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Il ruolo del perfezionismo e del workaholism nella sindrome del burnout: uno studio sperimentale – Riccione, 2017

Il ruolo del perfezionismo e del workaholism nella sindrome del burnout: uno studio sperimentale 

Carlucci Chiara, D’Alessandro Rina, Di Ridolfo Giorgia, Solomita Marianna Aurora,
Lorenzini Roberto, Mezzaluna Clarice, Tripaldi Simona (*)
(*) Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo – Comportamentale, Milano, Sede di San Benedetto del Tronto (AP)

 

Una serie di ricerche dimostra che il costrutto multidimensionale del Perfezionismo e la Workaholism siano precursori del Burnout, rilevando un effetto mediazionale della Workaholism nella relazione tra Perfezionismo e Burnout. Sembrerebbe infatti che i perfezionisti abbiano più probabilità di diventare dipendenti dal lavoro rispetto ad altri, e i maniaci del lavoro possiedano un rischio di sviluppare Burnout superiore rispetto ad altri (Taris, 2010).

Scopo del lavoro è lo studio del tratto multidimensionale del Perfezionismo in relazione a due patologie lavorative: Workaholism e Burnout.
Nello specifico si intende indagare: le relazioni presenti tra Perfezionismo, Workaholism e Burnout; il ruolo predittivo di Perfezionismo e Workaholism sul Burnout; se l’associazione tra Perfezionismo e Burnout sia mediata dalla Workaholism.

Il campione è costituito da 295 lavoratori di aziende e ospedali; fascia d’età compresa tra i 20 e i 60 anni.

Ogni soggetto ha compilato i seguenti test: Stress Burnout Inventory (SBI), Multidimensional Perfectionism Scale (MPS), Work Addiction Risk (WART), State Trait Anxiety Inventory – Ansia di Stato (STAI), Beck Depression Inventory-II (BDI-I).

Nell’esaminare i dati sono state elaborate analisi di correlazione, regressione e mediazione.

I risultati evidenziano le correlazioni positive del Burnout con tutte le altre variabili in esame, confermando in questo modo la prima ipotesi della ricerca.

Le analisi predittive confermano una predizione positiva della Workaholism sul Burnout, mentre, rispetto al Perfezionismo, si rileva che l’unica sottoscala predittrice è “Critiche genitoriali”. Inoltre le analisi mediazionali, oltre a confermare il ruolo mediatore della Workaholism tra Perfezionismo e Burnout, mettono in luce un effetto diretto e indiretto della sottoscala “Critiche Genitoriali” sul Burnout.

In linea con le ricerche precedenti, lo studio ha messo in rilievo le relazioni significative del Burnout con Stress, Ansia e Depressione, confermando il ruolo predittivo del Perfezionismo (con particolare riferimento alla variabile delle “Critiche Genitoriali”) sullo sviluppo del Burnout, e l’effetto mediazionale della Workaholism nella relazione tra Perfezionismo e Burnout (Taris, 2010).

I dati emersi consentono di ipotizzare che un soggetto con una storia di criticismo genitoriale potrebbe essere maggiormente predisposto, in contesti lavorativi stressanti e con un carico di lavoro eccessivo, a sviluppare una delle sindromi oggetto dello studio.

 

Che c’è di male nel sentirsi speciali? Trasformare il narcisismo in un vantaggio per sé e per gli altri (2016) di Craig Malkin – Recensione del libro

A quanto pare siamo nel pieno di una “epidemia di narcisismo ”, nel libro Che c’è di male nel sentirsi speciale l’autore Craig Malkin ci aiuta a superare ciò che vi è di male, e ad abbracciare ciò che vi è di buono, nel sentirsi speciali.

 

Nel libro “Che c’è di male nel sentirsi speciale” l’autore Craig Malkin ci aiuta non solo a comprendere le persone che ci circondano (quelle con cui vivete e lavorate) e a trattare con loro, ma anche aiutare a comprendere meglio noi stessi. Il libro è di ottimo aiuto a superare ciò che vi è di male, e ad abbracciare ciò che vi è di buono, nel sentirsi speciali.

Il libro si suddivide in tre sezioni: la prima descrive cos’è il narcisismo, la seconda descrive le origini del narcisismo e la terza descrive come riconoscere ed affrontare il narcisismo.

Chiunque usa la parola narcisismo: l’uomo della strada, attori, critici sociali, terapeuti, un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, il Papa. A quanto pare siamo nel pieno di una “epidemia di narcisismo” ed è facile vedere perché il termine sia onnipresente. Nulla fa parlare di più la gente di una malattia che si va diffondendo, specialmente se, come sembra temere Ben Affleck, la condizione è terminale.

 

Il narcisismo: distruttivo o funzionale?

Ma che cosa significa esattamente narcisismo? Per una parola che viene infilata nei discorsi con tanta frequenza e tanta paura, la sua definizione sembra vaga in modo preoccupante. Colloquialmente, è diventata poco più di un insulto popolare: si riferisce a un senso eccessivo di sé, ammirazione di sé, centratura su di sé, egoismo, importanza solo di sé.

La stampa è probabile che affibbi questa descrizione a qualsiasi celebrità o qualsiasi politico i cui tentativi di farsi pubblicità o le abitudini egoistiche siano finiti fuori controllo. Ma è tutto qui il narcisismo? Vanità? Ricerca dell’attenzione? Anche negli ambienti della psicologia il significato è fonte di confusione. Il narcisismo può essere un tratto sgradevole ma comune della personalità, o un disturbo raro e pericoloso della salute mentale. Ma facciamo attenzione, perché fra i ricercatori nel campo della salute mentale c’è una forte inclinazione a pensare che non debba essere affatto da considerare una malattia.

Il narcisismo può essere dannoso, è vero, e il web è pieno di articoli e blog di persone che hanno sofferto a causa di individui estremamente narcisisti: amanti, partner, genitori, fratelli e sorelle, amici e colleghi. Le loro storie sono commoventi quanto spaventose. Ma questa è solo una piccola parte del narcisismo, non il quadro completo. Oggi, invece, ha cominciato a emergere una nuova sorprendente concezione, che mette in luce tutti i modi in cui il narcisismo sembra anche aiutarci. Offre addirittura qualche speranza di cambiamento quando le persone che amiamo corrono il rischio di scomparire in se stesse per sempre.

Il narcisismo è più di una macchia ostinata del carattere, di una grave malattia mentale o di una malattia culturale in via di rapida diffusione, trasmessa dai social media. Assumere che si tratti di un problema non ha più senso che farlo se parlassimo di battito cardiaco, di temperatura corporea o di pressione sanguigna. Perché, in effetti, è una tendenza umana normale e pervasiva: l’impulso a sentirsi speciali.

Negli ultimi venticinque anni circa, gli psicologi hanno compilato enormi quantità di dati empirici in base ai quali la maggior parte delle persone sembra convinta di essere migliore di quasi tutti gli altri sulla faccia della Terra. Questo può portarci solo a una inevitabile conclusione: il desiderio di sentirsi speciali non è uno stato mentale riservato a rompiscatole arroganti o sociopatici.

Si è scoperto che chi si vede migliore della media è più felice, più socievole e gode spesso di una migliore salute fisica dei suoi simili più umili. La baldanza nella sua andatura è associata a una serie di qualità positive, come creatività, leadership, grande autostima, che possono favorire il successo nel lavoro. L’immagine rosea che ha di sé gli dà sicurezza e lo aiuta a far fronte alle difficoltà, anche dopo un fallimento devastante o una perdita orribile.

Sentirsi speciali sembra aiuti anche chi sopravvive a una tragedia ad affrontare il futuro con minore paura e maggiore speranza (indagine effettuata con i sopravvissuti alla tragedia dell’11 settembre) Risulta vero anche il contrario: le persone che non si sentono speciali spesso soffrono di depressione e ansia; è anche meno probabile che ammirino i loro partner. Non è che la loro visione del mondo sia sbagliata; molto spesso è molto più accurata rispetto a quella di persone che hanno un’alta opinione di sé. Ma sacrificano, per quel realismo, la loro felicità; vedono se stesse, i propri partner e il mondo stesso in una luce un po’ più offuscata. I ricercatori lo definiscono l’“effetto più-triste ma più-saggio”. È un’ironia della sorte, in un certo senso: è il contrario di quel che ci è stato insegnato sul narcisismo. Non è un male, ma un bene sentirsi un po’ migliori dei nostri simili, sentirsi speciali.

In effetti, potremmo averne bisogno. Dove comincino i problemi (se il narcisismo sia dannoso o aiuti, se sia sano o malato) dipende totalmente dal grado in cui ci sentiamo speciali.

Il narcisismo, a quanto pare, copre un ampio spettro di gradazioni. Se moderato può aprire la nostra mente e rafforzare il senso del nostro potenziale, ispirando la nostra fantasia e accendendo la passione per la vita. Può addirittura rendere più profondo il nostro amore per familiari, amici e partner. Il fattore di gran lunga più potente per prevedere il successo nelle storie d’amore è la tendenza a vedere i partner come migliori di quel che sono in realtà. Lo definisco “sentirsi speciali per associazione”.

Recentemente due psicologi, Benjamin Le dello Haverford College e Natalie Dove della Eastern Michigan University hanno passato in rassegna oltre cento studi che riguardavano un totale di circa quarantamila persone impegnate in relazioni sentimentali e hanno trovato che la durata di una coppia dipendeva spesso non dal fatto che i partner avessero personalità vincenti, una solida autostima o sentimenti di vicinanza, ma dal fatto che una o entrambe le persone avessero illusioni positive, cioè che vedessero il partner come più intelligente, più talentuoso e più bello di quanto non fosse secondo un metro oggettivo.

Credere di tenere per mano la persona più stupenda che ci sia nella stanza fa sentire speciali anche noi.

Un narcisismo moderato può rafforzare l’amore, ma se diventa troppo può diminuirlo o addirittura distruggerlo. Chi sviluppa una dipendenza dal sentirsi speciale diventa presuntuoso e arrogante. Smette di pensare che il partner sia la persona migliore o la più importante nella stanza, perché ha il bisogno di pretendere per sé quella qualifica. E perde la capacità di vedere il mondo da qualsiasi altro punto di vista che non sia il proprio.

Questi sono i veri narcisisti e, nei casi peggiori, esibiscono anche due altri tratti di una cosiddetta “triade oscura”: una totale mancanza di rimorso e una propensione per la manipolazione. Il pericolo, quindi, è in agguato verso le estremità della scala del narcisismo. Solo nel mezzo, dove il bisogno di emergere fra sette miliardi di altri esseri umani non ci rende ciechi ai bisogni e ai sentimenti degli altri, stanno la salute e la felicità. Come la maggior parte delle cose nella vita, un narcisismo sano si riduce al trovare il giusto equilibrio. Al cuore del narcisismo sta un antico dilemma: quanto dobbiamo amare noi stessi e quanto dobbiamo amare gli altri? Il saggio e studioso ebreo Hillel il Vecchio riassumeva il dilemma in questo modo: “Se non sono per me stesso, chi sono? E se sono solo per me stesso, allora che cosa sono?”. Per rimanere sani e felici, abbiamo tutti bisogno di investire in una certa misura in noi stessi. Abbiamo bisogno di una voce, di una nostra presenza, per avere un impatto sul mondo e sulle persone intorno a noi, altrimenti, alla fine diventiamo nulla

 

Varietà di “specialità”: narcisisti estroversi, introversi e altruistici

Senza dubbio abbiamo incontrato qualche narcisista estroverso: è il tipo di narcisista di cui si sente spesso parlare, quello di cui tanto si discute. Sono persone chiassose, vanitose e facili da individuare. Sbandierano la loro ricchezza e quel che possiedono, si affannano per essere al centro dell’attenzione in ogni occasione, lottano incessantemente per salire nella gerarchia del luogo in cui lavorano. Il narcisismo però si manifesta anche in altri modi. Una spinta intensa a sentirsi speciali può produrre due altri tipi di comportamento narcisistico: quello introverso e quello altruistico. I narcisisti introversi (o “vulnerabili” o “nascosti” o “ipersensibili”), come ogni altro narcisista, sono convinti di essere meglio degli altri, ma temono così visceralmente le critiche da sfuggire le persone e l’attenzione, quasi vittime del panico. La loro timidezza e riservatezza esteriore fanno sì che vengano facilmente scambiati per persone ritrose.

Credono di possedere un’intelligenza non riconosciuta e talenti nascosti; si vedono come più bravi a comprendere le complessità del mondo che li circonda, più in sintonia con quelle complessità. Quando devono definirsi, si dichiarano concordi con affermazioni come Sento di essere diverso per temperamento dalla maggior parte delle persone. Agli occhi di un osservatore appaiono fragili e ipersensibili. Nel corso di una conversazione, è facile che si agitino subito per una parola fuori posto, per un cambiamento di tono o per un breve allontanamento dello sguardo e chiedano Che cosa volevi dire? o Perché ti sei girato? Nei narcisisti introversi vi è una forma di rabbia: un ribollire di amarezza per il “rifiuto” del mondo a riconoscere i loro doni speciali.

I narcisisti altruisti, non sono concentrati sull’emergere, sull’essere lo scrittore più bravo, il ballerino più dotato o il genio più incompreso o trascurato. Si considerano invece particolarmente attenti, comprensivi ed empatici. Dichiarano con orgoglio quanto devolvono in opere di beneficenza o quanto poco spendono per sé. Vi chiudono in un angolo durante una festa e vi dicono in confidenza, tutti eccitati, quanto si sono dedicati al loro vicino in lutto: Io sono così, sono nato per ascoltare! Si credono migliori del resto dell’umanità, ma amano il loro status di persone che danno, non che prendono. Sono d’accordo con affermazioni come Sono la persona più disponibile che conosco e Sarò famoso per le buone azioni che ho compiuto. Come si può vedere, non tutti i narcisisti si presentano allo stesso modo. Ricordiamoci però: nonostante tutte le differenze, condividono tutti una motivazione dominante, ciascuno è disperatamente avvinghiato al sentirsi speciale. Semplicemente, lo fa in modi diversi.

 

Da 0 a 10: le varietà del narcisismo

Invece di considerare il narcisismo in termini di tutto o nulla, immaginiamo un segmento che va da 0 a 10 con il desiderio di sentirsi speciali che cresce progressivamente nel passaggio da sinistra a destra.

 

La “scala” del narcisismo

Che c e di male nel sentirsi speciali Trasformare il narcisismo in un vantaggio per se e per gli altri (2016) di Craig Malkin - Recensione del libro

 

I due estremi, 0 e 10, non sono punti in cui la vita sia particolarmente sana. A 0 le persone non godono mai della sensazione di essere speciali in qualche modo. Forse non l’hanno mai provata. A prima vista, potrebbe sembrare sano. Alla maggior parte di noi è stato inculcato, o per motivi religiosi o familiari o culturali, che qualsiasi cosa anche lontanamente si avvicini al desiderio di un trattamento o di un’attenzione speciale è male.

Il nostro disgusto è riassunto dalla domanda: Che cosa ti renderebbe così speciale? Riconosciamo tutti il rabbuffo nella domanda retorica. Quello che si vuol dire realmente è Ti stai comportando come se fossi speciale. Smettila! Nella maggior parte delle culture in tutto il mondo spesso l’umiltà è considerata il massimo della virtù. Nessuno ha il diritto di sentirsi speciale in alcun modo, si arguisce, perciò dobbiamo onorare le persone che non vi indulgono mai, questo significa realmente: totale mancanza di stima di sé, senso di pura ordinarietà, timore di non meritare elogi, amore o attenzione più di altri, quali che siano le circostanze. Non ci vuole molto per capire che da qui ha origine una serie di problemi. Vivere allo 0 significa che non solo non accettereste simpatia e assistenza, ma che potreste addirittura respingerle. La vita all’altro estremo è altrettanto misera. Mentre chi si trova allo 0 evita costantemente le luci della ribalta, chi si colloca all’estrema destra della scala si dà continuamente da fare per essere sotto i riflettori oppure lo desidera ardentemente, anche se senza clamore. Nella sua mente smette di esistere quando gli altri non riconoscono la sua importanza. È dipendente dall’attenzione e, come per molti altri casi di dipendenza, farebbe di tutto per avere la sua dose, così anche l’amore autentico viene in seconda istanza.

Al punto 10 la nostra umanità collassa sotto il peso della posa vuota e dell’arroganza. Trovarsi a 10 a 9 non è molto meglio. Chi è a 9 è ancora nei domini del narcisismo oscuro: può vivere senza sgomitare per arrivare sotto i riflettori, ma a costo di grande sofferenza, tanto che normalmente ha bisogno di un aiuto professionale per rompere quell’abitudine. Le persone a 1 soffrono altrettanto: la loro avversione a sentirsi speciali è comunque senza cedimenti. Possono tollerare un po’ di attenzione in occasione del loro compleanno, ma la odiano. Avvicinandoci a 2 e 3, 7 e 8 lungo la scala, ci lasciamo alle spalle la rigidità compulsiva che si trova nei pressi di 0 e 10 ed entriamo nell’area dell’abitudine. In questa zona la flessibilità dei sentimenti è maggiore e di conseguenza vi sono maggiori possibilità di cambiamento. A sinistra, a 2, le persone amano sentirsi speciali, anche se non molto spesso; a 3 possono anche avere, nel loro intimo, sogni di grandezza. Sulla destra, a 8, ogni tanto possono mettere da parte i loro sogni fiammeggianti e darsi pensiero di altre persone; a 7 hanno iniziato di nuovo a dare segni di umanità, ogni tanto riescono anche ad ammettere di aver commesso errori comuni.

L’intervallo più sano è al centro, fra 4 e 6: questo è il mondo della moderazione. Anche qui si possono trovare ambizioni intense e ogni tanto l’arroganza, ma il sentirsi speciali non è più compulsivo, è solo divertente. A 5, proprio al centro, non c’è il bisogno costante di sentirsi (o di evitare di sentirsi) speciali. Qui le persone nutrono sogni vivaci di successo e grandezza, ma non ci sguazzano per tutto il tempo. Il 6 rimane comunque nell’intervallo sano: è perfettamente possibile avere un forte impulso a sentirsi speciali e rimanere comunque sani. Il narcisismo sano sta tutto nel passare senza soluzione di continuità fra l’egoismo e l’attenzione altruistica (far visita allo stagno di Narciso, ma mai tuffarsi fino in fondo per inseguire il proprio riflesso).

 

Aspetti demografici: età, genere, carriera

Il narcisismo è più diffuso fra i giovani: le persone che hanno meno di venticinque anni sono tendenzialmente le più narcisiste, mentre l’impulso a sentirsi speciali diminuisce con il passare degli anni.

Nella maggior parte delle società, le donne vengono criticate se sono loquaci e decise, mentre quelle stesse qualità sono incoraggiate negli uomini. Non sorprende quindi che vi sia una leggera differenza nel narcisismo abituale e una forte differenza, invece, in quello di tipo dipendente. Per una donna, una cosa è avere estrema fiducia in sé ed essere ipercompetitiva, ma l’essere tremendamente arrogante e aggressiva si allontana drasticamente dalle idee comuni di come una donna debba comportarsi.

Il narcisismo altruistico sembra equamente distribuita fra uomini e donne. I narcisisti altruistici possono credere dentro di sé di essere i genitori più bravi, i migliori amici o i più umanitari del mondo, oppure salire sul palcoscenico e gridarlo a tutti. Gli uomini sono più numerosi fra i più espliciti, mentre le donne superano gli uomini nel campo dei più silenziosi, ma nel complesso le differenze di genere sono poche. Cosa interessante, anche i narcisisti introversi sembra siano distribuiti abbastanza equamente fra i sessi.

Esistono professioni che sembrano esercitare un’attrazione magnetica su persone che appartengono a particolari livelli dello spettro. Quelle più vicine all’estremità superiore della scala tendono a gravitare verso carriere in cui si danno possibilità di potere, apprezzamento e fama. I presidenti degli Stati Uniti, in media, sembra siano più narcisisti della maggior parte dei comuni cittadini, secondo lo psicologo Ronald J. Deluga del Bryant College, che ha usato informazioni biografiche su tutti i presidenti, da George Washington a Ronald Reagan, per dar loro una valutazione in base all’NPI. Come era prevedibile, presidenti con un forte ego come Richard Nixon e Ronald Reagan hanno avuto un punteggio più elevato rispetto a leader più riservati come Jimmy Carter e Gerald Ford, ma quasi tutti sono arrivati a livelli abbastanza elevati da poter essere considerati “narcisisti”. Anche gli psicologi Robert Hill e Gregory Yousey della Appalachian State University hanno studiato le tendenze narcisiste dei politici (presidenti esclusi) e le hanno messe a confronto con quelle di bibliotecari, docenti universitari e religiosi. Ancora una volta i politici si sono classificati più in alto di ogni altro gruppo. Religiosi e professori sono risultati i più sani, i bibliotecari i meno narcisisti.

Le arti dello spettacolo sono un campo che esercita una forte attrattiva sui narcisisti – nulla di cui sorprendersi, visto che si parla di spettacolo; ma anche qui si possono trovare sfumature diverse di narcisismo, se si guarda con particolare attenzione attori e comici, fra le persone di spettacolo, stanno nel mezzo riguardo al narcisismo (le donne sono più narcisiste degli uomini, probabilmente perché l’aspetto è più importante per il loro successo). I musicisti sono i meno narcisisti. E chi sono i più narcisisti? (Rullo di tamburo…) Le stelle dei reality televisivi.

 

Le radici: la formazione di ecoisti e narcisisti

I due fattori più importanti nel determinare quel che diventiamo con il passare degli anni sono la natura e l’ambiente, ma quanto ciascuno dei due fattori contribuisca è argomento di un dibattito lungo e spesso acceso. Quando si parla di narcisismo, però, il jolly è in mano all’ambiente. Tutti noi siamo nati con un impulso a sentirci speciali (fa parte del nostro temperamento innato), ma se finiamo per atterrare sulle ali estreme dello spettro del narcisismo, diventando timida tappezzeria o presuntuosi e vanagloriosi, dipende soprattutto dall’ambiente che ci circonda.

 

L’ambiente che ci circonda ci fa scivolare verso l’alto o verso il basso

La fondamentale esperienza infantile che spinge i bambini troppo in alto o troppo in basso lungo la scala è sempre la stessa: un amore incerto.

Per posizionarsi al centro dello spettro, i bambini devono sentire che, a prescindere dal loro comportamento, possono sempre contare sulla certezza che le persone che li allevano li ascoltino e offrano loro conforto quando si sentono tristi, soli o spaventati. Questo è il carattere distintivo dell’amore sicuro e, quando non ne sono oggetto, i bambini modellano il loro comportamento in modo da cercare di guadagnarsi amore in modi malsani, come andare a caccia di attenzione (narcisisti) o tenersi nell’ombra.

Narcisisti si diventa in vari modi. I genitori che sembra notino o mostrino apprezzamento per i loro figli solo quando emergono (laureandosi a pieni voti, diventando campioni della squadra universitaria o reginette di bellezza) li predispongono a cercare con ogni mezzo applausi e approvazione per il resto della loro vita. Gli estroversi che crescono in queste condizioni è probabile finiscano nel gruppo dei narcisisti che inizialmente sembrano affascinanti ma poi si rivelano sgradevoli se conosciuti più da vicino; gli introversi, invece, possono diventare adulti fragili, che fremono di rabbia o si chiudono a riccio quando le persone non prestano un’attenzione rapita a tutto quello che dicono.

Ma tanto gli introversi quanto gli estroversi finiscono per salire nello spettro se i loro genitori si immischiano e interferiscono costantemente nella loro vita, fraintendendo e ignorando il loro bisogno di riservatezza o di spazio. Le persone che affrontano il compito di genitori in questo modo sono inevitabilmente a loro volta narcisisti, che danno sempre la precedenza al proprio desiderio di controllo o di attenzione rispetto al bisogno di autonomia dei figli, i quali imparano che, ogni volta che lasciano spazio ai bisogni di qualcun altro, rinunciano completamente alla propria identità. Se sono abbastanza estroversi, combatteranno per la loro libertà, alzando il volume e chiudendo le orecchie alle voci degli altri, esattamente come hanno fatto i loro genitori con loro. La soluzione qui sembra essere: se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro. Invece i genitori che sembrano cronicamente fragili sul piano emotivo (ansiosi o irosi o depressi) possono far sì che i loro figli imparano che l’unico modo per guadagnarsi amore è fare il minimo rumore possibile nella vita delle persone circostanti. Non posso chiedere di più ai miei genitori – potrebbero urlare o inveire – ma magari, se chiedo pochissimo, mi vorranno bene. L’idea è che bambini cresciuti eccessivamente nella bambagia finiscano per sentire, come Narciso, di avere un’origine divina.

Non possono sbagliare. Sono più in gamba, dotati di più talento, più belli di tutti gli altri bambini. Continuare a dire ai figli che sono speciali anche quando non hanno fatto niente di particolare, così va il ragionamento, diventeranno esseri umani egocentrici e vuoti. Continuare a trattarli come se fossero principi o principesse e cominceranno a comportarsi come se fossero di sangue reale. Potrebbero persino cominciare a trattare gli altri come se fossero i loro servitori.

 

Narcisismo sano: goditi i tuoi sogni

Godersi le fantasie di grandezza senza diventarne dipendenti richiede una capacità di sentirsi bene con se stessi – avere un forte senso di autostima e di valore, godere dell’attenzione e degli elogi – ma senza un bisogno costante di mettersi in mostra. Quanti riescono a ottenere questo risultato si credono capaci di cose straordinarie, ma non rimangono devastati quando periodicamente non ce la fanno. Sentono una spinta a cercare le luci della ribalta, ma possono abbandonare la ricerca quando il costo diventa eccessivo. I genitori aiutano i figli a dare un nome ai sentimenti, come tristezza, ansia, rabbia o paura, e a parlarne. Insegnano ai figli come rimarginare le ferite emotive prendendosi la responsabilità dei propri errori e ascoltando il dolore che hanno provocato. In conseguenza di queste molte lezioni emotive, i bambini imparano a dare e ricevere aiuto e amore. Questa, dunque, è la ricetta del narcisismo sano: una famiglia che incoraggia (ma non pretende) sogni di grandezza e un modello sano di amore e intimità. Mescolate e sommate il tutto e otterrete qualcuno che vive vicino al centro dello spettro.

 

Ecoismo sottile

Ecoisti sottili si concentrano sui bisogni degli altri. È una strategia inconscia per far sì che gli altri non li respingano; nella loro mente, quanto meno “spazio” occupano con le loro richieste e le loro preoccupazioni, tanto più gradevoli o amabili diventano. Per loro va bene essere notate, purché siano notate per quello che fanno per gli altri: essere partner che danno sostegno, lavoratori produttivi o ascoltatori attenti. Possono anche avere meravigliose relazioni affettive. L’unico indizio che vivono è la natura unidirezionale del loro sostegno.

Con gli ecoisti sottili si ha sempre la sensazione di aver bisogno di loro molto più di quanto loro abbiano bisogno di noi. Preferiscono di gran lunga essere sulla poltrona del terapeuta, non perché li faccia sentire superiori (come i narcisisti comuni), ma perché li distoglie dai loro desideri e dalle loro aspettative. Possono chiedere piccole cose, come regali di compleanno o di anniversario, o anche un po’ più di attenzione da un partner, ma stanno molto attenti a quanto chiedono, sempre timorosi di superare il confine che li separa dall’egoismo. In certi periodi si possono sentire felici e soddisfatti dei loro amici e delle persone che amano, ma solo fino a che i loro bisogni non diventano più difficili da contenere. I problemi crescono quando raggiungono nella loro vita dei punti in cui effettivamente vogliono di più.

 

Narcisisti sottili

I narcisisti sottili invece spesso sono solo cattivi ascoltatori, perennemente preoccupati della figura che fanno rispetto a tutti quelli che valgono di meno. Poiché vincere è un modo facile per sentirsi speciali, sono ossessionati dalle loro performance al lavoro oppure si confrontano costantemente con chiunque li superi per aspetto, talento o traguardi raggiunti. È come se stessero continuamente a consultare nella loro testa un immaginario tabellone con il loro punteggio. Tutti in realtà lo facciamo, ogni tanto, in particolare quando l’ambiente circostante lo favorisce.

Molte scuole, per esempio, fanno leva sulla competizione ed è facile rimanere fermi nel posto che si occupa in questa sorta di classifiche. Ma quando il nostro “punteggio”, in base a qualsiasi metro (che si tratti di aspetto, di talento o di capacità di aiuto), diventa una preoccupazione perpetua, vuol dire che siamo scivolati nel narcisismo malsano. In un modo o nell’altro, quando si parla con loro, si ha la sensazione che, invece di introiettare quello che gli si sta dicendo, stiano solo aspettando che si smetta di parlare, così che possano riprendere a seguire il filo del loro pensiero. Nella loro preoccupazione per la spinta a sentirsi speciali, dimenticano che il narcisismo non è l’unico modo, e nemmeno il migliore, per sentirsi in pace con se stessi. In certi momenti, la spinta a sentirsi speciali prende il sopravvento; queste persone non mentono, non rubano, non imbrogliano, né insultano gli altri, ma diventano così ossessionate dalla loro posizione in classifica nel mondo che non riescono più a vedere chi sta accanto a loro. Per un certo periodo possono essere affascinanti, attente, carismatiche e sensibili; a quanti sono loro vicini non sembra ci sia qualcosa che non va. Poi, all’improvviso, quella spinta a sentirsi speciali prende il sopravvento.

 

L’impennata dell’entitlement

Tutti abbiamo bisogno, ogni tanto, di sentirci “in diritto” di avere o di fare, così come abbiamo bisogno ogni tanto di sentirci speciali. Nel giorno del nostro compleanno, sentiamo di aver diritto a un po’ più di considerazione o di attenzione. Quando siamo malati, analogamente, possiamo sentire di aver diritto a un po’ più di aiuto. Questo atteggiamento può addirittura aiutarci a dire “no” a richieste irragionevoli e a farci valere quando ci sentiamo maltrattati. Ma questo senso di aver diritto, se raggiunge livelli estremi, diventa un atteggiamento costante per cui il mondo e tutti coloro che ci circondano dovrebbero sostenere il nostro stato elevato. È questo tipo di disposizione che tradisce il narcisista sottile.

L’aver diritto risolve un problema specifico per il narcisista. Per convincerci che siamo meglio degli altri è necessaria la presenza di altre persone, le quali hanno una propria volontà libera. L’unico modo per sostenere un bisogno continuo di torreggiare al di sopra di altri esseri umani è piegarli alla nostra volontà: chiedere riconoscimento, come un re che costringe i suoi sudditi a inginocchiarsi al suo cospetto. All’estremo, il senso di entitlement trasforma le interazioni quotidiane in una droga, un’altra occasione per provare quell’ebbrezza, quella “botta” narcisistica. E quanto più aumenta la dipendenza dal sentirsi speciali, tanto più cresce il senso di “aver diritto” a soddisfare i propri bisogni. Il narcisismo sottile è caratterizzato da impennate di entitlement, cioè i momenti in cui un amico, un partner o un collega, di norma comprensivo, si comporta furiosamente come se il mondo fosse in debito con lui. Di solito queste impennate sono innescate da un’improvvisa paura che il loro status speciale sia in qualche modo minacciato. Fino a quel momento, il bisogno che il mondo ruoti attorno a loro in genere è tenuto sotto controllo, perché non è stato messo in dubbio.

 

Il passaggio dal narcisismo sottile a quello estremo: entitlement e sfruttamento

Se le impennate non producono il rinforzo emotivo necessario, possono farsi così frequenti che l’entitlement diventa sfruttamento. Questo è il segno del passaggio dall’abitudine alla dipendenza. Il progressivo aumento del senso di “avere diritto” si rivela uno degli indicatori fondamentali che permettono di distinguere fra narcisismo sano ed estremo. In effetti, quando il senso di aver diritto raggiunge il picco e diventa sempre più costante, le persone entrano nel territorio della patologia. Lo sfruttamento è quello schema di comportamento per cui si fa qualsiasi cosa sia necessaria per andare avanti o per emergere, compreso far male ad altri. I narcisisti possono soffrire di incredibili periodi di rabbia, tristezza, paura e vergogna – fino ad arrivare a ottenere con il sotterfugio, pretendere, prendere a prestito o rubare la loro successiva dose di attenzione. Se per sentirsi speciali bisogna prendersi il merito del lavoro altrui, così sia. Se devono criticare spietatamente gli altri per sentirsi superiori, anche se questo significa calpestare senza alcun ritegno l’autostima del partner, lo faranno.

Sfruttamento ed entitlement sono strettamente collegati. Se credo veramente di meritarmi di essere trattato come la persona più intelligente, più bella o più premurosa del gruppo, farò in modo che succeda. Non aspetterò un colpo di fortuna o la buona volontà da parte degli altri, così che mi diano quello che voglio; me lo prenderò e basta.  Quando l’entitlement si trasforma in sfruttamento, i bisogni e i sentimenti degli altri cominciano ad avere sempre meno importanza. Tutti abbiamo bisogno ogni tanto di sentirci speciali. Chi soffre di un disturbo narcisistico della personalità, però, ha un bisogno fortissimo, in ogni campo della vita, di essere trattato come se fosse speciale. È anche spinto ad agire come se fosse speciale: sente di averne diritto, ha un atteggiamento da sfruttatore ed è privo di empatia.

Tende a essere estremamente arrogante e sdegnoso, ma può essere anche timido e pieno di vergogna. Molto spesso, oscilla tra i due atteggiamenti: un giorno si sente speciale e il giorno dopo crede di non valere nulla.

In ogni modo, questi narcisisti pretendono attenzione, ammirazione e approvazione o una considerazione speciale, perché non hanno molto il senso di chi sono, indipendentemente da come sono visti dagli altri. E lottano con le unghie e con i denti per far sì che l’impressione che suscitano sia una “buona” impressione. Per la persona con questo disturbo della personalità, gli altri sono semplicemente specchi, utili solo finché riflettono quel modo speciale di presentarsi che anelano così disperatamente di vedere. Se questo significa mettere in cattiva luce gli altri (poniamo, distruggendo i loro progetti al lavoro), pazienza. Dato che la vita è una continua competizione, di solito sono anche rossi dall’invidia per quello che gli altri sembrano avere. E lo faranno sapere.

 

Riconoscere e affrontare il narcisismo patologico: stare all’erta per identificare i narcisisti

Un segno fondamentale: i narcisisti eludono i sentimenti normali di vulnerabilità, come tristezza, paura, solitudine e preoccupazione. In ogni relazione si commettono errori e può succedere di fare del male ad altri. In una brutta giornata, quando abbiamo esaurito la pazienza per i problemi al lavoro o le piccole beghe con i figli, è facile sbottare quando ci viene rivolta dal(la) partner una domanda banale come “Ti sei ricordato di prendere il latte?”. Oppure, persi dentro le nostre preoccupazioni, possiamo trascurare di salutare le persone a cui vogliamo bene con un bacio o addirittura di dire un “ciao”. Piccoli sbagli come questi si possono riparare facilmente: basta dire che ci rincresce e ammettere di aver causato, accidentalmente o intenzionalmente, un dispiacere; e la maggior parte delle persone è in grado di comportarsi così, non appena si tranquillizza. I narcisisti però spesso sembra non siano capaci di mostrare rincrescimento o rimorso perché, come per ogni tipo di vulnerabilità, entrare in contatto in questo modo con le persone amate comporta una condivisione di tutti i sentimenti che il narcisismo patologico vuole nascondere.

 

Campanello d’allarme: fobia delle emozioni

L’interazione umana pone un problema spaventoso per i narcisisti che, nel profondo, sono persone straordinariamente insicure. Uno dei loro metodi preferiti per rafforzare la propria fiducia in se stessi è immaginarsi perfettamente autosufficienti e impenetrabili al comportamento e ai sentimenti degli altri. Di conseguenza, non lasciano trasparire quando si sentono scossi o feriti da qualcosa che avete detto o fatto. Esplodono invece in crisi di rabbia, che è una cosa che facciamo tutti quando siamo abbastanza sconvolti. Ma i narcisisti combinano con questo una esibizione di superiorità. Diventano altezzosi, possono addirittura mettere in evidenza tutte le vostre mancanze. Il loro obiettivo principale, in tutta la loro furia, è nascondere come avete colpito i loro sentimenti. Alcuni narcisisti non ammetteranno nemmeno la loro rabbia e diranno “Non sto mica urlando”, proprio mentre sono nel mezzo di una sfuriata terrificante.

Arrivano fino a questo punto per evitare di ammettere le loro emozioni. Ma la fobia delle emozioni può anche manifestarsi in modo molto più tranquillo. Poiché il narcisismo patologico è un tentativo di evitare ogni sentimento di vulnerabilità, come la tristezza o la paura, i narcisisti spesso stanno alla larga non solo dalle proprie emozioni, ma anche da quelle di tutti gli altri.

 

Campanello d’allarme: lo scaricabarile emotivo

Mentre la fobia delle emozioni segnala un disagio profondo nei confronti dei sentimenti, lo scaricabarile emotivo è un modo per liberarsi di quelle emozioni. È una forma più insidiosa di proiezione, in cui le persone negano i propri sentimenti sostenendo che appartengono a qualcun altro. Dopo non aver mai risposto al telefono per giorni, un’amica può avvicinarvisi e chiedervi: “Ce l’hai con me per qualcosa?”. Dato che non ha mai risposto ai messaggi che le avete lasciato, è molto probabile che quella irritata sia lei ma, anziché riconoscere quel sentimento come proprio, accusa voi di avercela con lei.

Nello scaricabarile emotivo, però, le persone non si limitano semplicemente a confondere i propri sentimenti con quelli di qualcun altro, vi spingono in realtà a provare quelle emozioni che per parte loro cercano di ignorare. In questo caso,vostro marito può lanciarsi in una filippica, lamentandosi di voi perché siete “sempre così arrabbiata”. Quando avrà finito, probabilmente vi sentirete effettivamente arrabbiate, anche se all’inizio non lo eravate. Questo è lo scaricabarile, il passaggio della patata bollente. Il vostro partner si libera della sua rabbia e la suscita in voi. È come se dicesse: “Non voglio questo sentimento. Ecco, prenditelo tu”.

 

Campanello d’allarme: controllo subdolo

Un altro campanello d’allarme è il bisogno costante di avere il controllo della situazione. In generale, i narcisisti non si sentono a loro agio a chiedere aiuto o a far sapere direttamente ciò di cui sentono il bisogno, perché questo li mette di fronte all’evidenza che dipendono da altri. Per questo, spesso organizzano gli eventi in modo da ottenere quello che vogliono. È un modo molto comodo per non dover mai chiedere nulla.

Gli effetti del controllo narcisistico sottile sono graduali. Lentamente, senza nemmeno rendervene conto, cadete nell’orbita delle preferenze e dei desideri di qualcun altro, finché un giorno vi svegliate e vi rendete conto di aver completamente dimenticato quello che volevate voi. È più una guerra di logoramento della vostra volontà che un assalto diretto alla vostra libertà. E, alla fine, il narcisista ottiene quello che vuole senza mai doverlo chiedere.

 

Campanello d’allarme: collocare le persone su un piedistallo

Quando le persone collocano compulsivamente su un piedistallo amici, amanti e superiori, si tratta semplicemente di un altro modo per sentirsi speciali. La logica è di questo genere: Se qualcuno di così speciale vuole me, allora anch’io devo essere molto speciale. A piccole dosi, non c’è nulla di sbagliato in questo. Fa parte del narcisismo sano la propensione a vedere i nostri amici e partner come migliori di quel che sono in realtà. Elevando le persone che ci stanno a cuore ci sentiamo a nostra volta innalzati. Per questo il vedere il partner attraverso lenti rosa è uno dei più robusti indicatori che fanno prevedere la buona riuscita di una relazione. C’è una differenza, però, fra l’ignorare le imperfezioni degli altri e cercare di eliminarle del tutto – e questo è ciò che narcisisti tentano di fare. Non vorrebbero neanche pensare a tutti gli aspetti per cui siete esseri umani comuni, perché le persone imperfette sono sempre una delusione. L’adorazione di un idolo ha sempre un prezzo, e il più evidente è l’assenza di una connessione più profonda. Guardare dal basso in alto qualcuno, quel tanto che basta a proteggere la relazione, concedendo all’altro o all’altra il beneficio del dubbio, ci consente di tenere sotto controllo le delusioni e di rimanere vicini. Collocare qualcuno su un piedistallo e pretendere che ci rimanga tranquillamente, invece, guasta l’intimità. Lo spazio fra due persone può essere verticale, ma è comunque una distanza.

 

Campanello d’allarme: immaginare di essere gemelli

È piacevole avere la sensazione di aver trovato l’anima gemella, con le stesse passioni, le stesse paure, le stesse idee e gli stessi interessi. È un po’ come guardarsi allo specchio. Avere un gemello costituisce una fonte costante di convalida. Con un gemello al mio fianco, posso dire a me stesso che le mie idee sono sensate, che i miei desideri sono importanti e che le mie necessità contano. Non ho bisogno neanche di possedere talenti speciali o una bellezza particolare per emergere. Posso distinguermi dalle masse con una relazione meravigliosa e del tutto unica. La fantasia del gemello non richiede neanche l’illusione della perfezione. Possiamo tollerare, o addirittura celebrare i nostri errori e i nostri difetti e sentirci comunque grandi.

I narcisisti spesso entrano in relazione fra loro e producono disastri sotto il bagliore intossicante dell’essere gemelli. È una relazione di mutuo vantaggio: anche le stelle più deboli sembrano illuminare il cielo quando sono in coppia. Per quanto emozionante possa essere, l’effetto gemello non può durare. Non esistono due persone, nemmeno i gemelli siamesi, che siano esattamente identiche. Dopo un po’ di tempo, quando le differenze diventano evidenti, la realtà si impone. Come le persone gestiscano questo cambiamento dice tutto sulla loro capacità di uscire dal narcisismo malsano.

 

Tendenze comuni: famiglia, amici, colleghi e capi

Qualunque dei segni premonitori può presentarsi presto nel corso di una relazione, ma alcuni hanno bisogno di un certo livello di intimità emotiva per manifestarsi a pieno.

In famiglia, per esempio, il narcisismo malsano può manifestarsi facilmente attraverso uno qualunque dei segni premonitori. La fantasia del gemello è uno stratagemma comune del genitore silenziosamente narcisista. Per esempio, una madre che sognava di diventare un’artista può esaltare i primi, per quanto rozzi, tentativi di dipingere della figlia di sette anni, ignorando invece, o addirittura liquidando con un’alzata di spalle, il suo talento per il calcio. Oppure, una sorella narcisista può nutrire il senso di essere più saggia della sorella minore giocando allo scaricabarile emotivo, mettendo in dubbio in ogni occasione le sue decisioni, per quanto ben ragionate (“Sei sicura che sia quello che vuoi fare?”).

Anche gli amici narcisisti applicano tattiche simili. Il vostro migliore amico può esercitare un controllo subdolo mandando a monte i vostri piani per un’uscita serale. Analogamente, può sfuggire a ogni argomento emotivo quando cominciate a parlarne. La tattica che compare di gran lunga più spesso nelle amicizie che in ogni altro tipo di relazione è la fantasia del gemello, che è normale negli adolescenti e nei giovani adulti che hanno superato da poco i vent’anni migliore amico può esercitare un controllo subdolo mandando a monte i vostri piani per un’uscita serale. Analogamente, può sfuggire a ogni argomento emotivo quando cominciate a parlarne. La tattica che compare di gran lunga più spesso nelle amicizie che in ogni altro tipo di relazione è la fantasia del gemello, che è normale negli adolescenti e nei giovani adulti che hanno superato da poco i vent’anni. Ma attenzione! Il gemellaggio crea un potente legame emotivo, poco meno forte di un amore romantico, e i narcisisti sottili spesso sguazzano in questo tipo di intensità di sentimenti. Accade più spesso fra le donne, ma anche i maschi narcisisti ogni tanto “si gemellano”. Il gemellaggio crea un potente legame emotivo, poco meno forte di un amore romantico, e i narcisisti sottili spesso sguazzano in questo tipo di intensità di sentimenti. Accade più spesso fra le donne, ma anche i maschi narcisisti ogni tanto “si gemellano”.

 

Cambiamento e recupero: trattare con amanti, familiari e amici

Quando ci ritiriamo in noi, ingoiando le parole che ci verrebbero alle labbra o camminando sulle uova, non facciamo che rafforzare il narcisismo degli altri. Ricordiamoci sempre che il narcisismo malsano è un tentativo di occultare la normale vulnerabilità umana, in particolare quei sentimenti dolorosi di insicurezza, tristezza, paura, solitudine e vergogna. Se il partner può sopportare di condividere e sentire alcune di queste emozioni, allora c’è ancora speranza. Ma è possibile dare delle spinte gentili ai narcisisti perché escano dal loro nascondiglio solo se siamo disposti a condividere stessi sentimenti di fragilità. Può sembrare semplice, ma in realtà non lo è. Siamo tutti un po’ restii a rivelare il nostro lato più debole, specialmente quando ci sentiamo minacciati. Come prima cosa dobbiamo scendere in profondità con noi stessi.

Le nostre emozioni più ovvie, quelle superficiali, di rado sono anche le più importanti. La frustrazione o la rabbia (o l’ottundimento) che sentiamo davanti all’arroganza e all’insensibilità di un narcisista ci proteggono; proprio sotto questi sentimenti, però, ci sono quelli molto più potenti che di solito siamo riluttanti a condividere. Siamo tristi perché qualcuno che amiamo è diventato così offensivo. Siamo terrorizzati che possa lasciarci o tradirci. Ci vergogniamo che ci abbia colto in fallo (o che sostenga di averlo fatto). Invece di dimostrarlo, però, indossiamo la nostra armatura di protezione. Le lacrime ci scendono sulle guance, ma la nostra voce è piena di rabbia. Oppure chiediamo scusa in continuazione, nascondendo il dolore dietro i “mea culpa”, anche se, dentro di noi, ci sentiamo profondamente feriti. Dobbiamo deporre questa corazza protettiva per dare agli altri la possibilità di comprendere come ci sentiamo veramente – e di rispondervi. Facendo in questo modo si aiuta il narcisista a uscire dai loro bunker emotivi e a raggiungere un’intimità più profonda. E’ importante, però, sentire un certo grado di sicurezza fisica ed emotiva.

Alcuni narcisisti manipolativi sono così abili nel recitare e nell’ingannare che è difficile capire se stanno facendo degli sforzi sinceri o vi stanno solo prendendo in giro. Il che ci porta a un’osservazione ovvia, ma che vale comunque la pena fare: Le persone che amate non possono cambiare se non sono disposte ad ammettere i loro problemi, non importa se sono alcolisti, giocatori compulsivi o narcisisti estremi. Se non riescono a sfuggire allo stato di negazione per arrivare a una qualche versione di “Penso di avere dei problemi”, lasciamo perdere. L’obiettivo qui è trovare qualche capacità di vicinanza reciproca e di reciproco sostegno, il che richiede la condivisione della vulnerabilità, non l’imposizione di regole.

Esistono alcuni modi:

  • Apritevi. cercare di essere espliciti in merito ai nostri bisogni e ai nostri sentimenti. Usare sollecitazioni empatiche. Questo non è solo fondamentale per lo sviluppo di una intimità sicura, ma fa anche impennare l’eccitazione quando si esce insieme. Non c’è niente di più eccitante che condividere tutto quello che si è e sentirsi accettati.
  • Siate padroni dei vostri desideri. Il sesso non ha a che fare con la purezza, ma con l’immaginazione e la libertà. È agire secondo il desiderio così come viene a galla – una verità che i cattivi ragazzi e le cattive ragazze sembra colgano perfettamente. Molti di noi invece sono così preoccupati dei sentimenti delle persone che amano da chiudere i propri desideri in una camicia di forza.
  • Sperimentate con l’arousal. Ogni sentimento intenso può rafforzare l’attrazione. La novità, quando ci esponiamo a nuove esperienze, è un afrodisiaco ben collaudato. Le nuove esperienze innescano il rilascio di dopamina, una sostanza chimica che nel cervello è associata a eccitazione e gratificazione. La dopamina ci spinge a tornare a chiedere ancora, non importa se l’eccitazione che desideriamo è data da una persona o da una droga. Il nostro partner diventa eccitante per associazione. I narcisisti spesso trascinano in avventure (e drammi) che fanno scorrere la dopamina imparate a generarne un po’ per parte vostra.

Come elicitare le emozioni tramite stimoli visivi: la costruzione di un database di dati multimediali

Il progetto di ricerca FIRB2012 (RBFR12VHR7) dal titolo “Interpreting emotions: a computational tool integrating facial expressions and biosignals based on shape analysis and bayesian networks” si inserisce nel filone di ricerca sullo studio delle emozioni. Il risultato finale consisterà nella costruzione di uno strumento oggettivo e quantitativo avanzato (non invasivo) utilizzabile nella pratica clinica i cui parametri siano stati selezionati in base alla loro capacità di misurare ed evidenziare differenze nella risposta emotiva di soggetti sani e nei pazienti psichiatrici.

Gaia Campanale, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Le emozioni e le difficoltà di riconoscimento delle stesse

Le emozioni sono risposte che l’individuo mette in atto per affrontare uno stimolo evocativo appropriato, attivando una valutazione cognitiva (percezione), un comportamento espressivo motorio, un’esperienza soggettiva (sentimenti), un’attivazione fisiologica e un comportamento finalizzato ad uno scopo (Plutchik, 1984).

L’abilità nel riconoscere le emozioni ha un valore evolutivo e adattivo, è una componente fondamentale per il nostro sistema di comunicazione non verbale e il nostro sistema di interazione sociale (Ekman, 1992). In alcuni casi, però, il processo di riconoscimento delle emozioni è compromesso (Adolphs, 2002), in molti soggetti psichiatrici è stata riscontrata una difficoltà nel riconoscere le emozioni.

Negli ultimi anni è stata posta particolare attenzione ai deficit nel riconoscimento delle emozioni nella schizofrenia (Lee et al., 2002), nella depressione (Surguladze et al., 2004), nei disturbi d’ansia (Weinstein, 1995; Mogg & Bradley, 2002), nel disturbo post-traumatico da stress (PTSD) (Antonini et al., 2006), nell’alessitimia (Catalano & Miragliotta, 2007), nei disturbi dello spettro autistico (Mongillo et al., 2008; Magnee et al., 2008).
In particolare in letteratura sono state rilevate problematiche riguardanti l’elaborazione emotiva in pazienti affetti da anoressia nervosa (Zucker et al. 2007; Jones et al., 2008; Harrison et al., 2010), in soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo (Sprengelmeyer et al., 1997; Jhung et al., 2010) e in bambini con sintomatologia ansiosa, difficoltà di apprendimento e deficit affettivi (Settipani et al., 2013; Waters et al., 2010).

Vi è una esigenza sempre più crescente di identificare strumenti quantitativi avanzati per il riconoscimento e la misurazione delle emozioni.
In questo i tradizionali questionari si sono rivelati uno strumento limitato poiché non permettono di indagare correttamente il vissuto emotivo provato da pazienti con disordini mentali. Per costruzione, tale strumento può rilevare solo le sensazioni oggettive di un individuo, la compilazione può essere influenzata da fattori esterni disturbanti e non permette di fare rivelazioni in tempo reale (sono somministrati prima o dopo l’emozione esperita).
Allo stesso modo, tecniche di brain imaging per monitorare il cervello nel momento in cui si prova un’emozione (EEG, fMRI, ecc.) sono troppo invasive e difficili da applicare a pazienti psichiatrici.
Studi precedenti hanno cercato di esaminare gli stati emotivi di pazienti psichiatrici a partire da informazioni delle espressioni e dei movimenti del volto (Tremeau et al., 2005) e l’analisi delle risposte psicofisiologiche a particolari stimoli, utilizzando tecnologie meno invasive.

 

Un progetto di ricerca: la costruzione di un database di dati multimediali per elicitare le emozioni

Il progetto di ricerca FIRB2012 (RBFR12VHR7) dal titolo “Interpreting emotions: a computational tool integrating facial expressions and biosignals based on shape analysis and bayesian networks” si inserisce nel filone di ricerca sullo studio delle emozioni. Propone, all’interno della comunità scientifica internazionale, un approccio sperimentale di alto profilo scientifico, sia per quanto riguarda lo sviluppo di metodologie innovative integrate tra diverse discipline della ricerca di base, sia per quanto riguarda la possibilità di approfondire tematiche relative alla reattività emotiva in popolazioni cliniche e non cliniche.

L’obiettivo a lungo termine è di saper descrivere dettagliatamente le reazioni emotive associate a stimoli elicitanti rabbia, paura, disgusto e realizzare uno studio avanzato di soggetti con disturbi d’ansia, disturbi alimentari e tratti ossessivo-compulsivi usando un approccio integrato di tipo multi-parametrico.
Il risultato finale consisterà nella costruzione di uno strumento oggettivo e quantitativo avanzato (non invasivo) utilizzabile nella pratica clinica i cui parametri siano stati selezionati in base alla loro capacità di misurare ed evidenziare differenze nella risposta emotiva di soggetti sani e nei pazienti psichiatrici.

In questo lavoro si è prefissato lo scopo di estendere e ampliare il campo di ricerca sulle emozioni, cercando delle soluzioni alternative per la tecnica di selezione di stimoli capaci di elicitare diversi stati emotivi. I database multimediali utilizzati nella ricerca nel campo delle emozioni sono archivi di documenti multimediali audio-visivi con specifici contenuti semantici ed emotivi, corredati da un set di metadati relativi alle etichette semantiche e all’emozione attesa, elicitate nel soggetto esposto allo stimolo, visivo e non.

Questi database hanno lo scopo di elicitare delle emozioni nei soggetti esposti, avere un miglior controllo sperimentale degli stimoli emotivi, incrementare la capacità di confrontare i risultati degli studi incrociati e facilitare la replicazione diretta degli studi intrapresi (Bradley & Lang, 2000).
I database multimediali sono strumenti standardizzati. Hanno una procedura uniforme per la somministrazione e questo ne consente un utilizzo più ampio in diversi ambiti di ricerca.

Hanno un contenuto strutturato e prefissato, sono corredati di istruzioni per la somministrazione e precise norme statistiche per lo scoring e l’interpretazione dei punteggi. Per questo motivo, i risultati dell’elicitazione dell’emozione possono essere misurati, replicati e validati da diversi gruppi di ricerca.
Tutti gli attuali database sono stati realizzati a partire dai due principali modelli per la rappresentazione delle emozioni: quello categoriale o quello dimensionale (Peter & Herbon, 2006).

I modelli dimensionali delle emozioni propongono che il significato affettivo di uno stimolo sia ben spiegato da un ristretto numero di dimensioni; queste sono state scelte per la loro abilità nel descrivere bene le misurazioni soggettive affettive con il minor numero di fattori possibili (Bradley & Lang, 1999).

Al contrario, i modelli categoriali delle emozioni considerano i primi poco accurati nel riflettere il sistema neurale sottostante alle risposte emozionali. Per i sostenitori di questo modello c’è un numero di emozioni universali tra le culture con basi biologiche e filogenetiche proprie (Ekman, 1992).
La maggior parte dei sostenitori di questa visione concorda nell’includere le cinque emozioni primarie.

Entrambe queste teorie possono effettivamente descrivere le emozioni in sistemi digitali, ma non sono mutualmente esclusive. Infatti, stimoli che in precedenza sono stati caratterizzati secondo una singola teoria, sono stati poi rappresentati anche nell’altra. Applicare entrambe le teorie può essere utile al fine di ottenere una definizione più completa degli stimoli affettivi.

Gli stimoli multimediali sono caratterizzati da uno specifico contenuto semantico, ovvero da etichette di termini che ne possano denotare il loro contenuto. In altre parole, è utilizzato il metodo di etichettamento mediante keyword definite al fine di descrivere l’immagine. Questo tipo di metodo può diventare molto potente se implementato nella giusta maniera, ma fino ad ora è stato utilizzato in maniera manuale e questo lo ha reso un lavoro particolarmente dispendioso e disfunzionale per quanto riguarda la soggettività nella scelta delle parole chiavi e l’ambiguità di quest’ultime a causa dell’uso di vocaboli mal costruiti o addirittura inesistenti. Ogni singolo stimolo multimediale può essere descritto con una singola parola chiave da un glossario, però, non supervisionato. Le relazioni semantiche tra i diversi concetti non sono così definite e diverse parole-chiave possono essere utilizzate per la descrizione del medesimo concetto.

Questo rappresenta un enorme difetto nel processo di recupero degli stimoli, perché una query (di ricerca) deve lessicalmente combinare le parole chiave del database e non è ottenibile una più significativa interpretazione semantica della query.
I descrittori semantici inadeguati producono tre effetti negativi che ostacolano il recupero stimoli: un basso richiamo, una bassa precisione e ad alto richiamo o, una mancata corrispondenza di vocabolario.
In questo modo i database multimediali affettivi contengono solo i dati circa gli stimoli stessi e non descrivono la semantica implicita del loro contenuto.
In sintesi, i dataset multimediali affettivi, standardizzati, offrono una pluralità di stimoli audio-visivi di qualità per i ricercatori del settore. Sono stati accuratamente costruiti e consentono misurazioni comparative valide, ma tuttavia vi sono diverse limitazioni che possono ostacolare la loro diffusione e applicazione.

All’interno del progetto Firb è stato fatto uno studio pilota (Campanale, 2014) che ha portato alla costruzione di un database di stimoli visivi (immagini) per elicitare 4 emozioni target primarie (neutra, paura, rabbia e disgusto). Questo studio è uno step cruciale dell’intero progetto Firb, perché gli stimoli scelti sono poi stati presentati nelle sessioni sperimentali.
Al fine di realizzare un database di immagini da utilizzare durante le sessioni sperimentali è stato realizzato, in collaborazione con i Sistemi Informativi dell’Università Vita-Salute San Raffaele (Ing. Cibrario), un questionario online pubblicizzato tramite i social networks e il passaparola.
Sono stati inizialmente inclusi nel questionario 80 stimoli visivi (immagini) che venivano presentati in due sessioni da 40 immagini ciascuna. Questi stimoli sono stati scelti da un’equipe di psicologi professionisti per evocare le 4 emozioni di base di interesse (neutra, rabbia, paura e disgusto).

Prima di iniziare il questionario al soggetto vengono chiesti alcuni dati anagrafici (età, sesso, nazionalità, anni di scolarità, livello massimo del titolo di studio, altri titoli di studio conseguiti, con chi vive) e viene assegnato un codice di riconoscimento per le successive analisi, solo in seguito ha inizio la valutazione degli stimoli.
Ogni immagine resta attiva nello schermo per 4 secondi e, dopo che la figura sparisce dallo schermo, al soggetto viene chiesto di:
1) indicare l’emozione percepita, scegliendo da una lista di 6 emozioni (rabbia, paura, disgusto, felicità, tristezza, neutra);
2) quantificare l’emozione provata usando una scala likert a 5 punti (1= pochissimo, 5 = moltissimo);
3) valutare le tre dimensioni di pleasure (piacere), arousal e dominanza usando il SAM (Self Assessment Manikin, Lang, 1980).

Il focus è stato posto sull’etichettamento degli stimoli selezionati.
In questo database, il campione di partecipanti che ha valutato gli stimoli visivi non è rappresentativo della popolazione sana generale. Per ovviare questo problema, si è creato il questionario online.
Infine, sono stati selezionati i 20 stimoli più regolarmente valutati, per studiare le emozioni in laboratorio durante le sessioni sperimentali. Per essere più precisi, tra i criteri di selezione degli stimoli si è considerato non solo l’accordo tra i valutatori, ma anche il contenuto e la qualità dell’immagine.

Lo scopo di queste analisi è di valutare su un campione di popolazione generale la corrispondenza tra l’emozione attesa e dichiarata e valutare come sono classificate le immagini in base alle risposte soggettive sulla scala del SAM (Lang, 1980).
Rispetto agli altri database già esistenti non si sono valutate solo le correlazioni, ma si sono impiegate tecniche multivariate, come l’analisi dei cluster e lo scaling multidimensionale, per far emergere strutture dei dati altrimenti non rilevabili e per riprodurre in modo parsimonioso la complessità delle relazioni celate nella matrice di dati.

Inoltre, a differenza di altri database che compiono le loro valutazioni utilizzando le dimensioni di pleasure e arousal, grazie a queste tecniche avanzate si sono prese in considerazione contemporaneamente tutte e tre le dimensioni del SAM, integrando anche l’informazione dataci dalla dominanza.
Il vero punto innovativo di questo lavoro è aver applicato questi metodi statistici multidimensionali alla valutazione dei SAM, solitamente analizzati tramite medie e deviazione standard. In questo modo si ha una valutazione più completa.

Dei 309 soggetti che hanno risposto al questionario online, 198 hanno completato più di metà questionario (hanno valutato almeno 40 immagini) e le loro valutazioni sono state considerate nelle analisi successive. Di questi 198, 127 sono femmine (64,1%) e 71 sono maschi (35,9%). L’età media del campione è 29,495 (DS = 8,5892), con un range che varia dai 18 ai 62 anni. In media sono state raccolte 173 valutazioni per ogni immagine, un grande numero rispetto ai database già esistenti.

 

Le analisi e i risultati dello studio

Per classificare le immagini e verificare se c’è una corrispondenza tra emozioni attese e dichiarate dal partecipante, sono state utilizzate tecniche di scaling multidimensionale per creare mappe di percezione e tecniche di cluster analysis. Sono state analizzate le risposte ai SAM (valutazione delle 3 dimensioni di pleasure, arousal e dominanza) e le risposte relative al grado con cui è stata provata l’emozione dichiarata. In particolare è stata analizzata la matrice di punteggi medi ottenuti nel SAM per ciascuna immagine.

Si è visto che la maggior concordanza si ha per le modalità di risposta “disgusto”, “paura” e “neutra” e in particolare, adottando l’interpretazione dei valori di K secondo i criteri di Landis e Koch (1977), la concordanza rispetto queste categorie di risposta è moderata.
Tutte le analisi effettuate sul campione di adulti evidenziano che i soggetti sono sostanzialmente abili a distinguere uno stimolo visivo emotivamente carico da uno neutro: il gruppo di immagine neutre è sempre ben distinto dalle restanti immagini.

Attraverso uno scaling multidimensionale sul campione totale dei soggetti adulti, si è partiti da una matrice di dati iniziali costituita dalle 80 immagini rappresentanti le 4 emozioni e le medie dei 3 SAM. Partendo dai dati raccolti è stata costruita una mappa di percezione delle immagini, sulla base della risposta soggettiva fornita dal soggetto nel SAM. In questo caso si è scelta una soluzione non metrica, richiedendo semplicemente che l’ordinamento delle distanze nella configurazione ottenuta rispecchi l’ordinamento degli indici di dissimilarità originari. Questo perché, anche se la matrice di partenza contiene dati continui (medie dei SAM), i dati di partenza sono categoriali.

Anche attraverso l’analisi dei cluster su tutto il campione è stato possibile riscontrare la stessa distribuzione delle immagini. Gli stimoli neutri tendono a formare un cluster a parte, rispetto gli altri stimoli visivi.
Inoltre, attraverso il metodo del legame medio tra gruppi, si è stati in grado di evidenziare gli outlier presenti nel campione.

Diversamente da database già esistenti IAPS (Lang et al., 1995; Lang & Greenwald, 1988), GAPED (Dan-Glauser, & Scherer, 2011) e NAPS (Marchewka, Zurawski, Jednoróg, & Grabowska, 2013), l’aspetto innovativo di questo studio consiste nell’aver valutato non solo le relazioni tra le dimensioni di Pleasure e Arousal, ma anche la dimensione della dominanza tramite tecniche multivariate quali l’analisi dei cluster e lo scaling multidimensionale. Questo tipo di indagine ha permesso di creare delle mappe di percezione, che hanno evidenziato un particolare orientamento delle immagini, separando nettamente le immagini neutre da quelle non neutre.

Analizzando, invece, le due dimensioni di Pleasure e Arousal tramite scatterplot si è notata una forte correlazione positiva, evidenziando, per costruzione della scala del SAM, che alti livelli di Arousal corrispondono a bassi livelli di Pleasure, e viceversa.

Si sono eseguite le stesse analisi stratificando per sesso, esaminando l’influenza del genere nella classificazione degli stimoli.
L’importanza delle differenze tra i generi è stata documentata nei processi cognitivi come la memoria, le emozioni, e la capacità visiva (Cahill, 2006). È stato dimostrato che gli stessi stimoli visivi possono suscitare diversi livelli di eccitazione (arousal) e di valenza (pleasure) nei due diversi generi. Rispetto agli uomini, le donne reagiscono più fortemente agli stimoli con connotazione negativa.

L’analisi stratificata per il genere in questo studio, conferma questi dati, mostrando che le correlazioni tra Pleasure e Arousal sono molto più forti nel sottocampione femminile. L’indice di correlazione di Spearman tra Arousal e Pleasure per le femmine risulta pari a r = 0,72 e per i maschi r = 0,687.
Le femmine sembrano quindi essere più emotive, perché maggiormente attivate da stimoli con valenza negativa (contenuto di rabbia e paura). I maschi, al contrario, si attivano molto meno.

In linea con gli studi elettrofisiologici, le donne mostrano una maggior ampiezza dei potenziali evento-correlati per gli stimoli spiacevoli e molto “attivanti”, di quanto non facciano gli uomini (Lithari et al., 2010).
Un altro aspetto innovativo di questo progetto riguarda la scelta del modello categoriale delle emozioni, basato su un numero di emozioni universali con basi biologiche e filogenetiche proprie (Ekman, 1992).

In questo sistema di classificazione di tipo categoriale, stati emotivi diversi sono fenomeni qualitativamente distinti. Ogni stato emotivo è caratterizzato da agiti specifici, manifestazioni neurofisiologiche unitarie e corrispettivi psicologici specifici. Approcciandosi con questa mentalità categoriale, si è analizzata ogni singola emozione (valutazione soggettiva del soggetto rispondente) tramite livelli specifici di arousal, pleasure e dominanza.

Uno studio di psicopatologia del trauma a cavallo tra quattro paesi: PTSD, Credenze e Dissociazione – Riccione, 2017

Uno studio di psicopatologia del trauma a cavallo tra quattro paesi: PTSD, Credenze e Dissociazione

T. Ciulli, G. Mazzoni, I. Fernandez, C. La Mela

Scuola Cognitiva di Firenze (SCF) -Studi Cognitivi, Firenze, Italy; Casa di Cura Neuropsichiatrica Poggio Sereno, Firenze, Italy; Istituto EMDR, Italia Scuola Cognitiva di Firenze Scuola di Specializzazione in Psicoterapia

Forum di Psicoterapia e Ricerca Studi Cognitivi Network –Riccione, 5-6 maggio 2017

 

Numerosi sono i soggetti colpiti da esperienze traumatiche durante la loro vita. Diverse ricerche empiriche supportano l’efficacia di terapie basate sull’esposizione al trauma quali, la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), compresa l’Esposizione Prolungata (PE), la Terapia Cognitiva (CT), la Terapia Cognitiva Processuale (CPT) e l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

Tutti questi trattamenti seppur differenti, enfatizzano i processi di elaborazione di elementi quali emozioni, informazioni e valutazioni relative alle memorie traumatiche. Inoltre, in numerosi studi il PTSD è talora associato a sintomi dissociativi ed è un fenomeno presente in contesti culturali diversi (APA, 2014). Infine, alcuni autori ipotizzano come stati dissociativi possano connettersi con aspetti cognitivi negativi in soggetti con PTSD (Thompson-Hollands et al., 2017).

Gli obiettivi del nostro studio sono: 1) esaminare la tipologia di cognizioni connesse ad esperienze traumatiche, 2) indagare il livello di correlazione tra credenze negative connesse ad esperienze traumatiche e grado di dissociazione, 3) esplorare eventuali differenze di contesto tra gruppi di diversa nazionalità.

Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità – Recensione

A più di dieci anni dal precedente volume in cui proponevano un modello di funzionamento e trattamento dei disturbi di personalità (DP), con questo libro gli autori raccontano l’evoluzione concettuale e procedurale del loro modello avvenuta in questi ultimi anni di cambiamenti in ambito teorico e di pratica clinica. Il libro propone un modello integrato di terapia dei disturbi di personalità che aggiunge al principio cognitivista della centralità dei significati personali nei processi psicologici, l’importanza dello sviluppo delle abilità metacognitive.

Ivana Buccione e Giovanni M. Ruggiero

 

 

Curare i casi complessi: La suddivisione del libro in due parti

Il lavoro è suddiviso in due parti. La prima, più teorica, illustra l’attuale dibattito sui DP e la cornice concettuale in cui si sviluppa il trattamento proposto. Si fa particolare riferimento alla crisi della nosografia attuale, all’introduzione del modello alternativo per la diagnosi dei DP che affianca alla classificazione categoriale quella di tipo dimensionale, e alla presenza di casi complessi che presentano aspetti psicopatologici multiformi. Gli autori discutono il concetto chiave di metacognizione e lo propongono come possibile fattore generale della patologia di personalità, e presentano una struttura gerarchica dell’intervento per i DP, precisando terapie e tecniche che integrano nei loro interventi.

La seconda parte descrive il trattamento sviluppato presso il centro, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), a partire dalla fase di pre-trattamento, che va dal primo colloquio clinico, alle procedure di assessment e restituzione diagnostica, fino al contratto terapeutico. Viene data particolare attenzione all’uso terapeutico della relazione e ai cicli interpersonali attivati durante la terapia, sottolineando come questi ultimi siano una preziosa occasione per comprendere il paziente e perseguire importanti obiettivi di cura. Gli autori espongono procedure e tecniche per la gestione degli stessi, attraverso la descrizione dei cicli tipici dei differenti DP. Passano poi in rassegna i principi della TMI, descrivendo obiettivi, setting e procedure di intervento diversificati e integrati per migliorare le singole sottofunzioni metacognitive.

 

L’importanza di identificare e gestire gli stati mentali problematici

Il libro ci guida attraverso l’identificazione degli stati mentali problematici, sia nella componente cognitiva che emotiva, e spiega come sviluppare nel paziente l’abilità di monitoraggio di questi elementi. Di seguito viene approfondita l’attività di integrare i vari stati mentali presenti nelle narrazioni dei pazienti, promuovendo lo sviluppo di buone memorie autobiografiche e della costruzione del senso di sé. Gli autori proseguono descrivendo le difficoltà di differenziazione e decentramento, necessarie per assumere distanza critica dal proprio modo di rappresentare la realtà e proporre letture di sé e degli altri meno soggettive e stereotipate.

Proprio il decentramento e l’integrazione sembrano essere aspetti prognostici dell’esito dell’intervento nei casi (quasi) impossibili, come gli autori definiscono i casi al limite della trattabilità. I pazienti più gravi sono, infatti, quelli caratterizzati da un pensiero più egocentrico (basso decentramento) e più bassa integrazione, spesso presente in chi ha vissuto esperienze traumatiche e di maltrattamento.

Nel capitolo conclusivo del volume viene proposta una check-list di domande che aiutano il terapeuta ad applicare le tecniche e le procedure TMI e a valutare l’aderenza al trattamento.

Un libro che nasce dall’esperienza di professionisti che da oltre venti anni svolgono attività clinica e di ricerca nell’ambito del trattamento dei disturbi di personalità, e che per questo si propone come punto di riferimento per terapeuti esperti e per allievi in formazione.

Il libro è anche un passo avanti verso l’adozione di procedure formalizzate. L’operazione avviene nello spirito di adesione e fedeltà a linee guida che vorrebbero essere più flessibili e clinicamente realistiche di protocolli più o meno rigidi. Una scelta che ha i suoi pro e i suoi contro, ma che rimane legittima e promettente.

 

Paranoia e complottismo: quali sono le differenze?

Paranoia e complottismo: Mentre il paranoico lotta con tutte le forze contro la percezione della propria vulnerabilità ontologica, molti complottisti scimmiottano la diffidenza, brandiscono una paranoia-giocattolo, solo per alimentare una forma di autocompiacimento, per la ricerca narcisistica di apprezzamento speciale, di distinzione dalla massa. Il paranoico è egocentrico, e per lui questo egocentrismo è fonte di tortura; il complottista è egotista, e per lui questo egotismo è fonte di gratificazione.

 

Ho letto gli articoli di Giovanni Maria Ruggiero intitolati L’origine del complottismo: dalla landa delle ipotesi ragionevoli alle terre selvagge dei deliri e Credulità e paranoia nel Bel Paese: gli italiani sono più creduloni o complottisti?

Li ho trovati piacevoli, incisivi, stimolanti. Porto con me due punti importanti: 1) di fronte al caos, a eventi inspiegabili, crudeli, apparentemente contronaturali, la nostra mente è incapace di accettazione silenziosa; ricorda piuttosto un nerd saccente: usa troppo la logica, riscrive il mondo creando trame contorte purché prevedibili; essenzialmente perché l’imprevedibilità, il caos, per la nostra mente sono indigesti; 2) C’è una parentela strettissima tra recettività alle astrusità complottistiche e paranoia (“credulità e paranoia sono gemelle separate”, dice Giovanni): entrambe creano, personificano un “nemico” esterno, tallonano colpevoli diabolici per dare soluzione a problemi che è meglio non affrontare: nel caso del complottismo, il senso collettivo di impotenza rispetto alla noncurante spietatezza della natura; nel caso della paranoia, il dolore riferito di una ferita interna all’individuo, l’eco di “qualche aspetto spiacevole o indesiderabile della propria vita” che si insinua tra gli interstizi della coscienza.
Tutto convincente.

E’ vero: l’analogia tra paranoia e ideazione complottistica è indirettamente corroborata dalla ricerca. Idee a sfondo persecutorio e complottistiche possono presentarsi in forme più o meno sfumate anche nella popolazione generale (Chapman & Chapman, 1980; Claridge, 1997; Freeman, 2007; Peters, Joseph, & Garety, 1999; Shevlin, Murphy, Dorahy, & Adamson, 2007; Strauss, 1969). Questo assunto è tra l’altro coerente con l’idea che l’ideazione paranoide possa rappresentare una strategia adattativa appropriata a fronte di pericoli reali che è possibile incontrare nei contesti sociali (Gilbert, 2005). In altre parole, la paranoia può essere considerata un’euristica del tipo better safe than sorry (Gilbert, 1989) che non è appannaggio esclusivo dei “paranoici”: in termini di sopravvivenza, meglio sovrastimare la probabilità che l’altro sia malevolo e possa danneggiarmi piuttosto che stimare realisticamente quella probabilità per poi dovermene pentire anche solo una volta.

 

Le differenze tra la paranoia e il complottismo

Ok, diciamo che il complottismo è una forma di paranoia parafisiologica presente in grado variabile nell’essere umano e pure etologicamente fondata. Però per me pensare a questa continuità tra paranoia e complottismo è allo stesso tempo un invito forte a cercare le differenze tra le due. Un po’ come in quel gioco della Settimana Enigmistica, in cui ci sono due vignette apparentemente uguali, ma che differiscono per (di solito sette) piccoli particolari.

A questo punto mi viene in mente il marito morbosamente geloso del film “L’Enfer” di Claude Chabrol. Un uomo perfettamente adattato al suo ambiente, che sviluppa progressivamente il convincimento delirante che la moglie lo tradisca, e pure in un modo per lui particolarmente umiliante. Arriverà a ucciderla, convinto di essere nel giusto.

Poi mi sono venuti in mente alcuni miei pazienti. Un mio paziente di 32 anni costruì gradualmente il delirio in base al quale i servizi segreti dell’azienda per cui aveva appena iniziato a lavorare subito dopo la laurea avessero organizzato un complotto ai suoi danni con l’intento di ucciderlo. La terapia lo aiutò a capire che il suo delirio era la risposta alle situazioni, frequenti, in cui si sentiva debole fisicamente, fragile rispetto a un altro percepito come forte e dominante: Una questione di sopravvivenza…di essere alla mercé del più forte, disse una volta.

Un’altra mia paziente, 26 anni, la notte successiva alla rottura di un breve rapporto sentimentale con un coetaneo si svegliò in preda all’angoscia e sentì la voce del ragazzo che le impartiva ordini su come comportarsi con i genitori. Si convinse gradualmente che il ragazzo stesse ordendo con la sua banda un piano per abusare di lei sessualmente. La ragione, confessata con enorme imbarazzo: la banda la considerava sessualmente irresistibile. In una seduta della fase avanzata della terapia disse “Il nocciolo del problema sta in questo senso di inferiorità […] per tutta l’adolescenza ho avuto fortissima questa sensazione […]. Anche con le mie amiche avevo la sensazione che mi volessero danneggiare perché era come se andassero a colpire il mio punto debole…

Emil Kraepelin ci sarebbe andato a nozze. Tutti questi soggetti rientrano nella sua definizione di paranoia (1919) come psicosi caratterizzata da uno sviluppo progressivo di idee deliranti sistematizzate, incentrate su temi vari quali la grandezza, la persecuzione o l’infedeltà. Nosologia a parte, in tutti e tre i casi il soggetto si sente a livello preriflessivo, somatico, vulnerabile rispetto all’altro, che è percepito come dominante. La condizione più temuta per il sé è quella di subordinazione, sottomissione e inferiorità rispetto all’altro. Per chi voglia approfondire, io e i miei colleghi analizziamo nel dettaglio questo aspetto nel nostro manuale Terapia Metacognitiva Interpersonale della Schizofrenia (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).

Poi ho pensato al complottismo. E mi è subito venuta in mente una complottista convinta. Un’amica di mia moglie.
Per lei il vaccino trivalente è ovviamente causa di autismo. Tutte le volte che per contratto coniugale mi sono costretto a incontrarla, l’ho sentita delirare su multinazionali dei vaccini che ostacolano diabolicamente la presa di coscienza da parte della collettività di una verità così fondamentale. (Per inciso, pensava che Wakefield fosse la denominazione di una di queste multinazionali. Doveva aver carpito il nome da una conversazione e averlo poi leggermente decontestualizzato). Se penso all’amica di mia moglie però faccio un po’ fatica ad attribuirle un’incapacità di silenziare la mente razionale e di impedirle di mettersi al servizio di una diffidenza paranoide. Faccio fatica, insomma, a scorgere in casi come questo quell’iperproduzione di concatenazioni logiche che caratterizza l’ideazione complottistica, e che la rende per certi versi simile ai processi della paranoia. Vedo qualcos’altro. Qualcosa di più sottile. E insopportabile. E qui mi sa che si gioca la più importante differenza tra complottismo – almeno in casi come questo – e paranoia.

Mentre il paranoico lotta con tutte le forze contro la percezione della propria vulnerabilità ontologica, molti complottisti scimmiottano la diffidenza, brandiscono una paranoia-giocattolo, solo per alimentare una forma di autocompiacimento, per la ricerca narcisistica di apprezzamento speciale, di distinzione dalla massa. Il paranoico è egocentrico, e per lui questo egocentrismo è fonte di tortura; il complottista è egotista, e per lui questo egotismo è fonte di gratificazione. Il protagonista de L’Enfer, i pazienti che ho citato, e tanti altri che seguo, lottano per la loro sopravvivenza, l’amica di mia moglie lotta per affermare se stessa auto-alimentando la credenza di riuscire a vedere cose che gli altri non vedono, di essere più intelligente di chi la circonda, della moltitudine di incoscienti che ancora continuano a far vaccinare i propri figli.

Il paranoico ha onore, e onestà intellettuale: affronta il suo nemico sul campo. Molti complottisti cercano riscatto dall’insulto dell’anonimato, e in questo sono piuttosto codardi: per il complottista, come dice Giovanni, il nemico deve essere potente e invisibile, in modo tale che se pure riempirà il cielo di strie chimiche e la terra di bambini autistici, al complottista sarà bastato fargli “tana” e raccontare agli amici la propria astuzia (purtroppo, anche ai mariti degli amici!); poco importa se poi “si rassegnerà al dominio di quel nemico e si sentirà emendato dalla responsabilità di contrastarlo”.
E poi, un’altra differenza. Direi definitiva. I pazienti che ho citato sopra hanno chiesto aiuto. È successo quando si sono sentiti sfiancati dalla loro stessa diffidenza, o irrimediabilmente assediati da un nemico che era ormai ovunque. I complottisti – soprattutto quelli come l’amica di mia moglie – non chiederanno mai aiuto; devono convincerci del fatto che siamo noi ad avere urgente bisogno del loro, di aiuto.

Sully (2016), il decision making al cinema: il processo di scelta in condizioni di rischio

Oche canadesi: tanto è bastato per lasciare in grossi guai il comandante Chesley Sullenberger, Sully, che si è ritrovato sui cieli di New York con un Airbus a motori spenti e 155 persone da riportare a terra. Il lieto fine del volo US Airways 1549 è ormai storia, a questo punto possiamo chiederci quali sono i processi che hanno portato il comandante a prendere la decisione giusta in così poco tempo.

 

Il film Sully, diretto da Clint Eastwood e uscito nelle sale a dicembre 2016, è un fedele resoconto dei fatti del 15 gennaio 2009 e della successiva indagine alla quale il comandante Chesley Sullenberger è stato sottoposto. La pellicola esplora anche il vissuto personale e il disagio di un uomo che si è visto messo a giudizio, pur sapendo di aver preso la miglior decisione possibile. Lasceremo tutti i dettagli della vicenda a chi vorrà vedere il film, perché la parte che vogliamo qui esplorare è il processo decisionale, cioè quali sono stati i fattori che possono aver portato il comandante a fare quella che poi si è rivelata la scelta giusta.

Alle 3.25 pm del 15 gennaio 2009 l’Airbus A320-214 decolla dall’aeroporto LaGuardia di New York, ma non arriveràà mai a destinazione. Infatti 2 minuti e 11 secondi dopo il decollo, a una quota di 2700 piedi (820 m), avviene l’imprevedibile: il velivolo impatta contro uno stormo di oche canadesi e non uno, ma entrambi i motori subiscono una improvvisa e totale perdita di potenza. Bisogna trovare un modo per tornare a terra, e non c’è molto tempo per decidere.

Quello che viene definito “birdstrike” in aviazione è un evento noto e previsto, e i motori degli aerei di linea sono in grado di sopportare “l’ingestione” di piccoli volatili senza subire danni significativi. Ma le oche canadesi sono animali che arrivano a pesare anche cinque chili l’uno, e il caso ha voluto che non uno, ma entrambi i motori dell’aereo fossero coinvolti nell’impatto.

Oche canadesi: tanto è bastato per lasciare in grossi guai il comandante Chesley Sullenberger, Sully, che si è ritrovato sui cieli di New York con un Airbus a motori spenti e 155 persone da riportare a terra.

Il lieto fine del volo US Airways 1549 è ormai storia: l’aereo è ammarato sul fiume Hudson, e tutti i 155 occupanti dell’aereo sono stati tratti in salvo. L’impresa è stata definita “il miracolo sull’Hudson”,  e il comandante Sully è diventato un eroe nazionale.

Tuttavia la vicenda non si conclude con il salvataggio dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio, poiché subito dopo l’accaduto il National Transportation Safety Board (NTSB) avvia delle indagini per verificare se per il comandante sarebbe stato possibile rientrare in aeroporto invece che tentare il rischiosissimo ammaraggio nell’Hudson.

Inizialmente le simulazioni sembrano dare ragione al NTSB: il rientro al LaGuardia sarebbe stato possibile; ma per tutta la durata dell’indagine il comandante sosterrà con fermezza la bontà della sua decisione.

Se questi sono gli eventi, dobbiamo ancora esaminare la scelta che ne ha determinato il corso.

Per capire in quali condizioni ha agito il comandante Sully, il primo dato da prendere in considerazione è il tempo: la sua è stata una decisione presa nell’arco dei pochi secondi in cui si è svolto lo scambio di battute tra lui e la torre di controllo.

Diamo uno sguardo ai dati. Alle 3:27:36 il comandante comunica alla torre di controllo la perdita di potenza, e comincia la manovra per tornare al LaGuardia. Il controllore di volo blocca tutte le partenze, e dice a Sullenberger che può virare a sud est e atterrare sulla pista 13, ma già a questo punto il comandante risponde di non esserne più in grado. Alle 3.31, cioè meno di quattro minuti dopo la comunicazione dell’avvenuto birdstrike, il comandante Sully sta ammarando con successo nelle acque dell’Hudson.

A questo punto possiamo chiederci quali sono i processi che hanno portato il comandante a prendere la decisione giusta in così poco tempo.

Kahneman, Nobel 2002 per l’economia, nel suo libro “Pensieri lenti e veloci” (2012) parla di “intuizione esperta”, e riporta l’esempio del vigile del fuoco esperto che riesce a “intuire” che lo stabile dove si trovano lui e la sua squadra sta per crollare, evacuandolo per tempo e salvando in tal modo la propria vita e quella dei colleghi.

Per quanto possa sembrare quasi soprannaturale, Kahneman spiega che nell’intuizione del caposquadra dei vigili del fuoco non c’è nulla di magico, ma c’è la capacità di osservare e valutare formatasi in anni di esperienza sul campo.

Tuttavia, perché l’intuizione esperta possa ritenersi affidabile, deve essersi formata in un ambiente sufficientemente regolare e prevedibile (regolato da leggi fisse, con poca casualità), e in tale ambiente il soggetto deve avere avuto l’opportunità di fare molta pratica.

Senza dubbio, nelle intuizioni esperte dei piloti di aerei le due condizioni sono rispettate. Da una parte, la fisica del volo risponde a leggi fisse e quindi offre un ambiente prevedibile e regolare; dall’altra, il comandante Sullenberger aveva fatto estensiva pratica di tale ambiente regolare, in quanto al momento del decollo aveva 19.663 ore di volo all’attivo, delle quali 4.765 sullo stesso modello di aereo che stava pilotando quel 15 gennaio.

Quindi l’intuizione esperta può avere avuto un ruolo. Ma in che modo può aver lavorato l’intuizione esperta?

Qualcuno potrebbe pensare a una valutazione rischi-benefici delle opzioni che il comandante aveva a disposizione. Una volta preso atto che i motori avevano cessato di erogare potenza e che non c’era modo di riattivarli, le possibilità erano tre: rientrare all’aeroporto LaGuardia; andare verso il New Jersey all’aeroporto Teterboro oppure tentare l’ammaraggio nel fiume Hudson.

Se consideriamo il problema dal punto di vista delle possibili conseguenze, vediamo che le prime due opzioni hanno lo stesso valore e si contrappongono alla terza. Infatti, un avvenuto rientro a uno dei due aeroporti avrebbe significato atterrare in condizioni che garantivano le maggiori possibilità di sopravvivenza per gli occupanti del velivolo. Ma optare per uno dei due aeroporti avrebbe anche significato esporsi a rischio di completo disastro, in caso di errore di valutazione: infatti, non riuscire a raggiungere la pista avrebbe significato schiantarsi sugli edifici attorno all’aeroporto, moltiplicando così il numero delle potenziali vittime dell’incidente.

L’ammaraggio sull’Hudson era un’opzione i cui possibili esiti erano meno estremi: in caso di disastro completo, non ci sarebbero state vittime ulteriori oltre agli occupanti dell’aereo; ma anche in caso di un ammaraggio riuscito, le statistiche sulla percentuale di sopravvissuti degli ammaraggi (53% – planecrashinfo) non lasciavano spazio a previsioni molto ottimistiche sul numero delle possibili vittime.

Kahneman (2012) nel suo “schema a quattro celle” mostra come gli esseri umani tendono a esporsi a grossi rischi pur di avere la possibilità di evitare una perdita ingente; un po’ come il giocatore di azzardo che continua ad indebitarsi raddoppiando la posta, sperando di recuperare il proprio debito con una mano fortunata.

Trovandosi in un contesto di sole perdite, per Sully l’atterraggio in aeroporto sarebbe equivalso alla mano fortunata del giocatore d’azzardo: tutti salvi. Ma sappiamo che la scelta è stata un’altra, e che quindi l’intuizione esperta ha lavorato contro l’umana tendenza a correre grossi rischi, quando si tratta di scegliere tra due mali. Oppure no?

Gerd Gigerenzer (2015) nel suo libro “Risk Savvy” parla di scelte in contesti di rischio, e sostiene la grande utilità delle euristiche, cioè regole pratiche che nascono dall’esperienza. L’autore mostra come in contesti anche complessi, come quelli degli investimenti finanziari, euristiche molto semplici possono ottenere risultati migliori di modelli matematici complessi e di difficile applicazione.

Tra i casi che Gigerenzer cita c’è proprio quello del volo 1549. Ma questo significa che allora i piloti hanno usato un’euristica, per decidere se tentare l’ammaraggio o andare verso uno dei due aeroporti? Pare di sì, e il copilota Jeffrey Skiles intervistato in una trasmissione televisiva (The Charlie Rose Show, 11 febbraio 2009) ha spiegato quale.

La regola dice: “Guarda verso la torre di controllo: se la vedi dal finestrino, non ce la farai”. Questo significa che, nel momento in cui si rimane senza più propulsione, gli elementi del paesaggio che si vedono dal finestrino della cabina di pilotaggio sono quelli che non si riusciranno a raggiungere. Infatti, dal momento in cui i motori smettono di erogare potenza, l’aereo comincia la sua inevitabile discesa e il muso punterà verso il basso, e solo in quel momento i luoghi dove più verosimilmente avverrà l’atterraggio appariranno nella visuale dei piloti.

Forse grazie un’euristica, forse grazie all’intuizione esperta, e forse grazie anche alla fortuna; in ogni caso ciò che avvenne in quel 15 gennaio 2009 è stato giustamente ribattezzato “miracolo sull’Hudson”, poiché a quanto pare Chesley Sullenberger per portare in salvo le 155 persone che stavano sull’aereo (compreso lui stesso) ha domato non solo le leggi della fisica del volo, ma anche quelle delle scelte in condizioni di rischio.

DSA e sport: come “leggono” lo sport i ragazzi con Disturbi dell’apprendimento?

Nonostante alcuni aspetti portino a pensare che svolgere uno sport possa essere un’ esperienza altamente fallimentare per un ragazzo affetto da DSA è importante tener conto anche delle caratteristiche che possono far diventare queste persone veri e propri campioni nelle discipline sportive.
Le persone con DSA spesso hanno facilmente una visione d’insieme, una percezione globale e riescono a “leggere” le situazioni in modo più ampio.

Vania Galletti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Le difficoltà nello sport dei ragazzi con DSA

Siamo in un’epoca in cui i ragazzi sono sempre meno abituati a correre, a sudare perché con l’avvento dell’era informatica gran parte delle abitudini sono cambiate. E’ necessario  far recuperare la pratica sportiva ai ragazzi in quanto oltre a costituire una valvola di sfogo lo sport costituisce un metodo educativo di prevenzione del disagio e di conoscenza delle proprie capacità.
I ragazzi con Disturbi specifici dell’apprendimento spesso incontrano difficoltà nella socializzazione all’interno di un gruppo di pari così come nella coordinazione motoria: è quindi molto importante creare delle condizioni perché essi possano sperimentare esperienze positive e socializzanti in contesti che siano extrascolastici e di gruppo.

Un altro problema che gioca a svantaggio dei ragazzi con DSA è il fatto che per la pratica dello sport si richiede l’intervento diretto del sistema attentivo, del coordinamento motorio, del controllo della postura, e di altri aspetti spesso carenti in questi ragazzi.
In uno studio di Vuijk et al. (2011) è emerso come in un campione eterogeneo di 137 bambini in età scolare con difficoltà di apprendimento esaminati con la batteria sul movimento per bambini (MABC) il 52,6% dei bambini esaminati si collochi al di sotto del 15 ° percentile sulla destrezza manuale, 40,9% in abilità con la palla, e il 33,7% sulla capacità di equilibrio. Inoltre, moderate correlazioni sono state trovate tra ortografia e matematica e il punteggio totale MABC, così come una moderata correlazione tra la matematica e l’equilibrio, tra la lettura e abilità con la palla, e tra l’ortografia e la destrezza manuale.

In uno studio Olandese di Westendorp et. al. (2011) sono state confrontate le abilità motorie di bambini con difficoltà di apprendimento (n = 104) con quelli di bambini a sviluppo tipico di pari età (n = 104) utilizzando il test di Gross Motor Development-2. I risultati di questo studio riportano punteggi significativamente inferiori su entrambi i subtest delle abilità locomotorie rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico. Inoltre, nei bambini con difficoltà di apprendimento è stata osservata una relazione specifica tra capacità di lettura e abilità locomotorie.

Un altro interessante dato riguarda il controllo posturale dei ragazzi con disturbi dell’apprendimento. Razuk et al. (2014) hanno osservato come lo scarso controllo dei bambini dislessici sia legato al modo in cui le informazioni sensoriali sono acquisite dall’ambiente. In condizioni in cui segnali sensoriali sono meno informativi, i bambini dislessici richiedono più tempo per elaborare stimoli sensoriali al fine di ottenere informazioni precise e questo porta ad un deterioramento delle prestazioni.

 

Il cervelletto: l’area coinvolta nell’equilibrio e nel movimento

Secondo Nicholson e Fawcett ( 1999) inoltre il cervelletto è la principale area motoria coinvolta con il balance, l’equilibrio e l’apprendimento delle capacità motorie. E’ in questa area che le motor skills cioè le abilità motorie diventano automatiche, ovvero eseguite senza alcuna consapevolezza.
Un buon esempio potrebbe essere l’andare in bicicletta o giocare a tennis. All’inizio quando impariamo questi tasks “compiti” dobbiamo stare attenti a ciò che facciamo: per esempio come tenere la racchetta, come muovere il braccio, la postura…nel momento in cui è automatico possiamo compiere lo stesso movimento di continuo senza pensarci. Ad ogni moto il cervelletto, secondo questi autori è coinvolto in attività cognitive ben più complesse. In particolare ci sono dei collegamenti neurologici con la corteccia, includendo anche l’area di Broca. Il cervelletto è responsabile nello sviluppo del linguaggio, in particolar modo nell’articolazione delle abilità linguistiche, in quanto coinvolge il tempo e la fluency. Possiamo quindi immaginare la connessione con il fenomeno dislessia, leggere, scrivere.

 

Le risorse e le possibilità di successo nello sport per i ragazzi con DSA

Nonostante questi aspetti portino a pensare che svolgere un’attività sportiva possa essere un’ esperienza altamente fallimentare per un ragazzo affetto da DSA è importante tener conto anche delle caratteristiche che possono far diventare queste persone veri e propri campioni nelle discipline sportive.
Le persone con DSA spesso hanno facilmente una visione d’insieme, una percezione globale e riescono a “leggere” le situazioni in modo più ampio.

Ragionano in modo dinamico, creando connessioni inusuali che altri difficilmente riescono a sviluppare. Sono capaci di vedere le cose da diverse prospettive, tendono ad affrontare i “compiti” con approcci e modalità diverse. Percepiscono ed apprendono in maniera multidimensionale, usando tutti i sensi, tendono a processare le informazioni in modo globale invece che in sequenza. Sono creativi, creano e sviluppano facilmente nuove idee e soluzioni. Esprimono le loro potenzialità in un contesto dinamico, in continuo cambiamento, in cui riescono a sviluppare idee e a fare previsioni.

Tutte queste caratteristiche fanno presagire una possibilità di successo per i ragazzi con DSA, aspetto molto importante visto che questi sono ragazzi abituati a leggere negli occhi dei loro insegnanti la sfiducia nei confronti delle loro capacità e riuscire a “fare bene” qualcosa è una rivincita il cui valore non si può quantificare.

E se il successo è arrivato per atleti dislessici come il pugile e campione dei pesi massimi Muhammad Alì, i grandissimi giocatori di basket Michael Jordan e Magic Johnson, il campione di canottaggio Steve Redgrave e tanti altri perché non mirare in alto!?
I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere la volontà e l’abilità. Ma la volontà dev’essere più forte dell’abilità.

Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari: una revisione della letteratura – Report dal Forum di Riccione 2017

Worry e Ruminazione possono essere coinvolti nei disturbi alimentari? Questa l’ipotesi da cui muove il lavoro di ricerca.

 

Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari – una revisione della letteratura

Palmieri S., Mansueto G., Ruggiero G.M., Sapuppo W., Sassaroli S.

 

La giornata di Sabato 6 maggio presso il Forum di Psicoterapia e Ricerca organizzato di Studi Cognitivi si apre con una sessione dedicata ai Disturbi Alimentari: dopo una lectio magistralis tenuta dal Prof. Riccardo Dalle Grave relativa all’implementazione dei trattamenti evidence based per il trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), viene presentato un innovativo lavoro di ricerca che per la prima volta indaga la presenza del Repetitive Thinking all’interno dei DCA. Il lavoro, dal titolo “Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari – una revisione della letteratura” è presentato dalla Dottoressa Sara Palmieri.

La presentazione si apre con la definizione di worry e ruminazione, il primo inteso come catena di pensieri di tipo negativo, a prevalenza verbale, relativamente incontrollabili. Fenomeno focalizzato sulla soluzione dei problemi e orientato al futuro. La ruminazione è invece definita come quell’insieme di pensieri che ripetutamente mettono a fuoco l’attenzione dell’individuo sulle sue sensazioni e sintomi negativi, le loro cause, significati e conseguenze. Esso è un fenomeno per lo più orientato al passato. Stili di pensiero basati su Worry e Ruminazione danno forma a ciò che in letteratura viene definito Repetitive Thinking.

In letteratura worry e ruminazione vengono spesso studiati in relazione a disturbi d’ansia e disturbi depressivi, alcuni studi suggeriscono come questi ultimi siano categorie trans-diagnostiche riscontrabili anche nei disturbi alimentari, suggerendo così un overlap tra disturbi alimentari, disturbi d’ansia e depressione. Gli autori dello studio “Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari – una revisione della letteratura” partono dunque da tali premesse, confermate dalla letteratura, per assumere la presenza di una base cognitiva comune tra DCA, ansia e depressione caratterizzata dal Repetitive Thinking.

Worry e Ruminazione possono dunque essere coinvolti nei disturbi alimentari? Questa l’ipotesi da cui muove il lavoro di ricerca. L’obiettivo è effettuare una revisione degli studi in letteratura che hanno indagato l’associazione tra Repetitive Thinking e disturbi alimentari, dato che ad oggi non esistono revisioni sulla relazione tra worry, ruminazione e Disturbi del Comportamento Alimentare.

Le ricerche incluse nella revisione, sono state selezionate secondo alcuni criteri di inclusione ben specifici: articoli in lingua inglese pubblicati in riviste peer –review; studi che valutano worry e/o ruminazione nei disturbi alimentari diagnosticati secondo i criteri del DSM, del RCD e dell’ICD; studi caso-controllo, studi prospettici di coorte, trasversali e sperimentali. Sono stati invece esclusi studi che prevedevano diagnosi neurologiche, deficit cognitivi, co-occorrenza di disturbi psichiatrici e obesità e studi che indagano processi cognitivi non specificatamente riferiti a worry e ruminazione.

Due investigatori indipendenti hanno selezionato gli articoli attraverso uno screening iniziale del titoli, dell’abstract, dei test utilizzati, dell’effettiva omogeneità del campione e dell’appropriatezza del campionamento casuale: dall’iniziale identificazione di 1096 articoli, si è giunti poi, attraverso altre selezioni ben strutturate, alla scelta di 18 articoli, in particolare sette articoli sul worry e 11 sulla ruminazione.

Dall’analisi dei risultati emersi dagli studi revisionati, è possibile evincere una rilevanza dei processi cognitivi di worry e ruminazione nei disturbi alimentari. In particolare, pazienti con Disturbi Alimentari mostrano un più alto livello di Repetitive Thinking rispetto ai controlli; non vi sono differenze nel Repetitive Thinking in pazienti con diagnosi diverse di DCA; il brooding sembra essere la dimensione della ruminazione più frequentemente associata ai disturbi alimentari; worry e ruminazione sembrano essere associate ad alti livelli di stress ed emozioni negative.

Lo studio ha aperto alcuni interrogativi ai quali gli autori hanno cercato di rispondere, primo tra tutti: il Repetitive Thinking è associato a specifici sintomi nei Disturbi del Comportamento Alimentare? Nel corso dello studio è stato approfondito anche questo ed è emerso come in pazienti anoressici la ruminazione sia legata al desiderio di astenersi dal mangiare, mentre nei pazienti bulimici worry e ruminazione sembrerebbero legati al desiderio di abbuffarsi. Nonostante queste specificità, non è ancora chiaro come gli stessi processi cognitivi in diversi pazienti possano portare a una diversa sintomatologia.

Altro interrogativo che gli autori hanno cercato di approfondire: qual è il legame tra Repetitive Thinking e disturbi alimentari? Gli autori dello studio hanno cercato di spiegare il legame tra questi ricorrendo al modello della Cascata Emotiva (Selby, Anestis, 2008; 2009): secondo tale modello un evento porta a emozioni negative che scatenerebbero un processo di ruminazione e, in modo ciclico, questo rafforzerebbe l’emotività negativa del soggetto; per interrompere tale circolo vizioso, tale cascata emotiva, il soggetto mette in atto un comportamento disregolato. Si potrebbe ipotizzare che anche worry ed emozioni negative siano relati l’uno alle altre nello stesso modo (Salters-Pedneault et al. 2006).

L’ultimo interrogativo a cui gli autori hanno cercato di dare risposta riguarda le future indicazioni cliniche: dai dati raccolti si potrebbero ricavare alcuni suggerimenti quali considerare, durante l’anamnesi dei pazienti, anche l’assessment di worry e ruminazione. Inoltre, se future conferme si avranno sulla relazione tra pensiero ripetitivo, processi di regolazione delle emozioni e disturbi alimentari, allora si potrebbe pensare a un intervento sul Repetitive Thinking volto alla regolazione delle emozioni. Allo stesso modo se il rapporto tra pensiero ripetitivo e DCA venisse confermato da altri studi, si potrebbe vedere tale pensiero come un indizio di sintomi alimentari sotto soglia e questo potrebbe portare anche alla messa appunto di interventi di prevenzione.

Nel corso della presentazione gli autori hanno messo in luce i punti di forza dello studio ma anche i punti di debolezza. Il pubblico ha ascoltato il tutto con molto interesse: temi cari alla psicopatologia e alla psicoterapia sono stati analizzati in un’ottica nuova, scorgendo tra essi nuove relazioni.

Problemi da affrontare nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione in Italia

Negli ultimi dieci anni sono stati aperti in Italia numerosi servizi clinici per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione, ma rimangono molti problemi da affrontare per riuscire ad offrire ai pazienti la garanzia di essere curati con i migliori trattamenti disponibili evidenziati dalla ricerca.

 

In primo luogo, i centri clinici sono distribuiti in Italia a macchia di leopardo, con alcune regioni che sono in grado di fornire ai pazienti tutti i livelli di cura coordinati secondo un modello a rete di centri di riferimenti, mentre in molte altre sono mancanti soprattutto i livelli di cura più intensivi.

In secondo luogo, le opzioni di trattamento offerte ai pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione nei servizi clinici esistenti dipendono dalle risorse disponibili e dalla formazione ricevuta da clinici. Anche se sono disponibili trattamenti psicologici evidence-based, come la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) (Fairburn, 2008) per tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione degli adulti (Poulsen et al, 2014; Fairburn et al. 2009, 2013) e degli adolescenti (Dalle Grave et al. 2013, 2015; Calugi et al. 2015), la terapia psicodinamica focale (FPT) per gli adulti con anoressia nervosa (Zipfel et al. 2014), la psicoterapia  interpersonale (IPT) per la bulimia nervosa (Fairburn et al 2015) e il trattamento basato sulla famiglia (FBT) per gli adolescenti con anoressia nervosa (Lock et al. 2010), essi sono raramente somministrati ai pazienti oppure, quando lo sono, i terapeuti deviano spesso dal protocollo raccomandato dimenticando di utilizzare alcune procedure, oppure omettendole di proposito o introducendo procedure non previste (Waller, 2016).

Nella maggior parte dei casi sono somministrati trattamenti eclettici multidisciplinari evidence-free in cui si combinano, non sempre in modo coerente, psicoterapie generiche di diversa natura con interventi nutrizionali e psicofarmacologici prescrittivi, dettati principalmente dalla formazione ricevuta dai vari operatori e non da un modello teorico comune specifico per la cura dei disturbi dell’alimentazione.

In terzo luogo, in alcuni servizi clinici c’è un’enfasi eccessiva sul ricovero, ed è comune per i pazienti ricevere cure completamente diverse, sia in termini di teoria e contenuti, quando passano da una forma meno intensiva di cura (per es. il trattamento ambulatoriale) a una più intensiva (per es. il trattamento riabilitativo ospedaliero) e viceversa. Questo crea discontinuità nel percorso di cura e disorienta comprensibilmente i pazienti sulle strategie e procedure da utilizzare per affrontare il disturbo dell’alimentazione. Alcuni centri di ricovero, inoltre, hanno liste d’attesa eccessivamente lunghe.

Infine, pochi centri clinici raccolgono dati sull’esito dei trattamenti a breve e a lungo termine.

Non c’è una soluzione unica a questi problemi. Un aumento delle risorse dedicate al trattamento dei disturbi dell’alimentazione potrebbe aiutare, ma forse un migliore utilizzo di quelle disponibili potrebbe essere una strategia ancora più efficace.

L’obiettivo primario per migliorare la situazione attuale dovrebbe essere riuscire a offrire alla maggior parte dei pazienti un trattamento ben somministrato basato sull’evidenza scientifica prima possibile. Le terapie basate sull’evidenza sono poco costose, perché sono somministrate da un “singolo” terapeuta (CBT-E, IPT) o da equipe multidisciplinari (FBT) in 20-40 sedute, e determinano, nei 2/3 dei pazienti che concludono il trattamento (circa l’80%), una remissione duratura dal disturbo dell’alimentazione (Poulsen et al, 2014; Fairburn et al. 2009, 2013; Fairburn et al 2015; Lock et al. 2010). I vantaggi di questi trattamenti, che includono alti livelli di efficacia e bassi costi sono, però, realizzabili soltanto se i terapeuti hanno ricevuto una formazione adeguata, altrimenti i tassi di risposta si riducono drasticamente.

In Italia purtroppo anche i terapeuti specializzati nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, raramente ricevono una formazione sulle psicoterapie basate sull’evidenza. Per tale motivo è necessario sviluppare nuove modalità di formazione, per esempio corsi post-universitari specificatamente costruiti per formare i terapeuti e far acquisire loro le abilità necessarie per usare queste forme di psicoterapia. I corsi dovrebbero includere le metodologie abitualmente usate per formare i clinici negli studi controllati, come la disponibilità di un manuale, l’uso di un approccio didattico interattivo, l’osservazione di sedute attuate da esperti, la pratica del role-playing e la registrazione delle sedute per far valutare a dei colleghi la fedeltà al protocollo del trattamento.

Ai pazienti che non rispondono alle psicoterapie basate sull’evidenza scientifica dovrebbero essere offerti trattamenti più intensivi come il day-hospital o il ricovero in centri di riferimento altamente specializzati. In questi centri è offerta in genere una vasta gamma di procedure mediche, psichiatriche, psicologiche ed educative evidence-free spesso incoerenti tra loro che forniscono messaggi contraddittori ai pazienti senza un razionale teorico. Per far fronte a questo problema è auspicabile che anche nei centri intensivi di cura sia offerto ai pazienti un approccio coerente possibilmente basato sulla teoria e che i terapeuti, pur mantenendo i loro ruoli professionali specifici, condividano la stessa filosofia e adottino interventi basati sull’evidenza. Tali competenze dovrebbero essere acquisite attraverso programmi di formazione specifici che si aggiungano al percorso formativo di base del singolo professionista nella propria disciplina di pertinenza. Dopo la dimissione è inoltre indispensabile, per limitare il tasso di ricaduta che affligge i trattamenti intensivi, fornire ai pazienti un trattamento ambulatorio che non sia in contraddizione con quanto fatto durante il ricovero.

Un esempio di trattamento sviluppato in Italia che soddisfa le indicazioni riportate nel precedente paragrafo è la CBT-E intensiva (Dalle Grave, 2017; 2011; 2012). L’intervento, basato sulla CBT-E ambulatoriale, è stato adattato per la terapia ambulatoriale intensiva e il ricovero ed è somministrato da un’ équipe multidisciplinare non eclettica, composta da medici, psicologi, dietisti ed infermieri, tutti formati nella CBT-E.

L’efficacia del trattamento è stata valutata dal Villa Garda-Oxford Study, uno studio randomizzato e controllato eseguito presso la Casa di Cura Villa Garda in collaborazione con il centro CREDO dell’università di Oxford (UK) e pubblicato su Psychotherapy and Psychosomatics (Dalle Grave et al, 2013).

I risultati dello studio indicano che circa il 90% dei pazienti ha completato il trattamento e più dell’85% ha raggiunto un peso normale. Dopo la dimissione si è verificata una moderata perdita di peso solo nei primi 6 mesi ed è stata limitata solo ai pazienti adulti. Il 73,9% degli adolescenti aveva un peso normale dopo 12 mesi dalla dimissione. Oltre al recupero del peso, il trattamento ha determinato una riduzione significativa delle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo: un miglioramento mantenuto anche 12 mesi dopo la dimissione. Questi risultati hanno suscitato molto interesse a livello internazionale e trattamenti ospedalieri basati sul modello di Villa Garda, sono stati recentemente implementati in Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda, Inghilterra e negli USA.17

Ai pazienti che non rispondono a più trattamenti ambulatoriali e intensivi ben somministrati può essere presa in considerazione la somministrazione di interventi che hanno l’obiettivo primario di migliorare le qualità di vita, piuttosto che la riduzione dei sintomi (Hay & Touyz , 2015) . Questa decisione va, comunque, presa con cautela, perché i pazienti, anche con una lunga durata del disturbo dell’alimentazione, se ingaggiati attivamente nel trattamento possono raggiungere la remissione o comunque un notevole miglioramento della loro psicopatologie e del loro stato nutrizionale (Calugi et al. 2017).

Infine, è auspicabile riuscire a dedicare maggiori risorse alla ricerca per sviluppare trattamenti più potenti ed efficaci per tutti i disturbi dell’alimentazione rispetto a quelli attualmente disponibili.

Lezioni di leadership da… Charlie Brown?!

Il dualismo Charlie BrownLucy rappresenta uno dei leitmotiv più divertenti e popolari nelle storie di Schulz. I due personaggi, tuttavia, non sono accostabili soltanto per i relativi confronti individuali, in cui il primo ha inesorabilmente la peggio.
Considerando le attività svolte in gruppo, Charlie Brown e Lucy sono le figure che più spesso e per motivi diversi tendono a guidare i loro amici, presentando stili di leadership opposti.

 

I Peanuts come strumento di critica sociale

Alla guida della sua squadra di baseball, Charlie Brown è un esempio di leadership riflessiva. Con lui impariamo cosa significa essere leader aperti alla valorizzazione delle persone, della diversità e della creatività.

Parte del successo delle strisce di Charles M. Schulz è spiegabile, banalmente, dalla loro inconfondibile vena ironica. Ripetizione, assurdità, esagerazione sono solo alcuni degli espedienti che hanno reso così popolari le (dis)avventure di Charlie Brown.
Tuttavia, l’opera valica i confini della semplice comicità per caratterizzarsi come un’opportunità di riflessione su più livelli (un esempio è proprio la rubrica di questo portale dedicata ai Peanuts).

Il primo illustre italiano a riconoscerne e tributare il giusto merito è Umberto Eco che, nell’introdurre il primo numero della rivista linus (Eco, 1965), presenta al nostro pubblico i fumetti di Schulz come qualcosa di “importante”. Secondo lo scrittore, proprio attraverso la ripetizione delle storie è possibile cogliere il valore letterario del fumetto, come se si trattasse di un romanzo.

Eco ha dedicato un breve saggio al “Mondo di Charlie Brown” (Eco, 1964), sostenendo che i Peanuts, pur perfettamente integrati nella logica industriale della comunicazione di massa, possono essere letti anche come strumento di critica sociale. Il gruppo di amici rappresenta così un microcosmo, metafora e risultato delle storture prodotte dal degrado della società contemporanea, nel quale ogni personaggio mette in atto strategie per sfuggire alla nevrosi e all’alienazione.

Tutto ruota intorno a Charlie Brown, che nel suo contesto rappresenta l’unica eccezione. Insicuro, introverso, inetto, a differenza dei suoi amici non utilizza alcun metodo che lo aiuti a gestire il disperato bisogno di affermazione e tenerezza. A causa della sua stessa natura, quindi, è condannato a essere respinto dal mondo e al fallimento perpetuo.

Agli antipodi c’è Lucy, il prototipo dell’integrazione. Ostentatamente e oltremodo fiduciosa nelle sue capacità, spietata, votata al profitto sicuro rinuncia alla sofferenza attraverso la perdita di ogni forma di empatia. I suoi tratti psicologici sono stati approfonditi in questo articolo e accostati al disturbo narcisistico di personalità.

 

Il dualismo Charlie Brown – Lucy: stili di leadership opposti

Il dualismo Charlie BrownLucy rappresenta uno dei leitmotiv più divertenti e popolari nelle storie di Schulz. I due personaggi, tuttavia, non sono accostabili soltanto per i relativi confronti individuali, in cui il primo ha inesorabilmente la peggio.
Considerando le attività svolte in gruppo, Charlie Brown e Lucy sono le figure che più spesso e per motivi diversi tendono a guidare i loro amici, presentando stili di leadership opposti.

Lo stile di Lucy emerge chiaramente dal ritratto che ne fa Charlie Brown nell’episodio “Sally’s sweet babboo” (Schulz, 1985). L’occasione è la stesura di un tema sulle vacanze natalizie appena trascorse: gran parte del racconto è dedicata alla recita di Natale, diretta da Lucy. La perfida bambina presenta ai suoi amici un piano organizzativo dettagliato e insindacabile, con ruoli e responsabilità prestabiliti per ciascuno. Le reali competenze e attitudini del gruppo, fatta eccezione per le proprie (Lucy naturalmente predisposta per essere la star indiscussa), sono da lei ignorate. Il risultato è un disastro, non solo per la pessima riuscita dello spettacolo ma soprattutto perché un clima di stress e tensione si è diffuso nell’intero gruppo in quello che avrebbe dovuto essere un momento gioioso e di condivisione. Non è difficile immaginare come mai ogni componente della recita vada a lamentarsi di tutto ciò con… Charlie Brown.

Il “bambino dalla testa rotonda” è il manager della squadra di baseball composta dai suoi amici.
A differenza di Lucy, Charlie Brown mostra capacità di ascolto e di mediazione, nonostante sia spesso ignorato dai compagni. Sebbene in oltre cinquant’anni di strisce e campionati il team riesca a contare non più di dieci vittorie, bottino disastroso per una squadra di qualunque livello, Charlie Brown appare generalmente motivato, preparato e assertivo. I suoi valori principali, comunque, restano l’unità e l’armonia del team, come emerge nell’episodio speciale “Charlie Brown’s All-Star” (Mendelez, 1966). Nonostante i pessimi risultati, Charlie Brown riceve una proposta di sponsorizzazione che garantirebbe l’iscrizione della sua squadra a un campionato organizzato e una nuova uniforme: risultati invidiabili per un team amatoriale. Tuttavia, dopo aver saputo che l’iscrizione al campionato non ammette la partecipazione di ragazze e animali (Snoopy è un componente del team), egli decide di rinunciare alla sponsorizzazione tenendo unita la squadra. L’episodio ci insegna come i risultati siano importanti, ma la dignità e la diversità lo siano molto di più.

Gli stili di leadership di Lucy e Charlie Brown possono essere ricondotti all’applicazione dei concetti heideggeriani di pensiero calcolante e pensiero riflessivo (Heidegger, 2011), alla filosofia dell’organizzazione (Krentz, Malloy, 2005). Il pensiero calcolante è ricondotto a un approccio organizzativo fortemente orientato all’efficienza, al potere e al profitto che implica strutture, responsabilità e ruoli rigidi. Poco spazio, in questa prospettiva, è lasciato al cambiamento, alla creatività e all’innovazione.

Il pensiero riflessivo, diversamente, si orienta sulle individualità e diversità dei componenti del team, chiamati anzitutto a realizzare le proprie possibilità in quanto esseri umani e, conseguentemente, a contribuire in modo attivo e creativo alla definizione degli obiettivi, delle priorità e della filosofia dell’organizzazione. Il singolo componente non è considerato mezzo per perseguire la produttività, ma fine in se stesso. Una leadership riflessiva, quindi, è proiettata alla valorizzazione del potenziale umano, si mette spesso in discussione e si interroga sul significato ultimo dell’agire dell’intera organizzazione.

Tornando al nostro beniamino, il fatto che sia generalmente un disastro senza speranza lo rende comico, umano, adorabile. Se Charlie Brown continuerà a essere un perdente sta a noi immaginarlo: i Peanuts non hanno un lieto fine. Tuttavia, se si osservano i valori e i comportamenti di questo personaggio è possibile riconoscere i tratti di un leader autentico, moderno e fonte, se non di identificazione, d’ispirazione (Barile, Dini, 2016). Senza prendersi troppo sul serio.

Ansia e depressione si curano con la psicoterapia: l’esempio del Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Se è vero che una volta conclamate ansia e depressione, i sintomi sono uguali per tutti, tali sintomi si generano e si stabilizzano in ogni individuo per una ragione unica e individuale. La psicoterapia individua l’origine del malessere soggettivo, valorizzando le personali esperienze vissute dal paziente. 

 

Negli ultimi cinquant’anni si è assistito ad un radicale cambiamento della psichiatria intesa come disciplina medica. Le benzodiazepine e gli antidepressivi, in particolar modo i cosiddetti “ricaptatori della serotonina”, hanno fatto sì che lo psichiatra assumesse un nuovo ruolo sociale: mentre prima, nell’immaginario comune era semplicemente il medico che si occupava di sedare i pazienti di difficile gestione, oggi è colui che può curare numerosi disagi psichici, permettendo ai pazienti di gestire in maniera più funzionale la propria quotidianità.

I nuovi psicofarmaci e il rivoluzionario cambiamento d’immagine della psichiatria, hanno senza dubbio, provocato effetti positivi sulla comune visione delle patologie mentali: i disturbi d’ansia e la depressione infatti, oggi sono malattie a tutti gli effetti, non più banali capricci o ancora peggio preludio di una fantomatica “pazzia”. Se da un lato però questa nuova realtà ha contribuito ad attenuare i pregiudizi e lo stigma da sempre associato a questo tipo di malattie, dall’altra, l’assunzione di psicofarmaci per anni, molte volte cronicizza la sintomatologia con il rischio che l’organismo non sappia più generare da solo tutte quelle sostanze che garantiscono all’individuo una certa stabilità dell’umore e del benessere.

Il farmaco dunque sembra essere diventato la terapia d’elezione, ma non è l’unica: la psicoterapia, nonostante sia indicata come ausilio nella cura di ansia e depressione nelle linee guida del NICE, spesso viene prescritta a discrezione medica o ancor peggio, soltanto suggerita. La psicoterapia è l’unico metodo di cura che può tenere conto dell’unicità dell’individuo, si corre altrimenti il pericolo di trattare tutti allo stesso modo, facendo in modo che semplicemente tutti producano neurotrasmettitori al ritmo consigliato dal contesto sociale in cui si vive.

Se è vero che una volta conclamate ansia e depressione, i sintomi sono uguali per tutti, tali sintomi si generano e si stabilizzano in ogni individuo per una ragione unica e individuale. La psicoterapia individua l’origine del malessere soggettivo, valorizzando le personali esperienze vissute dal paziente, perché a parità di esperienza, non è detto che tutti sviluppino determinate reazioni e determinati sintomi (non tutti coloro vittime di un incidente stradale sviluppano la fobia della guida così come non tutti coloro che si trovano a dover affrontare un lutto sviluppano la depressione). Dopo aver individuato le peculiarità che hanno causato il malessere soggettivo, un attento percorso terapeutico sarà in grado di individuare inoltre, le personali risorse del soggetto, affinché possa, nel più breve tempo possibile, riprendere le normali attività quotidiane e stabilizzare nuovamente l’umore.

Il trattamento farmacologico riveste comunque un ruolo importante nelle fasi preliminari del trattamento, perché permette al soggetto di inibire la sintomatologia che inizialmente occupa gran parte dei propri pensieri e che il più delle volte non gli permette di vedere una via di uscita dalle proprie difficoltà. La psicoterapia dal canto suo, permette di installare risorse dapprima inesplorate affinché l’individuo possa pian piano superare il momento di difficoltà, tale periodo a volte, può coincidere con lo scalare della terapia farmacologica.

 

Ansia e depressione: il lavoro del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, si avvale di esperti e qualificati psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

L’approccio del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova prevede alcuni incontri iniziali di valutazione psicodiagnostica, attraverso i quali si mettono in evidenza criticità e risorse del soggetto al fine di individuare il percorso terapeutico più adatto a lui. Tale lavoro e tali risultati vengono condivisi e discussi con l’individuo, il quale può scambiare con il terapeuta eventuali dubbi o perplessità sul proprio funzionamento e/o sulle iniziative terapeutiche.

La psicoterapia cognitivo comportamentale è in genere un intervento altamente strutturato e di breve durata. Il principio condiviso dal centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova è che i pensieri, le emozioni e i comportamenti, siano tre fattori che si condizionano incessantemente e reciprocamente; l’obiettivo di cura del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, è innanzitutto quello di ridurre la sintomatologia depressiva o ansiosa che provoca malessere nell’individuo e aiutarlo in seguito a modificare quei modi di pensare, spesso radicati, che li portano a vivere specifiche emozioni e di conseguenza a mettere in atto determinati comportamenti, spesso disfunzionali.

Gli psicoterapeuti del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, lavorano dunque in sinergia con gli psichiatri di riferimento, ma a differenza di questi ultimi, che gestiscono il trattamento farmacologico, gli psicoterapeuti accompagnano gli individui in un percorso volto a ridurre gli stati mentali indesiderati e ad aumentare la sensazione di benessere percepito.

 

Cosa offre il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova?

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova propone un trattamento clinico che prevede un primo colloquio, in cui si presenta la problematica che affligge la persona in quel determinato momento; una valutazione diagnostica, effettuata attraverso strumenti di valutazione riconosciuti dalla comunità scientifica; un successivo colloquio in cui vengono comunicati i risultati ottenuti e il relativo progetto terapeutico e infine, l’invio al terapeuta più adatto al caso, con cui intraprendere un percorso di psicoterapia mirato alla risoluzione della problematica.

La Ricaduta nell’ alcolismo: fattori predisponenti, craving e modelli di prevenzione

La ricaduta è un fenomeno che si presenta quando una persona, che ha un problema di dipendenza come l’ alcolismo, consuma nuovamente la sostanza dopo un periodo di astinenza.

Marta Bugari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La ricaduta nell’uso di sostanze da parte di soggetti detossificati  è un evento comune, al punto che può essere considerata una componente costante nella storia naturale dei Disturbi da Uso di Sostanze (DUS) e del loro trattamento. I trattamenti di recupero tradizionali, concettualizzano la ricaduta come una sconfitta, un esito negativo equivalente al fallimento del trattamento.

Questa prospettiva considera il trattamento un processo dicotomico che può esitare solo o nell’astinenza completa o nella ricaduta. Al contrario diversi modelli basati su teorie sociali, cognitive e comportamentali interpretano la ricaduta come un processo transitorio, una serie di eventi che si dispiegano nel tempo. (M. E. Larimer, R.S. Palmer, G. A. Marlatt,, 1999)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la Dipendenza come “disturbo cronico e recidivante” a sottolinearne la lunga durata ed il decorso caratterizzato da periodi di remissione totale o parziale e da periodi di riprese dei comportamenti “tossicomanici”. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

 

Alcolismo e ricaduta

Una delle poche aree di consenso nel trattamento dell’ alcolismo riguarda l’idea che l’ alcolismo sia una condizione cronica con alto rischio di ricaduta.

Gli studi hanno riportato un tasso del 80% o più di ricadute dopo 6 mesi dal trattamento, con esiti dei singoli pazienti che si sono rivelati altamente instabili nel corso del tempo.

Sebbene i risultati siano poveri, nel trattamento con gli alcolisti, ha avuto nel complesso un grande successo l’avvio del loro comportamento di cambiamento .

Infatti, le ricerche suggeriscono che gli i pazienti con alcolismo hanno difficoltà nell’intraprendere un cambiamento per conto proprio e che il problema centrale, come in altri problemi di dipendenza, è mantenere il cambiamento nel tempo. (H.M Annis, 1986. pp. 407–408)

Nel percorso che porta l’alcolista inattivo alla ricaduta, egli compie una serie di “atti apparentemente insignificanti” che progressivamente lo avvicinano all’alcol cosi che la ricaduta inizia prima del primo uso di alcol e continua dopo l’uso iniziale.

Gli stimoli ambientali hanno un importantissimo ruolo nell’innescare e mantenere questa condizione e tuttavia una forte variabilità individuale nella risposta agli stimoli.

L’utente  tende a riferire la ricaduta come “casuale” o determinata dalle pressioni sociali:  “… mi sono trovato di fronte al solito bar…”, “…ho incontrato un vecchio amico e non ho resistito”. Spesso la responsabilità del comportamento è attribuita al caso o ad altre persone e questo può essere un tentativo di attenuare i sensi di colpa e di impotenza.

 

I motivi che portano alla ricaduta

Numerosi studi hanno dimostrato come la ricaduta abbia una sua storia, dei correlati psicologici, biologici e che non sia quasi mai un evento puntiforme.

Anche situazioni di malessere psicologico possono innescare il processo di ricaduta come pure situazioni stressanti non correlate alle sostanze d’abuso. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

In uno studio su pazienti con alcolismo sono stati studiati i predittori del desiderio di bere e la relazione tra il desiderio e il bere immediatamente dopo il trattamento.

La ricerca è stata condotta su 26 uomini con problemi di alcolismo, trattati in una struttura ospedaliera o un programma ambulatoriale intensivo e sottoposti a due sessioni di laboratorio prima di essere dimessi.

Dopo la dimissione i partecipanti hanno manifestato il desiderio di bere otto volte al giorno per 21 giorni. Coloro che hanno segnalato impulsi sul campo avrebbero una maggiore dipendenza dall’ alcol con punteggi più elevati di rabbia e ansia di tratto rispetto a chi non ha riportato questo desiderio.

Inoltre questo studio condotto in laboratorio e sul campo, ha riportato che il desiderio di assumere alcol è correlato con il bere subito dopo il trattamento ed è più probabile sia presente in coloro che hanno una più grave dipendenza e un maggiore disturbo dell’umore. Questi individui possono beneficiare maggiormente di interventi per far fronte al desiderio di assumere la sostanza dopo il trattamento. (M.D. Litt, N.L. Cooney, P. Morse,, 2002)

 

Spiegare la ricaduta: il modello Relapse Prevention

Marlatt & Gordon nel 1985 pubblicarono un testo rimasto basilare nella comprensione dei processi psicologici sottendenti la ricaduta.

Il loro modello RP “Relapse Prevention“ è basato su teorie di psicologia sociale e cognitiva e comprende anche una serie di strategie cognitive e comportamentali per prevenire o limitare gli episodi di ricaduta. (M. E. Larimer, R. S. Palmer, G. A. Marlatt, 1999)

Un aspetto centrale del modello è la classificazione di fattori o situazioni che posso verificarsi o contribuire all’episodio di ricaduta. In generale il modello RP postula che tali fattori si dividono in due categorie: “fattori determinanti di ricaduta” e “fattori preparatori per la ricaduta”.

Il modello RP postula che le situazioni ad alto rischio, possono rappresentare una minaccia al livello di autocontrollo della persona ed essere precipitatori immediati di uso di alcol iniziale dopo l’astinenza. Secondo il modello, una persona che ha avviato un cambiamento del comportamento, come l’astinenza da alcol, dovrebbe iniziare a sperimentare un maggiore senso di autoefficacia o padronanza del suo comportamento che dovrebbe rafforzarsi a mano a mano che il cambiamento del comportamento si realizza. (M. E. Larimer, R.S. Palmer, G. A. Marlatt, 1999)

Nel modello i fattori determinanti di ricaduta sono:

  • Situazioni ad “Alto rischio”, ovvero tutte quelle situazioni che sono state identificate dai pazienti come fattore principale di ricaduta e che in ordine di importanza possono essere categorizzate come: stati emotivi negativi (rabbia, ansia, depressione, frustrazione, noia) situazioni interpersonali (in special modo di conflitto) pressione sociale (ad esempio essere con altre persone che stanno bevendo) o perfino stati emotivi positivi (desiderio di mettere alla prova la propria forza di volontà).
  • La capacità di coping personale, nella misura in cui un paziente è esposto ad una situazione ad “alto rischio” come quelle categorizzate sopra, l’esito o meno verso una ricaduta dipende dalla risposta del paziente alla situazione, che a sua volta è determinata dalla sua capacità di coping, ovvero la capacità di far fronte con strategie comportamentali o cognitive alla situazione di esposizione.
  • Le aspettative sugli effetti positivi  dell’ alcol nel far fronte a situazioni di malessere intra o interpersonale; maggiore è questa aspettativa, maggiore è il rischio di ricaduta.
  • L’effetto “violazione dell’ astinenza” ovvero l’attribuzione di significato che il paziente da alla prima violazione dell’astinenza. Un’ attribuzione legata a vissuti di fallimento personale e inadeguatezza anziché ad una non ancora completa abilità nell’affrontare situazioni ad “alto rischio”, porta più facilmente ad una seconda violazione e all’abbandono del trattamento. (M. E. Larimer, R.S. Palmer,  G. Alan Marlatt, 1999)

 

Il ruolo del craving

Vi sono però anche una serie di fattori meno evidenti che hanno effetto sul processo di ricaduta in caso di alcolismo; i fattori preparatori ad una esposizione a situazione ad alto rischio:

  • Variabili esistenziali in termini di livelli di stress (lavoro, famiglia, ecc.)
  • I fattori cognitivi che possono ripristinare le condizioni che determinano la ricaduta, come la razionalizzazione, la negazione e il desiderio di gratificazione immediata o craving.

Questi fattori possono aumentare la vulnerabilità di una persona alla ricaduta sia aumentando la sua esposizione a situazioni ad alto rischio sia diminuendo la motivazione a resistere di bere in situazioni ad alto rischio. (M.E. Larimer, R.S. Palmer, G. A. Marlatt, 1999)

Il craving è il desiderio impulsivo per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto-comportamento gratificante che sostiene il comportamento “addittivo” e la compulsione finalizzati a fruire dell’oggetto di desiderio.

Nell’ alcolismo, il craving, può essere definito “urgenza di bere”, cioè la tensione a consumare la sostanza, il pensiero ossessivo ricorrente del bere, sino alla perdita del controllo dei propri impulsi nei confronti delle bevande alcoliche.

Secondo Meyer (2000) il craving sarebbe prontamente stimolato da fattori previamente associati con la sostanza, elementi capaci di svolgere un ruolo “trigger” (grilletto) che innescano con un meccanismo di condizionamento e, per associazione di idee, il desiderio della gratificazione ottenuta chimicamente. (G. Gerra, A. Zaimovic, 2002)

Nelle dipendenze da sostanza, il ripetersi dello stimolo “artificiale” fa si che quest’ultimo prenda progressivamente il posto di quelli naturali: da qui la perdita di interesse per le normali attività della vita, il pensiero concentrato sull’alcol, l’incapacità di conservare un sia pur precario equilibrio psichico in assenza della sostanza. Gli effetti della sostanza prendono così il posto di funzioni mentali fondamentali e la gratificazione indotta dalla sostanza diviene parte del funzionamento mentale, modificandolo. (M. Cibin, M. Mazzi, L. Rampazzo, G. Serpelloni, 2001)

Mentre la semplice assunzione delle sostanze psicoattive che segue i ritmi e le modalità del comportamento addittivo è regolata da un processo automatico, il craving comporta l’attivazione di un meccanismo cognitivo che non corrisponde ad un processo automatico. L’urgenza di utilizzare la sostanza, è connessa piuttosto con un conflitto nell’ambito cognitivo tra la motivazione all’assunzione dell’alcol o della droga e la consapevolezza del rischio che ne deriva: in quest’ottica dunque il craving diviene funzione di diversi fattori che interagiscono in un mutevole equilibrio con il mondo intrapsichico e con le interferenze ambientali.

Petrakis, (1999) distingue due forme di craving dal punto di vista delle aspettative del paziente: da un lato la preoccupazione di assumere la sostanza per evitare l’astinenza che viene definita “craving negativo”, dall’altro la compulsione nei confronti della sostanza sostenuta dall’aspettativa di una incentivazione, di una gratificazione. In questo caso la ricerca di un “reward” produrrebbe un “craving positivo”. (G. Gerra, A. Zaimovic, 2002)

Recenti ricerche (De Bruijn et al. 2005, Gordon et al. 2006) hanno confermato che craving è il predittore del risultato del trattamento.

Inoltre alcuni autori (Drummond et al., 2000, Shiffman 2000) hanno differenziato due modalità di desiderio: il craving base e il craving episodico.

Il craving base è sperimentato tonicamente, caratterizzato dallo stato di equilibrio stabile durante il giorno è endogeno, né provocato né modificato da stimoli ambientali esterni. Il craving episodico indica la comparsa di attacchi sporadici intensi di desiderio per l’alcol, generato e modulato da diversi stimoli ambientali o stati affettivi specifici. Gli attacchi di desiderio episodico sono considerati precursori diretti di ricaduta. ( O. Vuković, T. Cvetic,  M. Zebić, N. Marić, A. Damjanović, M. Jašović-Gašić , 2008)

Secondo Szegedi (2000), il desiderio della sostanza è sostenuto dall’esposizione a stimoli condizionanti (cue), dallo stress e da condizioni a rischio del tono dell’umore (trigger mood) che mantiene elevati livelli di craving e insieme dalla capacità di adattamento legata ai tratti temperamentali, alle caratteristiche psicologiche e ai disturbi psichiatrici, nonché la consapevolezza del rischio connessa invece con la storia individuale, i fattori culturali, ambientali e relazionali. (G. Gerra, A. Zaimovic, 2002)

Da alcune ricerche è emerso che stimoli esterocettivi come la vista e l’odore di bevande alcoliche non sono sempre sufficienti per suscitare il desiderio di alcol. È stato suggerito che spunti enterocettivi, come ad esempio gli stati di umore, possono anche svolgere un ruolo nel provocare il desiderio di alcol. Per verificare ciò, otto soggetti con alcolismo sono stati indotti a sperimentare stati d’animo negativi o neutri in quattro giorni separati, quindi esposti alla vista e l’odore della loro bevanda alcolica preferita e ad uno stimolo neutro (acqua). I risultati di questo lavoro indicano che l’esposizione ai segnali di alcool non ha avuto effetti sul desiderio per l’alcol mentre i soggetti erano in uno stato rilassato umore neutro e che la presenza di stati emotivi negativi sembrava essere sufficiente per provocare il desiderio dell’ alcol in alcuni soggetti, indipendentemente dal fatto che venga presentato alcol o acqua. Questi dati sostengono che gli stati d’animo negativi possono determinare il desiderio di alcol indipendentemente da altri stimoli. (M.D. Litt, N.L. Cooney, R.M. Kadden, L. Gaupp ,1990)

Inoltre è stato trovato che il craving nelle prime due settimane di astinenza correla positivamente con ricaduta tra 3 e 12 settimane e che la voglia di alcol indotta da umore negativo è un predittore di recidiva. (O. Vuković, T. Cvetic,  M. Zebić, N. Marić, A. Damjanović, M. Jašović-Gašić , 2008)

Il fallimento del processo di fronteggiamento delle “Situazioni ad Alto Rischio”, fa si che il paziente con alcolismo inattivo assuma la prima dose di alcol innescando l’“effetto di violazione dell’astinenza” (“effetto primo bicchiere”), cui seguono sentimenti di fallimento e di incontrollabilità della situazione, e, quasi inesorabilmente la ricaduta completa. Può apparire stupefacente che le condizioni emotive e i conflitti interpersonali siano situazioni a rischio più frequenti che le occasioni o le pressioni sociali.

In realtà queste ultime sono spesso portate dai pazienti perché più facili da spiegare, rispetto a movimenti psichici di cui hanno talora poca dimestichezza, e quasi sempre grande pudore: il rafforzamento della capacità di gestire le situazioni emotive e i conflitti interpersonali devono far parte integrante di un processo di counseling rivolto a questi pazienti. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

 

Obiettivi del modello Relapse Prevention

Il modello Relapse Prevention di Marlatt e Gordon (1985) ha come obiettivo aumentare la capacità di fronteggiamento (Coping Skills) rispetto al processo di ricaduta in particolare alle “Situazioni ad alto rischio” e all’“Effetto di violazione dell’astinenza”.

Acquisite informazioni sulle abitudini alcoliche e di vita del paziente e sulle “costanti” della ricaduta, la prima parte questo percorso prevede il sostegno al paziente rispetto alla ricaduta ed ai sentimenti negativi che la accompagnano, quindi la ricostruzione del “processo” che ha portato alla ricaduta, riconoscendone le varie tappe, gli eventi scatenanti, la dipendenza da stimoli ambientali, gli stati d’animo ed il livello di consapevolezza che le hanno caratterizzate.

In seguito si individuano insieme al paziente le cause delle difficoltà e le modalità per fronteggiarle. Tali cause possono riguardare sia il processo di ricaduta in sé, e quindi prevedere tecniche di evitamento o fronteggiamento (una classica tecnica è quella della telefonata all’amico sobrio), o il training per lo sviluppo delle capacità assertive e della autoefficacia.

In altri casi è necessario affrontare situazioni emotive o interpersonali che il paziente non riesce a gestire, spesso originatesi all’interno della famiglia, situazioni di scarsa motivazione o “apparente motivazione” e modalità efficaci per fronteggiarle. Queste ultime possono essere le più varie: dall’evitamento, alla richiesta di aiuto esterno, alla decisione di intraprendere una farmacoterapia di supporto. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

Il processo di prevenzione della ricaduta in casi di alcolismo si salda fortemente da un lato sulla motivazione dall’altro sullo stato psichico dell’utente. Secondo la Teoria della Motivazione infatti, l’attitudine al cambiamento non è data una volta per tutte, ma richiede ripetuti e numerosi passaggi attraverso fasi di “non cambiamento “ o di “ambivalenza”, che si ripetono prima di ogni nuova “azione”.

Anche in una situazione quale la prevenzione della ricaduta, che abitualmente si colloca in una fase relativamente avanzata del trattamento e in cui il paziente ha già intrapreso svariate “azioni” di “riduzione del danno”, presa di coscienza del problema con le sostanze, di disintossicazione o di stabilizzazione farmacologica, è necessario non trascurare l’ attitudine di “azione” rispetto al problema specifico. Può infatti accadere che il paziente non sia cosciente di comportamenti a rischio (fase di precontemplazione), oppure che pur essendo cosciente di questi problemi, non intenda in questo momento cambiarli (fase di contemplazione).

Ancora, il paziente può avere una percezione della propria capacità di affrontare tali situazioni (autoefficacia) irrealisticamente alta, o al contrario così bassa da essere “sconfitto” in partenza.

In tutti questi casi, gli elementi di prevenzione della ricaduta vanno proposti in una veste “motivazionale”. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

Il colloquio di motivazione è considerato oggi una delle abilità irrinunciabili per chi si occupa di problemi con le sostanze perché aiuta il paziente a trovare le proprie motivazioni, secondo i suoi tempi e le sue attitudini.

Per intraprendere interventi di prevenzione della ricaduta è necessario dunque procedere in primo luogo ad una diagnosi motivazionale, valutando cosa il paziente è effettivamente disposto a fare ai fini di evitare la ricaduta. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

Mediare è ascoltare – Il punto di partenza di ogni percorso di mediazione

Supponiamo che la commissione di un reato (un’appropriazione indebita, una diffamazione, delle lesioni personali…) abbia dato luogo ad una relazione conflittuale tra l’autore e la vittima, oppure che l’escalation di un conflitto si sia espressa attraverso la commissione di un reato (ad esempio, ingiurie, minacce, percosse…)

Alberto Quattrocolo, Associazione Me.Dia.Re

Supponiamo che la figlia di un paziente deceduto sia in conflitto con un medico dell’ospedale in cui l’uomo era ricoverato e che, per quanto alcuni accertamenti sembrino escludere l’esistenza di una responsabilità professionale, la donna sia convinta di una negligenza colpevole e letale da parte del medico. E supponiamo che il professionista sia adirato con la donna, a suo dire, immatura e irrazionale nel tradurre l’incapacità di accettare la morte del padre nella ricerca di un capro espiatorio e nell’accusare l’ospedale di mascherare degli errori inesistenti..

Supponiamo ancora che una coppia si stia separando e che i due coniugi stiano lottando per ottenere l’affidamento dei due figli accusandosi reciprocamente di essere genitori inadeguati.

Supponiamo che alcuni lavoratori siano in conflitto tra di loro e che ciò metta in difficoltà il loro responsabile, comprometta la loro produttività e, in generale, nuoccia all’ente, generando anche malessere nei colleghi.

Per tali situazioni la nostra società dispone di alcune risorse di diversa efficacia e con diversi obiettivi: tra queste, oggi, in molte città, inclusa Torino, vi sono i servizi di mediazione, intesi come interventi realizzati da professionisti formati ad hoc.

Pertanto per situazioni come quelle accennate si realizzano attività o servizi di mediazione penale, mediazione sanitaria, mediazione familiare, organizzativo-lavorativa, ecc.

 

 

In cosa consiste la Mediazione

Cosa vuol dire, però, mediazione? Si tratta di una procedura finalizzata alla conciliazione, alla costruzione di un accordo?

La risposta è indubbiamente sì rispetto alla mediazione civile e commerciale recentemente introdotta dal legislatore nell’ordinamento italiano (con il D.Lgs. 28/2010) per alcune controversie in ambito civile e commerciale, ma al di fuori di quello specifico ambito, la risposta al quesito potrebbe essere no. Dipende, in realtà, dall’impostazione che si adotta, dal mandato in virtù del quale il mediatore interviene, dalla cornice istituzionale o normativa in cui la sua opera si inserisce.

A prescindere dal metodo e dalla cornice, però, vi è un aspetto, un ingrediente, che è o, almeno, dovrebbe essere considerato, irrinunciabile in tutte le ipotesi e le pratiche di mediazione: l’ascolto.

 

Ascolto ed empatia nella mediazione

Pur essendo esperienza comune che, quando si litiga, le emozioni spesso prendono il sopravvento sulla nostra razionalità, la dimensione emotiva è, in generale, quella meno riconosciuta e accolta in tutte le sedi nelle quali il conflitto tradizionalmente approda per essere risolto.

Ciò accade tipicamente nel procedimento giurisdizionale, dove il terzo (il giudice), tentando di accertare i fatti ed esaminando la legittimità delle posizioni portate e delle condotte tenute, per stabilire chi ha ragione e chi ha sbagliato, non si occupa – non può farlo: non è la sua funzione – di come si sentono le parti che gli stanno di fronte. Mentre, questo aspetto, a prescindere dal paradigma adottato, è un aspetto centrale del percorso di mediazione. Infatti, anche per quelle impostazioni che non esaltano la dimensione empatica, il sapere far sentire accolte le parti è fondamentale.

Tuttavia, il ricorso alla giustizia, nonostante l’entità notevole dei costi di varia natura implicati, continua ad essere la scelta più seguita dalle parti in conflitto. Perché?

Una risposta veloce (e un po’, ma non troppo, superficiale) potrebbe essere che si tratta di un sintomo dell’escalation conflittuale.

Soprattutto, però, questo aspetto pone un problema anche pratico, relativo al rendere accessibile un percorso mediativo anche a chi non vuole fin dall’inizio mettersi in discussione, a chi teme il confronto, a chi non è interessato a sentire le ragioni altrui, a chi non si fida della possibilità di trattare con un avversario considerato un campione di doppiezza e malafede.

Rispetto alle situazioni astrattamente suscettibili di essere gestite con interventi di mediazione familiare, penale, sanitaria e lavorativo-organizzativa, il quesito non è di scarso rilievo.

Certo, la domanda potrebbe contenere un trabocchetto nel senso che è suscettibile di essere tradotta nei seguenti termini: come si può persuadere delle persone a mediare un conflitto che non vogliono mediare?

 

Mediare è innanzitutto ascoltare

In realtà non si tratta di introdurre alla mediazione chi non vuole sentire neppure pronunciare tale parola, ma di offrire la possibilità di essere ascoltati anche a coloro che non si sentono fin dall’inizio disponibili a “mediare” i loro conflitti. E l’esperienza dice che non sono (siamo) pochi, anzi che sono (siamo) la maggioranza.

Offrire l’opportunità di conoscere lo strumento, semmai di sperimentarne un frammento, prima di scegliere se avvalersene o meno, significa dare un’occasione di ascolto. Un ascolto non condizionato né condizionante. E ascoltare, in tal caso, non significa cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ le persone dalle loro emozioni – e neppure procurargli vaghe consolazioni – ma tentare di comprendere quel che portano.

Infatti, un elemento di non poco conto da tenere presente è il seguente:

uno degli aspetti più difficili da gestire quando parliamo con dei terzi di un nostro conflitto è il timore di essere giudicati negativamente per il solo fatto di essere parti di una lite. Ci poniamo, spesso, in tal caso, in una posizione difensiva e cerchiamo di chiarire subito che è colpa della controparte se siamo in conflitto con essa.

Si può, allora, facilmente immaginare il sollievo che potrebbe derivarci, se il nostro interlocutore più che concentrare la sua attenzione su chi ha torto o ragione, su chi è il maggior responsabile della svolta conflittuale della relazione, su chi ha iniziato per primo le ostilità, ci facesse sentire non approvati ma compresi. E non solo rispetto al “caso”, cioè come parti, ma come esseri umani, liberandoci dall’onere di dover dimostrare in maniera inoppugnabile che siamo dalla parte della verità e della giustizia.

 

Una fondamentale premessa nel percorso di mediazione

Il conflitto, com’è noto, molto spesso sorge dalla sensazione di non essere riconosciuti e, comunque con la sua progressione induce i suoi attori a riconoscersi sempre meno, spingendoli a sviluppare rappresentazioni reciproche monodimensionali, spesso spregiative, all’insegna della spersonalizzazione e finanche della de-umanizzazione, con ciò impedendo ogni possibilità di ascolto reciproco e svuotando lo strumento della parola di ogni possibilità espressiva profonda.

Quando i mediatori (familiari, penali, sanitari, ecc.), il cui unico strumento è la parola, riescono, nel loro rapportarsi con gli attori del conflitto, a farli sentire riconosciuti nella loro tridimensionalità, come esseri umani, allora riducono di molto il vuoto, l’isolamento, che tante volte il conflitto crea negli individui, nelle famiglie, nei gruppi, nelle comunità e nelle organizzazioni.

In tal senso, dunque, fanno da ponte, riconnettono. E tale connessione tra il mediatore e ciascun soggetto in conflitto è la necessaria premessa per una successiva eventuale fase di riconoscimento reciproco tra i secondi.

 


Master in mediazione familiare e penale - Associazione Me.Dia.Re LEGGI ANCHE: MASTER 2017 IN MEDIAZIONE FAMILIARE e PENALE


 

Confusione inferenziale ed esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo – Report dal Forum di Psicoterapia e Ricerca di Riccione

La prima presentazione del 5 maggio riguardava la ricerca intitolata “Confusione inferenziale ed esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo”, condotta dai Dott. Torniai, Pozza e Dettore. I discussant di tale presentazione sono stati i dott. Chiara Caruso e Gabriele Caselli e il chair la dott.ssa Daniela Rebecchi.

 

Il 5 e il 6 maggio 2017 nel Palazzo del Turismo di Riccione si è tenuto il Forum di Psicoterapia e Ricerca delle scuole di specializzazione di Studi Cognitivi.

Il 5 maggio si sono succedute 5 presentazioni di progetti di ricerca condotti da studenti e responsabili dei gruppi di ricerca delle diverse sedi e 2 sessioni poster, mentre il 6 maggio sono state proposte la lezione magistrale del Dott. Dalle Grave, 4 presentazioni e 2 sessioni poster.

La prima presentazione del 5 maggio riguardava la ricerca intitolata “Confusione inferenziale ed esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo”, condotta dai Dott. Torniai, Pozza e Dettore. I discussant di tale presentazione sono stati i dott. Chiara Caruso e Gabriele Caselli e il chair la dott.ssa Daniela Rebecchi.

La confusione inferenziale è un costrutto definito per la prima volta negli anni ’90 e definisce un processo di ragionamento erroneo in cui la persona confonde una possibilità immaginata con la realtà basata sui sensi. Gli elementi che maggiormente contribuiscono alla confusione inferenziale sono l’iperinvestimento nell’immaginazione e la sfiducia per il reale. Dunque, vi è una tendenza ad affidarsi all’immaginazione più che alla realtà.

La confusione inferenziale costituisce un marker specifico del disturbo ossessivo compulsivo rispetto ad altri disturbi psichici e può essere presente anche nel disturbo delirante.

Le ricerche hanno dimostrato come anche le esperienze dissociative siano altamente presenti nel disturbo ossessivo compulsivo, in particolare le esperienze di depersonalizzazione/derealizzazione e di amnesia dissociativa.

Alla luce di questo, il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi ha condotto una ricerca sulla confusione inferenziale e le esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo.

Hanno partecipato allo studio 60 pazienti con DOC e si è trattato di un gruppo omogeneo per sesso, con un’età compresa tra i 18 e i 60 anni, con uno stato civile nubile/celibe o coniugato e un livello di istruzione medio-alto.

Gli strumenti utilizzati sono stati:

–       Inferential Confusion Questionnaire – Expanded Version

–       Dissociative Experiences Scale-II

–       Yale Brown Obsessive Compulsive Scale

–       Padua Inventory.

Sono stati indagati gli effetti principali e di interazione tra la dissociazione (indagata con la DES-II)  e la confusione inferenziale (rilevata con l’ICQ-EV) sullo sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo (rilevato con la YBOCS). La dissociazione e la confusione inferenziale costituivano le variabili indipendenti e il disturbo ossessivo compulsivo la variabile dipendente.

I risultati hanno evidenziato un’interazione significativa tra la confusione inferenziale e la depersonalizzazione/derealizzazione rilevate attraverso la DES-II. È emersa anche la presenza di un’alta amnesia dissociativa nel campione e un’interazione tra la confusione inferenziale e l’amnesia dissociativa.

Tali risultati evidenziano come la confusione inferenziale sia un moderatore della relazione tra la dissociazione e il disturbo ossessivo compulsivo, mentre non sono emersi effetti di interazione tra la dissociazione e la confusione inferenziale sull’insight. La confusione inferenziale è risultata anche moderatore della relazione tra l’amnesia dissociativa e il sottotipo di sintomi del DOC di insufficiente controllo dei pensieri.

Tali risultati indicano come sia importante considerare anche le esperienze dissociative e la confusione inferenziale nell’ambito della terapia del disturbo ossessivo compulsivo e, dunque, l’inference based approach potrebbe essere una buona possibilità.

La presentazione è risultata molto chiara e comprensibile al pubblico presente in sala e molto  interessante per i risultati emersi.

In futuro potrebbe essere consigliabile ampliare i risultati e indagare l’effetto di terapie tese a ridurre la confusione inferenziale e la dissociazione sui sintomi del DOC.

Caratteristiche di personalità e disturbi alimentari: uno studio clinico con il Millon Clinical Multiaxial Inventory – Report dal Forum di Psicoterapia e Ricerca di Riccione

La seconda presentazione proposta il 5 maggio presso il Forum di Psicoterapia e Ricerca di Riccione riguardava il progetto di ricerca intitolato “Caratteristiche di personalità e disturbi alimentari: uno studio clinico con il Millon Clinical Multiaxial Inventory”, condotto dai Dott. Lambertucci, Cotugno, Marsero, Milioni, Ponzio, Zizak e Sapuppo. I discussant sono stati i Prof. Angelo Compare e Laura Parolin e il chair il Dott. Carmelo La Mela.

 

Tale ricerca è stata ideata, dopo aver consultato la letteratura che ha fatto emergere come alcune caratteristiche di personalità siano maggiormente associate allo sviluppo di disturbi alimentari anche se non risulta ancora chiaro in maniera assoluta quali siano tali tratti di personalità.

L’obiettivo dello studio era, dunque, quello di verificare se i risultati emersi in precedenti ricerche fossero confermati anche su un ampio campione e lo strumento utilizzato è stato il Millon Clinical Multiaxial Inventory per la definizione dei profili di personalità.

Il campione era composto da 238 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa o bulimia nervosa o Binge Eating disorder e l’età dei soggetti era compresa tra i 18 e i 60 anni.

Oltre al Millon, è stato utilizzata anche la SCL-90 per la misurazione dei sintomi psicopatologici.

L’analisi dei dati ha previsto delle analisi descrittive e di regressione sul valore predittivo dei risultati. Le variabili indipendenti erano gli stili di personalità e la variabile dipendente i disturbi alimentari (anoressia, bulimia, BED). I risultati hanno evidenziato, in particolare come vi siano 2 stili di personalità maggiormente associati allo sviluppo di disturbi alimentari: il primo stile di personalità comprende la presenza di tratti antisociali-compulsivi, del disturbo delirante e l’uso di sostanze; mentre il secondo stile di personalità è caratterizzato da elevate oscillazioni dell’umore (in particolare risultano frequenti tratti depressivi, anedonia, insonnia, sintomi bipolari, ecc).

Tali tratti personologici sarebbero, dunque, maggiormente predittivi di un disturbo alimentare.

I limiti della ricerca riguardano l’utilizzo di questionari self report e la necessità di condurre più studi su più campioni per confermare tali risultati.

Tuttavia, lo studio resta molto interessante e conferma l’importanza di considerare i tratti di personalità quando si effettua la diagnosi di disturbo alimentare, in modo tale da includerli nel trattamento.

La presentazione è risultata davvero magistrale e di notevole interesse.

 

Palermo - Personalita e disturbi alimentari

Unicef Italia, un impegno concreto per i migranti

Unicef Italia da sempre si batte in prima linea affinché sia data la giusta priorità a cure adeguate per bambini rifugiati e migranti, così da rispondere agli impellenti bisogni psicosociali e di salute mentale.

 

Il fenomeno migratorio che interessa l’Italia, a dispetto di un carattere proprio di emergenza, sempre più assume oggi i connotati di amara quotidianità, stimolando organismi nazionali e internazionali a riunire le forze per rispondere alle esigenze basilari di migranti e rifugiati (protezione fisica, sostegno, cittadinanza).

Donne, bambini, fasce fragili che richiedono un’assistenza doviziosa, costretti per svariati motivi (dalla lotta armata alla miseria, fino alle persecuzioni individuali) a cercare una nuova patria dove la spietatezza della propria realtà possa essere sostituita da un’esistenza più dignitosa, rispettosa dei diritti umani della vita, della salute, del lavoro, dell’istruzione.

Accogliendo in pieno tale sfida, Unicef Italia da sempre si batte in prima linea affinché sia data la giusta priorità a cure adeguate per bambini rifugiati e migranti, così da rispondere agli impellenti bisogni psicosociali e di salute mentale.

Bisogni di assistenza che interessano sempre più minori, in numero superiore a quello fornito dalle stime ufficiali.

Il numero di stranieri minorenni residenti non dà un quadro esaustivo della popolazione minorenne di origine straniera presente in Italia. A questo va infatti aggiunto il numero dei bambini e degli adolescenti di origine straniera che soggiornano irregolarmente, un fenomeno che per sua natura sfugge alle definizioni statistiche e per cui si corre maggiormente il rischio di non garantire i diritti fondamentali – sottolinea Matteo Ferrara, presidente del comitato provinciale Unicef di Palermo.

Unicef Italia in prima linea per il rispetto dei diritti di bambini rifugiati e migranti - Matteo Ferrara presidente del comitato provinciale Unicef di Palermo

Matteo Ferrara presidente del comitato provinciale Unicef di Palermo

 

Da tale “quotidiana emergenza” derivano i principi forti di Unicef Italia, incentrati sul rispetto dell’inviolabilità del principio di non discriminazione a beneficio di bambini e adolescenti di origine straniera e della garanzia dei diritti umani basilari quali sanità, istruzione, sicurezza economica e opportunità lavorative. In particolare:

Il nostro pensiero va al concreto rischio del mancato accesso ai diritti fondamentali per i minorenni che vivono in nuclei familiari non regolarmente soggiornanti, aumentato a seguito dell’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nello Stato italiano.

Principi saldi che si accompagnano a modifiche legislative, dove Unicef Italia diventa protagonista, attraverso ripetuti appelli alle forze politiche.

Tra le conquiste legislative sostenute da Unicef Italia la più recente è stata l’approvazione della proposta di legge nota come Legge Zampa, dal nome della Senatrice Sandra Zampa, prima firmataria del provvedimento, che introduce una serie di modifiche alla normativa vigente in materia di minori stranieri non accompagnati (MSNA) con l’intento di definire un sistema nazionale organico di protezione e accoglienza che rafforzi gli strumenti di tutela già garantiti dall’ordinamento e al contempo assicuri omogeneità nell’applicazione delle disposizioni in tutto il territorio nazionale. Il Comitato Italiano per l’UNICEF ha seguito fin dall’inizio l’iter parlamentare del provvedimento, contribuendo al suo miglioramento, insieme alle altre associazioni che in Italia si occupano della condizione particolarmente vulnerabile dei minorenni.

Azioni di tutela che hanno trovato un ancoraggio forte alle istituzioni il 19 Dicembre 2016 con la firma di un protocollo d’intesa tra l’amministrazione del Comune di Palermo e Unicef ‘’Refugee and Migrant Response Italy’’ nello spirito di rafforzare la collaborazione già attiva attraverso attività educative, formative e di supporto alle strutture di accoglienza per MSNA a Palermo.

Gli obiettivi generali del protocollo sono molteplici, in particolare il rafforzamento di una rete locale per facilitare l’accesso ai servizi dei/delle MSNA (istruzione, sanità, cultura, sport, ecc), supportando il percorso di avvio della sperimentazione sui tutori volontari, l’affinamento delle capacità degli operatori di prima linea in diretto contatto con i/le MSNA, la disseminazione di buone pratiche per soluzioni alternative all’istituzionalizzazione – spiega Ferrara – Il Comitato Provinciale di Palermo fornisce tutto il supporto e la collaborazione affinché l’impegno già attivo sia sempre rafforzato rimanendo in stretto contatto con l’Unità organizzativa Nomadi e Immigrati del Comune di Palermo e con il Garante Cittadino per l’Infanzia e l’adolescenza.

Unicef Italia in prima linea per il rispetto dei diritti di bambini rifugiati e migranti - protocollo amministrazione del Comune di Palermo e Unicef

Protocollo d’intesa tra l’amministrazione del Comune di Palermo e Unicef

 

Dalla teoria alla pratica il passo è stato breve: dopo la cerimonia del 19 dicembre 2016 che ha visto, tra gli altri, esponenti quali il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Umberto Palma, Rappresentante di Unicef per la Sicilia, e il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza del comune di Palermo, Pasquale D’Andrea, ecco in partenza il primo Corso di Formazione per Front-Line workers, di cui si è recentemente conclusa la seconda edizione.

Il Corso, presentato da Sabrina Avakian, esperta della protezione dell’Infanzia Unicef ed Elisabetta Di Giovanni, ricercatore di scienze psicologiche, pedagogiche e della formazione dell’Università di Palermo, e coadiuvato dal coordinamento tecnico amministrativo del sottoscritto e di Antonella Palazzo, si è posto l’obiettivo di fornire competenze e strumenti per l’assistenza psico-sociale ed educativa  a tutti coloro che lavorano a stretto contatto con MSNA, a partire dall’individuazione dei motivi della fuga dai propri Paesi per arrivare alla definizione delle problematiche relative all’affido dei bambini – dichiara ancora Ferrara.

Svariati gli argomenti affrontati tra cui spiccano il tema dell’accoglienza agli sbarchi e la figura del tutore per i MSNA.

Unicef Italia in prima linea per il rispetto dei diritti di bambini rifugiati e migranti - Corso di Formazione per Front-Line workers

Corso di Formazione Unicef per Front-Line workers

 

Riguardo al primo tema, la tutela dei MSNA inizia fin dallo sbarco, momento caratterizzato da confusione e ricerca di sostegno umanitario.

In questo momento delicato tra le organizzazioni preposte al sostegno troviamo Save the children che fornisce regolarmente una brochure contenente informazioni utili sul diritto d’asilo; è poi possibile effettuare visite mediche con la presenza di infettivologi. Riguardo ai minori è prassi comune utilizzare la fotosegnalazione e analizzare le impronte per i minori ultraquattordicenni. Un primo pericolo reale è invece costituito dalla possibilità di fuga nel trasferimento dal porto ai luoghi preposti all’accoglienza come le Comunità.

Superato il primo step dell’ingresso in sicurezza in Italia, si pone il problema della tutela di carattere sociale e giuridico: ecco, figura centrale per un MSNA, il tutore nominato dal giudice tutelare, un volontario che assolve a funzione di cura e protezione, conosce la cultura di appartenenza del minore e le strategie di aiuto, l’unico preposto a fare richiesta di permesso di soggiorno, autorizzazione amministrativa rilasciata da un’apposita commissione.

Chiari i riferimenti normativi:

L’art. 343 codice civile impone che la tutela sia aperta allorché i genitori siano nell’impossibilità di esercitare la potestà – riferisce Fulvio Vassallo Paleologo, dell’associazione Diritti e Frontiere (ADIF) – Il tutore è poi fondamentale per il conseguimento del permesso di soggiorno alla maggiore età, in base a quanto stabilito dall’articolo 32 del Testo unico 286/1998 che legittima a tale conseguimento, fra gli altri, coloro che durante la minore età erano sottoposti a tutela. Una criticità riscontrata in questi casi è rappresentata dai tempi necessari alla nomina dei tutori, di regola otto mesi con una media di un anno e otto mesi per le audizioni.

E se tali attività non rendessero pienamente giustizia dell’impegno di Unicef Italia ulteriori azioni in corso testimoniano la continuità e l’intensità del progetto di tutela.

Il Comitato Unicef di Palermo segue il fenomeno migratorio dei MSNA anche con il progetto del servizio civile nazionale Insieme con i bambini e i giovani migranti, stipulando accordi di collaborazione con Scuole, Centri di Accoglienza e strutture culturali e sportive della città – riprende Ferrara.

Un impegno che si traduce in motivazione a fare sempre di più, dove i sogni di un futuro migliore dei minori non possono essere disattesi.

In questo momento, alla luce dei provvedimenti che l’Italia leader tra i Paesi dell’UE sta attuando, non posso che essere orgoglioso e soddisfatto di poter lavorare con gli strumenti legislativi necessari per migliorare tutte le condizioni dei MSNA e condivido quanto dichiarato dal nostro presidente Giacomo Guerrera in occasione dell’approvazione della legge Zampa: È un importante passo avanti per i bambini migranti e rifugiati che sono fuggiti da situazioni invivibili e sono arrivati in Italia pieni di speranza per il loro futuro.

L’ umorismo come strumento terapeutico per regolare le emozioni – Report dal Forum di Riccione 2017

Obiettivo della ricerca è stato valutare se l’umorismo migliora la capacità di regolare le emozioni, dai dati si evince che il training psicoeducativo favorisce una migliore regolazione emotiva nei soggetti, aumentandone il benessere psicologico.

L’umorismo come strumento terapeutico per regolare le emozioni

di Egidio M., Di Francesco F., Pistoresi F., Esposito M., Scarinci A., Piccioni S., Ciccioli T., Tripaldi S., Mezzaluna C.

 

Continua nel pomeriggio del 5 maggio il Forum di Psicoterapia e Ricerca organizzato da Studi Cognitivi a Riccione. Anche nel pomeriggio vengono presentate le ultime ricerche in campo psicoterapeutico, si comincia con la presentazione del lavoro “L’umorismo come strumento terapeutico per regolare le emozioni

Si parte dalla definizione di umorismo, inteso come quella particolare disposizione mentale che fa cogliere di ogni situazione, anche la più drammatica, l’aspetto comico che si esprime con il riso. Il sense of humor favorisce il controllo e la gestione delle emozioni.

Umorismo e capacità di regolare le emozioni sembrano dunque legati. Ma cosa si intende per regolazione emotiva? Come esposto nel corso della presentazione, con regolazione emotiva si fa riferimento a una serie di strategie messe in atto dall’individuo per regolare l’emozione provata in un determinato momento, sostituendo uno stato emotivo inadeguato con un altro più funzionale. Va però fatta una distinzione tra strategie di regolazione adattive (ristrutturazione cognitiva, problem solving, accettazione) e strategie disadattive (soppressione dell’esperienza emozionale, soppressione espressiva, evitamento cognitivo e/o comportamentale, rimuginio e ruminazione).

Diversi studi hanno messo in luce il rapporto tra umorismo e regolazione emotiva, e la presentazione del lavoro è stata un’ottima occasione per ripassare i principali risultati presenti nella letteratura sul tema.

Obiettivo della ricerca è stato valutare se l’umorismo migliora la capacità di regolare le emozioni, le ipotesi del lavoro sono state le seguenti:

  • Il training psicoeducativo sull’umorismo risulta efficace nella regolazione di stati emotivi disfunzionali?
  • Quando il training psicoeducativo si rivela più efficace? Prima o dopo l’esposizione a stimoli emotivamente stressanti?
  • Esistono correlazioni tra gli stili di sense of humor e le risposte emotive dei soggetti?

Le ipotesi di ricerca sono state indagate su 87 soggetti non clinici, equamente distribuiti tra uomini e donne. Diversi i materiali impiegati nello studio: lo Humor Styles Questionnaire (HSQ), test che misura le differenze individuali negli stili di umorismo; un opuscolo psicoeducativo sull’umorismo che informa sugli effetti benefici dell’umorismo; delle clip video tratte sia da film comici (clip umoristiche) che da film horror (clip cruente); una griglia di misurazione delle emozioni.

I soggetti erano divisi in tre gruppi, ad ogni gruppo è stato inizialmente somministrato il test HSQ e la griglia delle emozioni in fase finale. I gruppi si differenziavano in quanto:

  • Al Gruppo di controllo vengono fatte vedere clip cruente;
  • Al primo gruppo sperimentale (Gruppo Sperimentale Pre) viene fornito l’opuscolo educativo sull’umorismo, i soggetti vedono le clip umoristiche e in seguito vengono fatte vedere clip cruente;
  • Al secondo gruppo sperimentale (Gruppo Sperimentale Post) vengono dapprima fatte vedere clip cruente e in seguito viene fornito l’opuscolo educativo e vengono fatte vedere le clip umoristiche.

I risultati dello studio sembrano essere molto interessanti: il gruppo di controllo esperisce paura, rabbia, disprezzo e orrore con maggiore intensità rispetto al Gruppo Sperimentale Post. Le emozioni di vergogna, indifferenza, invidia risultano più elevate nel primo gruppo sperimentale rispetto al secondo gruppo. Le emozioni di tristezza, disgusto, ribrezzo e repulsione risultano più intense nel gruppo di controllo rispetto al Gruppo Sperimentale Post, inoltre il Gruppo Sperimentale Pre esperisce con maggiori intensità tali emozioni rispetto al secondo. L’emozione di gioia viene esperita con minore intensità dal gruppo di controllo rispetto ai gruppi sperimentali, tra questi è il Gruppo Sperimentale Post a esperire maggiormente la gioia.

Dai dati si evince dunque che il training psicoeducativo favorisce una migliore regolazione emotiva nei soggetti, aumentandone il benessere psicologico. In particolare i soggetti del Gruppo Sperimentale Post sembrerebbero regolare meglio le emozioni di fronte a situazioni emotivamente stressanti. E’ emersa inoltre un’interessante correlazione tra alcuni stili di humor e risposte emotive nei soggetti (ad esempio lo stile di humor aggressivo è risultato correlare maggiormente con nostalgia, sorpresa, colpa e vergogna).

Dallo studio presentato si può quindi giungere alla conclusione che il possibile utilizzo di un training psicoeducativo sull’umorismo nel contesto psicoterapeutico, potrebbe incrementare le capacità dei soggetti di regolare le proprie emozioni e dunque favorirne il benessere psicologico.

Segue una discussione sullo studio con i Professori Centorame, Lamela e Ruggiero. Gli scambi sono costruttivi, si evidenziano i punti di forza e di debolezza dello studio: un modo per spronare la platea a sviluppare il proprio senso critico ma soprattutto a non dimenticare il prezioso contributo della ricerca alla pratica clinica, punto quest’ultimo volutamente reso filo conduttore dell’intero Forum. Gli spettatori non possono che ascoltare interessati.

Umorismo per regolare le emozioni - Forum RIccione 2017 -

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