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Alessitimia e psicopatologia: un’analisi evolutiva – L’alessitimia in età evolutiva

Artoni Grazia, Atti Martina, Giaroli Enrica e Paterlini Susanna – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Nel bambino, come nell’adulto, l’alessitimia rappresenta una difficoltà a sentire e modulare i propri sentimenti, a parlare e pensare su affetti ed emozioni proprie ed altrui. I bambini, come gli adolescenti e gli adulti alessitimici, hanno una relazione con sé e con il mondo esterno che esclude il riferimento agli stati emotivi.

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Il loro cogliersi nel mondo sembra riferito ad aspetti meramente descrittivi e tangibili (come il vissuto corporeo) e quando tentano di immaginare qualcosa al di là dell’osservabile il loro vissuto perde vividezza.

In età evolutiva, però, a fronte di una grande quantità di studi che ribadiscono la centralità della crescita emotiva nel normale sviluppo psichico di una persona, si osserva un ridotto numero di ricerche che abbiano come oggetto di studio l’alessitimia. Ciò può essere dovuto anche alla mancanza fino a tempi recenti di strumenti psicometrici per la valutazione del costrutto in questa fascia d’età.

Rieffe et al. (2006) hanno validato l’Alessitimia Questionnaire for Children (AQC), una versione semplificata della 20-Item Toronto Alessitimia Scale per adulti (TAS-20), su un campione di bambini di 9-14 anni. Il questionario mantiene i 20 items della scala per adulti ricalcando gli stessi contenuti ma con un riadattamento linguistico che ne facilita la comprensione ai bambini. La scala presenta buone caratteristiche psicometriche ed una struttura a 3 fattori che riprende quella della TAS-20 (Difficoltà a Identificare i Sentimenti, DIS; Difficoltà ad Esprimere i Sentimenti, DDS; Pensiero Orientato all’Esterno, POE).

Prima di loro Fukunishi et al. (1998) avevano sviluppato in Giappone una Scala di Alessitimia Bambino/Insegnante, basata cioè su una valutazione del bambino da parte degli insegnanti. L’analisi fattoriale ha portato a mantenere 12 item che saturano due fattori: Difficoltà a descrivere i sentimenti e Difficoltà nel rapportarsi con gli altri. La scala ha inoltre mostrato una correlazione con i punteggi di depressione, carenza di cooperazione, dominanza (correlazione negativa) e estroversione sociale (correlazione negativa).

Recentemente Di Trani et al. (2009) hanno sviluppato una versione italiana del Questionario per l’Alessitimia in età evolutiva proposto da Rieffe e collaboratori (2006) e ne hanno testato la struttura fattoriale e l’attendibilità. Scopo degli autori era anche quello di indagare la struttura fattoriale del questionario assumendo che l’alessitimia possa presentare in età evolutiva caratteristiche diverse da quelle riscontrabili in età adulta. Il questionario italiano mantiene, come la scala originaria, 20 item con tre alternative di risposta (per niente vero, un po’ vero, vero). E’ stato utilizzato un campione di 576 bambini di età compresa tra gli 8 e i 14 anni suddivisi in due fasce d’età (8-10 e 11-14 anni) secondo il criterio cronologico genericamente utilizzato per definire il passaggio dall’età infantile alla prima fase dell’adolescenza. L’analisi dei dati raccolti ha permesso di evidenziare la presenza di quattro fattori di cui tre si sovrappongono a quella della versione per adulti (Difficoltà ad identificare i sentimenti, DIS; Difficoltà a descrivere i sentimenti, DDS e Pensiero orientato all’esterno, POE), mentre si evidenzia la presenza di un nuovo fattore denominato dagli autori ‘Confusione delle sensazioni fisiche, CSFi, che include gli item che fanno riferimento al corpo e a come ci si sente dentro.

Le verifiche empiriche sembrano, quindi, confermare che la capacità di regolazione emotiva si esplichi, in età evolutiva, attraverso componenti relativamente diverse da quelle osservate per l’età adulta. Mentre gli aspetti di contatto ed espressione delle emozioni sembrano rimanere alla base del costrutto dell’alessitimia, l’analisi su campioni con diverse età permette di rilevare delle componenti specifiche. In questa ricerca, infatti, è stato possibile osservare la presenza di un fattore specifico, la Confusione sulle sensazioni fisiche, che pone l’attenzione sugli aspetti corporei dell’esperienza emotiva. Gli autori ipotizzano che, in questa fascia d’età, appaia di particolare importanza la considerazione delle percezioni corporee nella definizione del contatto con le emozioni. Per quanto riguarda i confronti rispetto al genere sessuale e le fasce d’età non si rilevano differenze tra maschi e femmine, mentre emerge che i bambini di fascia d’età 8-10 anni presentano punteggi mediamente più alti nella scala rispetto alla fascia 11-14. Secondo gli autori il dato, più che evidenziare caratteristiche alessitimiche in questa fascia d’età, sembra rappresentare la presenza di un percorso di sviluppo delle competenze emotive ancora non completamente realizzato.

Per bambini in età prescolare, nonostante siano presenti in letteratura diversi strumenti per valutare le competenze emotive, nessuno di essi si fonda sul concetto di alessitimia. Tali strumenti sono dei compiti in cui viene chiesto al bambino di riconoscere le emozioni, descriverle, raccontare storie su di esse ecc., non essendo possibile somministrare degli strumenti self-report.

Alessitimia e attaccamento: quale correlazione?

Per quanto riguarda l’alessitimia e i disturbi dello sviluppo emotivo è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento.

In linea con le osservazioni dell’Infant Research il costrutto dell’alessitimia è stato apparentato a quello di Regolazione Affettiva, funzione strettamente legata al rapporto con l’accudente che, specie nelle prime fasi di vita, interviene a regolare le emozioni del neonato e del lattante (Solano, Capozzi, De Gennaro et al., 2007).

Studi osservativi condotti su neonati nell’interazione con il caregiver principale (di solito la madre) hanno mostrato che nel bambino è rintracciabile, fin dai primi mesi di vita, capacità di espressione e comprensione delle emozioni che gli permettono di sintonizzare la propria comunicazione con quella della madre (Crugnola & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo – esperienziale delle emozioni di base e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia…) si sviluppano durante la prima infanzia. Le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nello sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello interpersonale che nelle relazioni con gli altri.

In questo sviluppo degli affetti, oltre alla crescita cognitiva, sono le prime relazioni a giocare un ruolo di grande importanza. Nella primissima infanzia la capacità di regolazione degli affetti è, infatti, facilitata dall’esperienza di condivisione e di rispecchiamento delle espressioni emotive con il caregiver primario e, in seguito, dalle interazioni giocose nelle quali si ha l’apprendimento della denominazione e dell’espressione dei sentimenti. La madre svolge quindi un fondamentale ruolo nel contenere, elaborare e interpretare gli stati affettivi del suo bambino offrendogli una risposta sintonica all’affetto che sta provando ed aiutandolo così a riconoscere i propri stati interiori come legittime forme di esperienza che possono essere condivise con altri. Laddove questa funzione di contenitore e di regolatore fallisce le emozioni del bambino rimangono a livello di percezioni e sensazioni, non riuscendo ad essere trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero (da qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici) (Taylor, 1997).

Anche le teorie della Crittenden hanno una rilevanza particolare per il costrutto di alessitimia in quanto forniscono una concettualizzazione interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento in cui il soggetto impara a regolare non solo il funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo (Fabbri, 20015). Grazie ad un legame di attaccamento sicuro, caratterizzato da un buona sintonizzazione e responsività del caregiver, il bambino impara a utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti e gli affetti per arricchire la cognizione.

Secondo Crittenden i problemi di inibizione o disregolazione affettiva nascono da stili di attaccamento insicuri, che si associano con modelli interni di rappresentazione caratterizzati da una mancata integrazione delle informazioni affettive e di quelle cognitive.

In particolare, il bambino con attaccamento insicuro evitante sperimenta una figura d’attaccamento che tende ad essere costantemente rifiutante e a ignorare o punire le richieste di conforto. Le informazioni causali e spazio-temporali appaiono stabili e coerenti per cui il bambino apprende ad utilizzare in modo efficace l’informazioni cognitiva e inibisce le manifestazioni affettive in quanto minacciano lo stato di relazione (si sviluppano problemi di riconoscimento ed espressione degli affetti).

Il bambino con attaccamento insicuro – ambivalente sperimenta un genitore che mette in atto comportamenti di accudimento incoerenti e imprevedibili. Viene a mancare la possibilità di coerente ordinamento sequenziale degli eventi per cui il bambino sperimenta che lo stato di relazione può essere mantenuto solo attraverso un’abnorme attivazione affettiva (non sviluppa la capacità di usare la cognizione per modulare gli affetti e funziona con affetti non regolati).

In questi casi una vasta gamma di vissuti emozionali del bambino (quali la rabbia, la tristezza, la paura) vengono costantemente (o in modo intermittente) male interpretati (es. come segnali di fame o di sonno) scoraggiati e ricevono risposte, addirittura, punitive. Questi stati emotivi sono pertanto esperiti dal bambino come sconvenienti o pericolosi; vengono inibiti, falsificati e cancellati dal repertorio delle relazioni intime, rischiando così di rimanere bloccati ad un livello puramente percettivo – somatico con scarso accesso alla consapevolezza e alla comunicazione (Fabbri, 2005).

Queste configurazioni di attaccamento predispongono ad un alto rischio di problematiche emotive e di sviluppo psicopatologico, soprattutto in assenza di variabili contestuali e sociali che possano fornire all’individuo in crescita esperienze di relazione diverse e significativamente positive (Arace, 2002).

Secondo Taylor (2004) il campo di ricerca sull’attaccamento è una preziosa fonte di informazioni sull’eziologia dell’alessitimia. Non vi sono purtroppo studi longitudinali che hanno seguito gli individui dall’infanzia all’età adulta. Molti studi effettuati sugli adulti hanno però rilevato che l’alessitimia è associata a stili insicuri di attaccamento, sia di tipo evitante che preoccupato o timoroso.

Cosa emerge dalle ricerche in età evolutiva? Eziologia e psicopatologia dello sviluppo

Come già riportato sopra, la mancanza, fino a tempi recenti, di strumenti psicometrici per la valutazione dell’alessitimia in età evolutiva ha rappresentato un limite fondamentale circa la possibilità di approfondire il ruolo che tale costrutto possa avere nella psicopatologia dello sviluppo.

Come sottolineato da diversi autori, una misura di questo costrutto adattata per i bambini sarebbe importante per offrire l’opportunità di comprendere meglio il rapporto esistente tra emozioni, parole e pensieri nello sviluppo psichico patologico e normale del bambino, nonché il peso del costrutto alessitimico nelle situazioni traumatiche, nelle malattie psicosomatiche e nei disturbi psicopatologici (depressione, DOC, ADHD, ecc.) più frequenti nella prima infanzia (Solano et al., 2007). Si riportano di seguito alcune ricerche in età evolutiva volte ad indagare direttamente tale costrutto e che possono fornire indicazioni circa la sua eziologia e correlati psicopatologici.

Di Trani e coll. (2009) riportano come, nonostante il corpus di ricerche limitato, si confermi, come per gli adulti, la presenza di alti punteggi di alessitimia in bambini e adolescenti con patologie somatiche, con disturbo del comportamento sessuale ed alimentare e con aspetti dissociativi. Rieffe e colleghi (2005) hanno osservato in soggetti di 6 e 15 anni la correlazione positiva tra alessitimia e presenza di umore negativo e di sintomi somatici. In una ricerca condotta da Marchetti e Cavalli (2013) con 152 bambini di 6-11 anni è emerso come alcune caratteristiche dell’alessitimia (difficoltà a descrivere le emozioni e pensiero orientato all’esterno) correlino con difficoltà nella mentalizzazione, che consiste nell’abilità di attribuire stati mentali a sé e agli altri e prevedere i comportamenti sulla base di essi. Tale carenza comporta pertanto importanti riflessi sia sul funzionamento sociale che sulla regolazione emotiva.

Secondo Taylor e Bagby (2004) un’altra area di ricerca che sta portando risultati interessanti deriva dal Northern Finland Birth Cohort Project in cui sono stati raccolti dati evolutivi in 12.000 bambini nati nel 1966, a cominciare dalle fasi prenatali. La TAS-20 è stata somministrata ad almeno 6.000 individui in un follow-up di 31 anni. L’alessitimia in età adulta è risultata associata con l’essere stato un bambino non desiderato dai genitori, nato in una famiglia con molti figli ed in modo particolarmente marcato con l’aver vissuto in ambiente rurale. Inoltre, l’alessitimia è stata associata alla capacità di parlare all’età di un anno, ossia il punteggio medio della TAS-20 è risultato più basso in coloro che hanno parlato precocemente. Questi risultati suggeriscono che i fattori sociali durante l’infanzia e le differenze individuali nello sviluppo del linguaggio possono avere un ruolo eziologico nello sviluppo di alessitimia.

Solano et al. (2007) riportano di un solo studio che, allo scopo di valutare il rapporto tra esperienze traumatiche infantili e presenza di alessitimia nei bambini stessi, ha esaminato bambini abusati dai tre ai sette anni e le loro madri, riscontrando che sia i bambini abusati che le loro madri mostravano maggiori difficoltà nel produrre un’espressione facciale dell’emozione, mentre solo i bambini mostravano difficoltà nel riconoscimento dell’espressione facciale stessa. Venne, inoltre, riscontrata una correlazione diretta tra capacità delle madri di produrre espressioni facciali di emozione e la capacità dei bambini di riconoscerle e produrle. Inoltre, diversi lavori che hanno utilizzato la TAS – 20, hanno evidenziato una correlazione significativa tra alessitimia materna e caratteristiche affettive della prole (Solano et al., 2007).

Quali i disturbi somatoformi in età evolutiva?

La valutazione di questi disturbi nell’età infantile non è facile, perché il corpo costituisce il primo mezzo che il bambino ha di segnalare una qualsiasi forma di sofferenza. E’ importante che il pediatra non abbia riscontrato alcune causa fisica. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni sono transitorie e rimandano a quadri clinici di altro tipo (es. disturbo d’ansia e fobia scolare). I disturbi possono manifestarsi nell’apparato gastrointestinale (gastrite, colite ulcerosa, ulcera peptica), nell’apparato respiratorio (asma bronchiale, sindrome iperventilatoria, disturbi respiratori), nel sistema cutaneo (es. psoriasi, dermatite atopica, orticaria), nel sistema muscolo scheletrico (cefalea tensiva, crampi muscolari, cefalea nucale). Anche le vertigini possono essere una forma di somatizzazione. I bambini spesso sviluppano sintomi somatici quando sono emotivamente sofferenti e la prevalenza è di circa 11% nelle femmine e il 4% nei maschi. Le difficoltà che innescano risposte di tipo somatico spesso sono legate alle relazioni familiari, con il gruppo dei pari e anche con gli insegnanti. La presenza di problemi psicologici nella madre e difficoltà nella relazione madre – bambino costituiscono importanti fattori di rischio (Strepparava & Iacchia, 2012).

Nel caso dei disturbi somatoformi, la teoria dell’attaccamento costituisce una chiave importante per la comprensione del sintomo somatico. Questa considera, infatti, il sintomo come la strategia che il bambino ha trovato per regolare lo stato di relazione con le figure d’attaccamento e nello stesso tempo mantenere il senso di sé. Ciò è valido anche per i disturbi somatoformi il cui valore relazionale sarà pertanto differente in base alla qualità della relazione esistente tra il bambino e le sue figure d’attaccamento.

In contesti diadici coercitivi l’osservazione clinica mostra come il sintomo somatico venga costruito, amplificato e utilizzato dal bambino con la precisa finalità di stabilizzare il legame con una madre percepita come discontinua, che tuttavia egli scopre particolarmente sensibile e reattiva al disagio fisico e alla malattia. Si ritrovano su questo versante gran parte dei quadri somatici, in assenza di chiare alterazioni organiche, su cui si focalizza il lavoro dei pediatri di base e ospedalieri: coliche addominali ricorrenti, vomito, alcune forme di cefalea, sindromi dolorose di varia natura e lamentele somatiche non chiaramente definite (Ciotti & Lambruschi, 2004). Un’analisi funzionale del sintomo, nei suoi antecedenti e nei suoi conseguenti ambientali, è spesso sufficiente a mettere in luce la valenza di ancoraggio dei sintomi nei confronti delle figure di attaccamento: la loro funzione di controllo della relazione appare subito chiara.

Secondo Ruggerini, Lambruschi, Neviani et al. (2004) questi piccoli pazienti, così ‘sballottati’ tra gli affetti e con così limitate capacità auto regolative, in terapia possono usufruire positivamente di un piano di acquisizione di abilità di coping degli stati emotivi (in particolare dell’ansia e delle componenti neurofisiologiche) tramite l’utilizzo di tecniche cognitivo – comportamentali come il rilassamento muscolare progressivo unito a tecniche di ristrutturazione cognitiva.

Nei pattern relazionali difesi, invece, i disturbi psicosomatici appaiono spesso più gravi, persistenti nel tempo e scarsamente ancorati al comportamento contingente dei genitori, in un contesto relazionale connotato in genere da scarsa emotività espressa. E’ come se il corpo del bambino fosse completamente disinvestito e i sintomi fisici semplicemente delle contrarietà minori che i genitori si trovano obbligati a gestire (Strepparava & Iacchia, 2012). Data la pervasività dei sintomi, c’è un’evidente difficoltà a rintracciare specifiche situazionalità, mentre un aiuto più efficace può venire dalla ricostruzione della storia dei sintomi fisici che spesso sono legati ad importanti eventi di vita (frequentemente caratterizzati dal tema della perdita), ma che vengono connotati come scarsamente rilevanti. I contenuti affettivi tendono ad essere accantonati e il piano emotivo e scarsamente integrato (se ciò avvenisse porterebbe la consapevolezza della sofferenza). Ruggerini et al. (2004) riportano come tali situazioni si avvicinino maggiormente ai quadri classicamente descritti come alessitimici. I sintomi sembrano l’esito di un precoce e pervasivo processo di addestramento interpersonale all’inibizione degli stati affettivi e delle disposizioni all’azione a essi collegate. Il sintomo verrebbe usato dal bambino per sentirsi oggetto di attenzione e cure in una relazione in cui il genitore si occupa di lui ma nella quale non è possibile esprimere direttamente ed affrontare la paura di perdere le proprie figure d’attaccamento.

L’alopecia è un disturbo somatico che può presentarsi in età evolutiva. I fattori psicologici e ambientali sono fondamentali nel determinare tale disturbo che sembra presentarsi sia in caso di carenza affettiva, sia a seguito della perdita di figure significative d’attaccamento. Nella storia dei bambini affetti da alopecia si ritrovano spesso eventi stressanti legati al perdere qualcosa o qualcuno: situazioni dolorose o problematiche che hanno grande risonanza affettiva per il bambino, che però non è in grado di manifestare le sue difficoltà, né si trova in un ambiente in grado di farlo se solo ci provasse.

Con queste tipologie di disturbi psicosomatici dovranno essere utilizzate strategie terapeutiche che favoriscano il riconoscimento, la denominazione e la gestione degli affetti, all’interno di una relazione caratterizzata da accudimento e protezione. Occorre supportare questi bambini nel riconoscere ed elaborare i propri stati interni, dando spazio all’espressione dei loro desideri e delle loro paure. E’ importante ricostruire in seduta, con le modalità tipiche della terapia cognitiva, gli episodi critici della quotidianità aiutando i bambini a riconoscere e ad aggiungere i pezzi mancanti al loro dialogo interno (cioè quelli più densi di rabbia e dolore). Utili a riguardo si rilevano le tecniche di autosservazione emotiva come il diario di autosservazione quotidiana che, con il termometro delle emozioni, rappresenta un riferimento importante per ricostruire in seduta, sotto forma di disegno, di drammatizzazione o di gioco gli eventi critici e significativi della vita del bambino (Ruggerini et al., 2004).

Pubblica o muori! il dilemma fra tradizione scientifica e innovazione nella ricerca

Sabrina Guzzetti

 

‘Publish or perish’ è un modo di dire piuttosto noto in ambito accademico e può essere reso in italiano con l’espressione ‘pubblica o muori’. È stato coniato per indicare la pressione a cui sono sottoposti i ricercatori a pubblicare continuamente i loro lavori scientifici per sostenere le loro carriere. La frequente pubblicazione è infatti uno dei metodi principali attraverso cui gli scienziati possono dimostrare il loro talento, attirando così l’attenzione di possibili finanziatori che possano continuare a sostenerli nel loro lavoro.

Secondo un recente studio, pubblicato sulla rivista American Sociological Review da un gruppo di ricerca della UCLA (University of California, Los Angeles), tale pressione ha il risultato di scoraggiare gli scienziati a battere strade inesplorate e a testare teorie innovative che possano potenzialmente sfidare i paradigmi del sapere tradizionale.

I ricercatori si confrontano da sempre con il dilemma rappresentato da una parte dalla tensione a perseguire coraggiose nuove idee, dall’altra dalla tendenza ad investire le proprie energie in ambiti di ricerca già battuti. Per studiare questo conflitto e le sue conseguenze nel mondo della ricerca, Jacob G. Foster, primo autore del lavoro, ha esaminato con i suoi colleghi un database comprendente più di 6,4 milioni di articoli pubblicati dal 1934 al 2008 nel campo della biomedicina e della chimica. Gli autori erano interessati a valutare come le pubblicazioni considerate, che potevano ricadere in un ambito innovativo o più prettamente tradizionale, venivano premiate dal mondo accademico, in termini di citazioni in ricerche successive o maggiori riconoscimenti da parte degli istituti accademici.

Quello che è emerso è che la maggior parte dei ricercatori, il 60% del totale, si limita a rispondere a domande di ricerca più tradizionali, con maggiori probabilità di giungere alla pubblicazione in tempi anche rapidi, che, nel mondo accademico, è la chiave per l’avanzamento di carriera. Al contrario, i ricercatori che si propongono di rispondere a domande più originali hanno dimostrato di incappare più frequentemente in un percorso tendenzialmente molto più accidentato lungo la strada della pubblicazione, il che, sul lungo periodo, rischia di farli apparire improduttivi ai loro colleghi e agli enti finanziatori.

Quando pubblicati, tuttavia, i loro progetti di ricerca vengono altamente ricompensati dal mondo scientifico, sia con numerose citazioni da parte dei lavori successivi, sia attraverso riconoscimenti e premi, in primis dal premio Nobel. Allora cosa spinge la maggior parte degli scienziati a perseguire la tradizione a svantaggio dell’innovazione? Le evidenze di Foster e colleghi suggeriscono una semplice spiegazione: una ricerca innovativa è una scommessa la cui vincita, in media, non sembra giustificare il rischio. I ricercatori, insomma, devono essere un po’ come dei giocatori d’azzardo per arrischiarsi a puntare su qualcosa di nuovo, rischiando davvero il tutto per tutto.

[blockquote style=”1″]Istituzioni e organizzazioni di raccolta fondi dovrebbero cercare di ridurre le barriere all’innovazione utilizzando sistemi di finanziamento che rendano meno rischioso, per i ricercatori, lanciare una nuova idea e rendano più probabile che questa idea possa essere finanziata[/blockquote] conclude Foster.

The Experimenter: Stanley Milgram e l’obbedienza al male. Arriva il film al cinema

 

Stanley Milgram, psicologo sociale americano. E’ molto famoso il suo esperimento sull’obbedienza obbedienza.

Ricordiamo brevemente quali furono i termini di questa sperimentazione che il Prof. Milgram condusse all’Università di Yale su migliaia di persone e che è stato più volte oggetto di ripetizione. All’interno di un laboratorio un soggetto che si era reso disponibile a condurre esperimenti sulla memorizzazione doveva correggere un altro soggetto – un attore sotto le mentite spoglie di cavia – somministrandogli delle scosse a intensità crescente ogni volta che questi sbagliava a rispondere alle domande sottoposte dal dottore che conduceva l’esperimento. Lo scopo era vedere fino a che punto il soggetto avrebbe accettato di continuare a somministrare le scosse (che potevano arrivare anche fino a 450 V ed erano contrassegnate con diciture fino a “scossa pericolosa”) pur in presenza dei lamenti, delle proteste e infine degli urli e dei rantoli della “cavia”.

Milgram volle anche vedere non solo fino a dove la maggioranza degli esaminati poteva arrivare ma anche quali circostanze avevano maggiore o minore peso nella decisione di rivoltarsi all’autorità…

Abbiamo scritto su State of Mind che a distanza di anni, i risultati mettono in luce che anche le persone categorizzate da Stanley Milgram come obbedienti hanno in realtà tentato di resistere alle istruzioni dello sperimentatore. Non è che immediatamente e in modo naturale le abbiano seguite. Essi stavano cercando davvero di combattere qualcosa che avveniva dentro di loro, non si sono piegati ad una cieca obbedienza…

Infatti In generale, tra tutti i soggetti obbedienti e ribelli, per le fasi iniziali dell’esperimento era prevalente la strategia “wait and see e cioè una serie di modalità interattive volte a ritardare la continuazione dell’esperimento...

 

E’ stato presentato in questi giorni a Roma in anteprima il film su Stanley MIlgram e sul suo famoso esperimento, ecco il trailer:

 

Il metodo caotico per interpretare le risonanze: sfruttare il caos per capire il cervello umano

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Un metodo di analisi dei dati finora utilizzato nella diagnostica medica è stato testato per la prima volta sui dati ottenuti con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) a riposo.

La metodologia, che sfrutta il ‘caos’, si è dimostrata robusta quanto il metodo Sample entropy, ben noto agli addetti ai lavori e in uso da tempo, ma con il vantaggio di offrire dettagli maggiori di quest’ultimo. Il risultato è stato pubblicato su Medical Engineering and Physics.

La parola fuzzy (confuso, caotico) non deve trarre in inganno: la Fuzzy Approximate Entropy Analysis (fApEn) è una metodologia che offre precisione e sensibilità nella comprensione delle immagini confuse prodotte dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI). La fMRI è una tecnica di visualizzazione medica che permette, quando si studia il cervello, di osservare in maniera non invasiva l’attività neurale associata a compiti specifici. Non basta però guardare queste immagini per capire cosa sta succedendo. Esistono infatti diverse metodologie che analizzano, filtrano e ricostruiscono il segnale, così da permettere agli scienziati di capire la complessa attività del cervello.

La fApEn è stata utilizzata per analizzare elettrocardiogrammi, elettroencefalogrammi, elettromiogrammi, e via dicendo, ma è la prima volta che è stata usata con l’fMRI perché l’analisi delle risonanze 3D è molto complessa.

Finora si è preferito utilizzare un metodo semplificato, la Sample Entropy (sampEn) che però presenta numerosi limiti – spiega Moses Sokunbi, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, primo autore della ricerca – Nel mio lavoro dimostro che non solo è possibile utilizzare la fApEn, ma che confrontata con i risultati di sampEn sulle stesse registrazioni, ha dato risultati superiori, che non erano stati rilevati dalla tecnica tradizionale.

Il vantaggio di fApEn è che è un metodo non lineare – precisa Sokunbi – Troppo spesso infatti si analizzano i dati del cervello con metodi lineari, ma il cervello è un sistema complesso, che produce segnali di natura non lineare e dinamica, e con i metodi lineari molta informazione viene persa.

Cervello: più è vecchio, meno è complesso

Il metodo non lineare fApEn è servito anche per verificare un’ipotesi sull’attività cerebrale.

Abbiamo testato le fMRI di 86 individui sani di età che variano dal 19 agli 85 anni – spiega Sokunbi – Si pensa che la complessità dell’attività cerebrale tenda a diminuire con gli anni: il cervello di una persona giovane sarebbe più complesso di quello di un individuo maturo. L’ipotesi è supportata da diverse osservazioni e abbiamo pensato di testarla sottoponendo soggetti di varia età alla risonanza magnetica funzionale, per poi esaminare i dati sia con fApEn che con sampEn.

fApEn ha mostrato di rilevare il segnale meglio di sampEn.

Con sampEn infatti abbiamo osservato una tendenza nella direzione prevista dalle ipotesi, ma non significativa. Con fApEn, sugli stessi dati invece abbiamo osservato una tendenza netta e significativa, nella direzione attesa.

 

LINK UTILI: Articolo originale su Medical Engineering and Physics

IMMAGINI: Crediti SISSA

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A fuzzy method for interpreting fMRI recordings: using fuzziness to understand the human brain

A method for data analysis used in medical diagnostics has been tested for the first time on resting state functional magnetic resonance imaging (fMRI) data. The method, which relies on fuzziness, proved to be as robust as the well-known and regularly used sample entropy (SampEn) method but with the advantage of offering greater detail than sample entropy. The findings have been published in Medical Engineering and Physics.

Do not be misled by the word fuzzy: Fuzzy Approximate Entropy (fApEn) is a method that offers better sensitivity for understanding the complexity of noisy images produced by functional magnetic resonance imaging (fMRI). fMRI is a medical imaging technique which, when applied to the brain allows us to non-invasively observe neural activity associated with specific human behaviour . However, just looking at these images is not enough to understand what is going on, and different methods exist that analyse, filter and reconstruct the signals to enable scientists
to understand the brain’s complex activity.

fApEn has been used to analyse electrocardiograms, electroencephalograms and electromyograms, but this is the first time it is used with fMRI because 3D fMRI computation is complex.

Until now scientists have preferred to use a reliable method, Sample Entropy (sampEn), which, however, suffers several limitations – explains Moses Sokunbi, research scientist at the International School for Advanced Studies (SISSA) in Trieste and first author of the study – In this paper we demonstrated not only that fApEn can indeed be used but that compared with sampEn analysis on the same recordings, it gave superior results which were not detected by SampEn.

The advantage of fApEn is that it’s a non-linear method – Sokunbi points out – All too often, in fact, data from the brain are analysed using linear methods, but the brain is a complex system that produce signals that are non-linear and dynamic in nature and analysing with these linear methods results in loss of information.

The older the brain, the less complex it becomes The non-linear fApEn method was used to test a hypothesis regarding brain activity.

We tested the fMRI data of 86 healthy individuals with age ranging between 19 and 85 years – explains Sokunbi – The complexity of brain activity is thought to decrease over the years: a young adult brain is more complex than an older adult brain. This hypothesis is supported by several observations so we decided to test it by scanning the brains of individuals of varying age with functional magnetic resonance imaging and analysing the data both with fApEn and SampEn.

fApEn showed better signal detection in comparison to SampEn.

With sampEn there was a tendency in the direction predicted by the hypothesis, but this was not significant. In contrast, fApEn analysis on the same data provided a clear and significant tendency in the expected direction.

This research work was conducted in collaboration with scientists at the University of Aberdeen and the Aberdeen Royal Infirmary, National Health Service (NHS) Grampian, Scotland, United Kingdom.

 

Depressione: comportamenti di evitamento e strategie di intervento in psicoterapia cognitiva

L’articolo si propone di tratteggiare alcuni aspetti dei sintomi cognitivi e comportamentali caratteristici nel Disturbo Depressivo Maggiore, in riferimento alle conseguenze dei comportamenti di evitamento rispetto all’aggravamento del quadro clinico.

Abstract

Il presente articolo si propone di tratteggiare alcuni aspetti dei sintomi cognitivi e comportamentali caratteristici nel Disturbo Depressivo Maggiore, in riferimento alle conseguenze dei comportamenti di evitamento rispetto all’aggravamento del quadro clinico.

A fronte del quadro sintomatologico descritto, verranno delineati gli obiettivi principali dell’intervento psicoterapeutico ad orientamento cognitivo rispetto al disturbo considerato.

English Abstract

This article aims to outline some aspects of cognitive and behavioral symptoms characteristic in major depressive disorder, in reference to the consequences of avoidance behaviors with respect to the worsening of the clinical picture.

Given the set of symptoms described, it will be outlined the main goals of psychotherapeutic oriented cognitive compared to the disorder in question.

 

Depressione: comportamenti di evitamento e strategie di intervento in psicoterapia cognitiva

Il Disturbo Depressivo Maggiore, comunemente definito ‘depressione’, costituisce secondo recenti ricerche il disturbo psicologico più diffuso nel mondo (Gotlib e Hammen, 2009). Secondo lo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders), in Italia la prevalenza della depressione maggiore e della distimia nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle donne e 7,2% negli uomini), ma soltanto il 29% dei soggetti affetti da depressione maggiore ricorre a un trattamento nello stesso anno in cui insorge (Wang et al., 2007).

In ambito clinico si rileva come il quadro sintomatologico depressivo conduce il paziente ad un calo del funzionamento sociale e lavorativo e ad una significativa compromissione delle altre aree importanti della vita, la cui intensità varia in relazione al livello di gravità del disturbo.

In riferimento alle ripercussioni che tale disturbo dell’umore genera nella vita quotidiana del soggetto, assume rilevanza evidenziare la connessione tra la difficoltà sperimentata dalla persona nello svolgimento delle abituali attività quotidiane e la presenza di comportamenti di ‘evitamento’, i quali creano un circolo vizioso e contribuiscono al persistere ed all’aggravarsi dello stato di sofferenza.

Rispetto a ciò si rileva come la persona che attraversa un periodo di depressione manifesta una notevole difficoltà nello svolgimento delle abituali attività quotidiane, causata dalla presenza dei sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici caratteristici del disturbo, i quali possono alimentare ulteriormente la visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di sé, la sfiducia nelle proprie capacità e le conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.

In conseguenza di ciò, spesso la persona mette in atto istintivamente alcuni tipici comportamenti di evitamento, che conducono ad abbandonare o ridurre notevolmente gli impegni quotidiani e le attività piacevoli consuete, diminuendo in questo modo la possibilità di interrompere le rimuginazioni negative e sperimentare un seppur breve stato mentale positivo.

Ad esempio, la presenza di sintomi quali la difficoltà di concentrazione, di memoria, l’indecisione, mancanza di interesse o energia, etc. può condurre la persona a considerarsi incapace di affrontare e gestire autonomamente le occupazioni quotidiane consuete (es. lavorare, studiare, fare la spesa, preparare da mangiare, svolgere faccende domestiche, etc.), oppure a sopravvalutare irrealisticamente le difficoltà insite in esse. A causa di tale convinzione la persona può iniziare ad evitarle, a rimandarle, o a delegarle a qualcuno, diventando in tal modo eccessivamente dipendente dagli altri.

Sperimentando sintomi di apatia e disinteresse, il soggetto può evitare il contatto con altre persone e ridurre al minimo il dialogo con familiari e amici. In altri casi, può provare vergogna, senso di inferiorità o di colpa per il disturbo di cui soffre, sentirsi diverso dalla persona che era precedentemente,
 e, a causa di ciò, allontanarsi dagli altri, intrappolandosi ulteriormente in una solitudine dolorosa. Inoltre, può credere di non riuscire più a trarre soddisfazione e piacere dalle relazioni sociali.

Conseguentemente a ciò, spesso la persona depressa trascorre molto tempo isolata e inattiva, imprigionata in estenuanti rimuginazioni depressive. Tale situazione può condurre ad una marcata compromissione nello svolgimento delle attività ed ad uno stravolgimento delle relazioni sociali abituali. Inoltre, tra i comportamenti sintomatici frequentemente osservati in ambito clinico spesso si rileva la mancanza di interesse o la difficoltà della persona affetta da depressione nel curare il proprio aspetto fisico e nel mangiare in modo regolare.

La compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o scolastico e dell’abituale comportamento della persona si manifesta con diversi livelli di gravità.

In tal senso, mentre nella depressione più lieve generalmente la persona riesce a mantenere, seppure con difficoltà, la maggior parte dei propri impegni, viceversa nel momento in cui la depressione peggiora la persona appare chiusa in un vortice di pensieri negativi angoscianti, persistenti e ripetitivi, che generano descrizioni della realtà gravemente falsate e che possono condurre ad una grave alterazione delle capacità lavorative, a frequenti assenze da lavoro o ad un’interruzione pressoché totale delle attività abituali.

Tale stato di inattività conduce ad un aggravamento ulteriore della sfiducia nelle proprie capacità, della visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di se stessa e delle conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.

In tal senso, avviene che i comportamenti di evitamento sopra tratteggiati, pur dando l’illusione di alleviare momentaneamente il malessere (in quanto sottraggono la persona allo sforzo di fare ciò che le risulta difficile e faticoso, o che non ha più voglia di fare), in realtà conducono ad un graduale aggravamento del disturbo in quanto provocano una profonda ricaduta sull’autostima del paziente. La persona giunge a percepirsi maggiormente come incapace, fallita, senza speranza, a rafforzare l’idea di non essere più in grado di svolgere le attività precedentemente attuate, aggravando in tal modo la valutazione negativa di se stessa e della propria vita attuale e la sfiducia verso il futuro.

A fronte di tale quadro sintomatico, la Psicoterapia Cognitiva configura i processi di insorgenza e mantenimento della depressione nelle cognizioni disfunzionali che inducono la persona a considerare se stessa, la sua vita e il suo futuro in maniera irrealisticamente o irreversibilmente negativa.

In tal senso, emerge come le principali manifestazioni sintomatiche del Disturbo Depressivo Maggiore costituiscono la conseguenza dell’attivazione di errori sistematici insiti nelle cognizioni della persona, le quali determinano la conseguente sofferenza emotiva e i comportamenti problematici, e mantengono viva la convinzione della validità dei suoi giudizi negativi, malgrado vi siano chiare prove del contrario.

Parallelamente, si rileva come le distorsioni cognitive e le erronee costruzioni del significato degli eventi appaiono generate e perpetuate dalla presenza di rigidi ‘schemi cognitivi depressogeni’, ovvero dalle convinzioni, assunzioni, regole su di sé e sugli altri, profonde e spesso inconsapevoli, da cui si originano le interpretazioni disfunzionali della realtà presente.

Tali schemi, la cui origine spesso affonda le sue radici nel passato, agiscono dunque come delle ‘lenti’ che influenzano la valutazione che la persona attua nel presente in merito a se stessa, alla propria vita, alle proprie relazioni interpersonali, la percezione degli eventi e l’attribuzione del loro significato.  Durante l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore, emerge spesso la presenza di intricati e impermeabili schemi cognitivi depressogeni, la cui attivazione costituisce il nucleo patogenetico del disturbo.

Sulla base di quanto sopra delineato, l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione, la spiegazione, l’anticipazione degli eventi passati presenti o futuri, la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.
In relazione a ciò, si rileva come la correzione delle valutazioni distorte relative a se stessi, alla propria vita o al proprio futuro conduce ad un graduale cambiamento sul piano emotivo e comportamentale.

Ad esempio, nel caso di un episodio depressivo conseguente ad un evento molto doloroso la persona può riuscire progressivamente ad abbandonare la convinzione iniziale di un futuro irrimediabilmente rovinato, giungendo a costruire una successiva ri-valutazione della propria esperienza; in tal modo, riuscendo ad attuare un cambiamento nel modo di pensare, pian piano la persona riesce a superare la disperazione iniziale e, conseguentemente a ciò, comincia a sentire il riemergere di una maggiore fiducia in sé e nelle proprie possibilità di migliorare la situazione attuale, giungendo ad una successiva graduale ripresa della motivazione e dell’energia necessaria per gestire gli impegni quotidiani.

Parallelamente a ciò si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo.

In tal senso, a fronte della sintomatologia evidenziata è necessario attuare una progressiva riattivazione a livello comportamentale, che gradualmente consentirà alla persona di trarre sollievo e distrazione dalle rimuginazioni negative e dalla disforia, e successivamente permetterà di valutare empiricamente l’infondatezza delle idee estremamente negative relative a se stesso e alla propria capacità di svolgere le normali attività e di trarne piacere.
 In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.

A fronte di quanto esaminato nel presente contributo, pertanto, si rileva come il cambiamento cognitivo conduce ad un conseguente miglioramento del tono dell’umore e ad una progressiva diminuzione dell’intensità dei vari sintomi manifestati, i quali a loro volta influiranno positivamente sui pensieri e sul comportamento quotidiano, interrompendo in tal modo il circolo vizioso della depressione in cui la persona si era intrappolata.

Alessitimia e psicopatologia: un’analisi evolutiva – Introduzione

Artoni Grazia, Atti Martina, Giaroli Enrica e Paterlini Susanna – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi 

Shakespeare, Macbeth, atto IV, scena III.

La possibilità di dar voce al proprio mondo emotivo rappresenta una condizione essenziale per riuscire a riconoscere, dialogare e pensare i propri vissuti e intrattenere relazioni interpersonali.

Le emozioni hanno un ruolo fondamentale nell’equilibrio tra salute e malattia (Vadacca et al., 2008). La possibilità di dar voce al proprio mondo emotivo rappresenta una condizione essenziale per riuscire a riconoscere, dialogare e pensare i propri vissuti e intrattenere relazioni interpersonali. L’incapacità di dare parole al dolore rappresenta una grande sofferenza per ciascun individuo (Hoffman, Formica & Di Maria, 2007). L’espressione emotiva è legata al miglioramento della salute e del benessere psicologico (Eng, Fitzmaurice, Kubzansky, Rimme & Kawachi, 2003), mentre la mancanza di espressione delle emozioni ad una evoluzione verso la malattia (Solano et al., 2002). Emerge, quindi, la necessità di mettere in risalto l’importanza della capacità di identificare e descrivere le emozioni (La Ferlita, Bonadies, Solano, De Gennaro & Gonini, 2007).

Magda Arnold (1960) suddivide le emozioni in:

  • Valutazioni intuitive, immediate o non riflessive che conducono a sensazioni;
  • Valutazioni riflessive, di maggiore portata che conducono a emozioni prolungate.

Secondo Ellis sia le reazioni emotive fugaci sia quelle prolungate hanno in comune un elemento: Quale significato ha per me l’evento a cui sto rispondendo? (Ellis, 1962).

Facendo riferimento al metodo ABC, proposto da Ellis, per condurre la valutazione clinica e per individuare il focus terapeutico, a partire da un evento attivante (A) il primo passo è individuare il C, cioè le emozioni e i comportamenti, e in seguito i B, i pensieri. Si invita sostanzialmente il paziente a rievocare episodi particolarmente significativi cercando di descrivere i pensieri e le emozioni provate in quel momento (Semerari, 2000; Cantagallo, 2014).

Considerando il principio cognitivo, le emozioni prolungate sono sostenute in genere da pensieri, piccole e rapide frasi (sciocche frasi) apparentemente innocue ma in grado di generare sofferenza. È necessario quindi uno sforzo consapevole per modificare le frasi interiori con le quali le persone creano spesso le proprie emozioni negative. Per il terapeuta cognitivo ogni emozione è verbalizzabile come valutazione di una situazione più o meno problematica ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielaborazione critica razionale e consapevole.

Il metodo ABC può risultare complesso già nella prima fase, nell’individuazione dei C, a seconda delle capacità autoriflessive del paziente e della sua tendenza a descrivere se stesso in termini emotivi (Semerari, 2000; Ruggiero & Sassaroli, 2013) In particolare, si può evidenziare la difficoltà degli individui alessitimici di accedere e riconoscere i propri stati emozionali (Cantagallo, 2014). Vedremo successivamente come la terapia cognitivo-comportamentale e altre tipologie di intervento possono essere utilizzate con questi pazienti.

Il concetto di alessitimia (alexithymia, dal greco – a= mancanza, léxis= parola, thymós= emozione – che letteralmente significa emozione senza parole o mancanza di parole per le emozioni) fu introdotto da Sifneos, nel 1973, in seguito a osservazioni cliniche di pazienti affetti dai classici disturbi psicosomatici, le Holy Seven (ulcera gastroduodenale, artrite reumatoide, disturbi della tiroide, malattie della pelle di origine sconosciuta o neurodermatiti, rettocolite ulcerosa, ipertensione essenziale e asma) e, per molti anni, è stato ritenuto quasi un sinonimo delle malattie psicosomatiche, poiché si pensava fosse specificamente connesso ad esse (Caretti & La Barbera, 2005; Porcelli, 2004). Con questo termine egli si riferiva ad un disturbo cognitivo-affettivo caratterizzato da:

  • Una difficoltà a esprimere verbalmente le emozioni,
  • Un’attività fantasmatica limitata,
  • Uno stile comunicativo incolore (descrivere un evento dandone una descrizione dettagliata, senza alcun riferimento alle emozioni provate) (Caretti & La Barbera, 2005; La Ferlita et al., 2007).

Alla fine degli anni ’90 il Gruppo di Toronto cambia radicalmente prospettiva, pubblicando ‘I disturbi della regolazione affettiva. L’alessitimia nelle malattie somatiche e psichiatriche’ (Taylor, Bagby & Parker, 1997). Le loro considerazioni hanno consentito a ricercatori di tutto il mondo di indagare sul costrutto in sé, svincolato dalla stretta e tradizionale associazione con le malattie psicosomatiche, considerandolo come l’elemento centrale di un gruppo di disturbi sia organici sia psicologici (Porcelli, 2004).

Un gruppo internazionale di ricercatori (Fava et al., 1995) ha proposto i Criteri Diagnostici per la Ricerca in Psicosomatica (Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research, DCPR). L’obiettivo dei DCPR non è quello di individuare singole malattie psicosomatiche, ma di ottenere una valutazione più ampia e rappresentativa della realtà clinica in psicosomatica rispetto alle categorie diagnostiche del DSM e dell’ICD-10. Si ragiona quindi per sindromi psicosomatiche che possono essere studiate come aspetti comuni di malattie differenti, sia somatiche sia mentali, fornendo nuove prospettive per il trattamento psicologico e per quello farmacologico (Trombini & Baldoni, 1999).

Queste variabili sono state spesso trascurate dalla psichiatria tradizionale soprattutto a causa della loro natura subsindromica. Tuttavia, è stato evidenziato che i DCPR sono più frequenti dei disturbi psichiatrici (circa il doppio) e possono individuare il disagio in assenza di una diagnosi DSM IV (Veneroni, 2009). Porcelli (Porcelli et al., 2009) ha individuato che almeno una, se non più sindromi DCPR erano presenti nell’85% del gruppo di pazienti considerato, i quali avevano l’89% di prevalenza di disturbi psichiatrici. Ha, inoltre, sottolineato che i DCPR possono accrescere le informazioni fornite dal DSM IV, dando dati sul presente e sul passato del paziente e su come esso fa fronte ai cambiamenti di salute.

Quello che comunque è chiaro è che la medicina psicosomatica non può essere sufficiente senza le classificazioni del DSM (Wise, 2009). L’alessitimia rappresenta uno dei dodici cluster DCPR e i suoi criteri diagnostici sono (Fava et al., 1995):

Devono essere presenti almeno 3 delle 6 caratteristiche seguenti:

  • Incapacità di usare parole appropriate per descrivere le emozioni;
  • Tendenza a descrivere i dettagli più che gli stati d’animo;
  • Mancanza di un ricco mondo fantastico;
  • Contenuto del pensiero più associato a eventi esterni che alla fantasia e alle emozioni;
  • Inconsapevolezza delle comuni reazioni somatiche che accompagnano l’esperienza di vari stati d’animo;
  • Scoppi occasionali ma violenti e spesso inappropriati di comportamento affettivo.

L’alessitimia non è presente solamente in comorbilità con disturbi dell’umore, fobie sociali o con un disturbo organico.

Specificare il tipo:

  • Pervasivo (coinvolge tutte le emozioni);
  • Situazionale (circoscritta a specifiche emozioni e/o situazioni) (Porcelli & Rafanelli, 2010).

Attualmente sono cinque le caratteristiche che si possono considerare come centrali nei soggetti alessitimici (Porcelli, 2004):

  • Difficoltà nell’identificare e descrivere le emozioni: mostrano una marcata difficoltà a verbalizzare i propri stati emotivi. Inoltre, non hanno un’abilità fondamentale, l’autoconsapevolezza, la capacità, cioè, di sapere che emozione stanno provando nel momento in cui ne sono pervasi (Goleman, 1996);
  • Difficoltà nel distinguere fra stati emotivi soggettivi e le componenti somatiche dell’attivazione emotiva: esprimono le proprie emozioni principalmente attraverso la componente fisiologica poiché incapaci di elaborarne l’aspetto soggettivo vissuto. Possono, quindi, mostrare scoppi improvvisi di rabbia e riferire le modificazioni somatiche avvertite, senza però comprendere che l’esperienza della rabbia ingloba in sé tutte le sensazioni riferite;
  • Povertà dei processi immaginativi: questi pazienti non sognano quasi mai e, quando accade, riproducono eventi quotidiani. La loro immaginazione è molto scarsa e qualitativamente povera, focalizzandosi su eventi accaduti o su preoccupazioni per il futuro. Inoltre, è evidente la difficoltà nel mostrare interesse per qualcosa. Il colloquio con i soggetti alessitimici risulta, quindi, noioso, duro, rigidamente focalizzato su sintomi o su eventi accaduti. Tutto ciò ha un impatto anche sulla fisicità, appaiono rigidi nella postura corporea e nella mimica facciale;
  • Stile cognitivo orientato alla realtà esterna: la loro attenzione è concentrata sui dettagli della realtà, di cui riescono a descrivere minuziosamente i dettagli senza dare la sensazione, all’interlocutore, di partecipare emotivamente. Hanno, infatti, uno stile di pensiero razionale con il quale illustrano azioni ed esperienze senza investimenti affettivi, come se fossero spettatori più che attori della propria vita;
  • Conformismo sociale: mostrano un adattamento conformistico all’ambiente nel quale si trovano inseriti e sembrano definiti dall’esterno in termini di identità di ruolo. Tuttavia, mostrano scarse capacità soggettive di interpretazione della loro identità e di sintonizzazione con le emozioni altrui, aspetti che determinano difficoltà a formare e conservare nel tempo relazioni interpersonali profonde.

Il concetto moderno di alessitimia, quindi, non designa individui senza emozioni ma persone che hanno emozioni espresse dalle componenti biologiche ma scarsa o nessuna possibilità di ricorrere a processi cognitivi (immagini, pensieri, fantasie) per rappresentarle (Caretti & La Barbera, 2005). Non sono individuabili soggetti alessitimici o non alessitimici, ma soggetti con diversi livelli di gravità delle caratteristiche alessitimiche (Porcelli, 2008).

L’alessitimia appare molto rilevante per il livello di salute e benessere complessivo dell’individuo: è considerata uno dei fattori in grado di incrementare la suscettibilità generale alla malattia. Oltre che come tratto di personalità relativamente stabile, l’alessitimia può emergere come fenomeno secondario, come stato reattivo in conseguenza di gravi traumi o di malattie fortemente invalidanti o in cui c’è pericolo di vita (cancro, dialisi, trapianto); in momenti particolarmente critici dell’esistenza l’anestesia emozionale sembra avere finalità adattive, rappresenterebbe cioè un massiccio meccanismo di difesa verso la propria realtà interiore, fonte di sofferenza e di grosso scompenso (Caretti & La Barbera, 2005; Grimaldi Di Terresena, De Grandi, Inga, & Cristofolini, 2010). Progressivamente si è dato, quindi, spazio ad una concezione evolutiva e adattiva di questo costrutto come dimensione clinica transnosografica, trasversale, cioè, a tutta la patologia (La Ferlita et al., 2007).

Prestazioni cognitive migliori? Basta lasciarsi contagiare da chi ci sta vicino!

Secondo un recente studio lo sforzo cognitivo e mentale sarebbe contagioso: lo sforzo mentale del vicino di scrivania sembra influenzare e intensificare il vostro livello di concentrazione.

Se avete bisogno di concentrazione, puo esservi utile sedere accanto a chi sta facendo qualcosa con il massimo dell’impegno. Secondo un recente studio infatti lo sforzo cognitivo e mentale sarebbe contagioso: lo sforzo mentale del vicino di scrivania sembra influenzare e intensificare il vostro livello di concentrazione.

Fin dagli anni sessanta la cosiddetta Teoria della Facilitazione Sociale sostiene che la presenza di altre persone renderebbe più semplice l’attuazione di comportamenti automatici, mentre sarebbe un fattore distrattore per l’attuazione di comportamenti che richiedono elevati livelli di attenzione e concentrazione.

Un team di ricerca belga si è chiesto in che modo quello che fanno le persone accanto a noi può influenzare le nostre performance e le nostre capacità di concentrazione.

I soggetti sperimentali dovevano svolgere una versione del Test di Simon seduti vicino –allo stesso pc- con un’altra persona: quadrati di diversi colori appaiono sul lato destro o sinistro dello schermo di un computer. Quando due dei possibili colori appaiono dal proprio lato, il soggetto deve pigiare il piu velocemente possibile un tasto sulla tastiera. Migliori performance corrispondono a bassi di tempi di reazione e minori errori.

Seppur seduti vicini e allo stesso computer, i soggetti non collaborano allo svolgimento del compito, né vengono istruiti ad assumere un atteggiamento competitivo.

Manipolando alcuni aspetti specifici del compito gli sperimentatori hanno poi creato le condizioni per sottoporre i soggetti a elevati livelli di difficoltà del test, che per l’appunto richiedevano un significativo sforzo di concentrazione e attenzione per ottenere delle buone performances.

Ebbene sì, i risultati confermano che lo sforzo mentale, attentivo e di concentrazione è influenzato da chi si ha vicino: nel momento in cui uno dei membri della coppia è impegnato nella versione più difficile del task, l’altro membro presenta prestazioni migliori – indicando che in qualche modo sta anch’egli lavorando con maggiore attenzione e concentrazione.

I ricercatori speculano sulla spiegazione dei meccanismi sottostanti a tale risultato partendo dalla postura corporea: chi è impegnato in un massivo sforzo mentale assume una specifica postura maggiormente in tensione, con indicatori posturali tipici della concentrazione elevata, che inconsapevolmente osservati dall’altro membro della coppia possono incidere in modo retroattivo sulla concentrazione di quest’ultimo.

Memorie – In viaggio verso Auschwitz (2015) – Recensione e Intervista al Regista

Memorie – In viaggio verso Auschwitz di Danilo Monte. Distribuito in Italia da LAB80

 

Memorie – In viaggio verso Auschwitz è un film documentario di Danilo Monte con Roberto Monte. ‘Di’ e ‘con’ non identificano come da tradizione il regista e l’attore bensì il regista che Con l’attore, suo fratello, esplora il senso del loro conflitto.

Danilo regala a Roberto per il suo trentesimo compleanno un viaggio ad Auschwitz che i due faranno insieme; Roberto ha un vissuto di tossicodipendenza e una passione per la storia, Danilo non può più rimandare un confronto che il tempo ha caricato di distanze variamente interpretabili. Nel loro percorso, che il film sviluppa inserendo video di un passato familiare sul quale intimamente ci si interroga per comprendere cosa si sia interrotto, Danilo e Roberto afferrano ciascuno le proprie idee, la rabbia che rimugina, le accuse reciproche e il tentativo di uscirne liberi, vivi, passando attraverso il bisogno di affermare le proprie ragioni su quelle dell’altro nel rischio di esasperare l’incomunicabilità.

Nel cammino verso il teatro dell’orrore mettono in scena uno scambio profondamente vero, mai retorico mai interessato alla conciliazione fine a se stessa, si danno la libertà di tenersi ognuno i propri dubbi e ognuno la possibile intolleranza verso ciò che è stato. Il conflitto diventa narrazione di temi familiari controversi, la necessità di salvarsi da un dolore che può non avere parole ma non può non essere sentito.

Danilo e Roberto forse si ritrovano, certamente ritrovano le forme particolari che il conflitto aveva offuscato nella rivendicazione cieca. L’approdo alla meta, il contatto con la memoria collettiva di un dolore insanabile, li porta a fermarsi per osservare meglio, per ascoltare e fare scorrere il flusso di ciò che prima del viaggio era caotico, non intelligibile. La spinta al confronto è costante, bisognosa ad ogni passo di ricevere ancora energia, i modi di essere si contrappongono nel desiderio forse mai veramente negato di trovare una sintesi vicina alle immagini dei compleanni, del Capodanno. L’assenza di percorsi da forzare verso un significato condivisibile è il presupposto per cercare una condivisione più difficile vincolata a un’unica condizione, che sia autentica. La parola al regista.

 

Memorie – In viaggio verso Auschwitz (2015) Intervista con l’autore

Intervistatore (I): Qual è stata l’urgenza che ti ha spinto a fare questo film?

Regista (R): Alcune problematiche erano lì da troppo tempo. Gli anni passavano, la distanza tra noi aumentava. Ho sentito che era necessario parlarsi, affrontare le difficoltà; magari litigando, ma confrontarsi. Sentivo che dovevo provare a mettere a posto una parte della mia vita.

I: Come ti sei sentito mentre giravi il film?

R: Spesso in balìa dei sentimenti. Le emozioni sono state tante, con mio fratello ci siamo accusati e difesi, ci siamo arrabbiati, ed io ho ho provato anche senso di colpa.

I: Colpa?

R: Sì. Le nostre vite sono state molto diverse, mi è capitato di pensare che in alcuni momenti avrei potuto stargli più vicino, ma allo stesso tempo mi faceva arrabbiare che lui utilizzasse i miei sensi di colpa per proteggersi. Io mi sono allontanato da alcune dinamiche, da alcune situazioni per salvaguardare me stesso; sono andato via e questo forse mi ha fatto sentire persino un traditore.


I: Cosa porta due fratelli a dividersi?

R: A volte le esperienze, il modo di crescere. Abbiamo preso strade differenti, io ho sempre avuto l’impulso di costruire, di migliorare la mia vita, lui no. Così in me è nata la presunzione di poterlo giudicare. Ma anche attraverso questo film ho capito che è sbagliato. Si doveva attraversare questo passaggio, riconoscere – grazie a mio fratello – questo istinto giudicante per comprendere ciò che in passato era sfuggito.

I: Com’è affrontare un tema così personale in un film?

R: Sentivo di non avere il polso della situazione, di trovarmi all’interno di un flusso che scorreva in modo autonomo. Avere un doppio ruolo poi, il regista consapevole che ha piena libertà espressiva e il fratello del protagonista direttamente coinvolto nella narrazione, è stato complicato da gestire emotivamente. I contenuti si intrecciano e ne scaturisce qualcosa che va al di là della singola prospettiva.

I: E la scelta di Auschwitz?

R: Oltre ad essere il luogo che più di ogni altro mio fratello voleva visitare dato il suo interesse per la storia di quel periodo, Auschwitz è il luogo dell’antiumanità dove potevamo riflettere sulla nostra umanità. Paradossalmente, il luogo dell’orrore supremo è anche il luogo più bello per crescere. È un luogo che ha un ruolo nella coscienza di tutti noi, è la nostra memoria collettiva. C’è un’energia che rimane e che si percepisce, nei luoghi dove si consuma una tragedia così grande.

I: Come si può secondo te superare un dolore profondo?

R: È difficile dirlo. Nella mia esperienza personale ho provato insieme a mio fratello a fermare per un attimo la vita, così che potessimo darci liberamente, confrontarci su temi dolorosi. Forse la possibilità di un confronto autentico con se stessi e con l’altro è una strada per dare un senso al dolore. Occorre coraggio, anche nella vicenda di questo film non sono mancate le vicissitudini, le crisi. Ecco la mia convinzione profonda è che da una crisi possa nascere la materia di un cambiamento. Andando avanti dopo una crisi ci si scopre cambiati.

I: Come influisce il passato sul presente, secondo te?

R: Influisce molto. E non solo il passato del singolo individuo ma anche, come dire, l’albero genealogico, il repertorio di atteggiamenti, abitudini, modi di essere che appartengono alla storia di una famiglia nella sua globalità.

I: Ti senti cambiato da questo film?

R: Sì. Mi sono trovato a far combaciare la vita col cinema, mi era già successo in passato e anche in questo caso l’effetto si avverte. Ho sentito l’esigenza di ripartire da me per potermi rivolgere agli altri, in modo che la mia esperienza non fosse solo un racconto personale ma diventasse anche una riflessione più ampia. Per riuscirci dovevo partire da un mio bisogno e instaurare un rapporto diretto con l’oggetto della storia. Un documentario non è un film di un regista, come avviene per le pellicole del cinema tradizionale, bensì un film di un regista con qualcuno. Questo è il mio film con mio fratello. Da questo sentimento intimo, da questa esigenza ho potuto iniziare un discorso che si aprisse alle altre persone, al pubblico.

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La memoria a breve termine, a lungo termine e la working memory – Introduzione alla Psicologia Nr. 30

La memoria è un magazzino all’interno del quale l’individuo può conservare tracce della propria esperienza passata, cui attingere per riuscire ad affrontare situazioni di vita presente e futura. Atkinson e Shiffrin (1968) postularono l’esistenza di tre tipi di memoria: memoria sensoriale, memoria a breve termine (MBT) e memoria a lungo termine (MLT).
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 30)

 

Nelle scorse settimane su  questa rubrica abbiamo parlato delle differenze tra memoria semantica e memoria episodica e di memoria autobiografica (ndr).

La memoria sensoriale mantiene le tracce mnestiche acquisite solo per una manciata di secondi. Malgrado il tempo di mantenimento dell’informazione sia poco, risulta comunque sufficiente per riuscire a percepire la realtà. La memoria sensoriale mostra caratteristiche diverse a seconda delle percezioni sensoriali coinvolte nel ricordo.

La memoria sensoriale visiva, memoria iconica, è una memoria che opera sotto soglia di coscienza e mantiene la traccia di immagini viste per pochi istanti. La memoria sensoriale uditiva, memoria ecoica, mantiene la traccia per circa due secondi e svolge un ruolo molto importante nel processo di comprensione del linguaggio verbale.

La memoria a breve termine (MBT) contiene le informazioni per un periodo di tempo molto breve, solitamente il tempo stimato corrisponde a una decina di secondi. Dopo questo tempo, la traccia decade. Un delle caratteristiche di questo magazzino mnestico è contenere contemporaneamente poche unità di informazioni. Infatti, in un soggetto adulto le unità contenibili nella MBT sono cinque più o meno due, variano a seconda delle caratteristiche del materiale da ricordare. Se queste informazioni non sono trasferite nel magazzino a lungo termine, ovviamente, decadono e spariscono. La MBT svolge una funzione transitoria e di servizio tra la memoria sensoriale e la memoria lungo termine. Se queste tracce riescono a essere consolidate tramite strategie comportamentali fluiscono nella memoria a lungo termine, e se così non fosse, allora sono destinate a scomparire.

La memoria a lungo termine (MLT) è un archivio avente capacità quasi illimitata, dove sono conservate tutte le esperienze e le conoscenze acquisite nel corso della vita e quelle che corrispondono al nostro carattere o temperamento. La MLT si suddivide in memoria esplicita, o dichiarativa, e memoria implicita, o procedurale. La memoria esplicita, o dichiarativa, comprende tutto ciò che può essere descritto consapevolmente dal soggetto ed è suddivisa in memoria episodica, memoria semantica e memoria emozionale. La memoria procedurale o implicita, al contrario, contiene abilità motorie, percettive e cognitive

Secondo Baddeley e Hitch (1974) esiste un nuovo magazzino in aggiunta alla memoria a breve termine: la memoria di Lavoro (MDL), o working memory. La working memory è una forma particolare di memoria a breve termine che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato. L’informazione presente nella MDL consente l’utilizzo dell’informazione stessa nel qui ed ora, quindi quando lavoriamo, ascoltiamo o dobbiamo interagire in un discorso.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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E’ tempo di connettersi! La Nomofobia e la paura di essere offline

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 18/10/2015

Un tempo, almeno così si racconta, c’era una separazione netta tra tempo connesso e tempo disconnesso, tra relazione sociale e spazio privato, tra spazio pubblico e ritiro nell’anima.

Le comunicazioni mediate da internet hanno interrotto la dicotomia tra comunicazione scritta e comunicazione orale. Esse consentono scambi sociali una volta inimmaginabili, scritti e al tempo stesso diretti e immediati come quelli orali, come avviene su chat, sui social network, in e-mail e in messaggistica istantanea. È l’oralità scritta (Pozzi e Toscani, 2008), una forma di comunicazione che abbraccia insieme la ponderazione della comunicazione scritta e l’immediatezza della comunicazione orale.

Ormai internet è disponibile con facilità in quasi tutti i posti di lavoro, sugli smartphone e nei luoghi pubblici. Si riduce la nozione d’intimità, di consapevolezza dell’esistenza di uno spazio di informazioni private e personali per le quali è necessario un atteggiamento di grande attenzione e protezione, in quanto una volta immesse nell’universo virtuale non è più possibile cancellarle né avere pieno controllo del loro utilizzo da parte di altri utenti (Rivoltella, 2001).

Eppure, ci si chiede anche: è vero tutto questo, oppure non c’è mai nulla di veramente nuovo sotto il sole? Siamo davvero drogati di connessione sociale, o siamo da sempre animali politici come scriveva Aristotele, ovvero scimmie bisognose di riconoscimento, di una droga relazionale? Hanno ragione i pessimisti conservatori o gli ottimisti che sperano nel progresso? Sbagliano i disincantati, anche se non lo ammetteranno mai, oppure i fiduciosi, e anche loro non lo ammetteranno mai?

Rispondere non è facile. Quando esattamente la connessione con internet diventa segnale di un cambiamento antropologico e culturale? Oppure, passando dal sociale all’individuale, quando possiamo dire che la connessione con internet è ormai diventata parte della personalità, e forse di una personalità disturbata? Purtroppo, o per fortuna, non vi è un limite di tempo né un numero di messaggi invitati che definisca questa possibile modificazione antropologica e psicologica. Possiamo solo dire che ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita quotidiana.

I segnali di una possibile dipendenza da Internet sono:

  • Perdere il senso del tempo online: ti trovi spesso a rimanere connesso più a lungo di quanto avessi previsto? Qualche minuto si trasforma in qualche ora? Ti irriti se vieni interrotto?
  • Avere problemi nel portare a termine i compiti, a casa o al lavoro: ti ritrovi a fare tardi al lavoro per avere utilizzato internet per motivi diversi? A casa trascuri la spesa da fare, la lavatrice o altre commissioni per passare più tempo connesso?
  • Isolamento dalla famiglia e dagli amici: pensi che nessuno ti capisca nella tua vita reale come invece fanno i tuoi amici online? Ti ritrovi a passare meno tempo con amici o famiglia e più tempo connesso alla rete?
  • Sentimenti di colpa legati all’uso di internet: ti irriti quando gli altri continuano a dire di spegnere il computer o di mettere giù lo smartphone? Non dici sempre la verità sul tempo effettivo speso online?
  • Sentire un senso di euforia quando connessi: ti ritrovi a usare internet come valvola di sfogo quando sei triste, stressato o cerchi eccitamento sessuale? Hai provato a ridurre l’uso di internet e non ce l’hai fatta?

Non si tratta solo di internet. Anche gli smartphone partecipano di questa malattia sociale e dell’anima. Nomofobia, abbreviazione della frase non-mobile-phone fobia, è la parola che descrive la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo.

Una delle caratteristiche della nomofobia, ad esempio, è proprio quella sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili. Si accompagna a questo la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo, anche quelli più intimi come il bagno, la camera da letto o lo spazio di una seduta in terapia. Insomma, siamo sempre connessi, e viviamo nel timore di sconnetterci.

Il narciso – Tracce del Tradimento Nr. 28

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXVIII: Il narciso

 

Anche il narciso, come l’egocentrico, non ha nessun secondo fine rispetto al coniuge; non ha nessuna intenzione di liberarsi di lui, né è insoddisfatto della relazione e vuole cambiarla. Semplicemente pensa che sia impossibile che qualcuno possa mai rinunciare a un tesoro inestimabile quale egli è.

Se gli egocentrici sono prevalentemente maschi, i narcisi sono equamente distribuiti tra i due sessi, ma spesso è tra le donne che si trovano le forme più pure. Anche questo andamento epidemiologico è in parte comprensibile con motivi biologici e culturali. I motivi biologici consistono nello sviluppo puberale che nelle ragazze precede quello dei maschi cosicché le giovinette diventano donne prima dei loro coetanei che le assediano in larghe schiere ottenendo solo sguardi di sufficienza e rifiuti. Anche il narciso, come l’egocentrico, non ha nessun secondo fine rispetto al coniuge; non ha nessuna intenzione di liberarsi di lui, né è insoddisfatto della relazione e vuole cambiarla. Semplicemente pensa che sia impossibile che qualcuno possa mai rinunciare a un tesoro inestimabile quale egli è. Lo specchio gli rimanda un’immagine di sè grandiosa della quale è il primo a essere innamorato, un’immagine così abbagliante che gli impedisce di vedere gli altri, che al massimo possono svolgere il ruolo di specchi, di comparse intorno al grande protagonista.

Egli è certo che il coniuge non lo lascerà mai perché ha troppo bisogno di lui: spesso infatti la sovrastima esasperata di sè va di pari passo con la sottostima dell’altro ed il partner è visto come una persona fragile, incapace di cavarsela da solo, bisognoso di aiuto. A volte il partner viene scelto appositamente con queste caratteristiche in modo che sia sempre devoto al narciso che sente come il protettore della sua esistenza, senza il quale non saprebbe vivere e che funge da tramite tra lui ed un mondo che pensa non saprebbe fronteggiare da solo. Il narciso accetta di buon grado il ruolo di protettore e salvatore e si guarda bene dallo spingere il partner all’emancipazione, in quanto è proprio la sua presunta debolezza a garantirgli che mai se ne andrà e che accetterà da lui qualsiasi cosa.
Il narciso sta apparentemente benissimo con se stesso e dunque non richiede mai un aiuto; semmai è proprio il partner di un narciso a richiedere una psicoterapia che se ha successo comporta l’acquisizione di una sempre maggiore autostima e dunque, quasi sempre, l’interruzione del rapporto con il narciso. La convinzione circa l’assoluta dipendenza dell’altro unita all’idea di essere “troppo meraviglioso” perché qualcuno possa volontariamente fare a meno di lui lo fanno sentire in una botte di ferro rispetto alla possibilità di essere lasciato e dunque gli fanno dimenticare ogni precauzione nel nascondere la relazione con l’amante, che è una evenienza quasi obbligata nel narciso.

Non si sente neppure in colpa per il tradimento secondo il ragionamento per cui anche la metà di lui vale molto di più di tanti altri messi assieme. Non sente di togliere nulla al coniuge perché è fermamente convinto di poter soddisfare molto più di un solo partner e di riuscire a renderli tutti contemporaneamente e straordinariamente felici a riprova della sua grandezza: non solo non toglie nulla a nessuno, ma anzi i suoi partner sono molto fortunati perché a loro è toccata una sorte straordinaria consistente nell’avere accesso a lui. Se non c’è danno non c’è colpa e, inoltre, si tratta di un suo diritto. Infatti non si sente in colpa perché ritiene che avere più di un partner gli sia dovuto, come una persona molto grande fisicamente ha bisogno di una quantità di cibo maggiore di una persona piccola e magra.

Egli ritiene che per soddisfare il suo bisogno di amore, di sesso, di attività non sia sufficiente un solo partner; non ce la può fare da solo e dunque devono essere almeno in due a darsi il cambio. Ciò è ai suoi occhi talmente evidente che anche i suoi partner dovrebbero accettarlo di buon grado o addirittura essere grati sia per la fortuna capitata loro di poterlo avere seppure in comproprietà, sia per la possibilità di alternarsi sull’otto volante potendo così riprendere fiato e non rimanere stroncati dalla fantastica girandola di emozioni.

Vittorio era un giovane imprenditore di 35 anni che sin dall’adolescenza inseguiva il mito di un padre brillante e donnaiolo che non faceva altro che narrare, probabilmente con qualche esagerazione, le sue avventure sessuali al figlio che stava crescendo dicendogli che non sarebbe mai stato come lui. Vittorio nonostante notevoli successi nel campo professionale aveva sempre all’ordine del giorno il tema del suo valore personale. Ogni occasione era utilizzata per misurarsi e aveva così sviluppato la sindrome del decatleta per cui doveva essere il migliore in tutti i campi: il più colto, il più ricco, il più elegante, il più controcorrente, il più sensibile, il più duro, il più amabile e soprattutto il migliore sessualmente.
Naturalmente i problemi sessuali di Vittorio erano sorti insieme allo sviluppo sessuale: la sua vita sessuale era inizialmente un continuo esame da affrontare con estrema ansia e poi un impegno gravoso tanto che aveva sviluppato per esso una sorta di nausea; di fronte ad ogni donna non si chiedeva neppure se gli piacesse ma doveva seguire un compito superiore e indiscutibile: portarla a letto per dimostrare il suo valore. Tutte le conferme che costantemente riceveva sembravano precipitare in un pozzo senza fondo che neppure lontanamente accennava a colmarsi: non bastava mai.
Periodicamente si recava dal padre per fargli il resoconto della sua esistenza e soprattutto dell’aspetto sessuale della stessa ma non riceveva mai quella rassicurazione, quel “Figlio mio, vai bene così, e comunque io ti amo” che forse poteva farlo fermare. Aveva avuto due storie importanti nella sua vita, persone con le quali aveva convissuto e dalle quali si era sentito effettivamente amato e con le quali almeno a tratti aveva potuto dismettere la maschera del superuomo e rilassarsi un po’. Tuttavia non aveva potuto neanche in quei periodi smettere di ricercare conferme da esibire al padre in altre storie extraconiugali e alla fine avendo lasciato tracce goffe e inequivocabili dei tradimenti era stato lasciato ed era tornato solo.

Non è facile accorgersi al primo sguardo di trovarsi di fronte ad un narciso se non nei pochi casi in cui tale aspetto di personalità acquista tratti caricaturali: normalmente si tratta di persone effettivamente affascinanti e particolarmente allenate a capire come piacere agli altri; per questo, esattamente all’opposto degli egocentrici, sanno perfettamente mettersi nei panni degli altri e capire i loro desideri e bisogni. Questo comportamento deduttivo è spesso adottato anche con il terapeuta, con il quale ci si muove come se si dicesse: “Dottore, due persone eccezionali come noi, si capiscono al volo!”

Questa sensazione illusoria di alleanza va riconosciuta come diagnostica del narciso. Inoltre questo strabordante senso di sè non sempre è apertamente dichiarato perché il narciso pensa che gli altri potrebbero non capirlo o comunque invidiarlo con malevolenza e dunque solo in rapporti di estrema confidenza rivela apertamente la sua straordinaria visione di sè, che spesso lo accompagna sin dalla prima infanzia: non è mai stato come gli altri, ha sempre sentito di essere chiamato ad una vita ed a compiti straordinari.

Finora abbiamo descritto solo una faccia del narciso, quella rivolta verso gli altri; ma esiste anche una faccia nascosta, che solo lui conosce, teme e vuole tenere lontana fino a dimenticarla e proprio a ciò serve il rapporto con gli altri adoranti e plaudenti. È proprio per mantenere le idee di grandezza senza le quali si sentirebbe una nullità assoluta che il narciso ha bisogno di continue conferme e nel tentativo di estorcerle continuamente al pubblico eletto può diventare assai pesante ed il pubblico, annoiato, può disertare lo spettacolo.

Amici e conoscenti sono molto importanti ma sono i partner il pubblico privilegiato, i grandi elettori ed il narciso vi si dedica con grande dispendio di energie perché di loro ha assoluto bisogno: già, per il solo fatto di esserci, rappresentano una importante conferma per la sua autostima ma essi si aspettano continue attestazioni di grandezza. L’amante è una conferma del suo valore e quanto più si tratta di persona “importante”, “conosciuta” e “desiderata” tanto meglio svolge tale funzione: è come il distintivo di un circolo esclusivo che si porta sulla giacca per dimostrare agli altri di essere speciali; purtroppo il narciso ha bisogno anche di dimostrarlo a se stesso perché in fondo non ci crede e la sua fame di conferme non si placa mai.

L’amante importante svolge il ruolo di ricarica per l’autostima, in due modi: uno più interno ed uno più sociale. Internamente il narciso si dice: “Se lui così in gamba e importante sta con me vuol dire che io valgo”; tuttavia non può mai abbassare la guardia e deve continuare a stupire il suo partner in un faticoso crescendo senza sosta perché sarebbe drammatico se dopo averlo conosciuto meglio lo lasciasse: ciò significherebbe che, ad un esame più attento, lui non vale niente. Per questo in genere i narcisi sfuggono una intimità profonda: temono infatti che il bluff che sentono di essere venga scoperto.

Per quanto riguarda l’aspetto sociale il narciso pensa che quando gli altri sapranno che quella persona, così importante, ha scelto lui, anche loro si convinceranno del suo valore e lo ammireranno. Il suo ufficio stampa è sempre molto attivo e perciò se volete avere una storia che resti assolutamente segreta non sceglietevi un narciso. Le gesta del narciso in campo affettivo devono essere conosciute per ottenere l’effetto desiderato e questo crea situazioni particolarmente imbarazzanti e ricche di tracce. Questo è un aspetto decisivo per capire il comportamento del narciso: egli ha continuamente necessità di riconoscimenti degli altri e ha molto più bisogno degli altri che gli altri di lui, anche se fa di tutto per rendersi indispensabile.

La sua è una vita molto faticosa perché deve darsi continuamente da fare per risultare straordinario e indispensabile e se qualcuno riesce a capire questo suo inestinguibile bisogno, questa sua dipendenza dal giudizio degli altri, è in grado di fargli fare qualsiasi cosa e di renderlo asservito ai suoi bisogni sventolandogli davanti un riconoscimento che tuttavia non è mai definitivamente acquisito. Se un amante è segno di distinzione e di valore, due sono ancora meglio e, comunque, più sono e meglio è: quindi raramente il narciso si ferma ad una amante sia in successione nel tempo che contemporaneamente. Agisce come un collezionista, si bea a riguardare i pezzi più pregiati e il suo archivio storico lo rassicura sul suo valore, non riuscendo tuttavia a fugare mai definitivamente i dubbi. Il coniuge ha in realtà un posto speciale in quanto proprio il fatto che non lo lasci, nonostante l’evidente tradimento che tutti sanno, diventa una prova della sua straordinarietà: se non vuole in alcun modo perderlo ed è disposto a sopportare tutto da lui ciò costituisce una prova certa di quanto sia straordinario stare con lui. Anche questo è bene che gli altri lo sappiano. Una storia vissuta in segreto serve a poco, occorre esibirla, è importante che si sappia, che se ne parli: in questo senso per il narciso il lasciar tracce è una necessità assoluta e non un incidente di percorso. Che si tradisce a fare se non lo si sa in giro! Il narciso non assomiglia all’avaro che gode del possedere i suoi soldi e meno gli altri lo sanno e più sta tranquillo, ma al prodigo che deve mostrare a tutti la sua ricchezza a costo di fare debiti e comprare a rate.
Il suo bisogno di rassicurazione circa la propria amabilità è incolmabile per cui è alla costante ricerca di storie da mostrare in pubblico; l’impegno che profonde in tale impresa dà una misura della sua profonda insicurezza. L’assenza degli altri rappresenta una vera e propria minaccia per la sua esistenza; senza gli altri che gli rimandano la sua immagine egli si sente scomparire, cessa di esistere. Il suo ideale è l’harem, ma un harem dai muri trasparenti dove tutti possano curiosare e guardarlo con ammirazione.

Per questo non è sufficiente avere l’amante, occorre anche divulgare o perlomeno far intuire le eccellenti prestazioni sessuali o i numerosi corteggiamenti ricevuti e che magari sono stati rifiutati, anch’essi portano merito. In questi racconti il narciso esagera sempre sulle sue prestazioni e le lodi ricevute. Al contrario, eventuali fallimenti e difficoltà sono tenuti nascosti e comunque costituiscono un vulnus profondissimo alla propria identità. Spesso questi soggetti sono a rischio di sviluppare disfunzioni sessuali che si organizzano intorno all’ansia di prestazione e che sono vissute come una tragedia inenarrabile, di cui non far parola con nessuno, neppure con lo specialista che potrebbe facilmente aiutare a risolverla. A volte il narciso finisce per fare pena al suo coniuge che si rende conto dell’estrema fragilità del suo partner e del suo esasperato bisogno di affermazioni e accetta di stargli a fianco per tutta l’esistenza accettando i suoi tradimenti come un vero e proprio sintomo, continuando a rassicurarlo come si farebbe con un bambino spaventato di fallire nelle prove che lo aspettano dicendogli: “Coraggio, sei il migliore, sei il più forte e comunque ci sono qua io!

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Bambini e bugie: il lato negativo di una buona Teoria della Mente

La Teoria della Mente può avere effetti indesiderati: i bambini cui viene insegnato a riflettere sugli stati mentali altrui, avrebbero più probabilità di mentire allo scopo di vincere un premio.

La Teoria della Mente (Theory of Mind, ToM) può avere effetti indesiderati: secondo uno studio pubblicato su Psychological Science, i bambini cui viene insegnato a riflettere sugli stati mentali altrui, avrebbero più probabilità di mentire allo scopo di vincere un premio.

Infatti mentire non è un affar semplice: dal punto di vista cognitivo richiede il tentativo di immaginare e produrre intenzionalmente una falsa credenza nella mente dell’interlocutore; e la Teoria della Mente è uno strumento cognitivo elettivo per fare questo.

Già ricerche passate avevano messo in evidenza la correlazione tra la tendenza dei bambini a mentire (che tipicamente si presenta intorno ai 2-3 anni) e le abilità di teoria della mente. In questo studio, il passo successivo è stato verificare un rapporto causale tra le due variabili.

Per prima cosa i ricercatori hanno sottoposto i bambini (tre anni di età) a un task – gioco sperimentale allo scopo di verificare la loro capacità di mentire. Sulla base dei risultati di questo primo task, 42 bambini che non avevano mai mentito nei diversi trial del compito precedente sono stati coinvolti nello studio.

In seguito, metà dei soggetti è stata randomicamente assegnata a un training di teoria della mente (il cui obiettivo era insegnare ai bambini che le altre persone possono avere stati mentali e pensieri differenti dai propri) oppure a un training di ragionamento numerico. La durata di entrambi i training era di una seduta al giorno per sei giorni.

Come ci si poteva aspettare, i bambini sottoposti al training di Teoria della Mente hanno mostrato un miglioramento nelle abilità di Teoria della Mente in maniera significativamente maggiore rispetto al gruppo di controllo.

Ma l’aspetto più interessante è che coloro che avevano effettuato il training di Teoria della Mente presentavano una significativa maggiore probabilità di mentire nel task sperimentale allo scopo di ottenere una caramella rispetto al gruppo di controllo. Una prova empirica della relazione causale tra Teoria della Mente e menzogna: la manipolazione delle abilità di Teoria della Mente può influenzare e facilitare il comportamento menzognero.

Il problema della dipendenza, del craving e dell’overdose nel film “Radiofreccia” – Cinema & Psicologia

Ma cos’è la dipendenza? È la condotta legata all’uso distorto di una sostanza, un oggetto o comportamento, caratterizzata da incoercibilità e modalità ripetute e compulsive.

Era il 16 ottobre 1998 e usciva nei cinema “Radiofreccia” di Luciano Ligabue. All’epoca Luciano Ligabue era un cantante di Correggio che, per la prima volta, si stava cimentando come regista, raccontando la storia di un gruppo di ragazzi di una piccola provincia emiliana, alla fine degli anni settanta. Il film, ispirato al libro “Fuori e dentro il borgo” dello stesso regista, è autobiografico.

La maggior parte dei telespettatori, me compresa, andò a vedere il film senza particolari aspettative, con uno stato d’animo leggero, ridendo e scherzando mentre faceva la fila al cinema. “E’ il film di Liga”, si pensava, senza badare troppo alla trama, canticchiando “ Ho perso le parole…” e commentando il fascino di un giovane Stefano Accorsi che compariva col suo bel profilo nei cartelloni. Contro ogni aspettativa, Radiofreccia vinse tre David di Donatello, due Nastri D’Argento e quattro Ciak D’Oro.

Nel cast, oltre al già nominato Stefano Accorsi nella parte di Ivan Benassi, detto Freccia, c’erano attori e personaggi conosciuti e sconosciuti: da Serena Grandi a Francesco Guccini. Il film inizia con l’ultima messa in onda di “Radiofreccia”, nome dato ad un’emittente libera creata da Bruno, un amico di Freccia. Era il periodo delle cosiddette “Radio libere”. L’escamotage che Liga usa per parlarne è la domanda del cinico barista di provincia Adolfo, interpretato da Francesco Guccini, che risponde a Bruno servendo un perfetto asset: “Libere da cosa?” La risposta di Bruno è evasiva, ancora incerta – per lui l’avventura in radio era solo all’inizio. “Libere”, rimanendo volutamente evasivo quasi a sottolineare un mood presente in tutto il film: quell’idea di libertà -e di liberazione- di quegli anni ’70, diversi da tutte le altre epoche.

Bruno è anche la voce narrante del film, quello che deciderà di non far diventare maggiorenne la Radio, spegnendo il segnale un minuto prima del compimento del diciottesimo anno di trasmissione. A chi gli chiede il perché, risponde: “Perché è ora”. Bruno racconta in prima persona la storia di Freccia attraverso la storia di una radio, di un gruppo di amici di una provincia italiana degli anni ’70. Offre un’istantanea su un’epoca, sulle aspettative di un gruppo di giovani, sulle abitudini dei vecchi, dei fantasmi e della morte di Freccia per overdose, in onore del quale cambierà il nome alla sua radio: da Radio Raptus a Radio Freccia. Erano gli anni settanta, l’eroina e le sue conseguenze non si conoscevano ancora troppo bene, la leggerezza nel voler colmare i “buchi grossi” con l’utilizzo di sostanze psicoattive la faceva da padrona. In modo molto semplice, il film tocca tutti gli elementi chiave della dipendenza, senza troppo appesantirne il carico e attraverso le parole di un dialogo in particolare tra Freccia e Bruno. Tra i più significativi:

Io mi sono lasciato cominciare. È stata una tipa a farmi provare. A me non sarebbe mai venuto in mente di infilarmi un ago in vena… quella volta più che chiedermi perché, mi sono chiesto perché no“.

Sulla dipendenza, il craving e il ritiro sociale, Freccia dice: «Quella volta lì, (la prima) bellissimo. È arrivata una gran botta e sono sparite di colpo tutte le sciocchezze. Un gran calore e poi… e poi come tanti orgasmi tutti insieme: lungo la schiena, sulle gambe, dappertutto»

Bruno: «E poi?»

Freccia: «E poi ho fatto come fanno tutti. Mi sono detto: mi buco ancora una volta o due, tanto poi smetto come mi pare»

Bruno: «È andata così?»

Freccia: «No, mi sa che non va mai così. Io, almeno, dopo un paio di volte, c’ero già dentro».

Bruno: «Cioè?»

Freccia: «Vuol dire che vuoi sempre di più. E più te ne fai, più te ne serve. E allora è facile mandare all’aria tutto»

Bruno: «Cioè?»

Freccia: «Cioè… cioè devi rubare, hai capito? Perché non te la regala nessuno. Comunque dopo un po’ smette anche di darti piacere… però stai male se non ti buchi e allora… allora ti fai solo per essere normale. Comunque alla fine diventa una cosa tra te e lei. Tutto il resto non conta più niente»

Sulla disintossicazione fisica e apparentemente mentale Bruno chiede: «Come sei riuscito a smettere?»

Freccia: «Cagandomi addosso… cagandomi addosso con lo stomaco che si spaccava e il cuore a mille. Gran botte di caldo e poi di freddo… e una gran paura di morire di dolore. Ho passato dieci giorni in un letto che continuavo a sporcare e che una persona continuava a pulire. Se non era per lei, sicuramente non ne venivo fuori. Però sai… non so se posso dire di aver proprio smesso. Cioè, sì… da qualche mese non mi faccio più, però… forse è meglio se non ci penso troppo».

Ma cos’è la dipendenza? È la condotta legata all’uso distorto di una sostanza, un oggetto o comportamento, caratterizzata da incoercibilità e modalità ripetute e compulsive. Diverse teorie legate alla psicopatologia delle dipendenze cercano di spiegare la motivazione di un primo contatto: 1. Predisposizione a condotte “novelty-seeking”/”risk-taking”; 2. Atteggiamento culturale o “etnico”; 3. Disponibilità della sostanza; 4. Effetto di rinforzo rispetto a gruppi sociali (peer pressure); 5. Automedicazione o trattamento prescritto.

Detto questo, qualsiasi motivo possa spingere un soggetto a far uso di una determinata sostanza, l’assunzione della stessa mette in moto meccanismi predeterminati a livello del circuito di reward che partono con un incremento meso-limbico e meso-corticale di dopamina. Questo cosa vuol dire? Le sostanze cosiddette d’abuso hanno in comune questo rilascio di dopamina nella parte “inferiore” del cervello (mesencefalo) e in alcune aree frontali del cervello “superiore”. Il rilascio di dopamina funziona come un segnale, che ha come conseguenza la fissazione di una memoria: la sostanza “mi ha fatto stare bene” merita di essere riutilizzata. Tutte le diverse sostanze psicoattive sebbene abbiano diversi interruttori cerebrali hanno in comune due cose quindi: 1)Sensazione di piacere ed euforia; 2)La fissazione del desiderio nella memoria che sfocia nel comportamento di ricerca ossessiva, che crea il cosiddetto rinforzo. Memoria e rinforzo sono gli elementi chiave della dipendenza e da qui scivoliamo nel craving, un termine che non indica altro che il desiderio ossessivo di assumere la sostanza.

Tra le conseguenze nell’assunzione cronica di sostanze psicoattive troviamo: Impoverimento delle funzioni cognitive superiori; Alterazioni dello stato di coscienza; Psicosi; Disturbi dell’Umore e dell’Affettività in generale; Suicidio; Disturbi ed Alterazioni della Personalità; Disturbi della Sfera Sessuale; Altre Complicanze Mediche.

Freccia è morto per overdose, ma cosa significa? Il termine overdose indica non altro che un’ assunzione eccessiva di una certa sostanza. A seconda della droga utilizzata la morte per overdose è diversa, non volendo entrare troppo nello specifico possiamo ad esempio avere overdose da cocaina che si manifesta con: 1) Rapidità di insorgenza 2) Convulsioni tonico-cloniche 3) Arresto cardiaco per fibrillazione ventricolare (Il decesso per intossicazione può essere scambiato per un “attacco cardiaco”e bisogna ricercare nel sangue la cocaina). Oppure l’overdose avviene per l’assunzione di eroina, è quella più conosciuta ed è il caso di Freccia, qui descritta nella forma acuta come “sovradosaggio accidentale o intenzionale, o per nuova assunzione dopo un periodo di astinenza prolungata, in cui l’organismo ha ridotto la tolleranza (Si verifica quando una data dose di sostanza, dopo somministrazioni ripetute, produce un effetto minore di quello ottenuto alla prima somministrazione).

La sindrome da overdose è specifica e inconfondibile, diagnosticabile dalla presenza di tre sintomi: 1)Miosi; 2)respirazione ridotta o assente; 3)coma.

Questo 1977 è un gran casino. C’è un gran movimento in giro. Non so dire se è bello o brutto, però è veloce. C’è il movimento studentesco, ci sono le radio libere. Ci sono i genitori che sono sempre più come tu giuri non sarai mai. Ci sono le utopie, le religioni. E ci sono appunto quelli che non si lasciano stare” quelli che non si lasciano stare non si sono estinti alla fine degli anni settanta, c’erano prima e ci sono oggi, non sono alieni. La droga, le dipendenze in generale, riguardano tutti. Credo sia indispensabile insegnare ai nostri figli che certe cose non si vedono solo nei film e che come dice Bonanza: [blockquote style=”1″]La vita non è perfetta, le vite nei film sono perfette, belle o brutte, ma perfette, nei film non ci sono tempi morti, la vita è piena di tempi morti, nei film sai sempre come va a finire, nella vita non lo sai mai! [/blockquote]

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La clownterapia & gli effetti benefici dell’umorismo in ambito ospedaliero (2014) – Recensione

“La clownterapia. Teoria e pratiche” è un volume scritto a più mani e curato da Alberto Dionigi e Paola Gremigni che si struttura come un’ottima introduzione al tema per gli addetti e i non addetti ai lavori.

Dopo un primo excursus sulla figura del clown a tutto tondo, viene approfondito il suo ruolo in ambito sanitario, con la presentazione della figura del clowndottore. Le sue origini risalgono agli anni 90, dall’interesse per la psicologia positiva, intesa come settore finalizzato allo studio delle risorse della persona, del suo benessere e della sua resilienza. In una parola, insomma, lo studio della felicità e delle altre emozioni positive, dopo decenni di interesse verso gli stati emotivi negativi o disturbanti, che dir si voglia. Se da una parte la psicologia positiva ha approfondito il ruolo del piacere, delle emozioni positive e dei tratti positivi tout court (la capacità di organizzarsi, l’auto-direttività e l’adattamento), dall’ altra ha cercato di definire una loro possibile applicazione per aumentare il benessere individuale, approfondendo la comunità e le istituzioni positive. Sono state inoltre definite sei virtù personali che possono definire la “buona vita” (Peterson & Seligman, 2004), e in particolare: saggezza, coraggio, umanità, giustizia, temperanza e trascendenza. Come si arriva a possedere queste virtù? Secondo gli autori, attraverso ben 24 punti di forza del carattere, tra cui si annovera l’umorismo.

All’ interno degli ospedali purtroppo non sempre c’è spazio e modo di fare ricorso all’umorismo; tuttavia, gli anni ’80 hanno visto l’ingresso in ospedale di clown professionisti, ad opera di Michael Christensen e Jeff Gordon, battezzando così la figura del “clowndottore”. Questa attività, inizialmente preposta alle équipe pediatriche, è diventata ben presto presente in tutti i tipi di reparti e con pazienti di ogni età, vedendo anche la nascita di diverse organizzazioni di clowndottori in tutta Europa. Nel contesto della psicologia positiva, l’obiettivo del clowndottore è utilizzare l’ironia e l’umorismo per umanizzare le pratiche di cura, al fine di sdrammatizzare lo stato di angoscia che può pervadere tanto la persona malata quanto chi la assiste.

Facendo leva sulla resilienza, le attività del clowndottore sono quindi finalizzate a rafforzare la componente sana sempre presente nel malato, per aiutare questa parte ad accelerare la guarigione della componente in difficoltà. Nello specifico, esistono due modalità di utilizzo dell’attività del clowndottore: mentre una mira alla distrazione e alla sostituzione (temporanea) di un’emozione negativa con un’emozione positiva, una seconda e più strutturata versione è quella del “clown maestro”, che prevede l’utilizzo della clownerie come strumento di formazione in diversi settori. Nello specifico, il clown mira a ribaltare il sistema di valori di riferimento, consentendo alle persone di riscoprire le parti infantili ancora presenti e svincolandole dalle regole e dai divieti imposti da se stessi e dall’ambiente. Il movimento è in questo caso duplice: da una parte mira a esprimere le emozioni in modo sempre più accentuato, dall’ altra invita le persone a scoprire e rendere espliciti i propri difetti con lo scopo di scoprire un senso di libertà dai vincoli e dal giudizio.

I curatori del volume sottolineano più volte come il tentativo di questo libro sia discostarsi dalla visione più comune del clown al servizio della persona come “terapeuta della risata”, identificandolo invece come una figura che utilizza soprattutto il corpo per sollecitare l’intelligenza emotiva e aiutare gli altri a riconoscere i propri difetti, familiarizzare con essi e giocarci vincendo gradualmente il senso di vergogna.

Il volume prosegue con una disamina del ruolo del clown all’interno di contesti sanitari, che per loro stessa struttura si connotano come ambienti difficili e a volte traumatici, soprattutto nel caso in cui i pazienti siano pediatrici. In questo caso, il ruolo del clown diventa importante nel favorire il cambiamento di vita (seppure temporaneo) che l’ingresso in ospedale comporta, connotandosi a volte come un vero e proprio evento traumatico. Il clowndottore si rivolge così tanto al degente quanto alla struttura ospitante in tutte le sue figure, con il fine di migliorare la qualità della vita all’interno del reparto seguendo pratiche e protocolli ben definiti.

Il volume prosegue con una disamina degli strumenti del clowndottore, per poi passare in rassegna gli studi empirici che hanno approfondito questa figura all’interno dei contesti di cura sia pediatrici che con un’utenza adulta e anziana. Infine, si affronta il delicato tema della formazione dei clowndottori che si collocano in una terra di mezzo difficile da definire e che si sono configurati sempre di più come una nuova figura professionale che si crea seguendo in particolare tre livelli di intervento (competenze professionali, conoscenze e abilità, talenti personali); viene quindi sottolineato come la formazione in questo ambito implichi e coinvolga in grande parte le caratteristiche personali ancor prima che professionali, richiedendo una buona capacità di mettersi in discussione e di integrare e trasformare se stessi e la propria personalità per ricostruirsi in un modo più utile, il tutto con una plasticità emozionale notevole.

L’ultima parte del libro, infine, è dedicata agli aspetti psicologici dei clowndottori, con particolare riferimento alla motivazione, al carico emotivo che questo ruolo comporta, all’ansia da prestazione e alla possibilità di prevenire il rischio di burnout.
Complessivamente questo volume si propone come un’utile sintesi di un ruolo altamente complesso e in Italia ancora non troppo conosciuto da parte dei non addetti ai lavori, che può tuttavia assumere un’importante funzione integrando i contesti di cura tradizionali e permettendo a questi ambienti di assumere una configurazione del tutto nuova, facendo leva sulla positività anziché sulle difficoltà che per loro natura i contesti ospedalieri comportano.

Ernst Jünger (2015) a cura di Luigi Iannone – Recensione

Luigi Iannone ha curato un libro collettivo sulla controversa figura di Ernst Jünger, romanziere e saggista tedesco appartenente alla cosiddetta rivoluzione conservatrice.

Luigi Iannone ha curato un libro collettivo sulla controversa figura di Ernst Jünger, romanziere e saggista tedesco appartenente alla cosiddetta rivoluzione conservatrice (konservative revolution), termine coniato da Hugo von Hoffmanstahl per denominare quella corrente di pensiero che in Germania, dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, rifiutò la svolta democratica della repubblica di Weimar e aspirò a rifondare lo stato tedesco su una base fortemente identitaria e a criticare aspramente il sistema parlamentare e democratico, ritenuto servo del capitalismo e della visione economicistica del mondo.

La principale perplessità rivolta contro questa corrente intellettuale è il sospetto che essa abbia fornito terreno di coltura al nazismo che si svilupperà pochi anni dopo. Ed è vero che alcuni esponenti aderirono al nazismo, come Carl Schmitt. Altri però si astennero, come Gottfried Benn, o si opposero, come Thomas Mann. Del resto, basti dire che Hugo von Hoffmanstahl, il coniatore del termine konservative revolution, fosse di discendenza ebraica.

Tra coloro che si astennero dall’aderire al nazismo, sia pure senza mai davvero opporsi, c’era anche Ernst Jünger. Emerse giovanissimo alla notorietà letteraria con Nelle tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern), versione romanzata della sua esperienza di trincea nella guerra mondiale. Il romanzo fornisce una descrizione terribile ed eroica della guerra, lontana dalla sensibilità pacifista contemporanea. Jünger sembra immune da ogni rigetto della guerra, anche di quella meccanizzata e disumana moderna e che sembrerebbe al di là di ogni possibile processo di eroicizzazione. Jünger in qualche modo ci riesce grazie alla forza dello stile, anche se l’operazione lascia perplessi noi, immersi nel nostro tempo che giustamente non riesce a credere nell’onestà dell’eroismo guerriero.

Un autore del genere può sembrarci superato, e in parte lo è. Ma non dimentichiamo che Jünger, come altri della konservative revolution, è un figlio di Nietzsche, il quale è anch’esso padre di questa nostra modernità disincantata e senza Dio. Come Nietzsche, anche Jünger va al di là del bene e del male e pone in dubbio l’esistenza di un organo psichico che ci informi intuitivamente della moralità dei nostri atti. La legge morale non è un’intuizione interiore kantiana. Essa semmai è un istinto come un altro, non particolarmente privilegiato e che produce una pluralità di valori morali, tra i quali Jünger –almeno all’inizio del suo percorso- pone al centro l’individuo eroico.

L’obiettivo è il reincanto del mondo, il ritorno a una significatività spontanea ed emotiva dell’esistenza che superi l’utilitarismo economico e razionalistico dell’illuminismo. In questo percorso Jünger è contraddittorio, oscillando tra un superomismo individualistico e suggestioni collettivistiche quasi marxiste. A un certo punto egli giunge a vagheggiare una sorta di operaio capace di svolgere la sua missione di lavoratore con la dedizione del monaco e l’abnegazione dell’asceta. In altri momenti Jünger si rivolge al mondo contadino, come nel suo libro di viaggio in Sardegna e ancora in altri momenti sembra cercare rifugio nelle droghe, illusorio viatico per una dimensione superiore.

Iannone e i suoi collaboratori illustrano bene queste molteplici facce di questo pensatore contradittorio e poco sistematico, così tipicamente tardo-tedesco nello sviluppo rapsodico e asistematico del suo pensiero. Probabilmente la scarsa cura per la coerenza è quello che ha salvato Jünger dall’adesione al nazismo, oltre che per una nativa capacità di distanziarsi dal male, capacità che ha salvato Jünger malgrado tutte le sue nicciane aspirazioni ad andare oltre le barriere etiche.

Allo psicologo studiare Ernst Jünger può essere di aiuto per comprendere un tassello del clima culturale in cui crebbe anche Gustav Jung. I due autori hanno molto in comune. La fascinazione nicciana per le parti di ombra della personalità, per gli stati di coscienza alterati, per certe forme di sapienza iniziatica ed esoterica. Hanno in comune anche certe ambiguità iniziali nel rapporto con il nazismo. Insieme, Jung e Jünger hanno rappresentato la parabola infine perdente di una forma di modernità alternativa rispetto a quella liberale e capitalistica anglo-americana. Un’impossibile rivoluzione conservatrice.

Teorie Cospirazioniste: definizione, ricerca e ricadute psico-sociali

Matteo Anderlini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di psicologi si è occupato di ricerca nell’ambito delle teorie cospirazioniste, cercando di comprendere e spiegare il motivo della loro ampia diffusione e del loro successo nella società. 

Definire esattamente cosa si intenda con il termine Cospirazione non è semplice. Una possibilità può essere quella di fare riferimento all’interpretazione più strettamente giuridica, secondo cui una cospirazione sarebbe descrivibile come un accordo che nasce tra due o più persone al fine di commettere un crimine nel futuro; nel suo senso più ampio, quindi, una teoria cospirazionista rappresenta l’accusa che questo crimine abbia effettivamente avuto luogo.

Tuttavia questa definizione non coglie quel complesso significato che, a livello socio-culturale, viene inteso come Teoria cospirazionista e proprio a questo significato sono maggiormente interessati gli psicologi (Thresher-Andrews, 2013).

Anche se non esiste una definizione unica e condivisa (Sunstein e Vermeule, 2009), in generale le teorie cospirazioniste (o teorie del complotto) appaiono come un tentativo di spiegare un evento, solitamente politico o sociale, non come frutto di attività palesi svolte alla luce del sole, bensì come risultato di un complotto segreto portato avanti da un gruppo di potenti individui o organizzazioni (Douglas e Sutton, 2008).

Tuttavia, come sottolineato da Brotherton (2013), gli psicologi che si occupano di ricerca sul cospirazionismo hanno solitamente evitato di fornire una definizione precisa (Butler et al., 1995) e hanno dato definizioni brevi e relativamente superficiali (Swami et al., 2013; Whitson e Galinsky, 2008; Zonis e Joseph, 1994) con l’implicito presupposto che la differenza tra teorie cospirazioniste e altri tipi di costruzioni fosse, in qualche modo, auto-evidente (Byford, 2011).

Proprio partendo da questa critica, Brotherton fornisce una definizione della teoria cospirazionista come di un’affermazione non verificata di un complotto, che non si presenta come la spiegazione più plausibile di un certo evento e che fa riferimento a fatti e implicazioni di tipo sensazionalistico. La teoria cospirazionista postula inoltre la presenza di cospiratori eccezionalmente malvagi e straordinariamente competenti; infine, essa si basa su prove deboli e tende ad auto-proteggersi dalla confutazione empirica.

Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di psicologi si è occupato di ricerca nell’ambito delle teorie cospirazioniste, cercando di comprendere e spiegare il motivo della loro ampia diffusione e del loro successo nella società (Brotherton et al., 2013). Molta della letteratura sull’argomento ha indagato la relazione tra diverse possibili dimensioni di personalità e la tendenza a supportare le teorie della cospirazione.

È emersa, per esempio, una correlazione positiva con diversi fattori: l’apertura all’esperienza, (definibile come curiosità intellettuale, forte immaginazione e propensione per le idee insolite), l’autoritarismo, il cinismo verso la politica, la sfiducia nei confronti dell’autorità e la propensione a credere nel paranormale (Abalakina-Paap et al.; Brotherton et al., 2013; Darwin et al., 2011; Swami et al., 2010, 2011, 2013, 2014). È invece emersa una correlazione negativa con il livello di fiducia verso gli altri, l’autostima e l’amabilità (aspetto definibile come bassa sospettosità verso gli altri, tendenza alla collaborazione e cordialità) (Abalakina-Paap et al., 1999; Goertzel, 1994; Swami et al., 2010, 2011; Wagner-Egger e Bangerter, 2007).

Sembra possibile quindi descrivere alcune caratteristiche tendenzialmente stabili degli individui che appoggiano le teorie della cospirazione. Tuttavia è importante sottolineare i limiti di questi studi, che sono di natura correlazionale e che per questo motivo, quindi, non permettono di accertare una relazione di tipo causa-effetto tra le variabili prese in considerazione.

Un secondo approccio di studio, che utilizza invece disegni di ricerca di tipo sperimentale, si è infatti concentrato proprio sull’analisi di questa relazione causale, indagando quali variabili possano determinare una maggiore propensione a sostenere le teorie cospirazioniste.

Ad esempio, Douglas e Sutton (2008) hanno mostrato come, rispetto ad un gruppo di controllo, il semplice fatto di leggere dichiarazioni cospirazioniste riguardanti la morte della principessa Diana porti ad una maggiore inclinazione a credere a queste stesse teorie. È interessante notare come, in realtà, i soggetti non sono consapevoli di questo cambiamento: esiste quindi una sorta di impatto nascosto delle teorie del complotto sulle nostre convinzioni. Analogamente, essere esposti ad informazioni che supportano la teoria secondo la quale la NASA avrebbe falsificato gli sbarchi sulla Luna, aumenta fortemente l’adesione alle teorie cospirazioniste sugli allunaggi (Swami et al., 2013). Presi insieme, questi risultati di ricerca dimostrano che il semplice fatto di entrare in contatto con affermazioni cospirazioniste aumenta il livello di aderenza alle teorie cospirazioniste stesse. E questo può rappresentare un potenziale problema, considerando la facilità sempre maggiore con cui le persone entrano in contatto, ogni giorno, con questo tipo di teorie, grazie allo sviluppo di mezzi di comunicazione che rendono la diffusione delle informazioni sempre più rapida e capillare (Coady, 2006).

Ulteriori ricerche mostrano come ci possano essere anche altre variabili che possono determinare una maggiore accettazione delle teorie cospirazioniste, oltre alla mera esposizione a queste teorie. Ad esempio, il fatto di essere sperimentalmente indotti a percepire una mancanza di controllo fa sì che i soggetti sperimentali (rispetto alla condizione di controllo) siano più propensi ad interpretare gli eventi come un complotto nei loro confronti (Whitson e Galinsky, 2008).

Un altro studio condotto in Polonia (Kofta e Sedek, 2005) ha mostrato come il pensiero cospirazionista nei confronti di gruppi etnici e nazionali tenda ad aumentare in prossimità delle elezioni parlamentari: secondo gli autori questo indica che il pensiero cospirazionista potrebbe rappresentare una sorta di mezzo di auto-difesa collettiva a fronte di un minaccia percepita da parte di un outgroup, ossia un gruppo sociale esterno al gruppo di appartenenza. Inoltre diversi autori hanno concentrato la loro attenzione sulla ricerca sui bias cognitivi sottostanti, quindi sugli errori sistematici di pensiero che possono portare maggiormente a sostenere le teorie cospirazioniste (Brotherton e French, 2014; Clarke, 2002; Leman e Cinnirella, 2007; Thresher-Andrews, 2013). Questi bias derivano dall’applicazione di alcune strategie di pensiero dette euristiche, ossia delle scorciatoie mentali utilizzate inconsapevolmente nell’elaborazione delle informazioni. Le euristiche semplificano il processamento cognitivo, lo rendono rapido e garantiscono un basso uso di risorse, tuttavia possono portare ad errori e distorsioni.

Tra i bias descritti dagli autori troviamo:

  • Bias di proporzionalità (proportionality bias): ritenere che ad eventi di grande importanza debbano corrispondere cause ugualmente significative;
  • Bias di attribuzione (attributional bias): tendenza a sovrastimare l’effetto delle caratteristiche interne e stabili di un individuo e a sottostimare l’influenza dei fattori situazionali;
  • Bias di conferma (confirmation bias): selezionare le informazioni coerenti con le proprie convinzioni e ad ignorare o sminuire quelle che non sono coerenti con esse;
  • Errore delle probabilità congiunte (conjunction fallacy): violazione delle leggi della probabilità che può essere descritta come la tendenza a sovrastimare la probabilità che si verifichino eventi congiunti e a sottostimare quella di eventi disgiunti.

Infine altri studi suggeriscono che credere alle teorie cospirazioniste possa potenzialmente permettere alle persone di far fronte sia al proprio senso di minaccia percepita, sia all’impossibilità di attribuire un significato agli eventi. (Newheiser et al., 2011).

Il quadro d’insieme che emerge dalla ricerca è quindi molto complesso, infatti sono molti i fattori che portano gli individui a credere alle teorie cospirazioniste. Sono stati individuati diversi fattori di personalità, fattori sociali legati al comportamento inter-gruppi e fattori puramente situazionali e legati al semplice entrare in contatto con le informazioni. Sono presenti fattori cognitivi e fattori che rimandano al ruolo funzionale di queste credenze, verosimilmente di natura auto-protettiva. Forse proprio la presenza di così tante variabili coinvolte che si pongono a diversi livelli esplicativi può spiegare il successo di queste teorie e il loro persistere nella società.

Ma che significato può avere, oggi, concentrarsi sullo studio delle teorie cospirazioniste? Può essere importante per diverse ragioni. Innanzitutto queste teorie trovano spesso consenso e possono influenzare la percezione di numerosi eventi storicamente e socialmente significativi (come la trasmissione dell’ebola, le missioni lunari o gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001) (Goertzel, 1994; Stempel et al., 2007; Swami et al., 2010). Inoltre, come sottolineato in precedenza, negli ultimi anni la popolarità delle teorie del complotto è significativamente cresciuta, probabilmente grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e per la conseguente maggiore facilità di diffusione di queste teorie tramite internet (Coady, 2006).

Oltre a ciò, nonostante la ricerca si sia concentrata maggiormente sulle variabili che portano le persone a credere alle teorie cospirazioniste, diverse ricerche che hanno indagato gli effetti di tali teorie mostrano come esse non siano per nulla innocue. Anzi, emergono importanti conseguenze a livello comportamentale che aprono profonde riflessioni e che vanno tenute in seria considerazione per il loro potenziale impatto sociale (Jolley, 2013a, 2013b).

Dalla ricerca emerge innanzitutto l’associazione tra le teorie della cospirazione e gli atteggiamenti degli individui. Per esempio Swami (2012) ha dimostrato, in un campione malese, che il credere alle teorie del complotto ebraico è associato a maggiori atteggiamenti razzisti nei confronti della comunità cinese. Inoltre, una ricerca di Imhoff e Bruder (2014) ha evidenziato come l’adesione alle teorie cospirazioniste predica atteggiamenti pregiudizievoli negativi nei confronti di diversi gruppi (ad esempio gli Ebrei, gli Americani e i capitalisti).

Altre ricerche hanno mostrato che l’esposizione alle teorie cospirazioniste non solo influenza gli atteggiamenti degli individui, ma può pregiudicarne anche i comportamenti. Nello specifico, Butler et al. (1995) hanno riscontrato che facendo vedere a dei soggetti il film ‘JFK’ di Oliver Stone (che mostra diverse teorie cospirazioniste che riguardano l’assassinio del Presidente John F. Kennedy), questi sono più inclini a sostenere le teorie della cospirazione in misura maggiore rispetto ai soggetti a cui invece non viene fatto vedere il film. Ma non solo: infatti una maggiore adesione nei confronti di queste teorie è associata ad una minore intenzione di votare.

Jolley e Douglas (2014a) hanno recentemente replicato questi risultati; in un primo studio hanno dimostrato che dopo l’esposizione ad informazioni pro-cospirazioniste riguardanti il coinvolgimento governativo in intrighi e complotti, gli individui sono meno propensi ad impegnarsi nella vita politica, rispetto ai soggetti di controllo esposti invece ad informazioni che confutano le teorie complottiste. Gli autori hanno dimostrato come questo effetto sia causato da un aumento della percezione di impotenza nei confronti delle politica. Nel secondo studio questa influenza dannosa è stata estesa all’ambito delle campagne ambientaliste: l’esposizione ad informazioni pro-complottiste riguardanti il cambiamento climatico riduce l’intenzione di impegnarsi in comportamenti che diminuiscano l’emissione di anidride carbonica (ad esempio l’uso di lampadine a basso consumo o l’uso di mezzi di trasporto pubblici). Questo effetto è risultato significativo sia rispetto ai soggetti a cui sono state fornite informazioni anti-complottiste, sia rispetto al gruppo di controllo, a cui invece non sono state fornite particolari informazioni. Come nel primo studio, questo effetto era mediato dalla percezione di impotenza nei confronti del cambiamento climatico, ma anche dal senso di incertezza e dalla delusione nei confronti degli scienziati che si occupano dello studio del clima.

Oltre all’ambito socio-politico, la ricerca si è anche interessata all’influenza che le teorie cospirazioniste possono avere su un altro importante ambito: quello della salute. Ad esempio, esistono teorie cospirazioniste che sostengono che l’HIV e l’AIDS rappresentino una forma di genocidio contro le popolazioni afro-americane: ebbene, la ricerca ha evidenziato come, nelle persone che appoggiano questo tipo di teorie, aumentino gli atteggiamenti negativi nei confronti dell’uso dei contraccettivi, come ad esempio il preservativo. Questo quindi suggerisce che le teorie cospirazioniste possono avere conseguenze negative anche sulla prevenzione delle campagne contro le malattie sessualmente trasmissibili (Bogart e Thorburn, 2006; Bird e Bogart, 2003). Risultati simili sono stati riscontrati da Hoyt et al. (2012) e Bogart et al. (2010): dalle ricerche è emerso che appoggiare le teorie del complotto dell’HIV risulta associato ad un aumento di rischio, in quanto gli individui sono meno inclini a sottoporsi alle terapie adeguate. Inoltre è stato dimostrato che credere alle teorie cospirazioniste è associato, in generale, ad una sorta di sfiducia nei confronti della scienza (Lewandoswky et al., 2013).

In un’altra recente ricerca (Jolley e Douglas, 2014b) gli autori hanno voluto analizzare il potenziale impatto delle teorie cospirazioniste anti-vacciniste sul comportamento degli individui. In due studi i ricercatori hanno ancora una volta rilevato come il supportare le teorie anti-vacciniste sia legato ad una minore probabilità di vaccinazione dei propri figli; ancora una volta questo cambiamento avviene anche solo se si entra in contatto con informazioni che supportano le teorie complottiste anti-vacciniste (sia rispetto al gruppo esposto alle informazioni pro-vaccino, sia rispetto al gruppo di controllo, al quale non è fornita nessuna informazione specifica). L’effetto è mediato da alcune variabili: pericolo percepito dei vaccini, senso di impotenza, disillusione e sfiducia nei confronti dell’autorità.

Tutti questi risultati evidenziano il potenziale ruolo delle teorie cospirazioniste nell’influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti degli individui e quindi le possibili conseguenze dannose in diversi ambiti, da quello socio-politico a quello della salute.

In conclusione, sembra importante sottolineare come alcuni autori si siano concentrati sulla ricerca di possibili soluzioni per contrastare la diffusione e l’accettazione delle teorie complottiste, proprio considerando i possibili esiti negativi associati, di cui si è precedentemente discusso.

Recentemente, Swami et al. (2014) si sono occupati di studiare come la modalità di processare le informazioni possa essere associata alla propensione a credere alle teorie cospirazioniste. In particolare gli autori hanno indagato l’influenza di due modalità principali: quella analitico-razionale e quella intuitivo-esperienziale. La prima è descrivibile come un processo lento, cosciente, ponderato e dettagliato; la seconda modalità, contrapposta alla prima, è invece un processo rapido, prevalentemente inconsapevole, spontaneo, globale e abbastanza superficiale. Gli autori, in una serie di studi, hanno dimostrato che una modalità di processamento delle informazioni di tipo analitico determina una minore accettazione delle teorie cospirazioniste. Ma non solo: infatti, se attraverso un compito di fluenza verbale si favorisce l’utilizzo di questa modalità, nei soggetti si riscontra una diminuzione dell’adesione a queste stesse teorie.

Secondo l’interpretazione degli autori una modalità di processo analitico-razionale potrebbe favorire un’elaborazione delle informazioni più attenta e precisa, facendo prendere in considerazione le inesattezze e le contraddizioni delle teorie cospirazioniste; inoltre potrebbe inibire i bias che facilitano l’assimilazione e l’accettazione di queste teorie. Un’altra possibile spiegazione è che una modalità di pensiero analitica porti a selezionare quelle informazioni che appaiono all’individuo più razionali e possa portare ad essere maggiormente scettici.

Non è comunque chiaro quale sia il meccanismo alla base di questo cambiamento, ma anche se saranno necessarie ulteriori ricerche che andranno ad indagare meglio questi aspetti, appare chiaro come l’uso di strategie di elaborazione di informazioni di tipo analitico-razionale riduca, almeno nel breve termine, la tendenza a supportare le teorie cospirazioniste.

Nonostante le teorie del complotto siano resistenti al cambiamento, questi ultimi lavori presentati si inseriscono in un filone di ricerca che mostra come sia possibile una riduzione dell’approvazione verso queste teorie tramite l’uso di argomentazioni critiche, logiche e basate sull’evidenza (Swami et al., 2013). A fronte quindi delle conseguenze negative derivanti dall’adesione alle teorie cospirazioniste, una possibile soluzione potrebbe essere quella di lavorare nell’ottica di una divulgazione e un’informazione che promuovano lo sviluppo delle abilità del pensiero analitico. O almeno, come sottolineano gli autori, potrebbe essere un utile inizio.

Chiedere un aiuto psicologico? Solo una piccola parte di chi ne ha bisogno decide di farlo!

Tra le persone che trarrebbero beneficio da un intervento psicologico – plausibilmente in presenza di difficoltà e/o disturbi di tipo mentale – soltanto una piccola parte effettivamente chiede aiuto e si rivolge a specialisti del settore. Al di là delle ragioni pratiche, molto ha a che fare con le idee e le rappresentazioni soggettive che riguardano la persona che ha difficoltà psicologiche e gli interventi per trattarle.

Un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychology & Psychotherapy ha approfondito i processi psicologici di coloro che decidono di rivolgersi a uno psicoterapeuta e di iniziare una psicoterapia. Un campione di circa 150 persone che hanno avuto un primo contatto con servizi psicologici (una clinica universitaria) sono state valutate al momento del primo contatto, in terza seduta e al termine del trattamento.

I risultati sono interessanti: il tempo medio trascorso dall’insorgenza della sintomatologia al momento in cui si chiede aiuto è di 10,5 anni! Le problematiche maggiormente riscontrate in questo campione e in questo contesto gravitano attorno ai disturbi d’ansia e dell’umore, difficoltà di gestione della rabbia e difficoltà sessuali.

Da un punto di vista del processo decisionale il punto più critico sembra essere, oltre alla consapevolezza di avere un problema, anche la credenza che la psicoterapia possa essere un valido strumento di aiuto: mediamente trascorrono dai 4 mesi a un anno prima di decidere che la psicoterapia possa essere un’alternativa da percorrere.

Una volta che la persona ha consapevolezza dei possibili benefici della psicoterapia, i passi successivi sembrano essere più semplici e lineari: decidere di andare avanti e di cercare aiuto è relativamente più veloce, richiedendo in media un mese di tempo ulteriore per consolidare la decisione. Infine ancora qualche settimana prima di telefonare per fissare il primo appuntamento.

Tra i soggetti che, dopo un primo contatto, hanno poi iniziato la terapia, coloro che hanno riferito maggiori difficoltà nel decidere di entrare in contatto con un terapista parimenti si aspettano che il percorso psicoterapico sia più difficile e accidentato, anche se queste aspettative di difficoltà non sono correlate a una scarsa compliance con la terapia. Purtroppo, e questo è un grosso limite dello studio, non sono stati rilevati i dati di outcome delle terapie in questo campione di soggetti.

La tematica in oggetto dunque rimane complicata da indagare, poichè abbiamo questi dati solo su una parte di soggetti con difficoltà psicologiche che decide di chiedere aiuto, mentre nulla si sa di coloro che non lo fanno. Allo stesso tempo questi dati aiutano a ricordarci quanto possa essere faticoso e struggente fissare un primo appuntamento con lo specialista della mente.

Il contratto con la persona con disturbo borderline di personalità come atto terapeutico: linee guida e riferimenti teorici

La formalizzazione di un contratto terapeutico nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è prevista all’interno delle Linee di indirizzo per il trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità emanate dalla Regione Emilia Romagna nel 2013, ispirate, ed altresì riadattate alla realtà operativa locale, alle Linee Guida NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) del 2009.

Nelle priorità chiave per l’implementazione di tali linee guida, nonché all’interno dei “Principi generali per lavorare con persone con un disturbo borderline di personalità”, viene fatto esplicito riferimento al principio di scelta ed autonomia declinato come un lavoro in collaborazione con la persona con disturbo borderline di personalità finalizzato a promuoverne l’autonomia e la possibilità di scelta attraverso il richiamo all’assunzione di un ruolo attivo da parte di quest’ultima nel ricercare una soluzione ai propri problemi, inclusa la gestione delle crisi, e l’incoraggiamento a considerare le differenti opzioni di trattamento e le scelte di vita disponibili unitamente alle loro possibili conseguenze.

L’adattamento di tali linee guida alla realtà locale della Regione Emilia Romagna, ha comportato l’adozione del Contratto terapeutico inteso come un atto scritto e proceduralizzato che viene redatto in triplice copia e sottoscritto dagli attori e nel quale sono compresi:

la descrizione degli obiettivi di cura (di lungo e medio termine) ed i relativi tempi di verifica;
le competenze attivate dall’equipe;
le competenze richieste all’utente (ed alla sua famiglia);
le condizioni specifiche che possono orientare verso un passaggio di setting (inteso sia come modalità operativa che come servizio);
i comportamenti non negoziabili;
il piano di gestione delle crisi.

Il contratto è [blockquote style=”1″]l’estensione di quello che si definisce progetto di cura, ma ne differisce in modo sostanziale perchè è elaborato insieme al paziente e posizionato al livello effettivo della possibile motivazione verso il cambiamento[/blockquote] (M. Sanza, 2015).

La valenza terapeutica del contratto per la persona con disturbo borderline di personalità

La questione oggetto di attenzione nella presente trattazione riguarda l’ipotesi che la negoziazione e formalizzazione di un contratto (o accordo) terapeutico con la persona con disturbo borderline di personalità possa di per sé avere degli effetti terapeutici per la persona stessa, e non solo, possa altresì svolgere un ruolo di orientamento e supporto alla gestione di aspetti critici per l’equipe curante e per il/i Servizio/i coinvolto/i.
Vediamo in che termini il contratto può svolgere una funzione terapeutica concentrandoci innanzitutto sui possibili risvolti sulla persona con disturbo borderline di personalità alla luce delle dinamiche caratterizzanti il DBP stesso. Per prima cosa l’atto in sé di chiamare in causa la persona nel definire gli obiettivi del proprio percorso di cura, uno dei punti chiave del contratto stesso, determinerebbe un immediato riposizionamento degli attori nella relazione terapeutica: l’equipe (o il clinico in questione) da esperta del paziente diverrebbe esperta dei processi di cambiamento, lasciando alla persona il ruolo di principale esperto di sé, della propria storia e delle proprie problematiche; una dimensione maggiormente simmetrica, pertanto, senza implicare con ciò un disconoscimento della diversità dei ruoli e delle relative differenti responsabilità. Interrogarsi e condividere gli obiettivi a breve e medio termine del trattamento diverrebbe, così, un processo che responsabilizza il paziente riducendo il rischio della delega e favorendo l’ancoraggio delle aspettative ad un piano il più possibile realistico, predefinito, negoziato e verificabile nel tempo.

Un tale coinvolgimento attivo della persona potrebbe avere una valenza di per sé terapeutica in riferimento, ad esempio, alla potenzialità di incrementare il senso di autodeterminazione ed i bisogni di autonomia del paziente, influenzandone positivamente la motivazione.
Ryan e collaboratori (1997), nella loro teoria della “Self Determination”, sostengono che alla base della motivazione umana e dell’autoregolazione del comportamento vi siano delle spinte innate verso la soddisfazione di tre bisogni psicologici fondamentali: il bisogno di competenza, di essere in relazione con altri significativi e di autonomia personale. Sulla scia di questa visione, la percezione da parte della persona di collaborare alla definizione del contratto terapeutico potrebbe svolgere un ruolo importante anche rispetto alla motivazione al trattamento favorendone l’evoluzione verso una connotazione sempre più autonoma e diminuendone gli aspetti estrinseci che, invece, sono preponderanti in una dimensione relazionale maggiormente asimmetrica all’interno della quale vi è il rischio da parte degli operatori di assumere una posizione sostitutiva nei riguardi del paziente. In altri termini, riteniamo che la prassi del contratto terapeutico possa essere uno strumento per incrementare il senso di empowerment dei pazienti nei confronti della propria salute, uno dei fattori più frequentemente associati alla compliance ed alla buona riuscita dei trattamenti; preferiamo, tuttavia, parlare di collaborazione piuttosto che di aderenza alle cure, termine che ci sembra rispecchiare meglio il ruolo attivo della persona.

Contratto terapeutico e gestione delle crisi

Un altro aspetto che riteniamo rilevante della prassi del contratto terapeutico riguarda la parte dedicata alla gestione delle crisi. Questo per via di diverse motivazioni: in primo luogo poiché riteniamo che l’ anticipare l’accadimento di possibili crisi possa essere un’operazione che di per sé comunica alla persona una comprensione della sua patologia, un riconoscimento delle sue difficoltà e legittima la crisi stessa come una fase gestibile e non come un evento ineluttabile e nei confronti del quale si è totalmente impotenti. Una sorta di “normalizzazione” della crisi, se vogliamo, che ricorda un po’ la fase della ricaduta del modello transteorico del cambiamento elaborato da Prochaska e DiClemente (1982), all’interno del quale quest’ultima viene concepita come uno stadio del cambiamento, che può rappresentare anche un’occasione di apprendere modalità adattive di gestione dei momenti di crisi e delle difficoltà personali.

E’ utile sottolineare, infatti, come nel contratto il piano di gestione delle crisi, al pari degli altri punti, venga condiviso insieme al paziente e pertanto implichi un’ autoriflessione da parte del soggetto su quali possono essere le situazioni ed i fattori scatenanti una crisi, un interrogarsi rispetto a quali possono essere le persone che per ciascuna situazione possono rappresentare un’idonea fonte di aiuto, ed una negoziazione con l’equipe rispetto a quando e come rivolgersi ai servizi, quando e come possono esser disponibili gli operatori che compongono l’equipe stessa.

Un punto interessante nella definizione del piano di gestione delle crisi, così come viene concepito anche nel “Good Psychiatric Management” (Gunderson J. G., 2015 ) è, inoltre, la possibilità di specificare quali sono le persone da non contattare; anche questa ci sembra un’operazione con dei risvolti terapeutici in quanto richiamerebbe il soggetto ad incrementare la sua competenza, oltre che nell’identificare fonti adeguate di supporto limitando gli acting; consente anche di riconoscere quali sono le persone e le situazioni che possono, invece, sortire degli effetti negativi ed incrementare la crisi stessa e, così facendo, accrescere la capacità di discernimento del paziente rispetto all’ambiente nel quale egli vive ed alle persone con le quali si confronta.

Entriamo, seguendo questa linea, nella sfera delle competenze, altro punto del contratto terapeutico: anche qui risalta a nostro parere la premessa che potrebbe esser alla base e orientare la prassi in questione, ossia: le competenze non sono solo ambito di pertinenza dell’equipe, degli operatori, dei Servizi ma riguardano anche la persona che, perciò, non è solo colui che soffre di una patologia bensì anche colui che possiede delle risorse che possono esser utilizzate e sviluppate e che, per di più, sono indispensabili alla riuscita del percorso di trattamento. Esser visti come persone che possiedono risorse e competenze, oltre che problemi e difficoltà, è anch’essa un’operazione con effetti terapeutici.

Quando parliamo di effetti terapeutici intendiamo non un effetto tout court ed immediatamente positivo di tali operazioni, quanto piuttosto le potenzialità evolutive insite nell’innescare e nel mantenere un processo di cambiamento, quindi l’aspetto di incremento della motivazione, ed i risvolti a livello relazionale intesi sul piano dell’empatia, della convalidazione, della percezione di sentirsi compresi nelle proprie difficoltà, anche questi parte di un processo graduale e che si interseca con svariati altri fattori implicati nel trattamento stesso.

Un altro aspetto che riteniamo significativo riguarda la dimensione del potere, che la formalizzazione di un contratto, a nostro parere, in qualche modo interseca: attraverso il contratto, infatti, si proporrebbe una trasformazione qualitativa del potere stesso: da un potere che deriva esclusivamente dal ruolo che si ricopre (operatori/paziente) e garantito dalla asimmetria intrinseca a questi due ruoli, a quello di un potere competente che si gioca su un piano di scambio e di definizione delle competenze da parte di ciascuno degli attori in gioco.

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