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Adozione e disturbo da deficit di attenzione e iperattività: un problema caldo

Nicoletta Carta e Laura Casnaghi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Al VII Congresso Nazionale sul disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Padova, 2009), S. Giribone, I. Maraucci e D. Besana (SOC Neuropsichiatria Infantile dell’ A. O. di Alessandria) tennero un intervento intitolato “Adozione e ADHD”: durante la loro presentazione mostrarono che dai dati emersi nel loro reparto, il 12% dei bambini con diagnosi DDAI risultava adottato.

Estate. Un campo estivo pieno di bambini. Sono vivaci, giocano e scherzano fra di loro. Partendo da queste informazioni, secondo voi, quanti di loro hanno un disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI)? La soluzione, facendo riferimento ai dati riportati dal sito dell’Istituto Superiore di Sanità riguardo all’epidemiologia del DDAI è circa l’1%.
Se vi dicessi che gli educatori di questi bambini a sera si ritrovano sfiniti e stanchi dopo ore passate con loro, questa informazione modificherebbe la soluzione alla domanda precedente? No, non avrebbe nessun effetto.
E se invece vi dicessi che molti di questi bambini sono mandati al campo estivo dai loro genitori adottivi? Se, andando a vedere i dati dei bambini del campo, ci accorgessimo che molti di loro sono stati istituzionalizzati per un certo periodo della loro vita? Queste informazioni che effetto avrebbero sulla risposta alla domanda precedente?
Abbastanza da modificare la risposta. Anzi, da non farci avere una risposta chiara.

Al VII Congresso Nazionale sul disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Padova, 2009), S. Giribone, I. Maraucci e D. Besana (SOC Neuropsichiatria Infantile dell’ A. O. di Alessandria) tennero un intervento intitolato “Adozione e ADHD”: durante la loro presentazione mostrarono che dai dati emersi nel loro reparto, il 12% dei bambini con diagnosi DDAI risultava adottato. Durante lo stesso intervento riferirono che, dal registro nazionale italiano, risultava che addirittura il 43% dei bambini diagnosticati DDAI in Italia erano stati adottati. Questi dati indicherebbero che, prendendo una popolazione di bambini con un gran numero di figli adottivi, la possibilità di trovare tra loro soggetti con DDAI aumenta.

Per quanto nei successivi Congressi nazionali italiani sul DDAI non siano più stati riportati interventi sulla sua prevalenza nei bambini adottati, la ricerca non ha tralasciato l’argomento.

Nel 2001 uno studio di S. DosReis, J. M. Zito, D. J. Safer e K. L. Soeken sull’affluenza ai Servizi di Salute mentale negli stati della zona medio-Atlantica degli Stati Uniti da parte della popolazione giovanile ha riscontrato una maggiore richiesta di cure da parte di minorenni affidati a cure adottive rispetto a giovani appartenenti ad altre categorie beneficiarie di aiuti statali; tra i disturbi prevalenti si presentava proprio il DDAI, insieme a depressione e disturbi dello sviluppo.

Se in questo studio all’interno del gruppo di bambini considerati affidati alle cure adottive vi erano sia bambini affidati a famiglie sia bambini istituzionalizzati, un successivo studio di K. L. Wiik, M. M. Loman, M. J. Van Ryzin e altri (2011) condotto tra il Minnesota e il Wisconsin, ha evidenziato uno specifico fattore di rischio per i sintomi ADHD nei bambini adottati dopo essere stati istituzionalizzati, rispetto ad altri bambini adottati o non adottati.

Uno studio del 2012 (N. Abrines, N. Garcons et al, 2012) ha messo in luce che il paese di origine dei bambini adottati influenza l’emergere dei sintomi ADHD e, in particolare, i bambini provenienti dall’Europa orientale mostrano maggiore iperattività e maggiori problemi di attenzione delle ragazze adottate cinesi. Inoltre i soggetti adottati con un attaccamento sicuro, mostrano problemi di attenzione e iperattività significativamente minori.
Nel 2013, M. M. Loman e collaboratori indagarono ulteriormente i correlati neurocomportamentali del funzionamento attentivo di bambini post istituzionalizzati: individuarono, tramite la misurazione del potenziale evento-correlato (EREPs) durante compiti attivanti le funzioni attentive, una minore attivazione in bambini post istituzionalizzati rispetto a bambini adottati non istituzionalizzati e a bambini non adottati.
I problemi rilevati nei compiti di attenzione sostenuta (difficoltà del controllo inibitorio e del monitoraggio delle funzioni cognitive) sarebbero compatibili con la maggiore prevalenza in questo tipo di popolazione di disturbi da deficit di attenzione.

Ma cos’è esattamente il disturbo da deficit di attenzione e iperattività e cosa sappiamo sulla sua eziologia?
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività ha certamente un’origine neurobiologica ed è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo, che ostacola lo svolgimento delle comuni attività quotidiane e interferisce con il normale sviluppo psicologico (Marzocchi, 2003). Il bambino con DDAI spesso non riesce a orientare i propri comportamenti rispetto a quanto atteso dall’ambiente esterno, o in funzione del trascorrere del tempo e degli obiettivi da raggiungere. Inoltre, circa la metà dei soggetti con DDAI manifestano anche altre psicopatologie principalmente riconducibili a 4 tipi di sintomatologie, che riguardano comportamenti aggressivi, difficoltà cognitive (disturbi specifici dell’apprendimento, DSA), problemi associati all’emotività (disturbi depressivi e ansiosi) e quelli inerenti all’interazione sociale (interazioni difficili e rifiuti) (Righetti e Sabati, 2007). Affinché sia fatta diagnosi col DSM-5 (APA, 2013) di ADHD, sigla inglese del DDAI, i sei o più sintomi tra quelli elencati devono presentarsi prima dei 12 anni, mentre a partire dai 17 anni bastano cinque criteri per attribuire al soggetto un quadro da deficit di attenzione ed iperattività. I sintomi presentati si dividono, come nel DSM IV, in due ambiti: “inattenzione” e “iperattività e impulsività”.

Per quanto riguarda l’eziologia del disturbo, non sono state identificate cause dirette e sembrerebbe che siano le interazioni gene-ambiente a spiegare l’origine di questo disordine (Nigg, Nikolas, e Burt, 2010). Tra i fattori neurobiologici, si evidenziano differenze strutturali e funzionali in diverse regioni cerebrali come il lobo pre-frontale, il cervelletto e i gangli della base (Castellanos et al. 2002). Sembrerebbe inoltre che la maggior parte degli studi mostri evidenze a supporto dell’esistenza di un’influenza genetica nel DDAI (Faraone et al., 2005; Hudziak, Derks, Althoff, Rettew e Boomsma, 2005). Tuttavia altre pubblicazioni hanno contestato questi risultati (Joseph, 2000; Heiser et al., 2006).

Per quanto riguarda gli aspetti ambientali, essi sembrano influire sul manifestarsi del disordine, come fattori prenatali (tabacco e/o alcol consumato dalla madre durante la gravidanza, esposizione ad alti livelli di piombo, etc.) e fattori perinatali quali complicazioni alla nascita (Eubig, Aguiar, e Schantz, 2010; Purper-Ouakil, Lepagnol-Bestel, Grosbellet, Gorwood, e Simonneau, 2010). Infine anche variabili di ordine sociale ( stato socio-economico, dinamica familiare disorganizzata, psicopatologia famigliare) sono considerate elementi che favoriscono il presentarsi del deficit.
Non ci è ancora dato sapere con certezza quanto l’insorgere di un disturbo DDAI in bambini adottati sia dovuto all’influenza dell’istituzionalizzazione e quanto alle variabili legate ai genitori biologici.

Per quanto riguarda i casi di bambini dati in affidamento, uno studio danese (Fallesen e Wildeman, 2015) ha riportato che l’aumento del numero di trattamenti medici per il DDAI ha influito, diminuendone il numero, sui casi di bambini che sono stati dati in affido: la cura del disturbo ha infatti reso non più necessario l’allontanamento di alcuni minori dalle famiglie biologiche. Uno studio analogo condotto negli Stati Uniti ha trovato che il 75% dei bambini dati in affido aveva ricevuto diagnosi di DDAI prima del loro allontanamento dalle famiglie biologiche: tale dato suggeriva che i problemi comportamentali possono aumentare le possibilità che bambini con situazioni famigliari difficili vengano collocati in strutture o famiglie affidatarie (McMillen et al. 2005).

Alla luce di quanto esposto, individuare quali siano gli elementi che concorrono all’emergere di un quadro di deficit di attenzione e iperattività nei casi di adozione resta una problematica molto ampia, che non ha ad oggi risposte certe.
Magari troveremo una soluzione proprio osservando i nostri iperattivi e disattenti bambini adottati che frequentano il campo estivo…

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’Egocentrico Parte Prima – Tracce del Tradimento Nr. 26

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTOXXVI: L’Egocentrico Parte Prima 

 

Quel che manca agli egocentrici è la capacità di leggere la mente dell’altro, di mettersi nei suoi panni. L’egocentrico, al contrario del codardo e del provocatore, non ha nessuna intenzione di produrre un cambiamento nel rapporto, sarebbe ben contento di avere il suo amante e contemporaneamente mantenere saldo il rapporto con il coniuge e non vuole mandare consapevolmente a quest’ultimo nessun messaggio.

Nella sua testa i due rapporti dovrebbero rimanere ben separati e non interferire l’uno con l’altro; ciascuno dei due soddisfa bisogni diversi (i bisogni sono naturalmente sempre i suoi, in quanto è difficile che l’ egocentrico possa assumere una prospettiva diversa dalla sua) ed in questo trova la sua ragione di essere.

Poiché non vogliono una modifica del rapporto con il coniuge e tanto meno la sua fine, non hanno la benché minima intenzione di essere scoperti. Gli egocentrici lasciano tracce perché non si accorgono di farlo. Sembrano semplicemente sbadati e superficiali ma invece la situazione è decisamente più grave: il problema centrale è proprio la loro impossibilità ad uscire da se stessi e costruire il punto di vista dell’altro. In primo luogo non si avvedono di ciò che tolgono al coniuge a motivo della relazione con l’amante. Pensano di non fare alcun male perché si comportano da buoni partner come prima, si occupano dei compiti domestici e portano i bambini a scuola esattamente nello stesso modo. Le argomentazioni sono estremamente concrete, le valutazioni tutte assolutamente materialiste, totalmente assenti sono le emozioni. Tutto ciò li preserva completamente dal senso di colpa: a ben guardare non danneggiano nessuno e se non c’è danno non può esserci colpa.

Non ritengo affatto di avere qualcosa di cui rimproverarmi perché non ho smesso per un istante di fare quello che è il mio dovere verso i miei figli e mia moglie come è sempre stato da quando ci siamo sposati. Mia moglie non si può certo lamentare perché semmai qualcuno si tira indietro quando c’è da fare l’amore, questa è lei e non certamente io. Non dico mai di no alle sue richieste e comunque garantisco un tenore di vita a lei ed ai figli che semmai è recentemente aumentato. Non sottraggo neppure del tempo perché sarebbe comunque tempo che trascorrerei fuori casa per lavoro e dunque non potrei stare con loro. Anzi se vogliamo vedere come stanno le cose fino in fondo il fatto di avere una relazione con quella che è il mio capo mi comporta degli evidenti vantaggi professionali di cui tutti hanno beneficio. Con ciò non voglio dire che mi sacrifico per il bene della famiglia, ma il risultato è in fondo esattamente questo. Non c’è stato in me nessun cambiamento; io funziono esattamente come prima.

Il proprio mondo emotivo è piuttosto offuscato, le stesse emozioni sono considerate un optional inutile se non dannoso e comunque desueto per una persona adulta e appropriato soltanto nei bambini piccoli. Per questo motivo anche il rapporto con l’amante nasce per la soddisfazione di bisogni concreti piuttosto che per sperimentare emozioni e intimità: in genere la motivazione fondamentale è quella sessuale. Se il proprio mondo emotivo è scarsamente differenziato, poco conosciuto ed esplorato, quello degli altri è assolutamente inconcepibile, non esiste e dunque non sono assolutamente in grado di avvedersi della sofferenza che provocano, così come, peraltro non sono in grado di capire cosa fare per far felice l’altro, se non soddisfare dei suoi bisogni concreti (sesso, regali, soldi, e così via).

In loro dunque non c’è intenzione di far soffrire l’altro, non sono cattivi, è semplicemente che non riescono ad immaginare come l’altro starà in base al loro comportamento e del resto non hanno un grande interesse a scoprirlo. La non conoscenza dell’altro non si limita al mondo emotivo; essi hanno anche difficoltà in generale a cogliere i segnali che dall’altro giungono loro e dunque non si avvedono facilmente che l’altro è preoccupato o irritato per il loro comportamento e li ha messi sotto osservazione: non badano a ciò che l’altro fa a meno che non sia un segnale chiaro e forte. Non ci si può aspettare che capiscano al volo le cose, occorre dirgliele chiaramente, anzi gridargliele a brutto muso ed a quel punto resteranno meravigliati e increduli: ‘perché questa bufera a ciel sereno?’

Le avvisaglie prima ce ne erano state molte ma loro le avevano assolutamente ignorate. Gli indizi che lasciano in giro, abbastanza evidenti, per loro non sono tali; non pensano che l’altro possa pensare, che faccia dei ragionamenti e formuli ipotesi per spiegare delle anomalie evidenti del loro comportamento: ‘perché dovrebbe pensare che ho una storia se quando mi telefona al lavoro non mi trova mai; potrebbero esserci mille motivi!‘ ‘Se arrivo più tardi a casa potrebbe semplicemente essere che si è moltiplicato il lavoro e per questo la domenica ho bisogno di distrarmi ed andare in barca con gli amici! Perché dovrebbe immaginare altro?’

L’egocentrico stupisce per l’ingenuità che mostra nei ragionamenti che riguardano come funzionano gli esseri umani. Sembra quasi che consideri gli altri completamente stupidi; in questo possono risultare francamente irritanti come nella storiella in cui il marito rimprovera la moglie dicendole ‘passi che tu mi metta le corna, ma non sopporto che quando torno a casa tu mi accolga gridando: Olè!’

Alla fine Mauro rimase solo. Non che ciò lo facesse soffrire fuor di misura; piuttosto lo stupiva, non riusciva a darsene una ragione, a trovarne il motivo. La moglie continuava a lagnarsi delle sue assenze ma lo faceva nell’ultimo periodo non di più di come lo avesse sempre fatto elencando quelle che, agli occhi di lei, erano le sue mancanze di marito e di padre, ma poi a letto si ricomponeva sempre tutto e lei non si era mai negata. Neppure quando aveva capito della sua storia con Carla aveva rifiutato di fare sesso con lui ed era stato sufficiente un po’ d’insistenza da parte sua perché tutto riprendesse normalmente. Durante tutto il periodo della malattia della madre di lei lui si era tirato in disparte e per quasi sei mesi non aveva chiesto niente organizzandosi tutti i fine settimana con gli amici e con Carla e portando le figlie da sua madre in modo che lei potesse stare in ospedale senza occuparsi di nulla. Il comportamento delle donne gli sembrava del tutto insensato, misterioso, inspiegabile; la stessa Carla perché fino a luglio era così presa da lui e poi a settembre non ne voleva più sapere? Decise che sarebbe andato a leggersi le mail che lei gli aveva inviato durante il mese di agosto, forse avrebbe capito il perché di quel comportamento … ma tutto sommato era fatica sprecata perché, testarda com’era, non sarebbe tornata indietro e forse non ne valeva neppure troppo la pena. Si, effettivamente, un po’ gli dispiaceva per le bambine ma in fondo le avrebbe potute vedere durante il week end che spettava a lui quando le avrebbe portate dalla madre.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Prendersi cura di un malato di Alzheimer: più stress per i coniugi

Sabrina Guzzetti

Come vivono i caregivers dei pazienti con Alzheimer? L’assistenza di un malato affetto da questa patologia comporta altissimi livelli di carico sia fisico, che emotivo per chi gli è accanto. Secondo un recente lavoro i coniugi e i familiari con sintomi depressivi subirebbero livelli di distress più alti.

 

Con il progressivo invecchiamento della popolazione si sta assistendo ad un aumento di incidenza delle malattie dementigene, Malattia di Alzheimer (MA) in primis, che vanno costituendo sempre più una vera e propria emergenza sanitaria.

La demenza comporta infatti un alto grado di compromissione funzionale, che limita drasticamente la capacità del malato di svolgere le proprie attività quotidiane, fino a determinare una completa disabilità e una situazione di totale dipendenza nei confronti dei familiari.

L’assistenza di un malato affetto da questa patologia comporta altissimi livelli di carico sia fisico, che emotivo, che possono andare a minare la salute psico-fisica dello stesso caregiver, il quale va spesso configurandosi come una vera e propria seconda vittima della malattia. Numerosi sono infatti i fattori stressogeni cui è sottoposto.

Una prima tipologia di fattori stressogeni include il livello di deterioramento cognitivo del paziente, la frequenza con cui si verificano problemi comportamentali e il numero di ore settimanali impiegato per fornirgli assistenza. Una seconda tipologia di stressor deriva dal frequente progressivo deterioramento della relazione tra caregiver e malato e dall’insorgenza di conflitti tra il caregiver e gli altri membri della famiglia. Un’ultima tipologia di fattori stressogeni deriva dalla difficoltà del caregiver nell’adempimento degli altri propri ruoli familiari, professionali e sociali e dalla diminuzione del tempo dedicato ai propri bisogni.

Secondo un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Geriatric Psychiatry and Neurology, sarebbero i coniugi e i familiari con sintomi depressivi a subire generalmente livelli di distress più alti. Questi i risultati di uno studio pluriennale guidato dalla dottoressa Tarja Välimäki, PhD e ricercatrice del Dipartimento di Scienze Infermieristiche della University of Eastern Finland.

La ricerca ha coinvolto 236 coppie di caregiver familiari e pazienti, seguite per 36 mesi dopo la diagnosi di MA. Il distress psicologico dei caregiver è stato valutato utilizzando il General Health Questionnaire (GHQ), un questionario sul benessere psichico che indaga la presenza di sintomi somatici, ansia, disturbi in ambito sociale e depressione.

I ricercatori hanno così potuto identificare le categorie di caregiver familiari più a rischio di esaurimento psico-fisico: i coniugi in generale e tutti i caregiver familiari che presentano sintomi depressivi, anche molto lievi, già al tempo della diagnosi. Dai risultati è emerso infatti che il distress psicologico del caregiver non dipende unicamente dalla severità dei sintomi neuropsicologici del malato di cui si prende cura, ma anche dalla relazione lo lega al malato, dal suo benessere psichico e dalle sue capacità di coping.

Lo studio mette in luce quanto sia importante valutare e monitorare nel tempo anche lo stato di benessere dei caregiver, in modo tale da poter mettere in atto tempestivamente dei programmi di supporto e sostegno in caso di riscontro di una qualche fragilità, che potrebbe per altro avere un impatto molto negativo anche sulla salute stessa del malato di Alzheimer.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Dall’indipendenza alla felicità, e ritorno…

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 27/09/2015

Autonomia è la possibilità di fare ciò che ci piace. Non si tratta solo di fare ciò sappiamo fare bene, che ci fa sentire bravi e competenti, ma di fare ciò che semplicemente ci piace in ogni momento della vita e della giornata.

L’indipendenza, l’autonomia, la capacità di darsi da soli una direzione e una regola di vita, è il feticcio della modernità. Nasconde il rischio dell’anarchia, dell’indipendenza che diventa legge personale, ma siamo disposti a correre il rischio e mai rinunceremmo. Autonomia è la possibilità di fare ciò che ci piace. Non si tratta solo di fare ciò sappiamo fare bene, che ci fa sentire bravi e competenti, ma di fare ciò che semplicemente ci piace in ogni momento della vita e della giornata. Da questo atto dannatamente egoistico nasce l’individualità e l’individualismo, croce e delizia delle nostre giornate.

Non è solo opinione ma scienza. Deci e Ryan dell’Università di Rochester (USA) hanno confermato l’ipotesi in un esperimento. Alcuni individui sistemati in una sala d’attesa erano invitati a eseguire due diversi compiti: alcuni potevano fare ciò che volevano mentre altri dovevano leggere le riviste messe a disposizione sul tavolo. C’è poco da fare: i soggetti forzati a leggere erano poco concentrati, infastiditi e annoiati. Gli altri, i liberi, erano anche forti e sereni. Autorizzati a scegliere come passare il tempo nel modo che più piaceva, ad esempio parlando tra di loro o leggendo il giornale per libera scelta, manifestavano una concentrazione più elevata in quel che facevano e più pazienza e più tolleranza nell’attesa.

L’autonomia moderna è un ambiente che ci circonda, una situazione che ci definisce, una cultura che ci caratterizza. Ci sta intorno, ma è anche dentro di noi. È un ethos, l’ethos della modernità, una dimensione del carattere che prende in nome tecnico di autodirezionalità o self-directedness, ovvero l’indice del nostro grado di autosufficienza, responsabilità, capacità di porci e conseguire obiettivi con efficacia. È anche la capacità di modificare il nostro comportamento in accordo con le nostre scelte individuali e i nostri obiettivi.

È un concetto meno semplice e immediato di quel che sembra. L’autodirezionalità comprende cinque dimensioni, che si definiscono meglio delimitando il loro contrario. E quindi abbiamo il senso di responsabilità contrapposto alla colpevolizzazione degli altri, ovvero l’essere agenti indipendenti e dotati di volontà personale contro il sentirsi controllati, vittimizzati o abusati; la proposizionalità contrapposta alla mancanza di scopi, ovvero il senso di libertà di scelta per ciò che è desiderato contro la mancanza di direzione verso un obiettivo: la ricchezza di risorse contro il senso di inadeguatezza, che vuol dire la consapevolezza delle proprie intenzioni contro la mancanza di autosufficienza e identità; l‘accettazione di sé contro la lotta con sé, ovvero la soddisfazione emotiva di se stessi e degli altri in opposizione all’eterno discontento per come siamo fatti noi stessi o gli altri o di come va il mondo; e infine il senso di illuminazione, il senso di bontà intrinseca in tutte le cose contro la percezione di corruzione e perversione nel mondo.

Quest’ultimo aspetto, l’illuminazione, introduce una nota di ottimismo e di spiritualità non sempre presente nella concezione europea dell’individualismo, più pessimistica e amara, intrisa di disincanto. In questo disincanto c’è il rischio del compiacimento, rischio che la cultura europea si porta sempre dietro.

Come accade spesso di questi tempi, anche per il senso d’indipendenza e di autonomia si è cercato un corrispettivo nel cervello, insomma qualcosa di meno impalpabile e più solido nel campo delle neuroscienze. E lo si è trovato nell’attivazione della corteccia prefrontale mediale durante lo svolgimento di compiti esecutivi. Rischia di essere una tautologia, essendo la corteccia prefrontale la sede della volontà esecutiva: abbiamo trovato la sede del libero arbitrio! È sempre una consolazione sapere che le nostre evanescenti idee e sensazioni interiori hanno un’ancora materiale. A volte non si va oltre questo, il trovare una lucina che si accende nel cervello esplorato con macchinari complessi, ma ci va bene lo stesso.

Torniamo al senso di autonomia. Ancora dati di scienza. Sappiamo che l’individuo con bassa autodirezionalità tende a essere poco integrato, irresponsabile, inetto, infruttuoso, povero di iniziativa e in fondo depresso. Non sono solo dati, ma è una teoria che prende il nome di Self Determination Theory elaborata dai due studiosi che abbiamo già incontrato: Deci e Ryan dell’Università di Rochester, naturalmente in USA.

Quel che colpisce in queste ricerche è la concezione che c’è dietro, la ragionevole determinazione a dimostrare la bontà del senso di autonomia e indipendenza, il desiderio –realizzato- di confermare scientificamente che egoismo e indipendenza sono distinte e inconfondibili tra loro. Secondo Deci e Ryan, fornendo sostegno all’autonomia, si raggiungono forme di motivazione intrinseca, il motore di ogni attività svolta con fiducia e passione. E questo vale fin dall’infanzia: l’autonomia e l’indipendenza si ottengono attraverso il soddisfacimento dei tre bisogni psicologici fondamentali del sentirsi capaci, della possibilità di compiere scelte autonome e della costruzione di legami sociali positivi (De Beni, Carretti, Moè e Pazzaglia, 2014).

Colpisce anche il tentativo di costruire un legame tra autonomia, felicità personale e benessere sociale. Tentativo sostanzialmente riuscito e in netta contrapposizione con le visioni pessimistiche dell’uomo e della vita. Quasi a rassicurarci, ma con buone ragioni, che ci sia un’armonia tra il nostro desiderio di vivere una buona vita ricca di soddisfazioni personali (e non egoistiche) e il l’equilibrio ecologico del mondo esterno. Solo a queste condizioni può sorriderci il mondo mentre perseguiamo i nostri successi e il nostro desiderio di piacere può diventare diritto alla felicità. Un percorso jeffersoniano che va dalla dichiarazione d’indipendenza al diritto alla felicità e al contrario, compiendo un ideale circolo virtuoso.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • De Beni, R., Carretti, B., Moè, A., Pazzaglia, F. (2014). Psicologia della personalità e delle differenze individuali. 2.ed. Bologna: Il Mulino.
  • Deci, E. e Ryan, R. (1985). Intrinsic motivation and self-determination in human behaviour. New York, Plenum Press

Invecchi e la memoria perde colpi? Fai training di memoria multifattoriali!

Un programma di training che prevede sia l’addestramento in più aree critiche che l’addestramento nelle abilità di codifica e recupero viene definito programma di training multifattoriale (Herrmann e Searleman, 1992).

La memoria costituisce una delle attività cognitive più facilmente influenzate dall’ invecchiamento. In campo scientifico ci sono numerose ricerche a riguardo, condotte allo scopo sia di individuare le principali cause che determinano il decadimento di domini mnestici specifici, sia di identificare gli interventi maggiormente utili per il recupero delle capacità perdute o comunque per rallentarne il deterioramento.

Da un punto di vista metacognitivo quello che si riscontra è che spesso gli anziani lamentano problemi di memoria enfatizzandone la reale entità (Taylor et al., 1992; Craik et al., 1995). Tali autovalutazioni errate e pessimistiche sono la conseguenza di credenze ed atteggiamenti sbagliati riguardo la vecchiaia, concetto spesso associato all’idea di una perdita inevitabile di efficienza mnestica generica che continua a peggiorare con il passare degli anni. Questi elementi costituiscono aspetti in grado di influenzare l’andamento del calo mnestico legato all’età (Hertzog e Dixon, 1994; Craik et al., 1995).

I training di memoria nell’ambito dell’invecchiamento prendono in considerazione anche questi fattori e nascono proprio dall’ipotesi che i deficit di memoria siano causati, non solo dal normale invecchiamento biologico, ma anche da deficit metacognitivi e strategici superabili, in parte, con opportuni addestramenti. I training sono infatti in grado di accrescere l’autostima dell’anziano e la sensazione di avere un ruolo determinante nell’esito delle proprie prestazioni di memoria, poiché portano ad un miglioramento nei compiti mnemonici.
Secondo Jenkins (1979) esistono interazioni tra attività di codifica (organizzazione, ripetizione, mnemotecniche), caratteristiche soggettive (abilità, capacità verbali, capacità attentive, credenze, stato emotivo), fattori di recupero (tipologia di test di memoria) e natura del materiale da memorizzare (verbale o visivo).

Delineando le caratteristiche di queste interazioni sarebbe possibile comprendere meglio la memoria e il suo funzionamento ipotizzando più aree da rinforzare per migliorarla (Herrmann e Searleman, 1992). Un programma di training che prevede sia l’addestramento in più aree critiche che l’addestramento nelle abilità di codifica e recupero viene definito programma di training multifattoriale (Herrmann e Searleman, 1992). In particolare il punto di vista multifattoriale prende in considerazione, oltre alle abilità di memoria, anche gli stati emotivi (livelli d’ansia e di stress), le strutture di credenza (credenze di auto-efficacia) e le abilità attentive.

Un approccio multifattoriale consentirebbe di rimediare alla perdita di memoria nell’invecchiamento (Stigsdotter e Bäckman, 1989) e favorirebbe una performance migliore rispetto all’approccio tradizionale, in cui vengono addestrate solo le abilità di codifica e recupero. Il miglioramento con un approccio multifattoriale risulterebbe più forte, duraturo e generalizzabile ad altri contesti (Herrmann e Searleman, 1992).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Craik, F. I. M. e Anderson, N. D. (1995). Memory changes in normal ageing. In A. D. Baddley, B. A. Wilson e F. N. Watts (Eds.), Handbook of Memory Disorders (pp. 211-241). London: John Wiley & Sons Ldt.
  • Herrmann, D. J. e Searleman, A. (1992). Memory improvement and memory theory in historical perspective. In D. J. Herrmann, H. Weingartner, A. Searleman e C. McEvoy (Eds.), Memory improvement: implications for memory theory (pp. 8-20). New York: Springer-Verlag.
  • Hertzog, C. e Dixon, R. A. (1994). Metacognitive development in adulthood and old age. In J. Metcalfe e A. Q. P. Shimamura (Eds.), Metacognition: Knowing about Knowing (pp. 227-251). Cambridge: MIT Press.
  • Hill, R. D., Bäckman, L. e Stigsdotter Neely, A. (2000), Cognitive Rehabilitation in Old Age, Oxford: Oxford University Press.
  • Jenkins, J. J. (1979). Four points to remember: a tetrahedral model of memory experiments. In J. C. Cermak e F. M. I. Craik (Eds.), Levels of processing in human memory (pp. 429-446). Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Stigsdotter, A. e Bäckman, L. (1989). Multifactorial memory training with older adults: How to foster maintenance of improved performance. Gerontology, 35, 260-267.
  • Taylor, J. L., Miller, T. P. et al. (1992). Correlates of memory decline: a 4-years longitudinal study of older adults with memory complaints. Psychology and Aging, 7, 185-193.

Inside out regala un volto alle emozioni: l’educazione emotiva arriva al cinema

Annalisa Gagliardi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

In questo è racchiuso il vero senso del film: l’invito ad esprimere le proprie emozioni da un lato e la legittimazione da parte di chi ci sta vicino di quanto sia giusto esprimere il proprio stato d’animo. La validazione emotiva diviene, pertanto, un elemento essenziale delle relazioni che funzionano bene, in cui si vive l’esperienza di sentirsi compresi per ciò che si prova.

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out, successivamente di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni mentre la scorsa settimana ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Pochi giorni fa abbiamo invece analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia- psicoeducazione (NdR).

Inside out rivoluziona il futuro dell’educazione emotiva, concedendo lustro alle emozioni del quotidiano e ponendo in primo piano un vero e proprio elogio della tristezza. In un epoca divorata dal reale, satura di tecnica e tecnologia, ci ritroviamo sorprendentemente immersi nell’evanescente mondo delle emozioni.

Hai mai pensato perché a volte ti senti in un certo modo?’ questo l’incipit del nuovo vanto della Pixar, che con la maestria alla quale ci ha in questi anni abituati, mette in scena quello che accade nella testa di Riley, una vivace undicenne che si trasferisce insieme alla sua famiglia dal Minnesota a San Francisco.

Già dal titolo, letteralmente ‘Dentro e fuori’, ci predisponiamo ad una riflessione circa la natura contaminante delle emozioni, di quanto esse siano in grado di prendere il sopravvento dentro e fuori di noi, secondo un ordine di priorità che ha animato le discussioni teoriche di decenni. Ci imbarchiamo in un viaggio alternato dentro e fuori dalla nostra testa, avvolti in quel vortice emotivo che condiziona simultaneamente il nostro stato d’animo e le nostre azioni.

Per una ragazzina di undici anni, trasferirsi significa lasciare la bella casa dove sei cresciuta, lasciare la tua migliore amica e la squadra di Hockey, inserirsi in un nuovo ambiente, nuova scuola, nuovi amici, nuove sensazioni. Se l’ambiente che la circonda perde di stabilità, il Quartier generale a capo delle sue emozioni, entra legittimamente in subbuglio.

Tra i registi della nostra vita interiore troviamo Gioia, allegra, forte, ottimista, luminosa. Avvolta in un grosso maglione, troviamo, invece, Tristezza, di blu dipinta e nascosta dietro un paio di sottili occhialoni tondi, ci sorprende per quanto possa essere buffa, e altresì risolutiva nelle sfide che la vita ci propone. Rabbia è un ometto tarchiato tipicamente rosso, che evita a Riley di subire ingiustizie. Quando entra in azione Rabbia, l’utopia del controllo tipicamente fallisce. In verde Disgusto è ‘colei che evita che Riley venga avvelenata, fisicamente e socialmente’ e infine, nei panni del nerd filiforme, violaceo e un po’ stressato troviamo Paura, pronto ad attivarsi quando il pericolo è in agguato.

Queste 5 emozioni prescelte, interpretano il mondo esterno e guidano le azioni della protagonista nell’affrontare le difficoltà che, una qualunque undicenne, potrebbe affrontare nel trovarsi catapultata in una nuova città.

La sensazione di sradicamento e abbandono, che emergono dall’esperienza del trasferimento innescheranno il conflitto interiore. E’ risaputo che cambiare città, può incidere sull’abilità dell’individuo di adattarsi al nuovo ambiente, influenzando il benessere personale e la capacità di creare nuove relazioni. Un cambiamento di tale portata può essere profondamente destabilizzante per una bambina di undici anni e come rappresentato nel film, Gioia perde il dominio del Quartier generale. Tristezza comincerà a contaminare i bei ricordi passati di Riley, mentre Gioia e il suo inattaccabile ottimismo farà di tutto per salvare il salvabile. Troppo triste anche per se stessa, Tristezza scappa, si perde, fino a compiere un inaspettato auspicio: insegnarci che la tristezza può essere sdoganata, può essere vissuta ed esternata, divenendo lo strumento per raggiungere una felicità più piena e consapevole.

Attraverso Tristezza, Riley imparerà a sentirsi legittimata ad esprimere il dolore, ricevendo di riflesso il caldo abbraccio di chi le vuole bene. In questo è racchiuso, a mio avviso, il vero senso del film, l’invito ad esprimere le proprie emozioni da un lato e la legittimazione da parte di chi ci sta vicino di quanto sia giusto esprimere il proprio stato d’animo. La validazione emotiva diviene, pertanto, un elemento essenziale delle relazioni che funzionano bene, quelle relazioni in cui si va oltre il ‘non ci pensare’, ma in cui si vive l’esperienza di sentirsi compresi e giudicati per ciò che si prova.

Definito da molti ‘L’elogio della tristezza’, il film affronta con coraggio un tema scomodo per un cartone per bambini, ma la poesia che ne scaturisce, non è certo un inno al pessimismo, bensì una fotografia tutt’altro che patinata della realtà, dove il tema del cambiamento e della perdita sono parte integrante del normale corso della vita.

L’intento del film è quello di rappresentare cosa accade nella testa di una undicenne, impresa assai complessa, considerato che ad oggi non esiste ancora un reale accordo in merito alle teorie scientifiche sulle emozioni. Un mistero che affascina e appassiona gli studiosi fin dai primi studi di W. James (James, 1884) che definiva l’emozione come il sentire i cambiamenti neurovegetativi a seguito di uno stimolo, e cosi, la casa di animazione di John Lasseter, che annovera tra i suoi successi capolavori come ‘Monsters’ e ‘Up’ ha intrapreso la sfida di fare delle emozioni, un viaggio avventuroso e non privo di insidie, all’esplorazione della complessità della vita.

Il lavoro per arrivare al film è stato molto lungo, gli autori sono andati a scavare tra gli scritti di Freud e Jung, il regista stesso definisce la teoria da loro creata per la realizzazione del film una versione un po’ più pop di Jung. Tra i consulenti scientifici troviamo l’illustre Paul Ekman (professore emerito di psicologia della University of California, San Francisco) pioniere nelle ricerche sul riconoscimento delle emozioni e Dacher Keltner (professore di psicologia della University of Calfornia, Barkeley) che si occupa dello studio delle emozioni e della loro funzione sociale.

Pete Docter, regista del film, dopo essersi attentamente documentato sulle teorie più accreditate sulle emozioni, ha messo sul piedistallo 5 stati d’animo: gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto. I consulenti scientifici del film, avrebbero voluto includere altre emozioni, ad esempio la sorpresa, ma secondo Docter, utilizzare più emozioni sarebbe stato confusivo. Si tratta pur sempre di un cartone per bambini e un canovaccio troppo ricco di personaggi sarebbe stato poco fruibile.

Ad ogni modo, il film richiama con maestria alcuni presupposti teorici fondamentali delle emozioni. Mostrandoci la mente delle altre persone, scopriamo che tutti gli esseri umani possiedono il medesimo corredo emozionale, seppur caratterizzato da peculiarità proprie. Nel film ogni emozione ha caratteristiche salienti, un look ben definito e ciascun personaggio ospita nella sua testa le proprie emozioni personalizzate secondo una loro unicità.

Esploriamo così il concetto di universalità delle emozioni e l’influenza degli effetti di personalità e temperamento nella loro espressione. Nella storia osserviamo che la mamma, il papà e gli amici di Riley, sono tutti dotati dello stesso assetto emotivo, ma ognuno di loro esprime le emozioni secondo le personali propensioni, secondo il genere e secondo l’interpretazione che fanno della realtà.

Non mancano a tale proposito i momenti di comicità nello scambio di opinioni tra madre e padre, dal quale emerge tutto lo stereotipo delle dinamiche uomo-donna nell’interpretazione emotiva della realtà.

Usando le parole di Klaus Scherer, le emozioni assumono la funzione di mediatori tra i bisogni dell’organismo e le richieste dell’ambiente. Il concetto di ‘valutazione cognitiva’ delle situazioni emerge con forza: le emozioni sono caratterizzate da rappresentazioni cognitive della realtà, e parimenti possono influenzare il ragionamento razionale, influenzando le percezioni del mondo e le funzioni della memoria. In merito a ciò nella trama è possibile osservare il contagio cromatico che compie Tristezza avvicinandosi alle sfere del ricordo, colorandole di blu e modificandone la loro essenza iniziale.

Inside out sembra aprire un varco in una nuova era, in cui l’educazione emotiva diviene centrale nel percorso di formazione dei bambini. Riconoscere il senso e il valore delle emozioni sembra poter sdoganare la legittimità delle fragilità umane, che danno slancio al contatto con noi stessi e con gli altri.

Dagli studi di J. Gottman e Declaire (Declaire, Gottman, 1997) si evince che:

i figli emotivamente allenati ottengono migliori risultati a scuola, stanno meglio in salute e stabiliscono relazioni positive con i coetanei. Hanno anche minori problemi di comportamento e riescono a riprendersi più rapidamente dopo esperienze negative. L’intelligenza emotiva permette di essere più preparati ad affrontare i rischi e le sfide della vita.

La qualità di vita di un bambino è influenzata dal modo in cui apprende a conoscere e gestire le proprie emozioni. Se troppo agitati o turbati sarà molto difficile mettere in moto le proprie risorse di concentrazione, attenzione e memorizzazione, con ripercussioni negative sull’apprendimento. Il ruolo delle emozioni diviene, quindi, rilevante nel meccanismo dell’apprendimento stesso, raggiungendo la medesima importanza del ruolo fino ad oggi egemonico concesso a intelligenza e razionalità. Conoscere le emozioni, vuol dire saper dare un nome ai propri stati emotivi e ai propri pensieri, fino ad acquisire fondamentali abilità di autoregolazone del proprio comportamento.

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Al contrario, la protagonista del film, nasconde la sua tristezza e come materia liquida si diffonde nelle trame più sottili della sua personalità, contaminando sogni e ricordi. Riley temeva di piangere, di protestare e di stare nella sua tristezza, come se talvolta, sulla carreggiata della quotidianità ci fosse affisso un divieto di stare nel proprio dolore, come se l’unico modo per essere felici fosse fuggire dalla propria tristezza.

La difficoltà che deriva nell’espressione e nel riconoscimento delle emozioni, influenza negativamente sia le prestazioni scolastiche, sia l’interpretazione degli eventi di vita. Imparando a conoscere e riconoscere le proprie emozioni, invece, il bambino impara a muoversi in un territorio non più sconosciuto, forte della consapevolezza e senza sentirsi totalmente assoggettato dall’emotività (Di Pietro, 1992).

Nella psicologia naif il concetto di emozione è sempre stato associato a un’eccitazione disorganizzata priva di una precisa finalità, ma a partire dagli studi di Darwin è possibile attribuire alle emozioni una funzione essenziale per la sopravvivenza. Cosa sarebbe l’essere umano senza la paura? Quell’emozione che ci mette in condizione di fuggire dinnanzi ad un pericolo è che allo stesso tempo può divenire disfunzionale se eccessiva, incontrollabile e paralizzante.

Da ciò è possibile considerare l’intelligenza emotiva, secondo la definizione individuata da Salovey e Mayer (Emotional intelligence, 1990) come un composto di processi di valutazione, espressione, regolazione e utilizzo delle emozioni. E proprio sul concetto di valutazione cognitiva, secondo la teoria dell’Appraisal (Arnold, 1960) le emozioni ci permettono di:

  • Regolare l’attenzione: monitorando l’ambiente e mantenendo l’allerta per gli eventi importanti
  • Dirigere la motivazione: preparandoci o motivandoci ad affrontare gli eventi

Le emozioni, pertanto, organizzano sapientemente il pensiero razionale e diversamente da quanto si è sempre creduto esse non lo confondono, ma lo guidano. La valutazione cognitiva delle emozioni permette ad ogni individuo di sperimentare il suo personale modo di provare le emozioni e di dominarle. Per compiere nella maniera più efficace tale compito è necessario imparare a riconoscere, esprimere, comprendere, modulare e sfruttare le proprie emozioni. Il raggiungimento di un’adeguata regolazione emotiva é considerato uno degli obiettivi di maggior rilievo dello sviluppo infantile. La capacità di regolare le emozioni, influenza lo sviluppo della personalità del bambino.

Fin dai primi mesi di vita, come dimostrato dalle ricerche basate sul paradigma dello Still Face (Tronick, 1989, 2007), l’essere umano possiede un corredo di strategie comportamentali che gli permettono di regolare l’intensità delle emozioni: il neonato in condizione di disagio, distoglie lo sguardo o si autoconsola toccando i capelli o mettendo il dito in bocca, imparando gradualmente ad utilizzare lo sguardo, il sorriso e il pianto come strumenti per comunicare il suo stato emotivo all’adulto, creando quella particolare relazione di scambio che viene definita da Stern ‘sintonizzazione affettiva’. Quando il bambino percepisce il volto della madre come inespressivo, si attiva per intensificare le sue espressioni comunicative, finalizzate alla condivisione e all’interazione con l’altro. Lo scambio emotivo madre bambino, avvia il primordiale sviluppo della competenze emotiva, dal quale il bambino imparerà prima a riconoscere le emozioni nell’altro e in seguito a riconoscerle in se stesso. Inutile sottolineare quanto in questo processo il ruolo del genitore sia fondamentale, la qualità del legame di attaccamento risulta decisiva nella costruzione del meccanismo di regolazione emotiva e nella rappresentazione di se come efficace nei suoi tentativi comunicativi.

L’analfabetismo emozionale che ancora oggi dilaga sui banchi di scuola e di riflesso nella società, è figlio della difficoltà della maggior parte delle persone di esprimere, decodificare e comunicare agli altri le proprie emozioni. Sebbene la cultura di riferimento rappresenti un varco tra le modalità socialmente accettabili di esprimere le emozioni e le proprie fragilità, è erroneamente diffusa l’idea che l’intelligenza emotiva sia una competenza di serie B. Essa può essere coltivata nel corso di tutta la vita e ci allena ad una elasticità nei confronti degli altri e degli eventi della vita.

Malgrado molti siano tentati di nascondere e reprimere le emozioni negative, Inside out rivoluziona e insegna a grandi e piccini che per vivere appieno la gioia è necessario sperimentare e conoscere la tristezza. Accettare le difficoltà che la vita ci presenta, esprimendo senza timori la propria tristezza, permette di manifestare all’altro il proprio stato d’animo, elicitando l’empatia, l’ascolto e la condivisone.

Inside out, oltre a dare un nome alle emozioni, attribuisce volto e caratteristiche salienti, aiutando i bambini a dare una collocazione precisa a quelle sensazioni che a tutte le età sentiamo nel cuore e nella pancia. Possedere un vocabolario emotivo consente al bambino di esprimere a parole il suo stato d’animo, esternarlo e quindi condividerlo. Nel difficile compito dell’educazione emotiva, John Gottman suggerisce a genitori e insegnanti di indossare i panni degli allenatori, accettando e ascoltando le emozioni dei figli, interessandosi alle loro vite, imparando a riconoscere e regolare i comportamenti prima che si trasformino in una crisi.

Al termine del film il primo passo per conoscere le proprie emozioni potrebbe essere quello di immaginarle, disegnarle, chiedendosi ad esempio di che colore è la paura? Cosa indossa la vostra tristezza? Insomma, che faccia hanno le vostre emozioni?  Questo film riesce con apparente semplicità a spiegare alcuni intricati meccanismi della nostra mente, ma qualcosa sembra mancare, secondo Keltner, consulente scientifico del film, grande assente in Inside out è l’amore. Su questo tema la letteratura é controversa, poiché l’amore non é consistentemente considerato un’emozione. Poeti, filosofi e scienziati hanno tentato di definirne contorni, composizione e generalità, forse tale sfida era troppo ardua anche per la genialità della Pixar o forse l’assenza dei tumulti dell’amore fanno presagire un seguito, nella stagione della massima confusione emotiva, l’adolescenza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bonomi A., Borgna E., (2011) Elogio della depressione, Einaudi.
  • Di Pietro M.(1992), Educazione razionale-emotiva, Erickson, Trento.
  • Gottman J., De Claire J., Intelligenza emotiva per un figlio, La Feltrinelli.
  • Stern D. N (2004), trad.it. Il momento presente, Milano, Raffaello Cortina, 2005
  • Tronick E.Z. (1989), Le emozioni e la comunicazione affettiva nelle prime relazioni, trad.it in Riva Crugnola, C.(a cura di), La comunicazione affettiva tra il bambino e i suoi partner, Milano, Raffaello Cortina, 1999
  • Tronick E.Z.(2007), The neurobehavioural and socio-Emotional development of infants and children, New York, Norton&Company

Come i suicidi delle celebrità modificano la ricerca di un aiuto online

Daniela Sonzogni

A seguito del suicidio di una celebrità, il forum SuicideWatch, forum di supporto al suicidio, mostra un aumento di post ed espressioni che indicano maggiori e più esplicite tendenze al voler metter fine alla propria vita.

Esiste un forum ampiamente utilizzato per il supporto a persone con pensieri suicidi chiamato SuicideWhatch su Reddit, piattaforma online che consente la partecipazione anonima. Le persone che si iscrivono a questo forum sono in cerca di un sostegno e di una guida da parte di un gruppo di esperti che si presentano come moderatori addestrati. Sono inoltre presenti degli utenti anonimi facenti parte dei social media di volontariato per estendere l’aiuto a chi ha bisogno.

Una nuova ricerca del Georgia Institute of Technology ha rilevato che l’attività su questo forum cambia drasticamente a seguito di suicidio praticato da celebrità.

Il forum mostra un aumento di post ed espressioni che indicano maggiori e più esplicite tendenze suicide. I partecipanti nei contenuti dei loro messaggi, nei giorni e nelle settimane successive al suicidio di una celebrità, mostrano maggiori livelli di rabbia e ansia.

I ricercatori hanno analizzato quasi 66 mila post provenienti da 19 mila utenti collegati da ottobre 2013 a dicembre 2014. I ricercatori hanno notato come è cambiato il linguaggio nelle settimane prima e dopo 10 suicidi di celebrità, tra cui la morte nel 2014 di Robin Williams.

Ad esempio i messaggi prima di suicidi erano Forse dovrei farlo! e Ho bisogno di aiuto…mi sento proprio sul bordo. Dopo i suicidi di personaggi famosi, invece, le frasi presentano una diminuita preoccupazione sociale e mostrano significati carichi di ansia, rabbia ed emozioni negative.

I partecipanti, inoltre, scrivono meno relativamente ad altre persone, meno post sulla famiglia e sugli amici, concentrando i loro messaggi più su se stessi, sull’‘Io’ e sul ‘Me’. Nei loro commenti è emersa tristezza e una maggiore consapevolezza di sé e dei propri vissuti. I ricercatori sottolineano come gli utenti non si siano collegati per discutere delle celebrità ma hanno parlato della loro vita e sul potenziale di porvi fine.

Lo studio riflette l’effetto Werther, ossia un aumento del numero dei suicidi effettivi o tentati suicidi dopo il suicidio di una celebrità. Gli studi in letteratura su questo tema riguardano le azioni concrete delle persone, questo studio invece utilizza i social media per acquisire nuove informazioni circa i pensieri e ciò che sottende un’ideazione suicidaria in un gruppo di persone che è unita attorno al tema del suicidio.

I ricercatori hanno potuto esplorare ciò che le persone pensano e come si sentono, ossia analizzare i marcatori di ideazione suicidaria. I risultati possono essere utilizzati per offrire un miglior supporto online per le persone che sono più vulnerabili psicologicamente. Ad esempio i moderatori potrebbero controllare il sito più frequentemente dopo suicidi di celebrità, creare algoritmi in grado di sviluppare punteggi di rischio sulla base di variazioni linguistiche prima e dopo suicidi di persone famose.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’effetto della discriminazione razziale sui livelli di cortisolo diurno

E’ lo stress sociale dovuto all’appartenenza etnica e la discriminazione percepita ad influenzare lo stress biologico, i livelli di cortisolo diurno e l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.

La discriminazione razziale attualmente è un fenomeno molto diffuso e sentito in quanto, data la relativa stabilità della categorizzazione razziale e le persecuzioni etniche che hanno caratterizzato soprattutto la storia della società americana, gioca un ruolo cruciale nel determinare il benessere delle minoranze etniche. In particolare diverse ricerche hanno permesso di osservare che è lo stress sociale dovuto all’appartenenza etnica e la discriminazione percepita ad influenzare lo stress biologico, i livelli di cortisolo diurno e l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA).

Il rilascio di cortisolo dipende dal ritmo circadiano, infatti i livelli dell’ormone sono elevati al momento del risveglio, aumentano ulteriormente nei 30-40 minuti successivi e poi diminuiscono nel corso della giornata fino a raggiungere il picco minimo intorno alla mezzanotte; l’attività dell’asse HPA è adattiva al fine di far fronte a situazioni di stress acuto che a loro volta possono determinare variazioni della quantità di cortisolo rilasciata. Infatti i livelli di cortisolo al risveglio aumentano in presenza di fattori di stress giornalieri mentre diminuiscono quando gli eventi stressanti sono particolarmente traumatici e si accompagnano a sintomi tipici del disturbo post traumatico da stress; questa condizione di ipocortisolismo in presenza di situazioni traumatiche si verifica anche per le quantità di cortisolo che possono essere registrate durante la giornata mentre invece un appiattimento dei livelli dell’ormone è legato a depressione e a patologie cardiovascolari.

Le condizioni stressanti o traumatiche che possono influenzare il rilascio di cortisolo possono essere legate, tra le altre cose, proprio al subire discriminazioni giornaliere o al vivere episodi di razzismo, tuttavia non sono molte le ricerche empiriche che si sono occupate di valutare tale relazione.

Quindi lo studio presente ha considerato 112 soggetti (50 di colore e 62 bianchi) al fine di testare l’impatto della discriminazione razziale percepita sui livelli di cortisolo diurno, misurato per una settimana attraverso dei campioni di saliva raccolti tre volte al giorno (al risveglio, 30 minuti dopo il risveglio e di notte). Inoltre non sono stati considerati episodi di emarginazione recenti o attuali ma situazioni croniche vissute a partire dall’adolescenza o dalla prima età adulta, questo perché non solo gli eventi che si verificano nel tempo entrano a far parte del cambiamento biologico e psicologico dell’individuo, ma anche perché soprattutto l’adolescenza rappresenta un periodo di trasformazione e di sviluppo della propria identità, per cui episodi di discriminazione vissuti in questa fase possono maggiormente influenzare il cortisolo adulto rispetto al subire gli stessi episodi in periodi successivi. Sono state anche controllate delle variabili contestuali o legate alla salute che possono impattare sul rilascio di cortisolo e quindi viziare gli esiti della ricerca.

I risultati, in linea con quelli degli studi precedenti, dimostrano che esperienze croniche di discriminazione causano un appiattimento del livello di cortisolo diurno e un abbassamento di quello registrato al risveglio e mentre il primo dato caratterizza sia i soggetti di colore che i bianchi, il secondo è stato riscontrato solo per quelli di colore. Inoltre, a conferma delle ipotesi di ricerca, si è osservato che i soggetti che sono stati protagonisti di episodi di emarginazione durante l’adolescenza mostrano, al momento della misurazione, alterazioni maggiori dei livelli di cortisolo rispetto a quelli che vivono gli stessi episodi nella prima età adulta; ciò è vero in particolare per i partecipanti di colore che mostrano un pattern di ipocortisolismo.

Quindi, nonostante i limiti che caratterizzano lo studio in questione, come la mancata considerazione delle discriminazioni razziali occorse nella prima infanzia, la difficile generalizzazione dei risultati e l’assenza di un’analisi dei fattori di protezione, esso può essere considerato la prima ricerca che ha esaminato la relazione tra l’emarginazione vissuta nel tempo e i livelli di cortisolo in età adulta, sottolineando in questo modo l’impatto dello stress cronico, a differenza degli studi precedenti che invece si sono concentrati solo sugli episodi di discriminazione razziale recenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Attaccamento e Trauma 2015 – La cronaca del Convegno

Eleonora Natalini – Tinnitus Center – European Hospital, Roma

 

Sembra la notte degli Oscar per chi è del mestiere. Le stelle si alternano sul palco a ritirare applausi ed ammirazione. Non siamo al Dolby Theatre di Hollywood, ma al teatro Brancaccio di Roma. E non è notte qui, ma sono le 8 del mattino di un venerdì autunnale. Dopo una fila piuttosto impegnativa per la registrazione inizia lo show. 

Su State of Mind abbiamo parlato delle diverse giornate del convegno Attaccamento e Trauma: abbiamo scritto della prima giornata e dell’Importanza della contingenza nello sviluppo infantile; abbiamo inoltre riportato quanto detto nella seconda giornata del convegno a proposito di Fiducia Epistemica, resilienza e resistenza al cambiamento. Abbiamo infine pubblicato il report della terza giornata, incentrata sul Ruolo dell’ emisfero destro, la regressione in terapia e la Schema Therapy (NdR).

 

Presentazione iniziale in grande stile. Le bandiere che rappresentano i paesi da cui provengono gli oltre 1200 spettatori, si alternano sul grande schermo. Alessandro Carmelita è il presentatore ufficiale dell’evento, ottimo padrone di casa e mediatore.

Daniel Siegel apre i battenti per la sfilata sul tappeto rosso. Parla di attaccamento, riprendendo l’ormai nota ricerca sulla Strange Situation, di energia, informazione, possibilità, neurobiologia interpersonale e ovviamente Mindfulness. Sono confusa? Forse si, la neurobiologia mi confonde. Le idee diventano però più chiare quando rimango incantata nel vederlo fare esercizi di stretching mentre ascolta le altre presentazioni. E’ lì in piedi e resto ammaliata nell’osservare quei movimenti lenti. Predica bene e razzola bene mi viene da pensare. Vederlo mi avvicina alle sue idee sull’interconnessione, l’attenzione al presente e al corpo. E per questo mi conquista.

Dopo il coffee break un po’ ritardato, Edward Tronick porta dati, statistiche, grafici e psicobiologia. A tratti mi distraggo, assetata di psicoterapia e pratica clinica. Le osservazioni sono ottime, ma non del tutto innovative. Parla della correlazione tra stress acuto continuo (senza riparazione) e trauma nel sistema di attaccamento tra il bambino e il caregiver, durante il quale non vengono a formarsi stati diadici di coscienza necessari alla creazione del significato sul proprio sé. Questo in maniera semplice si osserva nel video della Still Face in cui vediamo come uno stress lieve è generato dalla mancata risposta dell’Altro. In pochi attimi il bambino è in uno stato di disagio effettivo; nel video ovviamente avviene la riparazione (riunione); facile immaginare cosa può accadere in contesti simili ripetuti e senza compensazione.

Il post pranzo si apre con la presentazione molto bella di Pat Odgen. Ovvio parla di trauma e corpo, e in maniera del tutto chiara. Ci ha stupiti quando ha indossato una maschera bianca dimostrandoci come il solo movimento corporeo ci fa intuire le espressioni facciali e, di conseguenza, lo stato d’animo della persona. Diretto e semplice. Il messaggio è arrivato. Trovo la Psicoterapia Sensomotoria una buona base da cui iniziare nei trattamenti, specialmente per i pazienti gravemente compromessi e con scarse abilità metacognitive. Mi porterò dietro una riflessione importante della Odgen per la pratica clinica: sono più accessibili i ricordi in sintonia con la posizione assunta dal paziente.

Il sabato, con il sole romano, ha portato splendide presentazioni. Apre la giornata Peter Fonagy, ironico e divertente, e ci mostra chiaramente cosa vuol dire mentalizzare. E’ in ogni sua parola, immagine, slide. Mostra una foto di lui, sorella e genitori con i pensieri di ognuno a fumetto. Vari punti di vista, abbiamo letto nella mente dell’Altro, abbiamo mentalizzato insieme. Il discorso si sofferma poi sulla fiducia epistemica. Il paziente con disturbo di personalità ne è carente, non si fida, è ipervigilante. La comunicazione e l’apprendimento, a causa di maltrattamento o abuso, sono falliti. Il lavoro clinico deve tenere tutto questo in considerazione e la mentalizzazione, ovviamente, ci viene in aiuto.

Kathy Steele parla dei pazienti altamente resistenti ed è interessante la correlazione che fa tra il trauma e l’evitamento fobico –mindflight-. Questo significa che il paziente teme tutto ciò che reputa eccessivamente travolgente per prenderne consapevolezza. La Steele tiene a precisare che la resistenza che porta il paziente, o una sua parte dissociata, stimola reazioni diverse sul terapeuta che può, a sua volta, rispondere con una nociva controresistenza da monitorare costantemente per non caderne intrappolati.

Per pochi attimi, favoriti dal luogo che ci ospita, sembra di assistere ad una vera e propria audizione. Brillante, e bonariamente provocatorio, Giancarlo Dimaggio si esibisce nel ballo e nella recitazione. Sul canto non è dato sapere. Sulle sue capacità di terapeuta non ci sono dubbi. La videoregistrazione di un suo role-playing girato in Australia ne è la prova: il paziente cambia volto, postura e quindi stato d’animo in pochi minuti, tutto durante la magistrale autoapertura del terapeuta. Da manuale. Dimaggio conferma che le tecniche della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) funzionano. Stanno raccogliendo dati di efficacia e siamo soltanto in trepida attesa.

Molto visibile la Schema Therapy. Chiude la giornata Arnoud Arntz che ci presenta i dati, quelli che servono a validare, a far dire a tutti ‘ok, questo funziona’.

Eckhard Roediger parla il giorno seguente e ci presenta i fatti: il video di una sua seduta con una coppia in crisi. Interessante e molto. Ci mostra i modi, le sedie su cui farli sedere (carina l’idea di averle di colori diversi in studio), ma anche il corpo, la prossimità o la lontananza e l’importanza di questo. Ovvio c’è l’esposizione immaginativa. E se la fai bene vinci. E lui ha vinto.

Difficile rimanere attenti durante l’ultima giornata. Apre le presentazioni Allan Schore e ci dice (o meglio legge) che nella psicoterapia il cervello destro è dominante, poiché rappresenta la parte creativa in grado di direzionare il trattamento dei traumi di attaccamento. Proprio quella creatività associata all’ apertura mentale dei Big Five. A me è venuto in mente il pilastro della Mindfulness che fa riferimento alla mente del principiante: sguardo curioso e interessato al paziente come se fosse ogni volta uno sconosciuto da esplorare. Tanta, troppa teoria però, infinite citazioni, e il mio cervello destro non ha stimoli nuovi da elaborare e si addormenta miseramente.

Si riprende con l’intervento di Roediger, prima descritto, ma ricrolla spaventosamente con Stephan Doering che parla della Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP). Il trattamento, empiricamente validato, è specifico per il disturbo borderline di personalità. Mi perdo nei discorsi. C’è il transfert e il controtranfert questo è chiaro. Mi viene in mente la resistenza e la controresistenza della Steele…che ci siano delle somiglianze? Curioso come spesso si associa la terapia ad una danza, per dare l’idea della collaborazione, e poi con la terminologia facciamo riferimento, invece, alla lotta, alla sfida (contro). Curioso. Avrei forse dovuto chiedere spiegazioni a Russell Meares che, con il suo Modello Conversazionale nel trattamento del trauma relazionale, pone l’attenzione sulle parole e la struttura della conversazione terapeutica. Il linguaggio del dialogo interiore è di tipo analogico. Ci fa ascoltare uno scambio. Il terapeuta interviene poco, quando lo fa spesso completa le frasi della paziente o fa in modo che lo faccia lei. Approccio bel lontano dall’attenzione al corpo a cui eravamo stati abituati con gli interventi precedenti.

Chairmen delle tavole rotonde, che concludono ogni giornata, sono Onofri, Liotti e Veglia. Il primo inizia portando l’attenzione sul corpo, protagonista indiscusso degli interventi della giornata; il secondo chiedendo ai relatori di trovare differenze e somiglianze sui loro approcci; il terzo narrando un caso clinico personale da discutere.

Gli argomenti trattati sono stati stimolanti, ma il tempo a disposizione non ha aiutato nella gestione delle domande da parte del pubblico. Nell’ultima giornata le mani alzate sono rimaste tali. Il consiglio che posso dare, a chi non ha avuto risposte, è quello di accettare senza giudizio, rimanendo nel momento presente, facendo si che l’adulto sano consoli il bambino vulnerabile, cercando soluzioni alternative con il cervello destro, ponendo attenzione al corpo e ai suoi movimenti, utilizzando tutte le abilità metacognitive a disposizione, senza porre resistenze inutili e attendere le prossime nomination perché, come promette fortunatamente Carmelita, see you next year!

 

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Davide Di Vitantonio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

E’ possibile distinguere fra “aggressione impulsiva” e “aggressione strumentale”; la prima, è definibile come il comportamento manifestatosi in uno stato di rabbia insorto rapidamente in risposta a un determinato stimolo, mentre la seconda come un comportamento organizzato, goal-directed, non emergente da disfunzioni casuali.

L’aggressione

Per gli archeologi, gli storici e gli studiosi della guerra in generale, risulta sempre bizzarro ammettere, al di là di elucubrazioni astratte, che le azioni violente verificatesi sui campi di battaglia di tutto il mondo siano sempre state messe in atto da esseri umani coscienti e pensanti, e non da qualche misteriosa forza negativa che agiva su di loro sopprimendone il libero arbitrio. In realtà, l’atto aggressivo, si manifesta all’interno di una complessa cornice di variabili che richiedono addestramento, condizionamento e motivazione intrinseca, e le conseguenze a lungo termine dell’atto stesso si ripercuotono direttamente sul sistema cognitivo ed emotivo del singolo (Maguen, Lucenko et al. 2010).

Per semplificare, è possibile distinguere fra “aggressione impulsiva” e “aggressione strumentale”; la prima, è definibile come il comportamento manifestatosi in uno stato di rabbia insorto rapidamente in risposta a un determinato stimolo, mentre la seconda come un comportamento organizzato, goal-directed, non emergente da disfunzioni casuali (Pinker, 2002). Ne segue che considerando all’interno della società, un gruppo a cui si richiede specificamente di agire secondo modalità aggressive e violente, bisogna ammettere che la società di appartenenza richiederà al gruppo stesso di essere perfettamente efficiente nel mettere in atto le azioni descritte, di fare dell’ “aggressione strumentale” un vero e proprio skill da apprendere e utilizzare nel momento del bisogno. In tale situazione, gli istinti aggressivi degli individui selezionati, verrebbero considerati un aspetto accettabile e positivo, se ben controllato e incanalato all’interno di parametri sociali legittimi.

Fisiologia del combattimento

La fisiologia del combattimento (Grossman, 1996) si pone come fine la descrizione delle reazioni neurali in risposta a situazioni ambientali di conflitto, reazioni che vanno dall’adattamento immediato, al freezing, a processi di pensiero distorti e irrazionali. Coniugando il lavoro di ricerca del Tenente Colonnello Dave Grossman, e del dr. Siddle (Siddle, 1995), è possibile distinguere cinque diversi stati di arousal fisiologico correlati ad altrettante frequenze di battito cardiaco.

Come si evince dall’osservazione delle diverse condizioni, lo stato di 175 battiti al minuto è quello maggiormente correlato a reazioni negative. Il deterioramento dei processi cognitivi emerge prepotentemente nei resoconti dei soggetti coinvolti, frasi come “non riuscivo a pensare chiaramente” o “avevo la mente annebbiata” lo descrivono perfettamente, e risultano utili nello spiegare determinati comportamenti irrazionali storicamente accertati in situazioni di forte crisi, si pensi agli atteggiamenti descritti a bordo del Titanic o a chi si trovava all’interno delle Torri Gemelle che per sfuggire a morte certa si gettò nel vuoto. Tutti hanno avuto esperienze di dialogo con soggetti fortemente irritati o spaventati, e non è stato difficile notare come a mano a mano che la paura o la rabbia aumentavano, tanto più il pensiero razionale veniva offuscato. Ne segue logicamente che per gli operatori militari o delle forze dell’ordine, si rende fortemente necessario un realistico e costante addestramento al fine di alterare le naturali risposte psicofisiologiche e mantenere il combattente in una condizione compresa fra la GIALLA e la ROSSA, ovvero modalità di attivazione psicofisiologiche che non conducono al deterioramento dei processi cognitivi ma intaccano leggermente le sole abilità motorie volontarie; per questi motivi un addestramento realistico e continuo, permette di immagazzinare una serie di risposte immediate ed automatiche tali da poter essere messe in atto perfino in uno stato di coscienza alterato dal pericolo.

La scelta di combattere

A causa delle normali reazioni psicofisiologiche allo scontro, è naturale assumere che solo una minima parte della popolazione generale prenderebbe volontariamente in considerazione l’ipotesi di accettare un conflitto diretto. Uno studio di Marshall (1978) condotto sui veterani della Seconda Guerra Mondiale, mostrò che solo il 15-20% dei soldati americani sparava volontariamente a un nemico esposto. Dai moderni studi militari emerge chiaramente come la prossimità del nemico, descritta come distanza spaziale dall’osservatore, sia la variabile determinante nella scelta di attaccare o meno.

Keegan (2004), fece notare come soggetti cresciuti in società pastorali apprendessero fin dalla più tenera età le strategie per uccidere animali senza provare rimorso, così da rendere l’atto di uccidere il più naturale possibile. Da tutto ciò si evince come la riluttanza nell’uccidere un membro della propria specie, sia assolutamente comune persino in chi si trovò a prestare servizio armato nel conflitto mondiale; dove nasce dunque la scelta di combattere?

Ogni volta che ci si trova a fronteggiare un’aggressione, le scelte di azione possibili si riducono a quattro:

1. Combattimento
2. Fuga
3. Sottomissione
4. Minaccia

Le azioni elencate non riguardano solo la sfera del comportamento umano, ma sono comuni in diverse specie, e ciò che distingue il soggetto che sceglie di combattere da quello che assume atteggiamenti remissivi e di sottomissione, è rintracciabile in una complessa struttura di variabili bio-psico-sociali che differenziano enormemente non solo il comportamento dei singoli, ma quelle di intere culture e nazioni.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Neurobiologia e aggressività reattiva e strumentale

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Lt. Col. Dave Grossman. (1996) On killing.Back bay Books.
  • Marco Costa. (2010) Psicologia Militare. Franco Angeli editore.
  • Maguen S, Lucenko B, Reger M, Gahm G, Litz B, Seal K, Knight S, Marmar C. (2010) The impact of reported direct and indirect killing on mental health symptoms in Iraq war veterans. Journal of traumatic stress, 23: 86:90.
  • Pinker S. (2002) The blank slate: the modern denial of human nature. Viking.
  • Siddle B.K. (1995) Sharpening the warriors edge: the psychology and science of training. Human factor Res Group.
  • Marshall SLA. (1978) Men against fire: the problem of battle command in future war. Gloucester, Mass.
  • Keegan J. (2004) A history of warfare. Pimlico.

Sono contrario alle emozioni (2011) – Recensione

Malinconico è un avvocato quasi disoccupato, un quasi ex marito con un rapporto problematico con le donne e, secondo il suo psicoterapeuta, con uno scompenso tra la sfera razionale e quella emotiva, che non risultano integrate. 

Vincenzo Malinconico è il tragicomico personaggio nato dalla penna dello scrittore Diego De Silva. Le sue vicissitudini e, soprattutto, il suo continuo rimuginare e ruminare sono raccontati in tre libri divertenti ma, allo stesso tempo, ricchi di spunti di riflessione e di momenti profondi: ‘Non avevo capito niente’ (2007), ‘Mia suocera beve’ (2010) e ‘Sono contrario alle emozioni’ (2011).

Malinconico è un avvocato quasi disoccupato, un quasi ex marito con un rapporto problematico con le donne e, secondo il suo psicoterapeuta, con uno scompenso tra la sfera razionale e quella emotiva, che non risultano integrate.

Non decodifica le sue emozioni, non le sente arrivare, non le anticipa. Semplicemente le subisce. Quando le vengono addosso, è del tutto impreparato ad affrontarle. E quelle la investono, come farebbe una macchina, o un camion- gli spiega il suo psicoterapeuta- prospettandogli un gran lavoro da fare con se stesso. Malinconico, che vorrebbe avere il controllo di tutto, non può che reagire chiedendo quanto durerà di preciso la terapia, come del resto non può fare a meno di pensare e ripensare ad ogni cosa che gli capita, persino di elucubrare sul significato delle canzoni, per razionalizzare tutto e distanziarsi così dalle emozioni che possono suscitare, vissute come un branco pronto ad attaccare.

Malinconico vive la sua vita offline, pensa e ripensa a quello che avrebbe voluto dire, tracciando mentalmente il preciso dialogo che avrebbe dovuto sostenere e che la prossima volta dovrà assolutamente fare per non sentirsi un cretino. Ma, subito dopo aver fatto il provino della sua requisitoria, lo assale il dubbio che forse non sarà mai capace di farlo, e poi chi lo sa, se veramente lo penso. Vincenzo perde sempre l’istante, preso com’è tra l’ansia del voler prevedere la sua prossima mossa, che stavolta non dovrà assolutamente sbagliare, ed il rimpianto per le mancate occasioni e per le volte in cui ha agito per non deludere le aspettative dell’altro e sfuggire così al senso di colpa, assumendo ruoli non rispondenti ai propri reali desideri e bisogni (del resto la malinconia che ne deriva è ironicamente già impressa nel suo nome).

I pensieri vengono vissuti da Vincenzo come villeggianti nell’albergo della sua mente. Si sente succube di essi e il loro andare e venire in modo libero e promiscuo gli impediscono di avere punti fermi su cui basare le decisioni. Inoltre, si fa prendere a tal punto da essi che finisce anche per scriverli in sterminati file word, nell’intento di fissare un punto di vista e tendenzialmente non cambiarlo più, e lì per lì ci riesce, ma gli bastano pochi giorni per sentire di nuovo vacillare le proprie opinioni e cestinare i suoi lunghi file, per scriverne poi altrettanti.

Ubriacarsi e ubriacare di parole è la strategia che viene riproposta anche con il suo psicoterapeuta, che non a caso Malinconico soprannomina ironicamente Mr. Wolf, in riferimento al personaggio che risolve problemi del film ‘Pulp Fiction’. Malinconico infatti non vuole impegnarsi veramente nel percorso di terapia, vorrebbe che fosse il suo terapeuta a dare una soluzione preconfezionata ai suoi problemi, che tra l’altro è anche reticente ad esplorare. La seduta così si riempie di chiacchiere vaghe che hanno l’unico scopo di non entrare in contatto con la sua parte emotiva, fino ad arrivare a una vera e propria dichiarazione di contrarietà alle emozioni: Oh, ho detto, e basta! Ma chi credete di essere? Chi vi conosce? Delle vecchie bacucche scongelate, ecco cosa siete. Sempre lì a imbellettarvi, a riproporvi, a toccare dove non dovreste (…) E piantatela, una buona volta, di stare sempre a ingentilirci l’animo. Diteci qualcos’altro. Oppure lasciateci in pace. Che se non ci emozioniamo stiamo bene lo stesso.

Lo psicoterapeuta, esasperato dall’atteggiamento del suo paziente difensivamente logorroico, non può che suggerirgli l’interruzione della terapia, a tali condizioni ritenuta inutile. Malinconico accetta con silenzio colpevole, non avendo per una volta nulla da replicare, consapevole di aver fatto di tutto per suscitare la rottura terapeutica ma, allo stesso tempo, con la voglia di fare retromarcia, nel suo eterno ciclo di insicurezza e di non presa di responsabilità nelle decisioni.

Ma non tutto è perduto per Malinconico.  Un rimuginio notturno stavolta proficuo (scritto al solito in un file word apposito) lo porta a una consapevolezza importante, che il più grande ostacolo al cambiamento è la mancata accettazione della sofferenza che l’ha condotto in terapia (il dolore per la fine di una relazione), sofferenza che la vita inevitabilmente porta con sé quando decidiamo di viverla appieno e di lanciarci, accollandoci dei rischi che in fondo però vale la pena di correre.

Malinconico si dice infatti che la prospettiva del fallimento, la paura di non facerla o di farci male sono macigni psicologici che bloccano ogni iniziativa, facendoci rassegnare a una condizione in cui nulla ci reca dolore, perché in realtà nulla ci accade. Una zavorra da cui liberarsi quindi.

Ma le parole e i buoni propositi scritti non bastano. I detriti del passato sono ancora lì in agguato e Malinconico sente che non può farcela da solo, per cui decide di tornare in psicoterapia per far in modo che qualcosa torni ad accadere nella sua vita.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La depressione e i pensieri negativi e pessimisti circa se stessi e il proprio futuro

BIBLIOGRAFIA:

  • De Silva, D. (2011). Sono contrario alle emozioni. Einaudi, Torino.

Premio 2015: Racconta la tua tesi e vinci una borsa di studio

Sigmund Freud University Milano 

LOGO SFU MILANO 2015

in collaborazione con

 State of Mind

 Presentano:

 Premio 2015: Racconta la tua tesi

(Un progetto di divulgazione scientifica)

 

Racconta in un video di 90 secondi i contenuti chiave della la tua tesi di Laurea Triennale e vinci una borsa di studio per la Laurea Magistrale in Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University. 

 SCADENZA PER LE ISCRIZIONI: 25 Ottobre 2015

 

COME PARTECIPARE:

Possono partecipare tutti gli studenti in possesso di laurea in Psicologia conseguita negli anni 2014 e 2015 a seguito della frequenza di un Corso di Laurea Triennale Classe L – 24.

 

Formati e modalità di invio:

  • Durata massima del video: 90 secondi
  • Grandezza massima del file: 1 gigabyte
  • Formati ammessi: mp4, mpeg-4, mov, avi, wmv, flv
  • Invio: i file dei video devono essere inviati tramite il servizio gratuito wetransfer.com alla casella di posta  [email protected]
  • Riferimenti: all’interno del messaggio inserire sempre: NOME, COGNOME, DATA DI NASCITA, DATA DI DISCUSSIONE DELLA TESI, ATENEO, TITOLO DELLA TESI, NOME DEL RELATORE.

 

Valutazione dei lavori:

La giuria, composta dal Consiglio del Corso di Laurea Magistrale di Psicologia della Sigmund Freud University Milano, valuterà i video inviati e nominerà i vincitori.

Una selezione dei video inviati dai partecipanti al concorso sarà pubblicata su State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche.

 

Criteri di Valutazione:

  • Qualità del video.
  • Chiarezza dell’esposizione.
  • Scientificità della tesi di laurea.
  • Originalità.

I risultati del concorso saranno resi pubblici il 30 ottobre 2015 

 

PREMI:

Il primo classificato riceverà una borsa di studio per l’esonero totale dalla retta annua base* di ammissione al Corso di Laurea Magistrale in Psicologia.

Il Secondo classificato riceverà una borsa di studio per l’esonero dal 50% della retta annua base* di ammissione al Corso di Laurea Magistrale in Psicologia.

Il terzo classificato riceverà una borsa di studio per l’esonero dal 30% della retta annua base* di ammissione al Corso di Laurea Magistrale in Psicologia.

 

RINNOVO DELLE BORSE DI STUDIO PER IL SECONDO ANNO

La borsa ottenuta per l’a.a. 2015/2016 potrà essere confermata per il secondo anno di corso a condizione che lo studente al termine della sessione autunnale degli esami di profitto del primo anno sia in regola con gli esami previsti dal piano di studi e abbia conseguito una votazione media ponderata non inferiore a 27/30.

 

* Retta annua, composizione e calcolo

La retta annua si compone di una Base e di un Contributo dipendente dal reddito.

Per il Corso di Laurea Magistrale che inizia con l’anno accademico 2015/2016 e terminerà con l’anno accademico 2016/2017 la Base della retta annua è di Euro 5.400.

Il Contributo dipendente dal reddito è un contributo variabile da zero a un massimo di Euro 2.000 per gli studenti che presentano all’atto dell’iscrizione un attestato del proprio reddito famigliare (1) da cui risulti un reddito annuo inferiore a 70.000 Euro. Per tutti gli altri studenti il Contributo è di Euro 2.500.

Il Contributo dipendente dal reddito si determina come segue:

Reddito fino a €Euro 25.000:   zero

Reddito da Euro 25.001 a 40.000: Euro 1.200

Reddito da Euro 40.001 a 70.000: Euro 2.000

Reddito oltre Euro 70.001: Euro 2.500

 

Di conseguenza la retta annua del Corso Biennale (Master) varia da Euro 5.400 a Euro 7.900.

____________________

Note: (1) L’attestato di riferimento è il certificato ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) rilasciato da INPS secondo quanto riportato in   ISEE.pdf

 

Altri documenti o modalità di attestazione del reddito saranno sottoposti alla valutazione insindacabile della Direzione.

Il ruolo dell’ambiente e delle capacità di segmentazione del discorso nello sviluppo linguistico del bambino

La presente ricerca ha considerato come le caratteristiche dell’input verbale e la segmentazione del discorso da parte dei bambini si pongono in relazione e come possono congiuntamente predire le future abilità linguistiche dei bambini.

Come è noto la maggior parte dei bambini acquisisce il linguaggio in modo molto efficiente in un breve lasso di tempo che corrisponde all’incirca al primo anno di vita, tuttavia alcuni bambini non sono così abili e attualmente non si è ancora in grado di stabilire quali siano le capacità di apprendimento di ciascuno. In particolare coloro che si sono occupati di queste tematiche hanno sottolineato soprattutto la capacità dei bambini di segmentare il discorso in singole parole e l’effetto della quantità e della natura dell’input linguistico rivolto ai bambini sulle loro future abilità verbali.

In realtà solo pochi di questi studi hanno esaminato questi due aspetti contemporaneamente, ignorando quindi una loro possibile interazione che potrebbe influenzare le acquisizioni linguistiche dei bambini, infatti da un lato l’input ambientale facilita l’apprendimento che a sua volta migliora la capacità di processare le informazioni linguistiche, dall’altro il fallimento nella capacità di segmentare il discorso può essere alla base di un ritardo specifico nell’acquisizione linguistica.

La presente ricerca quindi ha considerato come le caratteristiche dell’input verbale e la segmentazione del discorso da parte dei bambini si pongono in relazione e come possono congiuntamente predire le future abilità linguistiche dei bambini. Per quanto concerne in particolare l’input linguistico lo studio ha considerato le caratteristiche lessicali, osservando come l’uso di un lessico ricco da parte delle madri sia generalmente importante, come la ripetizione delle parole abbia un effetto soprattutto nel primo anno di vita e come invece la diversità delle parole sia importante solo successivamente.

La ricerca ha preso in esame 121 diadi madre-bambino coinvolgendole in un progetto longitudinale della durata di due anni, infatti i bambini sono stati testati all’età di 7-15 mesi con un compito di segmentazione e poi all’età di due anni quando sono state valutate le loro capacità linguistiche. Durante il compito di segmentazione i bambini venivano fatti sedere sulle gambe delle loro madri all’interno di una cabina; all’inizio del trial compariva un segnale luminoso e non appena i bambini rivolgevano lo sguardo verso di esso iniziava l’input linguistico che continuava fino a quando il bambino distoglieva lo sguardo per almeno due secondi consecutivi dalla luce.

Il compito di segmentazione prevedeva una fase di familiarizzazione e una fase test, durante la prima i bambini ascoltavano due parole che venivano ripetute per 30 secondi ciascuna, durante la seconda invece venivano fatte ascoltare delle frasi che contenevano le due parole familiari e due parole nuove; successivamente il tempo di ascolto delle frasi con le parole familiari veniva confrontato con il tempo di ascolto delle frasi con le parole nuove. Alla fine del compito di segmentazione alle madri veniva chiesto di giocare con i loro bambini per 15 minuti.

I risultati hanno confermato le ipotesi di ricerca, mostrando in primo luogo che la capacità di segmentare il discorso a 7-15 mesi può prevedere le future abilità linguistiche dei bambini a due anni di età, in particolare i ricercatori hanno osservato che sono le parole nuove del compito di segmentazione e non quelle familiari a determinare delle capacità verbali migliori. Tuttavia il fatto che nello studio presente i bambini sembrano preferire la novità potrebbe essere attribuito alle caratteristiche stesse del compito di segmentazione che, a differenza di quelli che sono stati usati nelle ricerche precedenti, è più semplice perché tutti i bambini sono sottoposti allo stesso tipo di compito e ascoltano parole monosillabiche pronunciate sempre dalla stessa voce.

In secondo luogo si è osservato che le abilità linguistiche a due anni di età sono più elevate nel caso dei bambini le cui madri fornivano un input linguistico ricco, differenziato e che tendevano a ripetere le parole; questo dato ha permesso di confermare l’ipotesi secondo cui la quantità e la natura dell’input linguistico materno che i bambini ricevono a 7-15 mesi predicono le capacità verbali a due anni di età. Inoltre, sia l’ input materno che la capacità di segmentazione valutati a 7-15 mesi, predicono congiuntamente le abilità linguistiche a due anni di età anche se poi si caratterizzano per effetti indipendenti.

Infine non si sono osservati effetti significativi né del genere dei bambini né del tipo di educazione ricevuta. Quindi lo studio in questione, nonostante i limiti che lo caratterizzano come il fatto di aver considerato solo bambini che presentano uno sviluppo linguistico tipico, sottolinea il ruolo critico sia delle abilità dei bambini che quello dell’ambiente, suggerendo ai genitori, agli insegnanti e a tutti coloro che si occupano di educazione come massimizzare le capacità si sviluppo dei più piccoli.

 

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Bilinguismo: i Bambini imparano da Intonazione e Durata del Discorso

 

BIBLIOGRAFIA:

L’importanza dell’emisfero destro, la regressione in terapia & la Schema Therapy – Report dal Congresso Attaccamento e trauma 2015

L’intervento di Allan Schore è stato all’insegna di una rivincita dell’impulsivo emisfero destro rispetto all’analitico emisfero sinistro, sostenuta da una dettagliata disanima dei più recenti studi nell’ambito della neurobiologia interpersonale.

 

LEGGI I REPORT DELLA PRIMA GIORNATA E DELLA SECONDA GIORNATA 

Schore definisce l’emisfero destro come la sede di alcune tra le funzioni cognitive umane più raffinate: regolazione dello stress, intersoggettività, umorismo, empatia, compassione, moralità e creatività.
Al centro della competenza clinica e della pratica psicoterapeutica occorre pertanto collocare la capacità di potenziare l’elaborazione nell’emisfero destro, piuttosto che nel sinistro.

L’emisfero destro è sede dei processi creativi, primari, intuitivi, e analogici, che si trovano talvolta al di sotto del livello di coscienza, e considerando che i traumi relazionali precoci vengono impressi nel processo primario non verbale, è fondamentale che in terapia venga anche lasciato spazio a qualche “regressione controllata”, che permetta al materiale inconscio di esprimersi e di evocare preziosi insight.
Per regressione si intende una ripresa del contatto con gli stati precoci del corpo e del sé e con le prime forme di relazioni oggettuali; in terapia, paziente e terapeuta riattualizzano una relazione oggettuale patologica traumatica, una rappresentazione interattiva di un sé disregolato che interagisce con un oggetto non sintonizzato.

Nel paziente, la regressione a uno stato traumatico di arousal emotivo disregolante ha luogo nel cervello destro, poiché implica la riattualizzazione di una memoria implicita e procedurale dell’attaccamento precoce, e implica la comunicazione con l’originale oggetto di attaccamento.
Chiaro che la regressione in terapia deve essere adattiva e reciprocamente controllata, e non replicazione di un fallimento dei meccanismi inibitori corticali superiori, come spesso accade ad esempio ai pazienti con patologia bordeline.
A questo scopo, ci si aspetta che il cervello destro del terapeuta sia fonte di regolazione interattiva degli affetti disregolati del paziente.
A lungo termine e in ottica terapeutica, è importante sviluppare nei pazienti più fragili la capacità di regolare le proprie emozioni in maniera autonoma, implicita e automatica.

Grazie infatti agli enactment finalizzati alla riparazione e alla regolazione, il terapeuta può rafforzare il Sé integrato del paziente, il quale può poi inserire nella propria memoria autobiografica una nuova esperienza personale a cui accedere nelle situazioni pertinenti.
Il sistema di ampliamento della memoria autobiografica nel contesto terapeutico costituisce infatti il fondamento di una migliore competenza interpersonale, intesa come capacità di interagire e comunicare con gli altri, condividere il proprio punto di vista, comprendere le emozioni e opinioni altrui, collaborare con gli altri e risolvere i conflitti.

Eckhard Roediger ha presentato un modello di Schema Therapy interpersonale pensata per il trattamento delle difficoltà di coppia.
Si parte dall’assunto che la chimica degli schemi guida anche la scelta del partner, e che quindi ci ritroviamo spesso a sceglierci compagni che ci ricordano le prime persone significative di riferimento, con il rischio di riattivare nel rapporto adulto vecchi mode disadattavi.
L’intervento di schema therapy può essere effettuato sia con entrambi i partner che in sedute individuali, ma in quest’ultimo caso è comunque indispensabile ottenere l’appoggio del partner assente per il cambiamento, e occorre includerlo anche se solo tramite l’attività immaginativa.
Per la coppia è previsto anche un breve intervento di psicoeducazione su alcune tematiche rilevanti nei casi di difficoltà relazionali, ovvero gli stili di coping dominanti (resa come sottomissione, fuga come evitamento, attacco come dominanza o controllo), le quattro emozioni di base (Paura/Panico, Dolore, Disgusto/Irritazione e Rabbia) e i due sistemi sottostanti (attaccamento e assertività).

Alle coppie vengono inoltre assegnate le cosiddette “flashcards sul ciclo di mode” ossia delle griglie di automonitoraggio che ricordano un po’ gli ABC di matrice cognitivista, poiché i pazienti sono chiamati ad annotare le cause scatenanti degli episodi critici (A) la voce interiore (B) e la modalità di coping messa in atto (C) con in più un riferimento al bisogno di base trascurato e alla soluzione che metterebbe in pratica l’adulto sano.
Compatibile con l’impostazione cognitivista, anche l’assegnazione di una serie di compiti a casa, a metà strada tra la psicoterapia e il buon senso:

– Fermare gli scontri tra mode
– Compilare regolarmente le flashcards sul ciclo dei mode
– Allenare continuamente le abilità comunicative
– Dare feedback positivi al partner, almeno una volta al giorno
– Dedicare un pomeriggio alla coppia ogni settimana
– Prendere appuntamenti per attività congiunte
– Provare una riconnessione fisica
– Trascorrere periodicamente un week end libero da soli

A conclusione della mattinata Stephan Doering ha illustrato i principi fondamentali della psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP), approccio che vede nella relazione terapeutica la fonte più ricca di informazioni sul mondo interiore del paziente, in quanto il rapporto e gli affetti che ne emergono (le componenti del transfert e controtransfert) sono immediatamente osservabili e non inquinati dall’intellettualizzazione che può subire l’eventuale materiale storico rievocato in seduta.

In sintesi, il razionale della TFP prevede che:
– Le relazioni oggettuali precoci interiorizzate e scisse si riattivano all’interno della relazione di transfert tra paziente e terapeuta
– Il terapeuta osserva, identifica e dà un nome a questi pattern relazionali
– Si effettua un’interpretazione del transfert, tecnica base della TFP
– Il paziente riconosce le parti scisse del proprio sé, ne fa esperienza affettiva e ciò porta all’integrazione e al superamento della diffusione d’identità
– L’ integrazione dell’identità che ne consegue porta ad un miglioramento del funzionamento della personalità e ad una remissione dei sintomi.
Un approccio dall’impianto quindi fortemente analitico, ma sostenuto da studi clinici randomizzati che ne hanno dimostrato l’efficacia.

 

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Attaccamento e Trauma 2014

Attaccamento e Trauma 2015

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Schore A., I disturbi del sé. La disregolazione degli affetti. Astrolabio Ubaldini, 2010
  • Simeone-DiFrancesco C., Roediger E., Stevens B., Healing Relationships: Schema Therapy for Couples, Oxford. Wiley-Blackwell, 2014
  • Clarkin J.F., Yeomans F.E., Kernberg O.F., Psicoterapia delle personalità borderline, Raffello Cortina Editore, 2000

La strada verso casa: le relazioni fra sonno e memoria spaziale

Davide Di Vitantonio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il sonno REM in particolare avrebbe un ruolo determinante per la maturazione del sistema nervoso; infatti durante la fase REM si assiste ad un incremento dell’attività cerebrale.

Il sonno è definibile come uno stato comportamentale caratterizzato dalla sospensione temporanea dello stato di coscienza vigile. E’ un fenomeno biologico durante il quale si verifica la riduzione o la sospensione parziale del funzionamento dei centri nervosi con la conseguente diminuzione delle varie funzioni organiche: circolazione, respirazione, metabolismo e altre. Gli studiosi hanno evidenziato che il sonno non è uguale per tutta la sua durata ma è caratterizzato dalla presenza di due fasi principali: la fase Non-REM o sonno ortodosso, e la fase REM o sonno paradosso.

La fase non REM può essere suddivisa in quattro stadi, che segnano la progressiva discesa nel sonno profondo, caratterizzato da un abbassamento della temperatura corporea, un rallentamento del battito cardiaco e del respiro, il rilassamento della muscolatura e dalla comparsa di onde cerebrali (Theta, fusi del sonno e complessi K) più lunghe e meno rapide rispetto a quelle tipiche dello stato di veglia (Alfa e Beta). Lo stadio 4 è un sonno profondamente ristoratore ed è in questa fase che, secondo gli studi, il cervello libera gli ormoni della crescita. In questa fase è molto difficile svegliare una persona: è il momento, dell’interruzione dei collegamenti sensoriali con l’esterno.

La fase REM è definita sonno paradosso in quanto caratterizzata da eventi che denotano una situazione tutt’altro che tranquilla e rilassante, associabile all’idea canonica di riposo notturno. E’ in questa fase che le persone sognano. Il termine REM sta per Rapid Eye Moviment (movimenti rapidi degli occhi) ponendo l’attenzione sul fatto che in questa fase si assiste a bruschi movimenti degli occhi accompagnati da un aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria. Dalle rilevazioni riguardanti l’encefalogramma si rileva la comparsa di onde Delta, più “agitate” rispetto a quelle del sonno profondo, accompagnate da brevi apparizioni di onde Alfa e Beta, tipiche dello stato di veglia. In contrasto con l’aumentare dell’attività dei muscoli involontari (cuore e polmoni), i muscoli volontari vengono letteralmente paralizzati.

Quest’ultima fase descritta, la fase REM, è quella che al momento ci interessa di più per i seguenti motivi; nel corso della fase in questione, numerose ricerche hanno evidenziato come il sonno possa influenzare in senso sia positivo sia negativo i processi di memoria. Gli effetti positivi si rilevano soprattutto nelle ricerche che hanno mostrato un miglioramento del ricordo del materiale appreso se il soggetto dorme durante la fase di ritenzione, cioè tra la fine dell’apprendimento e il momento del controllo (sleep effect), oppure in quelle che hanno mostrato un’incapacità di ricordare il materiale appreso immediatamente dopo il risveglio (prior sleep effect), dopo un periodo di deprivazione di sonno (Jenkins & Dallenbach, 1924;; Ekstrand et al., 1977; Hockey et al., 1972).

Il sonno REM in particolare avrebbe un ruolo determinante per la maturazione del sistema nervoso; infatti durante la fase REM si assiste ad un incremento dell’attività cerebrale. In studi sperimentali uomini sottoposti a sessioni intensive di apprendimento presentavano un aumento significativo del sonno REM, espressione del processo di fissazione dei dati appresi. Dunque, come accennato sopra, le cavie sottoposte ad ipossia sviluppano deficit irreversibili di apprendimento, ivi compreso l’apprendimento visuospaziale.

Per quanto riguarda nello specifico la fase REM, o sonno paradosso, verrebbe naturale chiedersi perché si sogni: precedentemente si è esposto come gli studiosi ritengano che questa fase del sonno, svolga un ruolo primario nella maturazione del sistema nervoso centrale, ed in particolare, si è enfatizzato come la consolidazione delle tracce mnestiche, sembri attuarsi proprio in questa fase. In particolare, uno studio affascinante ha evidenziato che nei ratti, cellule ippocampali che mostrano attività quando l’animale si trova in una determinata posizione all’interno di un percorso (place-cells), si riattivano selettivamente durante il sonno seguente l’apprendimento, plausibilmente partecipando al processo di memorizzazione; ne segue, che disturbando selettivamente il sonno in un gruppo di animali dopo un periodo di apprendimento visuo-spaziale, (attraverso la metodologia del “Morris Water-Maze) ci si dovrebbe aspettare un livello di memorizzazione seguente al sonno nettamente inferiore se paragonato ad un gruppo di cavie di controllo; ma la ricerca in questione non si fermerebbe certo qui.

Diversi lavori, (Magnusson., Scruggs., et al. 2003- Gallagher., Burwell., et al. 1993) hanno mostrato un calo significativo di prestazione al test del Morris Water-Maze correlato con l’età delle cavie. In breve, cavie più anziane mostravano un livello di apprendimento significativamente inferiore rispetto alle cavie più giovani : è risaputo inoltre, che il declino cognitivo associato all’invecchiamento negli umani mostri in primo luogo dei deficit relativi proprio al processo di memorizzazione. E’ possibile concludere evidenziando come uno degli effetti comportamentali dell’invecchiamento risieda proprio nelle alterazioni del sonno, che come gli esperimenti dimostrano chiaramente, inficia direttamente le capacità di orientamento visuo-spaziale mettendo a rischio l’anziano nelle più semplici attività quotidiane.

 

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Il sonno protegge il nostro cervello – Neuropsicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

Motivazione e soddisfazione lavorativa: l’importanza di questi fattori secondo la visione di Herzberg

Dalle ricerche di Herzberg emerge che vi sono due tipi di fattori che incidono sulla soddisfazione e sull’insoddisfazione lavorativa: i fattori igienici e i fattori motivanti.

 

Cosa si intende con il termine “Motivazione”?

Sono molti gli autori che tempi addietro hanno analizzato questo costrutto, elaborando una serie di valide teorie a proposito.
Una definizione completa e condivisa in letteratura di “Motivazione” è la seguente: “Forza motrice che porta un individuo a comportarsi in un determinato modo al fine di raggiungere uno scopo” (Westen, 2002).

Il concetto di motivazione è stato sovente esteso al mondo del lavoro.
Tutti i comportamenti umani sono determinati da un perché, da un motivo.
E ovviamente anche le attività lavorative intraprese dall’individuo hanno uno scopo ben preciso.
Bisogna però tener presente che la motivazione al lavoro non è rappresentata (come molti credono) esclusivamente dalla remunerazione economica; perché infatti anche il collaborare verso il raggiungimento di un risultato professionale, il sentirsi parte di un gruppo, ricevere le giuste gratificazioni sono degli obiettivi lavorativi.
Non bisogna dimenticare poi che la motivazione diviene fondamentale affinché i lavoratori diano il meglio di sé nello svolgimento delle proprie mansioni, perché solo i soggetti che credono in quel che fanno, che perseguono il proprio obiettivo con lo spirito giusto, saranno quelli che forniranno performance lavorative migliori.

Ed è proprio per questa ragione che risulta essere fondamentale che i lavoratori siano motivati nei confronti della propria professione, affinché sia garantito lo sviluppo costante e lineare dell’organizzazione in cui sono coinvolti i lavoratori stessi.
L’esponente più importante che ha analizzato il concetto di “Motivazione” è sicuramente Abraham Maslow (cit. in Westen, 2002), il quale colloca i bisogni umani in una gerarchia piramidale, i cui gradini sono i seguenti:
– bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza immediata;
– bisogni di sicurezza fisica ed emotiva;
– bisogni di affiliazione, amore e appartenenza;
– bisogni di stima di sé;
– bisogni di autorealizzazione.

Secondo questa teoria nel momento in cui un bisogno viene soddisfatto non è più motivante, piuttosto l’individuo tenderà a perseguire un obiettivo collocato su un gradino più alto della gerarchia. Inoltre nessun bisogno potrà mai essere motivante se non viene prima soddisfatto un bisogno di ordine inferiore ad esso.

La teoria di Maslow ha avuto un gran peso applicata ai contesti lavorativi, ma il contributo che offre è insufficiente a stabilire linee guida e strategie utili a soddisfare intere organizzazioni. Questo per vari motivi: ogni individuo percepisce e soddisfa i propri bisogni in modo differente; l’intensità con cui i bisogni si manifestano varia da individuo a individuo; non va poi tralasciato il fatto che ciascun bisogno subisce rilevanti influssi culturali (Tancredi, 2008).

Un’importante teoria motivazionale che prende come riferimento la “Gerarchia dei Bisogni” di Maslow e che ha trovato maggiore applicazione in ambito organizzativo è la teoria “motivazione-igiene” di Herzberg (cit. in Tancredi, 2008).
Secondo questo autore il compito dell’organizzazione è quello di stimolare, individuare e rendere operanti i fattori motivazionali positivi dell’individuo attraverso il lavoro stesso.
Egli ha condotto una serie di studi nel 1959 e, ricollegandosi alla teoria elaborata da Maslow, indagò il modo in cui si sviluppano i bisogni di stima e di autorealizzazione del lavoratore.

Dalle sue ricerche emerge che vi sono due tipi di fattori che incidono sulla soddisfazione e sull’insoddisfazione lavorativa: i fattori igienici e i fattori motivanti.
I fattori igienici si collegano al contesto ambientale del lavoro e alla sua retribuzione. Esempi di essi potrebbero essere lo stipendio, le relazioni interpersonali con pari e superiori, l’ambiente fisico di lavoro, le condizioni di sicurezza, le procedure di impresa. Per l’autore questi fattori non sono direttamente motivanti, ma se non sono presenti inducono una certa insoddisfazione. Sicuramente si tratta di elementi indispensabili al fine di ridurre il malcontento lavorativo, ma per poter ottenere una motivazione durevole nei confronti del proprio lavoro è opportuno che siano presenti i cosiddetti fattori motivanti, ossia il raggiungimento di risultati significativi, il riconoscimento dei risultati raggiunti, il livello di responsabilità, le possibilità di avanzamento professionale. Fattori insomma relativi al soddisfacimento di bisogni di livello superiore.

La distinzione tra questi due fattori sta nel fatto che i fattori igienici sono inerenti al “contesto” lavorativo, mentre i fattori motivanti riguardano i “contenuti” del lavoro in sé.
La teoria di Herzberg è infatti nota come “Teoria del fattori duali”, e sfida l’erronea convinzione che se una persona risulta insoddisfatta di qualche aspetto del proprio lavoro, come ad esempio potrebbe essere la retribuzione economica, bisogna far sì che tale aspetto venga modificato per accrescere la motivazione.
Ma non è esattamente così, in quanto insoddisfazione lavorativa non equivale a scarsa motivazione, così come una diminuzione di insoddisfazione non si tradurrà nella comparsa di soddisfazione che indurrà i lavoratori ad operare con il giusto stimolo.
Per ottenere una soddisfazione positiva sarebbe opportuno che si agisca non sui fattori igienici, ma sui fattori motivanti e quindi relativi al contenuto del proprio lavoro (Ostinelli, 2005).

Herzberg asserisce che soddisfazione e insoddisfazione lavorativa non sono due valori positivi e negativi, l’uno l’opposto dell’altro, bensì due dimensioni distinte che si muovono su due piani paralleli.
Qualora siano assenti i fattori igienici sarà sicuramente presente un certo malcontento, ma se sono presenti riducono il livello di insoddisfazione senza accrescere la motivazione.

I fattori motivanti migliorano invece effettivamente la prestazione, modificando la natura stessa del lavoro, rendendolo più stimolante e gratificante. Riguardano infatti quegli elementi relativi al soddisfacimento di bisogni superiori e di conseguenza portano ad una maggiore produttività.
L’assenza di questi fattori non determina insoddisfazione, ma non consente nemmeno di fare quel cosiddetto “passo in più”, di avere la giusta motivazione.

Questa teoria è al giorno d’oggi molto attuale, e sarebbe per cui opportuno che le organizzazioni, per stimolare la giusta motivazione professionale dei lavoratori, si adoperino nel conseguire le seguenti condizioni organizzative (Tancredi, 2008):
1. Continuo aggiornamento legato ai contenuti dei lavori di ciascuno;
2. Allargamento dell’area di responsabilità individuale;
3. Aumento delle capacità di assumersi i rischi delle proprie mansioni;
4. Creazione di un clima volto a conseguire una reale crescita psicologica al di là dei legami con i colleghi e con l’organizzazione.

Concludendo si può quindi asserire che “non insoddisfazione”, e quindi lavoro senza evidenti malcontenti, non equivale a lavoro “stimolante”, motivante, in grado di dare quella spinta in più nel raggiungere gli obiettivi preposti con lo stimolo giusto.

Herzberg sostiene che le persone possono essere classificate secondo due atteggiamenti: “ricercatori di motivazione”, alla ricerca di soddisfazione intrinseca al lavoro, e “ricercatori di igiene”, alla ricerca di benessere economico, ambiente fisico confortevole, tranquilla collaborazione tra colleghi.
Ricollegandosi per cui alla teoria di Maslow, solo la prima categoria di individui è avviata verso una piena maturazione psicologica che porterà poi alla giusta autorealizzazione professionale.
Ed il lavoratore che si sente effettivamente realizzato sarà al contempo anche colui maggiormente soddisfatto e disposto a dare sempre il meglio di sé nello svolgimento dei propri compiti, favorendo in questo modo anche l’organizzazione nella quale si trova ad operare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bonazzi G. (2008), “Storia del pensiero organizzativo”, Milano: Franco Angeli.
  • Decastri M., Tomasi D., Hinna A. (2004), “Motivazione Organizzazione d’azienda – Materiali di studio”, Roma: Aracne.
  • Hackman J R., Oldham G. R. (1976), “Motivation through the Design of Work: Test of a Theory”, Organizational Behavior and Human Performance, N. 16, pp 250 – 279.
  • Ostinelli G. (2005), “Motivazione e comportamento: le variabili psicologiche necessarie per raggiungere obiettivi”, Trento: Erickson.
  • Tancredi A. (2008), “La Motivazione al lavoro”, Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, Materiale didattico.  DOWNLOAD
  • Westen D. (2002), “Psicologia. La storia , i metodi, i meccanismi fisiologici e cognitivi del comportamento”, Volume 1, Bologna: Zanichelli.

Depressione: quando la causa è anche la cura!

Se da un lato è molto sano e utile prendersi cura di sé e agire quando si ha la necessità di chiedere un aiuto, anche farmacologico, dall’altro il farmaco potrebbe essere utilizzato come una forma di evitamento, per non concederci di toccare stati emotivi intensi e negativi che abbiamo paura di non saper gestire e tollerare.

Attualmente la depressione interessa 350 milioni di persone e causa 850mila morti ogni anno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ipotizza che nel 2020 arriverà a essere la seconda causa di disabilità lavorativa, subito dopo le malattie cardiovascolari, con pesanti ricadute a livello sociale e ovviamente individuale. Inoltre, negli anni più recenti l’età di insorgenza dei disturbi depressivi si è estesa a macchia d’olio, allargando l’hot spot dei 20/40 anni e includendo manifestazioni precoci (adolescenza compresa) e tardive (pensionamento compreso). Mentre tra i fattori di rischio rientra praticamente ogni aspetto della vita delle persone, dalla vulnerabilità genetica al contesto sociale, dalle relazioni affettive alle condizioni lavorative, recentemente uno studio americano ha ipotizzato e testato un particolare esame dei valori ematici che consentirebbe la diagnosi precoce di Disturbo Depressivo Maggiore (Bilello et al., 2015).

I disturbi depressivi sono caratterizzati da una serie di sintomi che vanno a creare un quadro di “mancanze” (dell’interesse, dell’energia, del piacere), affiancato da un tono dell’umore abbassato e da pensieri orientati in senso negativo e incentrati sulla colpa e sulla responsabilità. In base alla gravità dell’episodio depressivo, possono presentarsi pensieri di morte o ideazione suicidaria, mentre sono più frequenti alterazioni del sonno, dell’alimentazione e dell’attività psicomotoria.

I farmaci preposti alla terapia di questo tipo di disturbi sono gli antidepressivi, che comprendono diversi tipi di molecole. Sicuramente, l’introduzione degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), più tollerabili dei vecchi triciclici, ha contribuito a un rapido aumento nell’assunzione di antidepressivi.

La cosa interessante è che, secondo uno studio condotto a Baltimora nel 2015 su più di mille soggetti seguiti per oltre 30 anni (Takayanagi et al.), il 69% delle persone che assumevano antidepressivi non soddisfaceva i criteri clinici sufficienti per ricevere una diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore. In altre parole, sul totale di persone che stavano assumendo antidepressivi al momento dell’indagine, più della metà non aveva mai ricevuto una diagnosi pertinente alla terapia nel corso della vita. Consapevoli che spesso gli antidepressivi, soprattutto gli SSRI, vengono prescritti anche per altri tipi di patologia, gli autori hanno approfondito la presenza di altre diagnosi psichiatriche nel campione che assumeva SSRI, concludendo che il 38% di queste persone non solo non era clinicamente depressa, ma non aveva nessuna altra diagnosi psichiatrica. Ci mettiamo in più che dal 1998 al 2008 l’utilizzo di antidepressivi è aumentato del 400% e che al momento attuale l’11% della popolazione americana assume regolarmente questi farmaci.

Uscendo da un’ottica utilitaristica (che valuterebbe il grande costo sociale ed economico dell’utilizzo improprio di questi farmaci), è sufficiente ricordare che un uso prolungato di antidepressivi espone la persona a effetti collaterali con ricadute importanti sullo stato di salute e sul benessere generale.

Se questo è il dato, possiamo fare alcune ipotesi sul motivo per cui una percentuale così importante di persone assuma farmaci senza che la sintomatologia sia abbastanza accentuata da soddisfare una diagnosi coerente. Sarebbe come farsi ricoverare per un mal di testa o mettere i punti di sutura per un taglietto. Ovviamente le interpretazioni sono tutte possibili, volendone abbozzare alcune probabilmente il fronte è duplice, e come al solito comprende l’individualità e la percezione del singolo da una parte e le richieste o pressioni della società dall’altra. È innegabile che oggi ci sia davvero poca tolleranza per la sofferenza, la propria e quella altrui. Il contesto sociale spinge perché tutto sia sempre al massimo, sia in contesti lavorativi dove il profitto non è mai abbastanza, che in contesti sociali, dove si deve essere sempre impegnati ai massimi livelli.

La sensazione è che facciamo sempre più fatica a “stare”, a considerare i momenti di difficoltà emotiva come fasi di passaggio e a tollerare di non essere completamente in controllo del nostro stato psicologico. In questo senso, se da un lato è molto sano e utile prendersi cura di sé e agire quando si ha la necessità di chiedere un aiuto, anche farmacologico, dall’altro il farmaco potrebbe essere utilizzato come una forma di evitamento, per non concederci di toccare stati emotivi intensi e negativi che abbiamo paura di non saper gestire e tollerare. In quest’ultimo caso, come per tutti i comportamenti (o i non-comportamenti) di evitamento, il rischio è che tamponando all’origine una difficoltà, e non consentendo a noi stessi di gestirla e di valutare attraverso l’esperienza che a volte la tristezza è solo tristezza, non impariamo le strategie utili per l’autoregolazione e corriamo ai ripari senza che ci sia un effettivo danno. La stessa dinamica si riscontra spesso in pazienti che hanno sofferto di depressione e ne sono usciti, oppure in persone che hanno affiancato pazienti depressi nel corso della vita: spesso si sviluppa in questi casi una sorta di fobia per gli stati interni dolorosi, che vengono quindi evitati e soffocati con la copertina di linus dei serotoninergici.

Nell’estremo rispetto per ogni situazione individuale, e non dimenticando che in una buona percentuale l’assunzione di psicofarmaci è consigliabile e utile per un miglioramento significativo della salute psicofisica, dobbiamo ricordare che l’esplorazione è utile anche per le cose dolorose: spesso avere il coraggio di entrare in qualcosa di spaventoso è l’unica cosa che fa passare la paura, mostrandoci che spesso abbiamo molte più risorse di quelle che crediamo di avere. In più, mentre il farmaco rimane qualcosa di esterno che viene introdotto nell’organismo, concederci di sviluppare risorse maggiori è qualcosa che rimane dentro di noi e ci consente anche di modificare la nostra definizione di noi stessi e di sentirci più efficaci nel lungo termine. A volte ci vuole coraggio per lasciarci sorprendere dalle nostre stesse capacità.

 

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Il fenomeno del closing-in nei pazienti affetti da lesione cerebrale focale

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Il fenomeno del closing-in nei pazienti affetti da lesione cerebrale focale

Autore: Maria Antignano (Seconda Università degli Studi di Napoli)

Abstract

Il closing-in è un fenomeno che si manifesta nei compiti visuo-costruttivi e di imitazione, e consiste nella tendenza del paziente a realizzare la copia di uno stimolo in prossimità del modello, o in sovrapposizione ad esso. Tale comportamento è frequentemente osservato nella demenza di Alzheimer, di cui rappresenta un marker neuropsicologico (Gainotti et al., 1992). Sono state formulate due principali interpretazioni del fenomeno: l’ipotesi della compensazione, che lo riconduce a deficit visuo-spaziali, e l’ipotesi della attrazione, che ne sostiene la natura frontale/esecutiva. L’obiettivo del presente studio è investigare le basi cognitive del closing-in nei pazienti con danno cerebrale focale. Il ruolo dei deficit esecutivi e dei deficit visuo-spaziali è stato investigato in un campione di 30 pazienti affetti da lesione cerebrale focale, di cui 15 con lesione emisferica destra e 15 con lesione emisferica sinistra. I risultati rilevano la scarsa incidenza del closing-in nel campione considerato, e la sua mancata correlazione con prestazioni significativamente deficitarie ai test sensibili alle abilità visuo-spaziali e frontali/esecutive. Tuttavia, è stato riscontrato un effetto del doppio compito sul comportamento di avvicinamento al modello, che fornisce supporto all’ipotesi dell’attrazione e alla natura frontale/esecutiva del fenomeno.

Abstract (English)

Closing-in behaviour appears in visuo-constructive and imitation tasks; it is patient’s tendency to realize the copy of a figure close to the model, or overlapping it. This phenomenon is usually observed in Alzheimer Disease, and is considered a neuropsychological marker of it (Gainotti et al., 1992). In literature, we find two main interpretations of closing-in: compensation hypothesis, that attributes it to visuo-spatial deficiency, and attraction hypothesis, that sustains the frontal/executive nature of closing-in. Purpose of this experimental study is investigating the cognitive basis of closing-in in patients with focal brain damage. The role of executive and visuo-spatial deficiencies was investigated in 30 patients with focal brain damage, 15 with right and 15 with left hemispheric damage. Results reveal a poor presence of closing-in in the sample, and no correlation of it with demaged performances in visuo-spatial nor frontal/executive tasks. Anyway, a double-task effect has been observed: this result supports the attraction hypothesis and the frontal/executive nature of closing-in behaviour.

Key words: closing-in, lesione cerebrale focale, deficit visuo-spaziale, deficit frontale-esecutivo, doppio compito

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

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