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Lavorare in sicurezza: una risorsa psicologica per l’analisi del bisogno formativo

Il fenomeno infortunistico è un problema prioritario per la salute dei lavoratori con ripercussioni notevoli sia a livello sociale che economico. Il problema è stato analizzato da più fronti e da diverse discipline, così come la psicologia, l’ergonomia, l’ingegneria e la medicina del lavoro.

Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 626/94 (legge sulla sicurezza) si è assistito ad una riconfigurazione delle modalità preventive, in termini di salute e sicurezza delle persone sul luogo di lavoro, cercando di abbandonare una politica riparatoria, orientandosi verso una modalità di intervento focalizzata su prevenzione ed informazione. Sotto questi auspici è stato introdotto il D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) che ha adeguato il corpus normativo all’evolversi della tecnica e del sistema di organizzazione del lavoro, oltre a consentire un maggior allineamento a quanto espresso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che da tempo considera la salute sul lavoro non solo come assenza di malattia fisica, ma anche come stato di benessere generale psico-fisico e ambientale, fortemente legato agli assetti e al clima organizzativo presente nei luoghi di lavoro.

Al di là degli aspetti normativi, sappiamo che i contributi nati all’interno della psicologia si sono dedicati soprattutto allo studio dei predittori psico-sociali dei comportamenti a rischio e/o degli infortuni sul lavoro. In letteratura, sono note diverse associazioni tra l’esperienza pregressa di infortunio e la compresenza di alcuni fenomeni psicologici, come l’aumento della percezione di pericolosità rispetto del rischio, la diminuzione della soddisfazione rispetto le misure di prevenzione adottate dall’organizzazione e l’aumento di stress lavorativo (Greening, 1997).

Ulteriori evidenze a tal proposito sono sopraggiunte approfondendo aspetti più legati alla cognizione, come l’hindsight bias (Kahneman, Slovic e Tversky, 1982), conosciuto anche come bias del senno di poi, che condiziona l’atteggiamento delle persone portandole a ragionare erroneamente che sarebbero state in grado di prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è ormai noto (e che il danno è stato fatto!). Considerando che l’obiettivo di quest’articolo è discutere l’assetto delle strategie preventive basate sulla formazione ed informazione, si rimanda il lettore alla riesamina di Serpe e Cavazza (2007) per un quadro maggiore sugli apporti psicologici che si verificano in rapporto ai fenomeni infortunistici.

La disquisizione di oggi vuole presentare una possibile alternativa, attuabile nell’erogazione della formazione in tema di sicurezza lavorativa, in particolare nella prima fase di questo processo, ovvero nell’analisi del fabbisogno formativo, processo in cui il formatore interviene con il fine di sviluppare capacità e competenza negli individui in riferimento al contesto operativo in cui operano, frapponendosi tra il soggetto committente e l’utente.

La definizione del fabbisogno formativo: problemi aperti

In linea con quanto realizzato sul piano legislativo, ad oggi in tema di sicurezza, sembra essere una prassi comune, quella di orientare la manovra preventiva verso la formazione ed informazione dei propri dipendenti, inerentemente ai rischi derivati dallo svolgimento delle proprie mansioni, con l’auspicio che l’aumento di consapevolezza condivisa, possa apportare miglioramenti significativi nelle condotte, assolvendo allo stesso tempo gli obblighi di legge vigenti. Questo ragionamento in realtà, non segue tale linearità, visto e considerato, che possiamo riconoscere almeno due situazioni comuni e trasversali a più realtà lavorative, che si frappongono a questa logica.

La prima si pone considerando che orientare un’azione formativa verso dei lavoratori, che possono non aver espressamente palesato la necessità di un intervento formativo, per una determinata tematica, come quella della sicurezza lavorativa (o in altri campi affini e strettamente connessi, come la gestione delle emozioni) diviene una questione che può generare abnormi difficoltà sia per li formatore, che si può veder diminuire l’efficacia a medio-lungo termine del suo intervento, sia rispetto l’appellante verso il quale quest’ultimo indirizza il suo servizio. Questa considerazione pone l’accento su come l’analisi dei fabbisogni costituisce necessariamente la prima fase del processo di formazione ed è preliminare alla progettazione stessa (Rosati, 2014), pertanto sottovalutare questa fase, può vanificare l’efficacia degli sforzi messi in atto.

Una seconda considerazione si erge osservando un esempio concreto e tangibile: si pensi ai classici corsi sulla movimentazione dei carichi pesanti, che addestrano il lavoratore a mantenere posture e movimenti conformi a salvaguardarsi da sforzi pericolosi. Questi corsi si espongono al rischio di essere percepiti dai lavoratori come belli ma inutilizzabili, soprattutto in quelle realtà operative dove manca sistematicamente il personale necessario per il trasporto di un carico (problema non infrequente) o nel caso di ambienti dove i ritmi uomo-macchina non sono controllabili, così come nelle catene di montaggio che spesso sono progettate senza una debita considerazione degli aspetti ergonomici.

Lo scenario appena descritto vuole essere una dimostrazione piuttosto rapida ed esemplificativa, poiché vi sono altri fattori in grado di impattare negativamente in una performance di sicurezza e in tal senso, un ruolo cruciale sembra essere l’assenza di una cultura aziendale improntata alla tutela di questi aspetti (Cox e Flin, 1998).

Allineandomi a quanto espresso nel MOAFF (Modello Operativo di Analisi dei Fabbisogni Formativi), ritengo sia cruciale avvertire che la problematica dell’analisi dei fabbisogni formativi ha assunto oggi un posto fondamentale. La sua pertinenza e qualità possono avere esiti decisivi (in positivo o in negativo) nella vita delle persone e delle loro organizzazioni di riferimento.

Viste e considerate queste criticità, rilevo come possa essere un opportuno riferimento, quello di indirizzarsi ad una proposta alternativa, che possa potenziare le primissime fasi dell’ analisi del fabbisogno formativo del personale, favorendo l’emergere di quella parte del fabbisogno definito latente, orientando in tal modo l’erogazione dell’intervento in maniera rapida e personalizzata rispetto alle esigenze dei beneficiari della formazione con plurimo beneficio (ovvero per i formatori, per i dipendenti e per l’azienda).

La matrice di svalutazione

Mi vorrei soffermare su un particolare modello derivato dell’Analisi Transazionale, teoria psicologica nata dal pensiero di Eric Berne che gode di una notevole applicabilità, per contesti educativi ed organizzativi di diverso tipo (Steward e Joines, 2005). Mi riferisco alla Matrice della svalutazione, uno strumento elaborato dal pensiero di Mellor e Schiff (1975) consistente in una matrice avente come colonne le sezioni ‘Stimoli’, ‘Problemi’, ‘Opzioni’ e nelle righe ‘Esistenza’, ‘Importanza’, ‘Possibilità di cambiamento’, ‘Capacità personali di cambiamento’, così illustrato nella Fig.1.

L’intera matrice adopera il concetto di Svalutazione per indicare che in un dato momento stiamo trascurando l’accadimento di qualcosa, identificabile dall’incrocio tra riga e colonna. Ci sono tre aree nelle quali una persona può svalutare: se stessa, gli altri e la situazione.

 

Lavorare in sicurezza: una risorsa psicologica per l’analisi del bisogno formativo_TABELLA

Fig.1: Rielaborazione personale della matrice di svalutazione

Modalità di lettura della Matrice di Svalutazione

Procedendo secondo l’ordine prestabilito dagli autori (investigando dapprima dall’Esistenza degli Stimoli, T1), si può scoprire in quale area avviene la Svalutazione. Solo una volta che la Svalutazione è correttamente identificata, si può procedere per rimuoverla. Prima di procedere ad alcuni esempi illustrativi, preciso le due basilari regole che ne regolano la lettura:

  • Lettura per diagonali: le diagonali guidano il senso di lettura, indicando che la presenza di una svalutazione comporterà sempre l’altra, quindi lungo gli assi T1, T2, T3, T4, T5 e T6. Ad esempio una svalutazione nella diagonale T2 corrisponde alla svalutazione dei Problemi e dell’Importanza degli stimoli;
  • Chi svaluta lungo una qualsiasi diagonale svaluterà anche in tutte le caselle al di sotto e alla sua destra;

La matrice oltretutto è impostata per suggerire una procedura d’intervento, ovvero un itinerario di analisi sistematica utile a monitorare il processo volto alla soluzione di un problema. Essa viene esaminata cominciando dalle caselle poste più in alto finché non si individua il punto dal quale ha inizio la svalutazione. Una volta trovato, quello rappresenta il punto su cui occorre soffermarsi, acquisendo dalla persona le informazioni ignorate, sostituendo la consapevolezza alla svalutazione.

Esempio

Immaginiamo di essere degli educatori impegnati in un intervento educativo in aula con diversi alunni. Verso fine lezione facciamo delle domande per accertarci se il contenuto sia stato appreso, ma riscontriamo con rammarico che quasi nessuno è in grado di ricostruire qualcosa. A questo punto potremmo pensare di avere a che fare con studenti con poco motivati e che questo possa aver inciso notevolmente sull’esito finale. Ipotizzando questo scenario, stiamo agendo una svalutazione nell’area degli ‘Altri’ sulla diagonale T5 o T6 della matrice. Se invece affrontassimo il problema da una diagonale più alta, ci accorgeremmo che il microfono non funzionava correttamente e che il problema è che quando abbiamo parlato non si è potuto sentire molto. Il problema è situato nella diagonale T2 e per la sua risoluzione è sufficiente cambiare microfono.

Come intervenire

Il percorso di lettura della matrice di svalutazione suggerito da Schiff, permette ogniqualvolta si ha a che fare con un problema non risolto, di individuare quale informazione è omessa per la sua risoluzione. Seguendo la modalità di lettura proposta, possiamo agire su più tematiche, generando nell’utente quella presa di coscienza necessaria per la messa appunto di future scelte, ottenendo in cambio una restituzione di quelle che sono le maggiori resistenze sulle quali operare attraverso diverse tecniche, come la sensibilizzazione.

La strategia migliore da mettere in atto, per applicare questo strumento all’attenta analisi del fabbisogno formativo nascosto, è quella di chiedere più informazioni ai fruitori dell’intervento riguardo il contenuto della proposta formativa, approfondendo le sue convinzioni personali rispetto la problematica (area della situazione) e rispetto ai suoi comportamenti (area se stessi), esaminando da quale diagonale la persona ci sta rispondendo con una svalutazione. Dato che non possiamo disporre in anteprima questa informazione, la buona prassi è quella di iniziare a verificare sempre dall’angolo in alto della matrice e verso il basso lungo le diagonali.

Meglio intervenire sempre dalla diagonale più alta, perché focalizzare la ricerca in una diagonale troppo bassa a pelle (così come riportato nell’esempio), potrebbe portare il soggetto a svalutare successivamente il nostro stesso intervento, poichè rischierebbe di non ancorarsi al suo sistema di credenze e di elaborazione delle informazioni, ricascando nel terreno poco fertile degli interventi belli ma impraticabili.

Un’ultima considerazione da tenere a mente è di ricordarsi che una persona non sempre attua una svalutazione, ma può rimanere bloccata in un particolare comportamento, semplicemente perché è male informata a riguardo e quindi poco consapevole del ventaglio delle le alternative possibili.

Conclusione

L’analisi dei fabbisogni formativi va considerata alla stregua di una ricerca sociale in senso stretto, in cui l’uso dei consueti strumenti di analisi a scatola chiusa come i questionari, rischia di essere fuorviante. In virtù del fatto che tali fabbisogni non sono sempre esplicitati, come ricordato nelle battute precedenti, rimane la necessità di portarli comunque a coscienza. La matrice di svalutazione è uno strumento semplice e potente che grazie uno schema di domande ad incrocio, ci guida alla comprensione dei processi e delle resistenze in atto che devono essere debitamente considerate se il nostro intento è dirigere il comportamento altrui verso altri scenari, seppure questa esplicitazione ha luogo all’interno di un più ampio e complesso quadro di negoziazione tra attori adulti.

Work Engagement, burnout e workaholism: quali differenze per i lavoratori?

Valentina Costanzo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Il termine engagement viene utilizzato per designare il benessere del lavoratore in contrapposizione alla situazione di malessere lavorativo definito come burnout (Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001). Il lavoratore prova uno stretto legame affettivo nei confronti delle sue attività lavorative e si sente capace di occuparsi delle richieste del suo lavoro.

Esistono due diversi approcci che considerano il work-engagement come positivo, legato al benessere e alla soddisfazione.
Il primo, proposto da Maslach and Leiter (1997), ritiene che l’engagement sia caratterizzato da energia, coinvolgimento ed efficacia, ossia da dimensioni esattamente opposte alle tre dimensioni del burnout, rispettivamente sfinimento, cinismo e inefficacia. Il secondo proposto da Schaufeli, Salanova, Gonzalez-Roma & Bakker sostiene che il work engagement sia una dimensione indipendente, un concetto distinto legato negativamente al burnout, e che sia caratterizzato da vigore, assorbimento e dedizione. Lo sfinimento e il vigore sono ai poli opposti del continuum dell’energia, mentre tra il cinismo e la dedizione c’è l’identificazione (Gonzalez-Roma, Schaufeli, Bakker, & Lloret, 2006).

Il work engagement, quindi, è caratterizzato da un alto livello di energia e da una forte identificazione nel proprio lavoro, mentre il burnout è esattamente l’opposto: poca energia e un basso livello di identificazione. L’assorbimento costituisce la terza dimensione dell’engagement.

Kahn (1990) utilizza un approccio diverso e descrive l’engagement come [blockquote style=”1″]un legame dei membri dell’organizzazione ai loro ruoli lavorativi: con l’engagement, le persone si impegnano fisicamente, cognitivamente, emotivamente e mentalmente durante le performance lavorative[/blockquote] (p. 694).

Di conseguenza, i lavoratori si sforzano di più a lavoro perché ci si identificano. Secondo Kahn esiste una relazione dinamica e dialettica tra coloro che investono le loro energie personali (fisiche, cognitive, emotive e mentali) nel proprio lavoro ed il ruolo lavorativo che consente alle persone di esprimersi. Kahn (1992) differenzia il concetto di engagement dalla presenza psicologica o dall’esperienza del “sentirsi pienamente lì”, ossia quando [blockquote style=”1″]le persone sentono di essere attente, collegate, integrate e focalizzate nel loro ruolo[/blockquote] (p.322).

L’engagement come comportamento (guidare l’energia verso il proprio ruolo lavorativo) è considerato una manifestazione di presenza psicologica, un particolare stato mentale. In questo modo l’engagement è ritenuto capace di produrre risultati positivi sia a livello individuale (crescita personale ed evoluzione) sia a livello dell’organizzazione (qualità della performance).
Ispirato dal lavoro di Kahn, Rothbard (2001) definisce l’engagement come [blockquote style=”1″]un costrutto a due dimensioni motivazionali che include attenzione (…la disponibilità cognitiva e la quantità di tempo che trascorre pensando al ruolo) e l’assorbimento (l’intensità della propria attenzione al ruolo”)[/blockquote] (p.656).

E’ importante notare che il riferimento fondamentale per Kahn (1990, 1992) è il ruolo lavorativo, mentre per coloro che considerano l’engagement come l’antitesi del burnout è l’attività lavorativa o il lavoro in sé.
Macey and Schneider (2008) hanno provato a risolvere la confusione concettuale proponendo con il termine work-engagement un insieme di diversi tipi di engagement (come caratteristica, come stato o come comportamento), ognuno dei quali comporta diverse concettualizzazioni; una personalità proattiva (engagement come caratteristica), il coinvolgimento (engagement come stato), comportamento di cittadinanza organizzativa (engagement comportamentale).

Nonostante ci siano molte definizioni utilizzate per definire l’engagement, tutti gli studiosi concordano sul fatto che indichi alti livelli di energia e una profonda identificazione col proprio lavoro.

Nell’ambito della ricerca, la definizione più utilizzata è quella di Schaufeli, Salanova, González-Romá & Bakker (2002) che definiscono l’engagement come uno stato psicologico positivo, appagante, di legame con il lavoro caratterizzato da:
– vigore, ovvero alti livelli di energia e di resilienza durante il lavoro, la disponibilità nell’investirvi tutte le proprie forze e la perseveranza dinanzi le difficoltà;
– dedizione, un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida;
– assorbimento, l’essere pienamente concentrati e assorti nel proprio lavoro, attraverso il quale il tempo scorre velocemente e si ha difficoltà nel distaccarsi dal lavoro. L’essere assorbiti è vicino a ciò che può essere definito “flusso” (Csikszentmihalyi, 1990), uno stato ottimale, sebbene duri poco a differenza di uno stato mentale più pervasivo e persistente, come il caso dell’assorbimento.

Alcune ricerche si sono focalizzate sulla relazione tra engagement e altri costrutti psicologici (ad esempio il workaholism o l’organizational commitment) e sui predittori più importanti dell’engagement.

Quali differenze ci sono tra l’engagement e il workaholism?

Gli studi hanno dimostrato che l’engagement è differente dallo stato di dipendenza tipico del workaholism, poiché i lavoratori non si sentono in colpa se non lavorano, hanno interessi al di fuori dell’attività lavorativa e lavorano duramente perché provano piacere nel farlo.

Il termine engagement non designa l’aver bisogno di lavorare per lunghe ore o sentire un bisogno incontrollato di lavorare: i lavoratori con un buon livello di engagement non trascurano la loro vita privata, anzi, trascorrono il loro tempo socializzando, coltivando hobbies e attività di volontariato.
Il work engagement, quindi, è un unico concetto che ha come predittori più importanti le risorse lavorative (autonomia, sorveglianza, coaching, performance-feedback) e personali (ottimismo, self-efficacy, autostima), mentre non è legato alle richieste lavorative (Schaufeli and Bakker, 2004).
La letteratura evidenzia che il lavoro influenza lo stato affettivo e il benessere delle persone, infatti coloro che hanno dei fattori stressanti a lavoro reagiscono a breve termine con sentimenti negativi (Gryzwacz, Almeida, Neupert & Ettner, 2004; Zohar, Tzischinski & Epstein, 2003) e a lungo termine con un danno sul benessere (De Lange, Taris, Kompier, Houtman & Bongers, 2003).

Il work engagement è legato positivamente con sentimenti positivi e negativamente con sentimenti negativi nel fine settimana. Persone che godono di un buon livello di engagement a lavoro dovrebbero quindi avere più esperienze positive, le quali, insieme agli eventi piacevoli, favoriscono sentimenti positivi (Gable, Reis & Elliot, 2000; Kanner, Coyne, Schaefer & Lazarus, 1981). Inoltre, lavoratori con alti livelli di engagement sono più attivi (Hakanen, Perhoniemi & Toppinen-Tammer, 2008; Salanova & Schaufeli, 2008) e ciò implica che si sforzano a migliorare il metodo di lavoro che riduce gli effetti negativi perché ci sono meno motivi per generarli. Il lavoratore che si sente “legato”, dunque, dovrebbe essere assorbito dal lavoro e meno distratto dagli eventi negativi (i conflitti ad esempio) che si possono verificare sul posto di lavoro. Di conseguenza, i lavoratori con alto livello di engagement non provano piacere nel concentrarsi sugli eventi negativi e quindi il loro livello di sentimenti negativi rimane basso, mentre provano piacere nel terminare i loro compiti e nel lavorare bene e questo incoraggia i sentimenti positivi e riduce i sentimenti negativi.

Gli studi hanno dimostrato che il work engagement è legato negativamente a sintomi fisici e ad altre manifestazioni di malessere.
C’è da specificare, però, che avere alti livelli di work-engagement non implica che il lavoro di per sé sia un’esperienza più piacevole e che gli scontri sono meno stressanti.

Rispetto alla relazione tra l’engagement e lo stress, c’è un’evidenza empirica sul fatto che le persone con alto engagement sono più colpite da fattori stressanti ed esperienze negative che possono verificarsi a lavoro (Britt et al., 2005), probabilmente perché questi lavoratori percepiscono ogni evento lavorativo come molto importante e perché l’assorbimento totale nel proprio lavoro implica anche l’essere assorbiti di più nelle situazioni stressanti. E’ per questo che per questo tipo di lavoratori è importante un distacco psicologico nei momenti in cui non lavorano. Quando il distacco non avviene, c’è un’alta probabilità che le situazioni stressanti sul posto di lavoro riversino le loro conseguenze negative anche durante le ore non lavorative e, di conseguenza, le sensazioni negative aumentano e quelle positive diminuiscono: in questi casi il lavoratore con alto engagement è a rischio di workaholism.

L’engagement a lavoro e le esperienze positive associate come il vigore o l’assorbimento non implicano che il lavoro sia agevole (Macey & Schneider, 2008). Il work-engagement potrebbe costituire una perdita di risorse affettive e cognitive. Per evitare che la perdita delle risorse continui durante le ore non lavorative e che ci si trovi in uno stato affettivo povero, distaccarsi durante le ore non lavorative è fondamentale. Dato che l’engagement causa alti livelli di attivazione positiva (il vigore ad esempio), questo livello di attivazione probabilmente è così alto anche quando si rientra a casa dopo il lavoro. Quando i lavoratori continuano a pensare agli affari legati al lavoro o continuano ancora con le attività lavorative (e quindi non hanno un distacco psicologico) la loro attivazione rimane alta. Questo può arrecare conseguenze sulla qualità del sonno, l’addormentarsi tardi e la difficoltà nel rilassarsi (Brosschot, Pieper, & Thayer, 2005; van Hooff, Geurts, Kompier & Taris, 2006). Per ridurre questo alto livello di attivazione nelle ore non lavorative è importante distaccarsi mentalmente dai pensieri e dalle attività legate al lavoro. Al contrario, per quei lavoratori che sono legati negativamente a causa delle esperienze spiacevoli a lavoro, il distacco psicologico nelle ore non lavorative non fa differenza: sono meno assorbiti nel lavoro e nelle attività lavorative perciò hanno bisogno di un minore distacco mentale.

Quali sono le caratteristiche dei lavoratori con workaholism?

I lavoratori con workaholism trascorrono gran parte del loro tempo in attività lavorative, lavorano eccessivamente, sono riluttanti nel non farlo e quando non lavorano ci pensano in maniera persistente e frequente.

Sono lavoratori ossessivi e compulsivi (Schaufeli, Taris & Bakker, 2006; Scott, Moore, & Miceli, 1997). Hanno “bisogno” di lavorare a scapito della loro felicità, delle loro relazioni interpersonali e del loro funzionamento sociale. Al contrario, i lavoratori con work-engagement sono felici di lavorare, non è una questione di bisogno, ma trascorrono le ore lavorative impegnandosi con vigore senza rinunciare alle altre attività nel tempo libero e, di conseguenza, non risultano essere lavoratori infelici.

Nel work-engagement sono fondamentali le risorse lavorative: il supporto dei colleghi e dei supervisori, i feedback, la varietà di abilità, l’autonomia e le opportunità (Bakker & Demerouti, 2008; Halbesleben; Schaufeli & Salanova, 2007). Per risorse lavorative si intendono gli aspetti fisici, sociali e organizzativi come ad esempio: diminuire le richieste lavorative e i sacrifici fisiologici e psicologici associati; essere stimolati nel raggiungimento degli obiettivi; stimolare la crescita, l’apprendimento e il progresso della persona (Bakker & Demerouti, 2007; Schaufeli & Bakker, 2004). Le risorse lavorative, quindi, agiscono sia sulla motivazione intrinseca incrementando la crescita, l’apprendimento e il progresso, sia sulla motivazione estrinseca con il raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Soddisfano i bisogni degli individui di autonomia, competenza e di relazione (Deci & Ryan, 1985; Ryan & Frederick, 1997; Van den Broeck, Vansteenkiste, De Witte, & Lens, 2008). Gli ambienti lavorativi che offrono risorse sollecitano i lavoratori a dedicarsi al proprio lavoro poiché è piacevole dedicarsi ai compiti che vengono svolti con successo e agli obiettivi che vengono raggiunti.

Shyness vs. Social Anxiety Disorder – Dal Forum di Formazione in Psicoterapia di Assisi 2015

Shyness vs. Social Anxiety Disorder

Benjamin Gallinaro, Francesca Fiore

Introduzione

Timidezza e Disturbo d’Ansia Sociale (conosciuto anche come Fobia Sociale) sono due condizioni di “discomfort sociale”, la prima frequente e non clinicamente rilevante, la seconda appartenente alla più ampia categoria dei disturbi d’ansia.
Secondo molti autori entrambe le condizioni si collocano lungo un continuum a intensità crescente e sono connotate da emozioni di imbarazzo e vergogna che si manifestano in contesti interpersonali. Non sempre tali condizioni risultano immediatamente distinguibili. Per poter intervenire in maniera efficace e adeguata su entrambe, occorre riuscire a differenziarle con maggior precisione. In tal senso appare importante individuare le credenze centrali e i fattori di mantenimento che le caratterizzano.

Obiettivo

Questo lavoro di ricerca si propone di indagare quali credenze cognitive razionali e irrazionali, basate sulla teoria della REBT e quali processi (perfezionismo, criticismo, rimuginio, ruminazione) e credenze metacognitive sono alla base del costrutto della timidezza (shyness). Oltre a ciò lo studio si propone di individuare gli elementi di differenziazione rispetto alle credenze che sottendono il Disturbo d’Ansia.

Metodo

Per individuare le credenze centrali legati alla Timidezza è stato condotto uno studio su un campione di popolazione normale utilizzando una batteria di test composta da:

Attitudes and Belief Scale (ABS-R II),

Perfectionism Scale,

Perceived Criticism Inventory,

Penn State Worry Questionnaire (PSWQ),

Ruminative Response Scale (RRS),

Metacognitions Questionnaire 30 (MCQ-30),

Anxiety Control Questionnaire (ACQ– SC),

State Trait Anxiety Inventory (STAI-I),

Beck Depression Inventory (BDI).

Risultati e conclusioni

I risultati dello studio mettono in evidenza che le variabili determinanti della timidezza sono principalmente tre: l’ansia, il controllo e la catastrofizzazione.
Secondo la letteratura, tali componenti sarebbero comuni anche al disturbo d’Ansia Sociale, nel quale, tuttavia, si presentano con modalità maggiormente pervasive, radicate e specificamente legate alla dimensione dello scarso valore personale percepito in contesti di performance e di interazione sociale.

 

Depressione Maggiore: la centralità dei sintomi nella definizione di un quadro completo della patologia

Come si fa a sapere se qualcuno soffre di Depressione Maggiore? Il DSM-5 basa la diagnosi di questo disturbo sulla presenza o meno di determinati sintomi, i quali vengono indagati dalle diverse figure professionali tramite numerosi strumenti di valutazione. Spesso però i sintomi indagati dai vari strumenti non corrispondono a quelli definiti dal DSM-5 e la diagnosi viene effettuata quando il soggetto mostra di possedere un certo numero di caratteristiche, senza dare particolare importanza al peso e alla centralità che queste potrebbero giocare all’ interno della patologia.

Secondo il Dottor Fried: [blockquote style=”1″]La depressione è un sistema complesso, estremamente eterogeneo di interazione tra sintomi. E alcuni di questi sintomi possono essere molto più importanti di altri.[/blockquote]

Pertanto il Dottor Fried e i suoi colleghi si sono impegnati ad indagare due questioni molto rilevanti che caratterizzano la formulazione della diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore: quali sono i sintomi con maggior centralità e peso nella Depressione Maggiore e quali sintomi risultano maggiormente centrali tra quelli proposti dal DSM-5 e quelli non proposti dal DSM come l’ansia e l’irritabilità.

Gli autori hanno quindi costruito un network di 28 sintomi, i quali sono stati indagati e valutati attraverso l’Inventory of Depressive Symptomatology (IDS-30) in 3463 pazienti con diagnosi di Depressione Maggiore non psicotica, i quali facevano parte del Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression (STAR*D). Di questi 28 sintomi è stata inoltre stimata la centralità, effettuando un confronto tra i sintomi determinati dal DSM-5 e non. Per centralità si intende il sintomo che maggiormente riflette la connessione esistente tra esso e tutti gli altri sintomi presenti.

Ciò che è emerso, è che i sintomi definiti dal DSM-5 e non, nel complesso, possiedono la stessa centralità, ma che tra i sintomi nella loro singolarità vi è una differenza ben visibile. Questo significa che i sintomi presenti nel DSM-5 non sono migliori dei sintomi non-DSM, ma che i singoli sintomi possono detenere un significato clinico specifico. Osservando nello specifico, tra i sintomi definiti dal DSM-5, quelli che rivelano una minor centralità, sono l’ipersonnia e l’agitazione psicomotoria. Tra i sintomi, invece, più centrali troviamo l’anedonia e l’umore triste, i quali talvolta risultano maggiormente predittivi dell’intera somma dei sintomi di Depressione Maggiore. L’eccitazione simpatica (ad es. palpitazioni, tremori, visione offuscata e sudorazione) è risultato il sintomo più centrale tra quelli non appartenenti al DSM, seguito dai disturbi somatici (ad es. pesantezza degli arti, dolore e mal di testa), problemi gastrointestinali, panico e fobia.

Per quanto i risultati ottenuti siano notevolmente utili ed interessanti, è importante far presente che questi sono condizionati da un grosso limite. La maggior parte dei partecipanti non presentavano solo una diagnosi di Depressione Maggiore, ma anche diagnosi di comorbilità, che potrebbero aver influenzato il ruolo dei singoli sintomi indagati. Detto ciò, bisogna però ricordare che la diagnosi di comorbilità è estremamente diffusa nel Disturbo Depressivo Maggiore, e pertanto questo potrebbe essere anche un punto di forza per quanto riguarda la diffusione dei dati.

In conclusione, la misurazione della centralità dei sintomi, è in grado di fornire nuove intuizioni ed informazioni relative allo specifico significato dei sintomi di Depressione Maggiore. Queste intuizioni hanno inoltre importanti implicazioni cliniche, in quanto suggeriscono nuovi approcci che possono portare ad una previsione migliore di quella che sarà la patologia. Quindi sarà possibile prevedere in anticipo aspetti come il decorso della malattia, la probabilità di recidività e la risposta al trattamento.

La metacognizione come predittore di ruminazione rabbiosa e esperienza di rabbia: uno studio prospettico – Forum di Assisi 2015

La metacognizione come predittore di ruminazione rabbiosa e esperienza di rabbia: uno studio prospettico

Offredi, A. (relatrice), Caselli, G., Spada, M.A., Wells, A., Ruggiero, G.M. & Sassaroli, S.

Lo studio presentato ha indagato le credenze metacognitive relative alla ruminazione rabbiosa, collocandosi nel filone di ricerca che analizza l’influenza di processi cognitivi sull’attivazione emotiva.

In linea con la teoria di Wells, le metacredenze hanno un ruolo nel mantenimento dello stile di pensiero disfunzionale. L’ipotesi iniziale sosteneva che le convinzioni metacognitive predicessero la probabilità di riportare alti livelli di rabbia e ruminazione, al netto del numero di episodi di rabbia vissuti. Lo studio è stato condotto utilizzando un disegno longitudinale cross-lagged.

Ai partecipanti è stato chiesto di compilare un monitoraggio giornaliero relativo a episodi di rabbia, rabbia esperita, ruminazione e metacredenze. Queste ultime erano suddivise in credenze positive, negative e bisogno di controllo, sulla base dei lavori di Wells sulle metacredenze del rimuginio. I risultati ottenuti dimostrano che le credenze positive e negative sulla ruminazione rabbiosa predicono la rabbia nei giorni successivi, mentre la ruminazione viene predetta dalle credenze negative riguardo l’anger rumination stessa. Lo studio ha condotto a nuove conoscenze dei processi metacognitivi della ruminazione rabbiosa , offrendo spunti di riflessione su quale debba essere il core del trattamento di pazienti che applicano l’anger rumination come strategia di regolazione emotiva.

Sul lettino di Freud di Irvin D. Yalom (2015) – Recensione

Un famoso terapeuta racconta in un romanzo l’intrecciarsi delle storie di analisti e pazienti. Sullo sfondo, la svolta relazionalista della psicoanalisi americana iniziata negli anni Ottanta.

Irvin Yalom, psicoterapeuta americano nato nel 1931, ha raggiunto già da molti anni una meritata fama internazionale di teorico della clinica. Tra i suoi libri, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, risalente al 1970, è da tempo tradotto in italiano ed è giunto ormai alla quinta edizione: si tratta forse tuttora del migliore manuale di livello universitario disponibile sull’argomento. Il dono della terapia (2008) costituisce invece un interessante testo di psicoterapia individuale a indirizzo umanistico, focalizzato sul tema della tanatofobia.

In tempi recenti, tuttavia, Yalom è divenuto ben noto al pubblico italiano anche per una serie di romanzi, i cui titoli sono marcati da nomi di filosofi. Il problema Spinoza, Le lacrime di Nietzsche, La cura Schopenhauer uniscono alla precisione dello stile e alla scorrevolezza della narrazione una notevole capacità di utilizzare temi usualmente ben lontani dalla trama dei best seller.”

“Sul lettino di Freud” è anch’esso un romanzo, tradotto in italiano nel 2015, anche se risalente in realtà al 1996. Il titolo originale (Lying on the Couch, cioè “Giacendo sul divano”) è stato stravolto, evidentemente per motivi commerciali (la traduzione del testo è comunque ottima). L’operazione-recupero è certamente fondata. Il romanzo risulta fruibile sia dal lettore che cerca la pura e semplice fiction, sia dal professionista della psicologia, che vi trova tematizzate questioni teoriche di notevole rilevanza. Pur evitando nella maniera più assoluta delle anticipazioni sulla trama, si può sintetizzare la struttura del libro come lo snodarsi di una serie di rapporti paziente/terapeuta. La storia dei tre protagonisti terapeuti si intreccia: oltre a essere membri della stessa associazione psicoanalitica essi si trovano nelle condizioni di esprimere – a vario titolo – giudizi l’uno sull’operato dell’altro. Il più giovane, infatti, deve presentare un rapporto ufficiale sul più anziano, coinvolto in una relazione sessuale con una sua paziente; in quanto analista in training, invece, viene supervisionato dal terzo. Ognuno dei tre esprime un diverso modo di interpretare il proprio ruolo di analista e di considerare le possibilità terapeutiche dell’analisi. La domanda che costituisce lo sfondo di ogni dialogo (esplicito o implicito) tra di loro è in fondo una sola, ed è quella posta al centro del dibattito sulla tecnica psicoanalitica dallo stesso titolo dell’ultimo libro di Heinz Kohut (1983): How Does Analysis Cure?, cioè “Come cura l’analisi?” (anche se il volume uscì in italiano intitolato La cura psicoanalitica).

Per i teorici della psicoanalisi le risposte possibili sono due: l’interpretazione o la relazione terapeutica in sé. Nella tecnica classica proposta da Freud il compito dell’analista è solo quello di interpretare; il suo ruolo è quello di uno specchio o di uno schermo bianco sul quale il paziente possa proiettare, con il transfert, il proprio mondo interno. In quest’ottica la personalità del terapeuta è pressoché irrilevante per la cura e la sua analisi didattica lo aiuta soprattutto a mantenere un atteggiamento neutrale, a non sentirsi coinvolto nelle dinamiche relazionali del paziente. Se invece è la relazione terapeutica ad essere considerata il fattore curativo primario, come riteneva Kohut, il terapeuta assume i connotati di una persona reale per il paziente; la sua personalità diventa lo strumento terapeutico principale e un certo svelamento di se stessi inizia a divenire per lui pressoché inevitabile.

Merton Gill (1994) chiamava questo il passaggio dal paradigma della psicologia monopersonale a quello della psicologia bipersonale, intendendo che nel secondo caso ambedue i partecipanti alla relazione terapeutica sono pienamente coinvolti in essa. L’indubbio vantaggio dell’approccio classico consiste certo nella chiarezza dei confini tra ciò che in analisi può e non può essere compiuto. L’approccio più relazionalista, viceversa, presenta delle insidie: fino a che punto ci si può spingere nell’auto-svelamento e nella partecipazione emotiva? Il romanzo di Yalom è un appassionante tentativo di rispondere alla domanda attraverso storie inventate ma autenticamente plausibili. Nell’intreccio i pazienti complicano a loro volta il quadro portando in analisi motivazioni non sempre lineari, che rendono il compito dei rispettivi terapeuti decisamente impegnativo.

Nel corso del 2015 sono apparsi in italiano altri due libri di Yalom: Guarire d’amore (Cortina), e Creature di un giorno (Neri Pozza) che raccontano invece storie autentiche di psicoterapia. Non escludiamo di occuparcene su questo sito.

 

 

Di Irvin Yalom:

Il problema Spinoza

È una sorta di plutarchea evocazione delle vite parallele di due personaggi molto lontani nel tempo e nello spazio: Spinoza, appunto, e il gerarca nazista Rosenberg. Lo spunto è offerto da un fatto storico reale: Rosenberg sequestrò personalmente in Olanda la biblioteca Spinoza. Yalom lo dipinge alle prese con un interrogativo che avrebbe potuto essere imbarazzante per un seguace di Hitler: possibile che la mente più profonda del Seicento (e uno dei più grandi pensatori della storia) appartenesse a un ebreo? Yalom immagina come Spinoza fosse giunto nel corso della vita alle sue posizioni panteiste (che gli costarono la possibilità di mantenere contatti col mondo ebraico) e come Rosenberg potesse cercare un aiuto psicoanalitico (naturalmente inficiato da notevoli ambivalenze).

Le lacrime di Nietzsche

Costruisce l’ipotesi di un incontro tra Joseph Breuer, ancora emotivamente coinvolto dal rapporto con Anna O., e Friedrich Nietzsche, già sull’orlo della crisi psicotica. Auspice dell’evento, che sarebbe stato probabilmente epocale, risulta Lou Andreas Salomé, che realmente fu musa di Nietzsche e in seguito divenne un personaggio non secondario del movimento psicoanalitico (come testimoniano il carteggio col padre della psicoanalisi e Il mio ringraziamento a Freud). La Salomé, per inciso, fu tutt’altro che un’acritica seguace di Freud, dato che sconsigliò vivamente a Rainer Maria Rilke di entrare in analisi e il poeta la ringraziò di cuore, comprendendo infine, secondo le sue parole, che se avesse scacciato i suoi demoni gli angeli li avrebbero seguiti per non fare più ritorno.

 

La cura Schopenhauer

Vede il protagonista, un brillante psichiatra, alle prese con la scoperta di avere un tumore ben difficilmente curabile e alla ricerca di una pace con se stesso che sembra trovare nelle parole del geniale filosofo irrazionalista tedesco.

Cambiare è vitale: lettura cognitivo-comportamentale del romanzo “Per dieci minuti”

Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il libro prende il via nel momento della presentazione, sotto forma di gioco, del trattamento psicoterapeutico e prosegue raccontando i trenta giorni successivi, costellati da trenta esperienze di novità, per terminare con il resoconto in seduta di tale percorso.

Per dieci minuti, romanzo di Chiara Gamberale (2014), racconta vicende in prima persona della scrittrice trentaseienne Chiara, alter ego dell’autrice, in piena crisi esistenziale, se così si può chiamare. Lasciata dal marito, col quale aveva condiviso fin dal liceo un rapporto ai limiti della simbiosi, privata della rubrica settimanale che teneva con passione e bloccata nella scrittura del suo romanzo, abbandonata in una casa estranea, in una città troppo grande e troppo sconosciuta rispetto al paesino campagnolo nel quale era vissuta fino a un anno prima, la giovane donna si trova a vivere una vita che non le appartiene più. Come emerge dalle parole riportate nelle prime pagine [blockquote style=”1″]Unica a non avercela più, una vita, ero io. Al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico perno su cui girare aveva lo smarrimento.[/blockquote]

Chiara si scopre in una condizione di confusione dove sono andati in pezzi alcuni importanti capisaldi attorno ai quali si era costruita la propria esistenza. Focalizzata su se stessa e sul suo dolore, la protagonista manifesta evidenti segni depressivi, che rimandano a quei sensi di vuoto e di brancolamento nel buio, a quella mancanza motivazionale e di voglia che spesso portano a pensare che non ci sia più alcuna speranza di serenità. È proprio in questa situazione che si colloca la proposta terapeutica della Dottoressa T., psicoterapeuta di Chiara. Gli antecedenti descritti, in quanto fattori di enormi e destabilizzanti cambiamenti che tendono a incrinare le idee e le certezze su cui si fonda la propria vita, possono infatti rappresentare input a intraprendere un percorso psicologico, esattamente come accade per la protagonista.

[blockquote style=”1″]Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto. […] Una cosa qualunque. Basta che non l’abbia mai fatta in trentacinque anni.[/blockquote]

Il libro prende quindi il via nel momento della presentazione, sotto forma di gioco, del trattamento psicoterapeutico e prosegue raccontando i trenta giorni successivi, costellati da trenta esperienze di novità, per terminare con il resoconto in seduta di tale percorso. Al di là dell’apprezzabilità del romanzo, scritto con stile coinvolgente, sentimentale e ironico al contempo, è possibile utilizzare una chiave di lettura del racconto in termini più strettamente psicologici, in particolare facendo riferimento alla scuola di pensiero cognitivo-comportamentale.

La sfida proposta dalla Dottoressa T. può essere interpretata come una “scossa” che permetta alla protagonista di uscire dalla situazione di empasse in cui si trova, una sorta di spinta al cambiamento, un allargamento mentale che apra uno spiraglio nei muri rigidi degli schemi di pensiero. Quelli di cambiamento e di flessibilità cognitiva sono concetti centrali nella psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT, Cognitive Behavioural Therapy). Studi (Shafeian e Hatami, 2013) hanno infatti indagato l’efficacia di una terapia, basata su tale scuola, su donne in fase di divorzio con sintomi depressivi, trovando risultati confirmatori. Altri autori (Butler, Chapman, Forman e Beck 2006) hanno condotto una rigorosa meta-analisi sugli esiti della CBT, sostenendone gli effetti positivi sui disturbi e sui sintomi concernenti la depressione.

Facendo solo un rapido accenno al razionale teorico, tale approccio può essere considerato come un’unione della psicologia cognitiva (Neisser, 1962) e della psicologia comportamentale (Watson, 1913). Riassumendo i pensieri di coloro ritenuti i padri fondatori, Beck (1984) e Ellis (1989), Hofmann et al. (Hofmann, Asnaani, Vonk, Sawyer e Fang, 2012) i disturbi mentali e il disagio psicologico sono mantenuti da fattori cognitivi. Secondo Beck (1984) eventi esterni o interni a una persona generano sempre in essa, più o meno consapevolmente, pensieri volti a interpretarli che influenzano lo stato emotivo e il comportamento. Tali valutazioni automatiche si organizzano in veri e propri schemi di significato, modelli di pensiero che guidano l’esistenza degli individui e che generano salde credenze su di sé, sugli altri e sul mondo (Semerari, 2000). Il pensiero è quindi una rappresentazione della realtà (Ruggiero, 2011), che può però essere imperfetta a causa di errori di elaborazione cognitiva propri del funzionamento mentale umano.

Come spiegato da Ruggiero (2011), la sofferenza emergerebbe qualora un individuo utilizzi sistematicamente e rigidamente tali modelli di significato della realtà. Ellis (1989) definisce pensieri irrazionali queste convinzioni disfunzionali, che si traducono in “sciocche frasi” che le persone ripetono a loro stesse generando immediatamente disagio e sofferenza, nonché guidandone, di conseguenza, il comportamento. La terapia cognitivo-comportamentale agisce proprio su queste cognizioni maladattive che, in quanto pensieri erronei generati dalla persona stessa, possono essere verbalizzati, padroneggiati, cambiati (Hofmann, Asnaani, Vonk, Sawyer e Fang, 2012).

Errori di ragionamento, pensieri irrazionali e credenze disfunzionali, col passare del tempo, creano schemi che portano a un’interpretazione della realtà rigida e assoluta. Si attiva quindi un circolo vizioso per cui, avendo un’unica visione del mondo, si tende solo a confermare le proprie idee, aumentandone il determinismo e alimentando quindi emozioni e comportamenti dannosi per la propria salute psichica. Tali concetti sono trattati nel romanzo specificatamente durante una delle sedute psicoterapeutiche:
[blockquote style=”1″]-Basta davvero un attimo no?- -Per fare cosa, dottoressa?- -Perché i nostri schemi emotivi e mentali […] si rivelino in realtà dei limiti.[/blockquote]

Un altro momento importante in cui si rimanda a tali argomenti è quando l’autrice parla di Egoland. Accennando a un racconto scritto dalla protagonista, viene presentata questa idea di città dove ogni persona vivrebbe rinchiusa nel suo palazzo, costruito con mura più o meno spesse formate dalle proprie cognizioni, dal quale può essere difficile uscire, per paura o per abitudine. Afferma la Dottoressa T.:
[blockquote style=”1″]Sa, Chiara: ci abitiamo quasi tutti. Se Egoland è la cittadina dei retaggi, dell’infanzia, delle coazioni a ripetere e degli attaccamenti, è difficile evadere.[/blockquote]

Da sottolineare anche il rimando alla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1972; 1975; 1983) e, in particolare, al concetto di modelli operativi interni (IWM, Internal Working Models). Questi sarebbero dei modelli relazionali che un individuo si crea a partire dalle prime esperienze di interazione con le figure di accudimento primarie (solitamente la madre), degli assunti di base (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1987) su sé e sugli altri che permettono di fare previsioni sul mondo, guidando di conseguenza il proprio comportamento. Gli IWM sono mantenuti nel corso della vita e generalizzati alle nuove realtà, influenzando continuamente le interazioni e la formazione di legami dell’individuo. Bowlby (1977) utilizza i modelli operativi interni anche per spiegare le varie forme di disagio emotivo, compresa la depressione, che riguardano la separazione e la perdita, tra cui quelle relative al rapporto matrimoniale, in quanto forniscono indicazioni su se stessi all’interno e all’esterno della relazione. Nel romanzo, Chiara si trova catapultata fuori dal legame con il marito, perdendo così parte, per lei integrante, della propria rappresentazione personale. Da qui il senso di disorientamento e la tendenza all’autocolpevolizzazione, che Ellis (1989) considera come fonte di sofferenza e che collega all’autovalutazione negativa, consistente nell’attribuzione della negatività della situazione in cui ci si trova a propri difetti.

Guardando bene la condizione di Chiara, tuttavia, non si possono ignorare le effettive difficoltà e fonti di stress cui la protagonista è sottoposta. Come spiegato da Ruggiero (2011), in uno scenario negativo il pensiero più razionale può essere proprio quello negativo. In certi momenti non è possibile falsificare una visione pessimistica della realtà. In questo caso, uno degli aspetti che fa pendere la bilancia verso il benessere o il malessere psicologico è la capacità di stare dentro tali situazioni, di sopportarne l’incertezza e le emozioni derivanti. Riprendendo i precedentemente accennati pensieri disfunzionali (Ellis, 1989), quelle convinzioni che le persone si ripetono continuamente e che determinano emozioni e comportamenti, Ellis (1989) parla di intolleranza alla frustrazione per indicare appunto la convinzione che le delusioni che ci infligge la realtà siano insopportabili e che non sia normale e accettabile soffrire così tanto.

Ciò spesso porta al così detto evitamento esperenziale, definito da Hayes (Hayes, Wilson, Gifford, Follette e Strosahl, 1996) come quel fenomeno che si verifica quando una persona non è disposta a rimanere in contatto con particolari esperienze private, che possono essere ad esempio emozioni, pensieri, sensazioni corporee, e provvede quindi a controllarne l’espressione, nonché a sottrarsi ai contesti che potrebbero evocarle. A lungo andare, il tentativo di evitare sentimenti e pensieri conduce a limitare notevolmente le proprie esperienze, sia quelle nel mondo esterno sia quelle introspettive, per non correre il rischio di incappare nel dolore. Ancora, utilizzare l’evitamento esperenziale come una strategia sistematica per controllare aspetti interiori ​​indesiderati può portare ad una incapacità di affrontare tali contenuti e ad una impossibilità di trovare strategie più funzionali (Hayes, Strosahl e Wilson, 1999), con il risultato di incrementare il disagio psicologico e le sensazioni di essere disarmati e senza difesa, in un circolo vizioso autoconfirmatorio senza fine. Ellis (1989) sostiene l’importanza per le persone dell’imparare a tollerare la frustrazione, del provare a stare nell’emozione, come spiegato anche nel libro dall’esortazione fatta a Chiara
[blockquote style=”1″]E allora prova a guardarlo negli occhi una buona volta, il vuoto[/blockquote]
e si sostiene l’idea che la situazione è sì negativa ma sopportabile, non così terribile, come richiamato dalle parole della stessa protagonista
[blockquote style=”1″]Ma poi è arrivata quella mattina. Dove misteriosamente ho sentito che non faceva più così tanto male là dove faceva male. O che forse, ormai, a quel dolore mi stavo abituando. E che, in un modo o nell’altro insomma, potevo andare avanti. Forse lo stavo addirittura già facendo.[/blockquote]

Qui si collocano le terapie cognitive di terza generazione sviluppate a partire dagli anni ‘90, che prendono origine dalla volontà di trattare stati psicologici non direttamente modificabili a livello cognitivo. In particolare, in riferimento al romanzo, vi è una ripresa di tecniche comportamentali, ovvero esercizi da effettuare praticamente nel contesto quotidiano, come stimolatori di nuovi processi emotivi e affettivi, come vere e proprie esperienze emozionali correttive che possono rompere quei circoli viziosi di evitamento (Ruggiero, 2011). In questo scenario assume particolare rilievo la Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, 2004). Hayes (Hayes, Strosahl e Wilson 2012) illustra i due concetti cardine di questo approccio: l’accettazione delle emozioni e l’impegno a cambiare. Il concetto di base è che la sofferenza umana nasce dall’inflessibilità psicologica (rigidità nel pensiero e nel ragionamento) e dall’evitamento emotivo (fuga dalle esperienze emozionali dolorose). Per farvi fronte sarebbe necessario prendere consapevolezza e vivere le esperienze private ritenute inaccettabili e ingaggiarsi attivamente nel modificare il proprio comportamento (Hayes, Strosahl & Wilson 2012). Secondo alcuni autori (Garcia, Archer, Moradi, e Andersson, 2010), inoltre, l’ACT risulterebbe strettamente collegata a una serie di costrutti quali la soddisfazione per la propria vita, l’autostima, l’affettività positiva. Studi (Forman, Shaw, Goetter, Herbert, Park e Yuen 2012) hanno rilevato esiti positivi di tale psicoterapia nel trattamento della depressione. In particolare, Qena-ati e Pirani (2015) ne hanno verificata l’efficacia per donne sull’orlo del divorzio che manifestavano disagi psicologici.

In conclusione, dalla sommaria lettura in termini terapeutici cognitivo-comportamentali fatta del romanzo “Per dieci minuti”, emerge l’importanza assunta dal perseguimento di percorsi psicologici integrati, che prendono forma attorno alle peculiari esigenze, caratteristiche e risorse dell’individuo in quel preciso momento. L’obiettivo principale dovrebbe essere sempre favorire il benessere psicologico, tendere verso una maggiore salute psichica. Come afferma Ellis (1989), può essere frustrante e perfino dannoso puntare esclusivamente verso quadri rosei e ottimali, qualora non si possano o non si riescano a raggiungere. Molto più concreto, invece, ricercare la condizione migliore possibile date specifiche, determinate circostanze. Per fare ciò assume fondamentale importanza il processo di cambiamento. Aprire la propria visione, accantonare le credenze, rompere gli schemi rigidi di elaborazione della realtà, provare emozioni, modificare i comportamenti: tutti aspetti che possono fare paura e causare sofferenza, ma che sono l’essenza dell’evoluzione umana. Permettono cioè di concepire l’esistenza di differenti modi di vivere, alternative che l’individuo, volontariamente e consapevolmente, può decidere di abbracciare. Come afferma la Dottoressa T:
“-Cambiare è mortale-
-Chiara?-
-Si?-
-Cambiare è vitale-“.

Fragilità emotiva e disagio psicologico: confronto tra popolazione psichiatrica e soggetti sani

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Autrice: Manuela Bianchi

 

ABSTRACT

Le emozioni sono una parte centrale della nostra vita. Sebbene non esista una definizione concorde della fragilità o instabilità emotiva, questa viene considerata come un costrutto multi-dimensionale caratterizzato da oscillazioni intense e frequenti di emozioni che possono presentarsi in presenza o meno di eventi esterni piacevoli o spiacevoli. Il presente studio si propone di indagare come la presenza di fragilità emotiva incida sul benessere psicofisico in un campione di soggetti sani e di effettuare un confronto tra questi ultimi e un campione di pazienti psichiatrici per quanto riguarda i punteggi ottenuti sia nella scala per la misura della Fragilità Emotiva, sia nelle schede A e B del CBA-H (Cognitive Behavioural Assessment-forma hospital). In particolare, si è ipotizzato che i soggetti sani avessero un punteggio medio significativamente inferiore rispetto ai pazienti psichiatrici sia nella scala per la misura della Fragilità emotiva (e nelle sue due sottoscale), sia nelle due schede A (tre sottoscale) e B (due sottoscale) che compongono la batteria CBA-H e un punteggio significativamente superiore nella sottoscala B2 del CBA-H che valuta il Benessere psicofisico. Inoltre, si è voluto valutare se ci fosse un’associazione fra alti punteggi nella scala di Fragilità Emotiva e bassi punteggi nella scala per il benessere psicofisico, tenendo presenti anche altre variabili quali età, il gruppo di appartenenza, il sesso e i punteggi ottenuti nelle altre scale del CBA.

 

The emotions are a central part of our lives. Although there is no agreed definition of fragility or emotional instability, this is considered as a multi-dimensional construct characterized by intense and frequent swings of emotions that may arise in the presence or absence of external events, pleasant or unpleasant. The aims of the present study is to investigate how the presence of emotional fragility impinges on psychological well-being in a sample of healthy subjects and to make a comparison between them and a sample of psychiatric patients with regard to the scores obtained both in the scale for measuring Fragility of Emotional both scales A and B of the CBA-H (Cognitive Behavioural Assessment-form hospital). In particular, it is assumed that healthy subjects had a mean score significantly lower compared to psychiatric patients both in the scale for measuring the emotional Fragility (and in its two subscales), both in the two boards A (three subscales) and B (two subscales) that make up the battery CBA-H and scored significantly higher in the B2 basement of the CBA-H evaluates the physical and mental wellness. In addition, we wanted to assess whether there was an association between high scores on the scale of Emotional Fragility and low scores on the scale for the psychological well-being, taking into account other variables such as age, group, sex and scores obtained in the other scales of the CBA.

 

PAROLE CHIAVE: Fragilità emotiva, regolazione emozionale, psicopatologia, benessere psicofisico, ansia di stato.

La TV via internet: come cambia le abitudini degli utenti

 

I risultati sembrano essere tranquillizzanti: l’enorme e improvvisa varietà di programmi a cui abbiamo avuto accesso grazie alla TV satellitare non ha aumentato la quantità del nostro tempo davanti alla televisione, ma ne ha solo migliorato la qualità.

L’intrattenimento televisivo e cinematografico è da sempre fortemente legato alle tecnologie che ne permettono la diffusione e dunque non c’è da stupirsi che l’avvento di Internet abbia radicalmente cambiato molti aspetti della nostra vita, tra cui il nostro rapporto con il cinema e la televisione.
Se in principio è stata, sorprendentemente, la pirateria a monopolizzare la diffusione di film e programmi TV sul web, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una proliferazione di servizi di diffusione del tutto legali: provider come Netflix e Hulu (che richiedono una sottoscrizione mensile a pagamento) o Itunes e Google Play (che adottano un sistema pay-per-view: paghi solo ciò che vuoi vedere) stanno pian piano rubando spazio agli host pirata, in virtù della migliore qualità dei prodotti che offrono.

Che siano legali o no, senza dubbio la disponibilità di film e programmi TV a cui lo spettatore può avere accesso è aumentata a dismisura con la diffusione di Internet: ma in che modo questa esagerata varietà può influire sulla qualità della nostra esperienza di spettatori e sulla quantità di tempo che decidiamo di dedicarle?

E’ quello che si sono chiesti i ricercatori Liebowitz e Zentner dell’Università di Dallas, in un recente articolo apparso sul Journal of Cultural Economics. Poiché, però, i dati effettivi sulla fruizione della cosiddetta Internet Television non saranno disponibili prima di un decennio, gli autori hanno tentato di inferire cosa stia accadendo oggi basandosi su ciò che è accaduto in passato. Liebowitz e Zentner hanno, infatti, analizzato i dati statistici sulla qualità e quantità d’utilizzo della televisione in diverse nazioni, dal 1996 al 2008: questo periodo è stato particolarmente significativo, poiché ha segnato il passaggio dalla TV analogica alla TV satellitare.

Come ricordiamo, questa svolta tecnologica ha aumentato drasticamente l’offerta di programmi televisivi disponibili per lo spettatore, che di colpo non si è trovato più a scegliere cosa guardare tra i soliti dieci canali, ma tra centinaia e centinaia di possibilità! L’idea degli autori dello studio è dunque di assumere tale passaggio di consegne come analogo a quello odierno tra televisione satellitare e Internet poiché, sostengono Liebowitz e Zentner,[blockquote style=”1″] l’aumento della disponibilità dei programmi apportato ieri dalla diffusione della TV sul satellite è assimilabile a quello apportato oggi dalla diffusione della TV su Internet.[/blockquote]

I risultati sembrano essere tranquillizzanti: l’enorme e improvvisa varietà di programmi a cui abbiamo avuto accesso grazie alla TV satellitare non ha aumentato la quantità del nostro tempo davanti alla televisione, ma ne ha solo migliorato la qualità. Lo stesso Liebowitz, infatti, afferma che [blockquote style=”1″]I consumatori hanno sempre e comunque 24 ore in una giornata e l’aumento dell’offerta di programmi non può dunque modificare le loro abitudini quotidiane, ma può invece aiutarli a trovare un prodotto più vicino ai loro desideri, così da trarre maggior piacere dall’esperienza televisiva.[/blockquote]

In conclusione, secondo gli autori, così come è accaduto dopo l’avvento della TV satellitare, la diffusione dell’Internet Television non ci terrà incollati più a lungo ad uno schermo, ma migliorerà semplicemente il nostro rapporto con lo schermo, ammesso che di rapporto si possa parlare.
Ora, senza dubbio il limite principale di tale ricerca – che gli autori stessi suggeriscono – è insito proprio nella plausibilità del paragone tra lo spettatore post-satellite e lo spettatore post-internet. L’unica variabile assunta nello studio, infatti, è la varietà dell’offerta televisiva proposta e quindi la possibilità che questa ha di colmare lo scarto tra programma ideale (desiderio del consumatore) e programma reale (offerta dell’emittente).

Ciò che non va dimenticato è che la Internet Television, a differenza del satellite, non ha aumentato solo la varietà dell’offerta, ma ha introdotto – per la prima volta nella storia dell’uomo – la portabilità dell’offerta televisiva: spaziale e temporale. Portabilità spaziale perché grazie a tablet e smartphone (strumenti di navigazione web preferenziali) possiamo vedere film e trasmissioni TV ovunque vogliamo. Portabilità temporale perché nella TV online non esiste più palinsesto: non si è più vincolati ad alcun orario né ad alcuna diretta, qualsiasi programma viene registrato e reso disponibile (legalmente e non) in qualunque momento.

Ed è proprio questa esacerbazione estrema della portabilità spazio-temporale della comunicazione, prima ancor che della televisione, che in questi anni sta radicalmente cambiando le abitudini delle persone, e purtroppo non sempre positivamente. Questa stessa rivista, infatti, si trova sempre più di frequente a parlare di problemi come Cyberdipendenza e Nomofobia, ovvero cambiamenti nuovi ed inediti nel comportamento dell’uomo, direttamente derivati dalla nascita di una relazione con Internet che è per natura sempre e ovunque.

Per queste ragioni, dunque, i risultati della ricerca di Liebowitz e Zentner non possono che esser intesi come provvisori e – ci auguriamo – precursori di nuovi studi che prendano in esame anche l’influenza che la portabilità può avere sulla quantità e la qualità del tempo che passiamo davanti a film e programmi TV. Perché oggi la televisione è uscita dal televisore e ci accompagna per tutto il giorno.

L’accettabilità del contatto fisico tra le persone e come varia nel mondo

 

Un importante studio aiuta a tirarsi fuori dalle situazioni sociali imbarazzanti: potete abbracciare i finlandesi, per esempio, gli inglesi meglio di no

 

 

Pochi giorni fa il sito di Proceedings of the National Academy of Sciences, un’importante rivista scientifica statunitense, ha pubblicato uno studio sulla disponibilità di persone di varia nazionalità a essere “toccati” da altre persone con cui hanno vari gradi di confidenza. Il magazine online Quartz l’ha definito il più importante studio mai realizzato sul tema: cinque esperti di neuroscienze e psicologia provenienti da quattro università diverse hanno contattato 1.368 persone fra francesi, finlandesi, italiani, britannici e russi per chiedere quanto si sentissero a loro agio con persone come i propri genitori, parenti stretti o il proprio partner... (Il Post)

Indice 1 donne indice 2 uomini

 

Uno dei dati più interessanti riguarda gli italiani che sembrano essere a disagio con il contatto fisico almeno quando gli inglesi. Mentre russi e finlandesi, popoli nordici, risultano essere molto più rilassati nei confronti del contatto fisico:

There wasn’t a significant amount of cultural differences of where participants would allow family, friends and strangers to touch them; but some nationalities were less enthusiastic about touching than others. True to their stereotype, British participants were right at the bottom on the touchability index. To the researchers’ surprise, Italians were less comfortable with being touched than Russians.

“We hadn’t expected the Finns to turn out to be the most cuddly people,” Dunbars says, “or that the Italians are almost as uncuddly as the Brits.”(Quartz)

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Il gruppo musicale come strumento riabilitativo – Report dal Workshop di Modena, 24 Ottobre 2015

Il potere di aggregazione della musica è noto: numerosi sono i gruppi musicali costituiti da operatori ed utenti, sia nell’ambito della psichiatria che nell’ambito dell’handicap e della disabilità. A Modena un momento di incontro per presentare le esperienze locali di speciali gruppi musicali e per stimolare una riflessione sulle loro potenzialità terapeutiche e riabilitative.

Giovedì 24 Ottobre presso ‘La Tenda’ di Modena, nell’ambito della Settimana della Salute Mentale Màt, si è svolta la mattinata di studio dal titolo ‘Il gruppo musicale come strumento riabilitativo’, promossa dall’Associazione Escomarte e dall’Ospedale Privato Villa Igea (Segreteria scientifica: Dr. Gaspare Palmieri).

Il potere di aggregazione della musica è ben noto e ormai sono numerose le esperienze di gruppi musicali costituiti da operatori ed utenti, organizzati in complessi musicali ed orchestre, sia nell’ambito della psichiatria che nell’ambito dell’handicap e della disabilità. La mattinata ha avuto l’obiettivo di presentare alcune importanti esperienze locali di questi speciali gruppi musicali e di stimolare una riflessione sulle loro potenzialità terapeutiche e riabilitative.

Dopo il saluto delle autorità (il direttore di Villa Igea Dr. Giovanni Neri e il presidente di Escomarte Pietro Paganelli), ha introdotto la mattinata il Professor Simone Vender, Ordinario di Psichiatria presso l’Università Insubria di Varese, che ha illustrato i fattori terapeutici della terapia di gruppo in generale, sviluppatasi inizialmente nell’ambito delle prime comunità terapeutiche inglesi negli anni 50 (spesso destinate ad accogliere reduci traumatizzati dalla Seconda Guerra Mondiale), dove venivano organizzati gruppi di discussione sulla realtà (reality confrontation). Ha sottolineato come il gruppo in certi casi possa aiutare a ridurre la frammentazione individuale, diluendo la malattia del singolo, citando i celebri studi di Yalom secondo cui i fattori terapeutici gruppali includono l’informazione, l’infusione di speranza, l’universalità, l’altruismo e le tecniche di risocializzazione. Da non sottovalutare anche l’aspetto catartico del gruppo, per il quale il cambiamento può passare attraverso una via emotiva.

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Professor Simone Vender

Successivamente l’operatrice Rossana Lusvardi e la cantautrice Barbara Rosset hanno presentato l’esperienza del gruppo Fermata Fornaci, nato all’interno del Day Hospital di Villa Igea. La band, che comprende utenti e operatori, si è formata alcuni anni fa in occasione del concorso Oltre il muro (organizzato dal Comune di Modena) e ha prodotto in questi anni oltre venti canzoni originali, esibendosi in concerto in diverse occasioni. Hanno mostrato alcuni testi delle canzoni, come ‘Una paglia e un cappuccino’, che spesso hanno un tono ironico e di sdrammatizzazione.

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Rossana Lusvardi e Barbara Rosset

La psichiatra Lucia Zanni e il cantautore Tommy Togni hanno invece raccontato il lavoro con i gruppi musicali e teatrali nati nell’ambito della residenza psichiatrica Sole e Luna di Sassuolo. La Dr.ssa Zanni ha sottolineato come la scelta di far condurre i gruppi a un artista (in questo caso un cantautore), invece che a un operatore formato (tipo musicoterapeuta), abbia consentito di avere un approccio ai pazienti meno filtrato da certi pregiudizi che si possono instaurare, come deformazione professionale, in chi lavora per tanto tempo nella salute mentale. L’operatore viene comunque supportato durante i gruppi dalla presenza di un membro dell’equipe. E’ stato sottolineato come questi tipi di gruppo favoriscano lo sviluppo di un forte senso di appartenenza che ha una valenza terapeutica. Hanno poi presentato un video davvero interessante, costituito da tanti frammenti raccolti durante i laboratori, con momenti di recitazione, di songwriting, di karaoke e di performance decisamente rock.

La psicoterapeuta e musicoterapeuta Roberta Frison ha illustrato l’attività dell’Orchestra Ologramma, nata nel 2010 al di fuori dell’ambito istituzionale e che accoglie musicisti professionisti, volontari e più di cinquanta ragazzi con diverse forme di disabilità. Il gruppo tiene concerti regolarmente da cinque anni su palchi importanti e Roberta ha mostrato un paio di video straordinari delle ultime esibizioni proprio nell’ambito di Màt. La Dr.ssa Frison ha sottolineato come il gruppo rappresenti un fattore aggregante anche per le famiglie, contribuendo a creare un senso di comunità e che ha avuto importanti ricadute sulla qualità della vita dei partecipanti.

Ha concluso la mattinata il musicista Enrico Zanella, che coordina l’Orchestra Scià Scià, nata all’interno della Cooperativa Sociale Nazareno di Carpi, che organizza ogni anno il Festival delle Abilità differenti. Anche in questo caso il gruppo è costituito da una ventina tra operatori, volontari e persone con disabilità e si avvale della tecnologia Sound Beam, che rende accessibile il fare musica anche a persone con gravi problemi motori. La strumentazione comprende pad e sensori, collegati a un computer con un software per cui i movimenti rilevati possono essere tradotti in suoni. Ha mostrato inoltre un bellissimo video di alcuni brani originali eseguiti con questa metodica.

“Non essere cattivo” di Claudio Caligari (2015) – Cinema & Psicologia

Non si parla solo di ragazzi con un problema di tossicodipendenza, si parla di ragazzi intrappolati in un mondo dove l’alterazione della coscienza sembra l’unica soluzione alle disgrazie della vita.

“Occhi.” Così ho risposto a chi mi ha chiesto cosa mi è piaciuto di più in questo film.
Lo sguardo dei personaggi del capolavoro di Caligari, così intenso, come esattamente dovrebbe essere; sono occhi fatti, lucidi, malati, tristi, felici, nascosti dietro un paio di occhiali; spesso sono spalancati, ma spenti.
Ci troviamo a Ostia, anni ’90. Non è il solito racconto sulla droga in borgata, ma molto di più.

Non si parla solo di ragazzi con un problema di tossicodipendenza, si parla di ragazzi intrappolati in un mondo dove l’ alterazione della coscienza sembra l’unica soluzione alle disgrazie della vita.

Cesare è un personaggio geniale, un ragazzo come tanti; da Cesare emerge la caratteristica tipica di chi soffre di una tossicodipendenza, ovvero l’impossibilità di gestire le emozioni, soprattutto quelle negative.
E lui, con questi bellissimi occhi chiari, questo bambino intrappolato nel corpo di un uomo, ne ha vissute di situazioni critiche: Cesare non ha un padre, vive con la madre, una donna che dimostra molti più anni di quelli che ha, totalmente distrutta dalla morte della figlia, la sorella del nostro protagonista. Come se non bastasse i due si prendono cura della bambina della sorella defunta, malata gravemente.

Cesare non è mai presente dentro casa, sempre così preso dalla sua vita di pasticche, rapine, alcool, cocaina, risse… ma le poche apparizioni sono sempre commoventi; il suo rapporto con questa bambina è di una dolcezza straziante. E’ talmente diverso quando è in casa con la bambina e la madre, che il pubblico vede due personaggi differenti ma all’interno dello stesso corpo; e Caligari non poteva meglio rappresentarlo, in questo contrasto tra la troppa sofferenza e la troppa alienazione.

Poi c’è Vittorio. Il personaggio già dalla prima inquadratura mi ricorda molto Mark Renton, il protagonista di Trainspotting, una lacerante storia di eroina, capolavoro indiscusso di Danny Boyle.
Vittorio è come Cesare. Anche lui vive a Ostia e frequenta lo stesso giro del suo migliore amico; le giornate passano tra una tirata, una birra e qualche ragazza facilmente disponibile.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM:

Vittorio però comincia a guardare fuori e, soprattutto, a guardarsi dentro; questo tipo di vita comincia ad andargli stretta. Conosce una donna che diventerà la sua compagna, trova un lavoro presso un cantiere e si allontana da quel giro dove ormai non si riconosce più. Ma Vittorio vuole salvare Cesare, compagno di pianti e risate, suo fratello; non riesce a vederlo così ed è disposto a giocarsi il suo stesso lavoro per aiutarlo. Anche qui il pubblico può notare un’interessante ambivalenza; l’interesse per se stesso, per la sua vita, il giusto allontanarsi da quel mondo, l’indifferenza, a volte l’odio, verso quella gente; tutto questo in contrasto con l’amore indiscusso verso quel ragazzo che tanto assomiglia a lui fino a poco tempo prima, a cui lui proprio non può rinunciare.

Un film quindi consigliatissimo, per chi vuole avvicinarsi non al mondo della droga inteso come denuncia sociale, ma al mondo della droga inteso da un punto di vista psicologico. Adatto a chi vuole approfondire la psicologia più perversa e nascosta dietro la figura del malato tossicodipendente, di colui che si rifugia; non dagli altri, ma lontano da se stesso.

L’apprendimento delle abilità (skills training) nella terapia dialettico-comportamentale

Rosario Privitera, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

La terapia dialettico-comportamentale (DBT, Dialectical Behavior Therapy) è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato per soggetti affetti da disturbo borderline della personalità, oggi considerato uno dei trattamenti più specifici ed efficaci.

Il modello di Linehan (2011) afferma che il nucleo del disturbo risiede in un grave deficit di regolazione delle emozioni che tendono così a manifestarsi con eccessiva intensità nell’esperienza del soggetto.

Il paziente vive spesso con rabbia immotivata e intensa, oscillazioni dell’umore, confusione dei legami affettivi, paura esagerata dell’abbandono. Queste esperienze emotive intense e caotiche rendono il soggetto vulnerabile e lo stato di malessere derivante può portarlo a far ricorso alle droghe, all’alcool o alle abbuffate di cibo, oppure può riuscire ad inibire totalmente, in alcuni casi, l’intera esperienza delle emozioni, con la conseguenza di sperimentare inquietanti sensazioni di vuoto e di annichilimento (Linehan, 1993a, 1993b). Secondo la teoria di Linehan, il deficit del sistema di regolazione delle emozioni è causato dall’interazione fra variabili legate al temperamento, che comportano una risposta emotiva intensa e rapida (vulnerabilità emotiva), e variabili legate all’apprendimento sociale da cui deriva il valore e il significato delle emozioni che il soggetto sperimenta.

Queste variabili apprese prendono il nome di “invalidazione dell’esperienza emotiva“: l’ambiente interpersonale entro cui il paziente sviluppa la conoscenza di sé e degli altri sarebbe tale da indurlo a destituire di significato e di valore le emozioni che percepisce in sé e che osserva negli altri (Linehan, 1993a, 1993b).

Il protocollo DBT prevede due tipologie di percorso terapeutico che vengono svolte contemporaneamente e che sono inscindibili l’uno dall’altro:
– un percorso terapeutico individuale in cui terapeuta e paziente discutono questioni sorte durante la settimana, riportate su un apposito diario, e seguono una gerarchia di obiettivi comportamentali. I comportamenti suicidari hanno la priorità, poi vi sono i comportamenti che interferiscono con la terapia, e i comportamenti autolesivi. Dopodiché si passa alle problematiche sulla qualità di vita per lavorare per il miglioramento globale della vita del paziente. Durante la terapia individuale, terapeuta e paziente lavorano per potenziare l’uso delle abilità, ponendo l’attenzione sulle difficoltà nell’uso delle abilità medesime.
– una modalità di gruppo che prevede lo svolgimento di una seduta di psicoterapia di gruppo una volta alla settimana: per circa due ore o due ore e mezza si impara in gruppo ad utilizzare abilità specifiche suddivise in quattro moduli: abilità chiave mindfulness, abilità di efficacia interpersonale, abilità di regolazione emotiva e abilità di tolleranza della sofferenza mentale o angoscia.

Nessuna delle due componenti terapeutiche è utilizzata senza l’altra: la componente individuale è ritenuta necessaria anzitutto per affrontare individualmente gli impulsi suicidari e altri comportamenti problematici disfunzionali (e affinché non interferiscano in modo distruttivo con le sedute del gruppo), mentre la terapia di gruppo insegna le abilità caratteristiche della DBT e sono un terreno di prova per mettere in pratica la regolazione di emozioni e comportamenti in un contesto sociale.

La DBT integra tecniche cognitivo-comportamentali tradizionali con pratiche mindfulness finalizzate agli obiettivi di:
– regolazione emotiva;
– esame di realtà: possono essere presenti derealizzazione, depersonalizzazione. Il soggetto viene messo in condizione di correggere tali distorsioni cognitive;
– consapevolezza del proprio disagio;
– tolleranza della sofferenza e dell’angoscia.

La DBT ha dimostrato diverse prove di efficacia: ad esempio nello studio di Linehan, Comtois, Murray e altri (2006) i pazienti sottoposti a DBT hanno avuto maggiori riduzioni dei tentativi di suicidio, giorni di ricovero psichiatrico, minor rischio suicidario; parimenti hanno dimostrato una riduzione del comportamento aggressivo, e del numero di visite al pronto soccorso, comparati a pazienti trattati con TBCE (Treatment- By-Community-Expert) durante il trattamento di 12 mesi e il periodo di follow-up di 12 mesi.
In uno studio condotto da Linehan, Armstrong e Suarez et al. (1991) sono stati sottoposti a psicoterapia standard CBT (Cognitive Behavioral Therapy) e DBT due diversi gruppi di pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità dal quale è emerso che i soggetti trattati con terapia DBT presentavano minori comportamenti parasuicidari e un minor numero di ricoveri. Inoltre uno studio successivo da parte degli stessi autori (1999) ha messo in evidenza che la terapia risultava efficace anche con pazienti borderline con problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti, mettendo in luce che la psicoterapia DBT è stata in grado di ridurre l’uso di tali sostanze.

Di seguito vengono presentati i quattro moduli contenuti nel protocollo DBT, che mirano a raggiungere tali obiettivi. Tali moduli vengono presentati durante le sessioni di terapia di gruppo e vengono ripresi nella terapia individuale.

I QUATTRO MODULI PER L’APPRENDIMENTO DELLE ABILITA’ (SKILLS TRAINING) NELLA DBT

 

Mindfulness

La consapevolezza è uno dei concetti centrali che permea tutti gli elementi della DBT. La Mindfulness è la capacità di concentrare l’attenzione, in modo non giudicante, sul momento presente. La Mindfulness si gioca tutta nel vivere il momento presente, sperimentando pienamente le proprie emozioni e sensazioni, con prospettive per il futuro. È considerata un fondamento per tutte le altre abilità insegnate nella DBT, perché aiuta le persone a riconoscere, accettare e tollerare le emozioni (a volte anche devastanti) che generalmente provano nel mettere in gioco le loro abitudini o nell’esporsi a situazioni difficili. Il concetto di Mindfulness e gli esercizi di meditazione usati per insegnarla sono derivati dalla tradizionale pratica buddista, ma la versione che si impara in DBT non implica nessun concetto o aderenza religiosa.

 

Efficacia interpersonale

I modelli di risposta interpersonale insegnati come abilità nella DBT sono del tutto simili a quelli insegnati in molti corsi di assertività e di problem-solving. Includono le strategie efficaci per chiedere secondo i propri bisogni, per dire di no, e per gestire i conflitti interpersonali.
I pazienti spesso possiedono buone abilità relazionali in senso generale. Il problema sta nell’applicare queste abilità a situazioni specifiche oppure nell’incrementarle. Una persona può essere capace di descrivere sequenze comportamentali efficaci quando parla di un’altra persona che si trova in una situazione problematica, ma può essere completamente incapace di ricordare o mettere in atto tali comportamenti quando analizza la propria situazione.

Il modulo dell’efficacia interpersonale si focalizza su situazioni in cui l’obiettivo è di cambiare qualcosa (per esempio, chiedere a qualcuno di fare qualcosa) oppure di resistere ai cambiamenti che qualcun altro sta cercando di attuare (per esempio, dire di no). Le abilità insegnate intendono massimizzare le probabilità che in una certa situazione l’individuo raggiunga i propri scopi, senza allo stesso tempo né danneggiare se stesso o l’altro, né rinunciare al rispetto di se stesso.

 

Regolazione delle emozioni

Le persone con disturbo borderline di personalità spesso vivono emozioni disregolate che le portano ad essere arrabbiate, frustrate, depresse o ansiose. Ciò fa pensare ovviamente che questi pazienti possano trarre beneficio da un aiuto su come regolare le proprie emozioni. Le abilità della DBT per la regolazione delle emozioni prevedono che il soggetto sia in grado di identificare le emozioni, circoscriverne la vulnerabilità e aumentare gli eventi che portano emozioni positive, e regolarle in maniera efficace.

 

Tolleranza della sofferenza mentale/angoscia

Molti approcci dei moderni trattamenti psicologici si focalizzano sul tentativo di cambiare gli eventi e le circostanze stressanti. Poca attenzione è data all’ accettare, al trovare significati, al tollerare le situazioni altamente negative e la sofferenza ad esse correlata. La terapia dialettico-comportamentale pone enfasi sull’importanza di imparare a sopportare il dolore e l’angoscia con le opportune abilità.
Le abilità di tolleranza della sofferenza e dell’angoscia sono un naturale sviluppo delle abilità di Mindfulness che hanno a che fare con la capacità di accettare, in modo non giudicante e non valutante se stessi e le situazioni. Benché si parli di modalità non giudicante, ciò non significa che si approvi tutto o che ci si rassegni. L’obiettivo è acquisire la capacità di riconoscere le situazioni negative e il loro impatto, invece di esserne sopraffatti o di nascondersi da esse. Questo rende le persone in grado di prendere decisioni sagge su se stessi e come entrare in azione, invece di ricadere nelle reazioni emotive disperate e spesso deleterie che sono tipiche del disturbo borderline di personalità. I partecipanti imparano anche delle abilità per sopravvivere alle crisi, per riuscire a gestire subitanee reazioni emotive che sembrano travolgenti: l’abilità di distrarsi, di calmarsi, di migliorare il momento e di pensare ai pro e ai contro delle loro azioni.

Mama o dada? Quali parole sono più facili da apprendere?

Daniela Sonzogni

 

Una nuova ricerca approfondisce in che modo i bambini costruiscono il loro vocabolario e quali sono le parole più facili da apprendere.

I ricercatori, per studiare lo sviluppo della parola, hanno lavorato con 32 bambini, aventi due anni di età, testando le loro conoscenze attraverso un programma al computer che mostrava sullo schermo immagini già note ai bambini.
Lo studio fa parte di un lavoro di Borovsky che cerca di capire come i bambini imparano e sviluppano vocabolari e per identificare segni che indicano quando un bambino potrebbe avere un disturbo dell’apprendimento.

Non sempre, però, i bambini di due anni riescono a essere comunicativi, per questo è stata impiegata una tecnologia eye tracking atta a scoprire quali immagini siano più facilmente riconosciute dai bambini durante il test.
E’ stato rilevato che le prime parole pronunciate da un bambino sono spesso Ma-ma o Da-da, e pare costituiscano la base su cui creare un vocabolario più ampio.

Infatti, i bambini sfruttano la loro conoscenza precoce sul mondo per sbloccare le loro competenze linguistiche. Conoscere poche parole, ma correlate, aiuta i bambini a distinguere i legami tra nuovi significati, e questa potrebbe essere una strategia molto utile per aiutarli ad acquisire un vocabolario nei primi anni di vita.

I ricercatori, dunque, hanno scoperto che le nuove parole sono facilmente riconosciute dai bambini nel caso in cui si possiedano molte altre parole correlate alla categoria in questione. Questo suggerisce che a partire dal vocabolario di partenza si potrebbe reputare più facile o più difficile per un singolo bambino apprendere alcune parole piuttosto che altre.

Il catalogo dei cercatori – Tracce del Tradimento Nr. 29

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXIX: Il catalogo dei cercatori

 

In fondo, cercare tracce di un tradimento è considerato in qualche modo ‘sano’. Se qualcuno sospetta di essere tradito, la ricerca delle tracce del tradimento può sembrare uno scopo sensato nel tentativo di mettere in ordine il futuro: capire, capire a tutti i costi per potere decidere.

Chi cerca tracce si giustifica a partire da una poco consapevole sofferenza dentro il rapporto: insoddisfazione, gelosia, solitudine e scarsa comunicazione affettiva o sessuale. Per inoculare il sospetto che scatena la ricerca delle tracce può bastare anche un segnale insignificante, qualche distrazione affettiva, qualche assenza di troppo, la percezione vaga di un distacco o di una diminuzione di un’intimità che si dava per scontata.

Il cercatore di tracce avverte una dissonanza tra le sue aspettative e la realtà che percepisce: c’è qualcosa che non torna, ma non si sa bene cosa sia. Si vorrebbe saperne di più e non sa, il cercare tracce, il mettersi a caccia è un gesto, un comportamento che risponde a una sofferenza di tipo ansioso e forse rabbioso, ma che inizia sempre come una preoccupazione sul proprio futuro e sul proprio futuro in un determinato rapporto.

In realtà chi cerca tracce e racconta a se stesso un motivo attinente a sensazioni inspiegabili del rapporto, lo fa perché l’ossessione e l’incertezza del rapporto, in qualche modo indipendentemente dal comportamento del compagno o della compagna, sono nelle sue corde. Se leggiamo la sua storia, l’incertezza dell’essere amato, la paura dell’abbandono, il desiderio di tener vivo un rapporto in modo doloroso e incerto, sono sempre stati presenti. Spesso il cercatore di tracce è una persona incerta sul proprio valore personale, sulla sua amabilità, o timoroso del futuro o sfiduciato e diffidente.

L’emozione che troviamo in chi cerca è l’ansia. L’ansia è l’emozione che segna il passaggio tra il mondo che ci è noto e quello che ancora non conosciamo. La condizione in cui nasce è l’intolleranza dell’incertezza. Questa credenza o insieme di credenze è tipica dell’ansia e viene definita in molti modi diversi, ad esempio per alcuni l’intolleranza dell’incertezza ha a che fare soprattutto con la difficoltà a vedersi capaci di tollerare le emozioni negative che esistono nel mondo che non si prevede, ‘Se non so bene cosa ho davanti a me, nell’immediato futuro, potrei non sopportare le emozioni che qualche improvvisa novità potrebbero mettere in gioco, sarebbero emozioni troppo potenti per me’, mentre per altri studiosi l’elemento centrale dell’intolleranza è la certezza che in condizioni non conosciute del futuro sia certo qualche evento negativo, quindi dell’incertezza si teme la certezza del negativo ‘Quando mi trovo in situazioni che non controllo e prevedo bene, ho la certezza che non possa che accadermi qualcosa di negativo, di catastrofico, che rischia di annientarmi’. Altri considerano l’intolleranza dell’incertezza come l’intenzione di alcuni ansiosi di controllare il futuro in modo il più certo possibile ‘Non sopporto di non sapere che cosa mi accade, non sopporto di non sapere, la cosa più importante è non trovarsi mai in situazioni in cui possano avvenire imprevisti, devo sempre controllare tutto e sapere tutto sul futuro, sull’immediato futuro e sul futuro più lontano’. Con questo stato parte il processo di ricerca, che vorrebbe servire a lenire l’emozione negativa conseguente all’incertezza sul futuro che si ha davanti.

C’è chi vuole confermare di non essere amato (il geloso che può arrivare al delirio) e chi vuole confermare di essere amato e non tradito dal partner. Entrambi tuttavia utilizzano una strategia che permette di concentrarsi soltanto sull’ipotesi focale e utilizzano tutti i bias cognitivi per confermarla. Questo significa che una volta costruita l’ipotesi del tradimento tentano in tutti i modi di confermarla. Il cercare tracce corrisponde a una strategia confirmatoria. Si cercano le tracce e si selezionano tutti i segnali a conferma del tradimento e questo rende il trovare tracce più probabile, rende la gravità delle tracce trovate maggiore.

I cercatori con il loro comportamento confermazionista sono l’opposto degli scienziati popperiani, essi presentano l’opposto dell’atteggiamento falsificazionista del pensiero popperiano e del pensiero critico. Hanno una tesi forte in testa, il tradimento, la considerano credibile e a volte necessaria, scartano o non indagano le tesi diverse da questa e tendono a leggere la realtà a partire dalle emozioni che questa tesi implica.

Aveva finalmente un periodo di qualche ora libero nella casa di lui. Le aveva detto che sarebbe arrivato con l’aereo del pomeriggio, e aveva detto al portiere che poteva salire. Lei era salita in casa con atteggiamento di segugio, quell’uomo meraviglioso che stava con lei dimostrandole ininterrottamente qualche perplessità, non poteva accontentarsi di una come lei. Una donna capace ma normale, non la bellezza straordinaria che lui avrebbe meritato. Aveva cominciato a cercare e la ricerca era diventata pian piano una ossessione scrupolosa che l’aveva completamente assorbita, tra le camicie, nei cassetti, sotto la libreria, ovunque, perfino negli armadi della cucina, cercare cercare, non pensava ad altro, e non riusciva a fare altro, ore di ricerca senza risultato più interessante di una vecchia foto e qualche lettera ,quando finalmente, cominciava ad avere fretta, si era trovata con una piccola scatola di latta in mano, riposta accuratamente dietro l’armadio della camera da letto. Aveva aperto tremante e aveva trovato vecchie lettere, foglietti appunti delle sue vecchie sedute dallo psicanalista, che denotavano antiche tristezze del suo compagno, sogni, insoddisfazioni, e dopo aver letto velocemente tutto, aveva finalmente trovato una lettera di lui ad un amico in cui egli parlava di lei, era piena di stupore e affetto e stima verso di lei e a un certo punto: ‘Certo Carla è una bella persona ma…c’è qualcosa di lei che mi fa rimpiangere Sonia, come era bella, come era bella e svenevole, un inno alla giovinezza…e che persona diversa ero allora’

La lettura delle poche righe di rimpianto verso il passato, era stata come una bomba che le era scoppiata in testa..si era accasciata sulla lettera in preda a un pianto dirotto, scossa e tremante, arrabbiata, confusa, inferocita, disperata, un tumulto di emozioni incontrollabili….Finalmente aveva in mano la conferma che lui non la amava che lui non voleva stare con lei. E che non sarebbe mai riuscita a farsi amare dall’uomo dei suoi sogni. Se lo aspettava. L’avrebbe atteso in casa e gli avrebbe detto tutto quello che aveva in cuore…Quando lui aveva aperto la porta di casa e l’ aveva vista , aveva fatto un largo sorriso e la aveva abbracciata stretta ‘Che felicità per me trovarti qui!’ Ma quelle parole erano niente , lei non ascoltava aveva la testa piena soltanto delle cose lette, della conferma negativa che si aspettava del fallimento del suo sogno…’Ti devo parlare’….

E’ interessante ma prevedibile che si preferisca una scoperta dolorosa allo stato di incertezza.  Ha in testa un sospetto e un ossessione, e la minaccia della perdita dell’altro o del tradimento sono un problema molto vivo e caldo nella sua mente. Chi cerca tracce ha voglia di saperne di più. Non si fida dell’altro e del rapporto, ma non si fida soprattutto di se stesso. Egli avverte una dissonanza, una titubanza emotiva, una distanza del pensiero, del corpo, dell’emozione. Questo tipo di dissonanza è spesso una dissonanza tra le sue aspettative e una realtà che percepisce diversa da come egli la vorrebbe. Ma spesso le aspettative sono aspettative non realistiche o esagerate o di una esclusività assoluta o poco adatte alla realtà del rapporto in atto o vaghe. E l’idea di sé è negativa, tradibile, non molto amabile.

Giovanna era tornata di sorpresa a casa e non lo aveva trovato, ma aveva trovato il suo telefono cellulare appoggiato sulla scrivania. Lui negli ultimi tempi era un po’ triste, pensoso, molto chiuso in se stesso. Il lavoro, è vero, non andava bene, ma con lei egli cercava di mostrarsi ottimista e di non farle pesare troppo le sue preoccupazioni. Quando si erano sposati lei si immaginava una vita rosata e allegra e spensierata, lo aveva detto sempre, faremo insieme una vita perfetta.. e solo pochi mesi dopo quella maledetta crisi economica e quelle difficoltà con i colleghi dell’azienda in cui egli lavorava. Adesso era preoccupata, non poteva essere soltanto un problema economico, sicuramente le cose erano tristi perché lui stava smettendo di amarla e di pensare a lei.. Anzi probabilmente stava riprendendo i contatti con la vecchia donna con cui era stato tanto a lungo e che aveva lasciato a malincuore, preoccupandosi molto della sofferenza di lei.

Il cellulare non aveva messaggi di nessun tipo che potessero insospettirla: la sorella, Carlo, la madre..ma sicuramente se avesse cercato nella casa avrebbe trovato altre prove, e così scivolando nella sua solitaria e cupa e ostinata ossessione, si era messa a cercare ovunque, sotto letti e divani, nelle tasche delle giacche, nelle borse riposte…e non aveva ancora trovato nulla, ma questo non bastava a tranquillizzarla. Ormai era scattata una ossessione dolorosa, che le stava invadendo la mente, una certezza, un cupo desiderio distruttivo, quando lui tornò a casa, stanco, lei era seduta sul divano e vedendolo, lo guardava con odio e gli diceva ‘Tu mi tradisci’.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Nick Drake, il poeta evitante, la sua depressione e il suicidio

[blockquote style=”1″]’If songs were lines in a conversation, the situation would be fine…[/blockquote] Hazey Jane, Nick Drake

La canzoni di Nick Drake sono delicate e struggenti come carezze e hanno il sapore del capolavoro senza tempo, estremamente attuali anche all’ascolto odierno. La voce morbida è particolarmente evocativa, anche se non venne mai sufficientemente apprezzata quando uscirono i tre dischi prodotti dall’artista. Il beffardo destino ha voluto che i fans di Nick Drake siano cresciuti negli anni successivi la sua tragica morte.

Il fantasma del fallimento, del non riconoscimento a livello commerciale del proprio valore artistico e talento indiscutibile segnarono la sua vita. Durante la sua breve carriera registrò solo 31 canzoni e nessuno dei tre album superò le 10.000 copie vendute.

Nato nel 1948 in Birmania, dove la famiglia si trovava per via del lavoro del padre ingegnere, viene descritto dalla sorella maggiore Gabrielle, attrice di successo, come il classico bravo ragazzo, anche se leggermente introverso.
Trascorse un’infanzia apparentemente tranquilla, dimostrando precocemente un grande interesse per la musica, probabilmente stimolato dalla madre, che scriveva canzoni per la famiglia e le cantava accompagnandosi con il pianoforte. Quando Nick aveva tre anni, la famiglia tornò in Inghilterra e si trasferì nel suggestivo villaggio di Tanwoth in Arden, vicino a Birmingham.

Nonostante fosse uno studente modello e un ottimo atleta (era alto un metro e novanta), il padre descriveva così il temperamento sfuggente del ragazzo [blockquote style=”1″]Sembra che niente gli importasse davvero. Era come se ci fosse qualcosa che lo distraesse continuamente.[/blockquote] Questo tipo di atteggiamento può essere riscontrato in tanti adolescenti alla ricerca della propria identità e solitamente cambia in concomitanza alla maturazione psicologica dell’individuo. L’interesse per lo sport, in particolare il rugby, e la passione per la musica, che lo portò a studiare violoncello, clarinetto e pianoforte, rendevano Nick un ragazzo tutt’altro che apatico o passivo, lontano dalle ombre della depressione che oscurano la sua vita negli anni successivi.

Finite le superiori si trasferì a Londra, dividendo un appartamento con la sorella, conoscendo nuovi amici e conducendo uno stile di vita bohemien, dove la buona musica e la marijuana non mancavano mai. Gli amici lo descrivevano come persona tendenzialmente timida e riservata, ma socievole con le persone che conosceva, dotato di un gran sense of humor, molto sensibile e appassionato alla bellezza artistica. Nonostante fosse un bel tipo e avesse tante ragazze che stravedevano per lui, non vengono riportate nelle biografie delle relazioni sentimentali significative, come se Nick tendesse ad evitare contatti intimi e riuscisse a raggiungere il romanticismo solo nelle canzoni e non nella vita reale. Aveva molti amici, ma sembra che nessuno lo conoscesse davvero nel profondo.

Nel 1967 fu ammesso al Fitzwilliam College di Cambridge per studiare letteratura inglese, dove trovò un nuovo gruppo di amici intellettuali un po’ hipster con cui si trovava regolarmente a suonare le canzoni di Bob Dylan e Van Morrison, stonandosi di canne. In quel periodo registrò anche un blues sulla marijuana dal titolo Been Smoking Too Long (Ho fumato per troppo tempo) in cui evidentemente trovava aspetti autobiografici: [blockquote style=”1″]’Nightmare made of hash dreams/Got the devil in my shoes/Tell me tell me what have I done wrong/Ain’t nothing go right with me/Must be I’ve been smoking too long[/blockquote] (Incubi fatti di sogni di fumo, ho il diavolo nelle scarpe, dimmi cosa ho fatto di male, niente funziona in me, devo aver fumato troppo).

Non era molto interessato agli studi, mentre la musica acquistava sempre più importanza nella sua vita e nel 1968 l’incontro con il produttore londinese Joe Boyd lo portò a firmare il primo contratto discografico.
L’album d’esordio Five Leaves Left uscì nel 1969 e doveva il titolo alla scritta contenuta nelle cartine Rizla (usate tipicamente dai fumatori di cannabinoidi), che avvertiva quando stavano per finire.
In un periodo dove gli artisti inglesi (come i Rolling Stones ad esempio) tendevano a ispirarsi alla musica americana, Drake proponeva un suono e un’immagine decisamente più europea, verrebbe da dire più posata e raffinata. I testi, che parlavano d’amore, desiderio e identità, sembravano più ispirati dalla lettura dei poeti romantici, che dalle storie on the road dei folksinger americani. Fu pure uno sperimentatore a livello musicale per quanto riguarda l’uso di accordature aperte con la chitarra, che conferivano ai brani una sonorità più eterea, evanescente, con confini poco netti, sicuramente molto originale per il periodo. Il disco contiene la canzone Fruit Tree che è quasi una profezia di una gloria che verrà raggiunta solo dopo la morte [blockquote style=”1″]Safe in your place deep in the earth, That’s when they’ll know what you were really worth[/blockquote] (Al sicuro nel tuo posto nelle profondità della terra, solo allora riconosceranno il tuo vero valore).

Le vendite del primo disco, ma anche dei successivi, non furono buone anche a causa della grande difficoltà dell’artista di esibirsi dal vivo e di una certa diffidenza per le interviste. Non riuscì a portare a termine il minitour tra clubs e associazioni studentesche che il manager gli aveva organizzato, sia per la timidezza di esporsi di fronte a sconosciuti, sia perché non riusciva a tollerare di trovarsi a suonare di fronte a persone che chiacchieravano, bevevano e non avevano il giusto rispetto per la sua musica. La descrizione del cantautore scozzese John Martyn, amico di Nick, mette in risalto la vergogna provata dall’artista durante le performance: [blockquote style=”1″]Quando suonava dal vivo osservarlo era straziante; era come vedere qualcuno che veniva spogliato nudo.[/blockquote]

La classica gavetta di ogni artista è fatta anche di questi momenti di frustrazione, di serate storte, di indifferenza degli altri nei confronti della propria musica, ma era come se Nick amasse troppo le proprie canzoni e si sentisse in dovere di proteggerle dall’ignoranza e dalla maleducazione del pubblico medio. E’ probabile che dentro di lui ci fosse una forte componente di orgoglio narcisistico, per cui riteneva intollerabile non essere sufficientemente considerato e il mancato apprezzamento corrispondeva a una delusione fortissima, che lo gettava in uno stato depressivo e che chiaramente cercava di evitare con l’astensione dal palco. Possiamo rilevare in questo atteggiamento anche alcuni tratti di personalità evitante, caratterizzato da una grande sensibilità al rifiuto, che determina difficoltà ad instaurare nuovi rapporti ed esporsi in nuove attività (APA, 2013). La persona evitante patisce il conflitto tra un desiderio di affetto e accettazione e il ritiro dai rapporti intimi e dalle relazioni sociali per timore di risultare inadeguato e di venire criticato. Spesso questo tipo di personalità si associa a disturbi d’ansia sociale, come il timore di mangiare, parlare o, come nel caso di Drake, cantare in pubblico.

Deluso dall’attività live, l’anno successivo prese in affitto una stanza ad Hampstead e iniziò a lavorare al secondo disco Bryter Layter, pronuncia cockney della frase delle previsioni del tempo Brighter Later (sereno più tardi), titolo che pareva contenere un messaggio di speranza e che riscosse buone critiche, ma vendette pochissimo.

In concomitanza al vivere da solo e al secondo fiasco discografico lo stato psicologico di Nick iniziò gradualmente a peggiorare, con vissuti di fallimento. Era assillato anche da preoccupazioni economiche visto che riceveva dalla Island Records solo 20 sterline a settimana, una cifra davvero misera per vivere a Londra. L’aver interrotto gli studi per dedicarsi alla musica e l’avere ottenuto risultati inferiori alle aspettative potevano essere alla base della profonda tristezza dell’artista. L’amico e arrangiatore Robert Kirby raccontò in un’intervista al Guardian [blockquote style=”1″]Penso ci fosse molto imbarazzo tra di noi, rispetto al fatto che quello che sarebbe dovuto succedere, in realtà non sia successo. Il fatto che Nick avesse interrotto gli studi prima della laurea lo portava a temere di aver deluso il padre, abbasando molto la sua autostima.[/blockquote] Nick iniziò a ritirarsi sempre di più in se stesso, divenendo una persona molto silenziosa, che riusciva a parlare prevalentemente attraverso le canzoni e anche i rapporti con il produttore Joe Boyd iniziarono ben presto a deteriorarsi a causa del flop delle vendite dei dischi.

Nel 1971 i genitori accompagnarono il figlio da uno psichiatra che fece diagnosi di depressione e prescrisse una cura farmacologica a base di amitriptilina. L’artista non era assolutamente propenso a curarsi con gli antidepressivi per una questione di vergogna nei confronti di amici e parenti, per il timore degli effetti collaterali e delle possibili interazioni con la marijuana che assumeva regolarmente. Non si può escludere che anche l’abuso massiccio e protratto di cannabinoidi abbia giocato un ruolo nell’insorgenza della depressione dell’artista, considerato che il consumo cronico di cannabis, oltre a causare la cosiddetta “sindrome amotivazionale” (pigrizia, introversione, apatia, difficoltà a mantenere l’attenzione, mancanza di ambizione e di progettualità) può favorire l’insorgenza di disturbi psichiatrici come depressione, disturbo bipolare e psicosi (Coscas, 2013). Nick era un ragazzo estremanete sensibile e fragile, con una certa tendenza all’introversione e che usava l’evitamento come principale meccanismo difensivo. Certamente l’uso cronico di cannabis può avere amplificato questi aspetti del suo carattere con effetti gravi sull’umore.

Tornò a vivere a casa dei genitori nel Warwickshire, dopo la difficile e solitaria permanenza a Londra, ma la protezione della famiglia non lo aiutò più di tanto. Pareva vivere un profondo senso di solitudine anche in compagnia degli amici e delle persone care, ed era come se non riuscisse a rendersi conto che lo amavano incondizionatamente. C’era in lui una profonda ambivalenza nei confronti della casa dei genitori, che viveva come rifugio protettivo e prigione da cui scappare allo stesso tempo.

Capitava di sovente che prendesse a prestito l’auto dei genitori e scomparisse per alcuni giorni, senza che nessuno, tranne le persone che lo ospitavano, sapesse dove andasse. L’amico Robert Kirby descrive una delle sue visite [blockquote style=”1″]Arrivava e non diceva niente, si sedeva, ascoltava la musica, fumava, beveva, dormiva lì la notte e dopo due o tre giorni se ne andava. Poi tornava dopo tre mesi[/blockquote] (Dann, 2007).

Non era infrequente che i genitori dovessero andarlo a recuperare a pochi chilometri da casa perché non riusciva a fare benzina o si era perso. Nei momenti più bui anche l’aspetto fisico e l’igiene erano sempre più trascurate, a conferma di un grave stato depressivo.
Nel 1972 pubblicò Pink Moon, l’ultimo disco, realizzato con chitarra e voce in un paio di serate e che voleva essere una rappresentazione nuda e cruda di sè. La canzone che dà il titolo al disco ha un testo criptico e visionario, che nuovamente pare far riferimento alla morte o a una vita post-terrena: [blockquote style=”1″]I saw it written and I saw it say, pink moon is on its way, and none of you stand so tall, pink moon gonna get ye all[/blockquote] (L’ho visto scritto, l’ho visto dire, la luna rosa sta per arrivare, e nessuno di voi sarà abbastanza all’altezza, la luna rossa vi prenderà tutti). Anche nel brano “From the morning” parla anche di una sorta di ascensione [blockquote style=”1″]And now we rise and we are everywhere [/blockquote](e adesso sorgiamo e siamo ovunque).

Poco dopo Pink Moon, che rappresentò il terzo flop commerciale, l’artista ebbe un momento di grave crisi nervosa che lo portò al ricovero in un ospedale psichiatrico per cinque settimane. Il postricovero fu caratterizzato da un grande stato di apatia e di disinteresse per tutto, compresa la musica. Sembra inoltre che la compliance alle medicine fosse scarsa e che Nick spesso dimenticasse di assumere l’antidepressivo.

Il problema della corretta assunzione della terapia farmacologica da parte del paziente depresso (la cosiddetta compliance) è ancora drammaticamente attuale, considerando che alcuni studi evidenziano come il 30-40% dei pazienti smette le terapie nei primi tre mesi e successivamente si può arrivare fino al 60% di interruzione (Lopez Torres, 2013). Chiaramente la mancata assunzione della terapia in modo corretto espone al rischio di persistenza dei sintomi depressivi e di ricaduta precoce. I motivi per cui si presume che le persone depresse rifiutino o smettano le terapie sono svariati e vanno dallo stigma sociale ancora connesso all’idea di intraprendere trattamenti psichiatrici, alla presenza di effetti collaterali insopportabili (anche se gli antidepressivi di nuova generazione sono molto meglio dei vecchi da questo punto di vista), all’effetto sabotante autodistruttivo della depressione stessa. A differenza di altre malattie che possono generare reazioni di fortissimo attaccamento alla vita, le sindromi depressive, possono compromettere anche l’energia vitale e la volontà (tra cui quella di guarire), rendendo spesso le terapie molto difficili.

Nel 1973 Nick ricontattò il proprio produttore, che nel frattempo si era trasferito in America, perché si sentiva pronto a registrare nuovo materiale. In realtà non stava affatto bene, ma l’intenzione di registrare ancora sembrava un ultimo disperato tentativo per ottenere quell’agognato riconoscimento che non era mai arrivato. Secondo la testimonianza dell’ingegnere del suono John Wood, le performance in studio furono più scadenti rispetto ai dischi precedenti, in quanto l’artista non riusciva a registrare la chitarra e la voce insieme. [blockquote style=”1″]Non riesco a pensare alle parole. Non provo più niente. Non voglio né piangere, né ridere. Mi sento morto dentro[/blockquote] disse in quella circostanza.

Riuscì a registrare solo quattro brani, tra cui Black Eyed Dog (cane con gli occhi neri), in cui il protagonista della canzone potrebbe rappresentare metaforicamente la depressione o forse la morte: [blockquote style=”1″]A black eyed dog he called at my door/A black eyed dog he called for more/A black eyed dog he knew my name [/blockquote](un cane con gli occhi neri ha bussato alla mia porta/ un cane con gli occhi neri mi ha chiesto di più/ un cane con gli occhi neri conosci il mio nome).

Nel mondo anglosassone l’espressione black dog, si riferisce a uno stato di umore depressivo ed è celebre il suo utilizzo da parte di uno storico depresso come Sir Wiston Churchill. Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un cartone animato psicoeducativo, realizzato dall’illustratore Mattew Johnstone dal titolo “I had black dog, his name was depression” (Avevo un cane nero, il suo nome era depressione).
Un altro brano significativo di quella sessione fu “Hanging on a star” (Appeso a una stella), che sembra contenere una sorta di recriminazione nei confronti del mondo della musica e forse anche della vita stessa [blockquote style=”1″]Why leave me hanging on a star/And when you deem me so high[/blockquote] (Perché mi lasciate appeso a una stella, quando pensate che sia così alto).

Dopo aver raggiunto uno stato depressivo davvero grave, caratterizzato da un’indifferenza quasi totale nei confronti del mondo circostante e da momenti di blocco psicomotorio (come quando fu trovato dalla polizia, fermo da un’ora di fronte alle strisce pedonali), Nick ebbe miracolosamente un’improvvisa ripresa, che lo portò a trascorrere alcune settimane a Parigi, dove in passato aveva incontrato la cantante Francoise Hardy, per cui avrebbe dovuto scrivere dei brani, in realtà mai riuscendoci.
Verso l’autunno dello stesso anno l’artista rimase sconvolto dalla notizia del suicidio del fratello di una sua cara amica, affetto da una depressione cronica.

La notte del 24 novembre 1974 andò a dormire presto, dopo aver trascorso il pomeriggio insieme ad alcuni amici. La madre quella notte lo sentì armeggiare in cucina, dove spesso si recava di notte a mangiare una tazza di cereali e prendere qualche sonnifero, per poi tornare a letto. Fu la stessa madre che lo trovò morto la mattina successiva. Non c’erano note suicidiarie anche se Nick lasciò una lettera per Sophie Ryde, una ragazza con cui aveva una relazione piuttosto platonica negli ultimi mesi. La conclusione del coroner fu “Suicidio previa ingestione incongrua di amitriptilina” (trenta pastiglie, rispetto alla dose prescritta di tre), un antidepressivo triciclico con profilo sedativo, che si assume tipicamente la sera perché aiuta il sonno e che a dosaggi elevati può causare la morte per aritmia e arresto cardiaco, oltre che causare convulsioni e stato saporoso. Qualcuno ha messo in dubbio la reale intenzione suicidiaria del cantante, che avrebbe potuto assumere la dose extra di compresse per errore, per stordirsi o come tentativo di attirare l’attenzione. Pare strano che il medico che ha prescritto la medicina non abbia messo in guardia il paziente e i famigliari rispetto al rischio del sovradosaggio, e il fatto che Nick avesse accesso al farmaco lascia pensare che i famigliari fossero abbastanza tranquilli nel lasciarglielo gestire, non temendo tentativi suicidiari. Il produttore Joe Boyd ha ipotizzato che il sovradosaggio potesse essere in relazione al fatto che si sentiva un po’ meglio, e che pensava che prendendo più pillole si sarebbe sentito ancora meglio (Guaitamacchi, 2010). Questa ipotesi deporrebbe per una completa ignoranza rispetto al meccanismo d’azione dei farmaci antidepressivi, che pare altrettanto strano per una famiglia di estrazione alto borghese e per una persona intelligente come Nick.

E’ comunque abbastanza chiaro dalla storia degli ultimi anni, come fosse per Nick Drake diventato difficile e faticoso vivere e trovare degli obiettivi che lo spingessero ad andare avanti.
In modo molto coraggioso e lucido la sorella Giselle ha sostenuto l’ipotesi suicidiaria, ritenendola più accettabile rispetto al tragico errore [blockquote style=”1″]Non credo che le pillole l’avrebbero ucciso se non avesse preso interiormente la decisione di morire. Credo che l’istinto vitale sia così forte che a meno che non ci sia dentro di te la volontà di suicidarti, non riesci a morire.[/blockquote]

Benché tra i disturbi della personalità l’evitante non presenti frequentemente condotte suicidiarie (a differenza, ad esempio, del disturbo borderline) possiamo ipotizzare in questo caso che Nick Drake mise in atto un evitamento estremo: quello nei confronti della vita.
La notizia del decesso non ebbe particolare eco sui media, considerato il fatto che Nick Drake era poco conosciuto. Venne pianto da amici, parenti e qualche fan fedele.

Non è più il tempo dell’inconscio e dell’underground nella psicoterapia moderna

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  25/10/2015

 

L’underground è affascinante, ciò che è sotterraneo e nascosto è intrigante, ma la psicoterapia moderna ha da tempo abbandonato le esplorazioni negli inferi. Le profondità buie dell’inconscio freudiano sono finite nei racconti ottocenteschi da leggersi all’imbrunire, insieme alle storie di Jeckill e Hyde, di Dracula e Frankenstein.

L’inconscio freudiano era estremista. Un inconscio assoluto, inattingibile e mai veramente conoscibile. Solo la situazione psicoanalitica, la stanza chiusa e il lettino, ci concederebbe la possibilità di dare una rapida occhiata ai contenuti inconsci. E questa situazione psicoanalitica è a sua volta un privilegio riservato a pochi felici, gli analisti esperti, che si siano sottoposti a loro volta a una lunga analisi personale. Un percorso iniziatico, insomma, nei bassifondi della psiche.

La stranezza è che in Freud questo livello underground era raggiunto percorrendo una strada tecnologica e modernistica. Tecnologia ottocentesca beninteso, basata sul motore a vapore. Per Freud la mente era una macchina che obbediva ai principi della termodinamica. Paradossale base teorica dal sapore steampunk per uno degli scopritori dell’interiorità. Freud si ispirò al lavoro di Gustav Theodor Fechner (1801-1887), il quale sosteneva che le percezioni psichiche di piacere e dolore sono prodotte dalla maggiore o minore vicinanza della mente-motore a vapore allo stato di stabilità, secondo il secondo principio della termodinamica. La soglia della coscienza era investita dal piacere nella misura in cui si approssimava alla completa stabilità, e dal dolore quanto più se ne allontanava.

Insomma, come il cognitivismo nel XX secolo avrebbe modellato l’analogia tra mente e computer, Fechner un secolo prima immaginava un’analogia tra mente e motore a vapore.

E in questa analogia Fechner aveva cercato la legge che mettesse in relazione anima e corpo, psiche e materia. E anche Freud aveva tentato inizialmente di ridurre il lavoro mentale a uno scontro di forze fisiche impersonali. Ma questa pretesa materialista, seppure sempre presente, fu una maschera a cui Freud si attenne solo in parte. Al tempo stesso, Freud iniziò per fortuna a sviluppare una psicologia dell’interiorità. Le forze psichiche teorizzate da Freud, seppure definite inconsce e quindi a voler essere rigorosi non indagabili introspettivamente, non potevano non mostrare il loro aspetto di fenomeni mentali e accessibili alla coscienza.

Questo però è il passato. La psicoanalisi contemporanea ha abbandonato le avventure nell’underground. È arrivata anche per la psicoanalisi la secolarizzazione. Il conflitto edipico tra padri e figli è stato sostituito da uno scenario più sentimentale e tranquillo, la cosiddetta relazione di attaccamento tra genitori e figli, in cui l’amore e l’accudimento, soprattutto materno, prendono il posto del parricidio. Soprattutto Donald Winnicott e John Bowlby – il primo un pediatra troppo cortese e beneducato e il secondo un mezzo psicoanalista troppo scienziato ed entrambi poco propensi al gusto underground- non pensavano più che il buon sviluppo della psiche e delle sue deviazioni germogliasse da uno scontro tra Edipo e Laio, ma dall’accudimento affettivo sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre. Si tratta di un profondo cambiamento culturale.

La severa Torah freudiana è stata sostituita dai Vangeli amorevoli di Winnicott e Bowlby, e un gentile culto mariano è subentrato alle tragedie arcaiche.

Anche l’atteggiamento in seduta dello psicoanalista si è laicizzato. Non si tratta più di riprodurre in seduta le triangolazioni erotiche e conflittuali edipiche, ma di vivere una relazione tra paziente terapeuta meno tragica e più gentile e cortese. Si è smessa la marmorea ieraticità inespressiva dello psicoanalista “specchio vuoto” raccomandata dai padri della prima generazione. Ormai gli psicoanalisti hanno quasi rinunciato al sogno gnostico dell’interpretazione profonda e underground che frulla fino al fondo della mente e muta l’anima del paziente che soffre, redimendolo.

Quello che è probabilmente il più influente psicoanalista vivente, Peter Fonagy, utilizza ormai un linguaggio di pura scienza cognitiva nel quale non vi è spazio per pensieri inconsci. Invece che di Edipo e di castrazione, Fonagy preferisce parlare di mentalizzazione e di funzione auto-riflessiva, ma le differenze a me paiono trascurabili. La metacognizione o mentalizzazione, sia nella psicoanalisi che nella terapia cognitiva, non è altro che il prendere atto che ci sono dei limiti alla nostra capacità di controllo e padroneggiamento dei nostri stati mentali, anche dopo un approfondito trattamento terapeutico. La sofferenza si può attenuare, ma va anche accettata e gestita.

Il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o ceri impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive. Il tutto legato al qui e ora piuttosto che alla ricerca di ragioni nel passato. Come si vede, è un linguaggio terapeutico pragmatico, da terapia cognitiva.

Con la terapia cognitiva la psicoterapia moderna ha definitivamente abbandonato i bassifondi, i sotterranei, i dungeon e l’underground. Ormai la coscienza, e non più l’inconscio, è al centro del lavoro terapeutico moderno.

Uno dei fondatori della terapia cognitiva moderna, Albert Ellis, non volle cercare, dietro lo specchio del pensiero, un’altra realtà, fatta di pulsioni primitive, come Freud, ma si attenne al dato di coscienza e in questo cercò la radice della sofferenza psichica. Al contrario della psicoanalisi, che concepiva la sofferenza mentale come uno stato appreso in una condizione d’inconsapevolezza e di pensiero irriflesso e che suggeriva che questi stati inconsci fossero in grado –dal fondo oscuro della loro inconsapevolezza- di continuare a condizionare il comportamento e lo stato emotivo degli individui consapevoli di tutto meno che del perché essi soffrissero. L’individuo si riduceva a fantasma, zombie mosso da forze non coscienti.

Ellis rovescia questa impostazione e sostiene che invece la sofferenza mentale non dipende da stati mentali inconsci, ma da elaborazioni verbali esplicite che il soggetto si auto-infligge non inconsapevolmente (semmai solo con un certo automatismo), dandone per scontati il valore di verità e la fondatezza razionale.

Questa uscita della psicoterapia dall’underground ovviamente ha tolto fascino alla disciplina, ma le ha donato rigore scientifico, accessibilità e luminosità. È bello aggirarsi nei bassifondi, ma poi è meglio tornare a casa e accoccolarsi davanti al caminetto. Salvo poi sentire un sinistro scricchiolio scendere dal solaio.

Comportamenti autolesivi: strategie per sopravvivere

Chiara Polizzi, Ivana Bernardotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

L’atto autolesionista assolve a funzioni differenti: le più accreditate concernono una strategia di regolazione emotiva, una forma di autopunizione “appresa” a causa di un contesto di vita criticista e invalidante, e ancora, un tentativo di uscita da stati dissociativi.

[blockquote style=”1″]Stavo in piedi nel bagno, mi guardavo allo specchio, ma non mi riconoscevo. Era la mia faccia quella che mi guardava ma la mia anima non c’era. Per me quello era solo un corpo e non sentivo di farne più parte. Sentivo di aver perso il controllo dei miei pensieri, delle mie azioni e delle mie emozioni. E quando perdi del tutto controllo, cosa ti resta? Vidi i rasoi che i miei tenevano nell’armadietto dei medicinali. Sembrava avere senso allora anche se non so esattamente perché. In seguito, più tagliavo e più capivo perché.[/blockquote] Da “Un urlo rosso sangue” di Marilee Strong.

Tagliarsi, bruciarsi, grattarsi o graffiarsi fino a far uscire il sangue. Sono solo alcuni esempi di quello che oggi sembra essere un fenomeno largamente e pericolosamente diffuso, soprattutto in fascia adolescenziale. Se ne parla sui blog, sui social network e si pubblicano video su youtube. Non appaiono i volti, appaiono scritte, pensieri, grida di aiuto con l’intento, forse, di condividere quella che è per lo più una sofferenza privata, tenuta segreta, per la paura di essere giudicati, non capiti, presi in giro.

Che cos’è l’autolesionismo?

Gli ultimi 15 anni hanno conosciuto un’esplosione di ricerche sull’argomento dell’autolesionismo. L’autolesionismo non suicidario, in generale, può essere definito come la deliberata e diretta alterazione o distruzione dei propri tessuti corporei in assenza di un reale intento suicidario (Favazza,2012).

Si individuano, in letteratura, diverse forme di comportamenti autolesivi, le quali si differenziano soprattutto per la gravità dell’atto verso se stessi; esclusi i rari casi di mutilazione grave (tipica, appunto, di pazienti con diagnosi nell’area psicotica o con severo ritardo mentale), le forme più frequenti concernono l’autolesionismo definito “leggero” (che si manifesta col tagliarsi, bruciarsi, strapparsi i capelli, ferirsi, ecc.) e il cosiddetto autolesionismo “latente”, il più subdolo in quanto nascosto e presente in ulteriori forme di sofferenza psicologica (tossicodipendenza, bulimia, attività fisica eccessiva, ecc.).

L’autolesionismo sembrerebbe coinvolgere fino al 20/30 % degli adolescenti (nonostante il sommerso possa essere molto più elevato), con esordio intorno ai 12-14 anni e in proporzione quasi equivalente tra i due sessi (Whitlock, Eckenrode, Silverman, 2006; Klonsky, 2011) sebbene a differenziarsi siano i metodi d’elezione: le donne sono difatti più propense a tagliarsi, gli uomini preferiscono colpirsi o bruciarsi (Klonsky, Muehlenkamp, 2007). La letteratura sembra dimostrare che l’adolescente ricorra più frequentemente rispetto che all’adulto a metodi multipli (Briere e Gil, 1998; Herperts, 1995). Si rileva inoltre una significativa associazione fra l’autoferirsi e la presenza di emotività negativa, ansia, depressione e, in particolare, disregolazione emotiva.

Autolesionismo, Self-Harm: come viene diagnosticato?

Negli ultimi anni, si è compiuto il tentativo di sviluppare modelli concettuali e clinici per poter meglio comprendere e trattare tale problematica.
Ci si è domandati se l’autolesionismo non suicidario possa essere considerato un sintomo, parte di un quadro di personalità più ampio, o se si debba invece considerare come una categoria diagnostica a sé.

Nel DSM-IV (APA, 2000) l’autolesionismo è incluso fra i sintomi del disturbo borderline di personalità: “ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento auto mutilante”. Tuttavia, sebbene alcune ricerche abbiano confermato l’esistenza di una forte relazione fra l’autolesionismo e questo disturbo di personalità (Klonsky, Oltmanns e Turkheimer, 2003; Stanley, Gameroff, Michalsen e Mann, 2001; van der Kolk, Perry e Herman, 1991; Zlotnick, Mattia e Zimmerman, 1999), anche pazienti che ricevono altre diagnosi sembrano procurarsi ferite in modo intenzionale e deliberato.

In particolare, soggetti affetti da depressione maggiore, disturbi d’ansia, abuso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare, disturbo da stress post-traumatico, schizofrenia ed altri gravi disturbi di personalità (Haw, Hawton e Townsend, 2001; Herpertz, Sass e Favazza, 1997; Klonsky et al. 2003; Zlotnick et all. 1999).

In aggiunta, studi recenti hanno indagato l’esistenza o l’assenza di un’associazione fra l’autolesionismo intenzionale e i gesti parasuicidari e suicidari. È stato inizialmente ipotizzato che tali comportamenti possano collocarsi lungo un continuum. Tuttavia, i gesti autolesionistici non suicidari ed i gesti parasuicidari sembrerebbero differire per alcuni punti importanti, fra cui il ricorso a metodi differenti, gli esiti fisici di diversa gravità (maggiore per i gesti parasuicidari e suicidari) e la diversa intenzionalità (l’autolesionismo non suicidario è frequentemente messo in atto in assenza di ideazione suicidaria).

Tale distinzione risulta essere il punto di partenza per la proposta avanzata nell’attuale manuale diagnostico (DSM-5, 2013): l’autolesività non suicidaria potrebbe essere concepita come una categoria diagnostica a sé stante. I criteri proposti nell’attuale manuale diagnostico difatti includono:

A. Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).
B. L’individuo è coinvolto in attività autolesionistiche con una o più delle seguenti aspettative:
1. Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi
2. Risolvere una difficoltà interpersonale
3. Indurre una sensazione positiva
C. L’autolesività intenzionale è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:
1. Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.
2. Prima di compiere il gesto, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere
3. Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto.

Ulteriori ricerche si rendono, pertanto, necessarie per confermare o meno questa recente proposta.

Autolesionismo: perchè ci si autoferisce?

Nel 2007 Klonsky passa in rassegna diciotto studi, comprensivi di self-report e studi di laboratorio, sulle motivazioni e sulla fenomenologia dell’autolesionismo al fine di meglio comprendere il fenomeno e le funzioni cui risponde (ne individua 7). I risultati suggeriscono il ricorso all’autolesionismo primariamente come strategia di regolazione emotiva, al fine di alleviare emozioni negative acute e ridurne l’arousal. I risultati ottenuti da Klonsky rimandano al seguente modello di funzionamento:
– un’emozione negativa acuta tende a precedere la messa in atto del gesto autolesivo;
– l’autoferimento determina una riduzione dell’emozione negativa ed una sensazione di sollievo;
– l’intenzione principale della messa in atto del gesto è il fronteggiamento e la riduzione dell’emozione negativa;
– la riduzione dell’emozione negativa e dell’arousal, conseguente al gesto autolesivo, emerge anche negli studi di laboratorio.

Uno studio condotto nel 2012 da Martorana si propone inoltre di indagare il ruolo che i vissuti traumatici, l’attaccamento, oltre che la disregolazione emotiva, hanno nello sviluppo di comportamenti di autoferimento: l’esito della ricerca sembra dimostrare che, a compromettere le capacità di regolazione delle emozioni, siano soprattutto esperienze a contenuto traumatico vissute durante l’infanzia, nonché uno stile di attaccamento di tipo insicuro o disorganizzato, che comporterebbe anche l’insorgenza di sintomatologia dissociativa e tratti alessitimici; un quadro sintomatologico che, spesso, può essere inscritto all’interno di una diagnosi di disturbo borderline di personalità.

A tale proposito, Marsha Linehan teorizza, all’interno della propria teoria bio-sociale del disturbo borderline di personalità, che l’invalidazione precoce da parte del proprio ambiente di crescita, (l’ “ambiente invalidante”), può farsì che il bambino non sia in grado di apprendere strategie funzionali di coping finalizzate al riconoscimento e alla conseguente regolazione delle emozioni, o apprenda strategie inadeguate. Forti evidenze empiriche vanno a sostegno degli interventi che hanno come specifico focus il miglioramento delle abilità di regolazione emotiva, come appunto la DBT (Linehan, 1993).

Nel 2014, Andover e Morris hanno pubblicato una review finalizzata a raccogliere le evidenze empiriche che vanno a sostegno della funzione di regolazione emotiva dei gesti autolesivi. Gli autori mettono in luce come non solo l’autolesionismo contribuisca alla riduzione di un’emozione negativa, ma tenda parallelamente a produrne una positiva. Tali effetti rinforzano il ricorso al comportamento stesso (Jenkins e Schmitz, 2012).
Inoltre, coloro che si ingaggiano in condotte autolesive, riportano maggiori tratti di disregolazione emotiva alla DERS e ciò emerge tanto in campioni clinici quanto nella popolazione generale (Bedi et al, 2013; Gratz et al., 2010).

[blockquote style=”1″]Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi. [/blockquote] scrive Marilee Strong in “Un urlo rosso sangue”.

Vi sono, parallelamente, evidenze a favore di una funzione autopunitiva assolta dall’autolesionismo. Sulla base dell’analisi condotta, Klonsky rileva, talvolta, la presenza di rabbia auto-diretta e desiderio di autopunizione in coloro che si procurano lesioni.

Uno studio condotto da Glassman et al. nel 2007 ha messo in evidenza l’esistenza di una relazione fra abusi emotivi subiti nell’infanzia ed il successivo ricorso a condotte autolesive. Tale relazione sembrerebbe essere mediata dallo sviluppo di uno stile cognitivo di auto-criticismo. Gli autori ipotizzano che adolescenti che hanno sviluppato tale stile cognitivo potrebbero ingaggiarsi in condotte autolesive come forma di autopunizione. Le limitazioni metodologiche dello studio condotto rendono, tuttavia, necessarie ulteriori ricerche in tale direzione.
Un’evidenza modesta emerge, infine, per funzioni quali: uscita da stati dissociativi, tentativo di influenzare il contesto interpersonale, evitamento del suicidio, ricerca di sensazioni intense e definizione dei confini interpersonali.

La relazione fra le differenti funzioni non è tuttora stata chiarita.

Autolesionismo: un’ ipotesi di trattamento

Sintetizzando quanto descritto sul fenomeno, l’atto autolesionista assolve a funzioni differenti: le più accreditate concernono una strategia di regolazione emotiva, una forma di autopunizione “appresa” a causa di un contesto di vita criticista e invalidante, e ancora, un tentativo di uscita da stati dissociativi.
Queste evidenze portano a interrogarsi sulla forma di trattamento più funzionale in presenza di condotte analoghe.

Stando a quanto sostenuto nella ricerca condotta da Harrington & Saleem (Harrington, R., Saleem, Y, 2002), l’approccio cognitivo comportamentale sembra essere élitario per la progressiva riduzione e, addirittura, per la prevenzione di sintomi autolesivi nei pazienti di Asse I che presentano questi tratti (ad esempio, gravi depressi, pazienti con DCA, ecc.).
Questo perché la CBT non solo pone attenzione sugli aspetti irrazionali e cognitivi dei pensieri negativi che precedono l’atto autolesivo, ma si compone anche di moduli prettamente comportamentali: le tecniche di problem solving possono essere utili nell’aiutare gli adolescenti ad affrontare gli stress che si associano al Deliberate Self Harm, mentre le tecniche cognitive possono essere particolarmente utili nel caso in cui al tentativo di suicidio sia associata una diagnosi in Asse I.
Nonostante questo, nei pazienti con disturbo di personalità, un approccio “razionalistico” non è affatto sufficiente: nel 1993, Marsha Linehan propone un modello che, attingendo da varie tecniche trattamentali, punta a migliorare le competenze di problem solving e regolazione emotiva del paziente, ponendo l’accento sui principi di accettazione e cambiamento. Si tratta della Dialectical Behaviour Therapy (DBT); tale approccio è stato validato tramite ulteriori ricerche: James e altri (James et al., 2008) hanno osservato come la dialettica comportamentale diminuisca il ricorso a gesti autolesivi in pazienti adolescenti di entrambi i sessi. Ancora, Klonsky (2007), nella sua review, dimostra come le terapie che si fondano sull’empatizzare con le difficoltà nella regolazione emotiva del paziente e sull’incremento di strategie di problem solving, risultino maggiormente efficaci nel trattamento del self-harm.

Il modello DBT prevede, nello specifico, il ricorso a setting multipli di trattamento: individuale, gruppo di skill training (alla presenza di conduttore e co-conduttore), coaching telefonico e gestione del caso in équipe.
Secondo M. Linehan la partecipazione alla terapia individuale è requisito fondamentale per il trattamento ed il terapeuta individuale si configura come il principale referente del paziente all’interno dell’équipe di lavoro; la terapia di gruppo, dall’impronta maggiormente psicoeducazionale, vi si affianca. Le procedure di skill training vengono utilizzate nei casi in cui il paziente non possieda nel suo repertorio comportamentale le abilità necessarie per risolvere un problema (Linehan, 2011) e si articolano in quattro moduli:
–   abilità nucleari di Mindfulness, considerate essenziali nel perseguire l’integrazione di quelle che Linehan definisce “mente razionale” e “mente emotiva” e nel pervenire in modo dialettico alla “mente saggia”;
–   abilità di regolazione emotiva;
–   abilità di efficacia interpersonale;
–   abilità di tolleranza della sofferenza mentale e dell’angoscia, tesa al perseguimento della capacità di percepire il proprio ambiente senza pretendere che sia diverso, di esperire il proprio stato emotivo senza tentare di modificarlo e di osservare i propri pensieri e le proprie azioni senza cercare di controllarli.

Numerosi studi sembrano inoltre confermare che approcci psicoterapici strutturati e focalizzati sulla relazione terapeutica cooperativa, sulla motivazione e sulla spinta al cambiamento, sembrano essere i più efficaci per il trattamento dei comportamenti autolesivi nella popolazione clinica (Turner et al., 2014).

Pare dunque certificato che questi presupposti siano essenziali allo scopo trattamentale, vengano essi inscritti in un quadro DBT, o siano invece parte di approcci differenti: tra questi, si annoverano la Dynamic Decostructive Psychotherapy, gruppi di auto-mutuo aiuto incentrati sulla regolazione delle emozioni, alcune terapie farmacologiche che intervengono sugli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.
Altri approcci, tra cui quello cognitivista improntato sulla regolazione emotiva proposto da Gross (1998) hanno una buona applicabilità nel trattamento del comportamento autolesivo: il modello prevede molti degli aspetti tipici della DBT standard, integrati con tecniche immaginative e specifici training mirati non solo alla riduzione della carica negativa di eventi spiacevoli, ma anche all’incremento e all’intensificazione dell’emozione piacevole in caso di eventi di vita altrettanto positivi (Andover et al., 2014).

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