expand_lessAPRI WIDGET

Nuove prospettive sulle cause della depressione maggiore e il suo trattamento

Irene Rossi

 

Una recente pubblicazione fatta dai ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme, porta a sostenere che la depressione maggiore sia causata da anomalie nelle cellule immunitarie del cervello (microglia), con significative conseguenze sui possibili trattamenti e lo sviluppo di una nuova generazione di psicofarmaci.

La depressione maggiore, che affligge una persona su sei almeno una volta nell’arco della vita, è la principale causa di disabilità al mondo, superando malattie cardiovascolari e respiratorie, cancro e HIV / AIDS combinati.

In un rivoluzionario articolo di revisione teorica, pubblicato sulla rivista Trends in Neurosciences, i ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme suggeriscono che il progresso nella comprensione della biologia della depressione è stata lenta e che richiede un’estensione aldilà delle anomalie nel funzionamento dei neuroni. Il contributo di altre cellule cerebrali, spesso trascurate dai ricercatori, può essere più rilevante nel causare la depressione.

Tuttavia questo non significa che tutti i sottotipi di depressione o altre malattie psichiatriche siano originati da anomalie in queste cellule, ma tali ipotesi, supportate anche da altre ricerche precedenti, non possono essere ignorate. La nuova ricerca, svolta dal gruppo del Prof. Yirmiya, potrebbe avere un profondo impatto sul futuro sviluppo di farmaci anti-depressivi. I farmaci attuali non hanno sempre l’effetto desiderato sui pazienti, per cui vi è un urgente bisogno di scoprire i meccanismi biologici e nuovi obiettivi farmacologici per diagnosticare la causa principale della depressione e per il trattamento appropriato di pazienti depressi.

Le cellule della microglia, che comprendono il 10% di tutte quelle del cervello, sono le cellule immunitarie del cervello. Combattono batteri infettivi e virus nel cervello. Esse prevedono inoltre la riparazione e la guarigione di danni causati da lesioni cerebrali e traumi.
Ora sappiamo che queste cellule svolgono un ruolo nella formazione e messa a punto delle connessioni tra neuroni (sinapsi) durante lo sviluppo del cervello, così come nei cambiamenti di questi collegamenti per tutta la vita. Questi ruoli sono importanti per il normale cervello e funzioni comportamentali, tra cui il dolore, l’umore e le capacità cognitive.

Gli studi sull’uomo, utilizzando lo studio dei tessuti post mortem o tecniche speciali di imaging, hanno dimostrato che quando la struttura o il funzionamento della microglia cambiano, queste cellule non possono più regolare i normali processi cerebrali e il comportamento e questo può portare alla depressione.
In effetti, i cambiamenti nella microglia si verificano durante molte condizioni associate con alta incidenza di depressione, tra cui infezioni, lesioni, traumi, invecchiamento, malattie autoimmuni come la sclerosi multipla e malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. In queste condizioni, la microglia assume uno stato in cui diventa grande e rotonda, e secerne composti che generano una risposta infiammatoria nel cervello.

La forma e il funzionamento della microglia possono essere modificati anche dopo esposizione a stress psicologico cronico imprevedibile, che è una delle principali cause di depressione nell’uomo. È importante sottolineare che una ricerca nel laboratorio del Prof. Yirmiya recentemente ha anche scoperto che in seguito all’esposizione a tale stress, della microglia muore e le cellule rimanenti appaiono piccole e degenerate.
Questi risultati hanno implicazioni sia teoriche che cliniche. Secondo questa nuova prospettiva, sia l’attivazione che il declino della microglia può portare alla depressione. Pertanto, la stessa classe di farmaci non può trattare la malattia uniformemente.
Un approccio medico personalizzato dovrebbe essere adottato: sulla base di una valutazione iniziale, dovrà essere impiegato un trattamento con farmaci che inibiscono la microglia iperattiva o stimolano la microglia soppressa.

Metacognitive beliefs and Desire Thinking as Predictors of Craving and Alcohol Use – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Metacognitive beliefs and Desire Thinking as Predictors of Craving and Alcohol Use

Ceci G.,Felicetti F., Martino F., Rampioni M., Romanelli P., Troiani L., Caselli G.
Studi Cognitivi, Sede di San Benedetto del Tronto IV anno; London South Bank University
Relatore: Felicetti Federica

Scopo della ricerca è quello di verificare se le credenze metacognitive e il pensiero desiderante sono predittori di craving e uso di alcool nella popolazione clinica e in quella non clinica.

Il Modello Metacognitivo Trifasico per i disturbi alcool correlati (Spada, Caselli & Wells 2012) è stato sviluppato al fine di migliorare la comprensione del funzionamento di tale popolazione clinica e di promuovere trattamenti specifici per questa problematica e descrive da una prospettiva psicologica i tre stati dinamici che caratterizzano il consumo problematico di alcol: anticipazione/desiderio (craving), consumo/intossicazione, astinenza, stati che sono ben conosciuti e descritti anche a livello neurobiologico (Koob & Volkow, 2010), ma che non sono mai stati esplorati in termini cognitivi. Il modello è bastato sulla presenza di tre componenti metacognitive chiave: il pensiero desiderante, processi cognitivi disfunzionali (rimuginio e ruminazione), credenze metacognitive.

In linea con il modello trifasico, lo scopo della nostra ricerca è quello di verificare se le credenze metacognitive e il pensiero desiderante sono predittori di craving e uso di alcool nella popolazione clinica e in quella non clinica. Lo studio è una ricerca osservazionale longitudinale condotta su popolazione clinica con problematiche legate all’uso di alcool e popolazione non clinica.

Il campione è costituito da 50 soggetti con Problematiche legate all’uso di alcol (popolazione clinica) e 150 soggetti senza Problematiche legate all’uso di alcol (popolazione non clinica). L’arruolamento è avvenuto in strutture cliniche (Comunità/ Sert) per il gruppo con Problematiche da uso di alcol e in altri centri per il gruppo di confronto (università/scuole di specializzazione/altro). I soggetti segnalati verranno valutati attraverso una batteria di test costituita da:

  • scheda raccolta dati;
  • Quantity-frequency Scale (QFS);
  • The alcohol use disorders identification test (AUDIT);
  • Penn Alcohol Craving Scale (PACS);
  • Desire Thinking Questionnaire (DTQ);
  • Metacognition about Desire Thinking Questionnaire (MDTQ);
  • Positive Alcohol Metacognitions Scale (PAMS);
  • Negative Alcohol Metacognitions Scale (NAMS);
  • Alcol Metacognitive Monitoring Scale (AMMS);
  • Frustration Discomfort Scale-Revised (FDS-R);
  • Start Signal Questionnaire (SSQ);
  • Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS).

Le valutazioni successive vengono effettuate a 3, 6 e 12 mesi dal T0 e prevedono la somministrazione delle seguenti scale:

  • Quantity-frequency Scale (QFS);
  • The alcohol use disorders identification test (AUDIT);
  • Penn Alcohol Craving Scale (PACS);
  • Desire Thinking Questionnaire (DTQ).

Al fine di verificare le ipotesi, verranno condotte una serie di regressioni multiple volte ad indagare se le credenze metacognitive e il pensiero desiderante sono predittori di craving e abuso di alcol nelle fasi successive. La sintomatologia ansioso-depressiva e la scarsa tolleranza della frustrazione verranno considerate come covariate di tale relazione.

 

Il catalogo dei cercatori Parte II – Tracce del Tradimento Nr. 30

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXX: Il catalogo dei cercatori Parte II

 

La ricerca delle tracce del tradimento può assumere il colore mentale dell’ossessione. Se si è nell’incertezza si dubita di se stessi, della propria dignità e amabilità, e dell’altro e della sua fedeltà, e si cerca di aumentare il controllo sui fatti per ridurre l’incertezza e sentirsi maggiormente competenti, forti, fiduciosi nei propri mezzi, competenti nel controllo della propria esistenza. Il rimuginio accompagna il cercatore di tracce ed è il suo compagno mentale.

Possiamo definire il rimuginio come una attività mentale verbale astratta con contenuti catastrofici riguardanti il futuro. Il rimuginio nasce come tentativo di prevedere il futuro in modo più preciso e minuzioso, per ridurre l’incertezza che si presume catastrofica, per tenere sotto controllo le proprie emozioni negative. È presente negli ansiosi e nei disturbi dell’alimentazione e nelle ossessioni. Quando si rimugina ci si allontana dal mondo reale e si va nel mondo mentale e astratto delle proprie più catastrofiche paure, si va a vivere in un altro posto minaccioso e doloroso e più si sta nel mondo della paura più la paura che si voleva scacciare, aumenta.

Tutto questo diventa più grave quando ci si trova in situazioni di reale stress esistenziale, come ad esempio il timore dell’abbandono da parte del proprio compagno di vita. Il problema di questo fenomeno è che essendo mentale e astratto porta con sé una tendenza al distacco dalla realtà, dal sano pragmatismo che ci fa sdrammatizzare le cose e ci consente di affrontarle. Ci si allontana in un mondo mentale pieno di contenuti catastrofici e in modo ripetitivo si orienta la propria attenzione agli aspetti negativi del futuro, con l’illusione di prepararsi all’azione ma in realtà adottando una preparazione all’azione dannosa e disfunzionale per gli scopi che ci si prefigge. L’atto del cercare che spesso si rivela non portare a nulla di preciso, ma a volte, pur portando a qualcosa di determinato, non annulla il problema del cercatore che più che essere preoccupato del rapporto deve risolvere il dubbio sulla propria non amabilità.

Lo stato mentale del cercatore parte dalla gelosia (e quindi dalla scarsa autostima e dalla scarsa amabilità) ed è volto alla risoluzione dell’incertezza, è accompagnato da rimuginio, angoscia, rabbia e curiosità. Ma questo insieme di emozioni, scopi e comportamenti non prevede strategie organizzate una volta che il dubbio sia sciolto in un senso o nell’altro. Vi è un grande e vasto gap tra l’accuratezza di chi cerca, la capacità di setacciare con assoluta minuziosità la casa e i beni dell’amato e la scasa efficacia della strategia quando per caso un tradimento appaia certo. La conferma ci trova impreparati, nei casi buoni vi saranno rimproveri, rabbia, pianti e accuse, nei casi severi la distruzione di se stessi e di un rapporto che si poteva salvare.
Occorrerà un grande sforzo e concentrazione per affrontare in modo lucido e strategico la nuova fase della conoscenza, facendo sì che non ci si lasci travolgere da sentimenti ed emozioni forti e confusi, ma mettendoli al servizio di una strategia esistenziale che porti alla serenità nel medio o nel lungo tempo.

Stefanella aveva trovato nel cellulare le tracce inequivocabili di un tradimento del marito con una persona che lei da diversi anni sospettava essere nel cuore di lui. La crisi, condotta con rabbia e determinazione, accuse, pianti, botte e ricatti, non consentì nessun tipo di giustificazioni e dialogo al marito. Era in colpa e doveva pagare. La coppia si ruppe con un enorme frastuono per le famiglie, gli amici e i colleghi di lavoro. A tutti lei chiese di schierarsi e se non accettavano li cacciava dalla sua vita per sempre.
La sua esistenza cominciò a svolgersi tra le stanze del suo avvocato, le poche amiche rimaste e la parrocchia. Non riusciva a parlare di nulla che non fosse il torto subito, non riusciva a passare in alcun modo dalla rabbia a sentimenti di mancanza, di perdita o di rassegnazione. La sua vita divenne imbalsamata intorno ai giorni della scoperta. Tutto si fermò. Questa posizione ripetitiva e dolorosa tenuta per più di quindici anni consumò la sua vita e non le consentì in alcun modo di costruirsi alternative, nuovi progetti, nuove speranze e rapporti. La rabbia per il torto subito dal tradimento non le consentì in alcun modo di elaborare l’evento doloroso e andare avanti nella costruzione di un progetto alternativo.

Ma come potremmo suddividere i diversi tipi di cacciatore di tracce? Perché si possono trovare delle differenze e delle categorie che corrispondono ovviamente a diversi assetti interni cognitivi ed emotivi. Risponderemo con i prossimi articoli.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Dopo l’expo? Inizia l’hangover da sbornia emotiva

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  01/11/2015

 

L’Expo è stata una sbornia emotiva, oltre che economica. E una sbornia relazionale…Ci voleva tale sbornia dopo anni di depressione e tedio di noi stessi. Ora però ci tocca gestire l’hangover.

L’Expo ci ha fatto bene, ha dato energia ed euforia. Non si tratta solo di dati economici. Bisognosi come siamo d’incoraggiamento e di approvazione, sentirci con l’Expo ammirati e stimati ci ha fatto bene. Ci voleva una sbornia dopo anni di depressione e tedio di noi stessi. Ora dobbiamo gestire l’hangover, gli effetti fisiologici spiacevoli dopo una nottata di dissipazione passata a consumare bevande alcoliche. Mal di testa, nausea, letargia, irritabilità e intollerabilità di ogni minimo fastidio, fosse anche un po’ di luce e rumore, e poi tanta sete.

Non si è mai capito bene da cosa dipende l’hangover. Fisiologicamente, si parla di disidratazione, ipoglicemia, intossicazione da acetaldeide e infine carenza di vitamina B12. Tutti fattori plausibili, anche se insufficienti a spiegare tutto. Almeno così scrive la studiosa Gemma Prat, un’esperta di sbornie che vorrei avere per amica.

L’Expo è stata una sbornia emotiva, oltre che economica. E una sbornia relazionale, se mi passate il termine tecnico. Ovvero un momento in cui ci siamo sentiti al centro del mondo, non affetti dal nostro eterno dubbio di essere un paese anomalo, un paese particolare.

Se dovessi dire quali sono i rischi dell’hangover post-Expo, il principale è quello legato al mancare di questa tribuna psicologica che è stato l’Expo e della quale abbiamo fin troppo bisogno, un luogo che ci rassicuri di non essere anomali, di essere un paese normale.

Tutto questo non ci fa bene. Almanaccare continuamente sull’essere o meno un paese normale, chiedersi continuamente se si è veramente nella norma, rammaricarsi di non essere accettati nel club dei normali a ogni piè sospinto per le occasionali o anche frequenti prese in giro degli altri non ci fa bene. Secondo una nota ipotesi psicologica, non è utile tornare con la mente sui propri supposti difetti, sulle proprie supposte anomalie. È illusoria e ingannevole la sensazione che star lì a concentrare l’attenzione sui propri difetti sia d’aiuto. In realtà è un atteggiamento sterile, perfino dannoso, che perpetua e aggrava i problemi. Somiglia al pensiero propositivo e produttivo, ma non dobbiamo cascarci.

Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo e banalmente giudicante, singolarmente privo di vere informazioni e indicazioni per il futuro. Eppure in esso ci crogioliamo in un eterno hangover auto-flaggellatorio, illudendoci che si tratti di una benefica autoanalisi redentrice e finalmente decisiva, capace di darci quella normalità a cui aneliamo disperatamente.

Ben strana normalità, del resto, che consisterebbe in un essere al centro della stima altrui e nel contempo nell’aderire a un misterioso parametro di civiltà, vagamente corrispondente a quello di una generica sfera di cultura nordica, variamente declinata in base a i gusti personali, ora inclinanti verso il Nordamerica e ora verso il Nordeuropa.

Sarebbe interessante fare una storia sociale di questo secolare rimuginio italiano sull’essere anomali, quasi che la storia si riduca a una dicotomia tra uno sviluppo normale, quello altrui, e uno anormale, il nostro. Al contrario di quel che si crede, quest’attitudine malmostosa e perennemente scontenta nacque in ambienti tendenzialmente di destra. Non di destra liberale o liberal-conservatrice, non nella destra storica di Cavour, Minghetti e Ricasoli che fece l‘Italia e che anzi aveva un atteggiamento poco propenso alla lagna e all’analisi inutilmente ripetitiva e dettagliata di un supposto carattere nazionale più o meno tarato. L’ossessione nacque semmai in ambienti nazionalistici che rinnegavano l’Italietta liberale a loro parere non all’altezza del suo alto destino. Solo recentemente questa attitudine si è spostata a sinistra, quasi a riempire un vuoto ideologico creatosi dopo il crollo del muro. Questo però è un altro articolo, torniamo al nostro hangover post-Expo.

In poche parole, dell’Expo possiamo prendere quel che c’è di buono e che in fondo si riduce a quel che si è fatto, sia per la coscienza alimentare del pianeta che per l’economica di questo paese e di Milano. Il resto sono chiacchiere, rimuginii, parole e vuoti rammarichi senza un perché, anche se apparentemente lo hanno. Un hangover è un hangover, uno stato d’animo passeggero sul quale non si deve costruire una narrazione di se stessi e della nostra nazione. Racconti simili, se proprio necessari, abbisognano di appuntamenti meno effimeri.

Gone Girl – L’amore bugiardo e la gelosia: una matrioska di sentimenti patologici – Cinema & Psicologia

Caterina Poli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Le persone che vivono un amore patologico, arrivano ad appellarsi a comportamenti aggressivi, eccessivi, vendicativi, distruttivi ed estremi per riportare l’attenzione della persona amata su di sè. Ma si può definire amore?

Non sono gelosa. Chiedilo alla tua amica. La sua testa è in frigo.”
Questa freddura, che gira nei social network, è stata scritta da un anonimo che, in chiave divertente, voleva sdrammatizzare una dinamica tutt’altro che allegra: la gelosia patologica, “mostro dagli occhi verdi” shakespeariano.
Di primo acchito provoca un sorriso, soprattutto nelle donne che si immedesimano in un sentimento così intenso ma di difficile espressione, per la forte componente di imbarazzo e vergogna che suscita l’ammettere di sentirsi in uno stato di inferiorità, in un vortice di insicurezze che mantiene vigili davanti a ogni rischio o pericolo di perdita dell’amato.

In un secondo momento innesca, invece, un processo di riflessione: cosa scatta nelle persone quando vedono a rischio il rapporto con il partner?
La conflittualità con i rivali, visti come possibili avversari e pericolose alternative, seppur spesso sia solo frutto di un’immaginazione spiccata del geloso stesso e non in linea con il piano di realtà, porta a sintomatici vissuti, frutto di discussioni accese tra i partner. L’irrazionalità dell’amore sta nell’incapacità di autocontrollarsi davanti a pensieri pervasivi che devastano mentalmente l’individuo.

Per spiegare la gelosia patologica bisogna prima fare un passo indietro e definire la gelosia, in modo tale da tracciare un confine tra ciò che si reputa normale e ciò che sfocia nell’anormalità. Ma prima ancora bisogna fare una digressione sull’amore patologico, da cui sfuma la gelosia. Una matrioska di sentimenti ambivalenti, tra il lecito e l’illecito, il morale e l’amorale.

Le persone che vivono un amore patologico, arrivano ad appellarsi a comportamenti aggressivi, eccessivi, vendicativi, distruttivi ed estremi per riportare l’attenzione della persona amata su di sè. Ma si può definire amore? Spesso si assiste a casi di coppie in cui il partner prende in ostaggio i sentimenti dell’altro, con ricatti, bugie e presunzione, ma come può ritenersi un rapporto destinato a durare nel tempo? Un recinto dalle mura invalicabili dove giochi di brutto tiro intrappolano in rapporti senza fine e senza amore. Si sta insieme più per apparire socialmente invidiabili, culturalmente affascinanti all’apparenza, ma chiusa la porta di casa nessuno vorrebbe fare i conti con una realtà sempre più all’ordine del giorno, quelle coppie che si dichiarano amore incapaci poi di costruire giorno per giorno ciò di cui realmente una coppia necessita.

Su queste premesse, il regista David Fincher, ha creato ad hoc le fondamenta del suo capolavoro cinematografico : “Amore Bugiardo-Gone Girl”, interpretato da Ben Affleck nelle vesti di Nick e Rosamund Pike nelle vesti di Amy, una coppia legata da un matrimonio problematico a tal punto che allo scoccare del quinto anniversario Amy scompare.

SPOILER ALERT: L”ARTICOLO SVELA LA TRAMA DEL FILM

Nick inizialmente viene indagato come presunto omicida visti gli indizi disseminati per la casa e la sua relazione extraconiugale con una sua studentessa, che giustificherebbe il suo bisogno di sbarazzarsi della moglie, risultata incinta. La cruda verità dei fatti però è che l’accaduto è un diabolico e vendicativo piano di Amy che, vedendo il marito freddo, distratto e soprattutto infedele, ha messo in scena tutto, dal campione falso di urine per simulare una gravidanza fino ad arrivare a un diario segreto, lasciato in bella vista, dove esterna malessere e paura di una relazione ormai vicina alla tragica e inevitabile fine.

Dopo aver camuffato il suo aspetto, Amy fugge e si rifugia dapprima in un residence poi da Desi Collings, un suo amante del passato, facendogli credere di esser pedinata. Durante un’ennesima intervista tv a Nick, richiesta da quest’ultimo per cercare di convincere disperatamente l’opinione pubblica della sua innocenza, Amy ne rimane colpita e si riscopre attratta dal marito e pronta a tornare da lui. Così, per giustificare il suo rapimento, simula una sorta di prigionia da parte di Desi, uccidendolo senza scrupoli con un taglio alla gola e numerose coltellate in camera da letto, non prima di aver creato ad arte i segni delle sofferenze di altri presunti atti violenti. Amy torna a casa a un mese dalla sua scomparsa e racconta agli agenti dell’FBI la sua falsa storia, ma la sua bugia non regge con Nick, il quale, recita davanti a tutti la parte del marito che ritrova la sua amata, ma, in separata sede, smaschera Amy, che, spalle al muro, non mancherà di farlo sentire sotto ricatto e obbligarlo dunque a nascondere il tutto. Nick non trovando il coraggio di abbandonarla finge che la situazione sia tornata alla normalità, e davanti a tutti dichiarano amore reciproco annunciando che aspettano un figlio, stavolta per davvero, concepito da Amy con lo sperma di Nick conservato in una clinica.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER

Questa trama altamente complicata e piena di intrecci, parte da una situazione di vendetta di un’infedeltà che sembrerebbe una delle più tipiche reazioni alla scoperta di un tradimento, per di più prolungato nel tempo, del proprio partner, ma in realtà sfocia in una delirante reazione di follia della moglie. Il folle progetto architettato da Amy rasenta la patologia. Ogni sua azione è irreale, dall’omicidio di Desi, uomo capitato per caso nella sua strada e colpevole di amarla troppo, fino a tutti gli stratagemmi pungenti con cui tenta di intrappolare il marito. Paradossalmente accade un fenomeno spesso presente nelle coppie, dalla noiosa quotidianità priva di sentimenti, si passa attraverso tranelli e bugie, filo conduttore del film, a una situazione in cui si vede riacceso l’amore di Amy, pronta a perdonare il marito del tradimento. Un fuoco che spento, forse mai esistito, attraverso varie peripezie, riappare magicamente. Ma quando, neppure i tranelli e i sotterfugi riescono a calmare le acque di una tempesta emotiva relazionale, di cui l’amore patologico ci ha dato un chiaro esempio, ci troviamo davanti al sentimento della gelosia patologica.

Un ciclo interpersonale disfunzionale che provoca un’instabilità relazionale e una vulnerabilità verso lo scompenso. Il più delle volte, la gelosia affonda le sue radici nell’infanzia, in una cattiva relazione che il geloso ha instaurato con i propri genitori, i quali, non rinforzando in modo appropriato il bambino nel costruirsi una buona fiducia in se stesso e una buona autostima, fanno sì che evolva una personalità inconsapevole del suo valore e profondamente insicura. Ogni soggetto, tende a riprodurre nella sua vita affettiva adulta il tipo di relazione che ha avuto con la figura materna. Secondo la teoria dell’attaccamento, nella nostra vita tendiamo a recitare sempre lo stesso script, copione, quindi, se la mia sceneggiatura è “essere geloso dell’amato”, anche se il mio partner è la persona più fedele del mondo, finirò comunque per sospettarlo. Doucherty ed Ellis, a tal proposito, hanno riportato alcuni casi interessanti di mariti gelosi che accusavano le mogli di vizi inesistenti che però ben si confacevano alle loro madri.

Ma cos’è esattamente la gelosia?
Un sentimento? Una reazione fisiologica? Un’emozione?
Con questa rassegna proverò, appellandomi ad alcuni degli autori che più si sono occupati di questa tematica di definirla nel migliore dei modi.
Secondo gli psicologi Tarrier, Beckett, Harwood e Bishay, la gelosia è [blockquote style=”1″]un complesso emozionale multidimensionale e pervasivo caratterizzato dalla percezione di una minaccia di perdita del partner e sospetti infondati di potenziali rivali che include componenti comportamentali, affettive e cognitive.[/blockquote] La gelosia è fonte di sofferenza non solo per chi la subisce ma anche per chi la prova e, a causa dei suoi effetti distruttivi, è protagonista di molti fatti di cronaca. Secondo Eurispes, infatti, è il movente della maggior parte dei crimini passionali in Italia ed è il sentimento che più provoca disagio soggettivo, imbarazzo, perdita dell’autostima fino al disprezzo di sè.

La psichiatra Marazziti D., la definisce un’emozione normale che serve a diversi scopi: il principale è la stabilizzazione della coppia, attraverso la percezione dei segnali che possono insidiarla. David M. Buss la definisce [blockquote style=”1″]un’emozione negativa solo nel senso che provoca dolore psicologico, mentre invece è estremamente positiva, perché preposta a cogliere ed identificare i pericoli che potrebbero minare la coppia, mobilitando strategie specifiche per mantenerne la stabilità.[/blockquote]

Secondo la teoria delle emozioni, che si chiama cognitivo-fenomenologica, sviluppata principalmente da Richard S. Lazarus, la gelosia viene considerata come [blockquote style=”1″]una serie di risposte emotive e comportamentali che fanno seguito ad una conseguenza di valutazioni e rivalutazioni continue di ciò che accade tra il geloso, il partner e la terza persona che si inserisce tra i due.[/blockquote]

La gelosia è ritenuta patologica quando supera il livello di possessività che è considerato nella norma da una data società o cultura, ed è caratterizzato da tre componenti fondamentali:
– la credenza che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa che abbia importanza nella propria vita;

– la malinterpretazione dell’innocenza dei comportamenti, pensieri e sentimenti dell’amato, vista in chiave di continua sospettosità;

– la percezione della potenziale perdita dell’amato come un evento assolutamente catastrofico per la propria vita.

Si teme a tal punto che un legame possa finire che, senza volerlo, a causa delle proprie tormentate preoccupazioni, accade l’inaccettabile fine.

Il confine tra l’amore avvolgente e il controllo ossessivo è abbastanza sottile, a volte labile. Quando la gelosia diventa esagerata e il sospetto e la sofferenza della perdita diventano insopportabili, allora s’innesca la patologia. Secondo Clèarambault, il geloso patologico si distingue dal normale per [blockquote style=”1″]l’esaltazione passionale prolungata nel tempo, con contenuti di pensiero coatto e vischioso che tendono ad autoalimentarsi fino ad eliminare ogni feedback con la realtà. Il tutto si traduce sul piano comportamentale, in azioni irrispettose e oltraggiose, spesso brutali nei confronti dell’altro.[/blockquote]

Lorenzi, nell’ambito della psicologia patologica, ha provato a proporre una classificazione comprensibile e ben definita per fare diagnosi di questo disturbo in continua crescita, anche se, ad oggi non viene ancora inserito nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), ritrovandosi però nel disturbo delirante o nel disturbo ossessivo-compulsivo, oppure come sintomo di altri disturbi psichiatrici, come la depressione e il disturbo di panico, o di malattie neurologiche, come il morbo di Parkinson, i traumi cranici, l’alcolismo cronico: in questi casi si parla di gelosia sintomatica o secondaria.

Sempre Lorenzi ha individuato tre diverse declinazioni del fenomeno:
– Iperestesia gelosa (sindrome di Mairet)
– Gelosia ossessiva
– Gelosia delirante (sindrome di Otello)

Chi soffre di iperestesia gelosa vive in un clima di vissuti di gelosia non solo di tipo amoroso. Le idee di gelosia sono nitide, persistenti, prevalenti a forte componente affettiva e spingono ad azioni patologiche. Queste occupano tutto il campo esperienziale del soggetto e gran parte della sua coscienza pur mantenendo un costante confronto con la realtà. Spesso arrivano a essere un vero e proprio stile di vita, quindi onnipresenti in ogni relazione umana significativa che il soggetto andrà a costruire.

Nella gelosia ossessiva le idee di infedeltà sono indiscutibili e il dubbio è lacerante a tal punto che invalida la vita quotidiana dell’individuo. Chi ne soffre è costantemente alla ricerca di segnali che possano affievolirlo, confermarlo o smentirlo. Nonostante vi sia un riconoscimento dell’infondatezza dei loro sospetti e sono consapevoli della loro assurdità e ne provano vergogna, non riescono a modificare la loro condotta e sono tormentati da un dubbio di una potenza tale che li trascina in un abisso che li porta a frequenti interrogatori al partner, a controlli minuziosi che occupano la maggior parte del loro tempo.

Nel caso della gelosia delirante, vi è una ricerca continua e ossessionante di prove che confermino l’infedeltà del partner, perseguita spesso con modalità inusuali e la totale impossibilità di accettare un possibile dubbio, anche di fronte a ogni evidenza contraria o alla totale assenza di ogni indizio concreto. Raramente l’idea di infedeltà è associata a un unico e specifico rivale, ma in genere è vaga e al partner vengono attribuite varie relazioni più o meno transitorie e occasionali. Il comportamento del geloso delirante non è teso alla scoperta di qualcosa che si dà già per certo, ma piuttosto di far ammettere al partner la colpa, motivo per cui quest’ultimo viene continuamente assillato da interrogatori e da costanti richieste di confessioni. I deliri di infedeltà possono rappresentare i segnali di una schizofrenia latente, o apparire come nuovi tratti di psicosi già strutturate. I disturbi emotivi completano il malessere associato al delirio: la depressione, ad esempio, con i suoi vissuti di inadeguatezza e fallimento, può contribuire all’insorgenza o al peggioramento della gelosia delirante. Nel 1891 Krafft-Ebing sottolineò il legame tra alcol e gelosia, riportando che ben l’80% di uomini alcolizzati soffriva di una grave forma di delirio di gelosia, molto stabile nel tempo, ma gli studi più recenti hanno ridimensionato la percentuale abbassandola. Questo perché un tempo si pensava che l’alcol avesse un ruolo specifico nello scatenare la gelosia facendo emergere sospetti, facilitando errori di giudizio e alterando la percezione delle situazioni, oggi invece si pensa disinibisca solo l’individuo che, liberato dal proprio autocontrollo, riesce così a esprimere sospetti preesistenti, poiché sono spesso i problemi coniugali a portare all’alcolismo. Altre forme sono quelle scatenate dall’abuso di sostanze stupefacenti, come la cocaina o le anfetamine. I deliri di gelosia rispondono molto bene alla terapia con farmaci antipsicotici.

I ricercatori dell’Università di Pisa, Donatella Marazziti, Michele Poletti, Liliana Dell’Osso, Stefano Baroni e Ubaldo Bonuccelli, hanno pubblicato sulla rivista “Cns Spectrums” , della Cambridge University Press, i risultati di un loro studio in cui hanno individuato le zone del cervello dove nasce la gelosia patologica avvalendosi dell’utilizzo della risonanza magnetica funzionale. Attraverso le loro ricerche su alcolisti, schizofrenici e pazienti con il Parkinson, dove spesso sono presenti tratti di gelosia patologica, gli psichiatri hanno scoperto che è implicato soprattutto un trasmettitore, la dopamina, con un ruolo nello sviluppo della psicosi. Hanno evidenziato, in particolare, come il cervello di chi fa della gelosia un’ossessione sia programmato per assumere atteggiamenti impulsivi e fuori dal controllo razionale. Secondo questo studio gli eccessi di gelosia delirante sono causati quindi da uno squilibrio biochimico all’interno della corteccia prefrontale, ovvero un’area del cervello che sovraintende i processi cognitivi ed affettivi.

Già nel 1912, uno psichiatra tedesco, Emil Kraepelin, aveva collegato la gelosia ad alterazioni del cervello e all’abuso di droghe.
In alcune specie di topi al posto della gelosia abbiamo l’effetto Bruce: i maschi secernono una sostanza che, annusata da una femmina gravida, la fa abortire, ma solo se l’odore è diverso da quello del maschio che l’ha messa incinta. Questo permette al topo che induce l’aborto la possibilità di fecondare lui stesso quella femmina. Quindi, quel che noi esseri umani viviamo come sentimento della gelosia, in altre specie può essere un puro meccanismo fisiologico. Per questa ragione non possiamo ridurre la gelosia al sentimento geloso.

Sempre secondo la psichiatra Donatella Marazziti, si attivano anche i sistemi regolatori dell’ansia, della paura e dell’innamoramento. Infatti il soggetto geloso è molto simile ad un paziente ansioso, dal momento che spesso vive in uno stato di allarme continuo che ricorda il disturbo d’ansia generalizzato o l’ansia anticipatoria del disturbo di panico: questo suggerisce che entrino in gioco alcuni neurotrasmettitori come la noradrenalina, una sostanza che serve a risvegliare il cervello, a mantenerlo vigile, se necessario pronto a scattare all’attacco o alla fuga. Oppure, la reazione del geloso, è simile a quella che avviene nell’ansia di separazione, quando ad esempio da piccoli non sopportiamo di essere allontanati dai nostri genitori; si ritiene che in questa condizione svolgano un ruolo importante sostanze come i neuropeptidi oppioidi, le cosiddette morfine endogene.

Per certe caratteristiche, poi, il geloso può ricordare un paziente ossessivo o depresso: i neurotrasmettitori candidati sono in questo caso la serotonina, il cui compito è in genere quello di renderci più moderati, smorzando tutte le reazioni impulsive e la dopamina che attiva l’attenzione ed il senso del piacere. Donatella Marazziti, a tal proposito, ha somministrato un questionario a 400 studenti universitari ed a pazienti affetti da gelosia ossessiva, chiedendo loro di porre attenzione alla gelosia legata alla relazione attuale. Il questionario utilizzato era il “ Questionario sulle relazioni affettive”, composto da una prima sezione per la raccolta dei dati demografici, e da un’altra parte composta da 30 domande finalizzate all’identificazione di alcune caratteristiche fondamentali della gelosia.

A conferma delle aspettative, i pazienti avevano un punteggio totale superiore agli studenti e, in particolare, passavano più tempo a pensare al tradimento del partner, a tal punto che le loro attività quotidiane erano compromesse; provavano una sofferenza marcata; temevano molto di più di non essere sessualmente attraenti; parlavano meno volentieri dei loro problemi legati alla gelosia ed anche della gelosia in generale; tendevano, infine, a limitare la libertà del partner e a controllarlo.

Esiste anche una pista biochimica legata al tasso di estrogeni. David Gearly e altri quattro psicologi della University of Missouri-Columbia hanno studiato il livello ormonale di 282 studenti, invitandoli a compilare un questionario sulle relazioni sessuali e la gelosia. Hanno scoperto che le 62 ragazze che usavano la pillola anticoncezionale erano molto più gelose delle altre: quindi, secondo i ricercatori, è l’alto tasso di estrogeni, contenuti nella pillola, che condiziona il grado di gelosia femminile.

Alcuni studiosi, poi, si sono soffermati su quelle che sono le differenze di genere. David Buss si interrogò a riguardo già negli anni ’80 e i suoi studi sono stati ripresi anche da Grazia Attili, che nel 1998 fece una ricerca su 300 studenti dell’Università di Roma, equamente divisi tra maschi e femmine, in cui chiedeva di rispondere a una semplice domanda: “Cosa ti disturba e rende geloso?” in relazione a due eventualità: la prima in cui vieni a sapere che il/la tuo/a partner ha rapporti sessuali con un’altra persona, la seconda in cui vieni a sapere che il/la tuo/a partner ha un legame affettivo intenso e forse è innamorato/a di un’altra persona. E’ risultato che il 95% delle ragazze era sconvolto dalla seconda circostanza e solo il 32% dalla prima. Al contrario, il 65% dei ragazzi era disturbato dalla prima eventualità e solo il 45% dei ragazzi dalla seconda. Altri ancora, tra cui Peter Salovey, attraverso alcuni studi, si sono interrogati sulle differenze tra gelosia e invidia, termini spesso usati erroneamente come intercambiabili.

Mentre l’invidia riguarda ciò che si vorrebbe avere ma non si ha, la gelosia riguarda ciò che si ha e non si vorrebbe perdere. La gelosia, quindi, è un soffrire per una perdita possibile, l’invidia un soffrire per una mancanza attuale, di qualcosa che un altro ha.

Carla Diazzi del Dipartimento di Psicologia Generale di Padova, insieme ad alcuni colleghi ha elaborato un modello per la costruzione di uno strumento di tipo cognitivo-comportamentale, per l’assessment della gelosia patologica, partendo dagli studi sulla depressione di Beck. L’idea su cui si basa questo studio è che i gelosi morbosi abbiano sviluppato nel tempo uno schema cognitivo, basato su assunzioni erronee, a causa di dinamiche culturali, esperienziali e di personalità, che li porta a interpretare in modo non corretto gli eventi. Per questo motivo i comportamenti innocenti e neutri del partner vengono costantemente percepiti come una minaccia alla relazione o con sospetto causando reazioni emozionali e comportamentali eccessive che vanno ad infierire con il normale funzionamento del soggetto e della coppia. Da queste premesse è stato elaborato un test multidimensionale di 64 item suddivisi in 4 sezioni. La prima composta da una scala cognitiva, valuta la frequenza dei pensieri erronei. La seconda, composta da una scala emozionale, valuta l’intensità delle emozioni di paura, tristezza e rabbia sperimentate dal soggetto davanti a una situazione ipotetica di minaccia alla relazione. La terza composta da una scala comportamentale, chiede di valutare la frequenza con cui si manifestano comportamenti investigativi e di conferma, di evitamento e aggressivi contro il partner o i potenziali rivali. L’ultima sezione valuta la frequenza con cui le ruminazioni di gelosia si ripercuotono sulla vita dell’individuo e sull’armonia della coppia. Questo strumento di comprovata validità e attendibilità è in attesa di taratura italiana e di un suo futuro utilizzo in ambito psicodiagnostico.

I rischi infine, associati alla gelosia patologica, sono numerosi e si distinguono in:
-Comportamenti confirmatori, tra cui troviamo comportamenti di investigazione come interrogatori al partner, ripetute telefonate a lavoro, visite a sorpresa, fino a stalking o consultazione di detective privati; di controllo di vestiti, diari, corrispondenze del partner, ispezioni della biancheria e in casi estremi anche dei genitali per trovare prove a favore di un’attività sessuale illecita o l’utilizzo di strumenti di registrazione nascosti per raccogliere informazioni su eventuali relazioni clandestine.
– Depressione, ansia, fobie, facile irritabilità, agitazione.
-Evitamenti delle situazioni che possono provocare gelosia, come ad esempio, negozi/giornali che possono contenere immagini di persone giovani attraenti, o programmi televisivi/film per loro potenzialmente dannosi, o i contesti in cui si teme possa esser presente un possibile rivale. Comportamenti di questo genere non permettono la disconferma dei pensieri intrusivi, e quindi portano alla falsa credenza che l’infedeltà sia tenuta sotto controllo grazie proprio all’evitamento delle situazioni rischiose. Un circolo vizioso senza via d’uscita.
-Discussioni e accuse possono spesso sfociare in violenza fisica e verbale. Non di rado la gelosia patologica è correlata all’abuso coniugale e all’omicidio. Le donne, che rappresentano la maggioranza delle vittime, riferiscono raramente le proprie esperienze di abuso, sviluppando sintomi di impotenza, ansia, depressione, estrema passività e uso di sostanze alcoliche. La violenza legata alla gelosia non è solo fisica: spesso, infatti, il sopruso è più difficile da individuare perché viene inferto a livello psicologico, come emerso dai dati Istat. Le strategie comprendono: la denigrazione, il controllo di alcuni comportamenti, l’intimidazione e l’isolamento che può arrivare alla segregazione.

Ad oggi, la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato di essere molto efficace nel trattamento della gelosia patologica, soprattutto quando le ossessioni sono preminenti o se vengono individuati tratti di personalità borderline o paranoici. Anche la terapia di coppia, è un’ottima strada per la risoluzione dei conflitti relazionali.

Come emerge da questa rassegna, la gelosia patologica è una tematica su cui stanno uscendo dati sempre più avvincenti e stravolgenti e su cui tante scoperte si faranno ancora. Inevitabile quindi la conclusione di quanto sia importante all’interno dell’amore un sano sentimento di possessività e gelosia perché sentirsi l’esclusivo oggetto d’amore di una persona è il sogno di tutte le persone, e Bowlby con la sua formidabile teoria dell’attaccamento, lo insegna. Liotti stesso nella sua teoria dei “Sistemi Motivazionali Interpersonali” (SMI), evidenzia come il sistema di attaccamento e di riflesso di accudimento siano indispensabili nella vita di ogni singolo individuo, avere una base sicura da cui poter trarre le cure adeguate e il sostegno per affrontare le inevitabili peripezie della quotidianità in questi tempi di crisi politica, economica, sociale è una buona ancora di salvezza a cui appigliarsi e farsi forza. Ogni coppia attraversa tempi di crisi amorosa e sospetti ma finchè c’è ricongiungimento c’è speranza. Un motto banale, ma veritiero.

La relazione tra una dieta ricca di grassi e sintomi ansioso-depressivi

Sabrina Guzzetti

 

Un recente studio sui topi, da pochi giorni accettato per la pubblicazione sulla rivista British Journal of Pharmacology, rivela che l’iperglicemia e l’aumento del peso corporeo, conseguenti all’ assunzione di un regime alimentare ad alto contenuto di grassi, pare poter determinare la comparsa di sintomi ansioso-depressivi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il diabete mellito e i disturbi dell’umore interessano circa 350 milioni di persone, con un impatto sulla salute pubblica e i costi socio-sanitari in costante aumento negli ultimi anni. Dalla letteratura sul tema si apprende che le due patologie paiono essere spesso compresenti e caratterizzate da una connessione reciproca di tipo bidirezionale: se da una parte i disturbi depressivi, specie se insorti precocemente nel corso della vita, risultano associati ad un incremento del rischio di sviluppare il diabete, dall’altra è stato anche osservato che una porzione rilevante di pazienti con diabete (fino al 30% del totale) soffre anche di un disturbo depressivo maggiore.

I due disturbi, inoltre, risultano associati a diverse alterazioni del sistema serotoninergico cerebrale, e potrebbe essere proprio questo il meccanismo alla base di tale frequente comorbidità. Ciò che fino a poco tempo è rimasto tuttavia sorprendentemente pressoché inesplorato, è la possibilità che il diabete possa alterare l’efficacia dei farmaci antidepressivi, costituiti spesso dai cosiddetti inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (quali Escitalopram o Sertralina) o che possa addirittura arrivare ad elicitare una sintomatologia di tipo depressivo o ansioso.

Nel recente studio, firmato dal Dr. Bruno P. Guiard, alcuni topi sono stati nutriti secondo un regime alimentare ad alto contenuto di grassi e sottoposti ad analisi metaboliche e comportamentali periodiche, unitamente ad un monitoraggio dei livelli extracellulari di serotonina a livello cerebrale. Dai risultati ottenuti è emerso che l’aumento della massa corporea e della glicemia, conseguente ad un’alimentazione ricca di grassi, si è accompagnato, come ipotizzato, alla comparsa di sintomi ansioso- depressivi, con un parallelo decremento dei livelli extracellulari di serotonina.

In seconda battuta è stato dunque testato se l’assunzione di farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (escitalopram) e/o la riduzione dell’apporto di grassi attraverso la dieta potessero invertire le anomalie metaboliche e comportamentali precedentemente indotte. Dai risultati è emersa un’efficacia dei farmaci pressoché nulla in presenza di una dieta ricca di grassi; al contrario, l’adozione di un regime dietetico più bilanciato si è dimostrata in grado di invertire quasi completamente i disturbi metabolici e di ridurre significativamente anche i sintomi ansioso-depressivi.

Questo studio ha fornito una chiara evidenza della correlazione esistente tra diabete e depressione, almeno in riferimento a quei casi in cui il diabete viene indotto da un regime alimentare eccessivamente sbilanciato a favore dei grassi.

[blockquote style=”1″]Questa scoperta rinforza l’idea che la normalizzazione dei parametri metabolici possa dare maggiori chance di giungere ad una remissione dei sintomi depressivi, specie nei pazienti affetti da diabete. Questa patologia pare per altro attenuare l’azione antidepressiva degli psicofarmaci, con importanti ricadute sul piano della pratica clinica[/blockquote] dice il Dr. Guiard.

La categorizzazione dell’informazione – Introduzione alla Psicologia nr. 32

Categorizzazione dell’informazione: la categorizzazione dell’informazione in memoria permette di effettuare delle inferenze partendo da una serie di proprietà degli oggetti che appartengono a una data categoria. La categorizzazione, dunque, consente di interagire con gli oggetti attribuendo loro un nome.
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 32)

 

Nelle scorse settimane su questa rubrica abbiamo parlato delle differenze tra memoria semantica e memoria episodica, di memoria autobiografica, di memoria a breve/lungo termine e working memory e di memoria implicita e esplicita (ndr).
Ora, ci dedicheremo alle modalità di categorizzazione dell’informazione in memoria.

È noto che non categorizzando gli oggetti sarebbe impossibile conoscere, imparare e effettuare ragionamenti.
la categorizzazione permette, insomma, di unire tutti gli oggetti con caratteristiche comuni e con funzioni simili, consentendo in questo modo di usufruire di denominazioni adeguate alla categoria specifica usata (Anderson 1991).

I vantaggi cognitivi della categorizzazione sono:
– economia cognitiva: massimizza l’informazione con il minimo sforzo cognitivo;
– percezione del mondo che non sarà recepito come un insieme di oggetti indistinti, ma formato da classi, categorie, di elementi correlati tra loro.

Le teorie sulla categorizzazione dell’informazione

Di seguito le più importanti teorie sulla categorizzazione.

Secondo la teoria classica, definita anche rule based, ogni oggetto è formato da un insieme di proprietà, che rappresentano le caratteristiche semantiche necessarie per essere considerato come tale (Keane and Eysenck 2005). Il processo di categorizzazione si basa sul riconoscimento di caratteristiche comuni agli oggetti, grazie alle quali possono essere inseriti in categorie prestabilite (Ashby and Maddox 1998).

Dai limiti della teoria classica nasce la teoria dei prototipi e degli esemplari. Secondo la teoria dei prototipi un elemento deve essere confrontato con un prototipo o esemplare ideale, oggetto rappresentativo di una categoria, che contiene tutte le caratteristiche più tipiche della categoria in esame.
Secondo la teoria degli esemplari, al contrario, una categoria è rappresentata semplicemente da tutti gli esemplari che appartengono alla categoria stessa. Il processo decisionale si basa sulla comparazione di elementi che accomunano gli oggetti e che andranno a determinare una rappresentazione mnestica per ogni esemplare della categoria. Inoltre, mentre per la teoria del prototipo esiste un oggetto prototipico con cui confrontare tutti gli altri della categoria, per la teoria degli esemplari si ottengono, invece, rappresentazioni distinte di un numero di oggetti che andranno a costituire delle sottoclassi all’interno della categoria.

Murphy e Medin (1985), per contro, affermano che tutti i soggetti possiedono delle teorie implicite, atte a spiegare il mondo e a classificare gli oggetti, natura compresa, che animano la realtà circostante. Queste teorie permetterebbero di inserire un elemento in una categoria partendo da un giudizio individuale.

Successivamente, Barsalou (1999) ha proposto la teoria della simulazione, secondo la quale nel concetto è presente intrinsecamente la capacità di costruire rappresentazioni flessibili, quindi adattabili alle situazioni e alle esperienze dell’individuo. I concetti, dunque, classificano situazioni dirette al raggiungimento di uno scopo, tipico di ogni individuo (Barsalou 1983).

Questo breve excursus sulle teorie della categorizzazione mostra rapidamente quali potrebbero essere le modalità secondo le quali la nostra mente immagazzina informazioni e si struttura.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Personalità, genetica e ambiente: quale rapporto?

 

Le esperienze e i meccanismi che portano alla stabilizzazione e al mantenimento di una situazione di benessere o di disagio sono tanto importanti quanto le prime esperienze che in qualche misura dirigono lo sviluppo verso la salute o la patologia (Gennaro, 2006).

Fino agli anni ’50, il paradigma dominante nell’ambito della ricerca e della clinica era quello psicoanalitico (soprattutto negli USA) in tutte le sue declinazioni (psicoanalisi dell’Io, delle relazioni oggettuali, la teoria bowlbiana dell’attaccamento), ponendo grande enfasi sugli effetti quasi irreversibili delle esperienze precoci di frustrazione e separazione dal caregiver (Bowlby, 1951; Freud, 1965; Spitz, 1958; Winnicott, 1957). Ad oggi vi è motivo di ritenere, in seguito all’acquisizione di una casistica clinica più ampia, che l’impatto delle esperienze relazionali primarie, anche quelle negative, può avere effetti a lungo termine molto diversi in base alla natura delle esperienze di vita successive. Infatti l’azione dell’ambiente interpersonale modula le varie espressioni della stabilità emotiva o di altre caratteristiche.

Tuttavia è stato rilevato che le cause delle condotte e della maggior parte delle manifestazioni della personalità non vanno ricercate solo nell’ambiente ma anche nell’organismo biologico (Gennaro, Scagliarini, 2007) . Ad esempio, studi sul temperamento hanno dimostrato che bambini estroversi hanno più probabilità di essere invitati ad occasioni sociali, così come i bambini più dotati intellettualmente sono frequentemente più propensi a scegliere attività più competitive e impegnative. Questo è tanto vero sia per gli aspetti disfunzionali della personalità (ad. es. la propensione a fare scelte rischiose) sia quelli più funzionali, come l’attitudine allo studio, i quali possono implicare anche l’influenza di alcuni neurotrasmettitori come la dopamina e la serotonina (Gennaro, Scagliarini, 2007).

Plomin (2000) ha scoperto che l’influenza genica e l’ereditarietà aumentano all’aumentare dell’età. I geni sono programmati per attivarsi alcuni anni dopo la nascita e gli effetti, per potersi manifestare, hanno bisogno di tempo e di certe situazioni ambientali“critiche”; la potenzialità genica si riduce poi nel corso dello sviluppo a causa delle interrelazioni con l’ambiente che dirige le influenze genetiche lungo una serie di esperienze che poi col tempo amplificano le similarità dovute a un’origine comune.Questo significa che l’invecchiamento più che riflettere quello che si è consolidato con la cultura, rivela sempre di più le nostre predisposizioni.

Come giustamente ha notato Gottlieb (1998), i geni non costituiscono un sistema chiuso, portatore di un progetto preciso, ma sono elementi di un sistema biologico in continua evoluzione, tant’è che la [blockquote style=”1″]la selezione naturale ha preservato gli organismi che sono adattivamente più responsivi nei confronti delle loro condizioni di sviluppo, sia a livello comportamentale che fisiologico[/blockquote] (Gottlieb, 2000, p.796).

Riprendendo il discorso di apertura, si evince che l’aspetto biologico (meccanismi neurologici ed endocrini presenti fin dalla nascita, che determinano il grado di attivazione emotiva, il livello di attività motoria, la socievolezza e l’impulsività) della personalità e le influenze ambientali (la famiglia, la scuola, il lavoro ecc.) determinano i caratteri e le condotte degli individui in modo però non troppo deterministico. Come sostiene Strelau (1983), la personalità è il risultato delle condizioni storiche e sociali, così come dell’apprendimento e della socializzazione, esprimendo desideri ed aspettative personali. I cambiamenti, seppur lenti, vi sono durante tutto l’arco della vita.

Il bambino affetto da tumore: come intendere l’adattamento psicologico?

Andrea Costa, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Molti dei disturbi psicologici causati dallo stress dell’ “evento cancro” riscontrabili in campo psico-oncologico pediatrico sono psicopatologicamente inquadrabili nella categoria diagnostica del Disturbo di Adattamento, in quanto ne soddisfano i criteri come riportati nel DSM-IV-TR, con tutta la variegata costellazione di sintomi e le diverse varianti con cui può insorgere.

La sopravvivenza dei bambini colpiti da tumore è salita oltre il 75% a livello globale, negli ultimi decenni, tuttavia il percorso che un bambino si trova ad affrontare dal momento della diagnosi e a volte anche da prima non è meno irto di difficoltà, anche psicologiche.

La maggioranza dei professionisti della salute di ogni estrazione considera la malattia neoplastica, con particolare riferimento all’insorgenza in età evolutiva, una condizione che più di ogni altra malattia richiede un continuo processo di elaborazione attuato allo scopo di affrontare i correlati reversibili o irreversibili della malattia, sia fisici che psicologici. L’adattamento è concepibile quindi come un processo costituito da un insieme di reazioni emotive, comportamentali e cognitive determinate dall’esperienza passata ma anche dalle risorse disponibili in quel momento e dalla percezione di una minaccia futura.

Nel considerare l’impatto psicologico della nuova dimensione di “malato” e le reazioni del bambino, la maggioranza dei clinici che si occupa del campo raccomandano di ricordare che costruire modelli clinici della sofferenza psicologica che indichino un esito psicopatologico inevitabile in riferimento all’ “evento cancro” sia un errore sia scientifico che morale: molto spesso i bambini colpiti sono psicologicamente sani, non presentano situazioni pregresse di psicopatologie e sono inseriti in una famiglia che funziona; la sofferenza non ha un’origine intrapsichica, come nella maggioranza dei casi che un professionista psicologo può incontrare in attività di consulenza o terapia, ma è attribuibile ad un evento in qualche modo esterno e profondamente perturbante la normalità dello sviluppo del bambino.

La branca della psicologia che si occupa dei correlati psicologici relativi alla neoplasia infantile, la psico-oncologia pediatrica si differenzia sul piano clinico dalla gran parte del panorama degli interventi psicologici, acquisendo peculiarità solitamente circoscritte all’ambito della psicotraumatologia, in quanto molti aspetti psicologici della malattia tumorale sono considerati traumatici dagli operatori che si occupano della materia. La letteratura disponibile sull’argomento è molto diversificata e descrive i disturbi psicologici che possono insorgere non solo a seguito della comunicazione della diagnosi, ma anche a seguito di periodi prolungati di ospedalizzazione e ad un livello più generale, dopo che le caratteristiche di stabilità e prevedibilità dei regolari ritmi di vita del bambino vengono meno, a causa dello sconvolgimento generale che l’ “evento cancro” comporta.

Molti dei disturbi psicologici causati dallo stress dell’ “evento cancro” riscontrabili in campo psico-oncologico pediatrico sono psicopatologicamente inquadrabili nella categoria diagnostica del Disturbo di Adattamento, in quanto ne soddisfano i criteri come riportati nel DSM-IV-TR, con tutta la variegata costellazione di sintomi e le diverse varianti con cui può insorgere. Tuttavia si pone l’accento su come questa categoria possa essere considerata come una sorta di contenitore atto a definire ed etichettare qualunque forma di disagio psichico del paziente. I clinici raccomandano di sforzarsi di dare ai vissuti psicologici riferiti dal paziente il giusto spazio all’interno del processo di assessment e per esempio qualora la sintomatologia ansiosa o depressiva assuma caratteristiche di espressione più specifiche magari di un Disturbo dell’Umore, non cadere nella tentazione di riferirsi ad una sola categoria diagnostica che per quanto “familiare” per il clinico, non rappresenti adeguatamente la sofferenza del paziente. Infine, data la già citata affinità della psico-oncologia con la psicotraumatologia, non sorprende che in letteratura si trovino evidenze che una buona percentuale di disturbi psicopatologici che possono insorgere a seguito della patologia neoplastica infantile siano inquadrabili con le categorie diagnostiche del Disturbo Acuto da Stress o del P.T.S.D.

Per prendere in esame e valutare la gestione dello stress da parte dei piccoli pazienti e la qualità del loro adattamento, lo strumento di elezione dell’approccio cognitivo è senza dubbio il costrutto di coping.
Il coping, al di là dell’ampia varietà di apparati teorici sviluppatisi attorno a questo costrutto, è definito come un insieme di sforzi cognitivi e comportamentali messi in atto allo scopo di far fronte a richieste “interne” o “esterne” al soggetto e che necessitano di un surplus di risorse per poter essere affrontate. Si può notare come la definizione richiami concettualmente la gestione di molti aspetti dell’”evento cancro”. Un modello molto noto in psicologia clinica è il modello di Lazarus e Folkman, che include come assunti di base che il coping sia legato al contesto, che venga posto l’accento sul tentativo di gestione dello stress, non sul successo o fallimento del tentativo e che il coping possa variare nel tempo. Il nucleo principale del modello sono le fasi di valutazione primaria e secondaria; la valutazione primaria consiste nel giudicare in quale misura l’evento implichi minacce o perdite, la valutazione secondaria consiste nel processo di valutazione di una determinata risposta all’evento giudicato come dannoso e al dispendio di risorse che ne consegue, nonché alla loro organizzazione per fronteggiare il pericolo, qualunque sia. Segue allora un reappraisal, ovvero un’ ulteriore valutazione che giudica gli effetti delle risposte sulla base dei cambiamenti percepiti nelle condizioni del mondo interno ed esterno all’individuo.

Le ricerche disponibili in letteratura che esaminano le correlazioni tra coping e qualità dell’adattamento psicologico alla malattia neoplastica e a ciò che comporta, sono tendenzialmente d’accordo nell’affermare che alcune modalità possano incrementare in una qualche misura la capacità del bambino di gestire lo stress della diagnosi, delle cure e dell’ospedalizzazione, e come questo possa contribuire a una minore incidenza dell’insorgenza di tratti psicopatologici nei casi in cui il coping sia considerato come più funzionale. Ad esempio, è stato rilevato che strategie proattive come il problem solving, la richiesta attiva di informazioni e supporto dal personale medico durante le manifestazioni più acute degli effetti collaterali dei cicli di chemioterapia, come nausea e vomito porterebbero a benefici maggiori rispetto a strategie di coping meno efficaci, come l’”evitamento”.

Nel corso della pratica clinica degli operatori coinvolti nella salute mentale dei pazienti pediatrici, durante gli anni si è sentita la necessità di integrare i modelli già affermati e formulare un modello teorico di coping che fosse più specifico per la descrizione della gestione della malattia neoplastica infantile, e che cercasse di integrare anche quei fattori che influenzano anche indirettamente le risposte e le risorse del bambino, in un’ottica allargata e più comprensiva non solo degli aspetti cognitivi ed emotivi del paziente, ma anche dei fattori oggettivi che riguardano i parametri della malattia, come il tipo di neoplasia e quindi la gravità e i trattamenti a cui è sottoposto il paziente; dei fattori personali che includono oltre alle abilità cognitive anche la maturazione fisica raggiunta nonché il genere sessuale e il temperamento; dei fattori sociali, ossia il supporto sia ricevuto che negato dall’ambiente, soprattutto dalla famiglia di origine, ma anche dal gruppo dei pari e dalla comunità di appartenenza del bambino.

Un modello costruito appositamente per rappresentare la situazione psico-oncologica pediatrica e che considera la malattia neoplastica come evento stressante è il modello di Grootenhuis, che riprende le caratteristiche già esposte del modello di Lazarus e Folkman, ma che pone l’accento anche su quei parametri oggettivi e fattori personali e sociali che non avevano lo stesso spazio all’interno della ricerca psico-oncologica fino a qualche decennio fa e che intervengono, secondo il modello, nella fase della valutazione secondaria. Un esempio dell’importanza della comprensione dell’ambiente familiare è dato da alcune ricerche che hanno evidenziato il ruolo centrale delle madri, considerate come figure “elettive” dalle quali ricevere supporto emotivo durante le fasi di crisi dei bambini, mentre i padri assolvono più spesso a funzioni di interfaccia tra il mondo familiare e il mondo sociale “esterno”.

Una visione “ingenua” potrebbe portare psicologi e personale medico a implementare una maggiore partecipazione della figura del padre durante i momenti di crisi, dove si supporrebbe una sua “mancanza”; invece una visione più accorta, alla luce di questi studi, può dirigere la progettazione di interventi psicologici volti a eliminare eventuali conflitti del bambino con la madre e a consolidare la posizione del padre come prima figura della famiglia in relazione con l’esterno, laddove quella famiglia abbia al suo interno questi ruoli definiti che si incastrano in modo soddisfacente.

Se nel periodo precedente alle ricerche che hanno preso in considerazione questi aspetti, al centro dell’attenzione della ricerca clinica si trovavano le varie modalità di coping studiate in relazione ad un adattamento più o meno efficace, ora lo sguardo dei clinici si è spostato fino a includere questi fattori non direttamente coinvolti in aspetti cognitivi ma che sicuramente circondano il piccolo paziente. L’evidenza empirica indica che essi non possono essere tralasciati dagli operatori coinvolti, che devono avere una idea il più esaustiva possibile della realtà che circonda il bambino malato e il modo in cui egli costruisce il suo adattamento alla patologia neoplastica, in modo da favorire la costruzione di nuove vie e modalità per affrontare la loro situazione e per renderla il meno drammatica possibile, non solo insegnando abilità e promuovendo una strategia di gestione dello stress piuttosto di un’altra, ma abbracciando un’ottica nuova e verso una prospettiva biopsicosociale.

Analisi del contenuto delle autocaratterizzazioni degli allievi in formazione in Psicoterapia

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

ANALISI DEL CONTENUTO DELLE AUTOCARATTERIZZAZIONI
DEGLI ALLIEVI IN FORMAZIONE

Lambertucci L., Aprile C., Del Ponte H., Di Bari S., Formiconi C., Galassi F.R.,
Gambardella M., Ialenti V., Paparusso M., Torrieri M., Caselli G., Scarinci A.

 

Abstract

Introduzione

Il presente studio confronta le autocaratterizzazioni di 20 allievi di una scuola di specializzazione in psicoterapia, all’inizio e al termine del percorso, con quelle di un gruppo di controllo che nel medesimo arco temporale non svolge alcuna formazione. L’autocaratterizzazione permette una comprensione della prospettiva con la quale si costruisce la propria realtà con modalità di cambiamento in continuo divenire.

Obiettivo

Lo scopo è individuare dimensioni o aree problematiche e verificare se la formazione ha comportato negli allievi un processo evolutivo di assimilazione e accomodamento. L’ipotesi è che nel gruppo dei trainee i cambiamenti saranno più significativi che nel gruppo di controllo e indipendenti dagli eventi di vita.

Metodo

Ai documenti è stata applicata l’analisi del contenuto definita da Berelson come capace di descrivere in modo obiettivo, sistematico e quantitativo il contenuto manifesto della comunicazione. Il protocollo adottato contiene le procedure seguite, il manuale dei codici interpretativi e la griglia di codifica. Ogni autocaratterizzazione è stata analizzata da un gruppo di analisti con meccanismi di controllo delle decodifiche soggettive. La somministrazione del Questionario sugli Avvenimenti della Vita (QAV) permette di verificare se ai soggetti siano accaduti, in questo arco temporale, eventi che possono aver inciso sull’assetto cognitivo.

Risultati

Saranno presentati i risultati della ricerca che attestano variazioni significative tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo.

 

 

L’importanza di dire grazie per superare le difficoltà e salvaguardare i legami affettivi

Nell’era della crisi economica e delle difficoltà finanziarie i legami affettivi sono sottoposti ad un carico di stress elevato. A fare la differenza tra le coppie che superano le difficoltà e quelle che ne sono significativamente indebolite potrebbero esserci alcune piccole cose, per esempio il saper dire grazie.

Così afferma un recente studio condotto presso la University of Georgia da Barton, Futris e Nielsen che, con l’intento di comprendere il legame tra situazioni stressanti di natura economica e deterioramento del rapporto coniugale, si sono focalizzati su alcuni fattori che modulano la relazione.

Il campione sperimentale, composto da 468 soggetti, tutti sposati e residenti negli Stati Uniti, è stato contattato telefonicamente e sottoposto ad una serie di questionari per indagare il benessere finanziario, i pattern della comunicazione di coppia, la frequenza delle espressioni di gratitudine tra partner e la qualità della relazione coniugale nei termini di soddisfazione, commitment e propensione al divorzio.

I dati ottenuti hanno rivelato che le situazioni finanziarie vissute come stressanti aumentano la frequenza di pattern comunicativi del tipo richiesta/rifiuto, nel corso dei quali uno dei coniugi avanza delle richieste o pretese e l’altro risponde con una chiusura, un ritiro. Sembra che l’incremento di questo tipo di dinamiche sia a sua volta connesso all’abbassamento del livello della relazione, in altre parole simili interazioni svolgono una funzione di mediazione tra i problemi economici da un lato e i livelli di soddisfazione, impegno e intenzione di divorziare dall’altro.

Si noti che, in parziale dissonanza rispetto alla letteratura precedente, lo studio non ha registrato differenze di genere significative, riscontrando effetti simili nelle coppie in cui ad avanzare richieste è la moglie e in quelle dove a farlo è il marito. Quando i conti non tornano a fine mese, è più probabile che il conflitto sia gestito in modo disfunzionale e che, indipendentemente dai ruoli, la stabilità del matrimonio sia messa in discussione.

Eppure, secondo i risultati della ricerca, esiste un’arma importante a disposizione delle coppie in difficoltà: i dati raccolti mostrerebbero, infatti, che l’espressione di gratitudine all’ interno della coppia protegge la stabilità della relazione. Sentirsi apprezzati e validati dal coniuge ed esprimere a propria volta gratitudine ha un effetto significativo nel ridurre la propensione a terminare la relazione e, soprattutto nelle donne, mantiene alti i livelli di commitment per la relazione anche in presenza di modalità disfunzionali di gestione del conflitto. Non sarebbero invece emersi risultati significativi a supporto di un legame tra l’espressione di gratitudine e la soddisfazione per il legame: saper ringraziare può mantenere saldo il matrimonio ma la felicità coniugale ha bisogno di altro ed è messa a rischio dalla comunicazione poco efficace e dalle difficoltà nel gestire le discussioni. Stabilità e soddisfazione coniugale appaiono connesse ma la loro correlazione è modesta: un dato interessante con evidenti implicazioni teoriche e pratiche per la terapia con coppie in difficoltà.

A tutte le coppie capita di essere in disaccordo ed entrare in conflitto e quando lo stress aumenta le discussioni si moltiplicano. Come mostra la ricerca di Barton e colleghi, a fare la differenza tra i matrimoni che entrano in crisi e quelli che resistono non è quanto frequenti siano i conflitti, ma come si gestiscano e, soprattutto, come ci si comporti nei confronti del partner nelle interazioni quotidiane.

La Family-Based Treatment per adolescenti con Anoressia Nervosa: Daniel Le Grange Ph.D a Roma

Walter Sapuppo – Report dal corso: Family-Based Treatment per adolescenti con Anoressia Nervosa.

Relatore: Prof. Daniel Le Grange Ph.D. – University of California

Family-Based Treatment per Anoressia negli adolescenti - Daniel Lagrange Roma - PANORAMICA

Il coinvolgimento dei familiari nel trattamento dei pazienti affetti da anoressia nervosa trova un discreto consenso tra i clinici di differenti orientamenti teorici. Lo spostamento del focus dalle ricerche dai fattori eziopatogenetici ai fattori di mantenimento delle sindromi alimentari ha permesso negli anni di realizzare programmi terapeutici incentrati sul coinvolgimento collaborativo e “non giudicante” dei familiari.

Nell’approccio multifattoriale, infatti, il coinvolgimento collaborativo della famiglia appare un elemento necessario al trattamento, efficace per riattivare i normali processi di sviluppo e di “svincolo” adolescenziale. Sviluppato negli anni ’90 all’interno del Maudsley Hospital di Londra, il Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family-Based Treatment – FBT) costituisce uno degli interventi psicoterapeutici di “prima scelta” nel trattamento dell’Anoressia Nervosa (AN) in età adolescenziale e preadolescenziale (APA, 2006; NICE, 2004; RANZCP, 2014; Quaderni del Ministero della Salute 17/22, 2013; Rapporto ISTISAN 13/6, 2012).

 

Gli obiettivi primari di tale intervento sono, in primo luogo, il restituire alla coppia genitoriale la funzione di cura e di guida “autorevole” per il superamento dei comportamenti alimentari disfunzionali, la comprensione del ruolo delle dinamiche intra-familiari nel mantenimento del disturbo e il favorire la ripresa di uno sviluppo adolescenziale “normale” (attraverso la comprensione e la discussione delle dinamiche che sottendono i processi di svincolo dalla famiglia d’origine e di costruzione dell’identità adulta) (Eisler et al., 2010; Le Grange e Lock, 2010). Il trattamento si dipana attraverso 5 assunti fondamentali che costituiscono anche i cardini concettuali degli interventi.

In primo luogo viene privilegiata una visione “agnostica” relativa all’eziopatogenesi della patologia (nella concettualizzazione di La Grange, infatti, bisognerebbe praticare un costante “forgetting what You think You know” a proposito di cosa generi la anoressia nervosa).

Il terapeuta, inoltre, dovrebbe mantenere una posizione attiva ma non autoritaria (lasciare molte decisioni alle figure parentali e cercare di non essere controllante nei confronti degli stessi e del paziente) e assumere nella relazione terapeutica un ruolo di “consulente” con l’intento – comune – di risolvere un problema in modo collaborativo.

Altro punto fermo è che le figure parentali devono essere responsabilizzate nel recupero del peso corporeo attraverso un parental empowerment teso a fornire le abilità necessarie a svolgere tale compito.

Il quarto cardine è la “externalization”, ovvero un processo attraverso il quale separare metaforicamente la “persona” dalla patologia (una delle metafore fornite è quella di un corpo estraneo che va estirpato senza mezze misure) e supportare la gestione autonoma della problematica senza patologizzare marcatamente altri aspetti (immaturità, ricerca di attenzioni ecc.) del paziente.

Il quinto e ultimo cardine è relativo alla necessità di porre il focus iniziale sui sintomi, sulla necessità di cambiamenti comportamentali, sulla raccolta anamnestica dello sviluppo della sintomatologia e un’attenzione “relativa” agli aspetti cognitivi correlati al disturbo alimentare.

 

Il Family-Based Treatment, dunque, costituisce un modello d’intervento che integra alcuni aspetti dell’approccio cognitivo-comportamentale con quelli dell’intervento sistemico-relazionale e del “clinical management” in una cornice teorica unitaria propria della “Developmental Psychopathology” e, coerentemente con tale impostazione, individua nel sostegno alle funzioni genitoriali una priorità clinica imprescindibile per rimettere “in carreggiata” lo sviluppo adolescenziale rimasto incagliato – in questo caso – in un disturbo alimentare (Cotugno e Sapuppo, 2014).

Al termine della prima giornata di corso, infine, è tangibile la soddisfazione per il livello scientifico dell’evento oltre che, invero, anche per la meravigliosa cornice del Complesso Monumentale del Santo Spirito in Sassia che, tra il maestoso tiburio ottagonale e l’altare del Palladio, funge da “facilitatore dell’apprendimento”.

Family-Based Treatment per Anoressia negli adolescenti - Daniel Lagrange Roma - PANORAMICA ESTERNO

Rimangono aperti alcuni interrogativi sui processi sottostanti il miglioramento clinico dei pazienti, sulle variabili – l’attenzione, ovviamente, è focalizzata sull’aumento ponderale – che si auspica vengano prese in considerazione in studi futuri (personologiche, cognitive, emotive e non solo rating scale sintomatologiche) e su come si possa migliorare l’efficacia del trattamento se si estremizza la posizione “agnostica” sulla patogenesi del disturbo non definendo esplicitamente la cornice di riferimento epistemologica.

Le argomentazioni, così come la vivacità del confronto e dei numerosi colleghi presenti, hanno gettato le premesse per un ottimo prosieguo.

La verità risiede tra le emozioni della menzogna: analisi Scientifica del Comportamento Ingannevole

Nicola Schirru

Otello accusò erroneamente sua moglie Desdemona di infedeltà, minacciandola di morte se non avesse confessato il suo tradimento. Desdemona chiese a Cassio, il suo presunto amante, di presentarsi per testimoniare la sua innocenza. Otello però disse di aver già ucciso Cassio per tale affronto! Desdemona, realizzando di non poter più provare la propria innocenza, scoppiò in uno sfogo emotivo piangendo disperata, pianto che Otello interpretò come prova indiscussa della colpevolezza di sua moglie, che quindi uccise!

Mentire è una costante negli esseri umani. Allo stesso tempo, essere sospettosi è un prerequisito necessario per smascherare un bugiardo.

Circa un anno fa si è tenuto in Italia un evento scientifico senza precedenti, organizzato dal Laboratorio di Analisi Comportamentale NeuroComScience. Il Prof. Aldert Vrij (Università di Portsmouth), massimo esperto mondiale in analisi della menzogna e psicologia della testimonianza, ha tenuto un convegno nella Capitale in cui ha presentato le più importanti ricerche presenti in letteratura sulla valutazione della credibilità. Il suo contributo a questa scienza vanta più di 300 tra articoli e manuali con oggetto la comunicazione verbale (parlata e scritta) e non verbale applicata alla lie detection. Consulente per le forze dell’ordine nella conduzione degli interrogatori di testimoni e sospettati, viene invitato in tutto il mondo a congressi e workshop quale massimo esperto in materia, ed è editore della rivista scientifica forense ‘Legal and Criminological Psychology‘.

Nei suoi studi (Vrij, 2008) viene approfondita l’analisi scientifica della comunicazione verbale e non verbale, dimostrando quali siano le relazioni con la valutazione della credibilità. Il principio basilare da cui nascono tutte queste ricerche è quello di allontanarsi dal pregiudizio secondo cui mentire sia sbagliato. L’inganno e la menzogna sono concetti sorprendentemente complicati da definire. Filosofi, sociologi, scienziati cognitivi e numerosi altri studiosi per secoli hanno cercato di chiarirne la natura. Alcuni lo definiscono un fenomeno psicopatologico, una deviazione dalla vera natura di quello che viene considerato un comportamento intelligente, altri semplicemente forma (comportamentale) indispensabile per la sopravvivenza dell’essere umano (Happel, 2005). In generale può essere considerato un atteggiamento machiavellico atto a manipolare le interazioni sociali, indistintamente usato da tutte le categorie, a prescindere dal genere, dall’età, dal mestiere: l’essere umano mente in quanto è nella sua natura farlo, che sia un professore, un killer, un prete, una casalinga, un aborigeno, un astronauta. Nella vita di ogni giorno infatti, la maggior parte delle bugie sono white lies, ovvero bugie a fin di bene, che talvolta possono portare più benefici che problemi, utilizzate quali lubrificante sociale.

Vengono sfatati diversi miti, primo tra cui quello che coloro che dovrebbero essere considerati esperti (es., poliziotti), hanno le stesse probabilità di scovare un bugiardo di una persona non esperta, ovvero il 50%, quindi come lanciare una monetina (Mann e colleghi, 2004). La sola categoria che raggiunge un livello superiore alla media è quella degli agenti segreti. E no, l’orientamento dello sguardo a destra piuttosto che a sinistra (come nel film ‘La regola del sospetto’ di Roger Donaldson) non ha correlazione alcuna con le dichiarazioni più o meno mendaci (Vrij & Lochun, 1997).

Oltremodo, in alcuni Paesi (es., Inghilterra, USA, Israele) vengono utilizzati diversi strumenti considerati utili ai fini del detecting deception (es., Behaviour Analysis Interview; Statement Validity Assessment, SVA; Criteria-Based Content Analysis, CBCA; Reality Monitoring; Voice Stress Analysis, VSA; Thermal Imaging; EEG-P300; Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI; Poligrafo, anche detto Macchina della Verità), ma quasi nessuno di questi potrà essere considerato un vero e proprio naso di pinocchio, anzi. Non esistono singoli segnali verbali e non verbali, singoli comportamenti, che indichino al 100% che una persona stia mentendo (Zuckerman e colleghi, 1981), di conseguenza per rilevare la menzogna non ci si può basare su un solo indizio ma è necessario averne diversi.

Così come diversi sono i modi di mentire di ogni essere umano, e diverso sarà ogni volta il suo grado di motivazione (DePaulo e colleghi, 2003). Anche mentire a se stessi viene considerato un modo per ingannare qualcuno, o in altre parole, proteggere la propria autostima. Questi e tanti altri aspetti sono sempre da considerare nelle fasi dell’analisi della menzogna, come per esempio la differenza di genere, gli uomini sono inclini alle menzogne self-oriented, concentrate verso se stessi, mentre le donne a quelle other-oriented, concentrate verso gli altri (DePaulo & Bell, 1996). Dovremmo tenere in considerazione l’età (es., già da neonati, Reddy, 2007), la personalità (es., Weiss & Feldman, 2006, sostengono che gli estroversi sono più bugiardi degli introversi), i trascorsi traumatici: i carcerati, così come coloro che da piccoli hanno subito abusi sessuali sono migliori lie detectors (smascheratori di bugie) di coloro che non hanno subito alcun abuso (Bugental e colleghi, 2001). Comprendere il comportamento umano significa considerare le pressioni ambientali che lo influenzano, pressioni situazionali, cultura, fede religiosa e stato d’animo momentaneo, evitando quindi di commettere il cosiddetto errore fondamentale di attribuzione, e orientando la nostra salienza percettiva non solo verso la persona ma anche verso la situazione circostante (Aronson e colleghi, 2010).

I tempi sono importanti. Le bugie spontanee sono precedute da lunghi periodi di latenza rispetto alle verità spontanee, mentre le bugie pianificate hanno periodi di latenza di gran lunga superiori a quelli delle verità pianificate (DePaulo e colleghi, 2003). Tuttavia, i bugiardi manifestano maggiori momenti di esitazione quando la bugia da raccontare incontra un alto sforzo cognitivo rispetto a quando la menzogna da dire risulta semplice nell’elaborazione (Vrij & Heaven, 1999). Le reazioni verbali e non verbali possono presentarsi in anticipo o in ritardo rispetto all’avvenimento causante la reazione della persona, così come l’esatta collocazione di un’espressione (facciale o gestuale) rispetto al flusso del discorso. Un pugno sbattuto sul tavolo accompagnato dall’espressione ‘Non ne posso più!’ sarà probabilmente falsa se l’espressione verbale e quella del viso avverranno successivamente a quella del gesto.

L’intelligenza è importante. Ci sono evidenze che suggeriscono che preparare con cura una bugia non è poi più di tanto utile negli individui poco furbi (Ekman & Frank, 1993).

Le espressioni sono importanti. Ekman e colleghi (1998), hanno scoperto che i sorrisi sinceri sono più espressi in chi dice la verità, mentre chi mente utilizza più sorrisi finti, che questi ultimi sono più asimmetrici (Rinn, 1984), e che chi dice la verità tende a mostrare più illustratori (Friesen e colleghi, 1979): semplici azioni manuali come versare un caffè saranno più complicate se allo stesso momento si sta costruendo una menzogna, di conseguenza si tenderà a parlare interrompendo manualmente l’eventuale movimento dedicato. Coloro che meglio esprimono le espressioni facciali di rabbia, gioia, tristezza, paura, sorpresa, e disgusto, appaiano più credibili di coloro che hanno inferiori capacità motorio espressive (Riggio & Friedman, 1983).

Le emozioni che prova una persona quando mente sono importanti. Quattro in particolare possono essere associate al comportamento ingannevole, ovvero la paura, l’eccitazione, il senso di colpa e la vergogna (DePaulo e colleghi, 2003). Chi mente può avere paura di essere scoperto, può eccitarsi all’idea di riuscire a fregare qualcuno, può sentirsi in colpa per aver cercato di ingannare il prossimo e addirittura arrivare a vergognarsi. Ma caduta almeno in parte la paura di essere smascherati, uno dei deterrenti della menzogna viene perduto definitivamente. Se un soggetto pensa di non ricavarne alcun vantaggio, o qualora si senta legittimato, mentendo non proverà nessun senso di colpa per la propria bugia. Anzi, talvolta una persona può provare il cosiddetto piacere della beffa, ovvero la soddisfazione di aver saputo giocare d’astuzia, parallela al godimento della sfida, la gioia di aver avuto la meglio su qualcuno, spesso riscontrabile attraverso il sorriso di disprezzo (Legiša, 2015).

La modalità in cui viene condotta un’intervista per valutare la credibilità è importante, anzi fondamentale. Determinate domande possono influenzare le risposte, con la tragica conseguenza che l’intervistatore si convince che il soggetto stia mentendo, a causa del nervosismo del soggetto e/o della risposta falsata dall’influenza della domanda (Vrij, 2006). Per non parlare di quanto sia facile cascare nell’inconscio pregiudizio di sospettare maggiormente di una persona se vestita con abiti scuri piuttosto che abiti chiari (Vrij & Akehurst, 1997), o quando è di brutto aspetto piuttosto che bell’aspetto, le persone più good looking vengono credute maggiormente (Bull, 2004).

Secondo Vrij tre sono le motivazioni principali per cui ci è difficile capire se uno mente: mancanza di motivazione nel voler capire se uno mente (es., nel rapporto di coppia); difficoltà tecniche associate allo smascheramento della menzogna; errori comuni che vengono commessi nell’identificare una presunta bugia, in primis l’Errore di Otello. Inoltre vanno tenute in considerazione alcune ulteriori cause che tendono a rendere complicato lo smascheramento delle bugie:

  • Spesso chi è bravo a mentire cercherà di farlo solo su un dettaglio fondamentale, tenendo nel resto della storia dettagli perfettamente attendibili;
  • Chi riesce a non provare emozioni quali paura o senso di colpa ha più probabilità di sembrare credibile;
  • Uso di euristiche da parte dell’interrogatore (es., sta mostrando nervosismo quindi è colpevole; è vestito con abiti neri e/o è brutto!);
  • Fiducia nell’utilizzo di strumenti senza validità scientifica che dimostri efficacia reale nella valutazione della credibilità (es., BAI, VSA, poligrafo).

Le parole sono importanti, anzi, secondo Vrij (2008) sono il metodo diagnostico più efficace per verificare un potenziale inganno e ci consiglia di procedere con un approccio cognitivo:

  • Imporre un sforzo cognitivo intenso, ovvero rendere l’intervista più impegnativa (es., contemporaneamente alle dichiarazioni fargli compilare un documento o fargli disegnare l’avvenimento: chi dice la verità include più dettagli spaziali, ha meno timore di commettere errori e di inserire testimoni (Vrij e colleghi, 2012);
  • Incoraggiare il soggetto a parlare di più;
  • Inserire domande che non si aspettano;
  • Fare la stessa domanda ma in maniera diversa;
  • Chiedere di raccontare in ordine cronologico degli eventi, per esempio quelli svolti nell’arco della giornata, e successivamente chiedergli di ripetere con la stessa precisione l’ordine cronologico contrario degli avvenimenti. Quando diciamo una bugia, basata su episodi astratti, è molto più complicato riportare esattamente un ordine cronologico inverso (Evans e colleghi, 2013; Vrij e colleghi, 2008);
  • Quando possibile, intervistare gruppi di persone mettendoli a confronto (Klein & Epley, 2015; Vernham e colleghi, 2014);
  • Quando possibile videoregistrare l’intervista codificando i segnali comunicativi (verbali e non verbali).

Vi siete mai chiesti quali emozioni provano Verità e Menzogna? E se potessero parlare tra loro, cosa si direbbero? Probabilmente si accuserebbero a vicenda di dire rispettivamente sempre l’una la verità e l’altra la menzogna, lamentandosi di non riuscire mai a capirne il motivo. Questa è la più grande difficoltà. Possiamo capire quando una persona mente, ma certe volte il perché è quello da comprendere e su cui concentrarsi.

Lavorare in sicurezza: una risorsa psicologica per l’analisi del bisogno formativo

Il fenomeno infortunistico è un problema prioritario per la salute dei lavoratori con ripercussioni notevoli sia a livello sociale che economico. Il problema è stato analizzato da più fronti e da diverse discipline, così come la psicologia, l’ergonomia, l’ingegneria e la medicina del lavoro.

Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 626/94 (legge sulla sicurezza) si è assistito ad una riconfigurazione delle modalità preventive, in termini di salute e sicurezza delle persone sul luogo di lavoro, cercando di abbandonare una politica riparatoria, orientandosi verso una modalità di intervento focalizzata su prevenzione ed informazione. Sotto questi auspici è stato introdotto il D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) che ha adeguato il corpus normativo all’evolversi della tecnica e del sistema di organizzazione del lavoro, oltre a consentire un maggior allineamento a quanto espresso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che da tempo considera la salute sul lavoro non solo come assenza di malattia fisica, ma anche come stato di benessere generale psico-fisico e ambientale, fortemente legato agli assetti e al clima organizzativo presente nei luoghi di lavoro.

Al di là degli aspetti normativi, sappiamo che i contributi nati all’interno della psicologia si sono dedicati soprattutto allo studio dei predittori psico-sociali dei comportamenti a rischio e/o degli infortuni sul lavoro. In letteratura, sono note diverse associazioni tra l’esperienza pregressa di infortunio e la compresenza di alcuni fenomeni psicologici, come l’aumento della percezione di pericolosità rispetto del rischio, la diminuzione della soddisfazione rispetto le misure di prevenzione adottate dall’organizzazione e l’aumento di stress lavorativo (Greening, 1997).

Ulteriori evidenze a tal proposito sono sopraggiunte approfondendo aspetti più legati alla cognizione, come l’hindsight bias (Kahneman, Slovic e Tversky, 1982), conosciuto anche come bias del senno di poi, che condiziona l’atteggiamento delle persone portandole a ragionare erroneamente che sarebbero state in grado di prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è ormai noto (e che il danno è stato fatto!). Considerando che l’obiettivo di quest’articolo è discutere l’assetto delle strategie preventive basate sulla formazione ed informazione, si rimanda il lettore alla riesamina di Serpe e Cavazza (2007) per un quadro maggiore sugli apporti psicologici che si verificano in rapporto ai fenomeni infortunistici.

La disquisizione di oggi vuole presentare una possibile alternativa, attuabile nell’erogazione della formazione in tema di sicurezza lavorativa, in particolare nella prima fase di questo processo, ovvero nell’analisi del fabbisogno formativo, processo in cui il formatore interviene con il fine di sviluppare capacità e competenza negli individui in riferimento al contesto operativo in cui operano, frapponendosi tra il soggetto committente e l’utente.

La definizione del fabbisogno formativo: problemi aperti

In linea con quanto realizzato sul piano legislativo, ad oggi in tema di sicurezza, sembra essere una prassi comune, quella di orientare la manovra preventiva verso la formazione ed informazione dei propri dipendenti, inerentemente ai rischi derivati dallo svolgimento delle proprie mansioni, con l’auspicio che l’aumento di consapevolezza condivisa, possa apportare miglioramenti significativi nelle condotte, assolvendo allo stesso tempo gli obblighi di legge vigenti. Questo ragionamento in realtà, non segue tale linearità, visto e considerato, che possiamo riconoscere almeno due situazioni comuni e trasversali a più realtà lavorative, che si frappongono a questa logica.

La prima si pone considerando che orientare un’azione formativa verso dei lavoratori, che possono non aver espressamente palesato la necessità di un intervento formativo, per una determinata tematica, come quella della sicurezza lavorativa (o in altri campi affini e strettamente connessi, come la gestione delle emozioni) diviene una questione che può generare abnormi difficoltà sia per li formatore, che si può veder diminuire l’efficacia a medio-lungo termine del suo intervento, sia rispetto l’appellante verso il quale quest’ultimo indirizza il suo servizio. Questa considerazione pone l’accento su come l’analisi dei fabbisogni costituisce necessariamente la prima fase del processo di formazione ed è preliminare alla progettazione stessa (Rosati, 2014), pertanto sottovalutare questa fase, può vanificare l’efficacia degli sforzi messi in atto.

Una seconda considerazione si erge osservando un esempio concreto e tangibile: si pensi ai classici corsi sulla movimentazione dei carichi pesanti, che addestrano il lavoratore a mantenere posture e movimenti conformi a salvaguardarsi da sforzi pericolosi. Questi corsi si espongono al rischio di essere percepiti dai lavoratori come belli ma inutilizzabili, soprattutto in quelle realtà operative dove manca sistematicamente il personale necessario per il trasporto di un carico (problema non infrequente) o nel caso di ambienti dove i ritmi uomo-macchina non sono controllabili, così come nelle catene di montaggio che spesso sono progettate senza una debita considerazione degli aspetti ergonomici.

Lo scenario appena descritto vuole essere una dimostrazione piuttosto rapida ed esemplificativa, poiché vi sono altri fattori in grado di impattare negativamente in una performance di sicurezza e in tal senso, un ruolo cruciale sembra essere l’assenza di una cultura aziendale improntata alla tutela di questi aspetti (Cox e Flin, 1998).

Allineandomi a quanto espresso nel MOAFF (Modello Operativo di Analisi dei Fabbisogni Formativi), ritengo sia cruciale avvertire che la problematica dell’analisi dei fabbisogni formativi ha assunto oggi un posto fondamentale. La sua pertinenza e qualità possono avere esiti decisivi (in positivo o in negativo) nella vita delle persone e delle loro organizzazioni di riferimento.

Viste e considerate queste criticità, rilevo come possa essere un opportuno riferimento, quello di indirizzarsi ad una proposta alternativa, che possa potenziare le primissime fasi dell’ analisi del fabbisogno formativo del personale, favorendo l’emergere di quella parte del fabbisogno definito latente, orientando in tal modo l’erogazione dell’intervento in maniera rapida e personalizzata rispetto alle esigenze dei beneficiari della formazione con plurimo beneficio (ovvero per i formatori, per i dipendenti e per l’azienda).

La matrice di svalutazione

Mi vorrei soffermare su un particolare modello derivato dell’Analisi Transazionale, teoria psicologica nata dal pensiero di Eric Berne che gode di una notevole applicabilità, per contesti educativi ed organizzativi di diverso tipo (Steward e Joines, 2005). Mi riferisco alla Matrice della svalutazione, uno strumento elaborato dal pensiero di Mellor e Schiff (1975) consistente in una matrice avente come colonne le sezioni ‘Stimoli’, ‘Problemi’, ‘Opzioni’ e nelle righe ‘Esistenza’, ‘Importanza’, ‘Possibilità di cambiamento’, ‘Capacità personali di cambiamento’, così illustrato nella Fig.1.

L’intera matrice adopera il concetto di Svalutazione per indicare che in un dato momento stiamo trascurando l’accadimento di qualcosa, identificabile dall’incrocio tra riga e colonna. Ci sono tre aree nelle quali una persona può svalutare: se stessa, gli altri e la situazione.

 

Lavorare in sicurezza: una risorsa psicologica per l’analisi del bisogno formativo_TABELLA

Fig.1: Rielaborazione personale della matrice di svalutazione

Modalità di lettura della Matrice di Svalutazione

Procedendo secondo l’ordine prestabilito dagli autori (investigando dapprima dall’Esistenza degli Stimoli, T1), si può scoprire in quale area avviene la Svalutazione. Solo una volta che la Svalutazione è correttamente identificata, si può procedere per rimuoverla. Prima di procedere ad alcuni esempi illustrativi, preciso le due basilari regole che ne regolano la lettura:

  • Lettura per diagonali: le diagonali guidano il senso di lettura, indicando che la presenza di una svalutazione comporterà sempre l’altra, quindi lungo gli assi T1, T2, T3, T4, T5 e T6. Ad esempio una svalutazione nella diagonale T2 corrisponde alla svalutazione dei Problemi e dell’Importanza degli stimoli;
  • Chi svaluta lungo una qualsiasi diagonale svaluterà anche in tutte le caselle al di sotto e alla sua destra;

La matrice oltretutto è impostata per suggerire una procedura d’intervento, ovvero un itinerario di analisi sistematica utile a monitorare il processo volto alla soluzione di un problema. Essa viene esaminata cominciando dalle caselle poste più in alto finché non si individua il punto dal quale ha inizio la svalutazione. Una volta trovato, quello rappresenta il punto su cui occorre soffermarsi, acquisendo dalla persona le informazioni ignorate, sostituendo la consapevolezza alla svalutazione.

Esempio

Immaginiamo di essere degli educatori impegnati in un intervento educativo in aula con diversi alunni. Verso fine lezione facciamo delle domande per accertarci se il contenuto sia stato appreso, ma riscontriamo con rammarico che quasi nessuno è in grado di ricostruire qualcosa. A questo punto potremmo pensare di avere a che fare con studenti con poco motivati e che questo possa aver inciso notevolmente sull’esito finale. Ipotizzando questo scenario, stiamo agendo una svalutazione nell’area degli ‘Altri’ sulla diagonale T5 o T6 della matrice. Se invece affrontassimo il problema da una diagonale più alta, ci accorgeremmo che il microfono non funzionava correttamente e che il problema è che quando abbiamo parlato non si è potuto sentire molto. Il problema è situato nella diagonale T2 e per la sua risoluzione è sufficiente cambiare microfono.

Come intervenire

Il percorso di lettura della matrice di svalutazione suggerito da Schiff, permette ogniqualvolta si ha a che fare con un problema non risolto, di individuare quale informazione è omessa per la sua risoluzione. Seguendo la modalità di lettura proposta, possiamo agire su più tematiche, generando nell’utente quella presa di coscienza necessaria per la messa appunto di future scelte, ottenendo in cambio una restituzione di quelle che sono le maggiori resistenze sulle quali operare attraverso diverse tecniche, come la sensibilizzazione.

La strategia migliore da mettere in atto, per applicare questo strumento all’attenta analisi del fabbisogno formativo nascosto, è quella di chiedere più informazioni ai fruitori dell’intervento riguardo il contenuto della proposta formativa, approfondendo le sue convinzioni personali rispetto la problematica (area della situazione) e rispetto ai suoi comportamenti (area se stessi), esaminando da quale diagonale la persona ci sta rispondendo con una svalutazione. Dato che non possiamo disporre in anteprima questa informazione, la buona prassi è quella di iniziare a verificare sempre dall’angolo in alto della matrice e verso il basso lungo le diagonali.

Meglio intervenire sempre dalla diagonale più alta, perché focalizzare la ricerca in una diagonale troppo bassa a pelle (così come riportato nell’esempio), potrebbe portare il soggetto a svalutare successivamente il nostro stesso intervento, poichè rischierebbe di non ancorarsi al suo sistema di credenze e di elaborazione delle informazioni, ricascando nel terreno poco fertile degli interventi belli ma impraticabili.

Un’ultima considerazione da tenere a mente è di ricordarsi che una persona non sempre attua una svalutazione, ma può rimanere bloccata in un particolare comportamento, semplicemente perché è male informata a riguardo e quindi poco consapevole del ventaglio delle le alternative possibili.

Conclusione

L’analisi dei fabbisogni formativi va considerata alla stregua di una ricerca sociale in senso stretto, in cui l’uso dei consueti strumenti di analisi a scatola chiusa come i questionari, rischia di essere fuorviante. In virtù del fatto che tali fabbisogni non sono sempre esplicitati, come ricordato nelle battute precedenti, rimane la necessità di portarli comunque a coscienza. La matrice di svalutazione è uno strumento semplice e potente che grazie uno schema di domande ad incrocio, ci guida alla comprensione dei processi e delle resistenze in atto che devono essere debitamente considerate se il nostro intento è dirigere il comportamento altrui verso altri scenari, seppure questa esplicitazione ha luogo all’interno di un più ampio e complesso quadro di negoziazione tra attori adulti.

Work Engagement, burnout e workaholism: quali differenze per i lavoratori?

Valentina Costanzo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Il termine engagement viene utilizzato per designare il benessere del lavoratore in contrapposizione alla situazione di malessere lavorativo definito come burnout (Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001). Il lavoratore prova uno stretto legame affettivo nei confronti delle sue attività lavorative e si sente capace di occuparsi delle richieste del suo lavoro.

Esistono due diversi approcci che considerano il work-engagement come positivo, legato al benessere e alla soddisfazione.
Il primo, proposto da Maslach and Leiter (1997), ritiene che l’engagement sia caratterizzato da energia, coinvolgimento ed efficacia, ossia da dimensioni esattamente opposte alle tre dimensioni del burnout, rispettivamente sfinimento, cinismo e inefficacia. Il secondo proposto da Schaufeli, Salanova, Gonzalez-Roma & Bakker sostiene che il work engagement sia una dimensione indipendente, un concetto distinto legato negativamente al burnout, e che sia caratterizzato da vigore, assorbimento e dedizione. Lo sfinimento e il vigore sono ai poli opposti del continuum dell’energia, mentre tra il cinismo e la dedizione c’è l’identificazione (Gonzalez-Roma, Schaufeli, Bakker, & Lloret, 2006).

Il work engagement, quindi, è caratterizzato da un alto livello di energia e da una forte identificazione nel proprio lavoro, mentre il burnout è esattamente l’opposto: poca energia e un basso livello di identificazione. L’assorbimento costituisce la terza dimensione dell’engagement.

Kahn (1990) utilizza un approccio diverso e descrive l’engagement come [blockquote style=”1″]un legame dei membri dell’organizzazione ai loro ruoli lavorativi: con l’engagement, le persone si impegnano fisicamente, cognitivamente, emotivamente e mentalmente durante le performance lavorative[/blockquote] (p. 694).

Di conseguenza, i lavoratori si sforzano di più a lavoro perché ci si identificano. Secondo Kahn esiste una relazione dinamica e dialettica tra coloro che investono le loro energie personali (fisiche, cognitive, emotive e mentali) nel proprio lavoro ed il ruolo lavorativo che consente alle persone di esprimersi. Kahn (1992) differenzia il concetto di engagement dalla presenza psicologica o dall’esperienza del “sentirsi pienamente lì”, ossia quando [blockquote style=”1″]le persone sentono di essere attente, collegate, integrate e focalizzate nel loro ruolo[/blockquote] (p.322).

L’engagement come comportamento (guidare l’energia verso il proprio ruolo lavorativo) è considerato una manifestazione di presenza psicologica, un particolare stato mentale. In questo modo l’engagement è ritenuto capace di produrre risultati positivi sia a livello individuale (crescita personale ed evoluzione) sia a livello dell’organizzazione (qualità della performance).
Ispirato dal lavoro di Kahn, Rothbard (2001) definisce l’engagement come [blockquote style=”1″]un costrutto a due dimensioni motivazionali che include attenzione (…la disponibilità cognitiva e la quantità di tempo che trascorre pensando al ruolo) e l’assorbimento (l’intensità della propria attenzione al ruolo”)[/blockquote] (p.656).

E’ importante notare che il riferimento fondamentale per Kahn (1990, 1992) è il ruolo lavorativo, mentre per coloro che considerano l’engagement come l’antitesi del burnout è l’attività lavorativa o il lavoro in sé.
Macey and Schneider (2008) hanno provato a risolvere la confusione concettuale proponendo con il termine work-engagement un insieme di diversi tipi di engagement (come caratteristica, come stato o come comportamento), ognuno dei quali comporta diverse concettualizzazioni; una personalità proattiva (engagement come caratteristica), il coinvolgimento (engagement come stato), comportamento di cittadinanza organizzativa (engagement comportamentale).

Nonostante ci siano molte definizioni utilizzate per definire l’engagement, tutti gli studiosi concordano sul fatto che indichi alti livelli di energia e una profonda identificazione col proprio lavoro.

Nell’ambito della ricerca, la definizione più utilizzata è quella di Schaufeli, Salanova, González-Romá & Bakker (2002) che definiscono l’engagement come uno stato psicologico positivo, appagante, di legame con il lavoro caratterizzato da:
– vigore, ovvero alti livelli di energia e di resilienza durante il lavoro, la disponibilità nell’investirvi tutte le proprie forze e la perseveranza dinanzi le difficoltà;
– dedizione, un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida;
– assorbimento, l’essere pienamente concentrati e assorti nel proprio lavoro, attraverso il quale il tempo scorre velocemente e si ha difficoltà nel distaccarsi dal lavoro. L’essere assorbiti è vicino a ciò che può essere definito “flusso” (Csikszentmihalyi, 1990), uno stato ottimale, sebbene duri poco a differenza di uno stato mentale più pervasivo e persistente, come il caso dell’assorbimento.

Alcune ricerche si sono focalizzate sulla relazione tra engagement e altri costrutti psicologici (ad esempio il workaholism o l’organizational commitment) e sui predittori più importanti dell’engagement.

Quali differenze ci sono tra l’engagement e il workaholism?

Gli studi hanno dimostrato che l’engagement è differente dallo stato di dipendenza tipico del workaholism, poiché i lavoratori non si sentono in colpa se non lavorano, hanno interessi al di fuori dell’attività lavorativa e lavorano duramente perché provano piacere nel farlo.

Il termine engagement non designa l’aver bisogno di lavorare per lunghe ore o sentire un bisogno incontrollato di lavorare: i lavoratori con un buon livello di engagement non trascurano la loro vita privata, anzi, trascorrono il loro tempo socializzando, coltivando hobbies e attività di volontariato.
Il work engagement, quindi, è un unico concetto che ha come predittori più importanti le risorse lavorative (autonomia, sorveglianza, coaching, performance-feedback) e personali (ottimismo, self-efficacy, autostima), mentre non è legato alle richieste lavorative (Schaufeli and Bakker, 2004).
La letteratura evidenzia che il lavoro influenza lo stato affettivo e il benessere delle persone, infatti coloro che hanno dei fattori stressanti a lavoro reagiscono a breve termine con sentimenti negativi (Gryzwacz, Almeida, Neupert & Ettner, 2004; Zohar, Tzischinski & Epstein, 2003) e a lungo termine con un danno sul benessere (De Lange, Taris, Kompier, Houtman & Bongers, 2003).

Il work engagement è legato positivamente con sentimenti positivi e negativamente con sentimenti negativi nel fine settimana. Persone che godono di un buon livello di engagement a lavoro dovrebbero quindi avere più esperienze positive, le quali, insieme agli eventi piacevoli, favoriscono sentimenti positivi (Gable, Reis & Elliot, 2000; Kanner, Coyne, Schaefer & Lazarus, 1981). Inoltre, lavoratori con alti livelli di engagement sono più attivi (Hakanen, Perhoniemi & Toppinen-Tammer, 2008; Salanova & Schaufeli, 2008) e ciò implica che si sforzano a migliorare il metodo di lavoro che riduce gli effetti negativi perché ci sono meno motivi per generarli. Il lavoratore che si sente “legato”, dunque, dovrebbe essere assorbito dal lavoro e meno distratto dagli eventi negativi (i conflitti ad esempio) che si possono verificare sul posto di lavoro. Di conseguenza, i lavoratori con alto livello di engagement non provano piacere nel concentrarsi sugli eventi negativi e quindi il loro livello di sentimenti negativi rimane basso, mentre provano piacere nel terminare i loro compiti e nel lavorare bene e questo incoraggia i sentimenti positivi e riduce i sentimenti negativi.

Gli studi hanno dimostrato che il work engagement è legato negativamente a sintomi fisici e ad altre manifestazioni di malessere.
C’è da specificare, però, che avere alti livelli di work-engagement non implica che il lavoro di per sé sia un’esperienza più piacevole e che gli scontri sono meno stressanti.

Rispetto alla relazione tra l’engagement e lo stress, c’è un’evidenza empirica sul fatto che le persone con alto engagement sono più colpite da fattori stressanti ed esperienze negative che possono verificarsi a lavoro (Britt et al., 2005), probabilmente perché questi lavoratori percepiscono ogni evento lavorativo come molto importante e perché l’assorbimento totale nel proprio lavoro implica anche l’essere assorbiti di più nelle situazioni stressanti. E’ per questo che per questo tipo di lavoratori è importante un distacco psicologico nei momenti in cui non lavorano. Quando il distacco non avviene, c’è un’alta probabilità che le situazioni stressanti sul posto di lavoro riversino le loro conseguenze negative anche durante le ore non lavorative e, di conseguenza, le sensazioni negative aumentano e quelle positive diminuiscono: in questi casi il lavoratore con alto engagement è a rischio di workaholism.

L’engagement a lavoro e le esperienze positive associate come il vigore o l’assorbimento non implicano che il lavoro sia agevole (Macey & Schneider, 2008). Il work-engagement potrebbe costituire una perdita di risorse affettive e cognitive. Per evitare che la perdita delle risorse continui durante le ore non lavorative e che ci si trovi in uno stato affettivo povero, distaccarsi durante le ore non lavorative è fondamentale. Dato che l’engagement causa alti livelli di attivazione positiva (il vigore ad esempio), questo livello di attivazione probabilmente è così alto anche quando si rientra a casa dopo il lavoro. Quando i lavoratori continuano a pensare agli affari legati al lavoro o continuano ancora con le attività lavorative (e quindi non hanno un distacco psicologico) la loro attivazione rimane alta. Questo può arrecare conseguenze sulla qualità del sonno, l’addormentarsi tardi e la difficoltà nel rilassarsi (Brosschot, Pieper, & Thayer, 2005; van Hooff, Geurts, Kompier & Taris, 2006). Per ridurre questo alto livello di attivazione nelle ore non lavorative è importante distaccarsi mentalmente dai pensieri e dalle attività legate al lavoro. Al contrario, per quei lavoratori che sono legati negativamente a causa delle esperienze spiacevoli a lavoro, il distacco psicologico nelle ore non lavorative non fa differenza: sono meno assorbiti nel lavoro e nelle attività lavorative perciò hanno bisogno di un minore distacco mentale.

Quali sono le caratteristiche dei lavoratori con workaholism?

I lavoratori con workaholism trascorrono gran parte del loro tempo in attività lavorative, lavorano eccessivamente, sono riluttanti nel non farlo e quando non lavorano ci pensano in maniera persistente e frequente.

Sono lavoratori ossessivi e compulsivi (Schaufeli, Taris & Bakker, 2006; Scott, Moore, & Miceli, 1997). Hanno “bisogno” di lavorare a scapito della loro felicità, delle loro relazioni interpersonali e del loro funzionamento sociale. Al contrario, i lavoratori con work-engagement sono felici di lavorare, non è una questione di bisogno, ma trascorrono le ore lavorative impegnandosi con vigore senza rinunciare alle altre attività nel tempo libero e, di conseguenza, non risultano essere lavoratori infelici.

Nel work-engagement sono fondamentali le risorse lavorative: il supporto dei colleghi e dei supervisori, i feedback, la varietà di abilità, l’autonomia e le opportunità (Bakker & Demerouti, 2008; Halbesleben; Schaufeli & Salanova, 2007). Per risorse lavorative si intendono gli aspetti fisici, sociali e organizzativi come ad esempio: diminuire le richieste lavorative e i sacrifici fisiologici e psicologici associati; essere stimolati nel raggiungimento degli obiettivi; stimolare la crescita, l’apprendimento e il progresso della persona (Bakker & Demerouti, 2007; Schaufeli & Bakker, 2004). Le risorse lavorative, quindi, agiscono sia sulla motivazione intrinseca incrementando la crescita, l’apprendimento e il progresso, sia sulla motivazione estrinseca con il raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Soddisfano i bisogni degli individui di autonomia, competenza e di relazione (Deci & Ryan, 1985; Ryan & Frederick, 1997; Van den Broeck, Vansteenkiste, De Witte, & Lens, 2008). Gli ambienti lavorativi che offrono risorse sollecitano i lavoratori a dedicarsi al proprio lavoro poiché è piacevole dedicarsi ai compiti che vengono svolti con successo e agli obiettivi che vengono raggiunti.

Shyness vs. Social Anxiety Disorder – Dal Forum di Formazione in Psicoterapia di Assisi 2015

Shyness vs. Social Anxiety Disorder

Benjamin Gallinaro, Francesca Fiore

Introduzione

Timidezza e Disturbo d’Ansia Sociale (conosciuto anche come Fobia Sociale) sono due condizioni di “discomfort sociale”, la prima frequente e non clinicamente rilevante, la seconda appartenente alla più ampia categoria dei disturbi d’ansia.
Secondo molti autori entrambe le condizioni si collocano lungo un continuum a intensità crescente e sono connotate da emozioni di imbarazzo e vergogna che si manifestano in contesti interpersonali. Non sempre tali condizioni risultano immediatamente distinguibili. Per poter intervenire in maniera efficace e adeguata su entrambe, occorre riuscire a differenziarle con maggior precisione. In tal senso appare importante individuare le credenze centrali e i fattori di mantenimento che le caratterizzano.

Obiettivo

Questo lavoro di ricerca si propone di indagare quali credenze cognitive razionali e irrazionali, basate sulla teoria della REBT e quali processi (perfezionismo, criticismo, rimuginio, ruminazione) e credenze metacognitive sono alla base del costrutto della timidezza (shyness). Oltre a ciò lo studio si propone di individuare gli elementi di differenziazione rispetto alle credenze che sottendono il Disturbo d’Ansia.

Metodo

Per individuare le credenze centrali legati alla Timidezza è stato condotto uno studio su un campione di popolazione normale utilizzando una batteria di test composta da:

Attitudes and Belief Scale (ABS-R II),

Perfectionism Scale,

Perceived Criticism Inventory,

Penn State Worry Questionnaire (PSWQ),

Ruminative Response Scale (RRS),

Metacognitions Questionnaire 30 (MCQ-30),

Anxiety Control Questionnaire (ACQ– SC),

State Trait Anxiety Inventory (STAI-I),

Beck Depression Inventory (BDI).

Risultati e conclusioni

I risultati dello studio mettono in evidenza che le variabili determinanti della timidezza sono principalmente tre: l’ansia, il controllo e la catastrofizzazione.
Secondo la letteratura, tali componenti sarebbero comuni anche al disturbo d’Ansia Sociale, nel quale, tuttavia, si presentano con modalità maggiormente pervasive, radicate e specificamente legate alla dimensione dello scarso valore personale percepito in contesti di performance e di interazione sociale.

 

Depressione Maggiore: la centralità dei sintomi nella definizione di un quadro completo della patologia

Come si fa a sapere se qualcuno soffre di Depressione Maggiore? Il DSM-5 basa la diagnosi di questo disturbo sulla presenza o meno di determinati sintomi, i quali vengono indagati dalle diverse figure professionali tramite numerosi strumenti di valutazione. Spesso però i sintomi indagati dai vari strumenti non corrispondono a quelli definiti dal DSM-5 e la diagnosi viene effettuata quando il soggetto mostra di possedere un certo numero di caratteristiche, senza dare particolare importanza al peso e alla centralità che queste potrebbero giocare all’ interno della patologia.

Secondo il Dottor Fried: [blockquote style=”1″]La depressione è un sistema complesso, estremamente eterogeneo di interazione tra sintomi. E alcuni di questi sintomi possono essere molto più importanti di altri.[/blockquote]

Pertanto il Dottor Fried e i suoi colleghi si sono impegnati ad indagare due questioni molto rilevanti che caratterizzano la formulazione della diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore: quali sono i sintomi con maggior centralità e peso nella Depressione Maggiore e quali sintomi risultano maggiormente centrali tra quelli proposti dal DSM-5 e quelli non proposti dal DSM come l’ansia e l’irritabilità.

Gli autori hanno quindi costruito un network di 28 sintomi, i quali sono stati indagati e valutati attraverso l’Inventory of Depressive Symptomatology (IDS-30) in 3463 pazienti con diagnosi di Depressione Maggiore non psicotica, i quali facevano parte del Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression (STAR*D). Di questi 28 sintomi è stata inoltre stimata la centralità, effettuando un confronto tra i sintomi determinati dal DSM-5 e non. Per centralità si intende il sintomo che maggiormente riflette la connessione esistente tra esso e tutti gli altri sintomi presenti.

Ciò che è emerso, è che i sintomi definiti dal DSM-5 e non, nel complesso, possiedono la stessa centralità, ma che tra i sintomi nella loro singolarità vi è una differenza ben visibile. Questo significa che i sintomi presenti nel DSM-5 non sono migliori dei sintomi non-DSM, ma che i singoli sintomi possono detenere un significato clinico specifico. Osservando nello specifico, tra i sintomi definiti dal DSM-5, quelli che rivelano una minor centralità, sono l’ipersonnia e l’agitazione psicomotoria. Tra i sintomi, invece, più centrali troviamo l’anedonia e l’umore triste, i quali talvolta risultano maggiormente predittivi dell’intera somma dei sintomi di Depressione Maggiore. L’eccitazione simpatica (ad es. palpitazioni, tremori, visione offuscata e sudorazione) è risultato il sintomo più centrale tra quelli non appartenenti al DSM, seguito dai disturbi somatici (ad es. pesantezza degli arti, dolore e mal di testa), problemi gastrointestinali, panico e fobia.

Per quanto i risultati ottenuti siano notevolmente utili ed interessanti, è importante far presente che questi sono condizionati da un grosso limite. La maggior parte dei partecipanti non presentavano solo una diagnosi di Depressione Maggiore, ma anche diagnosi di comorbilità, che potrebbero aver influenzato il ruolo dei singoli sintomi indagati. Detto ciò, bisogna però ricordare che la diagnosi di comorbilità è estremamente diffusa nel Disturbo Depressivo Maggiore, e pertanto questo potrebbe essere anche un punto di forza per quanto riguarda la diffusione dei dati.

In conclusione, la misurazione della centralità dei sintomi, è in grado di fornire nuove intuizioni ed informazioni relative allo specifico significato dei sintomi di Depressione Maggiore. Queste intuizioni hanno inoltre importanti implicazioni cliniche, in quanto suggeriscono nuovi approcci che possono portare ad una previsione migliore di quella che sarà la patologia. Quindi sarà possibile prevedere in anticipo aspetti come il decorso della malattia, la probabilità di recidività e la risposta al trattamento.

La metacognizione come predittore di ruminazione rabbiosa e esperienza di rabbia: uno studio prospettico – Forum di Assisi 2015

La metacognizione come predittore di ruminazione rabbiosa e esperienza di rabbia: uno studio prospettico

Offredi, A. (relatrice), Caselli, G., Spada, M.A., Wells, A., Ruggiero, G.M. & Sassaroli, S.

Lo studio presentato ha indagato le credenze metacognitive relative alla ruminazione rabbiosa, collocandosi nel filone di ricerca che analizza l’influenza di processi cognitivi sull’attivazione emotiva.

In linea con la teoria di Wells, le metacredenze hanno un ruolo nel mantenimento dello stile di pensiero disfunzionale. L’ipotesi iniziale sosteneva che le convinzioni metacognitive predicessero la probabilità di riportare alti livelli di rabbia e ruminazione, al netto del numero di episodi di rabbia vissuti. Lo studio è stato condotto utilizzando un disegno longitudinale cross-lagged.

Ai partecipanti è stato chiesto di compilare un monitoraggio giornaliero relativo a episodi di rabbia, rabbia esperita, ruminazione e metacredenze. Queste ultime erano suddivise in credenze positive, negative e bisogno di controllo, sulla base dei lavori di Wells sulle metacredenze del rimuginio. I risultati ottenuti dimostrano che le credenze positive e negative sulla ruminazione rabbiosa predicono la rabbia nei giorni successivi, mentre la ruminazione viene predetta dalle credenze negative riguardo l’anger rumination stessa. Lo studio ha condotto a nuove conoscenze dei processi metacognitivi della ruminazione rabbiosa , offrendo spunti di riflessione su quale debba essere il core del trattamento di pazienti che applicano l’anger rumination come strategia di regolazione emotiva.

cancel