expand_lessAPRI WIDGET

Jung, la sua psicologia analitica e l’interesse per l’occulto di Marco Innamorati (2013) – Recensione

Marco Innamorati aggiunge la sua versione di Jung a quella storica di Mario Trevi, e regala alla saggistica psicologica italiana un testo che racconta in maniera esaustiva e appagante la posizione eccentrica e inquieta di Jung, il suo strano destino prima di predicatore di una psicologia che fosse empiricamente fondata e poi di profeta di una psicologia analitica che getta le sue radici nell’occulto.

Il libro “Jung” di Innamorati (2013) è illuminante proprio nelle sue incertezze, che sono le incertezze di Jung: il suo continuo riscrivere i suoi stessi sacri testi giungendo a cambiar loro titolo e natura. Non riusciamo a immaginare Freud che riscrive per una vita l’ “Interpretazione Dei Sogni” cambiando anche il titolo. Jung inflisse questa tortura a molti dei suoi libri. Nemmeno possiamo immaginare Freud che lascia uno spunto immaturo e non lo coltiva. E anche questo fece Jung. E nemmeno è concepibile un Freud che dopo aver consumato il parricidio (nel suo caso, di Breuer) si ritira in una posizione eccentrica, non nascosta ma nemmeno centrale. E questo fece Jung.

Jung è una figura contradittoria, in una maniera ora feconda e ora autolesionistica. E nel descrivere queste contraddizioni non sempre fertili Innamorati trova delle metafore felici. Come quella in cui paragona il lavoro di Jung a un edificio sviluppatosi solo in orizzontale, un’estesa superficie abitata e molteplice nella quale convivono troppe potenzialità, troppe possibilità mancate di sviluppo verso l’alto.

Jung però aveva dalla sua anche un’elevata capacità critica verso se stesso, qualità abbastanza rara nei teorici della psicologia. Innamorati racconta bene come il momento del distacco di Jung da Freud si ebbe nel momento in cui Jung, al Congresso di Psicoanalisi di Monaco del 1913, ebbe l’ardire di presentare la teoria di Adler -già espulsa dalla psicoanalisi- come altrettanto legittima e credibile rispetto alla versione ortodossa di Freud.

Inoltre, spiega sempre Innamorati, nella Psicologia dei processi inconsci Jung dimostra come un medesimo caso clinico possa essere interpretato in maniera convincente sia dal punto di vista adleriano che freudiano. Le stesse azioni possono essere lette sia partendo dal presupposto freudiano della sessualità inconscia rimossa, sia dalla convinzione adleriana e prima ancora nietzschiana della volontà di potenza.

Nel discutere i concetti base della psicologia junghiana Innamorati si dimostra particolarmente preciso. Egli ricostruisce lo sviluppo dei vari concetti –il sé, l’animus, l’anima, l’ombra, l’archetipo, l’inconscio collettivo, la sincronicità- nel labirinto dei vari testi, districandosi tra le varie versioni disponibili, operazione resa ancor più laboriosa dall’assenza di un’edizione critica. Innamorati tenta in tutti i modi e spesso con successo di opporsi alla visione –tipica della psicoanalisi classica freudiana- di Jung come un bizzarro esoterista antiscientifico e reazionario. Innamorati riesce spesso a mostrarci come nell’opera di Jung si trovino le radici di una psicoterapia laica e di una possibilità di dialogo interculturale e ci insegna che Jung ha il merito di aver superato quello che si potrebbe definire l’etnocentrismo di Freud, la tendenza a costruire una teoria sulla natura umana sulla base di un’esperienza clinica estremamente caratterizzata nel tempo e nello spazio: la Vienna di fine Ottocento.

La terapia di Jung diventa più costruttivista e meno adattiva di quella di Freud. L’analisi per Jung ha senso in quanto è in grado di accompagnare l’essere umano nel cammino che Jung chiama il processo di individuazione, ovvero il processo attraverso il quale si costruisce se stessi e si compie dopo la fase di adattamento alla realtà, fase freudiana che caratterizza la prima parte dell’esistenza. Per fare questo è necessario fare un buon uso dell’inconscio, dell’ombra e dei fantasmi. Qui è la distanza massima di Jung dall’illuminismo freudiano, nel quale non è possibile nessun buon uso dei fantasmi e tantomeno dell’inconscio.

Tuttavia, proprio questa capacità di Jung di non temere l’inconscio, di non pretendere la completa eliminazione dell’es a favore dell’io porta in sé il germe anche della fascinazione junghiana per l’occulto, il magico, l’esoterico. Fascinazione che prende anche il lettore e che ha preso per (brevi) tratti lo stesso Innamorati, che è un illuminista però curioso e aperto al fascino oscuro delle tenebre. Fatto sta, tuttavia, che c’è un limite che è difficilmente valicabile se si vuole rimanere nel campo scientifico e, man mano che il libro procede, monta il sospetto che Jung abbia più o meno copertamente valicato quel limite. Innamorati si scontra sempre più spesso con gli scogli sottomarini dell’occultismo junghiano, a partire dall’analisi del Libro Rosso per finire con il saggio su la Sincronicità e passando per la passione alchemica del Mysterium coniunctionis. La sensazione di Innamorati è che Jung non ci abbia detto tutto e che alla fine della sua vita sia entrato definitivamente nella mentalità dell’adepto e dell’iniziato, nascondendo a noi le sue intime convinzioni e mantenendo la scienza solo come abito da cerimonia da indossare in pubblico.

L’uomo dei topi: analisi computazionale comparata di un caso clinico di Freud

Patrizia Bagatti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Il caso clinico “L’uomo dei Topi”, scritto da Freud nel 1909, insieme alle note che prese durante le sedute, fornisce una fonte di grande interesse per uno studio contemporaneo della tecnica psicoanalitica.

Sia la macro che la microanalisi della terapia effettuata da Freud, realizzata da Casonato e Mergenthaler (2008) col software per l’analisi del testo TAS/C hanno mostrato che Freud ha trattato transfert e controtransfert con grande abilità e che la terapia è stata attuata con una tecnica simile a quella moderna di un approccio relazionale.
Questo studio mette a confronto due tipi di software per l’analisi del testo: Atlas.ti, un software per l’analisi qualitativa del testo e il TAS/C.
Abbiamo cercato di valutare se questi software possano analizzare costrutti simili o diversi all’interno della narrativa nella terapia. I risultati precedentemente ottenuti col TAS/C sono stati comparati con i risultati ottenuti con Atlas.ti.

Parole chiave: Analisi computazionale della narrativa, Ricerca in psicoterapia, Modello del Ciclo Terapeutico, Atlas.ti.

Abstract

The clinical case of “The man of the rats”, written by Freud in 1909 along with the notes he took during the treatment, provides a source of great interest for a critical approach to epistemological and ideological processes upon which theory and analytical technique are built.
Both a macro- and micro-analysis of Freud’s treatment, carried out by Casonato and Mergenthaler (2008) with the computer-assisted text analysis software, developed to study the Therapeutic Cycle Model (TCM), showed that Freud had managed transference and countertransference with great skill and that the therapy was carried out with a technique similar to today’s therapy with relational approach.
The present study, after an introduction of the case and of three instruments developed for the analysis of the narrative in psychotherapy, aims to propose an observation review resulting by the analysis over mentioned with the Therapeutic Cycle Model and to compare it with one with Atlas.ti, a qualitative text analysis software .
The main purpose has been that to investigate some of the most important methods for the analysis of narrative in psychotherapy; try to find out if these instruments test similar or different constructs inside the narrative and, which among these, can be applied not only to the scripts and audio/video records of the sessions, but also to the notes of the sessions.
The object of the analysis has been one of the most famous Freud’s psychotherapy, known as “The man of the rats”, a therapy carried out on a patient suffering from obsessive-compulsive neurosis. The results obtained by the Therapeutic Cycle Model and Atlas.ti agree on the fact that the therapy has been successful in terms of improving the patient’s conditions, since “emotional tone” and “abstraction”, the main variables on which the analysis has been focused, decrease. Particularly, the significant decrease of “negative emotional tone” shows, without any doubt, that the patient’s distress decreases.
As regards “abstraction”, it seems that it helps to control the emotional tone; therefore where this is already low, there is also less use of abstraction.
Furthermore this study shows that both instruments used can be successfully applied not only to psychotherapy audio records, but also to the notes of the sessions. However, I think that Atlas.ti offers more chances to further investigate the variables, the chance to relate them, to decompose those under investigation and, viceversa, to group them in families.

Keywords: analysis of the narrative, psychotherapy, Therapeutic Cycle Model, Atlas.ti

IL SOFTWARE TAS/C E IL MODELLO DEL CICLO TERAPEUTICO

Casonato e Mergenthaler (2008) hanno analizzato le trascrizioni delle sedute di Freud del caso clinico “L’uomo dei Topi”, utilizzando il Modello del Ciclo Terapeutico (TCM).
Il Modello del Ciclo Terapeutico e il software TAS/C consentono, attraverso l’analisi computerizzata dei trascritti delle sedute, di studiare i diversi tipi di terapia (psicodinamica, cognitiva, di gruppo, ecc.) mettendo in luce, in ogni trattamento e in ogni seduta o intervista, i passi che si collegano al processo terapeutico o agli eventi relazionali rilevanti, occorsi durante il trattamento (Mergenthaler, Casonato, 2009). Il TCM è un modello di analisi computerizzata dei trascritti “verbatim” delle sedute terapeutiche, o anche degli appunti redatti dal terapeuta. La metodica di ricerca include l’analisi dei trascritti tramite un software in cui sono presenti dizionari elettronici, che possono rilevare e misurare il Tono Emozionale e l’Astrazione, due concetti chiave che si riferiscono rispettivamente all’esperienza emotiva e al coinvolgimento cognitivo, meccanismi chiave attraverso cui è possibile interpretare tutti i cambiamenti che avvengono durante il processo terapeutico (Mergenthaler, Casonato, 2009).

L’utilizzo di una o più parole contenute in uno dei due dizionari è quindi considerato come un indicatore di attivazione del processo emotivo (nel caso del dizionario ET) o del processo cognitivo (nel caso del dizionario AB) nelle sedute analizzate. La combinazione di questi due processi ci permette di identificare i “momenti chiave” in una seduta o le sedute più rilevanti dell’intero trattamento. (Mergenthaler, 1996).

Mergenthaler (1998) ha approfondito lo studio dell’azione terapeutica delle emozioni, attribuendo un diverso ruolo alle emozioni positive ed a quelle negative. Le emozioni positive organizzano la struttura cognitiva in maniera flessibile e defocalizzata, cioè ampliano la gamma dei pensieri, stimolando la creatività e il problem solving. Le emozioni negative favoriscono la focalizzazione dell’organizzazione cognitiva e facilitano il ricordo di episodi relazionali, sogni o materiale autobiografico. L’Astrazione infine è considerata espressione di un processo razionale di riflessione che aiuta a comprendere aspetti di sé e della propria situazione (Mergenthaler, 1998).

Il TCM permette lo studio degli aspetti clinici individuali che possono variare a seconda dell’approccio terapeutico. Attraverso l’analisi computerizzata dei pattern Emozione-Astrazione, è possibile trovare in ogni terapia, o colloquio, degli indicatori dei processi clinici. I dati ottenuti vengono interpretati in base al significato che assumono nella situazione clinica.

L’analisi condotta sul caso clinico “L’Uomo dei Topi” si è basata su tre livelli.
Il primo livello include un riassunto generale del caso.
Il secondo livello riassume il caso, ma focalizzando l’attenzione in modo particolare ai temi ricorrenti:
– situazioni di vita esterne;
– sintomatologia, passata e presente;
– relazioni extra-familiari;
– relazioni col terapeuta: transfert, ecc;
– analisi dei sogni.
Il terzo livello si focalizza su una descrizione sistematica delle sedute, divise in gruppi. Questo approccio strutturato per livelli consente di avere una visione ben articolata dei temi tipici del trattamento, in modo più chiaro rispetto alla narrativa psicoanalitica tradizionale. Il materiale così prodotto può essere utilizzato per accedere all’intero caso e far luce sui progressi nella terapia. E’ possibile raccogliere anche dati qualitativi, concatenando tutte le descrizioni per ogni aspetto del caso, delineando così una visione d’insieme.

Le variabili come fattori terapeutici

Nella ricerca in psicoterapia, un aspetto di primaria importanza è la scelta delle variabili da analizzare che svolgano un ruolo di fattori terapeutici (Blasi, Casonato,2005). Per poter definire un fattore come “terapeutico”, esso dev’essere in grado di stimolare un cambiamento nello stato o nel comportamento del soggetto.

Storicamente i fattori terapeutici possono essere diversamente denominati a seconda dell’orientamento teorico dei clinici e dei ricercatori; comunque, è dimostrato che tutte le terapie hanno fattori terapeutici comuni che possono promuovere un cambiamento anche se denominati differentemente dalle varie scuole. In particolare tutti i ricercatori concordano sul fatto che le fluttuazioni “emotive”, “cognitive” e “comportamentali” giocano un ruolo decisivo nelle condizioni del paziente; gli interventi psicoterapeutici sono in grado di agire sul sistema neuronale.
Mergenthaler (1998) ha individuato come fattori terapeutici di cambiamento l’ “Esperienza Affettiva” e il “Padroneggiamento Cognitivo” (fattori già indicati da Karasu, 1976), , tralasciando la “Prescrizione Comportamentale”.

Le emozioni

La prima variabile studiata da Mergenthaler (1998) durante l’analisi dei trascritti verbatim delle sedute è stata chiamata il “Tono emozionale”. Esso non si riferisce alle emozioni positive o negative, ma alla densità di parole che nel testo esprimono un’emozione, identificate grazie al dizionario delle parole emozionali.

Vengono considerate emotive o emozionali quelle parole che possiedono una valenza emozionale che possa essere classificata secondo una delle seguenti dimensioni (Sandhöfer-Sixel,1988): approvazione-disapprovazione, piacere-dispiacere, attaccamento-distacco e sorpresa. Esse possono far parte di qualsiasi gruppo grammaticale: aggettivi (bello), avverbi (dolorosamente) o verbi (distruggere). Tali parole vengono suddivise in due categorie, a seconda della valenza positiva o negativa; le parole emotive con tonalità positiva sono codificate come 1, mentre le parole emotive con tonalità negativa sono codificate come 2.

Il dizionario, di proposito, non include parole che si riferiscono ad aspetti specifici di esperienza sensoriale (come “terra” o “caldo”) perché l’emozione dev’essere identificata con precisione. Sono state escluse anche parole con significati multipli, che appaiono di frequente (per es. “buono”, ecc..). Il metodo quindi identifica le oscillazioni fra i momenti di alta o bassa frequenza di parole emozionali; nel primo caso ciò significa che durante la seduta il paziente sta facendo un’esperienza interessante.
Il TCM considera la presenza del tono emozionale una condizione necessaria, ma non sufficiente all’emergere di momenti chiave.

Astrazione

Per “Astrazione” si intende la manifestazione linguistica di eventi cognitivi. Gillie nel 1957 ha definito così il materiale verbale che contiene una proporzione elevata di osservazioni e concetti generali, lontani dalle esperienze concrete. Le parole astratte sono tutti i sostantivi che si riferiscono a concetti e realtà non direttamente percepibili dai sensi, così come i nomi indicanti categorie generiche di oggetti o entità; questi devono essere esclusivamente sostantivi.
I nomi astratti (-ismo, -ente, -mento, -zza, -tà) possono essere costruiti partendo da una serie di suffissi. Anche per valutare la densità delle parole astratte, come per il tono emozionale, si utilizza un dizionario in cui le parole inserite vengono considerate indice di valutazione e riflessione logica.

Inoltre, secondo Gillie (1957), gli elementi utilizzati come indice dell’astrazione dovrebbero avere due proprietà:
essere il più possibile indipendenti dai giudizi individuali del valutatore (essere cioè obiettivi);
essere identificati facilmente e in modo chiaro.
I suffissi considerati dal TCM sono analizzati utilizzando il programma TAS/C, in grado di riconoscere i suffissi di ogni singola parola nella lingua considerata.

L’oscillazione della quantità di astrazione, o dell’emozione, è clinicamente rilevante perché riflette i cambiamenti nelle condizioni della persona: il paziente si può trovare alternativamente in uno stato di forte coinvolgimento emozionale o distaccato emotivamente. Nell’ultimo caso prevalgono le argomentazioni e le riflessioni.
Secondo la Teoria del Modello del Ciclo Terapeutico le diverse combinazioni di questi due stati riflettono momenti che possono facilitare o impedire il cambiamento o l’azione terapeutica.

Pattern di Emozione-Astrazione

Merghenthaler considera di fondamentale importanza dal punto di vista clinico l’oscillazione della quantità di emozione/astrazione perchè riflette il cambiamento dello stato mentale in cui si trova la persona. Il paziente in terapia può essere, a volte, altamente coinvolto emotivamente o più distaccato, e in questo caso prevale la riflessione.
Il cambiamento può essere facilitato o ostacolato da diverse combinazioni di questi due stati; queste combinazioni vengono chiamate “Pattern of Emozione-Astrazione”. Secondo il modello del Ciclo Terapeutico questi pattern si susseguono in modo ciclico, ed è dunque possibile misurare la quantità di due variabili: “Tono Emozionale” e “Astrazione”.
Pattern A, Rilassamento: è caratterizzato da un basso tono emotivo e una bassa astrazione. I momenti della terapia in cui questo pattern è individuabile vede i pazienti parlare di argomenti non strettamente legati ai loro maggiori problemi; per questo essi esprimono solo un po’ di emozione e riflessione, a volte completamente assenti, perché ancora non possono focalizzare i loro problemi. Questa fase, tuttavia, non è specifica solo dell’inizio della terapia, ma può verificarsi in altri momenti, soprattutto quando i pazienti si devono riposare.
Pattern B, Riflessione: in questa fase i pazienti esprimono i temi senza essere emotivamente coinvolti. Elaborano le descrizioni a livello cognitivo, senza essere coinvolti emotivamente. Il meccanismo di difesa che si manifesta probabilmente in questa fase, sembra essere l’intellettualizzazione, utilizzata eventualmente come resistenza al cambiamento promosso dalla terapia.
Pattern C, Esperienza: questo pattern è caratterizzato da un alto tono emozionale e una bassa astrazione. Ciò si manifesta quando i pazienti parlano di temi che li coinvolgono particolarmente e si trovano ad esperire le emozioni in modi diversi: col pianto, col riso o con la collera a seconda che le emozioni siano positive o negative. Sta poi al terapeuta intervenire cercando di attuare una transizione da uno stato di esperienza negativa a uno di esperienza positiva.
Pattern D Connessione: in questo caso, vi è sia un elevato tono emotivo che una forte astrazione; questi sono i momenti in cui i pazienti accedono sia emotivamente che cognitivamente a temi difficili e possono riflettere su di essi. E ‘ quindi in quelle fasi che essi si avvicinano alla comprensione del loro stato (insight), sono i momenti definiti “chiave” preliminari a un miglioramento clinico.

Le Fasi

La sequenza di pattern Emozione – Astrazione non è casuale; ma avviene preferibilmente in modo ciclico.
Fase 1 = Rilassamento: i pazienti non mostrano né emozione, né astrazione. Sono in una fase di transizione da un tema ad un altro (ciò si verifica, per esempio, raccontando alcuni aspetti della loro condizione al terapeuta, senza coinvolgimento emotivo).
Fase 2 = Esperienza: l’eccitazione cresce (promossa dalla narrazione di un sogno o un ricordo, o parlando di sintomi). L’esperienza può essere positiva o negativa.
Fase 3 = Connessione: idealmente vi è un aumento di emozione e riflessione. Questo può avvenire spontaneamente o su invito del terapeuta a pensare al loro stato emotivo (a questo punto raggiungono l’insight emozionale).
Fase 4 = Riflessione: come conseguenza dell’insight, la tensione emotiva diminuisce, lasciando spazio alla riflessione. I pazienti possono riflettere sulle loro nuove esperienze, senza esserne emotivamente coinvolti.
Fase 5 = Rilassamento: la riflessione decresce e riappare il rilassamento (a questo punto può iniziare un nuovo ciclo).

Macro e microanalisi

E’ possibile studiare una psicoterapia sia da un punto di vista macroanalitico che microanalitico. Con la macroanalisi prendiamo in considerazione tutte le sedute del trattamento, con la microanalisi, invece, è possibile evidenziare l’inizio, i passi importanti e la fine di ogni singola seduta. La macroanalisi permette anche di rilevare le “sedute chiave” all’interno di una terapia completa, mentre la microanalisi ottiene lo stesso risultato, ma all’interno delle singole sedute. E’ interessante notare che il modello prototipico descritto dal TCM non esclude che le fasi del ciclo si presentino in modi e tempi diversi, così come i punti di svolta. La macro e microanalisi consentono di osservare come i cicli terapeutici possano variare da una terapia all’altra.

IL SOFTWARE ATLAS.TI

Presentazione dello strumento

ATLAS.ti è un software che consente di codificare e classificare delle porzioni di testo in modo da poter successivamente recuperare i brani classificati. Esso è anche in grado di suddividere le interviste, anche di psicoterapia familiare, in modo da poter, ad esempio, notare le differenze tra uomini e donne, giovani e anziani, ecc ..

ATLAS.ti è stato progettato ispirandosi alla Grounded Theory, e offre anche la possibilità di creare diagrammi concettuali che mostrino i legami tra le idee che emergono dai dati.
Il programma è stato sviluppato in Germania nei primi anni ’90 da Thomas Muhr, allo scopo di analizzare il contenuto dei testi da un punto di vista interpretativo.
Tra i vantaggi offerti dall’analisi computerizzata dei dati ci sono la velocità nel gestire grandi quantità di dati, l’ottimizzazione delle operazioni come taglia / incolla / recupera, permettendo al ricercatore di esplorare svariate questioni analitiche.
Un altro vantaggio è un maggior rigore, compresa la documentazione del conteggio dei fenomeni, la ricerca dei casi devianti, il controllo dei casi negativi e la facilitazione di sviluppo di schemi di classificazione coerenti.

Inoltre Atlas.ti offre un valido aiuto nelle decisioni di campionamento e nella prospettiva dello sviluppo della teoria. La funzione “memo” poi supporta sia lo sviluppo di ipotesi teorico concettuali, sia la registrazione delle procedure adottate per codificare e classificare il testo. Infine è disponibile una funzione che consente di rappresentare graficamente dei modelli concettuali. Atlas.ti fa parte di una microtipologia di software per la ricerca qualitativa chiamati “Theory-building software” che permettono di esplorare le relazioni tra le categorie codificate. Si chiamano così perché consentono di contribuire alla costruzione della teoria: ad esempio possono stabilire relazione tra codici, classificare in categorie sovraordinate e verificare sulla base di regole logico-formali le asserzioni circa la struttura concettuale dei dati.

La creazione dell’Unità Ermeneutica

La creazione dell’ unità ermeneutica (HU: Hermeneutic Units) costituisce la prima fase del lavoro con ATLAS.ti: si tratta del “file” principale che comprende i testi da analizzare. I testi, una volta inseriti nell’unità ermeneutica, assumono la denominazione di “documenti primari” (PD: Primary Documents, o Primary Docs); si preferisce attribuire ad essi un nome specifico perché l’utilizzo del termine “file” potrebbe indurre in confusione, riferendosi genericamente alle diverse fonti di dati compresi nell’Unità Ermeneutica. La scelta dei nomi dei Documenti Primari è strategicamente rilevante perché consente di risparmiare tempo nelle fasi successive dell’analisi e, cosa più importante, di specificare che l’unità ermeneutica non è un semplice contenitore di dati, bensì un’unità di significato, un mezzo attraverso cui ritrovare e interpretare i significati correlati ai dati.
Per preparare il testo non è necessaria alcuna particolare operazione: si consiglia di leggere e correggere i documenti prima di importarli in Atlas.ti. I file possono essere salvati in formati diversi (doc, rtf, doc, txt) ed è possibile importare, e lavorare su delle immagini.

La codifica del materiale

Dopo la creazione dell’Unità Ermeneutica è necessario impostare una procedura che sintetizzi e dia significato ai concetti chiave, fondamentali per le informazioni contenute nei documenti. Ogni codice è un’etichetta, o un testo alfanumerico, che esprime il contenuto di una porzione del documento.
Come indicato nel paragrafo precedente l’intero testo dev’essere letto per capirne il contenuto sommario, poi ogni passo dev’essere riassunto ed è necessario cercare di schematizzarne il contenuto in un codice. La porzione di testo considerata significativa come oggetto di analisi diventa un “segmento”, a cui assegnare un codice.

La scelta di cosa considerare significativo per l’analisi varia a seconda della ricerca:
Se la ricerca è guidata da un modello teorico la scelta dipenderà dalle dimensioni teoriche da ricercare nei dati;
Se invece la ricerca mira alla ricostruzione della “Grounded Theory” il ricercatore privilegerà una teoria emergente dai dati piuttosto che la ricerca di costrutti preesistenti alla rilevazione.
La nostra analisi rientra nel primo caso: lo scopo era di verificare se le variabili analizzate dal TCM col TAS/C potevano essere rilevate anche con Atlas.ti e procedere alla comparazione fra i due modelli.
Per questo non ci è sembrato necessario nel presente lavoro approfondire gli aspetti collegati al tema della Grounded Theory, il cui approccio è stato oggetto di acceso dibattito nelle scienze sociali rispetto alla possibilità di condurre un’analisi qualitativa che non fosse influenzata dai modelli teorici di riferimento.

I livelli di codifica

La codifica con Atlas.ti viene gestita a tre livelli, considerati fasi seguenti dell’ analisi:
a) codifica aperta: dalla lettura del testo si creano categorie che sono collegate ai vari frammenti. Il ricercatore procede in modo non sistematico, si pone in un atteggiamento di ascolto attivo, prestando attenzione ad ogni elemento interessante che emerge dai dati empirici (osservazioni stimolanti); la codifica aperta è quella per cui i dati qualitativi sono frammentati, esaminati, comparati, concettualizzati e raggruppati in categorie.
La codifica aperta comporta l’assegnazione di etichette a frammenti di interviste o a note al testo, nel tentativo di dare loro un senso. Nella scelta delle etichette da assegnare alle categorie e sottocategorie, il ricercatore può scegliere di seguire tre percorsi:
– creare nuovi termini;
– utilizzare termini già presenti in letteratura o già concettualizzati;
– utilizzare i termini utilizzati dagli attori.

L’ informazione contenuta in una porzione del testo è sintetizzata da un’ “etichetta verbale”.
b) codifica assiale: vengono perfezionati i risultati ottenuti con la codifica aperta. Più specificatamente vengono “riconcettualizzati” i codici attribuiti con la codifica aperta, scegliendo le categorie più rilevanti per l’analisi e definite le relazioni tra le varie categorie.

La codifica assiale si svolge in quattro fasi:
– vengono ridefinite le categorie che possono essere considerate come indicatori di un concetto più generale;
– vengono supposti rapporti tra alcune sottocategorie e una determinata categoria o tra le diverse categorie;
– vengono specificate le connessioni stabilite come ipotesi, sempre confrontando i dati e le informazioni
– viene osservato come il fenomeno in esame varia, riflettendo in maniera comparativa su ogni categoria e sottocategoria da cui è composto.
c) codifica selettiva: mira all’identificazione ed estrazione della categoria centrale attorno alla quale sono strutturate le connessioni con le altre. La categoria centrale viene poi comparata con le altre man mano che vengono raccolti e analizzati i dati, per definire la “linea della storia”.

La codifica selettiva si propone di controllare le ipotesi emerse dalla fase costruttiva e ancorarle ad una teoria. La codifica selettiva è quella per cui si decide attorno a quale fenomeno tutte le altre categorie vadano organizzate. A questo livello si procede sistematicamente a controllare la validità degli indicatori prescelti per il concetto principale e si controlla la tenuta delle ipotesi, ponendo particolare attenzione alle eccezioni (casi devianti).
Ricordiamoci però che nel rispetto della coerenza con i principi teorico-metodologici citati e delle caratteristiche di ricorsività, interattività e trattamento globale dei dati, tipiche dello strumento, il passaggio da uno dei suddetti livelli all’altro può non essere lineare.

Le “Families” e la verifica delle relazioni tra codici

Dopo una codifica iniziale il ricercatore può essere interessato a conoscere le “dimensioni” sottostanti ai codici, ossia le principali aree di contenuto. Si tratta, come anticipato nel paragrafo precedente del secondo livello di codifica (axial coding).
Tali aree di contenuto sono identificate dalle “Code families”: i codici vengono aggregati fra loro in specifiche categorie (“families” appunto) secondo criteri di coerenza e affinità teorica.

Le “families” rappresentano un passaggio cruciale senza il quale non sarebbe possibile collegare le informazioni rilevate e i modelli teorici.
Atlas.ti è poi in grado di verificare le relazioni eventualmente esistenti tra codici attraverso il “Query tool”; le families o i codici vengono messi in relazione ed è possibile definire ogni rapporto in base a criteri di tipo logico, semantico o strutturale.

La ricerca delle relazioni mediante il Query tool è funzionale all’elaborazione teorica; quando si opera qualunque richiesta, si sta cercando di definire i “pezzi” di una teoria sottostante ai dati e radicata nelle informazioni di partenza: per questa ragione, il risultato di ogni query è un set di quotations. Sono esse infatti che hanno un collegamento diretto con i testi di partenza ed è attraverso di esse che il ricercatore può (di)mostrare l’esito della sua elaborazione (De Gregorio e Mosiello, 2004, p. 82).

Lo strumento può essere utilizzato per formulare ipotesi di relazione da verificare con misurazioni empiriche successive, in linea sia con gli obiettivi dei progetti di ricerca a orientamento positivista che costruzionista. Nel primo caso l’obiettivo principale è predire e poi spiegare il fenomeno; nel secondo è comprendere il fenomeno e come è collegato ad altri aspetti del contesto.

Gli “operatori”

Nel “Query tool” i singoli codici o le famiglie vengono messi in relazione tramite “operatori”. Ne risulta un elenco di citazioni che comprendono tutti i codici indicati. Con l’operatore quindi il ricercatore chiede al software di estrarre porzioni di testo mediante i codici ad esse associati.
Gli operatori possono essere di tre tipi:
Operatori booleani (o logici): sono i classici criteri, utilizzati in tutti i sistemi di ricerca delle informazioni, riconducibili a semplici relazioni di compresenza o esclusione.
Operatori semantici: consentono di esplorare le relazioni all’interno di reti concettuali già definite dal ricercatore. Ad esempio, il concetto “emozione” può essere articolato per lo meno con riferimento alle polarità positiva-negativa: in questo modo, si stabiliscono delle reti concettuali (dirette a specificare i concetti o a verificare la coerenza in modelli teorici differenti).
Operatori di prossimità: consentono di testare l’eventuale relazione di tipo spaziale (o strutturale) fra le porzioni di testo e i relativi codici. Ad esempio, se si sta analizzando una struttura narrativa, gli operatori di prossimità sono in grado di testare l’ipotesi che le porzioni di testo estratte, in cui è presente un certo tema narrativo ( es. un evento critico), siano sempre precedenti al tema in cui si descrive la risoluzione della crisi. Gli operatori di prossimità comprendono relazioni di inclusione/esclusione (di un codice in un altro), precedenza (di A su B o viceversa), sovrapposizione.

I “supercodici”

Come abbiamo visto la fase di codifica assiale è più astratta della codifica aperta. In questa fase possono aiutare i “supercodici”. Si tratta di codici aggiuntivi che il ricercatore può creare per sintetizzare l’informazione, una volta ottenuto un risultato che sembra particolarmente significativo e interessante. Il supercodice può essere utilizzato come ogni altro codice, permettendo di impostare una ricerca aggiuntiva, più complessa e sofisticata.

I risultati (Output)

Il primo passo nell’analisi delle informazioni si rivolge alla rilevazione dei temi narrativi che vengono utilizzati per raccontare l’azione: si tratta di un obiettivo rivolto all’esplorazione e introduce alle fasi successive. Si procede a un’iniziale mappatura concettuale dei testi con l’identificazione dei temi più salienti (per il paziente se si tratta di una ricerca clinica o per i partecipanti alla ricerca se si tratta di un’analisi sociale). In ATLAS.ti, è possibile attuare questa fase attraverso la predisposizione di output (risultati) che evidenziano la presenza (in termini quantitativi) di codici riferiti a temi specifici. In particolare, il Code Manager può ordinare i codici secondo il criterio Grounded (che esprime quanto ogni codice è “radicato” nei testi che compongono l‟HU) e metterli in ordine di “salienza”, di presenza in tutti i testi.
Nell’analisi della terapia de “L’Uomo dei Topi” è stato fondamentale analizzare gli output delle “tabelle di codici per documenti primari”; essi nelle analisi delle narrative sono fra i più informativi e utili perché consentono di visualizzare in maniera veloce la presenza nel testo di determinati codici. Ad esempio è stato possibile valutare la presenza e la frequenza della componente emozionale “Tono emozionale” e di quella astratta “Astrazione” nella narrativa del paziente.
Con la funzione “Filtro” ho potuto indagare la frequenza degli stessi codici all’interno dei sottoinsiemi dei documenti primari.

ANALISI DELLE SEDUTE COL TCM E ATLAS.TI

Note all’analisi.
Questa analisi è stata eseguita direttamente sul testo integrale degli appunti di Freud relativi al caso de “L’Uomo dei Topi”, scritti in tedesco e inclusi nei ” Gesammelte Werke “. Basandoci sull’analisi condotta da Casonato e Merghentaler (2008) col solo Modello del Ciclo Terapeutico, abbiamo sviluppato una codifica adatta all’impiego di Atlas.ti e svolto un’analisi congiunta, comparando i risultati ottenuti con i due strumenti.

La codifica
Dovendo comparare i due differenti metodi di analisi descritti in questa ricerca, al fine di creare i codici per Atlas.ti, abbiamo scelto di creare con Atlas.ti gli stessi codici utilizzati per l’analisi col Modello del Ciclo Terapeutico, che erano:
– per la categoria Tono Emozionale , ” piacere”, ” approvazione “, ” attaccamento “, ” sorpresa positiva”, ” dispiacere “, ” disapprovazione”, “separazione”, “sorpresa negativa” ; e i pattern di ” rilassamento”, ” riflessione “, ” esperienza “, ” connessione ” .

Codificare con dei codici già assegnati però comporta una serie di criticità:
1. è necessario far rientrare dei concetti in schemi prestabiliti, anche quando questi non rispondono pienamente al concetto espresso;
2. c’è il rischio di perdere porzioni di testo significativo per altri costrutti, e scoprire che ci sono altri temi importanti che potrebbero risultare dall’analisi.

Procedendo con la codifica ci siamo resi conto che alcuni codici erano troppo generici e potevano anche includere costrutti diversi. Per esempio, il codice ” dispiacere” potrebbe essere sottocodificato meno genericamente coi codici seguenti: “preoccupazione”, “tristezza”, “paura”, “rabbia”. Pertanto sono stati aggiunti alla codifica ed è stato sottocodificato anche il codice “disapprovazione” come ” gelosia”, ” disprezzo”, “ripugnanza”, ” rimprovero” .
Una volta terminata la codifica, sono stati creati dei codici “families” (famiglie), ovvero gruppi di codici con una matrice comune. Le families sono formate da:
a.Tono Emozionale Positivo , includendo i codici ” piacere”, ” approvazione “, ” attaccamento “, ” sorpresa positiva ” ;
b.Tono Emozionale Negativo , includendo i codici “preoccupazione “, ” tristezza”, ” paura”, “rabbia “, ” gelosia”, ” disprezzo “, ” ripugnanza”, “rimprovero”, ” separazione “, ” sorpresa negativa ” .
– Alta Astrazione, includendo i codici ” riflessione ” e ” connessione “;
– Bassa Astrazione, includendo i codici “rilassamento” ed “esperienza”;
– Alto Tono Emozionale, includendo i codici “esperienza” e “connessione”;
– Basso Tono Emozionale, includendo i codici “rilassamento” e “riflessione”

Le families sono state comparate secondo le tabelle.
Inoltre, per evitare confusione nell’analisi comparativa, abbiamo riportato con lettere maiuscole i codici espressi col TCM, mettendo invece tra virgolette i codici per l’analisi con Atlas.ti. I codici sono stati riportati in italiano, sebbene l’analisi, come già specificato sopra, si sia basata sul testo integrale degli appunti di Freud in tedesco.  GUARDA LE TABELLE IN ALLEGATO

ANALISI DI UNA SEDUTA
SESTA SEDUTA (8 ottobre)

Riportiamo un breve riassunto di questa seduta in modo da mostrare come si è proceduto nell’analisi.
Il paziente riferì che all’età di 12 anni era innamorato di una ragazza, che non si comportava in modo tenero verso di lui e questo gli dispiaceva. Così pensò che se a lui fosse accaduto un incidente, sarebbe diventata più gentile. Questo pensiero era legato ad un altro pensiero di tipo ossessivo circa la morte del padre. Infatti gli capitava spesso di pensare che sarebbe stato felice se il padre fosse morto perché avrebbe ereditato la sua proprietà e si sarebbe potuto sposare. Rispetto alla storia riferita durante la seduta, Freud fece alcune considerazioni circa la “rimozione”, da cosa era originata e a cosa mirava (meccanismo di difesa).
Inoltre Freud portò il paziente a riflettere sull’origine dei sentimenti di ostilità nei confronti del padre che lo portavano a formulare pensieri di morte nei suoi confronti; l’origine doveva risiedere nei desideri sessuali in età infantile, quando aveva percepito i genitori come intrusivi. Il paziente, comunque, riconosce che non è stato Freud a condurlo all’autoconsapevolezza (insight), dicendo che vi era arrivato da solo e continuando a porre domande per esplorare la questione. GUARDA LA TABELLA  IN ALLEGATO

GRAFICO: L'uomo dei topi, analisi computazionale comparata degli appunti di Freud

Guardando il grafico a barre del TCM si nota che nel blocco due si presenta un picco narrativo, dunque sono riferiti dei fatti. Si riscontra inoltre uno shift event in corrispondenza dell’inizio del ciclo. Si può affermare che nei primi due blocchi si ha una preparazione del ciclo. Dal blocco 4 inizia il ciclo cui segue un’elaborazione (working throught) con alcune incertezze sino al blocco 7. Nei blocchi 5 e 6 si osserva la presenza di pensiero astratto (resistenza basata sull’intellettualizzazione) e nel blocco 7 il completamento dell’elaborazione (connecting) che conclude il Ciclo e dovrebbe dar luogo a qualche cambiamento. Nel blocco 7 l’emozione positiva alta e quella negativa nella media possono indicare che il problema è ancora presente, ma vi è stata un’apertura che rende possibili nuovi sviluppi. Nella seduta si evidenziano degli shift events ai blocchi 3 e 6 con un processo di elaborazione in corso che supera alcune manifestazioni di resistenza. Il ciclo è incompleto.

COMPARAZIONE

Questa è una seduta ricca di eventi significativi dal punto di vista terapeutico e ciò è confermato sia dal TAS/C che da Atlas.ti. L’inizio della seduta è caratterizzato da un picco narrativo (TCM), il paziente riferisce dei fatti che all’epoca in cui si sono svolti avevano suscitato in lui “emozioni negative” (Atlas.ti) alla scoperta che la bambina che gli piaceva non lo ricambiava; fatti che avevano anche risvegliato un senso di “attaccamento” nei confronti del padre, a seguito dei pensieri ossessivi e delle compulsioni che avrebbero dovuto difenderlo dalle emozioni negative. Con tale Narrativa si prepara un ciclo terapeutico che per Atlas.ti è fortemente annunciato dall’ ”esperienza” (ripensando all’idea ossessiva della morte del padre); infatti subito dopo vi è da parte del paziente un’elaborazione (working through) in cui egli ha accesso sia emozionale sia cognitivo ai temi conflittuali e può riflettere su di essi. Il TAS/C indica poi la presenza di un’elevata Emozione Positiva, confermata anche da Atlas.ti (“piacere”) e da un ulteriore momento di Connecting. L’ ”esperienza” alternata al “rilassamento” nella seconda parte della seduta (Atlas.ti) evidenziano una concordanza col TCM sull’incompletezza del Ciclo Terapeutico.

GUARDA LE TABELLE IN ALLEGATO

Riflessioni sull’efficacia della terapia

L’analisi degli appunti condotta col TCM era già stata in grado di confermare le osservazioni fatte da alcuni clinici esperti (Bailey 1998; Bailey, Greer, Bucci, Mergenthaler, 2008), successivamente Casonato, Mergenthaler (2008) avevano considerato gli appunti del caso de “L’Uomo dei Topi” rilevanti per una comprensione tramite analisi computerizzata della tecnica terapeutica standard di Freud. Il profilo generale del trattamento, basato sulla computerizzazione del testo integrale degli appunti, mostrava una tecnica, in seduta, simile a quella usata dalla terapia interpersonale contemporanea. C’è una buona corrispondenza fra la tecnica di Freud e la moderna gestione dei fenomeni di transfert e controtransfert. Atlas.ti, è inoltre stato in grado di rilevare quanto segue:

– per quanto riguarda il “tono emozionale” con il proseguire della terapia diminuiscono i codici relativi a entrambi i toni (positivo e negativo). Ciò significa che, andando avanti, l’emotività che il paziente riporta nelle sedute diminuisce, indipendentemente dal fatto di essere positiva o negativa.
– per quanto riguarda l’ “astrazione/tono emozionale”, quando una aumenta, aumenta anche l’altro. Sembra che l’astrazione miri a contenere il tono emozionale e, dove questo è già basso, non è necessario farvi ricorso, ciò palesa la tipica ‘razionalizzazione’ praticata dall’ossessivo nel gestire le emozioni.

Relativamente all’efficacia della terapia svolta da Freud dunque, oltre alle osservazioni già citate riferite dall’applicazione del TAS/C, si può concludere che anche con Atlas.ti, considerando che l’analisi è stata condotta sugli appunti delle sedute, si riscontra un sovrapponibile miglioramento delle condizioni del paziente dall’inizio alla fine della terapia. In generale il buon risultato della terapia si ottiene quando le condizioni del paziente migliorano significativamente in termini di serenità e la sofferenza diminuisce drasticamente; ciò significa che si deve riscontrare un decremento significativo del tono emozionale negativo (evidente dai dati emersi), ma anche una diminuzione degli slanci emotivi, perché la serenità è sempre una media tra questi (anche questo è rilevato dall’analisi).

Per quanto riguarda la guarigione invece, i dati presenti negli appunti non forniscono, secondo Atlas.ti, informazioni sufficienti.
Concludendo è possibile affermare che il TAS/C e Atlas.ti risultano abbastanza concordanti nelle rilevazioni e mostrano che la tecnica di Freud non solo era efficace, ma anche molto più attuale di quanto si potesse pensare ed affine a tecniche di terapia contemporanea.

Conclusioni

L’utilizzabilità dei costrutti della Teoria del Ciclo Terapeutico nel corso di un’analisi computerizzata del testo di sedute di terapia effettuata mediante ATLAS.ti permette di progettare studi che utilizzino ATLAS.ti basati su costrutti già validati e di uso largamente consolidato superando il principale ostacolo all’utilizzo di tale software basato sulla mancanza di costrutti specifici per la psicoterapia.

ALLEGATO

Procrastinazione: esiste una componente genetica che ci spinge a rimandare a domani?

Un nuovo studio pubblicato su Journal of Experimental Psychology si è posto l’obiettivo di comprendere perché alcuni di noi cedono più facilmente alla procrastinazione rispetto ad altri: vi è una componente genetica?

La procrastinazione è un curioso e frequente fenomeno psicologico che chiama in gioco un complesso di specifiche emozioni -ad esempio l’ansia – e credenze legate alla bassa tolleranza della frustrazione, alle proprie capacità e al valore personale. La procrastinazione puo’ essere sintenticamente definita come l’irrazionale posticipazione di una specifica azione intenzionale.

Un nuovo studio pubblicato su Journal of Experimental Psychology si è posto l’obiettivo di comprendere perché alcuni di noi cedono più facilmente alla procrastinazione rispetto ad altri: vi è una componente genetica? In che modo la procrastinazione è correlata ad altre funzioni mentali? Lo studio ha coinvoilto circa di 380 coppie di gemelli, metà dei quali erano omozigoti (che hanno esattamente gli stessi geni) e l’altra metà eterozigoti (che in media presentano geni uguali per il 50%).

I soggetti hanno compilato alcuni questionari per l’assessment della tendenza a procrastinare. Inoltre hanno completato una serie di misure della funzione esecutiva.

I ricercatori dunque avendo a disposizione due subcampioni di gemelli hanno analizzato le correlazioni tra le misure rilevate nei due gruppi : una maggiore correlazione di una misurazione nel subcampione dei gemelli omozigoti rispetto a quello degli eterozigoti indicherebbe un maggior ruolo della componente genetica nella spiegazione della tendenza a procrastinare.

I ricercatori sulla base dei dati hanno concluso che la tendenza a procrastinare sarebbe parzialmente ereditaria – il 28% della variabilità in questo tratto sarebbe infatti spiegata dall’influenza genetica.

Altro risultato interessante è che la tendenza a procrastinare correla con le misurazioni dell’abilità della funzione esecutiva: i procrastinatori hanno prestazioni inferiori nei test di funzione esecutiva, un’abilità cognitiva fondamentale per la gestione efficace delle distrazioni e delle risposte inibitorie, anche per il raggiungimento di obiettivi a breve-medio termine.

Memorie di casa, intorno a una tavola imbandita – Becoming Adult

Cosa significa appartenere a un luogo – sentirsi a casa – per una persona che ha lasciato il proprio paese di origine durante l’infanzia?

Durante una riunione del progetto Becoming Adult, condotto all’Universita’ di Oxford, abbiamo provato a rispondere alla domanda, con un esercizio teatrale.

Al nostro gruppo di ricerca – composto anche da giovani ricercatori eritrei ed afgani– e’ stato chiesto di rappresentare, con il nostro corpo, due immagini di casa. Una prima imagine che definisse il nostro senso di casa in Inghilterra. E una seconda, la casa nel nostro paese di origine. Avendo lasciato l’Italia sette anni fa, e avendo lavorato con ragazzi e ragazze che hanno abbandonato il proprio paese insieme alla loro famiglia, ho subito provato un senso di sottile irritazione e disagio. E forse, anche un distante dolore. Com’e’ possibile esprimere una simile idea di casa? Una che sia cosi ordinatamente ancorata ad un luogo, nettamente divisa tra due paesi?

 

Memories of home - Francesca Meloni - becoming adult foto 2

 

Quasi anticipando i miei pensieri, Semhar lancia uno sguardo a me ed Habib, e dice con fermezza tagliente e perentoria: la casa non e’ da nessuna parte. Su queste parole, ci fermiamo a riflettere. Davvero non e’ in nessun luogo? La casa e’ forse uno spazio rimasto vuoto?

Infine, abbiamo deciso di rappresentare una sola imagine condivisa. Ci siamo seduti intorno ad un tavolo, e abbiamo immaginato di essere parte di una famiglia (o forse parte di un senso di comunita’ ricreato in Inghilterra). Una famiglia che chiacchera di fatti banali, ride di cose difficili da spiegare, e costruisce alberi di storie. E una famiglia che fa tutto questo, condividendo un grosso piatto al centro della tavola.

Abbiamo immaginato cibi lontani che profumano di casa, cucinati da qualcuno che ci ama. I nostri piatti preferiti – quelli che ci riportano, con un odore, a ricordi d’infanzia, luoghi che abbiamo attraversato ogni giorno, colori e paesaggi familiari.
Questa, la nostra idea di casa. Rattoppi di memorie ed immagini che sono cosi distanti eppure continuano a ritornare nitide e vive – attorno a una tavola imbandita con le persone che amiamo, nel cibo che ancora cuoce sul fuoco.

Francesca Meloni e’ ricercatrice e antropologa presso l’Universita di Oxford, Dipartimento di Politiche Sociali. Ha condotto ricerche etnografiche in Italia e Canada. Il progetto di ricerca Becoming Adult:  Conceptions of futures and wellbeing among young people subject to immigration control in the UK e’ finanziato da ESRC, e condotto all’Universita’ di Oxford e all’Universita’ di Birmingham. Il progetto e’ diretto da Elaine Chase.

Per maggiori informazioni:

Trame di vita intrecciate: il nuovo libro di Roberto Lorenzini in uscita nel 2016

Nel 2013 ho pubblicato “Storie di Terapie”, un volume di casi clinici trattati con la terapia cognitivo comportamentale, storie reali di difficoltà e inciampi e non casi esemplificati puliti come esempio per gli studenti. Questo volume ne è il seguito ideale o forse il prequel. Queste storie non hanno la pretesa di insegnare le tecniche della psichiatria territoriale, straordinaria peculiarità italiana all’interno della quale i cognitivisti hanno portato un prezioso contributo di concretezza anche in ambito riabilitativo.

Non sono dei modelli anzi, spesso ci sono errori grossolani con conseguenze drammatiche.
Quello che vogliono raccontare è lo spirito con cui, negli anni successivi alla riforma psichiatrica, numerosi generosissimi operatori hanno intrecciato per decenni le loro vite con quelle dei pazienti per cercare di inventare insieme un modo inesplorato di fare salute mentale senza i manicomi e utilizzando, come principale cura, la vita stessa e un’ enorme reciproca compassionevole accettazione delle rispettive miserie.

In primo luogo il libro è dedicato a tutti gli operatori che hanno lavorato con me e che, spero, non si offenderanno, riscoprendo tra le righe le loro caricature goffamente mascherate (riesco a prendere in giro solo coloro che stimo intelligenti e verso cui provo affetto).
In secondo luogo è dedicato ai veri protagonisti, i miei carissimi compagni matti, svitati, lunatici, dementi, scervellati, pazzerelli, insensati.
Dopo trent’anni di lavoro a contatto con le vostre sofferenze, intrecciatesi indissolubilmente con le mie, sento il desiderio di rivelarvi alcune cose che non ho raccontato a tutti, perché non le avevo ancora capite o non c’è stato tempo, o me ne vergognavo ancora.

Mi rivolgo dunque ai vari ansiosi, agli spaventati in logorante attesa di un abisso senza fondo dove si perderanno definitivamente; aggrappati ad un sostegno qualsiasi mentre la vita scorre senza che mai l’afferrino, le mani serrate sull’ appiglio.
Per non morire non vivono.
A quelli rattrappiti dall’attesa della sentenza inappellabile di condanna alla solitudine e al disprezzo che, per non sbagliare, somigliano a cadaveri di ineffabile perfezione.
Ai fuggiaschi dalla derisione, vergognosi di un esistere e ingombrare spazio nel mondo, impegnati a scomparire ad occhi severi che non li lasciano mai.

Alla grande schiera degli accerchiati da onde di minaccia, striscianti e inaspettati pericoli, malattie, rovesci e perdite che, come minuscoli moscerini nel lavandino, li trascineranno vorticosamente nello scarico; in loro mai nessun potere, piccoli e tremanti, prima, o malfermi e stanchi poi, Cappuccetti rossi nel bosco degli orrori o nonne divorate dal lupo.
Lo dedico ai fratelli depressi, agli affaticati ogni mattina davanti alla grigia montagna brulla da scalare, subito, ai piedi del letto insonne: tale è la nausea dei sapori e dei profumi della vita che hanno smorzato i sensi, non provano mai nulla tranne la noia. Non mancano di nulla, rimprovera il coro, eccetto forse se stessi, tutto è parimenti insensato, ripetitivo, già visto, in attesa di finirla vorrebbero solo dormire.
Non hanno chiesto di esserci e, offesi, non sono mai entrati in gioco.

Senza ricordi nè orizzonti annaspano in un livido dolente presente, per giunta sono arrabbiati, convinti di aver firmato un contratto differente con Dio o un suo delegato. Somari svogliati alla scuola della vita, deserti inariditi, con una pozza asciutta e screpolata nel luogo dell’anima.
Infine anche a quelli che chiamiamo psicotici, a loro soprattutto, che mi fanno sempre battere il cuore e mai ciò finirà.
Ai diversi, quelli strani, fatti male, mancanti del software per gli incontri, che decidono con la testa ogni mossa per sembrare normali.
Non capiscono le bizzarre tradizioni degli umani, come appena scesi dall’astronave senza il manuale di istruzioni per la terra.
Ma ognuno è diverso a modo suo, appunto, non sono un’unica tribù.
Alcuni si avventurano in mondi privati senza altri condomini e vicini, cancellano le tracce, borbottando in compagnia di se stessi e smarriscono la strada del senso comune.

Altri, costretti alla ribalta per riempire lo specchio come attori ergastolani, non possono scendere dal palco per fuggire in un camerino vuoto, freddo con i fiori appassiti.
Certi stanno assediati tra gli agguati di inganni e tradimenti, sentinelle di tartari in perenne ritardo, le braccia indolenzite dalla guardia sempre alta, in servizio permanente effettivo, impacciati dalla corazza, sono i guerrieri professionisti che temono le conseguenze dell’amore.
Taluni, eterni orfani, si perdono alla vista delle spalle di chi va altrove, mai rassegnati alla cacciata dall’ originario utero.
Strani tra gli strani quelli che graffiano per abbracciare e s’imbrattano di sangue.

La terra intorno sismicamente sobbalza. Pronti ad eruttare da un istante all’altro, sono gli inghiottitoi carsici incolmabili dove tutto affonda e mai riempie il vuoto straziante e rabbioso della perduta perfezione unitaria.
All’orecchio di tutti questi pellegrini della sofferenza sussurro che non siete soli, vi sembra soltanto di esserlo guardando voi stessi da dentro e tutti gli altri dall’ esterno rivestito di carta colorata e fiocchi, mentre dentro anche i sorridenti pulsano dolore.
Siamo identici per oltre il 99% sia nei geni che nelle esperienze vissute, tutto il vostro dolore è propriamente umano, l’essenza stessa dell’umanità che ci accomuna.

Diluite l’orgoglio ferito dell’ “io” nella quiete comunitaria del “noi”, immaginate la vostra vita come una dolorosa marcia dal nulla al nulla, immersi in un popolo di ugualmente dolenti in faticoso cammino.
Nessuno impegnato a trascinarsi avanti ha tempo, o voglia, di darvi la pagella.
Talvolta ci si appoggia l’un l’altro e si mischia fiato e sudore, ogni tanto brilla una stella, il gelo si scioglie un po’, il terreno si ammorbidisce, rari momenti da collezionare, assaporare e conservare nella memoria.

Per tutti gli altri, raccontatevi una storia epica che dia, ingannandovi, un senso a questa esistenza. Che la fantasia benevola addolcisca la realtà quando si fa più aspra; io non lo chiamerò più delirio.
Per quanti errori vi riconosciate non avete combinato nulla di grave, siamo troppo ininfluenti per essere dannosi.
I vostri nipoti stenteranno a rammentare il vostro nome.
Viziatevi di coccole come una madre che assiste il figlioletto leucemico agli ultimi giorni, acchiappate tutto senza rinunce che, questa, non è la prova generale, ma l’unica nostra vita e quando il dolore si fa più acuto pensate che non dura e tutto passa e, dopo, sarà pressappoco come prima di nascere, che non era poi male.
Naturalmente continuate a venire da noi terapeuti per darci da mangiare, farci sentire sani e non lasciarci soli sul nastro trasportatore, in attesa della caduta a fine corsa. Nel saltare ci stringeremo per mano.

Un mondo perduto e ritrovato di Aleksandr Lurja – Recensione

Lurja si dedicò alla stesura di appassionati racconti di casi singoli. Questa attività rifletteva una precisa convinzione, per cui alla scienza neuropsicologica occorresse contribuire sia attraverso contributi di tipo sistematico, sia attraverso testi che egli stesso definiva romantici.

Il percorso scientifico di Aleksandr Lurja (1902-1977) è segnato da tappe assai singolari. Lurija fu, all’inizio della sua carriera, colui che introdusse la psicoanalisi in Unione Sovietica, raccogliendo il plauso e la gratitudine di Freud.

Quando la psicoanalisi cadde in disgrazia a Mosca in quanto scienza borghese, gli interessi di Lurja per forza di cose cambiarono, portandolo a collaborare con Vigotskij e infine ad affermarsi, in pratica, come uno dei padri, se non il padre, della neuropsicologia. Ciò malgrado egli non fu mai ben visto dal regime e rischiò persino di finire vittima delle purghe staliniane.

Lurja fu, tra l’altro, il vero riferimento di Oliver Sacks, sia dal punto di vista dell’impostazione teorica, sia da quello della tecnica narrativa. Oltre ad essere autore di articoli tecnici e trattati generali (tra i quali il ben noto Come lavora il cervello), infatti, egli si dedicò alla stesura di appassionati racconti di casi singoli. Questa doppia attività rifletteva una precisa convinzione, per cui alla scienza neuropsicologica occorresse contribuire sia attraverso contributi di tipo sistematico, sia attraverso testi che egli stesso definiva romantici. Si potrebbe dire, in termini epistemologici, che per Lurija tanto l’impostazione nomotetica quanto quella idiografica erano altrettanto importanti.

Un mondo perduto e ritrovato è il più noto dei testi cosiddetti romantici. Risale al 1973 ed è alquanto sorprendente che ne appaia quest’anno per Adelphi la prima traduzione italiana. Il ritardo, però, non rende certo meno meritoria l’iniziativa editoriale (che verrà prossimamente integrata con la pubblicazione di La mente di uno mnemonista). Il protagonista ne è Lev Zaseckij, promettente ingegnere meccanico e ufficiale dell’Armata Rossa, ferito alla testa durante la Seconda guerra mondiale, nel 1943. La pallottola che lo colpisce penetra in profondità nel cervello fermandosi nella zona occipitale sinistra. Al suo risveglio in ospedale, Zaseckij si accorge ben presto di aver perso quasi totalmente le sue cognizioni tecniche, di avere enormi difficoltà percettive, di non riuscire a rispondere anche a domande molto semplici su di sé.

Dopo essere stato brevemente curato nell’ospedale militare, Zaseckij viene trasferito nelle retrovie dove, in una clinica di riabilitazione, finisce appunto per incontrare Lurija, che ne è il responsabile scientifico. Zaseckij non è il solo soldato proveniente dal fronte ad aver subito ferite alla testa, ma il suo caso presenta delle particolarità singolari e la sua mente, pur nelle menomazioni, ha mantenuto un’indomabile forza di volontà. Un rapporto di simpatia lega immediatamente paziente e medico, trasformandosi poi in una vera e propria amicizia. Lurija seguirà la lotta di Zaseckij per riappropriarsi del proprio mondo nel corso dei successivi ventitré anni.

Pur incontrando terribili difficoltà per recuperare la capacità di leggere, Zaseckij è in grado paradossalmente di tornare a poter scrivere non molti mesi dopo il ferimento. L’apparente paradosso è legato al fatto che la lettura implica la capacità integrare le immagini percepite in una forma riconoscibile; il che, soprattutto all’inizio, risulta molto difficile per il ferito. All’inverso, l’apprendimento della scrittura coinvolge circuiti cerebrali solo marginalmente legati alla percezione visiva: il procedere automatico dello scrivere parole consente di non dover prestare necessariamente attenzione alla forma delle singole lettere. Il risultato è che Zaseckij, almeno all’inizio, non può rileggere i propri pensieri appena messi sulla carta se non tra enormi difficoltà. Malgrado ciò egli decide quasi da subito di raccontare la propria esperienza in un diario, che intitola in modo toccante Lotto ancora! Il diario però, costituito com’è da migliaia di pagine dal contenuto talora lucido, talora più contorto, non risulta qualcosa di fruibile per un lettore terzo.

Lurija, allora, con il consenso del proprio paziente, decide di utilizzarlo come materiale grezzo per un libro, appunto questo Un mondo perduto e ritrovato, nel quale egli lascia spesso la parola al racconto in prima persona di Zaseckij per illustrarne in terza il sostrato fisiologico e spiegarne l’evoluzione. Il libro è quindi costruito sul contrappunto tra il diario del protagonista e il commento partecipe dello scienziato, che è anche confidente e amico.

Ho ripetuto spesso a tutti – scrive Zaseckij – che dopo essere stato ferito sono diventato un’altra persona, che sono stato ucciso nell’anno 1943, il 2 marzo, ma grazie a una particolare forza vitale dell’organismo sono rimasto vivo per miracolo.

Sono parole impressionanti che riflettono una condizione esistenziale che ha l’apparenza di un sogno pauroso e feroce. Il ferito non ha perso la memoria della sua condizione anteriore; ricorda di essere stato uno studente brillante, un uomo pronto a mettere i propri studi al servizio del Paese, un comandante di plotone determinato a guidare i suoi uomini contro i nazisti. Poi tutto è crollato: la pallottola – commenta Lurija – gli ha attraversato il cervello e ha frantumato il suo mondo. Ha frammentato lo spazio, ha infranto i legami tra le cose. Dopo il ferimento Zaseckij vive dunque in un mondo disgregato, frantumato in mille pezzi; non capisce lo spazio, che gli fa paura; ha smarrito la determinatezza del mondo.

Anche riacquistare la capacità di leggere presenta dei problemi drammatici. La compromissione di parte dell’area temporale sinistra rende pressoché invisibile ciò che Zaseckij pure ricorda come la parte destra del proprio campo visivo. Egli quindi vede poche lettere per volta e ogni lettera deve nuovamente impararla a riconoscere, perdendo e recuperando più volte la nozione prima di fissarla una volta per tutte. La stessa differenza tra destra e sinistra, tra nord e sud, risulta problematica. Il suo senso dell’ orientamento risulta quindi per forza di cose limitato. Chi è sano non potrà mai capire la profondità della mia malattia, scrive Zaseckij. Pur consapevole che non sarà più l’uomo di prima, egli però non abbandona mai il proposito di recuperare in parte le proprie facoltà, di tornare a poter lavorare e rendersi utile nonostante le proprie limitazioni. La grande statura morale di questa persona, quindi, nonostante il recupero a malapena parziale delle capacità pratiche, costituisce di per sé un messaggio di speranza per l’umanità.

L’edizione italiana è arricchita da un saggio introduttivo di Sacks che testimonia il proprio debito verso Lurija; ma anche da una post-fazione di Luciano Mecacci che completa il ritratto disegnato da Sacks.

Disturbi di sviluppo in età prescolare: studio clinico sulla correlazione tra la psicopatologia del genitore e del bambino

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

DISTURBI DI SVILUPPO IN ETA’ PRESCOLARE: STUDIO CLINICO SULLA CORRELAZIONE TRA LA PSICOPATOLOGIA DEL GENITORE E DEL BAMBINO

Martina Martinelli*, Oriana Papa**, Stefania De Luca***, Nelia Zamponi****
*Medico Chirurgo **Dirigente Psicologa SOD Neuropsichiatria Infantile A.O.U. Ospedali Riuniti, Ancona ***Psicologa ****Direttore SOD Neuropsichiatria Infantile A.O.U. Ospedali Riuniti, Ancona

 

Abstract

Scopo di questo lavoro è quello di studiare la possibile presenza di una correlazione tra la psicopatologia del bambino in età prescolare e l’eventuale disturbo o tratto psicopatologico individuate nel genitore. Il campione clinico è composto da 57 bambini e 109 genitori. Ad ogni genitore è stato richiesto di compilare l’MMPI-2, per individuare il suo profilo di personalità, e il CBCL, per comprendere come il genitore percepisce le problematiche presentate dal bambino.

I risultati ottenuti mostrano l’esistenza di un’importante interrelazione tra la presenza di un tratto o disturbo psicopatologico del genitore e il problema psicopatologico del bambino, sottolineando il ruolo non soltanto della madre, ma anche del padre nell’influenzare lo sviluppo del bambino stesso. Gli Autori concordano nell’attribuire quindi una notevole importanza a tali risultati, i quali evidenziano la necessità di porre maggiore attenzione nell’attuare strategie diagnostiche terapeutiche dirette sia al bambino che ai genitori.

Abstract

In this paper the Authors observe the connection between child psycopathology, in preschool age, and the presence of a psycopathologic disorder in the parents. They studied 57 children and 109 parents. Every parent was submittet to MMPI-2, to identify his/her personality traits, and to CBCL, to know how the parents perceive their child’s disorder. Results show an important relationship between children and parents’ psycopathologic disorders, underlining the influence of both mother’s and father’s psycopathology on their child development. The Authors attribute a great clinic relevance and speculative interests to these observations, that allow to put deeper attention to therapeutic steps of children and parents.

Parole chiave: Disturbi di Sviluppo – psicopatologia – correlazione – bambini – genitori.

 

 

Infedeltà emotiva o sessuale: quale delle due fa soffrire di più? Uomini e donne la pensano diversamente

Una ricerca norvegese dimostra che gli uomini e le donne la pensano diversamente e reagiscono in modo differente all’infedeltà.

Se il partner fa sesso con qualcun’altro si considera tradimento anche se non vi e’ alcun coinvolgimento affettivo? Oppure si tratta di tradimento se vi è una vicinanza relazionale e affettiva con l’altro anche in assenza di rapporti sessuali?

Una ricerca norvegese dimostra che gli uomini e le donne la pensano diversamente e reagiscono in modo differente all’infedeltà. Secondo la letteratura vi sarebbero due principali tipi di infedeltà:

  • avere rapporti sessuali con una persona altra rispetto al/alla partner della propria relazione stabile (infedeltà sessuale);
  • sviluppare un coinvolgimento affettivo e sentimentale – indipendentemente dalla presenza di rapporti sessuali- con una persona altra rispetto al partner della propria relazione stabile (infedeltà emotiva).

Nello studio pubblicato su Personality and Individual Differences ai soggetti è stato chiesto di rispondere a una serie di questionari sulla gelosia in relazione a scenari di infedeltà emotiva e/o sessuale che comprendevano sia misure continue (scale likert) sia aspetti qualitativi. L’obiettivo era proprio indagare quale tipologia di infedeltà fosse considerata più sconvolgente e dolorosa per l’individuo.

Mentre gli uomini sarebbero più gelosi di fronte a situazioni di infedeltà sessuale, è invece l’infedeltà emotiva a rendere l’esperienza del tradimento più dolorosa per le donne, in maniera statisticamente significativa rispetto agli uomini. Dunque vi sono marcate differenze di genere nella reazione all’infedeltà del proprio partner partner.

Gli autori fanno riferimento alla psicologia evoluzionista per spiegare il risultato: uomini e donne per migliaia di generazioni hanno dovuto far fronte a molteplici sfide riguardanti la riproduzione della propria specie, tra cui appunto l’infedeltà. Per il maschio diventa importante decidere se egli è realmente il padre del futuro nascituro allo scopo di investire risorse per la protezione del figlio: chiaramente per come funziona il concepimento umano la fiducia nella partner diventa centrale. Quindi la funzione della gelosia di fronte alla infedeltà sessuale si baserebbe sulla credenza di un maggior controllo della partner allo scopo di diminuire la probabilità del tradimento.

Per la donna se non si pone il problema della certezza dell’essere la vera madre del figlio, diviene invece fondamentale assicurare il più possibile risorse e sicurezza per lo sviluppo e la crescita della prole anche attraverso il coinvolgimento del padre in tale progetto evolutivo. Quindi la più grande minaccia per la donna sarebbe costituita dal fatto che l’uomo spenda tempo, risorse, attenzione ed energie con altre partners: da qui una maggiore sensibilità all’infedeltà emotiva del partner.

Il VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia (Assisi 2015): una palestra per il confronto scientifico

Si è svolto ad Assisi il VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia, organizzato dalle scuole di psicoterapia “Studi Cognitivi” e APC/SPC (Associazione di Psicologia Cognitiva e Scuola di Psicoterapia Cognitiva).

I giorni del congresso, dal 16 al 18 ottobre 2015, sono trascorsi rapidi e pieni d’interesse e passione. Il forum è riservato ai giovani allievi delle due scuole, senza intromissioni di ricercatori e clinici già formati e più anziani. È una palestra per incoraggiare i futuri terapisti a presentare pubblicamente le loro idee e abituarsi al confronto scientifico. Uno dei rischi di questa professione infatti è la sclerosi nella solitudine della propria attività, nel chiuso del proprio studio in compagnia della processione dei pazienti. Il forum intende inoculare precocemente la passione dello scambio d’informazioni e della formazione continua.

Le presentazioni del forum hanno rispecchiato i recenti sviluppi della terapia cognitivo-comportamentale.

Si privilegia lo studio dei processi a scapito di quello sulle credenze. Rimuginio, ruminazione, evitamento mentale ed esperienziale, mindfulness, training attenzionale e altri simili argomenti hanno avuto assoluta preminenza nelle presentazioni. Ricerche importanti con ricadute sulla clinica significative, poiché implicano interventi di processo sulla gestione dell’attenzione e sul controllo dello stile di pensiero. Il focus terapeutico si sposta dalla discussione verbale all’addestramento dello stato mentale.

Accanto a questo vi era il filone delle ricerche sul trauma e sul trattamento senso-motorio. Anche in questo caso l’implicazione clinica porta a dare più centralità a interventi di gestione degli stati mentali. Si tratta d’interventi non metacognitivi ma corporei, in cui ciò che conta non è l’apprendimento consapevole e top-down di un modo diverso di gestire l’attività mentale, ma un’esperienza corporea che modifichi i processi distorti in direzione bottom-up.

Non che siano mancate le ricerche più classiche. Alcuni allievi di Studi Cognitivi hanno riproposto lo storico interesse della loro scuola per il ruolo del controllo e della storia di vita nella psicopatologia. Entrambi questi due concetti cognitivi stanno subendo una rielaborazione in senso processuale, soprattutto il tema del controllo, variabile che peraltro non essendo una self-belief ma un descrittore di una modalità di gestione sia della realtà che dei propri stati mentali era già almeno per metà (quella attinente al controllo degli stati mentali) una variabile di processo. La storia di vita in Studi Cognitivi è sempre stata motivo di riflessione clinica e di valorizzazione costruttivista, pur al tempo stesso marcando il confine con altri modelli che ne accentuano troppo il significato catartico, come la schema therapy di Young.

Anche molti allievi dell’APC/SPC hanno sviluppato lo storico interesse della loro scuola per l’esplorazione della colpa nel disturbo ossessivo-compulsivo, con nuovi disegni di ricerca sperimentali che hanno portato a ulteriori conferme di quello che è il principale risultato di ricerca dell’APC/SPC, ovvero la distinzione tra senso di colpa deontologico e altruistico, il primo preoccupato per la possibile violazione delle regole e il secondo intimorito dal rischio di fare del male agli altri. Nel senso di colpa deontologico si annida anche il rischio dell’ossessività.

Assisi FORUM Formazione in Psicoterapia
Assisi 2015

 

Quali sono i campi ancora inesplorati?

Forse deve aumentare il numero di ricerche sulla tecnica di intervento e sulle applicazioni dei protocolli. Con un’unica eccezione: la mindfulnes, la cui applicazione è molto studiata. La mindfulness è però più di un semplice intervento, costituendo quasi un paradigma. Ma sono mancate ricerche su interventi più specifici, come la disputa o il training attenzionale. Forse tecniche e protocolli sono ancora troppo considerati conseguenze meccaniche e automatiche della teoria. Naturalmente è comprensibile che i giovani siano affascinati dagli aspetti teorici e filosofici, ma è anche auspicabile che si diffonda una visione più concreta e professionale e meno artistica della psicoterapia.

 

La lezione magistrale

L’unico momento non riservato ai giovani è stata la presentazione di Hans Nordhal dell’università di Trondheim in Norvegia, che ha illustrato l’applicazione del modello metacognitivo di Adrian Wells al disturbo borderline di personalità. Applicazione che richiede un aggiustamento della pratica clinica del modello, con maggiore attenzione all’alleanza psicoterapeutica e alla costruzione di una rete protettiva sociale intorno al paziente. C’è da dire che però il nocciolo del modello rimane del tutto invariato e che Nordhal non propone un’alternativa teorica a Wells. I suoi sono aggiustamenti di buon senso e di good-practice.

Accanto alle presentazioni scientifiche ci sono stati gli eventi sociali, sempre gradevoli e coinvolgenti: la cena di gala e il ballo fino al cuore della notte. Finito di ballare molti si sono riversati per le stradine e le scalinate di Assisi. La città a misura d’uomo consentiva a tutti di incontrarsi più volte nei vari bar, sempre a portata di passeggiata in un informale after-hours conviviale e ambulante.

 

Lo sguardo che ostacola l’espressione: autismo e legame alterato tra contatto visivo e imitazione dell’espressione

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Non basta osservare quali capacità sono alterate nei soggetti autistici, serve anche comprendere come ciascuna funzione interagisce con le altre.

L’attenzione condivisa, infatti, nei soggetti normali aiuterebbe la mimesi facciale (si tratta di due capacità base per l’interazione sociale umana), mentre negli autistici avverrebbe il contrario. Lo suggerisce un nuovo studio pubblicato su Autism Research.

L’empatia (la capacita di immedesimarsi e comprendere le emozioni degli altri) ha molte componenti, alcune sofisticate che coinvolgono processi di pensiero complessi, altre tanto basilari quanto essenziali. Fra queste ultime ci sono l’attenzione condivisa – la capacità che due, o più, individui hanno di porre attenzione allo stesso oggetto, e che viene avviata dal contatto visivo tra due persone – e la mimesi facciale – la tendenza a riprodurre sul proprio viso le espressioni emotive degli altri. Le persone affette da autismo hanno difficoltà con entrambe, ma secondo una nuova ricerca pubblicata su Autism Research, il segreto starebbe nell’interazione fra queste due funzioni.

L’empatia è una caratteristica umana fondamentale nelle relazioni sociali – spiega Sebastian Korb, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, fra gli autori della ricerca. – Secondo le teorie dell’embodied cognition (cognizione incorporata) per meglio capire l’espressione che vediamo sul viso di chi ci sta davanti riproduciamo la stessa espressione sul nostro viso.

Questo non significa che per forza quando vediamo qualcuno sorridere dobbiamo sorridere a nostra volta, anche se a volte succede davvero. Più spesso però i muscoli facciali coinvolti nel sorriso si attivano, ma in maniera talmente lieve che il movimento non è visibile a occhio nudo.

La nota difficoltà delle persone autistiche nell’interpretare le emozioni degli altri potrebbe avere le sue radici proprio in una ridotta mimesi facciale, poiché molti studi hanno dimostrato che in questi soggetti questa funzione è deficitaria. Altri studi hanno mostrato che anche l’attenzione condivisa è intaccata negli autistici. Anche questa funzione ha un’enorme rilevanza nell’interazione sociale. Ciò nonostante, i deficit di mimesi facciale e di attenzione condivisa nell’autismo rimangono dibattuti e poco conosciuti. Per questo:

Noi crediamo che si debba porre molta attenzione all’interazione fra queste due capacità – spiega Korb – Nei nostri esperimenti infatti abbiamo osservato che nelle persone con tratti autistici più marcati, l’attenzione condivisa ‘disturbava’ la mimesi facciale, mentre nei soggetti normali la agevolava.

Una questione di interazione

Va sottolineato che i 62 soggetti che hanno partecipato all’esperimento non erano persone con una diagnosi di autismo. Invece, i ricercatori hanno utilizzato un questionario per misurare la tendenza all’autismo in persone normali. Infatti, è stato dimostrato che in ogni individuo si possono trovare tratti più o meno autistici, che però nella più parte dei casi sono lievi e quindi non portano a una diagnosi.

Durante gli esperimenti i soggetti interagivano con un avatar, una faccia tridimensionale interattiva (nel senso che adattava il suo comportamento a quello del soggetto). All’inizio di ogni prova l’avatar rimaneva a occhi bassi, ma non appena lo sguardo del soggetto (monitorato con un sistema di eye-tracking) andava verso la zona degli occhi dell’avatar il suo sguardo si alzava e poteva incontrare lo sguardo del soggetto (condizione con attenzione condivisa) o muovere gli occhi verso l’alto (condizione senza attenzione condivisa). Successivamente, lo sguardo dell’avatar si muoveva di lato verso un oggetto (scelto fra due visibili), mentre il sistema di monitoraggio registrava se lo sguardo del soggetto seguiva quello dell’avatar. A quel punto l’avatar poteva sorridere o assumere un’espressione di disgusto. Durante la prova, la mimesi facciale del soggetto veniva misurata con l’elettromiografia facciale (un metodo per registrare l’attivazione dei muscoli).

Quello che abbiamo osservato è che nelle condizioni con attenzione congiunta e dove l’avatar sorrideva, nei soggetti con tratti autistici più marcati i muscoli del sorriso si attivavano poco, mentre in quelli poco o per niente autistici la risposta espressiva era molto più amplificata – spiega Korb – Gli individui senza autismo tendono ad avere una risposta empatica (e una mimesi facciale) più forte con le persone con hanno avuto contatto visivo e stabilito un’attenzione condivisa. Ma se ci sono tendenze autistiche il contatto visivo al contrario può distrubare e diminuire la mimesi facciale.

Conclude Korb:

Per comprendere sia i meccanismi base di una buona interazione sociale, che i processi alterati alla base dell’autismo, è dunque importante non solo osservare quali funzioni sono danneggiate, ma anche come queste lavorino in concerto

La ricerca è stata svolta in collaborazione con l’Università di Reading, Regno Unito, (è stata coordinata dal Bhismadev Chakrabarti) e altri istituti di ricerca europei.

ALLEGATO 1

 

IMMAGINI: Avatar simili a quelli usati negli esperimenti. Crediti: Sebastian Korb

CONTATTI: Ufficio stampa: [email protected]

Tel: (+39) 040 3787644| (+39)366‐3677586 via Bonomea, 26534136 Trieste

Maggiori informazioni sulla SISSA

 

The gaze that hinders expression: autism and altered connections between eye contact and facial mimicry

It is not enough to observe what abilities are altered in autistic subjects, we also need to understand how each function interacts with the others. In fact, whereas in normal subjects joint attention appears to facilitate facial mimicry (both are skills relevant for human social interaction), the opposite holds true for autistic subjects. That is what a new study, just published in Autism Research, suggests.

Empathy – the ability to identify and understand other people’s emotions – has many components, some sophisticated and involving complex thought processes, others basic but essential nonetheless. The latter include joint attention – which is activated by direct eye contact between two or more individuals, and allows them to focus their attention on the same object; and facial mimicry – the tendency to reproduce on one’s own face the expressions of emotion seen in others. Subjects suffering from autism have difficulty with both these abilities, but according to a new study just published in Autism Research, it is also important to study how these two functions interact.

Empathy is an essential human trait in social relations – explains Sebastian Korb, a researcher at the International School for Advanced Studies (SISSA) in Trieste and one of the study authors – According to embodied cognition theories, to better understand the facial expression of the person in front of us we reproduce the same expression on our face.

This does not necessarily mean that if we see someone smiling we smile as well, even though this does happen sometimes. More often, however, the facial muscles involved in smiling are indeed activated, but so subtly that the movement is invisible to the naked eye.

The known difficulty autistic people have in interpreting other people’s emotions could stem from reduced facial mimicry, since many studies have demonstrated that this function is defective in these subjects. Other studies have shown that joint attention is also impaired in autism, and this is another function that has huge relevance for social interaction. Nevertheless, the impairments in facial mimicry and joint attention in autism remain controversial and poorly understood. For this reason:

We believe the interaction between these two abilities deserves plenty of attention – explains Korb – In our experiments, we saw that in persons with more pronounced autistic traits, joint attention tended to ‘disturb’ facial mimicry, whereas in normal subjects it facilitated it.

A question of interaction

It should be noted that the 62 subjects who took part in the experiment were not individuals with a clinical diagnosis of autism. Instead, researchers used a questionnaire measuring the autistic tendencies of normal persons. In fact, it has been demonstrated that everyone has more or less autistic traits, although in most cases these tend to be mild and therefore do not lead to a diagnosis.

During the experiment, the subjects interacted with an avatar, a three­‐dimensional interactive face (in the sense that it responded to the subject’s gazing behaviour). At the beginning of each trial, the avatar looked down, but as soon as the subject’s gaze (monitored by means of an eye-­‐ tracking system) moved towards the avatar’s eye region, the avatar looked up and he could either make eye contact with the subject (condition of joint attention) or avert his gaze and look up (condition of no joint attention). Subsequently, the avatar shifted his gaze to focus on one of two objects to the side, while the eye-­‐tracker recorded whether or not the subject’s gaze followed that of the avatar. At that point, the avatar could either smile or make an expression of disgust.

During the trial, the subject’s facial mimicry was measured by facial electromyography (a method used for recording muscle activation).

What we observed is that in conditions of joint attention and where the avatar smiled, the subjects with more pronounced autistic traits tended to show less activation of the major smile muscle, whereas those with milder or no autistic traits showed a much more amplified expressive response – explains Korb – Individuals without autism tend to display a stronger empathic response (and facial mimicry) to persons with whom they have established eye contact and joint attention. However, if the subject has autistic tendencies then the eye contact can disturb and diminish facial mimicry.

Korb concludes:

In order to understand both the mechanisms underlying normal social interaction and the altered processes involved in autism, it is therefore important to observe not only which functions are impaired but also how these functions work together.

The study was carried out in collaboration with the University of Reading, United Kingdom (it was coordinated by Professor Bhismadev Chakrabarti) and other European research institutes.

Quale empatia? L’importanza di utilizzare l’empatia con flessibilità

Could a greater miracle take place than for us to look through each other’s eyes for an instant?

(H.D.Thoreau)

L’utilizzo dell’empatia è una questione di etica professionale, dal momento che contribuisce al principio basilare del rispetto dell’autonomia del paziente. Eppure va utilizzata in maniera flessibile, a seconda delle persone o delle situazioni in cui interagiamo.

In un recente articolo su una rivista di dermatologia, la dott.ssa S. Olbricht spiega l’importanza dell’empatia nel contesto medico. La definisce come il processo di esperire, comprendere, prendere consapevolezza ed essere sensibili alle emozioni, ai pensieri e ai vissuti di altre persone sia nel momento presente, che in ricordi passati, senza provare o aver provato in prima persona quelle emozioni, pensieri e vissuti, e senza che essi siano stati comunicati in maniera esplicita. Un’altra definizione, o più semplicemente un altro modo di concepire l’empatia, è vedendola come la curiosità per la prospettiva emotiva di un’altra persona. Non è la partecipazione, che consiste invece nel condividere le emozioni di un’altra persona influenzandosi reciprocamente, e non è la compassione, che è l’emozione che ci induce ad aiutare qualcuno.

Piuttosto, l’empatia è una forma di conoscenza, pur riflessiva e personale: utilizzando il paragone con le relazioni di cura (delle quali la diade medico-paziente è un esempio) è come se il medico fosse per un attimo al posto del paziente. Un medico empatico conserva sempre il senso di sé, così da poter essere determinato ed obbiettivo nel valutare le informazioni che gli vengono fornite. L’empatia è apertura verso sé stessi (chiedendosi ad esempio: Perché ho questa strana sensazione riguardo al modo in cui il paziente mi sta guardando?), e apertura verso l’altro (chiedendosi invece Perché il suo piede si sta muovendo nervosamente?). Non solo una forma di conoscenza, ma un’abilità che può essere praticata e in cui si può diventare esperti, l’empatia è fatta di osservazione, ascolto, introspezione e riflessione, ripetute ciclicamente fino al momento in cui si riesce a giungere ad una conclusione. E’ un processo cognitivo che riconosce la presenza di un conflitto di interessi in maniera rispettosa e non giudicante. E’ una manifestazione del fatto che il curante è pienamente presente alla situazione e alla persona, ma senza provare in prima persona le emozioni di preoccupazione e pietà.

L’autrice di questo articolo passa in rassegna alcune buone motivazioni per cui i medici dovrebbero aggiungere l’empatia alla loro cassetta degli attrezzi. Innanzitutto, anche se la fisiologia dell’empatia non è compresa appieno, è certo che abbia un effetto fisiologico nella relazione medico-paziente: la concordanza della conduttanza cutanea tra paziente e medico è risultata positivamente correlata con la percezione del paziente dell’empatia del medico (Marci et al., 2007). Inoltre, alcuni studi hanno verificato che l’empatia del medico, misurata come l’abilità di comprendere i bisogni del paziente, incoraggia la collaborazione del paziente, favorisce il sollievo dal dolore e la guarigione stessa, in studi su pazienti con cancro in stadio avanzato (Lelorain et al., 2015) o che hanno subito un intervento chirurgico conseguente ad un trauma (Steinhausen et al., 2014). Inoltre, l’empatia può rendere più facile e veloce il processo del prendere una decisione condivisa riguardo ad un piano di trattamento.

L’utilizzo dell’empatia è una questione di etica professionale, dal momento che contribuisce al principio basilare del rispetto dell’autonomia del paziente. Promuove il lavoro di squadra e un approccio integrato nella cura del paziente. L’empatia può avere un suo spazio terapeutico specifico: dalle ricerche di psicologia cognitiva (Decety et al., 2015) emerge che l’empatia consente di gestire le emozioni in maniera positiva e funzionale a livello sociale, in modo da facilitare anche l’adattamento ai cambiamenti del contesto. L’empatia riduce il rischio di incorrere nei sintomi e nelle conseguenze del burnout, sindrome a cui sono particolarmente esposti tutti i professionisti nell’ambito della salute.

Un articolo di O. Klimecki apparso pochi giorni fa su Social Neuroscience conferma che le emozioni sociali sopra citate, l’empatia e la compassione, oltre a facilitare le interazioni interpersonali, possono anche essere allenate con training specifici, grazie alla plasticità neurale funzionale dei circuiti che ad esse sottendono. Tuttavia, da questo articolo emerge che un eccessiva condivisione empatica della sofferenza può incrementare le emozioni negative e l’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore (circuito neurale della minaccia e della disconnessione sociale). Al contrario, il training per la compassione può rafforzare le emozioni positive e l’attivazione della corteccia mediale orbito-frontale e dello striato (circuito neurale della ricompensa e della connessione sociale). Tali evidenze di neuroimaging sono in linea con i risultati degli esperimenti comportamentali (Leiberg et al., 2011) che sottolineano come la compassione sia connessa a gesti di aiuto e perdono, mentre lo stress empatico non solo diminuisce i comportamenti di aiuto, ma è anche associata con l’incremento dei comportamenti aggressivi.

In linea con questo studio, c’è anche chi, provocatoriamente ma non troppo, sostiene che il mondo abbia bisogno di un po’ meno empatia. Oliver Burkeman (2014), in un articolo apparso sulla rivista Internazionale lo scorso anno, riferendosi alle parole dello psicologo Paul Bloom (2014), passa in rassegna i bias (gli errori sistematici) a cui essa è soggetta: ad esempio, ci è più facile provarla per le persone che hanno un bell’aspetto e per quelle della nostra stessa razza. Siamo anche soggetti alla trappola della vittima identificabile, che ci fa preoccupare di più per un unico bambino scomparso che non per le migliaia che potrebbero essere danneggiate da una certa politica del governo.

Un eccesso di empatia può provocare in chi la prova esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri. Anche nel processo decisionale, evitare le personalizzazioni si rivela spesso la strategia più utile: l’economista T. Cowen (2014) sottolinea che per chiedere un’opinione è meglio non usare la formula Che cosa ne pensa?, ma Secondo lei, che cosa pensa la maggior parte delle persone?. Allo stesso modo, per prendere una decisione razionale ed equilibrata, può essere utile, paradossalmente, prendere le distanze anche da noi stessi, cercando di uscire dal fiume di pensieri ed emozioni in cui siamo immersi nel momento presente, non nascondendoli o rifiutandoli, ma vedendoli come eventi discreti, prodotti della nostra mente, non riflesso diretto della realtà, o reazione incondizionata ad essa. Ad esempio, infatti, nello strumento di indagine psicologica di matrice costruttivista, l’Autocaratterizzazione (Kelly, 1955), si chiede alla persona di scrivere un profilo di sé, ma in terza persona, così come potrebbe scriverlo un amico che la conosce molto bene, forse meglio di chiunque l’abbia mai conosciuta. Anche Bloom arriva alla conclusione che, più che di empatia, abbiamo bisogno di compassione: un sentimento più freddo e razionale, un modo più distaccato di amare, essere gentili e preoccuparci per gli altri.

Citando il comico J. Handey:

Prima di criticare qualcuno fatti una passeggiata di un chilometro nei suoi panni, così sarai a un chilometro di distanza e potrai tenerti i suoi panni. Ma se vuoi aiutarlo, forse ti conviene tenerti i tuoi vestiti. Invece di provare il suo dolore, non sarebbe meglio fare qualcosa?

Tuttavia, la soluzione potrebbe essere, piuttosto che rinunciare all’empatia, riuscire a decidere in maniera flessibile quando, come e quanto attivare il sentimento empatico, a seconda delle situazioni e della persona o del contesto sociale in cui interagiamo.

Ma per fare questo, essa deve essere un’abilità iperappresa, con cui abbiamo familiarità, che abbiamo fatto nostra e che quindi non ci spaventa. Per modulare in maniera sapiente la distanza di sicurezza dall’altro, dobbiamo non sentire la necessità di mettere una barriera tra noi e gli altri (se metto una barriera, non importa quanto sono vicino o lontano dagli altri, perché sono comunque separato da loro).

Di quest’idea è anche l’ideatore del Museo dell’Empatia, il filosofo Roman Krznaric, che ha ideato l’installazione interattiva A mile in my shoes: creata in collaborazione con gli abitanti di un quartiere a sud di Londra, il progetto si è svolto dal 4 al 27 Settembre 2015 sulle rive del Tamigi: i passanti entravano in un negozio dove un commesso sceglieva per loro un paio di scarpe della giusta misura, appartenute ad un’altra persona: potevano essere di un rifugiato, come di un anziano banchiere Etoniano. La persona era poi invitata a camminare lungo il fiume, ascoltando, in una cuffia, la storia del proprietario, per avvicinarsi al suo vissuto e alle sue emozioni. Questa mostra itinerante farà, secondo i progetti, il giro del mondo, fermandosi in più di 50 località, arricchendosi man mano delle storie di nuove persone: nell’immediato è previsto che venga portata in varie città dell’Inghilterra, e nel 2016 si trasferirà a Perth. Oltre a questa mostra itinerante, è stata creata un interessante Libreria dell’Empatia, una risorsa digitale che racchiude centinaia di suggerimenti e recensioni di libri e film che c’entrano, in diversi modi, con il mettersi nei panni dell’altro. La libreria è interattiva: chiunque può registrarsi e aggiungere le sue preferenze. Cosa aspettate ad esplorarla e ad allenare la vostra empatia?

Morality would frown upon
Decency look down upon
The scapegoat fate’s made of me
But I promise you, my judge and jurors
My intentions couldn’t have been purer
My case is easy to see
I’m not looking for a clearer conscience
Peace of mind after what I’ve been through
And before we talk of repentance
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes
Now I’m not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes

(Depeche Mode, Try walk in my shoes, Songs of faith and devotion, 1993)

Il valore dell’Ascolto Riflessivo con i gravi Disturbi di Personalità

Barbara Brignoni – Open school Studi Cognitivi Milano

La gravità di alcuni pazienti, ha costretto numerosi operatori a chiedersi quali potessero essere le tecniche più efficaci per instaurare una relazione di alleanza e di fiducia che potesse portare benefici alla persona e costituire una buona base per un lavoro terapeutico.

 

I percorsi di psicoterapia offerti dai servizi pubblici di Salute Mentale, presentano alcune differenze sostanziali rispetto a quelli che si prospettano nel privato, per svariati motivi: sicuramente per la disponibilità di risorse e per i programmi standardizzati regionali, non è prevedibile una presa in carico strutturata a lungo termine pensata per tutti i pazienti che afferiscono al servizio, i numeri sicuramente non aiutano e non lo consentono; inoltre analizzando le tipologie di utenti, nel bacino del pubblico accedono anche persone con background sociale compromesso, con problematiche strutturate in diverse aree e con prognosi negative.

La gravità di questi pazienti, ha costretto numerosi operatori a chiedersi quali potessero essere le tecniche più efficaci per instaurare una relazione di alleanza e di fiducia che potesse portare benefici alla persona e costituire una buona base per un lavoro terapeutico.

La riflessione si è spostata dunque sulle tecniche preliminari della relazione d’aiuto, quelle incentrate sulla motivazione e sulla creazione di un’alleanza terapeutica, che trovano una dimensione strutturata nell’approccio del Counselling Motivazionale sistematizzato da Miller e Rollnick.

Le problematiche che rendono difficoltoso un percorso di psicoterapia strutturata, nel caso di gravi disturbi di personalità, sono:

  • L’egosintonicità del paziente, che non problematizza alcuni suoi comportamenti e atteggiamenti, tentando paradossalmente di mantenere il proprio equilibrio disfunzionale;
  • La ridotta consapevolezza dell’opportunità di cambiamento;
  • La scarsa motivazione.

La presenza radicata di paure (del rifiuto, di affrontare la verità, del giudizio, delle emozioni, di perdere il controllo, di essere pazzo o malato…), i sentimenti sperimentati come intollerabili, come la colpa o la vergogna, le convinzioni pervasive che impediscono l’espressione personale, ed i pregiudizi interni, sono tutti fattori che rendono ulteriormente difficile la costruzione di un’alleanza terapeutica basata su un rapporto di fiducia reciproca.

Dal paziente con un grave disturbo di personalità, l’Altro è talvolta investito di significati personali appresi nel corso delle proprie esperienze relazionali, spesso fallimentari; l’operatore può essere vissuto come un avversario per cui il paziente lo contrasta, lo interrompe o si estranea dalla relazione, generando a sua volta una reazione nell’Altro. All’interno della relazione terapeutica si attivano cicli interpersonali a cui porre grande attenzione.

Proprio per tutte queste difficoltà, è necessario adottare un approccio relazionale strutturato, strategico e tecnico, che attraverso specifiche abilità tenda:

  • A mantenere la relazione, il contatto con il paziente;
  • A gestire i comportamenti e gli atteggiamenti di resistenza al cambiamento;
  • A verificare e monitorare lo stato della motivazione del paziente;
  • A promuovere la responsabilizzazione e l’orientamento ai vari strumenti di cura, cessando eventuali comportamenti problematici.

In particolare il Counseling Motivazionale si propone come un approccio centrato sul cliente, orientato, per affrontare e risolvere un conflitto di ambivalenza in vista di un cambiamento del comportamento (Miller & Rollnick, 2014).

Questo approccio è fondato su tre principi: collaborazione, autonomia e maieutica; in questa cornice di riferimento, le tecniche sono orientate ad esplorare piuttosto che esortare, a sostenere piuttosto che persuadere, con una costante attenzione alle aspirazioni della persona, che è libera di accettare o rifiutare le indicazioni che le vengono suggerite.

Nell’approccio del Counseling Motivazionale, il colloquio si modula tra il trattenersi dal desiderio di ‘correggere’ il paziente, incoraggiare e promuovere il suo empowerment, comprendendone la sua visione del mondo e le sue motivazioni, ascoltandolo in modo attivo e non giudicante.

A livello terapeutico ci sono dei fattori comuni e trasversali a diversi modelli di trattamento (Dialectical Behavior Therapy, Mentalization Based Therapy, Transference-Focused Psychotherapy ) che incidono nella buona riuscita di un percorso con un paziente con grave disturbo di personalità:

  • Una buona alleanza di lavoro;
  • Un atteggiamento supportivo e orientato al cambiamento;
  • Un’alta strutturazione degli interventi;
  • La presenza di un’equipe multidisciplinare specificatamente formata;
  • Regolari supervisioni d’equipe.

Nello specifico, i diversi modelli di trattamento del Disturbo Borderline di Personalità , identificano con linguaggi teorici differenti, tre difficoltà sintomatologiche sostanziali:

  • Abnorme risposta emotiva alla separazione reale o immaginata, temuta;
  • Non integrata rappresentazione di sé e degli altri;
  • Difficoltà nel gestire le reazioni emotive .

Le più recenti evoluzioni degli studi sulla clinica dei Disturbi di Personalità e del Disturbo Borderline in particolare, si rifanno alla Teoria dell’Attaccamento proposta originariamente da Bowlby negli anni ’70 per spiegare a livello eziopatogenetico, le manifestazioni di queste condizioni patologiche.

La Teoria dell’Attaccamento postula l’esistenza nell’Uomo, di una tendenza innata a ricercare per tutto l’arco di vita la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta ogni volta che si costituiscano situazioni di pericolo, dolore, fatica, solitudine, offrendo all’individuo un vantaggio in termini di sopravvivenza e adattamento.

Il corretto sviluppo di un sistema di attaccamento tra madre e bambino, teso a garantire a quest’ultimo protezione e vicinanza, gli permetterà di strutturare un’idea coerente di Sé e degli altri influenzando anche le sue future relazioni. L’esperienza di relazioni primarie stabili e sicure, diviene il prerequisito indispensabile per lo sviluppo armonico di tutte le altre competenze personali e sociali. La figura di attaccamento, generalmente il caregiver, dovrebbe costituire per il bambino, una base sicura che gli permetta di sviluppare fiducia in se stesso, consentendogli di muoversi nell’ambiente circostante con sufficiente e progressiva autonomia.

Dagli studi sui vari esiti dei legami di attaccamento, ne sono emerse quattro tipologie: sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente, disorganizzato. In pazienti con gravi disturbi di personalità, negli anni si è sempre più frequentemente riscontrato un attaccamento fortemente problematico di tipo disorganizzato: in questi casi, la figura di attaccamento è rappresentata come incoerente ed ostile, a causa di traumi irrisolti e maltrattamenti subiti, causando nel paziente una mancata integrazione del proprio senso identitario. Il paradosso è legato al fatto che la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di minaccia e soluzione di questo stato emotivo, con conseguente disorganizzazione del comportamento.

Nella letteratura scientifica clinica, tutti i riferimenti raccomandano l’importanza dell’accoglienza, dell’atteggiamento supportivo e della motivazione nella pratica di trattamento. Anche nella clinica dei gravi disturbi di personalità, i vari modelli di psicoterapia sottolineano l’importanza dell’accettazione e dell’empatia ed il monitoraggio dei cicli interpersonali.

Nella pratica clinica rivestono particolare importanza alcuni elementi di base trasversali ai vari modelli di cura:

  • La centratura sul paziente: l’accettazione e la comprensione del suo mondo e del suo modo di sentire e pensare, che facilitano la collaborazione ad un progetto di cura condiviso;
  • La relazione come base sicura: sentirsi compresi e riconosciuti contribuisce alla costruzione del “posto sicuro” dove poter esprimere e condividere esperienze e sentimenti anche pesanti e dolorosi senza timore;
  • L’essere con: l’empatia e la centratura garantiscono al paziente che non sarà solo, perché l’operatore comprende cosa dice, come si può muovere, accetta i suoi limiti e lo accompagna e non lo prende strattonandolo né lo lascia solo, deluso.

La tecnica dell’Ascolto Riflessivo riassume in sé tutte le caratteristiche della relazione empatica e di accoglienza, con il vantaggio di essere riproducibile, codificata e strutturata; è la comunicazione di una ragionevole supposizione sul significato delle parole del paziente, restituita dall’operatore sotto forma di una affermazione. Consiste nel proporre un’ipotesi su ciò che il paziente vuole dire ed è un buon modo per verificarla.

Questa tecnica rimanda al paziente l’attenzione dell’operatore, che fornisce così un feedback controllato; comunica accettazione e comprensione. L’Ascolto Riflessivo può essere un potente strumento a valenza psicoterapeutica, consente infatti di sperimentare un funzionamento relazionale di attaccamento riparativo, permettendo al paziente di ricostruire in modo coerente la propria storia, anche imparando strategie di modulazione emotiva.

L’Ascolto Riflessivo si propone dunque come strumento relazionale comunicativo di validazione dell’intenzionalità del paziente, favorendo la funzione riflessiva, di mentalizzazione e di ricostruzione.

Il potere del placebo: gli esiti sull’assunzione di psicofarmaci in persone depresse

Daniela Sonzogni 

Una ricerca dimostra che se una persona depressa risponde bene ad un farmaco placebo, questa riuscirà ad avere un aiuto dai farmaci reali.

Coloro che sono naturalmente equipaggiati con una predisposizione a rispondere positivamente al placebo nel trattamento della depressione, a quanto sembra, hanno un vantaggio nel superare i sintomi con l’aiuto di un farmaco.

I risultati ottenuti presso la University of Michigan Medical School aiutano a spiegare la variazione di risposta al trattamento e la recidiva che tormenta i pazienti con depressione e le loro squadre di assistenza. La scoperta apre la porta anche a nuove ricerche su come amplificare la risposta naturale del cervello in modo nuovo, per migliorare il trattamento della depressione. I risultati potrebbero aiutare anche coloro che sviluppano e sperimentano nuovi farmaci che, attraverso l’ effetto placebo, saranno in grado di misurare l’effetto di un farmaco.

Lo studio è stato svolto da una squadra di ricercatori che ha studiato l’effetto placebo per più di un decennio, utilizzando sofisticate tecniche di scansione cerebrale in persone sane.

Volevano dimostrare che il sistema naturale del cervello antidolorifico chiamato sistema mu-oppioidi, ha risposto al dolore quando i pazienti hanno utilizzato un placebo. Hanno studiato anche la variazione genetica che rende alcune persone più propense a rispondere a finti antidolorifici.

Per la nuova ricerca, hanno studiato la chimica del cervello di 35 persone con depressione maggiore,che hanno accettato di provare quello che pensavano fosse un nuovo farmaco per la depressione, prima di ricevere i farmaci già approvati per curare la malattia.

Il team ha scoperto che i partecipanti che hanno segnalato un miglioramento dei sintomi di depressione dopo aver utilizzato il placebo, ha avuto anche una risposta da parte del sistema mu-oppioidi, nelle regioni del cervello coinvolte nelle emozioni e nella depressione. Questi individui avevano anche la probabilità di sperimentare meno sintomi una volta assunto un farmaco vero e proprio.

Questa è la prima evidenza oggettiva che il sistema degli oppioidi del cervello è coinvolto nella risposta sia agli antidepressivi sia al placebo e che la variazione in questa risposta è associata a variazioni di sollievo dei sintomi. Si può immaginare che aumentando gli effetti placebo, si potrebbe essere in grado di sviluppare in maniera semplice e veloce antidepressivi migliori.

Nello studio è stato osservato che l’effetto placebo derivava non solo dal fatto che i partecipanti credevano di ricevere un vero farmaco, ma anche dall’impatto prodotto dall’ambiente di trattamento in cui veniva effettuato l’esperimento.
I risultati suggeriscono che alcune persone sono più sensibili al trattamento della depressione, e la terapia può quindi risultare migliore se le psicoterapie o terapie cognitive sono integrate agli antidepressivi. Studi che testano gli antidepressivi contro metodi placebo suggeriscono che il 40% di risposta ai farmaci è dovuta all’effetto placebo.

Se nel 40% dei casi, i soggetti guariscono da una malattia cronica senza un farmaco e se metà della risposta ad un farmaco è dovuta all’effetto placebo, occorre scoprire cosa rende questi soggetti diversi da quelli che non presentano lo stesso miglioramento. Questo potrebbe includere effetti genetici che sono ancora da scoprire.

Le nuove scoperte sono state effettuate utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, o PET, una scansione di una sostanza che si attacca ai recettori delle cellule cerebrali che si legano alle molecole mu-oppioidi. I soggetti hanno partecipato con la consapevolezza che non avrebbero saputo tutti i dettagli dello studio né gli obiettivi da raggiungere fino alla sua fine.

I partecipanti sono stati sottoposti a due settimane di trattamento con la pillola placebo, ma durante una delle due settimane, ai soggetti è stato comunicato di star assumendo una sostanza che si riteneva attivasse dei meccanismi interni che avessero proprietà antidepressive. Alla fine della settimana i soggetti sono stati chiamati per una scansione cerebrale. Gli sperimentatori, inoltre, hanno sottoposto i soggetti ad un’iniezione di acqua salata innocua facendo credere loro che avrebbe potuto avere una rapida azione antidepressiva. Dopo le due settimane e dopo la scansione gli individui sono stati sottoposti ad un vero e proprio trattamento con antidepressivi. I soggetti hanno riportato i loro sintomi di depressione attraverso scale di misurazione standard per tutto lo studio.

Oltre ad aiutare la ricerca di migliori farmaci antidepressivi, il nuovo studio potrebbe aiutare a identificare i pazienti che possono trarre vantaggio da strategie non farmacologhe aiutando così le persone che non ricevono sollievo dal trattamento con gli antidepressivi. Queste strategie includono ECT (terapia elettroconvulsiva), la stimolazione cerebrale profonda e la TMS (stimolazione magnetica transcranica).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Effetto Placebo: un viaggio tra mente e corpo. Intervista a Fabrizio Benedetti

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Il rapporto tra padre e figlia nel nuovo film di Muccino: un legame mai scontato

Già dal titolo ci si può immaginare quanto il tema sia toccante, profondo, delicato. Il rapporto tra padre e figlia ha da sempre affascinato gli psicologi perché rappresenta un legame mai scontato.

Nel film di Gabriele Muccino, Jack, uno scrittore di successo, sembra avere ogni risorsa e capacità per offrire un attaccamento sicuro alla figlia Katie, una deliziosa e dolce bambina bionda che fin da piccola è chiamata a fare i conti con un destino crudele. La morte della madre è il primo grave trauma di Katie, ma l’elaborazione del lutto è favorita da un padre presente, affettuoso, premuroso, che come unico obiettivo nella vita ha quello di prendersi cura della figlia. Gli scambi di gioco, verbali e di silente affetto, tra i due sono commoventi, e ricordano che l’amore di un genitore può tutto, anche far superare la perdita e l’assenza dell’altro.

La tenera bambina diventa una donna molto bella, si laurea in psicologia, con un desiderio e una capacità incredibili di aiutare gli altri, ma con un vuoto interiore che lei stessa non riesce a definire alla sua terapeuta. L’angoscia che prova ogni volta che sente questo vuoto la porta ad agire comportamenti autodistruttivi, come avere rapporti sessuali occasionali con persone sconosciute o arrivare a bere così tanto da ubriacarsi spesso. E allora inizi a pensare a com’è possibile che con un padre come il suo abbia sviluppato un vuoto tanto incolmabile, cominci a chiederti perché non riesca ad avvicinarsi e ad entrare in intimità con le persone, nonostante nella sua infanzia abbia goduto di un amore paterno così profondo, sano e sicuro.

Poi, come spesso accade nella vita delle persone, avviene qualcosa che può curare la paura, che aiuta a capirla e a prendere le distanze dai comportamenti disfunzionali che si mettono in atto per difendersene. Tante volte questo qualcosa è una psicoterapia, altre volte sono eventi di vita, altre ancora incontri con persone disposte a comprenderti, a starti accanto per aiutarti a cambiare, a farti modificare i tuoi timori sostituendoli con delle sicurezze. Capita anche che tutte queste cose accadano insieme, e il circolo, allora, da vizioso si trasforma in virtuoso.

È quanto succede a Katie: una grande soddisfazione nell’ ambito professionale che la mette a stretto contatto coi suoi temi dolorosi, la psicoterapia, l’incontro con un uomo disposto ad amarla e a starle accanto senza giudicarla, mentre lei si sforza di essere diversa. Certo, il percorso non è così lineare, Katie continua ad aver paura non sa di cosa e continua a farsi del male per stare lontana dai suoi temi dolorosi. Katie non può e non vuole sentirsi di nuovo amata e poi abbandonata, piuttosto che correre questo rischio preferisce la solitudine e la lontananza dalle persone. La frase del compagno “Non tutte le persone che ti amano prima o poi ti abbandonano” colpisce e risuona nella giovane donna. La morte della madre non è l’unico abbandono nella vita di Katie, la sua cognizione negativa di essere in pericolo quando è amata, è supportata da altre esperienze che le hanno confermato come le persone che ti amano possano sparire, lasciarti, abbandonarti.

Il film ha un lieto fine nel quale sinceramente speravo, ma nel quale non credevo.
Infine, una riflessione che il film a mio avviso suggerisce con grande efficacia: Katie si sarebbe concessa la possibilità di stare meglio se, invece di avere un padre come Jack, avesse avuto un padre assente, che la trascurava o, ancora peggio, che non la “vedeva”?

GUARDA IL TRAILER:

 

La cultura classica scompare dai programmi scolastici? Niente panico, non è una tragedia

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta il 11/10/2015

 

Si riaccende il dibattito sulla morte della cultura classica, e lo riaccende la riforma della scuola in Spagna, che prevede una forte riduzione delle ore d’insegnamento della filosofia. Altrove si apprende che in vari Paesi europei calano sempre più le ore dedicate all’insegnamento delle lingue classiche. Non si insegnano più greco e latino, soprattutto nei Paesi dell’Europa del nord, e non da pochi anni. La sparizione iniziò negli anni ’60 e può ritenersi compiuta negli anni ’80. Al loro posto, corsi più generici di “civiltà classica” o “civiltà antica” in cui si legge qualche classico in traduzione.

È un fenomeno di cui spesso in Italia non ci rendiamo conto, abituati al congruo numero di ore che ancora dedichiamo alla cultura classica nei licei. Quando incontriamo conoscenti o colleghi europei non è così facile rendersi conto di questo gap. I discorsi si mantengono opportunamente su un piano leggero, se è il caso si parla di lavoro e non certo di Omero. La citazione classica –che a qualche italiano reduce dal liceo scappa- suona goffa. Peggio: suona incomprensibile. La citazione classica è goffa proprio perché quella cultura, quel mondo, è uscito fuori dall’immaginario comune. Nella conversazione può cadere qualche riferimento alle riduzioni cinematografiche di Omero e, andando sul moderno, Shakespeare. Se faranno il film o videogiochi sull’Inferno –mi pare di averne sentito parlare- si potrà citare per qualche mese Dante. Al tempo del Gladiatore si poté parlare per un po’ di impero romano, ma non per questo diventarono più comuni le citazioni dai versi dell’Eneide, fosse anche il “consunto sunt lacrimae rerum”, che probabilmente a un collega europeo farebbe l’effetto di un’incomprensibile espressione gergale forse legata alla nostra cultura locale, curiosa ma rispettabile. Insomma, latino e greco sono avviate a diventare l’affascinante curiosità etnica dell’Europa meridionale e soprattutto dell’Italia, ma non sono più il vocabolario di base di una cultura vivente. Nell’immaginario comune occidentale ci sono il cinema e la musica pop/rock.

Questo avviene non solo per greco e latino, ma anche per quelli che erano i classici dell’età moderna. Balzac, Dickens e Tolstoj sono ormai anch’essi droppati dalla cultura comune, a meno che non ci sia la solita riduzione cinematografica a ridare loro un po’ di vita per qualche mese. E non basta. Queste riduzioni, facciamoci caso, funzionicchiano solo per alcuni classici: un po’ di Shakespeare (più “in love” che davvero trasposto fedelmente) e non molto altro. Il cinema è un’arte troppo matura per limitarsi a trasporre Guerra e Pace. Risultato? Citare Pierre Bezuchov in una conversazione è irrimediabilmente bislacco ed esibizionistico.

Un tempo c’erano gli sceneggiati TV che mantenevano viva una certa conoscenza. Ricordo la bellissima Odissea o la Freccia Nera. Anche quel tenue legame è svanito. Le serie TV americane e ora anche italiane sono ormai un genere troppo sviluppato e –ammettiamolo- appassionante; non hanno alcun bisogno di rubare una sceneggiatura a un romanziere di due secoli fa. E già, ormai due secoli ci separano dai romanzieri dell’Ottocento. L’Ottocento intero, con i suoi androni e gli uffici postali in legno che ancora popolano i ricordi della nostra infanzia, svanisce. I colorati e informatizzati uffici postali di oggi hanno perso quel colore da sceneggiato TV, quella sensazione ammuffita di poter trovare un personaggio da romanzo dietro lo sportello.

Parliamo di morte della cultura classica, ma forse faremmo meglio a parlare di morte di una delle sue reincarnazioni. La sparizione della cultura classica dai programmi scolastici è in realtà la fine della resurrezione che essa ebbe quando fu promossa, nella seconda metà dell’Ottocento, la scolarizzazione di massa. In tutta Europa fu introdotta la scuola dell’obbligo, e lo studio dei classici antichi e moderni parve –giustamente- il modo migliore per alfabetizzare la nuova piccola borghesia, abituarla allo studio e alla lettura. La lettura dei classici sostituì la cultura popolare diffusa oralmente.

Tuttavia, non dimentichiamo che quelli che oggi sono i classici moderni, Balzac e Dickens, furono all’epoca la prima forma di cultura popolare scritta di massa e per tutto l’Ottocento non entrarono nello studio scolastico. I loro romanzi costituivano il corrispettivo delle serie TV di oggi, e anch’ essi uscivano a puntate. Erano una produzione industriale e di massa; accanto ai Balzac e ai Dickens c’era una pletora di autori dimenticati dal tempo. Chi si ricorda di Eugène Sue? Vendeva più di Balzac. L’alfabetizzazione avvenne anche in quel modo, e non solo a scuola studiando i classici.

Il mito della cultura classica è stato già abbattuto varie volte, insomma. E varie volte è risorto, abbattendo il mito della morte della cultura classica. Risorse nel Rinascimento, risorse al tempo della Rivoluzione Francese e risorse ancora nel tardo Ottocento. In Italia lo studio dei classici greci e latini ricevette un ulteriore impulso dalla riforma Gentile del 1923 che ribadì l’assoluta preminenza delle materie umanistiche.

La riforma spagnola va nella direzione dell’abbattimento, ma non è il caso di innervosirsi troppo. In un’età sempre più tecnica, non è errato che ai ragazzi e alle ragazze si insegnino anche materie finanziare. Non so se questo andrà a scapito dello spirito critico o meno. Non è detto. Vi è anche una critica gratuita, astratta e inconcludente, pedante e malata di letteratura e filosofia, troppo spesso ancora troppo diffusa nelle popolazioni studentesche occidentali, non a caso soprattutto tra quelle che sono state ancora soggette all’insegnamento classico nelle scuole.

È un fenomeno che si osserva anche in psicologia. Il declino di una certa psicoanalisi antiscientifica che ultimamente si era sempre più compromessa con la filosofia ermeneutica e destrutturante francese è l’ultimo frutto -un po’ marcio- della cultura dei licei umanistici fondati nell’Ottocento. Quindi bene che muoia la cultura classica, abbattiamo questo mito. In attesa che risorga ancora consentendoci di abbattere il mito della morte della cultura classica.

La scuola del montaggio sovietico e la comunicazione di massa – Cinema & Psicologia

La scuola di montaggio sovietico” aveva come propria ideologia quella che il mezzo cinema dovesse in qualche modo assolvere il concetto di utilità ed infatti questo nuovo mezzo espressivo fu sfruttato moltissimo come arte di comunicazione di massa. I diversi esperimenti linguistici, abbastanza forzati anche dalla povertà dei mezzi a disposizione, erano quindi essenzialmente incentrati sul montaggio (si riutilizzavano spessissimo pellicole di altri film) e sulle molteplici espressioni comunicative che si potevano mettere in atto attraverso l’uso particolare di questo.

Il nostro sistema sensoriale riceve stimoli attraverso le interazioni che abbiamo con tutto ciò che ci circonda ed elabora informazioni e reazioni legate a queste ultime. Alla base di ogni processo di comunicazione ci sono quindi una serie di atti percettivi.

Nella percezione visiva, ad esempio, le informazioni sono acquisite non solo da ciò che vediamo, il messaggio infatti unisce diverse informazioni tra ciò che vede, l’ambiente materiale che ci circonda e le nostre conoscenze ed esperienze precedenti. Ciò che è percepito è diverso dall’oggetto esterno che rappresenta; ognuno di noi costruisce, quindi, significati diversi di una stessa cosa che sono ulteriormente soggettivi essendo influenzati dal momento in cui avviene lo stimolo, il grado di attenzione, i nostri bisogni e le nostre motivazioni.

Nonostante la soggettività del nostro essere, ci sono delle intuizioni, delle chiavi di lettura che forse, a livello arcaico rendono alcune esperienze, momenti o messaggi, comuni a tutti. Posto l’argomento, interessante è stato rispolverare un po’ la storia del cinema e volgere attenzione alla “scuola del montaggio sovietico”.

La scuola di montaggio sovietico” aveva come propria ideologia quella che il mezzo cinema dovesse in qualche modo assolvere il concetto di utilità ed infatti questo nuovo mezzo espressivo fu sfruttato moltissimo come arte di comunicazione di massa. I diversi esperimenti linguistici, abbastanza forzati anche dalla povertà dei mezzi a disposizione, erano quindi essenzialmente incentrati sul montaggio (si riutilizzavano spessissimo pellicole di altri film) e sulle molteplici espressioni comunicative che si potevano mettere in atto attraverso l’uso particolare di questo.

Tra i diversi a distinguersi in questa scuola, Kuleshov giocò sulla percezione dei significati con questo nuovo mezzo espressivo e su come le associazioni siano indotte per logica. In un suo esperimento dimostrò che la sensazione che un’inquadratura trasmette allo spettatore è influenzata in maniera determinante dalle inquadrature precedenti e successive. Cosa fece nello specifico? Da un vecchio film dell’epoca zarista, scelse un primo piano abbastanza inespressivo dell’attore principale, e montò subito dopo questa prima inquadratura, altre differenti scene alternate, ovvero nel primo montaggio, oltre al primo piano dell’attore, subito a seguire inserì il piano di un tavolo sul quale si trovava una scodella di zuppa, nel secondo caso, il piano di un cadavere disteso, nel terzo una donna nuda. Questi tre differenti montaggi furono proiettati al un pubblico che, interrogato su cosa trasmettesse per loro l’espressione dell’attore, alla prima proiezione risposero fame, alla seconda tristezza, alla terza, desiderio.

Kuleshov sfruttò quindi la capacità che attuiamo nello stabilire legami logici attraverso il montaggio regalando al cinema un nuovissimo canale comunicativo. “La scuola del montaggio sovietico” non si arresterà su questa scia e moltissimi altri linguaggi verranno sperimentati e diverranno alfabeto nella settima arte.

Il nostro cervello elabora gli stimoli visivi in modo attivo e il linguaggio filmico creato da questi pionieri sfrutta tale competenza. Attraverso messaggi subliminali, ripezioni di sequenze, piani associati e il montaggio, avviene una manipolazione di pensieri, sentimenti e convinzioni ideologiche. Il cinema pertanto porta con sé un’ enorme responsabilità, quella di essere ai tempi di allora come oggi una potente arma di comunicazione sociale che riproduce e documenta ma che, sfruttando queste nostre capacità influenza e plasma consciamente o inconsciamente intere popolazioni.

Carving Narcissism at its joint: il Perfezionismo da Autopresentazione

Sara Covili Faggioli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Mentre i tratti dimensionali del Perfezionismo riflettono un bisogno di essere perfetti, il Perfezionismo da Autopresentazione riflette il bisogno di “sembrare” perfetti davanti agli altri.

La ricerca tra perfezionismo e narcisismo, considerati singolarmente come costrutti, si è sviluppata soprattutto negli ultimi decenni; più limitati sono invece gli studi di ricerca che indagano la loro relazione. Pur originando da ambiti diversi, è indubbio che esistano aree di sovrapposizione fra i due costrutti.
“Perfezionismo” è un termine usato da molti e adoperato sempre più spesso; tuttavia il suo orizzonte di significato non è definito. Non è un termine tecnico dal punto di vista psicologico, ma deriva dal linguaggio della psicologia divulgativa (Ulrike Zollner, “Sindrome da perfezionismo”). Nè in psicologia clinica, né in psichiatria è possibile trovare questo termine per definire un gruppo di individui. In un articolo su Psychology Today, lo psichiatra David Burns definisce perfezionisti [blockquote style=”1″]coloro i cui standard di comportamento risultano irragionevoli e ben al di sopra delle loro possibilità[…] che si affannano incessantemente in modo ossessivo per conseguire degli obiettivi impossibili; individui portati a misurare i propri meriti esclusivamente in termini di produttività e di risultati raggiunti.[/blockquote]

Burns aggiunge che, in certi casi, il desiderio di perfezione può arrivare a compromettere la funzionalità di una persona. Sebbene il comportamento perfezionista sia stato descritto in termini positivi come fattore di adattamento e realizzazione (Hamachek, 1978), il perfezionismo ha assunto infatti una connotazione negativa includendo sensazioni caratterologiche di fallimento, colpa, indecisione, procrastinazione, vergogna e bassa autostima (Hamachek, 1978; Hollender, 1965; Pacht, 1984; Solomon & Rothblum, 1984; Sorotzkin, 1985), così come forme più serie di psicopatologia quali alcolismo, anoressia, depressione e disturbi di personalità (e.g., American Psychiatric Association, 1987; Burns & Beck, 1978; Pacht, 1984). Si ritiene che tali difficoltà di adattamento insorgano da tendenze perfezionistiche nel prefissarsi standard e obiettivi irrealistici e nello sforzarsi per raggiungerli, nell’attenzione selettiva e generalizzata sui propri errori, su un’autovalutazione rigorosa e nella tendenza a porsi in una modalità di pensiero “tutto-nulla” per cui gli esiti possono essere solo o totalmente fallimentari o totalmente vincenti (Burns, 1980; Hamachek, 1978; Hollander, 1965; Pacht, 1984). Si ritiene che queste caratteristiche possano originare, in parte, da ospedalizzazioni cognitive circa gli schemi del Sè-ideale (Hewitt & Genest, 1990).

Alla base del distinguo tra Perfezionismo e Perfezionismo da Autopresentazione vi è l’evidenza che soggetti perfezionisti differiscono tra loro in base alla loro necessità di apparire perfetti agli altri oppure di nascondere le proprie imperfezioni in pubblico (Hewitt & Flett, 1991). Questo fa pensare che alcuni perfezionisti siano focalizzati primariamente sull’impressione che di se stessi danno in pubblico, che deve essere assolutamente ineccepibile. Mentre i tratti dimensionali del Perfezionismo riflettono un bisogno di essere perfetti, il Perfezionismo da Autopresentazione riflette il bisogno di sembrare perfetti davanti agli altri.

Avendolo presentato come costrutto multidimensionale, gli autori Hewitt & Flett (1991) hanno proposto differenti facets del costrutto del perfezionismo da autopresentazione. Un fattore di differenziazione delle tre variabili è se il focus sia centrato maggiormente sulla “self-promotion”, volta a cercare di dimostrare la propria supposta perfezione agli altri, piuttosto che minimizzare il “pubblic display e/o disclosure” dei propri errori, debolezze o scarse prestazioni. Hewitt e Flett sostengono nel loro lavoro l’importanza della distinzione fra “promotion” e “concealment” come elemento centrale per la comprensione del perfezionismo da auto-presentazione. Quest’ultimo ha due componenti motivazionali generali che riguardano lo sforzo effettuato per mostrare la propria “perfezione” o lo sforzo effettuato per celare ogni propria possibile “imperfezione”.

La facet “Self- Promotion” implica il mostrare apertamente la propria supposta perfezione, sul piano morale e sociale. Risulta concettualmente simile allo stile descritto da E.E.Jones e Pittman (1982), che implica il tentativo di far impressione sugli altri facendo sfoggio delle proprie abilità e competenze al fine di guadagnare ammirazione e rispetto. Secondo Hewitt e Flett questo stile di “self- presentation” è indotto patologicamente e ostile sul piano interpersonale. La seconda facet, “Nondisplay of Imperfection”, implica uno stile di comportamento evitante e comunque limitativo: il desiderio di trattenersi dal manifestare alcuna imperfezione implica il tentativo di prevenire che gli altri scorgano alcun aspetto del proprio comportamento che non sia “del tutto perfetto”.

Individui con alti livelli dimensionali in questa facet tendono a rifuggire quelle situazioni in cui il proprio comportamento possa divenire oggetto di scrutinio, e le proprie imperfezioni ed errori rivelati. La terza facet, “Nondisclosure of Imperfection“, è anch’ essa rappresentata da uno stile evitante di comportamento e concerne l’evitare di svelare (verbalmente) qualsiasi aspetto di sé percepito come imperfetto. La nozione secondo la quale i perfezionisti difficilmente esprimono verbalmente le proprie preoccupazioni e ammettono i propri errori è in linea con la loro paura di essere respinti nelle loro relazioni interpersonali, fattore che alla base del loro stile comportamentale perfezionistico (Weisinger &Lobsenz, 1981), e con la loro titubanza nell’esprimersi nei contesti sociali (Flett, Hewitt, Endler, & De Rosa,1996). La tendenza ad evitare di esporre aspetti negativi del sè potrebbe essere in linea con l’indagine di ricerca secondo cui soggetti perfezionisti preoccupati dal giudizio sociale tendono ad essere ansiosi (Flett, Hewitt, Endler, & Tassone, 1994), oltre a descrivere se stessi come riluttanti nell’esporre i propri errori specialmente in circostanze critiche (Frost et al., 1995).

Il concetto di Narcisismo viene utilizzato sia per riferirsi ai normali sentimenti ed atteggiamenti che le persone hanno verso se stesse, come ad esempio la ricerca della propria salute e l’autostima positiva, la consapevolezza delle proprie possibilità dei propri limiti, la presenza di un’immagine positiva di sé e tutto ciò che è fondamentale per la sopravvivenza e l’adattamento, sia per indicare caratteristiche patologiche della personalità che possono svilupparsi nel momento in cui le caratteristiche proprie del “narcisismo normale” non si sviluppano in maniera armoniosa realistica ma distorta (Stone, 2001). Le componenti nucleari identificate per l’inclusione all’interno della diagnosi di disturbo narcisistico di personalità, secondo il DSM IV attualmente sono: senso grandioso di importanza, fantasie di limitato successo, potere, fascino, bellezza, convinzione di essere unici, richieste di eccessiva ammirazione, sensazione che tutto sia dovuto, sfruttamento interpersonale, mancanza di empatia, invidia nei confronti degli altri e comportamenti arroganti e presuntuosi (APA,1994).

La maggior parte della letteratura sul narcisismo ha associato questo costrutto con attitudini e comportamenti arroganti, egocentrici e prepotenti, tutte caratteristiche che si potrebbero inserire all’interno del concetto di grandiosità narcisistica (Pincus, Ansell, Pimentel, Cain, Wright & Levy, 2009). Solo nelle ultime due decadi sono state svolte ricerche empiriche sul disturbo narcisistico di personalità, molte delle quali sono state stimolate dal DSM III e dalle successive edizioni. Queste ricerche hanno rivelato che le descrizioni del DSM mal si adattano ad un utilizzo di tipo clinico e che vi sono notevoli differenze tra le caratteristiche che i clinici rilevano in soggetti affetti dalla sindrome in questione ed i criteri del DSM. Le descrizioni cliniche di persone con patologia narcisistica infatti manifestano un consistente accordo nel rilevare la presenza di un certo numero di caratteristiche chiave: una ridotta capacità di sviluppare legami emotivi con altre persone, di trarre piacere dalle proprie attività e di sperimentare il lutto e la tristezza nonché la presenza di sentimenti interiori di indifferenza e noia (Cooper, 2001).

Se dunque il DSM III e le sue versioni successive hanno enfatizzato la presentazione del disturbo narcisistico di personalità nella sua forma aggressiva, manifesta ed estrovertita (“Narcisismo Overt”), nel corso degli ultimi anni un congruo numero di ricercatori ha sottolineato la presenza di una forma alternativa in cui la patologia narcisistica può manifestarsi con sentimenti o stati del sè cronici che implicano l’esperienza cosciente di mancanza di aiuto, svuotamento, mancanza di autostima e vergogna (Narcisismo Covert). Il Narcisismo Covert è un’etichetta che raggruppa soggetti che appaiono ipersensibili, ansiosi insicuri ma anche caratterizzati da fantasie grandiose nascoste (Kohut,1971). E’ interessante sottolineare come la tendenza alla manipolazione e il sentirsi in diritto sembrino rappresentare un nucleo psicopatologico che accomuna sia il sottotipo Overt che quello Covert della patologia narcisistica (Fossati e Borroni, 2008).

Con l’intento di indagare la natura dell’associazione tra Narcisismo e Perfezionismo da Autopresentazione, è stato condotto di recente uno studio su una popolazione non clinica di adolescenti liceali (446 studenti di 7 diversi licei lombardi), valutandone le caratteristiche legate ai tratti di personalità e agli stili di attaccamento. Ad ogni soggetto è stata somministrata singolarmente una batteria testale composta da dati personali (età, sesso, tipologia di scuola frequentata) e quattro test autosomministrati: Perfectionistic Self Presentation Scale (PSPS), Hewitt et al., 2003; Pathological Narcissism Inventory (PNI-52), Pincus, Ansell, Pimentel, Cain, Wright e Levy, 2009); HEXACO Personality Inventory Revised (HEXACI-PI-R, Lee & Ashtone, 2004); 4) Attachment Style Questionnaire (ASQ), Feeney, Noller e Hanrahan, 1994).

Le analisi dei risultati presi in considerazione confermano l’ipotesi iniziale secondo la quale il perfezionismo da autopresentazione e il narcisismo patologico siano due costrutti fortemente correlati pur restando indipendenti e non sovrapponibili. Per indagare più approfonditamente la natura di questa correlazione si è proceduto quindi ad effettuare delle analisi di regressione tra i due costrutti prendendo in considerazione lo stile di attaccamento misurato con ASQ ed i tratti di personalità misurati con HEXACO. Considerando questi ultimi è emerso chiaramente come Narcisismo Patologico e Perfezionismo da Autopresentazione presentino un profilo personologico piuttosto similare, caratterizzato da: bassa Onestà/Umiltà, bassa Gradevolezza, alta Apertura ed alta Emozionalità.

Le analisi di regressione più determinanti nel comprendere la natura dell’associazione tra i due costrutti nonché l’origine della patologia mistica sono state quelle in cui si è esaminata l’influenza dell’Attaccamento. Nonostante infatti le conseguenze dello sviluppo di un tipo di personalità narcisistico siano state documentate ampiamente e in maniera sempre crescente negli ultimi anni, poca attenzione è stata invece rivolta all’esaminare gli aspetti latenti del costrutto, nonché in che modo esso origini. Se ad una prima analisi di regressione la Secondarietà delle Relazioni, basata sul concetto di Bartholomew di attaccamento “dismissing” sembrava costituire il nucleo comune i due costrutti, nelle regressioni finali è emerso invece come la Secondarietà delle Relazioni caratterizzi unicamente il Perfezionismo da Autopresentazione.

Com’era lecito aspettarsi, quest’ultimo è inoltre caratterizzato da Bisogno d’Approvazione, che riflette il concetto di Bartholomew di attaccamento preoccupato/timoroso. La scala Preoccupazione per le Relazioni, elemento cardine del concetto di Hazan & Shaver (1987) di attaccamento ansioso/ambivalente, appare invece l’elemento nucleare del Narcisismo Patologico. In questo modo è possibile ricondurre i due costrutti a due categorie di attaccamento differenti: se il Perfezionismo sembra inserirsi più in un quadro di attaccamento Evitante, il Narcisismo Patologico è caratterizzato nuclearmente dall’ansia, e quindi da uno stile di attaccamento Ansioso.

L’Egocentrico Parte Seconda – Tracce del Tradimento Nr. 27

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXVII: L’Egocentrico Parte Seconda

 

Il guaio degli egocentrici è l’incapacità di uscire da se stessi: il loro egocentrismo olimpico li rende odiosi perché vengono scambiati per feroci egoisti. Ma non è così.

Sono solo incapaci di immaginare pensieri ed emozioni proprie e altrui. Questa incapacità di assumere una prospettiva esterna si rivela un danno soprattutto per loro. Anche nell’ambito del tema che stiamo trattando la loro goffaggine finisce per condurli alla perdita di uno dei due partner: prima o poi, infatti, il coniuge o l’amante si stufano e dunque essi non hanno più ciò che avrebbero potuto mantenere se solo avessero usato un po’ di attenzione; il risultato che ottengono non è in linea con i loro scopi.

 

Del resto è fuori dubbio che per perseguire i propri scopi in un ambiente sociale sia assolutamente decisiva la capacità di prevedere il comportamento altrui e per fare ciò è necessario avere una teoria sul funzionamento della mente e una rappresentazione degli scopi che guidano le persone che ci interessano e delle credenze che hanno. Se conosciamo i desideri del nostro partner, le cose a cui tiene, cosa non sopporta e lo irrita, cosa pensa di sé, di noi e del mondo, siamo in grado di agire in modo da farlo felice, se è questo che vogliamo ottenere, o di farlo arrabbiare colpendo duro dove sappiamo che più fa male e sappiamo anche come ottenere le cose che desideriamo da lui. Tanto più è sofisticata la costruzione che abbiamo della mente di un’altra persona e tanto più siamo in grado di prevederne e influenzarne il comportamento. L’egocentrico non riesce in questo compito e va dritto per la sua strada alla ricerca della soddisfazione dei propri bisogni; agisce come se gli altri non esistessero e, proprio per questo, è molto probabile che fallisca e non raggiunga i suoi scopi.

È come deprivato del feed-back relazionale sul proprio comportamento. Non si accorge dei mutamenti del suo modo di fare da quando frequenta l’amante che invece sono segnali evidentissimi per il coniuge; pensa che se una cosa è dentro di lui e non la esterna apertamente sia invisibile agli altri. Così non pensa che il moltiplicarsi delle uscite immotivate, il sorgere di nuovi interessi, la ricerca di spazi propri da cui sia escluso il coniuge, l’umore mutevole, l’irritabilità per i weekend trascorsi in famiglia possano essere letti coerentemente dal coniuge come tante tessere di un unico mosaico, come tanti indizi che finiscono per costituire una prova certa del tradimento.

Per ognuno degli indizi ha una sua spiegazione ingenua che irrita e spesso delude dolorosamente il coniuge che si sente trattato male e talvolta è più ferito dalla mancanza di attenzione per la sua sofferenza che non per il tradimento.

Una signora sposata con un egocentrico assoluto lamentava con rabbia il continuo, sfacciato lasciar tracce del marito proprio come segno di disattenzione nei suoi confronti o di scarsa stima nella sua intelligenza e sosteneva la necessità di attenersi ad un preciso codice etico anche nel tradimento. I primi due articoli di tale codice prevedono di fare sempre di tutto perché nessuno si accorga mai di niente e non confessare mai per liberarsi la coscienza: in effetti lei aveva tradito per anni il marito e lo faceva tuttora in modo impeccabile.

Così come non si accorge dei segnali che manda e delle tracce che lascia, l’egocentrico non si avvede neppure dei segnali che gli manda l’altro. È cieco di fronte all’insofferenza, alla preoccupazione, al dolore e all’irritazione del coniuge, non se ne accorge e dunque non ne tiene conto e prosegue per la propria strada, senza poter recuperare. Il canale della comunicazione con l’altro è ostruito sia in un senso che nell’altro. Per questo queste persone vengono lasciate in malo modo e ciò li colpisce molto soprattutto perché ai loro occhi l’evento giunge del tutto inaspettato. Si meravigliano enormemente perché non c’erano segnali di malcontento da parte dell’altro, non c’erano avvisaglie di crisi: come è potuto succedere all’improvviso tutto questo?

A queste affermazioni l’altro si sente ancora più offeso perché si rende conto di essere stato trasparente, avverte che tutti i suoi sforzi per mandare segnali di disagio, per chiedere al partner di badare al suo stato d’animo sono stati inutili, sono andati perduti. L’offesa si trasforma in ostilità aperta se l’egocentrico ad un certo punto lo rimprovera, con tutta l’ingenuità di cui è capace, di non aver detto nulla, di non aver espresso il suo disagio. Essere egocentrici è una caratteristica individuale e dunque lo si è in tutti i rapporti e non soltanto in uno, non lo fanno apposta e pertanto non possono non farlo. Anche con l’amante sono insensibili e lo feriscono senza neppure accorgersene. Per l’egocentrico l’altro è un oggetto da utilizzare per i propri scopi, in modo incosciente e dunque senza colpa, per parlare di colpa occorre parlare di responsabilità e il deficit dell’egocentrico lo rende irresponsabile. Il problema per lui sta nel fatto che l’altro non è affatto un oggetto e non tenendo conto di questo piccolo particolare non riesce ad ottenere ciò che desidera da lui.

Giovanni non riusciva a darsi ragione dell’ostilità della moglie che evidentemente era una cosa seria se aveva iniziato a parlare di separazione. Lui non si dedicava ad altro che al lavoro e alla famiglia, ed anche lo stesso lavoro in fondo era finalizzato al benessere della famiglia. Tutto il tempo libero dal lavoro, dalla palestra e dagli amici del club della sua squadra del cuore lo trascorreva con le figlie che a volte aveva persino portato allo stadio con lui. In estate faceva sempre scegliere a lei dove andare in vacanza e quando lei presentava i conti del mese lui, magari con un po’ di ritardo, metteva sempre la metà che gli spettava anche quando non condivideva del tutto le spese. Della sua storia con Silvia, la moglie non aveva mai avuto prove certe e se all’inizio, ormai dodici anni fa, si era accorta di qualcosa ormai non diceva più niente anche perché la situazione era assolutamente stabilizzata, non c’erano scossoni o sorprese e anche il sesso non sembrava mancarle da quando si dedicava soprattutto al suo ruolo di madre. L’unica cosa che gli sembrava plausibile e che lei avesse conosciuto qualcuno e si fosse messa dei grilli in testa al punto di rovinare un matrimonio solido e perfetto come il loro.

L’egocentrismo patologico non è necessariamente associato al sesso maschile ma certamente essere maschi è un fattore di rischio non indifferente. Le donne, forse per la predisposizione sociale al tenere unita la famiglia e al loro ruolo di madri in cui è indispensabile mettersi nei panni dell’altro per coglierne i bisogni, raramente raggiungono le vette degli uomini. Sulla base di una predisposizione innata, la tendenza a divenire degli egocentrici è facilitata da un infanzia in cui si è circondati da adulti estasiati pronti a soddisfare tutti i bisogni prima ancora che vengano espressi, evitando la seppur minima frustrazione e che mai chiedono al piccolo di tener conto dei bisogni degli altri: tutto ciò mantiene queste persone in uno stato di egocentrismo assoluto in cui gli altri non esistono se non per soddisfare i propri bisogni compito per il quale dovrebbero eternamente gioire. In seguito una formazione tecnico-scientifica perfeziona il quadro che spesso si ritrova allo stato puro in ingegneri figli unici con genitori anziani di classe medio-alta.

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

cancel