expand_lessAPRI WIDGET

Il neurone: l’anatomia e i diversi tipi della cellula nervosa – Introduzione alla psicologia

Il neurone è una cellula del sistema nervoso centrale e costituisce la più piccola unità funzionale. Esso consente la messa in atto di una serie di funzioni cognitive e comportamentali, come pensare, camminare, parlare, etc. Chiaramente, tutto questo è possibile nel momento in cui il neurone funziona unitamente ad altri neuroni facenti parte della stessa regione cerebrale.

 Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il neurone è l’unità cellulare  di base che caratterizza il tessuto nervoso, e grazie alle sue caratteristiche fisiologiche e chimiche permette di ricevere, integrare e trasmettere impulsi nervosi, nonché di produrre sostanze denominate neurotrasmettitori.

 

Neuroscienze: L’anatomia del neurone

Il neurone è costituito da una parte centrale chiamata soma, che a sua volta è formata  dal pirenoforo, sede del nucleo, e dagli altri organelli deputati alle principali funzioni cellulari: apparato di Golgi, neurofilamenti, neurotubuli, granuli di pigmento, sostanza tigroide, mitocondri, nucleo, reticolo endoplasmatico liscio e rugoso.

Dal corpo cellulare nascono due prolungamenti citoplasmatici chiamati neuriti, che prendono il nome di dendriti, e l’assone. I dendriti consentono la ricezione dei segnali elettrici da parte dei neuroni confinanti o afferenti e sono in grado di trasmettere tale segnale in direzione centripeta, ovvero verso il pirenoforo.

L’assone, invece, propaga il segnale nervoso in direzione centrifuga, verso altre cellule. Esso riesce a condurre il segnale nervoso grazie alla presenza sulla superficie di una membrana che prende il nome di mielina. La parte finale dell’assone si chiama bottone sinaptico e si collega con i dendriti o il corpo cellulare di altri neuroni affinché l’impulso nervoso si propaghi con una reazione detta a catena, ovvero saltare da una cellula all’altra fino a raggiungere il bersaglio.

Gli assoni delle cellule del sistema nervoso sono ricoperti da due membrane protettive, che proteggono l’assone impedendo la dispersione degli impulsi elettrici. La membrana più esterna prende il nome di neurolemma o guaina di Schwann, quella più interna di guaina mielinica. Lungo il neurolemma sono presenti delle interruzioni, in corrispondenza delle quali la guaina mielinica termina e sono definite nodi di Ranvier (in questo punto in cui non si trova la mielina si ha una piccola dispersione di carica).

 

I diversi tipi di neuroni

I neuroni possono essere classificati in base al numero e alle ramificazione dei prolungamenti, ottenendo in questo modo:

  • Neuroni unipolari, presentano un solo assone e il pirenoforo ha valore di sito recettore.
  • Neuroni bipolari, hanno un assone e un solo dendrite che si articola agli antipodi del soma.
  • Neuroni multipolari, mostrano un assone e molteplici dendriti.

Inoltre, è possibile classificare i neuroni in base all’aspetto presentato:

  • piramidale, i cui dendriti alla base si distribuiscono in senso orizzontale, mentre il dendrite apicale si sviluppa in altezza. L’assone si estende nelle zone corticali della corteccia.
  • stellato, definite anche granuli, in cui i dendriti si ramificano nelle immediate vicinanze del soma e l’assone comunica con le cellule adiacenti.
  • fusiforme, aventi alle estremità due terminazioni dendritiche e l’assone si dirige verso strati più superficiali.

Ogni neurone è imputato allo svolgimento di una serie di funzioni, per questo è anche possibile distinguerli in:

  • Neuroni sensitivi o afferenti,  ricevono stimoli e trasportano l’informazione dagli organi sensoriali al sistema nervoso centrale.
  • Interneuroni o neuroni intercalari, integrano i dati forniti dai neuroni sensoriali e li trasmettono ai neuroni motori.

Neuroni motori o efferenti motoneuroni,  diffondono impulsi di tipo motorio agli organi della periferia corporea. A loro volta si dividono in neuroni somatomotori, i cui assoni formano fibre chiamate efferenti che innervano la muscolatura striata volontaria dell’organismo. Si differenziano ulteriormente in motoneuroni α , ossia responsabili dell’effettiva contrazione delle fibre muscolari striate, e motoneuroni γ , che innervano gli organi sensoriali propriocettivi detti fusi neuromuscolari intercalati nella stessa struttura muscolare.  I visceroeffettori, invece, danno origine a fibre dette pregangliari, che si collegano sempre a un secondo neurone localizzato in un ganglio simpatico o parasimpatico, da cui origina la fibra postgangliare. Tali neuroni agiscono nell’ambito delle risposte involontarie o viscerali.

I neuroni si classificano anche in base al tipo di neurotrasmettitore e si hanno i neuroni:

  • colinergici, che usano l’acetilcolina
  • monoaminergici che utilizzano come neurotrasmettitore la serotonina e le catecolamine.
  • aminoacidergiciche utilizzano il  GABA con funzione inibitoria e i neuroni glutammatergici con funzione eccitatoria.

 

Comunicazione tra neuroni

I neuroni comunicano tra loro tramite i collegamenti intercellulari definiti sinapsi. La comunicazione sinaptica avviene attraverso sostanze chimiche dette neurotrasmettitori, che stimolano, tramite il passaggio dell’impulso nervoso, la cellula successiva.

L’impulso nervoso o potenziale d’azione, si propaga lungo la fibra nervosa e determina delle modificazioni sia chimiche sia elettriche.

I neuroni sono polarizzati, poiché presentano fuori dalla membrana cellulare una carica elettrica diversa da quella presente all’interno. La differenza di carica è determinata dagli ioni sodio e potassio presenti in percentuali diversi all’interno e all’esterno del neurone e permettono, grazie all’ausilio di una pompa detta sodio-potassio, di trasmettere l’informazione dall’interno all’esterno.

Il potenziale d’azione, dunque, si verifica nel momento in cui si ha il passaggio dell’informazione da una cellula all’altra. Quando il potenziale d’azione raggiunge la sinapsi le vescicole presenti sulla sua superficie liberano un neurotrasmettitore che si diffonde rapidamente tramite la fibra postsinaptica e si lega ad alcune molecole specifiche della sua membrana post sinaptica della cellula recettrice. La reazione con il neurotrasmettitore altera la permeabilità della membrana della fibra postsinaptica, dando origine ad un potenziale d’azione che consentirà la propagazione ulteriore dell’impulso nervoso.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicologia della moda e fashion therapy: cosa si nasconde dietro la scelta degli abiti

Psicologia della moda: Il presente articolo vuole essere una riflessione sul significato psicologico individuale, sociale dell’abbigliamento. Molto spesso ciò che si cela dietro l’abbigliamento, nelle sue forme e colori, rivela aspetti della personalità e del rapporto con gli altri, molto prima di qualsiasi altra forma di espressione; i vestiti “parlano” di noi al nostro posto.

Anna Colleluori

 

La psicologia della moda: l’espressione di sè attraverso gli abiti

La psicologia della moda studia il rapporto versatile e poliedrico che ognuno di noi ha con gli abiti e gli accessori, riconducendo questa varietà ad alcuni processi sociali e cognitivi che mettono in relazione gli individui con l’ambiente, mostrandone gli obiettivi, l’identità, le motivazioni, l’influenza sociale, la conoscenza e la comunicazione (Pizza, 2010). Abiti e accessori dialogano di noi con gli altri, sono come una seconda pelle, un io-pelle (pelle mentale) che contiene tutte le nostre parti buone, un’interfaccia con gli altri e una barriera di difesa (Pizza, 2010).

Secondo la psicologia della moda i vari sé sono il frutto degli aspetti di noi che sviluppiamo nelle diverse situazioni di vita, nei diversi ruoli sociali che ricopriamo, nelle diverse relazioni interpersonali che ci interessano. Per ricomporre questa complessità in un insieme coerente si può considerare l’abbigliamento come un mezzo per dare espressione dei vari sé, e quindi il guardaroba può darci un grande aiuto come contenitore e ordinatore. Si può affermare che l’armadio ci permette di costruire un quadro d’insieme e di salvaguardare la coerenza nella conoscenza di noi stessi. Inoltre, abiti e accessori possono essere considerati come un’estensione del sé che ci permette di portare all’esterno ciò che sentiamo dentro, e anche di comunicare alcuni aspetti e coprirne altri, manipolando la nostra immagine per avvicinarla al nostro ideale.

Secondo la psicologia della moda gli abiti sono un manifesto che contiene le iscrizioni della nostra identità e parlano per noi. Flaccus (1906) ha dato un valido contributo alla psicologia dell’abbigliamento in merito all’estensione di sé affermando che “Quando portiamo un corpo estraneo in contatto con la superficie del nostro corpo (questo fenomeno non è limitato solo al tatto) la consapevolezza della nostra esistenza personale si prolunga nell’estremità e nella superficie di questo corpo estraneo, e di conseguenza nascono delle sensazioni di estensione del proprio io o di acquisizione di un tipo o di una quantità di energia estranea o di un grado inconsueto di vigore, di resistenza fisica, di sicurezza”. Secondo questa formula, ripresa dal libro di John Carl Flugel (1974), l’abbigliamento ci permette di estendere il nostro io corporeo. Un chiaro esempio di questo principio è la gonna, essa aggiunge alla forma umana pregi che la natura non le ha dato.

Secondo la psicologia della moda attraverso la forma di un abito, i suoi colori, le dimensioni di un cappello, l’altezza di un tacco, il disegno di un tessuto o i suoi movimenti, possiamo trovare una chiave di lettura alla conoscenza di noi stessi e degli altri, utilizzando le leggi della percezione sensoriale. Tali leggi spiegano come i nostri organi di senso siano colpiti da molte sensazioni, ma tendono ad elaborarne alcune più evidenti, creando una figura e lasciando il resto sullo sfondo, oppure organizzando le informazioni rilevanti in una struttura che unifica i vari elementi.

immagine 1Paola Pizza (2010), riflettendo sulle forme, attraverso la figura di Rubin (fig. 1), mostra come le sensazioni visive facciano mettere a fuoco alcune caratteristiche di un’ immagine e non altre. Secondo Rubin vediamo i profili e la coppa separatamente, ma non possiamo vederli contemporaneamente perché se una forma è figura, l’altra è sfondo. Così un particolare tipo di abbigliamento o un accessorio, possono trovarsi a fuoco ed essere oggetto della nostra attenzione o perché lo stimolo è nuovo e inaspettato, o all’inverso perché è abituale, ma soprattutto perché attiva interessi o motivazioni, pensieri o emozioni. Ad esempio, le gonne corte, i corpetti aderenti, i tacchi alti.

Secondo la tendenza alla chiusura, invece, cerchiamo di dare ai singoli dati sensoriali un significato unitario, come ad esempio nella figura che ritrae un cane e non un semplice insieme di macchie (fig. 2). Nello stesso modo quando osserviamo una persona non vediamo tanto i singoli elementi dell’abbigliamento, ma diamo un significato all’insieme, considerando la persona di buon gusto, alla moda, originale, vincente oppure antiquata, perdente, volgare o scontata. É chiaro come le illusioni ottiche riescono a modificare l’immagine delle persone che indossano determinati abiti o accessori. Come la piega dei pantaloni renda più slanciati, contribuendo ad avvicinare la forma fisica al concetto di corpo ideale condiviso socialmente.

immagine 2

Psicologia della moda: la percezione dei colori e le emozioni di simpatia o antipatia

Anche la percezione dei colori è importante secondo la psicologia della moda; come scrive Max Luscher, ci sono due diversi approcci verso i colori: la sensazione percettiva determinata dalla percezione cromatica, e l’emozione legata alla simpatia o all’antipatia che genera in noi un colore. La preferenza per un colore o il rifiuto di un altro potrebbe essere determinato dallo stato emotivo.

Dietro alla scelta dei colori non c’è quindi solo l’influenza del sistema moda o di fonti autorevoli, ma ci sono anche le caratteristiche di personalità, i conflitti intrapsichici e le motivazioni. L’origine del significato dei colori viene fatto risalire al giorno e alla notte “il blu scuro del cielo notturno e il giallo lucente della luce del giorno. Il blu scuro è il colore della quiete e della passività, il giallo lucente il colore della speranza e dell’attività. L’azione dell’attacco e della conquista è rappresentata dal colore rosso, la difesa dal suo complementare: il verde”(Luscher, 1976).

Per capire la fisiologia dei colori sono stati condotti esperimenti che hanno mostrato, ad esempio come fissare il colore rosso produca “un effetto decisamente stimolante del sistema nervoso, aumenti la pressione arteriosa, la frequenza respiratoria e cardiaca. Il rosso è dunque un eccitante del sistema nervoso, soprattutto della funzione simpatica del sistema nervoso autonomo”, provoca un aumento delle attività vitali, quali, pressione arteriosa, frequenza respiratoria e cardiaca. Il colore blu scuro ha un effetto contrario “la pressione arteriosa diminuisce, come pure la frequenza cardiaca e respiratoria, è dunque calmante e agisce attraverso la funzione parasimpatica.”

Mi soffermerò in particolare, sulle vibrazioni emotive espresse dal colore Rosso, riprese dal libro di Paola Pizza (2016). Il rosso, firma inconfondibile di Valentino che iniziò a proporlo nelle sue collezioni dagli anni ’60, rosso scarlatto anche per le mitiche suole che rendono unica la griffe Lauboutin. É un colore estroverso e attivo che simboleggia l’eros, il fuoco, il sangue e comunica vitalità, dinamismo, energia, potenza, sentimenti intensi e calore.

Insieme al nero è tra i primi colori ad essere stato usato dall’uomo ed è “simbolo dell’essenza della vita”. Per la psicologia dinamica esprime “l’archetipo dello spirito” ed ha la capacità energetica di elaborare i contenuti psichici. É il colore di divinità protettive, ma è anche il colore del diavolo e del diabolico. Colore regale ma anche istintuale, manifesta gli aspetti più alti dell’energia psichica, ma anche quelli più bassi; è infatti il colore della rabbia e dell’aggressività, della competitività e della sfida. Per Luscher rivela “l’appetito in tutte le sue manifestazioni, dall’amore più appassionato alla conquista più avida” è un atteggiamento provocatorio. Le sue forme positive sono “calore, passione, entusiasmo, vita, fertilità e amore”, e quelle negative “potenza, distruttività, aggressività, odio, spargimento di sangue”.

 

La psicologia della moda e la fashion therapy

Attraverso l’osservazione degli abiti che la persona indossa e i relativi significati, unitamente all’analisi del consumo di prodotti moda, è possibile, per alcuni studiosi, dedurre i tratti di personalità. Il termine fashion therapy o anche moda terapia potrebbe essere utilizzato quando gli acquisti anziché colmare un vuoto, creano valore: acquistiamo per comunicare la nostra identità e il nostro cambiamento. La moda terapia non è una terapia convenzionale, non si basa su regole prestabilite ed è ancora in via di sviluppo (Sacchi e Balconi, 2013). Potremmo concepirla come uno degli strumenti all’interno di percorsi psicoterapeutici consolidati.

Dalle prime esperienze in tal senso, secondo Sacchi e Balconi sembrerebbero emergere quattro tipologie di persone sulla base del loro rapporto “patologico” con la moda. “Modadepressi”, di questa categoria, fanno parte quegli individui con personalità problematica nei confronti dell’apparenza. Si tratta di quegli individui che non vorrebbero incontrare nessuno e neppure essere giudicati per il proprio comportamento, tanto meno per l’aspetto che oramai è diventato assolutamente irrilevante.

I “modainsensibili”, ovvero gli indifferenti nei confronti del vestire. Individui con delle potenzialità non completamente espresse. Spesso oppongono una vera e propria resistenza al concetto di moda, fino a trasformare il loro abbigliamento in un’anonima uniforme. I “modanevrotici”, ovvero le persone fantasiose, troppo fantasiose. Appartengono a questa categoria gli individui che non hanno un confine ben chiaro in merito alle scelte nell’abbigliamento o hanno troppe sovrastrutture estetiche. Si tratta spesso di persone dinamiche che non hanno difficoltà ad esprimersi liberamente, che vivono la propria immagine con naturalezza e divertimento ma anche con troppa sofisticazione o che prendono troppo sul serio l’aspetto esteriore. Infine i “modaschizzati” ovvero gli incoerenti incalliti, così definiti dagli autori del libro. Alcuni di questi individui, non sentono di avere uno stile ben definito, o ne possiedono troppi, spesso la linea di demarcazione tra le due cose, non è chiara, non hanno un’immagine di loro stessi in sintonia con quello che sono davvero.

Dall’intervista che ho personalmente effettuato (Anna Colleluori, “Dalla psicologia del consumo alla psicologia della moda e alla fashion therapy”, tesi magistrale in “Psicologia clinica e della salute”, discussa il 17 febbraio 2017 all’università “G. D’annunzio” di Chieti-Pescara) al noto stilista abruzzese Filippo Flocco, direttore creativo della maison teramana “Ferretti”, la quale ha creato le cravatte del presidente Trump per tutta la durata della campagna elettorale, è emerso che gli studi sui vari significati psicologici individuali e sociali dell’abbigliamento, dovrebbero essere conosciuti da coloro che si occupano delle creazioni moda ma che non sempre vengono presi in considerazione quando l’obiettivo che predomina è la vendita. Si evidenzia, inoltre, come, ad esempio, le cravatte rosse del presidente Americano Trump sono state commissionate dal medesimo sia per quanto riguarda i colori che per quanto riguarda la lunghezza e la larghezza. Difatti, è più lunga di 20 cm rispetto allo standard ed è più larga di quasi 4 cm. Chissà se in questa sua scelta, avrà preso in considerazione i significati psicologici delle forme e dei colori dell’abbigliamento!

Una recente ricerca sugli uomini di potere ripresa dal libro di Paola Pizza, che mostra come questi ultimi tendono a mantenere con costanza un look che li contraddistingue, come una sorta di divisa autoimposta che esprime la loro identità e la coerenza del loro sé, come ad esempio le camicie bianche dell’ex premier Matteo Renzi, un elemento essenziale della sua identità.

Secondo Paola Pizza (2016), le camicie bianche possono essere ricondotte a due grandi presidenti Americani, Obama e J.F. Kennedy, simboli dell’ottimismo americano. È possibile che Renzi abbia pensato a questo quando ha scelto la camicia bianca come segno distintivo del suo look presidenziale? É possibile che ci sia dietro un processo di identificazione con i valori e i miti di una coppia di presidenti che hanno simbolizzato il cambiamento? O solo l’imitazione dello stile di grandi leader? Oppure pensava alla frase di Oscar Wilde “l’eleganza si concentra nella camicia”? La camicia bianca nella sua origine ci richiama la camiciola usata come veste dei bambini, fa apparire aperti, disponibili, schietti e leggeri, trasmettendo spontaneità, immediatezza e semplicità.

A differenza della giacca, che simbolizza la corazza, con la maglia di ferro, per difendersi dagli attacchi, la camicia fa apparire informali, raggiungibili e non difesi dagli altri. Potente e teatrale il gesto di Obama che a Berlino, alla Porta di Brandeburgo, si è tolto la giacca ed è rimasto in maniche di camicia comunicando vicinanza, apertura e energia. Il bianco, il cui archetipo secondo Jung è la luce, comunica disponibilità al cambiamento, a differenza del colore scuro spesso scelto per le giacche, il cui archetipo è l’ombra. Se poi le maniche sono arrotolate, si aggiunge un contenuto di giovinezza, fattività, velocità, proattività ed energia che rende ancora più scattante il messaggio (Pizza 2016).

 

Conclusioni: individuare la personalità dalla moda

In conclusione, attraverso le molteplici proposte che il sistema moda offre è stato riscontrato che è possibile esprimere la propria personalità, individuando così anche i tratti “più patologici” che si creano nella relazione con la moda. L’ obiettivo infatti è quello di rendere consapevoli gli individui di cosa si comunica attraverso abiti e accessori e come attraverso l’acquisto dei prodotti di moda, si dia all’individuo l’opportunità di crearsi un proprio stile e di effettuare un cambiamento. Cambiare non solo gli abiti in base alle mode attuali, all’umore, ai sentimenti, alla situazione storico sociale ma avviare l’individuo verso un ipotetico cambiamento, che gli permetta di aumentare l’autostima, di avere una visione più positiva di sé, partendo proprio dall’esterno, ovvero dagli abiti, per poi giungere attraverso il significato di quest’ultimi agli aspetti più profondi del sé.

 

Il Sé e l’uso di un oggetto per entrare in rapporto attraverso le identificazioni secondo Winnicott

Winnicott (1971), nel suo articolo “L’uso di un oggetto” in Esplorazioni psicoanalitiche, spiega la differenza tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto.
Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel avvengano dei cambiamenti e che essi siano accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico.

 

La costruzione del vero Sè o del falso Sè secondo Winnicott

Winnicott (1960) pensa che vi sia un Sé “potenziale o nucleare”, espressione di “una potenzialità ereditaria di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio e con un proprio ritmo una realtà psichica e una schema corporeo personali” (1).
Proprio lo stretto legame che vi è fra mente e corpo fa si che il compaia “non appena c’è un accenno di organizzazione mentale e significhi poco più della formazione di dati sensoriali-motori” (2).

È da questa concezione del Sé che si origina la proposta dell’autore di distinguere tra un vero Sé e un falso Sé. Il vero Sé sarebbe il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo. Il falso Sé, invece non farebbe “altro che raccogliere insieme gli elementi dell’esperienza del vivere” (3). La sua funzione sarebbe, dunque, quella di costruire una protezione di fronte ad un ambiente che si è rilevato molte volte inadeguato ad anticipare il bisogno del bambino, costringendolo a subire una realtà esterna frustante.

La madre non “sufficientemente buona” non ha colto e valorizzato il gesto del figlio ma ha sostituito “il proprio gesto chiedendo al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscenda. Questa condiscenda è lo stadio più precoce del falso Sé, e dipende dall’incapacità della madre di capire i bisogni del figlio” (4).

Il bambino pertanto, è costretto a dare senso da solo al proprio gesto, ma per farlo userà la condiscenda imitativa ma che è lontana dal vero Sé.
Tuttavia, il bambino può esprimere la propria protesta per questa sua condizione tramite “un’irrequietezza generale e/o disturbi dell’alimentazione”. Queste manifestazioni possono scomparire o ripetersi in modo diverso o presentarsi, in forma più acuta, in altre fasi dello sviluppo.
Il falso Sé nasce, dunque, come difesa del bambino di fronte ad un ambiente primario che non si adatta sufficientemente bene ai suoi bisogni.

Mediante il falso Sé il bambino si crea un sistema di rapporti falsi che sembrano reali, egli “diventa proprio come la madre, la balia, la zia, il fratello e qualsiasi persona che in quel momento domini la scena” (5). L’esistenza del vero Sé è così nascosta, poiché ci sono richieste ambientali impensabili e la realtà diviene non tollerabile.
Naturalmente ognuno di noi ha, in misura variabile, un falso Sé, poiché, senza di esso, saremmo persone “con il cuore in mano”, troppo vulnerabili di fronte agli altri.

 

L’uso di un oggetto e le identificazioni per entrare in rapporto con l’oggetto stesso

Nell’osservazione dei bambini piccoli in una situazione prefissata” (6), Winnicott descrive la reazione di bambini lattanti ad una spatula, un “abbassa lingua di metallo luccicante”, posta sul tavolo davanti a loro in un ambulatorio pediatrico. La risposta del bambino si svolge in tre stadi: il primo è di avvicinamento interessato ma sospettoso; il secondo, in cui la spatula è in suo possesso e la sente come parte di sé, come mezzo per appagare i desideri; nel terzo stadio l’esercizio è di liberarsi dalla spatula.
L’assunto di base di questo lavoro è “l’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” (7).

Winnicott (1971), nel suo articolo “L’uso di un oggetto” in Esplorazioni psicoanalitiche, spiega la differenza tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto.
Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel avvengano dei cambiamenti e che essi siano accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico.
Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare oggetti e ciò fa parte del passaggio al principio di realtà.
Questa capacità, secondo l’autore, non è innata, né si può dare per scontata in quanto lo sviluppo della capacità di usare un oggetto fa parte del processo maturativo che dipende da un ambiente facilitante e supportivo.

Winnicott (1971) sostiene che tra il mettersi in relazione e l’uso dell’oggetto, ci deve essere la capacità del soggetto di collocare l’oggetto fuori dell’area del controllo onnipotente, percependo l’oggetto come qualcosa esterna da sé e non come un’entità proiettiva.

Questo passaggio è dato da precisi momenti che l’autore sintetizza schematicamente:
1. il soggetto entra in relazione con l’oggetto;
2. l’oggetto è in processo di venire trovato invece che posto dal soggetto nel mondo;
3. il soggetto distrugge l’oggetto (quando l’oggetto diventa esterno);
4. l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto;
5. il soggetto può usare l’oggetto.

Questa distruzione, spiega il maestro, diventa il corollario inconscio dell’amore per un oggetto reale, ovvero, un oggetto al di fuori dell’area di controllo del soggetto.

Pertanto, Winnicott mette un accenno importante all’aggressività intesa come fattore positivo della crescita, poiché nel momento in cui il soggetto capisce che l’oggetto sopravvive ai suoi attacchi, ha la capacità di porlo al di fuori dei suoi meccanismi proiettivi. Infatti, adesso il soggetto ha potuto creare una realtà condivisa, in cui il soggetto può usare e può riportare una “sostanza diversa-da-me”.

Questi concetti si verificano anche nel transfert e ci aiutano a sperimentare ed esaminare il comportamento del paziente nella situazione analitica; attraverso la realizzazione affettiva ed immaginativa del soggetto, infatti, l’analista funziona come oggetto transizionale e oggetto oggettivo.

Più umano di te…o solo migliore: come funziona il processo di auto-umanizzazione?

Auto-umanizzazione: secondo un recente studio la nostra motivazione a pensare di essere persone buone surclassa il nostro desiderio di sentirci umani. 

 

Un recente studio mette in discussione l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe così motivato a credere nel suo essere essenzialmente umano da sostenere ed approvare con piacere anche le parti più riprovevoli della condizione umana.

La maggior parte di noi possiede un’idea, seppur vaga, di cosa voglia dire essere umani. La ricerca mostra come sembri esistere un certo grado di accordo circa il fatto che tratti di personalità come l’essere socievoli, gelosi o impazienti sarebbero più tipicamente “umani” di altri quali, ad esempio, l’essere freddi e impassibili o, dall’altro lato, pii e misericordiosi.

Inoltre, in generale, all’essere umano sembrerebbe piacere il considerarsi effettivamente umano, attribuendo a se stesso più tratti di personalità “umani”, rispetto a quanti non ne attribuisca agli altri. In altri termini, ci auto-umanizzeremmo, rivendicando per noi stessi sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, ma solo fintanto che questi sono in grado di enfatizzare la nostra stessa umanità.

 

Auto-umanizzazione: cosa si intende con il termine “umano”?

Proprio in questo senso, con il termine auto-umanizzazione (dall’inglese self-humanization) ci si riferisce in generale alla presupposta tendenza di ognuno di noi a vedersi come essenzialmente più umano degli altri (ad es. Haslam et al., 2005).

In generale, il concetto di “umanità” viene usato in riferimento ad una serie di caratteristiche che possono appartenere esclusivamente al genere umano (ad es. essere educati, meticolosi o scortesi) o, al contrario, essere anche attribuiti agli animali (ad es. essere curiosi, attivi, impulsivi).

Questi ultimi tratti vengono percepiti come largamente diffusi a livello della popolazione, si ritiene che emergano precocemente durante lo sviluppo ontogenetico e che siano cross-culturalmente universali. I tratti esclusivamente dell’uomo, invece, sono ritenuti relativamente poco prevalenti ed universali e si pensa emergano più tardivamente nel corso dello sviluppo (Haslam et al., 2005).

 

Auto-umanizzazione: sentirsi umani implica un’alta immagine positiva di sé?

Recentemente, però, un nuovo studio, condotto da Cypryańska e collaboratori dell’Università di Varsavia e di Berna, ha aperto la strada alla messa in discussione della reale esistenza di questo fenomeno, se non altro per come è stato definito in passato.

Infatti, una consistente mole di evidenze mostrerebbe come l’essere umano sia profondamente propenso a proteggere e conservare un’immagine di sé altamente positiva, anche grazie all’utilizzo di bias cognitivi che permettono l’attribuzione della colpa per i propri fallimenti alle circostanze e quella per i fallimenti altrui alle loro carenze e mancanze. Viene così da chiedersi se effettivamente l’essere umano abbia la tendenza a sovrastimare i propri aspetti negativi, pretendendo così di proclamarsi più umani, pregi e difetti compresi. In base alla ricerca, pubblicata dal Journal of Social Psychology, questa sembrerebbe essere una mera semplificazione: quando si tratta di caratteristiche umane considerate sgradite e indesiderate, le persone tenderebbero a vedersi come essenzialmente simili a tutte le altre.

Per poter giungere a questa conclusione, Cypryańska e collaboratori hanno portato avanti uno studio che ha visto coinvolti 250 studenti universitari in Polonia, Corea ed Italia. Ai soggetti partecipanti, in media di 23 anni, è stato chiesto di valutare se stessi sulla base di 40 diversi tratti di personalità in relazione agli altri studenti. Alcuni di questi tratti erano altamente associati alla natura umana, come empatico o geloso, mentre altri, come l’essere freddi e impassibili o altruisti, non lo erano.

Le ricerche presenti in letteratura hanno generalmente studiato il processo di auto-umanizzazione tramite la messa in atto di confronti di tipo sociale. Alle persone viene chiesto di valutare su scala Likert (che va da “più degli altri” a “meno degli altri”) se ritengono di possedere certi tratti di personalità in livelli maggiori, minori o simili agli altri (ad es. “Quanto ti valuti amichevole in confronto alla media degli altri studenti universitari?”). Misurandola in tal modo, l’ auto-umanizzazione viene definita come la tendenza ad attribuire al sé più caratteristiche umane degli altri. Inoltre, secondo alcuni studi, tale attribuzione sembrerebbe essere più marcata in caso di tratti considerati indesiderabili (Haslam et al., 2005).

Secondo Cypryańska e collaboratori, però, una tale linea di ricerca risulterebbe essere abbastanza problematica a causa delle scale di misurazione utilizzate e di come sono state usualmente interpretate. Infatti, secondo quanto da loro sostenuto, tali conclusioni circa la natura dell’ auto-umanizzazione sarebbero scaturite dall’aver erroneamente ritenuto che un giudizio di sé relativamente sopra la media rappresentasse necessariamente l’attribuzione di maggiori caratteristiche al sé piuttosto che agli altri.

Gli autori hanno così revisionato e replicato gli studi precedenti in cui era emersa una significatività a livello dell’ auto-umanizzazione con tratti negativi. Ciò che hanno notato è che in realtà i soggetti partecipanti agli studi hanno raramente dichiarato di possedere maggiori tratti “umani” negativi, ma dichiaravano solo in modo meno marcato di possederne meno. Quindi le evidenze in realtà non dimostrerebbero che le persone siano effettivamente motivate ad apparire più umane a tal punto da approvare e ad abbracciare anche le parti più riprovevoli della natura umana.

D’altra parte, i partecipanti si sono spesso valutati superiori alla media per quanto riguarda i tratti positivi. Piuttosto che confermare che l’essere umano associ se stesso sia a vizi sia a virtù tipicamente umane, quanto rilevato da Cypryańska e collaboratori sarebbe facilmente associabile al ben noto effetto Better-Than-Average (in italiano “Migliore della media”; Alicke et al., 1995), che si riferisce alla tendenza a ritenere di avere molte più caratteristiche positive che non negative e, in generale, di essere migliori della popolazione media.

Secondo questo studio, quindi, in ordine di importanza verrebbe prima il vedere se stessi come speciali e buoni e solo successivamente come umani, difetti compresi.

 

Come le nuove tecnologie ci stanno cambiando: la iGeneration

La iGeneration, conosciuta anche come Generazione Z, accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato (individualized) del world wide web.

Giulia Radice – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Mi siedo alla scrivania, alla ricerca di materiale di lavoro. Clicco due volte per aprire internet e navigo verso la pagina di Facebook. Guardo, curioso, spulcio, commento, metto qualche like. Ok, adesso chiudo e inizio a lavorare. Prima però è meglio se controllo lo smartphone; magari qualcuno mi ha scritto su WhatsApp. Meglio controllare anche la mail. Se non controllo potrei perdermi qualcosa. Tutto bene, posso iniziare. Ah no, il telefono ha vibrato. Devo controllare.

Quando finalmente riesco a posare il telefono e a lasciare perdere Facebook non posso fare a meno di riflettere su quanto le nuove tecnologie stiano modificando le nostre vite, le nostre abitudini e costumi.

Io appartengo a quella generazione che molti autori chiamano “Nativi Digitali” (Prensky, 2001): la generazione nata tra il 1980 e il 1990, cresciuta nella prima era del Web, la 1.0, caratterizzata da siti web statici, l’uso delle e-mail e dei motori di ricerca. Probabilmente siamo stati noi “nativi” i primi a comprendere e a cogliere l’enorme potenziale dei nuovi media, sfruttandoli e adattandoli per comunicare con i nostri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le nostre idee e opinioni.

Ma in questo mondo che cambia così rapidamente, dove il nuovo diventa subito vecchio, dove una notizia compare prima su Twitter che nei telegiornali -nel 2009 gli utenti di Twitter segnalarono la notizia delle scosse sismiche che si stavano verificando in Abruzzo prima delle agenzie di stampa-, sembra necessario non domandarsi più cosa è ma cosa sarà. Quindi, mettendo in disparte il mio smartphone e chiudendo le diverse pagine web che ho aperto tra una ricerca e l’altra, mi domando: in che modo le tecnologie digitali stanno trasformando le vite, le abitudini, le abilità cognitive e i comportamenti dei futuri noi? Insomma, come saranno gli adulti di domani?

 

La iGeneration

In Italia, come nel resto d’Europa, i più grandi fruitori delle tecnologie digitali sono bambini e adolescenti (CENSIS, 2015; Ólafsson, Livingstone & Haddon, 2013). La iGeneration, conosciuta anche come Generazione Z, Post-Millennials, Centennials, Plurals e talvolta Google Generation, accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato (individualized) del world wide web e di questi stessi dispositivi (Rosen, 2010).

Sicuramente uno degli aspetti che più contraddistingue la iGeneration è l’uso di internet e delle nuove tecnologie sin dalla giovane età. Prensky (2001a; 2001b) li descrive come individui abili a elaborare le informazioni, con una preferenza per le nozioni che possono ottenere rapidamente e apprendere attraverso modalità attive e non-lineari, multitasking, poco tolleranti verso le lunghe letture e che sperimentano lo sviluppo delle abilità sociali e professionali all’interno della realtà digitale. La iGeneration non usa internet, vive internet, abitando le loro quotidianità contemporaneamente dentro e fuori dagli spazi digitali (Livingstone, 2009).

Secondo recenti studi, 9 su 10 ragazzi tra i 9 e i 16 anni possiede un profilo Facebook e il 49% fa uso di sistemi di messaggistica istantanea (Livingstone, Haddon, Hasebrink, O’Neill, Smahel, & Staksrud, 2014).

Rispetto al resto d’Europa, i ragazzi italiani utilizzano gli strumenti on-line soprattutto a casa, mentre l’accesso da scuola è tra i più bassi in Europa. Il 10° Rapporto Nazionale Sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Eurispes e Telefono Azzurro (2010) riferisce che il 59.2% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni accede a internet attraverso lo smartphone e l’85% possiede un profilo Facebook, a cui 7 su 10 ragazzi accedono quotidianamente. Il 30,8% ha più di 500 amici. Ciò che contraddistingue i bambini e gli adolescenti italiani dai coetanei europei è la minore esposizione ai rischi on-line grazie soprattutto a forti restrizioni d’uso da parte dei genitori. Tale restrizione tuttavia presenta un rovescio della medaglia, tra cui bassi livelli di alfabetizzazione digitale e l’impegno in attività on-line (Mascheroni, 2012).

Rispetto al passato il mondo sembra evolversi sempre più rapidamente e le statistiche cambiano così velocemente che è talvolta difficile comprendere appieno la realtà di un fenomeno. Questa contingenza sembra essere particolarmente rispecchiata quando si tratta di media digitali: il loro celere sviluppo determina enormi difficoltà nel reperire dati storici o effettuare studi longitudinali sugli effetti del consumo di media digitali, che pure si mostrano sempre più necessari.

 

Plasticità neurale nella iGeneration

Tutte le sensazioni, movimenti, pensieri, ricordi e sentimenti sono il risultato di segnali che passano attraverso i nostri neuroni. Per lungo tempo, in passato, si è pensato che, una volta raggiunta l’età adulta, il cervello non potesse più essere soggetto a nessun tipo di cambiamento. A partire dal 1980 le evidenze sulla plasticità neurale sono diventate sempre più consistenti, fino a culminare con l’affermarsi di teorie che sostengono l’esistenza di un rapporto multidirezionale tra ambiente, mente, corpo, cervello e comportamento (Carr, 2011).

I neuroni del nostro cervello vengono attivati ogni volta che eseguiamo un compito o sperimentiamo una sensazione. Neuroni tra loro adiacenti tenderanno ad attivarsi all’unisono e più ripetiamo l’operazione o l’esperienza, più il legame sinaptico tra i neuroni tenderà a rafforzarsi e viceversa (Carr, 2011).

Le nuove tecnologie, come qualsiasi altro trigger esterno, determinano l’attivazione di specifici pattern neurali e quindi possono condurre ad altrettanto specifici fenomeni di plasticità neurale. Small e Vorgan (2008), comparando l’attività cerebrale di utilizzatori di Google classificati come “esperti” e “neofiti”, osservano come dopo solo cinque ore di navigazione le attività cerebrali dei due gruppi, inizialmente molto diverse, appaiono alla fine praticamente identiche, con una specifica attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale.

Molti neuroscienziati mettono in guardia dagli effetti negativi di della multimedialità. Recenti studi (Dalton, 2013; Carr, 2010) affermano che l’eccesso di stimoli a cui siamo sottoposti durante l’uso di internet determina un sovraccarico cognitivo nella memoria di lavoro impedendo la formazione di connessioni neurali profonde e a lungo termine. Navigare in internet, ma anche giostrarsi tra diverse conversazioni in chat, è sostanzialmente un processo di decison making durante il quale, però, le informazioni sottoposte alla nostra attenzione sono troppe e ci distraggono dal compito di comprendere appieno ciò che stiamo leggendo. A chi non è capitato di inviare un messaggio alla persona sbagliata perché non abbiamo letto correttamente il nome nella infinita lista di contatti del nostro smartphone o di perdersi tra l’eccessivo numero di risultati che Google ci fornisce?

Tuttavia non tutta la tecnologia vien per nuocere. Alcuni ricercatori hanno scoperto che i media digitali, in particolare i videogiochi, possono migliorare le abilità visive spaziali e le capacità di problem solving (Schmidt & Vandewater, 2008). In uno studio pubblicato sulla rivista Nature, gli autori riportano come dopo soli dieci giorni di gioco a “Medal of Honor”, i soggetti testati mostravano un drastico aumento dell’attenzione visiva e della memoria (Green & Bavelier, 2003). Secondo Lehrer (2010), inoltre, eseguire ricerche tramite Google incrementerebbe l’attenzione selettiva, mentre Rosen (2012) associa all’uso delle nuove tecnologie QI più alti, migliori capacità mnestiche e maggiore rapidità nell’elaborazione di informazione.

Riguardo alla iGeneration, bisogna però ricordare che il cervello dei bambini e degli adolescenti è però funzionalmente e strutturalmente diverso da quello degli adulti, soprattutto a livello delle aree frontali (Frances, 2015), che nell’adulto governano le funzioni esecutive e i processi decisionali.

Negli adolescenti queste aree devono ancora svilupparsi pienamente e ciò comporta che il loro ruolo di mediatore fra trigger emotivo e output comportamentale sia ancora piuttosto debole. Tradotto in altre parole, quando i ragazzi della iGeneration chattano, navigano e si trovano per scambiarsi opinioni all’interno di forum virtuali, reagiscono spesso precipitosamente e senza riflettere sulle conseguenze, buone o meno, delle loro azioni. Niente di nuovo quindi: gli adolescenti di oggi, quelli che appartengono alla iGeneration, sono impulsivi tanto quelli di ieri.

Ma c’è una differenza fondamentale: l’ambiente nel quale agiscono, che oggi, a differenza di ieri, è potenzialmente senza confini e può contenere qualsiasi forma di stimolo. Secondo molti autori (Aboujaoude citato da Dokoupil, 2012; Lehrer, 2010) questo sovraccarico di dati starebbe portando una sorta di craving da informazioni.

Bauleke e Hermann (2010) rilevano nella iGeneration un alto tasso di problemi di attenzioni e di incapacità di ritardare la gratificazione e ciò sembrerebbe spiegare, almeno in parte, l’elevato numero di diagnosi di Disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Sebbene i tempi siano ancora poco maturi per permetterci di definire con chiarezza come i media digitali incidano sul cervello e le sue strutture, l’influenza delle nuove tecnologie nel processo di sviluppo neurale e dei compiti evolutivi sembra rendere il percorso di crescita dei bambini e degli adolescenti appartenenti alla iGeneration sempre più articolato.

 

Emozioni e identità nella iGeneration

Tra i principali compiti evolutivi dell’uomo vi è certamente la formazione di una propria identità. Per la iGeneration, il mondo digitale cambia in modo significativo questo compito: i social network consentono di scegliere come presentarsi alle persone che compongono la rete, i giochi di ruolo di creare e sperimentare identità completamente diverse tra loro, i blog e i social forum di scoprire nuovi aspetti della propria persona (Pederson, 2012; Riva 2010).

Citando Riva (2010):

Un’importante opportunità viene offerta all’utente dai social network: la creazione di Sé possibili. Questa possibilità, se utilizzata correttamente, può attivare un processo di self empowerment… tuttavia esiste anche il rischio di un’identità fluida.

Se da un lato quindi le nuove tecnologie possono fornire una immensa opportunità di sperimentazione di se stessi, proprio l’assenza di confini, concreti o virtuali che siano, rischia di essere il maggior ostacolo all’individuazione di un’identità stabile. Le motivazioni di ciò sembrano contenute in alcuni dei meccanismi intrinseci della rete stessa, cioè i continui feedback e l’opportunità di modificare la propria identità e di svelarla a piacimento.

D’altra parte questa rete può anche fungere da salvataggio, talvolta anche più potente di alcune istituzioni classiche. Moltissimi sono i siti e i blog che, attraverso l’uso di chat, diventano un luogo di ascolto e di confidenze dove l’adolescente può sentirsi accettato in tutto il suo essere.

Un secondo aspetto critico che sembra emergere sempre di più nella letteratura sulla iGeneration, è l’“analfabetismo emotivo”. Con questa espressione Goleman (2011) intende:

  1. La mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti a esse associati;
  2. La mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione;
  3. L’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui (non riconosciute e comprese) e con i comportamenti che da esse scaturiscono.

La comunicazione mediata da computer, di fatto, manca degli elementi metalinguistici propri della conversazione faccia a faccia ed è priva di segnali di feedback che consentano agli attori interagenti di identificare con precisione gli aspetti relazionali e sociali (Sproull & Kiesler, 1986). Ad esempio, lasciare il proprio ragazzo semplicemente cambiando il proprio status su Facebook da “impegnata” a “single” è molto diverso che dirgli “ti voglio lasciare” guardandolo negli occhi. Infatti, se nel secondo caso osservare la risposta emotiva dell’ex ci costringe a condividere la sua sofferenza, spingendoci magari anche a moderare le parole e i gesti, usando il social network l’altro e le sue emozioni non sono immediatamente visibili e non hanno quindi un impatto diretto sulle nostre emozioni.

È evidente come tutto ciò rischia di privare il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento, comprensione e gestione delle emozioni proprie e altrui. Sempre secondo Riva (2010), inoltre, sarebbe proprio questo aspetto a rendere precarie le relazioni sociali che si creano, e in un certo senso vivono, nei social network.

In realtà, visioni più articolate dei percorsi di rischio sostengono che l’uso delle nuove tecnologie sia meno negativo di quanto temuto: l’off-line e l’on-line non dovrebbero essere considerati come opposti o reciprocamente escludenti l’uno dell’altro, ma come universi sociali integrati posti all’interno di un medesimo continuum (Guarini, Brighi & Genta, 2013).

In questo senso nella iGeneration, l’off-line e l’on-line non risultano più due identità distinte e separate, ma due tra le diverse sfaccettature del il medesimo corpus identitario, strettamente legate tra loro, tanto che il proprio profilo digitale ha una ricaduta inevitabile anche al di fuori della rete e viceversa (Guarini et al, 2013) e i social media diventano qualcosa di molto importante per sviluppare e mantenere amicizie, nonché per vivere la propria intimità (Rivoltella, 2010). “L’on-line e l’off-line non sono mondi separati, sono semplicemente situazioni differenti all’interno delle quali entrare in contatto con gli amici e i pari” (Ito, Braumer, Bittanti et al, 2010).

 

Conclusioni

Alla fine di questa ricerca emergono alcune riflessioni. Se da un lato molti aspetti di come la tecnologia digitale sta cambiando il nostro cervello, il modo in cui socializziamo, impariamo e viviamo rimangano ancora sconosciuti, numerose sono anche le informazioni che già abbiamo a disposizione.

I cospicui effetti negativi della tecnologia rilevati fino ad ora appaiono scoraggianti: alterazione delle capacità di lettura degli elementi paravarebali, rilevanti tassi di dipendenza da consumo digitale, diminuzione delle abilità di attenzione sostenuta. Io stessa, nella stesura di questo articolo, mi sono sentita spesso iperattiva e poco concentrata, mentre saltavo da un articolo all’altro, da una mail all’altra, da un messaggio all’altro. Tuttavia, limitare l’analisi dell’influenza delle nuove tecnologie a questi aspetti può condurre a deduzioni errate, perché non sufficientemente complete di informazioni.

Le nuove tecnologie hanno portato con sé grossi cambiamenti, spesso anche molto positivi. Ad esempio, se da un lato lo sviluppo di internet e la possibilità di accedervi sempre più rapidamente e in qualsiasi punto del globo, ha determinato la diffusione di una quantità talvolta eccessiva di informazioni, ha anche permesso di raggiungere molti individui prima emarginati e di dare loro l’opportunità di apprendere e imparare, colmando così il divario educativo.

La tecnologia digitale sta anche creando una nuova forma di alfabetizzazione, quella digitale (digital literacy) che si estende oltre le tradizionali abilità di lettura e scrittura (Ives, 2003). In questa nuova era dei media, la capacità di negoziare e valutare le informazioni on-line, per riconoscere tentativi manipolatori e ingannevoli sta ridefinendo le basi del processo educativo, rendendo tali competenze fondamentali tanto quanto saper produrre e comprende un testo (Jenkins, 2007).

E queste attitudini sembrano emerge spontaneamente e di conseguenza invalidare in parte gli studi che imputano alle nuove tecnologie una riduzione della capacità di empatizzare. “So che può sembrare strano, ma dal modo in cui la mia amica mi sta messaggiando (texitng) riesco a capire il suo stato d’animo” (Wisdom 2.0, 2011). È anche importante sottolineare come questa nuova forma di alfabetizzazione sia creata dai ragazzi stessi: i giovani adolescenti della iGeneration non sono solo i più assidui fruitori delle nuove tecnologie, ma contribuiscono attivamente a svilupparne contenuti, applicazioni e potenzialità, al punto che è ormai da considerare superata la dicotomia tra fruizione e produzione, così come tra emittente e ricevente (Guarini et al, 2013). Citando Cappello (2010) “I ragazzi non considerano (né usano) i media come veicoli di significato quanto piuttosto come risorse simboliche da cui trarre immagini, fantasie e opportunità di autoespressione e gioco”.

Il rapporto tra le nuove generazioni e le tecnologie digitali è circolare, per cui gli uni cambiano in funzione degli altri e viceversa. Così, come i media digitali stanno creando nuove forme di comunicazione, pensiero e abitudini queste vengono plasmate e modificate per adattarsi alle esigenze di sviluppo.

La ricerca qui condotta mostra come sia invece ancora radicata una visione dicotomica del rapporto giovani-nuove tecnologie che, se da una parte descrive i ragazzi della iGeneration come disposti quasi naturalmente all’uso delle nuove tecnologie, dall’altra li dipinge come vittime del sistema mediale.

Una lettura di questo tipo rischia tuttavia di impoverire una relazione ben più complessa (Scarcelli, 2015). Riconoscere il continuum esperienziale tre spazi digitali e vita quotidiana, significa considerare i media non semplicemente come temi di cui occuparsi saltuariamente, ma, piuttosto, dimensioni proprie del percorso di crescita (Guarini et al, 2013).

Poiché il consumo mediale da parte degli adolescenti della iGeneration è strettamente collegato a motivazioni di tipo sociale, identitario ed emotivo, nonché allo sviluppo cognitivo, i ricercatori devono rivolgere la loro attenzione al contesto virtuale in quanto scenario ormai imprescindibile per comprendere le dinamiche comunicative e sociali implicate nella costruzione di opinioni, valori e scelte comportamentali (Guarini et al, 2013).

Maggiordomi e psicoterapeuti: una metafora dell’adulto sano nella Schema Therapy

Nell’ultimo anno ho assistito, con passione e riconoscenza, al successo esponenziale del blog di un giornalista, Simone Tempia, che posta dialoghi con un maggiordomo immaginario, per ritrovare l’equilibrio nei piccoli scompensi emotivi della vita quotidiana. Lloyd dispensa consigli e sparge speranza, saggezza, autocontrollo; stimola alla riflessione ed incita alla creatività. Si offre da moderatore di scarsi equilibri emotivi, non compatisce, né recrimina, non giudica né avvalla. Cambia la prospettiva e ribalta i punti di vista, non rinunciando alla sua dignitosa compostezza, e ad un pizzico di ironia.

Annamaria Libera Lauriola

I maggiordomi come consiglieri di fiducia nei film e nei fumetti

Non importa quanti anni abbiate, ricorderete con grande affetto il modo in cui Alfred si prese cura del piccolo Bruce Wayne dopo il brutale omicidio dei suoi genitori. Un uomo dalla grande dignità: attento, paziente, mite e saggio, seguì con sollecitudine il ragazzino di cui divenne il tutore, e che sarebbe divenuto l’eroe, Batman, che liberava la degradata Gotham dai criminali che si macchiavano dei più efferati delitti.

Chi, leggendo i fumetti, o guardando i diversi film che ne sono stati tratti, non vorrebbe un Alfred da consultare ad ogni ora del giorno o della notte?
Oggi i maggiordomi sono rari, ma rimangono nell’immaginario collettivo (nutrito da fiction, fumetti , film e quant’altro) delle persone di fiducia. Il loro compito andava molto al di là del governo delle ricche case dell’aristocrazia: erano consiglieri, problem solver, inesauribili fonti di saggezza e punti di riferimento per l’espressione – e risoluzione- dei piccoli e grandi dilemmi umani quotidiani. Erano riservati, leali, in grado di rimanere impassibili e di esimersi dal giudizio rispetto a quello che, in una relazione di grande fiducia, veniva loro rivelato. Acuti osservatori e autodisciplinati, servivano il “sir” con grande dedizione. E professionalità.

Nell’ultimo anno ho assistito, con passione e riconoscenza, al successo esponenziale del blog di un giornalista, Simone Tempia, che posta dialoghi con un maggiordomo immaginario, per ritrovare l’equilibrio nei piccoli scompensi emotivi della vita quotidiana: Vita con Lloyd, che è diventato anche un libro di successo (Vita con Lloyd. I miei giorni insieme a un maggiordomo immaginario, Rizzoli Lizard, 2016).

Lloyd dispensa consigli e sparge speranza, saggezza, autocontrollo; stimola alla riflessione ed incita alla creatività. Si offre da moderatore di scarsi equilibri emotivi, non compatisce, né recrimina, non giudica né avvalla. Cambia la prospettiva e ribalta i punti di vista, non rinunciando alla sua dignitosa compostezza, e ad un pizzico di ironia.

 

La figura del maggiordomo e dello psicoteraputa richiamano quella dell’Adulto sano della Schema Therapy

Mi sono chiesta: perché mai migliaia di lettori, me compresa, apprezzino questi arguti scambi di battute con un amico immaginario e insieme all’autore si confrontino con una mente che potremmo definire saggia?

Da psicoterapeuta quanto appena detto mi ha riportato al concetto di Adulto Sano sviluppato all’interno della Schema Therapy. Non sempre si ha la fortuna di crescere confrontandosi con un genitore/adulto che abbia le caratteristiche definite dal mode di Adulto sano, ma la possibilità di costruirlo e rievocarlo nella propria mente ha un grande impatto per la ristrutturazione cognitiva e la regolazione delle emozioni e degli stati mentali problematici, i cosidetti mode maladattivi.

Da psicoterapeuti ci prefiggiamo questa missione, e -all’interno di un approccio basato sulla Schema Therapy – attraverso il limited reparenting abbiamo l’obiettivo di favorire l’interiorizzazione del modello di adulto sano, un adulto in grado di proteggere, accudire, e validare il bambino vulnerabile, di porre dei limiti al bambino arrabbiato e indisciplinato, attraverso la reciprocità e l’autodisciplina.

Torniamo alla nostra metafora del maggiordomo. Un paziente con cui facciamo un buon lavoro richiamerà alla mente il suo “maggiordomo immaginario” e avrà la possibilità di confrontarsi con la parte sana di sé, a volte lo chiamerà a vuoto, lottando con i propri mode maladattivi, mentre in altre e preziose occasioni arriverà con sollecitudine offrendo un the caldo: “Come posso esserle utile, sir?”. E Alfred o Lloyd dimoreranno nella mente.

Ed oggi in seduta potrei sentirmi po’ maggiordomo e un po’ psicoterapeuta.

 

L’intelligenza artificiale al servizio della psicologia, ovvero i sistemi esperti in psicologia clinica

Nell’ambito dell’ Intelligenza Artificiale assumono particolare rilevanza le tecniche che consentono di incorporare la conoscenza di un particolare dominio in un software in grado di risolvere problemi attinenti a tale campo, genericamente tali programmi sono denominati Sistemi Esperti e si rivolgono a molti campi dell’attività umana.

Marco Lazzeri – Lorenza Diato

 

Negli ultimi decenni l’utilizzazione di appositi linguaggi e la diffusione di macchine più flessibili hanno portato allo sviluppo di una nuova branca informatica, l’ Intelligenza Artificiale (A.I.).

Nell’ambito dell’ Intelligenza Artificiale assumono particolare rilevanza le tecniche che consentono di incorporare la conoscenza di un particolare e limitato dominio in un software in grado di risolvere problemi attinenti a tale campo, fornendo risposte simili a quelle che si otterrebbero da un esperto umano. Genericamente tali programmi sono denominati Sistemi Esperti e si rivolgono a molti campi dell’attività umana.

 

Intelligenza Artificiale e sistemi esperti in psicologia clinica: analisi e definizione

Il compito di un sistema esperto è quello di simulare, per quanto possibile, il processo di ragionamento tipico di un essere umano, esperto in un particolare campo, e di suggerire all’utilizzatore le soluzioni più idonee, sulla base delle conoscenze immagazzinate e delle regole per il loro trattamento.

Un sistema esperto è formato essenzialmente da tre moduli: il motore inferenziale, la base di conoscenza e l’interfaccia utente. Il motore inferenziale nei sistemi esperti, opera sulle conoscenze per giungere a delle conclusioni definite. Esso è capace di eseguire deduzioni e passaggi logici utilizzando una serie di assunzioni iniziali e una serie di regole da applicare per la soluzione del problema. La base di conoscenza, invece, comprende tutta la conoscenza specialistica a disposizione del sistema. L’interfaccia utente nei sistemi esperti, infine, serve per mettere in comunicazione il sistema con l’utilizzatore. E’ costituita dagli algoritmi che consentono di sottoporre il problema al sistema esperto e di ricevere da esso la soluzione.

Nella pratica clinica, i sistemi esperti più diffusi sono basati sul modello empirico di uso della conoscenza; in altri casi i dati clinici sono elaborati mediante calcolo probabilistico, utilizzando le conoscenze derivate dall’analisi di larghe basi di dati preesistenti.

Nel primo caso (sistemi basati sulla conoscenza) tutti i dati clinici inclusi nella base dati del sistema sono caratterizzati in rapporto a ciascuna delle ipotesi diagnostiche, identificando sia la rilevanza del dato, sia la compatibilità di ciascuno dei suoi possibili valori. L’evidenza clinica delle ipotesi selezionate, calcolata combinando rilevanza e compatibilità di tutti i dati osservati nel singolo paziente, può essere ulteriormente corretta mediante alter regole basate su criteri di conferma/esclusione, consistenza/inconsistenza o somiglianza/dissomiglianza.

Nei sistemi basati sul calcolo delle probabilità la decisione clinica viene invece elaborata mediante l’applicazione del teorema di Bayes, che calcola le probabilità oggettive delle ipotesi sulla base dei dati osservati. Questo metodo porta a stime più accurate di quelle ottenute con il metodo precedente, ma richiede la definizione di regole predittive sviluppate sulla base della valutazione clinica di una considerevole quantità di pazienti.

L intelligenza artificiale al servizio della psicologia ovvero i sistemi esperti in psicologia clinica - FIG 1

Figura 1. – Schema strutturale di un Sistema Esperto. Il sistema tratta la conoscenza trasmessa da un esperto e “formalizzata” dall’ingegnere della conoscenza, per fornire soluzioni a disparati problemi. L’utente interroga il sistema esperto tramite un’interfaccia che, nel caso più comune, è una tastiera connessa ad un monitor, ma può essere anche un sistema vocale o grafico. La scelta della soluzione più idonea è determinata dal motore inferenziale

 

I sistemi esperti storici e di oggi

Nella storia della psicologia clinica esistono alcuni programmi che si avvicinano a dei sistemi esperti veri e propri. Eccone alcuni:

  • MSER-DIAGNO (Morgana, Pancheri, 1974) è un programma scritto in FORTRAN e destinato a un mainframe. Esso utilizza il Mental Status Examination Record (MSER) per valutare lo stato psichico del paziente e produrre un report narrativo che combina alcune frasi precostruite memorizzate dal computer. È disponibile anche un output in forma sintetica, che riporta i punteggi relativi a 20 scale fattoriali. Il supporto decisionale è invece costituito dal sistema DIAGNO, che, seguendo una procedura decisionale ad albero, forma una indicazione diagnostica secondo 75 categorie nosografiche derivate dal DSM.
  • MANDATE CONSULTANT (Parry, Hofmeister, 1986) è un sistema messo a punto per pianificare alcuni “programmi educativi individuali” nel campo del deficit d’apprendimento. Il sistema è in grado di progettare e revisionare programmi educativi individualizzati e gli autori hanno fornito dati, ottenuti con test in doppio cieco, che dimostrano come esso sia superiore all’esperto umano nell’adeguare i programmi alle necessità dell’utente.
  • SCIROPPO (Brighetti, Contento, 1986) è invece un sistema di supporto alle decisioni relative a un percorso psicoterapeutico. Dialogando con l’utente sui dati anamnestici di un soggetto, “esamina e offre come output le possibili conseguenze dei dati, i possibili obiettivi che un terapeuta può proporsi e una gamma di interventi rapportati al tipo di caso considerato”.
  • SEXPERT (Binik et al., 1988) riguarda un sistema esperto per l’assessment e il trattamento di disturbi di natura sessuale. Esso è concepito come un sistema interattivo di terapia supportato dal computer e deriva le proprie tecniche sia dai sistemi di intelligenza artificiale che da quelli deputati al tutoring intelligente.

Con la metà degli anni 90 l’interesse per i sistemi esperti in psicologia clinica è notevolmente diminuito, ciò nonostante le ricerche in questo campo non hanno mai smesso di continuare. Dal 2000 a oggi sono pochi i sistemi che hanno fatto la loro comparsa nel ramo della psicologia. Eccone alcuni esempi:

  • ESPDQ-C (Zhang Chi et al, 2001) è un programma sviluppato in Visual Basic nato per supportare il lavoro del CCMD-2-R (Chinese Classification Mental Diseases, 2nd revision) sui disturbi della personalità. ESPDQ-C presenta al suo interno la sintesi del PDQ-C, ovvero del Personality Disorder Questionnaire. Le risposte formulate dal sistema presentano un buon grado di affidabilità e validità.
  • ESQUIZOR (Madera Carrillo et al, 2003) è un sistema esperto progettato per formulare e testare l’efficacia di trattamenti neurolettici a favore di schizofrenici di tipo paranoico. Il sistema prevede l’utilizzo di un albero decisionale basato su esempi prima di arrivare a elaborare una conclusione.
  • TRAUM (Julies Grim-Haines et al, 2006) è un sistema computerizzato pensato per assistere chi deve diagnosticare e trattare disturbi neuropsicologici dovuti a lesioni cerebrali, ictus o ritardi nello sviluppo. Oltre al lavoro di assistenza, questo programma è in grado di formulare da sé delle diagnosi valide ed accurate, paragonabili per scrupolosità a quelle ottenute da clinici.

 

Sistemi Esperti: i potenziali impieghi in psicologia clinica

Esistono almeno cinque aree della psicologia clinica nelle quali sarebbe possibile sviluppare veri e propri sistemi esperti, oltre a due d’impiego generale.

La prima area, riguarda l’impiego dei sistemi esperti nell’ambito dell’assessment cognitivo. Dato che gli psicologi stanno attualmente mettendo a punto modelli formali relativamente accurati della abilità cognitive, dovrebbe essere possibile tradurre questi modelli, nel modo descritto più sopra, in un sistema esperto il quale, a sua volta, genererebbe una descrizione psicologica dello stato cognitivo del paziente. Proprio come questo sistema è capace di identificare e valutare la performance relativa alle diverse componenti di una competenza funzionale rispetto a una data abilità, esso potrebbe anche combinare l’assessment di queste abilità in un’ampia gamma di aree, in modo da pervenire a una descrizione complessiva delle funzioni intellettuali del cliente.

Una seconda area, è quella della diagnosi neuropsicologica. I sistemi esperti di cui ci si avvale nel campo più generale della diagnosi medica e psichiatrica forniscono un ovvio modello anche in quest’area. In più, il tipo di approccio neurologico che è stato adottato in questo secolo ha generato, in maniera del tutto naturale, molto materiale adatto a essere incluso in un sistema esperto.

Una terza area di applicazione di Sistemi Esperti in psicologia riguarda la valutazione delle abilità nell’orientamento professionale connessa al tipo di assessment appena preso in considerazione. Anche in questo campo si offre l’opportunità di avvalersi di un sistema esperto basato su un modello teorico della selezione e dell’orientamento, che effettui l’assessment di un cliente e gli fornisca poi alcuni consigli circa le sue opportunità professionali.

La quarta area e la quinta area riguardano gli effetti sul comportamento dell’uso di droghe e dell’alimentazione. In entrambe queste aree si riscontra un ammontare talmente cospicuo di informazioni dettagliate che esse risultano estremamente difficili da organizzare o da collegare a particolari concetti clinici. Ciò dipende in parte dall’assenza di una teoria unificante (perlomeno per quanto riguarda il modo in cui le diverse informazioni sono connesse ai comportamenti più generali) e in parte dalla scarsa dimestichezza degli psicologi clinici nei campi della farmacologia, della biochimica e della fisiologia.

Le due aree di applicazione generale riguardano invece la simulazione di particolari stati psichiatrici e il training. La simulazione di stati psichiatrici deriva dal settore più generale dell’ intelligenza artificiale ed è stata studiata attraverso alcune tecniche, per certi versi più appropriate che non il ricorso a un sistema esperto. Tuttavia, la messa a punto di un modello di un particolare disturbo consentirebbe al clinico di comprendere meglio la dinamica del disturbo stesso, di formulare previsioni sugli esiti futuri e di testare gli effetti di particolari interventi (sul modello, invece che sul paziente). Il training, sia che si tratti di una rieducazione (conseguente a un traumatismo celebrale o a una malattia psichiatrica) o di un training iniziale (nel caso di un disturbo dell’apprendimento), può essere grandemente avvantaggiato dal ricorso dell’ intelligenza artificiale. I sistemi di insegnamento intelligenti possono prendere in considerazione un modello di performance normale e, sulla base di questo, le condizioni del cliente.

 

Conclusioni: tra sistemi esperti e il rischio di acquiescenza del clinico

Fino a oggi, la tecnologia dei sistemi esperti sembra aver esercitato effetti alquanto modesti nel ramo della psicologia clinica. Anche se sono stati conseguiti notevoli progressi nel campo dello sviluppo dei sistemi esperti, sono davvero pochi gli psicologi clinici che fino ad ora utilizzano questi artefatti elettronici nel proprio lavoro. Non tutti i clinici infatti sono convinti dell’effettiva utilità dei sistemi esperti nella propria pratica lavorativa, tanto più che alcuni di loro non li conosce affatto. Molti potrebbero essere indotti a credere che, se ci fossero problemi, li risolverà il sistema. Così non solo essi eviteranno di darsi una solida formazione, ma si disporranno a quell’atteggiamento di acquiescenza che costituisce la più pericolosa forma di inaffidabilità di questi sistemi.

Potrà accadere che poi, quando nell’uso effettivo si presenteranno delle difficoltà, e il sistema mostrerà di non saper fare tutto da solo, l’operatore potrebbe avere difficoltà a formulare una diagnosi e ad operare interventi appropriati. Questo modo di porsi è di per sé sbagliato.

La psicologia clinica è una professione nella quale la qualità del servizio fornito esercita un’influenza diretta sulla salute degli utenti e, di conseguenza, gli operatori del settore devono essere costantemente al corrente degli sviluppi e delle innovazioni che possono migliorare la qualità del loro lavoro. E ancora, in una professione nella quale la carenza di mezzi è spesso denunciata fra i problemi principali, gli psicologi clinici non possono permettersi di ignorare nessuna delle nuove tecnologie che potrebbero consentire loro di utilizzare al meglio le risorse di cui dispongono.

Delitto di Alatri: oltre alla violenza di gruppo, uno spaccato della ferocia dei nostri tempi

Del delitto di Alatri abbiamo capito tutto e non sappiamo nulla, o viceversa. Non brancoliamo nel buio, ma in una luce che ci acceca. D’accordo, il branco che si raduna e uccide, oppure il gruppo di balordi violenti che hanno tentato -goffamente- di passare a un nuovo livello di organizzazione delinquenziale attraverso un atto dimostrativo e fondativo. Ma c’è altro.

Articolo di Giovani Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 31/03/2017

 

 

Da quanto ne è scritto sui giornali finora, sembra ormai sempre più probabile che la vittima, Emanuele Morganti, sia stata perfettamente innocente. Pare che nella sequenza caotica delle provocazioni e colluttazioni successive non abbia mai attaccato per primo e, perfino quando aggredito, si sia sempre limitato a difendersi. Dapprima provocato e sgomitato al bancone del locale da un avventore troppo irruente, si limitava a protestare in un diverbio che tutto sommato poteva esaurirsi lì e rimanere irrilevante. La sicurezza del locale però interviene, in teoria a ragione: in questi luoghi gonfi di alcol e peggio, nessun contrasto può essere trascurato. Qui però si presenta il primo passaggio inquietante della sequenza: Emanuele è improvvisamente giudicato dai buttafuori come unico responsabile del diverbio e –a quanto pare- è già nel locale duramente picchiato.

E ancora non è accaduto nulla. Emanuele è poi portato fuori e qui incontriamo una delle testimonianze oculari più terrificanti. Qualcuno che era fuori dal locale vede questo strano spettacolo: una calca di gente che esce dal Mirò, il locale dove tutto è iniziato. In testa c’è Emanuele, portato di peso -già animale portato al macello- con la maglia strappata e con un po’ di sangue che gli esce dalla bocca. È un’orda disordinata di giovani belve ma è anche una processione, qualcosa che sta immediatamente al di qua di una cerimonia ma che già la prelude. Chi era lì ha potuto assistere al materializzarsi concreto della trasformazione della violenza bestiale in sacralità terrificante.

Poi il secondo passaggio. Fuori dal locale, Emanuele si rivolge ai buttafuori e protesta ancora, protesta la sua innocenza: perché è lui a essere espulso dal locale, lui che è l’innocente e la vittima del diverbio? Meglio farebbe Emanuele a tacere, a dileguarsi, a non protestare. I sofismi della violenza mefistofelica hanno già iniziato il loro percorso falsamente razionale e già la saggezza ipocrita di chi dice che si litiga sempre in due è in agguato. Meglio sarebbe stato sparire in quel momento fuggire. E invece Emanuele parla, protesta e si prepara a morire.

Arriva il terzo passaggio, di tutti il più terribile, forse perfino più dell’omicidio. Passano di lì i due fratellastri ora incarcerati. Essi finora sono del tutto estranei alla vicenda, non erano nemmeno dentro il locale. I due vedono la colluttazione e intervengono con gratuita violenza: a quanto pare, si avvicinano e prendono a schiaffi improvvisamente e del tutto a freddo Emanuele. Non si sa bene perché, oppure lo sappiamo benissimo. I giornali hanno descritto due giovani individui abituati allo spaccio e al consumo di stupefacenti e facili all’uso della violenza. Non si tratta però solo di due balordi. I due giovani hanno idee, progetti, velleità. Non si accontentano della loro marginale delinquenza, aspirano a creare un banda organizzata, una banda capace di assumere il controllo delle attività malavitose del territorio di Alatri, a cominciare dallo spaccio di droga.

Insomma, vogliono diventare dei boss. E per fare questo, e in questo i due balordi tradiscono una sapienza terrorizzante, non basta organizzazione. Occorre anche affiliazione, fedeltà, fondazione. Occorre un atto fondativo che leghi un gruppo nel giuramento di sangue. Sangue vero, però, non simbolico. I fratelli fanno sul serio. E forse i due vedono in questa colluttazione in corso fuori dal Mirò un’occasione. Decidono forse in quel momento di portare la colluttazione a un altro livello, di trasformarla da rissa a linciaggio. Linciaggio di un innocente, che, ironia della sorte, si chiama Emanuele, il nome del servo sofferente evocato da Isaia, la prefigurazione di Gesù Cristo intravista nella Bibbia ebraica. E allora anche gli schiaffi a Emanuele assumono un altro significato. Anche con Cristo portato a giudizio si iniziò con uno schiaffo.

Oppure sono stati i buttafuori a decidere di passare a questo livello. Non sappiamo ancora tutto. Forse erano i buttafuori gli aspiranti fondatori di una banda, o tutti insieme, i fratellastri e i buttafuori. Ce lo diranno le indagini. Fatto sta che nella piazza scatta un pestaggio che ormai è un linciaggio di una vittima che deve morire. Altri testimoni oculari raccontano storie che sono visioni, flash rapidissimi sempre più raggelanti. La fuga di Emanuele tra le auto parcheggiate, l’attacco dalle spalle, il balenare lucente di un tubo metallico o di una chiave a stella per sbullonare le ruote usata per massacrare definitivamente Emanuele. E in tutto questo, la notizia recente dell’autopsia che Emanuele si è sempre solo difeso, senza attaccare. Sul suo corpo non ci sono segni di un attacco attivo da parte sua, non ci sono escoriazioni sulle nocche del suo pugno. E ancora più inquietante che tra i picchiatori ci sia stato anche il padre di un dei fratellastri, a confermare la natura di sangue tribale della banda dei picchiatori. E così via.

Non è ancora finita. C’è ancora un passaggio che aggiunge alla vicenda altro sapore primitivo. Pare che a un certo punto Emanuele sia riuscito a dileguarsi dal branco. Rimasto solo, però, torna indietro a incontrare la morte. Perché fa questo? Perché lui era andato in quel locale in compagnia della sua ragazza, e ora, pur sfuggito al caos dello scontro, si chiede dove sia lei. Torna indietro quindi per proteggere la sua donna, o almeno per trovarla, averne notizie. Ma così facendo va incontro al peggio. Riagganciato dal branco, inizia il pestaggio, quello ultimo e mortale. Emanuele infine perde i sensi e cade a terra, e il pestaggio continua. Ancora non è chiaro se tutto sia rimasto confuso fino alla fine, se la morte sia avvenuta per un colpo accidentale alla testa di Emanuele che cadeva contro un’auto o per un colpo di grazia volontariamente perpetrato con questo misterioso attrezzo metallico, il tubo o la chiave a stella.

Questa storia è davvero terribile. Inutile rivangare ancora una volta  le teorie sul capro espiatorio o sul massacro sacrale o di Dioniso e Cristo e così via. Altrove c’è già molto materiale sulla violenza giovanile, su quel che si può fare e sulla perdita di valori o sulla ricerca sanguinaria di valori.

Questa di Alatri rimane una storia terribile di violenza di gruppo, a metà tra l’orda che cerca l’estasi nel sangue pur di dimenticare la fatica del vivere e la banda che anela velleitariamente a promuoversi a organizzazione tramite un atto fondativo che vorrebbe essere sacrale.

Piacerebbe scrivere “goffamente sacrale” ma questa tragedia rimane una tragedia, non è una farsa. Il bisogno di riunirsi, di affiliarsi, di sentirsi un gruppo può generare mostri, così come anche la solitudine però, la mancanza di riferimenti, a quanto pare. L’aggirarsi in questa storia di personaggi indecifrabili, questi due fratellastri di Alatri che sembrano la versione degradata di altri fratelli imbrattati dal sangue all’origine di qualcosa, di una qualche società, da Caino e Abele a Romolo e Remo, sembrano dirci che non solo non riusciamo ancora a superare la ricerca del sangue per riuscire a convivere, ma che lo facciamo sempre peggio, in maniera sempre più caotica e insensata.

La visione di sant’Agostino per cui l’organizzazione umana, anche quando si copre di gloria, nasconde sempre una banda di delinquenti all’origine (Agostino si riferiva alla fondazione di Roma) ad Alatri assume una forma terrifica.

Nel giorni in cui il Regno Unito esce dall’Unione Europea tutto questo ci avverte in maniera sempre più significativa di quanto sia difficile convivere solo su basi razionali. Ma l’alternativa non può essere il sangue di Remo o di Dioniso. Dopo Cristo, se fai questo, fai la fine di Caino, non diventi Romolo. E questo –se può consolare- accadrà ai picchiatori di Alatri: avranno su di loro il segno di Caino. Ma non finisce bene. Il finale surreale di questa tragedia, con il dettaglio definitivamente disorientante dell’animalista balordo che gioisce su Facebook per la morte del “cacciatore” Emanuele, è solo un ulteriore segno di questi tempi caotici e feroci.

I sentimenti che complicano l’orgasmo – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Come mai quando ho un rapporto sessuale con qualcuno per cui provo interesse particolare e sentimento mi riesce più difficile raggiungere l’orgasmo ed invece più sono disinteressata più mi è facile raggiungerlo? (AnnaMaria)

 

 

Cara AnnaMaria,

nel suo caso sembra che la difficoltà a raggiungere l’orgasmo la sperimenti solo con alcuni partner. Potremmo per questo dire che è una difficoltà situazionale, che dipende appunto da come lei vive la circostanza.

Come mai accade ciò? Con i dettagli che ci ha fornito, una risposta circoscritta non è possibile darla, ma dato che la sua difficoltà si presenta solo quando c’è un interesse o sentimento di particolare rilievo, il punto potrebbe essere il controllo che lei esercita sul suo corpo durante questi rapporti (perché tutto avvenga in modo più relazionale e simultaneo, ad esempio).

Sicuramente, è importante considerare che la risposta sessuale umana coinvolge anche la parte cosciente del cervello, per questo motivo i pensieri che si hanno durante le diverse fasi del rapporto influenzano le sue eventuali difficoltà.

Se vuole saperne di più circa le motivazioni psicologiche che potrebbero ostacolare il suo lasciarsi andare, potrebbe provare a soffermarsi su ciò che pensa durante il rapporto.

Tenga anche in considerazione che questa ricerca del “come mai” può contribuire ad alimentare il controllo stesso e la sua difficoltà.

Greta Riboli

 

Le consigliamo inoltre la lettura di alcuni articoli precedentemente pubblicati su State of Mind, tra cui:

L’ Orgasmo Femminile: ma le Donne come Funzionano?

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Le ragioni del cuore: in base a quali caratteristiche scegliamo il nostro partner?

Vi siete mai chiesti cosa hanno in comune i vostri ex, e in cosa differiscono tra di loro? Secondo uno studio dell’Università della California, le persone condividono tra loro molte particolarità, sia fisiche che caratteriali.
Ma perchè qualcuno ci piace? Quali sono le qualità dell’altro che emergono maggiormente a discapito di altre?

 

Le caratteristiche del partner che ci attraggono

In primis si è attratti da ciò che osserviamo nell’altro sin dal primo momento, ovvero il portamento e l’aspetto fisico. Le persone attraenti seducono altre persone attraenti. Secondo i ricercatori, ci sono altre qualità che attraggono, e dipendono dal luogo in cui si vive, come l’educazione o la religione. Tendiamo ad uscire con persone che hanno il nostro stesso livello di istruzione o appartenenti alla stessa religione, ne siamo maggiormente attratti.

Secondo Paul Eastwick, autore dello studio, tendiamo ad essere attratti da chi ci somiglia, cioè facciamo scelte in qualche modo conformiste.
Lo studio, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology della American Psychological Association, evidenzia che esistono similitudini fisiche tra i partner attuali e quelli passati. Nel campione in esame gli ex tendevano, infatti, ad essere molto simili tra di loro, poichè avevano in comune l’istruzione, la religione e l’intelligenza. Questo tipo di somiglianza però potrebbe essere stata determinata dalla condivisione di un contesto sociale comune, ad esempio l’aver frequentato le stesse scuole. In altre parole la somiglianza tra gli ex potrebbe non essere stata determinata dalla ricerca di caratteristiche simili ma essere il risultato di un contesto sociale condiviso.

Secondo il Dottor Eastwick infatti l’intelligenza e l’istruzione hanno un ruolo importante, ma spesso le scelta del partner ricade nella cerchia dei colleghi, e quindi si scelgono persone con le quali si condivide l’ambiente lavorativo.

Questo studio si distingue dalla maggior parte delle altre ricerche che esaminano le relazioni sentimentali perché si concentra su quelli che sono i rapporti delle persone nel tempo, e come essi cambiano.

5 idee sul Disturbo Bipolare

Se abbiamo potuto accettare il rapimento delle fobie da parte dell’Alprazolam e ciò ha permesso al “disturbo di panico” di smettere di sembrare un disturbo della psiche (l’Alprazolam è molto più facile da esibire, si porta dovunque e sta bene con tutto) è intollerabile accettare di essere rinchiusi nella riserva della psicoeducazione dagli occupanti di uno dei nostri territori storicamente più importanti, se ricordiamo che Beck è ricordato appunto per la sua triade cognitiva inerente proprio la depressione. Per questo propongo questa piattaforma, da modificare e arricchire con il contributo di tutti, per iniziare una resistenza allo strapotere delle multinazionali del farmaco.

 

5 Idee sul disturbo bipolare

1. Senza dubbio è la patologia in cui è più evidente l’aspetto biologico come si evince dalla presenza di una forte familiarità e dall’efficacia dei farmaci. Non credo tuttavia che la sua gestione vada lasciata completamente nelle mani di psichiatri e aziende farmaceutiche relegando la psicoterapia a mera psicoeducazione sulla malattia e sull’importanza dei farmaci e dell’igiene di vita. Credo al contrario che aspetti psicologici siano sottostanti al disturbo e attivi nei viraggi della sintomatologia.

2. Gli elementi di base sottostanti al disturbo sono due:
l’incertezza sul proprio valore personale;
il fondare tale valore sulle performance.

3. La dinamica del loop della maniacalità prevede che in seguito ad un successo aumenti il valore percepito di sé e esponenzialmente le aspettative di ulteriori più grandiosi successi con un incremento dell’impegno nel perseguirli. Seppure i successi arrivino con progressione lineare (almeno all’inizio è possibile), le aspettative crescono con progressione geometrica. Fatalmente il gap tra risultato ottenuto e risultato atteso da cui dipende il vissuto soggettivo di successo o fallimento si amplia fino a che un certo risultato, per quanto positivo, è ritenuto insufficiente e dunque fallimentare. Il che blocca e inverte il loop attivato inizialmente da un successo. Inoltre è evidente che un incremento percentualisticamente uguale è via via più difficile da ottenere al crescere del valore di partenza (basterà pensare alla diminuzione di peso durante una dieta più consistente all’inizio).

4. La dinamica del loop depressivo è esattamente opposta. Il depresso peggiora le performance ma ancora di più abbassa le aspettative di successo per cui arriva un tempo in cui una performance è molto modesta (ad esempio durante un ricovero il semplice mangiare al tavolino invece che a letto viene registrata come un successo che inverte la spirale).

5. Il meccanismo sottostante ad entrambe le spirali psicopatologiche è, in realtà evolutivamente adattivo. E’ infatti utile aumentare al massimo l’impegno quando un successo è considerato probabile e a portata di mano. Al contrario è altrettanto utile ridurre o sospendere completamente l’impegno, per non sprecare risorse, quando è previsto il fallimento.

Conclusione

E’ troppo presto e sproporzionate le forze per poter proporre uno scontro diretto. Si tratta di agire nell’ombra, anche fingendosi collaborazionisti e contemporaneamente insinuare di tanto in tanto il dubbio “ che forse si d’accordo la serotonina….ma a ben guardare potrebbe……”

Internet e patologia: la dipendenza e l’uso patologico di internet

Il modello dell’ Uso Patologico di Internet (Patological Internet Use, d’ora in poi P.I.U.) proposto da Davis (2001), presenta delle caratteristiche che possono renderlo maggiormente utile sia nel processo diagnostico che nella definizione di una terapia. Tale modello prevede che per parlare di uso patologico di internet, l’esposizione a Internet avvenga in un contesto in cui nella persona c’è già una psicopatologia concomitante (depressione, ansia sociale, dipendenza da sostanze ecc.) e un’ambiente circostante potenzialmente rinforzante.

Matteo Kettmaier, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

La dipendenza da internet

Il problema della “dipendenza da Internet” ha sollevato molto interesse, tanto in ambito accademico, quanto in ambito clinico e, più recentemente, anche sui mass media.

Nell’ultima edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), l’unica voce che si riferisce a questa problematica è nella sezione “Condizioni che necessitano di ulteriori studi” e si riferisce ad una condizione molto particolare: il “Disturbo da gioco su Internet”, con la specificazione che questa voce non si riferisce a forme di gioco d’azzardo ed esclude altri contenuti, ad esempio quelli di natura sessuale.

In generale, si possono osservare tre criticità relative alla categorizzazione di un uso patologico di Internet e delle nuove tecnologie come una forma di dipendenza:
– La definizione dell’oggetto specifico di tale dipendenza
– La definizione di criteri discriminanti tra normalità e patologia
– Le implicazioni di tale inquadramento per la terapia

 

Internet addiction: dipendenti da cosa?

Attualmente c’è un forte disaccordo su quale sia effettivamente l’oggetto di questo comportamento patologico. In una review sul tema (Chou et al. 2005), sono stati riportati diversi fattori che renderebbero Internet in sé potenzialmente “additivo”: velocità, accessibilità, intensità dell’informazione a cui si può avere accesso e il potenziale stimolante dei suoi contenuti: a tali fattori si potrebbe aggiungere l’”effetto di disinibizione online” (Suler, 2004) per cui l’invisibilità, l’anonimato e l’asincronicità della comunicazione sarebbero alla base di comportamenti aggressivi on-line come il flaming, il trolling e il cyber-bullismo. Tale effetto disinibente, infatti, può avere un forte ruolo rinforzante nel ritiro sociale, facilitando la comunicazione e l’espressione di sentimenti negativi in individui particolarmente repressi o sofferenti di ansia sociale.

Sin dagli albori della ricerca in questo campo, però, il problema dell’eterogeneità dei servizi offerti da Internet, e i conseguenti quadri comportamentali molto diversi tra loro che ne possono derivare è stato affrontato in maniera diversa dai diversi ricercatori: se alcuni hanno mantenuto la definizione di “dipendenza” cercando di identificare dei sottotipi (Young, 1999), altri hanno negato la validità del concetto, affermando che l’uso eccessivo di Internet sarebbe sempre un mezzo per alimentare altre dipendenze (Griffiths, 2000).

Internet si presenta come un mezzo dalla natura duplice: magazzino apparentemente infinito di informazioni e attività ricreative e mezzo di comunicazione interpersonale.

Per quanto riguarda l’utilizzo di servizi di comunicazione e auto-presentazione, il dott. Tonioni ha dichiarato in un’intervista che sarebbe improprio parlare di dipendenza quanto piuttosto di una forma di ansia sociale legata al bisogno di approvazione.

Analogamente, altri ricercatori hanno constatato la genericità del termine, sottolineando l’importanza di determinate caratteristiche di personalità nell’emergenza del disturbo.

 

Uso patologico di internet: quando si è dipendenti?

Attualmente non ci sono dei criteri definiti per distinguere normalità e patologia e questo ha conseguenze importanti sulla ricerca in questo campo. Questa mancanza di univocità ha portato ad un’estrema eterogeneità dei tassi di prevalenza stimati di tale disturbo, che variano dallo 0,3% al 26,7% nei diversi studi e addirittura dallo 0,2% al 46% nel caso di un disturbo specifico da videogiochi (Strittmatter et al. 2015).

Le conseguenze di questa eterogeneità possono essere molto negative, soprattutto riguardo ai più giovani; i possibili rischi dell’adozione di criteri troppo liberali può infatti portare all’esacerbazione di un GAP generazionale già presente in misura maggiore o minore nelle diverse famiglie.

La preoccupazione di un genitore nei confronti del tempo trascorso on-line da parte del figlio può infatti essere dovuta ad una mancata consapevolezza della pervasività delle nuove tecnologie nella vita quotidiana e sociale dei più giovani. Attualmente, infatti, nonostante l’iscrizione ai social network sia ufficialmente vietata ai minorenni nella maggior parte dei casi, tanto la creazione di un profilo on-line, quanto l’utilizzo di social network “di comunicazione” come Whatsapp e Telegram stanno diventando (o sono già) un’importante tappa evolutiva nel percorso di individuazione del ragazzo. I rischi connessi all’utilizzo precoce di questi mezzi sono molteplici ma, fintanto che non verrà messo in atto uno stretto “giro di vite” volto a far rispettare i divieti, un atteggiamento ansioso e demonizzante nei confronti della rete rischia di produrre forti effetti di incomunicabilità tra genitori e figli col rischio di un circolo vizioso di fuga dalle emozioni negative agita on-line.

Un genitore del tutto disinformato riguardo ai meccanismi della socialità on-line o delle potenzialità informative positive della rete rischia di interpretare come preoccupanti comportamenti che invece sono la norma nella fascia d’età del proprio figlio. Se tale atteggiamento porta ad una demonizzazione del mezzo, oltre ad esserci il pericolo summenzionato di un circolo vizioso di fuga, il genitore sottovaluterà quelli che sono i pericoli autentici della rete per i più giovani e non sarà in grado di fornire un’educazione corretta al riguardo. Il pericolo di adescamento on-line, della messa in atto di comportamenti persecutori (cyber-bullismo) e della ricerca di contenuti inadeguati necessitano di interventi educativi specifici che un atteggiamento completamente negativo preclude. Un panico indiscriminato riguardo al tempo trascorso davanti al computer, poi, rischia di far perdere di vista al genitore la possibilità che il proprio figlio stia scoprendo delle abilità e inclinazioni specifiche che potrebbero diventare una carriera futura nella programmazione, nel web design o nel marketing.

La definizione di criteri univoci per distinguere normalità e patologia è una sfida che non riguarda soltanto l’ambito della psicologia e della clinica ma si inserisce in un più ampio bisogno di definire l’impatto inevitabile delle nuove tecnologie sulla vita quotidiana e sullo sviluppo nelle nuove generazioni. Le possibilità offerte dalla rete stanno introducendo forti mutamenti sociali la cui comprensione è ancora poco chiara e resa difficoltosa dalla mutevolezza del fenomeno, si pensi al potenziale impatto della diffusione domestica di strumenti per la realtà virtuale immersiva come l’Oculus Rift e alle specificità che essa porterebbe con sé. Senza un accordo generale su ciò che costituisce la “normalità” socialmente accettabile e non lesiva, non è possibile definire ciò che rientra nella patologia.

 

Dipendenza da internet: cosa curare?

Attualmente le realtà più consolidate nel trattamento della dipendenza da Internet si trovano negli Stati Uniti e in Cina ma ovunque nel mondo siano diffuse tali tecnologie si sta iniziando a prendere atto del loro potenziale patogeno e stanno emergendo casi di uso patologico di Internet. In Italia, in particolare, il “Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da web” del Policlinico Gemelli prende in carico sia casi di dipendenza da Internet che di cyber-bullismo e diversi Servizi per le Dipendenze della sanità pubblica si stanno attrezzando per far fronte a questo nuovo fenomeno.

I problemi summenzionati nella definizione del problema “dipendenza da Internet” si riverberano nella definizione di piani terapeutici. Considerando come centrale il problema dell’isolamento sociale, il tema del recupero della relazionalità dovrebbe essere a sua volta centrale nel percorso terapeutico ma i differenti profili di abuso della rete possono rendere difficile questo processo, in particolare il lavoro in terapia di gruppo, tipicamente applicato nel caso delle tossicodipendenze: si pensi ad un gruppo in cui convivono persone con un problema di iper-utilizzo di videogiochi, di abuso di pornografia on-line e di ricerca ossessiva di informazioni on-line.

Se l’esperienza e la sensibilità del terapeuta possono gestire questo problema e portare a dei risultati positivi, la complicazione si ripresenta nel momento in cui si voglia definire dei protocolli di intervento.

Un altro problema terapeutico relativo al concetto di “dipendenza da Internet” o “dipendenza tecnologica” è quello della definizione di “astinenza” o “uso non patologico”. Se, tipicamente, in un percorso terapeutico per la dipendenza da sostanze, un obiettivo terapeutico fondamentale è il mantenimento dell’astinenza, viene da chiedersi se sia possibile proporlo nei casi di dipendenza da Internet, moltissimi lavori odierni, infatti, richiedono l’utilizzo di un computer, pertanto la prescrizione dell’astinenza totale può rivelarsi molto controproducente.

Rinunciare allo smartphone, ad esempio, può non essere un’opzione praticabile e per quanto la persona possa lavorare sui propri trigger interni, avrà sempre il proprio trigger esterno in tasca, carico di nuovi significati negativi e potenzialmente ansiogeni.

Un dipendente da alcol che vuole mantenersi sobrio eviterà di lavorare in un bar o in una distilleria ma se si volesse evitare il contatto con le nuove tecnologie, le possibilità occupazionali si riducono in maniera molto più drastica. Un effetto negativo può prodursi anche nel campo della socialità perché il fare a meno di alcune tecnologie per la comunicazione può rendere difficile la relazionalità e produrre isolamento.

 

Il modello di Davis sull’ uso patologico di internet

Come detto sopra, è ancora oggetto di discussione se si possa parlare di uno specifico problema internet-correlato o se, piuttosto, non sia più proficuo considerare le problematiche sottostanti tale comportamento.

Il modello dell’ Uso Patologico di Internet (Patological Internet Use, d’ora in poi P.I.U.) proposto da Davis (2001), presenta delle caratteristiche che possono renderlo maggiormente utile sia nel processo diagnostico che nella definizione di una terapia.

Tale modello prevede che per parlare di uso patologico di internet, l’esposizione a Internet avvenga in un contesto in cui nella persona c’è già una psicopatologia concomitante (depressione, ansia sociale, dipendenza da sostanze ecc.) e un’ambiente circostante potenzialmente rinforzante.

Trattandosi di un modello cognitivo comportamentale, le cognizioni maladattive sono centrali nell’emergenza del sintomo: la convinzione specifica sarebbe l’idea che la propria vita on-line sia migliore della propria vita reale. Tale cognizione porta all’ uso patologico di internet e ai suoi sintomi comportamentali. L’ uso patologico di internet può manifestarsi in forma specifica se diretto ad una tipologia di servizi on-line (videogiochi, pornografia, ecc.) oppure generalizzata, in questo secondo caso un elemento fondamentale nell’emersione del problema è l’isolamento sociale o la mancanza di supporto.

I vantaggi di questo modello sono molteplici:
L’attenzione alla presenza di una psicopatologia concomitante permette un inquadramento più preciso del funzionamento complessivo della persona e della sua sofferenza.

Il concetto di uso patologico di internet è un’”etichetta” meno discriminante rispetto alla dipendenza. Si pensi a quanto possa essere destabilizzante ricevere una diagnosi di dipendenza in un adolescente, inoltre, quando si parla di dipendenza ci si riferisce ad una condizione recidivante e al momento non c’è documentazione di persone trattate per questo disturbo che abbiano vissuto autentiche ricadute.

Questo modello può includere persone il cui uso di Internet è problematico nei confronti degli altri utenti senza che egli o le persone vicine a lui manifestino disagio, come nel caso dei cosiddetti “troll”. A titolo di esempio si può pensare al caso di Michael Brutsch, “il più grande troll di Internet”, che per anni ha molestato gli utenti del sito di discussioni reddit.com con contenuti razzisti, misogini e provocatori pure senza mai superare il limite della legalità. Da quello che si sa della sua biografia si può parlare di una situazione relazionale molto impoverita a cui suppliva mediante il suo avatar Violentacrez esercitando un senso di controllo e manipolazione nei confronti dei nuovi utenti e ricevendo simpatia e affetto da chi già lo conosceva (era soprannominato “Reddit’s Creepy Uncle), con modalità simili a quelle del “cyberbullo avido di potere” (Genta et al. 2013). Nel momento in cui la sua vera identità è stata svelata da un giornalista, dopo un breve periodo di esposizione mediatica, Brutsch ha perso il lavoro e ha subito ostracismo. Per quanto il suo comportamento fosse moralmente riprovevole, ritengo che sarebbe stato più giusto che gli venisse offerta la possibilità di seguire un percorso terapeutico piuttosto che subire una perniciosa umiliazione pubblica.

 

Conclusioni

Il fenomeno della dipendenza da Internet e dei comportamenti patologici e devianti correlati ad Internet necessiterà ancora di molti anni di approfondimento, resi particolarmente difficoltosi dal mutamento costante dell’oggetto di indagine.

Se per intanto, il modello di Davis sembra più utile nel far fronte all’esistente, si può ipotizzare che in futuro i disturbi Internet-Correlati possano meritare una specifica categoria nel DSM, in cui vengano distinte le diverse forme di uso eccessivo in maniera analoga a come vengono distinte le diverse dipendenze da sostanza e considerati come patologici certi comportamenti aggressivi e antisociali agiti on-line qualora fossero pervasivi.

Traumi relazionali precoci multipli e dissociazione – Il contributo di Lorenzo Cionini al Congresso di Ischia

Il video riprende la relazione presentata da Lorenzo Cionini, al VII Congresso della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP) tenuto a Ischia dal 6 al 9 ottobre 2016, con il titolo “Traumi relazionali precoci multipli e dissociazione: la logica dell’assurdo” nella quale viene brevemente illustrata una cornice teorico-clinica sulla possibile relazione tra esperienze traumatiche relazionali precoci e dissociazione.

I processi dissociativi sono comuni a qualsiasi persona e non hanno necessariamente un “valore clinico”; tuttavia, in presenza di esperienze traumatiche relazionali precoci (assenza di sintonizzazione affettiva, gravi forme di trascuratezza, violenza psicologica, violenza fisica, abuso sessuale, da parte dei care-giver) assumono una funzione protettiva, portando alla costituzione di stati dissociati del Sé, multipli e non integrabili, ognuno con un “proprio senso di verità” e un accesso indipendente alla consapevolezza.

Il trauma evolutivo e la dissociazione sono sempre presenti nel percorso di sviluppo di qualsiasi persona e differiscono, fra una storia individuale e l’altra, soltanto “in termini di misura”. In questo senso è possibile assumere che coloro che richiedono un aiuto psicoterapeutico presentino fenomeni dissociativi di diversa entità e che il modello di lavoro che prende corpo da questa modalità di leggere i fenomeni dissociativi possa essere utilizzato praticamente con qualsiasi paziente.

L’approccio relazionale al paziente e le modalità terapeutiche sinteticamente descritte in questa relazione sono illustrate più approfonditamente nell’articolo di Lorenzo Cionini & Isabella Mantovani, Leggere la dissociazione dell’esperienza del trauma relazionale: la psicoterapia nell’ottica costruttivista intersoggettiva, recentemente pubblicato sul vol.3., n. 1-2, del 2016 della rivista online Costruttivismi. L’articolo è scaricabile utilizzando il seguente link.

 

Traumi relazionali precoci multipli e dissociazione: la logica dell’assurdo

 

LE SLIDES DELL”INTERVENTO:

Linguaggio: l’uso della seconda persona per far fronte alle esperienze negative

I ricercatori dell’Università del Michigan, sostengono che la seconda persona sia una modalità sottovalutata di esprimersi, che le persone utilizzano spesso per riferirsi a norme e regole.

 

Per affrontare esperienze negative o per condividere un’idea, le persone usano spesso la parola “tu” o la seconda persona al posto di “io” o della prima persona.

I ricercatori dell’Università del Michigan, sostengono che la seconda persona sia una modalità sottovalutata di esprimersi, che le persone utilizzano spesso per riferirsi a norme e regole.

I ricercatori hanno condotto nove esperimenti con 2.489 soggetti per comprendere come mai le persone siano portate ad utilizzare la seconda persona non solo per riferirsi ad altri soggetti specifici, ma anche per portare avanti dei discorsi sulle proprie esperienze.

E’ qualcosa che facciamo per trovare un modo di esprimere come le cose funzionino e per cercare dei significati nelle nostre vita – sostiene Adriana Orvell, una studentessa di dottorato nel Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan – Quando i soggetti utilizzano la parola “tu” per trarre significato dalle esperienze negative, essa permette loro di “normalizzare” queste esperienze e di riflettere su di esse da una prospettiva più distante.

Per esempio, l’enunciato “qualche volta vinci, qualche volta perdi”, potrebbe indicare che una persona abbia fallito in una situazione, ma utilizzare la seconda persona potrebbe permetterle di comunicare che questo fatto potrebbe accadere a chiunque.

Oppure dire “quando sei arrabbiato puoi dire e fare cose di cui probabilmente ti pentirai”, potrebbe spiegare una situazione personale, ma la persona tende a trasformarla in qualcosa che molte persone farebbero – sostene Orvell.

In un esperimento, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di scrivere di un’esperienza personale: a 201 soggetti veniva chiesto di trarre significato da un evento negativo (gruppo Significato); a 198 soggetti veniva chiesto di alleviare un evento negativo (Gruppo Attenuazione); a 203 soggetti era semplicemente chiesto di scrivere di un evento neutrale (Gruppo Neutrale). I soggetti del gruppo Significato utilizzavano la seconda persona in modo generico nei loro racconti (il 46% la usava almeno una volta), molto di più rispetto al gruppo Attenuazione (il 10% la usava almeno una volta) e  al gruppo Neutrale (il 3% la usava almeno una volta). I ricercatori hanno anche scoperto che l’utilizzo della seconda persona generica, porterebbe i soggetti a valutare l’evento da una maggiore distanza.

I ricercatori sostengono che potrebbe sembrare contraddittorio che una modalità di generalizzare sia largamente utilizzata quando qualcuno riflette sulle proprie esperienze personali.

Sospettiamo che sia l’abilità di muoversi oltre le proprie prospettive a far esprimere esperienze universali e condivise che permettono agli individui di ricavare significati più ampi da eventi personali – sostiene Orvell.

 

Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità (2016) – Recensione del libro

Il manuale Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità di Antonella Ivaldi si pone come ponte teorico e clinico tra la prospettiva psicoanalitica e quella cognitivo-evoluzionista per il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità.

 

L’autrice nella prima parte del libro Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità espone in modo dettagliato ed esaustivo i fondamenti teorici dei due modelli scientifici attuali sul tema dei sistemi motivazionali, quello cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti e quello psicoanalitico di J. Lichtenberg. Segue un interessante confronto tra i due modelli teorici e un intero capitolo dedicato alla relazione terapeutica nella prospettiva teorica dei sistemi motivazionali, curato dagli autori Liotti e Lichtenberg.

L’intento del volume è quello di tenere conto degli importanti contributi provenienti da approcci teorici differenti ma profondamente interconnessi, promuovendo la curiosità per la ricerca e prendendo le distanze da rigide posizioni teoriche.

 

Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità: dai “pazienti difficili” al modello REMOTA

La parte centrale del manuale Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità approfondisce in modo specifico le caratteristiche relazionali dei cosiddetti pazienti difficili, le loro storie di sviluppo traumatico, l’attaccamento disorganizzato e l’instabilità affettiva. Sono proprio questi aspetti a rendere tortuoso e al tempo stesso affascinante il rapporto terapeutico con questa tipologia di pazienti. Quello che si richiede ad uno psicoterapeuta che desidera lavorare con pazienti difficili, sottolinea l’Ivaldi è un’alta capacità a monitorare in modo continuo l’andamento emotivo della relazione, esplorando le proprie emozioni e provando a stimolare una riflessione congiunta con il paziente su ciò che sta accadendo nella relazione. All’interno del volume numerosi sono gli esempi di casi clinici che vengono affrontati dall’inizio della terapia, fino alle fasi più avanzate.

L’ultima parte del volume Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità descrive in modo chiaro e dettagliato il Modello clinico Relazionale/ Multi-Motivazionale- REMOTA-: si tratta di un modello ideato dalla stessa autrice il cui punto di forza è dato dall’integrazione di diversi indirizzi teorici. Dopo qualche cenno storico, l’Ivaldi, in Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità, si sofferma sui punti cardine del modello di lavoro, arricchendo la narrazione con esempi clinici che consentono al lettore di calarsi nell’esperienza terapeutica e di coglierne l’essenza.

Il modello prevede l’integrazione tra psicoterapia individuale e di gruppo e viene presentato ai pazienti come un unico trattamento, la terapia individuale alternata settimanalmente a quella di gruppo. La prima fase del trattamento si svolge individualmente per circa un anno, durante il quale il paziente viene seguito dal proprio terapeuta. Il lavoro del terapeuta in questa fase iniziale si concentra perlopiù sulla valutazione, sull’identificazione delle risorse personali del paziente e sul contesto affettivo di appartenenza.

Dopo la fase iniziale il terapeuta concorda con il paziente l’inizio del gruppo terapeutico, che sarà condotto da due co-terapeuti gli stessi che seguono i pazienti individualmente. Inizialmente verrà alternata terapia individuale e di gruppo per poi passare, nella fase finale alla sola terapia di gruppo. Questa parte del manuale riporta anche i risultati e la discussione su uno studio di valutazione di un campione di pazienti difficili trattati con il modello in oggetto.

La parte conclusiva del volume affronta l’analisi del concetto di affiliazione all’interno di un gruppo terapeutico, soffermandosi sui fattori che possono ostacolare l’attivazione del sistema motivazionale affiliativo nel paziente così come nel terapeuta. Come sottolinea l’autrice l’affiliazione è la base per essere un individuo sociale e il trattamento di gruppo fornisce un ambiente all’interno del quale lavorare su se stessi e con gli altri in maniera più complessa ed efficacie.

Il libro Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità grazie alla sua chiarezza ed esaustività si presenta come un buon punto di riferimento teorico e pratico sia per gli allievi in formazione sia per i terapeuti più esperti che potranno aggiornarsi e avvicinarsi ad un nuovo approccio integrato.

Ghost in the shell: cyborg, coscienza e bioetica tra oriente e occidente

Da fine marzo sul grande schermo l’attesissimo Ghost in the Shell, prodotto nientemeno che dai colossi californiani Dreamwork e Paramount Pictures, nonostante il marchio sia Giapponese. E’ evidente che stiamo assistendo alla crisi dello Sci-Fi Occidentale.

 

D’accordo, un annuncio di questo genere non ha alcun senso. Lo avrebbe in Giappone, dove il marchio Ghost in the Shell è un romanzo, un manga, due film, due serie TV e videogioco. Celebre come Spiderman in occidente, fa la sua comparsa nel 1989 nel manga, o sarebbe meglio dire nel gekiga (Man-ga: immagini disimpegnate; Geki-ga: immagini drammatiche) disegnato da Masamune Shirow. Il primo adattamento per il cinema è del 1994, un film di animazione dall’architettura registica più vicina alla cinematografia in carne e ossa piuttosto che al cartone animato, con trame complesse e dialoghi di spessore.

 

Ghost in the Shell: trama

In un mondo sovrappopolato e iper tecnologico, le reti informatiche e il flusso delle informazioni hanno raggiunto ogni aspetto dell’esistenza. Protagonista di Ghost in the Shell, thriller fantascientifico dai toni cyberpunk un po’ retrò, è Motoko Kusanagi, il “Maggiore” della Sezione 9, divisione speciale della polizia che contrasta i crimini informatici. Il suo corpo è un contenitore per la coscienza, usato per le sue straordinarie doti tecniche e odiato perché limite all’espansione del Sé.

La storia narrata stuzzica il palato all’evoluzionismo darwiniano, sviluppandosi tra azione, tecnica investigativa ed esistenzialismo cibernetico, in un mondo dove la tecnologia non è nemica ma integrata -forse troppo- al punto da creare conflitti irrisolvibili tra spirito e corpo.

Proprio nel rapporto con il proprio corpo, vero fulcro emotivo di tutta la storia, sta l’elemento originale del franchise Ghost in the Shell, ed è probabilmente a questo che si deve il suo successo.

Ad arricchire il tutto, scontri a fuoco, spionaggio industriale, terrorismo informatico, arti marziali e diplomazia internazionale, tanto per non annoiarsi. Verrebbe da dire che non si tratta della solita fantascienza.

 

Il blocco creativo dello Sci-Fi Occidentale

Perché due colossi come Paramount Pictures Corporation e Dreamworks hanno scelto di acquistare i diritti di questa proprietà giapponese? Dalle immagini disponibili nei trailer di Ghost in the Shell, sembra proprio che lo sforzo di questa produzione si sia esaurito nel convertire l’anime giapponese del 1994 in una pellicola con attori in carne e ossa.

Chi ha visto l’originale riconosce immediatamente nelle scene in anteprima del film, le stesse immagini, come se si passasse dalle tavole disegnate al set cinematografico, ricreando le stesse inquadrature, ricalcando in tutto e per tutto la posizione dei personaggi all’interno della scena, i movimenti, i tempi, tutto. Se così fosse per gran parte del film si tratterebbe di un processo fotocopiativo raro nel mondo del cinema. Nel nuovo adattamento di Ghost in the Shell in uscita il 30 Marzo in Italia (regia di Rupert Sanders), la scelta di Scarlett Johansonn come protagonista scatenò diverse accuse di whitewashing dal momento che il personaggio originale del manga è di etnia asiatica. Il Whitewashing è una pratica che nel cinema assegna a un interprete bianco la recitazione di un ruolo che originariamente viene ricoperto da un attore di etnia non caucasica, al fine di rendere il personaggio più appetibile al grande pubblico. Le polemiche sono in seguito decadute.

Ghost in the shell cyborg coscienza e bioetica tra oriente e occidente -IMM 

Ghost in the Shell: in alcune scene del film è possibile riconoscere le stesse immagini dell’anime giapponese

 

Del resto l’ultimo trentennio della produzione fantascientifica americana, rivoluzionato ad ogni decade dal successo stratosferico di titoli del calibro di Blade Runner, Terminator e Matrix, attraversa una fase di stanca; sfruttato fino all’osso anche il filone dell’esplorazione spaziale (Prometeus, Gravity, Cloud Atlas, l’eccezionale Interstellar, The Martian), la crisi delle idee è evidente.

In Giappone, le case di produzione dei soli anime sono 430 e sono in aumento. Il costo per un episodio di 20 minuti si aggira sugli 80.000 euro; il tutto da moltiplicare per migliaia di titoli. Se quella occidentale è un’industria cinematografica dominata da poche majors con azioni di borsa e un grande fabbisogno di incassi, quella nipponica è multiforme, magmatica e più ispirata. Perché i giapponesi esportano la loro fantasia in tutto il mondo? Cosa hanno di diverso le loro opere, tanto da spingere uno come Steven Spielberg -non proprio l’ultimo arrivato in fatto di idee-, a pescare nell’immenso mare orientale dell’animazione?

 

Immaginario cristiano vs immaginario shinto

I riferimenti delle opere nipponiche di fantasia sono gli stessi che si ritrovano negli altri medium espressivi: shintoismo, buddismo, bushido, sono il substrato culturale del costume che inevitabilmente permea ogni opera, imprimendo ai personaggi quell’etica di fondo, fiera e marziale, che fa della resilienza e della disciplina le virtù in cui da spettatori ci identifichiamo più volentieri.

I giapponesi, maestri dell’estetica e dell’armonizzazione, danno vita molto più spesso di quanto non avvenga altrove, a opere che elogiano la bellezza attraverso l’integrazione e l’equilibrio, con curiosità e piacere, laddove noi occidentali mostriamo una netta tendenza alla separazione e alla rimozione come mezzo di regolazione entropica.

La costante nell’immaginario occidentale fantascientifico –basta pensare ai titoli già citati-, sta nel fatto che macchine e cyborg sono oggetti pensati per sostituirci, per fare il lavoro sporco, e solo successivamente, quando per errore acquistano una volontà propria ribellandosi al loro creatore, la trama diventa invariabilmente quella della lotta tra esseri umani e macchine.

Da trent’anni la nostra fantasia associa al progresso tecnologico un esito infausto, come se “l’uomo che progetta l’uomo” infrangesse un taboo scatenando profondi sensi di colpa. I giapponesi invece non sembrano subirli, al contrario, hanno inventato un genere a sé (mecha); a milioni in tutto il mondo siamo cresciuti appassionandoci ai loro robot, esempio perfetto di integrazione e dell’alleanza tra uomo e macchina.

In quale rapporto si trovano il desiderio, o meglio la capacità dell’uomo di infrangere i propri limiti -pensiamo all’eugenetica o alla clonazione cellulare- e la filosofia repressiva e punitiva del mondo occidentale? Esserci sostituiti a Dio, riparati dal vetro di un laboratorio o dai confini di carta di un romanzo, può essere l’elemento che impone alla fantasia un mondo popolato da esseri ostili, punitivi e ritorsivi? Forse possiamo fare ancora un passo indietro.

La prima opera del genere fantascienza –Frankenstein di Mary Shelley-, esprime in pieno la paura dell’essere umano per lo sviluppo tecnologico, per il diverso, e la condanna della società per l’aberrazione etica che ha dato vita a un mostro. Dunque è già dal XIX secolo, cioè dall’epoca del grande balzo tecnologico dell’uomo, che inizia a manifestarsi la tendenza dei prometei occidentali, cristiani e sacrileghi, a sentirsi decisamente colpevoli?

Diversamente, la religione autoctona giapponese, non riconosce nell’istinto una fonte di peccato. Se in occidente il “male” è proiettato all’esterno e collocato in un nemico da cui psicologicamente è più facile difendersi –potremmo aggiungere…all’insegna di una purezza e di una bontà d’animo, a sua immagine e somiglianza-, nella tradizione shintoista nessuna azione è codificata come peccaminosa di per sé; bene e male sono conseguenze secondarie alle scelte di vita del singolo di perseguire la via della pace e della purezza (bushido), oppure quella della dannazione.

Un ultimo elemento che vale la pena accennare riguarda la differenza, sempre tra gli autori orientali e occidentali, nel modo di rappresentare gli elementi perturbanti; il livello di violenza delle produzioni giapponesi supera di gran lunga quello delle opere occidentali tanto che gli anime, esportati in tutto il mondo, subiscono una censura dalla maggioranza dei paesi importatori.

Lo stesso vale per gli impulsi di natura sessuale: se nel nostro mondo l’esibizione plateale del corpo arriva quasi ad irritare il senso della vista, l’oriente –ancora il Giappone in particolar modo- si dedica alla rappresentazione della sessualità in maniera trasversale, riconoscendone la naturale importanza anche nei confronti delle generazioni più giovani e con modalità spesso distanti dal voyerismo nudo e crudo, cercando una seduzione più raffinata, dominata dall’alternanza tra desiderio e rinuncia. La vista esplicita dei caratteri sessuali è sostituita da altri elementi: il tono della voce, la postura, il tatto, l’olfatto, secondo quella tradizione filosofica della seduzione che va sotto il nome di iki.

Eccoci dunque. C’è sempre un po’ da temere quando “Hollywood” decide di riportare in vita vecchi miti, leggende popolari o successi d’oltreoceano, perché con la sua immensa macchina è in grado di creare capolavori indimenticabili, così come prodotti dalle meccaniche incerte, senza anima. Questa volta, come nel caso di Ghost in the Shell, si affida al lavoro compiuto da altri, e all’intuito, nel tentativo di riaccendere l’interesse di un pubblico annoiato da scontri tra uomo e macchina e dal solito replicante ribelle da “mettere a posto” solo perché diverso.

 

GHOST IN THE SHELL – GUARDA IL TRAILER:

La Terapia Metacognitiva Interpersonale per incrementare l’ adesione al trattamento in caso di malattie croniche

La Terapia Metacognitiva Interpersonale con la sua costante attenzione alla relazione terapeutica e il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo può essere considerata una valida opzione di trattamento per persone con patologie croniche che non sono in grado di rispettare un’adeguata adesione al trattamento.

 

L’ adesione al trattamento nelle patologie croniche: lo stato dell’arte

L’ aderenza del paziente alle prescrizioni mediche è una delle condizioni critiche per il successo terapeutico nella gestione delle malattie croniche, come il diabete, l’ipertensione, le cardiopatie, la BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva) e l’asma e nella gestione del dolore cronico, delle nefropatie e delle malattie infiammatorie croniche intestinali.

Una terapia subottimale non riesce a trasferire al paziente i suoi potenziali effetti positivi e comporta quindi conseguenze per l’individuo, in termini di perdita di opportunità di salute e aumento di mortalità e morbilità, e conseguenze per la società, in termini di risorse sprecate, di maggiori carichi per i servizi sanitari e maggior numero di ricoveri ospedalieri.

Solo il 50% dei pazienti in terapia per malattie croniche segue le prescrizioni, mentre nell’asma e nella BPCO le percentuali variano dal 22 al 78%; quando si parla di terapie antiretrovirali per l’HIV, sono stati riportati valori che vanno dal 26 al 94%.

In Europa si stima che la mancata adesione al trattamento causi circa 200.000 morti l’anno e gravi sulla spesa sanitaria per circa 80 miliardi di euro l’anno.

Il miglioramento dell’ adesione al trattamento costituisce un fattore chiave per affrontare il cambiamento demografico e la sostenibilità futura dei sistemi sanitari dal momento che l’aumento dell’aspettativa di vita ha portato ad una maggiore incidenza di patologie croniche e conseguentemente maggiore necessità di terapie a lungo termine.

Le cause della scarsa adesione al trattamento sono molteplici; in particolare sono state individuate 5 dimensioni dell’aderenza: fattori socioeconomici; fattori legati al sistema sanitario ed al team di operatori sanitari; fattori legati alla condizione patologica; fattori legati al trattamento; fattori legati al paziente.

Il modello attualmente più utilizzato valuta le barriere all’ adesione al trattamento come conseguenze delle interazioni tra paziente, operatore sanitario e sistema sanitario, individuando nella centralità del rapporto medico-paziente la chiave dell’aderenza.

Non c’è profilo di paziente aderente o non aderente. L’età, il sesso, il livello educazionale, l’occupazione, lo stato anagrafico, l’etnia, la religione, il fatto di vivere in contesti urbani o rurali non sono stati associati in maniera inequivoca all’aderenza.

La presenza di una comorbidità psichica espone, invece, ad un rischio aggiuntivo. Il paziente si caratterizza per la sua storia clinica e sono numerosi i fattori legati alla patologia che possono avere un impatto sull’ adesione al trattamento farmacologico: la gravità della malattia, la presenza e la gravità dei sintomi, l’andamento della malattia, la storia della malattia, le comorbidità, la percezione del paziente relativamente alla patologia.

Anche le caratteristiche intrinseche del trattamento e la percezione del paziente relativamente allo stesso sono fortemente correlate all’ aderenza.

Ma questi aspetti possono avere impatti diversi su pazienti diversi, a conferma del ruolo centrale del paziente e delle sue condizioni. Caratteristiche del paziente correlate a scarsa aderenza terapeutica sono: i disturbi cognitivi; i disturbi dell’umore; l’abuso di droghe ed alcool e la scarsa capacità di reagire alla malattia.

 

L’ adesione al trattamento nelle malattie trasmissibili

L’ aderenza alla terapia antiretrovirale è di fondamentale importanza per ridurre la morbilità correlata ad HIV e prolungare la sopravvivenza, migliorare la qualità della vita e prevenire la trasmissione.

Nella realtà clinica un’aderenza non ottimale alla terapia antiretrovirale costituisce un problema rilevante.

In alcuni setting specifici, l’ aderenza alla terapia HAART assume un’importanza maggiore: i primi mesi di terapia, la presenza di marcato immunodeficit, l’infezione sostenuta da virus con mutazioni genotipiche conferenti resistenze ad una o più classi di farmaci, la gravidanza, le coppie sessuali discordanti per l’infezione da HIV, le popolazioni più vulnerabili come i migranti, i detenuti, i tossicodipendenti attivi e le persone senza fissa dimora.

In particolare la depressione, i gravi disturbi d’ansia, l’uso di alcol e sostanze stupefacenti riducono la capacità di adottare e mantenere assunzioni regolari dei farmaci prescritti.

La confidenzialità e il rischio di rivelare il proprio stato sierologico sono aspetti che hanno importanti ricadute sull’ adesione al trattamento. Molte persone sieropositive, infatti, riferiscono difficoltà ad assumere farmaci fuori casa, per esempio nel posto di lavoro o comunque in presenza di altre persone, poiché in tal modo possono segnalare la loro condizione.

Un dato ancora attuale è che una rilevante quota di persone in trattamento riportano ai questionari interruzioni di terapia (drug holidays). Questa specifica tipologia di non aderenza predispone, in base alle caratteristiche farmacocinetiche dei farmaci assunti, al rebound virologico sostenuto più o meno frequentemente da virus resistente.

Tra gli effetti collaterali del farmaco, in grado di ridurre l’ aderenza terapeutica, la lipodistrofia ha un impatto notevole: il paziente stesso accetterebbe un rischio superiore di morte pur di evitare la sindrome lipodistrofica, che può peggiorare o causare disturbi psichiatrici condizionando l’efficacia della terapia.

Anche frequenti disturbi sessuali legati alle alterazioni dell’immagine corporea spesso causano la sospensione e la mancata aderenza terapeutica.

Questo riscontro suggerisce che vi sono ostacoli da ricercare prevalentemente nella sfera psicologica. Recenti studi correlano la presenza del tratto alessitimico nei pazienti sieropositivi ad una maggiore replicazione virale e scarsa aderenza terapeutica. Il deficit della capacità di riconoscimento delle emozioni potrebbe essere indice di una compromissione del funzionamento metacognitivo più ampio, così come della capacità di riflettere e ragionare sugli stati mentali e quindi  essere un marker in grado di influenzare negativamente la relazione medico-paziente e la capacità di comprendere il reale impatto della malattia sulla propria vita e sugli altri.

Di contro, la percezione della propria capacità di seguire il regime terapeutico e un buon livello del senso di autoefficacia sono associati ad elevata aderenza.

Infine, sono state descritte esperienze di interventi diretti a coppie discordanti eterosessuali ed omosessuali che prevedevano informazioni sulla terapia e sull’ adesione al trattamento, identificazione delle barriere, sviluppo di strategie comunicative e di problem solving, ottimizzazione del supporto sieronegativo e costruzione della fiducia nelle proprie possibilità di aderire in modo ottimale alle prescrizione. I risultati hanno dimostrato un significativo miglioramento dell’aderenza nelle coppie che avevano partecipato confrontate con i controlli ma tuttavia gli effetti si attenuavano nel tempo.

Accanto all’HIV, l’emergenza di ceppi di tubercolosi multiresistente ha portato ad una recrudescenza della tubercolosi come importante minaccia per la salute pubblica. E’ stato riportato che circa il 3,6% dei nuovi pazienti affetti da TBC nel mondo presentano ceppi MDR.

La maggior parte dei pazienti MDR-TB non viene individuata, esponendo la loro famiglia e la comunità al rischio di contrarre ceppi MDR-TB trasmessi attraverso l’aria soprattutto nelle comunità ad alta densità e tra le persone con HIV.

A livello globale, la percentuale di paziente MDR-TB, che termina con successo il trattamento rimane inferiore al 50%. Tra le cause di non aderenza vi sono soprattutto problematiche psicologiche e sociali quali dipendenza da alcol, depressione e stigma. L’emozione più comunemente riportata dal paziente, una volta diagnosticata la TB-MDR, è la paura.

Ciò si riflette nella sensazione che il trattamento antitubercolare sia l’ultima opzione per loro, il che corrobora le loro paure intrinseche dell’efficacia del trattamento MDR-TB con conseguente perdita della propria identità, riduzione dell’autostima, senso di colpa ed isolamento.

 

L’ adesione al trattamento nelle malattie non trasmissibili

È da tempo noto che il diabete, in particolare il diabete di tipo 2, è una delle condizioni cliniche nelle quali è più facile registrare un basso livello di adesione al trattamento: per esempio, l’accuratezza nell’eseguire la terapia insulinica oscilla tra il 20 e l’80%, l’adesione alle raccomandazioni dietetiche è all’incirca del 65% e quella dell’automonitoraggio glicemico è di poco superiore al 50%; ancora più bassa (inferiore al 30%) è l’aderenza all’esercizio fisico consigliato.

L’ adesione al trattamento dipende da vari fattori, tra cui preminente è la complessità del trattamento stesso, intesa non solo come numero di farmaci da assumere, ma anche e soprattutto come difficoltà a cambiare lo stile di vita: seguire una  dieta, praticare esercizio fisico, monitorare la glicemia e, cosa ancora più complicata di effettuare gli opportuni aggiustamenti terapeutici.

Altro importante livello di criticità è da individuare nella carente informazione/formazione fornita ai pazienti dal medico o dal team di cura. Sicuramente lo strumento più efficace per migliorare l’adesione di un paziente con DMT2 è il suo attivo coinvolgimento nella gestione della patologia, attraverso un percorso educativo adeguato.

Una rassegna sistematica di 21 studi clinici controllati sugli interventi atti a migliorare l’adesione alle raccomandazioni di cura nel DMT2, condotta dalla Cochrane Collaboration ha confermato che gli interventi efficaci in questo senso, erano innanzitutto quello educazionale condotto da personale dedicato ma anche l’uso di sistemi di supporto terapeutico nella vita quotidiana e la semplificazione della terapia.

Dai risultati emersi dallo studio DAWN (Diabetes Attitudes Wishes and Needs) si evince come attitudini negative, difficoltà a comprendere la terapia e problemi psicologici come disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e del comportamento alimentare sono piuttosto comuni in persone che vivono con diabete e possono contribuire al fallimento terapeutico.

Molte delle reazioni considerate anomale derivano dalla sfiducia che il farmaco possa essere efficace, dalla paura di effetti collaterali, dalla paura di dover assumere per sempre un farmaco e quindi di dipendere da esso, dalla mancanza di percezione della gravità della propria condizione e da molti altri fattori. Una recente meta-analisi ha dimostrato che un’attività educativa sul self-management della malattia migliora i livelli glicemici già al primo follow-up, e che dei contatti più prolungati potenziano questo effetto. Tuttavia, i benefici si riducono da uno a tre mesi dopo la prima fine dell’intervento, suggerendo che i comportamenti appresi si modificano nel tempo e che sono necessari ulteriori interventi per mantenere il miglioramento ottenuto.

Schlundt, Stetson & Plant hanno diviso in gruppi i pazienti affetti da Diabete tipo 1, in base ai problemi che incontravano nell’aderire alle diete prescritte, e rilevato che due dei gruppi individuati – i mangiatori “emotivi” e i diet-bingers, cioè quelli che sistematicamente evitavano la dieta – mostravano problemi di adesione ai trattamenti che si correlavano ad emozioni negative come lo stress e la depressione.

E’ stato osservato che tra i pazienti diabetici l’incidenza doppia della depressione sfocia spesso in complicanze legate allo scarso controllo dei valori glicemici e alla minore adesione alla self-care rispetto alla popolazione generale. Ott e al hanno inoltre rilevato l’impatto drammatico che la depressione ha sui pazienti adolescenti: ne risultano compromessi l’autostima, le relazioni con gli altri, la sicurezza sociale, col risultato che lo stigma persistente della terapia insulinica e la perdita di controllo di fronte all’ipoglicemia determinano esiti clinici peggiori del previsto.

Al contrario, affrontare lo stigma migliora gli stati emotivi ed i comportamenti di salute. Un recentissimo studio ha riportato che interventi ambulatoriali di 15 minuti incentrati su episodi autobiografici hanno prodotto un incremento dell’ aderenza terapeutica con miglioramento della qualità della vita dei pazienti diabetici.

Numerosi studi hanno documentato in tutto il mondo una scarsa adesione al trattamento per l’asma. La quota di non adesione tra i pazienti asmatici varia dal 30 al 70%. Il fallimento dell’adesione determina un cattivo controllo della malattia, con ovvie conseguenze da un punto di vista clinico, ricorsi più frequenti ai ricoveri ospedalieri ed ai servizi di pronto soccorso ed un inevitabile aumento dei costi per la sanità.

L’Open Airways Programme (sei sedute mensili di 1 ora) istruiva genitori a basso reddito di 310 bambini asmatici delle aree urbane, il 44% dei quali temeva di non essere in grado di affrontare adeguatamente un attacco d’asma e preferiva portare i piccoli al più vicino pronto-soccorso. La partecipazione al progetto ha ridotto sensibilmente i costi di ospedalizzazione. Un recentissimo studio effettuato su 568 pazienti con asma di età compresa tra i 18 e i 56 ha dimostrato ancora  l’influenza che la depressione (e una scarsa attività educativa) avrebbe sulla scarsa aderenza ai farmaci corticosteroidei e quindi sugli esiti complessivi della malattia.

Nell’epilessia l’impatto degli effetti collaterali della terapia sulle funzioni cognitive e delle limitate o compromesse capacità cognitive sull’adesione ai trattamenti richiedono maggiore attenzione.

Le dimenticanze del paziente, legate o meno a disturbi della memoria e il rifiuto di assumere farmaci sono i fattori che più comunemente si associano ad una riduzione dell’ adesione al trattamento.

L’associazione delle somministrazioni del farmaco a determinati eventi quotidiani nello schema terapeutico giornaliero, l’uso di aiuti mnemonici, calendari e richiami sonori collegati all’orologio possono rappresentare strumenti utili per migliorare l’adesione ai trattamenti nei pazienti che regolarmente dimenticano di assumere i farmaci. Tuttavia, nella letteratura presa in esame non è stato trovato alcun studio che dimostrasse quanto appena riferito.

Ci sono forti evidenze che suggeriscono come i programmi di autogestione della malattia forniti ai pazienti affetti da patologie croniche migliorino lo stato di salute e riducano il ricorso ai servizi.

L’educazione terapeutica al paziente dovrebbe permettere secondo al definizione dell’OMS “di acquisire e mantenere la capacità e le competenze che lo aiutano a vivere in maniera ottimale con la sua malattia”.

L’educazione all’ aderenza terapeutica è quindi un processo permanente, integrato alle cure e centrato sul paziente. Tuttavia, i diversi modelli  teorici di riferimento ed i programmi disponibili per il supporto psicologico alla terapia suggeriscono che nessuno di essi è in grado di arginare il fenomeno della non aderenza. Nasce l’esigenza di sviluppare interventi che partano dalla conoscenza dei reali aspetti psicologici della non aderenza. Interventi che possono essere adattati al singolo paziente a partire dai suoi bisogni.

 

La terapia metacognitiva interpersonale: un modello per la scarsa aderenza

La Terapia Metacognitiva Interpersonale sviluppa il percorso terapeutico sulle narrative personali con l’obiettivo di aiutare i pazienti a divenire consapevoli di modalità ricorrenti di costruire significati e sostenerli nell’adottare nuove prospettive per accedere agli scopi desiderati.

La Terapia Metacognitiva Iinterpersonale, principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è già stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma.

Al fine di adattare la Terapia Metacognitiva Interpersonale alle persone affette da patologie croniche ma non aderenti alle terapie, abbiamo introdotto una parte preliminare di psicoeducazione e di attività di pianificazione e strategie volte al mantenimento dell’aderenza terapeutica.

La psicoeducazione include argomenti riguardanti l’efficacia delle opportunità terapeutiche, evidenziando che l’efficacia è strettamente correlata ad una perfetta aderenza ai programmi prescritti e la centralità che deve assumere la cura di sé, della propria salute fisica e psicologica.

Bisogna affrontare diversi aspetti della patologia, compresa la rilevanza degli indicatori di progressione e dell’aderenza ed elencare le modalità di assunzione delle opzioni terapeutiche al fine di porre il paziente in grado di impegnarsi attivamente nella gestione della malattia.

Infine, occorre discutere i possibili effetti collaterali dei farmaci ed il modo di affrontarli ed argomentare le implicazioni di un risultato positivo anche a livello relazionale, sociale e lavorativo.

Una volta chiarito il regime terapeutico, l’intervento comprende azioni specifiche di pianificazione delle attività: potrebbe essere utile iniziare con un “dry run” (periodo di prova con farmaci fittizi per vedere come organizzare la routine); pianificare il regime terapeutico sulla base dello stile di vita del paziente identificando le attività che vengono svolte quotidianamente, utilizzando soprattutto attività che vengono sempre fatte  (ad esempio portare i bambini a scuola); stabilire che il farmaco andrebbe preso prima di eseguire l’attività (farsi la barba) e non dopo (anche usare una suoneria per ricordarsi quando assumere le compresse); mostrare al paziente come tenere un diario dei farmaci (una pagina al giorno,  segnando quando ha preso le medicine, quando le ha saltate, perché e come si sente); aiutare il paziente ad identificare un momento per contare le compresse (ad esempio domenica sera preparare le porzioni per tutti i giorni della settimana); stabilire un luogo dove prendere le pillole (collocare le pillole dove andranno prese, ad esempio vicino la tazza del caffè), ricordando che le dosi della sera tendono ad essere dimenticate più facilmente rispetto a quelle del mattino; infine programmare per tempo eventuali cambiamenti della routine (vacanza e cambiamenti del lavoro).

Se i pazienti non rispondono alla psicoeducazione e alla pianificazione delle attività si passa alla seconda fase del trattamento in cui, attraverso l’utilizzo del diario giornaliero, si valutano insieme al paziente i momenti ripetuti  di non assunzione del farmaco.

Questi momenti diventano il focus della psicoterapia. Il terapeuta esplora costantemente  lo stato della relazione terapeutica, al fine di capire se l’alleanza terapeutica è minacciata, caratteristica della Terapia Metacognitiva Interpersonale è infatti adattare gli interventi alle capacità metacognitive del paziente con  particolare attenzione alla relazione terapeutica. I pazienti sono invitati a riflettere sugli episodi relazionali accaduti poco prima della mancata assunzione del farmaco con descrizioni accurate della sofferenza e dei fattori nei quali emerge riportando il resoconto dettagliato degli episodi concernenti le relazioni interpersonali. Un episodio narrativo si svolge entro precisi confini spaziali e temporali e devono essere identificati gli attori presenti in scena, il dialogo che la persona intraprende con loro e il motivo per cui la storia si racconta.

Una volta identificate le motivazioni reali della mancata aderenza, l’obiettivo terapeutico diventa duplice: offrire al paziente strategie alternative per affrontare i momenti di non adesione al trattamento (con tecniche che siano coerenti con le capacità metacognitive del paziente) e collegare i problemi relazionali con i modelli di funzionamento di personalità del paziente in modo da aiutarlo ad acquisire una più profonda comprensione del suo mondo interiore e successivamente promuovere il cambiamento.

Abbiamo utilizzato la Terapia Metacognitiva Interpersonale nel caso di un paziente affetto da infezione HIV, con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale.

La scarsa aderenza era confermata dalla costante replicazione virale e dall’insorgenza di patologie opportunistiche AIDS correlate.

Il paziente nel corso della sua vita aveva assunto diversi regimi terapeutici senza mai raggiungere la piena risposta in termini di soppressione virologica. Nel complesso si presentava con gravi difficoltà a ragionare sui suoi stati mentali e le sue abilità per risolvere i conflitti interpersonali erano molto limitate. In una prima fase riportava in seduta esclusivamente episodi di rabbia distruttiva come responsabili della scarsa adesione al trattamento. Dopo una prima fase di gestione del disturbo d’ansia, si cerca di motivare il paziente sul raggiungimento dell’azzeramento virologico come obiettivo primario della terapia ma egli non si mostra sensibile alle tematiche di psicoeducazione poiché non ritiene di essere responsabile della sua condizione clinica ma piuttosto si definisce vittima di un ceppo di HIV particolarmente virulento ed aggressivo, impossibile da controllare.

Attraverso l’utilizzo della scheda pianificata per il monitoraggio terapeutico, individuiamo insieme i momenti di non assunzione della terapia antiretrovirale. Sono momenti serali, legati al rientro a casa, in presenza di una compagna definita “rigida ed austera” ed in grado solo di “sfruttarlo economicamente”.

Realizza di sentirsi costretto in una relazione che non desidera ma che lo allontana dal senso di solitudine e disperazione. Al fine di superare l’angoscia, dedica molto tempo a chat online in cui si presenta con altre identità creando stati temporaneamente piacevoli ma che esasperano i suoi sentimenti di  impotenza e vergogna. Sono questi i momenti più frequentemente correlati alle “dimenticanze” delle dosi terapeutiche. Conclusa la psicoeducazione quindi, la procedura di Terapia Metacognitiva Interpersonale consiste in una prima parte denominata formulazione condivisa del funzionamento in cui i pazienti, una volta individuati i momenti di non aderenza, sono aiutati per prima cosa ad identificare e dare un nome ai sentimenti associati a questi episodi, capire gli stimoli emotivi e raccogliere una serie di memorie autobiografiche associate per riconoscere e ricostruire gli schemi interpersonali sottostanti. Nel caso specifico, Il nostro paziente ricorda dettagliati episodi autobiografici di rifiuto sin da bambino. Anche da adulto, al momento della diagnosi di infezione da HIV, il paziente ricorda vissuti di  abbandono da parte di familiari e partner. Il desiderio del paziente quindi è quello di essere amato ed accettato, ma la risposta dell’altro è il rifiuto e l’austerità. La sua risposta alla reazione dell’altro è un misto di vergogna, paura di essere abbandonato definitivamente ed umiliazione che lo portano ad utilizzare meccanismi di coping disfunzionali per lenire il dolore.

La formulazione condivisa del funzionamento si considera completata quando il paziente riconosce quel suo schema come generatore di sofferenza e di problemi e desidera cambiare. È a questo punto che il paziente è in grado di differenziarsi dall’immagine di sé come non degno di amore e adottare nuovi comportamenti coerenti con il senso di autostima. Il ruolo del terapeuta diventa quello di aiutare il paziente a comprendere come le proprie idee su quello che succede nelle relazioni con gli altri non sono necessariamente vere ma possono essere diverse se guardate da un’altra prospettiva. In particolare, durante la seduta si aiuta il paziente ad accedere a stati mentali positivi e a parti di sé funzionanti. Nel corso dei mesi di terapia, il paziente è stato sempre partecipe dei suoi parametri biologici, è al corrente dell’incremento dei suoi linfociti grazie all’aderenza terapeutica mantenuta e scopre di essere in grado di avere un controllo della malattia ed un ruolo sulla sua evoluzione. Il paziente comprende, inoltre, che cedere denaro alla compagna ed autosacrificarsi sono modalità ricorrenti utilizzate per sentirsi accettato ma che incrementano la sua rabbia, emozione che riconosce più facilmente.

Il paziente decide di interrompere la relazione con la compagna affrontando il senso di abbandono e la solitudine e si espone a situazioni relazionali prima temute, sperimentando momenti di piacere, calore ed accettazione. Sperimenta il senso di autoefficacia e di appartenenza al gruppo attraverso esercizi di esposizione concordati con il terapeuta.

Il paziente si riconosce come autore degli accadimenti e capace di prendersi cura di sé attraverso la gestione della malattia, il che si traduce in un lento e progressivo cambiamento del modo di porsi rispetto agli eventi della vita quotidiana.

Solo dopo essersi riconosciuto come autore del cambiamento, il paziente è sensibile ai temi di psicoeducazione relativi alla sua patologia, alla loro valenza relazionale e desidera mantenere i benefici dell’aderenza terapeutica acquisendo abilità di problem solving flessibili.

Dopo 2 anni di trattamento, il paziente ha raggiunto la soppressione virologica ed un buon compenso immunologico con remissione clinica delle patologie AIDS correlate.

L’applicazione su un caso singolo sostiene la necessità di replica su popolazioni più ampie ed eterogenee tuttavia gli eccellenti risultati ottenuti confermano che la Terapia Metacognitiva Interpersonale con la sua costante attenzione alla relazione terapeutica e il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo può essere considerata una valida opzione di trattamento per persone con patologie croniche che non sono in grado di rispettare regimi terapeutici complessi.

I correlati neurocognitivi dell’uso problematico dei social network

L’ uso problematico dei social network, come Facebook, mentre si sta guidando, durante un meeting di lavoro o in altre circostanze che potrebbero portare a conseguenze negative, è stato collegato a uno squilibrio tra due sistemi cerebrali.

 

Hamed Qahri Saremi, un professore associato di sistemi d’informazione al De Paul University College of Computing and Digital Media, è co-autore dello studio insieme ad Ofir Turel, un professore di sistemi d’informazione e scienze decisionali alla California State University, Fullerton e ricercatore interno alla University of Southern California, Los Angeles.

 

La dual system perspective per spiegare l’ uso problematico dei social network

I due ricercatori, per indagare i meccanismi alla base dell’ uso problematico dei social network, hanno applicato la “dual system perspective”, una teoria mutuata dalla psicologia cognitiva che ipotizza che gli uomini abbiano due differenti meccanismi cerebrali che influenzano i processi di decision-making.

Essi ritengono che il Sistema 1 sia automatico e reattivo, venga innescato velocemente, spesso al di sotto del livello di coscienza, in reazione a stimoli come guardare i social network o ricevere una notifica dagli stessi; mentre il Sistema 2 è  un sistema riflessivo e razionale che viene innescato più lentamente, regola la cognizione, inclusa quella generata dal primo sistema, e controlla i comportamenti, aiutando gli individui ad evitare gli impulsi e le azioni che non sono nel loro interesse.

Utilizzando un questionario validato deputato a misurare l’ uso problematico dei social network, i ricercatori hanno raccolto le risposte di 341 studenti universitari del Nord America che utilizzano frequentemente Facebook.

I ricercatori hanno raccolto e ed analizzato dati riguardanti l’ uso problematico di Facebook durante un semestre e in seguito hanno seguito il percorso universitario di ogni studente per indagare la loro performance accademica – utilizzando la media dei voti – sia nei singoli semestri, che, cumulativamente, in tutto l’anno accademico.

I soggetti che avevano mostrato un uso problematico dei social network, nella fattispecie un uso di Facebook più marcato, avevano una forte preoccupazione cognitivo-emozionale (sistema 1), ma un controllo cognitivo-comportamentale più debole (sistema 2), mostrando uno squilibrio tra i due sistemi; di fatto, più grande era questo squilibrio, più i soggetti erano a rischio di sviluppare comportamenti legati all’uso problematico dei social.

Tra i risultati più importanti della suddetta ricerca sull’ uso problematico dei social network abbiamo:

  • Il 76% dei soggetti riportava l’utilizzo di Facebook in classe;
  • Il 40% dei soggetti utilizzava Facebook alla guida;
  • Il 63% dei soggetti riportava l’utilizzo di Facebook quando aveva una conversazione faccia a faccia con un’altra persona;
  • Il 65% dei soggetti sosteneva di utilizzare Facebook sul lavoro, invece di lavorare.

Il forte effetto dell’ uso problematico dei social media sulla performance accademica è sorprendente – sostiene Turel. – Un leggero incremento nell’ uso problematico dei social si traduce in una significativa diminuzione dei voti, e il declino nella performance è costante. Esso, infatti, si è protratto per un anno dopo il nostro primo studio – ha aggiunto.

Qahri-Saremi e Turel hanno scoperto che un uso problematico di Facebook influisce negativamente la performance accademica degli studenti: più problematico era l’utilizzo, meno alti erano i voti. Infatti, più del 7% delle differenze della media dei voti tra gli studenti, era attribuibile al grado di problematicità legato all’ uso dei social media.

Gli autori hanno definito il comportamento problematico come un “tipico comportamento impulsivo, spesso di breve durata, che è considerato inappropriato, proibito, o pericoloso in un dato ambiente o contesto, o per un dato status o obiettivo della persona“. Questi comportamenti problematici possono portare a conseguenze negative proprio come l’effetto sulla performance universitaria evidenziato nello studio.

La cosa più entusiasmante di questo studio, per me, è che il nostro modello di ricerca basato sul sistema dual, potrebbe spiegare in maniera molto adeguata come siano costituiti questi comportamenti e come essi possano essere controllati – sostiene Qahri-Saremi.

Sfortunatamente, i comportamenti problematici nell’utilizzo di “sistemi d’intrattenimento”, come i social media o i videogames, sono molto diffusi oggigiorno e vanno incrementandosi. In alcuni casi, essi hanno comportato gravi conseguenze per i fruitori, come si evince , ad esempio, dalle news che lo scorso anno hanno riguardato l’ uso problematico di Pokemon GO, i cui giocatori sono stati coinvolti in incidenti o sono stati derubati, perché erano distratti dal gioco. Pertanto, c’era bisogno di un modello di ricerca che potesse spiegare perché questi comportamenti emergano e come possano essere mitigati, obiettivo che si è riflesso abbastanza bene nel nostro lavoro – sostiene nuovamente Qahri-Saremi.

Lo studio sull’ uso problematico dei social network ha suggerito che le persone potrebbero iniziare a limitare l’ uso dei social media con delle strategie, ad esempio disattivando le notifiche dei social sul proprio telefono. E’ stato anche suggerito che i programmatori potrebbero prendere in considerazione l’idea di aggiungere specifiche di sistema che renderebbero ai fruitori più facile controllare il proprio comportamento problematico.

Seppure la teoria del sistema duale sia una teoria stabile e comprovata all’interno del filone della psicologia cognitiva, si pensa che Qahri-Saremi e Turel siano stati i primi ricercatori ad utilizzarla per spiegare l’eziologia dell’ uso problematico dei social network.

Il prossimo passo include delle ricerche aggiuntive estendendo lo studio ad altri social media, come i video games e le chat. Gli autori aggiungono che la ricerca futura potrebbe anche indagare se gli stessi risultati possano essere prodotti in altri contesti culturali ed educativi.

Inoltre, studi di neuroimmagine potrebbero integrare questi risultati ed individuare le strutture cerebrali del sistema sopra menzionato, nel contesto nell’ uso problematico dei social media.

cancel