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Next to Normal: il disturbo bipolare e il caregiving in scena e nella realtà

Next to Normal è uno spettacolo musicale, uno dei maggiori successi di Broadway degli ultimi anni, vincitore di tre Tony Awards e del Pulizer per la drammaturgia. Questo musical porta in scena la vita apparentemente normale della famiglia Goodman: il padre Dan, la madre Diana, i figli Gabe e Natalie.

Germana Celentano – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Una famiglia come tante, e così come ogni nucleo familiare nella vita reale affronta i propri problemi e drammi, piccoli o grandi, anche i Goodman si ritrovano ad affrontare la loro difficoltà. A manifestare i sintomi del disturbo bipolare è Diana in una tranquilla giornata, preparando tramezzini a casa: non accetta la morte del figlio Gabe, ancora neonato, avvenuta anni prima. Diana nel suo quotidiano crede di vedere una sua personale proiezione mentale di come sarebbe stato il figlio se fosse vissuto, mentre sembra non prestare attenzione alla figlia Natalie, oramai adolescente, la quale si sente invisibile agli occhi della madre. Infine il marito Dan, che cercherà di ricostruire la vita di Diana come era prima della morte del piccolo Gabe.

La madre Diana, in cura con psicofarmaci sembra assorta e concentrata in un mondo tutto personale, mentre la figlia continua a satellitarle intorno, non vista ma sempre estremamente presente, nel sostegno e nel supporto; così in un disperato tentativo di essere vista dalla madre, Natalie comincia a sua volta ad assumere farmaci in modo incontrollato.

Questo musical pone lo sguardo su uno spaccato di nucleo familiare ed al contempo della mente umana: si affrontano i temi del disturbo bipolare e dei caregiving.

Molto brevemente, il disturbo bipolare è una patologia caratterizzata dalla fluttuazione del tono dell’umore, tra mania/ipomania e depressione (prevalenza all’incirca al 2% nella popolazione generale, con un’elevata percentuale di casi con storia famigliare positiva per malattia). Sintomo cardine dunque è la presenza di fasi di mania/ipomania, seguita da un successivo episodio depressivo. Il disturbo viene suddiviso in due forme principali: disturbo bipolare di tipo I e bipolare di tipo II; a questi si aggiungono anche ciclotimia e disturbi bipolari sotto soglia.

L’approccio terapeutico annovera la possibilità di un intervento di natura farmacologica che di natura psicoterapica:

  • Sul piano farmacologico, la scelta verte sostanzialmente sull’utilizzo di antidepressivi il cui uso appare controverso e discusso per via del sospetto rischio di switch dalla depressione alla mania; di stabilizzanti dell’umore che riducono le fluttuazioni dello stato umorale e stabilizzano il tono affettivo; di antipsicotici, adoperati con efficacia durante le fasi maniacali, con lo scopo di “sedare” l’iperattività e l’eccessivo incremento della produzione ideica del soggetto.
  • Sul piano psicoterapico la gamma dei possibili approcci è piuttosto ampia, tutti con il fine ultimo di focalizzarsi sugli aspetti che maggiormente incidono negativamente sulla qualità di vita del paziente, come l’impulsività (suicidalità), l’ostilità, l’irritabilità, i comportamenti “risk-taking” e di abuso, la sensitività interpersonale.

Ma cosa succede intorno al paziente, e come incide la malattia sulla vita di colui che si ritrova a divenire donatore (giver) di assistenza (care)?  Recentemente si è fortificata l’attenzione per i caregiving in generale, ma in particolare per i giovani ed i bambini: questi ultimi sono una popolazione a rischio di insuccesso scolastico e cattive condizioni di salute, a causa dello stress fisico ed emotivo cronico per le eccessive responsabilità che devono sostenere.

L’American Academy of Pediatrics (AAP) National Conference & Exhibition di San Diego, ha presentato uno studio nato dalla collaborazione tra i ricercatori della University of Miami Miller School of Medicine e l’American Association of Caregiving Youth (AACY) con lo scopo di comprendere meglio l’esperienza quotidiana dei giovani caregivers e studiare l’impatto dei servizi forniti da AACY.

I numeri che emergono dallo studio (550 casi di caregivers con età media di 12 anni di cui il 62% di sesso femminile ed il 38% di sesso maschile) sono importati: negli Stati Uniti ci sono più di 1,3 milioni di bambini iper-responsabilizzati nella cura di familiari malati, feriti, anziani o disabili. Costoro riferiscono di spendere nella cura dei familiari, intesa come sostegno alla persona, sostegno materiale nelle attività inerenti la vita quotidiana, e sostegno emotivo; in media 2,5 ore al  giorno e 4 ore nei week end.

Si è cercato di indagare quali possano essere le ripercussioni a medio-lungo termine delle responsabilità che sono tenuti ad assumersi e a sostenere ed è emerso che il carico del caregiver è stato associato al disordine mentale, tuttavia la mancanza di studi e di interventi formali volti ad indagare questa popolazione nel dettaglio, riflette la negligenza vigente in questo ambito.

Uno studio trasversale Brasiliano, dell’Universidade Católica de Pelotas ha sottoposto giovani adulti al CBI, mentre le informazioni sui disturbi mentali del caregiver (Asse I) e l’abuso di alcol sono stati ottenuti attraverso la MINI. In conclusione il carico di caregiving di pazienti affetti da depressione e disturbo bipolare è stato associato a disturbi dell’umore e d’ansia.

E’ noto che il disturbo bipolare sia associato a disabilità e rischio di suicidio, dunque i familiari più stretti  o gli amici spesso hanno un ruolo primario nel sostenere un adulto con disturbo bipolare. Tuttavia poche informazioni “evidence-based” sono accessibili al pubblico per guidare gli operatori sanitari ed il cargiver. Il carico del cargiver aumenta il rischio di depressione e di problemi di salute del cargiver stesso. Per contribuire a colmare il gap di informazioni, medici, operatori sanitari e fruitori, possono contribuire, su iniziativa di uno studio condotto dall’ IMPACT Strategic Research Centre (School of Medicine, Deakin University, Geelong, Victoria, Australia) allo sviluppo di linee guida con il metodo Delphi. Il lavoro ha avuto lo scopo di valutare l’accettabilità e l’utilità della versione online delle linee guida.

I visitatori del sito hanno risposto a un sondaggio iniziale online, circa l’utilità delle informazioni (N = 536). Un più dettagliato sondaggio di feedback di follow-up è stato inviato via e-mail un mese dopo agli utenti (caregivers di adulti affetti da disturbo bipolare N = 121). Il feedback è stato analizzato quantitativamente e qualitativamente per stabilire le valutazioni  e le applicazioni delle informazioni on-line, se e come il tutto potesse essere migliorato. Dai risultati del sondaggio è emerso che in generale il sito contenente le linee guida è stato utilizzato e valutato positivamente. Il sito dunque sembra essere utile per le famiglie e gli amici in cerca di informazioni di base e rassicurazioni, e può essere un modo economico per diffondere linee guida per i caregivers. Coloro che si occupano di persone con disturbo bipolare più grave e disordine cronico, o che hanno problemi familiari complessi, potrebbero beneficiare di interventi più specializzati, suggerendo l’importanza di un approccio graduale di cura a sostegno del caregivers.

Sull’importanza di un approccio di cura a sostegno del caregiver, sono state condotte indagini sulla necessità di accompagnare, certamente il paziente, ma anche colui che si occupa del paziente e vive da vicino la patologia, valutando l’impatto di un intervento psicoeducativo sui livelli di onere, di autostima e sulla qualità della vita nei caregivers di pazienti con diagnosi di disturbo bipolare.

Uno studio clinico randomizzato dell’Universidade Católica de Pelotas (UCPel), Pelotas, Brasil, ha valutato i cambiamenti nel livello di carico, i livelli di autostima e la qualità della vita. In base allo studio i caregivers possono partecipare a sei sedute di gruppo con o senza psicoeducazione. I risultati indicano che entrambi i gruppi hanno presentato un miglioramento nei punteggi degli oneri soggettivi nel corso degli interventi, tuttavia non ci sono differenze per quanto riguarda il miglioramento dell’autostima percepita e sulla qualità della vita, quando si confrontano i gruppi con e senza l’intervento di psicoeducazione.

In conclusione un intervento psicoeducativo su cargivers di pazienti affetti da disturbo bipolare non ha portato benefici per la salute del caregiver, dunque un follow up longitudinale sarebbe auspicabile per valutare eventuali differenze nel tempo, in termini di onere, autostima percepita  e qualità della vita da parte dei cargivers.
Purtroppo alle difficoltà del caregiver con il paziente, ed alle ripercussioni che ne derivano in termini di qualità della vita, si aggiunge anche il pericolo del pregiudizio della discriminazione, dello stigma, che accompagnano spesso la malattia mentale che si tiene “nascosta”.

Il MIRIAD study group ha cercato di determinare la frequenza degli ostacoli al trattamento, di confrontare gli ostacoli al trattamento riportati dagli operatori sanitari e dai caregivers, di indagare i predittori demografici che incidevano sulla segnalazione degli ostacoli. Il profilo degli ostacoli di trattamento differiva tra i caregivers e gli operatori sanitari: gli operatori sanitari sono stati più propensi a riferirli rispetto ai caregivers. Tra i caregivers, il sesso femminile o l’etnia nera, avevano maggiore predisposizione a riportare la presenza di ostacoli. Dallo studio si è evinto come siano necessari approcci molteplici per ridurre gli ostacoli al trattamento, sia per i caregivers che per gli operatori sanitari.

Dunque le difficoltà emergono su più fronti: un riesame condotto dal Dipartimento di Neuroscienze dell’Università La sapienza di Roma ha riesaminato gli oneri oggettivi e soggettivi nei caregivers (membri della famiglia di solito) dei pazienti con disturbo bipolare e ha elencato quali sintomi dei pazienti sono considerati più onerosi da parte degli operatori sanitari. Al fine di fornire un commento critico sul carico del caregiver in pazienti con disturbo bipolare, hanno effettuato una dettagliata ricerca per identificare tutti gli articoli ed i capitoli di libri in lingua inglese pubblicati dal 1963 al novembre 2011 che trattassero questo argomento. I livelli più elevati di stress sono stati causati dal comportamento del paziente e dal suo ruolo disfunzionale (lavoro, istruzione e relazioni sociali). Inoltre, il ruolo di caregiver compromette altri ruoli sociali occupati dal caregiver stesso, diventando parte del costo sociale inerente il disturbo bipolare. Vi è la necessità di comprendere meglio la visione del caregivers e le percezioni personali degli stressors e le richieste derivanti dal prendersi cura di qualcuno con disturbo bipolare, per sviluppare pratiche ed interventi appropriati e migliorare la formazione dei caregivers.

Tanto è stato fatto ma tanto è auspicabile si faccia perché nel percorso di cura ed assistenza la famiglia è per lo più costante supporto operativo e/o economico.

Il donatore di assistenza è parte integrante di un binomio paziente-famiglia, base di un rapporto inscindibile affettivo e sociale bidirezionale tra la famiglia ed il paziente stesso.

La presa in carico del paziente necessita di un approccio bio-psico-sociale, che tenga conto delle varie aree della salute multidimensionale (fisica, mentale, sociale, spirituale) e dei fattori che influenzano la salute (fattori ambientali e fattori personali) nei loro aspetti negativi e positivi, e propone attività sanitarie e socio-sanitarie integrate (attività di equipe, percorsi di cura) con la partecipazione del paziente, della famiglia e delle comunità locali. L’approccio bio-psico-sociale è un approccio a tappe centrato sulla persona, dunque sul paziente, ma anche su ciascun membro della famiglia, che rappresenta il principale erogatore assistenziale a lungo termine. Dunque la rete familiare deve essere sostenuta e non sostituita, cosicché le tante famiglie Goodman possano sentirsi supportate e non in balia degli eventi.

La scid- 5-PD nella diagnosi dei disturbi di personalità

La formulazione di un caso è ancor più forte se supportata e illuminata da coordinate condivise e strumenti in grado di coglierle all’interno di un ragionamento clinico. Da qui l’importanza di uno strumento d’indagine per i disturbi di personalità, quale la SCID -5-PD.

Intuito clinico, saper sentire quello che il paziente ci comunica spesso già dalla sala d’aspetto, quello che emana quando siamo seduti di fronte a lui, l’abilità di navigare insieme al paziente nelle narrative che fanno da specchio alla sua sofferenza, accedere alle tracce autobiografiche, sono alcuni degli elementi importanti del clinico che lavora con i disturbi di personalità, e non solo.

Esperienza, sensibilità clinica, conoscenza di sé e della propria soggettività in campo con il paziente ci consentono di fare inferenze e comprendere, a volte in modo tacito, il funzionamento del paziente durante il colloquio clinico.

La formulazione di un caso è ancor più forte se supportata e illuminata da coordinate condivise e strumenti in grado di coglierle all’interno di un ragionamento clinico. Parte della formulazione del caso richiede un’indagine più sistematica, una ricerca di segni e sintomi che consentano di vedere e descrivere nella sua globalità a quale area di psicopatologia conosciuta ci stiamo riferendo. Senza coordinate il rischio sarebbe quello di cadere in una diagnosi privata e auto-referenziale, con conseguenze sulla formulazione del caso e sull’impostazione globale del trattamento.

Un’ indagine guidata che produca un giudizio clinico sufficientemente valido e attendibile risponde sia alle esigenze dei clinici impegnati nell’inquadramento diagnostico e terapeutico in stanza con il paziente, sia dei ricercatori impegnati a definire i criteri di inclusione e di esclusione in studi sperimentali ed epidemiologici, o che vanno ad investigare modelli di disturbi di personalità che si presentano insieme ad altri disturbi mentali o condizioni mediche, o interessati ad indagare la struttura sottostante alla patologia della personalità.

Da qui l’importanza di uno strumento d’indagine per i disturbi di personalità, quale la SCID -5-PD, l’intervista clinica strutturata per la valutazione dei 10 disturbi di personalità del DSM-5, la cui versione italiana è edita da Raffaello Cortina Editore.

La SCID-5-PD per i disturbi di personalità rappresenta uno strumento clinico fondamentale per l’indagine di affetti, cognizioni e comportamenti ricorrenti e stabili, sia all’interno di una cornice categoriale (che permette la formulazione di una diagnosi, presente o assente) sia lungo un continuum.

Ora qualche parola per capire meglio l’importanza e le potenzialità di utilizzo di questo strumento.

La SCID-5-PD nasce dal lavoro di revisione della SCID-II (Structured Clinical Interview for DSM-IV Axis II Personality Disorders), che inizia dopo la pubblicazione del DSM-5 nel 2013 e riflette le modifiche apportate nel nuovo manuale dei disturbi mentali.

La nuova denominazione rappresenta la definizione non assiale delle diagnosi del DSM-5 e categorie di ricerca precedentemente incluse nel DSM-IV ma eliminate nel DSM-5 (Disturbo di Personalità Passivo- Aggressivo e il Disturbo di Personalità Depressivo) sono state escluse.

Nonostante nessuno dei criteri sia stato modificato nel passaggio al DSM-5, tutte le domande dell’intervista sono state revisionate al fine di garantire di cogliere al meglio il costrutto espresso nei criteri diagnostici e rispecchiare con maggiore aderenza l’esperienza personale dei soggetti.

Inoltre, sebbene la valutazione dimensionale non sia una caratteristica ufficiale del DSM-5, la SCID-5-PD prevede la possibilità di effettuare una valutazione dimensionale di ciascuno dei disturbi di personalità categoriali del DSM-5 sommando il singolo punteggio di ciascuna valutazione (“0”, “1”, “2”) e producendo per quel disturbo un punteggio dimensionale che riflette sia il punteggio a soglia, sia il punteggio sottosoglia del criterio.

 

Come si struttura la SCID-5-PD?

La SCID-5-PD comprende la Guida per l’Intervistatore, il Questionario e l’Intervista.

Il clinico o il ricercatore, in base allo scopo da cui è guidato, può decidere se procedere all’indagine diagnostica utilizzando l’intervista integralmente o valutando solo alcuni disturbi di personalità.

Inoltre, allo scopo di ridurre il tempo necessario per l’intervista, la SCID-5-PD prevede un questionario di personalità autosomministrato (SCID-5-SPQ), che può essere compilato dal paziente prima dell’intervista come strumento di screening a bassa soglia.

La SCID-5-PD si apre con un’indagine generale che permette di ricavare informazioni sulle esperienze pregresse del soggetto e fornisce indizi su aree potenzialmente problematiche. Il quadro generale è composto da due sezioni: la prima parte raccoglie dati demografici, istruzioni e storia lavorativa, precedenti rapporti con il sistema legale, periodi attuali e passati di psicopatologia; la seconda parte valuta il comportamento abituale del soggetto e le sue relazioni, mettendo in evidenza le capacità riflessive del soggetto.

L’Intervista procede con le domande volte a valutare (“?” = informazioni insufficienti, “0” = Assente, “1” = Sottosoglia, “2” = Soglia) i criteri del DSM-5 per ognuno dei 10 disturbi di personalità, in un ordine finalizzato a favorire il rapporto con il soggetto.

I criteri più complessi da indagare mediante l’intervista sono esaminati attraverso diverse domande, che riflettono aspetti dello stesso criterio. Sono inoltre previste domande di approfondimento che hanno la finalità di stabilire attraverso un maggior numero di elementi se il criterio del disturbo di personalità è soddisfatto al livello di gravità-soglia. La guida sottolinea l’importanza di integrare l’indagine dei criteri con dettagli specifici di pensieri, sentimenti e comportamenti per definire al meglio l’appropriatezza di un punteggio. Immaginiamo, per esempio, che il paziente risponda affermativamente alla domanda che indaga la difficoltà ad esprimere disaccordo con le persone (criterio 3 del disturbo di personalità dipendente): attraverso gli esempi e le domande di approfondimento andiamo a cogliere la motivazione sottostante che guida il paziente, chiedendoci e domandando se le difficoltà ad esprimere dissenso derivano, come prevede il criterio, dal timore di perdere supporto e approvazione o sono in gioco altre componenti.

I commenti alla SCID-5-PD contenuti nella guida sono un valido aiuto all’intervistatore per interpretare il significato di un criterio e distinguerlo da altri aspetti simili ma costitutivi di un altro disturbo di personalità.

Qualora il paziente riconosca il tratto è importante stabilire se i comportamenti, le cognizioni o gli affetti siano parte di un disturbo di personalità, e meritino quindi un punteggio “2” (soglia): il comportamento o l’esperienza descritta è presente nel paziente più che nella maggior parte degli individui? Accade in molte situazioni differenti, con persone diverse? Quali problemi ha causato, quali conseguenze sul piano delle relazioni e del lavoro? Quanto spesso accade e da quanto il paziente si sente così?

In altre parole quanto è patologico, persistente e pervasivo il tratto? Possiamo attribuirlo ad altre cause o le abbiamo escluse correttamente?

Valutare con attenzione e sensibilità clinica queste dimensioni è di fondamentale importanza per discriminare pattern di esperienza interna o di comportamento patologici da quelli sotto-soglia diagnostica; come emerge da un’attenta visione dello strumento, la SCID-5-PD supporta e contemporaneamente si serve del giudizio e dell’osservazione clinica, chiamati spesso in causa nella valutazione dei diversi criteri.

Lo studio dello strumento consentirà al lettore di approfondire quanto qui abbiamo solo accennato.

Nella guida per l’intervistatore si possono trovare la descrizione delle caratteristiche strutturali della SCID-5-PD, le indicazioni per la sua corretta somministrazione, i commenti per ciascuna domanda dell’intervista, le caratteristiche di validità e affidabilità. Si conclude, nell’appendice, con la discussione di un esempio completo di un caso clinico.

Pensando ai clinici impegnati nel lavoro con i pazienti che vivono e incarnano i criteri indagati dalla SCID-5-PD, si conclude con un’ultima riflessione: la familiarità nell’utilizzo di questo strumento consente forse di interiorizzare una modalità d’indagine con il paziente nella quale l’abilità del clinico di dare senso e accordare tra loro affetti, cognizioni e comportamenti  si unisce all’impegno verso la descrizione di un quadro clinico definito, conosciuto e condivisibile, conferendo maggiore saggezza e raffinatezza alla formulazione del caso e del percorso terapeutico.

Tutti in maschera, la sincerità al museo

In seduta Julien si mostra annoiato, l’idea di avere una parte vulnerabile gli suscita ribrezzo. Alla domanda della terapeuta: “Perché hai bisogno di presentarti così?”, la prima risposta è raggelante: “Perché sono un figlio dei tempi, un solitario idolatra trasgressivo”.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 09/04/2017 su LA LETTURA del Corriere della Sera

 

Il suo vero nome è Andrea, ma si fa chiamare Julien, si irrita con chi non si attiene alla norma. Sedici anni e indossa lenti a contatto colorate: una gialla e una viola, mai dare riferimenti certi. Estate e inverno, non si stacca mai dal cappotto di pelle. Si ispira a Neo di Matrix, copia Marylin Manson, la sua regola è: attira l’attenzione, presentati forte. Perché è in psicoterapia? Ce l’hanno mandato i genitori, angosciati dai pensieri di suicidio che hanno letto sul diario. In seduta Julien si mostra annoiato, l’idea di avere una parte vulnerabile gli suscita ribrezzo. Alla domanda della terapeuta: “Perché hai bisogno di presentarti così?”, la prima risposta è raggelante: “Perché sono un figlio dei tempi, un solitario idolatra trasgressivo”.

Qualche mese dopo la risposta sarà: “Perché mi sento debole e se guardano quel lato di me vedono un verme e mi vergogno. La vita ha senso se vinci, senza la maschera sei spacciato”. Un segno dei tempi: la menzogna come coperta per la macchia, la vergogna come vera legge del comportamento, la sincerità un’arte da rinchiudere in musei polverosi.

Eppure la bugia nasce con un senso: fonda l’identità. Il bambino che mente sta imparando a tenere il mondo interno libero dall’influenza colonizzante dell’adulto, e a realizzare i propri piani anche in assenza di approvazione. Il bambino che non sa mentire resterà a vita un’appendice non pensante del genitore.

La sincerità, d’altra parte, nel museo ci sta stretta. Dobbiamo sapere a chi credere, chi è la fonte attendibile d’informazioni. La gran parte di quello che i bambini apprenderanno non sarà frutto di esperimenti scientifici condotti in prima persona. Assorbiranno conoscenza trasmessa e quindi l’attendibilità della fonte assume un’importanza tremenda.

La capacità di fidarsi lo psicologo cognitivo Dan Sperber la chiama fiducia epistemica: credere che una persona ci stia fornendo informazione sincera e rilevante. Se minata, secondo lo psicoanalista Peter Fonagy, si radica la psicopatologia: il mondo diventa pericoloso e confonde. La fiducia epistemica si trasfonde nella mente del bambino da un interlocutore sincero. La salute mentale dipende da questo, la frattura della fiducia primaria crepa le relazioni umane. Fiducia epistemica non implica ingenuità, ma sapere a chi credere, quando, e a quali condizioni.

Ha ragione Julien: liberarsi della sincerità è il gesto che segna la nostra epoca? Drammaticamente probabile. Non si pensi alla cosiddetta post-verità: termine noioso, parola di moda che presto non ricorderemo: chi detiene il potere ha sempre divulgato informazione falsa. Di fatto, generare illusioni è un’arte che ultimamente alletta da pazzi.

Il prezzo delle finzioni noi psicoterapeuti lo calcoliamo dai racconti dei nostri pazienti, Julien ha mille fratelli e sorelle. Livia è una trentenne proprietaria di un circolo sportivo. Beve troppo si sente sola e ha ventitré identità sui social, segnalate in aumento. Ne trae piacere, conosce uomini, si fa portare a letto ma al mattino non parla, troppa fatica essere coerente con la maschera indossata la sera prima. Il terapeuta presto scopre che: il padre era prepotente e considerava Livia un’idiota e lei oggi è d’accordo. Inoltre: è cresciuta con l’idea di dover rendere felici tutti, ma alla fine della giornata non sa più cosa vuole per sé. Costruirsi avatar la consola: gratificazione virtuale e sesso reale a costo basso e nessuno di cui dovere prendersi cura. Il verdetto finale glielo dà lo specchio: chi sei? Cosa vali? Spietate le risposte: nessuno e niente.

Alla fine si tratta di scegliere: la sincerità, ben dosata, rinsalda la generazione successiva. Mentire è un gioco bellissimo, ottimo per individuarsi. Ma anche per avere mille rapporti gratificanti a breve e neanche un futuro.

Le credenze dell’insegnante sull’intelligenza viste dagli studenti: quale rapporto con la motivazione allo studio?

All’interno di questo studio si è cercato di indagare in particolare il punto di vista degli allievi rispetto alle credenze sull’intelligenza degli insegnanti. Infatti, come sottolineano i paradigmi di tipo costruttivista, è fondamentale indagare come l’ambiente viene percepito dalle persone, specialmente in adolescenza, periodo in cui l’individuo fa maggiormente ricorso al pensiero logico- paradigmatico

Susanna Paterlini e Enrica Giaroli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Gli studi recenti nel campo della motivazione hanno esaminato, oltre ai costrutti personali, cognitivi e affettivi che gli individui elaborano nelle interazioni sociali, il ruolo dei contesti in cui gli individui stessi si trovano ad agire.

Tra questi contesti, il gruppo classe rappresenta una vera e propria “arena sociale” dove hanno luogo i processi di sviluppo e maturazione che si traducono nel consolidamento di rapporti affettivi e nella sperimentazione ed elaborazione di modelli di identità personale (Mariani, 2012). In particolare, oltre al gruppo dei pari, appare centrale la figura del docente che, come molti studi dimostrano, svolge un ruolo importante nello strutturare un ambiente adeguato, nel promuovere il coinvolgimento scolastico dei suoi allievi e nel favorire il superamento dei compiti di sviluppo caratteristici di questa età (Vacirca, Giannotta & Ciairano, 2007). Superare con successo la fase adolescenziale nella società contemporanea, infatti, si configura sempre più come un’impresa evolutiva congiunta che riguarda più di un contesto di sviluppo (Di Stefano & Vianello, 2002). Si tratta di un’impresa che compete sempre meno esclusivamente al nucleo familiare di origine e che coinvolge sempre più la scuola e nello specifico, soprattutto, il lavoro svolto dagli insegnanti.

Altrettanto centrali per lo sviluppo di una buona motivazione a scuola sono le concezioni dell’intelligenza. Le ricerche in questo campo hanno mostrato come esse tendano a strutturasi attorno a due poli: uno innatista, che considera l’intelligenza un’entità stabile, innata e poco o affatto incrementabile, l’altro costruttivista, che concepisce l’intelligenza in modo dinamico, un repertorio di abilità malleabili che aumenta con lo sforzo e l’impegno (Dweck, 2000; Albanese & Fiorilli 2001; Fiorilli, 2003).

Questi due poli rappresentano un continuum. Non è possibile, infatti, collocare la concezione di un individuo in modo assoluto su polo piuttosto che sull’altro. Queste concezioni, rinvenute sia nei docenti sia negli allievi, inoltre, si trasformano nel tempo, con l’esperienza e in relazione alla natura del rapporto che si ha con l’individuo che si sta valutando.

Come è già stato illustrato precedentemente, queste concezioni svolgono la funzione di guidare l’insegnante nella pratica educativa, nelle sue decisioni, nel suo modo di interpretare gli eventi e di intervenire di fronte alle difficoltà (Fiorilli, 2009).

 

Gli insegnanti, le loro credenze sull’intelligenza e il punto di vista degli allievi: la ricerca

All’interno di questo studio si è cercato di indagare in particolare il punto di vista degli allievi rispetto alle credenze sull’intelligenza degli insegnanti. Infatti, come sottolineano i paradigmi di tipo costruttivista, è fondamentale indagare come l’ambiente viene percepito dalle persone, specialmente in adolescenza, periodo in cui l’individuo fa maggiormente ricorso al pensiero logico- paradigmatico (Petter, 2002).

Il primo obiettivo della ricerca è stato, per l’appunto, quello di esplorare le concezioni dell’insegnante sull’intelligenza dal punto di vista dei ragazzi. A tal fine, si è utilizzato uno strumento appositamente costruito sulla base della Scala delle Concezioni Costruttiviste dell’Intelligenza (SCCI) sviluppata da Albanese e Fiorilli (2003) per misurare le concezioni costruttiviste degli insegnanti. Nella costruzione del questionario si sono inseriti item relativi alle teorie dell’insegnante sull’intelligenza e item che, invece, ne rispecchiano le pratiche.

Il secondo obiettivo ha previsto la somministrazione dello Study Process Questionnaire (R-SPQ- 2F) (Biggs, Kember & Leung, 2001). Lo scopo è verificare la scala sul campione di studenti delle superiori. Coerentemente ai dati in letteratura, si dovrebbe ottenere una struttura a due fattori. Uno di essi rispecchierebbe una motivazione profonda allo studio, l’altro una superficiale.

Come terzo obiettivo si è analizzato il rapporto tra le percezioni degli alunni rispetto alle credenze dell’insegnante sull’intelligenza e la loro motivazione allo studio della materia. L’ipotesi è che percepire l’insegnante come costruttivista (nelle sue teorie e nelle sue pratiche) porti a una maggior motivazione profonda allo studio.

Infine si è esaminato il ruolo esercitato dalle variabili età, genere, materia prescelta per completare il questionario (quella in cui si ha più difficoltà o meno difficoltà) e voto (scritto e orale).

 

Popolazione

A questa ricerca hanno partecipato 199 studenti, 92 maschi (41,3 %) e 107 femmine (48 %), frequentanti un liceo scientifico del Nord Italia. L’età dei soggetti è compresa tra i 15 e i 20 anni, con una media di 16,20.

 

Risultati della ricerca

Le concezioni dell’intelligenza dell’insegnante dal punto di vista dei loro alunni

Le tre dimensioni emerse dalla scala utilizzata dal presente studio sembrano rispecchiare diversi indici che lo studente utilizza per farsi un’idea di quello che l’insegnante pensa.

Il primo fattore (Le teorie dell’intelligenza) si struttura su due poli. Uno restituisce l’immagine di un  insegnante che vede l’intelligenza come qualcosa di non rigidamente determinato, ma come un’abilità che, con l’esercizio, può essere sviluppata. Questo insegnante appare ai ragazzi non solo consapevole dell’impatto che la relazione educativa esercita sul loro sviluppo cognitivo, ma anche  fiducioso nella possibilità che essi potranno affinare le loro doti intellettive. Al contrario l’insegnante percepito come innatista sembra considerare il suo intervento educativo come meno incisivo e le possibilità di miglioramento come poco probabili.

Il secondo fattore riguarda le pratiche dell’insegnante e, in particolar modo, la discussione in classe e le modalità con cui l’insegnante affronta l’errore. Esaminando meglio questo fattore vediamo emergere i due poli costruttivista e innatista. L’insegnante percepito come costruttivista cerca di suscitare nell’alunno la riflessione sull’errore e coinvolge la classe nella discussione, mentre quello innatista tende a rivolgersi maggiormente al singolo alunno in errore e a non lasciargli spazi di argomentazione e negoziazione.

Come già precisato, le teorie informali guidano l’insegnante nella sua pratica educativa, nelle decisioni, nella programmazione e nell’intervento di fronte alle difficoltà dell’alunno (Fiorilli, 2009). Sembra, quindi che i ragazzi riescano a trarre informazioni sul costruttivismo o innatismo dell’insegnante durante questi momenti. Suggerire la risposta corretta e lasciare scarso spazio alla discussione tra compagni sugli argomenti sono indicatori, per i ragazzi, di ciò che l’insegnante pensa di loro, della loro possibilità di migliorare e di riparare all’errore.

L’ultimo fattore è, anche esso, relativo a un comportamento osservabile dall’alunno: l’uso delle domande. Anche in questo caso, si osservano due polarità riconducibili alle diverse strategie adottate dal docente per porre domande. L’insegnante costruzionista utilizza maggiormente domande aperte, quello innatista domande a cui si può rispondere anche solo con “sì” o “no” o “vero” o “falso”. La pratica del fare domande agli alunni è molto frequente a scuola e acquista caratteristiche paradossali, dovute al fatto che nella conversazione insegnante-alunno le convenzioni che regolano il rapporto tra domanda e risposta sono spesso violate. Infatti, chi fa le domande (insegnante) conosce già la risposta e chi risponde (studente) non sempre è colui che detiene la conoscenza. Inoltre bisogna ricordare il potere valutativo detenuto dal docente (Fiorilli, 2009). Le domande in classe, infatti, sono spesso seguite dalla valutazione della risposta dell’allievo. Anche in questo caso, quindi, il tipo di domande poste in classe sono indicative per l’alunno di ciò che l’insegnante pensa. Domande aperte, infatti, aprono lo spazio a risposte per le quali non sono previsti a priori rigidi criteri di correttezza, mentre le domande chiuse lasciano poca possibilità di espressione ai partecipanti alla discussione.

Questi dati mettono in evidenza come le percezioni che lo studente possiede rispetto alle credenze dell’insegnante derivino dall’osservazione del modo in cui il docente interagisce con la classe e con lo studente singolo. I momenti di discussione, le domande poste e i metodi di correzione dell’errore rappresentano indizi che l’alunno sembra utilizzare per capire cosa l’insegnante pensa della sua intelligenza. Questo dato si potrebbe spiegare tenendo in considerazione che nei momenti di discussione e di riflessione sull’errore (si pensi, magari, alla correzione di un compito in classe o a un’interrogazione) il docente detiene una conoscenza che può non essere condivisa con l’alunno e, in quei momenti, spesso, ha il compito di valutare la prestazione degli allievi (Fiorilli, 2009).

Questi si trovano, quindi, in una posizione in cui ciò che il docente pensa è fondamentale per essi, non solo ai fini della valutazione scolastica ma anche per lo formulazione del concetto di sé. In questa fase della loro vita, infatti, gli adolescenti si trovano a dover completare un compito di sviluppo fondamentale, la costruzione dell’identità. Secondo Petter (1999) gli insegnanti possono dare un contributo essenziale riguardo alla formazione dell’idea di sé. Genitori e insegnanti occupano, infatti, un posto rilevante nella vita del ragazzo ed esprimono di frequente giudizi sulle sue abilità e competenze.

 

La motivazione allo studio

Dalle analisi condotte emerge la presenza di due fattori. Il primo descrive uno studente che trae molta soddisfazione dallo studio e che prova interesse per ciò che si insegna a scuola al punto di ricercare, volontariamente, approfondimenti sulle materie studiate. Al contrario lo studente raffigurato dal secondo fattore sembra maggiormente guidato da una motivazione estrinseca: la necessità di ottenere un voto sufficiente con il minimo sforzo possibile.

Il rapporto tra le percezioni degli alunni rispetto alle credenze dell’insegnante sull’intelligenza e la loro motivazione allo studio della materia.

La relazione tra i fattori relativi alle credenze degli alunni e la loro motivazione allo studio è stata analizzata tramite il coefficiente di correlazione prodotto-momento di Pearson. Si è trovata una significativa correlazione positiva tra il fattore denominato “la discussione e il trattamento dell’errore in classe” e l’approccio profondo allo studio. Trattandosi di una correlazione non è possibile stabilire un nesso causale tra le variabili, né la direzione della correlazione. E’ pertanto altrettanto possibile ipotizzare una relazione tra una maggior motivazione ad apprendere in modo approfondito il materiale di studio e la percezione dell’insegnante come maggiormente costruttivista nei momenti di discussione. Questo risultato unito alla mancanza di una relazione tra la percezione delle teorie dell’insegnante e la motivazione allo studio mette veramente in risalto il ruolo che le pratiche del docente (e in particolare le modalità di gestione della discussione e dell’errore) svolgono nel favorire l’approccio profondo alla materia.

Come già accennato l’insegnante costruttivista utilizza pratiche che mirano a coinvolgere gli alunni nella co-costruzione del sapere, stimolando dunque la loro partecipazione attiva al processo di apprendimento e non la semplice riproduzione dei concetti proposti.

 

I fattori che incidono sulla percezione che i ragazzi hanno dell’insegnante e sulla motivazione allo studio

E’ stata condotta un’analisi della varianza a una via per esplorare l’impatto dell’età sulla percezione dell’insegnante e sulla motivazione allo studio. I soggetti sono stati divisi in due gruppi (Gruppo1: Biennio; Gruppo2: Triennio)

In questo caso i ragazzi più grandi (triennio) e le femmine sembrano più propense a percepire il costruttivismo che emerge dalle discussioni e dalle pratiche di gestione dell’errore. Questi dati potrebbero essere spiegati facendo riferimento ai processi maturativi durante l’adolescenza. Il periodo dell’adolescenza viene di solito suddiviso in due periodi. Il primo è quello della preadolescenza, che può avere inizio prima della maturazione puberale, ed estendersi fino ai 14-15 anni (e coincide quindi con gran parte del ciclo della scuola media, ma si estende, soprattutto per i ragazzi, anche fino alla prima classe della scuola secondaria superiore)  Questo momento è caratterizzato da numerosi cambiamenti e, in particolare, dallo sviluppo del pensiero ipotetico-deduttivo. Questi mutamenti, tuttavia, subiscono una ulteriore maturazione durante l’adolescenza vera e propria (Petter, 1999). In questa fase l’adolescente ha a disposizioni maggiore risorse intellettuali ed emotive per affrontare i problemi, farli oggetto di analisi e, in qualche modo, gestirli. Per queste ragioni è probabile che i ragazzi più grandi abbiano a disposizioni più strumenti per farsi un’idea del pensiero dell’insegnante durante le discussioni in classe.

Nel completare il questionario gli studenti hanno anche dovuto pensare all’insegnante della materia in cui avevano più difficoltà oppure meno difficoltà.

I dati dell’Anova permettono di fare ulteriori considerazioni. Prendendo in esame i primi due fattori (“le teorie dell’intelligenza” e “la discussione e il trattamento dell’’errore in classe”) si notano delle similitudini. In primo luogo si evince il ruolo che la difficoltà percepita della materia svolge nell’influenzare la percezione dell’insegnante come costruttivista o innatista.

Chi ha completato il questionario pensando all’insegnante della materia in cui ha meno difficoltà e chi ha ottenuto voti buoni ha totalizzato mediamente punteggi più alti negli item dei fattori sopra citati e mostra, quindi, di percepire un’insegnante più costruttivista. Le possibili spiegazioni a questi risultati potrebbero essere due. Prima di tutto si potrebbe ipotizzare che l’ottenere un buon profitto e l’avere scarse difficoltà in una materia portino ad una percezione più positiva dell’insegnante e delle sue pratiche. Allo stesso tempo è anche probabile che se lo studente avverte che l’insegnante crede in lui e nella sua possibilità di migliorare ottenga poi risultati buoni e senta di incontrare meno difficoltà in quella materia.

I risultati riguardanti il terzo fattore della scala delle percezioni dell’insegnante mostrano notevoli discrepanze con quanto appena detto. Nel fattore “le domande dell’insegnante” i gruppi che ottengono medie più alte sono quelli di coloro che hanno completato il questionario facendo riferimento alla materia in cui hanno più difficoltà e in cui ottengono voti insufficienti. Questo aspetto potrebbe essere ricondotto al fatto che gli  alunni in difficoltà si sentono maggiormente stimolati con domande che richiedono una risposta articolata, al fine di pervenire da soli allo soluzione del quesito. E’ probabile che a questi alunni vengano rivolte più spesso domande aperte mirate a capire i processi che hanno portato all’errore. Agli alunni che di solito ottengono voti buoni, invece, potrebbe non essere richiesta la riflessione sul modo in cui sono pervenuti alla risposta esatta.

 

Quali pratiche per favorire un approccio profondo allo studio?

Durante l’adolescenza il mondo della scuola rappresenta un luogo di investimento privilegiato e, nonostante i ragazzi si sforzino di sminuirne il peso, la scuola ha grosse ricadute sulla loro vita affettiva e sui loro stati mentali (Iaccarino, 1993). Per questo è sembrato utile prendere in esame il punto di vista dei ragazzi, analizzare le variabili che lo influenzano e cercare di capire se esso possa incidere sulla loro motivazione allo studio.

Tante sono le variabili che possono incidere sulla motivazione in ambito scolastico. Lo studio presentato ha, però, permesso di fare alcune considerazioni sulle pratiche messe in atto dal docente e sul loro ruolo nel favorire la motivazione.

Prima di tutto è necessario che nell’interazione con l’alunno singolo e con la classe il docente metta in atto pratiche costruttiviste, che facciano sentire all’allievo di avere un ruolo attivo nel suo processo di apprendimento. Durante queste discussioni è bene che sia coinvolta tutta la classe e non il singolo alunno in errore e che il docente svolga il ruolo di facilitatore dell’intervento degli alunni, ponendo domande e attendendo risposte, stimolando la riflessione sui processi piuttosto che sui prodotti. Queste pratiche consentono all’insegnante di intervenire nella zona di sviluppo prossimale e, come si è visto, sembrano correlate ad un approccio profondo allo studio.

A questo proposito Rizzato e De Beni (2004) sottolineano la complessa relazione tra i concetti di metacognizione e motivazione. Le autrici affermano che per incrementare l’abilità dei ragazzi di attingere dalla propria motivazione intrinseca ad apprendere, bisogna aiutare gli alunni a comprendere le modalità con cui i loro pensieri possono influenzare i loro stati d’animo e i loro comportamenti. Gli studenti devono arrivare ad appropriarsi dell’idea di sé come agente attivo. Per arrivare a ciò, l’ambiente educativo deve offrire la possibilità di riflettere sui propri processi cognitivi.

Bisogna, inoltre, tenere presente il grande impatto che la relazione alunno docente svolge nel favorire il coinvolgimento scolastico e, in particolare, come suggeriscono i dati, il percepire un insegnante che crede nelle possibilità che l’alunno possa incrementare la sua intelligenza.

A riguardo Vacirca, Giannotta & Ciairano (2010), in un’indagine svolta nella scuola secondaria di primo grado circa la relazione tra lo stile educativo degli insegnanti e il coinvolgimento scolastico degli alunni, evidenziano come le relazioni nel contesto classe siano il risultato di un processo graduale di co – regolazione nel quale assumono particolare importanza la flessibilità del docente e la capacità di fornire sostegno ai preadolescenti in modo continuativo nel corso del tempo La disponibilità al dialogo, in particolare, è risultata collegata a un maggior coinvolgimento scolastico soprattutto se tale disponibilità è stabile nel corso del tempo.

Infine, è bene interrogarsi sulle cause del declino della motivazione all’adozione di un approccio profondo allo studio lungo il percorso scolastico che sono emerse sia nel presente studio sia in ricerche precedenti (Kember, 2000; Biggs & Moor, 1993). Questo dato potrebbe indicare, come suggerito da Biggs (2001), che il sistema di valutazione valorizza e premia le strategie di mera riproduzione a scapito della comprensione e dell’interesse verso il materiale di studio. Vista la relazione tra obiettivi di padronanza, motivazione intrinseca e risultati accademici positivi (Matos, Lens & Vansteenkiste, 2007; Linnenbrink-Garcia, Tyson & Patall, 2008) appare, quindi, essenziale che il contesto educativo valuti non solo la prestazione ma anche il reale sviluppo delle competenze.

Craving e sostanza: cos’è il craving e i possibili approcci terapeutici

Il craving è il desiderio impulsivo per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto-comportamento gratificante. Questo desiderio impulsivo sostiene il comportamento “addittivo” e la compulsione, finalizzati a fruire dell’oggetto di desiderio. Il craving sarebbe prontamente stimolato da fattori previamente associati con la sostanza, elementi capaci di svolgere un ruolo “trigger”, cioè “grilletto”, che innescano con un meccanismo di condizionamento, e di associazione di idee, il desiderio della gratificazione ottenuta chimicamente.

Giulia Fusè, Lorenzo Caffi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il termine droga ha tre significati: identifica le spezie, individua alcuni farmaci e indica la sostanza stupefacente. Il primo significato è collegato alla consuetudine della cucina asiatica di condire con droghe (spezie) le pietanze. Questa usanza fu introdotta anche in Europa intorno al XVI secolo con la colonizzazione olandese dell’Asia. Non a caso etimologicamente il termine “droga” discende dall’olandese droog, che significa “arido, secco”, poiché la droga è originariamente una pianta secca, riservata agli usi della cucina e della farmacia.

Anche alla farmacia, dunque, è collegato l’uso delle droghe. Tirtamo di Ereso, meglio noto come Teofrasto (371 a.C.–287 a.C.), nel libro IX del suo Historia Plantarum (un trattato sulla botanica) classifica, per la prima volta, droghe e medicinali con il loro annesso valore terapeutico. In riferimento all’oppio scrisse: «Ne serve una dracma per essere euforici, il doppio per avere allucinazioni, tre volte per il delirio conclamato e una dose quadrupla per morire». Il valore medicinale delle droghe è riconosciuto anche dai medici arabi dell’antichità. In Europa bisogna aspettare gli inizi del XIX secolo per l’introduzione in ambito medico di sostanze ricavate dal papavero, l’oppio e l’hashish, usate come potentissimi calmanti.

In seguito all’uso non terapeutico e alla scoperta degli effetti negativi associati all’uso di questi composti, la droga diventa sinonimo di sostanza stupefacente. L’uso di droghe come stupefacente è antico, e ha toccato un po’ tutte le civiltà. Fin dai tempi più remoti, infatti, l’uomo ha sempre ricercato sostanze in grado di agire favorevolmente su psiche e corpo. Ciò finalizzato alla guarigione di malattie, al miglioramento delle prestazioni fisiche e intellettuali, all’induzione della felicità e all’annullamento di ogni sgradevole sensazione psico-fisica, procurandosi il sonno, evadendo dalla realtà, ottenendo piacere o facilitando il contatto con la divinità.

 

Definizione di craving

Il craving è il desiderio impulsivo per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto-comportamento gratificante. Questo desiderio impulsivo sostiene il comportamento “addittivo” e la compulsione, finalizzati a fruire dell’oggetto di desiderio.

Per craving, o appetizione patologica, si intende anche il desiderio irrefrenabile di assumere una sostanza, desiderio che, se non soddisfatto, provoca sofferenza fisica e psichica, accompagnata da astenia, anoressia, ansia e insonnia, irritabilità, aggressività, depressione o iperattività (Cibin, 1993).

Il craving sarebbe prontamente stimolato da fattori previamente associati con la sostanza, elementi capaci di svolgere un ruolo “trigger”, cioè “grilletto”, che innescano con un meccanismo di condizionamento, e di associazione di idee, il desiderio della gratificazione ottenuta chimicamente (Meyer, 2000).

L’urgenza di utilizzare la sostanza è connessa con un conflitto nell’ambito cognitivo tra la motivazione all’assunzione e la consapevolezza del rischio che ne deriva. In quest’ottica il craving diviene funzione di diversi fattori che interagiscono in un mutevole equilibrio con il mondo intrapsichico e con le interferenze ambientali. Tra questi fattori, primo tra tutti, è il desiderio della sostanza sostenuto dall’esposizione a stimoli condizionanti (cue), dallo stress e da condizioni a rischio del tono dell’umore (trigger mood) (Szegedi 2000); ad interferire con questo fattore di base viene la capacità di adattamento legata ai tratti temperamentali, alle caratteristiche psicologiche e ai disturbi psichiatrici, nonché la consapevolezza del rischio connessa invece con la storia individuale, i fattori culturali, ambientali e relazionali.

Il craving, dunque rappresenta il desiderio per gli effetti della sostanza di cui il soggetto ha già fatto esperienza e che sono risultati gratificanti: elementi portanti a supporto del craving sarebbero l’impiego eccessivo della sostanza, in particolare durante l’astinenza dopo un periodo di dipendenza; il cambiamento della soglia della gratificazione a livello del Sistema Nervoso Centrale, con stati affettivi negativi, e i “rinforzi” indotti a partire da meccanismi condizionati.

 

Forme del craving

Sono state definite due forme di craving distinte dal punto di vista delle aspettative del paziente: da un lato la preoccupazione di assumere la sostanza per evitare l’astinenza, che viene definita “craving negativo”; dall’altro la compulsione nei confronti della sostanza sostenuta dall’aspettativa di una incentivazione, di una gratificazione. In questo caso la ricerca di un “reward” produrrebbe un “craving positivo” (Petrakis, 1999).

 

Elementi che sostengono il comportamento di dipendenza dalla sostanza

Per ciò che concerne gli elementi biologici che possono sostenere la percezione del craving occorre distinguere le condizioni evocate dai disturbi astinenziali da quelle invece prodotte dall’esposizione a elementi trigger (Wiesbeck 2000).

Le prime, quelle correlate con l’astinenza, corrispondono a un ridotto tono dopaminergico a livello del sistema della gratificazione, fatto estensibile a tutte le sostanze d’abuso; un deficit serotoninergico è stato, invece, rilevato in relazione all’interruzione dell’assunzione di cocaina, insieme con il “derangement” di tutte le altre monoamine cerebrali.

Al contrario il craving connesso con l’esposizione ai “cue” presenta una natura neurobiologica diversa, dove la secrezione di dopamina sarebbe associata proprio alla aspettativa della gratificazione.

 

Le funzioni del craving

Se si considerano le interazioni tra aspetti biologici e elementi comportamentali, il craving può essere visto dal punto di vista della sostanza psicoattiva, e cioè dal livello di capacità addittiva della sostanza: in questo caso il craving sarà sostenuto da alterazioni biologiche indotte relativamente agli effetti gratificanti della droga, o all’astinenza dalla stessa.

In un secondo caso, il craving sarà maggiormente fondato sulla necessità di auto medicare quella che Blum chiama Reward Deficiency Syndrome: questa forma di craving è maggiormente legata all’individuo, e non alla sostanza gratificante in sé: l’urgenza di usare l’alcool o la droga è connessa, in questo caso, ad alterazioni biologiche preesistenti la storia di droga, determinate geneticamente e da precocissime interferenze ambientali.

Una terza, e più complicata situazione, vede il craving sostenuto dal desiderio di curare, o anestetizzare sul nascere, o distrarre l’attenzione, rispetto a problematiche di carattere psicopatologico che in qualche modo hanno costituito gli elementi causali dello sviluppo del disturbo da uso di sostanze.
Questa ultima forma di craving, più difficile da distinguere da un aspecifico distress che si verifica al momento della disassuefazione, può essere biologicamente supportata dalle diverse alterazioni che la psichiatria biologica ha sinora evidenziato in associazione con i disturbi psichiatrici (Monti 2000).

 

La neurobiologia del craving

Un numero sempre maggiore di studi hanno evidenziato l’associazione tra l’impulsività e il craving per alcool, cocaina, meta-anfetamina e tabacco (Potvin et al., 2015).

Vi è oggi un sostanziale accordo sul fatto che il craving è una sorta di “via finale” risultante dalla combinazione di diversi fattori quali la situazione emotiva, la reattività agli stimoli, la capacità di controllo e l’autoefficacia, la situazione fisica, le cognizioni sulla propria condizione. Questa varietà di fattori trova il suo corrispettivo neurobiologico nella “cascata” neurotrasmettitoriale che modula l’increzione di dopamina nel sistema a ricompensa mesolimbico e in particolare nel nucleo accumbens e in cui sono coinvolti serotonina, endorfine, Gaba, glutammato (Blum et al., 2000; Gass e Olive, 2008; Ferdico, 2011).

In uno studio di Milella et al. è stato riscontrato come il rilascio di Dopamina non sia circoscritto alle regioni dello striato, ma anche a quelle corticali, con meccanismi di regolazione indipendenti. Il sistema a ricompensa in condizioni fisiologiche è deputato a “produrre” il piacere legato a stimoli quali il cibo, il sonno, l’attività sessuale: se un deficit o uno squilibrio interrompe o distorce tale sistema, il risultato finale è la percezione di ansia o angoscia e un intenso desiderio di assumere una sostanza in grado di alleviare tali sensazioni. Infine in uno studio di Hassani-Abhairan et al. sono stati proposti differenti correlati neurali alla risposta soggettiva di craving; queste funzioni cognitive potrebbero rappresentare i risultati motivazionali e affettivi in un’unica voce “sentimento desiderio soggettivo” o in self-report con più elementi scindibili, come intenzione, necessità, immaginazione, o sentimento negativo.

 

Il trattamento cognitivo comportamentale del craving

Diversi approcci cognitivo-comportamentali propongono trattamenti e protocolli specifici indirizzati soprattutto al trattamento del craving. In una recente review (Da Silva Roggi PM, 2015) vengono esaminati i trattamenti CBT più recenti e validati.

Comunemente nei trattamenti CBT su craving e dipendenze vengono integrati diversi strumenti e tecniche. I più frequenti sono la psicoeducazione, la gestione dello stress e la gestione del livello dell’umore, l’intervista motivazionale, le tecniche espositive con prevenzione della risposta, le tecniche di rilassamento e la prevenzione delle ricadute.

Tra i protocolli, uno dei più citati in letteratura è il protocollo sviluppato dal progetto MATCH (Kadden, 1992). Il protocollo MATCH include elementi della Cognitive-Behavioral Skills Therapy, della Motivation Enhancement Therapy e della Twelve-Step Facilitation Therapy.

Un altro protocollo molto utilizzato è quello della CET (Cue-Exposure Therapy). La CET consiste in esposizioni ripetute e controllate a stimoli drug-related, con lo scopo di ridurre la reattività a stimoli successivi attraverso l’estinzione per abituazione. Come per altre tecniche espositive, anche il trattamento attraverso la CET inizia con l’esposizione a stimoli a bassa reattività, per poi procedere con stimoli sempre più attivanti nelle fasi più avanzate del trattamento. In alcune situazioni è stato anche proposto attraverso esposizioni computerizzate in realtà virtuale (Lee et al., 2007)

Gli interventi basati sulla Mindfulness favoriscono invece lo sviluppo delle abilità di osservare il nascere e il successivo spegnersi del craving e dei comportamenti da esso originati, offrendo così l’opportunità di affrontare questi contenuti di pensiero con azioni più adattive.

Seguendo la tradizione lanciata dal protocollo MBSR, è stato sviluppato infatti un protocollo di 8 settimane specificatamente indirizzato al trattamento delle dipendenze: il programma di Mindfulness-Based Relapse Prevention (MBRP) integra le pratiche di consapevolezza meditativa con tecniche cognitivo-comportamentali standard per la prevenzione delle ricadute. In queste pratiche sono incluse pratiche focalizzate all’osservazione e alla risposta consapevole al craving (Bowen et al, 2009).

Infine si possono trovare in letteratura studi di efficacia di trattamenti sull’abuso di sostanze basati sull’Attentional Bias Modification, sul Contingency management e sul Trauma-Focused Imaginal Exposure.

L’attentional Bias Modification (ABM) consiste in un training specifico per sganciare il focus attentivo dagli stimoli drug-related. Per quanto il trattamento abbia efficacia nel ridurre la risposta a nuovi stimoli relati all’utilizzo di sostanze, non esistono attualmente effetti significativi legati all’efficacia sul craving da alcool, mentre si ritrovano risultati contrastanti nel trattamento del craving da nicotina (Da Silva Roggi PM, 2015).

Il training basato sulla gestione delle contingenze (CM) consiste nel fornire rinforzi tangibili al raggiungimento di obiettivi significativi nell’astinenza da sostanze o in altri comportamenti desiderati e individuati come target dell’intervento. Risulta essere di semplice gestione e quindi un trattamento utilizzato nei pazienti dove l’abuso di sostanze risulta essere in comorbidità con altri gravi disturbi. Uno studio (Tidey et al, 2011) mostra l’utilizzo del trattamento in pazienti con Schizofrenia e indica l’ottenimento di una riduzione del craving, anche se a livelli non significativi.

In ultimo si può citare uno studio con pazienti dipendenti da alcool e con Disturbo da Stress Post Traumatico, dove il trattamento di esposizione immaginativa focalizzata sul trauma ha prodotto una riduzione significativa del craving generato da stimoli alcool-related e trauma-related (Coffrey et al, 2006).

 

Gli effetti delle preferenze musicali a livello cerebrale

Preferenze musicali ed effetti cerebrali: In un nuovo studio è stato scoperto che tutti i tipi di musica preferita da ciascuno di noi, che sia quella di Bach, dei Beatles o di Bruno Mars, scatenano in realtà un’attività cerebrale molto simile.

 

 

Preferenze musicali: gli effetti sul cervello dell’ascolto della musica preferita

La musica è un qualcosa di primario e primitivo” ha affermato Jonathan Burdette, neuroradiologo presso il Centro Medico Wake Forest Baptist in Carolina del Nord: riguarda ciascuno di noi, ma in modi unici e profondamente personali. “Il mio rapporto con la musica è molto diverso dal tuo o dal suo, ma è altrettanto potente” ha inoltre aggiunto.

Quando ci piace o non ci piace qualcosa il nostro cervello produce una reazione, anche quando quel qualcosa è la musica. All’interno dello studio, i ricercatori hanno compiuto i primi passi per comprendere come avviene il meccanismo di preferenza musicale e ciò che è emerso è che il “non provare piacere per qualcosa” appare in modo differente dal “provare piacere” e in modo ancora più diverso dal “preferire quel qualcosa”.

Per studiare come le preferenze musicali influenzino la connettività funzionale cerebrale, ovvero le interazioni tra aree differenti del cervello, Burdette e collaboratori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che ritrae l’attività cerebrale individuando cambi nel flusso sanguigno.

Sono state effettuate scansioni dei cervelli di 21 persone impegnate nell’ascolto di brani musicali sia apprezzati che ripugnati, appartenenti a cinque generi musicali differenti (classica, country, rap, rock e opera cinese), e impegnate nell’ascolto di una canzone o stralcio di musica precedentemente indicato come preferito dagli stessi partecipanti.

Le scansioni hanno evidenziato uno schema d’attivazione consistente: le preferenze musicali di chi ascolta, e non il tipo di musica ascoltata, influenza maggiormente la connettività cerebrale, specialmente un circuito noto per essere coinvolto in fenomeni quali l’introspezione, l’empatia e la consapevolezza di sé.

Questo circuito definito “default mode network” (DMN) è una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene attivata durante le ore di riposo e le attività “passive” (connettività funzionale intrinseca). Il DMN era scarsamente connesso quando i partecipanti ascoltavano un brano che non piaceva loro, meglio connesso durante l’ascolto di brani apprezzati e il più connesso durante l’ascolto del brano preferito.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che le canzoni preferite alteravano la connettività tra le aree cerebrali uditive e una regione responsabile del consolidamento della memoria e delle emozioni sociali.
Questi risultati possono spiegare perché stati emotivi e mentali comparabili possono essere vissuti da persone che ascoltano musica così differente.

Dato che le preferenze musicali sono fenomeni unicamente individualizzati e che la musica può variare in complessità acustica e nella presenza o assenza di testo, la consistenza dei nostri risultati è qualcosa di inaspettato” ha affermato Burdette.

Il nuovo studio si basa sul lavoro precedente pubblicato su Nature Scientific Reports.

Settimana del Cervello 2017: gli eventi per sensibilizzare la popolazione alle tematiche psicologiche e neuro scientifiche

Dal 13-19 Marzo 2017 si è svolta la Settimana Mondiale del Cervello, una settimana di eventi in tutta Italia che ha permesso di avvicinare e sensibilizzare la popolazione alla psicologia e di diffondere le ultime evidenze in ambito neuroscientifico. La Settimana del Cervello è un’iniziativa coordinata dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa e dalla Dana Alliance for Brain Initiatives negli Stati Uniti.

Ornella Lastrina, Federica Campitiello

 

Le iniziative psicologiche durante la Settimana del Cervello 2017

L’iniziativa coinvolge come ogni anno psicologi, neuroscienziati e altri professionisti del settore della salute mentale. In Italia l’evento è stato promosso da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica e partner ufficiale della Dana Foundation, con il patrocinio del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e di moltissime istituzioni pubbliche e private. Il coordinamento nazionale è stato effettuato dalle Dott.sse Donatella Ruggieri e Lisa Grippa che con entusiasmo e determinazione hanno coordinato le numerose attività svoltesi in tutta Italia.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di rendere consapevoli i cittadini dell’importanza del benessere psicologico per una buona qualità della vita e di diffondere e rendere accessibili a tutti, i dati della ricerca neuro scientifica. Tra il 13 e il 19 Marzo, in tutto lo Stivale – isole comprese – si è svolta una serie di eventi completamente gratuiti che testimoniano l’entusiasmo di singoli professionisti, associazioni, centri di ricerca, cultori della materia, appassionati, pazienti e insegnanti. In programma ci sono stati oltre trecento appuntamenti in più di centocinquanta città italiane: laboratori interattivi, screening, mostre, cineforum, dibattiti, tour guidati nei centri di ricerca.

Anche a Bologna l’iniziativa è stata accolta con grande entusiasmo dai professionisti operanti nel campo della salute mentale. Diverse sono state le iniziative: screening cognitivi per gli adulti, screening sui DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) per i bambini, gruppi sulla gestione delle emozioni, incontri informativi su diverse tematiche, primi colloqui gratuiti di counseling psicologico.

L’obiettivo che ci si poneva attraverso gli eventi proposti era quello di rendere le tematiche psicologiche più fruibili alla cittadinanza e di offrire degli spunti di riflessione e dei momenti meno formali e strutturati in risposta a bisogni relativi alla salute mentale, facilitando, inoltre, in questo modo la richiesta d’aiuto. La cittadinanza ha risposto con molto interesse, numerose sono state le adesioni e positivamente sono state valutate le diverse iniziative proposte: “molto utile e da rifare assolutamente”, uno dei commenti al gruppo sulla gestione delle emozioni. Ancora oggi, infatti, il settore della salute mentale non è privo di quello stigma che è legato ai disturbi mentali. La diffusione di conoscenze e buone pratiche che possano coinvolgere la popolazione generale diventa perciò un modo per avvicinare e sgretolare alcune resistenze nel chiedere aiuto e per poter intervenire e prevenire difficoltà psicologiche.

L’iniziativa sarà riproposta nel 2018, si invitano perciò psicologi, psicoterapeuti, ricercatori e chiunque operi nel settore della salute mentale, a prendere contatti per poter organizzare attività nel territorio locale di appartenenza e per fare rete in tutta Italia.

 

Qualcosa: un romanzo di Chiara Gamberale – Recensione

Qualcosa: Si tratta di una storia, una storia narrata come fosse una favola e una favola che resta come una metafora nella mente di chi legge, incuriosito, come un bambino, dalle semplici e stupende illustrazioni di Tuono Pettinato, fumettista e illustratore che dà tratti e colore alle parole dell’autrice.

Guglielmo D’Allocco

 

Qualcosa: la trama del libro

Sarà stata l’illustrazione minimal di Tuono Pettinato sulla copertina, sarà stato il colore rosso fuoco che ha preso il sopravvento sugli scaffali delle librerie in questo ultimo mese o, molto più verosimilmente, sarà stato il titolo, “Qualcosa”, nella sua semplicità ed efficacia, a farmi portare a casa l’ultima opera di Chiara Gamberale, autrice troppo a lungo stipata nella lista degli autori che mi hanno sempre incuriosito senza che decidessi mai, concretamente, di approfondire. Eppure l’ho fatto, anche se, da una prima occhiata furtiva lanciata in libreria, con almeno altri tre libri sotto il braccio, non ero riuscito a mettere a fuoco con precisione cosa avevo tra le mani: un moderno remake de “Il piccolo principe” o un tentativo nostrano di riproporre le atmosfere alla David Grossman?

Niente di tutto questo, ovviamente. Si tratta di una storia, una storia narrata come fosse una favola e una favola che resta come una metafora nella mente di chi legge, incuriosito, come un bambino, dalle semplici e stupende illustrazioni di Tuono Pettinato, fumettista e illustratore che dà tratti e colore alle parole dell’autrice. Si narra della principessa Qualcosa di Troppo, figlia del re e della regina Qualcosa di Importante e Una di Noi. Fin dalla nascita la piccola è un vulcano iperattivo, sempre alla ricerca di nuove esperienze, incuriosita da tutto e instancabile qualsiasi cosa faccia. Anche nelle vite apparentemente più felici e spensierate, però, arrivano le prove più dure, quasi come una nemesi che a prescindere tocca ad ogni essere umano: la regina Una di Noi muore lasciando nel cuore di Qualcosa di Troppo un vuoto incolmabile che neanche la tristezza, con un interminabile pianto, riuscirà a colmare.

La confusione di questo momento verrà alleviata, in parte, dalla comparsa in scena del Cavalier Niente che insegnerà, o meglio proverà ad insegnare, alla principessa il beneficio del non fare nulla e del rimanere a contatto con quel vuoto, di viverlo, di “accarezzarlo” dandosi del tempo e senza provare a contrastarlo. La “terapia” proposta dal nuovo amico non durerà a lungo, non basterà stare distesi sul prato a fischiettare o ad inventare storie buffe; Qualcosa di Troppo sa che l’unico modo per stare bene è fare e fare tanto.

L’illusione di poter finalmente essere felice arriverà, prima, parlando di sè attraverso una rudimentale versione dei moderni “social network” sforzandosi di dare, di sè, un’immagine quanto più possibile felice e serena, e dopo con la scelta di uno dei pretendenti pronti a chiedere la mano della stessa: Qualcosa di Buffo, Qualcosa di Blu, Qualcosa di Giusto, Qualcosa di Speciale e Qualcosa di Più. Sebbene ognuno dei pretendenti sembri incantare, per un attimo, Qualcosa di Troppo, la loro esclusività e il fascino di ognuno hanno un effetto solo momentaneo sul benessere della principessa che, puntualmente, torna dal Cavalier Niente per farsi medicare la ferita che ancora sanguina.

Il finale e la morale della favola

Il dialogo finale tra Qualcosa di Troppo e il Cavalier Niente metterà ordine e farà giungere il lettore ad un messaggio che nella sua semplicità rappresenta un monito quanto mai importante in questo momento. I due protagonisti giungono alla consapevolezza che gli estremi che li caratterizzano devono trovare un punto di incontro per poter essere felici: fare e sentire troppo non va bene come fare o sentire niente. Da quel momento la principessa si chiamerà, semplicemente, Qualcosa.

La genuinità della storia riesce nel suo intento di farci fermare per un attimo e riflettere sul fatto che siamo, ormai, governati dalla necessità, divenuta quasi fisiologica, del “fare”. Abbiamo perso, probabilmente, il contatto con la semplicità delle cose, le uniche forse che possono davvero farci sentire bene; cerchiamo, quindi, quelle sensazioni in una gara veloce e snervante che consiste nel mostrarci agli altri in qualsiasi momento e attraverso tutti i canali possibili, quasi per avere conferma di come ci sentiamo.

Il premio in palio è l’affermazione della nostra identità, che abbiamo delegato al vicino di casa non essendo più in grado di sapere cosa vogliamo e cosa possiamo fare per ottenerlo. In questo caos le emozioni sono diventate sempre più corpi estranei, quando fanno capolino ci fanno paura, sembriamo non riconoscerle più al punto da non riuscire a contrastare i momenti più difficili, quelli in cui si sta male perché “è giusto” che si stia male. Se c’è un messaggio in questo piccolo libro credo sia proprio questo: spegnere l’interruttore, fermarsi e sentire di nuovo la sensazione della terra sotto i nostri piedi, imparando a godere delle cose più semplici, del semplice fischiettare guardando le nuvole stesi sul prato inventando storie buffe.

La risonanza magnetica: come funziona – Introduzione alla psicologia

La risonanza magnetica (MRI) è una tecnica che permette di acquisire immagini anatomiche o funzionali relative a una serie di regioni corporee. La risonanza magnetica è utilizzata in medicina e in particolare in radiologia per fornire immagini dell’anatomia e dei processi fisiologici di parti del corpo. Gli scanner di risonanza magnetica funzionano grazie alla presenza di campi magnetici che permettono di generare immagini degli organi del corpo. La risonanza magnetica ha lo scopo di produrre immagini dettagliate anatomiche sfruttando le proprietà nucleari in presenza di campi magnetici.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La storia della risonanza magnetica

Il fenomeno della risonanza magnetica (MR) è stato scoperto nel 1946 da due gruppi diversi di scienziati: il primo diretto da Felix Bloch, presso l’Università di Stanford, il secondo facente capo a Edward Mills Purcell, dell’Università di Harvard.

Nel 1950, Erwin Hahn e, successivamente, Herman Carr avevano riportato una immagine di risonanza unidimensionale nelle tesi di dottorato. Nel 1960, Vladislav Ivanov aveva depositato un documento in cui si chiedeva la disponibilità allo stato di poter creare un Dispositivo Risonanza Magnetica e nel 1971 Raymond Damadian, un medico armeno-americano e professore Presso Downstate Medical Center State University of New York, ha inventato la prima risonanza magnetica e ha depositato il primo brevetto. Zenuemon Abe e i suoi colleghi, successivamente, hanno applicato il brevetto per uno scanner di risonanza magnetica nucleare e, in seguito, Paul Lauterbur, riuscì a svolgere una serie di esperimenti con la risonanza magnetica che gli permisero di effettuare la localizzazione spaziale di sezioni anatomiche.
Da allora, la risonanza magnetica si è dimostrata un utilissimo strumento di indagine, poiché in grado di generare immagini con ottimo contrasto tra i tessuti molli con un’elevata risoluzione spaziale in ogni direzione.

 

MRI: Il funzionamento della risonanza magnetica

La risonanza magnetica, dunque, ha come obiettivo l’ottenimento di immagini anatomiche dettagliate sfruttando le proprietà nucleari di certi atomi in presenza di campi magnetici.

Il segnale della risonanza magnetica dipende dai protoni dell’acqua contenuti nei tessuti, mentre l’intensità dell’immagine deriva dalla densità dei protoni ed è influenzata dall’ambiente locale delle molecole d’acqua. Ciascun protone possiede una carica e ruota attorno al proprio asse, ovvero ha uno spin. Questa rotazione produce un dipolo magnetico con orientamento parallelo all’asse del nucleo ed è caratterizzato da un momento magnetico.

Quando il tessuto è disposto in un campo magnetico statico, i protoni in pochi secondi si ordineranno assumendo un verso parallelo (up) o antiparallelo (down). I due orientamenti rappresentano situazioni di livello energetico diverse. L’insieme dei nuclei determina una magnetizzazione netta, avente come direzione e verso quello del campo magnetico statico e come risultante la somma vettoriale tra i nuclei.

Per far verificare il fenomeno della risonanza magnetica è necessario si invii un’onda a radiofrequenza specifica, cioè a frequenza uguale a quella di precessione dei protoni di Idrogeno. In questo modo si produce un’eccitazione sul sistema protonico: l’energia fornita al tessuto dall’impulso di eccitazione a radiofrequenza sarà tanto maggiore quanto più lunga sarà la durata dell’impulso stesso. I nuclei risentono della transizione energetica, e quindi perdono la loro situazione di equilibrio. Alla fine dell’impulso di radiofrequenza, il sistema protonico si trova in una situazione di non equilibrio, dovuta alla quantità di energia assorbita e ad un conseguente aumento dell’energia potenziale che genera instabilità e tendenza al ripristino delle condizioni iniziali. All’eccitazione protonica segue quindi una fase durante la quale gli spin tenderanno a liberarsi dell’energia in sovrappiù fino a tornare nella condizione iniziale che è assai più stabile e più probabile. La magnetizzazione ritorna al suo equilibrio secondo un processo di decadimento con andamento esponenziale nel tempo.

Attualmente, la risonanza magnetica è largamente impiegata nella normale prassi clinica e i parametri di acquisizione possono derivare da diverse modalità di funzionamento:
1. la risonanza magnetica Strutturale permette di ottenere immagini strutturali
2. la risonanza magnetica funzionale, consente di avere immagini relative al funzionamento di un’area cerebrale.

 

fMRI: La risonanza magnetica funzionale

La risonanza magnetica funzionale (fMRI) è una tecnica intordotta di recente per studiare nel dettaglio l’attività cerebrale. Essa nasce negli anni novanta ad opera di Thulborn e Ogawa, che intuirono l’importanza dell’ossigenazione sanguigna nel tempo (segnale BOLD, Blood Oxygenation Level Dependent), per acquisire immagini relative a una determinata area cerebrale. L’effetto BOLD era stato studiato da L.Pauling, che l’aveva legato a delle immagini strutturali cerebrali per renderle più informative da un punto di vista funzionale. La risonanza magnetica funzionale, dunque, permette di localizzare l’attività cerebrale sfruttando le variazioni emodinamiche.

Questo metodo di indagine si basa sul cambiamento del segnale MRI, al quale si associa la risposta emodinamica e metabolica in una regione in cui si ha un’attivazione neuronale indotta da stimoli interni o esterni. L’fMRI, è legata strettamente a contesti sperimentali e di ricerca per individuare, sia in soggetti normali che in soggetti patologici, le aree del cervello attivate durante compiti di stimolazione. In questo modo si ottengono mappe di attivazione (funzionali) che consentono di illustrare quali aree cerebrali sottendono funzioni cognitive specifiche. Chiaramente i compiti fatti svolgere da un soggetto in fMRI sono specifici rispetto a una funzione svolta da una determinata area. Per questo l’area in questione risulterà allo scanner di risonanza di un colore tendente al rosso al contrario di aree non attive o inattive che assumeranno un colore decisamente diverso.

 

fMRI: le immagini

L’fMRI lavora in relazione ai cambiamenti di magnetizzazione che si registrano tra il flusso ematico povero di ossigeno ed il flusso ematico ricco di ossigeno, avendo come base da cui partire acquisizioni di immagini MRI anatomiche del soggetto, che consentono di ricostruire l’intera struttura cerebrale di base.

Quando si genera un incremento di attività cerebrale in un’area si determina un maggiore afflusso sanguigno in quell’area con conseguente aumento locale della quantità di ossigeno. Di conseguenza anche il flusso sanguigno aumenterà perché è necessaria una quantità maggiore di emoglobina ossigenata. Nelle aree attivate, quindi, l’ aumento della concentrazione di ossiemoglobina è indice di un incremento dell’attività elettrica cerebrale.

La fMRI non produce immagini dirette di quello che avviene nel cervello, poiché queste immagini sono un effetto indiretto, derivante dalla risposta emodinamica, dell’attività neuronale. Si tratta, sostanzialmente, di mappe di distribuzione statistica, derivate da effetti medi, dell’attivazione di un’area nello svolgimento di un compito specifico.

Durante una sessione di un esperimento in fMRI, quindi, sono acquisite immagini funzionali quando il cervello è in una condizione di riposo (assenza di stimoli) e durante l’esecuzione di un task sensoriale, motorio o task cognitivo. Lo stesso task è ripetuto periodicamente in modo da fare una media statistica di tutti i valori delle immagini relativi all’attivazione. L’immagine finale si ottiene facendo una sottrazione mediata tra l’immagine acquisita durante l’assenza di stimoli e l’immagine acquisita durante la presentazione dello stimolo. In questo modo si ottiene un’immagine statistica parametrica, che sarà sovrapposta all’immagine anatomica.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il concetto di vuoto e i quadri psicopatologici associati

Il termine di vuoto in campo psicologico fa riferimento a molteplici vissuti emotivi ai quali si tende ad associare una connotazione negativa (Fogarty, 1973).

Elena Giovannini, Novella Morea, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Immaginiamo di possedere un luogo al nostro interno in cui sono custoditi i nostri sogni e desideri, un’energia vitale ricca di stimoli, affetti e scopi; paragoniamolo ad un “Pozzo dei Desideri” in cui all’interno c’è dell’acqua. Il nostro Pozzo è il luogo tranquillo dove trascorrere il tempo, è una sicurezza nei periodi di siccità, ci dà la forza e ci disseta. Questo Pozzo si alimenta della nostra storia e di quello che ci fa stare bene.

E se ad un certo punto della nostra vita questo Pozzo si ritrovasse completamente vuoto? Privo di acqua? Se fosse un pozzo arido, senza vita?
Sentire quel vuoto è una sensazione che ci crea inquietudine, paura, terrore, tristezza, depressione. Al suo interno ci sentiremmo lo sterile eco della nostra voce, la quale ci mette di fronte alla solitudine di noi stessi, il nostro Vuoto.

Una delle risposte automatiche che mettiamo in atto quando ci si trova in questa situazione è di chiudere il Pozzo, per evitare che ci si possa buttare al suo interno, perdendo la vita o rimanendone bloccati dentro. Ma se chiudiamo il nostro Pozzo non ascoltiamo più i nostri desideri e bisogni. La paura di prendere coscienza di questo vuoto può congelarci a tal punto da non farci entrare neanche quella poca acqua che con grandissima fatica gli eventi e i nostri affetti cercano di riversarci al suo interno.

Cos’è questo Vuoto?

Il termine vuoto, in inglese emptyness, viene comunemente utilizzato in fisica nelle sue dimensioni spaziale e temporale; in campo psicologico fa riferimento a molteplici vissuti emotivi ai quali si tende ad associare una connotazione negativa (Fogarty, 1973). Si parla infatti di vuoto legato:

  • alla solitudine (“un senso di isolamento, in cui tutto quello che ho è il mio lavoro”, “un disperato desiderio di contatto umano”);
  • al non sentire (“ho la sensazione che manchi qualcosa, che qualcosa sia perduto”, “non sento niente”, “non sono niente”);
  • alla confusione (“metto in discussione tutto ciò in cui credevo”, “il desiderio di certezza crea in me più preoccupazioni e indecisioni e mi rinchiude nella mia solitudine”);
  • alla disillusione (“quale è il senso di questo combattere?”, “non ne vale la pena”);
  • alla non appartenenza (“non sento di appartenere più a nulla”, “mi sento inutile”, non ho più niente in comune con le persone che mi sono vicine”);
  • alla tristezza (“mi viene da piangere tutto il tempo”, ”ho rimpianti sul mio passato”);
  • alla non curanza (“non sono importante”, “vorrei qualcuno che si prendesse davvero cura di me per quello che sono, non per quello che faccio”);
  • alla vergogna (“mi sento confuso, colpevole per ciò che sono”);
  • al fallimento (“tutto quello che faccio è provare e fallire”, “ho un senso terribile di inadeguatezza”);
  • alla morte emotiva (“mi sento annoiato”, “mi sento come se stessi morendo”, “ho la sensazione che sto diventando vecchio e sto perdendo tempo”);
  • alla paranoia (“mi sento inibito, non a mio agio e sento un dolore dentro di me”, ”quello che posso fare è andare dentro questo dolore perché è tutto quello che ho”). (Fogarty, 1973).

I quadri psicopatologici associati al senso di vuoto

La sensazione di vuoto si riscontra, con sfumature diverse, in alcuni quadri psicopatologici.

Il vuoto è l’elemento chiave del Disturbo Narcisistico di Personalità. Secondo Kernberg (1975, 1982), la dinamica narcisista può essere considerata un processo in cui un’idea grandiosa di sé e il sentimento di orgoglio che ne deriva proteggono da un senso di vuoto e di mancanza di significato. All’interno di questa dinamica s’inserisce la difficoltà nella rappresentazione dei propri scopi e desideri non inclusi nel sé grandioso e l’incapacità di comprendere la natura dei propri bisogni affettivi. Il vuoto nel narcisista è quindi una sensazione di spegnimento interiore dove sfuma l’idea di sé. É una mancanza di senso, che diventa una mancanza di scopo della propria esistenza, del darsi una direzione nella vita. Su questo vuoto getta le basi il suo elemento speculare, vale a dire l’orgoglio, intenso come spinta alla grandiosità del sé.

Nel Disturbo Depressivo il vuoto è una conseguenza della perdita dell’oggetto amato (Epstein, 1989) e della successiva presa di coscienza dell’incapacità di recuperarlo.
Lo stato d’animo principale della persona depressa è la tristezza, che si accompagna anche ad una mancanza di speranza verso se stessa e verso la vita. Il vuoto si mostra nel senso di fallimento a cui si aggiunge un vissuto di inferiorità e indegnità rispetto agli altri. Il depresso prova un profondo sentimento di non valore che attribuisce alla perdita della persona amata. L’anedonia nello svolgere attività prima gradite e soddisfacenti è un altro vissuto caratteristico, che porta la persona ad abbandonare gradualmente i propri interessi e a chiudersi sempre più in se stessa. A questo si accompagna anche un senso di stanchezza e mancanza di energie, che rende ogni gesto e ogni compito estremamente faticoso e al di sopra delle proprie capacità.

Nel Disturbo Borderline di Personalità il vuoto fa da cornice ad una instabilità che si manifesta sia sul piano emotivo che cognitivo e comportamentale. Le emozioni sono ampiamente fluttuanti, spesso senza una ragione evidente. I processi di pensiero sono instabili: a volte razionali e chiari, altre volte estremi e distorti. Il comportamento è volubile: periodi con un comportamento lineare, con elevata efficienza e affidabilità che si alternano a improvvise condotte rabbiose e impulsive.
In alternanza a questa instabilità generale, la persona Borderline entra in uno stato di vuoto nel quale avverte una penosa mancanza di scopi in cui possono verificarsi tendenze all’azione con perdita di controllo in modo impulsivo, come abbuffate di cibo, abuso di sostanze stupefacenti, atti autolesivi e tentativi di suicidio.
La visione del sé della persona con un Disturbo Borderline è sfumata e frammentata. In particolare, tende ad avere difficoltà a capire in cosa crede, cosa preferisce e cosa le possa fare piacere. È spesso incerta circa i propri obiettivi nelle relazioni e nelle occupazioni lavorative. Questa difficoltà può portare a provare la sensazione di “vuoto” e di “smarrimento” (Manning, 2011).

Il boato del vuoto si riscontra anche nei Disturbi del Comportamento Alimentare.
Da un lato il vuoto dentro di sé, restringendo l’alimentazione, vomitando, rifiutando il bisogno di cibo, è un tentativo di raggiungere un controllo sulle emozioni per rendersi indipendente rispetto alle delusioni, uno scudo di fronte alla sofferenza.
Dall’altro lato, la persona con Disturbo del Comportamento Alimentare vuole dimostrare come il fondo dell’essere umano sia fatto di mancanza, non di pienezza (Ulivi). È un grido di aiuto, la punta di un iceberg che lascia intravedere una sofferenza devastante legata alla propria autostima e al bisogno di affetto. Scomparendo letteralmente, facendosi eterea, l’anoressica prova a materializzare sul piano della realtà il vuoto che al fondo siamo.

Proprio nel fondo del nostro pozzo, c’è la possibilità di specchiarsi in quel riflesso ed ascoltarsi nell’eco e cogliere l’opportunità di conoscersi e crescere. Il vuoto mette la persona di fronte a se stessa, con i suoi desideri e bisogni, la sua essenza, la sua identità.
Questo è il Vuoto che unisce le persone in una condizione comune e umana.
Un importante strumento per dare significato a questo vuoto apparentemente insignificante è il linguaggio. Attraverso una parola piena può essere trasformato in sorgente che si autoalimenta nei propri desideri e bisogni.
Così la metafora del “Pozzo dei desideri” si trasforma in realtà dove le coordinate tempo e spazio risvegliano le emozioni e le trasformano in acqua e in parole.

 

Giudizi sul torto involontario: la neuroanatomia del perdono

Da un punto di vista neuropsicologico, l’atto di giudicare una situazione morale è incredibilmente complesso: cosa succede nel sistema cerebrale delle persone quando sanno che qualcuno ha commesso un torto involontario? Una nuova ricerca indaga le basi neuroanatomiche del perdono.

 

I giudizi morali sono emessi quotidianamente da ogni persona in varie situazioni, come condannare il “cattivo” di un film o sentire che qualcuno ha commesso un errore nei propri confronti. Da un punto di vista neuropsicologico, l’atto di giudicare una situazione morale è incredibilmente complesso e ha molto a che vedere con l’intenzionalità: colui che ha commesso l’errore aveva veramente intenzione di farlo? Cosa succede nel sistema cerebrale delle persone quando sanno che qualcuno ha commesso un torto involontario? Una nuova ricerca indaga le basi neuroanatomiche del perdono.

Un nuovo studio esamina il ruolo di una regione cerebrale chiamata “solco temporale superiore anteriore” (aSTS) nel perdonare chi commette errori non intenzionali. I ricercatori sono stati capeggiati da Giorgia Silani, dell’Università di Vienna, e lo studio è stato condotto in collaborazione con l’Università di Trieste e Il Boston College in Massachusetts.

I risultati sono stati recentemente pubblicati nella rivista Scientific Reports. Come spiegano gli autori, elaborare un giudizio morale su un atto sbagliato coinvolge non solo la considerazione del danno fatto, ma anche l’intenzione dell’agente e il suo stato mentale. Quando vi è una chiara contraddizione tra i due, tuttavia, l’intenzione sembra avere la precedenza sul risultato dell’azione.

Indrajeet Patil, l’autrice principale dello studio, aggiunge, contestualizzando a ricerca:

Gli studi comportamentali hanno già mostrato che quando l’intenzione e il risultato di un’azione sono in contrasto, come nel caso di un serio danno accidentale, le persone tendono a focalizzarsi principalmente sulle intenzioni, nel formulare un giudizio. E questa sarebbe più o meno una caratteristica universale di un giudizio morale maturo in tutte le culture – spiega Patil. – Tuttavia, pochi studi hanno affrontato la questione da un punto di vista anatomico, per comprendere se differenze nel volume o nella struttura di certe aree cerebrali potessero spiegare variazioni nel giudizio morale. Questa ricerca ha tentato di esplorare precisamente questo aspetto.

 

Le basi neuroanatomiche del perdono

Per farlo, i ricercatori hanno chiesto a 50 soggetti di completare un compito di giudizio morale. Ai volontari erano presentate 36 storie in cui una persona commetteva un’azione e 4 potenziali finali per ciascuna di esse.

Ogni scenario comprendeva 4 parti: delle informazioni sulla situazione iniziale; una cosiddetta “premonizione”, in cui era suggerito che il risultato dell’azione sarebbe potuto essere neutrale o dannoso; informazioni sullo stato mentale dell’agente, che poteva essere o neutrale o intenzionalmente dannoso; la conseguenza dell’azione, che rivelava l’azione dell’agente e il risultato conseguente.

I partecipanti leggevano ciascuna storia ed erano chiamati a dare dei giudizi morali rispondendo a domande relative alla “accettabilità” dell’azione e alla “colpa”; in altri termini, ai soggetti era chiesto “Quanto il comportamento dell’agente era moralmente accettabile?” e “Quanta colpa ha l’agente?”. I volontari davano una risposta su una scala da 1 a 7.

Mentre rispondevano alle domande, l’attività cerebrale dei partecipanti era analizzata utilizzando la voxel-based morphometry, una tecnica di neuroimmagine che permette un esame globale dei cambiamenti cerebrali, consentendo, tuttavia, un buon livello di specificità all’interno delle singole regioni cerebrali.

I ricercatori hanno anche cercato di localizzare le aree neurali responsabili della cosiddetta “teoria della mente” (ToM). La ToM, o “mentalizzazione”, è l’abilità delle persone di attribuire correttamente stati mentali (come credenze, intenzioni e desideri) ad altre persone ,sulla base del comportamento osservato. La mentalizzazione si riferisce anche all’abilità delle persone di spiegare e predire il comportamento degli altri sulla base di queste inferenze.

 

Le persone con un aSTS più sviluppato sono più inclini al perdono

I risultati hanno rivelato una connessione tra differenze nella severità del giudizio morale sul danno involontario e il volume della regione cerebrale sinistra dell’aSTS.

In particolare, più era sviluppato il solco temporale superiore anteriore, meno colpa era attribuita agli agenti del danno.

Patil ha spiegato in questo modo i risultati:

L’aSTS era già conosciuta come una regione coinvolta nell’abilità di rappresentare gli stati mentali (pensieri, credenze, desideri, ecc.) degli altri. In accordo con le nostre conclusioni, le persone con un volume di materia grigia maggiore nel solco temporale superiore anteriore, erano maggiormanete capaci  di rappresentare gli stati mentali dei responsabili delle azioni e di comprendere la natura involontaria del danno. Nell’espressione di giudizi essi erano anche più capaci di focalizzarsi su quest’ultimo aspetto e di dargli priorità al di sopra delle conseguenze sgradevoli dell’azione. Per questa ragione, infine, essi sarebbero anche meno inclini a condannare le azioni in maniera severa.

Lo studio apre nuove strade alla ricerca scientifica. Patil e coll. sostengono che altri studi dovrebbero utilizzare contesti più realistici per studiare i giudizi morali, così come utilizzare campioni con una maggiore diversità sociodemografica.

Forum di Psicoterapia e Ricerca: Riccione 5-6 Maggio 2017

COMUNICATO STAMPA – Milano, Mercoledì 3 Maggio 2017

Venerdì 5 e sabato 6 maggio 2017 si terrà a Riccione, presso il Palazzo del Turismo in via Virgilio 34, il Forum di Psicoterapia e Ricerca. L’evento è un convegno scientifico riservato ai giovani allievi in formazione delle scuole di specializzazione in psicoterapia “Studi Cognitivi”, ”Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” e “Scuola Cognitiva di Firenze”.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SUL FORUM 2017

Il “Forum di Psicoterapia e Ricerca”

È un convegno biennale che ha lo scopo di diffondere la conoscenza degli ultimi risultati della ricerca scientifica in psicoterapia e di stimolare il coinvolgimento dei clinici in formazione al lavoro di ricerca. I giovani clinici sono incoraggiati a realizzare disegni di ricerca adeguati e a scambiare conoscenza scientifica in un dibattito stimolante.

Gli argomenti del convegno sono:

·      I meccanismi della sofferenza psicologica, ovvero credenze e processi cognitivi;

·      I principali disturbi trattabili in psicoterapia, ovvero: ansia, depressione, anoressia e bulimia e i disturbi di personalità

·      I disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza ovvero la psicopatologia dell’età evolutiva

·      Il trauma, con particolare attenzione ai recenti traumi da terremoto

·      Le emozioni e la loro regolazione

·      La psicologia della salute

·      Le tecnologie digitali per la psicologia

 

Studi Cognitivi: la formazione in psicoterapia

Le scuole “Studi Cognitivi”, ”Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” e “Scuola Cognitiva di Firenze” appartengono a una organizzazione più ampia che va sotto il nome generale di “Studi Cognitivi”. Queste scuole raccolgono attualmente più di 500 allievi già laureati in psicologia e/o medicina e chirurgia e che stanno seguendo un corso di specializzazione professionalizzante post-laurea in psicoterapia. Le scuole hanno sede in varie città italiane: Milano, Bolzano, Firenze, Mestre, Modena e San Benedetto del Tronto, I corsi, che sono regolamentati dal Ministero dell’Istruzione e hanno durata quadriennale, raccolgono complessivamente ogni anno più di 120 nuovi iscritti.

“Studi Cognitivi” è stata fondata alla fine degli anni ’90 dalla professoressa Sandra Sassaroli, che già aveva contribuito fin dalla fine degli anni ’70 alla conoscenza e alla diffusione della psicoterapia cognitiva in Italia.

Gli obiettivi principali della scuola sono l’insegnamento di capacità diagnostiche fini che consentono di indirizzare il paziente verso il trattamento più efficace, l’integrazione tra le tecniche cognitive, comportamentali, costruttiviste e abilità di gestione della relazione con pazienti.

 

La ricerca scientifica

Studi Cognitivi ha anche un dipartimento di ricerca e un dipartimento clinico. In 20 anni l’attività di ricerca delle scuole ha prodotto più di 90 pubblicazioni su riviste internazionali, ha promosso la partecipazione di docenti e studenti a congressi nazionali e internazionali e ha influenzato con le sue idee e i suoi protocolli l’attività didattica delle scuole e dell’attività clinica in Italia.

 

I servizi di salute mentale

I centri di psicologia clinica e di psicoterapia sono costituiti da docenti ed ex-allievi. I disturbi psicologici sono trattati in modo integrato e scientificamente informato in tutte le sedi in cui è presente la scuola e nei centri affiliati.

 

La divulgazione e informazione scientifica

Molti operatori clinici e scientifici di Studi Cognitivi collaborano anche con State of Mind (www.stateofmind.it), il Giornale delle Scienze Psicologiche di cui è direttore Giovanni M. Ruggiero. State of Mind sarà presente al Forum e racconterà sulle sue pagine i principali episodi del convegno.

 

Programma del Forum: PROGRAMMA

 


I REPORTAGE DAL FORUM 2017
Fibromialgia uno studio per individuare i sottogruppi di pazienti - Report
Il modello della Self-Regulation per individuare sottogruppi di pazienti con Fibromialgia – Report
È stato presentato al Forum di Ricerca in Psicoterapia lo studio "Il modello della Self-Regulation per individuare sottogruppi di pazienti con Fibromialgia"
Forum di Ricerca in Psicoterapia - Report dalla presentazione di apertura
Inizia il Forum di Ricerca in Psicoterapia – Report dall’intervento di apertura del Dr G. Caselli
Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Spetta al Dr. G. Caselli dare avvio al Forum, la presentazione di apertura conta più di 300 partecipanti
Dipendenza da Internet e social network: i costrutti correlati al fenomeno
Social delle mie brame: chi è il più bello del reame?
Vi sono ancora pareri discordanti riguardo allo sviluppo della dipendenza da internet. Tuttavia vari studi stanno portando alla luce i costrutti correlati.
Forum della Ricerca in Psicoterapia il video dalla Poster Session_
Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della Poster Session – Riccione 2019
Durante il Forum della Ricerca in Psicoterapia di Riccione sono stati dedicati diversi momenti alle ricerche degli allievi - Il video della Poster Session..
Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della Lectio Magistralis di Giovanni M. Ruggiero – Riccione 2019
Il video della Lectio Magistralis 'Processi e relazioni in terapia cognitiva' di G. M. Ruggiero al Forum della Ricerca in Psicoterapia di Riccione 2019
Ricerca in Psicoterapia video dalla seconda giornata del forum di Riccione
Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della seconda giornata – Riccione 2019
Il video della seconda giornata del Forum di Psicoterapia, tra la lectio magistralis di G. Caselli e l'esposizione delle ricerche condotte dagli allievi
Ricerca in Psicoterapia prima giornata del Forum di Riccione 2019 -VIDEO
Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della prima giornata – Riccione 2019
Video della prima giornata del Forum 'Ricerca in Psicoterapia' di Riccione: dalle parole del Dott. Ruggiero alle ricerche degli allievi, tutti i contributi
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante quale relazione - Psicologia
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante – Riccione, 2019
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante: quale relazione? La risposta in uno studio presentato al Forum di Ricerca in Psicoterapia di Riccione
Uso di Instagram relazione tra autostima e percezione corporea
Instagram, autostima e percezione corporea – Riccione, 2019
Chi trascorre maggior tempo su Instagram potrebbe avere un’ autostima più bassa e una percezione negativa del proprio corpo
Disturbo del Desiderio Sessuale femminile e Binge Eating Disorder
Il Disturbo del Desiderio e dell’Eccitazione Sessuale Femminile e il Binge Eating Disorder – Riccione, 2019
Scopo dello studio è stato indagare la correlazione tra Disturbo del Desiderio e dell’Eccitazione Sessuale femminile e tendenza al Binge Eating Disorder.
Training virtuale per ragazzi con disturbo specifico di apprendimento
Effetto di un training virtuale su ragazzi con disturbo specifico di apprendimento – Riccione, 2019
Scopo dello studio è stato comprendere se e come l’uso di alcuni videogiochi possa favorire il miglioramento delle abilità scolastiche di bambini DSA
tDCS: gli atteggiamenti impliciti verso il cibo nei disturbi alimentari
La stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS) modula gli atteggiamenti impliciti verso il cibo nei disturbi alimentari – Riccione, 2019
Un recente studio ha indagato gli effetti della tDCS sugli atteggiamenti impliciti verso il cibo e il corpo in merito alla genesi dei disturbi alimentari.
Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool: una serie di casi – Lectio Magistralis del Dott. Gabriele Caselli
La seconda giornata del Forum di Riccione ha inizio con la Lectio Magistralis di Gabriele Caselli: Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool
Terapia cognitiva processi e relazioni – Report dal Forum di Riccione
Processi e relazioni in terapia cognitiva: sviluppo storico e scenari futuri – Lectio Magistralis di Giovanni Maria Ruggiero
Il Forum di Riccione si apre con la Lectio Magistralis di Giovanni M. Ruggiero: Processi e relazioni in terapia cognitiva- sviluppo storico e scenari futuri
Realtà virtuale nella pratica terapeutica video dall'esperienza del Forum di Riccione-2 - MAIN
La realtà virtuale nella pratica terapeutica: il video dall’esperienza del Forum di Riccione
Durante il Forum di Psicoterapia e Ricerca sono state proposte ad allievi e docenti sessioni di Realtà Virtuale, un video illustra l'incredibile esperienza
La (meta)cognizione sociale nel disturbo depressivo maggiore - Riccione, 2017
La (meta)cognizione sociale nel disturbo depressivo maggiore: una review sulle basi neurali – Riccione, 2017
Deficit di comprensione emotiva sarebbero alla base della compromissione della cognizione sociale in pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore
Libet e schema therapy per conoscere i futuri psicoterapeuti – Riccione, 2017
La ricerca intende indagare i temi e i piani secondo il modello cognitivo della LIBET di futuri psicoterapeuti e confrontarli con un gruppo di controllo.
Disturbi dell alimentazione uno nessuno e centomila Un tentativo di sintesi
Disturbi dell’alimentazione: uno nessuno e centomila? Un tentativo di sintesi – Riccione, 2017
Obiettivo dello studio è stato delineare specifici profili cognitivi dei DA, valutando l’ipotesi di un approccio diagnostico dimensionale, non categoriale
L'effetto del pensiero desiderante sul craving e sull' intenzione al bere- Riccione 2017
L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e sull’intenzione al bere – Riccione, 2017
La ricerca, esposta al Forum di Riccione, indaga il ruolo del Pensiero Desiderante nel mantenere soggetti con Disturbo da Uso di Alcol in stato di craving
Il Re è nudo- studio pilota su vergogna e umiliazione in psicopatologia - Riccione, 2017
Il Re è nudo: studio pilota su vergogna e umiliazione in psicopatologia – Riccione, 2017
Lo studio indaga i vissuti di vergogna e umiliazione in soggetti con differenti livelli di tratti psicopatologici, tra cui Fobia Sociale e Narcisismo.
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Il Trauma e il Corpo: teoria e pratica della psicoterapia sensomotoria con Ame Cutler – Report

Nel corso di tre giornate di approfondimento organizzate dall’Istituto di Ricerca sui Processi Intrapsichici e Relazionali (IRPIR) e dalla Scuola Superiore di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università Pontificia Salesiana (SSSPC-UPS), la dottoressa Ame Cutler, psicoterapeuta didatta del Sensorimotor Institute, ha presentato i capisaldi del trattamento della persona traumatizzata alla luce della psicoterapia sensomotoria; si tratta di un approccio terapeutico che utilizza il corpo come punto d’accesso ai disagi psicologici.

 

La psicoterapia sensomotoria: l’importanza del corpo

La psicoterapia sensomotoria è stata elaborata da Pat Ogden, integrando il lavoro del gestaltista Ron Kurtz con il metodo dell’integrazione strutturale di Rolf e con contributi derivanti dalle neuroscienze e dalla teoria dell’attaccamento. Si lavora con la persona nella sua interezza: l’intervento va ad agire non solo sugli aspetti cognitivi ed emotivi, ma anche, e soprattutto, sull’esperienza somatica del soggetto.

In questo quadro, il trauma psicologico viene definito, in senso lato, in termini di un evento in cui il soggetto non riesce a “stare nel presente” e ad attribuire un senso all’esperienza, integrando cognizioni ed emozioni; può trattarsi di una situazione che viene percepita come minacciosa per la sicurezza e/o la sopravvivenza.

E’ importante sottolineare come la percezione della minaccia non si basi solo su una valutazione cognitiva, ma anche su sensazioni fisiche, che precedono la percezione cognitiva ed emotiva. Il soggetto, nel momento in cui ricorda il trauma che ha subito, rivive, ad un livello somatico e non verbale, sensazioni somatiche che si traducono in sintomi fisici.

Nel momento in cui la persona sente di essere in pericolo, i lobi frontali, responsabili dell’elaborazione a livello cognitivo, interrompono o diminuiscono il loro funzionamento, per far sì che il soggetto metta in atto una risposta istintiva, legata all’attivazione del sistema limbico e del tronco encefalico; come conseguenza, i ricordi corporei legati al trauma sono separati dalla narrazione verbale.

La necessità di fronteggiare l’esperienza traumatica può determinare, nel soggetto, uno stato disregolato di arousal (attivazione); uno stato di iperarousal, in cui la persona è estremamente attivata dal sistema nervoso simpatico, ed è in uno stato ipervigile e orientato all’azione o uno stato di ipoarousal parasimpatico, caratterizzato dall’appiattimento emotivo, dall’assenza di energie e dall’ottundimento.

 

L’obiettivo della psicoterapia sensomotoria

La psicoterapia sensomotoria si pone l’obiettivo, nella prima fase del trattamento, di operare una riduzione dei sintomi, attraverso l’ampliamento della “finestra di tolleranza”, la zona in cui l’arousal è ottimale, producendo una condizione di stabilizzazione; se l’arousal è ottimale la persona è in grado di essere presente sul piano fisico e mentale, in contatto con l’esperienza nel qui e ora.

Nella pratica della psicoterapia sensomotoria, il terapeuta osserva il paziente, e richiama l’attenzione su quello che vede, a livello corporeo, senza formulare interpretazioni, attuando un tracking del corpo; ciò significa che si osservano aspetti quali gli impulsi motori, il battito cardiaco, il movimento della spina dorsale, il respiro, la tensione muscolare, la postura.

Per fare questo si lavora, piuttosto che con le memorie dichiarative (le memorie verbali), con le memorie somatiche e con gli apprendimenti procedurali. Si tratta di ricordi impliciti cui è possibile avere accesso solo attraverso la narrativa somatica.

Nelle fasi successive del trattamento si interviene sui ricordi traumatici attraverso l’utilizzo delle memorie corporee; è importante sottolineare che si tratta di un processo graduale, che va portato avanti con molta delicatezza, perché i pazienti che hanno subito dei traumi cercano di difendersi dalle sensazioni spiacevoli evocate dai ricordi traumatici.

Il paziente traumatizzato fa fatica ad essere in contatto con il proprio corpo, dato che, di frequente il “non sentire” è una modalità che viene attuata per difendersi dal trauma, disconnettendosi dall’esperienza negativa; ciò implica che la finestra di tolleranza è molto ridotta, come ridotta è la capacità di stare nell’esperienza presente, in modo particolare nel momento in cui il trauma viene rievocato. Per facilitare la persona in questo processo così complesso, è molto utile mettere l’accento sulle risorse somatiche, in modo da restituire al paziente la consapevolezza sana e positiva del proprio corpo.

Per risorse si intendono le skills, le capacità le abilità che offrono il sostegno necessario per determinare un senso di sicurezza, a prescindere dagli agenti ambientali stressanti. Vi sono varie categorie di risorse, sia interne (che risiedono nella persona) che esterne (ambientali); esempi di risorse sono le risorse relazionali, emotive, materiali, comportamentali, intellettuali, spirituali, somatiche.

Nella prima fase del trattamento secondo l’approccio della psicoterapia sensomotoria si lavora con le risorse somatiche, ossia con le abilità che sono legate all’esperienza fisica e che influenzano il benessere psicologico. Nello specifico, il paziente apprende come usare il movimento e le sensazioni corporee, lavorando sulla consapevolezza del corpo, sul respiro, sulla postura, sulla capacità di autocontenersi e di tranquillizzarsi e di creare dei sani confini con l’ambiente (elemento molto importante dato che, di frequente, la persona ha l’esperienza dell’ambiente esterno come invasivo e fonte di pericolo).

In questo quadro, è necessario valutare quali sono le risorse da cui la persona è contraddistinta, a quali risorse può avere accesso e quali, invece, sono assenti o carenti e vanno, di conseguenza, implementate. Solitamente, le persone che hanno subito dei traumi avvertono un senso di impotenza e vulnerabilità, che li porta a ritenere di essere privi di risorse; per questa ragione, è importante richiamare e valorizzare le risorse esistenti, partendo da ciò che c’è (e che ha permesso alla persona di sopravvivere alle situazioni traumatiche) per costruire ciò che manca.

Il terapeuta, inoltre, aiuta il paziente a comprendere che le difese che ha messo in atto per difendersi dal trauma, incluse difese di sottomissione, non sono state debolezze, bensì gli unici modi di fronteggiare la situazione di cui la persona disponeva in quel momento, ossia risorse di sopravvivenza.

Disturbo ossessivo compulsivo: la psicoterapia cognitivo-comportamentale tra i trattamenti di prima linea

Un gruppo di ricercatori statunitensi ha condotto una revisione della letteratura scientifica per valutare i progressi diagnostici e terapeutici nel disturbo ossessivo compulsivo. Sempre maggiori sono le evidenze dell’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale.

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (cognitive behavioral therapy, CBT), nel corso degli anni, sta accumulando evidenze sempre più importanti per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo (obsessive compulsive disorder, OCD), tanto da giustificarne la diffusione attraverso piattaforme online e in contesti di gruppo.

Un team di psichiatri americani ha recentemente pubblicato uno studio su JAMA (Hirschtritt et al. 2017) che ha esaminato i lavori scientifici, pubblicati negli ultimi cinque anni, riguardanti il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo.

Gli autori hanno condotto una revisione degli articoli pubblicati su PubMed, EMBASE e PsycINFO per identificare studi controllati randomizzati (RCTs), meta-analisi e review sistematiche che trattavano il disturbo ossessivo compulsivo (tra soggetti con età superiore a 18 anni) e pubblicati tra il 1 gennaio 2011 e il 30 settembre 2016.

Tra i 792 articoli identificati ne sono stati selezionati 27 (11 RCT, 11 recensioni sistematiche o meta-analisi, e 5 recensioni-linee guida). Le meta-analisi e le revisioni sistematiche hanno avuto la priorità mentre case series e reports sono stati inclusi solo per gli interventi per i quali non erano disponibili RCTs.

La diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo, nei vari studi, era stata eseguita sulla base dei criteri pubblicati nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders Fifth Edition, che ha separato questo disturbo dal capitolo sui disturbi d’ansia in cui era presente nella precedente versione del DSM Fourth Edition.

I dati evidenziati mostrano come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), con o senza inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), rimanga una strategia di trattamento iniziale elettiva e come la letteratura a riguardo ne evidenzi sempre più l’efficacia. Le attuali evidenze sostengono inoltre che, tra i vari farmaci, gli SSRI sono da ritenersi una terapia farmacologica di prima linea, efficace e in generale ben tollerata.

Per i pazienti che non rispondono ai trattamenti di prima linea per il disturbo ossessivo-compulsivo, le prove emergenti suggeriscono, come approccio efficace, l’aumento di dosaggio di un SSRI e, per le forme più gravi e refrattarie ai trattamenti farmacologici, la neurochirurgia e la stimolazione cerebrale profonda. I risultati pubblicati da questo team di ricercatori statunitensi si allineano alle linee guida correnti per il disturbo ossessivo-compulsivo redatte dalla American Psychiatric Association e dall’Anxiety and Depression Association dell’American Clinical Practice Review for OCD.

I progressi del trattamento comprendono sempre più prove a sostegno dell’efficacia della diffusione on-line basata sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale, che hanno dimostrato una diminuzione clinicamente significativa dei sintomi OCD quando condotta da terapeuti formati. L’uso degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina rappresenta, tra i vari farmaci in commercio, la prima linea tra gli interventi farmacologici per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo; tuttavia, i dati più recenti supportano l’uso aggiuntivo di neurolettici, la stimolazione cerebrale profonda, e l’ablazione neurochirurgica nei casi resistenti al trattamento.

Dati preliminari suggeriscono la sicurezza di altri agenti (ad esempio: riluzolo, ketamina, memantina, N-acetilcisteina, lamotrigina, celecoxib, ondansetron) sia in combinazione con gli inibitori della ricaptazione della serotonina o come monoterapia nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo, anche se la loro efficacia non è ancora stata stabilita.

Infine, gli autori concludono che la diffusione della terapia cognitivo-comportamentale basata sul computer ha prove a sostegno che rappresenta un importante progresso nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo. Anche se la terapia cognitivo-comportamentale con o senza inibitori della ricaptazione della serotonina rimane una strategia di trattamento iniziale preferita, una crescente evidenza supporta la sicurezza e l’efficacia dei neurolettici e anche di approcci neuromodulatori nei casi resistenti al trattamento.

Dal trauma precoce alle psicosi: il Traumagenic 
Neurodevelopmental Model

Sebbene il ruolo degli eventi di vita precoci nell’eziologia delle psicosi sia ben noto, i meccanismi eziopatologici sottostanti in grado in di spiegare la relazione “avversità precoce à psicosi” non sono ancora ben chiari.

Giovanni Mansueto – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La relazione tra eventi di vita precoci e psicosi è un dato ben consolidato in letteratura. Negli ultimi anni un crescente numero di review ha esteso tale filone di ricerca (Read, Roar, Moskowitz & Perry 2014; van Os, Kenis & Rutten, 2010; Varese et al., 2012;). Una recente meta-analisi (Varese et al., 2012) conferma che persone esposte ad avversità durante l’infanzia e/o adolescenza hanno una maggiore probabilità di insorgenza di psicosi rispetto a chi non è stato esposto ad eventi traumatici precoci. In particolare sembrano rilevanti eventi di abuso (fisico e/o sessuale e/o emotivo), neglect, bullismo, ecc. mentre risultati contrastanti emergono in merito agli eventi precoci di perdita. Inoltre è stato accertato l’esistenza di una reazione “dose-risposta” (Read et al., 2014; Varese et al., 2012;), ovvero l’esposizione a molteplici eventi di vita precoci incrementa significativamente il rischio di insorgenza psicosi in età adulta.

Inoltre gli eventi di vita precoci sembrano esercitare un importante azione patoplastica. Infatti pazienti con storia di eventi traumatici tendono presentare un decorso più sfavorevole, minore funzionamento premorboso, deficit cognitivi, scarso funzionamento sociale, maggiori livelli di rabbia, alti tassi di comorbilità psichiatrica, suicidio, basso funzionamento cognitivo, abuso di sostanze (Read et al., 2014; Varese et al., 2012).

Sebbene il ruolo degli eventi di vita precoci nell’eziologia delle psicosi sia ben noto, i meccanismi eziopatologici sottostanti in grado in di spiegare la relazione “avversità precoce à  psicosi” non sono ancora ben chiari.

Si possono individuare due maggiori filoni di ricerca:

  • studi di matrice psicologica, nell’ambito dei quali è stato indagato il possibile ruolo della dissociazione, attaccamento, schemi cognitivi, sistemi di difesa, coping, ri-vittimizzazione, supporto sociale (Bebbington, 2009; Morrison, 2009; Read et al., 2014);
  • studi di matrice neuro-biologica focalizzati per maggiormente sulla valutazione dell’iterazione gene-ambiente, ruolo asse HPA, funzioni cognitive (Heim, Shugart, Craighead & Nemeroff, 2010; Read et al., 2014).

Nel contesto degli studi di matrice neuro-biologica un primo tentativo di integrazione dei vari filoni di ricerca è stato proposto da Read et al. (2014) nell’ambito del “Traumagenic 
Neurodevelopmental Model (TNM) (Read et al., 2014)”. In particolare il TNM focalizza l’attenzione sui meccanismi che possano spiegare l’elevata sensibilità allo stress tipica dei pazienti psicotici.

Secondo il TMN alta sensibilità allo stress riscontrata in pazienti psicotici potrebbe essere dovuta ad alterazioni nel neuro-sviluppo, in termini di modificazioni celebrali, a seguito di esposizione a traumi precoci. Inoltre il TMN ipotizza un legame tra eventi di abuso e abbandono e deficit psicologici come la riduzione del funzionamento intellettuale e cognitivo.

La prima proposta teorica del TMN è stata introdotta nel 2001 (Read, Perry, Moskowitz & Connolly, 2001) in linea con evidenze scientifiche che mostravano come le differenze tra il cervello di individui con diagnosi di schizofrenia e il cervello degli adulti di popolazione generale erano le stesse differenze riscontrate tra i bambini con e senza trauma (Heim et al., 2010; Pechtel & Pizzagagli, 2011; Read et al., 2014;). Tali differenze includono l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), della dopamina, serotonina e anomalie epinefrina nonché differenze strutturali come danni dell’ippocampo, atrofia cerebrale, ingrandimenti ventricolari e invertita asimmetria cerebrale (Read et al., 2014).

Al fine di fornire una validazione teorica del TMN, nel 2014 Read et al. realizzano una revisione degli studi rilevanti per il TMN in cui sono stati indagati i diversi meccanismi di regolazione dello stress in risposta a traumi precoci.

  • Aumentata sensibilità allo stress nelle psicosi

Studi sperimentali, sia in uomini che animali, mostrano che l’esposizione a eventi di vita traumatici, durante l’infanzia o adolescenza, sembra associata a una iper-attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e del sistema dopaminergico in età adulta (Heim et al., 2010). Inoltre, come riportato da Lardinois, Lataster, Mengelers, van Os & Myin-Germeys  (2011) i soggetti con trauma infantile mostrano un’elevata reattività emozionale e maggiori reazioni psicotiche (nel pensiero e percezione) verso episodi stress quotidiano di lieve entità. Inoltre sulla base degli studi di Lataster, Myin-Germeys, Lieb, Wittchen &van Os (2012) sembra sussistere un effetto di interazione tra le avversità precoci e eventi  recenti: l’associazione tra sintomi psicotici ed eventi recenti sembra molto più forte negli individui che sono stati esposti alle avversità precoci rispetto a coloro che non riportano storia di eventi traumatici.

  • Asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)

Un’ampia letteratura supporta l’esistenza di una relazione tra la disregolazione dell’asse HPA e sistema dopaminergico e psicosi, mostrando un’associazione tra livelli di cortisolo e gravità dei sintomi psicotici (Read et al., 2014).

Inoltre primi studi mostrano tra i pazienti con schizofrenia  una maggiore disregolazione dell’asse HPA in coloro con esperienze traumatiche di abuso durante l’adolescenza rispetto a pazienti senza traumi (Braehler et al., 2005; Mondelli et al., 2010), così come un associazione tra livelli di cortisolo al mattino e inadeguato parenting, abuso sessuale in pazienti con primo episodio di psicosi (Mondelli et al., 2010; Pruessner, Vracotas, Joober, Pruessner & Malla, 2005).

  • Lobi Frontali e Ippocampo e BNF

Studi volti a indagare la relazione trauma precoce e lobi frontali nelle psicosi suggeriscono che le alterazioni del volume della corteccia prefrontale potrebbero essere legate a episodi di abuso sessuale durante infanzia o adolescenza piuttosto che altre forme di abuso (fisico o emotivo) o altre avversità come il neglect o eventi di separazione (Read et al., 2014). Similmente una riduzione del volume della materia grigia è stata riscontrata in pazienti con storia di abuso sessuale rispetto ai pazienti non abusati (Read et al., 2014).

Le alterazioni del volume dell’ippocampo sono tra le forme più frequenti riscontrante in pazienti con schizofrenia. Sebbene una diminuzione del volume dell’ippocampo è stata riscontrata in soggetti con traumi precoci (Pechtel & Pizzagalli, 2011), ancora pochi studi hanno valutato tale aspetto in pazienti psicotici esposti a avversità precoci.

Infine i BDNF ha un ruolo chiave nello sviluppo celebrale e relativa plasticità (Heim, et al., 2010). Forme acute di stress possono ridurre l’espressione del BDNF. L’associazione tra traumi precoci e alterati livelli di BDNF è stata evidenziata in un campione di pazienti al primo esordio psicotico (Read et al., 2014)

  • Stress, alterazioni celebrali e funzioni cognitive

Condizioni di stress prolungato possono portare a una iper-vattivazione dell’asse HPA, che sua volta può favorire una maggiore secrezione di elevati livelli di cortisolo e iper-attivazione dei recettori per i glucorticodi responsabili di una inibizione della produzione di BDNF (essenziali per la sintesi di nuovi neuroni). Tale processo può determinare un’alterazione del volume dell’ippocampo e della corteccia pre-frontale (Heim et al., 2010; Pechtel & Pizzagalli, 2011). A sua volta l‘ippocampo è strettamente legato a funzioni cognitive tra quali le memoria di lavoro (Pechtel & Pizzagalli, 2011).

Quindi, l’esposizione a traumi precoci potrebbe indurre un iper-attivazione dell’asse HPA che a sua volata, tramite processi di neurodegenrazione, può indurre una riduzione del volume dell’ippocampo favorendo una deterioramento delle funzioni cognitive.

In conclusione, la letteratura sembra fornire prove a favore della del TMN (Read et al., 2014) sebbene ulteriori studi sono necessari per confermare tali risultati.

La maggior-parte degli studi volti a identificare possibili meccanismi e processi alla base della relazione eventi precoci-psicosi sono indagini retrospettive. Ulteriori sviluppi di tali linee di ricerca dovrebbero considerare l’implementazione di disegni longitudinali. Inoltre dal momento in cui non tutti i pazienti psicotici riportano una storia di traumi precoci e non tutti coloro con traumi precoci vanno incontro a disturbo psicotico nell’età adulta, potrebbe essere utile l’identificazione di variabili in grado di mitigare l’impatto dei traumi precoci nel corso dello sviluppo.

Intelligenza, capacità in ambito scientifico e differenze di genere

Secondo un recente studio le ragazze si valutano meno dotate dei ragazzi in ambito matematico, anche in assenza di reali differenze nelle prestazioni

Differenze di genere nelle credenze sulle proprie abilità matematiche: l’influenza sulle scelte accademiche

 



Alcuni studi sull’intelligenza nei bambini hanno dimostrato come esistano degli stereotipi che tendono a considerare i maschi più intelligenti delle femmine

La percezione d’intelligenza nei bambini: questione di genere?

 



Secondo diversi studi, le credenze sull’intelligenza sono diverse per maschi e femmine e influenzano il processo di apprendimento e i risultati ottenuti

Come funziona l’intelligenza: può il genere influenzare lo sviluppo di credenze sulle abilità intellettive?

 


 

Al di là delle differenze intellettive individuali, la giusta sollecitazione può spingere le persone ad ottenere risultati migliori

L’intelligenza è innata o appresa? Non importa, se si ha il giusto incoraggiamento

Differenze di genere nelle credenze sulle proprie abilità matematiche: l’influenza sulle scelte accademiche

Le ragazze hanno la tendenza a valutare le proprie abilità matematiche come inferiori rispetto a quelle dei ragazzi, influenzando il successivo percorso scolastico.

 

Le ragazze valutano se stesse come notevolmente meno dotate dei ragazzi per quanto riguarda le competenze di tipo matematico, anche in assenza di reali differenze a livello delle prestazioni e dei punteggi ottenuti ai test.

Questo è quanto emerso da un recente studio svolto da Perez-Felkner e collaboratori della Florida State University, che si sono chiesti se le differenze nelle credenze possedute da maschi e femmine circa le proprie abilità matematiche potessero essere alla base delle discrepanze di genere rilevate per quanto riguarda la scelta di carriere accademiche di tipo scientifico (ad es. scienze fisiche, ingegneria, matematica, informatica).

Per quanto negli ultimi anni le donne abbiano generalmente oltrepassato gli uomini sia per quanto riguarda il numero di iscrizioni universitarie sia per quanto riguarda il conseguimento effettivo della laurea, questo non risulta essere valido per un ristretto gruppo di facoltà scientifiche, ancora fortemente, e quasi esclusivamente, a prevalenza maschile (DiPrete & Buchmann, 2013).

L’idea generale, tuttora in auge, è che questa discrepanza sia data da un’effettiva minore abilità femminile nel campo delle scienze fisiche o naturali, ma Perez-Felkner e collaboratori hanno notato che, anche mantenendo costanti le variabili inerenti i punteggi ai test sulle abilità matematiche, i ragazzi continuavano a valutare se stessi come più abili, mentre le ragazze come meno abili di quanto non fossero in realtà. Sembrerebbe, quindi, che in generale i ragazzi siano più sicuri di sé quando si tratta di avere a che fare con ambiti matematici impegnativi e stimolanti di quanto non lo siano le ragazze parimenti abili. Più nello specifico, sembra che i ragazzi valutino se stessi il 27% più abili delle ragazze.

In aggiunta, dalle analisi dei dati raccolti, è stato possibile notare come solo il 4.7% delle femmine sembri essere intenzionata ad intraprendere una carriera accademica di tipo scientifico, a fronte del 14.9% della popolazione maschile. Il tasso di intenzionalità femminile, inoltre, è risultato essere correlato alla valutazione delle proprie abilità data dalle ragazze all’inizio delle superiori: a valutazione negativa corrisponderebbe una percentuale di probabilità di intraprendere carriere scientifiche molto bassa (4.7%), mentre, al contrario, a valutazione positiva corrisponderebbe una percentuale più alta, per quanto però questa resti in ogni caso inferiore a quella dei maschi, anche di quelli che si percepiscono come poco portati per la matematica (5.6% per le femmine con percezione positiva vs. 6.7% per i maschi con percezione negativa; 19.1% per i maschi con percezione positiva).

Gli autori hanno potuto valutare il livello di abilità percepita utilizzando i dati provenienti da un precedente studio longitudinale che aveva coinvolto un totale di 16,200 ragazzi provenienti da 750 diversi licei americani a partire dal secondo anno di scuola superiore fino a due anni dopo il diploma, per una durata totale di sei anni di indagine empirica. Tra il secondo e l’ultimo anno di liceo, ai ragazzi partecipanti era stato chiesto di valutare il proprio grado di accordo con affermazioni inerenti la possibilità che tutti possano divenire abili in matematica (definita come growth mindset, ovvero la convinzione che non sia un’abilità innata, ma che si possa imparare) e la certezza di poter capire anche gli argomenti matematici più complessi (Education Longitudinal Study, ELS, Ingels et al., 2014). Perez-Felkner e collaboratori, per la propria ricerca, hanno in seguito selezionato, a partire dai dati dell’ELS, un campione di 4,450 ragazzi che, nei due anni successivi a quello del diploma, si erano iscritti ad un corso di laurea postsecondario.

All’interno della letteratura scientifica sono da tempo presenti evidenze circa le implicazioni a lungo termine che le credenze sulle proprie abilità, ed in particolar modo su quelle matematiche, possono avere sugli studenti e sul tipo di scelte da loro intraprese. Già uno studio degli anni ’90 aveva messo in evidenza come le ragazze avessero la tendenza a valutare le proprie abilità matematiche in modo più negativo di quanto non facessero i ragazzi e come questo avesse delle ricadute sulle successive scelte accademiche (Correll, 2001). Secondo questa ricerca questo sarebbe causato da un meccanismo di tipo culturale per il quale le credenze stereotipiche su ipotetiche differenze di genere influenzerebbero la percezione delle singole persone circa le proprie abilità, indipendentemente dal reale livello di tali abilità.

A proposito della propensione per i domini più scientifici, infatti, la matematica viene comunemente vista come un ambito prettamente maschile (ad es. Hyde et al., 1990a) e questo scoraggerebbe la maggior parte della popolazione femminile dall’intraprendere carriere accademiche quali matematica, scienze o ingegneria, perché non sufficientemente portate, per quanto le evidenze circa una reale differenza di genere in tali abilità siano pressoché nulle (Hyde et al., 1990b). Inoltre, Perez-Felkner e collaboratori hanno anche notato che se da un lato i maschi verrebbero generalmente incoraggiati fin dalla più tenera età a ricercare e perseguire le sfide, contemplando anche il rischio di un potenziale fallimento, dall’altro le femmine verrebbero sollecitate a ricercare la perfezione e ad adeguarsi a standard culturali molto più ristretti, scoraggiando ulteriormente la possibilità di intraprendere percorsi per i quali la società non le giudica abbastanza abili e, di riflesso, per i quali non giudicano se stesse abbastanza abili.

In generale, quindi, questo tipo di credenze di genere circa le proprie abilità risulta essere sufficientemente forte e pervasivo da influenzare la scelta di quali corsi di matematica e scienze intraprendere al liceo, la scelta di quale università sulla base della difficoltà delle facoltà scientifiche e anche il grado con cui gli studenti dichiarano di voler intraprendere e perseguire tali facoltà scientifiche, anche in ottica di future carriere. È così possibile che anche le ragazze tra le più dotate scelgano di non intraprendere un certo tipo di percorso scolastico e professionale solo perché considerato “maschile”.

Secondo gli autori, per poter ovviare a questo tipo di credenze e riequilibrare, così, le differenze di genere a livello di scelte accademiche, si potrebbe incrementare l’accesso a corsi scientifici avanzati nelle scuole superiori, organizzando, ad esempio, camp o attività di tipo informativo che possano sostenere e favorire anche gli interessi scientifici della popolazione femminile, scoraggiando l’adesione a stereotipi culturalmente diffusi non solo da parte delle studentesse, ma anche, e soprattutto, da parte di genitori ed insegnanti.

Perez-Felkner e collaboratori, infatti, hanno anche messo in luce come tra i risultati emerga sì una correlazione tra la valutazione di sé e delle proprie abilità matematiche al secondo anno di liceo e la tendenza a voler scegliere o meno un corso di laurea in ambito scientifico, ma anche la possibilità di modificare la propria inclinazione circa la formazione postsecondaria sulla base di nuove credenze sulle proprie abilità sviluppatesi verso l’ultimo anno di scuola superiore. In questo senso, agire nell’ottica di favorire l’interesse per l’ambito scientifico, fornendo anche maggiori opportunità ed esperienze formative durante gli anni di formazione secondaria potrebbe portare ad un miglioramento nelle differenze di genere per quanto concerne la scelta di future carriere accademiche e professionali.

A tal proposito, però, Hubner e collaboratori dell’università di Tubinga hanno indagato come una recente riforma scolastica tedesca, in vigore dal 2002, possa aver influito sulle differenze di genere per quanto riguarda le credenze sulle abilità matematiche e gli interessi professionali. Tale riforma ha, tra le altre cose, decretato a livello statale che tutti gli studenti delle scuole superiori dovessero necessariamente inserire nel proprio piano di studi corsi di matematica avanzata, proprio nel tentativo di incoraggiare i giovani, e soprattutto le ragazze, ad intraprendere carriere accademiche di tipo scientifico.

Dalle analisi dei dati, effettuate su più di 4,000 studenti sia prima sia dopo la riforma, è però emersa, confrontando i dati post-riforma con quelli pre, la presenza di un divario di genere sempre più grande per quanto riguarda la percezione delle proprie abilità ed inclinazioni in ambito scientifico (le femmine percepirebbero se stesse come ulteriormente meno abili dei maschi), facendo sì che non fosse riscontrabile alcuna modifica a livello delle differenze di genere nei tassi di iscrizione alle diverse facoltà universitarie. La riduzione delle possibilità di scelta del proprio piano di studi tramite obblighi imposti dall’alto non sembrerebbe quindi essere una soluzione efficace al fine di ridurre le discrepanze nelle scelte delle future carriere accademiche incoraggiando anche le donne ad intraprendere percorsi di tipo scientifico.

Infine, potrebbe risultare parimenti interessante indagare l’esistenza o meno di un analogo divario per quanto riguarda la scelta di carriere stereotipicamente considerate come femminili da parte della popolazione maschile (ad es. scienze infermieristiche, ostetricia e psicologia) e, in caso, mettere a punto modalità di intervento per riequilibrare anche tali bias di genere.

I bambini notano ciò che gli adulti non vedono: come l’attenzione selettiva cambia durante lo sviluppo cognitivo

A volte l’immaturità e le limitazioni che caratterizzano i bambini possono divenire un loro punto di forza: i costi dell’attenzione selettiva. 

 

Per quanto gli adulti possano avere prestazioni migliori dei bambini nella maggior parte dei compiti cognitivi, a volte i limiti, dati dall’immaturità delle connessioni cerebrali, che caratterizzano i bambini possono rappresentare un vero e proprio punto di forza.

Generalmente, all’interno delle scienze psicologiche, ed in particolar modo per quanto riguarda i processi cognitivi e sociali, si parla di progressione evolutiva, facendo in tal senso riferimento ad un miglioramento progressivo nel funzionamento sensomotorio, cognitivo e sociale nel corso dello sviluppo ontologico. Tale miglioramento procede di pari passo con una sempre maggiore complessificazione e differenziazione delle strutture a livello biologico. Esiste però una violazione di tale legge evolutiva, una sorta di inversione evolutiva per quanto riguarda lo sviluppo attentivo.

Una recente ricerca composta da due diversi studi condotti da Plebanek & Sloutsky, ricercatori del dipartimento di psicologia della Ohio State University, ha mostrato come gli adulti siano veramente bravi nella selezione e nel ricordo di informazioni a cui era stato detto loro di prestare attenzione, ignorando tutto il resto. Di contro, bambini di 4/5 anni sembrerebbero avere la tendenza ad selezionare tutto ciò che viene loro mostrato, indipendentemente dal grado di rilevanza dello stimolo ai fini del compito.

Questo meccanismo permetterebbe ai bambini di notare anche ciò che gli adulti non sono in grado di vedere a causa della cosiddetta attenzione selettiva, meccanismo attentivo che emerge e si sviluppa solo dopo i 7 anni di età, in seguito cioè alla maturazione dei lobi frontali, che permette la messa in atto di un’efficace attività di selezione percettiva delle informazioni (Hanania & Smith, 2010; Plude et al., 1994).

L’attenzione selettiva consiste nella capacità di selezionare e, per l’appunto, prestare attenzione ad un solo stimolo presente nel proprio ambiente. Questo processo di tipo top-down può quindi essere considerata come un “filtro” in grado di selezionare le informazioni in entrata, decidendo quali debbano essere elaborate, perché rilevanti ai fini di un compito, e quali, al contrario, ignorate perché irrilevanti. Generalmente, l’attenzione selettiva viene studiata tramite paradigmi di tipo visivo, come ad esempio il compito di ricerca visiva (visual search), nel quale si richiede di valutare il più rapidamente possibile la presenza o meno di uno stimolo target all’interno di un pattern più o meno variegato di stimoli (Pashler et al., 2001; Johnston & Dark, 1986).

Si tende spesso a considerare i bambini come carenti in molte abilità, soprattutto se paragonati al livello di efficienza cognitiva degli adulti, ma, a volte, quello che superficialmente può apparire come una mancanza può invero rappresentare un vantaggio.

I bambini, con la loro estrema curiosità e la tendenza ad esplorare tutto ciò che li circonda, presentano un meccanismo attentivo notevolmente distribuito e diviso, anche quando viene chiesto loro di focalizzarsi su un solo aspetto ben specifico dell’ambiente. Questo meccanismo, a volte, può però risultare utile e vantaggioso. Infatti, per quanto l’attenzione selettiva porti con sé numerosi benefici, tra i quali la capacità di elaborare le informazioni selezionate in modo veloce ed efficiente, essa comporta anche una serie di costi estremamente rilevanti, come la non elaborazione di ciò che non viene ritenuto rilevante ai fini di un compito. Al contrario, l’attenzione distribuita permette di far caso a tutto ciò che ci circonda, elaborando contemporaneamente le informazioni provenienti da più fonti, per quanto in modo meno rapido, efficiente e strettamente connesso alla quantità di risorse che ciascuno stimolo richiede.

A tal proposito, lo scopo della ricerca di Plebanek & Sloutsky era proprio quello di confrontare, attraverso l’uso di due diversi compiti attentivi, le abilità di elaborazione delle informazioni di adulti e bambini, al fine di testare l’ipotesi secondo cui i bambini sarebbero più abili nell’elaborazione di informazioni non rilevanti per il compito, ovvero nell’uso dell’attenzione distribuita. Al contrario, gli adulti dovrebbero essere più abili nell’elaborazione esclusiva dei soli stimoli utili all’esecuzione del compito.

Più nello specifico, all’interno del primo studio è stato coinvolto un campione di 35 adulti (età media = 19.59 anni) e 34 bambini tra i 4 e i 5 anni, ai quali è stato chiesto di svolgere un change-detection task, costituito dalla presentazione del contorno di due figure sovrapposte (target), seguita poi da quella di altre due figure sovrapposte (test), che potevano essere uguali o diverse dalle prime. I partecipanti, ai quali veniva detto di prestare attenzione ad una sola delle due figure sovrapposte, dovevano quindi riconoscere se una delle due figure test fosse uguale o diversa da quella target e poi se l’intera coppia di figure test fosse o meno la stessa di quella target.

Come previsto, gli adulti si sono dimostrati più abili nell’identificazione dei cambiamenti della sola figura target, quella a cui dovevano prestare attenzione (94% di accuratezza per gli adulti vs. 86% per i bambini), mentre, al contrario, i bambini si sono dimostrati in grado di riconoscere anche i cambiamenti nella figura che avrebbero dovuto ignorare (77% di accuratezza per i bambini vs. 63% per gli adulti). In sostanza, i bambini prestavano attenzione in modo distribuito a tutti gli stimoli presenti, indipendentemente da quale fosse la consegna e quindi da quale fosse il grado di rilevanza dei diversi elementi; al contrario, gli adulti si sforzavano di elaborare al meglio lo stimolo adeguandosi alla richiesta del compito.

Il secondo studio, svolto per indagare ulteriormente quanto emerso dal primo, era invece costituito da un compito di visual search, in cui veniva presentata ai partecipanti, gli stessi del primo studio, una serie di stimoli costituiti diverse caratteristiche attenzionabili, alcune rilevanti ai fini del compito mentre altre “distraenti”. Il compito consisteva nell’identificare una caratteristica target. Anche in questo caso veniva misurata l’abilità dei partecipanti nel rilevare i cambiamenti sia delle dimensioni rilevanti sia di quelle irrilevanti.

In generale, sia gli adulti sia i bambini si sono dimostrati in grado di identificare la caratteristica target, per quanto gli adulti fossero leggermente più accurati (89.2% di accuratezza per gli adulti vs. 74.5% per i bambini). I bambini, però, in modo analogo al primo esperimento, si sono dimostrati in grado di riconoscere anche i cambiamenti occorsi a livello delle caratteristiche irrilevanti (72% di accuratezza per i bambini vs 59% per gli adulti).

Gli adulti, quindi, in entrambi gli esperimenti hanno mostrato sia i benefici derivanti dall’utilizzo dell’attenzione selettiva (ad es. maggiore accuratezza nella ricerca visiva) sia i costi di questo meccanismo attentivo (ad es. minore accuratezza nella codifica di stimoli irrilevanti). I bambini, invece, in un raro esempio di inversione evolutiva, hanno esibito un sorprendente vantaggio nell’identificazione e nell’elaborazione di informazioni non rilevanti per il compito. Riassumendo, per quanto la selettività dei sistemi attentivi più maturi sia vantaggiosa per l’elaborazione di stimoli rilevanti, al contempo essa risulta essere di ostacolo per quanto concerne l’elaborazione di informazioni irrilevanti. Al contrario, l’attenzione distribuita, che caratterizza i sistemi più immaturi, è quella che permette di imparare il maggior numero di informazioni possibili, soprattutto in ambienti nuovi e non familiari.

Nel complesso, quanto emerso porta con sé implicazioni notevoli per quanto riguarda la comprensione di come l’ambiente educativo possa incidere sull’apprendimento dei bambini. Infatti, il fatto che i bambini non riescano a mantenere focalizzata la propria attenzione su un aspetto specifico mostra anche l’importanza di concepire ambienti scolastici appositi. I bambini, infatti, non riuscendo a gestire elevati numeri di stimoli distraenti, sono sempre orientati alla raccolta di informazioni, ma potrebbero non essere quelle che si sta cercando di insegnare loro. Forse un’aula noiosa o libri di testo in bianco e nero potrebbero risultare meno distraenti e quindi portare ad un apprendimento migliore (ad es. Fisher et al., 2014).

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