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Sviluppo della visione infantile: cosa ci dice lo studio dell’attività cerebrale?

Daniela Sonzogni

Un nuovo studio fornisce nuove prospettive sulla maturazione delle aree visive della corteccia nelle prime settimane di vita, che dimostrano come il cervello visivo nei neonati di 7 settimane sia sorprendentemente maturo.

Le funzioni visive, come la percezione della direzione del movimento, iniziano a svilupparsi subito dopo la nascita e continuano maturando nel tempo, aiutando i bambini ad acquisire esperienza del mondo.

Tuttavia la prova diretta di come questo processo di maturazione si svolga nel cervello è stato carente poiché non vi sono stati studi di imaging funzionale su bambini molto piccoli durante la veglia o mentre sono impegnati visivamente. Un nuovo studio fornisce una visione diretta nella maturazione delle aree visive della corteccia nelle prime settimane di vita, che dimostrano come il cervello visivo nei neonati di 7 settimane sia sorprendentemente maturo.

In questo studio è stata utilizzata la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per registrare l’attività cerebrale di bambini di 7 settimane di vita sia quando erano visivamente impegnati sia durante il sonno. Gli autori forniscono così le prime mappe della funzione corticale visiva nei neonati, fornendo informazioni circa la plasticità neurale che risulta essere molto precoce nella vita: inaspettatamente scoprono che le regioni associative della corteccia responsabili dei processi di movimento rispondono allo stesso modo sia a 7 settimane di vita sia negli adulti. Ciò che sembra essere in ritardo a 7 settimane è lo sviluppo di connessioni funzionali tra queste aree associative e la corteccia visiva primaria, principale bersaglio corticale degli input visivi negli adulti.

Testare bambini molto piccoli con uno scanner fMRI mentre sono svegli e osservano uno schermo è una sfida enorme. Per questo motivo, per incoraggiare i bambini a guardare lo stimolo visivo, i ricercatori hanno scelto uno stimolo saliente per l’età e per rassicurarli venivano tenuti tra le braccia dello sperimentatore durante la scansione. I bambini hanno guardato gli stimoli per un tempo abbastanza lungo per rendere l’acquisizione dei dati affidabile. Una scansione verticale che può permettere alla madre di tenere il bambino in grembo faciliterebbe l’acquisizione dei dati, ma questi tipi di scanner non sono ancora disponibili.

In un primo esperimento fMRI, il team ha registrato l’attività cerebrale in dodici bambini di 7 settimane mentre guardavano modelli di puntini che si muovevano sia in maniera casuale sia secondo traiettorie coerenti. I ricercatori hanno dimostrato che, proprio come gli adulti, i bambini hanno mostrato maggiori risposte al movimento coerente rispetto al moto casuale in una vasta rete di regioni cerebrali, comprese le aree associate con la percezioni del corpo-movimento.

I ricercatori sostengono che la simile attività di queste regioni sia nei neonati sia negli adulti suggerisce che i neonati possono avere un senso della posizione del corpo.

In un esperimento fMRI di follow-up, i ricercatori hanno testato 9 degli stessi bambini mentre dormivano. Quando hanno analizzato i pattern di attività nelle regioni sensibili al movimento identificati nel primo esperimento, hanno trovato somiglianze tra bambini e adulti, ma anche alcune differenze: i pattern di correlazione tra alcune regioni erano diverse nei bambini rispetto agli adulti, in particolare la corteccia visiva primaria ha mostrato pattern di connettività immaturi.

Nel loro insieme i risultati mostrano che le principali aree che servono per l’elaborazione del movimento negli adulti sono operativi già dalla settima settimana di vita. Più sorprendente è l’evidenza che i neonati sembrano essere già in grado di percepire la posizione del loro corpo.

I risultati possono avere importanti implicazioni cliniche. La visione è compromessa in molti disturbi dello sviluppo neurologico, come l’autismo e le paralisi cerebrali. Studi come questi forniscono conoscenze necessarie circa la posizione esatta delle diverse aree visive del cervello infantile e la portata della loro maturazione, che possono poi guidare i medici nel tentativo di selezionare strategie di riabilitazione appropriate in opportune finestre temporali.

Terapia Metacognitiva per disturbi d’ansia e depressione: Adrian Wells ospite a Milano – Report dal Workshop

UN EVENTO REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON:

  • Studi Cognitivi Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale
  • SITCC – Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva
  • Metacognitve Therapy Institute
  • Sigmund Freud University Milano

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Adrian Wells ha tenuto un seminario sulla terapia metacognitiva (MCT): nella MCT la sofferenza è data non da valutazioni errate sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo di regolazione dell’attività mentale.

Adrian Wells ha tenuto un seminario sulla terapia metacognitiva (MCT – metacognitive therapy) per i disturbi d’ansia e dell’umore a Milano venerdì 9 e sabato 10 ottobre 2015. Il prof. Wells, che insegna all’Università di Manchester, ha esposto i principi della sua terapia.

Nella MCT la sofferenza è data non da valutazioni errate sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo di regolazione dell’attività mentale.

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Terapia Metacognitiva per disturbi d'ansia e depressione Wells ospite a Milano - Report_ IMG 2
Prof. Adrian Wells

L’errore principale consiste nel ritenere che sia conveniente pensare in maniera perseverante ai problemi e che sia impossibile non prestare molta attenzione ai problemi. Entrambe queste strategie sono errate e, invece di aiutarci ad affrontare le difficoltà, ci danneggiano, determinando agitazione e sofferenza emotiva.

 

In termini più tecnici, la teoria metacognitiva dei disturbi psicologici si fonda sul principio che la maggior parte dei disturbi/o psicologici è causata da uno schema di pensiero ripetitivo (repetitive thinking) chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (Cognitive Attentive Syndrome – CAS) costituito da pensieri vissuti nella forma di preoccupazioni. La CAS è spinta da credenze di fondo riguardo al pensiero che ricadono dentro due categorie di credenze: positive (es. mi devo preoccupare allo scopo di farcela) e credenze negative (es. certi pensieri sono pericolosi). Uno schema che concentra l’attenzione sulle minacce e che porta a effetti paradossali. In particolare, l’eccesso di attenzione ai problemi ci rende meno efficienti nel risolvere i problemi e ci assorbe invece in un circolo vizioso di logorante agitazione. Tutto questo (come viene efficacemente descritto da Wells in un intervista rilasciata a State of Mind – NdR) invece di fermare il pensiero negativo, lo amplia.

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Il seminiario di MCT tenutosi nelle aule della Sigmund Freud University Milano

 

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La terapia metacognitiva si concentra sul rimuovere la CAS in risposta ai pensieri e alle esperienze negative stimolando la consapevolezza di questo processo e promuovendo un controllo selettivo dello stesso.

In questo modo si mettono in discussione le credenze metacognitive. Alla fine del trattamento i pazienti sono più flessibili nelle loro risposte ai pensieri negativi e meno dipendenti dagli schemi mentali consolidati e controllo cognitivo come strategia di gestione delle esperienze emozionali.
Rispetto alla terapia cognitiva tradizionale, il modello di Wells propone un rovesciamento delle gerarchie: al centro della teoria non ci sono i contenuti dei pensieri, anzi c’è l’idea che i pensieri non sono così importanti ma che ciò che conta è la reazione delle persone a quei pensieri.

La MCT si concentra sugli stili di pensiero e regolazione mentale piuttosto che sul contenuto dei pensieri. Non opera dei controlli di realtà sui pensieri o sulle credenze generali riguardo se stessi e il mondo ma su come noi stessi riteniamo di regolare i nostri stessi pensieri.

Il principale intervento terapeutico della MCT è l’addestramento a gestire i pensieri negativi in una attitudine chiamata detached mindfulness (DM). La DM, sebbene condivida in parte il nome, non va confusa con la mindfulness. Con mindfulnes Wells intende la consapevolezza dei pensieri (awareness of thoughts) che identifica la specifica consapevolezza metacognitiva e l’abilità di distinguere un pensiero negativo dalla preoccupazione (worry) conseguente o dalla risposta ruminativa a quel pensiero. Con DM Wells intende il fermare o disconnetere ogni risposta a quel pensiero e in chiave più profonda, esperire il sé come separato dal pensiero e semplice osservatore di esso.

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Il seminario è consistito nell’esposizione dei concetti teorici e in esercitazioni di accertamento MCT e di gestione in DM di pensieri negativi. Infine Wells ha esposto l’applicazione del suo modello a disturbi specifici, in particolare il disturbo d’ansia generalizzata e il disturbo post-traumatico da stress. La partecipazione è stata numerosa e l’interesse elevato. Le reazioni in generale sono state molto positive, con qualche difficoltà nell’accettare una certa tendenza di Wells a ritenere che l’efficienza della MCT renda quasi inutile valutare e gestire l’alleanza terapeutica attraverso interventi di sostegno e accoglimento. In realtà Wells ritiene che questi interventi, pur importanti, facciano parte della cosiddetta good-practice, ovvero delle abilità di base del terapista, un presupposto professionale che non è necessario teorizzare nel suo modello, essendo già stato fatto in altri.

Post-traumatic Growth: non tutto il male viene per nuocere

Post-Traumatic Growth: oltre alle ricadute negative che un trauma può avere, questo può anche facilitare cambiamenti positivi nella persona, conosciuti come post-traumatic growth (PTG), che possono includere lo sviluppo di nuove prospettive personali e di una vera e propria crescita individuale (Kleim & Ehlers, 2009), come riferiti nel 30-90% di casi di situazioni traumatiche (Sawyer & Ayers, 2009).

Il trauma può essere definito come un evento che modifica profondamente gli schemi di una persona, così come le sue credenze, i suoi obiettivi e la sua capacità di fronteggiare le difficoltà emotive; inoltre, questo evento si pone come uno spartiacque tra un prima e un dopo nella vita dell’individuo, che arriva a narrare se stesso e gli altri in un modo diverso (Sheikh, 2008). Un trauma può essere qualcosa che è accaduto direttamente alla persona, come un abuso, una violenza, una rapina, o un qualunque evento che si ponga come minaccia alla propria incolumità; ma anche essere esposti a un evento che minacci gravemente l’incolumità di terzi, soprattutto se significativi, può avere conseguenze ugualmente traumatiche sull’osservatore.

La reazione al trauma varia in modo significativo da persona a persona, e mentre alcuni sviluppano solamente una fisiologica risposta di paura e allarme che spesso si risolve spontaneamente nell’arco di qualche mese (Horowitz, 2004), altri possono sperimentare un disturbo dell’adattamento o un più grave disturbo da stress post-traumatico, caratterizzato dalla mancata integrazione dell’esperienza traumatica con una visione di sé e del mondo più complessiva e globale.

Post-Traumatic Growth: i cambiamenti positivi conseguenti al trauma

Oltre alle ricadute negative che un trauma può avere, questo può anche facilitare cambiamenti positivi nella persona, conosciuti come Post-Traumatic Growth (PTG), che possono includere lo sviluppo di nuove prospettive personali e di una vera e propria crescita individuale (Kleim & Ehlers, 2009), come riferiti nel 30-90% di casi di situazioni traumatiche (Sawyer & Ayers, 2009).

Se la resilienza è una caratteristica che ci permette di essere più pronti a fronteggiare in modo positivo eventi negativi, la Post-Traumatic Growth si configura come qualcosa di ancora differente.

Nello specifico, la Post-Traumatic Growth viene definita come l’esperienza soggettiva fatta di cambiamenti psicologici positivi come esito di un’esperienza traumatica (Zoellner & Maercker, 2006). Mentre alcuni autori includono la Post-Traumatic Growth all’interno delle strategie di coping della persona, altri la descrivono più come un insieme di nuove competenze che si sviluppano a seguito di un evento traumatico.

Inoltre, la Post-Traumatic Growth è stata concettualizzata come costrutto multidimensionale, caratterizzato cioè da diversi aspetti, tra cui un maggiore apprezzamento della vita, la tendenza a creare relazioni più strette, l’identificazione di nuove possibilità, una maggiore forza personale e un cambiamento spirituale positivo (King & Hicks, 2009).

Un esempio di crescita personale include la capacità di trarre maggiore piacere da situazioni precedentemente date per scontate, così come un cambiamento nell’ordine di priorità intorno alle quali si organizza la quotidianità. Inoltre, a seguito della propria riuscita nel fronteggiare un evento traumatico, una persona può percepire se stessa come più competente, ridimensionando la propria definizione di sé in un modo più positivo. Anche se intuitivamente si potrebbe vedere la Post-Traumatic Growth come un fattore di protezione contro lo sviluppo di disturbi psicologici a seguito di un trauma, in realtà i risultati delle ricerche sono finora discordanti. Ciononostante, sono degni di nota due studi longitudinali che hanno rilevato sia minori sintomi depressivi che una minore probabilità di sviluppare un disturbo da stress post-traumatico a seguito di un trauma nelle persone che prima del trauma riportavano maggiori livelli di Post-Traumatic Growth.

 

Le caratteristiche di personalità di chi sviluppa Post-Traumatic Growth

Ma quali fattori incidono sulla capacità individuale di sviluppare Post-Traumatic Growth a seguito di un evento traumatico? Tra le caratteristiche demografiche, sembra che la Post-Traumatic Growth sia più probabile nelle donne e nelle persone giovani; risulterebbe inoltre correlata con una migliore situazione economica e con un’educazione più elevata (Linley & Joseph, 2004).

Tra le caratteristiche di personalità, sembra che la Post-Traumatic Growth sia più frequente tra le persone estroverse, aperte alle nuove esperienze e con un carattere amicale (Sheikh, 2008). Rispetto alle caratteristiche di coping, cioè al modo con cui le persone tipicamente fronteggiano le situazioni e reagiscono alle difficoltà, la Post-Traumatic Growth è risultata più alta in chi tende a rileggere la situazione nelle sue caratteristiche positive (chi reagisce alle difficoltà con il reappraisal) e in chi è più propenso a cercare supporto sociale (Prati & Pietrantoni, 2009).

Infine, la speranza è risultata correlata con una maggiore Post-Traumatic Growth; più nello specifico, uno studio svolto su 1025 soggetti ha mostrato come la presenza di traumi nell’infanzia fosse legata a una minore speranza, e di conseguenza a una minore possibilità di reagire positivamente a un trauma in età adulta (Creamer, et al., 2009). Come dire, la nostra capacità di trarre giovamento da una situazione negativa, e di progredire a partire da questa, dipende da quanto siamo speranzosi, ma questo a sua volta dipende dal tipo di infanzia che abbiamo alle spalle.

Sicuramente la Post-Traumatic Growth è un costrutto che necessita di ulteriori approfondimenti sia per un migliore inquadramento concettuale che per una più chiara collocazione tra tutti i costrutti che vengono tirati in ballo quando si parla di trauma. In un modo del tutto preliminare, però, sembra essere qualcosa di promettente, che consente anche di prestare attenzione a quello che un evento traumatico può costruire, e non solo a quello che tende a distruggere.

Il calo delle adozioni: dalla crisi dell’adozione a un modello di adozione protettivo, resiliente e ad alto valore sociale

 

Negli ultimi anni associazioni, giornali e ricercatori hanno documentato il problema del calo delle adozioni internazionali. Si è di fronte quindi ad un fenomeno sociale importante da riconoscere e soprattutto da valutare.

Dal 2010, anno in cui si è registrato l’ultimo trend positivo nell’adozione internazionale, si è assistito ad una diminuzione del 30% degli ingressi dei minori (Cai 2013, report statistico). A livello internazionale il calo delle adozione raggiunge cifre importanti che superano il 50%. Si è di fronte quindi ad un fenomeno sociale che è importante riconoscere e soprattutto valutare.

Le associazioni e i giornali riportano come motivazione la crisi economica del nostro paese, i costi delle adozioni internazionali, un percorso di valutazione della coppia vissuto in modo eccessivamente intrusivo, l’età dei bambini che si attesta attorno ad una media dei 5,5 anni e l’alta presenza di bambini con special needs.

Sicuramente tutti questi fattori hanno contribuito al calo delle adozioni, ma non sono gli unici responsabili di questo fenomeno: infatti, in gioco non c’è semplicemente la valutazione di situazioni che rendono complessa l’adozione, ma la scelta stessa dell’adozione e, quindi, di un percorso di genitorialità sociale.

Il dato importante da tenere presente riguarda la diminuzione delle dichiarazioni di disponibilità all’adozione nazionale e internazionale da parte degli aspiranti genitori adottivi, anch’essa in picchiata. E’ quest’ultima, infatti, che ci permette di capire che siamo di fronte ad una transizione culturale che investe la scelta di intraprendere un percorso di genitorialità sociale.

L’entusiasmo che ha coinvolto famiglie, operatori e associazioni degli anni 90, i valori legati all’istituto dell’adozione hanno lasciato il posto alle preoccupazioni per un percorso di genitorialità comunemente rappresentato come complesso.

Inoltre negli ultimi anni il dibattito generale ha contribuito alla formazione di una rappresentazione sociale del bambino adottato intrisa di immagini negative. Gli aspiranti genitori adottivi sono bombardati da notizie sulla complessità del comportamento del bambino adottato: i blog, gli articoli scientifici, divulgativi sono pieni di riferimenti ai bambini adottivi descritti come difficili, passivi, anaffettivi, reattivi, incontenibili. A questa si aggiunge il dibattito sulla crisi e i fallimenti adottivi che in assenza di una valutazione puntale dei fattori che concorrono alla formazione di queste situazioni, incrementa una rappresentazione sociale di timore e paura nelle famiglie.

Il risultato finale è il calo delle adozioni, espressione di una società sempre più resistente ad implicarsi in percorsi che hanno anche un risvolto sociale; non è un caso che le motivazioni comuni ampiamente riportate nei giornali riguardano i costi, i problemi, le difficoltà come se la genitorialità, anche biologica, potesse essere una scelta scevra da questi aspetti.

Eppure l’adozione di un figlio è una scelta che ha come principale ricaduta sociale la protezione dell’infanzia e il diritto del bambino a vivere in una famiglia, in assenza della propria. La genitorialità adottiva è una scelta di genitorialità sociale centrata sull’accoglienza di un figlio che ha subito un abbandono che dovrebbe essere incoraggiata e supportata dalla società. Infatti, a fianco alla dimensione privata della scelta adottiva, che riguarda la storia della coppia e le difficoltà legate alla procreazione di un figlio biologico, esistono anche motivazioni di carattere sociale che, se oggi magari sono meno visibili rispetto alle informazioni sulla crisi e il fallimento dell’adozione, rappresentano comunque la finalità principale dell’adozione. Le coppie che arrivano a scegliere l’adozione partono da una dimensione privata per arrivare a conoscere il significato sociale dell’adozione relativo all’accoglienza di un figlio che ha subito il trauma dell’abbandono e per comprendere il significato e l’impegno realistico della genitorialità adottiva.

Lavorare sulla rappresentazione sociale dell’adozione riprendendo i valori della legge 184/1983 permette di ricordarsi delle importanti funzioni protettive di questo istituto che è principalmente orientato al bambino. E’ per questo che è importante divulgare non solo i temi legati alla crisi dell’adozione, ma anche quelli relativi al benessere della famiglia adottiva: si ricorda che i successi adottivi, infatti, sono meno rappresentati nel dibattito nonostante i dati confermino che rappresentano il 90/95% della realtà dell’adozione. Quindi è fondamentale lavorare per diffondere una cultura dell’adozione positiva, riparativa e resiliente fondata su un un percorso psico-sociale in grado di sostenere in modo concreto la genitorialità e la filialità adottiva.

Su questa linea diventano strategici i percorsi di preparazione all’adozione che devono essere concepiti come percorsi di maturazione della scelta adottiva, di preparazione alla genitorialità adottiva e di sviluppo delle competenze genitoriali; il percorso di indagine psicosociale orientato ad accompagnare la coppia nella auto-valutazione delle competenze genitoriali richieste in questo percorso; i percorsi di sostegno post-adozione nella fase dell’abbinamento – adozione per permettere alla coppia di accogliere quel figlio nella consapevolezza della sua storia, dell’impegno genitoriale richiesto in tutte le fasi del ciclo di vita della famiglia adottiva; il sostegno alla filialità adottiva che possa accompagnare il bambino nei momenti cruciali del proprio percorso di crescita e di elaborazione della storia personale. Il sostegno alla filialità adottiva è un aspetto che non è stato approfondito pur avendo implicazioni importantissime sul benessere personale e delle relazioni famigliari; a titolo di esempio si ricorda l’importanza della preparazione all’adozione del bambino e del sostegno nella fase di inserimento del nucleo famigliare.

L’adozione, in questa prospettiva, ritorna ad essere uno strumento psicosociale protettivo per l’infanzia, con un’importante funzione riparativa nei confronti delle esperienze sfavorevoli vissute dal bambino, resiliente rispetto al suo percorso di vita, ad alto valore sociale per il bambino, per i genitori e per la comunità. Affrontare il tema dell’ adozione come esperienza positiva, protettiva, resiliente e ad alto valore sociale non significa evitare di considerare le problematiche che influenzano la crisi dell’adozione, ma circoscriverle sia sul piano statistico, sia sul piano psicosociale per valutare i fattori di rischio, ma soprattutto i fattori protettivi del percorso adottivo ( Palacios J. 2007, Brodzinsky D.M, Palacios J., 2010, Paradiso, 2015).

La plasticità neurale e i cambiamenti prodotti dalla psicoterapia nel cervello

Luana Lazzerini, Valentina Reda, Manuela Cammarata, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La psicoterapia, può produrre modifiche del comportamento attraverso nuove esperienze e nuovi apprendimenti. Tali esperienze vengono registrate nelle reti neuronali che formano il cervello.

Introduzione

Negli ultimi venti anni, l’avvento di nuove modalità di indagine delle neuroscienze (PET, fMRI, ERPs…) ha permesso di studiare sempre più approfonditamente i cambiamenti nel sistema cerebrale umano vivente. La capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente è chiamata plasticità neurale.

La plasticità neurale permette la formazione della mente umana tramite l’interazione tra i processi neurofisiologici cerebrali e le esperienze vissute. Queste ultime costituiscono il nostro patrimonio più importante in quanto influenzano e guidano il nostro modo di elaborare le diverse informazioni.
Le principali evidenze sulla plasticità neurale derivano da studi relativi ai processi di apprendimento e memoria che mettono in luce come sia possibile, in seguito ad esperienze ambientali e interpersonali, andare a modificare la struttura cerebrale.

Quasi tutti i comportamenti umani sono frutto di un processo di apprendimento. Anche quando compiamo azioni apparentemente automatiche, in realtà stiamo mettendo in atto un processo cognitivo complesso che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva attraverso il processo di memorizzazione. Quando si apprende e si memorizza qualcosa di nuovo, questa nuova esperienza lascia una traccia nel nostro sistema nervoso. È ormai evidente, quindi, che qualsiasi processo mentale intrapsichico o relazionale deriva da meccanismi che avvengono a livello neuronale nel cervello e che, viceversa, qualsiasi esperienza che facciamo, ogni cambiamento dei nostri processi psicologici e cognitivi modifica plasticamente le strutture anatomiche cerebrali corrispondenti.

La reciproca interazione tra cervello ed esperienza si nota anche nei disturbi psicopatologici. Questi, infatti, sono caratterizzati sia da un tipico pattern sintomatologico ricorrente che da tipici pattern di attivazione cerebrale. I pazienti che soffrono di disturbi d’ansia e depressione maggiore, ad esempio, mostrano spesso un’eccessiva attivazione di alcune strutture cerebrali e un ridotto funzionamento di altre.

La riduzione sintomatologica in tali disturbi la si ottiene sia a seguito di trattamenti farmacologici che a seguito di trattamenti psicoterapici.
Come si può facilmente intuire le terapie farmacologiche, messe a punto per ottenere un miglioramento sintomatologico nei disturbi psicopatologici, agiscono a livello biochimico in maniera mirata sul sistema nervoso centrale. Meno intuibile invece risulta il meccanismo tramite il quale la psicoterapia produca un sollievo sintomatologico negli stessi disturbi. Eppure la psicoterapia, in particolare la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC), è considerata un trattamento di provata efficacia nei Disturbi d’Ansia e nei Disturbi dell’Umore. La TCC mira a modificare i nostri schemi cognitivi (strutture di conoscenza che ci permettono di dare significato alle nostre esperienze, modalità tipiche che determinano il nostro modo di comportarci e di pensare), avvalendosi dell’integrazione di tecniche cognitive e comportamentali.
Le prime hanno lo scopo di modificare le convinzioni disfunzionali relative a se stessi e al mondo esterno; le seconde mirano all’acquisizione di nuove strategie tramite esercizi comportamentali condivisi tra terapeuta e paziente.

La psicoterapia, può produrre, quindi, modifiche del comportamento attraverso nuove esperienze e nuovi apprendimenti. Tali esperienze vengono registrate nelle reti neuronali che formano il cervello.
In questa sede prenderemo in eseme i cambiamenti neurali che si verificano in seguito al trattamento psicoterapico. Per far ciò illustreremo più in dettaglio cosa si intende per plasticità neurale, in che modo si esprime e come viene studiata; parleremo della psicoterapia, in particolare della TCC, illustrandone i principi sui quali si basa e le tecniche che utilizza; ed infine illustreremo i cambiamenti neurali prodotti dalla psicoterapia in accordo con la letteratura scientifica recente.

La Plasticità Neurale

L’interazione reciproca tra cervello e comportamento è fatto noto e ormai radicato, anche perché, per molti risulta essere tanto straordinario quanto misterioso. Quando si dice che il comportamento e l’esperienza modificano il cervello si vuol proprio intendere che essi modificano il cervello fisicamente. Il cervello di un bambino cresciuto in Italia si costruisce con una struttura cerebrale diversa da quella di un bambino cresciuto in Finlandia. Questa è la ragione per cui il primo, da adulto, capirà l’italiano facilmente e il secondo no. In questo caso non si può esattamente dire quali siano le differenze strutturali, ma si sa che una parte del cervello è stata modificata da esperienze diverse. Numerosi sono gli esempi che dimostrano come l’esperienza abbia modificato il numero o la dimensione dei neuroni oppure il numero o la dimensione dei collegamenti tra neuroni. Woollett, K., & Maguire nel 2011, ad esempio, hanno dimostrato che il cervello dei guidatori di taxi londinesi rispetto a quello dei cittadini londinesi non guidatori di taxi è caratterizzato da un maggior volume dell’area posteriore dell’ippocampo, struttura cerebrale cruciale per la memoria e la ricerca visuo-spaziale.

La capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente è chiamata plasticità neurale.
La dottrina tradizionale, ritenuta valida fino a pochi anni fa, sosteneva che le cellule nervose non fossero in grado di riprodursi dopo la nascita: si trattava di un patrimonio fisso, passibile solo di perdite nel corso della vita.
William James nel 1890 descrisse la plasticità come[blockquote style=”1″] il processo di una struttura abbastanza debole da cedere ad un’ influenza, ma abbastanza forte da non cedere all’improvviso. Il tessuto nervoso sembra dotato in misura straordinaria di questo tipo di plasticità, cosicché possiamo stabilire […] che negli esseri viventi i fenomeni di abitudine sono dovuti alla plasticità dei materiali organici di cui sono composti i loro corpi.[/blockquote]

Nei decenni successivi, inoltre, la ricerca ha permesso di evidenziare che il cervello è dotato di una plasticità ancora maggiore di quella che James sospettasse: per esempio l’esperienza visiva dei gatti in via di sviluppo dirige la formazione di connessioni nel cervello (Cabelli et all, 1995); l’apprendimento di un compito in una lumaca di mare rafforza la connessione tra due neuroni specifici (Bailey e Chen, 1988).

Nel corso degli anni la scoperta della formazione di nuove cellule nervose nel cervello adulto ha letteralmente sovvertito il dogma vigente in passato.
L’affascinante caratteristica della plasticità neurale intriga gli sfaccettati ambiti della psicologia. L’interesse degli psicologi è rivolto al modo in cui l’esperienza modifica fisicamente il cervello e di conseguenza il comportamento futuro.
L’importante massa di informazioni circa i fenomeni di plasticità è stata fornita, negli anni, da numerosi studi condotti sia in assenza che in presenza di una lesione encefalica o periferica.
Tale fenomeno infatti risulta essere di primaria importanza per spiegare, ad esempio, la tendenza dei deficit neurologici conseguenti a lesione cerebrale a carattere non evolutivo a regredire nel tempo, sia spontaneamente che in seguito ad interventi neuro riabilitativi.

Meccanismi alla base della plasticità neurale

Il termine plasticità viene utilizzato in riferimento a fenomeni molto eterogenei.

  • Neurogenesi
    Con il termine neurogenesi ci si riferisce alla formazione di nuove cellule nervose nel cervello adulto (Gage, 2002). Questo fenomeno avviene in particolare in due aree: l’ippocampo e la zona subventricolare.
    La neurogenesi è resa possibile dalle cellule staminali, cellule primitive non specializzate capaci di trasformarsi in qualsiasi altro tipo di cellula. Le cellule staminali dette ‘pluripotenti’, ad esempio, possono dare origine a più popolazioni cellulari specifiche di un tessuto. In questo caso, quindi, cellule staminali del tessuto nervoso possono originare solo cellule nervose.
  • Sprouting
    Con il termine sprouting (germogliazione) ci si riferisce a quel fenomeno caratterizzato dall’aumento dei collaterali assonici (parte terminale delle cellule nervose tramite i quali gli impulsi vengono inviati da un neurone all’altro) con conseguente formazione di nuove sinapsi (connessioni tra le cellule nervose). In presenza di un danno cerebrale, i neuroni sopravvissuti in prossimità della lesione, ad esempio, emettono ‘germogli’ cosicché le fibre nervose crescano e raggiungano nuove terminazioni nervose.
  • Rimappaggio corticale dopo una lesione periferica
    A seguito di una lesione di un nervo di senso o di un amputamento di una parte del corpo si depriva selettivamente la sua rappresentazione corticale. L’area corticale deprivata dalla stimolazione originaria si riorganizza in modo da diventare area di rappresentazione corticale delle aree corporee adiacenti. Il fenomeno dell’arto fantasma è un esempio di rimappaggio corticale a seguito di una lesione periferica.
  • Modificabilità della trasmissione sinaptica
    Attraverso la trasmissione sinaptica l’impulso nervoso viaggia da un neurone all’altro tramite il rilascio di uno specifico neurotrasmettitore. Questo viene rilasciato da un neurone, chiamato presinaptico, ed entra in contatto con un secondo neurone, chiamato postsinaptico.
    La plasticità neurale si può tradurre in due tipi di modifiche che riguardano la trasmissione sinaptica. Può, infatti, variare la quantità di neurotrasmettitore liberato nella sinapsi (cambiamento funzionale), o può modificarsi la struttura dell’elemento presinaptico e/o postsinaptico (cambiamento morfologico)

Metodi di indagine

Dagli anni ’60 in poi, la ricerca negli ambiti delle scienze cognitive si è avvalsa di tecniche di indagine sempre più sofisticate per indagare l’attività cerebrale associata ai processi sensoriali, motori e cognitivi. Queste tecniche comprendono la registrazione dei Potenziali Relati ad Eventi (Event-Related Potentials, ERPs), la Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron Emission Tomography, PET) e la Risonanza Magnetica Funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI)

  • ERPs
    Gli ERPs rappresentano i cambiamenti nell’attività elettrica cerebrale temporaneamente associati alla presentazione di un evento (es. comparsa di uno stimolo).
    A livello neurofisiologico, si ritiene che gli ERPs riflettano l’attività elettrica delle popolazioni di neuroni delle varie strutture cerebrali.
  • PET
    La PET consente di creare delle immagini tridimensionali rappresentanti la quantità di sangue passata in un dato punto del cervello (flusso cerebrale ematico). Dal momento che un’elevata attività sinaptica si associa ad un aumento della domanda energetica (glucosio e ossigeno), il segnale PET permette di misurare l’attività cerebrale.
  • fMRI
    La fMRi, come la PET, permette di misurare indirettamente l’attività neurale, sfruttando i cambiamenti di flusso ematico associati all’aumento del metabolismo a sua volta legato all’aumento dell’attività sinaptica.

Plasticità neurale e memoria

Molti studiosi sono convinti che, perché vi siano ricordi a lungo termine, siano necessari modificazioni talmente grandi nel sistema nervoso da risultare visibili al microscopio. Cambiamenti strutturali, in seguito all’esercizio, appaiano anche in altre parti del corpo. Ad esempio, in seguito all’esercizio fisico cambiano la massa e/o la forma dei muscoli e delle ossa. Allo stesso modo le sinapsi potrebbero aumentare o diminuire in funzione dell’addestramento. Ma non si possono considerare solo le sinapsi esistenti. L’addestramento può aumentare il numero di terminazioni della via che è stata usata oppure farsì che una via più utilizzata prenda il posto di altre meno utilizzate.
Le prime esperienze di elettrofisiologia dell’apprendimento hanno dimostrato che se, ad esempio, si stimola una radice dorsale del midollo spinale con impulsi elettrici ad alta frequenza e si registra la risposta riflessa dalla radice ventrale ad essa collegata da un’unica sinapsi, ci si accorge che a seguito di questa stimolazione la normale risposta è potenziata e che questo potenziamento permane nel tempo.

Un contributo interessante alla memoria biologica viene da esperimenti sul ‘potenziamento a lungo termine’ che consistono nel dare stimolazioni ripetute a delle strutture cerebrali, le quali potenziano le loro risposte per un lungo periodo di tempo come se avessero conservato “memoria” dello stimolo ricevuto. Le sinapsi, quindi, con ripetute stimolazioni, possono andare incontro a modificazioni strutturali permanenti sia per ipertrofia, creando nuove sinapsi per stimoli ripetuti, sia per atrofia, riducendo il numero delle sinapsi per mancanza di stimoli.
Kandel (2001) ha dimostrato che la dopamina, un neurotrasmettitore implicato nei processi attentivi, è in grado di facilitare la consolidazione di sinapsi specifiche implicate nei processi di memorizzazione, le quali condizionano a loro volta, la persistenza dell’informazione attraverso la plasticità.

L’interesse di Kandel alla plasticità neurale parte, quindi, da studi relativi ai processi di apprendimento e memoria che mettono in luce come sia possibile, in seguito ad esperienze ambientali e interpersonali, andare a modificare la struttura sinaptica dei neuroni.
Interessante notare che quasi tutti i comportamenti umani sono frutto di un processo di apprendimento. Anche quando compiamo azioni apparentemente automatiche, in realtà stiamo mettendo in atto un processo cognitivo complesso che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva attraverso il processo di memorizzazione.
La psicoterapia è anch’essa una forma di apprendimento per cui, alla luce di quanto detto, è ragionevole pensare che possa portare a una modifica dell’espressione genica e alterare cosi le connessioni sinaptiche.

Platicità neurale: Psicoterapia e cambiamento

Le neuroscienze avvicinandosi sempre di più a una maggiore e migliore conoscenza della mente e del cervello avvalorano sempre continuamente l’ipotesi che la psicoterapia sia uno dei modi migliori per esaminare, comprendere e modificare l’esperienza soggettiva dell’individuo.
La psicoterapia, infatti, si propone come strumento di cambiamento, necessario per l’acquisizione di nuove capacità e per il raggiungimento del benessere del paziente che manifesta un disagio. Tale processo di cambiamento si sviluppa all’interno di una relazione che coinvolge reciprocamente paziente e terapeuta, la cui finalità principale è quella di aiutare il soggetto in difficoltà a comprendere i propri meccanismi ed accompagnarlo in questo processo evolutivo in un contesto strutturato. Questo lavoro terapeutico si fonda sulla fiducia reciproca, sull’alleanza e tiene sempre in considerazione l’intersoggettività fra paziente e terapeuta.

L’obiettivo della terapia è quello del raggiungimento di un cambiamento positivo volto ad un divenire che permetta al paziente di acquisire maggiore consapevolezza di sé, del proprio modo di funzionare e delle proprie fragilità.
Questo tipo di cambiamento permette inoltre al soggetto di adattarsi alla propria condizione in termini di accettazione e superamento e quindi una modifica delle proprie strutture psichiche, del proprio modo di concepire la realtà, il mondo, se stessi e gli altri.
L’esperienza psicoterapeutica, attraverso questo scambio continuo tra terapeuta e paziente, rappresenta un’importante opportunità di ri-organizzazione della mente e del cervello che produce dunque una modificazione e la scoperta di nuovi funzionamenti.

Tutte le psicoterapie sono basate su processi di apprendimento e cambiamento, ma qui prenderemo in considerazione la terapia Cognitivo Comportamentale che è quella che maggiormente si è occupata di studiare i disturbi d’ansia e dell’umore e i cui risultati si sono rivelati efficaci al pari delle terapie farmacologiche.

Tale terapia si fonda sul presupposto che esista una stretta correlazione tra pensieri, emozioni e comportamenti e che il nostro malessere derivi da ciò che pensiamo e facciamo nel presente e dal modo in cui interpretiamo le varie situazioni dando significato agli eventi. Alla base di tale approccio vi è l’idea che esiste una relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti e sostiene che alla base dei disturbi vi siano delle credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, provocando sofferenza nel soggetto e che sono difficili da modificare poiché si basano su meccanismi di mantenimento.
Secondo tale teoria le persone cercano di dare un senso a ciò che le circonda interpretando e organizzando le varie esperienze. Durante tutto l’arco di vita le varie interpretazioni portano ad alcuni convincimenti e apprendimenti che sono più o meno funzionali alla persona e che possono portare a delle distorsioni cognitive che originano e mantengono il disturbo. Quindi non è l’evento in sé che genera malessere, ma il modo in cui esso viene interpretato e vissuto dal soggetto.

Il nostro pensiero si basa su tre livelli di cognizione:
– convinzioni profonde o schemi cognitivi, che sono delle strutture di base con cui la persona interpreta se stesso e gli altri e attraverso cui organizza il proprio pensiero. È una tendenza stabile ad attribuire un determinato significato ai vari eventi.
– convinzioni intermedie che sono interpretazioni su di sé, sugli altri e sul mondo tali da permettere di organizzare la propria esperienza, di prendere decisioni e orientarsi nelle varie relazioni. Esse sono costituite da regole, opinioni e assunzioni.
– pensieri automatici che sono le cognizioni più lontane dalla consapevolezza e da cui dipendono le emozioni.
Secondo tale modello le convinzioni profonde influenzano le convinzioni intermedie che, a loro volta, influenzeranno i pensieri automatici i quali interferiscono con lo stato emotivo della persona.

A partire da questi schemi cognitivi, l’individuo interpreta la realtà e le attribuisce un significato.
In base a tale teoria dunque non è la situazione a determinare direttamente ciò che sentiamo o come ci comportiamo, ma la nostra emozione dipende dal significato che attribuiamo all’evento o alla situazione. Pertanto una medesima situazione può essere vissuta in due modi diversi da due persone, portando quindi a differenti reazioni emotive e comportamentali.

Come già accennato questi pensieri sono direttamente collegati alle emozioni esperite, che di per sé non sono disfunzionali, ma lo diventano nella misura in cui il soggetto le percepisce come invalidanti. È quindi possibile spiegare le varie reazioni emotive e i comportamenti disfunzionali che ne conseguono con l’interpretazione personale degli eventi che si basa sui propri processi cognitivi.
Andando ad indagare, riconoscere e successivamente modificare i pensieri disfunzionali, è possibile produrre un cambiamento a livello emotivo e comportamentale. Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso 1) un metodo cognitivo che permette di andare a modificare i pensieri negativi che causano emozioni vissute come negative e invalidanti, e 2) un metodo comportamentale che ha lo scopo di modificare i comportamenti disadattivi a favore di nuovi comportamenti più funzionali.

Plasticità neurale e psicoterapia: le tecniche

La terapia Cognitivo Comportamentale è considerata un trattamento di provata efficacia nei Disturbi d’Ansia e nei Disturbi dell’Umore e mira a far apprendere nuove modalità comportamentali e cognitive.
Si avvale quindi, come già detto, di diverse tecniche che sono sia cognitive che comportamentali. Le prime sono volte alla ristrutturazione cognitiva vera e propria, attraverso un processo di analisi della correlazione pensiero disfunzionale – emozione. Le seconde sono relative a esercizi comportamentali, volti all’attivazione comportamentale, all’esercizio pratico e all’acquisizione di nuove strategie.

Nello specifico, attraverso un processo di ristrutturazione cognitiva è possibile modificare le convinzioni disfunzionali relative a se stessi e al mondo esterno. Questa tecnica consiste nell’esaminare i pensieri del soggetto in relazione alle proprie emozioni e comportamenti e serve ad aiutarlo a mettere in atto un processo di cambiamento tale per cui andrà a modificare il proprio modo di pensare e le reazioni ad esso collegate.
La tecnica più utilizzata in questo senso è quella dell’ABC, attraverso cui vengono analizzati e messi in relazione gli eventi, la loro interpretazione cognitiva (pensiero) e le reazioni emotive e comportamentali. Attraverso tale strumento è possibile identificare e riconoscere i pensieri che la persona formula sugli eventi che risultano essere disfunzionali e che creano disagio e sofferenza.

La tecnica di ristrutturazione cognitiva prevede che vengano messi in discussione i pensieri disfunzionali aiutando il paziente al riconoscimento del meccanismo che genera e mantiene l’emozione negativa e invalidante che produce sofferenza.
Tra le varie tecniche comportamentali, invece, nel trattamento dei Disturbi d’Ansia si fa spesso uso di tecniche di “esposizione”. Si tratta di esercizi in cui il paziente si sottopone volontariamente alla situazione problematica che genera ansia o paura. L’esposizione può avvenire in diversi modi:
– In immaginazione, in cui la situazione che genera ansia è visualizzata mentalmente;
– In simulata, in cui la situazione temuta viene messa in scena;
– In vivo, in cui la situazione fonte d’ansia viene vissuta pienamente nella condizione reale temuta.

Con l’aiuto del terapeuta è possibile per il paziente fare un’esperienza diversa, rispetto a quella fino ad ora vissuta, che possa aiutarlo a modificare le proprie convinzioni circa la situazione temuta e ridurre quindi l’ansia esperita.
Un’altra tecnica comportamentale utilizzata è quella della desensibilizzazione sistematica, che consiste nell’associare allo stimolo ansiogeno tecniche di rilassamento allo scopo di far estinguere la risposta d’ansia e di sostituirla con una risposta diversa, più funzionale. Insieme al terapeuta, il paziente immagina situazioni che provocano un livello minimo di ansia fino ad arrivare a quelle sempre più ansiogene, imparando a mantenere uno stato di rilassamento che può essere esteso a situazioni via via più generalizzate.

EMDR e plasticità neurale

Una tecnica recente, che affonda le sue radici nella terapia Cognitivo Comportamentale, ma da cui poi si è allontanata per incorporare strategie e conoscenze da anche altri ambiti, è l’EMDR, acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing (Desensibilizzazione e Riprocessamento attraverso i Movimenti Oculari). Attraverso tale tecnica si è scoperto come alcuni tipi di stimolazione esterna, in particolare oculare, possono aiutare una persona ad elaborare un evento traumatico. Con questa tecnica il paziente viene invitato a seguire il movimento della mano del terapeuta, mentre contemporaneamente è invitato a pensare all’evento traumatico. Ciò permette di riprendere o accelerare l’elaborazione delle informazioni contenute nel cervello relativamente al trauma subito. Lo scopo dell’approccio EMDR alla psicoterapia è quello di facilitare la guarigione del paziente e il superamento del trauma attraverso il riprocessamento dei ricordi ed è particolarmente utile nel Disturbo Post Traumatico da Stress.

La psicoterapia cognitiva e comportamentale agisce quindi su emozioni, schemi e comportamenti. Spesso i pazienti mettono in atto strategie dannose in presenza di emozioni forti e apparentemente non regolabili, nel tentativo di gestire un’ attivazione emotiva vissuta soggettivamente come terribile e incontrollabile. Gli eventi influenzano le nostre emozioni ma sono poi i nostri pensieri che determinano la loro intensità e la loro durata.
Secondo la psicoterapia cognitivo-comportamentale la sofferenza nasce quando le emozioni dolorose (es. ansia, rabbia, vergogna, depressione, colpa) diventano talmente intense e invadenti nella vita del soggetto tale per cui questo esperisce la sensazione di esserne sopraffatto. Per regolarne l’intensità vengono messi in atto comportamenti disfunzionali che nell’immediato possono dare un sollievo apparente ma che si rivelano controproducenti e dannosi. Grazie ad un percorso psicoterapico il paziente diviene consapevole degli schemi che lo guidano, dei pensieri che sottendono certi comportamenti e man mano che aumenta la consapevolezza aumenta la capacità di controllo delle emozioni negative, che restano, ma in modo molto meno intenso e duraturo, tornando a svolgere la loro funzione adattiva nella vita quotidiana.

Plasticità neurale, cambiamenti cerebrali e psicoterapia

Come abbiamo detto, è fatto ormai evidente che qualsiasi processo mentale intrapsichico o relazionale deriva da meccanismi che avvengono a livello neuronale nel cervello e che, viceversa, qualsiasi esperienza che facciamo, ogni cambiamento dei nostri processi psicologici e cognitivi modifica plasticamente le strutture anatomiche cerebrali corrispondenti. Sono state ampiamente superate posizioni riduzionistiche e dualistiche del passato secondo cui la psicoterapia va bene solo per un problema a base psicologica, ma se il problema deriva da uno squilibrio di sostanze cerebrali, allora solo i farmaci possono essere d’aiuto.
Ciò significa che ciascun cambiamento nei nostri processi psicologici si riflette in uno o più cambiamenti nel funzionamento o nelle strutture del cervello e che la psicoterapia produce modificazioni osservabili sul cervello.

Come è possibile che la “cura parlata” modifichi il cervello?

La psicoterapia genera l’apprendimento di nuovi modi alternativi di pensare e comportarsi. Tutto questo è stato ben spiegato da Eric Kandel, psichiatra statunitense premio Nobel per la medicina e la fisiologia che considera la psicoterapia  un vero e proprio trattamento biologico. L’apprendimento genera nel cervello nuove condizioni, modifica l’encefalo producendo un rafforzamento delle sinapsi, ossia delle interconnessioni dei neuroni.
Le connessioni sinaptiche possono essere modificate in modo stabile dalle nuove esperienze.

Il nostro cervello è suscettibile di modificazioni. Una delle scoperte più importanti relative agli studi sulla plasticità è stata la dimostrazione che le esperienze, il pensiero, la memoria e l’apprendimento sono in grado di andare a modificare la nostra struttura cerebrale. La mente umana si forma grazie all’interazione tra processi neurofisiologici ed esperienze vissute.
La convinzione di base è che la comprensione dei processi biologici dell’apprendimento e della memoria rendano possibile capire il comportamento e la sintomatologia psicologica e psichiatrica. La psicoterapia, può produrre dei cambiamenti attraverso l’apprendimento, alterando la forza delle sinapsi tra i neuroni modificando in modo stabile il cervello, una vera e propria cura biologica che produce modifiche del comportamento attraverso nuove esperienze e nuovi apprendimenti che cambiano in modo evidente le connessioni sinaptiche e causano modifiche strutturali  cerebrali che a loro volta agiscono sull’interconnessione delle cellule nervose.

Plasticità neurale: dai cambiamenti del cervello ai meccanismi della psicoterapia.

La psicoterapia è volta a modificare e migliorare nel paziente la capacità di autoregolazione emotiva, la capacità di problem solving, l’autopercezione, gli schemi disfunzionali che contribuiscono a generare e mantenere il problema, le competenze metacognitive. Tutte queste abilità implicano l’attivazione di diverse aree della corteccia prefrontale, deputata alla regolazione dei pensieri e al controllo cognitivo (Frewen et al. 2008).
Si può ipotizzare, ad esempio, che il meccanismo alla base dell’efficacia della terapia cognitiva per pazienti con depressione maggiore sia un aumento della funzione regolatrice della corteccia prefrontale connessa con il controllo cognitivo delle emozioni (azione di tipo “top-down”).

Analoghe considerazioni possono essere fatte per i confronti fatti su pazienti con disturbo di panico (Beutel et al., 2010) e per pazienti con disturbo bordeline di personalità trattati con DBT (Schnell e Herpertz, 2007).
La pratica psicoterapica può essere vista come un modo di riorganizzare l’assetto delle connessioni: la terapia, grazie ai meccanismi su cui si basa, produrrebbe un potenziamento sinaptico della funzione di controllo inibente della corteccia sull’amigdala (LeDoux 1996).  L’amigdala ha un ruolo fondamentale nel sistema di allarme del cervello per questo è in grado di prevaricare il lobo prefrontale (in cui ha sede la razionalità) per far fronte al pericolo reale o supposto. Informazioni che segnalano la presenza di stimoli pericolosi dall’ambiente raggiungono l’amigdala attraverso percorsi velocissimi e diretti provenienti dal talamo (strada bassa) e poi da percorsi più lenti e coscienti che vanno dal talamo alla corteccia all’amigdala (strada alta). La strada bassa non potendo sfruttare l’elaborazione corticale (cognitiva) fornisce all’amigdala solo una rappresentazione essenziale dello stimolo permettendo di innescare una risposta meramente emotiva e consentendo al cervello di cominciare a rispondere al possibile pericolo.

Un’elaborazione più dettagliata arriva dalla strada alta attraverso cui le informazioni arrivano all’ippocampo e alla corteccia prefrontale. L’ippocampo riveste un ruolo importante nel compiere confronti con le nostre esperienze passate ed è in grado di fornire informazioni contestuali. La corteccia prefrontale rappresenta una sorta di sistema di regolazione delle emozioni automatiche della paura. Qui vengono integrate tutte le informazioni sensoriali, emozionali, culturali e personali in modo più consapevole.

Inoltre, le emozioni rilasciano nel corpo ormoni e altre sostanze a lunga durata, che tornano al cervello e tendono a bloccarlo in quello stato di attivazione: per questo è difficile per la corteccia prefrontale riuscire ad inibire l’amigdala. L’amigdala può, quindi, controllare con grande facilità la corteccia, poichè le basta eccitare una serie di aree cerebrali in modo non specifico per determinare un alto livello di attivazione; la corteccia al contrario non può fare lo stesso con l’amigdala (LeDoux, 1996). Ecco perché le emozioni sono difficili da “controllare” quando entrano in gioco. Ed è proprio su questi aspetti che agisce la psicoterapia.

Le esperienze lasciano segni duraturi su di noi, in quanto sono immagazzinate come memorie all’interno dei circuiti sinaptici e, dal momento che la terapia stessa rappresenta un’esperienza di apprendimento, essa implica anche dei cambiamenti nelle connessioni sinaptiche.
Dunque, circuiti cerebrali ed esperienze psicologiche non sono cose distinte, ma due diverse modalità per descrivere la medesima cosa.
La psicoterapia è di fatto un processo di apprendimento per i suoi pazienti e come tale un modo di cambiare l’assetto delle connessioni cerebrali: è in tal senso, che la psicoterapia usa meccanismi biologici per curare i disturbi psichici. Le difficoltà di regolazione emotiva potrebbero essere anche legate, quindi, a differenze funzionali di processazione emozionale da parte della corteccia sull’amigdala. Di conseguenza, il lavoro terapeutico potrebbe basarsi sulla necessità di aumentare la capacità della corteccia di influire in modo significativo, riuscendo a contestualizzare in modo adeguato l’esperienza affettiva, aumentando la capacità di simbolizzazione e diminuendo stati affettivi troppo intensi connessi a certe esperienze. Si rende così possibile una maggiore libertà da parte del cervello corticale di elaborare cognitivamente ed influenzare le successive esperienze affettive.
Fondare la psicoterapia su basi scientifiche ed esplorare le sue implicazioni sul piano biologico permette di individuare le forme di psicoterapia più efficaci per le diverse categorie di pazienti.
Viene a delinearsi la necessità di un’ apertura nei confronti di una ricerca multidisciplinare integrata, che apra all’elaborazione di modelli sempre più complessi ed efficaci su cui fondare trattamenti evidence-based.

Plasticità neurale: gli studi sugli effetti della psicoterapia a livello cerebrale

Il primo studio in questo senso risale al 1992. Venne comparata, su pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, terapia farmacologica con fluoxetina e terapia comportamentale dimostrando cambiamenti analoghi a livello di strutture cerebrali.
A questo hanno fatto seguito numerosi altri studi condotti utilizzando tecniche di neuroimaging che hanno evidenziato come la psicoterapia produca una modificazione delle funzioni cerebrali in pazienti con ansia sociale, disturbo di panico, fobie specifiche, disturbo post traumatico da stress, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo depressivo maggiore e disturbo borderline di personalità (Karlsson, 2011).

Negli studi in cui si sono confrontati i cambiamenti neurobiologici indotti da un trattamento psicologico e quelli prodotti da una terapia farmacologica è emerso che la psicoterapia e il farmaco sono entrambi efficaci nella cura delle diverse patologie psichiche indagate, ossia sono entrambe in grado di indurre un significativo miglioramento clinico nei soggetti in questione, e che tali modalità di trattamento agiscono entrambe a livello cerebrale, modificando l’attività neuronale delle stesse aree del cervello e, a livello neurobiologico, inducendo un uguale cambiamento di alcuni parametri biologici come di determinati fattori neuroendocrini (Baxter, Schwartz et al. 1992).

In particolare, i disturbi d’ansia e dell’umore sono associati a cambiamenti funzionali del cervello che coinvolgono il “circuito della paura” che include la corteccia prefrontale, l’ippocampo e l’amigdala. I pazienti che soffrono di disturbi d’ansia e depressione maggiore mostrano spesso un’eccessiva attivazione dell’ amigdala e un ridotto funzionamento della corteccia prefrontale.
La psicoterapia favorisce una normalizzazione funzionale di tale circuito determinando un incremento dell’attivazione prefrontale e della sua attività inibitoria sull’amigdala. (Quide et al. 2013).
Ad esempio è stato dimostrato che dopo un trattamento del disturbo di panico tramite CBT c’è una ridotta attivazione per la risposta condizionata alla paura a livello prefrontale correlata con una riduzione di sintomi agorafobici e una maggiore connettività tra le regioni prefrontali e le regioni del circuito della paura a dimostrazione del legame tra i correlati cerebrali cognitivi (corteccia prefrontale) ed emotivi (amigdala) (Kircher et al.2013).

Una riduzione dell’attivazione e una normalizzazione della rete della paura è stata dimostrata anche dopo trattamenti CBT di fobie specifiche (Schienle et al. 2014) e Fobia Sociale (Furmark et al. 2002).
La maggior parte di questi studi ha dimostrato effetti di cambiamento a livello cerebrale analoghi alla terapia farmacologica ma alcuni hanno anche evidenziato come le modifiche non sempre avvenissero a carico delle stesse strutture per la terapia farmacologica e quella psicoterapica. Ad esempio è stato ipotizzato che, mentre il meccanismo alla base dell’efficacia della terapia cognitiva sia un aumento della funzione regolatrice della corteccia prefrontale connessa con il controllo cognitivo delle emozioni, gli antidepressivi agiscano in modo più diretto ed indiscriminato sull’amigdala coinvolta nella generazione di emozioni negative (Karlsson, 2011).

Indagini di neuroimaging sugli effetti della psicoterapia nel trattamento del disturbo post-traumatico da stress (PTSD), tramite l’EMDR hanno riportato evidenze sulle modifiche del flusso ematico cerebrale (PET), del volume e densità neuronale (RM) nonchè del segnale elettrico cerebrale (EEG). I cambiamenti neurobiologici correlati all’EMDR sono stati monitorati durante la terapia stessa e si è evidenziato uno spostamento dell’ attivazione massima dal sistema limbico “emotivo” a regioni corticali “cognitive”. Sono stati riportati cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo l’EMDR la prima forma di psicoterapia con un effetto neurobiologico comprovato. (Pagani et al. 2013).
La rilevanza di questi studi è indubbiamente legata al valore della ricerca evidence based in terapia. In questo modo è possibile comprendere accuratamente i meccanismi di azione alla base di uno o più modelli terapeutici in modo da poterli confrontare, modificare e migliorare alla luce dei paradigmi e delle teorie psicologiche alla base di ciascun modello.

Conclusioni

La psicoterapia, quindi, non è solo un efficace trattamento psicologico, capace di indurre dei significativi cambiamenti nella sfera intrapsichica e relazionale dei soggetti affetti da un disturbo. La psicoterapia apporta dei significativi cambiamenti nell’attività funzionale del cervello alterando l’espressione dei geni che producono cambiamenti nell’attività funzionale di alcune aree del cervello (Kandel, 1999). Questi cambiamenti cerebrali sono correlati al miglioramento sintomatologico di tali soggetti, per cui solo quando alla fine di un periodo di trattamento psicologico si osserva una significativa riduzione dei sintomi clinici è rinvenibile un cambiamento significativo dell’attività funzionale del cervello (Wykes-Brammer-Mellers et al. 2002). Questi cambiamenti strettamente correlati agli esiti terapeutici sono localizzati nei lobi frontali.

La psicoterapia è un’opportunità di apprendimento relazionale. Attraverso l’instaurarsi di una relazione cooperativa e correttiva può agire nelle sinapsi attraverso la sua azione sui geni e rendersi quindi responsabile di trasformazioni “plastiche” quali basi anatomofunzionali di cambiamenti nella personalità. L’ambiente è fondamentale nell’attivare o rendere silente la trascrizione genica di alcune parti di cromosomi. La terapia della parola crea una condizione di plasticità neuronale e sinaptica quale base organica per la memorizzazione di una esperienza correttiva che accade all’interno del setting terapeutico.

La rilevanza degli studi in questo senso, come anche precedentemente riportato, è indubbiamente legata al valore della ricerca evidence based in terapia. In questo modo è possibile comprendere accuratamente i meccanismi di azione alla base di uno o più modelli terapeutici in modo da poterli confrontare, modificare e migliorare sulla base di riscontri oggettivi che mettano in evidenza il parallelismo tra il cambiamento del funzionamento “psicologico” e “biologico”.

Attualmente la psicoterapia cognitivo-comportamentale è considerata uno dei modelli più efficaci per il trattamento dei disturbi psicopatologici ed è sostenuta da prove di efficacia e validità secondo la Evidence Based Medicine. Il parallelismo sopra descritto all’interno di una cornice cognitiva si delinea nel corso di una terapia che permette di imparare a regolare e gestire un’ attivazione emotiva vissuta come incontrollabile. L’acquisizione di una maggior consapevolezza sul proprio funzionamento e la sostituzione di pensieri automatici e ricorrenti e schemi disfunzionali d’interpretazione della realtà con schemi flessibili e funzionali amplia la capacità di controllo delle emozioni negative e in generale il range di scelta nei comportamenti della nostra vita perché, come ci insegnano le neuroscienze, il cervello cognitivo impara a dominare su quello emotivo.

La memoria autobiografica – Introduzione alla Psicologia Nr. 29

La memoria autobiografica organizza quell’ insieme di conoscenze dichiarative riguardanti i fatti e gli episodi della vita personale in relazione a schemi o percorsi di significato, impliciti o espliciti, consapevoli o inconsci.
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 29)

 

La scorsa settimana su questa rubrica abbiamo parlato delle differenze tra memoria semantica e memoria episodica (NdR).

 

Introduzione

Cosa giunge alla vostra mente nel momento in cui vi dico di pensare alla parola casa?
Sicuramente, delle immagini o dei ricordi che in qualche modo hanno qualcosa in comune con questa parola e che ricordano eventi di vita vissuta. Secondo Galton (1893) il bagaglio di conoscenza in nostra possesso, che deriva da storia di vita vissuta, è immagazzinata all’interno della la memoria autobiografica.

Memoria autobiografica: che cos’è

La memoria autobiografica, dunque, immagazzina fatti e eventi accaduti alla persona in relazione a schemi o percorsi di significato, impliciti o espliciti, consapevoli o inconsci. La memoria autobiografica unifica consapevolmente le diverse esperienze di vita accumunandole da un significato comune, coerente tra i diversi ricordi facenti parte della stessa categoria. L’insieme di tutte queste informazioni costituisce il bagaglio di conoscenza che ognuno di noi possiede e che dipende, sostanzialmente, dalle esperienze effettuate.

Tracce mnestiche riguardanti situazioni accadute lontano nel tempo possono essere vivide alla nostra memoria. Questo accade perché i ricordi sono inglobati in una rete di significati più ampia che riguarda la conoscenza di noi, del mondo e delle relazioni sociali. Il ricordo, dunque, dopo essere stato rielaborato sarà inglobato all’interno di una di queste categorie. La nitidezza del ricordo è dettata dal significato emotivo o comportamentale a esso correlato. .

Per concludere, tutti costruiamo significati di esperienze vissute dotandoli di significato, legandoli ad aree che permettono di includere il ricordo e classificarlo in una rete di ricordi correlati a emozioni o a comportamenti significativi per l’individuo.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La schizofrenia e l’autoreferenzialità nella percezione dei segnali sociali

Gli individui affetti da schizofrenia presentano dei movimenti facciali meno variabili e complessi, una minore coordinazione tra i movimenti facciali e il discorso e un minor numero di gesti manuali rispetto sia ai soggetti sani sia ai pazienti depressi; inoltre i pazienti psicotici hanno una minore capacità imitativa e, pur essendo in grado di identificare i gesti archetipici tendono a giudicare comunicativi dei gesti che in realtà sono accidentali.

È largamente noto che una delle limitazioni che caratterizza i pazienti schizofrenici riguarda la cognizione sociale e la comunicazione interpersonale, cioè la capacità di esprimere in modo comprensibile le proprie intenzioni ed inferire quelle degli altri; queste difficoltà spesso precedono la comparsa dei sintomi positivi e sono peggiorate dal fatto che questi pazienti hanno delle relazioni sociali molto limitate così come dei bassi tassi occupazionali.

Tuttavia mentre la comunicazione verbale è stata largamente studiata, poche ricerche si sono occupate di quella non verbale che è altrettanto importante dato che la postura, i gesti, i movimenti del corpo e l’espressione facciale, mediano anch’essi l’interazione interpersonale soprattutto quando sono presenti delle difficoltà linguistiche a causa di fattori situazionali o personali. In particolare, gli individui affetti da schizofrenia presentano dei movimenti facciali meno variabili e complessi, una minore coordinazione tra i movimenti facciali e il discorso e un minor numero di gesti manuali rispetto sia ai soggetti sani sia ai pazienti depressi; inoltre i pazienti psicotici hanno una minore capacità imitativa e, pur essendo in grado di identificare i gesti archetipici tendono a giudicare comunicativi dei gesti che in realtà sono accidentali.

Quest’ultimo aspetto, cioè pensare che gli eventi ambientali siano rivolti a se stessi quando in realtà non lo sono, può essere considerato un bias di autoreferenzialità che è tipico dei pazienti che presentano deliri e che è particolarmente importante, dato che comprendere chi è il destinatario di una comunicazione guida il modo e la maniera in cui il soggetto agisce sul messaggio che sta trasmettendo. Il bias di autoreferenzialità può essere la conseguenza di una disfunzione a livello percettivo come la perdita di acuità visiva, uditiva o di un’esperienza allucinatoria, a livello cognitivo come processi attentivi o di analisi del contesto poco adeguati, oppure a livello metacognitivo.

Lo studio presente si è quindi posto l’obiettivo di indagare come i pazienti schizofrenici percepiscono i gesti che osservano, basando l’analisi sul livello meramente percettivo, cioè il riconoscimento del gesto, sul livello contestuale e sul livello metacognitivo che è particolarmente interessante in quanto ricerche recenti hanno mostrato che alcuni dei substrati anatomici che mediano i processi metacognitivi sono anche alla base della cognizione sociale.

In particolare il fatto che i precedenti studi non abbiano riscontrato alcuna differenza tra i pazienti con schizofrenia e i soggetti sani nella sensibilità con cui viene riconosciuto il gesto ha guidato l’ipotesi secondo cui i pazienti psicotici sono in grado di identificare senza problemi i gesti archetipici; secondariamente i ricercatori hanno ipotizzato che gli individui affetti da schizofrenia, a differenza dei controlli, sono più in difficoltà quando devono modificare la comprensione del gesto in base alle informazioni contestuali cioè, a causa del bias di autoreferenzialità, tenderebbero a considerare i gesti come sempre rivolti a se stessi nonostante le evidenze esterne; infine si è ipotizzato che le valutazioni metacognitive dei pazienti schizofrenici siano meno accurate rispetto a quelle dei soggetti sani.

La ricerca ha quindi considerato 29 individui affetti da schizofrenia o da disturbo schizoaffettivo e 25 soggetti sani, sottoponendoli alla visione di un video di tre secondi in cui un attore riproduceva movimenti accidentali o gesti comunicativi; entrambi i tipi di azione potevano essere completamente rivolti all’osservatore, ambigui cioè alcuni indizi non verbali venivano diretti all’osservatore mentre altri no o completamente non rivolti all’osservatore. Al termine dei video i partecipanti, attraverso un compito a scelta forzata, dovevano indicare che tipo di gesto avevano visto e l’accuratezza della loro risposta; infine veniva chiesto loro di giudicare se si consideravano o meno i destinatari dei movimenti osservati e ancora una volta valutare l’affidabilità del loro giudizio.

I risultati hanno mostrato che i pazienti schizofrenici riescono a comprendere il significato dei gesti allo stesso modo dei soggetti sani, tuttavia rispetto ai controlli essi tendono a considerarsi i destinatari dei gesti ambigui e di quelli che in realtà non sono rivolti a loro. Ciò farebbe pensare ad un’organizzazione modulare della mente, in quanto nei pazienti schizofrenici sarebbe preservata la capacità di inferire informazioni a partire da messaggi comunicativi di basso livello ma mancherebbe l’abilità di tenere conto degli indizi contestuali. I ricercatori hanno ipotizzato che questa condizione potrebbe essere la conseguenza di un disturbo della teoria della mente o della memoria di lavoro, oppure l’esito di un deficit percettivo, infatti i pazienti psicotici presentano delle particolari alterazioni a livello della via dorsale che è implicata nell’elaborazione di caratteristiche globali.

Questa ipotesi potrebbe essere supportata anche dall’evidenza che i soggetti schizofrenici rispetto a quelli sani fanno più fatica ad integrare le informazioni locali all’ interno dello spazio o a concentrarsi su alcuni stimoli target quando essi sono presentati tra tanti distrattori. Inoltre, a fronte della buona capacità di riconoscere i gesti, è stato possibile osservare delle difficoltà nell’esprimere autogiudizi e nel determinare l’accuratezza delle proprie risposte, dimostrando che nei pazienti il problema non è relativo al sistema specchio quanto piuttosto alle capacità di monitoraggio. A differenza degli studi precedenti invece la ricerca presente non ha osservato alcuna associazione tra la gravità dei deliri, la percezione dei gesti e la loro rappresentazione metacognitiva.

Quindi in conclusione lo studio ha osservato che i pazienti schizofrenici sono in grado di codificare i gesti che osservano ma, a causa del bias di autoreferenzialità, tendono a considerarli sempre come rivolti a se stessi e ciò può ulteriormente compromettere i loro scambi interpersonali; per questo degli interventi psicoterapeutici comportamentali sarebbero particolarmente auspicabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Non guardami così che sbando: la rabbia, e altre espressioni, influenzano i movimenti di chi guarda

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Un viso con un’espressione emotivamente carica, specie se l’emozione è la rabbia, può influire sul corso delle nostre azioni, così sostiene una ricerca della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste pubblicata su Cognitive Neuroscience.

8 ottobre 2015 L’effetto distraente è potenzialmente pericoloso in alcune situazioni (la guida per esempio). Una faccia che entra nel vostro campo visivo vi distrarrà, influenzando il corso delle vostre azioni (funziona come una sorta di attrattore). Ma cosa esattamente nel viso è così irresistibilmente “attraente”?

Secondo uno studio della SISSA sia il sesso del viso che l’emozione espressa hanno effetti distraenti, ma la seconda sembra rispondere a un meccanismo più profondo, automatico e implicito. Elisabetta Ambron, ricercatrice della SISSA, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA e responsabile del laboratorio INSULA, e Francesco Foroni, ricercatore della SISSA, hanno condotto alcuni esperimenti in cui un compito motorio eseguito sul monitor di un tablet veniva disturbato dall’apparizione di facce.

Gli esperimenti in realtà erano due. Durante l’esecuzione del compito motorio, nel primo si chiedeva al soggetto di osservare e riportare il tipo di emozione espressa dalla faccia, nel secondo il suo sesso. In entrambi i casi le facce distraenti variavano sia per sesso che per espressione così che nell’esperimento 1 il sesso era considerata una variabile “non pertinente” con il compito, mentre l’espressione era la variabile pertinente. Viceversa accadeva nell’esperimento 2.

In entrambi gli esperimenti la dimensione pertinente influenzava la traiettoria tracciata sul tablet con il dito (la attirava verso il punto dello schermo dove la faccia era apparsa), ma solo nell’esperimento due anche la variabile non pertinente, aveva lo stesso effetto di quella pertinente. Questo significa, secondo gli autori, che le espressioni emotivamente cariche sono un potente distrattore che funziona anche a livello implicito (senza che l’attenzione sia già rivolta a questo tipo di stimolo).

[blockquote style=”1″]Le espressioni, in particolare la rabbia, che è stata quella a mostrare l’effetto più marcato negli esperimenti, sono stimoli evolutivamente importanti perché possono per esempio difenderci da aggressioni. Per questo il risultato non stupisce. L’aspetto negativo di questo effetto distrattore, d’altro canto, è che può portare a situazioni pericolose. Immaginate un individuo che alla guida sia distratto da cartelloni pubblicitari che ritraggono delle facce, non è una situazione così improbabile. Chi si occupa di sicurezza stradale dovrebbe tenerne conto[/blockquote] spiega Foroni.

 

 

 

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Fondamenti di Psicologia e Psicoterapia cognitivo-comportamentale (2015) – Recensione

Maria Francesca Sarnelli

Per ogni approccio terapeutico gli autori spiegano con linguaggio chiaro e comprensibile, anche per i non addetti ai lavori, i princìpi teorici cardine, le strategie cliniche e le applicazioni pratiche, riportando gli studi scientifici di efficacia clinica condotti e i limiti di applicabilità osservati.

Il nuovo volume di Gabriele Melli è un testo di cui sia gli specializzandi sia i terapeuti formati sentivano il bisogno. Questo testo percorre infatti la nascita e lo sviluppo della psicoterapia cognitivo-comportamentale, la prima forma di terapia che si è basata su evidenze scientifiche di efficacia (Evidence based), per arrivare a descrivere i nuovi modelli di psicoterapia sorti, centrati maggiormente sulla relazione terapeutica (Schema Therapy e Functional Analytic Psychotherapy, FAP), su variabili relazionali quali la Compassione (Compassion Focused Therapy, CFT) o su aspetti legati alla metacognizione (Metacognitive Therapy).

La lettura del volume è agevole, ma non si riduce ad una mera carrellata storica degli approcci clinici presentati, perché ogni capitolo è collegato ai precedenti da un filo rosso che mostra al lettore come ogni tecnica terapeutica sia sorta da nuove conoscenze e osservazioni cliniche, o dai limiti di applicazione dei precedenti approcci presentati. Così è accaduto quando le nuove conoscenze in ambito clinico e delle neuroscienze, rispettivamente attraverso la formulazione della Teoria della Mente e la scoperta dei Neuroni Specchio, hanno creato terreno fertile per la formulazione di approcci terapeutici maggiormente centrati sull’aspetto relazionale, rispetto alla CBT.

Si è inoltre assistito ad un graduale, ma sostanziale cambiamento nella concezione della sofferenza psicologica dalla prima alla terza ondata della psicoterapia cognitivo-comportamentale: nella CBT, infatti, l’obiettivo terapeutico era rendere il paziente consapevole dei propri pensieri disfunzionali e aiutarlo a prenderne distanza, sostituendoli con pensieri maggiormente funzionali; ora l’obiettivo delle terapie di terza generazione è rendere il paziente consapevole dei pensieri che causano sofferenza ed accettarli, lasciandosi attraversare da essi (Psicoterapie basate sulla Mindfulness e Acceptance and Commitmnet Therapy, ACT).

Per ogni approccio terapeutico gli autori spiegano con linguaggio chiaro e comprensibile, anche per i non addetti ai lavori, i princìpi teorici cardine, le strategie cliniche e le applicazioni pratiche, riportando gli studi scientifici di efficacia clinica condotti e i limiti di applicabilità osservati.
La lettura del testo può rappresentare per il clinico sia un ripasso delle proprie conoscenze, sia un’ occasione per iniziare a conoscere le tecniche terapeutiche a cui finora non si era accostato.

 

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Che cos’è la terapia cognitivo-comportamentale?

BIBLIOGRAFIA:

  • Melli, G., Sica, C. (2015). Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale. Eclipsi: Firenze.

Le caratteristiche delle ossessioni e compulsioni religiose nei principali culti monoteisti

Libera Liana Diana, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Il rapporto tra la religione e la salute mentale ha suscitato molto interesse negli ultimi anni, infatti alcuni autori hanno rilevato l’importanza della religione come strategia di coping che consentirebbe di dare un senso alla sofferenza e di promuovere le regole sociali che facilitano la cooperazione e il sostegno reciproco.

Koenig (2001), definisce la religione come un sistema organizzato di credenze, pratiche, riti e simboli, progettato per facilitare la vicinanza a Dio, al più alto potere o alla realtà finale.
Sempre dallo stesso autore, la religione viene distinta dalla spiritualità, intesa come una ricerca personale volta alla comprensione delle risposte alle domande ultime sulla vita, sul suo significato e sul rapporto con il sacro.
La spiritualità, non necessariamente genera o deriva dallo sviluppo di riti religiosi e dalla formazione di una comunità.

Il rapporto tra la religione e la salute mentale ha suscitato molto interesse negli ultimi anni, infatti alcuni autori hanno rilevato l’importanza della religione come strategia di coping che consentirebbe di dare un senso alla sofferenza e di promuovere le regole sociali che facilitano la cooperazione e il sostegno reciproco.
Vi sono due tipologie di coping: quello positivo caratterizzato da una forte connessione con il divino che favorisce una lettura alternativa degli eventi negativi; mentre nel coping negativo si riscontrano agitazione e tensione accompagnate da un continuo conflitto interno (Pargament, 1999).
In generale, la maggior parte degli studi ha riportato che livelli maggiori di coinvolgimento religioso sono correlati in maniera positiva al benessere psicologico e in misura minore con depressione, pensieri suicidari e comportamenti di abuso. Inoltre, l’’impatto positivo della religione appare maggiore in situazioni stressanti come nelle persone in età avanzata, con disabilità o malattia medica (Moreira-Almelida 2006).
Ad esempio, nello studio di Vaillant e al. (2007), è emerso come uomini con depressione maggiore o con una quantità elevata di eventi di vita negativi, abbiano il ​​doppio delle probabilità di manifestare un alto coinvolgimento religioso.

I dubbi e i conflitti religiosi, la percezione di un rapporto negativo con Dio e le interazioni negative nelle comunità religiose, d’altra parte, sono fattori che possono provocare ansia, paura o addirittura portare allo sviluppo di vere e proprie psicopatologie.
La religiosità è stata associata ad un vario numero di disordini psicologici, incluso il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). La religiosità può influenzare la natura delle ossessioni e compulsioni in soggetti con DOC, e può avere un impatto su come il soggetto esperisce la sintomatologia. La religione infatti coinvolge diversi aspetti della vita che molto spesso si associano a rituali, che possono differenziarsi a seconda del credo religioso.

Lee and Kwon (2003) distinguono le ossessioni autogene, che si presentano senza stimoli evocativi identificabili (relative al sesso, alla religione e all’aggressività) da quelle reattive, che hanno come oggetto un contenuto realistico (riguardanti la contaminazione, il dubbio, la simmetria).
Tipica caratteristica delle ossessioni religiose è l’inaccettabilità dei propri pensieri e sentimenti di vergogna e imbarazzo che si aggiungono alle già presenti ansia e paura.
Tali vissuti, portano alla messa in atto di comportamenti compulsivi che hanno lo scopo di ridurre l’attivazione emotiva e di prevenire il verificarsi dell’evento temuto.

Le ossessioni religiose, sarebbero il risultato della sensazione da parte del soggetto, che qualunque cosa faccia sia monitorata da una fonte suprema di potere. Esempi di ossessioni di tipo religioso sono i seguenti: i peccati commessi non saranno mai perdonati da Dio e si andrà all’inferno, non si possono avere cattivi pensieri e bestemmiare in un luogo religioso, avere la convinzione di aver perso il contatto con Dio, pensieri intrusivi su Dio, Santi o figure religiose.
Esempi di compulsioni legate alla religione consistono nel recitare le preghiere più e più volte, toccare o baciare oggetti sacri ripetutamente, rituali di lavaggio, costrizioni alimentari etc.

Dal punto di vista cognitivo, uno studio svolto da Siev (2011) ha evidenziato come le ossessioni religiose siano correlate positivamente a pensieri maladattivi individuati dall’Obsessive Compulsive Cognition Working Group (OCCWG 2001) collegati al DOC.
Tali pensieri disfunzionali sono:

  • Eccessiva importanza attribuita al pensiero;
  • Necessità di un controllo totale sui pensieri;
  • Senso eccessivo di responsabilità;
  • Sopravvalutazione della minaccia.

Non sono state individuate correlazioni significative con l’intolleranza all’incertezza e il perfezionismo.
Inoltre, è stata riscontrata una moderata correlazione con la scrupolosità a livello morale, criterio diagnostico del Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità (DOCP), soprattutto rispetto all’importanza e al controllo dei pensieri, all’alto senso di responsabilità e alla fusione pensiero-azione (TFA). Per il paziente scrupoloso anche il minimo dubbio sulla possibilità di aver peccato e di essere puniti, origina ansia, che cerca di ridurre attraverso risposte non adattive (es. l’evitamento). I comportamenti non adattivi, generando un benessere immediato, tendono a rafforzare tale circolo vizioso (Abramowtz et al,2004).

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo nelle principali religioni monoteiste: Cristianesimo, Islamismo e Ebraismo

Molti studiosi hanno indagato come si presenta il Disturbo Ossessivo Compulsivo nelle principali religioni monoteiste: Cristianesimo, Islamismo e Ebraismo.Sica e colleghi nel 2002, hanno svolto uno studio sulla relazione tra la pratica religiosa e le manifestazioni del DOC in un campione non clinico di italiani cattolici. I soggetti sono stati suddivisi in tre gruppi, in base al loro coinvolgimento a livello religioso: alta, media e bassa religiosità. Il gruppo con alta religiosità presentava punteggi più alti nei test che valutavano l’importanza, il controllo dei pensieri e la responsabilità percepita, rispetto alle altre due categorie.

Nell’ebraismo e nella religione musulmana le ossessioni e le compulsioni appaiono maggiormente connesse alla preghiera, alla restrizione alimentare e alla pulizia che precede la preghiera (Greenberg & Witztum, 1994). Lo studio di Yorulmaz (2009), prende in esame il rapporto tra la religiosità e le cognizioni del DOC nella religione musulmana e cristiana.
Entrambi i gruppi religiosi, riportarono ossessioni sull’importanza e il controllo dei pensieri e la fusione pensiero-azione a livello morale, confermando che la religiosità è associata al DOC (Abramowitz 2004) e che potrebbe essere un’importante questione da valutare a prescindere dal credo di appartenenza.

In particolare i Musulmani presentano maggiore preoccupazione per l’importanza e il controllo dei pensieri rispetto ai Cristiani ed hanno una maggiore tendenza ad utilizzare il rimuginio come strategia di controllo. Yorulmaz, ipotizza come tali differenze nell’espressione del DOC possono derivare dalle differenze nelle dottrine e negli insegnamenti delle diverse religioni.
La religione Musulmana si può considerare più ritualistica, con comportamenti pre- definiti: ad esempio, è richiesto lavarsi cinque volte al giorno prima di pregare; le parti del corpo devono essere lavate in un preciso ordine e se ciò non accade si deve ricominciare.
Dall’ altro lato, nel Cristianesimo, l’enfasi è posta sui pensieri e sulla morale; la fede è definita dal credere in Gesù, con un minor numero di rituali.
In questo studio, bisogna inoltre tener conto delle differenze di tipo culturale, infatti i soggetti Cristiani vivevano in Canada, società dove l’individualismo è molto marcato rispetto all’altro campione proveniente dalla Turchia, dove il collettivismo e l’interdipendenza relazionale ed emotiva sono dominanti.

In generale, queste ricerche fanno ipotizzare che le differenze nell’espressione Sintomatologica del DOC possono essere attribuite alle caratteristiche peculiari di ogni religione e al minore o maggiore coinvolgimento religioso.
L’importanza di tali studi, consiste nel traslare i risultati nella pratica clinica, considerando l’importanza del contesto religioso nella fase di assessment e trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo basato su tematiche religiose.
Infatti, la religione può rappresentare parte del disturbo, contribuendo ai sintomi (es. ossessioni o manie), alimentando il pensiero magico e le resistenze al trattamento oppure può costituire un fattore motivazionale per la terapia e l’integrazione sociale.

In conclusione, il terapeuta dovrebbe conoscere il contesto religioso e culturale in cui svolge il proprio lavoro, in modo da poter utilizzare tali elementi per promuovere il benessere psicologico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Centro di Clinica Cognitiva: un esempio di sviluppo professionale e psicoterapia sostenibile

Miriam Di Nardo, Zaira Bandiera, Roberto Noccioli

Vorremmo raccontare in queste poche righe l’esperienza fatta nei primi due anni di attività del Centro di Clinica Cognitiva (CCC), centro clinico dell’Associazione di Clinica Cognitiva (ACC), una realtà nata allo scopo di incentivare la formazione clinica, offrire un servizio di psicoterapia a costi sociali e porsi come incubatore professionale per psicoterapeuti che decidono di legare i propri bisogni formativi, di confronto e di cooperazione con lo “spirito di servizio”.

La realtà sociale ed economica infatti ci riporta a dare senso al concetto di professione d’aiuto, permettendo l’accesso ad un servizio di psicoterapia e sostegno psicologico anche a persone di ceto sociale medio basso. In quest’ottica il CCC opera a tariffe socialmente sostenibili, in stretta relazione con il reddito del paziente.

Il progetto del Centro di Clinica Cognitiva nasce dalla necessità di garantire una formazione pratica coerente con il percorso di studi e con i modelli che in tale percorso vengono proposti, che ha portato alcuni didatti della scuola di psicoterapia cognitiva di Cagliari ATC (Associazione di Terapia Cognitiva) ad interrogarsi su come poter migliorare la qualità del processo formativo. Tale idea progettuale è stata replicata anche a Roma in collaborazione con la Scuola di Psicoterapia Cognitiva dell’APC (Associazione di Psicologia Cognitiva).

Allo scopo di gestire i due centri clinici (Roma e Cagliari) sono nate due associazioni gemelle, l’ACC Sardegna ed l’ACC Lazio che, pur essendo realtà distinte, condividono finalità, buone pratiche ed idee progettuali. La compresenza all’interno delle Associazioni di allievi, ex allievi e didatti è parte del sistema di qualità che si sta sperimentando che prevede percorsi di ricerca clinica, formazione, intervisione e supervisione. Prevede inoltre la progettazione e la messa in atto di interventi in ambito socio-sanitario e nel terzo settore.
L’adesione al Centro di Clinica Cognitiva non prevede nessun onere da parte di chi vi collabora, ma solo l’accettazione del regolamento interno dell’Associazione e il rispetto delle procedure.

L’organizzazione del Centro ci permette quindi di fare esperienza diretta sia di accoglienza delle richieste che avvengono in un primo contatto telefonico, sia di gestione del primo colloquio con un supervisore. I primi colloqui vengono presentati e discussi in una riunione di accoglienza in cui si valuta la presa in carico della persona richiedente il servizio e si formulano prime ipotesi di terapia. Durante le riunioni, inoltre, si effettuano supervisioni su casi già presi in carico.

Noi psicoterapeuti (in formazione e non), all’interno del CCC, non agiamo più dunque individualmente, ma come membri di un gruppo nel quale potersi confrontare rispetto alla propria visione del problema e con il quale condividere e discutere in modo costruttivo le proprie scelte terapeutiche e le criticità del lavoro con i pazienti.
Il CCC è presente sui territori delle rispettive regioni dall’autunno del 2013. In questo primo periodo di attività abbiamo creato dei gruppi di intervento per area tematica che, oltre alla presa in carico dei pazienti, portano avanti autonomamente dei progetti riguardanti la prevenzione, la ricerca e la divulgazione in psicologia. I gruppi nascono e sono organizzati sulla base di temi di interesse proposti da uno o più membri dell’Associazione.

Al momento i gruppi attivi si caratterizzano per avere al proprio interno professionisti a diversi livelli del proprio percorso professionale in totale spirito cooperativo e paritario (nel rispetto ovviamente del livello di esperienza dei singoli). I gruppi così strutturati permettono un maggior coinvolgimento dei singoli partecipanti.

In altre parole, abbiamo l’opportunità di scegliere come agire e come proporci al pubblico, supportati da un’associazione che, ponendosi come “contenitore”, ci mette in contatto con professionisti esperti, membri essi stessi dei gruppi di lavoro.

Chi scrive collabora con il CCC del Lazio, di seguito entreremo più nello specifico riguardo l’esperienza in questo territorio.
Questi i gruppi attualmente attivi nel Lazio:
1. “Quello che le donne non…” pensato per interventi su donne in situazione  di violenza sia essa fisica o psicologica;
2. “Íntegrati” rivolto ai lavoratori in cassa integrazione o in mobilità e alle loro famiglie;
3. “Progetto Psicologia Transculturale” volto a sostenere i risvolti psicopatologici del processo di integrazione degli immigrati;
4. “Progetto Infanzia e Adolescenza” pensato per interventi mirati all’età evolutiva, sia individuali che familiari;
5. “Soma”, progetto pensato per le forme di disagio di natura psicologica che si manifestano attraverso il corpo;
6. “Disturbi della Condotta Alimentare”: pensato per la presa in carico di pazienti con disturbi della condotta alimentare.

Ma cosa, in realtà, è successo durante questo primo anno e mezzo di attività?
Le riunioni di accoglienza, effettuate con cadenza quindicinale, hanno permesso a noi tutti di metterci in gioco e trovare un confronto sull’inquadramento diagnostico e sul percorso psicoterapeutico in ogni sua fase (totale delle ore di riunione 56). Le riunioni dei  gruppi ci hanno dato la possibilità di sperimentarci nella progettazione, pianificazione e messa in atto di progetti che, oltre ad offrire un servizio alla cittadinanza, hanno fatto conoscere il CCC all’esterno e ci hanno permesso di verificare le nostre risorse professionali sul campo (ore totali di riunione 52). Inoltre le supervisioni ed intervisioni individuali e di gruppo ci sono state utili per evidenziare i nostri punti di forza e le nostre difficoltà con il fine ultimo di migliorare la qualità della reciprocità psicoterapeuta-paziente (ore totali di supervisione 30).

Per quanto riguarda la pratica clinica in questi mesi il bacino di utenza è cresciuto gradualmente. Abbiamo progettato e realizzato interventi nelle scuole, abbiamo partecipato ad eventi organizzati dal Comune ed abbiamo iniziato a creare una rete di contatti con CSM, CIM, TSRMEE, Università ed organizzazioni private operanti nel territorio. L’aumento delle richieste al CCC ha permesso ad ognuno di noi di potersi confrontare con la pratica clinica e di fare esperienza sul campo.

Dall’esperienza fin qui svolta ci troviamo in questa sede a confermare che il Centro di Clinica Cognitiva è, dunque, un progetto di Formazione in divenire, un contenitore di idee e di professionalità mai chiuso in se stesso bensì aperto verso la costruzione di una Rete sempre più ampia. Inoltre ci premeva sottolineare come la nostra professione possa dare un supporto alla cittadinanza anche e soprattutto in periodi storici difficili, proprio quando risulta maggiore la richiesta d’aiuto e minori sono le risorse per farvi fronte.

Autori: Miriam Di Nardo*, Zaira Bandiera**, Roberto Noccioli*
(*Psicologo, Psicoterapeuta; **Psicologo, Psicoterapeuta in formazione; Associazione di Clinica Cognitiva Lazio)

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Il partner phubbing: l’uso del cellulare per ignorare il partner all’interno della coppia

Sabrina Guzzetti

 

I ricercatori della Baylor University, in Texas, hanno pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior un lavoro che parla del ‘partner phubbing’ (Pphubbing “partner phone snubbing”), inteso come la tendenza a farsi distrarre dal cellulare mentre si è in compagnia del proprio partner.

Il termine inglese ‘phubbing’ (phone snubbing) è un neologismo coniato nel 2012 da un gruppo di lessicografi, scrittori e poeti dell’Università di Sydney, ingaggiati dal Macquarie Dictionary e dell’agenzia pubblicitaria McCann Melbourne. Il termine, che descrive l’abitudine di ignorare la persona che abbiamo davanti in favore del telefono cellulare, fece il giro del mondo attraverso la campagna ‘Stop Phubbing’, che dava dimostrazione di come il linguaggio fosse in costante evoluzione, a vantaggio, ovviamente, delle vendite dei dizionari.

Ora questa nuova parola entra anche nel linguaggio scientifico, con una declinazione piuttosto particolare. Dei ricercatori della Baylor University, in Texas, hanno infatti pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior un lavoro che parla del ‘partner phubbing’ (Pphubbing), inteso come la tendenza a farsi distrarre dal cellulare mentre si è in compagnia del proprio partner.

I ricercatori, James A. Roberts e Meredith E. David, hanno sviluppato una scala per misurare il livello di Pphubbing, che presenta item come “il mio partner mette il suo cellulare in un posto visibile quando siamo insieme”, oppure “il mio partner tiene il suo cellulare in mano quando è con me”, o ancora “se c’è una pausa nella conversazione, il mio partner controlla il suo cellulare” e così via.

L’applicazione della scala ha dimostrato che il Pphubbing è sia concettualmente che empiricamente diverso da altre condizioni affini, come l’attitudine ai cellulari e la dipendenza da essi, tanto da meritare una propria indipendenza ed autonomia dal punto di vista teorico.

La scala è stata in seguito utilizzata per studiare, in un campione di 145 adulti, l’impatto del Pphubbing sulla soddisfazione rispetto alla propria relazione sentimentale. I risultati suggeriscono che l’effetto negativo del Pphubbing è mediato dalla presenza di conflitti circa l’utilizzo del cellulare, che a loro volta sono influenzati dallo stile di attaccamento dei partner: i più insicuri, con stili di attaccamento ansioso, riportano infatti più alti livelli di conflitto. Spiega Roberts:

[blockquote style=”1″]Quello che abbiamo scoperto è che quando una persona percepisce di essere oggetto di Pphubbing, si può generare un conflitto che porta a più bassi livelli di soddisfazione di coppia. Questi bassi livelli di soddisfazione di coppia portano, a loro volta, ad una minore soddisfazione per la propria vita in generale, che può anche portare alla depressione.[/blockquote]

Considerando il costante e progressivo incremento dei consumi nell’ ambito della telefonia mobile, questo studio, il primo nel suo genere, pone attenzione al possibile impatto che il nostro amato smatphone può avere non solo sulle nostre relazioni di coppia, ma anche sul nostro benessere psicologico in generale. È sorprendente pensare che qualcosa di così comune e apparentemente insignificante come un cellulare possa arrivare addirittura a minare le fondamenta della nostra felicità.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Non crediamo in bio: il cibo come fede – L’editoriale di Altroconsumo

Editoriale di Rosanna Massarenti, pubblicato su Altroconsumo.

 

Non crediamo in bio: forse è stato questo titolo a turbare e a scatenare reazioni al nostro articolo sul biologico (vedi a pag. 63). Bene, non era né casuale né scelto con leggerezza. Era anzi volutamente provocatorio per far riflettere – e magari discutere, come è avvenuto – su quello che è il nuovo approccio al cibo, quasi un credo, una religione.

Il cibo è legato alla nostra visione del mondo, ai nostri valori, ma anche a paure profonde. E in un mondo che si fa sempre più minaccioso, anche decidere che cosa mangiare è diventato motivo di ansia. Si cerca qualcosa di rassicurante, che ci metta in pace con noi stessi, forse anche di salvifico. E nel biologico spesso si trova sicurezza, per la propria salute, ma anche per la propria coscienza.

I presupposti di alcuni regimi alimentari sono non solo condivisibili, ma devono essere al centro di battaglie su cui tutti dovremmo impegnarci, come la salvaguardia della natura, il rispetto degli animali, i diritti dei lavoratori, l’attenzione alla salute. Il problema sta nel fatto che certe adesioni fideistiche rischiano di diventare vere ossessioni, come quella per il bio o per il veganesimo (vedi a pag. 25), che a volte sfociano in forme di integralismo.

Allo stesso modo, certe ansie per la forma fisica o la magrezza sono placate con perniciose soluzioni pseudosalutistiche che stanno inducendo sempre più persone ad adottare regimi alimentari insensati, punitivi e carenti dal punto di vista nutrizionale: latte e derivati, glutine, carboidrati sono diventati il demonio, incubi allergenici da cui sfuggire.

Il rischio è cadere in fobie o nuove forme di disturbi alimentari, come l’ortoressia, il terrore di introdurre nel nostro corpo qualcosa di impuro.

La verità è che dietro la buona fede di chi ci crede, ci sono mercati globali milionari che prosperano. E il cibo convenzionale – di cui si nutre la maggioranza delle persone, che ha pur sempre diritto a mangiar sano – non è per forza il demonio. La crescente richiesta di alimenti biologici crea grandi occasioni di business: non sono tutti campi di grano, fattorie e caprette sull’erba, come vuole l’immaginario, e anche molte multinazionali dell’alimentare o catene di distribuzione sono entrate in questo fiorente mercato.

Fare informazione indipendente è anche questo: vedere le cose con occhio obiettivo e su basi scientifiche e razionali. Saper sfidare l’impopolarità, non essere accondiscendenti solo per non urtare qualche sensibilità. Altrimenti, il mondo è pieno di siti e riviste di cucina e di salute che vi raccontano quello che volete sentirvi dire, per poi comprare contenti quello che altri decidono che compriate.

Nella prossima pagina l’inchiesta di Altroconsumo.it sul cibo biologico.

Non crediamo in bio –

La frutta e la verdura biologiche in commercio non sono più ricche di nutrienti né più salutari di quelle tradizionali. Ecco le prove

Fonte: Altroconsumo.it

Nella prossima pagina il commento tecnico all’inchiesta sul cibo biologico di Altroconsumo.it

Inchiesta sull’agricoltura biologica: il commento tecnico

Fonte: Altroconsumo.it

SAK. Søren Aabye Kierkegaard (2015) di Joakim Garff – Recensione

La monumentale biografia di Kierkegaard scritta da Joakim Garff riempie con successo un vuoto editoriale abbastanza inspiegabile.

A short life of Kierkegaard di Walter Lowrie, infatti, ultimo significativo lavoro biografico (peraltro mai tradotto il italiano) sul filosofo danese, risaliva addirittura al 1951. Eppure Kierkegaard fu, con Nietzsche e Schopenhauer, uno dei protagonisti della svolta filosofica ottocentesca che, con una parola non felicissima, è stata battezzata come irrazionalismo.

Il pensiero kierkegaardiano ha influenzato in maniera determinante l’arte e la letteratura nordeuropea: Ibsen e Munch sono incomprensibili senza la sua filosofia. I più importanti teologi si sono ispirati a lui, a partire da Barth, Tillich e Bonhoeffer. Soprattutto, però, Kierkegaard è il padre riconosciuto di tutto il movimento esistenzialista del Novecento, da Heidegger a Jaspers, a Sartre. Indirettamente, quindi, la sua figura si staglia sullo sfondo tanto della psichiatria fenomenologica, quanto dell’analisi esistenziale, due movimenti tutt’altro che secondari nel panorama delle cure della psiche intese in senso moderno.

Gli scritti kierkegaardiani più importanti, tuttavia, vengono più spesso citati che compresi nel loro reale significato. Le ragioni di questa circostanza sono molteplici. In primo luogo Kierkegaard scrisse in danese, onde la possibilità di leggere le sue opere in lingua originale è di fatto riservata ai suoi connazionali e a pochi specialisti. Soprattutto però, a parte i cosiddetti Discorsi edificanti e alcuni scritti polemici, tutte le opere che Kierkegaard pubblicò durante la sua vita vennero da lui firmate con degli pseudonimi, ai quali il vero autore attribuiva una personalità e una prospettiva indipendenti.

Nella concezione kierkegaardiana vi sono tre diverse e coerenti possibilità di vivere coerentemente l’esistenza (tre stadi): quello estetico, quello etico, quello religioso. Riassumendo, con imbarazzante concisione, lo stadio estetico è quello di chi vive in funzione della bellezza dell’istante; gli archetipi ne sono Don Giovanni e Faust, e Kierkegaard sembra provare quasi disgusto verso le opere letterarie nelle quali simili personaggi, alla fine, si convertono. Lo stadio etico vive per la ripetizione; l’eroe tipico ne è chi vive il matrimonio come se fosse in perenne contemplazione di un pittoresco ruscello. Forse non vivrà mai slanci di gioia ma neanche profonde delusioni, permanendo in uno stato di pace interiore. Lo stadio ulteriore è quello religioso, che nel pensiero kierkegaardiano è una situazione paradossale, determinata da un salto nella fede. Un tale salto non è per tutti ma solo per figure eccezionali. Il vero Cavaliere della fede, per Kierkegaard, è Abramo, l’uomo capace di sacrificare il proprio figlio a Dio. Kierkegaard ritorna sull’episodio biblico per sottolineare qualcosa che usualmente è passato sotto silenzio: dal punto di vista puramente umano, Dio è il peggiore nemico dell’uomo.

L’accettazione del Dio biblico e del Dio cristiano dipende dunque dal passaggio in una dimensione esistenziale completamente diversa, dove ci si affida interamente alla divinità. In questo senso, per Kierkegaard è un profondo equivoco l’affermazione per cui siamo tutti cristiani. Negli scritti pseudonimi, Kierkegaard scrive come se incarnasse una persona che viva in uno dei tre stadi: in Enten-Eller (o Aut-aut), per esempio, vi sono due presunti autori A e B, il primo dei quali è un seduttore impenitente e il secondo un marito fedele. Timore e tremore viene scritto come se l’autore fosse un poeta della fede che non riesce però a compiere il relativo salto. Due opere firmate con un altro pseudonimo, che si dichiara cristiano, si occupano di temi non proprio scontati da una simile prospettiva: si tratta di Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale. In questi due ultimi testi (forse i più noti e influenti del Danese), infatti, al centro delle riflessioni sono l’angoscia e la disperazione. La descrizione fenomenologica degli stati d’animo relativi presenta notevoli anticipazioni rispetto alla psicologia dinamica successiva, distinguendo per esempio l’angoscia priva di oggetto, l’angoscia verso il nulla e l’angoscia verso un oggetto preciso, con delle sottigliezze analitiche di straordinario interesse. In ogni caso, chi non tenga conto dell’esistenza di una progettualità di insieme così complessa e tentacolare rischia continuamente di confondere, nelle varie opere, ciò che appartiene alle intenzioni dell’autore e ciò che invece va attribuito alla soggettività diversa dello pseudonimo a nome del quale Kierkegaard decide di volta in volta di scrivere.

Quest’uomo, che ha inciso una traccia indelebile nella cultura occidentale, non ha mancato di lasciare ampi inediti autobiografici. I cosiddetti Papirer (Carte) sono infatti venti volumi di appunti di lettura, riflessioni e ricordi sparsi che hanno appassionato generazioni di lettori, malgrado il loro carattere rapsodico e disorganico. Di essi in italiano è da tempo disponibile già un’ampia selezione (apparsa come Diario, in dieci volumi), forse la più estesa che sia stata edita fuori dalla Danimarca.

Tuttavia il punto di vista di Kierkegaard sulla propria vita, ricavabile dagli scritti, lascia aperti degli interrogativi inquietanti. Kierkegaard stesso scrive, anticipando Freud, che ogni uomo è essenzialmente ciò che è diventato all’età di dieci anni; o che si scoprirà che quasi tutti hanno una tara risalente alla propria infanzia che non scomparirà nemmeno a settant’anni; o anche che tutte le individualità infelici si rapportano a un’impressione sbagliata della propria infanzia.

Eppure ben poco della sua infanzia egli racconta. Poco si ricava del padre, anche se è evidente come questi dovesse risultare, per quanto ricco, avaro e scostante con il figlio. Nulla addirittura si viene a sapere sulla madre, che non viene mai nominata né nel Diario, né nelle opere (pseudonime o meno). Idee vaghe e contrastanti Kierkegaard lascia anche a proposito del suo rapporto con Regina Olsen, la ragazza prima vista come ideale, poi chiesta in sposa, salvo rompere clamorosamente il fidanzamento tra lo sconcerto di parenti e amici di ambedue.

La ricostruzione offerta da Garff, che non trascura minuziosissime ricerche di archivio, è dunque un lavoro prezioso per chi voglia approfondire il mondo di questo affascinante e misterioso filosofo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Garff, J. (2015). SAK. Søren Aabye Kierkegaard. Castelvecchi, Roma.

Gli autistici come leggono le emozioni altrui?

Angela Ciaramidaro, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Durante un’interazione sociale il viso è uno strumento essenziale per uno scambio reciproco tra due persone e la capacità di riconoscere le emozioni altrui risulta essere una delle abilità socio-cognitive più importanti per la sopravvivenza dell’individuo all’interno di un gruppo, poiché essa permette di adattare il proprio comportamento al contesto sociale. Secondo le neuroscienze sociali si tratta di un’abilità visiva altamente sviluppata che coinvolge numerosi sistemi neuronali e costituisce un ambito di ricerca di grande interesse per lo studio di diversi disturbi come ad esempio quelli dello spettro autistico (Adolphs, 2002).

L‘autismo è un disturbo dello sviluppo, caratterizzato da una compromissione grave delle capacità dell’interazione sociale e della comunicazione verbale e non verbale, cosi come dalla presenza di ristretti pattern d’interessi e attività (stereotipie). Nel paziente autistico vi è una mancanza d’attenzione implicita a stimoli socialmente rilevanti (come ad esempio volti e voci umane) (Klin et al., 2003). E la non capacità di stabilire un contatto affettivo con un’altra persona è indicato fin dalla prima descrizione di Kanner del 1943 come un sintomo caratteristico di questa sindrome.

E i bambini autistici sono in grado di comprendere le emozioni che esprimiamo attraverso il volto? Numerosi studi hanno dimostrato deficit nell’elaborazione dei volti e delle espressioni facciali. I dati in letteratura indicano infatti che i pazienti autistici prediligono oggetti ai volti e che durante un‘elaborazione emotiva dei volti, il paziente si focalizza sulla parte inferiore del viso (piuttosto che concentrarsi sulla parte centrale del viso insieme agli occhi), atteggiamento che rende più difficile la comprensione delle emozioni (Klin et al., 2002)

Il recente sviluppo delle tecniche di neuroimaging consente d’indagare in modo non invasivo i meccanismi neurobiologici alla base di questi deficit. Studi di neuroimaging in pazienti con autismo dimostrano un mal funzionamento nel giro fusiforme, un’area del cervello specializzata nel riconoscimento dei volti umani e durante l’attribuzione di emozioni facciali (Critchley et al., 2000; Perlman et al. 2011).

Alcuni di questi studi registrano inoltre un’attivazione atipica nell’amigdala, un’area cerebrale deputata per l’elaborazione emotiva (Ashwin et al., 2007; Pelphrey et al., 2007). Rimane tuttora poco chiaro stabilire se il mal funzionamento di queste aree è dovuto a una compromissione generale dei meccanismi neurocognitivi deputati all’elaborazione affettiva oppure ad una tendenza di questi pazienti a non dedicarsi e guardare i volti.

Infatti in uno studio, Dalton e collaboratori (2005) hanno scoperto che l’attivazione del giro fusiforme e dell’amigdala correla positivamente con il tempo che un paziente autistico occupa a fissare lo sguardo nello stimolo target. Tuttavia, in un altro lavoro nel quale i partecipanti venivano sottoposti a scansione di neuroimaging durante la visione di oggetti e in alternanza di volti, i pazienti mostravano un’attivazione del giro temporale inferiore indistintamente durante l’elaborazione di volti e oggetti. Questa area cerebrale invece veniva attivata dal gruppo di controllo esclusivamente durante l’elaborazione di oggetti. Per l’elaborazione dei volti il gruppo di controllo dimostrava un’attivazione specifica nel giro fusiforme (Schultz et al., 2000). Questo lavoro sembra suggerire che pazienti con autismo (per lo meno a livello neuronale) sembrano elaborare i volti come oggetti inanimati.

Ma è possibile migliorare la capacità di elaborazione emotiva facciale con un trattamento specifico in questi pazienti? Sono stati sviluppati diversi programmi per migliorare la comprensione emotiva in pazienti con sindrome autistica. Essendo per questi pazienti l’uso del computer uno strumento di apprendimento preferenziale, una prospettiva innovativa per il training delle emozioni potrebbe derivare dall’utilizzo di interventi al computer e realtà virtuale (Golan et al. 2010).

Muovendosi in questa prospettiva, il gruppo di neuropsichiatria infantile dell’Università di Francoforte ha sviluppato un training al computer per l’attribuzione di emozioni in pazienti autistici: il Frankfurt test and training of facial affect recognition (abbreviato FEFA). Il FEFA è un programma informatico di facile uso e installazione. E’ composto da due moduli: il modulo “Test” per valutare la gravità del deficit e il modulo “Training” sviluppato per la riabilitazione emotiva. L’applicazione del FEFA è transculturale e realizzata sulle sei emozioni di base (felicità, tristezza, rabbia, sorpresa, disgusto, paura). Il modulo di training è composto da 500 item con tre livelli diversi. Al livello 1 viene mostrato un volto e il paziente deve dire quale emozione viene espressa selezionando il nome di una delle sei emozioni suggerite. La risposta corretta è associata ad uno stimolo visivo e acustico. Se la risposta non è corretta, sullo schermo compare la soluzione corretta accompagnata da una breve descrizione dell’ emozione in questione (livello 2). Segue cosi il livello 3 nel quale viene illustrata una storia figurata e nuovamente il paziente deve scegliere l’emozione appropriata. La validazione ha dimostrato che si tratta di uno strumento innovativo ed efficace nelle attività cliniche con pazienti affetti da autismo (Bölte et al., 2002).

Recentemente, un gruppo di ricercatori si sono chiesti se sia anche possibile rilevare eventuali variazioni e cambiamenti neuronali nei pazienti che ne hanno beneficiato. Nello specifico, in questo studio i ricercatori (tra cui anche gli ideatori del FEFA) hanno indagato se i soggetti affetti da autismo possano beneficiare anche a livello cerebrale della somministrazione del FEFA confrontando le attivazioni neuronali di pazienti autistici prima e dopo la somministrazione del training, attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI).

Sono stati sottoposti a scansione tre gruppi: i) pazienti con autismo che hanno ricevuto anche il trattamento di riabilitazione emotiva FEFA; ii) pazienti con autismo che hanno ricevuto un trattamento standard ma senza FEFA; iii) un gruppo di controllo con soggetti sani. In una prima fase tutti i gruppi sono stati sottoposti a scansione fMRI con un compito sul riconoscimento emotivo facciale, ma utilizzando degli item diversi da quelli inseriti nel FEFA. Nella seconda fase, il primo gruppo di pazienti ha avuto il trattamento FEFA per una durata di 6 settimane con 8 unità diverse di training. Nell’ultima fase (successiva al training), entrambi i gruppi di pazienti sono stati sottoposti nuovamente a scansione fMRI. I risultati hanno dimostrato un netto miglioramento nel riconoscimento di emozioni unicamente nel primo gruppo, miglioramento anche evidenziato a livello neuronale nelle aree cerebrali deputate all’ elaborazione emotiva, ovvero nell’ amigdala e nel giro fusiforme (Bölte et al., 2015).

In sintesi, la letteratura e l’attività clinica evidenziano un grave deficit nel riconoscere emozioni altrui in pazienti con autismo, sia a livello comportamentale che a livello neuronale. Ma l’ideazione e l’impiego di trattamenti specifici sul riconoscimento delle emozioni in questi pazienti sembrano dare dei miglioramenti riabilitando anche i circuiti neuronali sottostanti e permettendogli in questo modo di uscire dall’isolamento tipico da cui sono afflitti.

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La percezione atipica nell’autismo: vedere il mondo in modo diverso

BIBLIOGRAFIA:

  • Adolphs R. (2002). Neural systems for recognizing emotion. Current Opinion of Neurobiology, 12, 169-77.
  • Ashwin C., Baron-Cohen S., Wheelwright S., O’Riordan M., Bullmore E.T. (2007). Differential activation of the amygdala and the ’social brain’ during fearful face-processing in Asperger Syndrome. Neuropsychologia, 45, 2–14.
  • Bölte S., Feineis-Matthews S., Leber S., Dierks T., Hubl D., Poustka F. (2002). The development and evaluation of a computer-based program to test and to teach the recognition of facial affect. International Journal of Circumpolar Health, 61, 61–8.
  • Bölte S., Ciaramidaro A., Schlit S., Hainz D., Kliemann D., Beyer A., Poustka F., Freitag C., Walter H. (2015). Training-induced plasticity of the social brain in autism spectrum disorder. British Journal of Psychiatry, 207, 149-57.
  • Critchley H., Daly E., Phillips M., Brammer M., Bullmore E., Williams S., Van Amelsvoort T., Robertson D., David A., Murphy D. (2000). Explicit and implicit neural mechanisms for processing of social information from facial expressions: A functional magnetic resonance imaging study. Human Brain Mapping, 9, 93-105.
  • Dalton K.M., Nacewicz B.M., Johnstone T., Schaefer H.S., Gernsbacher M.A., Goldsmith H.H., Alexander A. L., Davidson R.J. (2005). Gaze fixation and the neural circuitry of face processing in autism. Nature of Neuroscience, 8, 519–26.
  • Golan O., Ashwin E., Granader Y., McClintock S., Day K., Leggett V., Baron-Cohen S., (2010). Enhancing emotion recognition in children with autism spectrum conditions: an intervention using animated vehicles with real emotional faces. Journal of Autism and Developmental Disorders, 40, 269–79.
  • Klin A., Jones W., Schultz R., Volkmar F. R., Cohen D. J. (2002). Visual fixation patterns during viewing of naturalistic social situations as predictors of social competence in individuals with autism. Archive of General Psychiatry, 59, 809–816.
  • Klin A., Jones W., Schultz R., Volkmar F. (2003). The enactive mind, or from actions to cognition: lessons from autism. Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, 358, 345–360.
  • Pelphrey K.A., Morris J.P., McCarthy G., Labar K.S. (2007). Perception of dynamic changes in facial affect and identity in autism. Social of Cognitive Affective Neuroscience, 2, 140-149. DOWNLOAD
  • Perlman S.B., Hudac C.M., Pegors T., Minshew N.J., Pelphrey K. A. (2011). Experimental manipulation of face-evoked activity in the fusiform gyrus of individuals with autism. Social Neuroscience, 6, 22-30.
  • Schultz R.T., Gauthier I., Klin A., Fulbright R.K., Anderson A.W., Volkmar F., Skudlarski P., Lacadie C., Cohen D.J., Gore J. C. (2000) Abnormal ventral temporal cortical activity during face discrimination among individuals with autism and Asperger syndrome. Archive General of Psychiatry, 57, 331–40.

Progettazione e realizzazione di un software per la riabilitazione del calcolo: uno studio pilota

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

PROGETTAZIONE E REALIZZAZIONE DI UN SOFTWARE PER LA RIABILITAZIONE DEL CALCOLO: UNO STUDIO PILOTA

Autore: Rizzi Giovanni (Università degli Studi di Padova)

 

Keywords: acalculia, linguaggio, software, riabilitazione

Lo scopo principale di questo lavoro è valutare un software di riabilitazione, creato ad hoc per i deficit di calcolo. Tale studio nasce dall’esigenza di avere un software mirato alla riabilitazione del calcolo, che tiene conto anche di quelle che sono le difficoltà che ogni soggetto può mostrare. Questa caratteristica rende il software flessibile e adattabile a chi esegue il programma. La riabilitazione mediante questo software si concentra su due domini specifici: il calcolo formale e compiti ecologici, in cui sono esposte situazioni di vita quotidiana che richiedono l’utilizzo dei numeri.

INTRODUZIONE

L’importanza dei numeri nella vita quotidiana è, molto spesso, sottovalutata. I numeri sono utilizzati in molte attività e in differenti contesti. Fare la spesa, verificare il proprio conto bancario, controllare il nostro peso, l’uso dei soldi, essere puntuale ad un appuntamento, cucinare, telefonare sono solo alcune tra le innumerevoli situazioni in cui facciamo ricorso alle abilità numeriche. I numeri sono utilizzati anche per indicare un numero civico, il numero di un ufficio, il modello di un’auto. Spesso, oltre che comprendere e produrre dei numeri, nelle attività quotidiane è necessario anche eseguire dei calcoli o delle comparazioni.

Per queste ragioni è ormai riconosciuto che un disturbo acquisito nell’uso dei numeri e del calcolo possa essere seriamente invalidante, rendendone di primaria importanza la valutazione clinica e l’eventuale trattamento riabilitativo.
Il recente interesse in ambito teorico per questo deficit è ulteriormente giustificato dal fatto che i disturbi acquisiti del calcolo non sono un fenomeno raro. Le abilità numeriche sono molto sensibili alle lesioni cerebrali: secondo Jackson e Warrington (1986), quasi il 10% dei pazienti con lesioni all’emisfero sinistro mostra un deficit selettivo in aritmetica.

La capacità di calcolo rappresenta un processo cognitivo estremamente complesso. Essa è considerata una competenza multifattoriale che interessa la competenza verbale, spaziale, la memoria e funzioni esecutive (Ardila, Galeano, & Rosselli, 1998).

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

 

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Esposizione pre e post-natale al tabacco & disturbi comportamentali nei bambini

Irene Rossi

I disturbi emotivi sono associati all’esposizione al fumo di tabacco ambientale sia in periodo pre che post natale, fattore riguardante il 21% dei bambini coinvolti nello studio. In questi bambini anche i disturbi della condotta risultano associati.

Le conseguenze negative sulla salute dell’esposizione passiva al tabacco sono già state ampiamente documentate in numerose ricerche, e risultano orami note non solo nella comunità scientifica ma anche nella società. Tuttavia le conseguenze del fumo di tabacco ambientale (FTA) sono molto meno note in termini delle specifiche potenziali connessioni causali con i problemi comportamentali nei bambini. In questo contesto, i ricercatori dell’Inserm (Institut national de la santé et de la recherche médicale) e della UPMC (Pierre and Marie Curie University), in collaborazione con gli ospedali universitari di 6 città francesi, hanno analizzato i dati di 5.200 bambini in età scolare sull’esposizione pre e post natale al tabacco nell’ambiente domestico, mostrando che l’esposizione a tale sostanza si associa ad un maggior rischio di disturbi del comportamento nei bambini, ed in particolare modo a livello emotivo e della condotta.

Questi dati sono stati ottenuti attraverso la somministrazione di un questionario standardizzato completato dai genitori dei bambini parte del campione. I disturbi comportamentali nei bambini sono stati invece valutati usando il questionario “Strenght and Difficulties Questionnaire” (SDQ), impiegato per indagare il funzionamento comportamentale e psicosociale, anch’ esso completato da parte dei genitori. Dalle analisi delle informazioni raccolte in questo modo e dalle relazioni emerse, si è evidenziato che l’esposizione all’ FTA nel periodo post-natale, da solo o in associazione con l’esposizione durante la gravidanza, aumenta il rischio di disturbi comportamentali durante la scuola elementare.

Più nel dettaglio: i disturbi emotivi sono associati all’esposizione al fumo di tabacco ambientale sia in periodo pre che post natale, fattore riguardante il 21% dei bambini coinvolti nello studio. In questi bambini anche i disturbi della condotta risultano associati. Queste evidenze si evidenziano anche per l’esposizione solo pre o solo post natale, ma nono meno forti.

Queste osservazioni sembrano confermare ciò che è stato trovato sugli animali, ovvero che la nicotina contenuta nel fumo di tabacco può avere un effetto neurotossico sul cervello. Durante la gravidanza la nicotina contenuta nel tabacco stimola i recettori dell’acetilcolina, e causa cambiamenti strutturali nel cervello. Allo stesso modo nel primo mese di vita l’esposizione al fumo di tabacco causa uno squilibrio proteico che porta a una alterazione nella crescita neuronale.

Questi dati indicano che il fumo passivo, oltre che per il noto effetto negativo sulla salute in generale, dovrebbe essere evitato anche perché può portare a disturbi del comportamento nei bambini una volta raggiunta l’età scolare.

Meares e Il modello conversazionale nella cura dei traumi relazionali – Attaccamento e trauma 2015

Russell Meares chiude questa seconda edizione del Congresso Attaccamento e Trauma, offrendo una panoramica sul modello dissociativo del disturbo borderline di personalità. 

Su State of Mind abbiamo parlato delle diverse giornate del convegno Attaccamento e Trauma: abbiamo scritto della prima giornata e dell’Importanza della contingenza nello sviluppo infantile; abbiamo inoltre riportato quanto detto nella seconda giornata del convegno a proposito di Fiducia Epistemica, resilienza e resistenza al cambiamento. Abbiamo pubblicato il report della terza giornata, incentrata sul Ruolo dell’ emisfero destro, la regressione in terapia e la Schema Therapy e la Cronaca del Convegno (NdR).

Una “dolorosa incoerenza” nell’esperienza del sé è il nucleo centrale della personalità borderline, in cui viene a mancare un senso unitario e coeso del sé. Questa incoerenza può portare i pazienti a stati di vuoto, solitudine e frammentazione, caratterizzati non soltanto da una disconnessione tra elementi del pensiero che di norma procedono di pari passo, ma anche da una connessione tra settori dell’esperienza generalmente separati, come passato-presente, interno-esterno, soggetto-oggetto. Il disturbo borderline può essere l’esito di traumi relazionali precoci che hanno strutturato nel paziente uno o più pattern di attaccamento disfunzionali. Come per tutti gli altri relatori, anche per Meares questi pattern relazionali andranno a replicarsi nelle relazioni successive e a formare nel tempo la struttura della personalità adulta.

La tesi di Russell Meares è che l’alterazione del Disturbo Borderline di Personalità sia un’esperienza di vissuto personale, o di sé, che ricorda il fenomeno della dissociazione.

Partendo dalle teorie di Janet che descrive questo deficit di integrazione come assenza di una “sintesi personale”, e passando dal modello neurobiologico del sé di Jackson sulla distinzione tra una coscienza dell’oggetto – come consapevolezza di un evento, interno o esterno – e coscienza del soggetto – come stato costante, onnipresente, un flusso che definisce l’io -, Meares fa riferimento ad un modello di coscienza caratterizzato dall’ aumento del controllo volontario sulla vita mentale, non determinato direttamente dall’ evoluzione di nuove strutture cerebrali o di nuove forme di tessuto nervoso, ma piuttosto dal continuo riarrangiamento adattivo di strutture esistenti.

Dentro la cornice attaccamentista, la ricerca terapeutica di Meares si concentra su due aspetti fondamentali: da un lato l’attenzione alle parole, al linguaggio e alle narrazioni dei pazienti, come finestra sul loro mondo interiore, da cui deriva il suo Modello Conversazionale di psicoterapia; dall’altro la ricerca di una solida base neuroscientifica che aiuti a comprendere meccanismi neurobiologici sottostanti i sintomi principali di disconnessione nel Disturbo Borderline di Personalità.

A questo proposito risulta interessante lo studio condotto da Meares nel 2003 che propone un’indagine sui meccanismi cerebrali legati agli stati dissociativi nei pazienti con storia di traumi relazionali esitati in una grave disorganizzazione dell’attaccamento. I risultati emersi, grazie all’analisi dei potenziali elettrici evocati (ERP) misurati su singoli eventi, hanno evidenziato la presenza di un sistematico fallimento nella co-ordinazione neuronale di alcuni network che solitamente funzionano insieme e di un deficit di controllo inibitorio dei livelli superiori della mente (corteccia orbito frontale), che si evidenzia in una maggiore ampiezza di alcuni ERP nei pazienti BPD rispetto ai controlli e in una mancata sensibilità all’abituazione, come invece accade nei gruppi di controllo.

Questo comportamento anomalo, che Meares suggerisce di identificare come marker biologico del sé, sembra attribuibile inoltre soprattutto all’emisfero destro, adibito alla funzione di costruzione di una coerenza interna e di sintesi. Sul piano clinico l’approccio conversazionale che propone Meares pone al centro il dato, ormai molto condiviso, che in psicoterapia si instauri non solo una relazione tra due persone, ma anche un’interazione tra due cervelli, in particolare due “cervelli destri”, che nella relazione terapeutica possono trovare una connessione in grado di promuovere un riadattamento più funzionale di circuiti neurali bloccati o non integrati.

L’attenzione del terapeuta conversazionale è dunque orientata ad osservare il linguaggio non solo nei suoi contenuti e significati, ma soprattutto nella sua forma espressiva. In terapia viene utilizzata dal terapeuta una forma di conversazione che sia rievocativa dell’interazione tra emisferi destri di madre e bambino nelle protoconversazioni. Meares definisce questo tipo di scambio “relazionalità analogica” e il metodo che propone prevede l’utilizzo di un linguaggio tipico dell’emisfero destro: abbreviato, con espressioni incomplete, privo di struttura sintattica formale, di pronomi personali, ma con una chiara emotività espressa nella fonologia, nella tonalità e nelle inflessioni della voce.

L’approccio conversazionale muove dall’idea di recuperare una innata capacità umana di sintonizzarsi su questo stile comunicativo analogico attraverso un modello terapeutico complesso e strutturato, che unisce tradizione psicoanalitica e neurobiologia moderna. Il modello di Mears ha il pregio di tornare al linguaggio e alla relazione, senza perdere il legame con le moderne teorie neuroscientifiche, e forse il difetto di aver bisogno di molto tempo per raggiungere una sua più profonda comprensione e applicazione per non rischiare brusche semplificazioni o eccessi di mistero sul processo terapeutico e i suoi principi guida.

 

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Il disturbo borderline di personalità: disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità

BIBLIOGRAFIA:

  • Russell Mears, Un modello dissociativo del disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina Editore, 2014.
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