe in atto da esseri umani coscienti e pensanti, e non da qualche misteriosa forza negativa che agiva su di loro sopprimendone il libero arbitrio. In realtà, l’atto aggressivo, si manifesta all’interno di una complessa cornice di variabili che richiedono addestramento, condizionamento e motivazione intrinseca, e le conseguenze a lungo termine dell’atto stesso si ripercuotono direttamente sul sistema cognitivo ed emotivo del singolo (Maguen, Lucenko et al. 2010).

Per semplificare, è possibile distinguere fra “aggressione impulsiva” e “aggressione strumentale”; la prima, è definibile come il comportamento manifestatosi in uno stato di rabbia insorto rapidamente in risposta a un determinato stimolo, mentre la seconda come un comportamento organizzato, goal-directed, non emergente da disfunzioni casuali (Pinker, 2002). Ne segue che considerando all’interno della società, un gruppo a cui si richiede specificamente di agire secondo modalità aggressive e violente, bisogna ammettere che la società di appartenenza richiederà al gruppo stesso di essere perfettamente efficiente nel mettere in atto le azioni descritte, di fare dell’ “aggressione strumentale” un vero e proprio skill da apprendere e utilizzare nel momento del bisogno. In tale situazione, gli istinti aggressivi degli individui selezionati, verrebbero considerati un aspetto accettabile e positivo, se ben controllato e incanalato all’interno di parametri sociali legittimi.

Fisiologia del combattimento

La fisiologia del combattimento (Grossman, 1996) si pone come fine la descrizione delle reazioni neurali in risposta a situazioni ambientali di conflitto, reazioni che vanno dall’adattamento immediato, al freezing, a processi di pensiero distorti e irrazionali. Coniugando il lavoro di ricerca del Tenente Colonnello Dave Grossman, e del dr. Siddle (Siddle, 1995), è possibile distinguere cinque diversi stati di arousal fisiologico correlati ad altrettante frequenze di battito cardiaco.

Come si evince dall’osservazione delle diverse condizioni, lo stato di 175 battiti al minuto è quello maggiormente correlato a reazioni negative. Il deterioramento dei processi cognitivi emerge prepotentemente nei resoconti dei soggetti coinvolti, frasi come “non riuscivo a pensare chiaramente” o “avevo la mente annebbiata” lo descrivono perfettamente, e risultano utili nello spiegare determinati comportamenti irrazionali storicamente accertati in situazioni di forte crisi, si pensi agli atteggiamenti descritti a bordo del Titanic o a chi si trovava all’interno delle Torri Gemelle che per sfuggire a morte certa si gettò nel vuoto. Tutti hanno avuto esperienze di dialogo con soggetti fortemente irritati o spaventati, e non è stato difficile notare come a mano a mano che la paura o la rabbia aumentavano, tanto più il pensiero razionale veniva offuscato. Ne segue logicamente che per gli operatori militari o delle forze dell’ordine, si rende fortemente necessario un realistico e costante addestramento al fine di alterare le naturali risposte psicofisiologiche e mantenere il combattente in una condizione compresa fra la GIALLA e la ROSSA, ovvero modalità di attivazione psicofisiologiche che non conducono al deterioramento dei processi cognitivi ma intaccano leggermente le sole abilità motorie volontarie; per questi motivi un addestramento realistico e continuo, permette di immagazzinare una serie di risposte immediate ed automatiche tali da poter essere messe in atto perfino in uno stato di coscienza alterato dal pericolo.

La scelta di combattere

A causa delle normali reazioni psicofisiologiche allo scontro, è naturale assumere che solo una minima parte della popolazione generale prenderebbe volontariamente in considerazione l’ipotesi di accettare un conflitto diretto. Uno studio di Marshall (1978) condotto sui veterani della Seconda Guerra Mondiale, mostrò che solo il 15-20% dei soldati americani sparava volontariamente a un nemico esposto. Dai moderni studi militari emerge chiaramente come la prossimità del nemico, descritta come distanza spaziale dall’osservatore, sia la variabile determinante nella scelta di attaccare o meno.

Keegan (2004), fece notare come soggetti cresciuti in società pastorali apprendessero fin dalla più tenera età le strategie per uccidere animali senza provare rimorso, così da rendere l’atto di uccidere il più naturale possibile. Da tutto ciò si evince come la riluttanza nell’uccidere un membro della propria specie, sia assolutamente comune persino in chi si trovò a prestare servizio armato nel conflitto mondiale; dove nasce dunque la scelta di combattere?

Ogni volta che ci si trova a fronteggiare un’aggressione, le scelte di azione possibili si riducono a quattro:

1. Combattimento
2. Fuga
3. Sottomissione
4. Minaccia

Le azioni elencate non riguardano solo la sfera del comportamento umano, ma sono comuni in diverse specie, e ciò che distingue il soggetto che sceglie di combattere da quello che assume atteggiamenti remissivi e di sottomissione, è rintracciabile in una complessa struttura di variabili bio-psico-sociali che differenziano enormemente non solo il comportamento dei singoli, ma quelle di intere culture e nazioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Lt. Col. Dave Grossman. (1996) On killing.Back bay Books.
  • Marco Costa. (2010) Psicologia Militare. Franco Angeli editore.
  • Maguen S, Lucenko B, Reger M, Gahm G, Litz B, Seal K, Knight S, Marmar C. (2010) The impact of reported direct and indirect killing on mental health symptoms in Iraq war veterans. Journal of traumatic stress, 23: 86:90.
  • Pinker S. (2002) The blank slate: the modern denial of human nature. Viking.
  • Siddle B.K. (1995) Sharpening the warriors edge: the psychology and science of training. Human factor Res Group.
  • Marshall SLA. (1978) Men against fire: the problem of battle command in future war. Gloucester, Mass.
  • Keegan J. (2004) A history of warfare. Pimlico.

Sono contrario alle emozioni (2011) – Recensione

Malinconico è un avvocato quasi disoccupato, un quasi ex marito con un rapporto problematico con le donne e, secondo il suo psicoterapeuta, con uno scompenso tra la sfera razionale e quella emotiva, che non risultano integrate. 

Vincenzo Malinconico è il tragicomico personaggio nato dalla penna dello scrittore Diego De Silva. Le sue vicissitudini e, soprattutto, il suo continuo rimuginare e ruminare sono raccontati in tre libri divertenti ma, allo stesso tempo, ricchi di spunti di riflessione e di momenti profondi: ‘Non avevo capito niente’ (2007), ‘Mia suocera beve’ (2010) e ‘Sono contrario alle emozioni’ (2011).

Malinconico è un avvocato quasi disoccupato, un quasi ex marito con un rapporto problematico con le donne e, secondo il suo psicoterapeuta, con uno scompenso tra la sfera razionale e quella emotiva, che non risultano integrate.

Non decodifica le sue emozioni, non le sente arrivare, non le anticipa. Semplicemente le subisce. Quando le vengono addosso, è del tutto impreparato ad affrontarle. E quelle la investono, come farebbe una macchina, o un camion- gli spiega il suo psicoterapeuta- prospettandogli un gran lavoro da fare con se stesso. Malinconico, che vorrebbe avere il controllo di tutto, non può che reagire chiedendo quanto durerà di preciso la terapia, come del resto non può fare a meno di pensare e ripensare ad ogni cosa che gli capita, persino di elucubrare sul significato delle canzoni, per razionalizzare tutto e distanziarsi così dalle emozioni che possono suscitare, vissute come un branco pronto ad attaccare.

Malinconico vive la sua vita offline, pensa e ripensa a quello che avrebbe voluto dire, tracciando mentalmente il preciso dialogo che avrebbe dovuto sostenere e che la prossima volta dovrà assolutamente fare per non sentirsi un cretino. Ma, subito dopo aver fatto il provino della sua requisitoria, lo assale il dubbio che forse non sarà mai capace di farlo, e poi chi lo sa, se veramente lo penso. Vincenzo perde sempre l’istante, preso com’è tra l’ansia del voler prevedere la sua prossima mossa, che stavolta non dovrà assolutamente sbagliare, ed il rimpianto per le mancate occasioni e per le volte in cui ha agito per non deludere le aspettative dell’altro e sfuggire così al senso di colpa, assumendo ruoli non rispondenti ai propri reali desideri e bisogni (del resto la malinconia che ne deriva è ironicamente già impressa nel suo nome).

I pensieri vengono vissuti da Vincenzo come villeggianti nell’albergo della sua mente. Si sente succube di essi e il loro andare e venire in modo libero e promiscuo gli impediscono di avere punti fermi su cui basare le decisioni. Inoltre, si fa prendere a tal punto da essi che finisce anche per scriverli in sterminati file word, nell’intento di fissare un punto di vista e tendenzialmente non cambiarlo più, e lì per lì ci riesce, ma gli bastano pochi giorni per sentire di nuovo vacillare le proprie opinioni e cestinare i suoi lunghi file, per scriverne poi altrettanti.

Ubriacarsi e ubriacare di parole è la strategia che viene riproposta anche con il suo psicoterapeuta, che non a caso Malinconico soprannomina ironicamente Mr. Wolf, in riferimento al personaggio che risolve problemi del film ‘Pulp Fiction’. Malinconico infatti non vuole impegnarsi veramente nel percorso di terapia, vorrebbe che fosse il suo terapeuta a dare una soluzione preconfezionata ai suoi problemi, che tra l’altro è anche reticente ad esplorare. La seduta così si riempie di chiacchiere vaghe che hanno l’unico scopo di non entrare in contatto con la sua parte emotiva, fino ad arrivare a una vera e propria dichiarazione di contrarietà alle emozioni: Oh, ho detto, e basta! Ma chi credete di essere? Chi vi conosce? Delle vecchie bacucche scongelate, ecco cosa siete. Sempre lì a imbellettarvi, a riproporvi, a toccare dove non dovreste (…) E piantatela, una buona volta, di stare sempre a ingentilirci l’animo. Diteci qualcos’altro. Oppure lasciateci in pace. Che se non ci emozioniamo stiamo bene lo stesso.

Lo psicoterapeuta, esasperato dall’atteggiamento del suo paziente difensivamente logorroico, non può che suggerirgli l’interruzione della terapia, a tali condizioni ritenuta inutile. Malinconico accetta con silenzio colpevole, non avendo per una volta nulla da replicare, consapevole di aver fatto di tutto per suscitare la rottura terapeutica ma, allo stesso tempo, con la voglia di fare retromarcia, nel suo eterno ciclo di insicurezza e di non presa di responsabilità nelle decisioni.

Ma non tutto è perduto per Malinconico.  Un rimuginio notturno stavolta proficuo (scritto al solito in un file word apposito) lo porta a una consapevolezza importante, che il più grande ostacolo al cambiamento è la mancata accettazione della sofferenza che l’ha condotto in terapia (il dolore per la fine di una relazione), sofferenza che la vita inevitabilmente porta con sé quando decidiamo di viverla appieno e di lanciarci, accollandoci dei rischi che in fondo però vale la pena di correre.

Malinconico si dice infatti che la prospettiva del fallimento, la paura di non facerla o di farci male sono macigni psicologici che bloccano ogni iniziativa, facendoci rassegnare a una condizione in cui nulla ci reca dolore, perché in realtà nulla ci accade. Una zavorra da cui liberarsi quindi.

Ma le parole e i buoni propositi scritti non bastano. I detriti del passato sono ancora lì in agguato e Malinconico sente che non può farcela da solo, per cui decide di tornare in psicoterapia per far in modo che qualcosa torni ad accadere nella sua vita.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • De Silva, D. (2011). Sono contrario alle emozioni. Einaudi, Torino.
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