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L’alcool e i suoi effetti – Introduzione alla psicologia

Molte sono le sostanze psicoattive esistenti, prima tra tutte troviamo l’ alcool. L’alcool è la sostanza di abuso più diffusa, perché facilmente acquistabile, per questo la più utilizzata. L’alcool è una droga la cui assunzione determina effetti ansiolitici, rilassanti, che costituiscono un rinforzo positivo e invogliano immediatamente a desiderarne ancora.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Le sostanze psicoattive, o droghe, sono composte da agenti chimici che producono, alla lunga, alterazioni di alcune funzioni biologiche, psicologiche e mentali.Ogni sostanza chimica assunta agisce a livello cerebrale generando delle modificazioni emotive, cognitive, sensoriali e comportamentali.
E’ noto che l’assunzione di droghe provochi effetti a breve e a lungo termine, da pochi minuti a diversi mesi e anni. Tali effetti variano da persona a persona sia in base alle caratteristiche della sostanza assunta sia rispetto alle caratteristiche individuali di chi la assume.

In seguito a un utilizzo costante e ripetuto della sostanza si manifesta l’assuefazione dell’organismo che consiste nella richiesta di una maggiore quantità di sostanze da assumere in tempi più ravvicinati. Questo comportamento è definito dipendenza e induce alla ricerca costante e irrefrenabile della sostanza da utilizzare.

L’uso delle sostanze psicoattive influenza negativamente la vita di chi le assume e compromette l’esistenza di coloro che sono prossimi alla persona. L’assunzione della sostanza diventa nel tempo una vera e propria schiavitù volta alla dipendenza fisica, comportamentale e emotiva dalla droga assunta.

 

Alcool

Molte sono le sostanze psicoattive esistenti, prima tra tutte troviamo l’alcool. L’alcool è la sostanza di abuso più diffusa, perché facilmente acquistabile, per questo la più utilizzata. L’alcool è una droga la cui assunzione determina effetti ansiolitici, rilassanti, che costituiscono un rinforzo positivo e invogliano immediatamente a desiderarne ancora.

L’alcol deriva dalla fermentazione di zuccheri o amidi di origine vegetale, esso è in parte assorbito dallo stomaco ed in parte dall’intestino e, se lo stomaco è vuoto, l’assorbimento è più rapido e i sui effetti si manifestano più velocemente.

L’alcool è assimilato attraverso il sangue e passa al fegato che ha il compito di smaltirlo. Finché il fegato non ha completato la digestione però l’etanolo continua a circolare diffondendosi nei vari organi, tra cui il cervello. L’alcool è una tra le sostanze più tossiche, e per questo potrebbe, in seguito a un abuso, oltrepassare le membrane cellulari e provocare lesioni e, in casi più gravi potrebbe portare alla distruzione delle cellule cerebrali. Quando si è ubriachi l’alcool raggiunge il cervello dove, col tempo, si verifica una perdita della sostanza grigia e necrosi di alcuni neuroni.

L’alcool provoca una iniziale euforia e perdita dei freni inibitori, ma a quantità maggiori corrispondono effetti indesiderati più cospicui, come riduzione della visione laterale (visione a tunnel), perdita di equilibrio, difficoltà motorie, nausea e confusione. Quantità eccessive di alcool possono portare fino al coma e alla morte. La velocità con cui il fegato riesce a sintetizzare l’alcool dal sangue varia da individuo ad individuo; in media, per smaltire un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica l’organismo impiega 2 ore. Se si beve molto alcool in poco tempo lo smaltimento è più lungo e difficile, e gli effetti più gravi e duraturi.

L’alcool produce conseguenze sull’umore e determina una maggiore rilassatezza, felicità, senso di benessere e euforia. Tali effetti derivano dall’azione che l’alcool svolge sul sistema cerebrale imputato al controllo dell’inibizione.

Esso non ha uno specifico recettore localizzato nel cervello, ma agisce sugli ioni di membrana. Esso, in sostanza, inibisce i recettori per i neurotrasmettitori eccitatori, mentre potenzia quelli dei neurotrasmettitori inibitori. Inoltre, la dopamina, la serotonina, il GABA e i neurotrasmettitori peptidici oppiacei sembrano essere coinvolti nel rinforzo generato dall’assunzione di alcool, che genera non solo effetti ansiolitici, ma anche ricerca costante dell’assunzione di alcool (alcool-seeking behavior).

L’alcool, inoltre, provoca col tempo perdita della coordinazione motoria e distorsioni a carico del sistema percettivo, soprattutto visivo, ma anche uditivo e somatosensoriale. Tali effetti aumentano di intensità in funzione della quantità della dose di alcool assunta. Se la dose supera il livello critico, ovvero il livello di sopportabilità tipico di ciascun individuo, allora gli effetti positivi dell’assunzione lasciano il posto a quelli negativi che sono: incoscienza, coma o addirittura morte. Proprio quest’ultima, deriverebbe da alcune manifestazioni adattative del corpo come il vomito: la persona può soffocare in seguito al vomito perché si trova in uno stato di semi-incoscienza e non è in grado di gestirlo.

 

L’Alcolismo

L’alcolismo è la condizione patologica derivante dall’abuso di alcool. Spesso, in molti assumono saltuariamente dosi più o meno elevate di alcool senza diventarne dipendenti. Solo l’assunzione prolungata e regolare di alcool porta alla dipendenza. L’abuso di alcool determina modificazioni adattative a carico del sistema legato alla gratificazione che si occupa di codificare i rinforzi naturali. Il risultato è l’instaurarsi di un comportamento di ricerca della sostanza e, pertanto, di dipendenza.

L’assunzione prolungata di alcool, in generale, determina una serie di disturbi fisici, che comprendono danni agli organi interni coinvolti nella modalità di assunzione (come lo stomaco, fegato, pancreas e sistema cardiocircolatorio) che possono essere a medio-lungo termine, come la gastrite, o permanenti, come la cirrosi cronica a carico del fegato.

L’assunzione costante di alcool provoca dipendenza che si manifesta, a livello comportamentale, come ricerca della sostanza (craving) e sindrome d’astinenza nel caso si interrompa l’assunzione. Il craving è il desiderio irresistibile di assumere alcool, mentre la sindrome d’astinenza è caratterizzata da ipereccitabilità del sistema nervoso centrale e comportamenti come ansia, anoressia, insonnia, disorientamento e talvolta allucinazioni. In alcuni casi gravi la sindrome d’astinenza può diventare delirium tremens ovvero si possono presentare allucinazioni, disorientamento nel tempo e nello spazio e la comparsa di comportamenti irrazionali.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Genitori iperprotettivi: considerazioni e suggerimenti

In alcuni casi, però, la tendenza alla protezione può diventare eccessiva e generare conseguenze negative sulla crescita dei figli: in questi casi si parla di genitori iperprotettivi.

 

Proteggere i propri figli dai pericoli rappresenta sicuramente uno degli obiettivi principali dei genitori. Molti di questi desiderano mettere al sicuro il proprio figlio dai fallimenti, dalle delusioni e dal dolore fisico.

In alcuni casi, però, la tendenza alla protezione può diventare eccessiva e generare conseguenze negative sulla crescita dei figli. In questi casi, si parla di genitori iperprotettivi.

I figli di genitori iperprotettivi sperimentano poco, risultano essere dipendenti dai genitori, non sono generalmente bambini responsabili, hanno minori capacità di regolazione emotiva e problem solving. Essi, inoltre, sono maggiormente esposti a sviluppare problematiche legate all’ansia e alla bassa autostima. A tal proposito, Morrison sostiene che se i genitori sono costantemente impegnati a rendere “perfetta” la vita dei figli, questi ultimi possono iniziare a pensare che questo comportamento protettivo dei genitori rappresenti la norma, e possono sviluppare delle aspettative irrealistiche sul fatto che saranno trattati così per sempre.

 

Come riconoscere i genitori iperprotettivi

Ecco alcune caratteristiche per riconoscere i genitori iperprotettivi:

  • Inibiscono l’esplorazione dell’ambiente circostante da parte del proprio bambino, per paura che possa accadergli qualcosa di negativo. Ad esempio, i genitori iperprotettivi non lasciano che i loro figli esplorino un parco giochi per il timore che possano farsi male.
  • Tendono a svolgere attività che i loro figli sono in grado di svolgere autonomamente in assenza dei genitori. Ad esempio, tagliare la frutta, allacciare le scarpe, preparare lo zaino per andare a scuola ecc..
  • Pongono al proprio figlio molte domande allo scopo di sapere tutto di lui.
  • Sono eccessivamente coinvolti nel contesto scolastico e sportivo frequentati dal figlio. In particolare, i genitori iperprotettivi si preoccupano che il proprio figlio sia seguito dai migliori insegnanti/allenatori.
  • Aiutano il figlio a uscire da situazioni difficili e scomode. Ad esempio, se il bambino mostra difficoltà a parlare con degli sconosciuti, i genitori iperprotettivi potrebbero presentarlo e parlare per suo conto. Secondo Feiden, questa situazione potrebbe rinforzare il comportamento del bambino relativo a non parlare con persone sconosciute. Quest’ultimo, a causa della continua intromissione dei genitori, potrebbe infatti non sentirsi in grado di gestire la situazione.

Alcuni suggerimenti per un genitore iperprotettivo:

  1. Favorire un senso di autonomia e indipendenza: è fondamentale che i genitori permettano al bambino di fare esperienze in maniera indipendente, sostenendo e lodando i suoi tentativi. Questo permetterà al bambino di sviluppare un maggiore senso di autoefficacia percepita e una maggiore capacità di regolazione delle emozioni. E’ importante che il genitore, di fronte ai fallimenti del figlio, mantenga un senso di calma e fiducia nelle sue capacità di fronteggiare autonomamente la situazione.
  2. Fungere da modello: è importante mostrare ai figli che anche i genitori possono avere delle difficoltà e delle paure, ma anche che sono in grado di affrontarle. “A volte mi sento preoccupata quando devo incontrare nuove persone. Ma ho intenzione di essere coraggiosa e fare respiri profondi per mantenere la calma, e dire ‘ciao’ a questa persona“, è un esempio riportato da Feiden.
  3. Favorire lo sviluppo di abilità: Morrison sostiene che, quando i figli ricevono una valutazione negativa a scuola, i genitori iperprotettivi spesso desiderano parlare direttamente con l’insegnante. Sarebbe molto più produttivo che i genitori insegnassero al proprio figlio strategie utili per comunicare col docente. Al contrario, se il genitore interviene sempre, il bambino non imparerà ad affrontare e gestire ulteriori situazioni problematiche.

E’ naturale che i genitori tendano a proteggere i propri figli dalle avversità. Questi dovrebbero tenere a mente che fallimento, rifiuto, esperienze negative, difficoltà fanno parte della vita e che non possono essere eliminate. A tal proposito, proteggere i propri figli da esperienze avverse, non consente a questi ultimi di sviluppare le abilità di cui hanno bisogno per affrontare tali situazioni in futuro.

Le dimensioni esistenziali della Psicoterapia della Gestalt

I concetti di totalità e individualità, di spazio e di tempo, di dicibile e indicibile, costituiscono le dimensioni fondanti in cui l’incontro terapeutico prende forma e sostanza.

 

Senza dubbio le sensazioni, le emozioni e i pensieri di coloro i quali abitano il setting, costituiscono lo sfondo dinamico in cui la relazione terapeutica si può sviluppare, divenendo lo strumento principale per un potenziale cambiamento, ma la cornice in cui si inscrive tale processo è delimitato, inevitabilmente, da variabili temporali e spaziali. Ogni rapporto, che sia con noi stessi, con l’altro o con l’ambiente, è definito da criteri spazio-temporali, in cui la persona può osservarsi e percepirsi nel suo essere nel mondo.

Percepirsi unici e nello stesso tempo parte di un tutto, attraverso l’armonizzazione dinamica delle parti che compongono la nostra interiorità, costituisce molto probabilmente lo scopo della nostra esistenza; la ricerca d’equilibrio, che muove continuamente i flessibili confini tra l’ambiente e l’uomo, tracciandone un’area virtualmente condivisa, disegna la nostra esistenza. Questo fluire, un passaggio costante tra essere e divenire, è l’energia con cui l’uomo si attiva, muove e si relaziona all’interno del suo campo vitale.

Una delle funzioni della relazione è quella di rendere più spontanee e fluide le manifestazioni tra totalità e l’individualità, che altrimenti parrebbero discordanti e incoerenti. Quando la connessione tra individuazione e appartenenza avviene in questo modo, senza eccessive pressioni dell’ambiente, l’individuo può sperimentare maggiormente il suo senso interiore di persona umana che trascende se stessa, per mezzo della sua stessa esistenza.

Martin Heidegger, a riguardo, afferma:

Ad ogni pensante è assegnata sempre e soltanto una via, la sua: nelle cui tracce egli deve sempre vagare, per attenersi infine a essa come alla propria via, la quale però mai gli appartiene.

Uno degli scopi della terapia gestaltica, è quello di reintegrare la frammentazione di parti alienate della persona in un insieme coerente e coeso. Le multipolarità del sé, che in alcune patologie vengono rimosse, alterate o addirittura negate, con le funzioni e le competenze relazionali, sono riprese e unite tra loro come una trama. Questo processo di riappropriazione di “frammenti” del sé (disconosciuti e misconosciuti), l’intreccio di questi mille fili, come la tessitura di una stoffa, è lento e faticoso e niente affatto spontaneo. Le unioni che contemporaneamente agiscono nell’individuo, definendo la sua complessità, prendono forma grazie alla narrazione e all’ascolto di due vite che hanno deciso di svelarsi.

 

Il “qui-ed-ora” e lo spazio condiviso

Negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Il nostro destino non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ed io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ed io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ed io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.

(Nuova confutazione del tempo, J. L. Borges)

Una delle esperienze più significative che l’individuo esperisce e che sfugge continuamente alla sua consapevolezza, è lo scorrere del tempo. Non accorgersi del suo fluire continuo e inarrestabile, eccetto in alcuni istanti della giornata, in cui avvenimenti ci costringono a farlo, non è un’inquietudine nuova. Orazio, nelle sue Odi e epodi, esorta appassionatamente Leuconoe a cogliere l’attimo, senza preoccuparsi del domani, Seneca scrive a Lucilio che ciò che è veramente nostro, è il tempo, e Martin Heidegger descrive il suo incedere, come un insieme di eventi che modellano e ampliano gli altri eventi in una successione irreversibile, e che definiscono l’essere per la morte. Sant’Agostino, nelle Confessioni, spinge il problema metafisico fino a chiedersi, se l’animo stesso sia il tempo, affermando che “io misuro il sentirmi nell’esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. E’ il mio sentirmi che misuro, quando misuro il tempo”.

In qualche modo il continuum di consapevolezza definito nella Terapia della Gestalt, tende a chiarire, concretamente, come questo sentire interiore ed esteriore si sviluppa. Fritz Perls sottolinea come gli individui che seguono la propria consapevolezza, si muovono in un percorso organicamente determinato, in cui ogni momento influenza quello successivo.

Quando è nato il tempo e cosa rappresenta la sua irreversibilità? Il tempo ha una barriera che ad oggi non può essere oltrepassata: 10-43 secondi. Questa è definita l’era di Planck, descritta da una formula matematica, scoperta dallo scienziato tedesco nel 1900. Essa determina nella materia, a livello microscopico, la prima quantizzazione di grandezze come l’energia, la quantità di moto e il momento angolare di una particella. Grazie alla costante denominata h, possiamo risalire alle originarie dimensioni dell’universo e alla sua età.

Tutto quello che oggi osserviamo, le galassie, i pianeti, la terra, le case, gli alberi ecc. era contenuto in una sfera di 10-33 centimetri, ovvero miliardi di miliardi di miliardi più piccola del nucleo di un atomo. Il nucleo dell’atomo è così piccolo che se ingrandissimo un oggetto, ad esempio un cellulare, fino a farlo divenire grande come il nostro pianeta, gli atomi che lo compongono avrebbero le dimensioni di una ciliegia. Queste sono le dimensioni e le distanze che intercorrono tra le particelle e le sub-particelle che ci formano. Oltre a questo, c’è il tema dello spazio vuoto.

La materia che compone la realtà che osserviamo è in gran parte fatta di vuoto. Eppure, anche tra queste distanze immense, questi tratti inimmaginabili, la materia si parla e si cerca. Una scoperta certamente nota a tutti, di Léon Foucault nel 1851, ci rivela che la natura è un insieme indivisibile in cui tutto è connesso: la totalità dell’universo sembra presente in ogni luogo e in ogni tempo. In atri termini, mentre sollevo la mia mano per scrivere, l’universo mette in moto infiniti equilibri.

Altri esperimenti quantistici, ci rivelano che la materia si determina, sceglie e in un certo qual modo ha una coscienza. Nel 1982, il fisico francese Alain Aspect osservò un’inspiegabile correlazione tra due fotoni che si allontanavano l’uno dall’altro. Ogni qualvolta uno dei due cambiava polarità, anche l’altro, a distanza di miliardi di chilometri, subiva la stessa alterazione. Questo fatto, tanto misterioso quanto affascinate, ad oggi ha soltanto un’interpretazione, quella di Niels Borh. Il fisico danese l’ha definito «l’inseparabilità dell’esperienza quantistica», ovvero le particelle pur se separate da distanze abissali, fanno parte di una totalità, e si comportano di conseguenza.

Questo breve excursus tra i fenomeni della fisica quantistica, ci può far comprendere come il micro e macrocosmo di cui siamo composti e a cui partecipiamo, sembrano avere come unica funzione quella comunicativa: che sia energia, interazione, interferenza, forza, vibrazione o quant’altro, la natura si scambia continuamente dati, poiché la più piccola parte di un tutto, costituisce il tutto e per dare un senso alla sua esistenza deve comunicare con il resto.

Proprio per tale ragione, e con ben altre valenze etiche, la persona ha la necessità di esprimersi e di comunicare ciò che prova, e la relazione terapeutica, riproduce attraverso il suo continuum di consapevolezza il fluire temporale dentro lo spazio esistenziale. Le competenze comunicative dello psicoterapeuta, forniscono lo spazio necessario al paziente per dare vita ai suoi pensieri e muoversi verso di essi; attraverso l’attenzione focalizzata e l’empatia incarnata, questo processo diviene sempre più preciso e creativo. Tali successioni così intense, rappresentano un metodo semplice e al tempo stesso sicuro per il lavoro in terapia. Il terapeuta è concentrato su ciò che sente, ascolta e vede all’interno della relazione che lentamente si dispiega. Con questo approccio, l’individuo percepisce la direzionalità data dall’intenzionalità relazionale, che permette di riorganizzare i propri pensieri in una concatenazione tra le varie esperienze narrate. Grazie a questo lavoro, si giunge ad una fluidità tra l’indicibile e il dicibile, che costituiscono la trama narrativa della relazione terapeutica che co-creano la dimensione dialogica.

Questo processo, che a prima vista può sembrare naturale e spontaneo, richiede la capacità di organizzare i pensieri (e le emozioni ad essi connesse) in sequenze logiche congruenti e coerenti tra loro, per essere condivise e raccontate. Questa fluidità la ritroviamo nei romanzi, nelle poesie, nelle fiabe, ma anche nella musica. Anche la psicoterapia, con le sue caratteristiche peculiari, rientra tra queste espressioni del sé della persona, come forma più consapevole di dialogo e di conversazione.

Il bisogno (anche biologico) di dare una forma coerente a ciò che esperiamo, ben si collega alle modalità espressive che la narrazione di qualsiasi tipo può rappresentare. In un contesto a due, lo psicoterapeuta è guidato, grazie alla sua sensibilità ed empatia a seguire le tracce e le parti del racconto mancanti, per completare, insieme al paziente, l’intera esperienza. Anche nel gruppo, il racconto di una storia assume immediatamente una valenza diversa, in quanto la persona che spontaneamente decide di narrare una propria esperienza, sente che la sua unicità fa parte di un tutto, dell’intera comunità.

Spesso i sentimenti vissuti e successivamente espressi da coloro i quali hanno fatto tali esperienze sono quelli di vivacità e autorealizzazione. Per chi lavora con i gruppi, sempre più si va consolidando la convinzione che le esperienze di questo tipo (comunitarie), vissute in contesti e condizioni sicure, hanno un potere costruttivo per la persona, soprattutto per quanto riguarda emozioni come la paura e la vergogna (Wheeler, 1991). La forma narrativa può avere una funzione terapeutica soprattutto se rapportate al dolore; spesso, infatti, assistiamo a come la nostra mente per difendersi dalla sofferenza automaticamente si concentra su quell’evento doloroso, escludendo tutto il resto. Il racconto di queste storie, in una modalità condivisa più ampia, possono in qualche modo allargare la prospettiva e modificare la visuale di chi in quel momento è troppo concentrato a focalizzare i suoi aspetti negativi. In questo modo, la persona lentamente diviene consapevole dalla sua capacità di cogliere in determinate esperienze, anche dolorosissime, quegli elementi positivi in grado di ristrutturare l’intera esperienza.

Questa è l’esperienza del noi, in cui ognuno dei partecipanti si sente coinvolto e attivo. Ciò evidenzia come il senso di appartenenza e la connessione tra le persone possa incrementare la sicurezza personale. Anche durante la relazione terapeutica individuale, possiamo osservare come si attua tale processo e quali meccanismi può attivare. Ad esempio, seguendo l’approccio psicanalitico Freudiano, il terapeuta può osservare quel fenomeno denominato transfert.

Ascoltando i racconti del paziente, si comprende come il contatto distorto con le figure di riferimento, può produrre comportamenti, difese, atteggiamenti stereotipati che durante la seduta vengono attribuiti al terapeuta. In questo spazio, in cui tale materiale psichico viene espresso, il terapeuta insieme al paziente inizia il suo lavoro di analisi e di elaborazione simbolica interpretativa. Questo modo di amplificare le esperienze, da parte della psicanalisi, è molto diverso da quello della psicoterapia della Gestalt. Essa affronta queste distorsioni nel qui-e-ora della relazione, sottolineando e descrivendo le esperienze che in quel determinato setting e in quel momento il paziente sta esperendo. Attraverso questo processo di amplificazione, il sentire viene intensificato nella relazione, raggiungendo un profondità ed emotività molto intense. Per questa ragione, l’aspetto etico, nel rapporto duale, deve essere sempre tenuto nella massima considerazione.

Un altro aspetto interessante che possiamo evidenziare, è quello relativo alla sincronicità nelle relazioni. Cosa si intende con questo termine? Molto spesso alcuni eventi delle nostre storie coincidono a quelle vissute da altri. Questo campo comune, questa somiglianza, o la sensazione di percepire le stesse sensazioni nello stesso tempo, fa sì che tale esperienza assuma una valenza fondante, unica.

Ci sentiamo appartenere ad una comune base trasmissibile e nello stesso tempo ci percepiamo distinti e inimitabili.

Se l’alternanza tra appartenenza e differenziazione avverrà con spontaneità, includendo gli elementi di freschezza e novità che emergono dal campo relazionale, la terapia avrà grandi possibilità per lo sviluppo, il cambiamento e la crescita dell’individuo. Tutto quanto descritto, costituisce lo sfondo e l’atmosfera in cui si relazionano il paziente e il terapeuta, che insieme stanno cercando una via inedita verso loro stessi. Questo è un approccio dialogico, estetico ed armonico della psicoterapia della Gestalt.

“E pensare che c’era il pensiero” – Report del seminario sul Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol

Il 12 aprile 2017 la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Bologna ha ospitato il Prof. Marcantonio Spada e il Prof. Gabriele Caselli per il seminario: “Il Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol”.

di Giorgia Garozzo, Maria Marotta, Elena Lo Sterzo

 

Il 12 aprile 2017 la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Bologna ha ospitato il Prof. Marcantonio Spada, docente di psicologia presso la South Bank University di Londra e il Prof. Gabrielle Caselli, ricercatore presso Studi Cognitivi e docente presso la Sigmund Freud University di Milano, per il seminario: “Il Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol”.

La metacognizione è una abilità cognitiva che Wells (2000) ha definito come la cognizione della cognizione, ovvero le strutture psicologiche, le credenze, gli eventi e i processi che sono coinvolti nel controllo, nella modifica e nell’interpretazione del pensiero stesso.

Il professor Spada introduce il concetto di metacognizione con un esempio di vita quotidiana, il fenomeno della “parola sulla punta della lingua”, ovvero quando si cerca di recuperare un’informazione che sappiamo essere presente nel magazzino di memoria (e quindi avvertiamo un senso di familiarità verso essa), ma in quel momento si ha difficoltà a recuperarla.

La metacognizione è un insieme di processi e di contenuti mentali che influenzano profondamente il funzionamento cognitivo: è il pensiero del pensiero, e permette a ogni persona di “supervisionare” le attività della propria mente.

Il professor Spada evidenzia come questo concetto sia emerso inizialmente come tematica fondamentale a livello artistico-letterario nella prima parte del XX secolo, proponendoci ad esempio l’immagine dell’opera di Escher “Mano con sfera riflettente”, e un passo di André Gide: “Nel momento in cui guardo me stesso agire, non capisco come una persona che agisce sia la medesima che guarda sé stessa agire, e che si chiede, con stupore e incertezza, come possa essere sia attrice che spettatrice nello stesso momento”. Inoltre, sottolinea che tale concetto è stato introdotto nella psicologia cognitiva da Flavell già nel 1976, e che, da allora, ha avuto ampia applicazione negli ambiti, tra gli altri, della psicologia scolastica e del trattamento dei disturbi dell’apprendimento (Cornoldi, 1995). Tuttavia, per trovare le sue applicazioni alla sfera della clinica e del trattamento dei disturbi psicopatologici, dobbiamo aspettare i modelli di Wells & Matthews nel 1994.

Il contributo dei docenti si è sviluppato introducendo le basi teoriche e di trattamento della terapia cognitiva classica, mettendone anche in luce alcuni limiti ed evidenziando l’esigenza di focalizzarsi su altri aspetti. La terapia cognitiva classica (Beck, 1976) si basa sull’analisi dei pensieri automatici e sulla ristrutturazione di schemi di pensiero disfunzionali.

Diversamente, l’approccio degli autori e del modello teorico al quale fanno riferimento pone l’attenzione sul controllo e sulla gestione del pensiero piuttosto che sull’analisi dei contenuti: non è più il contenuto del pensiero ad essere affrontato col paziente, ma diventa centrale il modo in cui il paziente interagisce con esso.

Il professor Spada induce alla riflessione ponendo la domanda: “Cosa trasforma un pensiero o un’emozione negativa in un disturbo perseverativo del pensiero?” La risposta è nella Sindrome Cognitiva Attentiva (CAS) che racchiude quegli stili di pensiero ripetitivi, ciclici, negativi e perseveranti che caratterizzano la ruminazione, il rimuginio e il pensiero desiderante, i quali portano allo sviluppo e al mantenimento della patologia (Wells & Matthews, 1996).

 

Il modello metacognitivo per l’uso problematico di alcol

Spada, Caselli e Wells (2012) elaborano il Modello Metacognitivo Trifasico del consumo problematico di alcol con l’obiettivo di individuare in che modo e in che misura la CAS e le metacognizioni sono coinvolti nel comportamento disregolato di consumo alcolico.

Il modello metacognitivo è composto dalla fase pre-uso, dalla fase di uso di alcol e da quella di post-uso. Le metacredenze riferite all’alcol sono presenti in maniera trasversale in ciascuna fase e sono del tipo: “quando bevo sono più socievole; il bere ha controllo sulla mia vita; ripensare al perché bevo mi aiuterà a capirne le motivazioni”, mentre la CAS è presente maggiormente nelle fasi di pre- e post- uso di alcol. Il contenuto delle credenze metacognitive è riferibile alle tematiche legate alla sensazione di mancanza di controllo sul comportamento di assunzione e dalla sovrastima degli effetti positivi dell’uso della sostanza. A rendere disfunzionali e disturbanti per la persona i pensieri caratteristici del CAS è la loro profonda pervasività e perseveranza.

Il Prof. Caselli propone poi un esempio del pensiero rimuginativo: “Inizio a bere per smettere di rimuginare…Poi rimugino perché ho bevuto troppo e quindi sono costretto a bere per smettere di rimuginare sul fatto che ho bevuto troppo[..]”.

Questo nuovo modello metacognitivo ha dimostrato la sua efficacia nel trattamento di vari disturbi, tra cui quelli d’ansia e depressivi (Norman, van Emmerik e Molina, 2014). Attualmente il prof. Caselli sta conducendo il primo trial per il trattamento di pazienti con uso problematico di alcol con l’approccio del modello metacognitivo.

Tale approccio ha come focus centrale il controllo del pensiero, e quindi anche del comportamento. I punti fondamentali sono:

  • Monitoraggio metacognitivo: monitorare informazioni rilevanti per il nostro scopo, incentivare il paziente a monitorare l’assunzione e gli effetti mentre il comportamento avviene.
  • Atteggiamento verso il craving: modificare la credenza del paziente evidenziando le conseguenze disfunzionali del pensiero rimuginante
  • Credenze metacognitive: si interviene primariamente sulle metacredenze negative che sono legate alla mancanza di controllo, e successivamente sulle positive che sono inerenti ai benefici derivanti dall’assunzione di alcol.
  • Concettualizzazione delle fasi che portano al comportamento disregolato.
  • Bere controllato metacognitivamente: incremento di un monitoraggio metacognitivo adattivo attraverso l’uso di metafore, esercizi e compiti a casa; modulazione del consumo tramite esercizi pratici come posporre l’inizio del consumo alcolico, dilatare nel tempo il consumo e fissarne un limite.

Concludendo, il seminario ha permesso di inquadrare i principi cardine del modello metacognitivo trifasico , caratterizzato dalla Sindrome Cognitiva Attentiva (CAS) e dalle metacredenze, le quali sono centrali nell’impianto terapeutico, in quanto vengono utilizzate per intervenire sul controllo del consumo e sul controllo del rimuginio cambiando la percezione che il soggetto ha del proprio modo di pensare e di agire verso l’ alcol.

Essere bambini nell’ Impero Celeste: uno spaccato sui sistemi educativi nelle istituzioni prescolastiche cinesi

Sistemi educativi cinesi: In Cina, quindi, la struttura prescolastica è stata vissuta come il luogo ideale per dare ai piccoli le giuste basi per un buon futuro scolastico, e dove imparare a diventare buoni cittadini. Il ruolo dei sistemi educativi cinesi in età prescolare è stato principalmente quello d’insegnare al bambino a comportarsi correttamente, ad apprendere valori quali autocontrollo, disciplina, armonia sociale e responsabilità.

Valeria Fregoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

In una scuola elementare milanese, è metà marzo, ecco l’ingresso di una nuova bambina in una classe seconda; è cinese e non conosce una sola parola d’italiano.
Io rivesto il ruolo d’insegnante, mi ritrovo ad osservarla ed immagino cosa dev’essere per quella bimba ritrovarsi catapultata in una realtà cosi lontana dalla sua cultura. Sembra immersa in un acquario.
Mi sento una sorta di “alieno” ai suoi occhi; penso che in quel momento, effettivamente, lo sono.
Decido così, di documentarmi sui sistemi educativi cinesi, impresa non facile, perchè le informazioni disponibili in letteratura non sono molte e per la maggior parte fanno riferimento al passato.

 

La politica del figlio unico nella società cinese

La “politica del figlio unico” è sicuramente uno degli aspetti che più ha influenzato le famiglie e le istituzioni legate al mondo dell’infanzia cinese; introdotta nel 1979 e abolita solo nel 2015.
Uno solo. Uno ben nutrito. Uno ben educato è infatti la concezione del bambino che ha permeato per più di trent’anni la società cinese.

La legge della pianificazione familiare è stata fortemente in contrasto con il concetto di gruppismo che ha dominato e ancora domina solenne in Cina e che nelle scuole per l’infanzia è stato nel tempo costantemente esaltato in una sorta di dicotomia; da un lato l’imposizione di essere figli unici e dall’altro quella di essere a tutti i costi parte di una famiglia allargata; la società.

Questa politica ha influenzato l’atteggiamento delle famiglie. Nel 1985 stava facendo il suo ingresso nelle strutture prescolastiche cinesi la prima generazione di figli unici, circondata da grande ansia generale. Gli psicologi e gli educatori temevano che i bambini, crescendo senza fratelli, potessero mostrare un ritardo nello sviluppo sociale ed emotivo. Gran parte della colpa veniva addossata ai genitori e al fatto di viziare i figli, un problema definito la sindrome 4-2-1, basandosi sull’assunto che 4 nonni e due genitori avrebbero colmato di troppe attenzioni un unico bambino (Tobin, J., Hsueh Y., Karasawa, 2011).

 

I sistemi educativi cinesi in età prescolare

In Cina, quindi, la struttura prescolastica è stata vissuta come il luogo ideale per dare ai piccoli le giuste basi per un buon futuro scolastico, e dove imparare a diventare buoni cittadini. Il ruolo della struttura prescolastica è stato principalmente quello d’insegnare al bambino a comportarsi correttamente, ad apprendere valori quali autocontrollo, disciplina, armonia sociale e responsabilità. Secondo le teorie cinesi sullo sviluppo infantile, i bambini non possono acquisire un comportamento corretto, solo giocando con altri bambini, è necessaria la supervisione di insegnanti. La severità, la rigidità e il controllo da parte degli educatori nelle scuole d’infanzia vengono vissute come espressione di cura e interesse nei confronti del bambino (Joseph J. Tobin, David Y.H. Wu, Dana H. Davidson, 2000).

In Cina per indicare l’irreggimentazione dei bambini da parte degli educatori, viene usata la parola “guan” che significa letteralmente governare, addestrare. Negli anni ’80 il guan si concretizzava in un insieme di regole, attività ripetitive, fermezza e attività didattica controllata dall’insegnante.

Ad esempio era “guan” quando una maestra faceva accucciare in bagno i bambini nello stesso momento o quando criticava un bimbo che si agitava sorridendo, mentre lodava una bambina seduta, composta, seria in volto. Questa parola spiega in modo esauriente come funzionano i sistemi educativi cinesi, che la intendono come prendersi cura, amare e governare. Il compito di “addestrare” i bambini, alla vita futura, spetta dunque agli insegnanti, ai quali, dopo un duro lavoro, viene riconosciuto da parte dei genitori il merito di rendere i loro bambini ben educati. Oggi la forma assunta dal guan è più attenta ai desideri dei bambini e rispettosa dei diritti di questi ultimi.

In Cina, il gruppo, la collettività e il sociale sono valori molto importanti con valenza maggiore rispetto all’individuale, al personale e al familiare. L’idea di base è che ciò che è bene per la società lo è anche per l’individuo. Fin dalla più tenera età i sistemi educativi cinesi sono finalizzati all’essere parte di una comunità.

Negli anni della Rivoluzione culturale l’individualità era completamente posta in secondo piano. Non era possibile mettere in risalto le doti di un bambino più “capace” di altri. Ciò che veniva esaltato era la capacità del bambino ad essere parte della classe. Nel film di Zhang Yuan, La guerra dei fiori rossi, ambientato proprio in questi anni, emerge chiaramente questa prospettiva. È il racconto di un bambino di quattro anni, Qiang, che viene portato in un asilo nido residenziale. Fino a quel momento era stato accudito dalla nonna, che ammalatasi, non può più badare a lui. Qiang è ammesso alla classe dei più piccoli, 40 bambini fra i 2 e i 3 anni. Questo bambino deve confrontarsi con la collettività posta sotto la rigida sorveglianza delle educatrici. L’asilo nido che mostra Yuan è una sorta di caserma educativa. I bambini come dei soldatini, svolgono tutti le medesime azioni. Una scena significativa è il momento del risveglio, in cui i bimbi, dopo essersi vestiti da soli, vengono portati in bagno dall’insegnante; i piccoli sono disposti in due file parallele accovacciati lungo due scanalature nel cemento. “Chi, ogni giorno, avrà espulso la giusta quantità di escrementi sarà premiato con un piccolo fiore rosso”.

Ancora oggi, nonostante gli ovvi cambiamenti avvenuti nel corso del tempo, nei luoghi pubblici e nelle scuole della Cina la forma più diffusa di servizi igienici è quella in cui ci si deve accovacciare ed è responsabilità degli educatori insegnare ai bambini ad usarli. D’altro canto gli insegnanti sentono anche la responsabilità di preparare i propri allievi alla vita che li attende gli anni successivi, una vita che presumibilmente sarà caratterizzata in maniera crescente da abitudini occidentali, tra cui la presenza di servizi igienici con il water sia nelle case che nei luoghi pubblici. Il cambiamento che sta avvenendo nelle abitudini igieniche delle strutture prescolastiche cinesi può essere visto come un mutamento verso una maggiore privacy e un minore livello di condivisione.

Il pudore per il proprio corpo viene associato alla modernizzazione, ma anche alla perdita della condivisione e del senso del collettivo che in passato hanno caratterizzato le relazioni sociali in Cina (Tobin, J., Hsueh Y., Karasawa, 2011).
Bisogna considerare che fino alla proclamazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, l’80% dei Cinesi era analfabeta, ed è nel periodo post rivoluzionario (1949-1957) che aumenta l’attenzione verso le istituzioni più importanti, tra cui quelle prescolastiche, che sono incrementate e trasformate in senso socialista.

Nel 1956 viene pubblicato il manuale di sistemi educativi cinesi nelle scuole d’infanzia, distribuito in tutta la Cina. In questo periodo l’influenza dell’unione sovietica è molto profonda. L’idea dominate, è che solo grazie all’esistenza della società ogni individuo può vivere e svilupparsi. Il bambino non appartiene soltanto ai suoi genitori, ma anche alla società, grazie alla quale può vivere. Quest’ultima possiede un diritto primordiale e fondamentale sull’educazione dei bambini. La società resta libera d’affidare l’educazione dei bambini ai genitori, ma quanto prima potrà intervenire essa stessa, tanto meno ci sarà bisogno di lasciare questo compito educativo ai genitori. L’avvenire è dunque dell’educazione sociale.

 

L’importanza dell’educazione sociale in Cina

Questi sistemi educativi cinesi nascono per permettere alla società di formare nel modo migliore la generazione futura, con il minimo dispendio di tempo e d’energie. L’educazione sociale non è necessaria solo dal punto di vista pedagogico, essa offre anche vantaggi economici. In Cina, soprattutto nelle città si trovavano infatti anche asili nido residenziali, in cui i bambini si fermavano a dormire. Questi centri sono nati negli anni della Rivoluzione Culturale, per ospitare i figli dei capi del partito, dei soldati dell’esercito e dei genitori cittadini destinati al lavoro nelle campagne. Tali centri venivano vissuti come un’ottima opportunità di crescita dei bambini. Le spiegazioni dei vantaggi di questi centri residenziali sono coerenti con le teorie cinesi sul bisogno di irreggimentazione, e con la convinzione che i servizi per l’infanzia, sia quelli che prestano servizio diurni, sia quelli che ospitano i bambini anche a dormire siano strutture finalizzate a correggere gli errori delle famiglie con un figlio unico.

Le scuole d’infanzia sono dunque state considerate strutture molto importanti, in cui i piccoli cinesi imparano l’arte del “buon cittadino”. Un bambino ben educato è capace di fondersi nel gruppo, di esserne parte. Si tratta di un’ educazione collettiva messa ben in risalto dalle attività quotidiane svolte all’interno degli asili nido e delle scuole materne. “Il successo di un ragazzo è il successo della sua classe; il successo della classe è il successo della scuola; quello della scuola è il successo dell’intero paese” (Confucio).

 

I sistemi educativi cinesi nella quotidianità scolastica

Per capire come si svolge attualmente una giornata tipo in una struttura prescolastica cinese la ricerca di Tobin et all, che hanno effettuato, a più riprese nel tempo, dei video di diverse strutture prescolastiche in tre paesi culturalmente diversi, quali Cina, Giappone e Stati Uniti, è sicuramente illuminante perchè permette di entrare nel vivo e trasversalmente consente di mettere in luce differenze e similitudini dei sistemi educativi anche rispetto al nostro paese.

Ecco una giornata tipo in una scuola per l’infanzia cinese situata nella regione cinese dello Yunnan nel 2010 per spiegare nello specifico come funzionano i sistemi educativi cinesi. I bambini arrivano accompagnati dai genitori e, dopo aver varcato il portone, si mettono in fila per essere visitati dalle infermiere.

Queste visitano rapidamente i bambini adottando la consueta pratica medica cinese di “osservare, toccare, chiedere”. Durante l’andirivieni di genitori e bambini, un’assistente della direttrice e una delle insegnanti più esperte finiscono di pulire il cortile, mentre due inservienti escono dalla cucina spingendo un carrello con le colazioni per ciascuna classe e usano un montacarichi per portarlo ai bambini che nel frattempo sono andati nelle loro aule. I bambini prendono dei dolcetti e una scodella di crema di cereali e mentre mangiano in silenzio, vengono distribuite uova d’anatra. Finito di mangiare l’insegnante ricorda che è ora di andare in bagno. I bambini si accovacciano lungo un canale. Tuttavia, i nuovi servizi si differenziano dai precedenti perché è stato messo un divisorio tra il lato dei maschi e quello delle femmine.

Il giorno di scuola vero e proprio inizia quando l’insegnante fa contare alla classe i bambini presenti. Poi tutti si dirigono nell’aula multimediale dove si tiene una lezione di zha ran, pratica diffusa che consiste nel tingere i tessuti a motivi vivaci. L’insegnante per questa attività non usa la stoffa, ma carta di riso. Dopo aver mostrato alcuni esempi l’insegnante mostra come piegare la carta e poi immergerla in vaschette di colore. I bambini creano i propri “tessuti” di diverse tinte e li appendono, una volta finiti, uno di fianco all’altro dando vita ad una grande esposizione. L’insegnante avvisa poi i bambini che è ora di raggiungere le altre classi di coetanei in giardino per la ginnastica del mattino. Mentre la musica viene trasmessa a tutto volume dagli altoparlanti, gli insegnanti fanno fare ai 220 bambini di 4 anni una serie di esercizi. Dopo di che viene il momento di una danza dove i bambini scelgono il loro partner e infine ci sono 15 minuti di gioco libero. La classe successivamente si reca in palestra, corredata da anelli, travi, palloni di grandi dimensioni e tavole con rotelle. Ogni giorno, prima di pranzo, si sceglie un bambino che racconta alla classe una storia. Dopo 10 minuti di narrazione, arrivano i contenitori con il cibo per il pranzo. Un bambino viene scelto per aiutare durante il pasto e distribuisce ai compagni i bastoncini. I bambini si mettono davanti all’insegnante che riempie una scodella di riso, di sautè di maiale e sedano. I bambini mangiano in silenzio e l’insegnante compila un modulo sul consumo di cibo della sua classe. Finito di mangiare i bambini lasciano la scodella e i bastoncini in un secchio vuoto, vanno in bagno e si dirigono nella stanza da letto adiacente all’aula per fare il sonnellino. L’insegnante tocca guance e fronte a tutti e li invita a togliersi i vestiti e a mettersi sotto le coperte, aiutandoli se necessario. 2 ore dopo i bambini si svegliano, fanno il letto, vanno in bagno e tornano in classe, dove le insegnanti pettinano le bambine. Fanno merenda con biscotti e latte e poi vengono lasciati liberi di giocare nell’aula per un po’. Tutta la classe si reca al piano inferiore, nella stanza di musica. Un’insegnante, seduta al piano, intona una canzone, cui si uniscono i bambini; poi solleva due scimmiette di peluche e inizia a fare un piccolo teatrino. I bambini a coppie fanno finta di essere due scimmiette, danzando al ritmo della canzone, ridendo e cadendo al momento giusto.

Successivamente andranno nell’aula della costruzioni; in questa stanza, contro una lunga parete, sono impilati blocchi e cubi di legno di grandi dimensioni, mentre vicino ad altre 2 pareti sono allineati dei grandi contenitori con una varietà di mattoncini e blocchetti di plastica ad incastro. I bambini costruiscono, da soli, a coppie o in piccoli gruppi, una molteplicità di oggetti e strutture. Al ritorno in classe i bambini aspettano che arrivi la cena e l’insegnante ricorda loro di mangiare in silenzio. Mentre i bambini cenano, le insegnanti compilano il registro sulle attività del giorno. Nel frattempo, fuori dal cancello d’entrata si sono radunati centinaia di genitori, in attesa di prendere i figli.

 

Le caratteristiche salienti dei sistemi educativi cinesi

Uno degli aspetti che emerge da questa rappresentazione è che l’ armonia è un altro tratto distintivo dei sistemi educativi cinesi. C’è un’ esaltazione di valori quali bellezza, bontà, solidarietà. Il canto, la danza, il disegno sono considerate attività di estrema importanza. Ai bimbi viene insegnato a disegnare, l’insegnante mostra ai piccoli la tecnica da utilizzare e i bambini sono tenuti a ripeterla fino a che non riescono nell’intento. La perseveranza è una delle doti più apprezzate. I bambini acquisiscono le tecniche classiche della pittura e fin da piccoli hanno molta padronanza nell’utilizzo dei materiali. Alla concezione dell’individuo come parte integrante di una comunità, si ricollega anche il valore positivo dato all’emulazione e alla omologazione. Fra i bambini quest’aspetto culturale si traduce quindi nella difficoltà di sviluppare attività con autonomia e creatività. Il bambino cinese tende a copiare disegni, temi, esercizi, nel tentativo di omologarsi agli altri o ad un modello. Ma questo, benché nella società occidentale possa essere considerato un limite, nella filosofia cinese è un ottimo metodo per imparare, perché solo attraverso un esercizio pratico e metodico realizzato fin dalla più tenera età, l’individuo potrà, una volta cresciuto, sviluppare le sue doti creative.

E in effetti mi ritrovo a pensare a quella bimba cinese “sbalzata” fuori dalla sua realtà, con la quale ho potuto “entrare in contatto” solo dandole un foglio bianco che pian piano ha iniziato a riempirsi di splendidi disegni di animali marini, copiati da un libro passatole dalla sua nuova vicina di banco..

 

Tecnologia digitale nelle nostre vite: tra rischi e opportunità

Uno studio effettuato alla Duke University evidenzia come un uso eccessivo della tecnologia possa aumentare progressivamente i problemi di attenzione, di comportamento e di autoregolazione negli adolescenti che presentano un maggiore rischio di sviluppare disturbi psicopatologici.

 

L’utilizzo della tecnologia e lo sviluppo di disturbi della salute mentale negli adolescenti

Madeleine J. George, autrice principale dello studio afferma che: “Gli adolescenti sono più a rischio nei giorni in cui utilizzano maggiormente la tecnologia, rispetto ai giorni in cui ne fanno un uso limitato, in quanto sperimentano maggiori problemi di condotta ed elevati sintomi associati al Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI)”.

La ricerca è stata pubblicata in un numero speciale di Child Development e ha messo in evidenza l’associazione esistente tra salute mentale e quantità di tempo trascorso ogni giorno nell’utilizzo di social media, internet e invio di messaggi di testo in adolescenti tra gli 11 e i 15 anni.

Per lo studio sono stati reclutati 151 adolescenti con basso status socio-economico e con un elevato rischio di sviluppare problemi di salute mentale. È stata inizialmente effettuata un’indagine atta ad indagare la quantità di tempo giornaliero di utilizzo del proprio smartphone. I ragazzi sono stati intervistati tre volte al giorno per un mese con un’ulteriore valutazione effettuata a 18 mesi di distanza, per evidenziare la presenza di sintomi associati a problemi di salute mentale.

Dalle analisi si evince che gli adolescenti operano un utilizzo medio della tecnologia digitale di 2-3 ore al giorno di cui, più di un’ora, dedicata alla messaggistica con una media di 41 messaggi al giorno.

I risultati dello studio mostrano come un utilizzo eccessivo della tecnologia da parte di questi adolescenti a rischio provochi un aumento di disturbi comportamentali, in quanto tendono ad essere più aggressivi e a mentire in misura maggiore. Inoltre si evidenzia una maggiore difficoltà nel prestare attenzione, evidenziando dunque uno dei principali sintomi presenti nel DDAI.

Un ulteriore dato della ricerca mostra come in questi adolescenti, che abusano delle nuove tecnologie, si sviluppi un progressivo aumento di problemi di condotta e di autoregolazione ovvero, di incapacità di controllare il proprio comportamento e le proprie emozioni.

L’autore dello studio, il Professor Candice Odgers spiega che non è ancora chiaro se l’elevato utilizzo della tecnologia sia semplicemente un marker di problemi di salute mentale oppure provochi un’esacerbazione di sintomi già esistenti.

 

Gli effetti positivi della tecnologia

Tuttavia, dalla ricerca si evidenziano anche risultati positivi. Infatti, l’elevato utilizzo della tecnologia digitale è associato anche ad una diminuzione dei sintomi di ansia e depressione. I dati suggeriscono che i giovani d’oggi possono utilizzare la tecnologia in modo positivo per mettersi in contatto tra di loro, piuttosto che isolarsi.

 

Conclusioni

Il professor Odgers osserva che gli adolescenti che hanno preso parte allo studio presentavano già un elevato rischio di sviluppare patologia mentale, indipendentemente dall’utilizzo della tecnologia digitale. Dunque, non è chiaro se questi risultati siano applicabili all’intera popolazione di ragazzi adolescenti.
Di fatto questo è uno studio correlazionale, è quindi possibile che altri fattori, oltre all’uso della tecnologia, abbiano potuto causare l’aumento di problemi di salute mentale.

Dato il considerevole uso della tecnologia digitale, i ricercatori suggeriscono di indagare in maniera approfondita gli effetti legati al suo utilizzo.

Attualmente Odgers and George stanno conducendo un ampio studio in cui sono stati reclutati più di 2,000 adolescenti. L’obiettivo principale è quello di indagare in che modo e perché l’elevato utilizzo della tecnologia digitale possa essere un indice d’insorgenza dei problemi di salute mentale in alcuni adolescenti. In aggiunta, lo studio indagherà anche se la continua esposizione, che implica una costante interazione con altri esseri umani, possa diventare un’opportunità per migliorare la salute mentale.

Gli antidepressivi hanno lo stesso effetto su tutti?

Attualmente, nel campo della psichiatria si assiste ad un rinnovato interesse ad identificare i fattori clinici e biologici che aiutino gli psichiatri a scegliere il trattamento migliore per ogni paziente depresso. Tale obiettivo è fermamente perseguito da Leanne Williams (2017), co-autore di una nuova interessante ricerca.

 

Come scegliere l’antidepressivo giusto

L’efficacia degli antidepressivi è inconfutabile, ma selezionare quello più adatto ad ogni paziente può essere un processo caratterizzato da “prove ed errori”. Infatti, può accadere che si debbano assumere diversi farmaci prima di trovare quello giusto. Un approccio psichiatrico che consideri in modo complementare variabili diverse, come genere, indice di massa corporea (IMC) e profilo sintomatologico del paziente, potrebbe rivelarsi più preciso ed adeguato a delineare un trattamento ‘pensato su misura’ per ciascun paziente. Personalizzare il trattamento consentirebbe di giungere più facilmente al miglioramento sintomatologico del paziente.

Attualmente, nel campo della psichiatria si assiste ad un rinnovato interesse ad identificare i fattori clinici e biologici che aiutino gli psichiatri a scegliere il trattamento migliore per ogni paziente depresso.

La ricerca: quali sono i possibili fattori predittivi del grado di remissione della depressione

Tale obiettivo è fermamente perseguito da Leanne Williams (2017), co-autore di una nuova interessante ricerca. L’ipotesi è che l’obesità (alto IMC) e il sesso, insieme, siano i fattori predittivi del grado di remissione dei sintomi depressivi nei pazienti. I dati della ricerca sono stati raccolti su un campione clinico di 659 soggetti di età compresa tra i 18 e i 65 anni, attraverso la partecipazione allo studio internazionale per predire il trattamento ottimale per la depressione (iSPOT-D).

I partecipanti sono stati assegnati in modo randomizzato a tre gruppi sperimentali, in cui venivano somministrati per otto settimane tre tipi di farmaci antidepressivi: venlafaxina-XR, sertralina ed escitalopram. Per ciascun soggetto sono stati misurati peso e altezza e monitorati i cambiamenti nella gravità della sintomatologia attraverso la somministrazione, prima e dopo il trattamento, della scala self-report Hamilton Rating Scale. Alla fine del trattamento, i pazienti per i quali si riscontrava un miglioramento significativo a livello sintomatico erano definiti “in remissione”, viceversa per coloro che non riscontravano un miglioramento erano definiti “non in remissione”.

I risultati hanno mostrato che uomini e donne con un alto IMC, a differenza dei soggetti normopeso, mostravano remissione con maggiore frequenza se sottoposti a trattamento farmacologico con venlafaxina-XR (Fig.1). Nello specifico si assisteva alla riduzione dei sintomi fisici tipici della depressione, come disturbi del sonno, ansia somatizzata e appetito.

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Fig.1. Rappresentazione delle probabilità di remissione in funzione dell’indice di massa corporea e del tipo di farmaco somministrato. Immagine adattata da Green et al. (2017).

Inoltre, indipendentemente dal tipo di farmaco somministrato, le donne con sovrappeso mostravano miglioramenti sul versante sintomatologico cognitivo (Fig.2), a livello di senso di colpa e ideazione suicidaria.

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Fig.2. Illustrazione grafica delle probabilità di remissione in funzione dell’indice di massa corporea e del genere, indipendentemente dal tipo di farmaco somministrato. Immagine adattata da Green et al. (2017).

Queste evidenze consentirebbero agli psichiatri di abbracciare un’ottica di trattamento farmacologico su misura, reso possibile soprattutto nella prima valutazione, in cui si acquisiscono informazioni su peso, altezza e quadro sintomatologico del paziente.

Promotrice di questa posizione è Erin Green (2017), la quale sostiene che, nonostante il bisogno di replicare ed ampliare i dati, quelli raccolti attraverso la ricerca presentata siano validi per un primo cambiamento all’approccio clinico con il paziente, mancando attualmente indicatori e algoritmi specifici che guidino la scelta del trattamento per pazienti sia depressi che obesi.

Tale modalità di cura mira a rendere la farmacoterapia più precisa e senza costi aggiuntivi, semplicemente prendendo in considerazione fattori già disponibili nel colloquio anamnestico. Tale linea di ricerca, dunque, invita a ridefinire la valutazione del paziente, includendo variabili tra loro complementari che possano essere predittive di un outcome positivo.

Il ruolo della catastrofizzazione del dolore nella percezione del dolore

Catastrofizzazione del dolore: nel paziente con dolore cronico le componenti dominanti dell’ansia sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione. In questi pazienti l’ansia assume le caratteristiche della paura della morte, del dolore incontrollabile oppure di preoccupazioni per famiglia, problemi finanziari, perdita della dignità e del controllo del proprio corpo.

Fumagalli Francesca Maria – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

La definizione di dolore più condivisa, proposta dall’ International Association for the Study of the Pain (IASP), descrive il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata ad un danno reale o potenziale del tessuto, o descritta con riferimento a tale danno” (Turk e Okifuji, 2001). Questa definizione è stata accolta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e sottolinea come il dolore sia un’esperienza “somatopsichica” unitaria (Molinari e Castelnuovo, 2010). Esistono due tipologie di dolore (Notaro, Voltolini e Ferrario et al., 2009): il dolore acuto, “utile”, ossia un segnale d’allarme, che ci permette per esempio di diagnosticare precocemente una malattia e il dolore cronico, “inutile”, quando la sofferenza degenera dalla sua funzione iniziale di allarme e diventa un sintomo prolungato, che lede il benessere della persona e la sua qualità della vita. Il dolore che perdura nel tempo, diventando fonte di disabilità per la persona, si tramuta in malattia, condizionando l’intera vita del soggetto; per la sua durata imprevedibile e la sua intensità variabile, con una tendenza ad aumentare col tempo, viene anche chiamato “dolore totale” (Notaro, Voltolini e Ferrario et al., 2009).

 

Ansia e catastrofizzazione nel dolore

La prevalenza dell’ansia nella popolazione con dolore cronico arriva al 60% se si considerano in modo unitario il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo dell’adattamento con ansia, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo da stress post-traumatico e l’agorafobia (Ercolani e Pasquini, 2007).

Inoltre Ercolani e Pasquini (2007) ricordano che l’ansia di rado si manifesta in modo isolato, ma di solito coesiste con la depressione e nel paziente con dolore cronico non maligno le componenti dominanti dell’ansia sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione. In questi pazienti l’ansia assume le caratteristiche della paura della morte, del dolore incontrollabile oppure di preoccupazioni per famiglia, problemi finanziari, perdita della dignità e del controllo del proprio corpo e dell’inquietudine spirituale, come ricorda Antonelli (2003).

La catastrofizzazione del dolore si è rivelata essere una delle variabili psicologiche con la più robusta e consistente associazione sia con il dolore in forma acuta che cronica, sia con la percezione del dolore in contesto sperimentale (Fillingim, 2015).

Non è chiaro quando il termine catastrofizzazione sia stato introdotto nella letteratura psicologica, inizialmente venne usato per descrivere la presenza di pensieri eccessivamente negativi, tipici dei pazienti depressi (Sullivan, 2009). Beck (1967) descrive la catastrofizzazione come una “distorsione cognitiva” che può contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi di depressione. Secondo la definizione di Sullivan e collaboratori (2000) la catastrofizzazione può essere intesa proprio come un set mentale messo in atto durante un esperienza di dolore attuale oppure quando tale esperienza viene anticipata. Quando la tendenza a catastrofizzare viene trattata in relazione alla sintomatologia ansioso-depressive essa è intesa in modo “patologico”, in termini globalmente negativi; nel contesto del dolore, la catastrofizzazione non possiede necessariamente questa valenza (Sullivan et al, 2009). Nella vita quotidiana di alcuni soggetti infatti la tendenza a catastrofizzare può avere una valida funzione di strategia di coping (Sullivan, 2009).

Sullivan, Bihop e Pivik (1995), con lo scopo di realizzare uno strumento self-report valido e indicativo della tendenza a catastrofizzare il dolore sia in popolazione clinica che normale, nel 1995 sviluppano la Pain Catastrophizing Scale (PCS). Tale scala è intesa come uno strumento di valutazione comprensivo per l’indagine dei pensieri catastrofici correlati al dolore; valuta tre dimensioni del dolore quali la ruminazione (con item quali “continuo a pensare a quanto intensamente voglio che il dolore finisca”), l’esagerazione (ad esempio “mi chiedo se qualcosa di serio possa accadermi”) e il sentimento di impotenza (ad esempio “sento di non riuscire ad andare avanti”). Tale strumento di valutazione è stato validato in lingua italiana dal gruppo di Monticone e collaboratori (2011), la Pain Catastrophizing Scale Italian version (PCS-I), usata per la valutazione dei pensieri e dei sentimenti che i soggetti provano nel momento in cui sperimentano dolore.

 

Come i pensieri catastrofici influenzano il dolore

Sono stati proposti differenti modelli teorici per spiegare il modo in cui la presenza di pensieri catastrofici possano influenzare la percezione del dolore (Sullivan et al, 2001).

 

Dolore, catastrofizzazione e rimuginio

Secondo il modello di Beck, la catastrofizzazione del dolore può essere considerato uno schema mentale cognitivo ed affettivo negativo, caratterizzato dall’amplificazione degli effetti negativi del dolore, dalla ruminazione e dal rimuginio sul dolore, e da sentimenti di impotenza nell’affrontarlo (Sullivan et al, 2001). Coloro che tendono a catastrofizzare il dolore risultano avere una minore percezione di controllo del dolore, un funzionamento sociale ed emotivo peggiore, e una peggiore risposta ai trattamenti medici (Lo Sterzo, 2015). Secondo tale prospettiva i pensieri catastrofici legati al dolore verrebbero trattati similmente al trattamento attuato per la depressione, utilizzando per esempio tecniche come la ristrutturazione cognitiva, con lo scopo di ridurne la disfunzionalità (Sullivan, 2009). Ciò comporterebbe un miglioramento del funzionamento fisico e psicologico nel breve termine ed un aumento della probabilità di ritornare a lavoro nonostante la presenza di dolore persistente (Lo Sterzo, 2015).

 

Attenzione e dolore

Un secondo modello descrive la catastrofizzazione come una forma di valutazione o appraisal (Sullivan, 2009). Questo processo di valutazione ha come risultato un’aumentata attenzione al dolore, che comporta una percezione di minaccia maggiore e l’aspettativa di un dolore più forte (Sullivan, 2009). In questa ottica un intervento utile comporta l’uso di tecniche di spostamento del focus attentivo dai pensieri catastrofici, per esempio attraverso strategie di distrazione. Questo teoricamente comporterebbe una riduzione delle risorse attentive destinate ai pensieri catastofici e alla percezione del dolore (Eccelston & Crombez, 1999).

I risultati di numerose ricerche hanno mostrato che la catastrofizzazione è strettamente associata ad altre componenti della valutazione. Per esempio, potrebbe essere correlata con le valutazioni dell’efficacia percepita dal soggetto nel controllo o nella diminuzione del dolore: un’associazione negativa tra catastrofizzazione e valutazione del controllo sulla situazione è stata già riportata (Crisson e Keefe, 1988). Pare inoltre che la catastrofizzazione funzioni come un processo di appraisal, collegando le credenze sul dolore (beliefs) con gli esiti del dolore (Sullivan et al., 2000).

L’attenzione rivolta al dolore potrebbe essere quindi un substrato psicologico critico della relazione tra catastrofizzazione ed esperienza del dolore, in particolare contribuendo ad aumentare il distress fisico ed emotivo (Sullivan, 2009). Alcune metodologie, come una versione modificata del test di Stroop (Williams, Mathews, & MacLeod, 1996) o il paradigma “Dot-Probe” (MacLeod, Mathews & Tata, 1986) potrebbero essere utili per approfondire il fenomeno della focalizzazione attentiva correlata al dolore nei soggetti con tendenza alla catastrofizzazione.

Uno studio di Khatibi e collaboratori (2009) ha cercato di determinare se pazienti affetti da dolore cronico mostrino una forma di attenzione selettiva per immagini di volti esprimenti dolore. La ricerca ha utilizzato proprio una versione modificata del dot-probe detection task: in questo compito (MacLeod, Mathews & Tata, 1986), due stimoli lateralizzati, uno minaccioso e l’altro neutro, appaiono brevemente sullo schermo e la loro scomparsa è seguita dalla comparsa di un probe (una figura geometrica) nella posizione precedentemente occupata da uno dei due stimoli. Ai partecipanti viene richiesto di rispondere il più velocemente possibile alla comparsa del probe. I tempi di reazione in questo compito forniscono “un’istantanea” della distribuzione dell’attenzione spaziale del soggetto, con risposte più veloci alla comparsa del probe in regioni dello spazio verso cui era stata diretta l’attenzione in precedenza. Nello studio di Khatibi e collaboratori (2009) vengono presentate espressioni facciali di dolore, di felicità e neutre. I risultati suggeriscono che i pazienti affetti da dolore cronico, rispetto ai soggetti di controllo prestino attenzione selettivamente ai volti esprimenti dolore; inoltre la tendenza a shiftare l’attenzione verso tali stimoli è influenzata positivamente dall’elevato livello di paura del dolore o delle lesioni: maggiore è il livello di paura per il dolore, maggiore l’attenzione rivolta agli stimoli di dolore (Khatibi et al., 2009). Saranno necessari ulteriori studi per approfondire tale aspetti.

 

Catastrofizzazione del dolore come strategia di coping

Un ulteriore modello ipotizza che la tendenza a catastrofizzare possa essere vista come una modalità di coping, in particolare come un metodo per elicitare il supporto sociale da parte degli altri (Sullivan, 2009). Questa ipotesi è stata avvalorata dagli studi che mostrano come i soggetti con la tendenza a catastrofizzare, ossia i catastrophizer non solo sperimentano maggior dolore, ma sono anche in grado di esprimerlo in maniera più evidente (Sullivan et al., 2000).

Questa proposta valorizza un’eventuale dimensione adattiva della catastrofizzazione: le ricerche sviluppate negli ultimi decenni indicano che gli individui che tendono a catastrofizzare sono più attenti ai segnali di dolore e più in grado di manifestare il distress provato sia dal punto di vista fisico che emotivo (Sullivan et al., 2001). Se consideriamo che il dolore è spesso indicativo della presenza di un danno tissutale, prestare maggior attenzione ai segnali di dolore può avere un ruolo adattivo: maggior attenzione ai segnali di dolore comporta una miglior comunicazione del dolore stesso e può portare a un individuazione e trattamento tempestivo della causa del dolore stesso.

La catastrofizzazione potrebbe rappresentare una dimensione più ampia di un approccio di coping di tipo interpersonale o condiviso: gli individui potrebbero differire per il grado in cui essi adottano obiettivi sociali o relazionali nei loro sforzi ad affrontare lo stress (Sullivan et al., 2000). Gli autori affermano che i catastrophizer possono impegnarsi in espressioni del dolore esagerate, in modo tale da massimizzare la vicinanza delle persone a loro prossime, sollecitare assistenza ed incitare risposte empatiche da parte di altri membri del gruppo sociale; perseguendo questi obiettivi di carattere sociale, i catastrophizer potrebbero inavvertitamente rendere la loro esperienza di dolore molto più negativa (Sullivan et al., 2000). In aggiunta, sollecitazioni o risposte collusive da parte di altri potrebbero servire per innescare, mantenere o rinforzare un’espressione del dolore esagerata.

La revisione dei principali modelli teorici proposta da Sullivan e collaboratori (2001) suggerisce che in realtà essi non siano necessariamente incompatibili e possano rappresentare diversi ambiti del rapporto tra le due variabili. I primi due modelli, la proposta Beckiana e l’appraisal model potrebbero essere intese come spiegazioni “prossimali” della relazione tra catastrofizzazione e dolore: essi aiutano a chiarire i possibili meccanismi alla base di questa relazione ed a spiegare l’insorgenza e il mantenimento della catastrofizzazione. Il modello della catastrofizzazione come strategia di coping può essere interpretato come una spiegazione più “distale” della relazione tra le due variabili: l’inseguimento di obiettivi sociali si trasformerebbe inavvertitamente in un meccanismo maladattivo, accrescendo la negatività dell’esperienza di dolore.

 

Variabili anatomiche e variabili psicologiche nel dolore

Il modello bio-psico-sociale del dolore suppone che l’esperienza del dolore sia determinata da un interazione complessa e bidirezionale tra fattori biologici, psicologici e sociali (Fillingim, 2015). Nel loro articolo Sullivan e collaboratori (2001) evidenziano la correlazione esistente tra gli aspetti fisiologici e gli aspetti psicologici della catastrofizzazione, ricordando come la teoria del cancello (gate control theory), nota anche come teoria del controllo del dolore in entrata, di Melzack e Wall (1965) sia stata la prima teoria a suggerire che il cervello possa giocare un ruolo dinamico nella percezione del dolore, invece che essere considerato un passivo ricettore di segnali nocicettivi.

Come suggerisce Summers (2000), la teoria propone che l’esperienza del dolore coinvolga tre dimensioni, distinte ma interconnesse: una componente fisiologica, che tratteggia il cammino dello stimolo doloroso dalla periferia al centro; due dimensioni psicologiche, di cui una riguarda la valutazione cognitiva, che partecipa al processo di costruzione di significato dell’esperienza del dolore, l’altra concerne un processo affettivo-motivazionale, legato a valori, alle credenze, ai tratti ed alle esperienze del singolo individuo (Molinari e Castelnuovo, 2010).

Sarebbero specifiche attività del cervello ad aprire o chiudere il meccanismo spinale del cancello, accrescendo o diminuendo la sensazione di dolore, e che i fattori psicologici abbiano un impatto sull’esperienza di dolore tramite la loro influenza sul meccanismo di controllo spinale. Lo studio dell’attività cerebrale correlata al dolore per mezzo di strumenti tecnologici, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha permesso di approfondire ancora di più il rapporto tra i meccanismi psicologici e fisiologici coinvolti nell’esperienza del dolore stesso, evidenziando come le variabili psicologiche collegate al dolore potrebbero avere specifici substrati neurofisiologici e neuroanatomici.

Uno studio di Bandura e collaboratori (1987) ha riscontrato la presenza di un collegamento tra variabili psicologiche e sistema degli oppiacei endogeni. I partecipanti allo studio sono stati sottoposti a stressor (pressioni con freddo), in seguito sono state insegnate loro numerose strategie cognitive di controllo del dolore ed infine hanno valutato la fiducia che riponevano nelle loro abilità di tollerare il dolore. L’uso di strategie cognitive ha favorito una maggiore percezione di auto-efficacia (self-efficacy), con un aumento della tolleranza al dolore (Sullivan et al., 2001). Tuttavia, sulla percezione di auto-efficacia ha interferito di più la somministrazione di naloxone rispetto che l’uso di tecniche cognitive. La relazione che è stata osservata tra catastrofizzazione e self-efficacy suggerisce comunque che la catastrofizzazione potrebbe essere collegata in qualche maniera all’azione degli oppioidi endogeni.

Melzack (1990; 1993; 1999) ha poi proposto la teoria della neuromatrice, approfondendo ed ampliando il ruolo dinamico del cervello nella spiegazione del dolore. Questo modello suggerisce che nonostante l’elaborazione del dolore a livello cerebrale sia geneticamente determinata, può essere modificata dall’esperienza. È ragionevole pensare che, impegnandosi in attività cognitive che amplificano il segnale di dolore, i meccanismi neurali centrali diventino più sensibili nelle persone catastrophizer, causando uno stato di iperalgesia cronica (Sullivan et al., 2000).

Per esempio, le interazioni sociali che rinforzano il dolore ed i sintomi fisici durante l’infanzia possono avere conseguenze fisiologiche a lungo termine: stimolazioni eccessivamente avversive, violenze multiple, malattie o abusi, possono alterare l’architettura neurale e causare uno stato cronico di iperalgesia.

Per Sullivan e collaboratori (2001) le recenti ricerche suggeriscono che la relazione tra catastrofizzazione ed il meccanismo nocicettivo centrale sia bidirezionale: anche se il processo che sta alla base della relazione potrebbe inizialmente essere di natura psicologica, le variazioni della sensibilità neurale, causate dall’esperienza, potrebbero essere tali da portare questi processi sempre più sotto il controllo fisiologico. La natura potenzialmente autosufficiente della relazione bidirezionale tra catastrofizzazione e processo di percezione del dolore potrebbe essere uno dei fattori che contribuisce alla cronicizzazione di alcune condizioni di dolore.

La catastrofizzazione può essere considerata un buon indicatore per accresciute esperienze di dolore: alcune sue caratteristiche, come la sua relativa stabilità, la sua possibilità di misurazione e la grandezza del suo legame con il dolore e con gli outcomes legati al dolore rende la catastrofizzazione adatta alle ricerche sulla psicologia del dolore (Sullivan et al., 2001).

 

Componenti genetiche e psicologiche nella percezione del dolore

Seguendo le proposte del modello bio-psico-sociale, in anni recenti sì è dato spazio allo studio dell’aspetto biologico del dolore (Fillingim, 2015), in particolare al contributo della componente genetica, con il tentativo di individuare geni associati alle risposte al dolore sia clinico che sperimentale (Fillingim et al.,2008; Diatchenko et al., 2013), apportando nuove informazioni riguardo al circuito biologico che contribuisce all’esperienza di dolore. Ma l’influenza della componente genetica e di quella psicologica sulla percezione del dolore è quasi sempre stata concettualizzata separatamente (Fillingim, 2015). Trost e collaboratori (2015), in uno studio condotto su gemelli monozigoti e dizigoti, ipotizzano che vi sia un substrato genetico che contribuirebbe alla sviluppo della tendenza a catostrofizzare, una delle variabili psicologiche che maggiormente correlano con il dolore.

L’idea che la catastrofizzazione sia in parte geneticamente determinata non stupisce, alla luce degli studi che già hanno dimostrato come molti fenotipici psicologici come la personalità, la depressione e le funzioni cognitive lo siano (Bouchard & McGue, 2003; Spangers et al., 2010). Nonostante tale evidenza, Trost e collaboratori (2015) sottolineano come la maggior quota di variabilità nella catastrofizzazione del dolore sia attribuibile a fattori ambientali: potrebbe esservi una predisposizione innata verso la catastrofizzazione la quale causerebbe un’elevata attenzione rivolta alle informazioni legate al dolore, ciò faciliterebbe l’apprendimento di una tendenza a prestare maggior attenzione agli outcome negativi correlati al dolore (Fillingim, 2015).

Questi risultati inoltre sottolineano come la nostra propensione a separare i fattori di rischio in diversi domini (ad esempio biologico vs psicologico) rappresenti una distinzione artificiale, basata principalmente bias e limitazioni delle ricerche scientifiche più che su di una accurata caratterizzazione di cosa influenzi la salute dell’uomo (Fillingim, 2015). I futuri studi sui correlati sociali, cognitivi, emozionali e fisiologici della catastrofizzazione contribuiranno in maniera sostanziale allo sviluppo e all’elaborazione di una teoria comprensiva, che affronti l’interazione tra i fattori psicologici e fisiologici che sono alla base dell’esperienza del dolore (Sullivan et al., 2001).

Morire di carcere: un’interpretazione psicologica del suicidio dietro le sbarre

Morire, togliersi la vita, come soluzione estrema a un dolore intollerabile: ma quali connotati specifici assume il suicidio in carcere? Quali peculiarità presenta questo evento nefasto, irrimediabile, all’interno della realtà carceraria?

 

Un atto di eliminazione di se stesso, deliberatamente iniziato ed eseguito dalla persona interessata, nella piena consapevolezza o aspettativa di un risultato fatale”: questa la definizione di suicidio che fornisce nel 1998 l’OMS e che rappresenta in se stessa tutta la tragicità del tema.

Morire, togliersi la vita, come soluzione estrema a un dolore intollerabile: ma quali connotati specifici assume il suicidio in carcere? Quali peculiarità presenta questo evento nefasto, irrimediabile, all’interno della realtà carceraria?

 

Suicidio in carcere: uno sguardo ai dati

Secondo il dossier Morire di carcere del gruppo Ristretti Orizzonti, al 24 aprile 2017, sono 949 i casi di suicidio in carcere totali tra il 2000 e il 2017 (Ristretti. it, 2017); un numero che ha toccato le 1312 unità se si considera il periodo compreso tra il 1990 e il 2014 (con un tasso di suicidio pari al 9,88%). Un dramma considerato che il tasso di suicidi nella popolazione italiana fuori dal carcere fra il 1990 e il 2014 è stato dello 0,5 ogni 10.000 residenti, quindi con una frequenza di suicidio in carcere di circa venti volte superiore (Digiovanni, 2015).

Cifre allarmanti che richiedono una spiegazione da rintracciare all’interno della condizione esistenziale del detenuto in una prospettiva che superi una visione tradizionalista legata alla psicopatologia individuale e consideri invece l’ambiente carcerario come luogo di relazioni mancate.

 

I vissuti del detenuto: perché la scelta suicidaria?

Solitudine, segregazione tanto fisica quanto psicologica, scarsa autonomia (dall’orario in cui svegliarsi a quello in cui mangiare) generano assenza di speranza, all’interno di ambienti fisici angusti come le celle o anonimi e ampi come i corridori: condizioni drammatiche di impotenza decisionale e isolamento che possono portare alla scelta suicidaria.

Un fenomeno noto come spoliazione del Sé che, all’ingresso di un’istituzione totale come il carcere, consiste in atti mortificatori come la sottrazione di oggetti personali, la negazione della sessualità, fino all’adeguamento al ruolo di internato sottoposto a regole rigide, imposte dall’esterno, e la perdita delle relazioni con il mondo esterno (Goffman, 1961).

Una scelta, quella del suicidio in carcere, nata, quindi, dall’alienazione, e che tocca il suo apice in particolari momenti stressanti, con una frequenza alta nei primi giorni d’ingresso in carcere, o in occasione della notizia della revoca di una misura alternativa o dell’abbandono del coniuge (Manconi e Torrente, 2015, citati in Digiovanni, 2015).

Se questa condizione di estraniazione dalla condizione di essere umano titolare di diritti è difficile da gestire nel periodo successivo alla condanna, situazione analoga si presenta in attesa della sentenza: secondo un uno studio condotto da Torrente (2009) in Piemonte, Liguria e Campania, 25 persone su 48 decidono di commettere suicidio in carcere mentre sono ancora sottoposte a misura cautelare, a indicare come l’incertezza sul futuro pesi non meno dell’inevitabilità di una condanna (citato in Digiovanni, 2015). Osservando nel dettaglio gli eventi precipitanti (e inibenti) la scelta suicidaria alcuni fattori risultano dominanti.

Rispetto al fattore individuale che favorirebbe il fenomeno del suicidio in carcere, Baccaro e Morelli (2009, citati in Digiovanni, 2015) prendono in considerazione il fattore resilienza (e la sua assenza) come contraddistinto dalla capacità di sognare, dall’ironia, dallo stato di salute pre-carcere, dalle risorse intellettive e dalla presenza di reti sociali e familiari. Esistono poi elementi propri dell’organizzazione carceraria che favoriscono la disperazione che porterebbe poi al proliferare di casi di suicidio in carcere, tra questi un regime che limita la mobilità, l’inattività prolungata e la presenza di regole autoritarie, che prevedono sanzioni disciplinari, isolamento, orari rigidi.

Accanto a una gestione di tipo autoritario/restrittivo e all’assenza di opportunità rieducative, influisce anche il fattore sovraffollamento carcerario, con tutte le sue conseguenze riscontrabili nella scarsa igiene, dovuta a condizioni disumane di convivenza che, secondo la Corte europea, si sostanziano nella permanenza in meno di 3 m² di spazio vitale per ciascun detenuto. Dignità persa che vanifica la stessa funzione rieducativa della pena e che limita l’accesso alle opportunità rieducative, a causa dell’elevato numero di detenuti.

In una siffatta cornice di regole asfittiche precostituite e limitazione degli spazi di movimento, si inserisce un potente fattore che aggrava la pena e la restrizione della libertà: in carcere il concetto di tempo e spazio muta, delineando un mondo chiuso dove l’allontanamento fisico dalla società (rappresentato dalle porte delle prigioni) determina abbandono e sconforto (Gonin, 1994, citato in Digiovanni, 2015).

Segregazione interna, separazione da se stessi e dalla propria autodeterminazione, ma anche allontanamento fisico dalla città (il carcere posto per lo più ai confini cittadini) rimandano al meccanismo psichico della rimozione, dove vi è un condannato da dimenticare, cattivo, colpevole fonte di vergogna. In tale contesto i rapporti con la propria famiglia, così vitali per il benessere psicologico, risultano spesso sporadici, segnati da una riservatezza non prevista dall’Ordinamento penitenziario (per lo più infatti i colloqui avvengono alla presenza degli operatori penitenziari). Ecco che uno spazio fisico vuoto, ampio (i corridoi) ovvero minuscolo (una cella microscopica per un essere umano), si veste da non luogo che accresce le sofferenze.

E se è vero che “la relazione è quella che fa di uno spazio un luogo” (Buffa, 2015) si evince la priorità di una umanizzazione della pena, che preceda l’importanza di un’attenzione agli spazi fisici, addirittura alla salute fisica dei detenuti (Digiovanni, 2015). Perché è all’interno di una relazione fondata sulla comunicazione (con gli operatori, con la società), e incentrata sul coinvolgimento attivo del detenuto alla sua risocializzazione (e non sull’aprioristica imposizione di regole e punizioni), che può accrescersi la fiducia nel futuro e la resilienza nella disperazione. Viceversa, l’unica forma di comunicazione che il detenuto potrà tentare è quella di un corpo martoriato, ferito, punito, in una privazione volontaria della propria esistenza che esprime l’unica di libertà di scelta (e paradossalmente di vita) che un’istituzione totale può concedere.

Una migliore qualità di vita a portata di zampa: la funzione psicoterapeutica del cane

Nella schizofrenia la terapia assistita con animali, nella fattispecie con i cani, coadiuvata da altre terapie opportune, riduce i sintomi psicotici e migliora la qualità della vita dei pazienti schizofrenici.

 

La relazione che si crea fra individui e animali da compagnia ha dei riverberi positivi sulla salute umana, determinando una condizione di benessere. La terapia assistita con animali (AAT) produce molti benefici in diverse patologie, quali, ad esempio, le malattie cardiovascolari e le sindromi psichiatriche (sindromi depressive e sindromi psicotiche). Alla base di ciò, c’è il legame che si crea fra il paziente e l’animale, che determina un miglioramento della socialità e dell’emotività della persona. Nella schizofrenia la terapia assistita con il cane, coadiuvata da altre terapie opportune, riduce i sintomi psicotici e migliora la qualità della vita dei pazienti schizofrenici.

Keywords: Terapia assistita con animali, schizofrenia, sintomatologia psicotica, qualità della vita.

 

La terapia assistita con animali: gli effetti positivi sulla schizofrenia

La relazione che si crea fra individui e animali da compagnia ha dei riverberi positivi sulla salute umana, determinando una condizione di benessere (Fine, 2010).

La terapia assistita con animali (AAT) produce molti benefici in diverse patologie, quali, ad esempio, le malattie cardiovascolari e le sindromi psichiatriche (sindromi depressive e sindromi psicotiche) (Pedersen e al., 2011; Barak e al., 2001).

Alla base di ciò, c’è il legame che si crea fra il paziente e l’animale, che determina un miglioramento della socialità e dell’emotività della persona (Fine, 2010).

Nelle sindromi psicotiche, alcune ricerche effettuate (Rossetti e King, 2010; Kamioka e al., 2014) indicano che la terapia assistita con animali, abbinata ad altre terapie (farmacoterapia e riabilitazione psicosociale),  ha un buon riscontro terapeutico sui pazienti affetti da tali psicopatologie. In essi, a seguito di questo tipo di intervento, si è notato un miglioramento dell’autostima, dell’autoefficacia, della funzionalità quotidiana e della sintomatologia psicotica (riduzione dei deliri, delle allucinazioni, dell’apatia, dell’appiattimento emotivo e dei disturbi comportamentali).

A confermare ulteriormente queste evidenze scientifiche sono i risultati di una ricerca  (Calvo e al., 2016), che ha indagato gli effetti della terapia assistita con animali su 14 pazienti affetti da schizofrenia. In pratica, è stato analizzato l’effetto che tale cura ha sui sintomi della schizofrenia e sulla qualità della vita dei pazienti.

Per validare i risultati dello studio è stato utilizzato il Test PANSS (Kaye e al., 1989), che accerta quantitativamente la presenza dei sintomi psicotici, e il Questionario EuroQol-5 (EQ-5D) (Bobes e al., 2005), che indaga la qualità della vita. Inoltre, a ciascun paziente è stato misurato il cortisolo, ormone dello stress (Fortunato e al., 2008), nella saliva.

I test menzionati sono stati somministrati sia prima della sperimentazione che successivamente ad essa. La misurazione del cortisolo salivare è stata effettuata sia prima che dopo ogni singola seduta di terapia assistita con animali.

La terapia assistita con i cani prevedeva tre fasi. Nella prima, con l’ausilio di un operatore, si faceva nascere un legame emotivo fra il paziente e il cane. Nella seconda fase si consolidava il legame, facendo fare ad essi delle lunghe passeggiate. Nella terza fase il paziente, avendo ricevuto istruzioni al riguardo, addestrava il cane e giocava con esso.

La terapia è stata effettuata per 6 mesi con 2 sedute alla settimana di 1 ora circa. Abbinata alla terapia assistita con animali, c’era la terapia farmacologica e la riabilitazione psicosociale, che comprendeva 5 tipi di intervento, ovvero psicoterapia individuale, psicoterapia di gruppo, psicoterapia familiare, terapia orientata ad implementare le funzionalità legate alla quotidianità e terapia finalizzata ad incrementare le abilità sociali.

I risultati della ricerca hanno evidenziato che la terapia assistita con il cane, coadiuvata da altre terapie opportune, riduce i sintomi psicotici e migliora la qualità della vita dei pazienti schizofrenici. Inoltre, ogni singola seduta con l’animale ha un effetto rilassante, come confermato dalla riduzione della quantità di cortisolo nella saliva.

Il rimuginio desiderante nel disturbo bipolare: uno studio pilota

Il rimuginio desiderante nel disturbo bipolare: uno studio pilota

S. Righini*, E. Mellina*, G. Caselli**, M. Baldetti*, F. Turchi*
*Centro Studi Cognitivi Firenze
** Studi Cognitivi Modena

 

Il rimuginio è uno stile di pensiero ciclico, persistente, di attenzione focalizzata su di sé e costituisce un sintomo residuale nei disturbi depressivi giocando un importante ruolo nella ricaduta e nel mantenimento del disturbo. Per quanto riguarda lo stile di pensiero dei pazienti bipolari la letteratura evidenzia come la ruminazione sia caratteristica sia della fase depressiva che di quella eutimica. Ancora pochi sono gli studi sulla fase maniacale o ipomaniacale anche se la letteratura che collega lo stile di pensiero ripetitivo alle emozioni positive rimanda alla descrizione del rimuginio desiderante le cui caratteristiche presentano dei punti di convergenza con lo stile di pensiero tipico della fase ipo-maniacale, il quale tende a produrre sensazioni di stima verso se stessi, treni di pensieri molto rapidi, aumento della focalizzazione su attività immediatamente gratificanti, aumento dell’impegno nella produzione di piani d’azione orientati al raggiungimento di un obiettivo, spinta verso decisioni basate sul qui ed ora, iperattivazione generale.

Lo studio ha l’obiettivo di esplorare la presenza di rimuginio desiderante relativo alla fase ipo-maniacale del disturbo bipolare poiché questo potrebbe concorrere al mantenimento del disturbo ed influire sulle ricadute e sull’aderenza al trattamento, anche farmacologico, particolarmente critica per questi pazienti.

A questo scopo è stata costruita, da psicoterapeuti esperti in Terapia Metacognitiva, un’intervista semistrutturata, in questo primissimo step somministrata a n. 6 pazienti bipolari in fase eutimica, per esplorare le credenze metacognitive positive e negative sul pensiero relativo alla fase ipo/maniacale.

I risultati mostrano come lo stile di pensiero ripetitivo in cui sono coinvolti i pazienti bipolari in fase maniacale o ipomaniacale abbia le caratteristiche del rimuginio desiderante, sostenuto in particolare da meta-credenze positive sul trigger e sullo stato desiderato, quello ipomaniacale o quantomeno ipertimico, nonché da meta-credenze negative di incontrollabilità e pericolosità del pensiero. Emerge inoltre una quota di rimuginio desiderante “di stato” in fase eutimica, riferita sempre alla fase ipo-maniacale, la quale agisce come sintomo residuale e potrebbe concorrere al mantenimento del disturbo, al presentarsi di ricadute nonché alla scarsa aderenza al trattamento. Se la ricerca futura confermerà questi risultati sarà necessario tenere in dovuta considerazione la presenza ed il ruolo del rimuginio desiderante nel progetto terapeutico con pazienti bipolari.

 

Vegan-sexuality ovvero ama come mangi: processi cognitivi e preferenze sessuali di chi sceglie un’ alimentazione vegetariana

E’ plausibile quindi riconoscere un nesso tra alimentazione vegetariana e specifiche preferenze sessuali: oggigiorno si parla del fenomeno definito vegan-sexuality per descrivere la preferenza di alcuni vegani ad impegnarsi in rapporti sessuali e relazioni intime solo con altri vegani

Gabrieli Anna Azzurra e Fregni Eleonora – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Introduzione: la diffusione dell’ alimentazione vegetariana

L’ alimentazione da diversi anni sta assumendo un ruolo sempre più importante nella vita degli italiani, configurandosi come una vera e propria filosofia del cibo all’interno di uno stile di vita sano spesso contrapposto ad un’esistenza frenetica. Si assiste alla nascita di diverse discipline alimentari a partire da interrogativi legati a questioni etiche e morali rispetto al ciclo di vita degli animali e alla diversa salubrità degli alimenti per il corpo umano.

Secondo le rilevazioni dell’Eurispes, l’Istituto privato di Studi Politici, Economici e Sociali con sede a Roma, negli ultimi quattro anni in Italia il numero di chi segue un’ alimentazione vegetariana è variato dai 4,9% del 2013 a oltre il 8%, di cui l’1% vegano, nel 2016.

Tale dato in forte crescita è diventato oggetto di interesse da parte delle Istituzioni oltre che le grandi multinazionali che di fatto hanno modificato il mercato proponendo sempre più prodotti a base vegetale. Secondo il comunicato ANSA del 16 aprile 2014, nell’autunno dello stesso anno è stata lanciata la prima rete italiana di farmacisti in grado di dare consigli a chi segue questi regimi alimentari. Pharmavegana è il nome del progetto che prevede la presenza, nelle farmacie contrassegnate da apposito bollino, di un professionista specializzato per consigliare farmaci e integratori “eticamente corretti”; non solo quindi cosa evitare ma anche come integrare l’alimentazione di chi ha scelto di escludere carne e pesce o, nel caso dei vegani anche latte, uova e derivati.

All’interno del grande gruppo dei vegetariani occorre fare una distinzione difatti ci sono i semi-vegetariani che mangiano tutto ad eccezione delle carni rosse, quelli che escludono le carni animali tranne pesce e quelli che escludono tutte le carni.

I motivi che spingono alla scelta di un’ alimentazione vegetariana rispetto a quello più tradizionale,che prevede il consumo di carne, possono variare da questioni salutiste (vegetariani salutisti-VS) a quelle più prettamente etiche ed ambientali (vegetariani morali- VM).

Ma quali sono i processi cognitivi che conducono all’esclusione della carne dalla propria alimentazione?

Recenti studi (Fessler, Arguello, Mekdara & Macias, 2003) hanno indagato il ruolo delle emozioni, in particolare il disgusto, nel complicato processo di ragionamento che conduce alla scelta di uno specifico stile alimentare. Alcuni studiosi (Bastian, Loughnam, Haslam & Radke, 2012) invece si sono soffermati sui meccanismi utilizzati per superare il “paradosso della carne”, ovvero la preoccupazione per il benessere degli animali in contrapposizione alle abitudini culinarie carnivore.

Infine alcune ricerche (Potts & Parry, 2010) si sono interessate all’emergente fenomeno della vegan-sexuality, quindi come la scelta di un determinato stile alimentare può influenzare anche le preferenze in un contesto così intimo come la sessualità.

 

Il disgusto e la scelta di adottare un’ alimentazione vegetariana

Gli studiosi comportamentali sono stati spesso interessati alla relazione tra credenze morali ed emozioni. La visione tradizionalista dello sviluppo del ragionamento morale (Lasley, 1996) dimostra che la posizione morale viene adottata a partire da processi cognitivi e le emozioni sono quindi una conseguenza, mentre secondo le nuove correnti (Cosmides & Tooby, 2000) sono le emozioni stesse che producono i ragionamenti cognitivi.

Le persone che adottano un’ alimetazione vegetariana per motivi morali (VM) si distinguono da chi adotta delle motivazioni salutiste (VS) in virtù di differenti giustificazioni di esclusione della carne dai loro regimi alimentari. I VS evitano la carne  perché reputata malsana e spesso cancerogena (comunicato OMS n°240 del 26 ottobre 2015) mentre VM la escludono per questioni legate a crudeltà, degrado e politiche. Per i VM il non cibarsi di carne è un imperativo morale e, a differenza dei VS, sono sconvolti dal consumo di carne altrui (Rozin et al,1997). Confrontando i VM e i VS, Jabs et all.(1998) riferiscono che  i VM trovano la carne più disgustosa . Il disgusto è un’emozione che trae origine da un tipo di repulsione ideologica legata al cibo ma che mediante l’evoluzione culturale, è applicato ad una grande varietà di oggetti, persone o eventi reputate immorali (disgusto socio-morale- Haidt, Koller & Dias,1993). Rozin et all (1997) affermano, in linea con gli approcci tradizionali, che i VM trovano la carne più disgustosa in quanto hanno adottato una posizione anti-carne per motivi filosofici ed etici; successivamente (consciamente o inconsciamente) collegano il cibarsi di carne con forti emozioni che forniscono un ulteriore forza motivazionale alle loro posizioni. In breve, gli autori sostengono che il concetto di consumo di carne come immorale crea sia un opportunità sia un incentivo per definire la carne stessa disgustosa.

Il contatto con o l’esposizione ad animali (ex. scarafaggi), morte e corpi coinvolti in violenze sono tre dei maggiori elementi in grado di elicitare disgusto (Fiddes,1991). I moderni metodi di trasformazione, confezionamento, cottura e presentazione della carne rimuovono o mascherano l’idea che la carne sia una parte interna di una creatura una volta vivente. Spesso il primo passo verso l’adozione di un’ alimentazione vegetariana è l’evitamento di alcuni tipi di carne. Nonostante il VM eviti qualsiasi tipo di carne, nella popolazione occidentale l’esclusione della carne inizia da quella rossa e prosegue con le altre. Il sangue è un potente stimolo di disgusto e difatti chi non mangia carne rossa sembra essere disgustata dalla presenza di sangue (Kubberod et all, 2002). Nella carne di maiale, pollame e pesce appare come se i tessuti fossero stati drenati dal sangue, il processo di trasformazione altera artificialmente il potere evocativo della carne.

Sebbene il moderno mercato della carne riduca gli stimoli che suscitano disgusto, tali caratteristiche permangono salienti nella carne rossa rispetto gli altri prodotti di origine animale, e quindi è plausibile pensare che la sequenza di carni da evitare nelle prime fasi di vegetarianismo potrebbe riflettere la relativa disponibilità di stimoli-disgusto.

Alcuni dati demografici evidenziano che in occidente le donne che seguono un’ alimentazione vegetariana sono più numerose rispetto agli uomini (Beardsworth & Bryman,1999), le donne mangiano molto meno carne rispetto agli uomini (Richardson, et all. ,1993) mentre Mooney e Walbourn (2001) dimostrano che le donne che evitano la carne esprimono significativamente maggiore disgusto rispetto a quelle che non mangiano carne.

Fessler et all. nel 2003, cercarono di determinare se il disgusto seguisse l’adozione di una posizione morale o se l’emozione è in realtà la spinta motivazionale al divenire vegetariani per principi morali.

Gli autori svilupparono un’indagine web a cui parteciparono 945 soggetti (326 uomini e 619 donne) divisa in due parti. Nella prima parte ai soggetti veniva chiesto di indicare la frequenza del consumo di determinate categorie di carne durante la settimana mentre nella seconda parte ai partecipanti che avevano sottolineato di non mangiare tre o più delle carni descritte, veniva chiesto di selezionare una o più delle seguenti ragioni: gusto, odore, aspetto, ragioni etiche, motivi ambientali o motivi di salute. Successivamente veniva somministrato il D-Scale (Haidt et al., 1994), strumento costruito per valutare la sensibilità al disgusto in otto contesti (cibo, animali, prodotti per il corpo, sesso, corpi coinvolti in violenze, morte, igiene e pensiero magico circa la contaminazione).

I risultati evidenziarono che coloro che evitavano la carne per ragioni etiche e ambientali non dimostravano una sensibilità maggiore al disgusto rispetto a quelli che evitavano la carne per motivi di salute o di gusto.

Quindi i risultati mettono in discussione la nuova prospettiva emergente, che si contrappone a quella più tradizionalista, in cui l’aderenza al vegetarianismo morale è visto come derivante da maggiori reazioni-disgusto alla carne. Pertanto si può concludere, in linea con le precedenti ricerche (Rozin et all. (1997), che il disgusto nei vegetariani morali sembra più una conseguenza, piuttosto che la causa, dell’adozione di una posizione morale.

 

Il Paradosso della carne

La carne è un elemento centrale delle diete di molte persone eppure quest’ultime amano anche gli animali e sono disturbate dal danno procurato a loro. Questa incoerenza tra un amore per gli animali e il piacere di mangiare la  carne crea un fenomeno denominato “paradosso della carne” (Loughnan, Haslam, e Bastian, 2010). Per questo motivo, alle persone raramente piace pensare da dove proviene la carne, i processi che la portano nel nostro piatto o le qualità di vita degli animali dal quale è estratta (Vialles, 1994). I mangiatori di carne fanno di tutto per superare questa contraddizione tra le loro credenze e comportamenti.

Esplorare questo paradosso della carne è importante per tre motivi.

In primo luogo, fornisce una nuova prospettiva da cui osservare i processi psicologici di base associati all’azione morale di tutti i giorni. Mangiare carne è un comportamento moralmente significativo, eppure raramente è concettualizzato come una scelta morale. Potrebbe essere utile un’indagine per spiegare come i processi cognitivi e motivazionali possono oscurare la responsabilità morale. In secondo luogo, l’appetito è un potente forza che plasma gran parte del comportamento umano e, pertanto, può essere una potente componente del ragionamento motivato (Kunda, 1990) all’interno del dominio morale. In terzo luogo, le pratiche culinarie non sono le uniche fonti di piacere, ma sono anche importanti elementi di significato all’interno della cultura (Berndsen & van der Pligt, 2005). Le persone sono molto motivate a proteggere le loro pratiche culturali, per cui un’analisi rispetto al consumo di carne può fornire una conoscenza delle strategie che la gente mette in atto per mantenere i moralmente discutibili, ma cari, impegni culturali. Bastian et all. in una ricerca del 2012 si sono concentrati sui processi psicologici che facilitano le persone nella loro pratica culinaria di mangiare carne.

La gente spesso separa mentalmente la carne dagli animali (Hoogland,de Boer, e Boersema, 2005), in modo tale che possano mangiare costolette di maiale o bistecche di manzo senza pensare a maiali o mucche. Il disinvestimento mentale dell’origine della carne ha una funzione importante per i mangiatori di carne, riduce la dissonanza suscitata dal piacere di mangiare la carne e il danno che gli animali subiscono per produrla. Un altro modo per rendere meno fastidiosa la sofferenza legata agli  alimenti di origine animale è negare che essi possiedono capacità morali rilevanti (Bilewicz, Imhoff, e Drogosz, 2011). Il possesso di capacità mentali costituisce la base per attribuire un valore morale, così negando queste capacità, come quella di soffrire e provare dolore, abbassa lo status morale di un animale. La negazione delle capacità mentali ad animali si configura quindi come un processo psicologico che agisce per facilitare l’effettiva abitudine di consumare carne in modo da mantenere le pratiche alimentari culturali.

Il pensiero che gli animali sentano dolore quando vengono macellati, o abbiano la capacità di pensare e di capire il loro destino, toccherebbe anche l’amante della carne più sfrenato. Nel suo recente libro Eating Animals, Jonathan Safran Foer (2009) promuove uno stile di vita e un’ alimentazione vegetariana evidenziando le capacità mentali di molti animali e la loro paura e dolore associate con la produzione industriale di carne. Riconoscere che gli animali hanno una mente li rende molto simili a noi in diverse prospettive morali, e questo assunto va in conflitto con la nostra abitudine di mangiare carne.

Le persone si riconoscono dei diritti morali in base al fatto di possedere una mente (Gray,Gray & Wegner, 2007) ed è proprio questo dato che ci offre il diritto ad un trattamento umano. Riconoscere che un animale ha una mente ma viene ucciso per produrre cibo può creare un conflitto morale per i mangiatori di carne. Tuttavia l’idea che gli animali abbiano capacità mentali attenuate rispetto agli esseri umani non è senza supporto. Le menti animali sono meno complesse della mente umana (Penn & Povinelli, 2007) e le laiche percezioni delle menti animali in generale concordano (Haslam, Kashima, Loughnan, Shi, e Suitner, 2008). Filosofi quali sant’Agostino, Cartesio e Kant hanno indicato queste differenze di capacità mentali per giustificare il minore status morale degli animali (Wennberg, 2003). Riconoscere la mancanza di una mente nell’animale è la chiave attraverso la quale le persone giustificano l’uso di animali a fini alimentari (Singer, 1990). Tuttavia, gli esseri umani sono relativamente imprecisi nell’attribuire delle capacità mentali agli animali (Mameli & Bortolotti, 2006), e infatti questa concessione potrebbe dipendere più da motivazioni soggettive che da fatti oggettivi (Marcu,Lyons & Hegarty, 2007).

Le persone quando sentono il bisogno di compagnia o di qualcuno che comprenda il loro comportamento, riconoscono le capacità cognitive degli animali (Epley, Waytz, Akalis, e Cacioppo, 2008). Mentre negare la mente agli animali riduce la preoccupazione per il loro benessere, giustificando il danno causato a loro nel processo di produzione di carne.

Secondo l’ action-based model of dissonance (Harmon-Jones, Harmon-Jones, Fearn, Sigelman, e Johnson, 2008), le persone sono motivate a ridurre i conflitti cognitivi che interferiscono con il comportamento effettivo (dissonanza). Negare menti animali rende il danno portato a loro meno fastidioso, facilitando il consumo di carne. La dissonanza può quindi fornire la comprensione dei processi attraverso i quali la gente diminuisce la responsabilità morale e mantiene le pratiche culinarie, evitando un’ alimentazione vegetariana.

Sebbene l’esperienza di dissonanza comporti stati affettivi negativi (Harmon-Jones, 2000), questo non è l’unico motivo per cui la gente potrebbe provare emozioni negative nel momento in cui mangia la carne.

L’effetto è centrale non solo per la nostra esperienza di alimentazione (Rozin, 1996), ma anche per le nostre convinzioni circa la moralità (Greene, Sommerville, Nystrom, Darley, & Cohen, 2001).

Come il disgusto viene reclutato nel processo morale che trasforma le nostre preferenze culinarie in un valore (Rozin, Markwith, & Stoess, 1997), allo stesso modo, vergogna e colpa sono regolarmente suscitate dalla percezione di trasgressioni morali  (Tangney, Miller, Flicker, e Barlow, 1996); di conseguenza gli animali che possiedono qualità moralmente rilevanti possono innescare questi stati emotivi.

La protezione contro questi stati affettivi negativi è importante in quanto così facendo manteniamo pratiche culinarie che non sono solo fonti di piacere, ma sono anche importanti comportamenti significativi all’interno della cultura di appartenenza (Berndsen &van der Pligt, 2005). Negare al cibo animale capacità di percepire dolore e sofferenza o di comprensione può essere un elemento chiave nella riduzione degli stati affettivi negativi associati con il loro consumo, pertanto, questo processo sostiene il piacere e il significato culturale della pratica culinaria  (Plous,2003).

 

Una nuova corrente: la vegan-sexuality

Potts e Parry nel 2010 esplorano il fenomeno definito vegan-sexuality per descrivere la preferenza di alcuni vegani ad impegnarsi in rapporti sessuali e relazioni intime solo con altri vegani. E’ plausibile quindi riconoscere un nesso tra alimentazione vegetariana e specifiche preferenze sessuali. La spiegazione del fenomeno della vegan-sexuality si inserisce lungo un continuum in cui da una parte vi è una forma di preferenza sessuale influenzata dal proprio stile alimentare con un aumento della probabilità di attrazione sessuale nei confronti di coloro che condividono credenze simili; dall’altra questa tendenza potrebbe configurarsi  come una forte avversione sessuale per i corpi di coloro che consumano carne e altri prodotti animali.

Durante un sondaggio del New Zeland Centre for Human-Animal Study al fine di esplorare i punti di vista e le esperienze della popolazione schierata contro lo sfruttamento degli animali e la vivisezione, Potts e White (2007) focalizzano la loro attenzione sui commenti di alcune donne con alimentazione vegetariana /vegana che dichiarano di preferire una relazione solo con altre persone che non consumano carne o altri prodotti animali.

Credo che siamo quello che mangiamo, per cui credo di fare molta fatica nel contatto di fluidi corporei, soprattutto sessuali”; “Non potrei essere in una relazione intima con chiunque mangi animali. I nostri mondi sono troppo distanti tra loro e la probabilità di riuscita del rapporto è molto bassa. Non riesco a pensare di baciare delle labbra che permettono di far passare  pezzetti di animali morti”; questi solo alcuni dei commenti su cui i due autori si sono soffermati.

E’ importante sottolineare come la vegan-sexuality non è una forma innata o predeterminata di sessualità ma si conforma più come una preferenza/inclinazione nei confronti di chi ha adottato uno stile di vita etico.

In conclusione è probabile, come già evidenziato in precedenti ricerche (Fox & Ward, 2008), che coloro che scelgono uno stile di vita etico estendano tale impegno sia all’alimentazione sia all’importante sfera dei rapporti intimi e il fenomeno della vegan-sexuality ne è un chiaro esempio.

 

Conclusioni: cosa spinge a scegliere un’ alimentazione vegetariana

Abbiamo visto come le emozioni, quali il disgusto, vergogna e colpa siano strettamente legate al ragionamento cognitivo che conduce alla scelta di una alimentazione vegetariana. Sono state esplorate inoltre le strategie per superare il cosiddetto “paradosso della carne” che quindi permetterebbe alle stesse persone che amano gli animali di cibarsi di carne diminuendo l’impatto emotivo dell’immagine dei comuni metodi di macellazione e allevamento.

Tra le critiche mosse contro la scelta del vegetarianismo come principale stile alimentare, vi è stata quella di definirlo come elemento predisponente ad alcuni disturbi del comportamento alimentare a causa della percezione di perdita di controllo (Robinson-O’Brien  et all. 2009). Numerose ricerche però hanno evidenziato come una alimentazione vegetariana possa essere utilizzata per camuffare un preesistente disturbo del comportamento alimentare (Curtis & Comer, 2006). Verosimilmente questo sarebbe anche il motivo per cui tale condotta è più diffusa tra gli adolescenti che presentano disturbi del comportamento alimentare, rispetto alla popolazione generale degli adolescenti (Perry, McGuire, Newmark-Sztainer & Story, 2001).

In conclusione, è emerso, come filo conduttore di tale scelta alimentare, lo sviluppo di uno sguardo più attento a ciò che ci circonda. Centrale nell’adozione di tali comportamenti è il concetto di amore, per sé stessi nel caso dei Vegetariani Salutisti e nei confronti degli animali e dell’ambiente per i Vegetariani Morali. Tale concetto rimane presente anche se in difetto (mancanza d’amore per sé stessi) nel caso in cui tali comportamenti alimentari siano funzionali al mascheramento di disturbi alimentari latenti.

Alla luce di quanto precedentemente descritto, tale fenomeno in larga espansione avrebbe bisogno di una maggiore attenzione da parte degli istituti di ricerca al fine di indagare ancora più nel dettaglio le motivazioni oltre che le potenziali conseguenze e ripercussioni sulla popolazione.

Sherlock holmes e il futuro del marketing: Martin Lindstrom Small Data Symposium – Report dall’evento

Martin Lindstrom è un po’ lo Sherlock dei nostri giorni. Famosissimo consulente di marketing di aziende come Walt Disney Company, Nestlé, PepsiCo, American Express, non è né psicologo né sociologo né detective, bensì uno straordinario osservatore, collezionista e interprete di dati.

 

Ho da poco scoperto Sherlock e ancora mi domando come ho potuto vivere senza aver mai visto questa serie tv. La versione in chiave moderna delle avventure di Sherlock Holmes è un esilarante capolavoro che ha come punto di forza le straordinarie (e talvolta inopportune) infallibili capacità deduttive del protagonista.

Martin Lindstrom è un po’ lo Sherlock dei nostri giorni. Famosissimo consulente di marketing di aziende come Walt Disney Company, Nestlé, PepsiCo, American Express, nonché tra i maggiori esperti di brand building al mondo, non è né psicologo né sociologo né detective, bensì uno straordinario osservatore, collezionista e interprete di dati.

Martin Lindstrom ha trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita intervistando migliaia di consumatori di determinati brand – uomini, donne e bambini – nelle loro case in 77 paesi del mondo, a volte facendosi ospitare e vivendo con loro alcuni giorni, il che può sembrare alquanto eccentrico! In realtà questa strategia gli ha permesso di raccogliere un’enorme mole di informazioni che rappresentano il Santo Graal per ogni azienda, la chiave per arrivare al cuore (e al portafoglio) di ogni consumatore.

 

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Martin Lindstrom: altro che Big Data!

Se un’azienda vuole comprendere le ragioni che spingono un consumatore a scegliere un brand piuttosto che un altro, non deve basarsi solo sui Big Data (che esprimono correlazioni, non causalità), ma deve prendere in considerazione anche quelli che Martin Lindstrom definisce Small Data, cioè preziose informazioni nascoste nei dettagli della vita di tutti i giorni dei consumatori. Dopotutto, è nei dettagli che si nasconde il diavolo, no? Ed è proprio ignorando questi dati che si rischia di fare scelte controproducenti per il proprio brand.

 

Conosci i tuoi consumatori?

Come si può pensare di capire i propri consumatori – anche potenziali – se non si conosce la loro vita? E come si fa a conoscere la loro vita se non si parla con loro, se non si interagisce fisicamente con loro, se non si vede con i propri occhi dove e come vivono?

Anni fa la iRobot chiamò Martin Lindstrom per una consulenza: il Roomba, l’aspirapolvere a forma di disco nero, stava perdendo quote di mercato e non riuscivano a capire come mai. Martin Lindstrom trascorse del tempo negli appartamenti dei proprietari di Roomba a New York e nel New England e scoprì, osservando le loro case e chiacchierando con loro, che i proprietari di questo aspirapolvere andavano letteralmente pazzi per questo robottino, ma non tanto per la sua indubbia efficienza!

Lo consideravano quasi un animale da compagnia, gli davano un nome, anziché riporlo nello sgabuzzino lo lasciavano spuntare da sotto il divano come se si fosse nascosto e l’espressione più utilizzata per descriverlo era “è così tenero, aaawwww”! Ne erano talmente entusiasti che lo consigliavano a tutti; e si sa, non c’è miglior testimonial per un brand di un amico che consiglia un prodotto.

Peccato che qualche ingegnere troppo zelante, per rendere il Roomba più silenzioso, avesse eliminato nei modelli successivi il caratteristico suono che il robottino emetteva andando a sbattere contro un ostacolo: un tenerissimo “oh-oh!”. Lo aveva così reso “senza anima”, non più cuccioloso, alla pari di qualsiasi altra vuota diavoleria ipertecnologica, per la quale era difficile perdere la testa e parlarne con entusiasmo quasi fanatico. Bastò quindi rendere il Roomba nuovamente umano per risolvere il problema del calo delle vendite: quando Roomba tornò a esclamare il suo carinissimo “oh-oh”, tutti si innamorarono nuovamente di lui.

 

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Questo aneddoto illustra benissimo l’errore che spesso compiono le aziende: si dimenticano che i consumatori sono umani, irrazionali ed emotivi. Un brand che voglia avere successo non deve mai dimenticarsi che a muovere le scelte dei consumatori sono le emozioni e per scoprirle non è sufficiente affidarsi ai Big Data o alle informazioni che vengono restituite dai social network (dove mentire sulla propria immagine è la prassi); bisogna invece tornare al contatto reale con i propri clienti.

Il “Martin Lindstrom Small Data Symposium”, organizzato da NeuroPeople® il 28 aprile 2017, era tra gli eventi dell’anno più attesi nel settore marketing e comunicazione e non ha di certo deluso le aspettative. Se già con il libro Neuromarketing Martin Lindstrom aveva ribaltato le conoscenze finora acquisite sui comportamenti di consumo, con Small Data ha portato avanti la sua rivoluzione, illustrando come raccogliere i piccoli indizi che possono svelare i grandi trend e mostrando come nel marketing acquisterà sempre più importanza la riscoperta della relazione reale e non più (solo) virtuale con il consumatore.

Durante il simposio Martin Lindstrom ha sottolineato come le scelte di consumo siano guidate soprattutto a livello subconscio – suoni, sensazioni tattili, immagini, odori, ecc. giocano un ruolo decisivo, così come i marcatori somatici – e che non conta tanto cosa dice il consumatore, bensì cosa prova.

Diventa pertanto fondamentale trascorrere del tempo con il consumatore per individuare le emozioni che rappresentano la spia di una mancanza di equilibrio tra ciò che egli desidera e ciò che ha, perché è lì che si presenta l’opportunità per sviluppare un nuovo brand. Che cosa ci raccontano i libri sfoggiati sul tavolino in salotto, le calamite attaccate al frigorifero, il robottino che spunta da sotto il divano del mondo interno del loro proprietario

Raccogliere i piccoli indizi e parlare con i consumatori per scovare le loro emozioni e identificare così i loro desideri: questo è Il futuro del marketing. In pratica, essere un po’ Freud e un po’ Sherlock Holmes. Elementare, Watson, no?!

Essenza e operatività della psicoterapia cognitiva. Un seminario di Studi a Palermo

Si è svolto a Palermo il 18 aprile scorso, nella ridente sede di Villa Niscemi, il seminario di studi condotto dal professor Roberto Lorenzini, psichiatra psicoterapeuta e direttore didattico IGB Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva Sede di Palermo, che ha illustrato i principi cardine su cui si fonda l’approccio cognitivo al funzionamento della mente e i principi base su cui, a partire da tali presupposti, poggia la psicoterapia cognitiva.

 

Metacognizione e dipendenze - nuove prospettive terorico-cliniche - Workshop Palermo - Istituto TolmanIl cognitivismo nasce nella prima metà del Novecento negli Stati Uniti ad opera di autori come Beck – spiega Lorenzini – L’idea centrale è che le emozioni siano influenzate dai pensieri e che siano questi ultimi a determinare la realtà, costituita dalle interpretazioni mediate dall’azione di schemi e credenze con origini nell’infanzia”.

Ciò che è rilevante quindi, più che la realtà in sé, il modo in cui noi parliamo a noi stessi, è il dialogo interno che fornisce la nostra personale visione di noi e del mondo, tanto nella salute quanto nella patologia.

Esemplificando: se arriva il mio capo e non mi saluta, posso interpretare in modi diversi questo evento, a cui seguiranno diverse emozioni, frutto di altrettante interpretazioni. Così se penso Chi si crede di essere? adotto una valutazione da cui scaturisce rabbia; se penso Che ho fatto? mi sentirò preoccupato; ancora se penso Qui nessuno si accorge di me, mi sentirò depresso. Ecco che la depressione si spiega con tipici pensieri negativi di inutilità che risalgono a un’età precoce dello sviluppo: le vicende infantili sono determinanti nella valutazione di se stessi e del mondo e ciò contrasta con il luogo comune secondo cui il cognitivismo non si interesserebbe del passato”.

Quali sono nel dettaglio gli elementi strutturali del cognitivismo, con particolare riferimento alle credenze che tanta importanza hanno nella strutturazione del proprio mondo?

Gli elementi essenziali del cognitivismo sono gli scopi e le credenze. I primi guidano il comportamento e sono in parte automatici, come nel comportamento predatorio, e in parte appresi, per cultura, modificandosi nel tempo. Le credenze sono la fotografia della realtà, e fanno scegliere una strada piuttosto che un’altra per raggiungere il nostro scopo. La caratteristica centrale delle credenze è la loro inerzia, la loro resistenza al cambiamento – continua Lorenzini – Esemplificando: la credenza per cui tutti mi devono amare è adattiva almeno in età precoce, quando l’interesse del bambino è l’amore dei genitori; non è più adattiva a quarant’anni poiché non è possibile essere amati da tutti. Ecco che, spinto da questa credenza, metterò in atto determinati comportamenti, come l’eccessiva richiesta di attenzioni, che avranno solo l’effetto di allontanare gli altri. Ugualmente dalla credenza per cui stare da solo è terribile seguirà un comportamento di eccessivo attaccamento agli altri, e facilmente ciò condurrà all’essere lasciati. Insomma, il meccanismo nevrotico fà sempre gli stessi errori, amplificandoli. Obiettivo della psicoterapia orientata alla modificazione delle credenze disfunzionali sarà pertanto individuare differenti strategie di perseguimento degli scopi o, se lo scopo è irraggiungibile, imparare a cambiare strada”.

Quali le opzioni offerte dalla psicoterapia cognitiva per il miglior adattamento della persona agli scopi vitali per il suo benessere, in particolare la vicinanza emotiva?

Il primo passo è la presa di consapevolezza del carattere disadattivo delle credenze, che limitano di fatto la realizzazione personale e sociale, attraverso una presa di distanza critica (Quello che penso è utile? Mi serve?). Il secondo passo è l’adozione di pensieri più realistici, che consentano di raggiungere più agevolmente gli scopi, tecnica nota come ristrutturazione cognitiva. Obiettivi che possono essere raggiunti solo attraverso un’adeguata relazione terapeutica, entro la quale si gioca la partita: infatti il terapeuta, a differenza degli altri, non deve compiacere il paziente e le sue credenze, di modo che il paziente stesso possa individuarne la problematicità”.

Strategie differenziate e molteplici per raggiungere gli scopi, ovvero più scopi per la propria vita, dalla famiglia al lavoro agli amici, affinché l’eventuale insuccesso in un’area non determini il crollo dell’intero mondo della persona. E di crollo della realtà, di frattura di senso e di necessità di ricostituire un senso nuovo è stata dedicata la seconda parte della lezione, attraverso la disamina dei pensieri deliranti e del lavoro terapeutico con i disturbi psicotici.

Partiamo dalla considerazione che il pensiero delirante si pone in continuità con quello normale e che non necessariamente è bizzarro, come nel pensare che qualcuno mi vuole male; ciò che ovviamente caratterizza il delirio è la sua impenetrabilità ovvero la resistenza alla critica, che diventa il punto focale dell’intervento – continua Lorenzini – La relazione terapeutica, decisiva per il buon esito terapeutico, dev’essere incentrata sull’ascolto attivo e non giudicante e tendere alla critica del delirio, spingendo il paziente a formulare ipotesi alternative (meno angoscianti) alle credenze psicotiche. Ciò in vista della riformulazione di un progetto esistenziale che dia dignità e una migliore qualità della vita, un risanamento a quel senso inaccettabile di invalidazione di temi fondamentali, che costituiscono i pilastri dell’identità, come ad esempio l’essere un buon padre, che possono aver dato origine al delirio paranoico”.

Un compito complesso, in cui il terapeuta mette in moto empatia, tecnica, abilità che si scontrano con meccanismi di difesa difficili da smantellare, poiché utilizzati al fine di dare un senso a un vissuto che improvvisamente e irrimediabilmente risulta arcano, perduto, negato.

Un percorso impegnativo di natura psicologica da accostare a un supporto farmacologico, benchè l’attuale stato dei servizi non possa vantare un reale ed efficace utilizzo della componente non farmacologica della cura. “Per la psicosi prevale ancora il modello medico e socio-riabilitativo sul modello psichiatrico della legge 380. La psicoterapia a mio avviso sembra limitarsi a favorire l’aderenza ai farmaci e a far accettare costruttivamente il problema, funzioni limitative rispetto alle competenze proprie dello psicoterapeuta. Per il futuro confido nella sensibilità delle istituzioni per un coinvolgimento maggiore dei professionisti della mente nel trattamento di patologie di ogni livello di gravità” conclude Lorenzini.

 

 

Una mappa cerebrale del disturbo bipolare

Una nuova ricerca che ha utilizzato tecniche di neuroimmagine dimostra che le persone con disturbo bipolare presentano differenze nelle regioni del cervello che controllano l’inibizione e l’emozione.

 

Il disturbo bipolare, o sindrome maniaco depressiva, è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, con alternarsi di episodi maniacali e depressivi. Una nuova ricerca che ha utilizzato tecniche di neuroimmagine dimostra che le persone con questa patologia presentano differenze nelle regioni del cervello che controllano l’inibizione e l’emozione.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il disturbo bipolare colpisce circa 60 milioni di persone nel mondo. È un disturbo psichiatrico debilitante con gravi implicazioni per coloro che ne sono colpiti e le loro famiglie. Rivelando una chiara e consistente alterazione di alcune regioni frontali e temporali del cervello, i risultati pubblicati offrono una visione dei meccanismi sottostanti al disturbo bipolare.

Ole A. Andteassen, autore principale dello studio ha dichiarato:

Abbiamo creato la prima mappa cerebrale del disturbo bipolare, risolvendo anni di incertezza su come sia diverso il funzionamento cerebrale delle persone affette da questo disturbo.

Lo studio riportato è stato parte di un consorzio internazionale e si estende su 76 centri, includendo 26 diversi gruppi di ricerca in tutto il mondo.

I ricercatori hanno effettuato la risonanza magnetica (MRI) su 6503 soggetti, dei quali 2447 adulti affetti da disturbo bipolare e 4056 soggetti sani.

Sono stati analizzati e presi in considerazione anche gli effetti dei farmaci comunemente usati per trattare il disturbo bipolare, l’età dell’insorgenza di malattie, la storia della psicosi, lo stato dell’umore, le differenze di età e di sesso.

I risultati hanno mostrato la riduzione della materia grigia nel cervello dei pazienti con disturbo bipolare rispetto ai controlli sani. Le maggiori differenze si sono riscontrate nelle parti del cervello che controllano l’inibizione e la motivazione, ovvero alcune regioni frontali e temporali.

I risultati hanno anche mostrato diverse alterazioni del cervello in pazienti che hanno preso litio, anti-psicotici e trattamenti antiepilettici. Dai dati è emerso che il trattamento con il litio è associato a un minor assottigliamento della materia grigia nelle aree frontali e temporali, che suggerisce un effetto protettivo sul cervello.

 

Onora il padre e la madre: non c’è futuro senza avere parlato con chi ci ha dato la vita

Le storie che ascolto: figli che non possono onorare i genitori e fanno una dannata fatica a scriversi addosso il nome di Padre, Madre. In quell’assenza di orgoglio per le radici, allo psicoterapeuta il compito di ridare significato.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 16/04/2017 su LA LETTURA del Corriere della Sera,  all’interno di uno speciale sui dieci comandamenti rivisitati in chiave moderna. 

 

Mirella ringrazia il marito della madre: c’era nei momenti difficili. Il padre naturale non la cerca da tre anni. Se racconta alla madre le violenze che subisce dal marito ottiene in cambio un “Te la cerchi”, seguito da un silenzio ostile. Silvia chiede al nuovo compagno della madre di accompagnarla all’altare. Il padre non è invitato, da piccoli picchiava lei e il fratello, sentivano la madre piangere quando a letto la sottometteva con violenza.

Arturo cerca memorie in cui il padre medico gli è stato vicino. Invano, il suo unico piacere era mangiare yogurt. Per il resto: una presenza stanca, accasciata sul divano. Prova ad avere un figlio con la compagna e non sa se sarà capace di crescerlo. Vuole diventare pittore, teme che il padre non avrebbe approvato.

Giulio ha due figlie con l’ex-moglie, e un altro da una donna che già lo ha sostituito nel proprio letto. Si chiede cosa potrà trasmettere ai figli, che ama. Dei propri genitori ricorda freddezza emotiva e incapacità di dargli coraggio.

Sono le storie che ascolto. L’immagine che mi accompagna è l’invocazione dell’uomo crocifisso: Eloì, Eloì, Lemà sabactàni. Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Nel mio film privato l’uomo stavolta scende dalla croce e s’incammina per una landa desolata. Ora è lui il Padre, il protagonista de La Strada di Cormac McCarthy. Arranca in un mondo post-atomico, intorno non c’è nessuno di cui fidarsi, del passato restano macerie e parole che fanno riferimento a oggetti che non esistono più. Lo tiene in vita il Figlio, se ne deve occupare; della mano carezzevole della madre rimane solo un ricordo sbiadito, confuso nella luce lattiginosa.

Le storie che ascolto: figli che non possono onorare i genitori e fanno una dannata fatica a scriversi addosso il nome di Padre, Madre. In quell’assenza di orgoglio per le radici, allo psicoterapeuta il compito di ridare significato.

Non c’è futuro senza avere parlato con chi ci ha dato la vita, non importa se ci abbia dato in lascito oro, sangue o rifiuti. Se il dialogo reale è impossibile, allora chiedo: “Chiuda gli occhi, torni lì, in cucina, papà sta per picchiare mamma. Gli dica: ‘Non farlo, con fermezza. Fatto?”. “”. “Come si sente ora?” “Paura”. “Respiri a fondo, le sono vicino. Come va?” “Sollevata”. “Riapra gli occhi, cosa pensa?”. “Ho anche ricordi in cui mio padre mi teneva in braccio”.

Tante vite così si liberano, il passato non più incubo o cumulo di ruderi che paralizza la costruzione di nuove opere. Arturo mi manda una foto: il manifesto della sua prima mostra tenuto dalla manina del figlio.

Solitudine DOC – Narrativa & Psicologia

Il dottor Oreste Nobile aprì la finestra. L’aria era umida, carica di elettricità e imminenza. Dalla strada arrivavano a intervalli irregolari i peti striduli dei motorini truccati. Mancavano ancora dieci minuti alla prossima visita. Un nuovo paziente. Al telefono gli era sembrato giovane, molto calmo, educatissimo. Solo qualche brusca accelerazione nella seconda metà delle frasi, come per essere sicuro di riuscire a terminarle prima di essere interrotto. Si chiamava Marco.

Dieci minuti. Quando c’era una pausa del genere tra le consecutive incursioni nelle esistenze altrui, Oreste Nobile faceva il suo solito esperimento. Tallonava un umore differente dal consueto stato di sospensione, di attesa, in cui cuoceva a bagnomaria per la maggior parte della giornata. Metteva il naso fuori da quella condizione dell’animo che aveva eletto a dimora fissa. Diceva a se stesso che c’era un certo gusto nell’indurre, guidare, accendere o spegnere a piacimento i propri stati mentali. In realtà, lo faceva per stimolare i riflessi del suo apparato affettivo, per controllarne l’efficienza. Per verificare che all’interno del suo involucro di carne, ossa e sangue fosse ancora presente un dispositivo emotivo. Avrebbe capito solo nella vecchiaia che faceva questo esperimento per assicurarsi di essere ancora vivo.
E tra tutti gli stati mentali tra cui scegliere, il suo preferito era la nostalgia.

Quando aveva poco tempo, con la nostalgia andava bene anche una sveltina. Bastava cercare in rete il titolo di un classico o di un tormentone degli anni ’70 o ’80. Già sull’attacco di Hotel California o de L’estate sta finendo avvertiva il prurito interno inconfondibile dell’imminente eiaculazione di nostalgia. Che non appena avvenuta, si coagulava quasi subito in una specie di indignazione. Lì, di immagini mentali, di ricordi – magari i suoi sedici anni, quella spiaggia in una sera di fine Agosto, di quelle in cui capisci che ormai ci vuole la felpa, il viso di lei, la disperazione totale per la sua partenza l’indomani – manco a parlarne. Non si spiegava come mai con lui i ricordi fossero così fisici, ostili, spietati. Perché non riuscisse a vederli come immagini proiettate dietro agli occhi, attenuate come sogni, immateriali. Perché avessero invece quella consistenza solida, contundente, che impattava ripetutamente sulle pareti interne dello stomaco producendo quella vibrazione sorda somigliante ai prodromi di un’ulcera.

Stavolta se la prese più comoda. Anche se aveva solo dieci minuti, decise che qualche preliminare con la nostalgia potesse starci. Si avvicinò alla sua nostalgia con un passo silenziosissimo, come un bambino che attraversa il corridoio in punta di piedi per non svegliare un genitore sempre arrabbiato. Non cercò una canzone. Digitò su google la parola pacman, scegliendo pacman tra pacman, pucman, packman e puckman, perché su questo sono sempre esistite scuole di pensiero diverse. E mentre digitava diceva a se stesso sapendo di mentire (questo faceva parte dei preliminari) che era solo per fare una partita.

Durante lo stacchetto musicale iniziale – di cui la bocca itterica di nome Pac-Man rimane immobile ad aspettare rispettosamente la fine – Oreste sorrise. Ma appena i fantasmini colorati si gettarono all’inseguimento di Pac-Man, in Oreste si riaccesero sinapsi dormienti. Gli schemi per mangiare più puntini possibili prima di raggiungere e ingollare la pillola che trasforma i predatori in prede. Completò il primo quadro con qualche esitazione.

Un paio di volte rischiò seriamente che il fantasmino rosso placcasse Pac-Man, ma lo salvò il movimento – identico a quando la sua mano lo compiva a dodici anni – di mangiare la pillola e cambiare istantaneamente direzione per inghiottire in un attimo l’inseguitore.
Accadde alla fine del secondo quadro, proprio durante il siparietto che Pac-Man e i fantasmi fanno per complimentarsi col giocatore e avvertirlo implicitamente che da quel momento in poi si farà sul serio, che sarà tutto più veloce e spietato. Si fece annunciare dal desiderio improvviso che la vita reale, magari con una telefonata, lo distogliesse dalla vita mentale, nella quale qualcosa stava prendendo una brutta piega.
Poi si manifestò.

Qualcosa di simile a quello che succede a un tossico quando si inietta un’overdose. Si era sparato nelle vene nostalgia tagliata con roba dalla chimica letale. Rimasugli di dolore senza nome. La sua mente stava usando la nostalgia come la punta metallica di quei martelli appesi ai finestrini dei treni sopra la scritta “Da usare solo in caso di emergenza”. E quella punta stava intaccando un locus minoris resistentiae preciso. Un punto di rottura potenziale.
Si rese conto che stava invidiando il mondo incosciente di pacman. I fantasmini che uccidono Pac-Man quasi controvoglia, come se in fondo un po’ gli dispiacesse. Pac-Man stesso, con il suo unico scopo: divorare tutti i puntini del quadro digerendoli all’istante, senza mai defecare come sarebbe logico, né dare mai l’impressione di averne bisogno. E ricominciare daccapo. Invidiava quella forma elementare di progressione nell’uguale. A ogni nuovo quadro il mondo di pacman, semplicemente, accelera un po’. E il destino di Pac-Man è segnato perché lui a ogni quadro accelera un po’ meno, impercettibilmente, di quanto accelerino i fantasmini. Però almeno – questo Oreste invidiava più di tutto – quella di pacman era la vita senza passato e senza futuro.
Senza quell’assurda presa per il culo che è il tempo.

Quando sentì il suono del citofono chiuse istantaneamente il display del portatile.
Nel tempo aveva imparato che il suono del citofono dice molto del mondo interno di una persona. Esistevano due estremi della psiche citofonante. Da un lato gli individui incapaci di registrare la presenza di altre anime dentro i corpi in movimento attorno a loro, convinti che l’unica interiorità possibile fosse la propria, e che la vita fosse un romanzo di cui essi erano i narratori onnipotenti e onniscienti. Questi suonavano forte, ripetutamente, facendoti saltare in aria.

All’estremo opposto, quelli che stavano al mondo sentendosi personaggi inanimati a cui qualche narratore onnipotente regala la vita, quelli in cui qualsiasi guizzo di vita autonoma, qualsiasi momentanea intuizione del fatto che sia possibile stare al mondo senza permesso, generava un’ansia incontenibile. Questi suonavano solo mezza volta, senza premere il pulsante fino in fondo, senza convinzione. Tanto che rischiavi di non sentire il citofono se eri sovrappensiero o se dalla strada arrivava un po’ di rumore.

Stavolta però Oreste sentì un suono diverso. Il prototipo del suono del citofono. Il suono del citofono che meglio rende l’essenza del suono del citofono. Durata, intensità, frequenza di stimolazione della catena di ossicini dell’orecchio interno di chi riceve la citofonata. Tutto perfettamente misurato. Oreste pensò che chi suonava doveva avere per forza studiato, pensato come bussare nel modo più canonico possibile al citofono.

Sui vent’anni. Magro, non alto, non basso. Gli occhi nerissimi. I muscoli della mandibola incapaci di quiete. Indossava pantaloni di velluto a coste larghe e una giacca di tweed irlandese di colore indefinibile.

«La ringrazio per avermi ricevuto così presto.», fece, mentre si accomodava su una delle tre poltroncine Nantucket che Oreste aveva appena acquistato a Ikea. Marco aveva la stessa espressione che probabilmente avrebbe avuto stampata sul viso durante un colloquio di lavoro. Il livello di contrazione di ogni singolo muscolo facciale tarato al millimetro. Una voce perfettamente modulata, ma senza prosodia. Il timbro dell’adulto, ma l’intonazione distaccata del bambino intelligente che recita per l’ultima volta la poesia di Natale davanti a genitori che meditano separazioni e a parenti dilaniati dalla noia.

«Si figuri. È la prima volta che vede uno specialista?»
«No. La prima in assoluto è stata quando i miei genitori mi hanno portato da piccolo da un neurologo. Se ricordo bene fu perché secondo loro avevo una difficoltà nell’apprendimento. Il dottore però non riscontrò anomalie di sorta.»
«Quanti anni aveva più o meno?»
«Otto.»
«Ok. C’è stato qualche altro intervento da allora?
«Sì, una psicoterapia terminata pochi mesi fa.»
«Quanto è durata?»
«Circa un anno e mezzo.»
«In questo caso di chi è stata la decisione di iniziarla?»
«Mia, ma fortemente incoraggiata dai miei dopo quasi un anno che lottavo contro il mio disturbo ossessivo compulsivo
«Posso chiederle come mai è terminata?»
«Mah, col dottore ci siamo lasciati bene. Gli ho detto che volevo provare un approccio diverso perché mi sembrava che nonostante i progressi innegabili fossimo in stallo. Lui ha accettato di buon grado. Ha ammesso onestamente che avevo ragione e mi ha incoraggiato. È proprio lui che mi ha indirizzato a lei.»

La testa di Oreste ebbe un leggero sussulto, gli occhi si socchiusero per un attimo. L’abbozzo del gesto che facciamo quando qualcuno fa finta di darci uno schiaffo. «Quando parla di progressi a cosa si riferisce esattamente?»
«Beh, ecco. All’inizio avevo ossessioni di contagio e di controllo, che sono sparite completamente, anche prima che conoscessi il dottore. Ora le mie ossessioni riguardano la mia capacità intellettuale. Quando leggo qualsiasi cosa che richieda un impegno intellettuale iniziano a venirmi mille dubbi. Il dottore mi ha fatto capire molto bene come funziona il mio disturbo ossessivo compulsivo. È tutto su questo diagramma.»

Tirò fuori dal taschino interno della giacca un foglio ripiegato in quattro e lo aprì mostrandolo a Oreste. Una serie di rettangoli disegnati con una penna nera, collegati da frecce che davano il senso immediato di una successione logica, ovvia. All’interno di ciascun rettangolo c’erano frasi piuttosto articolate. In alcuni rettangoli una sola parola a caratteri cubitali. Lo sguardo di Oreste, appena gli fu messo il foglio davanti, fu catturato dalla parola ANSIA scritta con un pennarello rosso.

Mentre indicava con una penna i collegamenti tra i rettangoli, il tono di Marco diventò professorale, monocorde:
«Come vede il diagramma mostra come appena incontro una difficoltà nella lettura, un passaggio di non immediata comprensione, vengo assalito da pensieri automatici negativi come ‘non sono in grado di capire perché non sono abbastanza intelligente’, ‘se non sono abbastanza intelligente non raggiungerò mai i miei obiettivi e fallirò. Poi mi dico anche ’se mi viene il dubbio di non essere intelligente, evidentemente non lo sono’. La mia ansia è una reazione a questi pensieri. Ed è per tentare di ridurre l’ansia, zittire i pensieri e contrastare l’idea di non essere abbastanza intelligente che rileggo il passaggio che non ho capito la prima volta. Il problema è che l’ansia stessa distoglie l’attenzione dal contenuto del testo. Lo rileggo mentre sono immerso in uno stato di paura, e mentre altri pensieri mi dicono ‘e se non capisco nemmeno questa volta? Vorrebbe dire davvero che non sono intelligente!’. Quindi è ovvio che io non capisca. Mi ritrovo a rileggere dieci volte la frase, e finisco per sentirmi definitivamente scemo per quello che sto facendo, anche per il fatto stesso di leggere ripetutamente la frase. Per questo chiudo il libro, scoraggiandomi definitivamente. Prima è successo con i libri universitari. Tanto che dopo i primi due esami che ho superato a stento, non sono riuscito a darne altri. Per un breve periodo i libri che sceglievo per passione intellettuale mi erano di conforto. Poi il problema si è esteso anche a quel tipo di lettura.»

Nella mente di Oreste passò, rapidissima, l’immagine di se stesso a otto anni curvo sul tavolo della cucina a scrivere. Ricordò un pomeriggio di inverno con la pioggia che cadeva fitta, obliqua. Suo padre lo aveva preso a scuola, e poco prima, nel breve tragitto tra l’auto parcheggiata e il portone di casa, lo zainetto era caduto in una pozzanghera. I quaderni inzuppati. Oreste aveva deciso di ricopiare alla lettera cinque mesi di compiti sui quaderni di riserva che teneva sempre pronti per emergenze del genere. La scena si fermava lì. Non ricordava altro.

«L’ho ascoltata con molta attenzione, Marco. Conosce il meccanismo del sintomo con grande precisione. Complimenti. Mi ha detto che il dottore le ha insegnato delle strategie per gestire il sintomo. Mi fa capire meglio?»
«Il dottore mi ha spiegato prima di tutto quanto sia importante riconoscere il primo pensiero, quello che avvia il processo dell’ansia – ‘non sono in grado di capire perché non sono abbastanza intelligente’ – e di vederlo come il prodotto della mia mente, qualcosa che può transitare nella mente di chiunque, e semplicemente lasciarlo andare. Non assecondarlo, non vederlo come assolutamente vero. Poi mi ha insegnato una tecnica di respirazione e rilassamento che serve per portare l’attenzione sul corpo e sul momento presente, in modo da distoglierla dalla tendenza ad assecondare quel pensiero ed evitare che si attivi la catena di pensieri negativi successivi.»

Nel tono di Marco, Oreste coglieva un vago compiacimento. Se alla base della sua angoscia c’era la paura di non capire, e di scoprirsi per questo stupido, capire alla perfezione il meccanismo cognitivo che stava mandando al macero la sua vita, spiegarlo a un terapeuta, esattamente come un terapeuta l’aveva spiegato a lui, sembrava riabilitarlo agli occhi di se stesso. Oreste fu quasi tentato di dirglielo. Di dirgli qualcosa che – per quanto rivestito di garbo – sarebbe suonato in ogni caso come una provocazione insulsa. Qualcosa come curioso che lei abbia tanta paura di non capire i concetti e poi sembri così padrone nel comprendere concetti psicologici complessi. Più o meno così. Giusto per evidenziare quella contraddizione tra la vulnerabilità che chiedeva aiuto e la pedanteria che sembrava ritrattarne il bisogno. Una contraddizione che aveva già acceso la miccia dell’irritazione di Oreste, e aveva appena fatto comparire sul set della sua mente la sua risposta preferita a ogni forma di pedanteria.

La scena di Ricomincio da Tre di Massimo Troisi in cui il protagonista, Gaetano, tenta di convincere Robertino a spezzare le catene dei suoi complessi e del comportamento soffocante della madre. (Oreste aveva sempre pensato che quella scena, di una comicità inarrivabile, avesse un retrogusto amaro. Che il protagonista, Gaetano, che Massimo Troisi stesso, stessero incontrando la versione iperbolica del proprio doppio. Ciò che l’attore sarebbe diventato se il suo talento non l’avesse tratto in salvo).

La voce di Massimo Troisi penetrò nella stanza con la prepotenza di un’allucinazione, tanto che Oreste dovette contrarre sul nascere un sorriso e con esso la tendenza della lingua e della mandibola a partire per recitare la battuta che sapeva a memoria. Robè…tu devi uscire, ti devi salvare, Robè, t’hanno chiuso dint’ ‘a stu’ museo, tu devi uscire, và mmiezo’a strada, tocc ‘e femmene, va a arrubbà, fa chello che vuò tu. La battuta che terrorizza Robertino, che inizia a urlare e chiamare Mammina, mammina!!. Poi, la resa rabbiosa di Massimo Troisi. La frase che ogni essere umano dovrebbe urlare davanti allo specchio almeno una volta nella vita. Ma vafancul’ tu e mammina!!!

Individui come Marco instillavano in Oreste l’impulso a urlarla, quella frase.
Ma vafancul’ tu e il tuo dottore!!!

«Ascolti, Marco, può tornare con la mente a un momento recente in cui ha aperto un libro, qualcosa che la impegnava intellettualmente?»
«Un momento?», disse Marco, l’espressione di legno impercettibilmente deformata dal sollevamento di un sopracciglio.
«Intendo: mi porta su una scena specifica in cui le è comparso il sintomo?»
«Beh, non saprei…Sì…Qualche giorno fa stavo leggendo La grammatica trasformazionale di Chomsky. Mi appassiona molto comprendere come prende forma la capacità linguistica, e la soluzione di Chomsky mi sembra geniale. Lui si è chiesto come mai i parlanti di una lingua sono in grado di produrre e di comprendere un numero indefinito di frasi che non hanno mai udito prima o che addirittura possono non essere mai state pronunciate prima da qualcuno. E risponde mettendo in evidenza l’intrinseca creatività di noi esseri umani. Quella creatività che ci fa generare continuamente nuove frasi, anche senza averle mai sentite prima, sulla base di regole che possediamo in modo innato. Così, riuscendo a creare infinite combinazioni di parole, possiamo dire tutto.»

«Si sente molto che è un argomento che l’appassiona.»

«Mi appassiona soprattutto l’idea chomskyana che la mente contenga principi grammaticali inconsci che la guidano nella produzione del linguaggio. Mi fa pensare che abbiamo in generale dentro di noi, inconsciamente, la capacità di risolvere i problemi che la vita ci pone. Un modo del tutto istintivo, immediato e semplice di fare le cose…Eppure io non ci riesco, complico le cose. Forse ho perso questa capacità. Mi domando se esista una specie di grammatica esistenziale chomskiana che io ho perso definitivamente o forse non ho mai acquisito.»

«Ritorni a quel momento, mentre leggeva il libro. Cosa è successo?»

«Quello che succede sempre…Arrivo a un passaggio un po’ più lungo, magari leggermente complesso. Lo leggo fino in fondo. Alla fine del periodo realizzo che non ho capito bene, quindi ricomincio a leggere la frase dall’inizio. E lì comincio a chiedermi ‘come faccio a essere sicuro che sto veramente capendo il concetto che l’autore vuole esprimere? Chi me la dà la certezza che sto capendo veramente quello che l’autore vuole concettualizzare?’»

Marco fece una pausa. Riaggiustò la posizione sulla poltrona, come se volesse utilizzare al meglio il diaframma e regolare la giusta quantità di aria da emettere a ogni frase. Deglutì e continuò:

«A quel punto mi sale l’ansia. Succede sempre così.»

«In quel momento la possibilità di non aver capito bene il concetto l’ha spaventata?!»

«Sì. E dovevo capire prima possibile.»

«Doveva capire. Prima possibile. E che ha fatto?»

«Leggo e rileggo quella frase. Ma ogni volta, mentre la rileggo, penso sempre più insistentemente ‘chi ti dice che ora hai capito veramente?’. E intanto l’ansia sale, sale. Fino al punto in cui sono costretto a chiudere il libro. Quando mi prende così ho un crollo. Non riesco a uscire più di casa per paura che il problema si presenti anche con le frasi dette dalle persone con cui dialogo. Immagini se un collega di università mi chiedesse ‘andiamo a prendere un caffè?’, e mi venisse il dubbio di non aver capito il significato. Rimarrei lì come uno stupido.»

Oreste annuì lentamente. Poi disse:

«In quel momento, mentre leggeva Chomsky e si è presentato il problema, ha provato a mettere in atto le strategie del dottore?»

«Ci ho provato, ma non ci sono riuscito, anzi…Come le dicevo, solo qualche volta all’inizio ha funzionato. Il sintomo compariva, mi rilassavo, respiravo e mi calmavo. Ma dopo le prime due o tre volte è accaduta la cosa peggiore che potesse accadere. Non so come, ma usare la tecnica insegnatami dal dottore ha innescato una nuova serie di dubbi. Veramente brutti.»

La voce di Marco aveva subito un improvviso rallentamento. La frequenza diminuita di un’ottava. L’espressione del viso attraversata da una smorfia di dolore che indugiò ai lati delle labbra creando due rughe profonde, simmetriche come parentesi tonde.

«Dubbi veramente brutti? Ha cambiato espressione mentre lo diceva. Le va di raccontarmeli?»

«Io…Ecco…Metto tutta la mia attenzione sul respiro, come mi ha insegnato il dottore, e inizio a chiedermi ‘come faccio a essere certo che sto usando la tecnica più efficace per gestire il mio sintomo?’, ‘come faccio a essere certo che anche se è la tecnica più efficace io la stia usando nel modo più efficace o se sarò mai in grado di farlo?’.»

Ci fu una pausa. Una folata di vento fece vibrare leggermente i vetri della finestra che stava accanto alla poltrona di Oreste. La carezza gelida, rapida, raggiunse la sua guancia sinistra. Come ogni volta che succedeva, Oreste pensò che era arrivato il momento di cambiare quegli infissi scadenti.

«Mi dispiace. Tutto questo deve farla sentire senza vie d’uscita.»

Fu proprio in quel momento, quando sentì la sua voce dire ‘Mi dispiace’, che Oreste ricordò il seguito di quel pomeriggio di inverno in cui aveva deciso che l’unica speranza di salvezza fosse ricopiare alla lettera cinque mesi di compiti sui quaderni di riserva. Prima, la sua mano ricordò il dolore per la tensione prolungata nel calcare la penna sul foglio lentamente per non sbagliare. Poi lui si rivide desistere dopo sei ore di lavoro ininterrotto e scoppiare a piangere. Rivide sua madre che era corsa ad abbracciarlo. Gli aveva detto che poteva davvero bastare così, che avrebbe parlato lei con la maestra, risolto tutto, che ora Oreste doveva solo guardarsi un bel cartone. Rivide suo padre portargli la pizza, come faceva sempre quando voleva consolarlo.

E in quell’istante di coscienza esplosa capì anche il perché. Perché quella pizza era la più buona che avesse mangiato in vita sua. E capì il perché di tutto quel bisogno di provare nostalgia, magari passando attraverso l’invidia per Pac-Man.
Indursi la nostalgia era il tentativo di arrivare, per approssimazioni ripetute, al sapore di quella pizza.
Era tutto così semplice. Autoevidente. E ora era vitale che anche Marco capisse.

«Ascolti, Marco. Torniamo per un attimo alla scena in cui lei teme di non capire il testo di Chomsky. Vuole?»
«Va bene.»
«Lei chiude il libro, come mi ha detto. Ora immagini di chiudere il libro con la certezza di non capire. Forse perché è stanco e non ha la solita prontezza nel cogliere i concetti, o forse perché in fondo Chomsky oggi non le piace poi tanto, e leggerlo non è molto diverso da studiare un testo universitario, non so. Fatto sta che sta rinunciando perché oggi proprio i concetti non le entrano in testa. Può provare a immaginarlo veramente?»
Marco sorrise strizzò per un attimo gli occhi come per mettere a fuoco.

«Ok, sì. Sto immaginando.»

«Bene Marco. Ora, che ne pensa di Marco che realizza che non capisce con la prontezza che vorrebbe, che almeno per ora sta rinunciando perché i concetti non gli entrano in testa?»
La fronte di Marco si corrugò.

«Non so…un cretino.»
Appena un fremito nella voce.

«Chi la sta chiamando cretino, Marco?»

«Come dice?»

«Le sto chiedendo, dove è andata un attimo fa la sua mente? Chi la sta chiamando cretino?»

«Mio padre, ma non me la sento di parlarne ora.» disse Marco aprendo gli occhi e abbassando lo sguardo.

«Certo, non si preoccupi. Ci sarà tempo. Ha ricordato qualcosa. Ce ne occuperemo con calma, ma…»

«È strano» – interruppe Marco, lo sguardo fisso sulla mano destra di Oreste – «anche col dottore eravamo arrivati a parlare di mio padre, del fatto che era molto severo ed esigente sul mio rendimento scolastico. Gli avevo anche raccontato che qualche volta mi chiamava cretino se facevo qualche errore. Ma non mi era mai tornata in mente quella scena…»

«Sì. Ha rievocato un ricordo e l’ha rivissuto in prima persona. Quando se la sentirà…»

Marco lo interruppe:

«…Quando ero alle elementari mio padre si metteva sempre vicino a me quando facevo i compiti. In italiano andavo molto bene, e facevo i compiti rapidamente. Ma sulla matematica ero più incerto. Avevo bisogno di ragionarci un po’ su…La maestra ci aveva appena insegnato il metodo per risolvere le divisioni a due o più cifre… Quella volta mi bloccai su una divisione. Me la ricordo quella divisione. Cinquecentosettantasei diviso otto. Rimasi bloccato. Lui si innervosì. Ripeteva, sempre più arrabbiato, ‘allora, si abbassa il 57, quindi quanto fa 57 diviso otto?’…Non so perché, ma anche se nella mente mi ripetevo sette per otto cinquantasei, sette per otto cinquantasei…non riuscivo a scrivere il sette sotto la linea del risultato e a riportare il resto di uno. In quel momento, non so come spiegarglielo meglio, ma era semplicemente inconcepibile che ci fosse il resto di uno…Lui chiuse il quaderno con un gesto che ricordo molto calmo e mi disse ‘sei un cretino’. Anche la voce era calma, come se chiamarmi cretino fosse stata una rivelazione per lui, che lo avesse fatto rassegnare e calmare.»

Si fermò. Oreste avvertì la connessione elettrica tra il tremore fine della propria mandibola e l’imminenza delle lacrime di Marco.
«Marco, ascolti, lei ha fatto già un percorso utile. Ha imparato tanto sul suo sintomo e sul suo funzionamento psicologico. Non le darei nulla di più entrando anche io nel merito. Voglio invece dirle la cosa che più mi colpisce in ciò che mi ha detto.»

Oreste attese che Marco annuisse, poi continuò:

«Il suo sintomo si basa su un dubbio su se stesso, sul non essere abbastanza intelligente. Il dubbio di essere cretino. Stiamo vedendo che questo dubbio ha probabilmente origine da scene vissute in cui la persona da cui avrebbe voluto essere apprezzato e amato le dava l’impressione di essere profondamente deluso da lei se solo aveva qualche incertezza, se aveva semplicemente bisogno di un po’ di tempo per capire. E non è tutto. In quei momenti durissimi per lei in cui è assalito da questo dubbio dolorosissimo, c’è una parte vulnerabile di lei che desidererebbe ricevere conforto, comprensione. C’è il bisogno che abbiamo tutti di un altro che ci sia per noi. Quel momento di vulnerabilità invece è affrontato da lei come un problema di matematica. È qualcosa che si deve risolvere efficacemente, con la migliore strategia possibile. Il problema è che lei, anche quando ha più bisogno di non essere solo, è completamente solo. La sua mente non contempla la possibilità di essere aiutato nei momenti in cui è più vulnerabile da un altro accogliente e comprensivo. L’altro è solo qualcuno che le fornisce una strategia che lei dovrà utilizzare da solo.»

Marco rimase in silenzio.

Guardava Oreste con gli occhi umidi di lacrime che sembravano chiedere il permesso di scendere.

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia – 04

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La sintonizzazione affettiva in psicoterapia come strumento di cambiamento

Obiettivo dell’articolo è quello di analizzare uno specifico aspetto della relazione, ossia il processo di sintonizzazione affettiva e riflettere sul potere che essa può assumere, sia in quanto strumento di conoscenza, che di cambiamento.

Lorenza Gabrielli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle (Stern, 2005, p.64)”.

È opinione diffusa che la psicoterapia non sia solo la “terapia della parola”, ma come, in quanto relazione profonda e significativa, possa esplicarsi a livello implicito, poggiando su aspetti che vanno al di là delle verbalizzazioni e che richiedono al terapeuta la capacità di utilizzare la relazione stessa come strumento di lavoro. Nuove prospettive terapeutiche mettono in evidenza come non siano solo le parole la chiave per la modifica dei contenuti mentali disfunzionali alla base della sofferenza psichica (Tarantino & La Mela, 20013), ma che la relazione stessa offra le possibilità di vivere esperienze correttive, fondamentali sia per il cambiamento che, per costruire quelle condizioni di base che possono rendere più efficaci i vari interventi psicoterapeutici.
Obiettivo dell’articolo è quello di analizzare uno specifico aspetto della relazione, ossia il processo di sintonizzazione affettiva e riflettere sul potere che essa può assumere, sia in quanto strumento di conoscenza, che di cambiamento.

La sintonizzazione affettiva nella relazione madre-bambino

Il concetto di sintonizzazione affettiva è stato sviluppato principalmente all’interno della precoce relazione madre-bambino (Stern, 1985; Tronick, Bruschweiler-Stern, Harrison, Lyons-Ruth, Morgan, Nahum, et al., 1998; Jonsson, Clinton, Mazzaglia, Novak, & Sörhus, 2001). Osservando una madre ed un neonato che interagiscono, si rimane immediatamente meravigliati, da come lo scambio non riguardi parole o pensieri, ma stati affettivi che vengono mutualmente condivisi e regolati, quasi come una danza armoniosa, che porta il neonato ad integrare e regolare i propri stati e le proprie sensazioni verso livelli di maggiore complessità, alla conquista della propria identità ed integrità.

Nello specifico, l’osservazione precoce dello scambio interattivo di questa diade ha portato a chiedersi in che modo la madre riesca a comunicare al proprio figlio non solo che ha capito i suoi segnali, ma che ha colto il vissuto emotivo sottostante a quel comportamento e lo utilizza per regolare lo stato affettivo dell’altro. Secondo Stern (2005) il processo chiave che permette questo tipo di comunicazione è proprio la sintonizzazione affettiva, un processo trasmodale, continuo e, in parte, inconsapevole che permette di condividere gli stati affettivi. Pur prendendo le mosse dal processo di imitazione, che caratterizza i bambini fin dalle primissime settimane di vita (Melzoff & Moore, 1977) e che permette loro di coordinare il proprio comportamento a quello del caregiver sulla base dell’interpretazione dei comportamenti visibili, la sintonizzazione appare un processo qualitativamente diverso che, a partire dagli 8 mesi, permette una connessione profonda degli stati affettivi. Studi successivi (Jonsson et al., 2001) hanno dimostrato come il passaggio dal processo imitativo a quello di sintonizzazione affettiva avvenga già a partire dal sesto mese di vita e che si tratti di un processo transculturale ed innato.

Gli studi di Tronick et al. (1998), rendono evidenti gli effetti negativi che la mancata sintonizzazione affettiva può determinare. Se viene chiesto ad una madre di mantenere un’espressione del volto neutra e cercare di non rispondere alle sollecitazioni del bambino, quest’ultimo ne appare subito turbato: cercherà inizialmente di attirare l’attenzione della madre, di sollecitare in lei una risposta, ma se anche questi tentativi falliranno, distoglierà l’attenzione e mostrerà uno stato di forte disagio. Il processo è chiaramente esplicato nel classico esperimento eseguito con il paradigma dello Still Face.

https://www.youtube.com/watch?v=apzXGEbZht0

Come sottolinea Tronick et al. (1998), singoli momenti di mancata sintonizzazione nella relazione diadica sono normali e non determinano di per sé effetti negativi sullo sviluppo, purché l’individuo possa comunque vivere esperienze di riparazione e sintonizzazione. Tali esperienze sembrano rappresentare la base per lo sviluppo di un attaccamento sicuro tra madre e bambino, oltre a favorire un senso di benessere e di crescita verso la resilienza (Siegel, 2013). Nel momento in cui un neonato vive l’esperienza di una sintonizzazione all’interno di un sistema diadico, la sua mente raggiunge stati di maggiore coerenza e arricchimento e quest’esperienza di connessione fornisce la sensazione di “essere visti” e di sentirsi al sicuro.
Se questo avviene nella precoce relazione diadica madre-bambino e offre la possibilità di sviluppare stati mentali di maggior integrazione, una maggior regolazione e sicurezza emotiva, in che modo può essere utile all’interno del processo psicoterapico?

La sintonizzazione affettiva nella relazione terapeutica: uno strumento di conoscenza

La possibilità di sintonizzarci sugli stati affettivi dell’altro, ci offre uno strumento di conoscenza molto potente, che va al di là delle parole e che ci permette di entrare in contatto profondo con gli stati affettivi dell’altro.

Secondo Siegel (2013) il modo in cui un terapeuta porta se stesso in connessione con il proprio paziente rappresenta uno dei fattori cruciali che può spiegare il motivo per cui le persone rispondono positivamente agli sforzi terapeutici; il terapeuta stesso con la sua presenza, e con la sua capacità di mantenere la mente aperta a flussi di informazione che vanno al di là delle parole e con un continuo monitoraggio dei propri stati interiori, diventa esso stesso strumento di cambiamento. Secondo l’autore la sintonizzazione affettiva presenta due principali dimensioni: il lato fisico, che implica la capacità di prestare attenzione non solo alla dimensione verbale, ma a tutti quei segnali non verbali, come il contatto visivo, l’espressione del volto, il tono della voce, la postura, i movimenti del corpo, i tempi e l’intensità delle risposte, e il lato soggettivo, ossia la risonanza che questi segnali hanno in noi e che permettono di vedere profondamente il nostro interlocutore e di offrire a lui l’esperienza di “sentirsi sentito” (Siegel, 2013 p.29). Ciò richiede una sorta di elaborazione implicita, che va al di là delle parole e del ragionamento verbale e che per tal motivo richiede al terapeuta la capacità di rimanere “aperto” all’altro e a se stesso, attento al momento presente e a tutto quel flusso continuo di informazioni in entrata, che avvengono nel qui ed ora senza lasciare che idee preconcette distolgano l’attenzione.
Ma come avviene questo? In che modo il terapeuta può, con la sua presenza, offrire al paziente l’esperienza di “sentirsi sentito”?

Le basi neurobiologiche della sintonizzazione affettiva

Le neuroscienze possono offrirci una spiegazione di questo processo: seppur la ricerca sia ancora solo all’inizio, la scoperta dei neuroni specchio ha offerto le basi fisiologiche per la comprensione del processo di sintonizzazione. Il nostro sistema nervoso sembra aver plasmato un canale affettivo diretto, che ci permette di entrare in risonanza con l’altro; come sottolinea Stern: “Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle (Stern, 2005, p.64)”.

I neuroni specchio rappresentano un particolare tipo di cellule della nostra corteccia cerebrale che si attivano non solo quando eseguiamo un certo atto motorio finalizzato ed intenzionale (ad esempio afferrare), ma anche quando osserviamo un’altra persona compiere quelle stesse azioni. Ciò significa che, nel momento in cui osserviamo un’altra persona compiere un atto motorio finalizzato ed intenzionale, si attiva in modo automatico la stessa rete neurale che si attiverebbe se fossimo noi a compiere effettivamente quell’azione (Gallese, 2001); tale meccanismo ci permette quindi di comprendere l’intenzionalità di un atto motorio altrui (Tarantino & La Mela, 2013).

Alcuni studiosi (Gallese, 2001; Carr, Iacoboni, Debeau, Mazziotta & Lenzi, 2003; Iacoboni, 2008) sostengono che i neuroni specchio sono essenziali anche per spiegare il modo in cui ci sintonizziamo con gli stati interni degli altri. Nello specifico Gallese (2001) parla di “simulazione incarnata” (embodied cognition) per definire quel processo di riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, degli stati mentali dell’altro, che vengono compresi perché sono condivisi a livello neurale.

Iacoboni (2008) sostiene che le aree dei neuroni specchio ci aiutano a comprendere le emozioni dell’altro attraverso una sorta di imitazione o simulazione interna dell’espressione facciale osservata. Quando osserviamo l’espressione emotiva facciale del nostro interlocutore, i neuroni specchio, attraverso l’insula, inviano dei segnali al sistema limbico, che a sua volta produce in noi la sensazione dell’emozione osservata (simulazione). L’insula nuovamente raccoglierebbe le informazioni corporee e le porterebbe all’insula posteriore che registra gli stati corporei nella corteccia, ma non nelle aree prefrontali. Tale processo ci permetterebbe di avere una percezione corticale dello stato del corpo, pur senza consapevolezza (Siegel, 2013).

Ma se la sintonizzazione affettiva passa attraverso una sorta di imitazione interna dell’espressione facciale, come facciamo a non confondere le nostre reali sensazioni da quelle che osserviamo negli altri? Come facciamo a non rimanere coinvolti in uno stato di confusione emotiva senza confini io-tu?

Solamente nell’uomo sembra che l’attivazione dall’insula posteriore venga trasmessa a quella anteriore la quale, connessa con le regioni prefrontali mediali e del cingolato anteriore, ci porta ad avere una rappresentazione secondaria (ossia una rappresentazione della rappresentazione posteriore), che ci permette di mantenere un certo distacco dal senso diretto del corpo e di averne consapevolezza (enterocezione) (Siegel, 2013); tale processo offrirebbe quindi la possibilità di conoscere in profondità lo stato emotivo dell’altro, pur non confondendoci con esso. Ecco come “un atteggiamento del terapeuta mirato al costante sintonizzarsi sulle espressioni corporee e in particolare facciali del paziente” (Tarantino & La Mela, 2013 p. 257) ci permetterebbe di conoscere lo stato affettivo dell’altro.

La sintonizzazione affettiva nella relazione terapeutica: uno strumento di cambiamento

Abbiamo fin qui visto come la sintonizzazione affettiva possa rappresentare un potente strumento che, poggiando su meccanismi neurali, ci permette di conoscere ed entrare in profondo contatto con i vissuti dell’altro. Si tratta di uno strumento potente e come tale va utilizzato con consapevolezza. Cosa succederebbe infatti se la madre nel video di Tronick, dopo essersi sintonizzata con il figlio scoppiasse anche lei in lacrime in seguito all’attivazione dei suoi neuroni specchio? Che utilità potrebbe avere un terapeuta che si dispera con il proprio paziente, o che si arrabbia con esso in risposta ad eventuali attacchi di quest’ultimo?

Per rispondere a questa domanda è bene considerare come il processo simulazione incarnata (Gallese, 2001) faccia parte dell’essere umano e pertanto è sempre bidirezionale: terapeuta e paziente si influenzano costantemente in modo reciproco.

Nuovamente l’esempio della relazione madre- bambino ci può essere utile: nel momento in cui un neonato esprime un determinato stato mentale, la madre, sintonizzandosi con esso, reagisce nei suoi confronti; quando le madri si sintonizzano con il loro bambino, si attiva anche un’altra area corticale denominata pre-SMA che permetterebbe loro non solo di rispecchiare le emozioni, ma di attivare anche una serie di progetti motori allo scopo di interagire con il figlio nel modo più efficace (Iacoboni, 2008). L’osservazione da parte del bambino della reazione della madre attiva a sua volta in lui una simulazione automatica del comportamento della stessa. Se la relazione della madre è sintonica con lo stato del bambino, quest’ultimo avrà la possibilità di dare continuità e coerenza ai propri stati mentali, e ciò avrà influenze positive sul suo sviluppo.

Allo stesso modo il terapeuta non rispecchia letteralmente gli stati mentali del paziente ma dà risposte empatiche congruenti che offrono al paziente la possibilità di vedere ed internalizzare la risposta modulata, aiutandolo a regolare, comprendere e trasformare l’esperienza emotiva; in poche parole il paziente esperisce se stesso rappresentato con sicurezza nella mente del terapeuta (Gallese, 2001). Come sottolineano Tarantino e La Mela (2013) ciò potrebbe fornire una prima base neurobiologica di come le emozioni, anche in psicoterapia, siano segnali comunicativi capaci di attivare in sè e nell’altro piani comportamentali impliciti e scopi evoluzionisticamente significativi, e ciò potrebbe essere in sintonia con altre teorizzazioni relative allo scambio relazionale, quali ad esempio la teoria dei sistemi motivazionali (Liotti, 2014).

Conclusioni

In questo breve articolo si è cercato di analizzare una piccola, ma potente componente della relazione terapeutica, ossia la sintonizzazione affettiva, osservandone le basi neurobiologiche e il significato evolutivo che essa assume nella relazione madre- bambino. Come abbiamo visto la sintonizzazione affettiva avviene all’interno di scambi comunicativi ricchi, in larga misura al di fuori della consapevolezza e quasi in modo automatico e, in questo, si distingue dall’empatia, che richiede invece la mediazione di processi cognitivi (Inzani, Cazzaniga, Martelli, & Salina, 2004)

Poggiando su aspetti così fondanti dell’esperienza umana e meccanismi non verbali è bene sottolineare come si tratti di un processo che richiede al terapeuta una profonda capacità di ascolto, di focalizzazione sul momento presente e di conoscenza di se stesso, per utilizzarla come strumento terapeutico e per evitare di rispondere in modo automatico e inconsapevole al paziente, con il rischio di perpetuare le sue esperienze problematiche.

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