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E adesso come glielo dico? Come comunicare ai bambini di essere nati da una fecondazione assistita

Ci sono centri nel mondo che si occupano da sempre di studiare gli aspetti psicologici e sociologici delle nuove famiglie. Famiglie con un solo genitore, famiglie separate, famiglie omosessuali, famiglie adottive, famiglie con figli nati dalla procreazione assistita, da maternità surrogate o donatori di gameti. Le famiglie viste così, sono molto varie e colorate. Studiarle significa osservare se ci sono differenze rispetto alle famiglie tradizionali: papà, mamma e figli concepiti naturalmente.

 

Aldilà delle implicazioni o delle osservazioni etiche (spesso sarebbe meglio dire ideologiche) che possono scatenare dibattiti su chi possa essere maggiormente meritevole di chiamarsi famiglia, questi studi offrono degli spunti di riflessione interessanti. E’ di grande attualità il tema della fecondazione assistita, specie in Italia in cui si è cominciato a parlare di eterologa. I numeri sono sempre in aumento, sia delle coppie che si rivolgono ai centri per la fecondazione omologa sia per quelle che si muovono per l’eterologa in Italia anche se i limiti sono ancora tanti e rivolgersi all’estero continua ad essere la via più semplice.

Dal 1978, anno della nascita della prima bambina con fecondazione artificiale, al 2009, sono stati oltre tre milioni nel mondo i bambini nati attraverso le tecnologie riproduttive. Ma la procreazione assistita non è solo una questione di adulti che vogliono essere genitori, ma anche di figli che vogliono capire come sono nati. Così di fronte alla domanda “Mamma, papà come sono nato?” si affacciano nella mente dei genitori dubbi e paure lo dico o non lo dico, e se lo dico, come glielo dico? mi accetterà ancora come genitore? si sentirà diverso/a?͟ ma poi i bambini nati da fecondazione artificiale, sono realmente diversi dagli altri? Gli studi su questo argomento spaziano.

Ad esempio, in uno studio del 2013 viene confrontato la capacità di regolazione emotiva tra bambini nati da maternità surrogate, fecondazione eterologa e concepimento naturale. La questione era se la presenza di un legame biologico (sia genetico o attraverso la gravidanza) incidesse in qualche modo sui bambini che sono stati valutati in tre diverse fasi di vita: a tre, sette e dieci anni attraverso il Strengths and Difficulties Questionnaire. Questo questionario viene somministrato alla madre e all’insegnante quando il bambino ha 7 e 10 anni. Oltre a una valutazione sul bambino è stata analizzata la qualità della relazione tra i genitori, la qualità delle cure materne e lo stato mentale della madre. I risultati mostrano che non ci sono differenze tra bambini concepiti tramite fecondazione eterologa e bambini concepiti naturalmente. Le differenze ci sono tra quelli nati da maternità surrogata e fecondazione eterologa. In particolare i primi mostrano una minor capacità di regolazione emotiva.

Una variabile importante è il grado di distress della madre nello svelare (o nel tener nascoste) le origini biologiche del figlio. A differenza di altri studi, lo svelamento aumentava la disregolazione, probabilmente a causa dello stress comunicato dalla madre. In altri studi, in cui si pone l’attenzione su come e quando parlare ai propri figli, ne emerge che non è il contenuto in sé a mettere in difficoltà, quanto piuttosto il timore che non si venga riconosciuti come genitori a tutti gli effetti. Sono state identificate cinque tipi di storie che vengono usate, a seconda dell’età del bambino, per spiegare come sono venuti al mondo. C’è la storia dell’ aiutante, in cui i genitori insistono sull’idea che hanno avuto bisogno di qualcuno per avere un bambino. L’aiutante può essere un medico o un donatore che ha la caratteristica di essere una persona speciale perché hanno aiutato mamma e papà ad averti. C’è la storia dei pezzi di ricambio, in cui l’attenzione viene messa sul corpo malfunzionante (o rotto) e sulla necessità di trovare una soluzione. C’è la questione delle famiglie diverse, cioè che ci sono famiglie tradizionali e poi quelle speciali in cui manca un genitore o sono entrambi dello stesso sesso o hanno bambini adottivi oppure bambini nati con la fecondazione artificiale. Si pone dunque l’accento sulla varietà e sul valore della famiglia. Ci sono poi genitori che enfatizzano il dolore che hanno attraversato all’idea di non poter essere genitori , la fatica fatta per averlo e la gioia quando hanno trovato il modo di esserlo. Una sorta di travaglio d’amore. Infine c’è la versione più scientifica (dado e bulloni) per bambini che già maneggiano concetti di biologia e di scienze, in cui si usano esplicitamente termini come donatrice di ovuli o donatore di sperma.

E’ dunque chiaro che il problema esista. Ed è un problema sul come comunicare, ma ancora prima è un problema sulla propria inadeguatezza, sulla propria vergogna e sul proprio senso di colpa verso il partner prima e verso il figlio poi. Attraverso la fecondazione eterologa è vero che si offre una grande possibilità a coppie cui altrimenti non rimarrebbe altra via se non l’elaborazione della genitorialità mancata, ma è anche vero che l’elaborazione di tutto questo si colora di delicate sfumature. Ricorrere a un donatore, o a una donatrice, significa fare un passo in più. Si tratta, non solo di rivedere alcuni fondamenti della propria identità che passano, grazie a canali culturali e sociali, attraverso la propria capacità riproduttiva; ma anche confrontarsi con un altro che ha ciò che si vorrebbe avere e, quindi, superare una dinamica agonistica (che altrimenti si vive rispetto alle gravidanze altrui) per trasformarla in aiuto e collaborazione.

Superare la sensazione di essere prima una persona (e una coppia) fallata, permette di non sentirsi un genitore diverso che ha figli diversi. Dunque, ancora prima di essere genitori occorre accettare le difficoltà ad avere figli, la necessità di chiedere aiuto e averne elaborato i vissuti emotivi. Perché è chiaro che se come genitori ci si sente inadeguati, il messaggio che arriverà ai figli non sarà di serenità indipendentemente dal modo in cui sono stati concepiti.

La sindrome del bianconiglio, il tempo che fugge e il tentativo di controllarlo oltremisura

Avere il controllo di qualcosa implica anche il rischio di romperla. La possibilità di scegliere porta con sé la possibilità di sbagliare. Così, può capitare che si definiscano priorità opinabili, che si investa il tempo in una certa direzione, senza avere presente che abbiamo delle scadenze, o quanto meno dei momenti in cui dobbiamo fare un consuntivo.

Il tema del tempo è una cosa che ci portiamo dietro da molto (tempo). L’unica cosa che non si può comprare, che non si può rallentare o accelerare, che va avanti a prescindere da ciò che facciamo. In un periodo storico in cui i mezzi di comunicazione ci permettono di annullare le distanze, i mezzi di trasporto ci aiutano a limare il tempo, a favore di un’operatività sempre maggiore. Possiamo minimizzare tutti i cosiddetti “tempi morti”.

Parallelamente, ci siamo sempre più resi indipendenti dal tempo scandito dalle stagioni e dalle giornate. Possiamo decidere di passare un dicembre a 30 gradi migrando in Paesi diversi dal nostro; con l’allargamento a macchia d’olio del lavoro in remoto e delle collaborazioni in differita, possiamo lavorare di notte e dormire di giorno, gestendo quasi completamente il nostro tempo e ribaltandone la concezione a nostra discrezione. Se un secolo fa la vita dei contadini era scandita dal ritmo delle stagioni e le giornate da quello del sole, ora possiamo fare più o meno tutto ignorando questa alternanza.

Avere il controllo di qualcosa però implica anche il rischio di romperla. La possibilità di scegliere porta con sé la possibilità di sbagliare. Così, può capitare che si definiscano priorità opinabili, che si investa il tempo in una certa direzione, senza avere presente che abbiamo delle scadenze, o quanto meno dei momenti in cui dobbiamo fare un consuntivo.

Sono le storie che sentiamo poi in terapia, ma non solo, di persone che hanno imposto la loro impronta sul tempo e sugli anni, senza considerare che gli anni non sono tutti uguali e che davvero “c’è un tempo per ogni cosa”. Sono le storie di grandi manager che si risvegliano a 50 anni e si sentono molto soli, di grandi donne che a un certo punto hanno chiaro e lampante che il tempo scorre e che alcuni progetti non sono più percorribili. Persone molto in gamba, che vivono con questa “sindrome del Bianconiglio” fino a una certa età, in cui divorano tutto, ottengono tutto, raggiungono tutto, spuntano ogni obiettivo sulla lista. E poi? E poi sono passati 20 anni e alcune porte si sono chiuse senza che neanche se ne accorgessero.

La fregatura spesso è proprio quella, la necessità di dirigere la propria vita al 100% dove si vuole, e la capacità di farlo. Essere bravi a dirigere le cose, essere bravi a gestirle, spesso ti porta a non renderti conto che per alcuni aspetti, soprattutto quelli personali e relazionali, uno dei fattori di buona riuscita è la quotidianità, è proprio quel tempo perso. Perdere tempo insieme, conoscersi insieme, stare nelle situazioni senza dirigere nulla. Perdere treni, spostare confini, spegnere le sveglie.

Sicuramente, la cosiddetta “cultura occidentale” che promuove produttività e tempestività facilita questa corsa continua verso il prossimo obiettivo. Forse anche a partire da questo, negli ultimi tempi abbiamo assistito a un buon successo di tutte quelle tecniche o quegli approcci che prevedono una visione più globale dell’esistenza e del ruolo del tempo in essa, come l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Strosahl & Wilson, 1999), in cui si parla sì di disturbi e di problematiche specifiche, ma si parla anche di direzionalità, di ambiti di vita, di investimento. Paradossalmente, in un contesto come quello attuale in cui possiamo muoverci in ogni direzione e in cui possiamo teoricamente essere ovunque e fare qualunque cosa, quello che dobbiamo imparare a fare è semplicemente stare fermi.

Come quando un secolo fa ci si alzava con l’idea di seminare ma si doveva restare a casa perché pioveva e in inverno, comunque, alle 16 si smetteva di lavorare perché non c’era più luce a sufficienza. Abbiamo capito come smontare il giocattolo, con il rischio di non saperlo rimontare. Allora forse, dopo aver capito come renderci indipendenti dal tempo, la soluzione per trovarci coerenti con noi stessi è lasciare che il tempo ci vincoli un po’ di più, rimanere fermi mentre sentiamo che i 50 anni non sono più i 40, che i 40 non sono più i 30 e che alla fine va benissimo così. Smettere di combattere e di sbatterci in ogni direzione, rimanere fermi nella consapevolezza che in un generalizzato caos, il tempo è una delle variabili che possono darci sicurezza, perché comunque in una giornata le ore sono 24. E, anche se non ci piace, sono 24 lo stesso.

Spesso quello che facciamo è anticipare quello che sarà, per poi avere nostalgia di quello che avrebbe potuto essere. E quello che è, è l’unica cosa che ci rifiutiamo di considerare.

Il futuro, il futuro! È la nostra cultura, basata su ciò che potremmo essere, compreso l’Evangelio (sia detto con il dovuto rispetto) perché di noi sarà il Regno dei Cieli, tempo futuro, insomma, l’avvenire, visto che il passato è un disastro e il presente non ci basta mai. E niente, sai, davvero niente basta, nemmeno le ginestre che fioriscono a maggio per chi sa vederle e che io guardavo senza vedere, come di solito facciamo tutti, fino a cadere nella nostalgia dell’irreversibile, che è la tomba definitiva di tutti quelli come noi. (Tabucchi, 2009)

Allora forse la saggezza sta nella capacità di riprenderci il vincolo del tempo e delle stagioni, e stare felicemente imbrigliati in una cosa che invece di darci dei limiti ci dà una struttura.

[blockquote style=”1″][…] e per riaddormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a macchia e si perda. […] E poi ti direi di certe notti in cui parlavamo, di quella casa sul mare, di certi momenti a Roma, dell’Aniene, e di altri fiumi che abbiamo guardato insieme pensando che essi scorressero soli, senza accorgerci che noi scorrevamo con loro.[/blockquote] (Tabucchi, 2009).

Alessitimia: come si manifesta nell’adolescenza?

Grazia Artoni, Martina Atti, Enrica Giaroli e Susanna Paterlini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Nell’adolescenza, forse più che nelle altre fasi del ciclo di vita, la sfera emotiva gioca un ruolo fondamentale. L’ambivalenza emotiva degli adolescenti, inevitabile in un percorso di crescita in cui la personalità e l’identità non si sono ancora strutturate, si riflette in tutti gli aspetti del loro percorso evolutivo. Negli ultimi anni, la ricerca nell’ambito del modello della regolazione affettiva e dell’alessitimia ha evidenziato la presenza di tale dimensione anche tra gli adolescenti.

LEGGI ANCHE: (1) Introduzione – (2) L’alessitimia in età evolutiva

 

I lavori di ricerca tendono a confermare la relazione, ampiamente descritta in età adulta, tra alessitimia e sviluppo della psicopatologia anche nell’età evolutiva.
Mettendo a confronto due studi su adolescenti (Joukamaa et al., 2007; Säkkinen, Kaltiala-Heino, Ranta, Haataja, & Joukamaa, 2007) con due studi sulla popolazione anziana (Joukamaa, Saarijärvi, Muuriaisniemi & Salokangas, 1996; Gunzelmann, Kupfer & Brähler, 2002), la prevalenza dell’alessitimia si riscontra fra l’8% e il 16% negli adolescenti, mentre fra il 33% ed il 39% negli anziani. Onnis, Gentilezza, Granese & Ierace (2009), invece, riportano che gli adolescenti presentano livelli di alessitimia superiori rispetto agli adulti. Quindi, vi è discordanza riguardo la percentuale di incidenza di questo costrutto in adolescenza.

Alcuni studi mostrano una relazione tra alessitimia e sintomi fisici in bambini e adolescenti della popolazione generale (Ebeling, Moilane, Linna & Räsänen, 2001; Rieffe, Meerum Terwogt, & Bosch, 2004; Rieffe, Oosterveld & Meerum Terwogt, 2006; Rieffe et al., 2010; Allen, Lu, Tsao, Hayes & Zeltzer, 2011), mentre altri lavori riscontrano alti punteggi di alessitimia in bambini e adolescenti con specifiche patologie fisiche (ad es. disturbi ematici: Fukunishi, Yoshida & Wogan, 1998; diabete: Koski, Holmberg & Torvinen, 1988; mal di testa cronico: Gatta et al., 2011; cancro: Mishra, Maudgal, Theunissen & Rieffe, 2012).

Alcuni lavori evidenziano negli adolescenti un rapporto tra l’alessitimia e la presenza di sintomi internalizzanti, quali ansia, depressione, sintomi somatici e ipercontrollo (Honkalampi et al., 2009; Rieffe et al., 2010; Di Trani et al., 2013) ed esternalizzanti, quali difficoltà di controllo degli impulsi con condotta aggressiva anche di tipo sessuale (Moriarty, Stough, Tidmarsh, Eger & Dennison, 2001).

Circa la valutazione delle competenze emotive in campioni clinici, rispetto a gruppi di controllo sani, si riscontrano alti livelli di alessitimia in bambini/adolescenti con diversi disturbi del comportamento alimentare (Greenberg, 1999; Merino, Godès & Pombo, 2002; Zonnevylle-Bender, van Goozen, Cohen-Kettenis, van Elburg & van Engeland, 2004). D’altra parte, in altri studi su campioni non clinici, emerge che rispetto ai problemi del comportamento alimentare vi sono relazioni tra alessitimia e body checking (Carano et al., 2006).

E’ molto stretta anche l’associazione tra alessitimia e numerosi disturbi caratterizzati da una condizione di dipendenza, che può manifestarsi nei confronti di una sostanza chimica (dipendenza da alcol e disturbo da uso di sostanze) come nel caso della dipendenza da cannabis (Dorard, Berthoz, Phan, Corcos & Bungener, 2008), ma anche nei confronti di particolari comportamenti, per lo più leciti e socialmente accettati (dipendenze comportamentali). La dipendenza patologica rappresenta una condizione o una serie di condizioni dettate dall’incapacità di riconoscere vissuti emotivi, i quali, vengono “attutiti” appunto mediante l’uso di sostanze o il ricorso a particolari comportamenti (Martinotti, Hatzigiakoumis & Janiri, 2010).
Da uno studio condotto da Parker, Wood, Bond & Shaughnessy (2005) su studenti liceali canadesi, si deduce che una combinazione di alessitimia, esperienze dissociative, bassa autostima e discontrollo degli impulsi può costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di internet addiction legato al gioco patologico, almeno in un campione non clinico.

Alti livelli di alessitimia, inoltre, vengono evidenziati in soggetti con disturbo post traumatico da stress (Ledouc, 2002) e in soggetti che hanno subito abusi e maltrattamenti (Paivio & McCulloch, 2004). Studi su questi ultimi, infatti, mettono in luce il ruolo dell’alessitimia come mediatore tra maltrattamento infantile e autolesionismo in un campione di ragazze adolescenti. Da tale studio (Paivio & McCulloch, 2004) emerge che l’alessitimia può essere intesa come un meccanismo di coping, in particolare un evitamento cognitivo delle emozioni associate all’abuso. I risultati sembrano a favore di un modello causale in cui il deficit di consapevolezza ed espressione delle emozioni favorisce il legame tra una storia di maltrattamento infantile e le successive condotte autolesive. Infatti, le difficoltà emotive che incontrano gli adolescenti vengono spesso vissute con un’enfasi sul corpo indicando la complessità nell’entrare in contatto con le proprie emozioni, a livello tanto corporeo quanto psicologico. I comportamenti autolesionistici sono caratterizzati dall’intenzionalità di farsi del male, sia in senso fisico che psicologico e a volte si associano a intenzioni suicidarie. Studi su popolazioni cliniche di adolescenti nelle comunità terapeutiche (Marchetti & Cavalli, 2013) rilevano una prevalenza del fenomeno quasi doppia rispetto alla popolazione generale. Si parla, in questi casi, di un deficit nella competenza emotiva: non solo chi compie atti autolesivi vive molte emozioni negative, che fatica a regolare, ma presenta anche difficoltà nell’esperienza, nella consapevolezza e nell’espressione delle emozioni. Gli studi sugli adolescenti relativi a questo ambito sottolineano la presenza di isolamento emotivo e l’incapacità di comunicare le proprie emozioni, aspetti del costrutto dell’alessitimia.

Una forma diversa di abuso connesso all’autolesionismo viene indagata da Garisch e Wilson (2010) in studenti di scuola superiore, mostrando come l’alessitimia sia un mediatore importante tra l’essere vittima di bullismo e le condotte autolesive. Secondo gli autori l’alessitimia contribuirebbe a isolare le vittime di bullismo dalle reti sociali positive e ostacolerebbe il coping relativo alle conseguenze emotive degli stress sociali. Questo legame tra alessitimia e autolesionismo è ulteriormente rafforzato dalla presenza di eventuali stati depressivi nell’adolescente.

Studi sulla popolazione generale riscontrano una relazione anche tra alessitimia e sintomi dissociativi (Sayar & Kose, 2003; Sayar, Kose, Grabe & Topbas, 2005), che può essere spiegata dalla funzione svolta dai processi dissociativi nel gestire gli stati emotivi attraverso l’alterazione dello stato di coscienza. Già vent’anni fa, infatti, sono stati confrontati i punteggi ottenuti a due test, la TAS-20 e la DES (Dissociative Experiences Scale, forma A; Armstrong, Putnam, Carlson, Libero & Smith, 1997), da un gruppo di adolescenti di una casa alloggio della Sicilia, con un gruppo di controllo appartenente alla popolazione generale. I risultati hanno evidenziato correlazioni positive tra i punteggi dei test utilizzati e punteggi più elevati sono stati rilevati nel gruppo clinico. Questa differenza è in relazione con le esperienze traumatiche che gli adolescenti hanno sperimentato fin dalla prima infanzia.
In una ricerca recente (Tolmunen et al., 2008) viene indagata la relazione tra dissociazione e alessitimia in un ampio campione di adolescenti appartenenti alla popolazione generale della Finlandia. I risultati sottolineano che i fenomeni dissociativi, oltre che essere correlati con diversi indici di psicopatologia, sono significativamente associati con le caratteristiche alessitimiche. Questi risultati sono a sostegno dell’ipotesi che l’alessitimia e la dissociazione, pur costituendo fenomeni distinti, presentano alcuni aspetti comuni e di sovrapposizione.

Queste ricerche sottolineano e confermano l’importanza delle emozioni nello strutturare le rappresentazioni interne di sé e delle interazioni (Emde, 1999), avendo questi effetti di integrazione, organizzazione, sostegno allo sviluppo, soprattutto nella fase adolescenziale. [blockquote style=”1″]Le emozioni rappresentano una “fonte di informazione” sulla propria identità, sui propri bisogni personali e sulle azioni necessarie a soddisfare tali bisogni[/blockquote] (Dafter, 1996).

Quali strumenti utilizzare per misurare l’alessitimia in adolescenza?

Attualmente gli strumenti esistenti in questo campo sono davvero pochi e la ricerca, nonostante la possibile rilevanza clinica delle osservazioni, appare ancora ad uno stadio iniziale.

Gli strumenti per la misurazione dell’alessitimia in adolescenza sono l’Alexithymia Questionnaire for Children (AQC) (vedasi sopra), che comprende una fascia di età fino ai 14 anni. L’AQC è, però, uno strumento per l’età evolutiva che comprende anche l’adolescenza e non è specifico solamente per questa fase evolutiva. Altro strumento è la Scala Alessitimica Romana (SAR) che può essere utilizzata anche dagli operatori non psicologi (insegnanti, pedagogisti, operatori sociali) e somministrata a partire dai 15 anni di età. Altro strumento è il Multidimensional Alexithymia Questionnaire (MAQ) (Catalano, Blandi, & Miragliotta, 2007) utilizzato dai 16 anni in poi.

Vi sono, inoltre, studi che stanno andando verso la validazione della TAS-20 anche per adolescenti.
Säkkinen, Kaltiala-Heino, Ranta, Haataja, & Joukamaa (2007) valutano la struttura fattoriale della TAS-20 in 882 adolescenti Finlandesi dai 12 ai 17 anni, riscontrando che la migliore soluzione fattoriale era quella a tre fattori tipica degli adulti (Difficoltà a Identificare i Sentimenti, DIS; Difficoltà a Descrivere i Sentimenti, DDS; Pensiero Orientato all’Esterno, POE). Anche Zimmermann e al. (2007) confermano la struttura a tre fattori della TAS-20 in 264 adolescenti francesi dai 14 ai 19 anni, riscontrando però gli stessi problemi di attendibilità evidenziati da Säkkinen et al. (2007). Parker, Eastabrook, Keefer & Wood (2010) effettuano delle analisi fattoriali confermative, per verificare la struttura a 3 fattori, su 734 adolescenti dai 13 ai 18 anni, ma dividendo il campione per fasce di età (13-14 anni prima adolescenza, 15-16 media adolescenza, 17-18 tarda adolescenza) e confrontandolo con un gruppo di 267 giovani adulti dai 19 ai 21 anni. Come previsto, la struttura fattoriale è risultata essere stabile, con differenze tra le varie fasce di età.

In Italia un primo passo verso la validazione della TAS-20 su popolazione adolescenziale è stato effettuato da La Ferlita, Bonadies, Solano, De Gennaro & Gonini (2007), con uno studio di tipo esplorativo effettuato su 360 studenti con un’età media di 16,13 anni, che ha mostrato una struttura fattoriale diversa da quella degli adulti. Sono stati infatti estratti 4 fattori, di cui i primi due (Difficoltà a Identificare e Difficoltà a Descrivere i Sentimenti) corrispondono quasi completamente a quelli degli adulti, mentre il terzo fattore originale è risultato scomposto in due fattori, denominati rispettivamente “Difficoltà nel Contatto e nell’Utilizzo delle Emozioni” e “Pensiero Orientato all’Esterno”.

E’ plausibile, quindi, se si considera l’aspetto evolutivo della competenza emotiva nei bambini e negli adolescenti, che le difficoltà emotive in queste fasce di età possano assumere caratteristiche espressive diverse dall’età adulta. Inoltre, avere la possibilità di evidenziare nuove dimensioni, permette di ottenere una misura più precisa e specifica delle abilità emotive, ma apre a ulteriori prospettive di ricerca.

Esiste un trattamento per gli adolescenti?

La letteratura sembra indirizzare verso terapie di supporto, terapie a orientamento cognitivo o a forme modificate di terapia psicodinamica (Cantelmi & Sarto, 1999; Taylor, Bagby & Parker, 1997).
Particolarmente nelle prime fasi della terapia, deve essere dato molto spazio all’educazione emotiva, così che gli adolescenti imparino in modo graduale a sostituire le parole (che descrivono i loro stati interni) alle azioni disadattive, come l’ingestione di una droga o di cibo, o ai sintomi fisici.

L’adolescente impara, così, a differenziare le proprie emozioni e ad esternarle per mezzo del linguaggio, comincia a conoscere e “mentalizzare” il proprio mondo interno, a dare senso alla propria storia, ad integrare le esperienze vissute in un quadro significativo. Per incrementare la consapevolezza delle proprie sensazioni corporee e del legame tra queste ultime, gli eventi ambientali e le proprie capacità di autoregolazione, si possono utilizzare anche tecniche di rilassamento, il training autogeno e il biofeedback (Cantelmi & Sarto, 1999).

L’alessitimia nell’adolescenza va considerata, dunque, come possibile fattore predisponente ad una psicopatologia adolescenziale o adulta, come mediatore degli effetti di situazioni traumatiche o comunque svantaggiate, ma anche e soprattutto come indice evolutivo di sviluppo della capacità di regolazione affettiva (La Ferlita et al., 2007).

La psicoterapia è un trattamento biologico

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Si ritiene generalmente che la psicoterapia vada bene solo per problemi che hanno una base psicologica, mentre per i problemi legati allo scompenso di sostanze cerebrali siano indicate solo le cure farmacologiche.

E’ uscito qualche giorno fa su Stateofmind un articolo molto interessante sui rapporti tra psicoterapia e modificazioni neurali, ne voglio riassumere qui il concetto principale. Il mio naturalmente è un interesse di parte, ma magari è utile anche a chi è meno “di parte” di me.

Alcune ricerche scientifiche evidenziano che la psicoterapia produce modificazioni nel cervello, esattamente come un agente chimico. Negli ultimi anni le neuroscienze hanno studiato approfonditamente quella che viene chiamata plasticità neurale, cioè la capacità del cervello di modificarsi sia durante lo sviluppo che da adulto, a seguito di esperienze e influenze ambientali, pensiamo per esempio ai processi di apprendimento e di memoria.

Un articolo di Patrizia Mattioli

La psicoterapia è un trattamento biologico – Il Fatto QuotidianoConsigliato dalla Redazione

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Mangiare sano per prevenire la depressione

Irene Rossi

Secondo quanto indicato da una ricerca pubblicata recentemente sul giornale BMC Medicine, seguire una dieta sana, come quella mediterranea, che comprende frutta fresca e secca, verdure e legumi ed un basso quantitativo di carne, si associa alla prevenzione della comparsa di depressione.

Il filone di studi che si occupa di studiare la relazione tra alimentazione e salute fisica ormai da diversi anni risulta essere molto ricco di indagini sempre più approfondite. Solo più recentemente i ricercatori hanno cominciato ad orientarsi anche verso l’indagine della relazione esistente tra nutrizione e salute mentale.

Lo studio condotto dalla Dott.ssa Almudena Sánchez-Villegas e dai suoi collaboratori si colloca proprio in quest’ottica, ed è il primo che vede raffrontati sistematicamente diversi programmi di dieta e la loro associazione con il rischio di depressione.

I partecipanti coinvolti hanno usato un sistema di punteggio per misurare la loro aderenza ad una dieta salutare selezionata, in modo che un punteggio alto indicava che il soggetto stava seguendo una dieta sana. Alimenti come carne e dolci (fonti di grassi animali: saturi e e acidi grassi) erano punteggiati negativamente, mentre la frutta secca, fresca e verdura (fonti di omega 3, vitamine e minerali) venivano punteggiate positivamente.

Lo studio ha incluso 15.093 partecipanti, non affetti da depressione al momento dell’inizio della ricerca. Tutti i partecipanti erano ex studenti del’Università di Navarra, in Spagna, e facevano parte del progetto SUM (Seguimiento Universidad de Navarra), uno studio di coorte iniziato il 21 dicembre 1999, che ha seguito i laureati nel corso degli anni monitorandone con questionari periodici stili di vita e varie malattie, tra cui diabete, obesità e depressione. Questionari per valutare la dieta alimentare sono stati completati all’inizio del progetto e di nuovo dopo 10 anni. Un totale di 1.550 partecipanti ha riferito una diagnosi clinica di depressione o l’uso di farmaci antidepressivi dopo un follow-up mediano di 8,5 anni.

L‘analisi dei dati raccolti in questo modo ha portato a concludere che le abitudini alimentari che più aderivano all’Alternative Healthy Eating Index-2010 erano associate con la maggior riduzione del rischio di depressione.

L’Alternative Healthy Eating Index-2010 prevede un elevato consumo di frutta e verdura, cereali integrali, acidi grassi polinsaturi, noci, grassi omega-3 e un basso apporto di carni rosse e trasformate, cereali raffinati, zucchero e bevande dolcificate. Appaiono evidenti le somiglianze con la dieta Mediterranea, che ne confermano i risvolti positivi per la salute di chi la segue. Così, nutrienti comuni e prodotti alimentari come gli acidi grassi omega-3, verdura , frutta, legumi e noci sembrerebbero responsabili della riduzione del rischio di depressione.

Secondo Sanchez-Villegas potrebbe esserci però un effetto soglia. L’effetto protettivo verso la depressione si verifica quando i partecipanti iniziano a seguire una dieta più sana. Anche una moderata aderenza a questo modello alimentare sano è stata associata ad una riduzione importante del rischio di sviluppare la depressione. Tuttavia, non è stato trovato alcun beneficio aggiuntivo quando i partecipanti hanno aumentando i livelli di aderenza da moderati a elevati o molto elevati.

Superata una certa soglia, quindi, la riduzione del rischio raggiunge un plateau e smette di aumentare. Perciò non è necessario aderire in modo drammatico ed esasperato ad una dieta sana per assicurarsi i benefici che i giusti di nutrienti possono fornire alla nostra salute.

La pedofilia: un problema che risiede nella mente, non nel livello del testosterone

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La castrazione chimica non serve a fermare i pedofili

Un medico, uno psichiatra e una psicologa spiegano l’inutilità della castrazione chimica. La sessualità non è solo un fatto ormonale, i rischi per le vittime restano

Pedofili e stupratori si possono veramente fermare con la castrazione chimica, come invocano Salvini e la Lega Nord (l’unica proposta di legge a riguardo fu presentata anni fa proprio dal leghista Calderoli), insieme ad altri esponenti del centrodestra come Alessandra Mussolini, spesso fotografata con cartelli che ne chiedono l’introduzione nel sistema giudiziario italiano? Inibire chimicamente soggetti che si sono macchiati di crimini contro bambini e donne, risolve il problema? O sull’argomento regna sovrana la confusione e anche le disgraziate attenzioni subite dalle vittime di pedofilia e violenza di genere, sono soltanto l’ulteriore occasione di parlare alla “pancia” degli italiani per fini politici? Forse è arrivato il momento di fare chiarezza su un “rimedio” che ad ogni nuovo caso di cronaca viene rilanciato come l’unica via d’uscita possibile, una sorta di “soluzione finale” che, come vedremo con l’aiuto di tre esperti (un medico, uno psichiatria e una psicologa, interpellati da Linkiesta) di fatto non contrasterebbe pedofilia e violenza sessuale…

La pedofilia è un problema che risiede nella mente, non nel livello del testosteroneConsigliato dalla Redazione

Un medico, uno psichiatra e una psicologa spiegano l’inutilità della castrazione chimica. La sessualità non è solo un fatto ormonale, i rischi per le vittime restano (…)

Tratto da: Linkiesta.it

 

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La vocazione della psiche. Undici terapeuti si raccontano (2015) a cura di N. Janigro – Recensione

Il libro offre un’occasione per confrontare racconti su come diversi terapeuti hanno deciso di intraprendere il loro mestiere; su come è nata la loro vocazione.

Libri nei quali vengono messe a confronto teorie, pratiche cliniche, persino tecniche di supervisione proprie di diverse scuole psicoterapeutiche sono diventati, nel corso degli anni, abbastanza frequenti. Molto più rara è l’occasione di confrontare racconti su come diversi terapeuti hanno deciso di intraprendere il loro mestiere; su come è nata la loro vocazione, per utilizzare l’espressione usata dalla curatrice. Si potrebbe sostenere, con un paradosso, che l’organizzazione del libro è piuttosto diversa da come ci si aspetterebbe, ma forse proprio questa circostanza ne costituisce il motivo di maggiore interesse. Proviamo a spiegare per quale motivo.

Certamente gli undici terapeuti scelti sono figure di rilievo nell’ambiente clinico e vantano una notevole attività pubblicistica alle loro spalle: tutti hanno scritto almeno due libri e la maggioranza di loro ha almeno dieci libri al proprio attivo (anche non direttamente correlati con la pratica terapeutica), senza contare il numero sterminato di articoli e interventi a proprio nome. Ci si aspetterebbe tuttavia, in un simile contesto, una scelta rappresentativa di scuole e di ambienti socio-culturali differenti. Al contrario il campione è stranamente omogeneo: dieci su undici dei prescelti sono milanesi di nascita o di adozione (fa eccezione il torinese Franco Borgogno). Dieci su undici (ancora) sono di orientamento psicodinamico (solo Fabio Giommi è un cognitivista). Dei dinamici, sei sono di formazione e orientamento junghiano e dei sei due sono sposati tra di loro (Luigi Zoja e Eva Pattis). Un settimo, cioè Vittorio Lingiardi, nasce junghiano ma si è poi spostato su un orientamento relazionale. Lo stesso Lingiardi e Fabio Madeddu hanno curato insieme un libro di notevole importanza per la formazione degli psicologi, ovvero I meccanismi di difesa (Cortina). Gli altri tre sono psicoanalisti, pur se di orientamento diverso. Con una sorta di curiosa forma di paraprassia, poi, uno di loro (Borgogno), intitola il proprio intervento Ricordi, sogni, riflessioni come l’autobiografia di Carl Gustav Jung.

Proprio la relativa omogeneità, tuttavia, finisce per costituire la più forte conferma della considerazione che sorge spontanea dopo la lettura del libro: non esiste probabilmente un profilo di personalità caratteristico dell’aspirante medico della psiche. Ognuno degli undici terapeuti racconta di sé una storia profondamente diversa da quella degli altri, per tipologia familiare, rapporto con i genitori, interessi giovanili, avvicinamento alla professione. Diversi sono gli stili narrativi, le motivazioni, la disponibilità ad aprirsi e soprattutto le reticenze, che spesso costituiscono il motivo di maggiore interesse per il lettore professionista nel ramo.

C’è chi racconta un profondo travaglio interiore al fondo della propria scelta e chi lo metaforizza (o se si vuole lo intellettualizza) parlando dell’ambiente culturale. C’è chi chiama in causa, quali autori chiave della propria formazione, Goethe e Shakespeare, Pasolini e Dickinson, Frost e Borges, Melville e Schnitzler; come c’è chi non esce dal seminato della psicologia dinamica. C’è chi si definisce terapeuta per caso e chi per passione. Curiosamente, nessuno degli undici terapeuti ha alle proprie spalle studi universitari di Psicologia: alcuni sono medici, altri laureati in Filosofia (Màdera può essere definito un filosofo oltre che un analista), ma c’è anche chi ha studiato Giurisprudenza (Marina Valcarenghi), Filologia romanza (Giulia Valerio) ed Economia (Zoja).

La ragione della circostanza è essenzialmente anagrafica: si tratta soprattutto di terapeuti esperti, laureatisi prima della Legge del 1989 se non prima della stessa istituzione del corso di laurea in Psicologia. Se tuttavia un giovane aspirante psicologo difficilmente potrà rispecchiarsi nei percorsi illustrati nel libro, potrà invece constatare la pluralità delle anime che hanno contribuito allo svilupparsi della professione psicoterapeutica in Italia.

Forse agli undici terapeuti del libro, potrebbero essere attribuiti due tratti fondamentali in comune: una profonda curiosità intellettuale e una (correlata) tendenza anti-dogmatica. La curiosità culturale è testimoniata da un lato dalla varietà delle rispettive formazioni e dall’altro da un’identità che spesso si spinge oltre l’essere univocamente professionista della psicoterapia.

Giommi, per esempio, scrive di aver aderito alla tesi di Bruno Bara per cui essere terapeuta non può costituire un lavoro a tempo pieno. Zoja rivela di dedicare ormai all’attività clinica non più di due giorni a settimana, per votarsi negli altri alla scrittura. In diversi casi (la maggioranza) l’identità politica e l’impegno sociale giocano o hanno giocato un ruolo fondamentale; in altri casi lo hanno svolto l’arte e la poesia. Scrive Lingiardi al riguardo:

Il mio modo di stare al mondo, di guardare le cose, è attraversato da due correnti, una poetica e una politica. Le ho sempre considerate alternative, se non nemiche. Ora ho capito che devono convivere e possono sostenersi a vicenda (p. 89).

Zoja vede il contributo dell’analisi come una terapia della civiltà (p. 197). Giommi viene ancora in aiuto per illustrare l’antidogmatismo prevalente, quando, parlando del proprio periodo di formazione, afferma:

La sola cosa chiara era l’insoddisfazione per quello che via via mi si proponeva, l’impossibilità di essere persuaso (p. 52).

I racconti autobiografici, pur riportando ampi debiti di gratitudine, pullulano di riferimenti a mostri sacri della storia della psicoterapia italiana (ovviamente soprattutto della psicoanalisi e della psicologia analitica) piuttosto demistificanti. L’irritazione verso l’analista che rimane in silenzio, la perplessità verso chi fa in prima persona libere associazioni invece di lasciarle fare all’analizzando, l’ironia verso chi dall’alto della propria posizione scoraggia un giovane che diventerà a sua volta un terapeuta famoso, la rabbia verso il teorico che pontificava idee oggi considerate aberranti: sono tutti sentimenti che nel libro compaiono, in modo più aperto o più velato. Soprattutto però emerge l’apertura verso la diversità e la contaminazione, verso una concezione delle teorie come modelli probabili in evoluzione; come strumenti da impiegare per la loro valenza clinica da confrontare sul campo.

Orientamento alla dominanza sociale ed Autoritarismo di Destra: un confronto di due nuove scale psicometriche

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Orientamento alla dominanza sociale ed Autoritarismo di Destra: un confronto di due nuove scale psicometriche

Autore: Vincenza Natascia La Gatta (Università degli Sudi di Roma La Sapienza)

Abstract

In psicologia sociale e politica, si possono annoverare un numero cospicuo di ricerche che, in ambito internazionale, si sono focalizzate sui fattori determinanti i diversi atteggiamenti ed orientamenti politici, assumendo come presupposto una concettualizzazione dell’ideologia lungo un continuum sinistra-destra.

Un differente filone di ricerche, invece, prende impulso dalla tesi che una sola misura polarizzata sia riduttiva, incompleta ed incapace di cogliere convenzioni politiche più trasversali ed eterogenee. Su questa scia, il seguente elaborato intende dimostrare che la personalità autoritaria non è riconducibile ad un modello monodimensionale bensì può essere spiegata attraverso una visione multifattoriale.

Abstract (English)

In social psychology and politics, may include a large number of studies that, internationally, has focused on the determinants of the different attitudes and political orientations, taking as a basis a conceptualization of ideology along a left-right continuum.

A different line of research, however, takes the view that a single pulse polarization measurement is simplistic, incomplete and unable to grasp political conventions cross more heterogeneous. On this track, the following will demonstrate that developed the authoritarian personality is not attributable to a one-dimensional model but can be explained by a multifactorial view.

 

Key words: Orientamento politico, Autoritarismo, Dominanza Sociale, Matrice determinante, Prospettiva multifattoriale

ALLEGATO 1ALLEGATO 2

 

Alessitimia e psicopatologia: un’analisi evolutiva – L’alessitimia in età evolutiva

Artoni Grazia, Atti Martina, Giaroli Enrica e Paterlini Susanna – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Nel bambino, come nell’adulto, l’alessitimia rappresenta una difficoltà a sentire e modulare i propri sentimenti, a parlare e pensare su affetti ed emozioni proprie ed altrui. I bambini, come gli adolescenti e gli adulti alessitimici, hanno una relazione con sé e con il mondo esterno che esclude il riferimento agli stati emotivi.

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Il loro cogliersi nel mondo sembra riferito ad aspetti meramente descrittivi e tangibili (come il vissuto corporeo) e quando tentano di immaginare qualcosa al di là dell’osservabile il loro vissuto perde vividezza.

In età evolutiva, però, a fronte di una grande quantità di studi che ribadiscono la centralità della crescita emotiva nel normale sviluppo psichico di una persona, si osserva un ridotto numero di ricerche che abbiano come oggetto di studio l’alessitimia. Ciò può essere dovuto anche alla mancanza fino a tempi recenti di strumenti psicometrici per la valutazione del costrutto in questa fascia d’età.

Rieffe et al. (2006) hanno validato l’Alessitimia Questionnaire for Children (AQC), una versione semplificata della 20-Item Toronto Alessitimia Scale per adulti (TAS-20), su un campione di bambini di 9-14 anni. Il questionario mantiene i 20 items della scala per adulti ricalcando gli stessi contenuti ma con un riadattamento linguistico che ne facilita la comprensione ai bambini. La scala presenta buone caratteristiche psicometriche ed una struttura a 3 fattori che riprende quella della TAS-20 (Difficoltà a Identificare i Sentimenti, DIS; Difficoltà ad Esprimere i Sentimenti, DDS; Pensiero Orientato all’Esterno, POE).

Prima di loro Fukunishi et al. (1998) avevano sviluppato in Giappone una Scala di Alessitimia Bambino/Insegnante, basata cioè su una valutazione del bambino da parte degli insegnanti. L’analisi fattoriale ha portato a mantenere 12 item che saturano due fattori: Difficoltà a descrivere i sentimenti e Difficoltà nel rapportarsi con gli altri. La scala ha inoltre mostrato una correlazione con i punteggi di depressione, carenza di cooperazione, dominanza (correlazione negativa) e estroversione sociale (correlazione negativa).

Recentemente Di Trani et al. (2009) hanno sviluppato una versione italiana del Questionario per l’Alessitimia in età evolutiva proposto da Rieffe e collaboratori (2006) e ne hanno testato la struttura fattoriale e l’attendibilità. Scopo degli autori era anche quello di indagare la struttura fattoriale del questionario assumendo che l’alessitimia possa presentare in età evolutiva caratteristiche diverse da quelle riscontrabili in età adulta. Il questionario italiano mantiene, come la scala originaria, 20 item con tre alternative di risposta (per niente vero, un po’ vero, vero). E’ stato utilizzato un campione di 576 bambini di età compresa tra gli 8 e i 14 anni suddivisi in due fasce d’età (8-10 e 11-14 anni) secondo il criterio cronologico genericamente utilizzato per definire il passaggio dall’età infantile alla prima fase dell’adolescenza. L’analisi dei dati raccolti ha permesso di evidenziare la presenza di quattro fattori di cui tre si sovrappongono a quella della versione per adulti (Difficoltà ad identificare i sentimenti, DIS; Difficoltà a descrivere i sentimenti, DDS e Pensiero orientato all’esterno, POE), mentre si evidenzia la presenza di un nuovo fattore denominato dagli autori ‘Confusione delle sensazioni fisiche, CSFi, che include gli item che fanno riferimento al corpo e a come ci si sente dentro.

Le verifiche empiriche sembrano, quindi, confermare che la capacità di regolazione emotiva si esplichi, in età evolutiva, attraverso componenti relativamente diverse da quelle osservate per l’età adulta. Mentre gli aspetti di contatto ed espressione delle emozioni sembrano rimanere alla base del costrutto dell’alessitimia, l’analisi su campioni con diverse età permette di rilevare delle componenti specifiche. In questa ricerca, infatti, è stato possibile osservare la presenza di un fattore specifico, la Confusione sulle sensazioni fisiche, che pone l’attenzione sugli aspetti corporei dell’esperienza emotiva. Gli autori ipotizzano che, in questa fascia d’età, appaia di particolare importanza la considerazione delle percezioni corporee nella definizione del contatto con le emozioni. Per quanto riguarda i confronti rispetto al genere sessuale e le fasce d’età non si rilevano differenze tra maschi e femmine, mentre emerge che i bambini di fascia d’età 8-10 anni presentano punteggi mediamente più alti nella scala rispetto alla fascia 11-14. Secondo gli autori il dato, più che evidenziare caratteristiche alessitimiche in questa fascia d’età, sembra rappresentare la presenza di un percorso di sviluppo delle competenze emotive ancora non completamente realizzato.

Per bambini in età prescolare, nonostante siano presenti in letteratura diversi strumenti per valutare le competenze emotive, nessuno di essi si fonda sul concetto di alessitimia. Tali strumenti sono dei compiti in cui viene chiesto al bambino di riconoscere le emozioni, descriverle, raccontare storie su di esse ecc., non essendo possibile somministrare degli strumenti self-report.

Alessitimia e attaccamento: quale correlazione?

Per quanto riguarda l’alessitimia e i disturbi dello sviluppo emotivo è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento.

In linea con le osservazioni dell’Infant Research il costrutto dell’alessitimia è stato apparentato a quello di Regolazione Affettiva, funzione strettamente legata al rapporto con l’accudente che, specie nelle prime fasi di vita, interviene a regolare le emozioni del neonato e del lattante (Solano, Capozzi, De Gennaro et al., 2007).

Studi osservativi condotti su neonati nell’interazione con il caregiver principale (di solito la madre) hanno mostrato che nel bambino è rintracciabile, fin dai primi mesi di vita, capacità di espressione e comprensione delle emozioni che gli permettono di sintonizzare la propria comunicazione con quella della madre (Crugnola & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo – esperienziale delle emozioni di base e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia…) si sviluppano durante la prima infanzia. Le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nello sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello interpersonale che nelle relazioni con gli altri.

In questo sviluppo degli affetti, oltre alla crescita cognitiva, sono le prime relazioni a giocare un ruolo di grande importanza. Nella primissima infanzia la capacità di regolazione degli affetti è, infatti, facilitata dall’esperienza di condivisione e di rispecchiamento delle espressioni emotive con il caregiver primario e, in seguito, dalle interazioni giocose nelle quali si ha l’apprendimento della denominazione e dell’espressione dei sentimenti. La madre svolge quindi un fondamentale ruolo nel contenere, elaborare e interpretare gli stati affettivi del suo bambino offrendogli una risposta sintonica all’affetto che sta provando ed aiutandolo così a riconoscere i propri stati interiori come legittime forme di esperienza che possono essere condivise con altri. Laddove questa funzione di contenitore e di regolatore fallisce le emozioni del bambino rimangono a livello di percezioni e sensazioni, non riuscendo ad essere trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero (da qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici) (Taylor, 1997).

Anche le teorie della Crittenden hanno una rilevanza particolare per il costrutto di alessitimia in quanto forniscono una concettualizzazione interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento in cui il soggetto impara a regolare non solo il funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo (Fabbri, 20015). Grazie ad un legame di attaccamento sicuro, caratterizzato da un buona sintonizzazione e responsività del caregiver, il bambino impara a utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti e gli affetti per arricchire la cognizione.

Secondo Crittenden i problemi di inibizione o disregolazione affettiva nascono da stili di attaccamento insicuri, che si associano con modelli interni di rappresentazione caratterizzati da una mancata integrazione delle informazioni affettive e di quelle cognitive.

In particolare, il bambino con attaccamento insicuro evitante sperimenta una figura d’attaccamento che tende ad essere costantemente rifiutante e a ignorare o punire le richieste di conforto. Le informazioni causali e spazio-temporali appaiono stabili e coerenti per cui il bambino apprende ad utilizzare in modo efficace l’informazioni cognitiva e inibisce le manifestazioni affettive in quanto minacciano lo stato di relazione (si sviluppano problemi di riconoscimento ed espressione degli affetti).

Il bambino con attaccamento insicuro – ambivalente sperimenta un genitore che mette in atto comportamenti di accudimento incoerenti e imprevedibili. Viene a mancare la possibilità di coerente ordinamento sequenziale degli eventi per cui il bambino sperimenta che lo stato di relazione può essere mantenuto solo attraverso un’abnorme attivazione affettiva (non sviluppa la capacità di usare la cognizione per modulare gli affetti e funziona con affetti non regolati).

In questi casi una vasta gamma di vissuti emozionali del bambino (quali la rabbia, la tristezza, la paura) vengono costantemente (o in modo intermittente) male interpretati (es. come segnali di fame o di sonno) scoraggiati e ricevono risposte, addirittura, punitive. Questi stati emotivi sono pertanto esperiti dal bambino come sconvenienti o pericolosi; vengono inibiti, falsificati e cancellati dal repertorio delle relazioni intime, rischiando così di rimanere bloccati ad un livello puramente percettivo – somatico con scarso accesso alla consapevolezza e alla comunicazione (Fabbri, 2005).

Queste configurazioni di attaccamento predispongono ad un alto rischio di problematiche emotive e di sviluppo psicopatologico, soprattutto in assenza di variabili contestuali e sociali che possano fornire all’individuo in crescita esperienze di relazione diverse e significativamente positive (Arace, 2002).

Secondo Taylor (2004) il campo di ricerca sull’attaccamento è una preziosa fonte di informazioni sull’eziologia dell’alessitimia. Non vi sono purtroppo studi longitudinali che hanno seguito gli individui dall’infanzia all’età adulta. Molti studi effettuati sugli adulti hanno però rilevato che l’alessitimia è associata a stili insicuri di attaccamento, sia di tipo evitante che preoccupato o timoroso.

Cosa emerge dalle ricerche in età evolutiva? Eziologia e psicopatologia dello sviluppo

Come già riportato sopra, la mancanza, fino a tempi recenti, di strumenti psicometrici per la valutazione dell’alessitimia in età evolutiva ha rappresentato un limite fondamentale circa la possibilità di approfondire il ruolo che tale costrutto possa avere nella psicopatologia dello sviluppo.

Come sottolineato da diversi autori, una misura di questo costrutto adattata per i bambini sarebbe importante per offrire l’opportunità di comprendere meglio il rapporto esistente tra emozioni, parole e pensieri nello sviluppo psichico patologico e normale del bambino, nonché il peso del costrutto alessitimico nelle situazioni traumatiche, nelle malattie psicosomatiche e nei disturbi psicopatologici (depressione, DOC, ADHD, ecc.) più frequenti nella prima infanzia (Solano et al., 2007). Si riportano di seguito alcune ricerche in età evolutiva volte ad indagare direttamente tale costrutto e che possono fornire indicazioni circa la sua eziologia e correlati psicopatologici.

Di Trani e coll. (2009) riportano come, nonostante il corpus di ricerche limitato, si confermi, come per gli adulti, la presenza di alti punteggi di alessitimia in bambini e adolescenti con patologie somatiche, con disturbo del comportamento sessuale ed alimentare e con aspetti dissociativi. Rieffe e colleghi (2005) hanno osservato in soggetti di 6 e 15 anni la correlazione positiva tra alessitimia e presenza di umore negativo e di sintomi somatici. In una ricerca condotta da Marchetti e Cavalli (2013) con 152 bambini di 6-11 anni è emerso come alcune caratteristiche dell’alessitimia (difficoltà a descrivere le emozioni e pensiero orientato all’esterno) correlino con difficoltà nella mentalizzazione, che consiste nell’abilità di attribuire stati mentali a sé e agli altri e prevedere i comportamenti sulla base di essi. Tale carenza comporta pertanto importanti riflessi sia sul funzionamento sociale che sulla regolazione emotiva.

Secondo Taylor e Bagby (2004) un’altra area di ricerca che sta portando risultati interessanti deriva dal Northern Finland Birth Cohort Project in cui sono stati raccolti dati evolutivi in 12.000 bambini nati nel 1966, a cominciare dalle fasi prenatali. La TAS-20 è stata somministrata ad almeno 6.000 individui in un follow-up di 31 anni. L’alessitimia in età adulta è risultata associata con l’essere stato un bambino non desiderato dai genitori, nato in una famiglia con molti figli ed in modo particolarmente marcato con l’aver vissuto in ambiente rurale. Inoltre, l’alessitimia è stata associata alla capacità di parlare all’età di un anno, ossia il punteggio medio della TAS-20 è risultato più basso in coloro che hanno parlato precocemente. Questi risultati suggeriscono che i fattori sociali durante l’infanzia e le differenze individuali nello sviluppo del linguaggio possono avere un ruolo eziologico nello sviluppo di alessitimia.

Solano et al. (2007) riportano di un solo studio che, allo scopo di valutare il rapporto tra esperienze traumatiche infantili e presenza di alessitimia nei bambini stessi, ha esaminato bambini abusati dai tre ai sette anni e le loro madri, riscontrando che sia i bambini abusati che le loro madri mostravano maggiori difficoltà nel produrre un’espressione facciale dell’emozione, mentre solo i bambini mostravano difficoltà nel riconoscimento dell’espressione facciale stessa. Venne, inoltre, riscontrata una correlazione diretta tra capacità delle madri di produrre espressioni facciali di emozione e la capacità dei bambini di riconoscerle e produrle. Inoltre, diversi lavori che hanno utilizzato la TAS – 20, hanno evidenziato una correlazione significativa tra alessitimia materna e caratteristiche affettive della prole (Solano et al., 2007).

Quali i disturbi somatoformi in età evolutiva?

La valutazione di questi disturbi nell’età infantile non è facile, perché il corpo costituisce il primo mezzo che il bambino ha di segnalare una qualsiasi forma di sofferenza. E’ importante che il pediatra non abbia riscontrato alcune causa fisica. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni sono transitorie e rimandano a quadri clinici di altro tipo (es. disturbo d’ansia e fobia scolare). I disturbi possono manifestarsi nell’apparato gastrointestinale (gastrite, colite ulcerosa, ulcera peptica), nell’apparato respiratorio (asma bronchiale, sindrome iperventilatoria, disturbi respiratori), nel sistema cutaneo (es. psoriasi, dermatite atopica, orticaria), nel sistema muscolo scheletrico (cefalea tensiva, crampi muscolari, cefalea nucale). Anche le vertigini possono essere una forma di somatizzazione. I bambini spesso sviluppano sintomi somatici quando sono emotivamente sofferenti e la prevalenza è di circa 11% nelle femmine e il 4% nei maschi. Le difficoltà che innescano risposte di tipo somatico spesso sono legate alle relazioni familiari, con il gruppo dei pari e anche con gli insegnanti. La presenza di problemi psicologici nella madre e difficoltà nella relazione madre – bambino costituiscono importanti fattori di rischio (Strepparava & Iacchia, 2012).

Nel caso dei disturbi somatoformi, la teoria dell’attaccamento costituisce una chiave importante per la comprensione del sintomo somatico. Questa considera, infatti, il sintomo come la strategia che il bambino ha trovato per regolare lo stato di relazione con le figure d’attaccamento e nello stesso tempo mantenere il senso di sé. Ciò è valido anche per i disturbi somatoformi il cui valore relazionale sarà pertanto differente in base alla qualità della relazione esistente tra il bambino e le sue figure d’attaccamento.

In contesti diadici coercitivi l’osservazione clinica mostra come il sintomo somatico venga costruito, amplificato e utilizzato dal bambino con la precisa finalità di stabilizzare il legame con una madre percepita come discontinua, che tuttavia egli scopre particolarmente sensibile e reattiva al disagio fisico e alla malattia. Si ritrovano su questo versante gran parte dei quadri somatici, in assenza di chiare alterazioni organiche, su cui si focalizza il lavoro dei pediatri di base e ospedalieri: coliche addominali ricorrenti, vomito, alcune forme di cefalea, sindromi dolorose di varia natura e lamentele somatiche non chiaramente definite (Ciotti & Lambruschi, 2004). Un’analisi funzionale del sintomo, nei suoi antecedenti e nei suoi conseguenti ambientali, è spesso sufficiente a mettere in luce la valenza di ancoraggio dei sintomi nei confronti delle figure di attaccamento: la loro funzione di controllo della relazione appare subito chiara.

Secondo Ruggerini, Lambruschi, Neviani et al. (2004) questi piccoli pazienti, così ‘sballottati’ tra gli affetti e con così limitate capacità auto regolative, in terapia possono usufruire positivamente di un piano di acquisizione di abilità di coping degli stati emotivi (in particolare dell’ansia e delle componenti neurofisiologiche) tramite l’utilizzo di tecniche cognitivo – comportamentali come il rilassamento muscolare progressivo unito a tecniche di ristrutturazione cognitiva.

Nei pattern relazionali difesi, invece, i disturbi psicosomatici appaiono spesso più gravi, persistenti nel tempo e scarsamente ancorati al comportamento contingente dei genitori, in un contesto relazionale connotato in genere da scarsa emotività espressa. E’ come se il corpo del bambino fosse completamente disinvestito e i sintomi fisici semplicemente delle contrarietà minori che i genitori si trovano obbligati a gestire (Strepparava & Iacchia, 2012). Data la pervasività dei sintomi, c’è un’evidente difficoltà a rintracciare specifiche situazionalità, mentre un aiuto più efficace può venire dalla ricostruzione della storia dei sintomi fisici che spesso sono legati ad importanti eventi di vita (frequentemente caratterizzati dal tema della perdita), ma che vengono connotati come scarsamente rilevanti. I contenuti affettivi tendono ad essere accantonati e il piano emotivo e scarsamente integrato (se ciò avvenisse porterebbe la consapevolezza della sofferenza). Ruggerini et al. (2004) riportano come tali situazioni si avvicinino maggiormente ai quadri classicamente descritti come alessitimici. I sintomi sembrano l’esito di un precoce e pervasivo processo di addestramento interpersonale all’inibizione degli stati affettivi e delle disposizioni all’azione a essi collegate. Il sintomo verrebbe usato dal bambino per sentirsi oggetto di attenzione e cure in una relazione in cui il genitore si occupa di lui ma nella quale non è possibile esprimere direttamente ed affrontare la paura di perdere le proprie figure d’attaccamento.

L’alopecia è un disturbo somatico che può presentarsi in età evolutiva. I fattori psicologici e ambientali sono fondamentali nel determinare tale disturbo che sembra presentarsi sia in caso di carenza affettiva, sia a seguito della perdita di figure significative d’attaccamento. Nella storia dei bambini affetti da alopecia si ritrovano spesso eventi stressanti legati al perdere qualcosa o qualcuno: situazioni dolorose o problematiche che hanno grande risonanza affettiva per il bambino, che però non è in grado di manifestare le sue difficoltà, né si trova in un ambiente in grado di farlo se solo ci provasse.

Con queste tipologie di disturbi psicosomatici dovranno essere utilizzate strategie terapeutiche che favoriscano il riconoscimento, la denominazione e la gestione degli affetti, all’interno di una relazione caratterizzata da accudimento e protezione. Occorre supportare questi bambini nel riconoscere ed elaborare i propri stati interni, dando spazio all’espressione dei loro desideri e delle loro paure. E’ importante ricostruire in seduta, con le modalità tipiche della terapia cognitiva, gli episodi critici della quotidianità aiutando i bambini a riconoscere e ad aggiungere i pezzi mancanti al loro dialogo interno (cioè quelli più densi di rabbia e dolore). Utili a riguardo si rilevano le tecniche di autosservazione emotiva come il diario di autosservazione quotidiana che, con il termometro delle emozioni, rappresenta un riferimento importante per ricostruire in seduta, sotto forma di disegno, di drammatizzazione o di gioco gli eventi critici e significativi della vita del bambino (Ruggerini et al., 2004).

Pubblica o muori! il dilemma fra tradizione scientifica e innovazione nella ricerca

Sabrina Guzzetti

 

‘Publish or perish’ è un modo di dire piuttosto noto in ambito accademico e può essere reso in italiano con l’espressione ‘pubblica o muori’. È stato coniato per indicare la pressione a cui sono sottoposti i ricercatori a pubblicare continuamente i loro lavori scientifici per sostenere le loro carriere. La frequente pubblicazione è infatti uno dei metodi principali attraverso cui gli scienziati possono dimostrare il loro talento, attirando così l’attenzione di possibili finanziatori che possano continuare a sostenerli nel loro lavoro.

Secondo un recente studio, pubblicato sulla rivista American Sociological Review da un gruppo di ricerca della UCLA (University of California, Los Angeles), tale pressione ha il risultato di scoraggiare gli scienziati a battere strade inesplorate e a testare teorie innovative che possano potenzialmente sfidare i paradigmi del sapere tradizionale.

I ricercatori si confrontano da sempre con il dilemma rappresentato da una parte dalla tensione a perseguire coraggiose nuove idee, dall’altra dalla tendenza ad investire le proprie energie in ambiti di ricerca già battuti. Per studiare questo conflitto e le sue conseguenze nel mondo della ricerca, Jacob G. Foster, primo autore del lavoro, ha esaminato con i suoi colleghi un database comprendente più di 6,4 milioni di articoli pubblicati dal 1934 al 2008 nel campo della biomedicina e della chimica. Gli autori erano interessati a valutare come le pubblicazioni considerate, che potevano ricadere in un ambito innovativo o più prettamente tradizionale, venivano premiate dal mondo accademico, in termini di citazioni in ricerche successive o maggiori riconoscimenti da parte degli istituti accademici.

Quello che è emerso è che la maggior parte dei ricercatori, il 60% del totale, si limita a rispondere a domande di ricerca più tradizionali, con maggiori probabilità di giungere alla pubblicazione in tempi anche rapidi, che, nel mondo accademico, è la chiave per l’avanzamento di carriera. Al contrario, i ricercatori che si propongono di rispondere a domande più originali hanno dimostrato di incappare più frequentemente in un percorso tendenzialmente molto più accidentato lungo la strada della pubblicazione, il che, sul lungo periodo, rischia di farli apparire improduttivi ai loro colleghi e agli enti finanziatori.

Quando pubblicati, tuttavia, i loro progetti di ricerca vengono altamente ricompensati dal mondo scientifico, sia con numerose citazioni da parte dei lavori successivi, sia attraverso riconoscimenti e premi, in primis dal premio Nobel. Allora cosa spinge la maggior parte degli scienziati a perseguire la tradizione a svantaggio dell’innovazione? Le evidenze di Foster e colleghi suggeriscono una semplice spiegazione: una ricerca innovativa è una scommessa la cui vincita, in media, non sembra giustificare il rischio. I ricercatori, insomma, devono essere un po’ come dei giocatori d’azzardo per arrischiarsi a puntare su qualcosa di nuovo, rischiando davvero il tutto per tutto.

[blockquote style=”1″]Istituzioni e organizzazioni di raccolta fondi dovrebbero cercare di ridurre le barriere all’innovazione utilizzando sistemi di finanziamento che rendano meno rischioso, per i ricercatori, lanciare una nuova idea e rendano più probabile che questa idea possa essere finanziata[/blockquote] conclude Foster.

The Experimenter: Stanley Milgram e l’obbedienza al male. Arriva il film al cinema

 

Stanley Milgram, psicologo sociale americano. E’ molto famoso il suo esperimento sull’obbedienza obbedienza.

Ricordiamo brevemente quali furono i termini di questa sperimentazione che il Prof. Milgram condusse all’Università di Yale su migliaia di persone e che è stato più volte oggetto di ripetizione. All’interno di un laboratorio un soggetto che si era reso disponibile a condurre esperimenti sulla memorizzazione doveva correggere un altro soggetto – un attore sotto le mentite spoglie di cavia – somministrandogli delle scosse a intensità crescente ogni volta che questi sbagliava a rispondere alle domande sottoposte dal dottore che conduceva l’esperimento. Lo scopo era vedere fino a che punto il soggetto avrebbe accettato di continuare a somministrare le scosse (che potevano arrivare anche fino a 450 V ed erano contrassegnate con diciture fino a “scossa pericolosa”) pur in presenza dei lamenti, delle proteste e infine degli urli e dei rantoli della “cavia”.

Milgram volle anche vedere non solo fino a dove la maggioranza degli esaminati poteva arrivare ma anche quali circostanze avevano maggiore o minore peso nella decisione di rivoltarsi all’autorità…

Abbiamo scritto su State of Mind che a distanza di anni, i risultati mettono in luce che anche le persone categorizzate da Stanley Milgram come obbedienti hanno in realtà tentato di resistere alle istruzioni dello sperimentatore. Non è che immediatamente e in modo naturale le abbiano seguite. Essi stavano cercando davvero di combattere qualcosa che avveniva dentro di loro, non si sono piegati ad una cieca obbedienza…

Infatti In generale, tra tutti i soggetti obbedienti e ribelli, per le fasi iniziali dell’esperimento era prevalente la strategia “wait and see e cioè una serie di modalità interattive volte a ritardare la continuazione dell’esperimento...

 

E’ stato presentato in questi giorni a Roma in anteprima il film su Stanley MIlgram e sul suo famoso esperimento, ecco il trailer:

 

Il metodo caotico per interpretare le risonanze: sfruttare il caos per capire il cervello umano

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Un metodo di analisi dei dati finora utilizzato nella diagnostica medica è stato testato per la prima volta sui dati ottenuti con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) a riposo.

La metodologia, che sfrutta il ‘caos’, si è dimostrata robusta quanto il metodo Sample entropy, ben noto agli addetti ai lavori e in uso da tempo, ma con il vantaggio di offrire dettagli maggiori di quest’ultimo. Il risultato è stato pubblicato su Medical Engineering and Physics.

La parola fuzzy (confuso, caotico) non deve trarre in inganno: la Fuzzy Approximate Entropy Analysis (fApEn) è una metodologia che offre precisione e sensibilità nella comprensione delle immagini confuse prodotte dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI). La fMRI è una tecnica di visualizzazione medica che permette, quando si studia il cervello, di osservare in maniera non invasiva l’attività neurale associata a compiti specifici. Non basta però guardare queste immagini per capire cosa sta succedendo. Esistono infatti diverse metodologie che analizzano, filtrano e ricostruiscono il segnale, così da permettere agli scienziati di capire la complessa attività del cervello.

La fApEn è stata utilizzata per analizzare elettrocardiogrammi, elettroencefalogrammi, elettromiogrammi, e via dicendo, ma è la prima volta che è stata usata con l’fMRI perché l’analisi delle risonanze 3D è molto complessa.

Finora si è preferito utilizzare un metodo semplificato, la Sample Entropy (sampEn) che però presenta numerosi limiti – spiega Moses Sokunbi, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, primo autore della ricerca – Nel mio lavoro dimostro che non solo è possibile utilizzare la fApEn, ma che confrontata con i risultati di sampEn sulle stesse registrazioni, ha dato risultati superiori, che non erano stati rilevati dalla tecnica tradizionale.

Il vantaggio di fApEn è che è un metodo non lineare – precisa Sokunbi – Troppo spesso infatti si analizzano i dati del cervello con metodi lineari, ma il cervello è un sistema complesso, che produce segnali di natura non lineare e dinamica, e con i metodi lineari molta informazione viene persa.

Cervello: più è vecchio, meno è complesso

Il metodo non lineare fApEn è servito anche per verificare un’ipotesi sull’attività cerebrale.

Abbiamo testato le fMRI di 86 individui sani di età che variano dal 19 agli 85 anni – spiega Sokunbi – Si pensa che la complessità dell’attività cerebrale tenda a diminuire con gli anni: il cervello di una persona giovane sarebbe più complesso di quello di un individuo maturo. L’ipotesi è supportata da diverse osservazioni e abbiamo pensato di testarla sottoponendo soggetti di varia età alla risonanza magnetica funzionale, per poi esaminare i dati sia con fApEn che con sampEn.

fApEn ha mostrato di rilevare il segnale meglio di sampEn.

Con sampEn infatti abbiamo osservato una tendenza nella direzione prevista dalle ipotesi, ma non significativa. Con fApEn, sugli stessi dati invece abbiamo osservato una tendenza netta e significativa, nella direzione attesa.

 

LINK UTILI: Articolo originale su Medical Engineering and Physics

IMMAGINI: Crediti SISSA

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A fuzzy method for interpreting fMRI recordings: using fuzziness to understand the human brain

A method for data analysis used in medical diagnostics has been tested for the first time on resting state functional magnetic resonance imaging (fMRI) data. The method, which relies on fuzziness, proved to be as robust as the well-known and regularly used sample entropy (SampEn) method but with the advantage of offering greater detail than sample entropy. The findings have been published in Medical Engineering and Physics.

Do not be misled by the word fuzzy: Fuzzy Approximate Entropy (fApEn) is a method that offers better sensitivity for understanding the complexity of noisy images produced by functional magnetic resonance imaging (fMRI). fMRI is a medical imaging technique which, when applied to the brain allows us to non-invasively observe neural activity associated with specific human behaviour . However, just looking at these images is not enough to understand what is going on, and different methods exist that analyse, filter and reconstruct the signals to enable scientists
to understand the brain’s complex activity.

fApEn has been used to analyse electrocardiograms, electroencephalograms and electromyograms, but this is the first time it is used with fMRI because 3D fMRI computation is complex.

Until now scientists have preferred to use a reliable method, Sample Entropy (sampEn), which, however, suffers several limitations – explains Moses Sokunbi, research scientist at the International School for Advanced Studies (SISSA) in Trieste and first author of the study – In this paper we demonstrated not only that fApEn can indeed be used but that compared with sampEn analysis on the same recordings, it gave superior results which were not detected by SampEn.

The advantage of fApEn is that it’s a non-linear method – Sokunbi points out – All too often, in fact, data from the brain are analysed using linear methods, but the brain is a complex system that produce signals that are non-linear and dynamic in nature and analysing with these linear methods results in loss of information.

The older the brain, the less complex it becomes The non-linear fApEn method was used to test a hypothesis regarding brain activity.

We tested the fMRI data of 86 healthy individuals with age ranging between 19 and 85 years – explains Sokunbi – The complexity of brain activity is thought to decrease over the years: a young adult brain is more complex than an older adult brain. This hypothesis is supported by several observations so we decided to test it by scanning the brains of individuals of varying age with functional magnetic resonance imaging and analysing the data both with fApEn and SampEn.

fApEn showed better signal detection in comparison to SampEn.

With sampEn there was a tendency in the direction predicted by the hypothesis, but this was not significant. In contrast, fApEn analysis on the same data provided a clear and significant tendency in the expected direction.

This research work was conducted in collaboration with scientists at the University of Aberdeen and the Aberdeen Royal Infirmary, National Health Service (NHS) Grampian, Scotland, United Kingdom.

 

Depressione: comportamenti di evitamento e strategie di intervento in psicoterapia cognitiva

L’articolo si propone di tratteggiare alcuni aspetti dei sintomi cognitivi e comportamentali caratteristici nel Disturbo Depressivo Maggiore, in riferimento alle conseguenze dei comportamenti di evitamento rispetto all’aggravamento del quadro clinico.

Abstract

Il presente articolo si propone di tratteggiare alcuni aspetti dei sintomi cognitivi e comportamentali caratteristici nel Disturbo Depressivo Maggiore, in riferimento alle conseguenze dei comportamenti di evitamento rispetto all’aggravamento del quadro clinico.

A fronte del quadro sintomatologico descritto, verranno delineati gli obiettivi principali dell’intervento psicoterapeutico ad orientamento cognitivo rispetto al disturbo considerato.

English Abstract

This article aims to outline some aspects of cognitive and behavioral symptoms characteristic in major depressive disorder, in reference to the consequences of avoidance behaviors with respect to the worsening of the clinical picture.

Given the set of symptoms described, it will be outlined the main goals of psychotherapeutic oriented cognitive compared to the disorder in question.

 

Depressione: comportamenti di evitamento e strategie di intervento in psicoterapia cognitiva

Il Disturbo Depressivo Maggiore, comunemente definito ‘depressione’, costituisce secondo recenti ricerche il disturbo psicologico più diffuso nel mondo (Gotlib e Hammen, 2009). Secondo lo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders), in Italia la prevalenza della depressione maggiore e della distimia nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle donne e 7,2% negli uomini), ma soltanto il 29% dei soggetti affetti da depressione maggiore ricorre a un trattamento nello stesso anno in cui insorge (Wang et al., 2007).

In ambito clinico si rileva come il quadro sintomatologico depressivo conduce il paziente ad un calo del funzionamento sociale e lavorativo e ad una significativa compromissione delle altre aree importanti della vita, la cui intensità varia in relazione al livello di gravità del disturbo.

In riferimento alle ripercussioni che tale disturbo dell’umore genera nella vita quotidiana del soggetto, assume rilevanza evidenziare la connessione tra la difficoltà sperimentata dalla persona nello svolgimento delle abituali attività quotidiane e la presenza di comportamenti di ‘evitamento’, i quali creano un circolo vizioso e contribuiscono al persistere ed all’aggravarsi dello stato di sofferenza.

Rispetto a ciò si rileva come la persona che attraversa un periodo di depressione manifesta una notevole difficoltà nello svolgimento delle abituali attività quotidiane, causata dalla presenza dei sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici caratteristici del disturbo, i quali possono alimentare ulteriormente la visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di sé, la sfiducia nelle proprie capacità e le conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.

In conseguenza di ciò, spesso la persona mette in atto istintivamente alcuni tipici comportamenti di evitamento, che conducono ad abbandonare o ridurre notevolmente gli impegni quotidiani e le attività piacevoli consuete, diminuendo in questo modo la possibilità di interrompere le rimuginazioni negative e sperimentare un seppur breve stato mentale positivo.

Ad esempio, la presenza di sintomi quali la difficoltà di concentrazione, di memoria, l’indecisione, mancanza di interesse o energia, etc. può condurre la persona a considerarsi incapace di affrontare e gestire autonomamente le occupazioni quotidiane consuete (es. lavorare, studiare, fare la spesa, preparare da mangiare, svolgere faccende domestiche, etc.), oppure a sopravvalutare irrealisticamente le difficoltà insite in esse. A causa di tale convinzione la persona può iniziare ad evitarle, a rimandarle, o a delegarle a qualcuno, diventando in tal modo eccessivamente dipendente dagli altri.

Sperimentando sintomi di apatia e disinteresse, il soggetto può evitare il contatto con altre persone e ridurre al minimo il dialogo con familiari e amici. In altri casi, può provare vergogna, senso di inferiorità o di colpa per il disturbo di cui soffre, sentirsi diverso dalla persona che era precedentemente,
 e, a causa di ciò, allontanarsi dagli altri, intrappolandosi ulteriormente in una solitudine dolorosa. Inoltre, può credere di non riuscire più a trarre soddisfazione e piacere dalle relazioni sociali.

Conseguentemente a ciò, spesso la persona depressa trascorre molto tempo isolata e inattiva, imprigionata in estenuanti rimuginazioni depressive. Tale situazione può condurre ad una marcata compromissione nello svolgimento delle attività ed ad uno stravolgimento delle relazioni sociali abituali. Inoltre, tra i comportamenti sintomatici frequentemente osservati in ambito clinico spesso si rileva la mancanza di interesse o la difficoltà della persona affetta da depressione nel curare il proprio aspetto fisico e nel mangiare in modo regolare.

La compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o scolastico e dell’abituale comportamento della persona si manifesta con diversi livelli di gravità.

In tal senso, mentre nella depressione più lieve generalmente la persona riesce a mantenere, seppure con difficoltà, la maggior parte dei propri impegni, viceversa nel momento in cui la depressione peggiora la persona appare chiusa in un vortice di pensieri negativi angoscianti, persistenti e ripetitivi, che generano descrizioni della realtà gravemente falsate e che possono condurre ad una grave alterazione delle capacità lavorative, a frequenti assenze da lavoro o ad un’interruzione pressoché totale delle attività abituali.

Tale stato di inattività conduce ad un aggravamento ulteriore della sfiducia nelle proprie capacità, della visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di se stessa e delle conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.

In tal senso, avviene che i comportamenti di evitamento sopra tratteggiati, pur dando l’illusione di alleviare momentaneamente il malessere (in quanto sottraggono la persona allo sforzo di fare ciò che le risulta difficile e faticoso, o che non ha più voglia di fare), in realtà conducono ad un graduale aggravamento del disturbo in quanto provocano una profonda ricaduta sull’autostima del paziente. La persona giunge a percepirsi maggiormente come incapace, fallita, senza speranza, a rafforzare l’idea di non essere più in grado di svolgere le attività precedentemente attuate, aggravando in tal modo la valutazione negativa di se stessa e della propria vita attuale e la sfiducia verso il futuro.

A fronte di tale quadro sintomatico, la Psicoterapia Cognitiva configura i processi di insorgenza e mantenimento della depressione nelle cognizioni disfunzionali che inducono la persona a considerare se stessa, la sua vita e il suo futuro in maniera irrealisticamente o irreversibilmente negativa.

In tal senso, emerge come le principali manifestazioni sintomatiche del Disturbo Depressivo Maggiore costituiscono la conseguenza dell’attivazione di errori sistematici insiti nelle cognizioni della persona, le quali determinano la conseguente sofferenza emotiva e i comportamenti problematici, e mantengono viva la convinzione della validità dei suoi giudizi negativi, malgrado vi siano chiare prove del contrario.

Parallelamente, si rileva come le distorsioni cognitive e le erronee costruzioni del significato degli eventi appaiono generate e perpetuate dalla presenza di rigidi ‘schemi cognitivi depressogeni’, ovvero dalle convinzioni, assunzioni, regole su di sé e sugli altri, profonde e spesso inconsapevoli, da cui si originano le interpretazioni disfunzionali della realtà presente.

Tali schemi, la cui origine spesso affonda le sue radici nel passato, agiscono dunque come delle ‘lenti’ che influenzano la valutazione che la persona attua nel presente in merito a se stessa, alla propria vita, alle proprie relazioni interpersonali, la percezione degli eventi e l’attribuzione del loro significato.  Durante l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore, emerge spesso la presenza di intricati e impermeabili schemi cognitivi depressogeni, la cui attivazione costituisce il nucleo patogenetico del disturbo.

Sulla base di quanto sopra delineato, l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione, la spiegazione, l’anticipazione degli eventi passati presenti o futuri, la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.
In relazione a ciò, si rileva come la correzione delle valutazioni distorte relative a se stessi, alla propria vita o al proprio futuro conduce ad un graduale cambiamento sul piano emotivo e comportamentale.

Ad esempio, nel caso di un episodio depressivo conseguente ad un evento molto doloroso la persona può riuscire progressivamente ad abbandonare la convinzione iniziale di un futuro irrimediabilmente rovinato, giungendo a costruire una successiva ri-valutazione della propria esperienza; in tal modo, riuscendo ad attuare un cambiamento nel modo di pensare, pian piano la persona riesce a superare la disperazione iniziale e, conseguentemente a ciò, comincia a sentire il riemergere di una maggiore fiducia in sé e nelle proprie possibilità di migliorare la situazione attuale, giungendo ad una successiva graduale ripresa della motivazione e dell’energia necessaria per gestire gli impegni quotidiani.

Parallelamente a ciò si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo.

In tal senso, a fronte della sintomatologia evidenziata è necessario attuare una progressiva riattivazione a livello comportamentale, che gradualmente consentirà alla persona di trarre sollievo e distrazione dalle rimuginazioni negative e dalla disforia, e successivamente permetterà di valutare empiricamente l’infondatezza delle idee estremamente negative relative a se stesso e alla propria capacità di svolgere le normali attività e di trarne piacere.
 In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.

A fronte di quanto esaminato nel presente contributo, pertanto, si rileva come il cambiamento cognitivo conduce ad un conseguente miglioramento del tono dell’umore e ad una progressiva diminuzione dell’intensità dei vari sintomi manifestati, i quali a loro volta influiranno positivamente sui pensieri e sul comportamento quotidiano, interrompendo in tal modo il circolo vizioso della depressione in cui la persona si era intrappolata.

Alessitimia e psicopatologia: un’analisi evolutiva – Introduzione

Artoni Grazia, Atti Martina, Giaroli Enrica e Paterlini Susanna – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi 

Shakespeare, Macbeth, atto IV, scena III.

La possibilità di dar voce al proprio mondo emotivo rappresenta una condizione essenziale per riuscire a riconoscere, dialogare e pensare i propri vissuti e intrattenere relazioni interpersonali.

Le emozioni hanno un ruolo fondamentale nell’equilibrio tra salute e malattia (Vadacca et al., 2008). La possibilità di dar voce al proprio mondo emotivo rappresenta una condizione essenziale per riuscire a riconoscere, dialogare e pensare i propri vissuti e intrattenere relazioni interpersonali. L’incapacità di dare parole al dolore rappresenta una grande sofferenza per ciascun individuo (Hoffman, Formica & Di Maria, 2007). L’espressione emotiva è legata al miglioramento della salute e del benessere psicologico (Eng, Fitzmaurice, Kubzansky, Rimme & Kawachi, 2003), mentre la mancanza di espressione delle emozioni ad una evoluzione verso la malattia (Solano et al., 2002). Emerge, quindi, la necessità di mettere in risalto l’importanza della capacità di identificare e descrivere le emozioni (La Ferlita, Bonadies, Solano, De Gennaro & Gonini, 2007).

Magda Arnold (1960) suddivide le emozioni in:

  • Valutazioni intuitive, immediate o non riflessive che conducono a sensazioni;
  • Valutazioni riflessive, di maggiore portata che conducono a emozioni prolungate.

Secondo Ellis sia le reazioni emotive fugaci sia quelle prolungate hanno in comune un elemento: Quale significato ha per me l’evento a cui sto rispondendo? (Ellis, 1962).

Facendo riferimento al metodo ABC, proposto da Ellis, per condurre la valutazione clinica e per individuare il focus terapeutico, a partire da un evento attivante (A) il primo passo è individuare il C, cioè le emozioni e i comportamenti, e in seguito i B, i pensieri. Si invita sostanzialmente il paziente a rievocare episodi particolarmente significativi cercando di descrivere i pensieri e le emozioni provate in quel momento (Semerari, 2000; Cantagallo, 2014).

Considerando il principio cognitivo, le emozioni prolungate sono sostenute in genere da pensieri, piccole e rapide frasi (sciocche frasi) apparentemente innocue ma in grado di generare sofferenza. È necessario quindi uno sforzo consapevole per modificare le frasi interiori con le quali le persone creano spesso le proprie emozioni negative. Per il terapeuta cognitivo ogni emozione è verbalizzabile come valutazione di una situazione più o meno problematica ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielaborazione critica razionale e consapevole.

Il metodo ABC può risultare complesso già nella prima fase, nell’individuazione dei C, a seconda delle capacità autoriflessive del paziente e della sua tendenza a descrivere se stesso in termini emotivi (Semerari, 2000; Ruggiero & Sassaroli, 2013) In particolare, si può evidenziare la difficoltà degli individui alessitimici di accedere e riconoscere i propri stati emozionali (Cantagallo, 2014). Vedremo successivamente come la terapia cognitivo-comportamentale e altre tipologie di intervento possono essere utilizzate con questi pazienti.

Il concetto di alessitimia (alexithymia, dal greco – a= mancanza, léxis= parola, thymós= emozione – che letteralmente significa emozione senza parole o mancanza di parole per le emozioni) fu introdotto da Sifneos, nel 1973, in seguito a osservazioni cliniche di pazienti affetti dai classici disturbi psicosomatici, le Holy Seven (ulcera gastroduodenale, artrite reumatoide, disturbi della tiroide, malattie della pelle di origine sconosciuta o neurodermatiti, rettocolite ulcerosa, ipertensione essenziale e asma) e, per molti anni, è stato ritenuto quasi un sinonimo delle malattie psicosomatiche, poiché si pensava fosse specificamente connesso ad esse (Caretti & La Barbera, 2005; Porcelli, 2004). Con questo termine egli si riferiva ad un disturbo cognitivo-affettivo caratterizzato da:

  • Una difficoltà a esprimere verbalmente le emozioni,
  • Un’attività fantasmatica limitata,
  • Uno stile comunicativo incolore (descrivere un evento dandone una descrizione dettagliata, senza alcun riferimento alle emozioni provate) (Caretti & La Barbera, 2005; La Ferlita et al., 2007).

Alla fine degli anni ’90 il Gruppo di Toronto cambia radicalmente prospettiva, pubblicando ‘I disturbi della regolazione affettiva. L’alessitimia nelle malattie somatiche e psichiatriche’ (Taylor, Bagby & Parker, 1997). Le loro considerazioni hanno consentito a ricercatori di tutto il mondo di indagare sul costrutto in sé, svincolato dalla stretta e tradizionale associazione con le malattie psicosomatiche, considerandolo come l’elemento centrale di un gruppo di disturbi sia organici sia psicologici (Porcelli, 2004).

Un gruppo internazionale di ricercatori (Fava et al., 1995) ha proposto i Criteri Diagnostici per la Ricerca in Psicosomatica (Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research, DCPR). L’obiettivo dei DCPR non è quello di individuare singole malattie psicosomatiche, ma di ottenere una valutazione più ampia e rappresentativa della realtà clinica in psicosomatica rispetto alle categorie diagnostiche del DSM e dell’ICD-10. Si ragiona quindi per sindromi psicosomatiche che possono essere studiate come aspetti comuni di malattie differenti, sia somatiche sia mentali, fornendo nuove prospettive per il trattamento psicologico e per quello farmacologico (Trombini & Baldoni, 1999).

Queste variabili sono state spesso trascurate dalla psichiatria tradizionale soprattutto a causa della loro natura subsindromica. Tuttavia, è stato evidenziato che i DCPR sono più frequenti dei disturbi psichiatrici (circa il doppio) e possono individuare il disagio in assenza di una diagnosi DSM IV (Veneroni, 2009). Porcelli (Porcelli et al., 2009) ha individuato che almeno una, se non più sindromi DCPR erano presenti nell’85% del gruppo di pazienti considerato, i quali avevano l’89% di prevalenza di disturbi psichiatrici. Ha, inoltre, sottolineato che i DCPR possono accrescere le informazioni fornite dal DSM IV, dando dati sul presente e sul passato del paziente e su come esso fa fronte ai cambiamenti di salute.

Quello che comunque è chiaro è che la medicina psicosomatica non può essere sufficiente senza le classificazioni del DSM (Wise, 2009). L’alessitimia rappresenta uno dei dodici cluster DCPR e i suoi criteri diagnostici sono (Fava et al., 1995):

Devono essere presenti almeno 3 delle 6 caratteristiche seguenti:

  • Incapacità di usare parole appropriate per descrivere le emozioni;
  • Tendenza a descrivere i dettagli più che gli stati d’animo;
  • Mancanza di un ricco mondo fantastico;
  • Contenuto del pensiero più associato a eventi esterni che alla fantasia e alle emozioni;
  • Inconsapevolezza delle comuni reazioni somatiche che accompagnano l’esperienza di vari stati d’animo;
  • Scoppi occasionali ma violenti e spesso inappropriati di comportamento affettivo.

L’alessitimia non è presente solamente in comorbilità con disturbi dell’umore, fobie sociali o con un disturbo organico.

Specificare il tipo:

  • Pervasivo (coinvolge tutte le emozioni);
  • Situazionale (circoscritta a specifiche emozioni e/o situazioni) (Porcelli & Rafanelli, 2010).

Attualmente sono cinque le caratteristiche che si possono considerare come centrali nei soggetti alessitimici (Porcelli, 2004):

  • Difficoltà nell’identificare e descrivere le emozioni: mostrano una marcata difficoltà a verbalizzare i propri stati emotivi. Inoltre, non hanno un’abilità fondamentale, l’autoconsapevolezza, la capacità, cioè, di sapere che emozione stanno provando nel momento in cui ne sono pervasi (Goleman, 1996);
  • Difficoltà nel distinguere fra stati emotivi soggettivi e le componenti somatiche dell’attivazione emotiva: esprimono le proprie emozioni principalmente attraverso la componente fisiologica poiché incapaci di elaborarne l’aspetto soggettivo vissuto. Possono, quindi, mostrare scoppi improvvisi di rabbia e riferire le modificazioni somatiche avvertite, senza però comprendere che l’esperienza della rabbia ingloba in sé tutte le sensazioni riferite;
  • Povertà dei processi immaginativi: questi pazienti non sognano quasi mai e, quando accade, riproducono eventi quotidiani. La loro immaginazione è molto scarsa e qualitativamente povera, focalizzandosi su eventi accaduti o su preoccupazioni per il futuro. Inoltre, è evidente la difficoltà nel mostrare interesse per qualcosa. Il colloquio con i soggetti alessitimici risulta, quindi, noioso, duro, rigidamente focalizzato su sintomi o su eventi accaduti. Tutto ciò ha un impatto anche sulla fisicità, appaiono rigidi nella postura corporea e nella mimica facciale;
  • Stile cognitivo orientato alla realtà esterna: la loro attenzione è concentrata sui dettagli della realtà, di cui riescono a descrivere minuziosamente i dettagli senza dare la sensazione, all’interlocutore, di partecipare emotivamente. Hanno, infatti, uno stile di pensiero razionale con il quale illustrano azioni ed esperienze senza investimenti affettivi, come se fossero spettatori più che attori della propria vita;
  • Conformismo sociale: mostrano un adattamento conformistico all’ambiente nel quale si trovano inseriti e sembrano definiti dall’esterno in termini di identità di ruolo. Tuttavia, mostrano scarse capacità soggettive di interpretazione della loro identità e di sintonizzazione con le emozioni altrui, aspetti che determinano difficoltà a formare e conservare nel tempo relazioni interpersonali profonde.

Il concetto moderno di alessitimia, quindi, non designa individui senza emozioni ma persone che hanno emozioni espresse dalle componenti biologiche ma scarsa o nessuna possibilità di ricorrere a processi cognitivi (immagini, pensieri, fantasie) per rappresentarle (Caretti & La Barbera, 2005). Non sono individuabili soggetti alessitimici o non alessitimici, ma soggetti con diversi livelli di gravità delle caratteristiche alessitimiche (Porcelli, 2008).

L’alessitimia appare molto rilevante per il livello di salute e benessere complessivo dell’individuo: è considerata uno dei fattori in grado di incrementare la suscettibilità generale alla malattia. Oltre che come tratto di personalità relativamente stabile, l’alessitimia può emergere come fenomeno secondario, come stato reattivo in conseguenza di gravi traumi o di malattie fortemente invalidanti o in cui c’è pericolo di vita (cancro, dialisi, trapianto); in momenti particolarmente critici dell’esistenza l’anestesia emozionale sembra avere finalità adattive, rappresenterebbe cioè un massiccio meccanismo di difesa verso la propria realtà interiore, fonte di sofferenza e di grosso scompenso (Caretti & La Barbera, 2005; Grimaldi Di Terresena, De Grandi, Inga, & Cristofolini, 2010). Progressivamente si è dato, quindi, spazio ad una concezione evolutiva e adattiva di questo costrutto come dimensione clinica transnosografica, trasversale, cioè, a tutta la patologia (La Ferlita et al., 2007).

Prestazioni cognitive migliori? Basta lasciarsi contagiare da chi ci sta vicino!

Secondo un recente studio lo sforzo cognitivo e mentale sarebbe contagioso: lo sforzo mentale del vicino di scrivania sembra influenzare e intensificare il vostro livello di concentrazione.

Se avete bisogno di concentrazione, puo esservi utile sedere accanto a chi sta facendo qualcosa con il massimo dell’impegno. Secondo un recente studio infatti lo sforzo cognitivo e mentale sarebbe contagioso: lo sforzo mentale del vicino di scrivania sembra influenzare e intensificare il vostro livello di concentrazione.

Fin dagli anni sessanta la cosiddetta Teoria della Facilitazione Sociale sostiene che la presenza di altre persone renderebbe più semplice l’attuazione di comportamenti automatici, mentre sarebbe un fattore distrattore per l’attuazione di comportamenti che richiedono elevati livelli di attenzione e concentrazione.

Un team di ricerca belga si è chiesto in che modo quello che fanno le persone accanto a noi può influenzare le nostre performance e le nostre capacità di concentrazione.

I soggetti sperimentali dovevano svolgere una versione del Test di Simon seduti vicino –allo stesso pc- con un’altra persona: quadrati di diversi colori appaiono sul lato destro o sinistro dello schermo di un computer. Quando due dei possibili colori appaiono dal proprio lato, il soggetto deve pigiare il piu velocemente possibile un tasto sulla tastiera. Migliori performance corrispondono a bassi di tempi di reazione e minori errori.

Seppur seduti vicini e allo stesso computer, i soggetti non collaborano allo svolgimento del compito, né vengono istruiti ad assumere un atteggiamento competitivo.

Manipolando alcuni aspetti specifici del compito gli sperimentatori hanno poi creato le condizioni per sottoporre i soggetti a elevati livelli di difficoltà del test, che per l’appunto richiedevano un significativo sforzo di concentrazione e attenzione per ottenere delle buone performances.

Ebbene sì, i risultati confermano che lo sforzo mentale, attentivo e di concentrazione è influenzato da chi si ha vicino: nel momento in cui uno dei membri della coppia è impegnato nella versione più difficile del task, l’altro membro presenta prestazioni migliori – indicando che in qualche modo sta anch’egli lavorando con maggiore attenzione e concentrazione.

I ricercatori speculano sulla spiegazione dei meccanismi sottostanti a tale risultato partendo dalla postura corporea: chi è impegnato in un massivo sforzo mentale assume una specifica postura maggiormente in tensione, con indicatori posturali tipici della concentrazione elevata, che inconsapevolmente osservati dall’altro membro della coppia possono incidere in modo retroattivo sulla concentrazione di quest’ultimo.

Memorie – In viaggio verso Auschwitz (2015) – Recensione e Intervista al Regista

Memorie – In viaggio verso Auschwitz di Danilo Monte. Distribuito in Italia da LAB80

 

Memorie – In viaggio verso Auschwitz è un film documentario di Danilo Monte con Roberto Monte. ‘Di’ e ‘con’ non identificano come da tradizione il regista e l’attore bensì il regista che Con l’attore, suo fratello, esplora il senso del loro conflitto.

Danilo regala a Roberto per il suo trentesimo compleanno un viaggio ad Auschwitz che i due faranno insieme; Roberto ha un vissuto di tossicodipendenza e una passione per la storia, Danilo non può più rimandare un confronto che il tempo ha caricato di distanze variamente interpretabili. Nel loro percorso, che il film sviluppa inserendo video di un passato familiare sul quale intimamente ci si interroga per comprendere cosa si sia interrotto, Danilo e Roberto afferrano ciascuno le proprie idee, la rabbia che rimugina, le accuse reciproche e il tentativo di uscirne liberi, vivi, passando attraverso il bisogno di affermare le proprie ragioni su quelle dell’altro nel rischio di esasperare l’incomunicabilità.

Nel cammino verso il teatro dell’orrore mettono in scena uno scambio profondamente vero, mai retorico mai interessato alla conciliazione fine a se stessa, si danno la libertà di tenersi ognuno i propri dubbi e ognuno la possibile intolleranza verso ciò che è stato. Il conflitto diventa narrazione di temi familiari controversi, la necessità di salvarsi da un dolore che può non avere parole ma non può non essere sentito.

Danilo e Roberto forse si ritrovano, certamente ritrovano le forme particolari che il conflitto aveva offuscato nella rivendicazione cieca. L’approdo alla meta, il contatto con la memoria collettiva di un dolore insanabile, li porta a fermarsi per osservare meglio, per ascoltare e fare scorrere il flusso di ciò che prima del viaggio era caotico, non intelligibile. La spinta al confronto è costante, bisognosa ad ogni passo di ricevere ancora energia, i modi di essere si contrappongono nel desiderio forse mai veramente negato di trovare una sintesi vicina alle immagini dei compleanni, del Capodanno. L’assenza di percorsi da forzare verso un significato condivisibile è il presupposto per cercare una condivisione più difficile vincolata a un’unica condizione, che sia autentica. La parola al regista.

 

Memorie – In viaggio verso Auschwitz (2015) Intervista con l’autore

Intervistatore (I): Qual è stata l’urgenza che ti ha spinto a fare questo film?

Regista (R): Alcune problematiche erano lì da troppo tempo. Gli anni passavano, la distanza tra noi aumentava. Ho sentito che era necessario parlarsi, affrontare le difficoltà; magari litigando, ma confrontarsi. Sentivo che dovevo provare a mettere a posto una parte della mia vita.

I: Come ti sei sentito mentre giravi il film?

R: Spesso in balìa dei sentimenti. Le emozioni sono state tante, con mio fratello ci siamo accusati e difesi, ci siamo arrabbiati, ed io ho ho provato anche senso di colpa.

I: Colpa?

R: Sì. Le nostre vite sono state molto diverse, mi è capitato di pensare che in alcuni momenti avrei potuto stargli più vicino, ma allo stesso tempo mi faceva arrabbiare che lui utilizzasse i miei sensi di colpa per proteggersi. Io mi sono allontanato da alcune dinamiche, da alcune situazioni per salvaguardare me stesso; sono andato via e questo forse mi ha fatto sentire persino un traditore.


I: Cosa porta due fratelli a dividersi?

R: A volte le esperienze, il modo di crescere. Abbiamo preso strade differenti, io ho sempre avuto l’impulso di costruire, di migliorare la mia vita, lui no. Così in me è nata la presunzione di poterlo giudicare. Ma anche attraverso questo film ho capito che è sbagliato. Si doveva attraversare questo passaggio, riconoscere – grazie a mio fratello – questo istinto giudicante per comprendere ciò che in passato era sfuggito.

I: Com’è affrontare un tema così personale in un film?

R: Sentivo di non avere il polso della situazione, di trovarmi all’interno di un flusso che scorreva in modo autonomo. Avere un doppio ruolo poi, il regista consapevole che ha piena libertà espressiva e il fratello del protagonista direttamente coinvolto nella narrazione, è stato complicato da gestire emotivamente. I contenuti si intrecciano e ne scaturisce qualcosa che va al di là della singola prospettiva.

I: E la scelta di Auschwitz?

R: Oltre ad essere il luogo che più di ogni altro mio fratello voleva visitare dato il suo interesse per la storia di quel periodo, Auschwitz è il luogo dell’antiumanità dove potevamo riflettere sulla nostra umanità. Paradossalmente, il luogo dell’orrore supremo è anche il luogo più bello per crescere. È un luogo che ha un ruolo nella coscienza di tutti noi, è la nostra memoria collettiva. C’è un’energia che rimane e che si percepisce, nei luoghi dove si consuma una tragedia così grande.

I: Come si può secondo te superare un dolore profondo?

R: È difficile dirlo. Nella mia esperienza personale ho provato insieme a mio fratello a fermare per un attimo la vita, così che potessimo darci liberamente, confrontarci su temi dolorosi. Forse la possibilità di un confronto autentico con se stessi e con l’altro è una strada per dare un senso al dolore. Occorre coraggio, anche nella vicenda di questo film non sono mancate le vicissitudini, le crisi. Ecco la mia convinzione profonda è che da una crisi possa nascere la materia di un cambiamento. Andando avanti dopo una crisi ci si scopre cambiati.

I: Come influisce il passato sul presente, secondo te?

R: Influisce molto. E non solo il passato del singolo individuo ma anche, come dire, l’albero genealogico, il repertorio di atteggiamenti, abitudini, modi di essere che appartengono alla storia di una famiglia nella sua globalità.

I: Ti senti cambiato da questo film?

R: Sì. Mi sono trovato a far combaciare la vita col cinema, mi era già successo in passato e anche in questo caso l’effetto si avverte. Ho sentito l’esigenza di ripartire da me per potermi rivolgere agli altri, in modo che la mia esperienza non fosse solo un racconto personale ma diventasse anche una riflessione più ampia. Per riuscirci dovevo partire da un mio bisogno e instaurare un rapporto diretto con l’oggetto della storia. Un documentario non è un film di un regista, come avviene per le pellicole del cinema tradizionale, bensì un film di un regista con qualcuno. Questo è il mio film con mio fratello. Da questo sentimento intimo, da questa esigenza ho potuto iniziare un discorso che si aprisse alle altre persone, al pubblico.

GUARDA IL TRAILER DEL FILM

La memoria a breve termine, a lungo termine e la working memory – Introduzione alla Psicologia Nr. 30

La memoria è un magazzino all’interno del quale l’individuo può conservare tracce della propria esperienza passata, cui attingere per riuscire ad affrontare situazioni di vita presente e futura. Atkinson e Shiffrin (1968) postularono l’esistenza di tre tipi di memoria: memoria sensoriale, memoria a breve termine (MBT) e memoria a lungo termine (MLT).
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 30)

 

Nelle scorse settimane su  questa rubrica abbiamo parlato delle differenze tra memoria semantica e memoria episodica e di memoria autobiografica (ndr).

La memoria sensoriale mantiene le tracce mnestiche acquisite solo per una manciata di secondi. Malgrado il tempo di mantenimento dell’informazione sia poco, risulta comunque sufficiente per riuscire a percepire la realtà. La memoria sensoriale mostra caratteristiche diverse a seconda delle percezioni sensoriali coinvolte nel ricordo.

La memoria sensoriale visiva, memoria iconica, è una memoria che opera sotto soglia di coscienza e mantiene la traccia di immagini viste per pochi istanti. La memoria sensoriale uditiva, memoria ecoica, mantiene la traccia per circa due secondi e svolge un ruolo molto importante nel processo di comprensione del linguaggio verbale.

La memoria a breve termine (MBT) contiene le informazioni per un periodo di tempo molto breve, solitamente il tempo stimato corrisponde a una decina di secondi. Dopo questo tempo, la traccia decade. Un delle caratteristiche di questo magazzino mnestico è contenere contemporaneamente poche unità di informazioni. Infatti, in un soggetto adulto le unità contenibili nella MBT sono cinque più o meno due, variano a seconda delle caratteristiche del materiale da ricordare. Se queste informazioni non sono trasferite nel magazzino a lungo termine, ovviamente, decadono e spariscono. La MBT svolge una funzione transitoria e di servizio tra la memoria sensoriale e la memoria lungo termine. Se queste tracce riescono a essere consolidate tramite strategie comportamentali fluiscono nella memoria a lungo termine, e se così non fosse, allora sono destinate a scomparire.

La memoria a lungo termine (MLT) è un archivio avente capacità quasi illimitata, dove sono conservate tutte le esperienze e le conoscenze acquisite nel corso della vita e quelle che corrispondono al nostro carattere o temperamento. La MLT si suddivide in memoria esplicita, o dichiarativa, e memoria implicita, o procedurale. La memoria esplicita, o dichiarativa, comprende tutto ciò che può essere descritto consapevolmente dal soggetto ed è suddivisa in memoria episodica, memoria semantica e memoria emozionale. La memoria procedurale o implicita, al contrario, contiene abilità motorie, percettive e cognitive

Secondo Baddeley e Hitch (1974) esiste un nuovo magazzino in aggiunta alla memoria a breve termine: la memoria di Lavoro (MDL), o working memory. La working memory è una forma particolare di memoria a breve termine che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato. L’informazione presente nella MDL consente l’utilizzo dell’informazione stessa nel qui ed ora, quindi quando lavoriamo, ascoltiamo o dobbiamo interagire in un discorso.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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E’ tempo di connettersi! La Nomofobia e la paura di essere offline

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 18/10/2015

Un tempo, almeno così si racconta, c’era una separazione netta tra tempo connesso e tempo disconnesso, tra relazione sociale e spazio privato, tra spazio pubblico e ritiro nell’anima.

Le comunicazioni mediate da internet hanno interrotto la dicotomia tra comunicazione scritta e comunicazione orale. Esse consentono scambi sociali una volta inimmaginabili, scritti e al tempo stesso diretti e immediati come quelli orali, come avviene su chat, sui social network, in e-mail e in messaggistica istantanea. È l’oralità scritta (Pozzi e Toscani, 2008), una forma di comunicazione che abbraccia insieme la ponderazione della comunicazione scritta e l’immediatezza della comunicazione orale.

Ormai internet è disponibile con facilità in quasi tutti i posti di lavoro, sugli smartphone e nei luoghi pubblici. Si riduce la nozione d’intimità, di consapevolezza dell’esistenza di uno spazio di informazioni private e personali per le quali è necessario un atteggiamento di grande attenzione e protezione, in quanto una volta immesse nell’universo virtuale non è più possibile cancellarle né avere pieno controllo del loro utilizzo da parte di altri utenti (Rivoltella, 2001).

Eppure, ci si chiede anche: è vero tutto questo, oppure non c’è mai nulla di veramente nuovo sotto il sole? Siamo davvero drogati di connessione sociale, o siamo da sempre animali politici come scriveva Aristotele, ovvero scimmie bisognose di riconoscimento, di una droga relazionale? Hanno ragione i pessimisti conservatori o gli ottimisti che sperano nel progresso? Sbagliano i disincantati, anche se non lo ammetteranno mai, oppure i fiduciosi, e anche loro non lo ammetteranno mai?

Rispondere non è facile. Quando esattamente la connessione con internet diventa segnale di un cambiamento antropologico e culturale? Oppure, passando dal sociale all’individuale, quando possiamo dire che la connessione con internet è ormai diventata parte della personalità, e forse di una personalità disturbata? Purtroppo, o per fortuna, non vi è un limite di tempo né un numero di messaggi invitati che definisca questa possibile modificazione antropologica e psicologica. Possiamo solo dire che ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita quotidiana.

I segnali di una possibile dipendenza da Internet sono:

  • Perdere il senso del tempo online: ti trovi spesso a rimanere connesso più a lungo di quanto avessi previsto? Qualche minuto si trasforma in qualche ora? Ti irriti se vieni interrotto?
  • Avere problemi nel portare a termine i compiti, a casa o al lavoro: ti ritrovi a fare tardi al lavoro per avere utilizzato internet per motivi diversi? A casa trascuri la spesa da fare, la lavatrice o altre commissioni per passare più tempo connesso?
  • Isolamento dalla famiglia e dagli amici: pensi che nessuno ti capisca nella tua vita reale come invece fanno i tuoi amici online? Ti ritrovi a passare meno tempo con amici o famiglia e più tempo connesso alla rete?
  • Sentimenti di colpa legati all’uso di internet: ti irriti quando gli altri continuano a dire di spegnere il computer o di mettere giù lo smartphone? Non dici sempre la verità sul tempo effettivo speso online?
  • Sentire un senso di euforia quando connessi: ti ritrovi a usare internet come valvola di sfogo quando sei triste, stressato o cerchi eccitamento sessuale? Hai provato a ridurre l’uso di internet e non ce l’hai fatta?

Non si tratta solo di internet. Anche gli smartphone partecipano di questa malattia sociale e dell’anima. Nomofobia, abbreviazione della frase non-mobile-phone fobia, è la parola che descrive la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo.

Una delle caratteristiche della nomofobia, ad esempio, è proprio quella sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili. Si accompagna a questo la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo, anche quelli più intimi come il bagno, la camera da letto o lo spazio di una seduta in terapia. Insomma, siamo sempre connessi, e viviamo nel timore di sconnetterci.

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