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Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – In principio era il determinismo

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 1

L’analisi dei comportamenti devianti in adolescenza necessita di un punto di vista processuale, interattivo, dinamico che tenga conto delle caratteristiche psicologiche, relazionali, sociali peculiari e specifiche di questa fase di sviluppo.

Adolescenza e devianza, considerati singolarmente, sono due concetti molto complessi e sfaccettati; la complessità e l’eterogeneità aumentano notevolmente se poi vengono considerati nella loro relazione reciproca. L’analisi dei comportamenti devianti in adolescenza necessita infatti di un punto di vista processuale, interattivo, dinamico che tenga conto delle caratteristiche psicologiche, relazionali, sociali peculiari e specifiche di questa fase di sviluppo.

Questo assunto teorico e metodologico ormai assodato in letteratura, è tuttavia un’acquisizione piuttosto recente delle conoscenze in ambito psicologico, educativo, sociologico e giuridico; a lungo infatti sono state applicate ai soggetti in età evolutiva le stesse categorie conoscitive e di analisi utilizzate per gli adulti, in riferimento a logiche deterministiche e causalistiche per cui un dato comportamento ritenuto negativo era linearmente e meccanicamente prodotto da alcune cause sottostanti, di ordine biologico, fisico, genetico, oppure familiare, culturale, razziale. A ciò si è accompagnata una visione della rieducazione in senso positivistico, basata su concetti di personalità immatura o patologica, risocializzazione e modificazione della condotta mediante lo sradicamento dal contesto sociale e familiare ritenuto a priori deviante in prima battuta (De Leo, 1996; Rossi, 2004).

A lungo è mancata una visione capace di valutare in maniera sinergica e interattiva i fattori interni, di ordine cognitivo, affettivo, motivazionale, ed esterni, di natura istituzionale, culturale, sociale, relazionale. La letteratura psicologica, di scuola sia psicodinamica (Pietropolli Charmet, 2000; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) che psicosociale (Zani, 1995; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), è sostanzialmente concorde nel parlare non più di ‘adolescenza’ ma di ‘adolescenze’; nessuna fase del ciclo di vita infatti si mostra eterogenea, sfaccetta e diversificata come quella dell’adolescenza. Sono stati progressivamente abbandonati i modelli di analisi universalistici, che ritenevano l’adolescenza un fenomeno sostanzialmente identico per tutti e trasversale nel tempo e nelle culture umane, e i modelli patologici, che vedevano invece l’adolescenza come condizione di rottura, sofferenza, disagio.

È cresciuta nella psicologia contemporanea la consapevolezza che lo sviluppo non è un processo lineare, uguale per tutti, ma un percorso che si snoda lungo tutto l’arco di vita a partire dalle costanti interazioni tra individuo e contesti di appartenenza (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003). In questa visione sistemica e costruzionista, le traiettorie e i percorsi di sviluppo appaiono irregolari, mai prevedibili in modo deterministico. L’individuo e l’ambiente sono considerati elementi inseparabili, che si influenzano a vicenda, formando un sistema integrato e dinamico; si sottolinea il ruolo strutturante dell’azione individuale, in grado di selezionare e plasmare attivamente i contesti circostanti da cui però è costantemente influenzata e modellata, in un rapporto circolare e ricorsivo. L’adolescenza si mostra come fase evolutiva particolare, specifica, che richiede modelli teorici e di analisi in grado di tenere conto questi aspetti di complessità.

A questo proposito viene attualmente utilizzata in letteratura la nozione di ‘compito di sviluppo’ come linea guida per l’analisi e lo studio del benessere psicosociale in adolescenza (Zani, 1995; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), utile anche per meglio conoscere e interpretare anche alcuni comportamenti adolescenziali di natura problematica, come quelli violenti, devianti o criminali (Cattelino e Bonino, 1999; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

I compiti di sviluppo compaiono nei diversi momenti dell’arco di vita, sono caratteristici di alcune fasi evolutive e derivano dall’interazione tra maturazione fisiologica e nuove capacità cognitive e relazionali dell’individuo da un alto, e l’insieme delle influenze, delle richieste e delle norme sociali dall’altro. I compiti di sviluppo richiedono all’individuo l’adozione e l’applicazione di alcune strategie di diversa natura (cognitiva, affettiva, comportamentale, sociale) che gli consentano di superare efficacemente tali sfide; il fallimento nella risoluzione di questi compiti evolutivi preclude o compromette il futuro adattamento dell’individuo, mentre il successo favorisce il benessere psicosociale dell’individuo e pone le basi per l’acquisizione di nuovi apprendimenti e nuove risorse, utili per i compiti di sviluppo che si presenteranno nella fase evolutiva successiva.

L’adolescenza è portatrice di compiti di sviluppo fase specifici che spesso causano notevoli turbamenti, dubbi, sofferenze all’individuo che li deve affrontare, in quanto investono tutta la sfera socio-relazionale dell’adolescente, i suoi affetti, i suoi pensieri e la sua nicchia evolutiva nel complesso; i compiti di sviluppo richiedono all’adolescente un lavoro, spesso doloroso e difficile, di ricostruzione e ristrutturazione che investe tutte le aree significative della sua vita. Di conseguenza, gli adolescenti, per affrontare queste sfide evolutive, possono mettere in atto strategie talmente differenziate, che in base alle situazioni e ai contesti possono assumere valori e significati molto diversi tra loro; alcune possono avere un valore adattivo e protettivo per l’individuo, altre, al contrario, possono compromettere il suo benessere e fungere da fattori di rischio per il futuro adattamento. Queste acquisizioni teoriche si mostrano particolarmente adatte anche per analizzare e approfondire lo studio dei comportamenti devianti e delle condotte a rischio in adolescenza:

Si tratta di comportamenti che compaiono in quest’età e che possono, in modo diretto o indiretto, mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale, così come la salute fisica immediata o futura […]. Si tratta di comportamenti diversi, che hanno però la caratteristica comune di poter compromettere nell’immediato come a lungo termine, il benessere fisico, psicologico e sociale

Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003, p. 31-32.

Questi comportamenti sono stati a lungo definiti problematici dalle precedenti prospettive teoriche basate soprattutto sugli aspetti normativi e sulle regole della società; oppure sono stati descritti come francamente patologici, ma alla luce della nuova prospettiva di studio proposta, concependo il benessere come un costrutto complesso che coinvolge gli aspetti fisici, psicologici e sociali, è preferibile definirli come comportamenti a rischio. Si tratta, come visto sopra, di una categoria di comportamenti altamente eterogenea, di cui fanno parte comportamenti molto diversi tra loro come l’uso di tabacco, alcol o sostanze psicoattive, il furto, la menzogna, il disagio scolastico, il vandalismo, le prepotenze nel mondo reale oppure online; interpretare comportamenti così diversi tra loro sulla base di un semplicistico modello patologico impedirebbe di coglierne il significato profondo e centrale.

Infatti secondo Bonino, Cattelino e Ciairano (2003) le funzioni dei diversi comportamenti a rischio, trasversali ad essi, si riferiscono al compito evolutivo principale dell’adolescenza, ovvero lo sviluppo dell’identità; la messa in atto di comportamenti a rischio svolge le seguenti funzioni, strettamente intrecciate tra loro:

  • Assumere anticipatamente comportamenti che per l’adulto sono normali (ad esempio il fumo di sigaretta)
  • Affermare la propria autonomia come persona e come attore sociale (evidente soprattutto per la diminuzione del tempo passato in famiglia e l’aumento di quello passato con i coetanei)
  • Sperimentare le potenzialità e le possibilità delle nuove competenze acquisite (fisiche, cognitive, relazionali)
  • Mettere il sé alla prova in diversi contesti e ambiti
  • Esplorare nuove sensazioni ed emozioni, nonché limiti e reazioni sociali
  • Comunicare bisogni, sensazioni, stati mentali spesso ambivalenti e confusi
  • Condividere esperienze, azioni, emozioni (soprattutto con il gruppo dei pari)
  • Trovare un equilibrio tra i bisogni di individuazione e differenziazione (entrambi importanti per l’adolescente)

Una cornice di riferimento come questa, che tiene conto dei significati profondi sottostanti alcune condotte adolescenziali, fornisce nuovi strumenti di analisi e di indagine delle condotte trasgressive e devianti in adolescenza.

Secondo Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) la tendenza alla trasgressione in adolescenza è infatti legata a problematiche riguardanti la costruzione di un’identità autonoma e all’assunzione di un ruolo sociale; se si riconosce valore alla dimensione psicologica che è alla base delle condotte trasgressive e devianti, le si può dunque intendere soprattutto come una difficoltà evolutiva nella costruzione dell’identità sociale dell’adolescente (p. 279).

Tra trasgressività e devianza in adolescenza esiste un rapporto di continuità e discontinuità dovuto a diversi fattori, che variano in base ai comportamenti esaminati e soprattutto ai significati, impliciti o espliciti, attribuiti loro nell’ambito di una certa cultura; infatti, all’interno della cultura giovanile, vengono attribuiti significati e valori qualitativamente diversi a comportamenti che dalla cultura adulta sono esplicitamente condannati.

A partire dagli anni 80, emergono con fermezza critiche alle precedenti teorie riguardanti la devianza, ritenute tutte fuorvianti in quanto impregnate di logiche deterministiche e causalistiche e di facili equivalenze (ad esempio: presenza di un genitore criminale = criminalità nei figli; appartenenza a determinate aree urbane o gruppi etnici = criminalità). Infatti, il rapporto tra devianza, criminalità, comportamento antigiuridico da una parte e fattori psicologici, sociali, familiari, istituzionali dall’altro, risulta tutt’altro che semplice ed unidirezionale; la complessità inoltre non può che amplificarsi nel momento in cui a questa osservazione si aggiunge la presenza di soggetti minori, in quanto la fase evolutiva che stanno vivendo è già da sé caratterizzata da ineliminabili aspetti di specificità, complessità e variabilità. Non solo, ma l’adolescenza è quasi per definizione caratterizzata anche da aspetti di flessibilità e potenzialità, in quanto le strutture cognitive, affettive ed identitarie non ancora completamente definite e strutturate, offrono un terreno di lavoro estremamente fertile alle diverse figure professionali che si occupano di adolescenti in generale e di adolescenti devianti in particolare (Pietropolli Charmet, 2000; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Si apre così un percorso di riflessione epistemologica e teorica che nasce dall’insoddisfazione dalle teorie classiche sulla devianza, ritenute responsabili di produrre genericità e confusione, e che parte da una concezione di atto criminale inteso nella sua specificità processuale, specificità che lo distingue nettamente da altre forme di devianza sociale, come la tossicodipendenza, la malattia mentale, la disabilità, spesso semplicisticamente unificate sotto il criterio di deviazione dalla norma (De Leo e Patrizi, 1999). A questo fermento teorico, si aggiungono nuovi orientamenti epistemologici, proposti dalla psicologia sociale e dell’età evolutiva, che propongono una visione della realtà sociale composta di sistemi tendenti all’auto-organizzazione e in continua interdipendenza tra loro, una visione processuale del cambiamento che avviene secondo modelli di coevoluzione, una visione dello sviluppo umano non come una sequela di stadi ma di un continuo dispiegarsi di compiti di sviluppo in tutta l’arco di vita.

Secondo De Leo e Patrizi (1999), i primi segni di cambiamenti all’interno della cornice teorica ed epistemologica a proposito dello studio della devianza, possono essere rintracciati nella comparsa di alcune categorie concettuali che hanno sollecitato a ripensare il crimine da fatto ontologico, o comunque necessitato, a percorso individualmente, socialmente e normativamente costruito (p. 22). Gli autori si riferiscono ai concetti di processualità, causalità circolare, carriera deviante, attribuzione di significato, costitutivi della corrente di pensiero dell’interazionismo simbolico di Mead, della teoria di sistemi di Luhman e della teoria socialcognitiva di Bandura. Grazie a queste elaborazioni teoriche, si è fatta strada l’idea di azione violenta e criminale come risultato di processi dinamici di interazione sociale (De Leo, 1998, p. 80), restringendo il fuoco dell’attenzione sulle funzioni e sugli effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni (ibid., p.143).

La differenza fondamentale è quella che passa fra una concezione di insieme intesa come semplice sommatoria di elementi e una concezione insieme come organizzatore che cambia la natura degli elementi, come una combinazione che va studiata come tale, per come funziona come sistema

De Leo, 1998, p. 141

Appare evidente in questa citazione il cambio di paradigma e la grande influenza a questo proposito delle nuove proposte teoriche che si vanno affermando in diversi ambiti delle scienze umane; l’obiettivo è quello di restituire complessità e specificità a un oggetto di indagine che inutilmente si è cercato di ridurre a unità o a semplice sommatoria di fattori.

Il condizionamento classico – Introduzione alla Psicologia nr. 33

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 33)

 

 

Ivan Pavlov (1927) all’inizio dello scorso secolo osservò le abilità di alcuni cani di riuscire a creare una associazione transitoria tra uno stimolo somministrato dallo sperimentatore e una risposta comportamentale messa in atto dall’animale. In questo modo nasce il condizionamento classico o rispondente.

Nello specifico, accadeva che i cani riuscivano a unire uno stimolo condizionato, ovvero uno stimolo neutro individuato dallo sperimentatore (un suono), a una risposta generalmente presentata automaticamente (erogazione di cibo), detta stimolo incondizionato. Il cane dopo aver ascoltato il suono, stimolo condizionato, e visto il cibo, stimolo incondizionato, cominciava a salivare (Risposta Incondizionata). Succedeva che dopo ripetute esposizioni all’associazione stimolo-risposta, il cane iniziava a salivare non appena sentiva il suono e senza ricevere il cibo (Risposta Condizionata).

Pavlov, successivamente, osservò che se lo stimolo condizionato non era somministrato in maniera sistematica, e alla fine non era neppure più somministrato, allora la risposta condizionata perdeva di efficacia fino a scomparire del tutto. Questo fenomeno prende il nome di estinzione.

In ogni caso il ricordo dell’associazione tra lo stimolo e la risposta condizionata rimaneva nella memoria dell’animale. Infatti, ripresentando lo stimolo condizionato, la risposta condizionata ricompariva ancora una volta, ma in questo caso bastavano minori interazioni stimolo-riposta.

Inoltre, è possibile generalizzare questo fenomeno del condizionamento classico. Pavlov stesso vide che presentando stimoli condizionati diversi, tipo suoni diversi tra loro, il cane salivava ugualmente.

In ambito psicopatologico il condizionamento classico è utilizzabile per capire come si forma una fobia specifica. Se si ha paura dei ragni, alla lunga il solo pensiero di questi insetti diventa spaventoso. Non solo, lo stesso principio del condizionamento classico è utilizzato in ambito comportamentale come esercizio per riuscire a superare le fobie. Tale tecnica prende il nome di desensibilizzazione. In questo caso il terapeuta invita il paziente a esporsi in maniera graduale con l’oggetto temuto nel tentativo di estinguere l’associazione precedentemente appresa tra lo stimolo condizionato (ad es: serpente) e la conseguente risposta disfunzionale o condizionata (es: tachicardia, sudorazioni,vertigini, etc.), definita appunto risposta condizionata. Lo scopo è dimostrare che la risposta emotiva non è così spaventosa come sembra, ma è possibile gestirla.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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L’esposizione in psicoterapia. L’interazione mente-corpo contro la paura di Emiliano Toso (2015) – Recensione

L’esposizione può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”.

Siete anche voi tra quelli che alla vista di un minuscolo ragnetto strillano in maniera isterica e fuggono a gambe levate? Con una singola sessione di psicoterapia espositiva potreste vincere la vostra paura ed arrivare ad accarezzare una simpatica tarantola di 12 cm di diametro (Hauner et Al., 2012). Vi vedo scettici… Non sottovalutate la potenza dell’esposizione!

L’esposizione può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”. Tecnica tradizionalmente associata alla terapia cognitivo-comportamentale, viene in realtà utilizzata in moltissime forme di psicoterapia, in particolare per il trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche dell’ipocondria, del disturbo dell’immagine corporea e dei disturbi dell’alimentazione.

E proprio a questa tecnica lo psicoterapeuta Emiliano Toso dedica il libro “L’esposizione in psicoterapia”, in gara nell’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica.

Toso scrive un testo sì divulgativo, ma corredato di una vasta bibliografia che offre numerosi spunti di riflessione per tutti gli addetti ai lavori, facendo il punto della situazione sullo stato dell’arte di una tecnica che, secondo l’autore, oggi viene un po’ trascurata e relegata a “vecchia carcassa in disuso”.
Attraverso una disamina dei più recenti contributi scientifici riscontrati in letteratura sul tema, l’autore illustra i differenti tipi di esposizione e la loro efficacia, e si interroga sui non ancora chiari meccanismi curativi sottostanti. Inizialmente – afferma Toso – l’esposizione era considerata un mezzo per estinguere risposte riflesse e condizionate; successivamente è stata considerata un metodo per ristrutturare credenze distorte, fino ad arrivare alle concettualizzazioni più recenti che vedono l’esposizione come uno strumento per creare nuove memorie antagoniste e inibitorie.

Indubbiamente i progressi nel campo delle neuroimaging hanno contribuito a comprendere maggiormente l’esposizione, mostrando come possa modificare strutturalmente e funzionalmente alcune aree cerebrali, ma i meccanismi d’azione di base restano ancora alquanto oscuri.

ESPOSIZIONE IN PSICOTERAPIA - EMILIANO TOSO - RECENSIONE - FEATUREDAssodato che l’esposizione funziona, appare lecito domandarsi se esistono modi per aumentarne l’efficacia. A tal proposito Toso descrive sia metodi “chimici” che “fisici” utilizzati in combinazione con l’esposizione e ne discute l’efficacia alla luce di quanto presente in letteratura. Per quanto riguarda l’esposizione combinata con il trattamento farmacologico (ansiolitici o antidepressivi) la maggior parte degli studi sembrano sostenere che la combinazione porti per lo più vantaggi modesti se non, addirittura, negativi. Molto interessanti invece gli studi condotti su sostanze “cognitive enhancers” (es. L-dopa e D-cicloserina) che sembrano essere in grado di potenziare l’effetto dell’esposizione agendo sui meccanismi di apprendimento e memorizzazione. Tra i metodi fisici risultano invece di particolare interesse la possibilità di utilizzare il sonno per manipolare il fenomeno dell’estinzione, il verbalizzare ed esplicitare le proprie emozioni durante l’esposizione per ridurre le emozioni negative, e l’uso della realtà virtuale e del biofeedback.

Toso non dimentica infine di dedicare un capitolo al ruolo giocato dalla consapevolezza sia durante l’esposizione che durante l’evitamento, recuperando i contributi della Terapia Metacognitiva di Wells (esposizione metacognitiva e rifocalizzazione attentiva) e della Mindfulness.

Il testo si conclude con un tentativo, che l’autore stesso definisce forse una scelta azzardata, di fornire una propria personale concettualizzazione dell’esposizione. La teoria presentata considera l’evitamento e l’esposizione fenomeni psicologici al servizio dello scopo di “ricerca del piacere”. L’uomo, secondo Toso, per natura sarebbe infatti guidato dalla ricerca di gratificazione e non dall’istinto di sopravvivenza. Pertanto di fronte a stimoli minacciosi metterebbe in atto comportamenti di evitamento non allo scopo di sopravvivere, bensì con il fine di provare piacere evitando la sofferenza dovuta allo stimolo temuto; rimanendo però in questo modo bloccato in circoli viziosi paradossalmente gratificanti (perché riducono la sofferenza), ma che ne limitano l’esplorazione e la funzionalità. In quest’ottica, l’esposizione ripristinerebbe il funzionamento adattivo dell’individuo dando vita a nuove fonti di piacere, raggiungibili mediante comportamenti espositivi in grado di sviluppare circoli virtuosi.
Una teoria ambiziosa, che non mancherà di stimolare nel lettore riflessioni in merito.

Ciò che è certo è che Toso ci regala un testo che rende più consapevoli noi terapeuti della potenza, delle potenzialità e dei limiti dell’esposizione in modo da utilizzarla in terapia con la massima cognizione di causa, e offre ai pazienti a cui proponiamo di affrontare gli stimoli temuti la possibilità di comprendere e apprezzare una tecnica non banale né scontata, ma tanto potente da poter far sì che addirittura un aracnofobico possa arrivare a coccolarsi una pelossissima tarantola.

Gli effetti negativi delle interruzioni del sonno

Secondo uno studio condotto da ricercatori della Johns Hopkins Medicine svegliarsi più volte durante la notte è dannoso, più di quanto non lo sia la stessa quantità ridotta di sonno ma senza interruzioni, in particolare ciò che ne risulta maggiormente danneggiato sono gli stati d’animo positivi.

I ricercatori hanno studiato 62 uomini e donne assegnati in modo casuale a tre condizioni sperimentali in cui dovevano dormire in una stanza di ricerca clinica ospedaliera per tre notti consecutive: risvegli forzati, un ritardo nell’orario in cui si va a letto o sonno ininterrotto.

Dopo la prima notte, i partecipanti sottoposti alle condizioni risvegli forzati (otto) e quelli con ritardo nel sonno, hanno mostrato configurazioni simili di bassi stati d’animo positivi e alti stati d’animo negativi, misurate con un questionario standard di valutazione dell’umore somministrato prima di andare a letto in cui veniva chiesto di valutare l’intensità di una varietà di emozioni positive e negative.

Le differenze significative però sono emerse dopo la seconda notte: il gruppo di risveglio forzato ha avuto una riduzione del 31% degli stati d’animo positivi, mentre il gruppo sonno ritardato ha avuto un calo del 12% rispetto al primo giorno. Non sono state invece trovate differenze significative nell’umore negativo tra i due gruppi in uno qualsiasi dei tre giorni.

Questi dati nell’insieme mettono in evidenzia come la frammentazione del sonno sia particolarmente dannosa per gli stati d’animo positivi. Quando il sonno è disturbato per tutta la notte, infatti, non si ha la possibilità di progredire attraverso le fasi del sonno per ottenere la quantità di sonno a onde lente che è fondamentale per garantire il senso di ristoro.

Secondo i ricercatori anche se lo studio è stato condotto su soggetti sani senza patologie del sonno, i risultati possono applicarsi anche a chi soffre di insonnia: i risvegli frequenti durante la notte infatti sono comuni tra i neo-genitori e gli operatori sanitari in guardia notturna, ma è anche uno dei sintomi più comuni tra chi soffre di insonnia; chi soffre di insonnia infatti non fa mai l’esperienza di un sonno ristoratore perchè dorme a singhiozzo.

L’umore depresso è un sintomo comune di insonnia; il team di ricerca per indagare questo legame ha utilizzato un test chiamato polisonnografia – che monitora alcune funzioni del cervello e del corpo mentre i soggetti dormono – per valutare le fasi del sonno.

Il gruppo risveglio forzato, rispetto al gruppo sonno ritardato, ha avuto periodi più brevi di sonno profondo a onde lente. La mancanza di sufficiente sonno ad onde lente ha mostrato un’associazione statisticamente significativa con la riduzione degli stati d’animo positivi. Inoltre il sonno interrotto ha colpito diversi aspetti degli stati d’animo positivi, riducendo non solo i livelli di energia, ma anche i sentimenti di simpatia e cordialità.

Lo studio suggerisce anche che gli effetti del sonno interrotto sull’umore positivo siano cumulativi, infatti le differenze tra i gruppi sono emerse dopo la seconda notte e hanno continuato il giorno dopo la terza notte di studio; possiamo immaginare quali siano gli effetti dei disturbi del sonno cronici correlati alla mancanza di periodi di adeguato sonno ad onde lente.

Concorso RACCONTA LA TUA TESI: i video dei vincitori

I vincitori del concorso Racconta la tua tesi

in collaborazione con la Sigmund Freud University Milano

 

Racconta in un video di 90 secondi i contenuti chiave della la tua tesi di Laurea Triennale e vinci una borsa di studio per la Laurea Magistrale in Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University.

La giuria, composta dal Consiglio del Corso di Laurea Magistrale di Psicologia ha selezionato i migliori 3 video inviati, vincitori del concorso 2015:

 

  1. BOIANO ERICA Laureata presso l’Università degli Studi Milano Bicocca il 15/10/2015

Tesi: Genere e coraggio, uno studio psicosociale.

 

  1. ALBANESE FEDERICA Laureata presso l’Università degli Studi Milano Bicocca il 12/10/2015

Tesi: Da Fonagy a Sass: mentalizzazione, sviluppo e psicopatologia

 

  1. RIBOLI GRETA Laureata presso l’Università Telematica eCampus il 22/07/2015

Tesi: Istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione. La Psichiatria da mezzo di coercizione a strumento terapeutico per la libertà.

Visita il sito della Sigmund Freud University Milano:

LOGO SFU MILANO 2015

La dipendenza affettiva: i fattori predisponenti – Dal Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

La Dipendenza Affettiva: fattori predisponenti

M.STAVOLA (1), G.MAZZOCATO (2), R. BRAMBILLA (3), F. FIORE (4)
(1) e (2) Scuola Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Bolzano
(3) e (4) Studi Cognitivi di Milano

Scopo della ricerca è quello di verificare se fenomeni di Dissociazione e di Disregolazione emotiva conseguenti ad un Trauma infantile e uno stile di Attaccamento non sicuro sono fattori predittivi per la Dipendenza Affettiva.

La Dipendenza Affettiva fa parte delle cosiddette New Addiction, che con la pubblicazione del DSM 5, sono per la prima volta entrate a far parte della categoria denominata “Disturbi non correlati a sostanze” accanto ai “Disturbi correlati a sostanze”. Un cambiamento importante nonostante il fatto che l´unica dipendenza comportamentale introdotta è quella legata al gioco d´azzardo che esisteva già nel DSM IV ma nei “Disturbi del controllo degli impulsi”.
Ad ogni modo, come evidenzia anche il DSM 5 nella parte introduttiva al capitolo delle Dipendenze, c´è molta attenzione rivolta alle New Addiction nel tentativo di chiarirne gli aspetti salienti, fornirne evidenze e stabilire criteri diagnostici e decorsi.

La Dipendenza Affettiva, a differenza delle altre forme di dipendenza comportamentale, si sviluppa nei confronti di una persona e ciò la rende più difficile da riconoscere e da contrastare. Spesso il soggetto non ne è consapevole considerandosi vittima, in genere, di un narcisista o un manipolatore ponendo, quindi, all´esterno l´origine della propria sofferenza.

Obiettivo di questa ricerca è stato quello di verificare un modello eziopatogenetico ben noto in letteratura e cioè un modello centrato sul trauma (relazionale precoce che è uno dei fattori di rischio più importanti per lo sviluppo di psicopatologia in generale) e sull’attaccamento come rappresentazione dei modelli futuri di regolazione degli affetti. In questo modello lo stile di attaccamento insicuro/disorganizzato (il bambino è in una condizione di minaccia senza via di scampo poiché la fonte di protezione è assente o contemporaneamente fonte di pericolo) costituirà un fattore di “rischio” e vulnerabilità rispetto ai possibili esiti postumi. Chi ha subito il trauma complesso presenta due dimensioni psicopatologiche fortemente correlate tra loro: dissociazione della coscienza e disregolazione emotiva.

Per questa ricerca sono stati individuati 4 Strumenti Self-Report:
1. TRAUMA: Childhood Trauma Questionnaire – Short Form (Bernstein-Fink)
2. ATTACCAMENTO: Relationship Questionnaire (Bartholomew-Horowitz)
3. DISSOCIAZIONE: Dissociative Experience Scale (Carlson-Putnam)
4. DISREGOLAZIONE EMOTIVA: Difficulties Emotion Regulation Scale (Gratz-Roemer)

I questionari sono stati somministrati online e compilati in forma anonima da membri di alcuni Gruppi di Auto-Aiuto per Dipendenza Affettiva (spesso nominati come Gruppi di Vittime di Narcisisti o Manipolatori). Ne esistono molti e distribuiti sul territorio nazionale. Sono gruppi che si incontrano periodicamente (in genere mensilmente) e che condividono online, su alcune piattaforme web o social, informazioni e opinioni. Hanno sempre un Moderatore o Facilitatore e la presenza di uno Psicologo o Psicoterapeuta.
Il questionario è stato compilato da 201 persone nel Gruppo Sperimentale, ma purtroppo solo 99 lo hanno compilato totalmente. Nel Gruppo di Controllo il questionario è stato compilato da 75 persone.

I risultati dell’analisi comparativa dei dati aggregati ha riportato quanto segue:

TRAUMA: Nel Gruppo Sperimentale tutte le scale presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo, ma in particolar misura e significato nelle scale di Abuso Emotivo e Negligenza Emotiva;
ATTACCAMENTO: Nel Gruppo Sperimentale le scale che presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo sono quelle della scala Preoccupato e Timoroso. Interessante è il dato che nella valutazione della relazione il Dipendente Affettivo abbia un’alterazione del Modello di sé e non del Modello dell’altro. In particolare il Modello di sé Positivo (scala Sicuro e Distaccato/Svalutante) diminuisce fortemente mentre il Modello di sé Negativo (scala Preoccupato e Timoroso) aumenta fortemente. In effetti il Dipendente Affettivo non è «a proprio agio con l’autonomia» e anche il «rifiuto della dipendenza» è basso, così come è molto «preoccupato per la relazione» e ha più «timore dell’evitamento sociale»;
DISSOCIAZIONE: Nel Gruppo Sperimentale le scale presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo per la presenza di Esperienze Dissociative Patologiche e per la presenza di un Disturbo Dissociativo (valore inesistente nel Gruppo di Controllo);
DISREGOLAZIONE EMOTIVA: Nel Gruppo Sperimentale le scale presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo per la presenza di una Disregolazione Emotiva Moderata e Forte.

E’ stata inoltre sviluppata un’analisi statistica dei dati al fine di poter determinare possibili correlazioni tra le variabili, nonché la presenza di regressioni e la verifica di un modello moderazionale tra le variabili, vale a dire, la presenza di un’influenza «indiretta» tra alcune variabili.

L’analisi di Correlazione ha portato a risultati interessanti mostrando una correlazione ad alta significatività tra tutte e 4 le dimensioni (Trauma, Attaccamento, Dissociazione, Disregolazione emotiva).

L’analisi del Modello Moderazionale ha portato a risultati importanti mostrando la seguente regressione ad alta significatività:
– Trauma ha un’ influenza diretta su Attaccamento con un coefficiente di regressione (β= 0,179).
– Dissociazione ha un’ influenza diretta su Attaccamento con un coefficiente di regressione (β= 0,157).
– Trauma ha un’ influenza diretta su Dissociazione con un coefficiente di regressione (β= 0,197)

Abbiamo quindi potuto verificare che Trauma ha un’ influenza totale su Attaccamento con un coefficiente di regressione (β= 0,21).

Le “nuove dipendenze”, hanno assunto un ruolo di primo piano nel panorama dei sintomi/disturbi contemporanei sia per la loro crescente diffusione sia per l’impatto, potenzialmente nefasto, che esercitano sulla sfera soggettiva, socio–relazionale e familiare. Tali dipendenze, si manifestano nel compulsivo bisogno di ricercare l’oggetto, praticare l’attività, una coazione a ripetere o ripetizione in grado di compromettere l’esistenza stessa della persona, fuori dalle sue possibilità di controllo razionale.
Questa ricerca ha confermato quanto riportato in letteratura per le Dipendenze in generale ovvero la presenza di una maggiore Dissociazione e Disgregolazione emotiva, di uno stile di attaccamento non sicuro e la presenza di negligenza/abusi emotivi durante l’infanzia all’interno del gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo.

 

Come funziona l’intelligenza: può il genere influenzare lo sviluppo di credenze sulle abilità intellettive?

Il possedere un determinato tipo di teoria implicita sull’intelligenza sembra produrre particolari effetti sul modo in cui gli studenti affrontano il processo di apprendimento e sui risultati ottenuti.

Nella realtà quotidiana ogni individuo si ritrova ad affrontare compiti e sfide in cui vengono messe alla prova tutta una serie di abilità comunemente raggruppate sotto il concetto di intelligenza. La complessità di questo costrutto ha contribuito allo sviluppo di vari “luoghi comuni”, non del tutto corretti, sull’intelligenza (Meyer, 2000), che, nella vita quotidiana vengono utilizzati per spiegare la buona riuscita o l’insuccesso in svariati compiti. Tra le credenze più diffuse si riscontrano sicuramente quelle che identificano l’abilità intellettiva come innata e di natura immutabile (statica), per cui viene, a torto, ritenuta non suscettibile di miglioramento, nemmeno attraverso interventi educativi specifici.

Anche in ambito scolastico, di fronte ai successi o fallimenti accademici, gli studenti tendono a formarsi delle teorie sulla natura dell’intelligenza e sul modo in cui si sviluppano le abilità intellettive. Carol Dweck (2000) ha identificato due tipologie di teorie implicite relative all’intelligenza. Da un lato, si possono riconoscere studenti che considerano l’intelligenza un costrutto fisso, non modificabile e presente in una certa quantità sin dalla nascita; d’altra parte, altri ritengono, invece, che le abilità intellettive possano essere potenziate e sviluppate grazie all’impegno personale e al coinvolgimento in percorsi educativi specifici. Dweck (2000) ha definito queste credenze, rispettivamente, teoria dell’intelligenza come entitaria e teoria dell’intelligenza come fissa.

Il possedere un determinato tipo di teoria implicita sull’intelligenza sembra produrre particolari effetti sul modo in cui gli studenti affrontano il processo di apprendimento e sui risultati ottenuti (Dweck e Legett, 1988; Dweck, 2000). In particolare, bambini e ragazzi che considerano la propria intelligenza come fissa, di fronte ad insuccessi o a prestazioni al di sotto delle aspettative, tendono a demotivarsi, a ridurre il proprio impegno scolastico e a sperimentare livelli crescenti di ansia verso le prove che la scuola chiede loro di affrontare.

L’atteggiamento che li caratterizza potrebbe essere riassunto nella frase: “Non riesco perché non sono intelligente”. Questa convinzione potrebbe avere ripercussioni negative anche sull’autostima e sullo sviluppo delle relazioni sociali. In base a tali presupposti, spesso si sviluppa un orientamento motivazionale al compito basato sulla prestazione (o sull’evitamento di essa). Al contrario, gli studenti che hanno sviluppato una teoria dell’intelligenza di tipo incrementale mettono al centro del loro percorso di apprendimento l’impegno che mettono in gioco e la scelta di strategie di studio appropriate; inoltre, li accompagna spesso la consapevolezza che, per poter ottenere un potenziamento significativo delle loro abilità intellettive, è necessario, da parte loro, uno sforzo che si prolunghi nel tempo, raggiungendo e superando prove via via sempre più difficili. Tale atteggiamento è molto utile perché, in caso di insuccesso, aiuta a comprendere quali sono stati gli errori strategici che hanno contribuito a tale risultato. In questo caso, l’insuccesso non viene visto come mancanza di intelligenza ma come utilizzo non efficace delle proprie abilità (Kinlaw e Kurt-Costes, 2003), o come conseguenza di uno sforzo non gestito in modo corretto. L’orientamento motivazionale più frequente, in questi casi, è quello della padronanza del compito.

Considerando il peso che queste credenze hanno nel processo di apprendimento, ci si potrebbe chiedere quali siano le categorie di studenti che potrebbero più facilmente manifestare teorie implicite dell’intelligenza come entitaria, sviluppando perciò un atteggiamento non efficace di fronte alle sfide. Emergono alcuni elementi di criticità in relazione al genere degli studenti, per cui, in alcuni condizioni, le studentesse potrebbero essere maggiormente a rischio di sviluppare una condizione di vulnerabilità legata alle loro credenze sull’intelligenza in ambito accademico.

Già Carol Dweck (2000) aveva rilevato come le ragazze che mostrano prestazioni scolastiche molto buone tendono maggiormente a sviluppare una teoria entitaria rispetto ai coetanei maschi. Secondo la studiosa, le studentesse che ottengono a scuola risultati brillanti, ricevono molto frequentemente elogi alla loro intelligenza e doti intellettive: in tal modo, si formerebbe la convinzione che i loro successi accademici dipendono da un dato “talento” che esse hanno avuto la fortuna di possedere sin dalla nascita.

Nel momento in cui si verificasse un periodo di difficoltà scolastica o un insuccesso accademico, la valutazione potrebbe essere rapidamente ribaltata, convincendole di non essere all’altezza di determinati compiti. Tale convinzione, inoltre, potrebbe essere alimentata anche da uno stereotipo di genere, secondo il quale l’intelligenza femminile sarebbe spesso considerata meno modificabile e migliorabile di quella maschile (Verniers e Martinot, 2015). Va tuttavia rilevato che le ricerche in questo ambito evidenziano come le differenze tra ragazze e ragazzi nell’ espressione di particolari tipi di teorie dell’intelligenza non sono nette e univoche; in alcuni studi, infatti, non si evidenziano particolarità legate al genere nelle credenze sull’intelligenza (Storek e Furnham, 2012).

Una possibile spiegazione potrebbe essere legata al fatto che alcuni contesti specifici di apprendimento e aree di conoscenza possiedono particolari caratteristiche in grado di determinare una condizione di vulnerabilità per le donne, influenzandone le teorie sulla natura dell’intelligenza e, conseguentemente, gli obiettivi di apprendimento: un esempio viene offerto da Bråten e Strømsø (2006), i quali hanno rilevato che in un contesto di formazione particolarmente competitivo e prevalentemente maschile, come l’ambito dell’economia e della finanza, le studentesse tendono ad adottare obiettivi di apprendimento legati all’evitamento della prestazione in misura maggiore rispetto ai colleghi maschi. Tale condizione non è emersa, invece, per un ambito di formazione professionale comunemente considerato più “femminile”, come quello dell’insegnamento (Bråten e Strømsø, 2006), all’interno del quale, invece le studentesse tendevano più frequentemente a sviluppare un orientamento motivazionale alla padronanza del compito. Il genere andrebbe quindi considerato come uno dei vari fattori esterni, legati a caratteristiche personali e all’interazione con un determinato contesto, che tendono ad interagire nella formazione di un modello motivazionale specifico e individuale, includendo anche lo sviluppo di particolari credenze sulle abilità intellettive (Renaud-Dubé, Guay, Talbot, Taylor, Koestner, 2015).

A partire da quanto precedentemente discusso, possono essere formulate alcune indicazioni. Nella formazione delle proprie credenze sull’intelligenza e sul modo in cui essa funziona, è presente un rischio “vulnerabilità” per le studentesse; tale rischio è presente in forma ridotta e risente comunque dell’influenza di altre caratteristiche personali e contestuali. Sarebbe importante aiutare tutti gli studenti a comprendere le modalità con cui si sviluppano le abilità cognitive ed intellettive, sottolineando il ruolo dell’impegno personale per progredire nel proprio percorso di apprendimento e raggiungere gli obiettivi prefissati; inoltre, per costruire un approccio all’apprendimento maggiormente efficace, accanto a tali indicazioni, si dovrebbe sostenere lo sviluppo di un orientamento motivazionale alla padronanza del compito (Dweck, 2000).

Sarebbe inoltre raccomandabile, per educatori, insegnanti e adulti significativi, centrare le lodi o le critiche agli studenti sull’impegno che essi hanno più o meno investito nei compiti scolastici, piuttosto che sul loro “presunto” livello di intelligenza. Infine, un’altra strategia in grado di offrire supporto agli studenti nella loro attività scolastica e accademica potrebbe essere quella di far loro esplicitare eventuali pregiudizi legati al genere nell’ambito dell’apprendimento e della conoscenza. Questo non solo con lo scopo di evitare lo sviluppo di teorie dell’intelligenza entitaria (che producono conseguenze certamente non adattive per il percorso di apprendimento) ma anche per aiutare ogni bambina e ragazza a riconoscere le proprie potenzialità e a non sentirsi vincolata, nel proprio percorso accademico e professionale, a pregiudizi infondati che pretendono di determinare quali siano le scelte di studio e di carriera più appropriate per il genere femminile.

Effetti della violenza domestica su madri e figli: la prospettiva della teoria dell’attaccamento

Marika Di Egidio, Federica Di Francesco

 

Nei casi di violenza domestica la figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa.

Sempre più frequentemente ci troviamo ad ascoltare o a leggere di donne vittime di violenza domestica.
Numerosi studi evidenziano che le donne che subiscono abusi, sia fisici che psicologici, risultano spesso depresse, ansiose, possono sviluppare un disturbo post-traumatico da stress (PTSD), abusare di sostanze o tentare il suicidio (Golding, 1999; Taft, Watkins, Stafford, Street & Monson, 2011).
Attraverso la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988) è possibile spiegare i meccanismi che alterano il funzionamento psicologico delle donne vittime di violenza.

Nell’uomo, secondo Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988), esiste una tendenza innata a ricercare la vicinanza con la figura d’attaccamento in situazioni di pericolo, stress e solitudine. Il comportamento d’attaccamento si attua come ricerca attiva della figura di riferimento che accudisce e protegge. Nel tempo le modalità con le quali si entra in relazione con le figure d’attaccamento, inizialmente la madre, si stabilizzano e tendono a generalizzarsi, formando schemi cognitivi interpersonali, che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (MOI). Queste rappresentazioni apprese di sé, della relazione con l’altro e delle figure d’attaccamento s’innestano sulle componenti innate del sistema e costituiscono una caratteristica individuale che modella le relazioni interpersonali, portando alla strutturazione di uno specifico stile di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato.

Durante un evento traumatico, come la violenza, si attiva nella vittima il bisogno di cercare sicurezza e protezione nella figura di riferimento, che nella relazione di coppia è rappresentata dal partner.

Nei casi di violenza domestica, tuttavia, la figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi nella mente della donna di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa. Tale stato di disorganizzazione psicologica potrebbe portare la donna abusata a esperire deficit di mentalizzazione e stati di disregolazione emotiva molto intensi che contribuiscono a intrappolarla in una relazione disfunzionale con il partner. La disorganizzazione a livello psicologico tende a manifestarsi anche a livello comportamentale, ripercuotendosi in maniera significativa sulle interazioni interpersonali intrattenute dall’ individuo, compresa la relazione madre-figlio (Huth-Bocks et al., 2004; Solomon & George, 1996 in Levendosky et al., 2012).

Numerose ricerche (Levendosky et al., 2006; Lyons-Ruth et al., 2005; Huth-Bocks et al., 2004) evidenziano, infatti, che i bambini cresciuti in ambienti familiari violenti, testimoni di abusi perpetrati ai danni delle proprie madri, tendono a essere maggiormente esposti al rischio di subire violenze in età adulta.
Alla base di tale associazione sono identificabili diversi fattori causali.

In primo luogo, interagire con una madre picchiata e maltrattata, psicologicamente disorganizzata, costituisce un’esperienza traumatica per il bambino. La relazione genitore-figlio si realizza attraverso una serie di comportamenti contraddittori: la figura d’attaccamento è al contempo spaventata e spaventante. In una simile relazione il bambino non può far altro che strutturare rappresentazioni mentali incompatibili del genitore, fonte allo stesso tempo di protezione e di pericolo o paura (per pericoli esterni e invisibili). A queste rappresentazioni del genitore corrispondono rappresentazioni del Sé altrettanto molteplici e incompatibili. Per descrivere le possibili combinazioni di tali modelli operativi interni di Sé e dell’Altro molteplici, segregati o dissociati, Liotti utilizza il concetto di “triangolo drammatico” di Karpman, per cui in un rapporto diadico i due attori si scambiano i ruoli di vittima, persecutore e salvatore.

Il bambino in relazione con una madre abusata tenderà infatti a percepirsi, di volta in volta, come persecutore, ossia responsabile della paura o aggressività manifestate dalla figura di attaccamento; come vittima terrorizzata e impotente dell’aggressività del genitore; come salvatore, il bambino è un conforto e un’ancora di salvezza per la madre. L’attivazione di modelli operativi interni (MOI) contraddittori e incompatibili ostacola gravemente la sintesi mentale di un senso di sé unitario e coerente, impedendo anche il monitoraggio cognitivo delle emozioni relative a questi molteplici MOI, che restano segregati o dissociati dalla coscienza.

Altrettanto importante è il fatto di dover crescere con una madre violentata e traumatizzata, incapace di esercitare in maniera adeguata la propria funzione genitoriale.

Come detto in precedenza, le madri abusate si sentono donne inette e vulnerabili e presentano una forte disorganizzazione a livello psicologico. Tale visione negativa di sé le induce a considerarsi anche madri inadeguate, incapaci di gestire il proprio bambino e le spinge ad allontanarsi dalla relazione con il piccolo, a ritrarsi sul piano emotivo e ad agire comportamenti scarsamente responsivi rispetto ai bisogni espressi dal figlio. Uno stile parentale così trascurante spinge il bimbo alla strutturazione di un accudimento invertito nei confronti di queste madri così sofferenti.

La felicità di un bambino passa attraverso il soddisfacimento, fin dai primi anni, dei suoi bisogni emotivi primari, che vanno dall’amore incondizionato dei genitori al rispetto del suo essere, dal riconoscimento di chiare gerarchie familiari al supporto nell’esplorazione del mondo esterno, dalla protezione all’empatia.
Tutti questi bisogni sono di solito assicurati dai genitori e dai familiari più stretti che forniscono al bambino una “solidità” di base che lo aiuterà ad affrontare la vita ed il mondo circostante senza eccessive paure.

È evidente che nel fenomeno dell’accudimento invertito questi aspetti vengono del tutto o in parte disattesi: i ruoli del genitore e del figlio si invertono e sarà il bambino a fornire cure e protezione al genitore più debole.

I bambini che sperimentano tale forma di accudimento sono spesso percepiti all’esterno come “mini-adulti”, molto responsabili e attenti ai bisogni dei genitori. Spesso non destano preoccupazione e apparentemente l’infanzia sembra procedere per il meglio; tuttavia, negli anni, potranno manifestarsi sintomi anche gravi di ansia e depressione. La forza di questi sintomi sarà direttamente proporzionale al periodo di accudimento invertito: più breve sarà e maggiori saranno le possibilità che il bambino torni a funzionare secondo le modalità tipiche della sua età cronologica; più lungo sarà il periodo e maggiore sarà la possibilità di uno sviluppo distorto della sua personalità.

Il bambino che si trova a interagire con una madre abusata non è pertanto messo nelle condizioni di potersi percepire come un soggetto competente e degno d’affetto; al contrario tende a maturare un’idea fortemente negativa di Sé, a vedersi come un individuo non amato e non amabile. In maniera complementare, il caregiver e l’Altro tenderanno a essere visti come rifiutanti, trascuranti, non accessibili sul piano emozionale. Tali rappresentazioni di sé e del mondo rendono il bambino più vulnerabile alla violenza esponendolo al rischio di essere coinvolto in relazioni con partner abusanti in età adulta.

Il fatto di aver assistito a episodi di violenza durante l’infanzia sembra essere correlato anche al rischio di sviluppare disordini psicopatologici e comportamentali di varia natura.
Varie ricerche (Chan & Yeung, 2009; Evans et al., 2008; Holt et al., 2008; Kitzmann et al., 2003; Sternberg et al., 2006; Wolfe et al., 2003; Martinez-Torteya et al., 2012; Martinez-Torteya et al., 2009 in Levendosky et al., 2012) confermano la relazione tra esposizione a episodi di violenza domestica durante l’infanzia e disturbi comportamentali esternalizzati (aggressività, deficit attentivi, comportamenti oppositivi-provocatori, delinquenza) e internalizzati (depressione, ansia) in adolescenza e in età adulta.

I bambini testimoni di violenze perpetrate a danno delle proprie madri mostrano una particolare vulnerabilità anche nei confronti del Disturbo Post-Traumatico da Stress (Bogat et al., 2006; Graham-Bermann et al., 1998b; Levendosky et al., 2002 in Levendosky et al., 2012).
Una possibile soluzione per interrompere tale circolo vizioso è ravvisabile nella terapia cognitivo-comportamentale. Iverson et al. (2011) mettono in evidenza come le donne abusate che decidono di intraprendere un percorso di terapia cognitivo-comportamentale riducano notevolmente il rischio di sviluppare depressione e Disturbi Post Traumatici da Stress, elaborando il trauma della violenza subita e conservando un’organizzazione psicologica funzionale a garantire il benessere psicofisico dell’individuo.

Come concepire e affrontare la “crisi” nell’ottica della Psicologia della Salute

 

Nella prospettiva adottata dalla Psicologia della Salute, non sono gli eventi in sé ad esser connotati a priori come patogeni o salutogeni, quanto, invece, il modo in cui la persona affronta e si mette in relazione all’evento attivando o meno una serie di risorse a definirne i possibili esiti.

Il concetto di “crisi” sembrerebbe esser stato tradizionalmente rivestito di un alone di negatività e considerato come qualcosa da temere, da allontanare dal momento che può evolvere più in una direzione negativa che verso un esito positivo e costruttivo. Diversamente, entrambi questi aspetti sembrerebbero esser presenti se risaliamo all’etimologia: il termine Krisis, infatti, indicherebbe un momento che separa un modo di essere o una serie di fenomeni da un’altra differente; nella medicina ippocratica con esso si indicava un punto decisivo della malattia da cui avrebbe avuto origine un decorso favorevole o sfavorevole. In ambito psicologico, Sifneos (1982) definiva la crisi uno stato di sofferenza così intensa da costituire un punto di svolta decisivo verso un miglioramento o un peggioramento.

Erickson (1968) ha parlato di crisi in rapporto al processo di costruzione dell’identità, nucleo centrale dello sviluppo psicosociale della personalità, che, a partire dall’adolescenza, vede impegnato l’individuo nell’intero arco di vita. L’autore articola lo sviluppo della personalità in otto tappe, ciascuna caratterizzata da diversi compiti evolutivi, costituiti da un dilemma, un conflitto da risolvere e il cui superamento è condizionato dal contesto socio-culturale in cui si verifica. Egli parla di crisi evolutive riferendosi alle problematiche ed ai conflitti tipici di ogni fase della vita prevedendone per ognuna un successo, che condurrebbe al passaggio allo stadio successivo e all’integrazione di nuovi elementi nella costruzione della sua identità, e un possibile fallimento con le sue conseguenze: i problemi che la persona incontra e che non riesce a risolvere nel corso dello sviluppo, infatti, si accumulano e si ripresentano nella fase di sviluppo successiva.

In questo modo, il superamento più o meno completo delle varie fasi di sviluppo e la soluzione o non soluzione completa delle numerose crisi e dei problemi di identità, caratterizzeranno l’individuo nella sua interezza. In questo modello, la crisi viene, pertanto, concepita come una fase necessaria da attraversare affinché possa esserci crescita e sviluppo: ogni tappa dello sviluppo della personalità sarebbe una crisi potenziale perché implica un mutamento radicale di prospettiva, enfatizzando, in linea con quanto sostenuto nel presente lavoro, che sia il modo di affrontarla a determinarne la connotazione di fase di crescita o di accresciuta vulnerabilità.

Nella prospettiva adottata dalla Psicologia della Salute, non sono gli eventi in sé ad esser connotati a priori come patogeni o salutogeni, quanto, invece, il modo in cui la persona affronta e si mette in relazione all’evento attivando o meno una serie di risorse a definirne i possibili esiti. I cosiddetti “eventi critici” vengono concepiti come potenziali attivatori di risorse, stimolo alla ricerca di nuove forme relazionali che si addicano meglio alle mutate condizioni di crescita (Mazzoleni, 2004). Perciò, in questa ottica, la connotazione di critico fa riferimento al potenziale effetto destabilizzante e dunque di crisi: l’individuo o il sistema potrebbero, infatti, non riuscire ad affrontare alcuni compiti, rischiando in questo modo di cristallizzare schemi mentali e modalità relazionali o comportamentali; o al contrario, se sostenuti, essi potrebbero rivelarsi in grado di attingere alle risorse interne ed esterne di cui dispongono per creare forme di vita nuove e più funzionali.

Questo modo di intendere la crisi fa leva, perciò, sulla capacità reattiva delle persone che costantemente si trovano ad affrontare fattori che potrebbero potenzialmente indurre malessere. L’individuo che affronta situazioni critiche viene concepito, dunque, come competente nella ricerca di soluzioni che migliorino il proprio modo di essere ed il riconoscere le sue specifiche competenze; invece di concentrarsi esclusivamente sui deficit, può favorire una situazione di benessere.

Intendendo per resilienza la resistenza o elasticità di un materiale sottoposto ad urti improvvisi, Putton e Fortugno (2006) ne individuano sette componenti: la capacità di esaminare se stesso, farsi domande difficili e rispondersi con sincerità (insight), di mantenere una certa distanza emotiva dai problemi (indipendenza), di stabilire rapporti intimi con altre persone (interazione), di riuscire a gestire i problemi (iniziativa), il saper creare ordine e bellezza a partire dal caos (creatività), il saper relativizzare gli eventi vedendone aspetti positivi (allegria), la capacità di far riferimento a dei valori (morale).

Rispetto agli eventi critici la psicologia della salute, pertanto, non si concentra sull’ identificazione dei fattori stressanti come eventi da combattere o da evitare, piuttosto, si occupa di comprendere come alcune persone si muovono verso la salute.
Sulla scia di queste considerazioni, una delle premesse che si ritengono fondamentali negli interventi psicologici è costituita dalla fiducia nelle potenzialità evolutive degli individui e dei sistemi e dalla considerazione degli eventi critici non in quanto scostamenti da norme esterne agli individui stessi, indicatori inevitabili di patologia e pertanto necessitanti di interventi “normalizzanti”. Concepire la crisi in un’ottica dinamico- evolutiva vuol dire prestare attenzione alle premesse che orientano il funzionamento degli individui e dei sistemi ed intervenire supportando questi ultimi nella ricerca di nuove modalità di cambiamento più funzionali.

E’ un periodaccio? #VoltaPagina

Non c’è niente di meglio di un buon amico per parlare dei propri problemi… O forse si.  

Nella nostra società, e tanto più in questi tempi di crisi, non mancano i motivi per sentirsi stanchi, stressati, inquieti, confusi di fronte ai più diversi problemi che la vita può metterci davanti.

Non sempre questi stati psicofisici vanno considerati come “disturbi”: a volte lo sono, ma a volte sono una risposta “normale” che la mente e l’organismo oppongono a circostanze difficili, dolorose, problematiche. E a volte si ha l’impressione di non farcela ad affrontare da soli i problemi che inquinano le nostre giornate e ci tolgono la serenità; a volte non sapremmo neanche dire perché ci sentiamo arrabbiati, ansiosi o infelici. In questi casi è bene ammettere con sé stessi che le energie non bastano, e cercare aiuto.

Ma l’offerta di aiuto a cui possiamo rivolgerci è spesso inadeguata a recuperare uno stato di benessere: si propongono di aiutarci gli amici o i familiari, ma spesso il loro affetto e il loro sano buon senso non sono sufficienti ad affrontare la complessità dei nostri problemi emotivi; oppure cerchiamo l’intervento del medico, ma farmaci ansiolitici o antidepressivi, anche se possono darci qualche temporaneo giovamento, non modificano il contesto che ha prodotto quei problemi; e meno che mai possono essere efficaci gli interventi dei ciarlatani o di quei consulenti improvvisati che propongono soluzioni facili e superficiali che non risolvono nulla…

#VoltaPagina: IL VIDEO

 

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Disturbo acuto da stress e CBT: natura del disturbo e possibilità di trattamento

Simone Zignani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

L’ASD differisce dal PTSD per la gravità dei sintomi, che non sono riconducibili a un comune disturbo d’assestamento, e per la loro comparsa: il disturbo include infatti sia l’esperienza traumatica, sia i sintomi manifestati entro 1 mese dal trauma.

Introduzione

Il disturbo acuto da stress, emergente già dalla risposta che l’individuo dà ad un evento traumatico, emerge durante il primo mese successivo all’ esperienza traumatica.
I sintomi comprendono, tra gli altri, dissociazione, evitamento, elevato arousal, difficoltà di concentrazione; può essere inoltre predittivo di disturbi post traumatici da stress.
Nel seguente articolo si tratteranno gli elementi di funzionamento cognitivo-comportamentali peculiari di questo quadro clinico, nonché delle possibili opzioni per un trattamento efficace.

1. Il disturbo acuto da stress

Il disturbo acuto da stress (ASD) è stato introdotto nel DMS IV per dare visibilità alla situazione di forte sofferenza provata durante un’esperienza traumatica, che può successivamente dar vita a Disturbi Post Traumatici da Stress (PTSD).
Nel DSM 5 è definito secondo alcuni criteri peculiari, tra i quali ricordiamo (American Psychiatric Association, 2013):
– L’esposizione a una situazione di forte minaccia, alla vita o all’integrità fisica (questo comprende anche la dimensione sessuale), per se stessi o altri.
– La possibile comparsa di pensieri intrusivi o dissociazioni.
– Impossibilità a provare emozioni positive.
– Sintomi di evitamento, sia a livello cognitivo che comportamentale.
– Irritabilità, difficoltà di concentrazione o ipervigilanza

L’influenza ambientale, la risposta comportamentale, emotiva e cognitiva del soggetto sono componenti evidenti di questo quadro clinico, nelle quali bene si può inserire la CBT.

L’ASD differisce dal PTSD per la gravità dei sintomi, che non sono riconducibili a un comune disturbo d’assestamento, e per la loro comparsa: il disturbo include infatti sia l’esperienza traumatica, sia i sintomi manifestati entro 1 mese dal trauma (Barton & Blanchard, 1996).

2. I sintomi dissociativi nell’ASD

Sono inoltre presenti, durante l’evento traumatico (dissociazione peritraumatica) o successivamente ad esso, sintomi dissociativi quali derealizzazione, depersonalizzazione, amnesia dissociativa (Cardeñña, 2011).
Se è vero che i sintomi dissociativi sono predittivi di PTSD più gravi e problematici, è anche vero che una maggioranza di casi di ASD sotto soglia soddisfano tutti i criteri diagnostici ad eccezione di quelli riguardanti la dissociazione (Harvey & Bryant, 2003).
Questo implica una esigenza di cura, accompagnamento e trattamento che, al di là della diagnosi, rimane aderente all’esperienza traumatica vissuta e metabolizzata dalla persona, che non necessariamente ha la medesima interpretazione o risposta comportamentale di un’altra (La Mela, 2014).
Del resto, la dissociazione è una difesa che l’individuo utilizza come risposta a un’esperienza molto forte e traumatizzante per evitare il dolore, cosa che ad alcuni individui risulta più facile e quindi preferibile (Koopman & al, 1995).
Gli stessi criteri diagnostici sono abbastanza sfumati, dove evitamento e dissociazione sono due facce della stessa medaglia (Cardeñña, 2011); in definitiva lo scopo di tutte queste manifestazioni è l’evitamento del dolore.

3. Conseguenze del trauma

Le risposte che gli individui danno durante l’evento stressante hanno un beneficio immediato perché permettono di sopportare o evitare il carico cognitivo o emotivo della situazione, tuttavia nel momento in cui questi comportamenti dissociativi o di evitamento permangono essi diventano disfunzionali (Koopman & al, 1995).
La sintomatologia del PTSD, infatti, può essere collegata a quella prima risposta, che viene poi reiterata in modo da evitare di ricordare o rivivere il trauma, attivando una serie di meccanismi di mantenimento del disturbo (La Mela, 2014) che non permettono di elaborare quel dolore che mai è stato elaborato e integrato nell’esperienza dell’individuo.
Sarà opportuno quindi, in questo caso, focalizzarsi prima sul mantenimento del sintomo per poi andare più a fondo nel vissuto e rendere accessibile la parte di esperienza dissociata.

Gli stimoli ambientali processati saranno enfatizzati nella loro dimensione correlata al pericolo e alla paura (Bryant & Harvey, 1997) per la formazione di schemi mentali collegati al trauma costruiti attorno a credenze disfunzionali (La Mela, 2014), quindi dopo il lavoro sui meccanismi di mantenimento sarà necessario soffermarsi su questi core per rielaborare i loro contenuti.
Il rivivere i sintomi (come ad esempio fenomeni dissociativi, o pensieri intrusivi) legati all’ASD non comporta necessariamente un alto livello di stress correlato, fattore invece presente nei PTSD (Bryant & Harvey, 1997), tuttavia in presenza di dissociazione il livello di ansia esperito è più alto, quindi oltre al contenuto è importante anche la modalità di funzionamento dell’individuo, che adottando strategie più disfunzionali proverà anche una maggiore sofferenza psicologica.
Allo stesso modo l’ambiente relazionale circostante potrà ridurre l’utilizzo di strategie dissociative o addirittura rinforzarle, soprattutto nell’ ambito familiare (Bryant & Harvey, 2000), attivando o inibendo, ad esempio, lo schema disfunzionale carico di contenuti legati alla paura.

4. Gli antecedenti

Uno studio condotto da Kristine Barton e suoi collaboratori (1996) mette in evidenza come individui con un passato psicopatologico sono più soggetti a risposte dissociative ad eventi traumatici, hanno sviluppato quindi una vulnerabilità (La Mela, 2014) che rende le loro coping skills meno efficaci.
La vulnerabilità quindi sarà sviluppata attorno all’emozione della paura (Bryant, 2003).

Oltre a questo c’è anche una predisposizione ad evitare informazioni potenzialmente dolorose che contraddistingue i soggetti ASD, che reagiscono in questo modo peculiare e che hanno quindi, a livello cognitivo, un deficit nella memoria autobiografica, e più nello specifico una memoria associativa molto sviluppata e una bassa rievocazione (Bryant, 2003), nello specifico per i contenuti inerenti il trauma e i ricordi positivi (Bryant & Harvey, 2000).

5. Il trattamento

La CBT si rivela molto efficace subito dopo il trauma, sia per gestire i sintomi dell’ASD, sia per prevenire i PTSD.
Nello specifico il trattamento può avvenire tramite la psicoeducazione, per aumentare la consapevolezza nell’individuo dei suoi schemi e delle sue risposte disfunzionali (La Mela, 2014) e la gestione dell’ansia e la ristrutturazione cognitiva, per lavorare invece sulle core beliefs (Bryant, 2003).
Pare che proprio il focus sui meccanismi di mantenimento aiuti l’individuo a integrare il trauma ed evitare l’insorgere di PTSD, dato avvalorato dallo studio di Bryant et al. del 1998.

Gli effetti sono visibili non solo nel qui ed ora, ma anche dopo 6 mesi, il che fa intendere un cambiamento che non si ferma solo al sintomo, ma va già almeno a livello di credenze intermedie; oltre ad una più bassa emergenza di PTSD c’è anche una comparsa minore di sintomi di evitamento, un miglioramento quindi funzionale che ben contrasta l’ASD e una sua successiva evoluzione patologica (Bryant et al., 2002).
Anche un successivo studio longitudinale (Bryant et al., 2005) ha indicato come l’emergere di PTSD sia inferiore con un trattamento di CBT; inoltre, unendo la CBT all’ipnoterapia (Bryant et al., 2006), si è notato un effetto benefico, anche se inferiore alla CBT usata singolarmente.
Questo potrebbe essere dato dal fatto che la forte memoria associativa riscontrata nei soggetti affetti da ASD verrebbe rinforzata e stimolata con l’utilizzo di tecniche ipnotiche, mantenendo di fatto a livello strutturale il sintomo e diminuendo i benefici della terapia in un dato periodo di tempo; di contro, gli ASD che rispondono con meccanismi dissociativi sono più facilmente ipnotizzabili e potrebbero rispondere quindi meglio al trattamento (Bryant & Harvey, 2000).

L’esposizione, che negli studi fatti (Ponniah & Steven, 2009) può andare da 1 a 20 volte, può essere fatta a livello cognitivo o in vivo per contrastare i meccanismi di evitamento sia a livello cognitivo che comportamentale.
La ristrutturazione cognitiva, con o senza l’ausilio dell’esposizione (fino a 20 incontri), sembra dare i risultati migliori in termini di permanenza nel tempo; questo può dipendere dal fatto che lavorare sulle credenze e gli schemi disfunzionali provoca un cambiamento a livello più profondo che lavorare sulla singola strategia di evitamento, fornendo anche schemi più flessibili e quindi maggiore coping; interessante, anche se non abbastanza studiata da quantificarne l’efficacia nel tempo, l’utilizzo di entrambe le tecniche all’interno del trattamento (Ponniah & Steven, 2009).
Pensando allo schema generatosi dal trauma, rendendo i contenuti accessibili si avrà un allentamento dell’associazione stereotipata stimolo-risposta e l’inserimento di nuovi contenuti che andranno a disconfermare lo schema e a creare nuove strutture più funzionali (Bryant & Harvey, 2000).
Altri possibili sviluppi potrebbero essere l’aggiunta di sessioni di gruppo al trattamento e l’utilizzo dell’EMDR (Ponniah & Steven, 2009).
Focalizzando le tecniche descritte all’insorgere dell’ASD e non riferendosi anche ai sintomi PTSD, l’esposizione sembra avere invece un ruolo fondamentale nel bloccare l’insorgere di altra sintomatologia; questo rinforza l’idea che un trattamento tempestivo sul sintomo può permettere un lavoro successivo a livello più profondo senza permettere una degenerazione del quadro clinico.

Conclusioni

L’importanza della risposta dell’individuo all’evento traumatico è di vitale importanza per trovare un trattamento appropriato.
Prima di tutto ci fa conoscere meglio il funzionamento interno del soggetto, e quindi fa capire come i suoi schemi disfunzionali si articolino per evitare di integrare l’esperienza dolorosa.
Un focus sulla specificità della persona in tal senso potrà permettere un intervento tempestivo ed efficace che eviterà il presentarsi di PTSD in seguito.
A causa del funzionamento strutturale di questi schemi, centrati sulla paura, l’esposizione e la ristrutturazione sono operazioni fondamentali per fornire strategie di coping e disconferme che saranno utili per un mantenimento dei benefici nel tempo.
In base alla presenza e alla natura dei sintomi dissociativi si può pensare di implementare l’ipnoterapia come coadiuvante.

L’utilizzo della mindfulness per tollerare l’astinenza da nicotina

Gli interventi basati sulla Mindfulness (MBI) possono aiutare i fumatori, sopratutto quelli che non si adattano ai gruppi di auto mutuo aiuto, a smettere di fumare e a gestire l’astinenza.

In uno studio tutto brasiliano 97 fumatori e 84 non fumatori sono stati sottoposti, oltre alla raccolta di dati socio-demografici, a un questionario self-report per valutare la dipendenza da nicotina, il Fagerström Test for Nicotine Dependence; la Mindfulness è stata valutata con il Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ-BR), un questionario di 39-item che misura l’attitudine a non giudicare, l’agire con consapevolezza, la capacità di osservare, di descrivere, e di non reagire all’esperienza interiore. Il Well-Being Scale ha invece misurato la presenza e l’entità di sentimenti negativi e positivi, e la soddisfazione di vita.

I risultati mostrano che tra i fumatori, il 36,1% registrava una bassa dipendenza da nicotina, mentre il 64% mostrava un forte grado di dipendenza; non è stata osservata alcuna differenza di genere. Minfulness e benessere soggettivo (SWB) però non sembrano variare in funzione del grado di dipendenza da nicotina.

Per i non fumatori, punteggi più elevati sono stati registrati su ogni scala del benessere soggettivo, mentre, per quanto riguarda la mindfulness, punteggi significativamente più alti sono stati ottenuti nel punteggio totale, e nella capacità di osservazione, e di non reattività; anche in questo caso non è stata notata alcuna differenza di genere.

Nel confrontare i fumatori con non fumatori, i primi hanno mostrato livelli significativamente più bassi di soddisfazione di vita, emozioni positive, e SWB generale. I punteggi relativi a sentimenti negativi, transitory displeasing engagement (traducibile con litigiosità erratica) e emozioni dolorose, erano più elevati nei fumatori e i punteggi differivano significativamente tra fumatori e non fumatori.

Inoltre, bassi livelli di sentimenti positivi e elevati livelli di sentimenti negativi sono stati trovati in fumatrici di sesso femminile rispetto ai fumatori di sesso maschile e al gruppo non-fumatori. Secondo i ricercatori questi risultati suggeriscono che c’è spazio per interventi mirati in base al genere maschile o femminile e che gli interventi basati sulla Mindfulness (MBI) possono aiutare i fumatori, sopratutto quelli che non si adattano ai gruppi di auto mutuo aiuto, a smettere di fumare e a gestire l’astinenza, aumentando anche il livello di benessere soggettivo.

La virtual week: un nuovo strumento per valutare la memoria prospettica in pazienti con trauma cranico encefalico – Dal forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

La virtual week: un nuovo strumento di valutazione della memoria prospettica in pazienti con trauma cranico

Martina Torresi, Tatiana Bortolatto, Mariagrazia Esposito

L’obiettivo della ricerca è stato quello di valutare la memoria prospettica (MP) in pazienti che avevano subito un trauma cranico encefalico (TCE) utilizzando un nuovo strumento: la Virtual Week.

Per MP intendiamo la capacità di ricordare intenzioni da svolgere nel futuro e distinguiamo tra intenzioni basate sul tempo (time-based) e intenzioni basate sull’evento (event-based). Le prime si riferiscono ad azioni determinate dal passaggio del tempo (ricordare di eseguire un’azione ad un certo momento, o dopo un certo periodo di tempo) e vengono recuperate grazie a strategie interne auto-attivate e controllo volontario. Le seconde vengono recuperate grazie alla comparsa di un cue esterno (ricordare di fornire un messaggio ad un collega quando lo vediamo) e richiedono un minor coinvolgimento delle funzioni di controllo volontario.

Sulla base della letteratura abbiamo ipotizzato che: 1) le prestazioni fossero peggiori nei compiti time-based rispetto a quelli event-based, 2) emergesse una maggiore capacità di apprendimento dei compiti regolari rispetto a quelli irregolari.

E’ stata indagata inoltre l’esistenza di una possibile correlazione significativa tra la MP e le funzioni esecutive (FE). Un gruppo di 18 soggetti con TCE è stato confrontato con un gruppo di 18 soggetti sani, i quali sono stati valutati con la Virtual Week e con strumenti volti a valutare le FE tra cui:

– Wisconsin Card Sorting Test,

– Trail making test A-B,

– Test di fluenza semantica

– Test di fluenza fonemica.

E’ stata utilizzata la versione computerizzata della Virtual Week, la quale rappresenta una settimana virtuale. Ai partecipanti è stato richiesto di ricordare e svolgere 8 compiti di MP per ogni giorno virtuale (tre in tutto), di cui 4 regolari e 4 irregolari, rispettivamente 2 event-based e 2 time-based. È stata condotta un ANOVA per gruppo, tipo di compito e condizione.

I risultati evidenziano un effetto principale del gruppo, tipo di compito e condizione: i pazienti con TCE hanno ottenuto una prestazione meno accurata rispetto ai controlli nei compiti di MP, e vengono confermate le nostre ipotesi secondo cui le prestazioni risultano più accurate nei compiti regolari rispetto ai compiti irregolari, e nei compiti event-based rispetto ai time-based. Si evidenzia inoltre un’interazione significativa tipo di compito x condizione: ovvero i compiti regolari event-based vengono eseguiti con maggiore accuratezza rispetto a quelli regolari time-based, i compiti irregolari event-based vengono eseguiti con maggiore accuratezza rispetto a quelli irregolari time-based, e quando i compiti sono time-based la performance risulta più accurata quando il compito è regolare. Emergono inoltre correlazioni positive significative tra i compiti di MP e le prove volte a valutare le capacità di ricerca visiva, monitoraggio e switching attentivo.

Concludendo, la ricerca ha confermato la presenza di possibili difficoltà relative all’abilità di MP in pazienti con TCE, evidenziando la relazione tra abilità di MP e abilità di funzionamento esecutivo. Il nostro studio inoltre ha avvalorato la validità della Virtual Week, nel valutare la MP.
In futuro potrebbe essere interessante utilizzare la Virtual Week anche come strumento di riabilitazione della MP, apportando modifiche nella procedura.

 

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Il peso dei passati legami di attaccamento nella scelta del partner e nell’organizzazione della propria vita affettiva

Daiana Aufiero, Ilenia Magnani, Laura Marchesini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

E’ proprio vero che l’amore romantico, quello che si legge nei romanzi e si vede nei film, che dura tutta la vita, non esiste nella realtà? Ed è altresì vero che i legami di coppia sono pieni di passione nelle fasi iniziali, per poi affievolirsi col passare del tempo? Come avviene la scelta del proprio partner?

Per rispondere a queste domande facciamo riferimento alla teoria dell’attaccamento, formulata negli anni Sessanta da uno psichiatra inglese di nome Bowlby, per dimostrare che le relazioni sentimentali si sviluppano seguendo un percorso che contribuisce a un buon adattamento dell’individuo al suo ambiente sociale e fisico (Attili, 2004). E’ grazie alla teoria dell’attaccamento che possiamo spiegare come un uomo, arrivato all’età adulta, organizzi la propria vita affettiva in funzione dei passati legami di attaccamento, mettendo in luce il ruolo che le relazioni della prima infanzia possono avere nel predire il futuro successo di una relazione di coppia. L’interesse di Bowlby era nato con l’osservazione di Lorenz e delle sue paperelle: costui aveva notato che appena nate, quelle papere seguivano la prima cosa che passava loro davanti agli occhi e che ciò continuava per il resto della loro vita. A quel punto Bowlby si è interessato agli studi condotti dagli etologi e ha potuto constatare che, in diverse specie, una varietà di comportamenti sembrava avere lo stesso obiettivo: la vicinanza fisica.

Se alcuni romantici spiegano l’incontro tra due persone come il frutto del caso, Bowlby pensa che il formarsi di una coppia poggi sulle capacità del coniuge di confermare le rappresentazioni che sono state costruite su di sé e sugli altri fin dalla prima infanzia. Bowlby ha usato il termine omeostasi rappresentativa per spiegare che ci si lega a qualcuno che non faccia vacillare il sistema di rappresentazioni così saldo in noi.

Ciò che si vorrà arrivare a dimostrare è che è proprio l’attaccamento il filo che tiene unita una coppia, secondo il processo dell’attaccamento, che porta i partner a provare certe emozioni durante la loro relazione. Secondo questa teoria arriveremo a vedere come l’amore all’interno di una coppia possa essere riconducibile all’amore che lega un bambino alla madre, e come il rapporto madre-bambino può spiegare il complesso legame d’amore tra adulti.

La comprensione dell’attaccamento in età adulta richiede una comprensione della teoria dell’attaccamento in sé (Crittenden, 1999). La teoria dell’attaccamento, sviluppata da Bowlby (1962-82, 1973, 1980), è una teoria riguardante la funzione e lo sviluppo del comportamento protettivo umano. La teoria è nata come integrazione di teorie etologiche, evoluzionistiche, psicoanalitiche e cognitive.

La teoria dell’attaccamento presuppone che gli esseri umani hanno una predisposizione innata a formare legami di attaccamento con persone significative, che questi legami hanno la funzione di proteggere la persona attaccata, e che queste relazioni esistono dalla fine del primo anno di vita fino alla morte. L’attaccamento in sé è definito come un bisogno innato di ricercare per tutta la vita la vicinanza protettiva di figure di riferimento in momenti di difficoltà. Bowlby per primo contesta la teoria di Freud secondo la quale il legame madre-bambino si basa solo sulla necessità di nutrimento del piccolo: infatti non pensa che il legame che unisce il bambino alla madre sia solo per soddisfare il suo bisogno di nutrizione, ma che sia un bisogno primario.

Bowlby parla di Modelli Operativi Interni (MOI) cioè di schemi mentali che ciascuno di noi costruisce nel corso della propria vita, interagendo con l’ambiente, cioè rappresentazioni interne di se stessi, delle proprie figure di attaccamento e del mondo. Essi hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi da parte dell’individuo, consentendogli di fare previsioni e crearsi aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale; questo concetto spiega come le esperienze di vita guidino i nostri comportamenti futuri. I MOI del bambino possono continuamente essere ridefiniti sulla base dei cambiamenti della realtà esterna e della relazione con la figura di attaccamento che muta con il mutare del bambino.

Non tutte le relazioni umane, anche quando sono significative, sono relazioni di attaccamento. Perché si parli di attaccamento devono essere presenti tre condizioni di base (Weiss, 1982). Prima di tutto è necessaria una ricerca della vicinanza tra la persona attaccata e la persona che offre attaccamento; questa ricerca è molto evidente nel bambino piccolo in relazione con la madre. L’altro elemento fondamentale è la reazione di protesta per la separazione, cioè quell’insieme di comportamenti di attaccamento che si manifestano nel momento in cui ci si sente in pericolo perché la relazione non è più garantita. La terza e ultima condizione è la base sicura, cioè la particolare atmosfera di sicurezza che si instaura tra figura attaccata e figura di attaccamento. Bowlby (1988) ha spiegato come un bambino o un adolescente per esplorare l’ambiente extra-familiare abbia bisogno di sentirsi sicuro di poter ritornare sapendo che la base sicura sarà li ad aspettarlo.

Verso la fine degli anni Sessanta, l’attaccamento incominciò ad essere oggetto di studi sistematici. Il contributo primario di Mary Ainsworth alla teoria dell’attaccamento riguarda aver trovato delle differenze individuali nella qualità di attaccamento (Ainsworth et al., 1978). Questo è stato possibile grazie a una semplice procedura di laboratorio, chiamata Strange Situation, volta a misurare l’attaccamento in bambini di 1-2 anni. Furono identificati quattro tipi di attaccamento:

  • Attaccamento sicuro (B) in cui il bambino ha una madre presente, in grado di rispondere ai bisogni di conforto e protezione del figlio; in questo modo il bambino con attaccamento sicuro sa di poter accedere alla protezione della madre quando vuole e quindi è desideroso di esplorare il mondo e allo stesso tempo di ritornare alla sua base sicura nel momento in cui gli si presenta un “pericolo” (per esempio l’avvicinarsi di un estraneo).
  • Attaccamento insicuro-evitante (A) in cui il bambino ha una madre in genere non in grado di rispondere ai suoi bisogni, di conseguenza questi bambini si sentono rifiutati dalla figura di riferimento e temono costantemente il rifiuto dell’altra persona, pur ricercando l’approvazione degli altri per colmare il proprio vuoto. Sono bambini che imparano a inibire le loro emozioni e che non si sentono amabili e desiderabili; come conseguenza il bambino evitante tenderà a distaccarsi dalla madre e successivamente a iper-esplorare l’ambiente circostante.
  • Attaccamento insicuro-ambivalente (C) in cui il bambino ha una madre che risponde alle sue richieste ma in modo non costante, sono madri imprevedibili. In questo modo il bambino si sente a volte amabile altre volte rifiutato e quindi mette in atto una strategia di controllo serrato sulla madre: infatti questi sono bambini che ipo-esplorano l’ambiente perché hanno paura a separarsi dalla loro figura di attaccamento.
  • Attaccamento insicuro-disorganizzato (D) in cui il bambino viene messo in pericolo dalla madre, questo determina un crollo del sistema di attaccamento e di conseguenza i bambini manifestano comportamenti paradossali e disorganizzati.

Hazan e Shaver (1987; 1992) sostengono l’idea che l’innamoramento è un processo d’attaccamento che viene vissuto dagli individui in maniera diversa, a causa delle loro differenti storie di attaccamento. Hazan e Shaver (1987) hanno dimostrato la forte somiglianza tra attaccamento infantile ed attaccamento adulto, portando prove empiriche e dimostrazioni teoriche a sostegno della teoria dell’importanza dello stile di attaccamento nelle relazioni amorose. La ricerca ha analizzato la relazione esistente tra stile di attaccamento e diversi aspetti delle relazioni stabilite nell’infanzia e nell’età adulta. Tale studio è stato condotto negli Stati Uniti su un campione di 620 soggetti, aventi un’età media di 36 anni. Si è chiesto inizialmente ai partecipanti di scegliere tra tre descrizioni standard di sentimenti di sicurezza o insicurezza affettiva, quella che meglio li descriveva ed in base alla loro scelta sono state individuate le persone sicure, quelle insicure-ansiose evitanti e quelle insicure ansiose ambivalenti. Nella fase successiva si è invece chiesto ai soggetti di individuare le caratteristiche salienti delle loro relazioni d’amore all’interno di una scala di aggettivi.

Gli individui categorizzati come Sicuri descrivevano i loro amori come basato sulla fiducia e loro stessi come felici, in grado di accettare aiuto e di offrirne al loro partner malgrado questo avesse commesso errori. Emerge, inoltre, un altro dato degno di nota, le loro relazioni avevano avuto una durata maggiore (10 anni in media) di quelle dei soggetti classificati come Ansiosi Ambivalenti (4 anni e 8 mesi in media), nonché di quelle dei soggetti classificati come Ansiosi Evitanti (5 anni e 9 mesi in media). Gli individui che rientravano, invece, nella categoria Ansiosi Evitanti  descrivevano le loro relazioni come basate sulla paura dell’intimità, sulla gelosia e su alti e bassi emotivi. Gli amanti Ansiosi Ambivalenti avevano una paura di amare altrettanto profonda, alla base di questa paura emergeva una mancanza di fiducia che si manifestava con sentimenti ossessivi nei confronti del partner, forte desiderio di unione e di reciprocità al di fuori della realtà, sentimenti ambivalenti, gelosia e attrazione sessuale.

Evidenziate le differenze possiamo però anche concludere dicendo che dai risultati di questa ricerca emerge che l’amore romantico ha alcuni tratti comuni a tutti gli individui e che le differenze tra gli individui non sono relative solo all’intensità quanto alla diversità di ciò che si prova.

Emerge inoltre che le persone che avevano indicato stili di attaccamento differenti presentavano differenze anche per quanto riguardava la loro storia di attaccamento, le descrizioni dei modelli mentali e le esperienze sentimentali. Infatti, gli individui Sicuri si mostravano consapevoli che i sentimenti romantici nel tempo possono subire delle fluttuazioni ma non escludevano che l’amore potesse poi raggiungere nuovamente l’intensità iniziale, mostravano così di credere nell’amore duraturo. Esprimevano sentimenti di fiducia e si ritenevano persone amabili. Gli Ansiosi Evitanti invece ritenevano che l’amore romantico è impossibile da trovare e che nessuno si innamori realmente, pensavano inoltre che non ci fosse bisogno dell’amore per essere felici. Gli Ansiosi Ambivalenti si innamoravano facilmente al punto da perdere la testa, ma analogamente agli Ansiosi Evitanti, ritenevano quasi impossibile trovare l’amore.

Questa ricerca si è conclusa dimostrando che la distribuzione dei tre stili di attaccamento è risultata sovrapponibile a quella riscontrata negli studi sui bambini, emerge che è la qualità della relazione con l’uno e/o l’altro dei genitori, nonché quella della relazione tra i due genitori stessi, ad essere associata alla loro sicurezza o alla loro ansia affettiva.
Gli individui Sicuri riportavano di aver avuto genitori caldi ed affettuosi, rispettosi, non intrusivi e non opprimenti, sia con i figli che tra di loro. I soggetti Evitanti riportavano comportamenti freddi e rifiutanti da parte della madre ed una relazione quasi inesistente tra i genitori. Gli amanti Ambivalenti, riferivano una madre gradevole ma imprevedibile e di un padre ingiusto, ed una relazione tra i genitori calda ed affettuosa ma non tanto quanto quella dei soggetti classificati come Sicuri.

La ricerca di Hazan e Shaver (1987) sembra evidenziare come le nostre esperienze amorose da adulti dipendano veramente da come si è sviluppato il nostro legame di attaccamento nella prima infanzia e come con la nostra diversità nel modo di amare vada ricondotta alla qualità delle relazioni sperimentate nell’infanzia con i nostri genitori.

Il tratto fondamentale, dunque, che accomuna le relazioni di attaccamento tra partner adulti e quelle tra genitori e figli è che in condizioni di stress gli individui cercano la vicinanza della figura di attaccamento per ricevere conforto e rassicurazione (Ainsworth, 1985; Weiss,1986). Ci sono, però, aspetti secondo i quali la relazione madre-bambino e il rapporto di coppia si differenziano per alcune ragioni.

In primo luogo, nelle relazioni d’amore, entrambe i partner possono in alcune occasioni divenire ansiosi e cercare di essere rassicurati, oppure prendersi cura dell’altro e cercare di farlo sentire al sicuro. Fisher e Crandell (2001) parlano di attaccamento complesso per indicare la natura duale dell’attaccamento di coppia ed anche la bidirezionalità della dipendenza reciproca che caratterizza le relazioni sentimentali tra adulti. Questi autori sottolineano quindi come ciascun partner agendo come figura d’attaccamento, dovrebbe tollerare l’ansia di essere dipendente dall’altro e anche di essere l’oggetto della dipendenza dell’altro. Fisher e Crandell (2001) hanno descritto i vari possibili matching delle diverse tipologie emerse nell’AAI di ciascun partner:

  • Attaccamento di coppia sicuro: quando entrambe i partner si spostano liberamente da una posizione dipendente a quella di essere oggetto di dipendenza dell’altro, esprimendo apertamente il bisogno di conforto e contatto, come pure quello di accoglienza del contatto, segnalando un equilibrio dei due aspetti nell’individuo e nel sistema (Vellotti e Zavattini, 2013).
  • Attaccamento di coppia insicuro che si divide in
    • Attaccamento di coppia distanziante/distanziante in cui entrambe i partner negano i sentimenti di dipendenza e vulnerabilità;
    • Attaccamento di coppia preoccupato/preoccupato in cui i partner esprimono sentimenti costanti di deprivazione ed una convinzione reciproca che l’altro non potrà mai soddisfare il bisogno di conforto;
    • Attaccamento di coppia distanziante/preoccupato in cui il partner preoccupato si sente cronicamente deprivato ed abbandonato, mentre il partner distanziante appare infastidito dai bisogni di dipendenza dell’altro, conducendoli ad una dinamica del tipo inseguitore-distanziante spesso fioriera di relazioni di tipo altamente conflittuale. Questo è il matching che più frequentemente ricorre alla psicoterapia di coppia, il partner distanziante evita di essere dipendete e minimizza l’importanza del legame e il parner preoccupato sentendosi cronicamente deprivato ed emotivamente abbandonato esaspera l’importanza della prossimità psichica e la richiesta di rassicurazione sul piano degli affetti. (Vellotti e Zavattini, 2013).
  • Attaccamento di coppia sicuro/insicuro: la presenza di un partner sicuro, grazie alla capacità di assumere sia le posizioni di dipendenza, sia di essere l’oggetto di dipendenza da parte dell’altro, potrebbe offrire un’esperienza emozionalmente correttiva al partner insicuro che, in questo modo, potrebbe riuscire comportarsi in modo più flessibile e bilanciato (Vellotti e Zavattini, 2013).

Analizzando quanto emerso dagli studi di Hazan e Shaver e da quelli di Fisher e Crandell si può ipotizzare che le relazioni adulte siano influenzate dall’incontro delle strategie di regolazione delle emozioni desunte dalla storia personale dei due partner e che particolare importanza debba essere data al modo in cui i modelli rappresentazionali dei partner si incastrano tra loro (Vellotti e Zavattini, 2008). Il modello d’attaccamento sarebbe quindi una variabile mediatore che incide sulla qualità della relazione di coppia, un filtro tra la percezione non solo di sé e dell’altro, ma anche della relazione in quanto tale.

Un secondo punto di distinzione è l’attrazione: l’amore di coppia è sempre accompagnato dall’attrazione sessuale (Tennov, 1979). Sia Bolwby (1979) che la Ainsworth (Ainsworth et al. 1978), hanno ipotizzato l’esistenza di sistemi comportamentali distinti che comprendono il sistema di attaccamento ed il sistema che regola la prestazione di cure e quello che regola l’accoppiamento e la riproduzione. L’amore adulto comporterebbe l’integrazione di questi tre sistemi attraverso modalità legate alla storia di attaccamento degli individui (Shaver, Hazan, Bradshaw, 1988).

Altra questione di rilevanza è la continuità tra lo stile di attaccamento stabilito nell’infanzia e quello presente in età adulta. Ci sono ricerche che hanno ipotizzato che la continuità tra l’infanzia e l’età adulta, diminuisse con l’avanzare degli anni (Skolnick, 1986). Main, Kaplan e Cassidy (1985) hanno rilevato che, nonostante l’esistenza di un’intensa associazione tra la storia di attaccamento degli individui adulti e lo stile di attaccamento dei loro figli, alcuni genitori si erano liberati da un aspetto transgenerazionale. Infatti, alcuni che genitori avevano avuto un attaccamento insicuro con i propri genitori, erano riusciti a gestire bene al relazione con i figli tanto che, i loro bambini, potevano essere considerati come sicuri. Main, Kaplan e Cassidy hanno affermato che questi genitori erano riusciti a rielaborare le esperienze avute con le proprie figure di genitoriali, arrivando a costruire modelli mentali di relazione più vicini a quelli di soggetti sicuri (Carli, 1985).

Ci sono dati (Engeland e Faber, 1984) che suggeriscono, inoltre, che i modelli di attaccamento non sono necessariamente fissati durante l’infanzia ma rispondono a cambiamenti dell’ambiente, tipicamente interpersonali o di caregiving. Studi effettuati utilizzando la Strange Situation mostrano diverse classificazioni di attaccamento con cargiver differenti (esempio madre e padre); i bambini mostravano modelli di attaccamento differenti con persone diverse (Briges, Connell, Belsky, 1988; Lamb, 1977; Main, Weston, 1981). Quindi la letteratura che si occupa di attaccamento infantile sostiene l’idea che durante l’infanzia alcune persone cambiano modello di attaccamento o mantengono modelli di attaccamento diversi nel tempo e con persone diverse, e che questo è in gran parte dovuto a esperienze nel loro ambiente interpersonale. Questo fa pensare che le cose possano andare nello stesso modo in età adulta.

Gli studi che hanno esaminato la corrispondenza tra la classificazione dell’attaccamento nell’infanzia e nell’età adulta, mostrano che il cambiamento è possibile. Ci sono studi che hanno messo in luce una corrispondenza minima tra le classificazioni di attaccamento infantile e adulto, suggerendo che il cambiamento è l’evento prevalente (Lewis, Fiering, Rosenthal, 2000; Weinfeld, Sroufe, Egeland, 2000). Altri studi, invece, hanno mostrato una corrispondenza significativa, benché non perfetta, tra l’infanzia e l’età adulta, suggerendo che alcune persone cambiano ma che molte non cambiano (Hamilton, 2000; Waters, Merrick, Treboux, Crowell, Albersheim, 2000).

Importante prendere in esame gli studi che si sono occupati di esaminare i predittori del cambiamento, quali eventi di vita significativi (perdita di un genitore, divorzio dei genitori, psicopatologia dei genitori, maltrattamento del bambino) e hanno trovato che il cambiamento in direzione dell’insicurezza è associato a queste esperienze negative di vita (Waters el al., 2000; Weinfield et al., 2000).

Altre ricerche si sono occupate di analizzare la sicurezza nelle relazioni sentimentali adulte, utilizzando come classificazioni: evitamento dell’intimità e ansia di essere abbandonato. Nel tentativo di valutare la stabilità di queste classificazioni e dimensioni è stato chiaro che benché ci sia una moderata evidenza di stabilità, molte persone (circa il 30%) riferiscono diversi stili di attaccamento e molte persone mostrano fluttuazioni nel livello di sicurezza nel corso del tempo (Baldwin, Fehr, 1995; Baldwin, Keelan, Fehr, Enns, Koh-Rangarajoo, 1996; Davila, Burge, Hammen, 1997; Davila, Karney, Bradbury, 1999). Non è chiaro se questo costituisca o meno una prova a conferma di una pervasiva e duratura riorganizzazione di modelli e comportamenti di attaccamento, possiamo però sostenere che in alcune persone e in determinate circostanze si verificano dei cambiamenti nei loro modelli di attaccamento adulto.

Attualmente esistono tre modelli predittori di cambiamento nella sicurezza dell’attaccamento adulto. Il primo modello life stress sostiene che il cambiamento nel livello o pattern di sicurezza di attaccamento si verifica in risposta a significativi eventi di vita o di cambiamenti significativi nelle circostanze di vita; il primo a proporre tale modello è stato Bowlby (1969/1982), il quale sosteneva che il cambiamento relativamente duraturo nei modelli di attaccamento potesse verificarsi come tentativo di adattarsi a nuove circostanze di vita in via di sviluppo ed emotivamente significative (Collins, Read, 1994). Il modello cognitivo-sociale sviluppato originariamente da Baldwin e collaboratori (Baldwin, Fehr, 1995; Baldwin et al., 1996) cerca di spiegare perché le persone riferiscono diversi modelli di attaccamento in tempi diversi. Secondo tale modello, il cambiamento nel pattern di sicurezza di attaccamento è un risultato di stati della mente che cambiano, ovvero i soggetti riferiscono diversi livelli o pattern di attaccamento a seconda di ciò che è attivato nella loro mente in un dato momento. Quindi benché le persone possono avere un tipo di attaccamento stabile nel tempo e sempre accessibile, le persone hanno anche diversi modelli di attaccamento o schemi relazionali che possono essere attivati da circostanze specifiche (Baldwin et al., 1996; Davila et al., 1999). Il cambiamento nell’attaccamento, dunque, è dovuto alla possibilità di accedere a diversi modelli in diversi momenti a seconda delle circostanze attuali della persona. Il terzo ed ultimo modello, quello delle differenze individuali, è stato anche proposto come spiegazione del perché alcune persone riferiscano diversi livelli o pattern di sicurezza. Questo modello afferma che i soggetti che presentano determinati fattori di vulnerabilità (per esempio, divorzio o psicopatologia dei genitori, disturbi di personalità o soffrono di una qualche psicopatologia) saranno più inclini a cambiare livelli e modelli di attaccamento, in quanto hanno sviluppato modelli di sé e degli altri poco chiari, che rendono dunque instabili anche i loro modelli di attaccamento (Davila et al., 1997).

Lo stile di attaccamento può influenzare anche il comportamento sessuale. Come?

Inizialmente il pensiero psicoanalitico ed ora le ricerche sperimentali (Shane, Shane & Gales, 1999; Liotti, 1999; Fraley & Shaver, 2000; Crittenden, 200; Davis, Shaver & Vernon, 2004; Eagle, 2005; Davis et al., 2006) sostengono che il comportamento sessuale possa essere messo in atto allo scopo di regolare stati emotivi e soddisfare bisogni non primariamente sessuali che la persona non riesce a gestire diversamente. Il desiderio sessuale garantisce nuovi modi di cercare conforto e ridurre l’attivazione emotiva. Nel caso in cui non fossimo in grado di integrare le diverse spinte motivazionali che fanno parte di una relazione intima adulta (attaccamento, accudimento e sessualità) possiamo arrivare a frammentarle cercando soddisfazione in relazioni differenti o in modalità disfunzionali (Crittenden, 2002). Inoltre, come possono essere confusi comportamento sessuale e ricerca di conforto (sessualità e attaccamento), può avvenire lo stesso con sesso e aggressività (sessualità e competizione), in modo particolare negli uomini. L’aggressività può così essere espressa sessualmente confondendola per amore da entrambi i partner.

In teoria non ci si lega ad una persona percepita come imprevedibile o ancora sconosciuta. Dall’altra parte, sembra che l’eccitazione sessuale venga ridotta dalla famigliarità e dalla prevedibilità ed invece intensificata dalla novità, dalla non famigliarità e dalla diversità (Eagle, 2005). Ci si trova così a dover integrare le motivazioni che ci legano al nostro partner con quelle che ci spingono a conoscerne altri; la forma più tipica di attaccamento adulto implica quindi l’integrazione tra diversi sistemi comportamentali: attaccamento, accudimento e sessualità (Shaver & Hazan, 1992).

I motivi che stimolano la ricerca del contatto in età adulta, per lo meno agli inizi della relazione, è l’attrazione sessuale (Weiss, 1982; Shaver, Hazan & Bradshaw, 1988; Tombolini & Liotti, 2000). Studi sull’attaccamento hanno, inoltre, suggerito che i modelli operativi interni assimilino le esperienze amorose ed i nuovi partner alle aspettative già esistenti riguardo al Sé e all’altro. Nei momenti in cui si verificano cambiamenti drastici, quali la formazione o la rottura di una relazione di attaccamento adulta, i modelli operativi interni devono modificarsi per incorporare nuove informazioni su di sé e sull’altro (Feeney & Noller, 1995). Solamente i modelli che risultano sufficientemente accurati, cioè aggiornati, genereranno un comportamento adattivo nelle relazioni. Se invece non si riescono ad aggiornare i propri modelli operativi interni, i loro comportamenti verranno guidati da assunzioni inesatte.

Nel caso in cui nel rapporto tra due adulti venga confermato il modello operativo interno di un precoce attaccamento insicuro si verificherà il previsto ostacolo all’esperienza sessuale pienamente condivisa e felice (Liotti, 1999). In questo modo si instaurano forme di attaccamento insicuro tra i partner che costituiscono il fondamento di esperienze sessuali insoddisfacenti o incomplete perché il sesso può essere utilizzato come sostituto di altri bisogni relazionali, non sessuali, o perché ogni piacere sessuale può essere inibito da emozioni dolorose commesse al sistema dell’attaccamento (paura, collera, sofferenza) che il soggetto non riesce a gestire. L’attaccamento sicuro tra i partner che vivono esperienze sessuali è invece una precondizione necessaria perché l’esperienza sessuale possa essere vissuta in maniera libera, piena e non conflittuale.

Secondo Shane, Shane e Gales (1999) il reclutamento della sessualità al servizio dei bisogni di attaccamento rappresenta un’ampia categoria che copre molte manifestazioni sintomatiche diverse, esempio la dedizione patologica al sesso, le ossessioni sessuali ed altro, in questo modo il soggetto utilizza l’esperienza sessuale come via attraverso la quale raggiungere una sensazione di benessere, di auto-protezione e di sollievo dal senso di essere da solo. L’esperienza sessuale diviene così un modo per soddisfare i bisogni di attaccamento.

Il comportamento sessuale può essere vissuto diversamente, in rapporto alle due dimensioni di attaccamento identificate da Bartholomew & Horowitz (1991): evitamento e ansia. Le persone con attaccamento evitante mettono in atto strategie in grado di disattivare i bisogni di attaccamento e la ricerca di vicinanza ed intimità. Il comportamento sessuale può quindi essere vissuto in modo scollegato dai bisogni di attaccamento, oppure li soddisfa ma in modo individuale, anche quando viene sperimentato con un’altra persona, con la quale però non vi è un reale coinvolgimento intimo, il sesso viene utilizzato come un meccanismo di autocura.

Secondo gli studi di Shaver e Hazan (1992) e Allen & Baucon (2004) i soggetti con attaccamento evitante sono soggette a vivere la sessualità in modo più promiscuo e mantenendo una distanza emotiva. Inoltre l’evitamento è risultato essere correlato positivamente con l’utilizzo del sesso al fine di manipolare l’altro o esercitare un controllo su di lui (Davis, Shaver & Veron, 2004). Gli evitanti risultano inoltre essere più preoccupati, rispetto agli ansiosi, elle conseguenze negative dei comportamento sessuali non protetti (Davis et al.,2006). Le persone con attaccamento ansioso vivono spesso l’amore come un’esperienza che implica ossessione, desiderio di reciprocità e di unione, alti e bassi emotivi, una fortissima attrazione sessuale e sentimenti di gelosia (Hazan & Shaver, 1995). Il sesso per loro verrebbe utilizzato per ricevere rassicurazione dell’amore e della disponibilità del partner, per cercare di controllare lo stato emotivo dell’altro e di ravvicinarlo a sé, sostituendo gli stati emotivi negativi con sentimenti di accettazione e desiderio di vicinanza, è un modo per esercitare potere nei confronti del partner. Gli ansiosi tendono ad interpretare l’attività sessuale come un termometro dello stato della relazione, il sesso diviene quindi il modo per mostrare la propria vicinanza ed il proprio affetto nei momenti di difficoltà (Davis, Shaver & Vermon, 2004). Contrariamente alle persone con uno stile di attaccamento caratterizzato dall’evitamento, quelle ansiose tendono a metter in atto comportamenti rischiosi per la propria salute quando questi vengono percepiti come negativi per l’intimità (Davis et al.,2006).

Le persone che invece hanno uno stile di attaccamento caratterizzato da un forte ansia ed un forte evitamento vengono solitamente da situazioni di abuso e trascuratezza, l’esperienza sessuale per loro solitamente non è piacevole e a volte, non implica nemmeno i genitali.

Le ricerche sopra citate sostengono l’ipotesi che il comportamento sessuale possa essere utilizzato al fine di compensare e soddisfare i bisogni di attaccamento che non siano stati adeguatamente riconosciuti e soddisfatti nel passato, e che la persona non è in grado di esprimere e gratificare nel presente. Le motivazioni e le finalità con le quali il sesso viene vissuto sono poi diverse a seconda dello stile di attaccamento e variano anche in funzione dell’identità di genere. Le persone tenderebbero a ricercare relazioni con partner che confermano le loro convinzioni riguardo all’attaccamento.

Quando e come cominciamo ad instaurare un attaccamento adulto?

Secondo Perlam, 1988, la fase finale della trasformazione del sistema di attaccamento dell’infanzia, è proprio quella in cui si compie la scelta di una figura di attaccamento adulto. Sono stati dedicati molti lavori, e sono state formulate molte teorie sulle determinanti della scelta del compagno: Dove gli occhi van volentieri, anche il cuore va, né il piede tarda a seguirli – sostiene Carlo Dossi, per sottolineare quanto vale l’aspetto esteriore nella scelta del partner.

E’ considerato il fattore più importante nel decidere di accettare o meno un primo appuntamento con una persona, come dimostrato dallo studio condotto da Walster e collaboratori (1996) all’Università del Minnesota. Ma questo aspetto non è il solo ad influenzarci, perché entrerebbero in gioco altri fattori: culturali, socioeconomici, legati all’età, alla somiglianza e allo stile di attaccamento. L’influenza di quest’ultimo diventa, inoltre, molto più preponderante nel prosieguo del rapporto determinandone la durata, l’andamento e il grado di soddisfazione provato dai partner (Kirkpatrik, Davis, 1994).

Essere fisicamente attraenti è importante soprattutto negli stati iniziali di un rapporto per varie ragioni: si può pensare che individui d’aspetto piacente e gradevole abbiano anche altre doti (ciò che è bello è buono), o che si possa acquisire prestigio facendosi vedere con un bell’uomo o una bella donna. Da alcune indagini è emerso che attributi come la socievolezza, l’intelligenza e la salute mentale vengono associati alla bellezza, indifferentemente per gli uomini e le donne, mentre calore sessuale è accomunato esclusivamente alle sembianze femminili (Feingold, 1990). Alla lunga, per gli uomini la bellezza rimarrebbe uno degli elementi di maggiore interesse, mentre per le donne lo diventerebbero requisiti diversi, quali il potenziale economico e lo stato sociale (Singn, 1995).

Secondo Vandenberg (1972), invece, nella società occidentale gli individui s’innamorano e si sposano sulla base della somiglianza per una o più caratteristiche fenotipiche. Le correlazioni positive più frequenti nella coppia riguardano la religione e il fatto di volere o meno dei figli, mentre si hanno correlazioni meno significative a proposito della preferenza per un partner socialmente brillante, artist-intelligente, disponibile a adattarsi (Rim, 1989).

Buss e Barnes, occupatisi in particolare delle differenze tra sessi, sostengono che le donne desiderano un compagno onesto, fidato, gentile, comprensivo, accomodante, con un lavoro sicuro. Un uomo con buone risorse economiche garantisce dei vantaggi ai propri figli, nel presente e nel futuro, anche in termini di produttività genetica. Le mogli si aspettano che i mariti offrano, dunque, una certa sicurezza finanziaria e questi sono in genere pronti ad accontentarle (Koestner, Wheeler, 1998). Gli uomini, invece, sognano creature affascinanti, che sappiano cucinare e che siano frugali.

Secondo le teorie relazionali nella scelta del partner ci si orienta verso una persona che, oltre a proporsi come oggetto esterno che promette il soddisfacimento dei bisogni di dipendenza, è anche in grado di ricordare qualche figura importante del passato, come quella genitoriale, o perfino qualche parte di sé. La scelta del partner può, pertanto, essere o complementare all’identità genitoriale e/o personale, o in contrasto a questa. In un caso abbastanza comune di scelta complementare, l’individuo, identificato con l’immagine del genitore dello stesso sesso, ricerca un partner che gli ricordi l’immagine interna del genitore del sesso opposto, mentre nella scelta per contrasto, sceglie un partner che non corrisponda all’immagine interna del genitore del sesso opposto. Dicks (1967) sostiene che in realtà la complementarietà dei bisogni è solo una delle possibili modalità di scelta del partner, che si riscontra soprattutto in quelle relazioni in cui i partner, a causa di conflitti interpersonali risalenti al passato, non possono assumere determinati ruoli, che vengono a essere così rigidamente polarizzati. L’aspettativa di veder appagati dal partner i propri bisogni si ritrova, almeno a un certo livello, in tutte le coppie, specie nella fase iniziale del rapporto.

Successivamente, queste aspettative illusorie vengono piano piano ridimensionate. Nel caso di una relazione sana, equilibrata e funzionale, il processo di crescita e maturazione comporta una progressiva, anche se non indolore, accettazione della reale personalità del partner. Ciò significa che le gratificazioni reciproche non saranno limitate ai momenti in cui l’altro accetta di impersonare per il partner il perduto opposto, ma si potranno rinvenire anche nella scoperta di una insospettata somiglianza rispetto a certe caratteristiche o tratti di personalità.

Nel caso in cui i partner desiderano riprodurre nella propria coppia il tipo di interazione coniugale della propria famiglia di origine, significa che entrambi si sono identificati con l’immagine del genitore del proprio sesso e che hanno scelto un partner che ricordava loro l’immagine interna del genitore di sesso opposto. Quando il partner non si rivela poi così rassomigliante all’agognata figura genitoriale, possono emergere tensioni. Ci si comporta con l’altro come se questi fosse realmente l’oggetto de passato e, in modo regressivo, si cominciano ad utilizzare gli stessi mezzi infantili di allora, per mostrare ostilità o per piegare l’altro al proprio volere. Proprio perché tale dinamica coinvolge contemporaneamente entrambi i partner, ciascuno di loro è, allo stesso tempo, sia il genitore frustrante e ambivalente amato, sia il bambino che cerca di ribellarsi.

Nel caso della scelta per contrasto, invece, i partner respingono i modelli genitoriali e cercano in tutti i modi di dar vita a una coppia assolutamente diversa e distinta da quella della propria famiglia. La delusione è davvero grande quando alla fine si rendono conto che, malgrado gli sforzi profusi, stanno entrambi mettendo in scena quegli stessi schemi che credevano di essersi lasciati alle spalle.

Se la scelta del partner è stata determinata dal cosiddetto fenomeno dell’attrazione degli opposti, può accadere che proprio quelle caratteristiche, così diverse, così lontane dall’immagine che l’altro ha di se stesso e che pure tanta parte avevano avuto nell’attrazione iniziale, vengono successivamente perseguitate perché corrispondenti, in realtà, ad aspetti rimossi e repressi della propria personalità. Un individuo che non può ammettere l’esistenza di certi aspetti di sé, non può accettare neppure nel partner la presenza di qualità simili, non è in grado di integrarli nei propri modelli relazionali, nei propri pattern comportamentali.

In sostanza, le dinamiche proprie delle relazioni oggettuali possono spingere una persona a vedere nel partner esclusivamente le proiezioni dell’oggetto d’amore investito in modo ambivalente, anche in palese contraddizione con le reali qualità dell’altro.

Nella fase iniziale del rapporto, grazie al processo di idealizzazione, il partner viene percepito solo nel suo aspetto positivo di oggetto buono, e quindi la relazione procede senza incontrare grandi difficoltà. Nel corso del tempo, inevitabilmente, il coniuge non si dimostra all’altezza del ruolo di oggetto idealizzato. Può allora subentrare una percezione idealizzata di segno opposto, in cui il partner viene ora visto esclusivamente come oggetto cattivo, odiato e persecutorio. Secondo questa concezione, quindi, il rapporto di coppia costituisce lo scenario ideale di rappresentazione dei rapporti oggettuali non risolti del passato.

Secondo la la Teoria di Byng-Hall (1995), nella selezione del partner, una persona si sofferma su un individuo che gli dà prove di poter mettere in atto almeno alcuni dei ruoli del suo script familiare e viceversa. In questo modo si spiega anche perché durante la fase del corteggiamento i partner spendono tanto tempo nel raccontarsi la propria storia passate l’infanzia in particolare: è un modo per verificare se i rispettivi script familiari sono compatibili e se dai due potrà nascere un nuovo script familiare condiviso che, comunque, manterrà tracce di quelli precedenti. I bambini, infatti, apprendono delle interazioni familiari e tendono a ripetere almeno alcuni aspetti della propria famiglia di discendenza sotto forma di script ripetitivi. Tenderanno anche a cancellare dai propri modelli e pattern relazionali esperienze e stili di comportamento che nella famiglia d’origine hanno trovato inaccettabili o troppo dolorosi, formando così, script correttivi.

L’analisi e lo studio delle coppie rivela, in sostanza, che in numerosi casi il processo di scelta del partner porta a orientarsi verso una persona capace di inserirsi negli script transgenerazionali del partner. Molto spesso si predilige una persona che possa impersonare ruoli e mettere in atto comportamenti che in passato hanno fatto soffrire il soggetto in questione, in grado che questi ora possa opporsi in modo più efficace di quanto sia stato in grado di fare nel passato. Il fatto che il partner rivesta ruoli appartenenti al passato del soggetto, script ripetitivi, inoltre, consente a quest’ultimo di mantenersi fedele alla propria famiglia d’origine. In altri casi, invece, viene scelto un partner che possa mettere in atto uno script correttivo, impersonando ruoli e caratteristiche opposte a quelle della famiglia d’origine del soggetto. E’ evidente come in entrambi gli scenari i partner forniscano un servizio reciproco, in quanto si permettono a vicenda o di correggere il passato o di dimostrare fedeltà alla propria famiglia d’origine. Sono sempre presenti contemporaneamente, sia script correttivi che ripetitivi, e a seconda delle circostanze e delle fasi della relazione verrà messo in atto ora l’uno, ora l’altro.

La teoria dell’attaccamento

La teoria dell’attaccamento, nella concezione Bowlbiana (1979), descrive la tendenza degli esseri umani a stringere legami affettivi preferenziali con gli altri individui, oltre ai genitori, lungo tutto l’arco di vita. Pertanto, la nascita di un legame di attaccamento può corrispondere alla fase di innamoramento. I diversi modi in cui i diversi individui affrontano questo momento delicato, che porterà poi alla formazione di una coppia stabile, dipendono e sono influenzati proprio dal modello fornito dalla relazione precoce tra bambino e genitore (Hazan, Shaver, 1987). Il rapporto esistente tra attaccamento e amore viene comunemente illustrato mediante il concetto di modelli operativi interni o working models. Questi modelli si formano a partire dalle esperienze con le figure di accudimento; Comprendono componenti sia affettive che cognitive e servono creare delle rappresentazioni interne di ciò che ci si può ragionevolmente e presumibilmente aspettare dagli altri.

La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere che i modelli di attaccamento si mantengono relativamente stabili nel tempo, in virtù di una certa continuità tra l’esperienza avuta con i genitori e la successiva capacità di stabilire relazioni intime, pur ammettendo che, a loro volta, le nuove relazioni e in particolare i rapporti di coppia, possono modificare i modelli operativi. Quindi, non solo il legame di attaccamento con il partner può essere diverso da quello che si aveva nella famiglia d’origine, ma addirittura è possibile estendere questo nuovo modello anche al rapporto con la famiglia d’origine, trasformandolo.

La teoria dell’attaccamento fornisce una spiegazione plausibile dei diversi tipi di relazione che un uomo e una donna possono instaurare e di come le universali dinamiche sottostanti vengono diversamente congiunte dai singoli individui fino a produrre stili di relazioni diverse.

Lo stile di attaccamento influenza in maniera così determinante la scelta del partner proprio perché ogni stile implica una serie di attese e timori riguardo ai rapporti interpersonali, in modo che solo un partner con aspettative e timori compatibili potrà essere selezionato (Feeney, Noller, 1991). Secondo la teoria dell’attaccamento, quindi, il rapporto che si instaura tra due partner sarebbe sostanzialmente analogo a quello che unisce madre e figlio, sia per quanto riguarda il bisogno di intimità e condivisione e le aspettative di ricevere conforto e sostegno che per la sofferenza provocata da separazioni e da minacce alla relazione (Hazan, Shaver, 1987). Inoltre, la nascita del legame di attaccamento tra due partner adulti seguirebbe le stesse linee di sviluppo, ricerca di vicinanza, rifugio sicuro, base sicura, previste nell’attaccamento tra madre e bambino.

  • Ricerca di vicinanza: attrazione interpersonale significa che ci sentiamo attratti da qualcuno e quindi vogliamo essere fisicamente e psicologicamente vicini e che speriamo che anche l’altro voglia le stesse cose. Quindi anche la relazione di coppia inizia come ricerca di vicinanza, ma rispetto alle relazioni di attaccamento madre-bambino probabilmente la relazione iniziale è diversa. Nel caso del bambino, infatti, la causa principale che lo spinge ad avvicinarsi alla madre è la paura o la necessità, mentre nel caso degli adulti il motivo iniziale che spinge ad avvicinarsi a un possibile partner è l’interesse sessuale o, secondariamente il desiderio di alleviare una sensazione di solitudine.
  • Rifugio sicuro: una volta che l’attrazione reciproca e l’interesse sessuale hanno condotto alla vicinanza e dato vita a una nuova coppia, perché questa duri ne tempo devono subentrare altre componenti che contribuiscono a mantenere il legame. Tali fattori possono essere identificati proprio nella capacità di fornirsi reciprocamente conforto e sicurezza, ossia nella capacità di essere l’uno per l’altro un rifugio sicuro.
  • Base sicura: a questa fase si arriva solitamente, nel caso dei partner, solo dopo un lungo periodo di prova della relazione e dopo un impegno esplicito in tal senso, come potrebbe essere quello della formalizzazione del legame attraverso il matrimonio (Hazan, Shaver, 1987). Gli studi dimostrano che i soggetti con attaccamento sicuro tendono a scegliere un partner che a sua volta presenta un attaccamento sicuro, mentre, sorprendentemente, gli accoppiamenti evitante-evitante o ambivalente-ambivalente sono poco frequenti e di breve durata (Senchak, Leonard, 1992).

In realtà, quello che è emerso dalle ricerche è che gli individui insicuri scelgono sì un partner con attaccamento insicuro, ma di tipo diverso dal loro. La funzione di una scelta del genere sarebbe quella di confermare la percezione di Sé e degli altri e di giustificare la ripetizione dei propri modelli relazionale (Bartholomew, 1993). Infatti, un evitante, con la sua paura dell’intimità e il suo bisogno di mantenersi a una certa distanza dall’altro, scegliendo un partner ambivalente, che invece aspira a un’unione assolutamente fusionale, non fa altro che trovare conferme alla propria visione negativa degli altri e a trovare giustificazioni per il suo non coinvolgersi troppo. Analogamente l’ambivalente trova conferme alle proprie paure e insicurezze e giustificazioni per la propria dipendenza proprio dal continuo allontanarsi dell’evitante (Bartholomew, 1990).

Collins e Read (1990) hanno fatto notare come molto spesso le persone ricercano un partner che per quanto attiene l’attaccamento, ricorda loro il genitore di sesso opposto (correlazione positiva tra descrizione del proprio attaccamento di uno dei due e descrizione dell’altro attaccamento al dì genitore di sesso opposto). Ciò potrebbe dipendere proprio dal fatto che il rapporto con i propri genitori e l’accudimento che riceviamo da loro influenzano e determinano le nostre aspettative, il nostro modo di pensare a noi stessi e agli altri, caratteristiche queste, che poi inevitabilmente si ripercuoteranno nei nostri rapporti e relazioni. In particolare, poi, la maggior importanza che sembra avere il genitore di sesso opposto è probabilmente dovuta al fatto che questi e il rapporto con questi serva da modello per le relazioni eterosessuali.

Inoltre, le caratteristiche dello stile di attaccamento del partner che è possibile preveder in base allo stile di accudimento del genitore di sesso opposto, risentono di una differenza di genere. Nel caso delle donne, infatti, il tipo di rapporto avuto con il padre permette di prevedere quanto il partner ricerchi l’intimità e accetti di dipendere dagli altri, mentre per quanto riguarda gli uomini la descrizione del rapporto con la madre permette di fare previsioni sul gradi di ansia della partner (uguale timore dell’abbandono e di non essere amato).

I soggetti con stile di attaccamento sicuro, quindi non solo hanno maggiori chance di dar vita a una relazione soddisfacente e appagante, ma si dimostrano anche in grado, all’occorrenza, di porre fine al rapporto senza eccessive difficoltà . Il grado di soddisfazione coniugale degli individui con stile di attaccamento insicuro, invece, si riduce molto velocemente, e altrettanto rapidamente si deteriorano la fiducia e l’impegno reciproco; L’ambivalente vorrebbe sempre chiarire tutto e discutere di ogni cosa, ma così facendo spaventa l’evitante, che invece cerca in tutti i modi di sfuggire al conflitto (Collins, Read, 1990).

Dunque, alla luce di tutto ciò, è ancora logico pensare che l’amore non ha logica?? Pare proprio di no! Come diceva Pascal, logico e filosofo che di sentimenti e di esprit de finesse se ne intendeva: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

Il professore sul ring: perchè gli uomini combattono e a noi piace guardarli?

Gottschall racconta efficacemente i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: paura del dolore ma anche della brutta figura causata dal sottrarvisi; piacere della vittoria ma anche soltanto della lotta in sé.

Nel corso dell’ultimo secolo innumerevoli testi – da “Essere e tempo” alla “Guida galattica per autostoppisti” – hanno sottolineato che porre le giuste domande è più importante che offrire le giuste risposte. Se una simile impostazione è corretta, probabilmente il libro di Gottschall può esserne un caratteristico esempio. Gli interrogativi che pone, in effetti, sono di estremo interesse, riguardando il significato degli sport di combattimento (e più in generale degli sport, se non addirittura del gioco inteso come game e non come play), dal punto di vista del loro rapporto con la guerra, degli interrogativi etologici che pongono, delle questioni relative al genere ad essi collegate.

Tutte le domande, però, sarebbero riconducibili a quella formulata nel sottotitolo: “Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli?.

Già questa frase, tuttavia, contiene uno sgradevole retrogusto sessista o è il frutto di un singolare atto mancato di pretta marca freudiana (che non è frutto della traduzione, perché l’originale suona altrettanto ambiguamente “Why men fight and why we like to watch”). Le implicazioni di queste parole sembrerebbero: (1) sono i veri uomini che combattono; (2) tutti gli altri (“noi”) possono solo guardare; (3) sia le donne che gli uomini di serie B sono attratti dai combattenti. Certamente una simile impostazione è molto lontana dalla volontà conscia dell’autore, ma per molte ragioni la lettura del libro non fuga del tutto il dubbio iniziale.

Occorre subito rimarcare che l’autore non è uno psicologo (malgrado tenga un blog entro “Psychology Today”): si tratta di un docente di letteratura angloamericana della Pennsylvania che ha impostato questo lavoro su un doppio registro: l’osservazione partecipante e la ricerca bibliografica. In realtà, però, il rimarchevole sforzo di trarre informazioni da fonti estremamente varie (dalla letteratura all’etologia, dalla sociologia ai manuali sportivi, dai fumetti alla pubblicità) non serve a formulare ipotesi da suffragare con la ricerca empirica; né il racconto delle proprie esperienze sul campo, pur letterariamente tornito e perfino appassionante, può in qualche modo confermare tesi tratte dalla letteratura scientifica.

Il progetto nasce in modo certamente originale. Gottschall, secondo quanto egli stesso riferisce, al momento di formularlo è un adjunct professor (l’equivalente, grosso modo, di un ricercatore) in cerca di un’idea abbastanza forte da lanciarlo verso una brillante carriera o farlo definitivamente licenziare. L’apertura di una palestra di mixed martial arts nei pressi del suo dipartimento gli ispira l’idea di mettersi alla prova e contemporaneamente utilizzare la propria esperienza per scrivere qualcosa di nuovo. Gottschall non è a digiuno di arti marziali, avendo praticato il karate al college, ma è curioso di sperimentare cosa significhi allenarsi per un combattimento relativamente privo di limiti e ritualizzazioni.

Le mma sono in effetti una specialità marziale particolarmente violenta, pensata per i cosiddetti combattimenti nella gabbia (il famigerato octagon), nei quali gli avversari si affrontano in incontri letteralmente senza esclusione di colpi. Al punto che i colpi agli occhi o ai genitali, negli incontri di livello professionistico, sono puniti da una multa ma non dalla squalifica. I combattimenti nella gabbia, in effetti, nacquero come una sorta di barbaro esperimento per stabilire quale arte marziale fosse realmente più efficace. Allo scopo si confrontarono tra loro alcuni tra i più illustri esponenti delle più varie forme di lotta. Il risultato fu in generale la cocente sconfitta delle specialità orientali ad opera di tecniche meno coreografiche ma più semplici ed efficaci come streetfighting e kickboxing. Poiché però il dominatore delle prime edizioni del campionato mondiale risultò un praticante del ju-jitsu brasiliano (basato sulla lotta a terra), i candidati iniziarono ad allenarsi sia a colpire (striking) sia a lottare (grappling). Così si è sviluppata, anche su un piano amatoriale, la disciplina eclettica alla quale Gottschall si è allenato per quindici mesi, arrivando fino a combattere un incontro pubblico vero e proprio (oltre che a infortunarsi innumerevoli volte).

Gottschall racconta efficacemente i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: paura del dolore ma anche della brutta figura causata dal sottrarvisi; piacere della vittoria ma anche soltanto della lotta in sé.

Ciò che meno convince, però, sono le sue tesi di fondo. Il combattimento sarebbe di per sé una prerogativa naturalmente maschile, allo stesso modo in cui lo sono le lotte tra maschi animali della stessa specie per accoppiarsi con le femmine.

Il fatto che il numero dei praticanti di arti marziali di sesso femminile sia in costante aumento non smuove le sue convinzioni: a suo avviso il maschio è naturalmente fighter e la donna naturalmente cheerleader; esattamente come l’uomo sarebbe naturalmente portato ad attribuire maggiore importanza al potere e alle sfide e quindi più interessato alla politica rispetto alle donne. A suo avviso la stessa distinzione tra sesso e genere sarebbe il frutto di una sorta di equivoco politicamente corretto: gli uomini e le donne non attuerebbero comportamenti attesi dalla cultura dominante ma sarebbero geneticamente predisposti ad agirli. Caratteristico della superficialità con la quale spesso Gottschall si muove è la sua modalità di escludere a priori una componente omoerotica nel piacere del combattimento. A suo avviso è sufficiente prova al riguardo considerare il fenomeno della ritrazione istintiva dei genitali durante la lotta (legato alla necessità di proteggerli).

Rimane senza risposta (ma in questo caso giustamente) un’altra delle questioni fondamentali affrontate dal libro. Se non esistono sport di combattimento collettivo vero e proprio, esistono però molti sport popolari di squadra nei quali gli scontri fisici possono essere piuttosto violenti e per diversi ricercatori hanno, con intenti diversi, da tempo sottolineato l’affinità con il conflitto bellico.

Questi sport sono (come pensava Konrad Lorenz) un modo per incanalare una naturale aggressività umana all’interno di un rituale privo di rischi, o sono al contrario un modo per alimentare l’aggressività che alla guerra conduce?

Dietro le sbarre della tossicodipendenza: un’indagine esplorativa in carcere

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

DIETRO LE SBARRE DELLA TOSSICODIPENDENZA: UN’INDAGINE ESPLORATIVA IN CARCERE

Autrice: Alessia Maisano, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

ABSTRACT

Questo studio nasce per identificare il lavoro svolto dagli psicologi all’ interno del carcere in relazione ai detenuti tossicodipendenti ed in termini di reinserimento sociale di quest’ultimi. L’ idea iniziale da cui si è sviluppata la ricerca è stata quella di poter verificare se la partecipazione da parte dei detenuti ai gruppi trattamentali, da letteratura lo strumento più utilizzato nell’ ambito della cura delle tossicodipendenze, potesse effettivamente portare ad un cambiamento nello stile di vita e negli atteggiamenti degli stessi.

Allo scopo di definire con precisione il modo con cui questa modalità di trattamento viene portata avanti, è stata eseguita un’ analisi esplorativa mirata a raccogliere dati sia sulla struttura individuale e personale del soggetto, sia sul trattamento a lui proposto. L’ obiettivo di questo studio è stato quello di effettuare un confronto pre-post tra i dati ottenuti dai soggetti relativamente al loro stato di benessere psichico e comportamentale e alla soddisfazione relativa alla partecipazione all’ attività in questione.

E’ emerso come il gruppo abbia un effetto di cambiamento positivo sui soggetti in relazione alla presenza di problematicità relazionali e di elevato livello di dipendenza.

ABSTRACT

This study was designed to identify the work carried out by psychologists with drug- addicted prisoners in terms of social rehabilitation. The idea was to determine whether the participation of prisoners to trattamental groups, the most used therapy in the treatment of addiction, could actually lead to a change in their life style and attitudes.

In order to define the way this treatment is carried out, experimental analysis were done through collecting data on both individual and personal dimension of the subjects and on the proposed treatment. The main goal of this study was to realize a pre-post comparison between data related to the psychical and behavioral well-being of the prisoners and their satisfaction concerning the participation in the activities. As result of this research is emerged that the rehabilitation treatment could lead to a positive change of the person, in relation to the presence of relational problems and high level of addiction.

Keywords: Tossicodipendenza, carcere, terapia di gruppo, trattamento, clinica.

 

Watching eye effect: sentirci osservati ci rende più onesti e generosi

Il bisogno di approvazione sociale è così forte che anche la sola presenza di un paio d’occhi, per esempio raffigurati in un dipinto, è efficace nel motivare il comportamento in tal senso.

La vista di un paio d’occhi può scoraggiare le persone dal mentire e dal comportarsi in modo egoistico; sentirci osservati, infatti, ci spinge ad aderire maggiormente a norme e regole comunitarie. Il bisogno di approvazione sociale è così forte che anche la sola presenza di un paio d’occhi, per esempio raffigurati in un dipinto, è efficace nel motivare il comportamento in tal senso.

Un nuovo studio giapponese ha osservato il watching eye effect nella situazione in cui due valori sociali entrano in conflitto: l’onestà e l’aiutare chi ne ha bisogno. Ai partecipanti allo studio è stato chiesto di tirare un dado per determinare l’entità di una donazione da parte degli sperimentatori alla Croce Rossa giapponese, in aiuto alle vittime del terremoto e dello tsunami del 2012. Il lancio dei dadi avveniva in privato, in modo che i soggetti potessero decidere di mentire sul risultato per aumentare la donazione.

La metà dei partecipanti tirava i dadi in una stanza in cui era appesa la foto di un paio di occhi, mentre l’altra metà si trovava in una stanza vuota. Confrontando i valori dei tiri di dado riferiti dai partecipanti con quelli attesi in un contesto di tiro casuale, i ricercatori hanno potuto stimare quanti partecipanti hanno barato. Molti di quelli che non si sentivano osservati hanno mentito, riferendo agli sperimentatori un valore superiore a quello ottenuto con il lancio dei dadi, e destinando in questo modo più soldi alla beneficenza. Nel gruppo che era ‘osservato’ invece i soggetti erano più propensi a dire la verità. Insomma, la generosità vince sull’onestà fino a che questo rimane in un contesto privato.

Ma il watching eye effect ci espone immediatamente e ancor prima che ce ne rendiamo conto, all’idea di un giudizio sociale, e in questo caso i rischi connessi all’essere visto come disonesto sono percepiti come maggiori di quelli connessi a un comportamento ingeneroso. In questo caso è l’onestà a vincere sulla generosità.

In ogni caso i risultati di questo studio ci inducono riflettere su quanti e quali potrebbero essere i contesti pubblici e privati in cui forse sarebbe auspicabile appendere un bel quadro con un paio di occhi che ci scrutano per promuovere comportamenti prosociali o prevenire quelli disonesti.

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