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Procedura per la valutazione delle capacità metacognitive di pazienti con disturbo di personalità

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Procedura  per la valutazione delle capacità metacognitive di pazienti con disturbo di personalità

S. Torniai, T. Ciulli, G. Orsanigo, M. Tafi, C. Ziella, S. Mori, S. Taddei, C. La Mela

Scuola Cognitiva di Firenze

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia

 

Le capacità metacognitive sono definite come le capacità dell’individuo di compiere operazioni cognitive euristiche sui propri e altrui stati mentali e utilizzare tali conoscenze a fini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati di sofferenza soggettiva (Semerari, 1999).

Per la valutazione delle capacità metacognitive nei pazienti affetti da disturbo di personalità sono attualmente usate la SVaM (Scala di Valutazione per la Metacognizione, Carcione et al., 1997) e l’IVaM (Intervista per la Valutazione della Metacognizione, Semerari et al., 2008). Un ulteriore strumento è stato messo a punto per i disturbi dello spettro schizofrenico (Lysaker et al., 2002).

Ad oggi la ricerca non ha ancora stabilito se il funzionamento metacognitivo nei soggetti con disturbo di personalità sia una condizione tratto-dipendente, o se, invece, si possa avere uno scadimento delle capacità metacognitive in contesti relazionali capaci di attivare stati mentali problematici (Dimaggio et al., 2009).

Gli obiettivi del nostro studio sono:

1) Mettere a punto una procedura standardizzata per attivare stati mentali problematici ed esplorare le diverse funzioni metacognitive.

2) Verificare se il funzionamento metacognitivo vari in relazione alla qualità dello stato mentale in pazienti con disturbi di personalità.

L’intervista semi strutturata messa a punto risulta suddivisa in 3 sezioni: nella prima viene chiesto di descrivere un episodio relazionale recente, nella seconda viene esplorato un episodio relazionale recente particolarmente significativo per l’attivazione di intense componenti emotive negative, infine, nella terza sezione tramite delle tecniche immaginative, il soggetto descrive un episodio del passato correlato allo stato emotivo attivato. I trascritti della registrazione dell’intervista sono stati successivamente analizzati tramite la SVAM per valutare le funzioni metacognitive.

I risultati ottenuti sembrerebbero mostrare che la procedura è in grado di attivare stati mentali problematici ed elicitare i diversi domini metacognitivi .

Una prima valutazione dei trascritti del campione mostra inoltre una variazione del funzionamento metacognitivo nelle 3 sezioni dell’intervista, in linea con l’ipotesi di uno scadimento delle funzioni durante l’attivazione di stati mentali problematici.

Sebbene i risultati preliminari supportano l’ipotesi iniziale, l’attuale dimensione ridotta del campione non permette di trarre conclusioni significative e definitive sull’ipotesi di una condizione stato-dipendente delle capacità metacognitive.

 

La Family-based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza – Roma, 2015

Loriana Murciano

 

Durante il corso “Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza” che si è tenuto a Roma dal 3 al 6 novembre scorsi, il Prof. Daniel Le Grange, docente dell’Istituto Benioff di Pediatria dell’Università di San Francisco, California, ha illustrato il razionale clinico ed i principali studi di efficacia del Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family -Based Treatment – FBT), considerato attualmente l’intervento psicoterapeutico di prima scelta nella cura dell’Anoressia Nervosa (AN) in adolescenza (APA, 2005; NICE, 2004; RANZCP, 2014; Quaderni del Ministero della Salute 17/22, 2013; Rapporto ISTISAN 13/6, 2012).

L’ FBT trova le sue radici nel modello di Terapia Familiare sviluppato presso il Maudsley Hospital di Londra negli anni ’80 ed integra diversi aspetti (cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale e di “clinical management”): sono utilizzate infatti strategie ed interventi provenienti da diverse scuole di terapia familiare (Structural Family Therapy di Minuchin, Scuola Milanese Selvini-Palazzoli, Strategic Family Therapy di Haley e Narrative Therapy di White).

L’FBT è un trattamento ambulatoriale intensivo indicato per bambini ed adolescenti che si presentano in condizioni di stabilizzazione clinica e che pone al centro dell’intervento i genitori, considerati la “risorsa chiave” per il recupero clinico del loro figlio.
Il trattamento si struttura in 3 fasi con una durata di circa 12 mesi.
Nella prima fase (1-10 sessioni a cadenza settimanale) i genitori si assumono la responsabilità (con l’assistenza del terapeuta FBT) di supportare l’aumento di peso del proprio figlio e di limitare i comportamenti patologici di compenso. Nella seconda fase (11-16 sessioni) il paziente è supportato nel riprendere il controllo e la responsabilità della propria alimentazione e del peso. La terza fase (17-20 sessioni) è focalizzata sul mantenimento del peso raggiunto e sul percorso verso una ripresa di uno sviluppo adolescenziale fisiologico e più armonico.
L’alleanza terapeutica con l’adolescente all’inizio del trattamento non si è dimostrata una variabile che ne influenza l’esito nel tempo (Forsberg et al. 2013).

Quali sono i presupposti fondamentali per l’FBT?
1. Visione agnostica delle cause della malattia
2. Posizione non autoritaria del terapeuta
3. Genitori “responsabili” del recupero del peso
4. Esternalizzazione (“separazione del paziente dalla patologia”)
5. Focus iniziale sul peso

Rispetto alle questioni teoriche l’FBT assume una posizione “agnostica”; strategicamente è fuorviante per il terapeuta FBT occuparsi degli aspetti causali ed eziopatogenetici (secondo i modelli dinamici, cognitivisti, sistemici, etc.) finché l’adolescente non abbia riacquistato le competenze cognitive, metacognitive ed emotive che solo un adeguato recupero ponderale può garantire.
L’obiettivo dell’FBT è far sì che i genitori arrivino a svolgere il compito e la funzione di guida per portare il loro figlio adolescente a “rimettersi in carreggiata” e poter percorrere il proprio sviluppo. L’FBT agisce come connessione figlio-genitori: il messaggio dell’Anoressia Nervosa è di richiamo verso i genitori (“quanto peso devo ancora perdere perché voi vi accorgiate che sono in crisi?”); il ruolo del terapeuta è quello di comunicare ai genitori “Svegliatevi! Accorgetevene!”, ossia di portare loro a fare quello che i figli non riescono a chiedere.
Il passaggio dalla prospettiva della parentectomia all’empowerment genitoriale implica un cambiamento del modello evolutivo dell’adolescente.
L’FBT è risultata efficace in più del 50% dei casi ed ha mostrato un significativo decremento del tasso di recidiva e di ri-ospedalizzazione nel tempo (Hughes, Le Grange, Court et al., 2013)

Il terapeuta FBT assume una posizione di consulente autorevole, non autoritario né critico, che in un clima di empatia interviene nel sostenere l’autonomia terapeutica dei genitori, ascoltando la famiglia, fornendo suggestioni e informazioni e cercando di stimolarne le risorse positive e modificarne gli atteggiamenti negativi; bisogna aiutare i genitori a comprendere cosa è meglio e più salutare per i propri figli (renderli più “responsabili”) senza fornire prescrizioni ed istruzioni con comunicazioni esplicite: l’obiettivo è di far acquisire loro la capacità di affrontare le sfide proposte dai loro figli.

E’ fondamentale spiegare ai genitori la gravità della malattia e separare l’adolescente dalla patologia (“Esternalizzazione”) per evitare inutili colpevolizzazioni e per avere un atteggiamento collaborativo e presente. [blockquote style=”1″]È il sopravvento della malattia che determina gli aspetti sintomatici ed i comportamenti disfunzionali e patologici dell’adolescente, non una modalità della persona che all’improvviso cambia[/blockquote]. L’anoressia nervosa per il Prof. Le Grange è paragonabile ad un cancro e l’impegno comune dovrà essere la sua completa eradicazione e, quindi, la guarigione del paziente.

Il focus iniziale del trattamento FBT è il recupero ponderale: l’aspetto del peso è l’elemento organizzatore del lavoro iniziale. La terapia inizia facendo salire il paziente sulla bilancia e valutando le curve ponderali e le strategie per limitare l’impatto clinico del disturbo alimentare. L’enfasi deve essere posta sul miglioramento ponderale piuttosto che sui cambiamenti cognitivi ed emotivi finché non si è recuperato un peso ragionevole (il 90% del peso salutare indicato per il paziente).

Prima di iniziare il trattamento FBT viene fatta una valutazione psicodiagnostica e clinica dell’adolescente ed un’intervista con i genitori in cui viene definita l’idoneità al trattamento ambulatoriale. La terapia FBT prevede un approccio di team multidisciplinare che può comprendere, oltre al terapista FBT (che coordina la cura), il pediatra/internista che gestisce la sicurezza clinica del paziente, il neuropsichiatra infantile, il nutrizionista, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere.

Il modello FBT prevede 3 fasi per un totale di 20 sessioni in 12 mesi.
La prima fase, che costituisce il 50 % della cura, consta di 10 sessioni a cadenza settimanale ed ha l’obiettivo di aiutare i genitori a “riassumere il controllo dell’alimentazione”: si tratta di fornire ai genitori gli strumenti per far rialimentare l’adolescente e portarlo nella situazione di procedere verso la sua autonomia. Nell’ adolescente che soffre di anoressia nervosa l’autocontrollo del peso non ha niente a che fare con il controllo della propria vita ma è solo il controllo indotto dalla malattia; bisogna portare i genitori a fare quello che un infermiere farebbe durante il ricovero: nella vita di tutti i giorni il compito iniziale dei genitori deve essere quello di sgretolare la dieta ferrea ed i comportamenti di compenso patologici.

Subito nella prima sessione l’intento del terapeuta FBT deve essere quello di stabilire e sottolineare che si tratta di una situazione grave (a rischio di vita) e di crisi dell’adolescente e di tutta la famiglia ed è importante che tutti siano coinvolti per risolvere la situazione (anche gli eventuali altri figli); bisogna cercare di ridurre il senso di colpa conferendo ai genitori un ruolo attivo nell’aiutare il paziente. I genitori dovrebbero andar via allarmati e con una responsabilità condivisa col terapeuta sulle possibili soluzioni; la famiglia deve essere ingaggiata evitando che l’adolescente si senta responsabile di aver rovinato la sua vita e quella della sua famiglia. Nell’FBT, focalizzandosi sull’aspetto del peso, si va comunque a riorganizzare le relazioni sociali e di attaccamento, pur non intervenendo come nella terapia sistemica secondo Minuchin: i genitori sono esortati con perseveranza a lavorare insieme su questo punto “sintonizzandosi tra di loro e concordando” nelle posizioni assunte verso il proprio figlio. Viene conferito così ai genitori un mandato molto chiaro “d’ora in poi siete voi genitori a dover prendere in mano la situazione alimentare di vostro figlio!”.

Nella seconda sessione si svolge il “pasto familiare”: in precedenza ai genitori viene richiesto di portare un pasto che entrambi decidono insieme. L’osservazione del momento critico del pasto familiare ha due intenti: fornire informazioni sul funzionamento familiare e capire in che modo la famiglia si è adeguata alla malattia (ulteriori comportamenti disfunzionali e di disturbo). L’enfasi in questa fase è posta sullo sforzo congiunto che i genitori devono fare per salvare la vita del loro figlio (parental training con esercizi di perseveranza). È importante costruire un contesto diverso in cui la paziente possa sperimentare due genitori “allineati” contro la malattia pur condividendo e supportando la difficoltà del figlio adolescente.

Il concetto dell’esternalizzazione, ossia la separazione dell’adolescente dalla sua malattia, fornisce all’adolescente stesso la consapevolezza che il terapeuta ha una chiara idea della lotta in cui si dibatte; questo aiuta ad attribuire i giusti significati, riducendo i sensi di colpa ed il criticismo genitoriale. Le prime sessioni, focalizzate sul peso, hanno un taglio comportamentale. Quando il paziente arriva al recupero del 75% del peso corporeo salutare si può passare alla fase 2 che ha l’obiettivo di raggiungere il 90% del recupero ponderale. Prima di ridare il controllo della propria alimentazione all’adolescente bisogna assicurarsi di avere “una rete di sicurezza intorno”: nella fase 2 ogni pasto deve essere ancora sottoposto alla supervisione dei genitori; l’adolescente però inizia ad essere coinvolta nelle decisioni alimentari visto che la “sua parte sana sta riemergendo”.

Durante il corso si sono svolti esercizi di role-playing con alcuni partecipanti e sono stati visionati video e trascritti esemplicativi che hanno didatticamente chiarito le procedure di intervento.
Ad arricchire il valore clinico e scientifico dell’evento svoltosi a Roma l’intervento del Dott. Armando Cotugno, direttore della UOSD Disturbi del Comportamento Alimentare ASL RME, che ha illustrato, in ultima analisi, l’esperienza italiana del protocollo FBT in un contesto istituzionale pubblico.

Le conseguenze del trauma (con e senza disturbo post traumatico da stress) sulle funzioni esecutive

Martina Torresi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Quali sono i fattori, oltre al trauma in sé, che possono rappresentare cause di rischio o di protezione per lo sviluppo ed il mantenimento dei sintomi del DPTS? Molteplici ricerche correlano la presenza di eventi traumatici a deficit cognitivi che interessano l’attenzione, la memoria e le funzioni esecutive.

Il DSM V classifica il disturbo post-traumatico da stress (DPTS) come un disturbo indipendente dai disturbi d’ansia, classificandolo all’interno della sezione ‘Disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti’ che comprende: il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito, il DPTS, il disturbo da stress acuto e i disturbi dell’adattamento (DSM V).

Kessler et al., 1995 hanno stimato che circa il 50-60% di persone, durante il corso della propria vita, potrà essere esposta ad un esperienza traumatica, che può riguardare traumi relativi a combattimenti, aggressioni sessuali, incidenti, o altri orrori di vita. Ma è stato stimato che soltanto il 5-10% delle persone svilupperanno sintomi specifici per una diagnosi di DPTS.

Tale osservazione ha portato i ricercatori a considerare quali sono i fattori, oltre al trauma in sé, che possono rappresentare cause di rischio o di protezione per lo sviluppo ed il mantenimento dei sintomi del DPTS. Molteplici ricerche correlano la presenza di eventi traumatici a deficit cognitivi che interessano l’attenzione, la memoria e le funzioni esecutive (DePrince et al., 2009).

La letteratura ha contribuito ad evidenziare come gli approcci neuropsicologici rappresentino un’importante via che ci permette di individuare i fattori di vulnerabilità e quelli di recupero rispetto allo sviluppo e al mantenimento dei sintomi del DPTS (Aupperle et al., 2011).

De Bellis et al., 2013 mettono in risalto il concetto di sviluppo traumatologico, in riferimento all’impatto psicobiologico che i maltrattamenti e le violenze interpersonali possono avere sullo sviluppo dei bambini. Il modello dello sviluppo traumatologico (De Bellis, 2001) si basa sul modello psicobiologico del DPTS chiamato anche reazione di attacco-fuga. Quest’ultimo afferma che la paura ed i ricordi traumatici associati alle esperienze di maltrattamento infantile, vengono elaborati attraverso il talamo attivando poi l’amigdala, responsabile della rilevazione degli stimoli di paura. L’amigdala trasmette successivamente i segnali di paura ai neuroni della corteccia prefrontale, all’ipotalamo e all’ippocampo, struttura cerebrale coinvolta nella memoria, il quale causa elevate risposte di cortisolo. Vi è inoltre un aumento dell’attività nel locus coeruleus che comporta una maggiore attività del sistema nervoso simpatico, dei neurotrasmettitori legati allo stress (catecolamine), del battito cardiaco, della pressione sanguigna, dell’indice metabolico e una maggiore allerta.

Tali modificazioni preparano il corpo a proteggersi dal pericolo, ma risultano essere dannose quando persistono in determinate relazioni stressanti e disuguali, come nel maltrattamento genitore-bambino. Tale stress chimico compromette la corteccia prefrontale e le funzioni esecutive (Arnsten, 1998). La corteccia prefrontale a sua volta può inibire l’attivazione dell’amigdala, meccanismo responsabile della riduzione dei sintomi del DPTS. Quindi, il modello di sviluppo traumatologico basato su un modello psicobiologico statico del DPTS, predice che i giovani maltrattati potrebbero mostrare deficit rispetto alle funzioni esecutive prefrontali e rispetto alle funzioni mnesiche. Un modello di sviluppo traumatologico dinamico invece, potrebbe predire che il sistema di sviluppo dello stress colpisce funzioni cerebrali multiple che possono essere inizialmente legate ai sintomi acuti del DPTS, ma che poi innescano conseguenze indipendenti ed effetti sfavorevoli. Così un precoce trauma attiva un meccanismo che può causare deficit neuropsicologici globali e multipli in aree e domini che non sono collegati però ai sintomi tipici del DPTS né a psicopatologia.

Deficit delle funzioni esecutive (FE) sono stati riscontrati negli adulti esposti al trauma (El-Hage et al., 2006; Navalta et al., 2006), inclusi quelli con DPTS (Kremen et al., 2007; Parslow & Jorm, 2007) e con sintomi dissociativi (DePrince & Freyd, 1999; Simeon et al., 2006).

Rispetto a ciò, Aupperle et al. (2011) riassumono i risultati di studi che hanno indagato le FE associate al DPTS. In particolar modo, prendono in considerazione deficit riguardanti le capacità di inibizione e di regolazione attentiva, che possono precedere ed essere antecedenti all’esposizione traumatica e quindi rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo del DPTS, ed essere collegati alla gravità dei sintomi.

Sebbene molte ricerche neuropsicologiche nell’ambito del DPTS si siano concentrate sullo studio delle funzioni mnesiche e di apprendimento, altre hanno indagato la possibilità di un eventuale malfunzionamento del lobi frontali e quindi delle FE.

Nel considerare le FE gli autori fanno riferimento alle capacità di mantenimento e di controllo di comportamenti complessi diretti ad uno scopo (Alvarez and Emory, 2006; McCabe et al., 2010). Le FE includono:

  • L’attenzione, focalizzazione della propria mente su un particolare stimolo all’interno dell’ambiente
  • La working memory, mantenimento attivo e manipolazione dell’informazione nella propria mente per un certo periodo di tempo
  • L’attenzione sostenuta, mantenimento dell’attenzione su un insieme di stimoli o su un compito per un periodo di tempo prolungato
  • La capacità inibitoria, inibizione di risposte automatiche e mantenimento del comportamento diretto allo scopo
  • La flessibilità e/o lo switching, abilità di passare da un compito all’altro o da una strategia ad un’altra
  • La pianificazione, abilità di sviluppare ed eseguire comportamenti strategici al fine di raggiungere un obiettivo futuro (McCabe et al., 2010; Repovs and Baddley, 2006).

Aupperle et al. 2011 hanno deciso di focalizzarsi sulle FE e sull’attenzione piuttosto che sull’apprendimento e sulla memoria per due motivi: in primo luogo ci sono state recenti review che hanno discusso la relazione tra memoria, apprendimento e DPTS, in secondo luogo recenti ricerche hanno messo in evidenza che training di modificazione attentiva possono essere vantaggiosi nel trattamento dei disturbi d’ansia (Amir et al., 2009a; Schmidt et al., 2009; Amir et al., 2009b; Najmi and Amir, 2010). Così la ricerca orientata al funzionamento dell’attenzione e della working memory può aumentare la nostra conoscenza rispetto al DPTS e condurci a trattamenti più efficaci per questa tipologia di pazienti.

Dal lavoro di Aupperle et al., 2011 vengono discussi vari risultati. In primo luogo gli autori mettono in evidenza come vi siano alcuni fattori cognitivi di rischio che correlano con sintomi del DPTS; tra questi individuano funzionamento attentivo, esecutivo e mnesico pre-trauma.

Per quanto riguarda l’attenzione e la working memory emerge che persone con DPTS, che avevano subito aggressioni sessuali o avevano avuto esperienze di guerra, quando confrontate con vittime senza DPTS e controlli senza trauma, presentano basse performance in compiti di attenzione uditiva e working memory (Burriss et al., 2008). Per quanto riguarda l’attenzione sostenuta e le funzioni inibitorie gli studi hanno ripetutamente trovato che persone con DPTS mostrano perfomance ridotte in compiti volti a valutare l’attenzione sostenuta uditiva e visiva (Continuous performance test, CPT) riportando un elevato numero di errori di intrusione, indice di difficoltà inibitorie (Wu et al., 2010); anche quando sottoposti a prove volte valutare le capacità di inibizione (prove Go-no-go, Attention network tasks, Stroop test), la performance di persone con DPTS è consistentemente deficitaria e correla con la gravità dei sintomi del DPTS (Lagarde et al., 2010; Wu et al., 2010). Resta difficile determinare la direzionalità di questi effetti visto che tali ricerche si basano su disegni cross-sectional. Infatti l’aumentato arousal e i sintomi intrusivi (l’evento traumatico viene rivissuto) possono determinare maggiore distrazione quando un individuo sta provando a concentrarsi sul compito, così da interferire con la working memory, l’attenzione sostenuta e le funzioni inibitorie. E’ possibile inoltre che le difficoltà di inibizione si manifestino non solo nella diminuzione della performance ma anche compromettendo l’abilità ad inibire memorie emotive e l’arousal fisiologico in risposta ai vari triggers durante il compito.

Rispetto alle capacità di flessibilità, switching attentivo e pianificazione, essenziali per il controllo esecutivo, le conclusioni risultano incongruenti: alcuni studi (Stein et al., 2002; Jenkins et al., 2000) su persone con DPTS evidenziano difficoltà di flessibilità e switching (indagate con il Trail making test, TMT) caratterizzate da un aumento del tempo impiegato a risolvere il compito, mentre altri non riscontrano tali difficoltà (Twamley et al., 2009; Lagarde et al., 2010).

Per quanto riguarda le capacità di pianificazione nel DPTS, valutate con il test della Torre di Londra e il Wisconsin Card-Sorting Test (WCST), non sono emersi deficit importanti (Lagarde et al., 2010) ma affiora solo una difficoltà iniziale di problem solving in quanto nello svolgimento del WCST nelle persone con DPTS emerge un aumento del numero di trials utilizzati per il completamento della prima categoria del compito (Twamley et al., 2009).

E’ possibile affermare come le capacità di pianificazione e le strategie di switching in persone con DPTS risultino essere risparmiate nei compiti che non richiedono limiti di tempo (WCST) a differenza di quelli che lo richiedono (TMT) e che working memory, attenzione sostenuta e capacità inibitorie siano compromesse in casi di DPTS.

Anche studi di neuro-immagine mettono in evidenza differenze nei correlati neurali che vengono ad attivarsi in soggetti sani e in soggetti con DPTS in relazione alle FE. Tali studi mostrano che in soggetti sani, durante compiti che richiedono capacità di inibizione, vi è un’attivazione delle aree della corteccia frontale inferiore, della corteccia orbitofrontale, e della corteccia prefrontale laterale, quest’ultima specificatamente implicata in risposte inibitorie (Aron et al., 2003; Bledowski et al., 2010). In soggetti con DPTS invece si evidenzia una ridotta attivazione della corteccia prefrontale laterale durante lo svolgimento di compiti richiedenti capacità inibitorie (Falconer et al., 2008). Tuttavia un’importante limitazione di questi studi è il riscorso eccessivo a campioni clinici che corrono il rischio di enfatizzare eccessivamente gli effetti specifici della sintomatologia del DPTS sui deficit cognitivi a scapito degli effetti intrinseci del trauma (Navalta et al., 2006).

I deficit cognitivi potrebbero precedere l’inizio del DPTS, svilupparsi insieme all’evento traumatico o insorgere al manifestarsi dei sintomi (Brandes et al., 2002). Per tale motivo studi che utilizzano solo pazienti con DPTS per analizzare gli effetti del trauma sulle FE, non consentono di comprendere le reali conseguenze del trauma sugli aspetti cognitivi.

Navalta et al., (2006) per superare questo problema, hanno indagato gli effetti dell’abuso sessuale in relazione allo sviluppo neurocognitivo in un campione di riferimento non clinico, cioè che non aveva sviluppato una diagnosi di DPTS. Lo studio metteva a confronto 26 donne con storia di abuso sessuale (traumatizzate) con 28 donne senza storia di abuso sessuale (assenza di trauma). I risultati mostrano che l’abuso sessuale è associato a difficoltà cognitive, in particolar modo differenze significative tra i due gruppi sono emerse in compiti volti a valutare le capacità inibitorie, abilità comprese nelle FE.

Così come Navalta et al. (2006), anche De Bellis et al. (2013) indagano il funzionamento cognitivo in bambini e adolescenti mettendo a confronto gruppi clinici con gruppi non clinici. Il campione è formato da tre gruppi: gruppo maltrattati che avevano sviluppato un DPTS; gruppo maltrattati che non avevano sviluppato un DPTS; gruppo di controllo non maltrattati. In accordo con il modello di sviluppo traumatologico sia statico che dinamico (De Bellis, 2001), gli autori ipotizzano che entrambi i gruppi di bambini maltrattati (sia con DPTS che senza) avrebbero riportato performance significativamente peggiori in tutti i domini neuropsicologici rispetto al gruppo di controllo, e che il gruppo di bambini maltrattati con DPTS avrebbe mostrato performance significativamente peggiori in compiti volti a valutare la memoria e le FE rispetto al gruppo dei solo maltrattati e al gruppo di controllo.

E’ stato indagato inoltre se specifiche tipologie di abuso sono associate a specifici domini neuropsicologici, tenendo sotto controllo la gravità del maltrattamento. Per quanto riguarda gli esiti neuropsicologici, non emergono differenze tra i due gruppi di bambini maltrattati: entrambi i gruppi maltrattati (sia con DPTS che senza) eseguono similmente e significativamente peggio prove volte a valutare il QI, il rendimento scolastico, e tutti i domini neuropsicologici eccetto quello fine-motorio, dimostrando come le difficoltà cognitive emergano indipendentemente dalla diagnosi di DPTS.

Non emergono inoltre differenze rispetto alle funzioni esecutive nei due gruppi di bambini maltrattati ma abbiamo differenze tra i due gruppi solo rispetto le abilità visuo-spaziali, che però includono FE di ordine superiore e che quindi supportano l’ipotesi secondo cui il modello di sviluppo traumatologico dinamico predice performance peggiori in compiti volti a valutare le funzioni esecutive nel gruppo maltrattati con DPTS rispetto ai solo maltrattati. I risultati mostrano una relazione tra le variabili di maltrattamento e il funzionamento cognitivo, tale che una durata maggiore della diagnosi di DPTS correla con più basse funzioni visuo-spaziali, i sintomi dissociativi correlano negativamente con il dominio attentivo, e l’esperienza di ripetuti tipi di maltrattamento risulta negativamente associata al dominio dei risultati accademici, mostrando quindi degli effetti cumulativi del trauma che non sono collegati al DPTS. Questo dato supporta il modello di sviluppo traumatologico dinamico secondo il quale un precoce trauma può portare a meccanismi che causano deficit neuropsicologici multipli e globali che non sono collegati ai sintomi dell’attuale DPTS o a psicopatologia.

Solo l’indice di abuso sessuale correla significativamente e negativamente con due principali domini cognitivi: memoria e linguaggio. Ciò suggerisce che bambini abusati sessualmente riportano performance peggiori in compiti che valutano capacità di linguaggio e memoria rispetto a bambini che subiscono altre forme di maltrattamento. In letteratura è stato osservato inoltre che la natura del trauma può influenzare in modo specifico il funzionamento cognitivo nei pazienti traumatizzati. A tal proposito l’obiettivo di DePrince et al., (2009) è stato quello di mostrare che i bambini esposti a trauma familiare (abuso fisico, violenza sessuale ed esposizione alla violenza domestica) avrebbero mostrato deficit delle FE maggiori rispetto a bambini esposti a traumi non familiari. Successivamente alla somministrazione di questionari e una batteria neuropsicologica che andava ad indagare le FE, tra cui working memory, capacità di inibizione, velocità di elaborazione, controllo delle interferenze e attenzione uditiva, un totale di 110 bambini è stato suddiviso in tre gruppi: gruppo con trauma familiare (maltrattamenti fisici e sessuali di tipo famigliare); gruppo con trauma non familiare (calamità naturali, incidenti automobilistici, e/o nella comunità/violenza dei pari); gruppo senza trauma.

Lo studio rivela un effetto della relazione tra condizione di esposizione al trauma familiare e prestazioni nei compiti delle FE, pur tenendo sotto controllo le variabili che contribuiscono ad influenzare la performance sulle FE (condizione familiare di esposizione al trauma, ansia e sintomi dissociativi, presenza di lesioni cerebrali, status socio economico). I bambini esposti a trauma familiare rispetto ai loro pari mostrano prestazioni compromesse nei compiti che valutano le FE rispetto sia al gruppo trauma non familiare che al gruppo di controllo. Tale studio però non è in grado di determinare la direzione causale della relazione tra FE ed esposizione al trauma familiare.

Potrebbe essere che il deficit delle FE aumenti il rischio di esposizione al trauma, piuttosto che l’esposizione al trauma potrebbe comportare deficit nelle FE. Tuttavia non è possibile escludere che il deficit delle FE aumenti il rischio di violenza familiare.

Il processo adolescenziale: teoria e tecnica

È come se si versasse vino nuovo in vecchi otri

(Winnicott , D.W., 1962)

Nell’adolescenza si definisce il rapporto tra il riproporsi dell’identico e l’emergere del nuovo (Cahn, R., 2000).

Nel senso di contenere, organizzare, dare un nome agli incessanti cambiamenti interni ed esterni che riguardano questa fase dello sviluppo e che ci rendono altri nella misura in cui rimaniamo noi stessi (Cahn, 2000).

R. Cahn (2000) parla di soggettivazione intesa come processo di assunzione della soggettività. Essa rinvia a quell’insieme di azioni psichiche che conducono l’individuo a percepire la propria individualità creando uno spazio psichico personale adeguato, che permette una differenziazione con l’esterno e allo stesso tempo una capacità di auto simbolizzazione dell’esperienza. Questo processo riguarda il corso dell’intera vita dell’individuo e in questa fase dello sviluppo trova uno snodo cruciale.

Vediamo che il processo di soggettivazione di ogni individuo dipende dalle determinanti interne del soggetto ma anche dalla cultura e dalle norme della società che gli è propria. Ogni psicoanalista deve occuparsi della realtà psichica dell’adolescente, ma anche dell’oggetto esterno, della realtà sociale e persino di una pseudo realtà psichica che il paziente può costruirsi (Cahn, R., 2000).

Su questo rapporto si incentra il lavoro psicoanalitico che mira a rintracciarne la problematica dalle origini fino all’organizzazione più o meno definitiva della mente.

L’adolescenza è un periodo in cui si presentano dei profondi cambiamenti biologici, psichici e sociali. Assistiamo, infatti, in questo periodo, a delle trasformazioni corporee, anatomiche e fisiologiche e ad un ampliamento delle capacità cognitive. Tutti questi cambiamenti portano nell’adolescente ad elaborare un nuovo statuto del corpo, dell’identità e del mondo.

Come ricorda Margot Waddell (2000), i cambiamenti fisiologici della pubertà si verificano solitamente prima di quelli emotivi, questo soprattutto per quanto riguarda il sesso femminile. Infatti, molte ragazze iniziano ad avere le mestruazioni e a sviluppare caratteristiche sessuali secondarie all’età di dieci o persino nove anni. Questi cambiamenti corporei portano con se un sentimento perturbante (Freud, S., 1919), infatti, la comparsa del corpo genitale è vissuto in un primo tempo come estraneo ed esterno al ragazzo, rispetto alle precedenti sicurezze del periodo infantile.

L’adolescente, pertanto, in questo processo di cambiamento, attraversa un lutto normale riferito su più fronti: lutto dei genitori, idealizzati nell’infanzia; lutto del corpo infantile; lutto della propria identità e del proprio ruolo nel mondo infantile (Selener, G., 1991).

Per poter far subentrare la realtà genitale, dovrà compiere una scelta importante per l’identità sessuale: essere donna oppure uomo? E dovrà rispondere ad una domanda che riguarda il processo di soggettivazione: chi sono io? Queste domande portano con sé dei turbamenti, sentiti spesso come insopportabili, sono vissuti che il giovane vorrebbe evacuare e dai quali vorrebbe difendersi.

Spesso in questo periodo assistiamo a dei comportamenti delinquenziali che servono per alleviare la tensione degli impulsi aggressivi e sessuali. Inoltre, i comportamenti delinquenziali servono all’adolescente a sondare i limiti dell’autorità esterna ed interna: il giovane mette alla prova gli altri e se stesso. Questo modo di rapportarsi gli permette il progressivo distanziamento dalle proprie figure di attaccamento primario, per creare poi un pensiero proprio, per sciogliere e per poi riallacciare i legami antichi al fine di renderli attuali (Cahn, R., 2000).

I genitori tuttavia, permangono come base sicura, specialmente nei momenti di forte difficoltà, ma si riattiva una rinegoziazione dei ruoli e delle posizioni all’interno della famiglia, sia da parte dei figli che da quella dei genitori. Il conflitto con l’autorità genitoriale implica un’elaborazione dei fantasmi di parricidio e matricidio che, dopo il complesso edipico, si riattualizzano in questa fase (Salvucci, A., 2010).

L’Io viene nuovamente sottoposto ad una forte pressione istintuale, infatti, lo stesso S. Freud (1905) sosteneva che la pubertà rilancia il movimento edipico interrotto nel periodo della latenza e lo porta a termine. Tuttavia, la riaccensione adolescenziale delle tendenze edipiche suscita angosce di castrazione, fantasie o paure di perdita dell’amore o degli oggetti d’amore che possono provocare delle infantilizzazioni difensive oppure riattivare la fantasia masturbatoria centrale (Laufer, M., 1984), in base alla quale l’adolescente rivive fantasie fusionali infantili (Ammanniti, M., 1989).

Durante l’adolescenza il ragazzo dovrà confrontarsi nuovamente con il senso di colpa, con il timore della perdita, con la gratitudine e la sensibilità nei confronti degli altri. Meltzer D. (1993) descrive l’adolescenza come un periodo di crisi dello spazio mentale e della sua integrazione, caratterizzato dalla presenza di un particolare tipo di splitting: da un lato l’invidia per il potere, l’egocentrismo, l’ambizione sfrenata; dall’altro la sensibilità per i deboli, l’idealizzazione dell’altruismo, l’emotività.

Nel tentativo di trovare ed esprimere un proprio nuovo modo di essere, l’adolescente oscilla continuamente tra queste due posizioni, vivendo uno stato di grande confusione tra ciò che può portarlo avanti o indietro, rispetto a quella che percepisce chiaramente come una scomoda e faticosa situazione intermedia tra infanzia ed età adulta. Nel desiderio di prendere le distanze dalla dimensione infantile, considerata debole e dipendente, l’adolescente teme fortemente la sua stessa grande sensibilità, perché ha paura che mostrarsi troppo sensibile lo possa far, di nuovo, scivolare indietro verso l’infanzia e la dipendenza dagli adulti. Contemporaneamente, nel desiderio di progredire verso la dimensione adulta, tende a pensare che l’unico modo di rendersi indipendente sia quello di andare avanti senza pietà.

Come è stato messo in luce da contributi psicoanalitici (Freud, A., 1957; BIos, P., 1962) e da ricerche psicologiche, in questo periodo si verifica uno spostamento della dipendenza dai genitori ai coetanei. Nell’adolescenza si possono evidenziare processi assimilabili a quelli presenti nella prima fase di separazione-individuazione. La spinta alla sperimentazione e alla curiosità si ripropone nuovamente nel campo delle relazioni nel gruppo di coetanei, così come si possono assimilare molti comportamenti a quelli presenti nella fase di riavvicinamento, rintracciabili soprattutto nell’ambivalenza che caratterizza la relazione con gli adulti e soprattutto con i genitori.

Steinberg (1986) ha mostrato con le sue ricerche che gli adolescenti diventano più autonomi dai genitori sul piano emotivo e nello stesso tempo sono più suscettibili all’influenza dei coetanei, in particolare nel periodo fra i 14 e i 15 anni, quando la ristrutturazione del Sé è in primo piano. Dopo questa età l’influenza dei coetanei si riduce anche perché il Sé dell’adolescente è maggiormente integrato. Interessante che nel caso delle ragazze il 25% dimostri gradi elevati di autonomia rispetto ai genitori e ai coetanei, che si trovano solo nel 12% dei ragazzi.

Come afferma Wolf (1982):

Per tutta la vita si mantiene il bisogno di un sostegno al proprio Sé, anche se l’intensità e la forma del rispecchiamento cambiano in modo appropriato all’età.

Il gruppo dei pari, inoltre, diviene contenuto e contenitore degli investimenti identificatori e di idealizzazione dei nuovi oggetti, fonte di gratificazione e di sostegno narcisistico. Esso può essere utilizzato come elemento di esternalizzazione delle diverse parti di sé; come afferma Meltzer (1977), i processi sociali messi in moto, favoriscono, tramite la realizzazione nel mondo reale, la graduale diminuzione della scissione, dell’onnipotenza e il ridursi dell’angoscia persecutoria.

Quando parliamo dell’adolescenza e dell’importanza che assume il rispecchiamento potremmo rifarci alla teoria della conoscenza umana che Platone sviluppa nel suo dialogo Alcibiade. Nel dialogo Socrate, riferendosi all’iscrizione di Delfo, si rivolge ad Alcibiade: ‘se l’iscrizione consigliasse l’occhio, come consiglia l’uomo, dicendo: ‘guarda te stesso’, in che modo e cosa penseremmo voglia consigliare? non forse a guardare qualcosa guardando la quale l’occhio fosse in grado di vedere se stesso?’. Socrate continua ad interrogarsi ‘quale oggetto v’è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi’, e Alcibiade in risposta: ‘è chiaro. Socrate, gli specchi e oggetti simili’. Socrate prosegue nelle sue argomentazioni: ‘hai osservato che poi a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è un’immagine di colui che guarda’ (Narcy, M., 2005).

Diversamente tuttavia stanno le cose quando parliamo di banda: essa trova la sua forza di coesione nel suo scopo distruttivo (Rosenfeld, H., 1972). La banda quando si riunisce ha il falso scopo di garantire sicurezza e protezione ai membri che ne fanno parte, ma il compito primario è quello di recare danno. Inoltre la sua funzione è di sorveglianza (Polacco, W., 1999).

Come ricorda Rosenfeld H. (1972), il narcisismo distruttivo di questi pazienti è organizzato da una banda in cui vi è un capo che controlla tutti per attuare il piano distruttivo.  La richiesta di aiuto, in questa fase evolutiva, non viene quasi mai dall’adolescente stesso ma, di frequente, ci si trova di fronte all’invio da parte dei genitori, della scuola, dei tribunali, ecc.

Il primo problema nella costituzione di un setting terapeutico è che qualsiasi tipo di psicoterapia è sempre condotta da un adulto e, dal punto di vista dell’adolescente, spesso, gli adulti appaiono come i gestori di una struttura di potere e di controllo. L’adolescente tende a rifiutare l’aiuto psicoterapeutico sia perché teme una manipolazione da parte di un adulto che, pretendendo di curarlo, potrebbe cercare di imporgli modelli di pensiero e di comportamento inaccettabili, sia perché il lavoro psicoterapeutico potrebbe comportare la rivisitazione dolorosa dei propri conflitti.

Per ciò che riguarda la tecnica psicoanalitica con gli adolescenti mi sembra opportuno citare una frase a me cara: ‘la condizione vulcanica dell’adolescente è necessario coglierla, è necessario utilizzarla’ ( Pierre Mâle, 1972). In analisi lo spazio dell’adolescenza ha dei confini alle volte indefinibili, il transfert può dispiegarsi a fatica. Per Anna Freud (1957) gli adolescenti erano i figliastri della psicoanalisi, non erano candidati alla psicoanalisi classica proprio per il loro essere in continua metamorfosi.

L’adolescente è poco propenso a focalizzarsi sulle proprie esperienze infantili mentre preferisce parlare di ciò che avviene nella propria vita reale attuale. Compito dell’analista è quello di comprendere l’influenza della storia passata dell’adolescente focalizzandosi sul suo mondo interpersonale, esterno ed interno al setting, in modo da espandere l’esperienza del Sé dell’adolescente. Il setting ha in sé una funzione materna, quella di holding, di contenitore e una funzione paterna esercitata dalle regole dello stesso.

Lo scopo del terapeuta, che ha in cura un adolescente, è quello di permettere al ragazzo il completamento del processo evolutivo. Come ricordano anche le neuroscienze, la psiche in questo periodo, andrebbe considerata come una struttura evolutiva disarmonica. Proprio queste dis-armonie devono essere colte durante il trattamento analitico poiché, questa modalità di funzionamento e i relativi meccanismi di difesa messi in atto nel lavoro clinico, ne rivelano le peculiarità. L’obiettivo è utilizzarle via via che ne fanno la comparsa per poter essere rielaborate. Ma forse ancor di più bisogna favorirne l’emergenza o ridurne gli ostacoli che frappongono a ciò. Questi ostacoli sono, tuttavia, resistenze in rapporto a conflitti infantili inconsci, impedimenti della possibilità stessa di pensare, di desiderare e agire per proprio conto.

L’analista nel transfert è spesso vissuto sia come persecutore, sia come colui che salverà l’adolescente da questa sessualità vissuta come incestuosa, da questo corpo e dai propri fantasmi. Vediamo che l’adolescente in psicoanalisi deve provare affidabilità nell’analista, nella sua capacità simultanea d’identificazione e di distanziamento, deve trovare la giusta distanza tra Scilla e Cariddi, fra seduzione e freddezza.

Anche il setting deve essere contenitivo, tale da assicurare affidabilità e costanza poiché esso potrebbe far rivivere vissuti abbandonici specialmente se questi sono stati alimentati da fallimenti reali nelle relazioni primarie. L’adolescenza, quindi, rappresenta un periodo delicato dello sviluppo dell’individuo: ‘Se tutto si prepara nell’infanzia, se non nella primissima infanzia, forse addirittura nei primissimi giorni di vita, tutto si gioca nell’adolescenza’ (Kestemberg, E., 1980).

Pertanto, è utile dare ascolto alle parole, ai silenzi, agli agiti dell’adolescente e cercare di intervenire lì dove si è creata una falla nel processo evolutivo.

Bisogna che il fiume trovi una diga, formi dei vortici, trascini via con sé ciò che lo circonda per misurare la forza del suo flusso, scavare il proprio letto e correre verso il mare integrando i nuovi ostacoli, le figure edipiche che lo arricchiranno, in maniera forse dolorosa ma senz’altro necessaria. Se, al contrario, la diga viene aggirata o semplicemente sostituita da una divisione del corso delle acque, queste si riducono, si esauriscono sterilmente oppure si scindono e si perdono rumorosamente.

(Kestemberg, E.,1980).

Quando la genitorialità è funzionale e quando diventa disfunzionale e maltrattante

Il parenting è un concetto che consente di osservare, interpretare e comprendere come si struttura lo sviluppo psico-socio-culturale del bambino nelle sue diverse articolazioni ed effetti. Il parenting, infatti, condiziona il benessere e il malessere fisico e psicologico del bambino e favorisce o ostacola i processi di sviluppo e crescita fisica e psicologica. In questo senso il parenting può essere osservato in una dimensione di protezione, quando è funzionale allo sviluppo, o di rischio e compromissione, quando è disfunzionale e maltrattante.

La relazione figli-caregiver è lo spazio relazionale primario in cui si sviluppano i processi mentali che determinano lo sviluppo del sé, delle rappresentazioni mentali dell’altro e del mondo. Esiste un momento della vita di ogni persona in cui il soggetto vive in uno spazio relazionale neutro in cui fa esperienza del significato delle relazioni: è in questa fase che inizia a riconoscere e decodificare l’accudimento del genitore e co-costruire un’aspettativa relazionale espressione della rappresentazione di sé e dell’altro ( Stern, 1987). In questo spazio relazionale primario, caratterizzato dai processi di accudimento del caregiver, si realizzano tutti i processi di sviluppo psico-fisico-sessuale del bambino.

Il parenting è il concetto che meglio rappresenta “ il processo relazionale finalizzato all’accudimento”. Questo è “co-determinato dal bambino e dall’adulto identificato come figura di riferimento, si realizza in una dimensione spazio-temporale e socio-culturale e promuove lo sviluppo fisico e psico-socio-culturale-educativo del bambino”. (Paradiso, 2015). Il parenting è un concetto che consente di osservare, interpretare e comprendere come si struttura lo sviluppo psico-socio-culturale del bambino nelle sue diverse articolazioni ed effetti. Il parenting, infatti, condiziona il benessere e il malessere fisico e psicologico del bambino e favorisce o ostacola i processi di sviluppo e crescita fisica e psicologica. In questo senso il parenting può essere osservato in una dimensione di protezione, quando è funzionale allo sviluppo, o di rischio e compromissione, quando è disfunzionale e maltrattante.

 

Parenting funzionale

Per comprendere il parenting funzionale, disfunzionale e maltrattante è indispensabile osservare il rapporto tra accudimento e bisogni di sviluppo del bambino, nucleo centrale dei processi di accudimento. E’ la competenza del genitore di osservare, riconoscere e soddisfare i bisogni di sviluppo del bambino che determina un parenting funzionale.

Nel parenting funzionale i genitori sono in grado di gestire in modo adeguato le dinamiche famigliari, i processi di riconoscimento e soddisfazione dei bisogni evolutivi e il percorso di crescita e di sviluppo del bambino. In particolare è la qualità delle cure ricevute che determina il benessere relazionale del bambino: l’adeguatezza del comportamento di accudimento è il presupposto per la formazione del legame di attaccamento, dei modelli operativi interni, della rappresentazione di sé e degli altri.

 

Parenting disfunzionale

Nel parenting disfunzionale l’accudimento è precario, ambivalente, non orientato ai bisogni del bambino: il caregiver non riesce a osservare e quindi rispondere ai bisogni evolutivi del figlio e trasferisce su di lui richieste che non è in grado di capire e decodificare. In molti casi ha delle difficoltà a rendersi disponibile al figlio, a entrare in relazione con lui sul piano affettivo e cognitivo. L’effetto finale è un ambiente famigliare caratterizzato da messaggi contraddittori, da proposte non orientate alla fase di crescita e sviluppo del bambino. Il caregiver non è in grado di gestire le dinamiche famigliari specifiche del percorso di crescita di un figlio, di riconoscere e soddisfare i bisogni di sviluppo primari affettivi, sociali e culturali, di agire i comportamenti di monitoring nelle attività dei figli, di regolazione emotiva e comportamentale.

Nel parenting disfunzionale il genitore trasforma i bisogni del bambino in funzione dei propri: è l’esempio di un genitore che non riesce ad adeguarsi alle tappe di sviluppo del figlio e a modulare il comportamento sui bisogni primari del bambino (alimentazione, sonno, controllo sfinterico, cura del corpo) determinando una situazione di deregulation educativa-emotiva-fisiologica che compromette lo sviluppo complessivo del bambino. Il parenting disfunzionale influenza naturalmente la formazione della rappresentazione di sé e dell’altro, il legame di attaccamento e i conseguenti modelli operativi interni.

 

Parenting maltrattante

Il parenting disfunzionale si può trasformare in un parenting maltrattante nel momento in cui il genitore non solo non è in grado di offrire un accudimento appropriato ai bisogni di sviluppo del bambino, ma opera una distorsione, inversione e negazione dei bisogni del bambino ( Paradiso, 2015). E’ l’esempio del genitore che nega il bisogno del bambino e offre un accudimento insufficiente, esperienza principale della trascuratezza, che distorce le esigenze del bambino, espressione tipica della patologia delle cure, che inverte i bisogni del bambino con i propri, sfruttandoli, caratteristica della realtà della violenza psicologica e dell’abuso sessuale.

Quindi, gli effetti del parenting maltrattante sono le situazioni di trascuratezza, deprivazione affettiva, maltrattamento e abuso. Il parenting maltrattante comprende tutte le azioni che compromettono lo sviluppo psico-fisico-sessuale del bambino, ledono l’integrità fisica e psicologica, sfruttano la debolezza e la fragilità psicologica del bambino per soddisfare i bisogni personali. Nel parenting maltrattante i genitori sfruttano il potere nei confronti del figlio, non sono in grado di tutelarlo, seguirlo e crescerlo in una logica di protezione, strumentalizzano la relazione con lui per il soddisfacimento dei bisogni dell’adulto, sino ad aggredire il figlio o a sfruttare i suoi bisogni di sviluppo.

 

Gli effetti a lungo termine e nella vita adulta dei tipi di parenting

Il parenting funzionale, disfunzionale e maltrattante rappresenta un’area concettuale importante nella comprensione non solo dello sviluppo del bambino, ma del benessere/ malessere psicologico della persona nel suo intero percorso di vita. Le numerose testimonianze nell’ambito della clinica, infatti, dimostrano l’impatto del parenting disfunzionale e maltrattante nella storia della persona e, in particolare, in alcune fasi di transizione del ciclo di vita. In particolare nella transizione alla maternità e paternità, biologica o adottiva, i vissuti della donna e dell’uomo in relazione all’accudimento ricevuto emergono in modo prepotente come flash back, come paura, come ansia nel caso di un parenting disfunzionale e maltrattante o come ricordo positivo, serenità, come desiderio di genitorialità, percezione di competenza nel caso di un parenting funzionale.

Il parenting, infatti, è un processo che lega le generazioni attraverso i processi di interiorizzazione dei sistemi di accudimento formando un sistema di “trasmissione intergenerazionale del parenting”. In assenza di un percorso di elaborazione personale o di gruppo è comune osservare la somiglianza dei comportamenti educativi all’interno della famiglia allargata. In conclusione il parenting è un costrutto centrale nella psicologia dello sviluppo, nella psicologia clinica e di comunità poiché rappresenta uno dei processi relazionali di base della nascita psicologica del bambino ( Stern, 1987l) e il principale fattore protettivo e di rischio del benessere/malessere dell’infanzia.

Delusioni d’amore? #VoltaPagina – il 2° Video

Il 40% degli italiani ha consultato almeno una volta un mago.

Solo il 20% ha consultato almeno una volta uno psicologo.

Nella nostra società, e tanto più in questi tempi di crisi, non mancano i motivi per sentirsi stanchi, stressati, inquieti, confusi di fronte ai più diversi problemi che la vita può metterci davanti.

Non sempre questi stati psicofisici vanno considerati come “disturbi”: a volte lo sono, ma a volte sono una risposta “normale” che la mente e l’organismo oppongono a circostanze difficili, dolorose, problematiche. E a volte si ha l’impressione di non farcela ad affrontare da soli i problemi che inquinano le nostre giornate e ci tolgono la serenità; a volte non sapremmo neanche dire perché ci sentiamo arrabbiati, ansiosi o infelici. In questi casi è bene ammettere con sé stessi che le energie non bastano, e cercare aiuto.

Se hai un problema emotivo, una disarmonia in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella vita sociale, rivolgiti a uno psicologo.

Lo psicologo è un professionista con una laurea specifica, che ha superato un Esame di Stato ed è iscritto a un Albo pubblico che ne certifica la formazione e la preparazione ad affrontare esattamente quei problemi emotivi, psicofisici, ma anche sociali e organizzativi entro cui si genera il tuo stato di malessere.

#VoltaPagina

Lo psicologo non si occupa solo di salute mentale, ma di molte altre cose: visita il sito dell’Ordine Psicologi Lazio ( www.ordinepsicologilazio.it ), ideatore di questa campagna di sensibilizzazione #voltapagina

Non affidarti a chi non ha la giusta competenza per aiutarti. Psicologi e Psicoterapeuti sono i professionisti adeguati e formati appositamente per venirti in aiuto.

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Ordine Psicologi Lazio è anche su Facebook: https://www.facebook.com/ordinepsicologilazio/

Indagine sulla violenza domestica: la visione di sequenze di film famosi come strumento di analisi

 

La violenza domestica nei confronti delle donne è oggi, purtroppo, un fenomeno piuttosto diffuso, a prescindere dal paese e dalla cultura di appartenenza.

La Commissione Europea (2010) lo ha recentemente identificato come la più comune causa di violenza subita dalle donne, con una prevalenza del 22%; nondimeno, si calcola che il 41% degli omicidi compiuti nei confronti delle donne sia perpetrato proprio dal partner maschile. Incredibilmente, resiste ancora uno stigma sociale nei confronti delle vittime femminili di abusi domestici (sessuali e non), poiché il 55% dei cittadini europei ritiene che la prima causa di violenza domestica sia proprio un presunto comportamento provocatorio da parte della vittima, comportamento che eliciterebbe direttamente, secondo un’errata credenza comune, la reazione violenta del partner maschile.

E’ facile immaginare come tale stigma nei confronti delle vittime provochi i maggiori danni nel facilitare e perpetuare proprio i comportamenti abusanti meno violenti, rispetto a quelli più efferati: se, infatti, siamo tutti d’accordo nel condannare l’omicidio, potremmo trovarci meno d’accordo nel condannare quei comportamenti cosiddetti minori come la violenza sessuale o le semplici percosse nei confronti della donna con cui viviamo. E’ questo il ritratto che emerge dalle analisi della Commissione Europea: sembra che tali credenze non siano diffuse solo tra la popolazione maschile (potenzialmente abusante), ma anche tra la popolazione femminile (potenzialmente abusata) che troppo spesso – perciò – tace, nasconde e perfino giustifica le violenze minori subite, magari quotidianamente.

Purtroppo negli anni l’assessment psicologico dell’Intimate Partner Violence Against Women by their male partners (IPVAW) ha incontrato non poche difficoltà, che possiamo facilmente prevedere: utilizzando unicamente strumenti self-report che indaghino esplicitamente la tendenza a compiere tali violenze o le nostre credenze a riguardo, si ricade inevitabilmente nel bias della desiderabilità sociale: il maschio abusante non ammette mai esplicitamente i propri agiti, e tende – anzi –  a difenderli, giustificarli o minimizzarli.

Per tale motivo si è da anni alla ricerca di strumenti che indaghino queste credenze e tendenze in modo implicito, riuscendo quindi ad aggirare il desiderio dell’abusante di apparire migliori agli occhi degli altri. E’ quello che stanno provando a fare Enrique Gracia e colleghi, dell’Università di Valencia, che hanno di recente pubblicato su Frontiers in Psychology uno studio preliminare su di un nuovo strumento, il Partner Violence Acceptability Movie Task (PVAM).

L’idea è semplice quanto acuta: mostrare ai soggetti sequenze di film famosi (come Il colore viola o Pomodori verdi fritti alla fermata del treno) che rappresentano scene di violenza domestica e chiedere loro di fermare la riproduzione quando pensano che il comportamento dell’uomo stia diventando violento. L’ipotesi è che i soggetti (potenzialmente) abusanti abbiano credenze più permissive nei confronti della violenza domestica e che, dunque, lascino riprodurre le sequenze più a lungo di quanto faccia il gruppo di controllo.

Il campione è costituito da 94 maschi condannati per violenza domestica e già inseriti in un programma di intervento psicologico, mentre il gruppo di controllo è formato da 245 studenti universitari (189 femmine, 55 maschi). I tempi di reazione sono stati analizzati insieme ai risultati dell’Inventory of Beliefs About Wife Beating (somministrato dopo la sequenza cinematografica) e hanno confermato le ipotesi: non solo vi è una forte correlazione generale tra il tempo di reazione al film ed il risultato del questionario (tempi più lunghi correlano con punteggi più alti), ma il campione ha espresso tempi e punteggi significativamente più alti rispetto al gruppo di controllo.

Non possiamo, però, non tacere qualche perplessità riguardo alla selezione del gruppo di controllo, che a parer nostro potrebbe aver lievemente amplificato i risultati. Infatti, se il campione era costituito – a buon senso – unicamente da soggetti maschi, c’era da aspettarsi che anche il gruppo di controllo fosse così formato (se non nella sua totalità, almeno nella maggioranza): appare evidente, perciò, come un gruppo di controllo di ben 189 femmine e solo 55 maschi risulti poco adatto per valutare la presenza di un comportamento perpetrato – per definizione – da soggetti di genere maschile nei confronti del genere femminile!

Ciò nonostante, questo studio, seppur preliminare, sembra promettere molto nel campo dell’assessment dell’IPVAW, andando a formare il primo strumento di valutazione implicita delle nostre credenze sulla violenza domestica.

La guerra (intrapsichica) che ognuno di noi deve combattere contro il terrorismo. Cinque strategie efficaci

I danni causati dalle azioni che vanno sotto il nome di “terrorismo” sono di due tipi: (1) distruzione di vite, (2) distruzione del senso di sicurezza nei sopravvissuti.

 

Il bisogno di sicurezza (sapere in ogni momento di essere protetti e al sicuro) è talmente importante per noi da essere secondo solo ai bisogni fisiologici come la fame e la sete (Maslow, 1954). Quando manca, perdiamo una delle qualità fondamentali della nostra vita.

Entro certi limiti, la reazione che abbiamo di fronte agli eventi catastrofici è sotto la nostra diretta responsabilità. Cosa possiamo fare per riappropriarci della nostra sicurezza quando ci viene portata via?

Attacchi come quelli subiti il 13 novembre scorso generano (collusivamente con gli intenti di chi li ha compiuti) uno shock emotivo a cui troppo spesso si accompagna il pensiero che non ci sia niente da fare per difendersi. Gli attacchi terroristici sono eventi che non possono essere controllati. Possono colpire chiunque e in qualsiasi momento.

Se questo è quello che pensiamo, allora ci stiamo mettendo nei guai.

 

A due giorni dagli attentati, i parigini hanno spalancato le finestre dei palazzi e alzato il volume della musica: per scacciare la paura, o meglio, la paura della paura. Il genere di pensieri “non possiamo fare niente”, “siamo tutti bersagli”, “bisogna solo sperare di non essere colpiti” sono molto comuni, molto nocivi e per di più falsi.

Al contrario, ecco una serie di cose che tutti noi possiamo fare per combattere efficacemente il terrorismo.

In una situazione come quella attuale, molte delle nostre interpretazioni si rivelano inesatte perché il modo in cui pensiamo agli eventi ne influenza la percezione, restituendoci un’idea della realtà che non sempre è corretta.

Quello che dobbiamo fare è “mettere alla prova” i pensieri che ci danno l’illusione di comprendere la situazione, ma che in realtà ci ostacolano. Ecco i principali:

 

1 Non c è nessuno a difenderci

L’immenso lavoro svolto per combattere il terrorismo nasconde i suoi effetti. In altre parole non vi è prova manifesta della sua efficacia.

Il fatto che solamente la notizia degli attentati “a segno” venga registrata (e nella maniera più traumatica possibile), mentre non vi è percezione alcuna del lavoro che costantemente permette di ridurre il numero di attacchi al minimo, ci fa sentire soli, in balia degli eventi, così noi crediamo che gli attacchi non possano essere controllati.

In realtà, in ogni istante il terrorismo viene combattuto efficacemente. Dai corpi armati di ogni tipo, fino alle agenzie di Intelligence, un grande numero di persone addestrate appositamente lavora a largo raggio (l’effetto del “non dare nell’occhio” è voluto) per tenere sotto controllo il rischio di attentati.

 

2 Stanno per colpirci!

Quotidianamente, anche in tempo di pace, noi utilizziamo numerose euristiche, ossia pensieri semplificati che ci consentono di risparmiare tempo ed energie (Kahneman, Tversky, 1974). Nonostante spesso siano utili, i pensieri caratterizzati in questo modo hanno un limite.

E’ il caso in cui iniziamo a credere a un falso sillogismo. Questo si presenta quando si assume mentalmente di conoscere già la risposta (esito) e in seguito si stabilisce il percorso logico che la giustifica. Potrebbe funzionare in questo modo:

“I terroristi colpiscono i luoghi affollati, io frequento luoghi affollati, io sarò colpito!”

Generalmente siamo inconsapevoli di questo tipo di logiche; ciò che registriamo a livello cosciente sono soprattutto le conseguenze emotive di questi pensieri automatici.

Teniamo a mente di dover contrastare le euristiche e le logiche troppo semplici quando si presentano.

 

3 Stanno per colpirci! (2° variante)

Una volta analizzati attentamente, alcuni pensieri risultano affetti da varie “distorsioni cognitive” che portano a sovrastimare il pericolo reale.

Comunemente ci si riferisce a una di queste distorsioni con l’espressione ragionamento emozionale. Si presenta quando crediamo che qualcosa sia vera per il solo fatto che “sentiamo” fortemente che è così. In pratica lo stato emotivo di ansia e paura che si sente, viene utilizzato per confermare la percezione del pericolo (sono preoccupato = deve esserci un pericolo) .

In questa maniera, se per caso abbiamo prenotato un viaggio a Parigi, Londra o Roma, potremmo rinunciare a causa dell’apprensione che sorge nell’immaginarci vicini alla fonte del pericolo. In realtà, nelle zone suddette, il rischio di subire un attentato è il medesimo che in tutte le altre parti del mondo, anzi, possiamo ragionevolmente ritenere che in questo momento sia molto più basso visto il livello di allerta che attualmente garantisce maggiori controlli.

 

4 Gli islamici sono tutti terroristi

L’odio razziale è un modo imperfetto di reagire. Molte persone come prima risposta ad un attacco reagiscono con la stessa moneta.

Si tratta però di un metodo fallace di gestione delle proprie emozioni perché funziona soltanto in apparenza e non porta a nessun reale miglioramento della situazione.

D’altra parte però, la rabbia non ha in sé niente di sbagliato. L’odio è un sentimento legittimo che deve trovare espressione, senza essere distruttivo. La rabbia in questi casi è utile se ci consente di scoprire quando noi la utilizziamo per tenere a bada un altro sentimento intenso: ad esempio la paura. Si tratta di una trasformazione molto comune: accettare di essere vulnerabili infatti, è tra le sfide più difficili.

Insomma, prendercela con il fruttivendolo egiziano sotto casa non ci aiuterà (ma capire che ci possiamo sentire spaventati da qualcuno che vediamo tanto diverso da noi è già un passo in avanti).

 

5 Teniamo gli occhi aperti

Qualcuno suggerisce che la prima cosa da fare per combattere il terrorismo è passare all’azione. Siamo tutti in prima linea: guardiamo dentro ogni scatola e dietro ogni velo. Non lasciamoci sfuggire nulla. Segnaliamo tutto alle autorità, denunciamo qualsiasi sospetto.

Affermazioni del genere sono motivate dal bisogno di riappropriarsi della capacità di prevedere l’esito degli eventi. I personaggi (purtroppo anche pubblici) che avallano comportamenti di questo genere dimostrano scarsa responsabilità e nessuna comprensione dei fatti.

E’ stato dimostrato che quando alcuni soggetti (oppositivi o ansiosi) prestano un’attenzione esagerata a certi stimoli innocui o ambigui, questi ultimi vengono interpretati come realmente minacciosi. (Barrett et al, 1996).

Spingere le persone a coltivare il sospetto non può che avere effetti negativi: come in una profezia che si autoavvera, ricercare prove a sostegno di attività sospette induce facilmente a trovarne (o averne l’illusione) dietro ogni angolo, aumentando ancora di più l’incertezza e il livello del pericolo percepito.

 

In conclusione, è chiaro che in un modo o nell’altro tutti noi troviamo una strategia per combattere la nostra personale battaglia contro chi ci minaccia. Alcune di queste strategie potrebbero essere migliori di altre.

Nella nostra personale e intrapsichica lotta al terrorismo (può sembrare uno scherzo metterla in questi termini ma è ciò che concretamente facciamo in ogni istante) il nostro Locus of Control, il Luogo di Controllo, deve essere pienamente nelle nostre mani, così da essere protagonisti del nostro mondo, piuttosto che vittime del destino e sotto il segno della sfortuna.

Di fronte alla domanda “Come possiamo combattere il terrorismo?” non dobbiamo mai rimanere senza una risposta. Al contrario dobbiamo dimostrarci forti nel controllare le nostre emozioni più negative. Le parole “non possiamo fare niente” non sono ammesse e non devono essere pronunciate in nessun caso.

Essere donatori di organi: uno studio sul quoziente empatico, i vissuti d’attaccamento ed i meccanismi di difesa dell’io

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Essere donatori di organi: uno studio sul quoziente empatico, i vissuti d’attaccamento ed i meccanismi di difesa dell’io

Autrice: Rosa De Stefano

 

Abstract

Il presente lavoro intende valutare quanto il quoziente empatico, i vissuti d’attaccamento e i meccanismi di difesa si pongano in relazione con la scelta di essere favorevoli alla donazione degli organi. La tematica è di per sé molto impegnativa, dal momento che il divario esistente tra bisogno di organi e disponibilità a donarli può essere colmato solo comprendendo il peso che alcune variabili assumono all’interno delle scelte che vengono fatte sul piano individuale. Alla ricerca hanno preso parte 140 persone. L’età dei soggetti favorevoli alla donazione di organi che hanno partecipato alla ricerca è compresa fra i 18 e i 76 anni (Media: 35,75; Ds 12,61). Sono stati inoltre esaminati 40 soggetti di età compresa tra i 18 e i 75 anni (la Media è 37,72 e la Ds è 16, 92) non disponibili alla donazione degli organi, che hanno costituito il gruppo controllo.

I risultati di questo studio ci permettono di giungere ad una conclusione, di per sé certo non definitiva, ma che riguarda le modalità di costruzione dei legami affettivi con le figure di attaccamento e la presenza di atteggiamenti empatici e altruistici. Coloro che hanno avuto una figura di attaccamento, soprattutto materna, presente senza essere ipercontrollante e invadente, affettuosa e che si è relazionata con loro con amorevolezza senza inibirne il desiderio di autonomia, hanno manifestato il loro potenziale intendimento di donare gli organi. I comportamenti e gli atteggiamenti equilibrati delle figure di attaccamento potrebbero infatti influire sugli individui, determinando il loro corredo comportamentale e disponendoli all’autonomia decisionale, alla premura disinteressata verso l’altro e i suoi bisogni.

Abstract

The present study aims to assess how the empathy quotient, the feelings of attachment and defense mechanisms are connected with the decision to be in favor of organ donation. The topic is very challenging, since the gap between organs need and willingness to donate them, can be bridged only by understanding the importance that some variables take in individual choices. This research has been attended by 140 people. The age gap among subjects supporting organ donation that participated the survey, is between 18 and 76 years (average: 35,75; 12,61 Ds). The control group was made-up by 40 not-supporting organs donation subjects, aged between 18 and 75 years (average is 37.72 and the DS is 16, 92) which were also examinated.

The results lead to a, certainly not definitive, conclusion that affect the manner of emotional ties construction with attachment figures and the presence of empathy and altruistic behavior. Those who have had an attachment figure, especially maternal, and present without being neither iper-controlling nor intrusive, affectionate and who is related to them with kindness without inhibiting the desire for autonomy, have demonstrated their potential intention to donate organs. The balanced behaviors and attitudes of attachment figures may in fact affect individuals, determining their accompanying behavioral and arranging decision-making autonomy, the disinterested kindness toward others and their needs.

Parole chiave: Donazione organi, attaccamento, empatia, altruismo.

 

Il lacanismo, malattia senile del freudismo

Il lacanismo è ormai al crepuscolo per quanto riguarda l’impiego come forma di terapia (mentre gode ancora di una certa fortuna tra filosofi e critici letterari). Del resto la psicoanalisi lacaniana è praticamente l’unica forma di psicoterapia della quale non esista praticamente alcuno studio di efficacia.

 

Imposture intellettuali e l’esperimento di Alain Sokal

Qualche anno fa, un noto fisico franco-americano, Alan Sokal, ebbe una curiosa illuminazione. Infastidito dalla lettura di Lacan e dei suoi epigoni, il cui esoterismo tecnico scrittoriale rendeva un’impresa degna di Sisifo finire ogni singola pagina, si chiese semplicemente: “E se mi stessero prendendo in giro?”. Sokal volle mettere alla prova questa idea e scrisse un testo intenzionalmente privo di senso ma carico di espressioni intricate e citazioni di autori oscuri.

Lo intitolò in modo roboante “Per un’ermeneutica quantistica del testo letterario”. Lo inviò poi a “Social Text”, una rivista piuttosto illustre, che lo pubblicò senza particolari resistenze. Dopo l’uscita, però, qualcuno avrebbe ben potuto avanzare qualche dubbio sul senso dello scritto, ma nulla successe. Dopo qualche mese, Sokal fece il suo coming out, spiegando il motivo che lo aveva spinto alla burla. Ne nacque un libro, intitolato “Imposture intellettuali” (con Jean Bricmont, trad. it. Garzanti), nel quale il fisico raccontava la propria esperienza e metteva alla berlina tutti gli autori che a suo avviso vendevano fumo senza arrosto. Tra di loro, naturalmente, Lacan occupava il posto d’onore. La tecnica usata per lo sbertucciamento era molto mirata ed efficace: lo psicoanalista francese (come molti intellettuali del suo stampo) si spinge talora a proporre accenni alle scienze hard e alla fisica in particolare; dato che Sokal poteva ben ritenere di controllare almeno quello specifico campo in modo adeguato, era in grado di verificare se le allusioni fossero sensate o almeno coerenti. Naturalmente, Sokal poteva facilmente dimostrare il contrario.

 

La supercazzola di Lacan: esegesi del testo

Sarebbe un errore, tuttavia, ritenere che solo quando si azzarda nel territorio della fisica Lacan sia censurabile. Chiunque legga Lacan senza essere un lacaniano, pur non dicendolo ad alta voce per evitare di sbagliarsi, ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a periodi che sembrano una via di mezzo tra la supercazzola prematurata di “Amici miei” e il grammelot di Dario Fo (che peraltro ha una nobile origine, risalendo addirittura a Molière).

Non c’è dubbio che il linguaggio tecnico di una disciplina scientifica qualsivoglia possa risultare esoterico. Personalmente non mi azzarderei mai a giudicare un articolo di fisica quantistica e a sorridere delle sue formule astruse. Però tendenzialmente gli specialisti di meccanica quantistica capiscono gli articoli sulla meccanica quantistica e gli astrofisici capiscono gli articoli di astrofisica. Perché uno psicologo non dovrebbe capire un testo di psicoanalisi? Eppure questo è quanto succede a psicologi e psicoanalisti non lacaniani quando leggono Lacan: non capiscono nulla o quasi. E questo è testimoniato dagli stessi lacaniani quando criticano chi critica Lacan: invariabilmente il commento è che il lettore non lacaniano non ha capito.

 

Il verbo lacaniano: custodito religiosamente e accessibile solo agli iniziati

Ma è veramente necessario leggere e capire tutto Lacan per criticarlo, come pretenderebbero gli adepti? Beh, anzitutto bisogna chiarire una cosa: leggere tutto Lacan è impossibile. Non semplicemente perché la sua produzione è sterminata (il che è peraltro vero) ma perché solo una frazione del verbo lacaniano è disponibile alla lettura di tutti. I testi realmente redatti da Lacan sono relativamente pochi: la maggior parte di essi è racchiusa e tradotta in italiano in Scritti e Altri scritti (raccolta, quest’ultima di pubblicazione recente per Einaudi). In realtà, però, una parte molto ampia dell’insegnamento di Lacan è costituita dal Seminario, ovvero dalla trascrizione delle lezioni tenute dal nostro per decenni, soprattutto al Collège de France. Ora, del Seminario soltanto una parte è edita (e tradotta in italiano).

Il grosso dei dattiloscritti originali giace negli scrigni del genero ed esecutore testamentario Jacques-Alain Miller e le copie di essi circolano (non riviste e semi-clandestine) solo nelle biblioteche delle scuole di psicoanalisi di ispirazione lacaniana. Negli scritti di Miller e di altri si trovano diverse allusioni ai seminari inediti ma naturalmente è impossibile valutarne l’attendibilità dall’esterno. Già da questo si potrebbero trarre molte conclusioni sullo spirito settario che anima i seguaci di Lacan. Sta di fatto che solo gli iniziati potrebbero realmente leggere l’intero lascito lacaniano; e si tenga presente che tra i seminari inediti ci sono quasi tutti gli ultimi. Quindi ad ogni critica di Lacan un lacaniano iniziato potrebbe rispondere: “Ma tu non hai capito x perché non hai letto y”.

 

Il cocktail esotico di psicoanalisi, strutturalismo e linguistica

In ogni caso bisogna convincersi che per scardinare il lacanismo non serva una forza erculea di ragionamento: bastano, come avrebbe detto Kierkegaard, “un intelletto umano sano e un po’ di senso del comico”. Già l’impostazione del lacanismo è fallace, frutto semplicemente di mode caratteristiche degli anni cinquanta dello scorso secolo. Lacan si limitò a mettere insieme psicoanalisi, strutturalismo e linguistica, per distillare quella che forse è la sua affermazione di base:

[blockquote style=”1″]l’inconscio è strutturato come un linguaggio[/blockquote]

(come si legge nel seminale Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi). Ma l’inconscio è strutturato? E soprattutto, è strutturato come un linguaggio, dal punto di vista della psicoanalisi classica?

La risposta è no, l’inconscio non è, in ottica freudiana, strutturato come un linguaggio, a meno che non si definisca con “struttura” e con “linguaggio” qualcosa di completamente diverso dall’usuale. La struttura di un linguaggio è determinata da una grammatica, ovvero, come scrive Chomsky

[blockquote style=”1″]un sistema di regole e principi che assegna a ciascuna di un numero infinito di frasi una forma fonetica e una forma logica, unitamente ad altre proprietà strutturali.[/blockquote]

Una tale definizione lascia aperto il ruolo della pragmatica del linguaggio, ma anche quest’ultima è soggetta a regole stabilite intersoggettivamente, in modo non meno efficace perché implicito (basta considerare gli studi di Grice al riguardo).

Il linguaggio, secondo quello stesso Roman Jakobson che è costante riferimento di Lacan, è suscettibile di “descrizione quantitativa”: il contenuto da esso veicolato può essere tradotto in termini di “informazione binaria” (si vedano i Saggi di linguistica generale). In altre parole il linguaggio è di per sé coerente, soggetto al principio di non-contraddizione. L’organizzazione dei tempi verbali, nella quasi totalità delle lingue conosciute, è attuata secondo principi che rendono possibile identificare, nella comunicazione, la sequenzialità temporale. L’inconscio di Freud, invece, è caratterizzato dall’incoerenza e dall’assenza del principio di non-contraddizione. Nel lavoro onirico manca anche l’ordinamento temporale e episodi dell’infanzia si innestano in ricordi recentissimi.

Dal punto di vista della tecnica psicoanalitica classica, uno dei fondamenti imprescindibili è costituito dal cosiddetto setting, ovvero quell’insieme di principi pratici che regolano la scansione della terapia e che devono rimanere costanti per quanto possibile: luogo, tempo, intervallo tra le sedute etc. Una delle caratteristiche della tecnica lacaniana, invece, è quella di basarsi sull’ora logica, cioè sulla possibilità di variare la durata della seduta. L’analista decide di interromperla quando a suo avviso sia venuto il momento giusto. Possono esserci tanti buoni motivi per una simile scelta: ci si può limitare qui ad affermare senza tema di smentita che la conseguenza è però quella di alterare in modo decisivo i principi classici della psicoterapia psicoanalitica, e in particolare di quella freudiana.

 

Lacan autoproclamatosi erede di Freud

Si potrebbe a questo punto osservare che il punto di vista lacaniano potrebbe essere inteso come una possibile interpretazione del freudismo e considerare le astruse formule del seminarista parigino come una possibile modalità di lettura di Freud, paragonabile a quella di un critico letterario, che legga un testo qualsiasi senza pretendere di esaurirlo. Questa possibilità, però, è esclusa dallo stesso Lacan, che di Freud si ritiene unico interprete legittimato. Gli cederò a questo punto la parola, citando letteralmente dal Seminario XXIII, intitolato “Il sinthomo” (sic):

[blockquote style=”1″]Sono, mio malgrado, un erede di Freud per avere enunciato a suo tempo quello che si poteva trarre in termini di buona logica dai farfugliamenti di coloro che Freud chiamava la sua banda, e che non ho bisogno di nominare. Si tratta della cricca che seguiva le riunioni di Vienna, della quale non possiamo certo dire che tra gli altri vi sia stato qualcuno che abbia seguito la via che chiamo della buona logica[/blockquote] (trad. it., p. 10).

Lacan sta quindi dicendo che Abraham, Jones e compagnia fossero tutti dei poveri dementi e che Freud li avrebbe tutti sconfessati come del tutto incapaci di intendere e di volere. Purtroppo per lui, le opere freudiane abbondano di riconoscimenti ai suoi allievi per avere contribuito alla crescita della teoria psicoanalitica. Ma per comprendere il rapporto autentico di Freud con i suoi allievi basterebbe leggere i Dibattiti della società psicoanalitica di Vienna, che ci sono pervenuti nei resoconti di Otto Rank (stipendiato ufficialmente da Freud per fungere da segretario verbalizzante). L’epiteto “banda” nei confronti dei primi psicoanalisti è una pura e semplice invenzione di Lacan (né peraltro è l’unica invenzione nelle sue discutibili ricostruzioni storiche).

 

Una coerenza circolare che rinuncia alla logica

Un dubbio potrebbe a questo punto scuotere il lettore che abbia avuto la pazienza di leggere fino a questo punto: come fanno i lacaniani a studiare Lacan e a trovare una logica e una coerenza in quanto leggono e a poter enunciare frasi, o addirittura scrivere interi articoli utilizzando il suo astruso linguaggio se il dettato lacaniano è sostanzialmente privo di senso? In questo sta la genialità supercazzolista di costui: Lacan ha costruito un’articolatissima coerenza circolare nelle definizioni dei propri concetti. Il concetto (1) rimanda ai concetti (2) e (3) e così via, finché non ci si ritroverà ad un concetto (n) che rimanda al concetto (1). Ne risulta una rete dove tutto sembra andare al proprio posto, ma dove nulla ha un reale significato. Mentre il testo freudiano, che sembra essere il riferimento costante di Lacan, viene in realtà piegato a impieghi che il padre della psicoanalisi avrebbe difficilmente riconosciuto.

Nel resto del mondo, se si eccettuano Francia, Argentina e in parte Brasile il lacanismo è ormai al crepuscolo per quanto riguarda l’impiego come forma di terapia (mentre gode ancora di una certa fortuna tra filosofi e critici letterari). Del resto la psicoanalisi lacaniana è praticamente l’unica forma di psicoterapia della quale non esista praticamente alcuno studio di efficacia. I lacaniani, infatti, si oppongono fermamente all’idea che sia possibile effettuare una qualunque forma di verifica empirica basata di misurazioni di alcun tipo (ed anche alla stessa possibilità di registrare sedute analitiche). Sarebbe ora che anche in Italia si prendesse atto di questo e si iniziasse a lasciare quietamente estinguere l’ennesimo epigono dei sarti protagonisti della favola I vestiti nuovi dell’imperatore.

 

Il nonsense disarmante di Amici miei (1975)

https://www.youtube.com/watch?v=JU-QZ7yoyd4

Desiderare un figlio: un sostegno psicologico per affrontare i trattamenti di fecondazione omologa ed eterologa (2015) – Recensione

Teresa Lamanna, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Per l’essere umano procreare è un desiderio che si colora di investimenti affettivi complessi e profondi. La mancata realizzazione di questo desiderio innesca una serie di sentimenti (sgomento, frustrazione, senso di colpa, rabbia, abbattimento, senso di diversità) che spesso generano una crisi di vita.

L’autrice di questo libro propone una guida interessante, per chi è alle prese con il terreno scivoloso dell’infertilità, con lo scopo di innalzare  il livello di autocoscienza, ridurre il disagio sociale, migliorare la comunicazione di coppia, favorendo posizioni più propositive e bilanciate anche nell’interazione col medico per un accresciuto senso di attenzione verso di sè.

Il primo capitolo del libro illustra la storia di una coppia che scopre di avere un problema di infertilità e che decide di affidarsi al percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA). Spiega come la prima criticità si presenta nel momento in cui, dopo vari tentativi naturali di concepimento, l’esito è negativo. Illustra, quando la coppia decide di rivolgersi da uno specialista per ricevere indicazioni utili riguardo al problema e come il primo colloquio venga vissuto con ansia: se da una parte c’è la speranza di risolvere il problema, dall’altra c’è il terrore di non riuscirci.

Nel momento in cui la coppia decide di intraprendere un percorso di PMA, l’esito della gravidanza può risultare sia positivo che negativo.

L’esito positivo se da una parte può essere fonte di gratificazione e felicità, dall’altra parte può essere fonte di ansia e preoccupazioni dovute al timore di perdere il bambino. Quando invece il test dà esito negativo compare lo sconforto e la sensazione di aver fallito nuovamente. L’insuccesso del trattamento è un evento critico per la coppia che, se non gestito con efficacia, può creare crisi nella coppia stessa (ciò accade soprattutto quando i coniugi si chiudono in se stessi, evitando di affrontare il problema).

Il secondo capitolo affronta il fenomeno dell’ infertilità da un punto di vista medico. Spiega la differenza tra infertilità e sterilità, le cause (sia di origine maschile che femminile) e la natura (sia organica che psicologica). Descrive, inoltre, le diverse tecniche di procreazione medicalmente assistita (tecniche di base o di I livello, e tecniche di II o III livello, più complesse e invasive).

Il terzo capitolo è dedicato a fattori psicologici legati alla scelta di intraprendere le tecniche di PMA. Le motivazioni che fanno nascere nella coppia il desiderio di generare un figlio sono molto importanti nella realizzazione del concepimento, nella gravidanza e nelle proiezioni future sul figlio. La diagnosi di infertilità è molto difficile da accettare. Un tema altrettanto importante è quello dell’attesa. Ovvero la capacità di dare a noi stessi un tempo per decidere se e come proseguire nel percorso, tra il timore di accettare la diagnosi, la paura di procedere per strade alternative, la necessità di fermarsi ed elaborare la propria sofferenza.

La diagnosi di infertilità comporta una revisione dell’immagine di sè, il bisogno di rivalorizzare la propria immagine, porte in sè anche l’esigenza di fare scelte importanti come quella di adottare, ricorrere a un trattamento di PMA o accettare di vivere senza figli.

Il quarto capitolo, invece, offre suggerimenti utili per superare i momenti critici e gestire le emozioni. Le indicazioni contenute nel libro offrono supporto e accompagnamento psicologico, ma naturalmente non sostituiscono il lavoro psicologico. L’autrice aiuta a comprendere più facilmente quelle strategie più efficaci per vivere con meno sofferenza l’esperienza di infertilità. Ma quando il disagio è forte e ingestibile è sempre meglio affidarsi ad uno specialista.

Il setting terapeutico è sicuramente un’esperienza che può aiutare a mantenere circoscritta la sofferenza. Il libro fornisce esempi che possono aiutare le coppie a gestire meglio l’attesa dell’esito che può rendere l’esperienza ansiogena, in quanto le coppie da una parte sperano in un esito positivo, dall’altro provano angoscia per un eventuale fallimento.

Il quinto capitolo è dedicato alla fecondazione eterologa e affronta aspetti giuridici, storici e psicologici, tra cui la questione delicata di svelare o meno la modalità di concepimento al figlio.

È un manuale davvero utile per capire ed affrontare uno dei temi di vita che genera molta sofferenza. L’autrice descrive in modo chiaro la difficile esperienza dell’infertilità e offre, attraverso la lettura, la comprensione di strategie per non compromettere il legame di coppia e suggerimenti per affrontare con minore disagio la sofferenza.

Gli attentati di Parigi: gestire una sana paura, evitare i danni dell’ansia

“Gli attentati a Parigi sono un attacco non solo al popolo francese ma a tutta l’umanità e ai valori che condividiamo”, così commenta la terribile tragedia il presidente USA, Barack Obama.

Una notte degli orrori. Come al luna park quando hai paura e chiudi gli occhi sperando di sopprimere il continuo rimuginare non vedendo ciò che accade ma, le sensazioni somatiche, l’attivazione fisiologica, lo stato di vigilanza non ti permettono di calmarti.

Peccato che qui non è un gioco, ma una realtà che lascia senza parole. Qui i protagonisti della scena sono il terrorismo, le 6 sparatorie, le 3 esplosioni che hanno causato circa 352 feriti e 129 morti, tra cui Valeria Solesin, una giovane studentessa veneziana, come riportato da Ansa.it.

È stato definito l’attentato più grave della storia di Francia.

Un bilancio vertiginoso, a scapito di vittime innocenti colpevoli solo di essere nel posto sbagliato in un venerdì notte che doveva essere solo l’inizio di un fine settimana. Un concerto, una cenetta fuori in compagnia, una partita Francia-Germania che gli è costata la vita.

Quello che ora ci resta è soltanto la paura da cui sfuma la disperazione, il disprezzo, la tristezza e la rabbia.

Paura nei confronti dei terroristi islamici, alla loro incapacità di decentrarsi, paura per tutte le famiglie distrutte e spezzate, paura verso noi stessi come generalizzazione di ciò che gli uomini sono disposti a fare, una paura etico-morale. Di un mondo che ormai è incapace di riflettersi nei bisogni degli altri.

La paura in verità ha un compito essenziale perché ha uno scopo “preventivo”, dispone cioè l’individuo a reagire prontamente per evitare che il pericolo si concretizzi, in questo caso si ri-concretizzi ed uno scopo importante venga compromesso. La paura costituisce un’evidente salvaguardia della sopravvivenza individuale, poiche’ si puo’ attivare un processamento semi-automatico quindi di con minor mediazione cognitiva e al tempo stesso quando attivata prevale su tutte le altre emozioni. Quando si ha una reale paura tutto il resto viene congelato e messo in secondo piano.

“Dopo Parigi ora tocca a Roma, Londra e Washington” come proclamato su Twitter dai sostenitori dell’Isis con l’hastag “Parigi in fiamme”. La paura nel leggere certe esternazioni, è una sorta di sentinella a guardia dei nostri scopi più importanti, in questo caso legati alla concreta sopravvivenza fisica.

Ad oggi il mondo è concentrato sul pericolo da cui difendersi.

Non si può parlare di ansia, anche se spesso vengono confuse perché qui la minaccia è definita, immediata, presente e lo scopo minacciato è assolutamente evidente, nell’ansia invece la minaccia è indefinita, lontana nel tempo e nello spazio, e lo scopo minacciato è più sfumato.

Al tempo stesso paura e ansia si intrecciano tra loro essendo la paura dell’ignoto, dell’imprevedibile e quindi ingestibile, la madre di tutte le ansie. Quindi siamo destinati inevitabilmente a provare ansia.

Secondo Salkovskis, un evento è più o meno pericoloso se genera una quantità d’ansia proporzionale alla gravità del pericolo e la probabilità che si verifichi e inversamente proporzionale alla sua capacità di sopportare o rimediare.

Quando si ha paura si automatizzano i pensieri negativi, si restringe l’attenzione focalizzandosi selettivamente sull’evento temuto e si selezionano solo ricordi negativi in memoria. Il risultato è un ricordo di tutto ciò che conferma le nostre credenze a scapito di dati contraddittori con esse.

Secondo Kelly, è minaccioso ciò che è imprevedibile, ciò che spaventa è l’incontrollabilità delle cose. La morte spaventa tanto proprio perché rappresenta il massimo dell’ignoto.

Può essere minaccioso anche un evento prevedibile quando pensiamo di non aver su di esso alcun potere.

Altro elemento centrale dell’ansia è il timore sproporzionato del danno e la tendenza a previsioni catastrofiche, inevitabili e irreparabili. Questo elemento porta il soggetto a considerare sempre l’ipotesi peggiore come strategia prudenziale per evitare che quanto si teme accada, senza alcuna elaborazione di scenari alternativi; a livello comportamentale si verifica l’evitamento, cioè l’allontanamento da luoghi e situazioni in cui l’invalidazione si è precedentemente verificata o dove si ritiene che abbia più possibilità di verificarsi in futuro. Questo restringe il campo d’azione e impedisce di disconfermare le credenze negative. Più una cosa è evitata, più resta sconosciuta quindi spaventosa.

Dopo l’accaduto di Parigi tutti devono riflettere sulle proprie capacità di fronteggiare l’evento, prendere coscienza, per ridurre l’ansia, che siamo in grado di sapere cosa fare se la situazione temuta si dovesse effettivamente verificare, abbassare l’imprevedibilità.

Elaborare tutto ciò che è successo, incrementare l’autoefficacia e costruire scenari per il “day after”, arricchendo il nostro sistema cognitivo in modo tale che dove prima c’era l’ignoto ora ci sia meno vuoto predittivo colmato dalla consapevolezza appellandosi strategie di coping funzionali. Coping, inteso come l’insieme di strategie mentali e comportamentali messe in atto per fronteggiare una situazione stressante, dove il soggetto si vede costretto ad attingere a tutte le risorse disponibili.

Secondo Lazarus, le strategie maggiormente utilizzate sono quelle centrate sul problema (problem-focused), quali adoperarsi per modificare la situazione prevenendo o riducendo la fonte dello stress, in questo caso specifico, ad esempio, promuovendo comportamenti attivi come, assistenza e volontariato alle persone vittime di questa strage e quelle centrate sulle emozioni (emotion-focused), volte a ridurre i disturbi affettivi e psicologici che accompagnano la percezione dello stress, come prendere le distanze dalla situazione, cercare un sostegno sociale, come hanno fatto le scuole francesi, predisponendo psicologi all’interno del contesto scolastico per aiutare a superare il trauma.

Come, riportato da Ansa.it, infatti, in tutti gli istituti della capitale e dell’Ile-de-France, dalle elementari alle università, “saranno inviate delle cellule psicologiche” per aiutare allievi, famiglie e insegnanti “particolarmente toccati” a far fronte al momento difficile.

Spiega Eduscol, che la finalità di questo intervento deve essere inserito in una macro-cornice di accettazione reciproca assicurandosi di

“orientare le discussioni sul fatto che, venerdì sera, sono stati colpiti uomini, donne e bambini, quali che fossero le loro opinioni personali, le loro posizioni filosofiche o le loro convinzioni religiose. Lo stesso dolore colpisce le loro famiglie e i loro amici, al di là di qualsiasi appartenenza, in una stessa umanità colpita dal lutto”.

L’assenza di ansia, inoltre puo’ essere vissuta come segno di vulnerabilità e debolezza in quanto porta ad un abbassamento delle difese, a uno stato di fragilità e un aumento esponenziale di incapacità di gestire il pericolo qualora arrivi. Equivale a un trovarsi impreparati. Ma un conto è la sana preoccupazione, la presa di coscienza di ciò che è accaduto, un conto è invalidare tutta la propria vita a fronte di ciò che è successo, rimanendo incastrati in pensieri negativi e incapacità di reagire.

La preoccupazione predispone all’azione, ha uno scopo adattivo, ci consente di prendere esempio dal passato per evitare che si ripresenti il pericolo in futuro. L’ansia è un crogiolarsi incessante in una reiterazione di comportamenti protettivi che non permettono la disconferma delle nostre credenze.

Se visto l’accaduto allo stadio, smettessimo di frequentare tutti gli stadi, per paura di un ipotetico pericolo, verremo rinforzati nel percepire come effettivamente nulla accada standocene a casa ma, al contempo non potremmo realizzare come, l’aumento di controllo da parte delle forze dell’ordine (sana preoccupazione) ci porterebbe a vivere un momento positivo di distrazione e condivisione sociale senza ansia.

Ovviamente differente è il vissuto emotivo, la traumaticità e la pervasività delle emozioni provate da chi ha vissuto in prima persona la tragica notte di venerdì 13, rispetto a chi ha assistito come spettatore attraverso la televisione o la lettura di giornali la sequenza di eventi. Le emozioni sono sempre le stesse ma diverso è il grado, il tipo di elaborazione e le conseguenti sfaccettature su cui si basano le conseguenti valutazioni degli eventi.

Certo è che, focalizzarsi solo sul pericolo toglie la libertà di vivere, di permettersi di dare spazio a tutti quei rinforzi positivi e distrazioni che ci permettono di avere scopi adattivi e terminali.

Bisogna imparare a convivere con differenti culture e modi di pensare diversi perché non si migliora eliminando il problema, ma trovando strategie alternative affinché il problema diventi risolvibile in modo eticamente corretto.

Concludendo, non bisognerebbe cristallizzarsi su ciò che è successo, ma pensare a cosa fare ora per far si che nel futuro ciò non ricapiti, predisponendosi all’elaborazione di questo “lutto” e trovando modi per mediare, per evitare che tutto questo sia solo l’inizio di una serie di errori senza fine.

Dare e ricevere aiuto: opinioni diverse tra marito e moglie

 

Se per le mogli ricevere aiuto e sostegno dal marito costituisce un’esperienza molto positiva, per i mariti ricevere supporto dalle mogli è frustrante, soprattutto perché rischierebbero così di apparire deboli e poco competenti.

Dalle ricerche degli ultimi trent’anni, è ampiamente emerso come vi sia uno stretto legame tra la propria salute, fisica ed emotiva, e la qualità del proprio matrimonio. La relazione con il coniuge – non c’è bisogno di dirlo – è spesso così importante per noi da divenire decisiva sulla qualità della nostra vita.

Il matrimonio, dunque, può costituirsi sia come fattore protettivo, in quanto fonte di supporto fattuale e psicologico, sia come fattore di rischio, in quanto determinante causa di stress e di sofferenza. La maggior parte degli studi compiuti in passato, però, si è spesso limitata a misurare le correlazioni tra vari costrutti psicologici e il matrimonio, intendendo quest’ultimo come un concetto unitario e indissolubile, dimenticandosi che il matrimonio è innanzitutto una relazione tra due persone e, in quanto tale, viene costruita, percepita e vissuta in due modi diversi: la qualità di tale relazione, dunque, può venir adeguatamente rilevata solo se si raccolgono le esperienze di entrambe le persone che la costituiscono.

E’ quello che ha pensato di fare Deborah Carr, sociologa della Rutgers University, che in un recente studio apparso sul Journal of Gerontology: Social Sciences ha focalizzato la propria attenzione su emozioni quali ansia, tristezza e frustrazione, scoprendo che per mariti e mogli hanno origini e significati ben diversi.

Nel corso della ricerca sono state intervistate 722 coppie di persone con più 60 anni e sposate in media da 40 anni, al fine di comprendere gli effetti che la relazione matrimoniale ed il comportamento del coniuge hanno sul proprio stress e le proprie emozioni negative. Più nello specifico, ciascun partecipante ha descritto – attraverso la compilazione giornaliera di un diario – la disponibilità del partner ad ascoltarlo e sostenerlo di fronte ai propri problemi, la qualità dell’empatia e della comprensione offerte dal partner, la quantità e l’intensità dei litigi tra coniugi, il modo in cui si sentiva dopo tali litigi ed il modo in cui aveva reagito il partner.

I risultati hanno espresso differenze tra mariti e mogli piuttosto significative. Innanzitutto, ci tiene a sottolineare Deborah Carr:

i mariti sono stati molto meno inclini delle mogli a spendere tempo e parole a proposito dei propri problemi matrimoniali: spesso, infatti, gli uomini non vogliono esprimere le proprie emozioni vulnerabili; le donne, al contrario, ricavano molto conforto dall’esprimere emozioni come ansia o tristezza.

Le prime differenze sono emerse a proposito dello stress relazionale: se i mariti hanno affermato di reagire di fronte a tale stress provando unicamente un po’ di frustrazione, le mogli hanno dichiarato di provare non solo frustrazione, ma anche ansia e tristezza. In generale, un effetto così considerevole nelle donne può esser legato al fatto che, come dimostrano precedenti ricerche, queste percepiscano lo stress relazionale molto più intensamente degli uomini.

In aggiunta, bisogna considerare che quasi tutti i partecipanti hanno più di 60 anni e provengono dunque da una società in cui la moglie è considerata, e si sente, particolarmente responsabile del mantenimento del clima emotivo all’interno del matrimonio: infatti, la buona qualità del matrimonio nella cultura del pre-Sessantotto poggiava tutta sulla spalle della donna, ed è dunque comprensibile il fatto che un qualsiasi problema di natura relazionale abbia un’influenza assai maggior sul benessere emotivo della moglie, piuttosto che su quello del marito.

A proposito del supporto offerto al coniuge, le differenze tra partner divengono ancor più evidenti con le parole di Deborah Carr:

se offrire sostegno e supporto al marito rende le mogli più felici e sicure di sé, i mariti invece provano solo frustrazione nel dare il proprio aiuto alla moglie.

Ora, se da un lato è prevedibile che la moglie over 60 che si prende cura del marito si senta più felice e riconosciuta nel proprio ruolo, in virtù dei valori culturali di riferimento a cui abbiamo appena accennato, dall’altro risulta meno intuitiva l’insorgenza di frustrazione nel marito che aiuta la propria compagnia. E’ possibile che tale frustrazione derivi dal modo in cui la moglie può reagire ai propri problemi, magari intrappolandosi in una spietato criticismo che non risparmia né se stessa né il marito accorso in suo aiuto. Oppure è possibile – più verosimilmente – che il marito che offre il proprio tempo alla moglie in difficoltà provi frustrazione perché preferirebbe impiegare questo tempo in attività per lui più rilevanti: recenti studi sul cosiddetto soffocamento matrimoniale, in effetti, pongono l’accento su come anche le relazioni più supportive tra coniugi possano minare il benessere e l’autonomia di uno dei due partner se deprivano questi della possibilità di raggiungere i propri obiettivi, siano essi lavorativi, sociali o di semplice intrattenimento.

Infine, anche riguardo al supporto ricevuto dal coniuge si possono osservare pattern pressoché opposti tra uomini e donne. Se per le mogli ricevere aiuto e sostegno dal marito costituisce un’esperienza molto positiva, per i mariti ricevere supporto dalle mogli è frustrante, soprattutto perché rischiano così di apparire deboli e poco competenti. E’ possibile, nuovamente, che tale dato possa trovare spiegazione solo se inserito nel contesto sociale e culturale pre-Sessantotto, contesto nel quale i partecipanti sono cresciuti e sono diventati adulti. Nella famiglia a forte stampo patriarcale, infatti, i ruoli tra marito e moglie erano molto più distinti e definiti rispetto ad oggi: la moglie era responsabile della casa e dei figli e doveva tenere in piedi da sola il matrimonio, sopportando e assorbendo tutte le eventuali difficoltà emotivo-relazionali, mentre il marito era responsabile del sostentamento di tutta la famiglia, e della ricerca e mantenimento di un lavoro che fosse in grado di garantirlo. Il marito doveva essere forte e non c’era spazio, né doveva essercene, per esprimere le proprie paure e preoccupazioni di fronte alla moglie; e la moglie, d’altro canto, non doveva richieder sostegno emotivo al marito, rischiando così di distoglierlo dalle sue occupazioni e di aumentare le sue preoccupazioni.

Alla luce di questi valori culturali di riferimento, dunque, risulta comprensibile perché l’uomo anziano, oggi, provi frustrazione sia nel dare che nel ricevere aiuto dalla moglie. Perché entrambe le attività, per i motivi citati, gli impediscono di mantenere quel senso di una competenza e autonomia prettamente maschile che per troppo tempo è stata considerata meramente pragmatica e che solo oggi sta acquistando sempre di più una valenza che è anche, e soprattutto, emotiva e relazionale.

 

Terapie efficaci: evoluzione, integrazione e scienza: dal Congresso di San Benedetto del Tronto, 6 novembre 2015

Il 6 Novembre 2015 a San Benedetto del Tronto (AP) si è svolto l’evento dal titolo ‘Terapie efficaci: evoluzione, integrazione e scienza‘, tema centrale è stato l’efficacia della psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, a partire dai modelli standard fino alla cosiddetta terza onda.

Si è tenuta il 6 Novembre 2015 a San Benedetto del Tronto (AP) una giornata di approfondimento organizzata dalla sede di ‘Studi Cognitivi’ di SBT. L’evento dal titolo ‘Terapie efficaci: evoluzione, integrazione e scienza‘ ha avuto come tema centrale l’efficacia della psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, a partire dai modelli standard per giungere alla cosiddetta terza onda che si sta facendo sempre più strada nel panorama internazionale.

Sono intervenuti come relatori diversi professionisti che operano nel campo della formazione, della clinica e della ricerca scientifica e i lavori sono stati coordinati dalla responsabile di sede, Dottoressa Clarice Mezzaluna. L’obiettivo era creare un momento di incontro e dialogo tra diverse prospettive, e favorire una visione di integrazione tra queste.

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Terapie efficaci evoluzione, integrazione e scienza report da San Benedetto del Tronto, 6 novembre 2015_IMMAGINE 1
I relatori dell’evento

 

Il Prof. Ezio Sanavio, Professore di Psicologia clinica dell’Università di Padova Direttore della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale ITC di Padova e di Rimini, ci ha illustrato le terapie della ‘terza generazione’, presentandoci obiettivi e tecniche dell’ACT (Hayes), della DBT (Linehan), della Mindfulness (Kabat-Zinn), della Schema therapy (Young) e della Terapia Metacognitiva (Wells).

Tra queste emerge l’importanza data al contatto con il momento presente, alla riscoperta dei valori, all’accettazione, intesa non come rassegnazione, ma come ‘disponibilità’, consapevolezza del ‘qui ed ora’ a contenere anche le esperienze negative. Però, secondo l’ottica del Prof. Sanavio, non si tratterebbe di un vero e proprio salto di paradigma ‘alla Kuhn’, in quanto gli elementi di continuità con teorie e tecniche di prima e seconda generazione sono maggiori degli elementi di discontinuità. Per Sanavio ci troviamo di fronte ad un avanzamento conoscitivo e operativo, ma che ha ancora bisogno di svilupparsi. La critica dei limiti della terza generazione arriva principalmente alla costituzione di scuole, sottoscuole e correnti, ognuna guidata da un suo leader e a volte troppo interessate ai copyright, più che alla ricerca scientifica e al miglioramento e alla crescita teorica delle varie correnti.

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Il Professor Carlo Di Berardino, Direttore del Centro di Psicologia Clinica di Pescara, ci ha parlato dell’utilizzo della Mindfulness in ambito clinico e Psicoterapeutico, e dello spostamento del focus dell’intervento terapeutico verso il ruolo che le emozioni e gli schemi profondi svolgono sulla strutturazione della personalità. Di Berardino ci pone il problema della bicausalità direzionale, cioè dell’importanza del ruolo che le emozioni svolgono sui processi cognitivi, e che determinano allo stato attuale una maggiore attenzione alla corporeità e all’attività sensomotoria nei processi di regolazione delle emozioni. In questo senso, l’effetto terapeutico della meditazione è dovuto non tanto dal cambiamento dei contenuti del pensiero quanto dal distanziamento dagli automatismi emotivo-cognitivi.

Il Professor Benedetto Farina dell’Università Europea di Roma ha ripercorso la storia della ricerca scientifica in psicoterapia a partire dal famigerato studio di Eysenck del 1952 che metteva in discussione l’utilità della psicoterapia per la cura dei disturbi nevrotici. Molta strada in termini di ricerca scientifica è stata percorsa con lo scopo di dimostrare che la psicoterapia non è soltanto un costoso placebo, e paradigmi di ricerca sempre più complessi e articolati hanno riscattato il suo ruolo curativo. Attualmente però, dopo un’accanita ricerca dei fattori terapeutici attivi (active ingredients), emerge l’importanza di comprendere come le qualità del terapeuta interagiscono con le caratteristiche del paziente per ottenere le condizioni interpersonali necessarie a un cambiamento terapeutico. La ricerca scientifica in psicoterapia pertanto non deve essere rappresentata solo dagli studi di efficacy ma deve riguardare anche l’effectiveness dei trattamenti.

Il Professor Paolo Moderato delle Università IULM e SFU, ci ha parlato della terapia ACT, che si occupa principalmente dell’insegnamento di abilità psicologiche per rapportarsi con i propri pensieri ed emozioni dolorose, le cosiddette abilità di mindfulness, aiutando le persone a chiarire quello che è realmente importante e significativo per loro e utilizzare questa comprensione per guidare, ispirare e motivare a cambiare la propria vita in meglio. L’obiettivo dell’ACT è quello di aumentare la flessibilità psicologica, di rendere gli individui pienamente consapevoli e aperti alle proprie esperienze e capaci di agire in linea con i propri valori.

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Dott.ssa Sandra Sassaroli – Direttrice di Studi Cognitivi

 

In chiusura l’intervento della Dottoressa Sandra Sassaroli, Direttrice di Studi Cognitivi, si è incentrato sulla relazione del paradigma metacognitivo con la terapia cognitivo-comportamentale. A partire dal primo trial di Beck, si parla del 1979, è stata portata avanti una forte corrente di ricerca di efficacia su protocolli cognitivo-comportamentali, che ha dato vita a interventi specialistici per diagnosi specifiche. Sebbene non vi siano dubbi sull’efficacia terapeutica della CBT, assistiamo alla cosiddetta crisi dei contenuti: la ricerca empirica non prova che l’efficacia della CBT dipenda dall’esplorazione e dalla modificazione degli schemi e dei contenuti cognitivi.

Questa crisi attualmente viene risolta seguendo due possibili direzioni, una delle quali segue i processi, l’altra prende la direzione della focalizzazione corporea, emotiva, relazionale. Sassaroli parla di un vero cambio di paradigma e non soltanto di un avanzamento tecnico, in quanto perde di importanza l’architettura degli scopi e delle credenze come conoscenza di sé. Nell’ottica processualista un ruolo attivo è riservato alle rappresentazioni metacognitive, intese come credenze sulla stessa attività mentale, che determinano la reazione dell’individuo alla sofferenza stessa, rendendola cronica attraverso la costituzione di un circolo ripetitivo negativo (Repetitive Negative Thinking, RNT). È proprio su questa reazione alla sofferenza che si struttura l’intervento clinico, inteso come consapevolezza dei propri processi mentali e addestramento a padroneggiarli, andando oltre l’intervento sui contenuti che caratterizzava la CBT. Però è possibile, anzi auspicabile una combinazione della CBT con la Terapia Metacognitiva, considerando le credenze come fattori di vulnerabilità e le credenze metacognitive negative come variabili di scatenamento e mantenimento dei sintomi.

Da questo tentativo di sintesi nasce un modello elaborato dal gruppo ricerca di ‘Studi Cognitivi’ denominato LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment). In questo modello si restituisce importanza, in linea con la tradizione italiana, alla radice evolutiva delle credenze cognitive e si pone attenzione ai processi di mantenimento rimuginativi, permettendo interventi terapeutici mirati, efficienti e consapevoli ma mantenendo la raccolta degli aspetti narrativi ed episodici, permettendo anche ai pazienti con difficoltà relazionale la condivisione dei contenuti con il terapeuta.

Ha concluso la giornata la concettualizzazione di un caso clinico da parte di tutti i relatori, impostata secondo i modelli e le teorie proposte durante la mattinata. Questo aspetto più pratico è stato particolarmente apprezzato anche dal pubblico ‘più giovane’, che ha potuto approfittare di una full immersion nella pratica clinica proposta da professionisti esperti.

Cosa si cela dietro alla co-occorrenza tra dislessia evolutiva e adhd?

Vittoria Trezzi, Diego Moriggia, Margherita Novelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

Studi epidemiologici ed eziologici hanno dimostrato che, sia in popolazioni cliniche che nella popolazione generale, la Dislessia Evolutiva (DD) co-occorre molto frequentemente con il Disturbo di Attenzione e Iperattività. Quali sono le ipotesi che spiegano questa co-occorrenza?

Molti clinici dell’età evolutiva si saranno resi conto che un bambino con Dislessia Evolutiva ha molto spesso dei deficit di attenzione o tratti marcati di iperattività. Genitori e insegnanti si dicono: ‘Poverino, è un bimbo che si annoia più facilmente degli altri e ha bisogno di sfogarsi’. Lo stesso vale per bambini affetti da Deficit di Attenzione e Iperattività: capita spesso che questi bambini abbiano difficoltà di apprendimento (lettura, scrittura, calcolo). Anche in questo caso le frasi che si sentono più spesso dai familiari sono: ‘È disattento, è normale che faccia più errori nel leggere. Si dimentica le H perché è impulsivo e scrive di fretta’. Ebbene, c’è sicuramente del vero dietro a queste affermazioni, ma alcuni studiosi hanno voluto approfondire l’argomento.

Studi epidemiologici ed eziologici hanno dimostrato che, sia in popolazioni cliniche che nella popolazione generale, la Dislessia Evolutiva (DD) co-occorre molto frequentemente con il Disturbo di Attenzione e Iperattività (ADHD – Carroll et al., 2005; Maughan & Carroll, 2006).

Prima ancora di inoltrarci nelle differenti ipotesi che cercano di spiegare questa frequente co-occorrenza dei due disturbi, proviamo a chiarire cosa si intende per Dislessia Evolutiva e per Disturbo di Attenzione e Iperattività. La prima è una condizione altamente ereditabile, presente in circa il 3-6% della popolazione generale. La Dislessia Evolutiva è un disturbo abbastanza eterogeneo, tipicamente diagnosticato nei primi anni di scuola elementare, caratterizzato da un deficit nei processi di acquisizione della lettura. Tali difficoltà si possono riscontrare nei parametri di accuratezza e/o velocità di lettura e si presentano in bambini con normali abilità cognitive e adeguate opportunità educative (DSM-V; American Psychiatric Association, 2013). Ne sono un esempio quei bambini che rispetto ai compagni di classe sono molto più lenti a leggere, o sono veloci ma commettono molti errori.

Anche il Disturbo di Attenzione e Iperattività (ADHD) è un disturbo del neurosviluppo altamente ereditabile (American Psychiatric Association, 2013). Tale disturbo ha una prevalenza intorno al 5% in popolazione generale ed è caratterizzato da sintomi raggruppabili in tre dimensioni: disattenzione, iperattività e impulsività (DSM-V; American Psychiatric Association, 2013). In questa categoria diagnostica troviamo ad esempio bambini che non riescono a terminare i compiti perché molto facilmente distraibili, che non aspettano il loro turno quando c’è da alzare la mano in classe, che non riescono a stare seduti per più di dieci minuti perché non sono in grado di frenare l’impulso di muoversi e correre.

Da questa breve descrizione è facile intuire come queste difficoltà siano molto invalidanti non solo per un bambino (e per i suoi genitori) in età scolare, ma anche più in là nel tempo. Sono, infatti, disturbi che vengono definiti life time e che, appunto, permangono fino all’età adulta. La condizione in cui questi disturbi si presentano congiuntamente aumenta esponenzialmente le difficoltà della vita quotidiana e diventa cruciale poterli identificare entrambi per intervenire in modo efficiente e più precocemente possibile.

A conferma dei dubbi di alcuni esperti, secondo i quali la co-occorrenza di questi due disturbi sembrava troppo frequente da poter essere attribuita al caso, si è dimostrato come la Dislessia Evolutiva e l’ADHD co-occorrano con una frequenza maggiore rispetto a quella prevista dal caso. In campioni epidemiologici i disturbi co-occorrono approssimativamente nel 15-40% dei casi e la loro comorbilità è più pronunciata per i bambini con una forte compromissione degli aspetti attentivi rispetto a quelli iperattivi (Gilger et al., 1992). In studi effettuati su campioni selezionati per ADHD, il range di comorbilità è tra il 25% e l’80%, in campioni selezionati per Dislessia Evolutiva, invece, il range di comorbilità oscilla tra il 15% e il 60% (Dykman et al., 1991; Gayan et al., 2005; Gilger et al., 1992; Faraone et al., 1998; Willcutt et al., 2000a,b).

Come abbiamo detto sopra, la prevalenza di bambini affetti da Dislessia Evolutiva è all’incirca del 4% e quella dei bambini con ADHD del 5%. Se i disturbi fossero totalmente indipendenti, la probabilità di ereditarli entrambi sarebbe pressoché casuale, ovvero attorno allo 0,2% (i.e. 4% x 5%). Dal momento che la stima è molto più alta è facile ipotizzare che i due disturbi condividano fattori di rischio quali varianti genetiche, fattori ambientali (Petryshen et al., 2009; Willcutt et al., 2000a), processi cognitivi (Shanahan et al., 2006, Willcutt et al, 2005) e aspetti anatomo-funzionali (Eden et al., 2008) che contribuisco all’insorgenza di entrambi i disturbi. Per tale ragione, la sovrapposizione dei due disturbi è meglio descritta come co-occorrenza rispetto a comorbilità, perché quest’ultima implica che la patofisiologia sottostante ai due disturbi sia indipendente e non legata causalmente (Keplan et al., 2006).

Esistono diverse ipotesi che spiegano la co-occorrenza tra Dislessia Evolutiva e ADHD. Come prima cosa è importante escludere che la co-occorrenza osservata sia un artefatto causato da un errore di procedura di campionamento o da problemi di misurazione (Angold et al., 1999). La soluzione all’ipotesi di artefatto è rappresentata dal fatto che:

  • i due disturbi si presentano in co-occorenza con una frequenza maggiore del caso sia in popolazione clinica che in popolazione generale (Semrud¬Clikeman et al., 1992; Willcutt & Pennington, 2000a);
  • la co-occorrenza è presente in campione di soggetti selezionati sia per Dislessia Evolutiva che per di ADHD, rispettivamente indipendenti;
  • i due disturbi vengono diagnosticati con misurazioni differenti, la Dislessia Evolutiva include una batteria testale composta prevalentemente da test cognitivi, mentre la diagnosi di ADHD prevede anche dei criteri di natura comportamentale (American Psychiatric Association, 2013).

La seconda ipotesi suggerisce che i bambini con uno dei due disturbi possano presentare sintomi del secondo disturbo a causa delle influenze etiologiche del primo, ovvero è comune, per esempio, che i bambini con Dislessia Evolutiva provino frustrazione elicitata dalle difficoltà di lettura e manifestino sintomi disattentivi o di iperattività motoria (Pennington et al., 1993; Pisecco et al., 1996). Tuttavia, il fatto che sintomi comuni nell’ADHD si presentino come sintomi secondari di Dislessia Evolutiva in assenza di specifico Disturbo di Attenzione e Iperattività, e che dunque i suddetti sintomi disattentivi o di iperattività motoria non siano ascrivibili a ADHD non dà completezza scientifica a quest’ipotesi.

La terza ipotesi sostiene che la co-occorrenza riscontrata tra ADHD e Dislessia Evolutiva sia un sottotipo ben distinto di uno dei due disturbi con una sintomatologia e dei correlati neuropsicologici ben definiti (Rucklidge et al., 2002). Questa ipotesi viene smentita dal fatto che risulta molto chiaro come i bambini con entrambi i disturbi esibiscano una combinazione di sintomi presenti in modo selettivo in bambini con solo Dislessia Evolutiva o con solo ADHD. Altri studi, infatti, non hanno trovato risultati a supporto a tale ipotesi (Nigg et al., 1998; Rucklidge et al., 2002; Willcutt et al., 2001; Willcutt et al., 2005).

La quarta e ultima ipotesi suggerisce che ci siano dei fattori di rischio condivisi che contribuiscono alla co-occorrenza riscontrata (Willcutt et al., 2000; Willcutt et al., 2005). Attraverso studi di genetica è diventato progressivamente più chiaro come alcuni fattori di rischio siano condivisi dai due disturbi e come alcuni fattori di rischio genetico siano sovrapponibili per Dislessia Evolutiva e ADHD (Gayan et al., 2005; Loo et al., 2004).

Le prime evidenze di questa teoria sono state fornite dagli studi condotti su gemelli. La logica di uno studio gemellare si basa sull’idea che i gemelli monozigoti (MZ) condividono il 100% del patrimonio genetico, a differenza dei gemelli dizigoti (DZ) che condividono solo il 50% in media. Se partiamo dal presupposto che ci sia una sottostante suscettibilità genetica per un determinato disturbo, i gemelli MZ dovrebbero avere una correlazione per tale tratto molto più elevata di quella dei DZ (circa il doppio).

Per quanto riguarda l’ADHD, gli studi hanno stimato un tasso di ereditabilità che va dal 70% all’80% (Faraone et al., 1993; Gilger et al., 1991; Willcutt et al., 2000a; Gayan et al., 2001; Friedman et al., 2003; Biederman et al., 2005; Faraone et al., 2005; Dell’homme et al., 2007). Le stime per la Dislessia Evolutiva sono molto simili e si aggirano attorno al 40-60% (Gayan et al., 1999; Ziegler et al., 2005). Gli studi sull’ereditabilità bivariata, ovvero la possibilità che i due tratti vengano ereditati simultaneamente dalla stessa coppia di gemelli, oscillla tra .15 e .47 (Willcutt et al., 2000a; Stevenson et al., 1993). Tali risultati ci suggeriscono che la co-occorrenza di questi due disturbi possa essere dovuta a fattori genetici condivisi (Stevenson et al., 1993; DeFries et al., 1991; Light et al., 1995; Willcutt et al., 2000b).

Quando l’ADHD viene suddiviso nelle due sotto-dimensioni (disattenzione e iperattività), gli studi gemellari dimostrano una correlazione più forte tra la Dislessia Evolutiva e i sintomi di disattenzione rispetto che ai sintomi di iperattività e impulsività (Willcutt et al., 2000a). Questi dati ci suggeriscono che i processi di lettura e la disattenzione condividono una certo grado di suscettibilità genetica.

Il passaggio successivo è l’identificazione dei geni coinvolti. Studi di genetica molecolare su campioni indipendenti di ADHD e Dislessia Evolutiva hanno identificato dei potenziali loci di suscettibilità che possono aumentare il rischio di sviluppo di un disturbo. Diversi studi hanno dimostrato la presenza di specifici geni per ogni disturbo (Gayán et al., 2005). Ad oggi, le analisi di linkage in famiglie con bambini affetti da Dislessia Evolutiva hanno identificato nove loci considerati di rischio per la Dislessia Evolutiva situati sui cromosomi 1, 2, 3, 6, 11, 15, 18 e X (Scerri et al., 2010; Raskind et al., 2012) e DYX1C1, KIAA0319, DCDC2 and ROBO1 e GRIN2B sono i geni di suscettibilità maggiormente replicati per la Dislessia Evolutiva (Peterson et al., 2015).

Per quanto riguarda gli studi di genetica molecolare su campioni di bambini con ADHD, sono state individuate regioni di rischio quali : SLC6A3, DRD5, DRD4, SLC6A4, LPHN3, SNAP-25, HTR1B, NOS1 e GIT1 (Hawi et al., 2015).

I risultati che derivano dagli studi di genetica molecolare tra Dislessia Evolutiva e ADHD, congiuntamente, hanno individuato diverse regioni di sovrapposizione. In particolare, due regioni (6q12¬q14 e 15q), precedentemente evidenziate in studi di genetica molecolare su bambini affetti da Dislessia Evolutiva (Grigorenko et al., 2000; Nothen et al., 1999), sono state trovate associate anche in un campione di fratelli affetti da ADHD (Bakker et al., 2003; Ogdie et al., 2004). E’ stata anche riscontrata una sovrapposizione dei fattori di rischio genetici sul cromosoma 11, 15, 16, 17, 10, 14, 13, e 20 ma la regione cromosomica maggiormente studiata è la 6p21¬22, nella quale diversi studi hanno riscontrato associazioni positive (Grigorenko et al., 2000: Grigorenko et al., 1997; Cardon et al., 1995; Gayan et al., 1999; Willcutt et al., 2002). Essa contiene diversi geni. Non è però ancora ben chiaro quale gene nella regione contribuisca alla co-occorrenza tra i due disturbi in oggetto.

È tuttavia importante specificare che il riscontro di un’associazione genetica dei due disturbi nella stessa regione cromosomica non implica automaticamente che gli stessi geni siano coinvolti. È dunque necessaria un’ulteriore e più specifica indagine a tal proposito.

Anche dopo aver analizzato il ruolo dei fattori genetici coinvolti, e dunque quali regioni cromosomiche siano implicate in entrambi i disturbi e quali geni siano da considerare a rischio, ci si è accorti che mettendo insieme tutti i geni considerati di rischio associati alla Dislessia Evolutiva e all’ADHD si riesce a spiegare solo una piccola parte di ereditabilità (Plomin, 2013). Questo scostamento tra l’alto tasso di ereditabilità e le associazioni genetiche significative è chiamato ‘the missing heritability’ (Maher, 2008).

Attualmente la comunità scientifica sta abbracciando tre diversi approcci allo studio della co-occorrenza tra ADHD e dislessia evolutiva:

  • Interazione tra geni (anche conosciuta come ‘epistasis’ – GxG)
  • Interazione tra geni e ambiente (GxE)
  • L’epigenetica (Plomin, 2013).

Si ritiene che l’interazione gene-gene possa, in parte, contribuire alla spiegazione della missing heritability, ovvero l’idea che tra i geni di rischio non ci sia un’interazione di tipo additivo, bensì che un gene possa modificare l’effetto di un altro gene. Ad oggi è presente un solo studio che conferma la presenza di un’interazione GxG in un campione di Dislessia Evolutiva (Mascheretti et al., 2015) ma nessuno studio per quel che concerne i bambini con ADHD. Molti studi hanno dimostrato che non solo gli aspetti genetici debbano essere considerati parte dell’eziologia dei due disturbi, ma che siano presenti dei fattori di rischio ambientale che influenzano la probabilità di sviluppare uno dei due disturbi.

In molti studi gemellari è stato dimostrato come alcuni fattori ambientali medino l’influenza genetica responsabile delle differenze individuali nelle abilità cognitive e scolastiche (Walker et al., 1994; Gayán et al.,, 2001, 2003; Byrne et al., 2002; Olson, 2002, 2006; Petrill et al., 2006; Grigorenko et al., 2007; Hayiou-Thomas, 2008), e la Dislessia Evolutiva sembra un buon fenotipo per investigare simili meccanismi. I fattori di rischio ambientali maggiormente descritti dalla letteratura per quel che concerne la Dislessia Evolutiva sono: stato socio-economico (SES – Hoff et al., 2005); struttura e demografia familiare (Fergusson et al., 1993; DeFries et al., 1994; Fergusson et al., 1999; O’Connor et al., 2000; Jee et al., 2008); livello di istruzione genitoriale (Melekian, 2001; Walker et al., 1994); esposizione ad un ambiente letterale (Scarborough et al., 1994; Bus et al., 1995; Harlaar et al., 2007). L’abuso di sostanze da parte della madre durante la gravidanza (Fried et al., 1997), il peso alla nascita (Bowen et al., 2002; Samuelsson et al., 2006) e problemi in gravidanza (Gilger et al., 1992) sono ulteriori fattori di rischio.

Molti fattori di rischio ambientale sono stati riscontrati associati all’ADHD, ma è stato più difficile comprendere quale di questi possa avere un ruolo causale (Rutter, 2009; Lahey et al., 2009; Thapar et al., 2009). I fattori di rischio maggiormente studiati in relazione all’ADHD sono i fattori pre e peri natali, il fumo in gravidanza (Langley et al., 2005), alcool e l’abuso di sostanze (Linnet et al., 2003), lo stress materno (Glover, 2011; Grizenko et al., 2008), basso peso alla nascita e prematurità (Bhutta et al., 2002); ambienti tossici (Thapar et al., 2013); fattori dietetici (Thapar et al., 2013); caratteristiche socio-culturali dell’ambiente di crescita (Scahill et al., 1999; Pheula et al., 2011).

Tuttavia, molti di fattori ambientali non sono considerati specifici per l’ADHD o per la Dislessia Evolutiva. Questi due disturbi mostrano una sovrapposizione dei fattori di rischio ambientali che può contribuire al co-occorrere dei due disturbi: la chiave per comprendere meglio l’effetto di questi fattori sulla patologia può essere rappresentata da un modello più complesso: l’interazione gene-ambiente (GxE – Nigg et al., 2010).

L’ipotesi che guida questo approccio dichiara che i geni e l’ambiente non operano indipendentemente l’uno dall’altro (Nigg et al., 2010). I fattori di rischio, di qualunque tipo, possono contribuire non solo direttamente ma anche in interazione tra di loro, incrementando la suscettibilità alle avversità ambientali e alterando la sensibilità ai fattori di rischio (Thapar et al., 2013). Un’interazione di questo tipo comporta dunque che una certa suscettibilità genetica sia modulata da misure ambientali (Rutter et al., 2006).

Nonostante la potenziale importanza di questo approccio di interazione gene-ambiente (Rutter et al., 2006), pochi studi hanno preso in considerazione il ruolo congiunto dei marcatori genetici e dei fattori ambientali di rischio. Per quanto riguarda la Dislessia Evolutiva sono stati eseguiti due studi (McGrath et all., 2007; Pennington et al., 2009) che selezionano un campione di bambini con Speech Sound Disorder (SSD), considerati bambini a rischio di Dislessia Evolutiva (Gallagher et al., 2000; Pennington et al., 2001; Raitano et al., 2004). Gli autori trovano un trend d’interazione tra due regioni cromosomiche (6p22 e 15q21) e alcune misurazioni ambientali (e.g., grado di istruzione della madre e la lettura da parte dei genitori al bambino) con effetti su disturbi legati alla lettura (e.g., consapevolezza fonologica, denominazione rapida).

Un solo studio (Mascheretti et al., 2013) ha indagato l’interazione gene-ambiente in un campione di bambini con Dislessia Evolutiva e dei loro fratelli. Si è riscontrata un’interazione tra specifici moderatori ambientali (i.e. fumo materno in gravidanza, basso peso alla nascita e basso stato socio economico) e il gene “di rischio” DYX1C1-1259C/G. Più numerosi sono invece gli studi che indagano l’interazione GxE nei bambini con ADHD. Alcune ricerche hanno esaminato il ruolo dell’allele di rischio DAT1 e DRD4 e trovato interazioni significative con l’esposizione prenatale all’alcool e al fumo e l’esposizione ad avversità psicosociali (Kahn, et al., 2003; Brookes et al., 2006; Neuman et al., 2007; Laucht et al., 2007). Retz e colleghi (2008) hanno riscontrato un’interazione G×E tra avversità ambientali dell’infanzia (e.g., stato economico della famiglia, qualità dell’educazione scolastica, grado di conflitto familiare) e il gene 5-HTTLPR. Lasky-Su e colleghi (2007) hanno indagato l’interazione tra il marcatore BDNF in bassi livelli di stato socio-economico. Waldman (2007) esplora la relazione tra il recettore dopaminergico DRD2 e la stabilità matrimoniale.

Non sono presenti, ad oggi, studi che prendono in considerazione popolazioni di bambini affetti sia da Dislessia Evolutiva che da ADHD in cui sia stato indagato un modello di interazione GxG o GxE.

Quello che è possibile concludere da questo breve stato dell’arte è che il modello eziologico necessario per spiegare un disturbo del neurosviluppo è altamente complesso e polifattoriale, ovvero composto da diversi fattori genetici ed ambientali (Faraone et al., 1999; Fisher et al., 2002). Di conseguenza, per essere in grado di spiegare la co-occorrenza tra due disturbi è necessario un modello almeno altrettanto complesso. Sarà quindi importante approfondire quale ipotesi spieghi al meglio tale co-occorrenza, tuttora ancora parzialmente sconosciuta, per approfondire la conoscenza dei fattori di rischio e per permettere lo sviluppo di sempre più accurate tecniche di prevenzione.

Non solo farmaci per i disturbi depressivi gravi: anche la CBT risulta efficace

Un recente studio ha prodotto risultati interessanti che in qualche modo rivoluzionano le nostre attuali conoscenze in fatto di trattamenti psicoterapeutici dei disturbi depressivi.

Nella scheda informativa n. 396 pubblicata ad ottobre 2015 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sul tema della salute mentale, si ribadisce che i Disturbi Depressivi rappresentano una delle prime cause di disabilità e una delle patologie principalmente responsabili del carico globale di malattia, con più di 350 milioni di persone affette in tutto il mondo. Qualche anno prima, la stessa OMS definiva i Disturbi Depressivi come una vera e propria crisi globale, con paesi nel mondo in cui meno del 10% delle persone affette riceve cure adeguate.

Nella stessa scheda informativa si legge inoltre di come esistano diversi trattamenti efficaci per questi disturbi; più precisamente viene indicato che:

  • Le forme lievi e moderate possono essere trattate efficacemente con psicoterapia, in particolare la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulta essere quella più studiata e con prove di efficacia ampiamente documentate
  • Le forme moderate e severe possono essere efficacemente trattate con psicofarmaci, in particolare con antidepressivi
  • Nelle forme lievi e nei disturbi depressivi in adolescenza gli psicofarmaci non possono essere considerati i trattamenti di prima linea
  • Gli psicofarmaci non devono essere utilizzati nelle depressioni dell’infanzia.

Quanto sottolineato nel documento risulta assolutamente in accordo con le principali linee guida internazionali per il trattamento dei Disturbi Depressivi.

Un recente studio pubblicato su JAMA Psychiatry condotto dal gruppo olandese di Erika Weitz e Pim Cuijpers (Weitz E. S. et al., 2015) ha prodotto risultati interessanti che in qualche modo rivoluzionano le nostre attuali conoscenze in fatto di trattamenti psicoterapeutici dei disturbi depressivi.

L’obiettivo del lavoro è stato quello di valutare un eventuale effetto moderatore della Depressione Grave sulla efficacia del trattamento farmacologico e della CBT ; in altre parole gli autori si sono chiesti se una depressione severa, misurata con adeguati strumenti, possa influenzare i risultati di efficacia che ci si attende da un trattamento farmacologico adeguato o da un trattamento psicoterapeutico effettuato con CBT.

Il lavoro del gruppo olandese è stato condotto mediante una meta-analisi sui dati individuali di singoli pazienti ambulatoriali con diagnosi primaria di disturbo depressivo maggiore o disturbo distimico, inclusi in 16 trails clinici randomizzati in cui si confrontava l’efficacia della CBT con la terapia farmacologica. Le terapie cognitivo-comportamentali dovevano essere manualizzate e utilizzare la ristrutturazione cognitiva come componente principale del trattamento. I dati raccolti si riferiscono a 1700 pazienti ambulatoriali, 794 trattati con CBT e 906 con antidepressivi.

Mentre la maggior parte di studi simili riportati in letteratura si basa su dati aggregati presentati nei singoli articoli, va sottolineato che questa meta-analisi è stata effettuata sui dati dei singoli pazienti inclusi nei diversi studi permettendo così di costruire una misura di sintesi affidabile e precisa; ciò significa che in questo caso i diversi autori, generalmente poco disposti a condividere i propri dati, hanno mostrato completa collaborazione permettendo quel processo di recupero delle informazioni assolutamente necessario per il buon esito di uno studio di queste proporzioni.

I risultati ottenuti dal gruppo di ricercatori olandesi mostrano come non esistano evidenze che la gravità della depressione abbia un effetto moderatore sull’efficacia del trattamento: in altre parole i pazienti con depressione più grave non hanno necessariamente bisogno di farmaci per avere un miglioramento clinico significativo.

Sebbene le linee guida suggeriscano che i pazienti con depressione grave richiedono un trattamento psicofarmacologico, i dati analizzati dal gruppo di Erica Weitz e Pim Cuijpers non mostrano differenze tra terapia farmacologica e CBT. Ciò considerato, anche la CBT potrebbe essere trattamento di prima linea per le forme gravi.

Come gli stessi autori sottolineano, esistono alcuni limiti dello studio relativi alle misure di outcome mediante BDI e HAM-D, nonostante siano strumenti ampliamente utilizzati nella ricerca e nella pratica clinica. La BDI è uno strumento self-report soggetto ad errori di autovalutazione che coglie soprattutto gli aspetti cognitivi della depressione; la HAM-D presenta invece problemi psicometrici ed è orientata ad evidenziare soprattutto sintomi somatici e ansiosi. Inoltre non tutti i trials individuati, in grado di soddisfare i criteri di inclusione, sono stati selezionati per la meta-analisi, per cui è possibile che gli studi inclusi non fossero completamente rappresentativi. Gli autori sottolineano inoltre che la diversità dei risultati tra CBT e terapia farmacologica potrebbe essere influenzata dalla diversa competenza e aderenza ai diversi regimi di trattamento da parte di psichiatri e psicoterapeuti; purtroppo in questo studio non è stato possibile esaminare le qualità delle prestazioni e dei trattamenti erogati.

Nonostante le limitazioni, lo studio rappresenta la prima meta-analisi che valuta la depressione grave come moderatore dei risultati ottenuti attraverso 2 trattamenti di diversa natura.

I risultati ottenuti non mostrano una influenza della variabile gravità, per cui non ci sono dati sufficienti per raccomandare ad un paziente ambulatoriale con depressione grave un trattamento farmacologico piuttosto che una terapia cognitivo-comportamentale.

Sweet November: quando la malattia oncologica costituisce matrice di legame e di cambiamento – Recensione

Nelson incontra Sara, entrambi si ritroveranno a condividere lo stesso tetto per un mese, il mese di novembre. I due si innamorano ma a minacciare l’idillio amoroso e la convivenza sarà la malattia terminale di Sara.

La storia narra dell’agente pubblicitario in carriera Nelson, molto legato al suo lavoro e fermamente convinto che il tempo sia denaro. Nelson ha una relazione con la giovane Angelica. Al test per il rinnovo della patente, Nelson incontra Sara. I due si ritroveranno a condividere lo stesso tetto per un mese, il mese di novembre.

In questo periodo Sara cercherà di far capire a Nelson l’importanza della vita e la superficialità di alcune cose che invece per lui sono fondamentali. Dopo un inizio travagliato, i due entrano sempre più in sintonia, e si innamorano. A minacciare l’idillio amoroso e la convivenza, la triste scoperta da parte di Nelson che Sara è, già da qualche tempo, malata terminale di tumore…

La visione del film con gli occhi di una spettatrice e, nello stesso tempo, di una psicologa psicoterapeuta psiconcologa, è stata una esperienza che ha favorito quella che Bateson (1977) definisce una visione binoculare composta dagli aspetti emotivi strettamente collegati alla vicenda umana narrata e stili di funzionamento relazionale rispetto l’ospite inatteso e sgradito quale la malattia. Ciò che, a mio avviso, favorisce l’integrazione di queste due lenti è la relazione che nasce dall’incontro dei due protagonisti e che funge da matrice di cambiamento.

L’incontro, inizialmente casuale ma ben organizzato in un secondo momento, favorisce la conoscenza di due soggetti apparentemente diversi per stili di vita: lui (ben inquadrato con un lavoro di successo ed una relazione sentimentale stabile), lei (una vita di successo abbandonata misteriosamente per una più svitata) ma che insieme trascorreranno un mese intero, quello di Novembre secondo i confini relazionali che Sara proporrà.

La relazione, nonostante le premesse iniziali, si trasforma in un legame profondo che inganna lo scorrere veloce ed inesorabile del temuto e odiato kronos. Il profondo legame consente ad entrambi di scoprire parti di sé misconosciute favorendo nuove esperienze di vita (es: esercitare la funzione genitoriale, operazioni di salvaguardia per gli animali) che consentono ad entrambi di vivere in modo diverso il proprio kairos.

In questo scenario ad alto contenuto emotivo, la malattia compare verso la fine del film. Essa non va a scardinare il legame ma, come spesso succede, tende a cementificarlo favorendo una maggior condivisione ed un contesto di differenziazione per entrambi. Secondo la classificazione proposta da Costantini , Grassi e Biondi rispetto gli stili di coping messi in atto dal soggetto nei confronti della patologia, si potrebbe dedurre che, apparentemente, lo stile relazionale di Sara sia combattivo, con livelli d’ansia e demoralizzazione congrui alla patologia. Tuttavia, non essendovi aderenza ai trattamenti medici, sembrerebbe, in seconda battuta, che più che stile combattivo, si tratti di evitamento con bassi livelli d’ansia e demoralizzazione e attività distraenti (il proposito di Sara di cambiare la vita di Nelson) a temi legati alla malattia con scarso confonto e poche strategie di compliance.

La malattia, inizialmente silente, poi, in un secondo momento, si manifesta con tutta la sua sfera sintomatologica, come uno specchio (Eduardo lo chiamava ‘o scostumat’ per la sua fedeltà indelebile al reale) favorisce il confronto evitato di Sara con quella che è la sua realtà e, nello stesso tempo, svela il mistero della ‘cassetta chiusa a chiave’ presente nel bagno di Sara e che Nelson non poteva aprire. Questo scenario viene elicitato, in questo caso, dalla telefonata della sorella di Sara, portavoce della famiglia, preoccupata per la mancanza di compliance di Sara nelle cure terapeutiche. La famiglia, probabilmente in accordo con lo stile relazionale di evitamento di Sara non compare nel film se non attraverso qualche discorso di Sara. Considerando, sulla base del racconto fornito da Sara, il disappunto della famiglia per la modalità svitata di cura di questa, si potrebbe ipotizzare che lo stile di coping di questa sia improntato maggiormente verso il versante supportivo. Infatti , Sara alla fine deciderà di tornare dai suoi in quanto si renderà conto che non potrà farcela da sola.

Nel film vengono molto utilizzati alcuni oggetti con valore simbolico come la cassetta chiusa a chiave dei farmaci che, a mio avviso, rende bene la posizione di Sara che, scoperta la malattia, vuole tenerla chiusa in un angolo al fine di non consentire a nessuno di vederla in quanto la sola vista tenderebbe a far crollare l’esistenza mistificata che lei stessa si è costruita. La barchetta che Sara e Nelson regalano al bimbo con il quale si ritrovano ad assolvere funzioni genitoriali (Nelson soprattutto) a mio avviso è simbolo di speranza (nella gara con le altre barchette a vela la barca appare spacciata ma poi, grazie anche a un aiuto di Nelson, riesce ad arrivare prima) e di come la forza della relazione in certi casi possa avere un effetto benefico e terapeutico.

Questo mi porta a riflettere su quanto la mistificazione presente nel film abbia, in questo caso, creato un buon terreno per la semina e la conseguente nascita di un forte legame, un legame che, anche se cieco rispetto ad alcuni aspetti di vita (simbolicamente, a mio avviso, nel film il gioco a moscacieca sta a significare questo) non ha mancato di essere autentico nella purezza dei sentimenti e nel candore dell’incontro amoroso in tutte le sue declinazioni.

Hypersexual disorder, un’ aberrazione della risposta allo stress

Una nuova ricerca svedese si è occupata di hypersexual disorder, meglio noto come dipendenza sessuale, e rivela che questo disturbo può essere collegato a un’ iperattività dei circuiti dello stress.

La dipendenza sessuale, comporta pensieri ossessivi sul sesso, una coazione a compiere atti sessuali, perdita di controllo e abitudini sessuali potenzialmente rischiose o pericolose. La diagnosi è controversa, dal momento che vi è spesso co-morbilità con altri disturbi mentali. Jussi Jokinen del Karolinska Institutet’s Department of Clinical Neuroscience ha usato il test del desametasone per misurare i sistemi di stress dei pazienti. Il desametasone è un farmaco corticosteroide usato per deprimere il sistema immunitario – usato per esempio durante uno shock anafilattico o un trapianto d’organo – serve tuttavia anche come una sorta di test di stress chimico.

Lo studio ha coinvolto 67 uomini con hypersexual disorder e 39 controlli sani. I partecipanti sono stati diagnosticati con attenzione per hypersexual disorder e co-morbilità con depressione o per la presenza di traumi infantili. I ricercatori gli hanno somministrato una bassa dose di desametasone la sera prima della prova, per inibire la risposta allo stress fisiologico, e poi la mattina hanno misurato i loro livelli di ormoni dello stress cortisolo e ACTH.

I risultati indicano che i pazienti con dipendenza sessuale hanno livelli più alti di questi ormoni rispetto ai controlli sani, una differenza che è rimasta significativa anche dopo la verifica di co-morbilità con depressione e la presenza di traumi infantili. ”

[blockquote style=”1″]Un’ aberrazione della regolazione dello stress è stata precedentemente osservata in pazienti depressi, suicidi e tossicodipendenti[/blockquote] sostiene Jokinen.

[blockquote style=”1″]Negli ultimi anni, l’attenzione si è concentrata sul fatto che i traumi infantili possono portare a una disregolazione dei sistemi di stress del corpo tramite i cosiddetti meccanismi epigenetici, per i quali gli ambienti psicosociali possono influenzare i geni che controllano questi sistemi.[/blockquote]

Secondo i ricercatori questi risultati suggeriscono che lo stesso sistema neurobiologico coinvolto in un altro tipo di abuso può essere applicato a persone con disturbo da dipendenza sessuale. Il passo successivo è quello di verificare se la psicoterapia ha contribuito in questi pazienti a normalizzare la loro risposta allo stress fisiologico. Oltre ad eseguire più approfondite analisi epigenetiche.

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