Marco Innamorati aggiunge la sua versione di Jung a quella storica di Mario Trevi, e regala alla saggistica psicologica italiana un testo che racconta in maniera esaustiva e appagante la posizione eccentrica e inquieta di Jung, il suo strano destino prima di predicatore di una psicologia che fosse empiricamente fondata e poi di profeta di una psicologia analitica che getta le sue radici nell’occulto.
Il libro “Jung” di Innamorati (2013) è illuminante proprio nelle sue incertezze, che sono le incertezze di Jung: il suo continuo riscrivere i suoi stessi sacri testi giungendo a cambiar loro titolo e natura. Non riusciamo a immaginare Freud che riscrive per una vita l’ “Interpretazione Dei Sogni” cambiando anche il titolo. Jung inflisse questa tortura a molti dei suoi libri. Nemmeno possiamo immaginare Freud che lascia uno spunto immaturo e non lo coltiva. E anche questo fece Jung. E nemmeno è concepibile un Freud che dopo aver consumato il parricidio (nel suo caso, di Breuer) si ritira in una posizione eccentrica, non nascosta ma nemmeno centrale. E questo fece Jung.
Jung è una figura contradittoria, in una maniera ora feconda e ora autolesionistica. E nel descrivere queste contraddizioni non sempre fertili Innamorati trova delle metafore felici. Come quella in cui paragona il lavoro di Jung a un edificio sviluppatosi solo in orizzontale, un’estesa superficie abitata e molteplice nella quale convivono troppe potenzialità, troppe possibilità mancate di sviluppo verso l’alto.
Jung però aveva dalla sua anche un’elevata capacità critica verso se stesso, qualità abbastanza rara nei teorici della psicologia. Innamorati racconta bene come il momento del distacco di Jung da Freud si ebbe nel momento in cui Jung, al Congresso di Psicoanalisi di Monaco del 1913, ebbe l’ardire di presentare la teoria di Adler -già espulsa dalla psicoanalisi- come altrettanto legittima e credibile rispetto alla versione ortodossa di Freud.
Inoltre, spiega sempre Innamorati, nella Psicologia dei processi inconsci Jung dimostra come un medesimo caso clinico possa essere interpretato in maniera convincente sia dal punto di vista adleriano che freudiano. Le stesse azioni possono essere lette sia partendo dal presupposto freudiano della sessualità inconscia rimossa, sia dalla convinzione adleriana e prima ancora nietzschiana della volontà di potenza.
Nel discutere i concetti base della psicologia junghiana Innamorati si dimostra particolarmente preciso. Egli ricostruisce lo sviluppo dei vari concetti –il sé, l’animus, l’anima, l’ombra, l’archetipo, l’inconscio collettivo, la sincronicità- nel labirinto dei vari testi, districandosi tra le varie versioni disponibili, operazione resa ancor più laboriosa dall’assenza di un’edizione critica. Innamorati tenta in tutti i modi e spesso con successo di opporsi alla visione –tipica della psicoanalisi classica freudiana- di Jung come un bizzarro esoterista antiscientifico e reazionario. Innamorati riesce spesso a mostrarci come nell’opera di Jung si trovino le radici di una psicoterapia laica e di una possibilità di dialogo interculturale e ci insegna che Jung ha il merito di aver superato quello che si potrebbe definire l’etnocentrismo di Freud, la tendenza a costruire una teoria sulla natura umana sulla base di un’esperienza clinica estremamente caratterizzata nel tempo e nello spazio: la Vienna di fine Ottocento.
La terapia di Jung diventa più costruttivista e meno adattiva di quella di Freud. L’analisi per Jung ha senso in quanto è in grado di accompagnare l’essere umano nel cammino che Jung chiama il processo di individuazione, ovvero il processo attraverso il quale si costruisce se stessi e si compie dopo la fase di adattamento alla realtà, fase freudiana che caratterizza la prima parte dell’esistenza. Per fare questo è necessario fare un buon uso dell’inconscio, dell’ombra e dei fantasmi. Qui è la distanza massima di Jung dall’illuminismo freudiano, nel quale non è possibile nessun buon uso dei fantasmi e tantomeno dell’inconscio.
Tuttavia, proprio questa capacità di Jung di non temere l’inconscio, di non pretendere la completa eliminazione dell’es a favore dell’io porta in sé il germe anche della fascinazione junghiana per l’occulto, il magico, l’esoterico. Fascinazione che prende anche il lettore e che ha preso per (brevi) tratti lo stesso Innamorati, che è un illuminista però curioso e aperto al fascino oscuro delle tenebre. Fatto sta, tuttavia, che c’è un limite che è difficilmente valicabile se si vuole rimanere nel campo scientifico e, man mano che il libro procede, monta il sospetto che Jung abbia più o meno copertamente valicato quel limite. Innamorati si scontra sempre più spesso con gli scogli sottomarini dell’occultismo junghiano, a partire dall’analisi del Libro Rosso per finire con il saggio su la Sincronicità e passando per la passione alchemica del Mysterium coniunctionis. La sensazione di Innamorati è che Jung non ci abbia detto tutto e che alla fine della sua vita sia entrato definitivamente nella mentalità dell’adepto e dell’iniziato, nascondendo a noi le sue intime convinzioni e mantenendo la scienza solo come abito da cerimonia da indossare in pubblico.