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DSA e sport: come “leggono” lo sport i ragazzi con Disturbi dell’apprendimento?

Nonostante alcuni aspetti portino a pensare che svolgere uno sport possa essere un’ esperienza altamente fallimentare per un ragazzo affetto da DSA è importante tener conto anche delle caratteristiche che possono far diventare queste persone veri e propri campioni nelle discipline sportive.
Le persone con DSA spesso hanno facilmente una visione d’insieme, una percezione globale e riescono a “leggere” le situazioni in modo più ampio.

Vania Galletti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Le difficoltà nello sport dei ragazzi con DSA

Siamo in un’epoca in cui i ragazzi sono sempre meno abituati a correre, a sudare perché con l’avvento dell’era informatica gran parte delle abitudini sono cambiate. E’ necessario  far recuperare la pratica sportiva ai ragazzi in quanto oltre a costituire una valvola di sfogo lo sport costituisce un metodo educativo di prevenzione del disagio e di conoscenza delle proprie capacità.
I ragazzi con Disturbi specifici dell’apprendimento spesso incontrano difficoltà nella socializzazione all’interno di un gruppo di pari così come nella coordinazione motoria: è quindi molto importante creare delle condizioni perché essi possano sperimentare esperienze positive e socializzanti in contesti che siano extrascolastici e di gruppo.

Un altro problema che gioca a svantaggio dei ragazzi con DSA è il fatto che per la pratica dello sport si richiede l’intervento diretto del sistema attentivo, del coordinamento motorio, del controllo della postura, e di altri aspetti spesso carenti in questi ragazzi.
In uno studio di Vuijk et al. (2011) è emerso come in un campione eterogeneo di 137 bambini in età scolare con difficoltà di apprendimento esaminati con la batteria sul movimento per bambini (MABC) il 52,6% dei bambini esaminati si collochi al di sotto del 15 ° percentile sulla destrezza manuale, 40,9% in abilità con la palla, e il 33,7% sulla capacità di equilibrio. Inoltre, moderate correlazioni sono state trovate tra ortografia e matematica e il punteggio totale MABC, così come una moderata correlazione tra la matematica e l’equilibrio, tra la lettura e abilità con la palla, e tra l’ortografia e la destrezza manuale.

In uno studio Olandese di Westendorp et. al. (2011) sono state confrontate le abilità motorie di bambini con difficoltà di apprendimento (n = 104) con quelli di bambini a sviluppo tipico di pari età (n = 104) utilizzando il test di Gross Motor Development-2. I risultati di questo studio riportano punteggi significativamente inferiori su entrambi i subtest delle abilità locomotorie rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico. Inoltre, nei bambini con difficoltà di apprendimento è stata osservata una relazione specifica tra capacità di lettura e abilità locomotorie.

Un altro interessante dato riguarda il controllo posturale dei ragazzi con disturbi dell’apprendimento. Razuk et al. (2014) hanno osservato come lo scarso controllo dei bambini dislessici sia legato al modo in cui le informazioni sensoriali sono acquisite dall’ambiente. In condizioni in cui segnali sensoriali sono meno informativi, i bambini dislessici richiedono più tempo per elaborare stimoli sensoriali al fine di ottenere informazioni precise e questo porta ad un deterioramento delle prestazioni.

 

Il cervelletto: l’area coinvolta nell’equilibrio e nel movimento

Secondo Nicholson e Fawcett ( 1999) inoltre il cervelletto è la principale area motoria coinvolta con il balance, l’equilibrio e l’apprendimento delle capacità motorie. E’ in questa area che le motor skills cioè le abilità motorie diventano automatiche, ovvero eseguite senza alcuna consapevolezza.
Un buon esempio potrebbe essere l’andare in bicicletta o giocare a tennis. All’inizio quando impariamo questi tasks “compiti” dobbiamo stare attenti a ciò che facciamo: per esempio come tenere la racchetta, come muovere il braccio, la postura…nel momento in cui è automatico possiamo compiere lo stesso movimento di continuo senza pensarci. Ad ogni moto il cervelletto, secondo questi autori è coinvolto in attività cognitive ben più complesse. In particolare ci sono dei collegamenti neurologici con la corteccia, includendo anche l’area di Broca. Il cervelletto è responsabile nello sviluppo del linguaggio, in particolar modo nell’articolazione delle abilità linguistiche, in quanto coinvolge il tempo e la fluency. Possiamo quindi immaginare la connessione con il fenomeno dislessia, leggere, scrivere.

 

Le risorse e le possibilità di successo nello sport per i ragazzi con DSA

Nonostante questi aspetti portino a pensare che svolgere un’attività sportiva possa essere un’ esperienza altamente fallimentare per un ragazzo affetto da DSA è importante tener conto anche delle caratteristiche che possono far diventare queste persone veri e propri campioni nelle discipline sportive.
Le persone con DSA spesso hanno facilmente una visione d’insieme, una percezione globale e riescono a “leggere” le situazioni in modo più ampio.

Ragionano in modo dinamico, creando connessioni inusuali che altri difficilmente riescono a sviluppare. Sono capaci di vedere le cose da diverse prospettive, tendono ad affrontare i “compiti” con approcci e modalità diverse. Percepiscono ed apprendono in maniera multidimensionale, usando tutti i sensi, tendono a processare le informazioni in modo globale invece che in sequenza. Sono creativi, creano e sviluppano facilmente nuove idee e soluzioni. Esprimono le loro potenzialità in un contesto dinamico, in continuo cambiamento, in cui riescono a sviluppare idee e a fare previsioni.

Tutte queste caratteristiche fanno presagire una possibilità di successo per i ragazzi con DSA, aspetto molto importante visto che questi sono ragazzi abituati a leggere negli occhi dei loro insegnanti la sfiducia nei confronti delle loro capacità e riuscire a “fare bene” qualcosa è una rivincita il cui valore non si può quantificare.

E se il successo è arrivato per atleti dislessici come il pugile e campione dei pesi massimi Muhammad Alì, i grandissimi giocatori di basket Michael Jordan e Magic Johnson, il campione di canottaggio Steve Redgrave e tanti altri perché non mirare in alto!?
I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere la volontà e l’abilità. Ma la volontà dev’essere più forte dell’abilità.

Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari: una revisione della letteratura – Report dal Forum di Riccione 2017

Worry e Ruminazione possono essere coinvolti nei disturbi alimentari? Questa l’ipotesi da cui muove il lavoro di ricerca.

 

Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari – una revisione della letteratura

Palmieri S., Mansueto G., Ruggiero G.M., Sapuppo W., Sassaroli S.

 

La giornata di Sabato 6 maggio presso il Forum di Psicoterapia e Ricerca organizzato di Studi Cognitivi si apre con una sessione dedicata ai Disturbi Alimentari: dopo una lectio magistralis tenuta dal Prof. Riccardo Dalle Grave relativa all’implementazione dei trattamenti evidence based per il trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), viene presentato un innovativo lavoro di ricerca che per la prima volta indaga la presenza del Repetitive Thinking all’interno dei DCA. Il lavoro, dal titolo “Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari – una revisione della letteratura” è presentato dalla Dottoressa Sara Palmieri.

La presentazione si apre con la definizione di worry e ruminazione, il primo inteso come catena di pensieri di tipo negativo, a prevalenza verbale, relativamente incontrollabili. Fenomeno focalizzato sulla soluzione dei problemi e orientato al futuro. La ruminazione è invece definita come quell’insieme di pensieri che ripetutamente mettono a fuoco l’attenzione dell’individuo sulle sue sensazioni e sintomi negativi, le loro cause, significati e conseguenze. Esso è un fenomeno per lo più orientato al passato. Stili di pensiero basati su Worry e Ruminazione danno forma a ciò che in letteratura viene definito Repetitive Thinking.

In letteratura worry e ruminazione vengono spesso studiati in relazione a disturbi d’ansia e disturbi depressivi, alcuni studi suggeriscono come questi ultimi siano categorie trans-diagnostiche riscontrabili anche nei disturbi alimentari, suggerendo così un overlap tra disturbi alimentari, disturbi d’ansia e depressione. Gli autori dello studio “Il ruolo di worry e ruminazione nei disturbi alimentari – una revisione della letteratura” partono dunque da tali premesse, confermate dalla letteratura, per assumere la presenza di una base cognitiva comune tra DCA, ansia e depressione caratterizzata dal Repetitive Thinking.

Worry e Ruminazione possono dunque essere coinvolti nei disturbi alimentari? Questa l’ipotesi da cui muove il lavoro di ricerca. L’obiettivo è effettuare una revisione degli studi in letteratura che hanno indagato l’associazione tra Repetitive Thinking e disturbi alimentari, dato che ad oggi non esistono revisioni sulla relazione tra worry, ruminazione e Disturbi del Comportamento Alimentare.

Le ricerche incluse nella revisione, sono state selezionate secondo alcuni criteri di inclusione ben specifici: articoli in lingua inglese pubblicati in riviste peer –review; studi che valutano worry e/o ruminazione nei disturbi alimentari diagnosticati secondo i criteri del DSM, del RCD e dell’ICD; studi caso-controllo, studi prospettici di coorte, trasversali e sperimentali. Sono stati invece esclusi studi che prevedevano diagnosi neurologiche, deficit cognitivi, co-occorrenza di disturbi psichiatrici e obesità e studi che indagano processi cognitivi non specificatamente riferiti a worry e ruminazione.

Due investigatori indipendenti hanno selezionato gli articoli attraverso uno screening iniziale del titoli, dell’abstract, dei test utilizzati, dell’effettiva omogeneità del campione e dell’appropriatezza del campionamento casuale: dall’iniziale identificazione di 1096 articoli, si è giunti poi, attraverso altre selezioni ben strutturate, alla scelta di 18 articoli, in particolare sette articoli sul worry e 11 sulla ruminazione.

Dall’analisi dei risultati emersi dagli studi revisionati, è possibile evincere una rilevanza dei processi cognitivi di worry e ruminazione nei disturbi alimentari. In particolare, pazienti con Disturbi Alimentari mostrano un più alto livello di Repetitive Thinking rispetto ai controlli; non vi sono differenze nel Repetitive Thinking in pazienti con diagnosi diverse di DCA; il brooding sembra essere la dimensione della ruminazione più frequentemente associata ai disturbi alimentari; worry e ruminazione sembrano essere associate ad alti livelli di stress ed emozioni negative.

Lo studio ha aperto alcuni interrogativi ai quali gli autori hanno cercato di rispondere, primo tra tutti: il Repetitive Thinking è associato a specifici sintomi nei Disturbi del Comportamento Alimentare? Nel corso dello studio è stato approfondito anche questo ed è emerso come in pazienti anoressici la ruminazione sia legata al desiderio di astenersi dal mangiare, mentre nei pazienti bulimici worry e ruminazione sembrerebbero legati al desiderio di abbuffarsi. Nonostante queste specificità, non è ancora chiaro come gli stessi processi cognitivi in diversi pazienti possano portare a una diversa sintomatologia.

Altro interrogativo che gli autori hanno cercato di approfondire: qual è il legame tra Repetitive Thinking e disturbi alimentari? Gli autori dello studio hanno cercato di spiegare il legame tra questi ricorrendo al modello della Cascata Emotiva (Selby, Anestis, 2008; 2009): secondo tale modello un evento porta a emozioni negative che scatenerebbero un processo di ruminazione e, in modo ciclico, questo rafforzerebbe l’emotività negativa del soggetto; per interrompere tale circolo vizioso, tale cascata emotiva, il soggetto mette in atto un comportamento disregolato. Si potrebbe ipotizzare che anche worry ed emozioni negative siano relati l’uno alle altre nello stesso modo (Salters-Pedneault et al. 2006).

L’ultimo interrogativo a cui gli autori hanno cercato di dare risposta riguarda le future indicazioni cliniche: dai dati raccolti si potrebbero ricavare alcuni suggerimenti quali considerare, durante l’anamnesi dei pazienti, anche l’assessment di worry e ruminazione. Inoltre, se future conferme si avranno sulla relazione tra pensiero ripetitivo, processi di regolazione delle emozioni e disturbi alimentari, allora si potrebbe pensare a un intervento sul Repetitive Thinking volto alla regolazione delle emozioni. Allo stesso modo se il rapporto tra pensiero ripetitivo e DCA venisse confermato da altri studi, si potrebbe vedere tale pensiero come un indizio di sintomi alimentari sotto soglia e questo potrebbe portare anche alla messa appunto di interventi di prevenzione.

Nel corso della presentazione gli autori hanno messo in luce i punti di forza dello studio ma anche i punti di debolezza. Il pubblico ha ascoltato il tutto con molto interesse: temi cari alla psicopatologia e alla psicoterapia sono stati analizzati in un’ottica nuova, scorgendo tra essi nuove relazioni.

Problemi da affrontare nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione in Italia

Negli ultimi dieci anni sono stati aperti in Italia numerosi servizi clinici per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione, ma rimangono molti problemi da affrontare per riuscire ad offrire ai pazienti la garanzia di essere curati con i migliori trattamenti disponibili evidenziati dalla ricerca.

 

In primo luogo, i centri clinici sono distribuiti in Italia a macchia di leopardo, con alcune regioni che sono in grado di fornire ai pazienti tutti i livelli di cura coordinati secondo un modello a rete di centri di riferimenti, mentre in molte altre sono mancanti soprattutto i livelli di cura più intensivi.

In secondo luogo, le opzioni di trattamento offerte ai pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione nei servizi clinici esistenti dipendono dalle risorse disponibili e dalla formazione ricevuta da clinici. Anche se sono disponibili trattamenti psicologici evidence-based, come la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) (Fairburn, 2008) per tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione degli adulti (Poulsen et al, 2014; Fairburn et al. 2009, 2013) e degli adolescenti (Dalle Grave et al. 2013, 2015; Calugi et al. 2015), la terapia psicodinamica focale (FPT) per gli adulti con anoressia nervosa (Zipfel et al. 2014), la psicoterapia  interpersonale (IPT) per la bulimia nervosa (Fairburn et al 2015) e il trattamento basato sulla famiglia (FBT) per gli adolescenti con anoressia nervosa (Lock et al. 2010), essi sono raramente somministrati ai pazienti oppure, quando lo sono, i terapeuti deviano spesso dal protocollo raccomandato dimenticando di utilizzare alcune procedure, oppure omettendole di proposito o introducendo procedure non previste (Waller, 2016).

Nella maggior parte dei casi sono somministrati trattamenti eclettici multidisciplinari evidence-free in cui si combinano, non sempre in modo coerente, psicoterapie generiche di diversa natura con interventi nutrizionali e psicofarmacologici prescrittivi, dettati principalmente dalla formazione ricevuta dai vari operatori e non da un modello teorico comune specifico per la cura dei disturbi dell’alimentazione.

In terzo luogo, in alcuni servizi clinici c’è un’enfasi eccessiva sul ricovero, ed è comune per i pazienti ricevere cure completamente diverse, sia in termini di teoria e contenuti, quando passano da una forma meno intensiva di cura (per es. il trattamento ambulatoriale) a una più intensiva (per es. il trattamento riabilitativo ospedaliero) e viceversa. Questo crea discontinuità nel percorso di cura e disorienta comprensibilmente i pazienti sulle strategie e procedure da utilizzare per affrontare il disturbo dell’alimentazione. Alcuni centri di ricovero, inoltre, hanno liste d’attesa eccessivamente lunghe.

Infine, pochi centri clinici raccolgono dati sull’esito dei trattamenti a breve e a lungo termine.

Non c’è una soluzione unica a questi problemi. Un aumento delle risorse dedicate al trattamento dei disturbi dell’alimentazione potrebbe aiutare, ma forse un migliore utilizzo di quelle disponibili potrebbe essere una strategia ancora più efficace.

L’obiettivo primario per migliorare la situazione attuale dovrebbe essere riuscire a offrire alla maggior parte dei pazienti un trattamento ben somministrato basato sull’evidenza scientifica prima possibile. Le terapie basate sull’evidenza sono poco costose, perché sono somministrate da un “singolo” terapeuta (CBT-E, IPT) o da equipe multidisciplinari (FBT) in 20-40 sedute, e determinano, nei 2/3 dei pazienti che concludono il trattamento (circa l’80%), una remissione duratura dal disturbo dell’alimentazione (Poulsen et al, 2014; Fairburn et al. 2009, 2013; Fairburn et al 2015; Lock et al. 2010). I vantaggi di questi trattamenti, che includono alti livelli di efficacia e bassi costi sono, però, realizzabili soltanto se i terapeuti hanno ricevuto una formazione adeguata, altrimenti i tassi di risposta si riducono drasticamente.

In Italia purtroppo anche i terapeuti specializzati nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, raramente ricevono una formazione sulle psicoterapie basate sull’evidenza. Per tale motivo è necessario sviluppare nuove modalità di formazione, per esempio corsi post-universitari specificatamente costruiti per formare i terapeuti e far acquisire loro le abilità necessarie per usare queste forme di psicoterapia. I corsi dovrebbero includere le metodologie abitualmente usate per formare i clinici negli studi controllati, come la disponibilità di un manuale, l’uso di un approccio didattico interattivo, l’osservazione di sedute attuate da esperti, la pratica del role-playing e la registrazione delle sedute per far valutare a dei colleghi la fedeltà al protocollo del trattamento.

Ai pazienti che non rispondono alle psicoterapie basate sull’evidenza scientifica dovrebbero essere offerti trattamenti più intensivi come il day-hospital o il ricovero in centri di riferimento altamente specializzati. In questi centri è offerta in genere una vasta gamma di procedure mediche, psichiatriche, psicologiche ed educative evidence-free spesso incoerenti tra loro che forniscono messaggi contraddittori ai pazienti senza un razionale teorico. Per far fronte a questo problema è auspicabile che anche nei centri intensivi di cura sia offerto ai pazienti un approccio coerente possibilmente basato sulla teoria e che i terapeuti, pur mantenendo i loro ruoli professionali specifici, condividano la stessa filosofia e adottino interventi basati sull’evidenza. Tali competenze dovrebbero essere acquisite attraverso programmi di formazione specifici che si aggiungano al percorso formativo di base del singolo professionista nella propria disciplina di pertinenza. Dopo la dimissione è inoltre indispensabile, per limitare il tasso di ricaduta che affligge i trattamenti intensivi, fornire ai pazienti un trattamento ambulatorio che non sia in contraddizione con quanto fatto durante il ricovero.

Un esempio di trattamento sviluppato in Italia che soddisfa le indicazioni riportate nel precedente paragrafo è la CBT-E intensiva (Dalle Grave, 2017; 2011; 2012). L’intervento, basato sulla CBT-E ambulatoriale, è stato adattato per la terapia ambulatoriale intensiva e il ricovero ed è somministrato da un’ équipe multidisciplinare non eclettica, composta da medici, psicologi, dietisti ed infermieri, tutti formati nella CBT-E.

L’efficacia del trattamento è stata valutata dal Villa Garda-Oxford Study, uno studio randomizzato e controllato eseguito presso la Casa di Cura Villa Garda in collaborazione con il centro CREDO dell’università di Oxford (UK) e pubblicato su Psychotherapy and Psychosomatics (Dalle Grave et al, 2013).

I risultati dello studio indicano che circa il 90% dei pazienti ha completato il trattamento e più dell’85% ha raggiunto un peso normale. Dopo la dimissione si è verificata una moderata perdita di peso solo nei primi 6 mesi ed è stata limitata solo ai pazienti adulti. Il 73,9% degli adolescenti aveva un peso normale dopo 12 mesi dalla dimissione. Oltre al recupero del peso, il trattamento ha determinato una riduzione significativa delle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo: un miglioramento mantenuto anche 12 mesi dopo la dimissione. Questi risultati hanno suscitato molto interesse a livello internazionale e trattamenti ospedalieri basati sul modello di Villa Garda, sono stati recentemente implementati in Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda, Inghilterra e negli USA.17

Ai pazienti che non rispondono a più trattamenti ambulatoriali e intensivi ben somministrati può essere presa in considerazione la somministrazione di interventi che hanno l’obiettivo primario di migliorare le qualità di vita, piuttosto che la riduzione dei sintomi (Hay & Touyz , 2015) . Questa decisione va, comunque, presa con cautela, perché i pazienti, anche con una lunga durata del disturbo dell’alimentazione, se ingaggiati attivamente nel trattamento possono raggiungere la remissione o comunque un notevole miglioramento della loro psicopatologie e del loro stato nutrizionale (Calugi et al. 2017).

Infine, è auspicabile riuscire a dedicare maggiori risorse alla ricerca per sviluppare trattamenti più potenti ed efficaci per tutti i disturbi dell’alimentazione rispetto a quelli attualmente disponibili.

Lezioni di leadership da… Charlie Brown?!

Il dualismo Charlie BrownLucy rappresenta uno dei leitmotiv più divertenti e popolari nelle storie di Schulz. I due personaggi, tuttavia, non sono accostabili soltanto per i relativi confronti individuali, in cui il primo ha inesorabilmente la peggio.
Considerando le attività svolte in gruppo, Charlie Brown e Lucy sono le figure che più spesso e per motivi diversi tendono a guidare i loro amici, presentando stili di leadership opposti.

 

I Peanuts come strumento di critica sociale

Alla guida della sua squadra di baseball, Charlie Brown è un esempio di leadership riflessiva. Con lui impariamo cosa significa essere leader aperti alla valorizzazione delle persone, della diversità e della creatività.

Parte del successo delle strisce di Charles M. Schulz è spiegabile, banalmente, dalla loro inconfondibile vena ironica. Ripetizione, assurdità, esagerazione sono solo alcuni degli espedienti che hanno reso così popolari le (dis)avventure di Charlie Brown.
Tuttavia, l’opera valica i confini della semplice comicità per caratterizzarsi come un’opportunità di riflessione su più livelli (un esempio è proprio la rubrica di questo portale dedicata ai Peanuts).

Il primo illustre italiano a riconoscerne e tributare il giusto merito è Umberto Eco che, nell’introdurre il primo numero della rivista linus (Eco, 1965), presenta al nostro pubblico i fumetti di Schulz come qualcosa di “importante”. Secondo lo scrittore, proprio attraverso la ripetizione delle storie è possibile cogliere il valore letterario del fumetto, come se si trattasse di un romanzo.

Eco ha dedicato un breve saggio al “Mondo di Charlie Brown” (Eco, 1964), sostenendo che i Peanuts, pur perfettamente integrati nella logica industriale della comunicazione di massa, possono essere letti anche come strumento di critica sociale. Il gruppo di amici rappresenta così un microcosmo, metafora e risultato delle storture prodotte dal degrado della società contemporanea, nel quale ogni personaggio mette in atto strategie per sfuggire alla nevrosi e all’alienazione.

Tutto ruota intorno a Charlie Brown, che nel suo contesto rappresenta l’unica eccezione. Insicuro, introverso, inetto, a differenza dei suoi amici non utilizza alcun metodo che lo aiuti a gestire il disperato bisogno di affermazione e tenerezza. A causa della sua stessa natura, quindi, è condannato a essere respinto dal mondo e al fallimento perpetuo.

Agli antipodi c’è Lucy, il prototipo dell’integrazione. Ostentatamente e oltremodo fiduciosa nelle sue capacità, spietata, votata al profitto sicuro rinuncia alla sofferenza attraverso la perdita di ogni forma di empatia. I suoi tratti psicologici sono stati approfonditi in questo articolo e accostati al disturbo narcisistico di personalità.

 

Il dualismo Charlie Brown – Lucy: stili di leadership opposti

Il dualismo Charlie BrownLucy rappresenta uno dei leitmotiv più divertenti e popolari nelle storie di Schulz. I due personaggi, tuttavia, non sono accostabili soltanto per i relativi confronti individuali, in cui il primo ha inesorabilmente la peggio.
Considerando le attività svolte in gruppo, Charlie Brown e Lucy sono le figure che più spesso e per motivi diversi tendono a guidare i loro amici, presentando stili di leadership opposti.

Lo stile di Lucy emerge chiaramente dal ritratto che ne fa Charlie Brown nell’episodio “Sally’s sweet babboo” (Schulz, 1985). L’occasione è la stesura di un tema sulle vacanze natalizie appena trascorse: gran parte del racconto è dedicata alla recita di Natale, diretta da Lucy. La perfida bambina presenta ai suoi amici un piano organizzativo dettagliato e insindacabile, con ruoli e responsabilità prestabiliti per ciascuno. Le reali competenze e attitudini del gruppo, fatta eccezione per le proprie (Lucy naturalmente predisposta per essere la star indiscussa), sono da lei ignorate. Il risultato è un disastro, non solo per la pessima riuscita dello spettacolo ma soprattutto perché un clima di stress e tensione si è diffuso nell’intero gruppo in quello che avrebbe dovuto essere un momento gioioso e di condivisione. Non è difficile immaginare come mai ogni componente della recita vada a lamentarsi di tutto ciò con… Charlie Brown.

Il “bambino dalla testa rotonda” è il manager della squadra di baseball composta dai suoi amici.
A differenza di Lucy, Charlie Brown mostra capacità di ascolto e di mediazione, nonostante sia spesso ignorato dai compagni. Sebbene in oltre cinquant’anni di strisce e campionati il team riesca a contare non più di dieci vittorie, bottino disastroso per una squadra di qualunque livello, Charlie Brown appare generalmente motivato, preparato e assertivo. I suoi valori principali, comunque, restano l’unità e l’armonia del team, come emerge nell’episodio speciale “Charlie Brown’s All-Star” (Mendelez, 1966). Nonostante i pessimi risultati, Charlie Brown riceve una proposta di sponsorizzazione che garantirebbe l’iscrizione della sua squadra a un campionato organizzato e una nuova uniforme: risultati invidiabili per un team amatoriale. Tuttavia, dopo aver saputo che l’iscrizione al campionato non ammette la partecipazione di ragazze e animali (Snoopy è un componente del team), egli decide di rinunciare alla sponsorizzazione tenendo unita la squadra. L’episodio ci insegna come i risultati siano importanti, ma la dignità e la diversità lo siano molto di più.

Gli stili di leadership di Lucy e Charlie Brown possono essere ricondotti all’applicazione dei concetti heideggeriani di pensiero calcolante e pensiero riflessivo (Heidegger, 2011), alla filosofia dell’organizzazione (Krentz, Malloy, 2005). Il pensiero calcolante è ricondotto a un approccio organizzativo fortemente orientato all’efficienza, al potere e al profitto che implica strutture, responsabilità e ruoli rigidi. Poco spazio, in questa prospettiva, è lasciato al cambiamento, alla creatività e all’innovazione.

Il pensiero riflessivo, diversamente, si orienta sulle individualità e diversità dei componenti del team, chiamati anzitutto a realizzare le proprie possibilità in quanto esseri umani e, conseguentemente, a contribuire in modo attivo e creativo alla definizione degli obiettivi, delle priorità e della filosofia dell’organizzazione. Il singolo componente non è considerato mezzo per perseguire la produttività, ma fine in se stesso. Una leadership riflessiva, quindi, è proiettata alla valorizzazione del potenziale umano, si mette spesso in discussione e si interroga sul significato ultimo dell’agire dell’intera organizzazione.

Tornando al nostro beniamino, il fatto che sia generalmente un disastro senza speranza lo rende comico, umano, adorabile. Se Charlie Brown continuerà a essere un perdente sta a noi immaginarlo: i Peanuts non hanno un lieto fine. Tuttavia, se si osservano i valori e i comportamenti di questo personaggio è possibile riconoscere i tratti di un leader autentico, moderno e fonte, se non di identificazione, d’ispirazione (Barile, Dini, 2016). Senza prendersi troppo sul serio.

Ansia e depressione si curano con la psicoterapia: l’esempio del Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Se è vero che una volta conclamate ansia e depressione, i sintomi sono uguali per tutti, tali sintomi si generano e si stabilizzano in ogni individuo per una ragione unica e individuale. La psicoterapia individua l’origine del malessere soggettivo, valorizzando le personali esperienze vissute dal paziente. 

 

Negli ultimi cinquant’anni si è assistito ad un radicale cambiamento della psichiatria intesa come disciplina medica. Le benzodiazepine e gli antidepressivi, in particolar modo i cosiddetti “ricaptatori della serotonina”, hanno fatto sì che lo psichiatra assumesse un nuovo ruolo sociale: mentre prima, nell’immaginario comune era semplicemente il medico che si occupava di sedare i pazienti di difficile gestione, oggi è colui che può curare numerosi disagi psichici, permettendo ai pazienti di gestire in maniera più funzionale la propria quotidianità.

I nuovi psicofarmaci e il rivoluzionario cambiamento d’immagine della psichiatria, hanno senza dubbio, provocato effetti positivi sulla comune visione delle patologie mentali: i disturbi d’ansia e la depressione infatti, oggi sono malattie a tutti gli effetti, non più banali capricci o ancora peggio preludio di una fantomatica “pazzia”. Se da un lato però questa nuova realtà ha contribuito ad attenuare i pregiudizi e lo stigma da sempre associato a questo tipo di malattie, dall’altra, l’assunzione di psicofarmaci per anni, molte volte cronicizza la sintomatologia con il rischio che l’organismo non sappia più generare da solo tutte quelle sostanze che garantiscono all’individuo una certa stabilità dell’umore e del benessere.

Il farmaco dunque sembra essere diventato la terapia d’elezione, ma non è l’unica: la psicoterapia, nonostante sia indicata come ausilio nella cura di ansia e depressione nelle linee guida del NICE, spesso viene prescritta a discrezione medica o ancor peggio, soltanto suggerita. La psicoterapia è l’unico metodo di cura che può tenere conto dell’unicità dell’individuo, si corre altrimenti il pericolo di trattare tutti allo stesso modo, facendo in modo che semplicemente tutti producano neurotrasmettitori al ritmo consigliato dal contesto sociale in cui si vive.

Se è vero che una volta conclamate ansia e depressione, i sintomi sono uguali per tutti, tali sintomi si generano e si stabilizzano in ogni individuo per una ragione unica e individuale. La psicoterapia individua l’origine del malessere soggettivo, valorizzando le personali esperienze vissute dal paziente, perché a parità di esperienza, non è detto che tutti sviluppino determinate reazioni e determinati sintomi (non tutti coloro vittime di un incidente stradale sviluppano la fobia della guida così come non tutti coloro che si trovano a dover affrontare un lutto sviluppano la depressione). Dopo aver individuato le peculiarità che hanno causato il malessere soggettivo, un attento percorso terapeutico sarà in grado di individuare inoltre, le personali risorse del soggetto, affinché possa, nel più breve tempo possibile, riprendere le normali attività quotidiane e stabilizzare nuovamente l’umore.

Il trattamento farmacologico riveste comunque un ruolo importante nelle fasi preliminari del trattamento, perché permette al soggetto di inibire la sintomatologia che inizialmente occupa gran parte dei propri pensieri e che il più delle volte non gli permette di vedere una via di uscita dalle proprie difficoltà. La psicoterapia dal canto suo, permette di installare risorse dapprima inesplorate affinché l’individuo possa pian piano superare il momento di difficoltà, tale periodo a volte, può coincidere con lo scalare della terapia farmacologica.

 

Ansia e depressione: il lavoro del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, si avvale di esperti e qualificati psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

L’approccio del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova prevede alcuni incontri iniziali di valutazione psicodiagnostica, attraverso i quali si mettono in evidenza criticità e risorse del soggetto al fine di individuare il percorso terapeutico più adatto a lui. Tale lavoro e tali risultati vengono condivisi e discussi con l’individuo, il quale può scambiare con il terapeuta eventuali dubbi o perplessità sul proprio funzionamento e/o sulle iniziative terapeutiche.

La psicoterapia cognitivo comportamentale è in genere un intervento altamente strutturato e di breve durata. Il principio condiviso dal centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova è che i pensieri, le emozioni e i comportamenti, siano tre fattori che si condizionano incessantemente e reciprocamente; l’obiettivo di cura del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, è innanzitutto quello di ridurre la sintomatologia depressiva o ansiosa che provoca malessere nell’individuo e aiutarlo in seguito a modificare quei modi di pensare, spesso radicati, che li portano a vivere specifiche emozioni e di conseguenza a mettere in atto determinati comportamenti, spesso disfunzionali.

Gli psicoterapeuti del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, lavorano dunque in sinergia con gli psichiatri di riferimento, ma a differenza di questi ultimi, che gestiscono il trattamento farmacologico, gli psicoterapeuti accompagnano gli individui in un percorso volto a ridurre gli stati mentali indesiderati e ad aumentare la sensazione di benessere percepito.

 

Cosa offre il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova?

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova propone un trattamento clinico che prevede un primo colloquio, in cui si presenta la problematica che affligge la persona in quel determinato momento; una valutazione diagnostica, effettuata attraverso strumenti di valutazione riconosciuti dalla comunità scientifica; un successivo colloquio in cui vengono comunicati i risultati ottenuti e il relativo progetto terapeutico e infine, l’invio al terapeuta più adatto al caso, con cui intraprendere un percorso di psicoterapia mirato alla risoluzione della problematica.

La Ricaduta nell’ alcolismo: fattori predisponenti, craving e modelli di prevenzione

La ricaduta è un fenomeno che si presenta quando una persona, che ha un problema di dipendenza come l’ alcolismo, consuma nuovamente la sostanza dopo un periodo di astinenza.

Marta Bugari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La ricaduta nell’uso di sostanze da parte di soggetti detossificati  è un evento comune, al punto che può essere considerata una componente costante nella storia naturale dei Disturbi da Uso di Sostanze (DUS) e del loro trattamento. I trattamenti di recupero tradizionali, concettualizzano la ricaduta come una sconfitta, un esito negativo equivalente al fallimento del trattamento.

Questa prospettiva considera il trattamento un processo dicotomico che può esitare solo o nell’astinenza completa o nella ricaduta. Al contrario diversi modelli basati su teorie sociali, cognitive e comportamentali interpretano la ricaduta come un processo transitorio, una serie di eventi che si dispiegano nel tempo. (M. E. Larimer, R.S. Palmer, G. A. Marlatt,, 1999)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la Dipendenza come “disturbo cronico e recidivante” a sottolinearne la lunga durata ed il decorso caratterizzato da periodi di remissione totale o parziale e da periodi di riprese dei comportamenti “tossicomanici”. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

 

Alcolismo e ricaduta

Una delle poche aree di consenso nel trattamento dell’ alcolismo riguarda l’idea che l’ alcolismo sia una condizione cronica con alto rischio di ricaduta.

Gli studi hanno riportato un tasso del 80% o più di ricadute dopo 6 mesi dal trattamento, con esiti dei singoli pazienti che si sono rivelati altamente instabili nel corso del tempo.

Sebbene i risultati siano poveri, nel trattamento con gli alcolisti, ha avuto nel complesso un grande successo l’avvio del loro comportamento di cambiamento .

Infatti, le ricerche suggeriscono che gli i pazienti con alcolismo hanno difficoltà nell’intraprendere un cambiamento per conto proprio e che il problema centrale, come in altri problemi di dipendenza, è mantenere il cambiamento nel tempo. (H.M Annis, 1986. pp. 407–408)

Nel percorso che porta l’alcolista inattivo alla ricaduta, egli compie una serie di “atti apparentemente insignificanti” che progressivamente lo avvicinano all’alcol cosi che la ricaduta inizia prima del primo uso di alcol e continua dopo l’uso iniziale.

Gli stimoli ambientali hanno un importantissimo ruolo nell’innescare e mantenere questa condizione e tuttavia una forte variabilità individuale nella risposta agli stimoli.

L’utente  tende a riferire la ricaduta come “casuale” o determinata dalle pressioni sociali:  “… mi sono trovato di fronte al solito bar…”, “…ho incontrato un vecchio amico e non ho resistito”. Spesso la responsabilità del comportamento è attribuita al caso o ad altre persone e questo può essere un tentativo di attenuare i sensi di colpa e di impotenza.

 

I motivi che portano alla ricaduta

Numerosi studi hanno dimostrato come la ricaduta abbia una sua storia, dei correlati psicologici, biologici e che non sia quasi mai un evento puntiforme.

Anche situazioni di malessere psicologico possono innescare il processo di ricaduta come pure situazioni stressanti non correlate alle sostanze d’abuso. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

In uno studio su pazienti con alcolismo sono stati studiati i predittori del desiderio di bere e la relazione tra il desiderio e il bere immediatamente dopo il trattamento.

La ricerca è stata condotta su 26 uomini con problemi di alcolismo, trattati in una struttura ospedaliera o un programma ambulatoriale intensivo e sottoposti a due sessioni di laboratorio prima di essere dimessi.

Dopo la dimissione i partecipanti hanno manifestato il desiderio di bere otto volte al giorno per 21 giorni. Coloro che hanno segnalato impulsi sul campo avrebbero una maggiore dipendenza dall’ alcol con punteggi più elevati di rabbia e ansia di tratto rispetto a chi non ha riportato questo desiderio.

Inoltre questo studio condotto in laboratorio e sul campo, ha riportato che il desiderio di assumere alcol è correlato con il bere subito dopo il trattamento ed è più probabile sia presente in coloro che hanno una più grave dipendenza e un maggiore disturbo dell’umore. Questi individui possono beneficiare maggiormente di interventi per far fronte al desiderio di assumere la sostanza dopo il trattamento. (M.D. Litt, N.L. Cooney, P. Morse,, 2002)

 

Spiegare la ricaduta: il modello Relapse Prevention

Marlatt & Gordon nel 1985 pubblicarono un testo rimasto basilare nella comprensione dei processi psicologici sottendenti la ricaduta.

Il loro modello RP “Relapse Prevention“ è basato su teorie di psicologia sociale e cognitiva e comprende anche una serie di strategie cognitive e comportamentali per prevenire o limitare gli episodi di ricaduta. (M. E. Larimer, R. S. Palmer, G. A. Marlatt, 1999)

Un aspetto centrale del modello è la classificazione di fattori o situazioni che posso verificarsi o contribuire all’episodio di ricaduta. In generale il modello RP postula che tali fattori si dividono in due categorie: “fattori determinanti di ricaduta” e “fattori preparatori per la ricaduta”.

Il modello RP postula che le situazioni ad alto rischio, possono rappresentare una minaccia al livello di autocontrollo della persona ed essere precipitatori immediati di uso di alcol iniziale dopo l’astinenza. Secondo il modello, una persona che ha avviato un cambiamento del comportamento, come l’astinenza da alcol, dovrebbe iniziare a sperimentare un maggiore senso di autoefficacia o padronanza del suo comportamento che dovrebbe rafforzarsi a mano a mano che il cambiamento del comportamento si realizza. (M. E. Larimer, R.S. Palmer, G. A. Marlatt, 1999)

Nel modello i fattori determinanti di ricaduta sono:

  • Situazioni ad “Alto rischio”, ovvero tutte quelle situazioni che sono state identificate dai pazienti come fattore principale di ricaduta e che in ordine di importanza possono essere categorizzate come: stati emotivi negativi (rabbia, ansia, depressione, frustrazione, noia) situazioni interpersonali (in special modo di conflitto) pressione sociale (ad esempio essere con altre persone che stanno bevendo) o perfino stati emotivi positivi (desiderio di mettere alla prova la propria forza di volontà).
  • La capacità di coping personale, nella misura in cui un paziente è esposto ad una situazione ad “alto rischio” come quelle categorizzate sopra, l’esito o meno verso una ricaduta dipende dalla risposta del paziente alla situazione, che a sua volta è determinata dalla sua capacità di coping, ovvero la capacità di far fronte con strategie comportamentali o cognitive alla situazione di esposizione.
  • Le aspettative sugli effetti positivi  dell’ alcol nel far fronte a situazioni di malessere intra o interpersonale; maggiore è questa aspettativa, maggiore è il rischio di ricaduta.
  • L’effetto “violazione dell’ astinenza” ovvero l’attribuzione di significato che il paziente da alla prima violazione dell’astinenza. Un’ attribuzione legata a vissuti di fallimento personale e inadeguatezza anziché ad una non ancora completa abilità nell’affrontare situazioni ad “alto rischio”, porta più facilmente ad una seconda violazione e all’abbandono del trattamento. (M. E. Larimer, R.S. Palmer,  G. Alan Marlatt, 1999)

 

Il ruolo del craving

Vi sono però anche una serie di fattori meno evidenti che hanno effetto sul processo di ricaduta in caso di alcolismo; i fattori preparatori ad una esposizione a situazione ad alto rischio:

  • Variabili esistenziali in termini di livelli di stress (lavoro, famiglia, ecc.)
  • I fattori cognitivi che possono ripristinare le condizioni che determinano la ricaduta, come la razionalizzazione, la negazione e il desiderio di gratificazione immediata o craving.

Questi fattori possono aumentare la vulnerabilità di una persona alla ricaduta sia aumentando la sua esposizione a situazioni ad alto rischio sia diminuendo la motivazione a resistere di bere in situazioni ad alto rischio. (M.E. Larimer, R.S. Palmer, G. A. Marlatt, 1999)

Il craving è il desiderio impulsivo per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto-comportamento gratificante che sostiene il comportamento “addittivo” e la compulsione finalizzati a fruire dell’oggetto di desiderio.

Nell’ alcolismo, il craving, può essere definito “urgenza di bere”, cioè la tensione a consumare la sostanza, il pensiero ossessivo ricorrente del bere, sino alla perdita del controllo dei propri impulsi nei confronti delle bevande alcoliche.

Secondo Meyer (2000) il craving sarebbe prontamente stimolato da fattori previamente associati con la sostanza, elementi capaci di svolgere un ruolo “trigger” (grilletto) che innescano con un meccanismo di condizionamento e, per associazione di idee, il desiderio della gratificazione ottenuta chimicamente. (G. Gerra, A. Zaimovic, 2002)

Nelle dipendenze da sostanza, il ripetersi dello stimolo “artificiale” fa si che quest’ultimo prenda progressivamente il posto di quelli naturali: da qui la perdita di interesse per le normali attività della vita, il pensiero concentrato sull’alcol, l’incapacità di conservare un sia pur precario equilibrio psichico in assenza della sostanza. Gli effetti della sostanza prendono così il posto di funzioni mentali fondamentali e la gratificazione indotta dalla sostanza diviene parte del funzionamento mentale, modificandolo. (M. Cibin, M. Mazzi, L. Rampazzo, G. Serpelloni, 2001)

Mentre la semplice assunzione delle sostanze psicoattive che segue i ritmi e le modalità del comportamento addittivo è regolata da un processo automatico, il craving comporta l’attivazione di un meccanismo cognitivo che non corrisponde ad un processo automatico. L’urgenza di utilizzare la sostanza, è connessa piuttosto con un conflitto nell’ambito cognitivo tra la motivazione all’assunzione dell’alcol o della droga e la consapevolezza del rischio che ne deriva: in quest’ottica dunque il craving diviene funzione di diversi fattori che interagiscono in un mutevole equilibrio con il mondo intrapsichico e con le interferenze ambientali.

Petrakis, (1999) distingue due forme di craving dal punto di vista delle aspettative del paziente: da un lato la preoccupazione di assumere la sostanza per evitare l’astinenza che viene definita “craving negativo”, dall’altro la compulsione nei confronti della sostanza sostenuta dall’aspettativa di una incentivazione, di una gratificazione. In questo caso la ricerca di un “reward” produrrebbe un “craving positivo”. (G. Gerra, A. Zaimovic, 2002)

Recenti ricerche (De Bruijn et al. 2005, Gordon et al. 2006) hanno confermato che craving è il predittore del risultato del trattamento.

Inoltre alcuni autori (Drummond et al., 2000, Shiffman 2000) hanno differenziato due modalità di desiderio: il craving base e il craving episodico.

Il craving base è sperimentato tonicamente, caratterizzato dallo stato di equilibrio stabile durante il giorno è endogeno, né provocato né modificato da stimoli ambientali esterni. Il craving episodico indica la comparsa di attacchi sporadici intensi di desiderio per l’alcol, generato e modulato da diversi stimoli ambientali o stati affettivi specifici. Gli attacchi di desiderio episodico sono considerati precursori diretti di ricaduta. ( O. Vuković, T. Cvetic,  M. Zebić, N. Marić, A. Damjanović, M. Jašović-Gašić , 2008)

Secondo Szegedi (2000), il desiderio della sostanza è sostenuto dall’esposizione a stimoli condizionanti (cue), dallo stress e da condizioni a rischio del tono dell’umore (trigger mood) che mantiene elevati livelli di craving e insieme dalla capacità di adattamento legata ai tratti temperamentali, alle caratteristiche psicologiche e ai disturbi psichiatrici, nonché la consapevolezza del rischio connessa invece con la storia individuale, i fattori culturali, ambientali e relazionali. (G. Gerra, A. Zaimovic, 2002)

Da alcune ricerche è emerso che stimoli esterocettivi come la vista e l’odore di bevande alcoliche non sono sempre sufficienti per suscitare il desiderio di alcol. È stato suggerito che spunti enterocettivi, come ad esempio gli stati di umore, possono anche svolgere un ruolo nel provocare il desiderio di alcol. Per verificare ciò, otto soggetti con alcolismo sono stati indotti a sperimentare stati d’animo negativi o neutri in quattro giorni separati, quindi esposti alla vista e l’odore della loro bevanda alcolica preferita e ad uno stimolo neutro (acqua). I risultati di questo lavoro indicano che l’esposizione ai segnali di alcool non ha avuto effetti sul desiderio per l’alcol mentre i soggetti erano in uno stato rilassato umore neutro e che la presenza di stati emotivi negativi sembrava essere sufficiente per provocare il desiderio dell’ alcol in alcuni soggetti, indipendentemente dal fatto che venga presentato alcol o acqua. Questi dati sostengono che gli stati d’animo negativi possono determinare il desiderio di alcol indipendentemente da altri stimoli. (M.D. Litt, N.L. Cooney, R.M. Kadden, L. Gaupp ,1990)

Inoltre è stato trovato che il craving nelle prime due settimane di astinenza correla positivamente con ricaduta tra 3 e 12 settimane e che la voglia di alcol indotta da umore negativo è un predittore di recidiva. (O. Vuković, T. Cvetic,  M. Zebić, N. Marić, A. Damjanović, M. Jašović-Gašić , 2008)

Il fallimento del processo di fronteggiamento delle “Situazioni ad Alto Rischio”, fa si che il paziente con alcolismo inattivo assuma la prima dose di alcol innescando l’“effetto di violazione dell’astinenza” (“effetto primo bicchiere”), cui seguono sentimenti di fallimento e di incontrollabilità della situazione, e, quasi inesorabilmente la ricaduta completa. Può apparire stupefacente che le condizioni emotive e i conflitti interpersonali siano situazioni a rischio più frequenti che le occasioni o le pressioni sociali.

In realtà queste ultime sono spesso portate dai pazienti perché più facili da spiegare, rispetto a movimenti psichici di cui hanno talora poca dimestichezza, e quasi sempre grande pudore: il rafforzamento della capacità di gestire le situazioni emotive e i conflitti interpersonali devono far parte integrante di un processo di counseling rivolto a questi pazienti. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

 

Obiettivi del modello Relapse Prevention

Il modello Relapse Prevention di Marlatt e Gordon (1985) ha come obiettivo aumentare la capacità di fronteggiamento (Coping Skills) rispetto al processo di ricaduta in particolare alle “Situazioni ad alto rischio” e all’“Effetto di violazione dell’astinenza”.

Acquisite informazioni sulle abitudini alcoliche e di vita del paziente e sulle “costanti” della ricaduta, la prima parte questo percorso prevede il sostegno al paziente rispetto alla ricaduta ed ai sentimenti negativi che la accompagnano, quindi la ricostruzione del “processo” che ha portato alla ricaduta, riconoscendone le varie tappe, gli eventi scatenanti, la dipendenza da stimoli ambientali, gli stati d’animo ed il livello di consapevolezza che le hanno caratterizzate.

In seguito si individuano insieme al paziente le cause delle difficoltà e le modalità per fronteggiarle. Tali cause possono riguardare sia il processo di ricaduta in sé, e quindi prevedere tecniche di evitamento o fronteggiamento (una classica tecnica è quella della telefonata all’amico sobrio), o il training per lo sviluppo delle capacità assertive e della autoefficacia.

In altri casi è necessario affrontare situazioni emotive o interpersonali che il paziente non riesce a gestire, spesso originatesi all’interno della famiglia, situazioni di scarsa motivazione o “apparente motivazione” e modalità efficaci per fronteggiarle. Queste ultime possono essere le più varie: dall’evitamento, alla richiesta di aiuto esterno, alla decisione di intraprendere una farmacoterapia di supporto. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

Il processo di prevenzione della ricaduta in casi di alcolismo si salda fortemente da un lato sulla motivazione dall’altro sullo stato psichico dell’utente. Secondo la Teoria della Motivazione infatti, l’attitudine al cambiamento non è data una volta per tutte, ma richiede ripetuti e numerosi passaggi attraverso fasi di “non cambiamento “ o di “ambivalenza”, che si ripetono prima di ogni nuova “azione”.

Anche in una situazione quale la prevenzione della ricaduta, che abitualmente si colloca in una fase relativamente avanzata del trattamento e in cui il paziente ha già intrapreso svariate “azioni” di “riduzione del danno”, presa di coscienza del problema con le sostanze, di disintossicazione o di stabilizzazione farmacologica, è necessario non trascurare l’ attitudine di “azione” rispetto al problema specifico. Può infatti accadere che il paziente non sia cosciente di comportamenti a rischio (fase di precontemplazione), oppure che pur essendo cosciente di questi problemi, non intenda in questo momento cambiarli (fase di contemplazione).

Ancora, il paziente può avere una percezione della propria capacità di affrontare tali situazioni (autoefficacia) irrealisticamente alta, o al contrario così bassa da essere “sconfitto” in partenza.

In tutti questi casi, gli elementi di prevenzione della ricaduta vanno proposti in una veste “motivazionale”. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

Il colloquio di motivazione è considerato oggi una delle abilità irrinunciabili per chi si occupa di problemi con le sostanze perché aiuta il paziente a trovare le proprie motivazioni, secondo i suoi tempi e le sue attitudini.

Per intraprendere interventi di prevenzione della ricaduta è necessario dunque procedere in primo luogo ad una diagnosi motivazionale, valutando cosa il paziente è effettivamente disposto a fare ai fini di evitare la ricaduta. (M. Cibin, I. Hinnenthal, E. Levarta, E. Manera, M. Nardo, V. Zavan, 2001)

Mediare è ascoltare – Il punto di partenza di ogni percorso di mediazione

Supponiamo che la commissione di un reato (un’appropriazione indebita, una diffamazione, delle lesioni personali…) abbia dato luogo ad una relazione conflittuale tra l’autore e la vittima, oppure che l’escalation di un conflitto si sia espressa attraverso la commissione di un reato (ad esempio, ingiurie, minacce, percosse…)

Alberto Quattrocolo, Associazione Me.Dia.Re

Supponiamo che la figlia di un paziente deceduto sia in conflitto con un medico dell’ospedale in cui l’uomo era ricoverato e che, per quanto alcuni accertamenti sembrino escludere l’esistenza di una responsabilità professionale, la donna sia convinta di una negligenza colpevole e letale da parte del medico. E supponiamo che il professionista sia adirato con la donna, a suo dire, immatura e irrazionale nel tradurre l’incapacità di accettare la morte del padre nella ricerca di un capro espiatorio e nell’accusare l’ospedale di mascherare degli errori inesistenti..

Supponiamo ancora che una coppia si stia separando e che i due coniugi stiano lottando per ottenere l’affidamento dei due figli accusandosi reciprocamente di essere genitori inadeguati.

Supponiamo che alcuni lavoratori siano in conflitto tra di loro e che ciò metta in difficoltà il loro responsabile, comprometta la loro produttività e, in generale, nuoccia all’ente, generando anche malessere nei colleghi.

Per tali situazioni la nostra società dispone di alcune risorse di diversa efficacia e con diversi obiettivi: tra queste, oggi, in molte città, inclusa Torino, vi sono i servizi di mediazione, intesi come interventi realizzati da professionisti formati ad hoc.

Pertanto per situazioni come quelle accennate si realizzano attività o servizi di mediazione penale, mediazione sanitaria, mediazione familiare, organizzativo-lavorativa, ecc.

 

 

In cosa consiste la Mediazione

Cosa vuol dire, però, mediazione? Si tratta di una procedura finalizzata alla conciliazione, alla costruzione di un accordo?

La risposta è indubbiamente sì rispetto alla mediazione civile e commerciale recentemente introdotta dal legislatore nell’ordinamento italiano (con il D.Lgs. 28/2010) per alcune controversie in ambito civile e commerciale, ma al di fuori di quello specifico ambito, la risposta al quesito potrebbe essere no. Dipende, in realtà, dall’impostazione che si adotta, dal mandato in virtù del quale il mediatore interviene, dalla cornice istituzionale o normativa in cui la sua opera si inserisce.

A prescindere dal metodo e dalla cornice, però, vi è un aspetto, un ingrediente, che è o, almeno, dovrebbe essere considerato, irrinunciabile in tutte le ipotesi e le pratiche di mediazione: l’ascolto.

 

Ascolto ed empatia nella mediazione

Pur essendo esperienza comune che, quando si litiga, le emozioni spesso prendono il sopravvento sulla nostra razionalità, la dimensione emotiva è, in generale, quella meno riconosciuta e accolta in tutte le sedi nelle quali il conflitto tradizionalmente approda per essere risolto.

Ciò accade tipicamente nel procedimento giurisdizionale, dove il terzo (il giudice), tentando di accertare i fatti ed esaminando la legittimità delle posizioni portate e delle condotte tenute, per stabilire chi ha ragione e chi ha sbagliato, non si occupa – non può farlo: non è la sua funzione – di come si sentono le parti che gli stanno di fronte. Mentre, questo aspetto, a prescindere dal paradigma adottato, è un aspetto centrale del percorso di mediazione. Infatti, anche per quelle impostazioni che non esaltano la dimensione empatica, il sapere far sentire accolte le parti è fondamentale.

Tuttavia, il ricorso alla giustizia, nonostante l’entità notevole dei costi di varia natura implicati, continua ad essere la scelta più seguita dalle parti in conflitto. Perché?

Una risposta veloce (e un po’, ma non troppo, superficiale) potrebbe essere che si tratta di un sintomo dell’escalation conflittuale.

Soprattutto, però, questo aspetto pone un problema anche pratico, relativo al rendere accessibile un percorso mediativo anche a chi non vuole fin dall’inizio mettersi in discussione, a chi teme il confronto, a chi non è interessato a sentire le ragioni altrui, a chi non si fida della possibilità di trattare con un avversario considerato un campione di doppiezza e malafede.

Rispetto alle situazioni astrattamente suscettibili di essere gestite con interventi di mediazione familiare, penale, sanitaria e lavorativo-organizzativa, il quesito non è di scarso rilievo.

Certo, la domanda potrebbe contenere un trabocchetto nel senso che è suscettibile di essere tradotta nei seguenti termini: come si può persuadere delle persone a mediare un conflitto che non vogliono mediare?

 

Mediare è innanzitutto ascoltare

In realtà non si tratta di introdurre alla mediazione chi non vuole sentire neppure pronunciare tale parola, ma di offrire la possibilità di essere ascoltati anche a coloro che non si sentono fin dall’inizio disponibili a “mediare” i loro conflitti. E l’esperienza dice che non sono (siamo) pochi, anzi che sono (siamo) la maggioranza.

Offrire l’opportunità di conoscere lo strumento, semmai di sperimentarne un frammento, prima di scegliere se avvalersene o meno, significa dare un’occasione di ascolto. Un ascolto non condizionato né condizionante. E ascoltare, in tal caso, non significa cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ le persone dalle loro emozioni – e neppure procurargli vaghe consolazioni – ma tentare di comprendere quel che portano.

Infatti, un elemento di non poco conto da tenere presente è il seguente:

uno degli aspetti più difficili da gestire quando parliamo con dei terzi di un nostro conflitto è il timore di essere giudicati negativamente per il solo fatto di essere parti di una lite. Ci poniamo, spesso, in tal caso, in una posizione difensiva e cerchiamo di chiarire subito che è colpa della controparte se siamo in conflitto con essa.

Si può, allora, facilmente immaginare il sollievo che potrebbe derivarci, se il nostro interlocutore più che concentrare la sua attenzione su chi ha torto o ragione, su chi è il maggior responsabile della svolta conflittuale della relazione, su chi ha iniziato per primo le ostilità, ci facesse sentire non approvati ma compresi. E non solo rispetto al “caso”, cioè come parti, ma come esseri umani, liberandoci dall’onere di dover dimostrare in maniera inoppugnabile che siamo dalla parte della verità e della giustizia.

 

Una fondamentale premessa nel percorso di mediazione

Il conflitto, com’è noto, molto spesso sorge dalla sensazione di non essere riconosciuti e, comunque con la sua progressione induce i suoi attori a riconoscersi sempre meno, spingendoli a sviluppare rappresentazioni reciproche monodimensionali, spesso spregiative, all’insegna della spersonalizzazione e finanche della de-umanizzazione, con ciò impedendo ogni possibilità di ascolto reciproco e svuotando lo strumento della parola di ogni possibilità espressiva profonda.

Quando i mediatori (familiari, penali, sanitari, ecc.), il cui unico strumento è la parola, riescono, nel loro rapportarsi con gli attori del conflitto, a farli sentire riconosciuti nella loro tridimensionalità, come esseri umani, allora riducono di molto il vuoto, l’isolamento, che tante volte il conflitto crea negli individui, nelle famiglie, nei gruppi, nelle comunità e nelle organizzazioni.

In tal senso, dunque, fanno da ponte, riconnettono. E tale connessione tra il mediatore e ciascun soggetto in conflitto è la necessaria premessa per una successiva eventuale fase di riconoscimento reciproco tra i secondi.

 


Master in mediazione familiare e penale - Associazione Me.Dia.Re LEGGI ANCHE: MASTER 2017 IN MEDIAZIONE FAMILIARE e PENALE


 

Confusione inferenziale ed esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo – Report dal Forum di Psicoterapia e Ricerca di Riccione

La prima presentazione del 5 maggio riguardava la ricerca intitolata “Confusione inferenziale ed esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo”, condotta dai Dott. Torniai, Pozza e Dettore. I discussant di tale presentazione sono stati i dott. Chiara Caruso e Gabriele Caselli e il chair la dott.ssa Daniela Rebecchi.

 

Il 5 e il 6 maggio 2017 nel Palazzo del Turismo di Riccione si è tenuto il Forum di Psicoterapia e Ricerca delle scuole di specializzazione di Studi Cognitivi.

Il 5 maggio si sono succedute 5 presentazioni di progetti di ricerca condotti da studenti e responsabili dei gruppi di ricerca delle diverse sedi e 2 sessioni poster, mentre il 6 maggio sono state proposte la lezione magistrale del Dott. Dalle Grave, 4 presentazioni e 2 sessioni poster.

La prima presentazione del 5 maggio riguardava la ricerca intitolata “Confusione inferenziale ed esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo”, condotta dai Dott. Torniai, Pozza e Dettore. I discussant di tale presentazione sono stati i dott. Chiara Caruso e Gabriele Caselli e il chair la dott.ssa Daniela Rebecchi.

La confusione inferenziale è un costrutto definito per la prima volta negli anni ’90 e definisce un processo di ragionamento erroneo in cui la persona confonde una possibilità immaginata con la realtà basata sui sensi. Gli elementi che maggiormente contribuiscono alla confusione inferenziale sono l’iperinvestimento nell’immaginazione e la sfiducia per il reale. Dunque, vi è una tendenza ad affidarsi all’immaginazione più che alla realtà.

La confusione inferenziale costituisce un marker specifico del disturbo ossessivo compulsivo rispetto ad altri disturbi psichici e può essere presente anche nel disturbo delirante.

Le ricerche hanno dimostrato come anche le esperienze dissociative siano altamente presenti nel disturbo ossessivo compulsivo, in particolare le esperienze di depersonalizzazione/derealizzazione e di amnesia dissociativa.

Alla luce di questo, il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi ha condotto una ricerca sulla confusione inferenziale e le esperienze dissociative nel disturbo ossessivo compulsivo.

Hanno partecipato allo studio 60 pazienti con DOC e si è trattato di un gruppo omogeneo per sesso, con un’età compresa tra i 18 e i 60 anni, con uno stato civile nubile/celibe o coniugato e un livello di istruzione medio-alto.

Gli strumenti utilizzati sono stati:

–       Inferential Confusion Questionnaire – Expanded Version

–       Dissociative Experiences Scale-II

–       Yale Brown Obsessive Compulsive Scale

–       Padua Inventory.

Sono stati indagati gli effetti principali e di interazione tra la dissociazione (indagata con la DES-II)  e la confusione inferenziale (rilevata con l’ICQ-EV) sullo sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo (rilevato con la YBOCS). La dissociazione e la confusione inferenziale costituivano le variabili indipendenti e il disturbo ossessivo compulsivo la variabile dipendente.

I risultati hanno evidenziato un’interazione significativa tra la confusione inferenziale e la depersonalizzazione/derealizzazione rilevate attraverso la DES-II. È emersa anche la presenza di un’alta amnesia dissociativa nel campione e un’interazione tra la confusione inferenziale e l’amnesia dissociativa.

Tali risultati evidenziano come la confusione inferenziale sia un moderatore della relazione tra la dissociazione e il disturbo ossessivo compulsivo, mentre non sono emersi effetti di interazione tra la dissociazione e la confusione inferenziale sull’insight. La confusione inferenziale è risultata anche moderatore della relazione tra l’amnesia dissociativa e il sottotipo di sintomi del DOC di insufficiente controllo dei pensieri.

Tali risultati indicano come sia importante considerare anche le esperienze dissociative e la confusione inferenziale nell’ambito della terapia del disturbo ossessivo compulsivo e, dunque, l’inference based approach potrebbe essere una buona possibilità.

La presentazione è risultata molto chiara e comprensibile al pubblico presente in sala e molto  interessante per i risultati emersi.

In futuro potrebbe essere consigliabile ampliare i risultati e indagare l’effetto di terapie tese a ridurre la confusione inferenziale e la dissociazione sui sintomi del DOC.

Caratteristiche di personalità e disturbi alimentari: uno studio clinico con il Millon Clinical Multiaxial Inventory – Report dal Forum di Psicoterapia e Ricerca di Riccione

La seconda presentazione proposta il 5 maggio presso il Forum di Psicoterapia e Ricerca di Riccione riguardava il progetto di ricerca intitolato “Caratteristiche di personalità e disturbi alimentari: uno studio clinico con il Millon Clinical Multiaxial Inventory”, condotto dai Dott. Lambertucci, Cotugno, Marsero, Milioni, Ponzio, Zizak e Sapuppo. I discussant sono stati i Prof. Angelo Compare e Laura Parolin e il chair il Dott. Carmelo La Mela.

 

Tale ricerca è stata ideata, dopo aver consultato la letteratura che ha fatto emergere come alcune caratteristiche di personalità siano maggiormente associate allo sviluppo di disturbi alimentari anche se non risulta ancora chiaro in maniera assoluta quali siano tali tratti di personalità.

L’obiettivo dello studio era, dunque, quello di verificare se i risultati emersi in precedenti ricerche fossero confermati anche su un ampio campione e lo strumento utilizzato è stato il Millon Clinical Multiaxial Inventory per la definizione dei profili di personalità.

Il campione era composto da 238 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa o bulimia nervosa o Binge Eating disorder e l’età dei soggetti era compresa tra i 18 e i 60 anni.

Oltre al Millon, è stato utilizzata anche la SCL-90 per la misurazione dei sintomi psicopatologici.

L’analisi dei dati ha previsto delle analisi descrittive e di regressione sul valore predittivo dei risultati. Le variabili indipendenti erano gli stili di personalità e la variabile dipendente i disturbi alimentari (anoressia, bulimia, BED). I risultati hanno evidenziato, in particolare come vi siano 2 stili di personalità maggiormente associati allo sviluppo di disturbi alimentari: il primo stile di personalità comprende la presenza di tratti antisociali-compulsivi, del disturbo delirante e l’uso di sostanze; mentre il secondo stile di personalità è caratterizzato da elevate oscillazioni dell’umore (in particolare risultano frequenti tratti depressivi, anedonia, insonnia, sintomi bipolari, ecc).

Tali tratti personologici sarebbero, dunque, maggiormente predittivi di un disturbo alimentare.

I limiti della ricerca riguardano l’utilizzo di questionari self report e la necessità di condurre più studi su più campioni per confermare tali risultati.

Tuttavia, lo studio resta molto interessante e conferma l’importanza di considerare i tratti di personalità quando si effettua la diagnosi di disturbo alimentare, in modo tale da includerli nel trattamento.

La presentazione è risultata davvero magistrale e di notevole interesse.

 

Palermo - Personalita e disturbi alimentari

Unicef Italia, un impegno concreto per i migranti

Unicef Italia da sempre si batte in prima linea affinché sia data la giusta priorità a cure adeguate per bambini rifugiati e migranti, così da rispondere agli impellenti bisogni psicosociali e di salute mentale.

 

Il fenomeno migratorio che interessa l’Italia, a dispetto di un carattere proprio di emergenza, sempre più assume oggi i connotati di amara quotidianità, stimolando organismi nazionali e internazionali a riunire le forze per rispondere alle esigenze basilari di migranti e rifugiati (protezione fisica, sostegno, cittadinanza).

Donne, bambini, fasce fragili che richiedono un’assistenza doviziosa, costretti per svariati motivi (dalla lotta armata alla miseria, fino alle persecuzioni individuali) a cercare una nuova patria dove la spietatezza della propria realtà possa essere sostituita da un’esistenza più dignitosa, rispettosa dei diritti umani della vita, della salute, del lavoro, dell’istruzione.

Accogliendo in pieno tale sfida, Unicef Italia da sempre si batte in prima linea affinché sia data la giusta priorità a cure adeguate per bambini rifugiati e migranti, così da rispondere agli impellenti bisogni psicosociali e di salute mentale.

Bisogni di assistenza che interessano sempre più minori, in numero superiore a quello fornito dalle stime ufficiali.

Il numero di stranieri minorenni residenti non dà un quadro esaustivo della popolazione minorenne di origine straniera presente in Italia. A questo va infatti aggiunto il numero dei bambini e degli adolescenti di origine straniera che soggiornano irregolarmente, un fenomeno che per sua natura sfugge alle definizioni statistiche e per cui si corre maggiormente il rischio di non garantire i diritti fondamentali – sottolinea Matteo Ferrara, presidente del comitato provinciale Unicef di Palermo.

Unicef Italia in prima linea per il rispetto dei diritti di bambini rifugiati e migranti - Matteo Ferrara presidente del comitato provinciale Unicef di Palermo

Matteo Ferrara presidente del comitato provinciale Unicef di Palermo

 

Da tale “quotidiana emergenza” derivano i principi forti di Unicef Italia, incentrati sul rispetto dell’inviolabilità del principio di non discriminazione a beneficio di bambini e adolescenti di origine straniera e della garanzia dei diritti umani basilari quali sanità, istruzione, sicurezza economica e opportunità lavorative. In particolare:

Il nostro pensiero va al concreto rischio del mancato accesso ai diritti fondamentali per i minorenni che vivono in nuclei familiari non regolarmente soggiornanti, aumentato a seguito dell’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nello Stato italiano.

Principi saldi che si accompagnano a modifiche legislative, dove Unicef Italia diventa protagonista, attraverso ripetuti appelli alle forze politiche.

Tra le conquiste legislative sostenute da Unicef Italia la più recente è stata l’approvazione della proposta di legge nota come Legge Zampa, dal nome della Senatrice Sandra Zampa, prima firmataria del provvedimento, che introduce una serie di modifiche alla normativa vigente in materia di minori stranieri non accompagnati (MSNA) con l’intento di definire un sistema nazionale organico di protezione e accoglienza che rafforzi gli strumenti di tutela già garantiti dall’ordinamento e al contempo assicuri omogeneità nell’applicazione delle disposizioni in tutto il territorio nazionale. Il Comitato Italiano per l’UNICEF ha seguito fin dall’inizio l’iter parlamentare del provvedimento, contribuendo al suo miglioramento, insieme alle altre associazioni che in Italia si occupano della condizione particolarmente vulnerabile dei minorenni.

Azioni di tutela che hanno trovato un ancoraggio forte alle istituzioni il 19 Dicembre 2016 con la firma di un protocollo d’intesa tra l’amministrazione del Comune di Palermo e Unicef ‘’Refugee and Migrant Response Italy’’ nello spirito di rafforzare la collaborazione già attiva attraverso attività educative, formative e di supporto alle strutture di accoglienza per MSNA a Palermo.

Gli obiettivi generali del protocollo sono molteplici, in particolare il rafforzamento di una rete locale per facilitare l’accesso ai servizi dei/delle MSNA (istruzione, sanità, cultura, sport, ecc), supportando il percorso di avvio della sperimentazione sui tutori volontari, l’affinamento delle capacità degli operatori di prima linea in diretto contatto con i/le MSNA, la disseminazione di buone pratiche per soluzioni alternative all’istituzionalizzazione – spiega Ferrara – Il Comitato Provinciale di Palermo fornisce tutto il supporto e la collaborazione affinché l’impegno già attivo sia sempre rafforzato rimanendo in stretto contatto con l’Unità organizzativa Nomadi e Immigrati del Comune di Palermo e con il Garante Cittadino per l’Infanzia e l’adolescenza.

Unicef Italia in prima linea per il rispetto dei diritti di bambini rifugiati e migranti - protocollo amministrazione del Comune di Palermo e Unicef

Protocollo d’intesa tra l’amministrazione del Comune di Palermo e Unicef

 

Dalla teoria alla pratica il passo è stato breve: dopo la cerimonia del 19 dicembre 2016 che ha visto, tra gli altri, esponenti quali il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Umberto Palma, Rappresentante di Unicef per la Sicilia, e il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza del comune di Palermo, Pasquale D’Andrea, ecco in partenza il primo Corso di Formazione per Front-Line workers, di cui si è recentemente conclusa la seconda edizione.

Il Corso, presentato da Sabrina Avakian, esperta della protezione dell’Infanzia Unicef ed Elisabetta Di Giovanni, ricercatore di scienze psicologiche, pedagogiche e della formazione dell’Università di Palermo, e coadiuvato dal coordinamento tecnico amministrativo del sottoscritto e di Antonella Palazzo, si è posto l’obiettivo di fornire competenze e strumenti per l’assistenza psico-sociale ed educativa  a tutti coloro che lavorano a stretto contatto con MSNA, a partire dall’individuazione dei motivi della fuga dai propri Paesi per arrivare alla definizione delle problematiche relative all’affido dei bambini – dichiara ancora Ferrara.

Svariati gli argomenti affrontati tra cui spiccano il tema dell’accoglienza agli sbarchi e la figura del tutore per i MSNA.

Unicef Italia in prima linea per il rispetto dei diritti di bambini rifugiati e migranti - Corso di Formazione per Front-Line workers

Corso di Formazione Unicef per Front-Line workers

 

Riguardo al primo tema, la tutela dei MSNA inizia fin dallo sbarco, momento caratterizzato da confusione e ricerca di sostegno umanitario.

In questo momento delicato tra le organizzazioni preposte al sostegno troviamo Save the children che fornisce regolarmente una brochure contenente informazioni utili sul diritto d’asilo; è poi possibile effettuare visite mediche con la presenza di infettivologi. Riguardo ai minori è prassi comune utilizzare la fotosegnalazione e analizzare le impronte per i minori ultraquattordicenni. Un primo pericolo reale è invece costituito dalla possibilità di fuga nel trasferimento dal porto ai luoghi preposti all’accoglienza come le Comunità.

Superato il primo step dell’ingresso in sicurezza in Italia, si pone il problema della tutela di carattere sociale e giuridico: ecco, figura centrale per un MSNA, il tutore nominato dal giudice tutelare, un volontario che assolve a funzione di cura e protezione, conosce la cultura di appartenenza del minore e le strategie di aiuto, l’unico preposto a fare richiesta di permesso di soggiorno, autorizzazione amministrativa rilasciata da un’apposita commissione.

Chiari i riferimenti normativi:

L’art. 343 codice civile impone che la tutela sia aperta allorché i genitori siano nell’impossibilità di esercitare la potestà – riferisce Fulvio Vassallo Paleologo, dell’associazione Diritti e Frontiere (ADIF) – Il tutore è poi fondamentale per il conseguimento del permesso di soggiorno alla maggiore età, in base a quanto stabilito dall’articolo 32 del Testo unico 286/1998 che legittima a tale conseguimento, fra gli altri, coloro che durante la minore età erano sottoposti a tutela. Una criticità riscontrata in questi casi è rappresentata dai tempi necessari alla nomina dei tutori, di regola otto mesi con una media di un anno e otto mesi per le audizioni.

E se tali attività non rendessero pienamente giustizia dell’impegno di Unicef Italia ulteriori azioni in corso testimoniano la continuità e l’intensità del progetto di tutela.

Il Comitato Unicef di Palermo segue il fenomeno migratorio dei MSNA anche con il progetto del servizio civile nazionale Insieme con i bambini e i giovani migranti, stipulando accordi di collaborazione con Scuole, Centri di Accoglienza e strutture culturali e sportive della città – riprende Ferrara.

Un impegno che si traduce in motivazione a fare sempre di più, dove i sogni di un futuro migliore dei minori non possono essere disattesi.

In questo momento, alla luce dei provvedimenti che l’Italia leader tra i Paesi dell’UE sta attuando, non posso che essere orgoglioso e soddisfatto di poter lavorare con gli strumenti legislativi necessari per migliorare tutte le condizioni dei MSNA e condivido quanto dichiarato dal nostro presidente Giacomo Guerrera in occasione dell’approvazione della legge Zampa: È un importante passo avanti per i bambini migranti e rifugiati che sono fuggiti da situazioni invivibili e sono arrivati in Italia pieni di speranza per il loro futuro.

L’ umorismo come strumento terapeutico per regolare le emozioni – Report dal Forum di Riccione 2017

Obiettivo della ricerca è stato valutare se l’umorismo migliora la capacità di regolare le emozioni, dai dati si evince che il training psicoeducativo favorisce una migliore regolazione emotiva nei soggetti, aumentandone il benessere psicologico.

L’umorismo come strumento terapeutico per regolare le emozioni

di Egidio M., Di Francesco F., Pistoresi F., Esposito M., Scarinci A., Piccioni S., Ciccioli T., Tripaldi S., Mezzaluna C.

 

Continua nel pomeriggio del 5 maggio il Forum di Psicoterapia e Ricerca organizzato da Studi Cognitivi a Riccione. Anche nel pomeriggio vengono presentate le ultime ricerche in campo psicoterapeutico, si comincia con la presentazione del lavoro “L’umorismo come strumento terapeutico per regolare le emozioni

Si parte dalla definizione di umorismo, inteso come quella particolare disposizione mentale che fa cogliere di ogni situazione, anche la più drammatica, l’aspetto comico che si esprime con il riso. Il sense of humor favorisce il controllo e la gestione delle emozioni.

Umorismo e capacità di regolare le emozioni sembrano dunque legati. Ma cosa si intende per regolazione emotiva? Come esposto nel corso della presentazione, con regolazione emotiva si fa riferimento a una serie di strategie messe in atto dall’individuo per regolare l’emozione provata in un determinato momento, sostituendo uno stato emotivo inadeguato con un altro più funzionale. Va però fatta una distinzione tra strategie di regolazione adattive (ristrutturazione cognitiva, problem solving, accettazione) e strategie disadattive (soppressione dell’esperienza emozionale, soppressione espressiva, evitamento cognitivo e/o comportamentale, rimuginio e ruminazione).

Diversi studi hanno messo in luce il rapporto tra umorismo e regolazione emotiva, e la presentazione del lavoro è stata un’ottima occasione per ripassare i principali risultati presenti nella letteratura sul tema.

Obiettivo della ricerca è stato valutare se l’umorismo migliora la capacità di regolare le emozioni, le ipotesi del lavoro sono state le seguenti:

  • Il training psicoeducativo sull’umorismo risulta efficace nella regolazione di stati emotivi disfunzionali?
  • Quando il training psicoeducativo si rivela più efficace? Prima o dopo l’esposizione a stimoli emotivamente stressanti?
  • Esistono correlazioni tra gli stili di sense of humor e le risposte emotive dei soggetti?

Le ipotesi di ricerca sono state indagate su 87 soggetti non clinici, equamente distribuiti tra uomini e donne. Diversi i materiali impiegati nello studio: lo Humor Styles Questionnaire (HSQ), test che misura le differenze individuali negli stili di umorismo; un opuscolo psicoeducativo sull’umorismo che informa sugli effetti benefici dell’umorismo; delle clip video tratte sia da film comici (clip umoristiche) che da film horror (clip cruente); una griglia di misurazione delle emozioni.

I soggetti erano divisi in tre gruppi, ad ogni gruppo è stato inizialmente somministrato il test HSQ e la griglia delle emozioni in fase finale. I gruppi si differenziavano in quanto:

  • Al Gruppo di controllo vengono fatte vedere clip cruente;
  • Al primo gruppo sperimentale (Gruppo Sperimentale Pre) viene fornito l’opuscolo educativo sull’umorismo, i soggetti vedono le clip umoristiche e in seguito vengono fatte vedere clip cruente;
  • Al secondo gruppo sperimentale (Gruppo Sperimentale Post) vengono dapprima fatte vedere clip cruente e in seguito viene fornito l’opuscolo educativo e vengono fatte vedere le clip umoristiche.

I risultati dello studio sembrano essere molto interessanti: il gruppo di controllo esperisce paura, rabbia, disprezzo e orrore con maggiore intensità rispetto al Gruppo Sperimentale Post. Le emozioni di vergogna, indifferenza, invidia risultano più elevate nel primo gruppo sperimentale rispetto al secondo gruppo. Le emozioni di tristezza, disgusto, ribrezzo e repulsione risultano più intense nel gruppo di controllo rispetto al Gruppo Sperimentale Post, inoltre il Gruppo Sperimentale Pre esperisce con maggiori intensità tali emozioni rispetto al secondo. L’emozione di gioia viene esperita con minore intensità dal gruppo di controllo rispetto ai gruppi sperimentali, tra questi è il Gruppo Sperimentale Post a esperire maggiormente la gioia.

Dai dati si evince dunque che il training psicoeducativo favorisce una migliore regolazione emotiva nei soggetti, aumentandone il benessere psicologico. In particolare i soggetti del Gruppo Sperimentale Post sembrerebbero regolare meglio le emozioni di fronte a situazioni emotivamente stressanti. E’ emersa inoltre un’interessante correlazione tra alcuni stili di humor e risposte emotive nei soggetti (ad esempio lo stile di humor aggressivo è risultato correlare maggiormente con nostalgia, sorpresa, colpa e vergogna).

Dallo studio presentato si può quindi giungere alla conclusione che il possibile utilizzo di un training psicoeducativo sull’umorismo nel contesto psicoterapeutico, potrebbe incrementare le capacità dei soggetti di regolare le proprie emozioni e dunque favorirne il benessere psicologico.

Segue una discussione sullo studio con i Professori Centorame, Lamela e Ruggiero. Gli scambi sono costruttivi, si evidenziano i punti di forza e di debolezza dello studio: un modo per spronare la platea a sviluppare il proprio senso critico ma soprattutto a non dimenticare il prezioso contributo della ricerca alla pratica clinica, punto quest’ultimo volutamente reso filo conduttore dell’intero Forum. Gli spettatori non possono che ascoltare interessati.

Umorismo per regolare le emozioni - Forum RIccione 2017 -

Next to Normal: il disturbo bipolare e il caregiving in scena e nella realtà

Next to Normal è uno spettacolo musicale, uno dei maggiori successi di Broadway degli ultimi anni, vincitore di tre Tony Awards e del Pulizer per la drammaturgia. Questo musical porta in scena la vita apparentemente normale della famiglia Goodman: il padre Dan, la madre Diana, i figli Gabe e Natalie.

Germana Celentano – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Una famiglia come tante, e così come ogni nucleo familiare nella vita reale affronta i propri problemi e drammi, piccoli o grandi, anche i Goodman si ritrovano ad affrontare la loro difficoltà. A manifestare i sintomi del disturbo bipolare è Diana in una tranquilla giornata, preparando tramezzini a casa: non accetta la morte del figlio Gabe, ancora neonato, avvenuta anni prima. Diana nel suo quotidiano crede di vedere una sua personale proiezione mentale di come sarebbe stato il figlio se fosse vissuto, mentre sembra non prestare attenzione alla figlia Natalie, oramai adolescente, la quale si sente invisibile agli occhi della madre. Infine il marito Dan, che cercherà di ricostruire la vita di Diana come era prima della morte del piccolo Gabe.

La madre Diana, in cura con psicofarmaci sembra assorta e concentrata in un mondo tutto personale, mentre la figlia continua a satellitarle intorno, non vista ma sempre estremamente presente, nel sostegno e nel supporto; così in un disperato tentativo di essere vista dalla madre, Natalie comincia a sua volta ad assumere farmaci in modo incontrollato.

Questo musical pone lo sguardo su uno spaccato di nucleo familiare ed al contempo della mente umana: si affrontano i temi del disturbo bipolare e dei caregiving.

Molto brevemente, il disturbo bipolare è una patologia caratterizzata dalla fluttuazione del tono dell’umore, tra mania/ipomania e depressione (prevalenza all’incirca al 2% nella popolazione generale, con un’elevata percentuale di casi con storia famigliare positiva per malattia). Sintomo cardine dunque è la presenza di fasi di mania/ipomania, seguita da un successivo episodio depressivo. Il disturbo viene suddiviso in due forme principali: disturbo bipolare di tipo I e bipolare di tipo II; a questi si aggiungono anche ciclotimia e disturbi bipolari sotto soglia.

L’approccio terapeutico annovera la possibilità di un intervento di natura farmacologica che di natura psicoterapica:

  • Sul piano farmacologico, la scelta verte sostanzialmente sull’utilizzo di antidepressivi il cui uso appare controverso e discusso per via del sospetto rischio di switch dalla depressione alla mania; di stabilizzanti dell’umore che riducono le fluttuazioni dello stato umorale e stabilizzano il tono affettivo; di antipsicotici, adoperati con efficacia durante le fasi maniacali, con lo scopo di “sedare” l’iperattività e l’eccessivo incremento della produzione ideica del soggetto.
  • Sul piano psicoterapico la gamma dei possibili approcci è piuttosto ampia, tutti con il fine ultimo di focalizzarsi sugli aspetti che maggiormente incidono negativamente sulla qualità di vita del paziente, come l’impulsività (suicidalità), l’ostilità, l’irritabilità, i comportamenti “risk-taking” e di abuso, la sensitività interpersonale.

Ma cosa succede intorno al paziente, e come incide la malattia sulla vita di colui che si ritrova a divenire donatore (giver) di assistenza (care)?  Recentemente si è fortificata l’attenzione per i caregiving in generale, ma in particolare per i giovani ed i bambini: questi ultimi sono una popolazione a rischio di insuccesso scolastico e cattive condizioni di salute, a causa dello stress fisico ed emotivo cronico per le eccessive responsabilità che devono sostenere.

L’American Academy of Pediatrics (AAP) National Conference & Exhibition di San Diego, ha presentato uno studio nato dalla collaborazione tra i ricercatori della University of Miami Miller School of Medicine e l’American Association of Caregiving Youth (AACY) con lo scopo di comprendere meglio l’esperienza quotidiana dei giovani caregivers e studiare l’impatto dei servizi forniti da AACY.

I numeri che emergono dallo studio (550 casi di caregivers con età media di 12 anni di cui il 62% di sesso femminile ed il 38% di sesso maschile) sono importati: negli Stati Uniti ci sono più di 1,3 milioni di bambini iper-responsabilizzati nella cura di familiari malati, feriti, anziani o disabili. Costoro riferiscono di spendere nella cura dei familiari, intesa come sostegno alla persona, sostegno materiale nelle attività inerenti la vita quotidiana, e sostegno emotivo; in media 2,5 ore al  giorno e 4 ore nei week end.

Si è cercato di indagare quali possano essere le ripercussioni a medio-lungo termine delle responsabilità che sono tenuti ad assumersi e a sostenere ed è emerso che il carico del caregiver è stato associato al disordine mentale, tuttavia la mancanza di studi e di interventi formali volti ad indagare questa popolazione nel dettaglio, riflette la negligenza vigente in questo ambito.

Uno studio trasversale Brasiliano, dell’Universidade Católica de Pelotas ha sottoposto giovani adulti al CBI, mentre le informazioni sui disturbi mentali del caregiver (Asse I) e l’abuso di alcol sono stati ottenuti attraverso la MINI. In conclusione il carico di caregiving di pazienti affetti da depressione e disturbo bipolare è stato associato a disturbi dell’umore e d’ansia.

E’ noto che il disturbo bipolare sia associato a disabilità e rischio di suicidio, dunque i familiari più stretti  o gli amici spesso hanno un ruolo primario nel sostenere un adulto con disturbo bipolare. Tuttavia poche informazioni “evidence-based” sono accessibili al pubblico per guidare gli operatori sanitari ed il cargiver. Il carico del cargiver aumenta il rischio di depressione e di problemi di salute del cargiver stesso. Per contribuire a colmare il gap di informazioni, medici, operatori sanitari e fruitori, possono contribuire, su iniziativa di uno studio condotto dall’ IMPACT Strategic Research Centre (School of Medicine, Deakin University, Geelong, Victoria, Australia) allo sviluppo di linee guida con il metodo Delphi. Il lavoro ha avuto lo scopo di valutare l’accettabilità e l’utilità della versione online delle linee guida.

I visitatori del sito hanno risposto a un sondaggio iniziale online, circa l’utilità delle informazioni (N = 536). Un più dettagliato sondaggio di feedback di follow-up è stato inviato via e-mail un mese dopo agli utenti (caregivers di adulti affetti da disturbo bipolare N = 121). Il feedback è stato analizzato quantitativamente e qualitativamente per stabilire le valutazioni  e le applicazioni delle informazioni on-line, se e come il tutto potesse essere migliorato. Dai risultati del sondaggio è emerso che in generale il sito contenente le linee guida è stato utilizzato e valutato positivamente. Il sito dunque sembra essere utile per le famiglie e gli amici in cerca di informazioni di base e rassicurazioni, e può essere un modo economico per diffondere linee guida per i caregivers. Coloro che si occupano di persone con disturbo bipolare più grave e disordine cronico, o che hanno problemi familiari complessi, potrebbero beneficiare di interventi più specializzati, suggerendo l’importanza di un approccio graduale di cura a sostegno del caregivers.

Sull’importanza di un approccio di cura a sostegno del caregiver, sono state condotte indagini sulla necessità di accompagnare, certamente il paziente, ma anche colui che si occupa del paziente e vive da vicino la patologia, valutando l’impatto di un intervento psicoeducativo sui livelli di onere, di autostima e sulla qualità della vita nei caregivers di pazienti con diagnosi di disturbo bipolare.

Uno studio clinico randomizzato dell’Universidade Católica de Pelotas (UCPel), Pelotas, Brasil, ha valutato i cambiamenti nel livello di carico, i livelli di autostima e la qualità della vita. In base allo studio i caregivers possono partecipare a sei sedute di gruppo con o senza psicoeducazione. I risultati indicano che entrambi i gruppi hanno presentato un miglioramento nei punteggi degli oneri soggettivi nel corso degli interventi, tuttavia non ci sono differenze per quanto riguarda il miglioramento dell’autostima percepita e sulla qualità della vita, quando si confrontano i gruppi con e senza l’intervento di psicoeducazione.

In conclusione un intervento psicoeducativo su cargivers di pazienti affetti da disturbo bipolare non ha portato benefici per la salute del caregiver, dunque un follow up longitudinale sarebbe auspicabile per valutare eventuali differenze nel tempo, in termini di onere, autostima percepita  e qualità della vita da parte dei cargivers.
Purtroppo alle difficoltà del caregiver con il paziente, ed alle ripercussioni che ne derivano in termini di qualità della vita, si aggiunge anche il pericolo del pregiudizio della discriminazione, dello stigma, che accompagnano spesso la malattia mentale che si tiene “nascosta”.

Il MIRIAD study group ha cercato di determinare la frequenza degli ostacoli al trattamento, di confrontare gli ostacoli al trattamento riportati dagli operatori sanitari e dai caregivers, di indagare i predittori demografici che incidevano sulla segnalazione degli ostacoli. Il profilo degli ostacoli di trattamento differiva tra i caregivers e gli operatori sanitari: gli operatori sanitari sono stati più propensi a riferirli rispetto ai caregivers. Tra i caregivers, il sesso femminile o l’etnia nera, avevano maggiore predisposizione a riportare la presenza di ostacoli. Dallo studio si è evinto come siano necessari approcci molteplici per ridurre gli ostacoli al trattamento, sia per i caregivers che per gli operatori sanitari.

Dunque le difficoltà emergono su più fronti: un riesame condotto dal Dipartimento di Neuroscienze dell’Università La sapienza di Roma ha riesaminato gli oneri oggettivi e soggettivi nei caregivers (membri della famiglia di solito) dei pazienti con disturbo bipolare e ha elencato quali sintomi dei pazienti sono considerati più onerosi da parte degli operatori sanitari. Al fine di fornire un commento critico sul carico del caregiver in pazienti con disturbo bipolare, hanno effettuato una dettagliata ricerca per identificare tutti gli articoli ed i capitoli di libri in lingua inglese pubblicati dal 1963 al novembre 2011 che trattassero questo argomento. I livelli più elevati di stress sono stati causati dal comportamento del paziente e dal suo ruolo disfunzionale (lavoro, istruzione e relazioni sociali). Inoltre, il ruolo di caregiver compromette altri ruoli sociali occupati dal caregiver stesso, diventando parte del costo sociale inerente il disturbo bipolare. Vi è la necessità di comprendere meglio la visione del caregivers e le percezioni personali degli stressors e le richieste derivanti dal prendersi cura di qualcuno con disturbo bipolare, per sviluppare pratiche ed interventi appropriati e migliorare la formazione dei caregivers.

Tanto è stato fatto ma tanto è auspicabile si faccia perché nel percorso di cura ed assistenza la famiglia è per lo più costante supporto operativo e/o economico.

Il donatore di assistenza è parte integrante di un binomio paziente-famiglia, base di un rapporto inscindibile affettivo e sociale bidirezionale tra la famiglia ed il paziente stesso.

La presa in carico del paziente necessita di un approccio bio-psico-sociale, che tenga conto delle varie aree della salute multidimensionale (fisica, mentale, sociale, spirituale) e dei fattori che influenzano la salute (fattori ambientali e fattori personali) nei loro aspetti negativi e positivi, e propone attività sanitarie e socio-sanitarie integrate (attività di equipe, percorsi di cura) con la partecipazione del paziente, della famiglia e delle comunità locali. L’approccio bio-psico-sociale è un approccio a tappe centrato sulla persona, dunque sul paziente, ma anche su ciascun membro della famiglia, che rappresenta il principale erogatore assistenziale a lungo termine. Dunque la rete familiare deve essere sostenuta e non sostituita, cosicché le tante famiglie Goodman possano sentirsi supportate e non in balia degli eventi.

La scid- 5-PD nella diagnosi dei disturbi di personalità

La formulazione di un caso è ancor più forte se supportata e illuminata da coordinate condivise e strumenti in grado di coglierle all’interno di un ragionamento clinico. Da qui l’importanza di uno strumento d’indagine per i disturbi di personalità, quale la SCID -5-PD.

Intuito clinico, saper sentire quello che il paziente ci comunica spesso già dalla sala d’aspetto, quello che emana quando siamo seduti di fronte a lui, l’abilità di navigare insieme al paziente nelle narrative che fanno da specchio alla sua sofferenza, accedere alle tracce autobiografiche, sono alcuni degli elementi importanti del clinico che lavora con i disturbi di personalità, e non solo.

Esperienza, sensibilità clinica, conoscenza di sé e della propria soggettività in campo con il paziente ci consentono di fare inferenze e comprendere, a volte in modo tacito, il funzionamento del paziente durante il colloquio clinico.

La formulazione di un caso è ancor più forte se supportata e illuminata da coordinate condivise e strumenti in grado di coglierle all’interno di un ragionamento clinico. Parte della formulazione del caso richiede un’indagine più sistematica, una ricerca di segni e sintomi che consentano di vedere e descrivere nella sua globalità a quale area di psicopatologia conosciuta ci stiamo riferendo. Senza coordinate il rischio sarebbe quello di cadere in una diagnosi privata e auto-referenziale, con conseguenze sulla formulazione del caso e sull’impostazione globale del trattamento.

Un’ indagine guidata che produca un giudizio clinico sufficientemente valido e attendibile risponde sia alle esigenze dei clinici impegnati nell’inquadramento diagnostico e terapeutico in stanza con il paziente, sia dei ricercatori impegnati a definire i criteri di inclusione e di esclusione in studi sperimentali ed epidemiologici, o che vanno ad investigare modelli di disturbi di personalità che si presentano insieme ad altri disturbi mentali o condizioni mediche, o interessati ad indagare la struttura sottostante alla patologia della personalità.

Da qui l’importanza di uno strumento d’indagine per i disturbi di personalità, quale la SCID -5-PD, l’intervista clinica strutturata per la valutazione dei 10 disturbi di personalità del DSM-5, la cui versione italiana è edita da Raffaello Cortina Editore.

La SCID-5-PD per i disturbi di personalità rappresenta uno strumento clinico fondamentale per l’indagine di affetti, cognizioni e comportamenti ricorrenti e stabili, sia all’interno di una cornice categoriale (che permette la formulazione di una diagnosi, presente o assente) sia lungo un continuum.

Ora qualche parola per capire meglio l’importanza e le potenzialità di utilizzo di questo strumento.

La SCID-5-PD nasce dal lavoro di revisione della SCID-II (Structured Clinical Interview for DSM-IV Axis II Personality Disorders), che inizia dopo la pubblicazione del DSM-5 nel 2013 e riflette le modifiche apportate nel nuovo manuale dei disturbi mentali.

La nuova denominazione rappresenta la definizione non assiale delle diagnosi del DSM-5 e categorie di ricerca precedentemente incluse nel DSM-IV ma eliminate nel DSM-5 (Disturbo di Personalità Passivo- Aggressivo e il Disturbo di Personalità Depressivo) sono state escluse.

Nonostante nessuno dei criteri sia stato modificato nel passaggio al DSM-5, tutte le domande dell’intervista sono state revisionate al fine di garantire di cogliere al meglio il costrutto espresso nei criteri diagnostici e rispecchiare con maggiore aderenza l’esperienza personale dei soggetti.

Inoltre, sebbene la valutazione dimensionale non sia una caratteristica ufficiale del DSM-5, la SCID-5-PD prevede la possibilità di effettuare una valutazione dimensionale di ciascuno dei disturbi di personalità categoriali del DSM-5 sommando il singolo punteggio di ciascuna valutazione (“0”, “1”, “2”) e producendo per quel disturbo un punteggio dimensionale che riflette sia il punteggio a soglia, sia il punteggio sottosoglia del criterio.

 

Come si struttura la SCID-5-PD?

La SCID-5-PD comprende la Guida per l’Intervistatore, il Questionario e l’Intervista.

Il clinico o il ricercatore, in base allo scopo da cui è guidato, può decidere se procedere all’indagine diagnostica utilizzando l’intervista integralmente o valutando solo alcuni disturbi di personalità.

Inoltre, allo scopo di ridurre il tempo necessario per l’intervista, la SCID-5-PD prevede un questionario di personalità autosomministrato (SCID-5-SPQ), che può essere compilato dal paziente prima dell’intervista come strumento di screening a bassa soglia.

La SCID-5-PD si apre con un’indagine generale che permette di ricavare informazioni sulle esperienze pregresse del soggetto e fornisce indizi su aree potenzialmente problematiche. Il quadro generale è composto da due sezioni: la prima parte raccoglie dati demografici, istruzioni e storia lavorativa, precedenti rapporti con il sistema legale, periodi attuali e passati di psicopatologia; la seconda parte valuta il comportamento abituale del soggetto e le sue relazioni, mettendo in evidenza le capacità riflessive del soggetto.

L’Intervista procede con le domande volte a valutare (“?” = informazioni insufficienti, “0” = Assente, “1” = Sottosoglia, “2” = Soglia) i criteri del DSM-5 per ognuno dei 10 disturbi di personalità, in un ordine finalizzato a favorire il rapporto con il soggetto.

I criteri più complessi da indagare mediante l’intervista sono esaminati attraverso diverse domande, che riflettono aspetti dello stesso criterio. Sono inoltre previste domande di approfondimento che hanno la finalità di stabilire attraverso un maggior numero di elementi se il criterio del disturbo di personalità è soddisfatto al livello di gravità-soglia. La guida sottolinea l’importanza di integrare l’indagine dei criteri con dettagli specifici di pensieri, sentimenti e comportamenti per definire al meglio l’appropriatezza di un punteggio. Immaginiamo, per esempio, che il paziente risponda affermativamente alla domanda che indaga la difficoltà ad esprimere disaccordo con le persone (criterio 3 del disturbo di personalità dipendente): attraverso gli esempi e le domande di approfondimento andiamo a cogliere la motivazione sottostante che guida il paziente, chiedendoci e domandando se le difficoltà ad esprimere dissenso derivano, come prevede il criterio, dal timore di perdere supporto e approvazione o sono in gioco altre componenti.

I commenti alla SCID-5-PD contenuti nella guida sono un valido aiuto all’intervistatore per interpretare il significato di un criterio e distinguerlo da altri aspetti simili ma costitutivi di un altro disturbo di personalità.

Qualora il paziente riconosca il tratto è importante stabilire se i comportamenti, le cognizioni o gli affetti siano parte di un disturbo di personalità, e meritino quindi un punteggio “2” (soglia): il comportamento o l’esperienza descritta è presente nel paziente più che nella maggior parte degli individui? Accade in molte situazioni differenti, con persone diverse? Quali problemi ha causato, quali conseguenze sul piano delle relazioni e del lavoro? Quanto spesso accade e da quanto il paziente si sente così?

In altre parole quanto è patologico, persistente e pervasivo il tratto? Possiamo attribuirlo ad altre cause o le abbiamo escluse correttamente?

Valutare con attenzione e sensibilità clinica queste dimensioni è di fondamentale importanza per discriminare pattern di esperienza interna o di comportamento patologici da quelli sotto-soglia diagnostica; come emerge da un’attenta visione dello strumento, la SCID-5-PD supporta e contemporaneamente si serve del giudizio e dell’osservazione clinica, chiamati spesso in causa nella valutazione dei diversi criteri.

Lo studio dello strumento consentirà al lettore di approfondire quanto qui abbiamo solo accennato.

Nella guida per l’intervistatore si possono trovare la descrizione delle caratteristiche strutturali della SCID-5-PD, le indicazioni per la sua corretta somministrazione, i commenti per ciascuna domanda dell’intervista, le caratteristiche di validità e affidabilità. Si conclude, nell’appendice, con la discussione di un esempio completo di un caso clinico.

Pensando ai clinici impegnati nel lavoro con i pazienti che vivono e incarnano i criteri indagati dalla SCID-5-PD, si conclude con un’ultima riflessione: la familiarità nell’utilizzo di questo strumento consente forse di interiorizzare una modalità d’indagine con il paziente nella quale l’abilità del clinico di dare senso e accordare tra loro affetti, cognizioni e comportamenti  si unisce all’impegno verso la descrizione di un quadro clinico definito, conosciuto e condivisibile, conferendo maggiore saggezza e raffinatezza alla formulazione del caso e del percorso terapeutico.

Tutti in maschera, la sincerità al museo

In seduta Julien si mostra annoiato, l’idea di avere una parte vulnerabile gli suscita ribrezzo. Alla domanda della terapeuta: “Perché hai bisogno di presentarti così?”, la prima risposta è raggelante: “Perché sono un figlio dei tempi, un solitario idolatra trasgressivo”.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 09/04/2017 su LA LETTURA del Corriere della Sera

 

Il suo vero nome è Andrea, ma si fa chiamare Julien, si irrita con chi non si attiene alla norma. Sedici anni e indossa lenti a contatto colorate: una gialla e una viola, mai dare riferimenti certi. Estate e inverno, non si stacca mai dal cappotto di pelle. Si ispira a Neo di Matrix, copia Marylin Manson, la sua regola è: attira l’attenzione, presentati forte. Perché è in psicoterapia? Ce l’hanno mandato i genitori, angosciati dai pensieri di suicidio che hanno letto sul diario. In seduta Julien si mostra annoiato, l’idea di avere una parte vulnerabile gli suscita ribrezzo. Alla domanda della terapeuta: “Perché hai bisogno di presentarti così?”, la prima risposta è raggelante: “Perché sono un figlio dei tempi, un solitario idolatra trasgressivo”.

Qualche mese dopo la risposta sarà: “Perché mi sento debole e se guardano quel lato di me vedono un verme e mi vergogno. La vita ha senso se vinci, senza la maschera sei spacciato”. Un segno dei tempi: la menzogna come coperta per la macchia, la vergogna come vera legge del comportamento, la sincerità un’arte da rinchiudere in musei polverosi.

Eppure la bugia nasce con un senso: fonda l’identità. Il bambino che mente sta imparando a tenere il mondo interno libero dall’influenza colonizzante dell’adulto, e a realizzare i propri piani anche in assenza di approvazione. Il bambino che non sa mentire resterà a vita un’appendice non pensante del genitore.

La sincerità, d’altra parte, nel museo ci sta stretta. Dobbiamo sapere a chi credere, chi è la fonte attendibile d’informazioni. La gran parte di quello che i bambini apprenderanno non sarà frutto di esperimenti scientifici condotti in prima persona. Assorbiranno conoscenza trasmessa e quindi l’attendibilità della fonte assume un’importanza tremenda.

La capacità di fidarsi lo psicologo cognitivo Dan Sperber la chiama fiducia epistemica: credere che una persona ci stia fornendo informazione sincera e rilevante. Se minata, secondo lo psicoanalista Peter Fonagy, si radica la psicopatologia: il mondo diventa pericoloso e confonde. La fiducia epistemica si trasfonde nella mente del bambino da un interlocutore sincero. La salute mentale dipende da questo, la frattura della fiducia primaria crepa le relazioni umane. Fiducia epistemica non implica ingenuità, ma sapere a chi credere, quando, e a quali condizioni.

Ha ragione Julien: liberarsi della sincerità è il gesto che segna la nostra epoca? Drammaticamente probabile. Non si pensi alla cosiddetta post-verità: termine noioso, parola di moda che presto non ricorderemo: chi detiene il potere ha sempre divulgato informazione falsa. Di fatto, generare illusioni è un’arte che ultimamente alletta da pazzi.

Il prezzo delle finzioni noi psicoterapeuti lo calcoliamo dai racconti dei nostri pazienti, Julien ha mille fratelli e sorelle. Livia è una trentenne proprietaria di un circolo sportivo. Beve troppo si sente sola e ha ventitré identità sui social, segnalate in aumento. Ne trae piacere, conosce uomini, si fa portare a letto ma al mattino non parla, troppa fatica essere coerente con la maschera indossata la sera prima. Il terapeuta presto scopre che: il padre era prepotente e considerava Livia un’idiota e lei oggi è d’accordo. Inoltre: è cresciuta con l’idea di dover rendere felici tutti, ma alla fine della giornata non sa più cosa vuole per sé. Costruirsi avatar la consola: gratificazione virtuale e sesso reale a costo basso e nessuno di cui dovere prendersi cura. Il verdetto finale glielo dà lo specchio: chi sei? Cosa vali? Spietate le risposte: nessuno e niente.

Alla fine si tratta di scegliere: la sincerità, ben dosata, rinsalda la generazione successiva. Mentire è un gioco bellissimo, ottimo per individuarsi. Ma anche per avere mille rapporti gratificanti a breve e neanche un futuro.

Le credenze dell’insegnante sull’intelligenza viste dagli studenti: quale rapporto con la motivazione allo studio?

All’interno di questo studio si è cercato di indagare in particolare il punto di vista degli allievi rispetto alle credenze sull’intelligenza degli insegnanti. Infatti, come sottolineano i paradigmi di tipo costruttivista, è fondamentale indagare come l’ambiente viene percepito dalle persone, specialmente in adolescenza, periodo in cui l’individuo fa maggiormente ricorso al pensiero logico- paradigmatico

Susanna Paterlini e Enrica Giaroli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Gli studi recenti nel campo della motivazione hanno esaminato, oltre ai costrutti personali, cognitivi e affettivi che gli individui elaborano nelle interazioni sociali, il ruolo dei contesti in cui gli individui stessi si trovano ad agire.

Tra questi contesti, il gruppo classe rappresenta una vera e propria “arena sociale” dove hanno luogo i processi di sviluppo e maturazione che si traducono nel consolidamento di rapporti affettivi e nella sperimentazione ed elaborazione di modelli di identità personale (Mariani, 2012). In particolare, oltre al gruppo dei pari, appare centrale la figura del docente che, come molti studi dimostrano, svolge un ruolo importante nello strutturare un ambiente adeguato, nel promuovere il coinvolgimento scolastico dei suoi allievi e nel favorire il superamento dei compiti di sviluppo caratteristici di questa età (Vacirca, Giannotta & Ciairano, 2007). Superare con successo la fase adolescenziale nella società contemporanea, infatti, si configura sempre più come un’impresa evolutiva congiunta che riguarda più di un contesto di sviluppo (Di Stefano & Vianello, 2002). Si tratta di un’impresa che compete sempre meno esclusivamente al nucleo familiare di origine e che coinvolge sempre più la scuola e nello specifico, soprattutto, il lavoro svolto dagli insegnanti.

Altrettanto centrali per lo sviluppo di una buona motivazione a scuola sono le concezioni dell’intelligenza. Le ricerche in questo campo hanno mostrato come esse tendano a strutturasi attorno a due poli: uno innatista, che considera l’intelligenza un’entità stabile, innata e poco o affatto incrementabile, l’altro costruttivista, che concepisce l’intelligenza in modo dinamico, un repertorio di abilità malleabili che aumenta con lo sforzo e l’impegno (Dweck, 2000; Albanese & Fiorilli 2001; Fiorilli, 2003).

Questi due poli rappresentano un continuum. Non è possibile, infatti, collocare la concezione di un individuo in modo assoluto su polo piuttosto che sull’altro. Queste concezioni, rinvenute sia nei docenti sia negli allievi, inoltre, si trasformano nel tempo, con l’esperienza e in relazione alla natura del rapporto che si ha con l’individuo che si sta valutando.

Come è già stato illustrato precedentemente, queste concezioni svolgono la funzione di guidare l’insegnante nella pratica educativa, nelle sue decisioni, nel suo modo di interpretare gli eventi e di intervenire di fronte alle difficoltà (Fiorilli, 2009).

 

Gli insegnanti, le loro credenze sull’intelligenza e il punto di vista degli allievi: la ricerca

All’interno di questo studio si è cercato di indagare in particolare il punto di vista degli allievi rispetto alle credenze sull’intelligenza degli insegnanti. Infatti, come sottolineano i paradigmi di tipo costruttivista, è fondamentale indagare come l’ambiente viene percepito dalle persone, specialmente in adolescenza, periodo in cui l’individuo fa maggiormente ricorso al pensiero logico- paradigmatico (Petter, 2002).

Il primo obiettivo della ricerca è stato, per l’appunto, quello di esplorare le concezioni dell’insegnante sull’intelligenza dal punto di vista dei ragazzi. A tal fine, si è utilizzato uno strumento appositamente costruito sulla base della Scala delle Concezioni Costruttiviste dell’Intelligenza (SCCI) sviluppata da Albanese e Fiorilli (2003) per misurare le concezioni costruttiviste degli insegnanti. Nella costruzione del questionario si sono inseriti item relativi alle teorie dell’insegnante sull’intelligenza e item che, invece, ne rispecchiano le pratiche.

Il secondo obiettivo ha previsto la somministrazione dello Study Process Questionnaire (R-SPQ- 2F) (Biggs, Kember & Leung, 2001). Lo scopo è verificare la scala sul campione di studenti delle superiori. Coerentemente ai dati in letteratura, si dovrebbe ottenere una struttura a due fattori. Uno di essi rispecchierebbe una motivazione profonda allo studio, l’altro una superficiale.

Come terzo obiettivo si è analizzato il rapporto tra le percezioni degli alunni rispetto alle credenze dell’insegnante sull’intelligenza e la loro motivazione allo studio della materia. L’ipotesi è che percepire l’insegnante come costruttivista (nelle sue teorie e nelle sue pratiche) porti a una maggior motivazione profonda allo studio.

Infine si è esaminato il ruolo esercitato dalle variabili età, genere, materia prescelta per completare il questionario (quella in cui si ha più difficoltà o meno difficoltà) e voto (scritto e orale).

 

Popolazione

A questa ricerca hanno partecipato 199 studenti, 92 maschi (41,3 %) e 107 femmine (48 %), frequentanti un liceo scientifico del Nord Italia. L’età dei soggetti è compresa tra i 15 e i 20 anni, con una media di 16,20.

 

Risultati della ricerca

Le concezioni dell’intelligenza dell’insegnante dal punto di vista dei loro alunni

Le tre dimensioni emerse dalla scala utilizzata dal presente studio sembrano rispecchiare diversi indici che lo studente utilizza per farsi un’idea di quello che l’insegnante pensa.

Il primo fattore (Le teorie dell’intelligenza) si struttura su due poli. Uno restituisce l’immagine di un  insegnante che vede l’intelligenza come qualcosa di non rigidamente determinato, ma come un’abilità che, con l’esercizio, può essere sviluppata. Questo insegnante appare ai ragazzi non solo consapevole dell’impatto che la relazione educativa esercita sul loro sviluppo cognitivo, ma anche  fiducioso nella possibilità che essi potranno affinare le loro doti intellettive. Al contrario l’insegnante percepito come innatista sembra considerare il suo intervento educativo come meno incisivo e le possibilità di miglioramento come poco probabili.

Il secondo fattore riguarda le pratiche dell’insegnante e, in particolar modo, la discussione in classe e le modalità con cui l’insegnante affronta l’errore. Esaminando meglio questo fattore vediamo emergere i due poli costruttivista e innatista. L’insegnante percepito come costruttivista cerca di suscitare nell’alunno la riflessione sull’errore e coinvolge la classe nella discussione, mentre quello innatista tende a rivolgersi maggiormente al singolo alunno in errore e a non lasciargli spazi di argomentazione e negoziazione.

Come già precisato, le teorie informali guidano l’insegnante nella sua pratica educativa, nelle decisioni, nella programmazione e nell’intervento di fronte alle difficoltà dell’alunno (Fiorilli, 2009). Sembra, quindi che i ragazzi riescano a trarre informazioni sul costruttivismo o innatismo dell’insegnante durante questi momenti. Suggerire la risposta corretta e lasciare scarso spazio alla discussione tra compagni sugli argomenti sono indicatori, per i ragazzi, di ciò che l’insegnante pensa di loro, della loro possibilità di migliorare e di riparare all’errore.

L’ultimo fattore è, anche esso, relativo a un comportamento osservabile dall’alunno: l’uso delle domande. Anche in questo caso, si osservano due polarità riconducibili alle diverse strategie adottate dal docente per porre domande. L’insegnante costruzionista utilizza maggiormente domande aperte, quello innatista domande a cui si può rispondere anche solo con “sì” o “no” o “vero” o “falso”. La pratica del fare domande agli alunni è molto frequente a scuola e acquista caratteristiche paradossali, dovute al fatto che nella conversazione insegnante-alunno le convenzioni che regolano il rapporto tra domanda e risposta sono spesso violate. Infatti, chi fa le domande (insegnante) conosce già la risposta e chi risponde (studente) non sempre è colui che detiene la conoscenza. Inoltre bisogna ricordare il potere valutativo detenuto dal docente (Fiorilli, 2009). Le domande in classe, infatti, sono spesso seguite dalla valutazione della risposta dell’allievo. Anche in questo caso, quindi, il tipo di domande poste in classe sono indicative per l’alunno di ciò che l’insegnante pensa. Domande aperte, infatti, aprono lo spazio a risposte per le quali non sono previsti a priori rigidi criteri di correttezza, mentre le domande chiuse lasciano poca possibilità di espressione ai partecipanti alla discussione.

Questi dati mettono in evidenza come le percezioni che lo studente possiede rispetto alle credenze dell’insegnante derivino dall’osservazione del modo in cui il docente interagisce con la classe e con lo studente singolo. I momenti di discussione, le domande poste e i metodi di correzione dell’errore rappresentano indizi che l’alunno sembra utilizzare per capire cosa l’insegnante pensa della sua intelligenza. Questo dato si potrebbe spiegare tenendo in considerazione che nei momenti di discussione e di riflessione sull’errore (si pensi, magari, alla correzione di un compito in classe o a un’interrogazione) il docente detiene una conoscenza che può non essere condivisa con l’alunno e, in quei momenti, spesso, ha il compito di valutare la prestazione degli allievi (Fiorilli, 2009).

Questi si trovano, quindi, in una posizione in cui ciò che il docente pensa è fondamentale per essi, non solo ai fini della valutazione scolastica ma anche per lo formulazione del concetto di sé. In questa fase della loro vita, infatti, gli adolescenti si trovano a dover completare un compito di sviluppo fondamentale, la costruzione dell’identità. Secondo Petter (1999) gli insegnanti possono dare un contributo essenziale riguardo alla formazione dell’idea di sé. Genitori e insegnanti occupano, infatti, un posto rilevante nella vita del ragazzo ed esprimono di frequente giudizi sulle sue abilità e competenze.

 

La motivazione allo studio

Dalle analisi condotte emerge la presenza di due fattori. Il primo descrive uno studente che trae molta soddisfazione dallo studio e che prova interesse per ciò che si insegna a scuola al punto di ricercare, volontariamente, approfondimenti sulle materie studiate. Al contrario lo studente raffigurato dal secondo fattore sembra maggiormente guidato da una motivazione estrinseca: la necessità di ottenere un voto sufficiente con il minimo sforzo possibile.

Il rapporto tra le percezioni degli alunni rispetto alle credenze dell’insegnante sull’intelligenza e la loro motivazione allo studio della materia.

La relazione tra i fattori relativi alle credenze degli alunni e la loro motivazione allo studio è stata analizzata tramite il coefficiente di correlazione prodotto-momento di Pearson. Si è trovata una significativa correlazione positiva tra il fattore denominato “la discussione e il trattamento dell’errore in classe” e l’approccio profondo allo studio. Trattandosi di una correlazione non è possibile stabilire un nesso causale tra le variabili, né la direzione della correlazione. E’ pertanto altrettanto possibile ipotizzare una relazione tra una maggior motivazione ad apprendere in modo approfondito il materiale di studio e la percezione dell’insegnante come maggiormente costruttivista nei momenti di discussione. Questo risultato unito alla mancanza di una relazione tra la percezione delle teorie dell’insegnante e la motivazione allo studio mette veramente in risalto il ruolo che le pratiche del docente (e in particolare le modalità di gestione della discussione e dell’errore) svolgono nel favorire l’approccio profondo alla materia.

Come già accennato l’insegnante costruttivista utilizza pratiche che mirano a coinvolgere gli alunni nella co-costruzione del sapere, stimolando dunque la loro partecipazione attiva al processo di apprendimento e non la semplice riproduzione dei concetti proposti.

 

I fattori che incidono sulla percezione che i ragazzi hanno dell’insegnante e sulla motivazione allo studio

E’ stata condotta un’analisi della varianza a una via per esplorare l’impatto dell’età sulla percezione dell’insegnante e sulla motivazione allo studio. I soggetti sono stati divisi in due gruppi (Gruppo1: Biennio; Gruppo2: Triennio)

In questo caso i ragazzi più grandi (triennio) e le femmine sembrano più propense a percepire il costruttivismo che emerge dalle discussioni e dalle pratiche di gestione dell’errore. Questi dati potrebbero essere spiegati facendo riferimento ai processi maturativi durante l’adolescenza. Il periodo dell’adolescenza viene di solito suddiviso in due periodi. Il primo è quello della preadolescenza, che può avere inizio prima della maturazione puberale, ed estendersi fino ai 14-15 anni (e coincide quindi con gran parte del ciclo della scuola media, ma si estende, soprattutto per i ragazzi, anche fino alla prima classe della scuola secondaria superiore)  Questo momento è caratterizzato da numerosi cambiamenti e, in particolare, dallo sviluppo del pensiero ipotetico-deduttivo. Questi mutamenti, tuttavia, subiscono una ulteriore maturazione durante l’adolescenza vera e propria (Petter, 1999). In questa fase l’adolescente ha a disposizioni maggiore risorse intellettuali ed emotive per affrontare i problemi, farli oggetto di analisi e, in qualche modo, gestirli. Per queste ragioni è probabile che i ragazzi più grandi abbiano a disposizioni più strumenti per farsi un’idea del pensiero dell’insegnante durante le discussioni in classe.

Nel completare il questionario gli studenti hanno anche dovuto pensare all’insegnante della materia in cui avevano più difficoltà oppure meno difficoltà.

I dati dell’Anova permettono di fare ulteriori considerazioni. Prendendo in esame i primi due fattori (“le teorie dell’intelligenza” e “la discussione e il trattamento dell’’errore in classe”) si notano delle similitudini. In primo luogo si evince il ruolo che la difficoltà percepita della materia svolge nell’influenzare la percezione dell’insegnante come costruttivista o innatista.

Chi ha completato il questionario pensando all’insegnante della materia in cui ha meno difficoltà e chi ha ottenuto voti buoni ha totalizzato mediamente punteggi più alti negli item dei fattori sopra citati e mostra, quindi, di percepire un’insegnante più costruttivista. Le possibili spiegazioni a questi risultati potrebbero essere due. Prima di tutto si potrebbe ipotizzare che l’ottenere un buon profitto e l’avere scarse difficoltà in una materia portino ad una percezione più positiva dell’insegnante e delle sue pratiche. Allo stesso tempo è anche probabile che se lo studente avverte che l’insegnante crede in lui e nella sua possibilità di migliorare ottenga poi risultati buoni e senta di incontrare meno difficoltà in quella materia.

I risultati riguardanti il terzo fattore della scala delle percezioni dell’insegnante mostrano notevoli discrepanze con quanto appena detto. Nel fattore “le domande dell’insegnante” i gruppi che ottengono medie più alte sono quelli di coloro che hanno completato il questionario facendo riferimento alla materia in cui hanno più difficoltà e in cui ottengono voti insufficienti. Questo aspetto potrebbe essere ricondotto al fatto che gli  alunni in difficoltà si sentono maggiormente stimolati con domande che richiedono una risposta articolata, al fine di pervenire da soli allo soluzione del quesito. E’ probabile che a questi alunni vengano rivolte più spesso domande aperte mirate a capire i processi che hanno portato all’errore. Agli alunni che di solito ottengono voti buoni, invece, potrebbe non essere richiesta la riflessione sul modo in cui sono pervenuti alla risposta esatta.

 

Quali pratiche per favorire un approccio profondo allo studio?

Durante l’adolescenza il mondo della scuola rappresenta un luogo di investimento privilegiato e, nonostante i ragazzi si sforzino di sminuirne il peso, la scuola ha grosse ricadute sulla loro vita affettiva e sui loro stati mentali (Iaccarino, 1993). Per questo è sembrato utile prendere in esame il punto di vista dei ragazzi, analizzare le variabili che lo influenzano e cercare di capire se esso possa incidere sulla loro motivazione allo studio.

Tante sono le variabili che possono incidere sulla motivazione in ambito scolastico. Lo studio presentato ha, però, permesso di fare alcune considerazioni sulle pratiche messe in atto dal docente e sul loro ruolo nel favorire la motivazione.

Prima di tutto è necessario che nell’interazione con l’alunno singolo e con la classe il docente metta in atto pratiche costruttiviste, che facciano sentire all’allievo di avere un ruolo attivo nel suo processo di apprendimento. Durante queste discussioni è bene che sia coinvolta tutta la classe e non il singolo alunno in errore e che il docente svolga il ruolo di facilitatore dell’intervento degli alunni, ponendo domande e attendendo risposte, stimolando la riflessione sui processi piuttosto che sui prodotti. Queste pratiche consentono all’insegnante di intervenire nella zona di sviluppo prossimale e, come si è visto, sembrano correlate ad un approccio profondo allo studio.

A questo proposito Rizzato e De Beni (2004) sottolineano la complessa relazione tra i concetti di metacognizione e motivazione. Le autrici affermano che per incrementare l’abilità dei ragazzi di attingere dalla propria motivazione intrinseca ad apprendere, bisogna aiutare gli alunni a comprendere le modalità con cui i loro pensieri possono influenzare i loro stati d’animo e i loro comportamenti. Gli studenti devono arrivare ad appropriarsi dell’idea di sé come agente attivo. Per arrivare a ciò, l’ambiente educativo deve offrire la possibilità di riflettere sui propri processi cognitivi.

Bisogna, inoltre, tenere presente il grande impatto che la relazione alunno docente svolge nel favorire il coinvolgimento scolastico e, in particolare, come suggeriscono i dati, il percepire un insegnante che crede nelle possibilità che l’alunno possa incrementare la sua intelligenza.

A riguardo Vacirca, Giannotta & Ciairano (2010), in un’indagine svolta nella scuola secondaria di primo grado circa la relazione tra lo stile educativo degli insegnanti e il coinvolgimento scolastico degli alunni, evidenziano come le relazioni nel contesto classe siano il risultato di un processo graduale di co – regolazione nel quale assumono particolare importanza la flessibilità del docente e la capacità di fornire sostegno ai preadolescenti in modo continuativo nel corso del tempo La disponibilità al dialogo, in particolare, è risultata collegata a un maggior coinvolgimento scolastico soprattutto se tale disponibilità è stabile nel corso del tempo.

Infine, è bene interrogarsi sulle cause del declino della motivazione all’adozione di un approccio profondo allo studio lungo il percorso scolastico che sono emerse sia nel presente studio sia in ricerche precedenti (Kember, 2000; Biggs & Moor, 1993). Questo dato potrebbe indicare, come suggerito da Biggs (2001), che il sistema di valutazione valorizza e premia le strategie di mera riproduzione a scapito della comprensione e dell’interesse verso il materiale di studio. Vista la relazione tra obiettivi di padronanza, motivazione intrinseca e risultati accademici positivi (Matos, Lens & Vansteenkiste, 2007; Linnenbrink-Garcia, Tyson & Patall, 2008) appare, quindi, essenziale che il contesto educativo valuti non solo la prestazione ma anche il reale sviluppo delle competenze.

Craving e sostanza: cos’è il craving e i possibili approcci terapeutici

Il craving è il desiderio impulsivo per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto-comportamento gratificante. Questo desiderio impulsivo sostiene il comportamento “addittivo” e la compulsione, finalizzati a fruire dell’oggetto di desiderio. Il craving sarebbe prontamente stimolato da fattori previamente associati con la sostanza, elementi capaci di svolgere un ruolo “trigger”, cioè “grilletto”, che innescano con un meccanismo di condizionamento, e di associazione di idee, il desiderio della gratificazione ottenuta chimicamente.

Giulia Fusè, Lorenzo Caffi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il termine droga ha tre significati: identifica le spezie, individua alcuni farmaci e indica la sostanza stupefacente. Il primo significato è collegato alla consuetudine della cucina asiatica di condire con droghe (spezie) le pietanze. Questa usanza fu introdotta anche in Europa intorno al XVI secolo con la colonizzazione olandese dell’Asia. Non a caso etimologicamente il termine “droga” discende dall’olandese droog, che significa “arido, secco”, poiché la droga è originariamente una pianta secca, riservata agli usi della cucina e della farmacia.

Anche alla farmacia, dunque, è collegato l’uso delle droghe. Tirtamo di Ereso, meglio noto come Teofrasto (371 a.C.–287 a.C.), nel libro IX del suo Historia Plantarum (un trattato sulla botanica) classifica, per la prima volta, droghe e medicinali con il loro annesso valore terapeutico. In riferimento all’oppio scrisse: «Ne serve una dracma per essere euforici, il doppio per avere allucinazioni, tre volte per il delirio conclamato e una dose quadrupla per morire». Il valore medicinale delle droghe è riconosciuto anche dai medici arabi dell’antichità. In Europa bisogna aspettare gli inizi del XIX secolo per l’introduzione in ambito medico di sostanze ricavate dal papavero, l’oppio e l’hashish, usate come potentissimi calmanti.

In seguito all’uso non terapeutico e alla scoperta degli effetti negativi associati all’uso di questi composti, la droga diventa sinonimo di sostanza stupefacente. L’uso di droghe come stupefacente è antico, e ha toccato un po’ tutte le civiltà. Fin dai tempi più remoti, infatti, l’uomo ha sempre ricercato sostanze in grado di agire favorevolmente su psiche e corpo. Ciò finalizzato alla guarigione di malattie, al miglioramento delle prestazioni fisiche e intellettuali, all’induzione della felicità e all’annullamento di ogni sgradevole sensazione psico-fisica, procurandosi il sonno, evadendo dalla realtà, ottenendo piacere o facilitando il contatto con la divinità.

 

Definizione di craving

Il craving è il desiderio impulsivo per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto-comportamento gratificante. Questo desiderio impulsivo sostiene il comportamento “addittivo” e la compulsione, finalizzati a fruire dell’oggetto di desiderio.

Per craving, o appetizione patologica, si intende anche il desiderio irrefrenabile di assumere una sostanza, desiderio che, se non soddisfatto, provoca sofferenza fisica e psichica, accompagnata da astenia, anoressia, ansia e insonnia, irritabilità, aggressività, depressione o iperattività (Cibin, 1993).

Il craving sarebbe prontamente stimolato da fattori previamente associati con la sostanza, elementi capaci di svolgere un ruolo “trigger”, cioè “grilletto”, che innescano con un meccanismo di condizionamento, e di associazione di idee, il desiderio della gratificazione ottenuta chimicamente (Meyer, 2000).

L’urgenza di utilizzare la sostanza è connessa con un conflitto nell’ambito cognitivo tra la motivazione all’assunzione e la consapevolezza del rischio che ne deriva. In quest’ottica il craving diviene funzione di diversi fattori che interagiscono in un mutevole equilibrio con il mondo intrapsichico e con le interferenze ambientali. Tra questi fattori, primo tra tutti, è il desiderio della sostanza sostenuto dall’esposizione a stimoli condizionanti (cue), dallo stress e da condizioni a rischio del tono dell’umore (trigger mood) (Szegedi 2000); ad interferire con questo fattore di base viene la capacità di adattamento legata ai tratti temperamentali, alle caratteristiche psicologiche e ai disturbi psichiatrici, nonché la consapevolezza del rischio connessa invece con la storia individuale, i fattori culturali, ambientali e relazionali.

Il craving, dunque rappresenta il desiderio per gli effetti della sostanza di cui il soggetto ha già fatto esperienza e che sono risultati gratificanti: elementi portanti a supporto del craving sarebbero l’impiego eccessivo della sostanza, in particolare durante l’astinenza dopo un periodo di dipendenza; il cambiamento della soglia della gratificazione a livello del Sistema Nervoso Centrale, con stati affettivi negativi, e i “rinforzi” indotti a partire da meccanismi condizionati.

 

Forme del craving

Sono state definite due forme di craving distinte dal punto di vista delle aspettative del paziente: da un lato la preoccupazione di assumere la sostanza per evitare l’astinenza, che viene definita “craving negativo”; dall’altro la compulsione nei confronti della sostanza sostenuta dall’aspettativa di una incentivazione, di una gratificazione. In questo caso la ricerca di un “reward” produrrebbe un “craving positivo” (Petrakis, 1999).

 

Elementi che sostengono il comportamento di dipendenza dalla sostanza

Per ciò che concerne gli elementi biologici che possono sostenere la percezione del craving occorre distinguere le condizioni evocate dai disturbi astinenziali da quelle invece prodotte dall’esposizione a elementi trigger (Wiesbeck 2000).

Le prime, quelle correlate con l’astinenza, corrispondono a un ridotto tono dopaminergico a livello del sistema della gratificazione, fatto estensibile a tutte le sostanze d’abuso; un deficit serotoninergico è stato, invece, rilevato in relazione all’interruzione dell’assunzione di cocaina, insieme con il “derangement” di tutte le altre monoamine cerebrali.

Al contrario il craving connesso con l’esposizione ai “cue” presenta una natura neurobiologica diversa, dove la secrezione di dopamina sarebbe associata proprio alla aspettativa della gratificazione.

 

Le funzioni del craving

Se si considerano le interazioni tra aspetti biologici e elementi comportamentali, il craving può essere visto dal punto di vista della sostanza psicoattiva, e cioè dal livello di capacità addittiva della sostanza: in questo caso il craving sarà sostenuto da alterazioni biologiche indotte relativamente agli effetti gratificanti della droga, o all’astinenza dalla stessa.

In un secondo caso, il craving sarà maggiormente fondato sulla necessità di auto medicare quella che Blum chiama Reward Deficiency Syndrome: questa forma di craving è maggiormente legata all’individuo, e non alla sostanza gratificante in sé: l’urgenza di usare l’alcool o la droga è connessa, in questo caso, ad alterazioni biologiche preesistenti la storia di droga, determinate geneticamente e da precocissime interferenze ambientali.

Una terza, e più complicata situazione, vede il craving sostenuto dal desiderio di curare, o anestetizzare sul nascere, o distrarre l’attenzione, rispetto a problematiche di carattere psicopatologico che in qualche modo hanno costituito gli elementi causali dello sviluppo del disturbo da uso di sostanze.
Questa ultima forma di craving, più difficile da distinguere da un aspecifico distress che si verifica al momento della disassuefazione, può essere biologicamente supportata dalle diverse alterazioni che la psichiatria biologica ha sinora evidenziato in associazione con i disturbi psichiatrici (Monti 2000).

 

La neurobiologia del craving

Un numero sempre maggiore di studi hanno evidenziato l’associazione tra l’impulsività e il craving per alcool, cocaina, meta-anfetamina e tabacco (Potvin et al., 2015).

Vi è oggi un sostanziale accordo sul fatto che il craving è una sorta di “via finale” risultante dalla combinazione di diversi fattori quali la situazione emotiva, la reattività agli stimoli, la capacità di controllo e l’autoefficacia, la situazione fisica, le cognizioni sulla propria condizione. Questa varietà di fattori trova il suo corrispettivo neurobiologico nella “cascata” neurotrasmettitoriale che modula l’increzione di dopamina nel sistema a ricompensa mesolimbico e in particolare nel nucleo accumbens e in cui sono coinvolti serotonina, endorfine, Gaba, glutammato (Blum et al., 2000; Gass e Olive, 2008; Ferdico, 2011).

In uno studio di Milella et al. è stato riscontrato come il rilascio di Dopamina non sia circoscritto alle regioni dello striato, ma anche a quelle corticali, con meccanismi di regolazione indipendenti. Il sistema a ricompensa in condizioni fisiologiche è deputato a “produrre” il piacere legato a stimoli quali il cibo, il sonno, l’attività sessuale: se un deficit o uno squilibrio interrompe o distorce tale sistema, il risultato finale è la percezione di ansia o angoscia e un intenso desiderio di assumere una sostanza in grado di alleviare tali sensazioni. Infine in uno studio di Hassani-Abhairan et al. sono stati proposti differenti correlati neurali alla risposta soggettiva di craving; queste funzioni cognitive potrebbero rappresentare i risultati motivazionali e affettivi in un’unica voce “sentimento desiderio soggettivo” o in self-report con più elementi scindibili, come intenzione, necessità, immaginazione, o sentimento negativo.

 

Il trattamento cognitivo comportamentale del craving

Diversi approcci cognitivo-comportamentali propongono trattamenti e protocolli specifici indirizzati soprattutto al trattamento del craving. In una recente review (Da Silva Roggi PM, 2015) vengono esaminati i trattamenti CBT più recenti e validati.

Comunemente nei trattamenti CBT su craving e dipendenze vengono integrati diversi strumenti e tecniche. I più frequenti sono la psicoeducazione, la gestione dello stress e la gestione del livello dell’umore, l’intervista motivazionale, le tecniche espositive con prevenzione della risposta, le tecniche di rilassamento e la prevenzione delle ricadute.

Tra i protocolli, uno dei più citati in letteratura è il protocollo sviluppato dal progetto MATCH (Kadden, 1992). Il protocollo MATCH include elementi della Cognitive-Behavioral Skills Therapy, della Motivation Enhancement Therapy e della Twelve-Step Facilitation Therapy.

Un altro protocollo molto utilizzato è quello della CET (Cue-Exposure Therapy). La CET consiste in esposizioni ripetute e controllate a stimoli drug-related, con lo scopo di ridurre la reattività a stimoli successivi attraverso l’estinzione per abituazione. Come per altre tecniche espositive, anche il trattamento attraverso la CET inizia con l’esposizione a stimoli a bassa reattività, per poi procedere con stimoli sempre più attivanti nelle fasi più avanzate del trattamento. In alcune situazioni è stato anche proposto attraverso esposizioni computerizzate in realtà virtuale (Lee et al., 2007)

Gli interventi basati sulla Mindfulness favoriscono invece lo sviluppo delle abilità di osservare il nascere e il successivo spegnersi del craving e dei comportamenti da esso originati, offrendo così l’opportunità di affrontare questi contenuti di pensiero con azioni più adattive.

Seguendo la tradizione lanciata dal protocollo MBSR, è stato sviluppato infatti un protocollo di 8 settimane specificatamente indirizzato al trattamento delle dipendenze: il programma di Mindfulness-Based Relapse Prevention (MBRP) integra le pratiche di consapevolezza meditativa con tecniche cognitivo-comportamentali standard per la prevenzione delle ricadute. In queste pratiche sono incluse pratiche focalizzate all’osservazione e alla risposta consapevole al craving (Bowen et al, 2009).

Infine si possono trovare in letteratura studi di efficacia di trattamenti sull’abuso di sostanze basati sull’Attentional Bias Modification, sul Contingency management e sul Trauma-Focused Imaginal Exposure.

L’attentional Bias Modification (ABM) consiste in un training specifico per sganciare il focus attentivo dagli stimoli drug-related. Per quanto il trattamento abbia efficacia nel ridurre la risposta a nuovi stimoli relati all’utilizzo di sostanze, non esistono attualmente effetti significativi legati all’efficacia sul craving da alcool, mentre si ritrovano risultati contrastanti nel trattamento del craving da nicotina (Da Silva Roggi PM, 2015).

Il training basato sulla gestione delle contingenze (CM) consiste nel fornire rinforzi tangibili al raggiungimento di obiettivi significativi nell’astinenza da sostanze o in altri comportamenti desiderati e individuati come target dell’intervento. Risulta essere di semplice gestione e quindi un trattamento utilizzato nei pazienti dove l’abuso di sostanze risulta essere in comorbidità con altri gravi disturbi. Uno studio (Tidey et al, 2011) mostra l’utilizzo del trattamento in pazienti con Schizofrenia e indica l’ottenimento di una riduzione del craving, anche se a livelli non significativi.

In ultimo si può citare uno studio con pazienti dipendenti da alcool e con Disturbo da Stress Post Traumatico, dove il trattamento di esposizione immaginativa focalizzata sul trauma ha prodotto una riduzione significativa del craving generato da stimoli alcool-related e trauma-related (Coffrey et al, 2006).

 

Gli effetti delle preferenze musicali a livello cerebrale

Preferenze musicali ed effetti cerebrali: In un nuovo studio è stato scoperto che tutti i tipi di musica preferita da ciascuno di noi, che sia quella di Bach, dei Beatles o di Bruno Mars, scatenano in realtà un’attività cerebrale molto simile.

 

 

Preferenze musicali: gli effetti sul cervello dell’ascolto della musica preferita

La musica è un qualcosa di primario e primitivo” ha affermato Jonathan Burdette, neuroradiologo presso il Centro Medico Wake Forest Baptist in Carolina del Nord: riguarda ciascuno di noi, ma in modi unici e profondamente personali. “Il mio rapporto con la musica è molto diverso dal tuo o dal suo, ma è altrettanto potente” ha inoltre aggiunto.

Quando ci piace o non ci piace qualcosa il nostro cervello produce una reazione, anche quando quel qualcosa è la musica. All’interno dello studio, i ricercatori hanno compiuto i primi passi per comprendere come avviene il meccanismo di preferenza musicale e ciò che è emerso è che il “non provare piacere per qualcosa” appare in modo differente dal “provare piacere” e in modo ancora più diverso dal “preferire quel qualcosa”.

Per studiare come le preferenze musicali influenzino la connettività funzionale cerebrale, ovvero le interazioni tra aree differenti del cervello, Burdette e collaboratori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che ritrae l’attività cerebrale individuando cambi nel flusso sanguigno.

Sono state effettuate scansioni dei cervelli di 21 persone impegnate nell’ascolto di brani musicali sia apprezzati che ripugnati, appartenenti a cinque generi musicali differenti (classica, country, rap, rock e opera cinese), e impegnate nell’ascolto di una canzone o stralcio di musica precedentemente indicato come preferito dagli stessi partecipanti.

Le scansioni hanno evidenziato uno schema d’attivazione consistente: le preferenze musicali di chi ascolta, e non il tipo di musica ascoltata, influenza maggiormente la connettività cerebrale, specialmente un circuito noto per essere coinvolto in fenomeni quali l’introspezione, l’empatia e la consapevolezza di sé.

Questo circuito definito “default mode network” (DMN) è una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene attivata durante le ore di riposo e le attività “passive” (connettività funzionale intrinseca). Il DMN era scarsamente connesso quando i partecipanti ascoltavano un brano che non piaceva loro, meglio connesso durante l’ascolto di brani apprezzati e il più connesso durante l’ascolto del brano preferito.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che le canzoni preferite alteravano la connettività tra le aree cerebrali uditive e una regione responsabile del consolidamento della memoria e delle emozioni sociali.
Questi risultati possono spiegare perché stati emotivi e mentali comparabili possono essere vissuti da persone che ascoltano musica così differente.

Dato che le preferenze musicali sono fenomeni unicamente individualizzati e che la musica può variare in complessità acustica e nella presenza o assenza di testo, la consistenza dei nostri risultati è qualcosa di inaspettato” ha affermato Burdette.

Il nuovo studio si basa sul lavoro precedente pubblicato su Nature Scientific Reports.

Settimana del Cervello 2017: gli eventi per sensibilizzare la popolazione alle tematiche psicologiche e neuro scientifiche

Dal 13-19 Marzo 2017 si è svolta la Settimana Mondiale del Cervello, una settimana di eventi in tutta Italia che ha permesso di avvicinare e sensibilizzare la popolazione alla psicologia e di diffondere le ultime evidenze in ambito neuroscientifico. La Settimana del Cervello è un’iniziativa coordinata dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa e dalla Dana Alliance for Brain Initiatives negli Stati Uniti.

Ornella Lastrina, Federica Campitiello

 

Le iniziative psicologiche durante la Settimana del Cervello 2017

L’iniziativa coinvolge come ogni anno psicologi, neuroscienziati e altri professionisti del settore della salute mentale. In Italia l’evento è stato promosso da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica e partner ufficiale della Dana Foundation, con il patrocinio del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e di moltissime istituzioni pubbliche e private. Il coordinamento nazionale è stato effettuato dalle Dott.sse Donatella Ruggieri e Lisa Grippa che con entusiasmo e determinazione hanno coordinato le numerose attività svoltesi in tutta Italia.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di rendere consapevoli i cittadini dell’importanza del benessere psicologico per una buona qualità della vita e di diffondere e rendere accessibili a tutti, i dati della ricerca neuro scientifica. Tra il 13 e il 19 Marzo, in tutto lo Stivale – isole comprese – si è svolta una serie di eventi completamente gratuiti che testimoniano l’entusiasmo di singoli professionisti, associazioni, centri di ricerca, cultori della materia, appassionati, pazienti e insegnanti. In programma ci sono stati oltre trecento appuntamenti in più di centocinquanta città italiane: laboratori interattivi, screening, mostre, cineforum, dibattiti, tour guidati nei centri di ricerca.

Anche a Bologna l’iniziativa è stata accolta con grande entusiasmo dai professionisti operanti nel campo della salute mentale. Diverse sono state le iniziative: screening cognitivi per gli adulti, screening sui DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) per i bambini, gruppi sulla gestione delle emozioni, incontri informativi su diverse tematiche, primi colloqui gratuiti di counseling psicologico.

L’obiettivo che ci si poneva attraverso gli eventi proposti era quello di rendere le tematiche psicologiche più fruibili alla cittadinanza e di offrire degli spunti di riflessione e dei momenti meno formali e strutturati in risposta a bisogni relativi alla salute mentale, facilitando, inoltre, in questo modo la richiesta d’aiuto. La cittadinanza ha risposto con molto interesse, numerose sono state le adesioni e positivamente sono state valutate le diverse iniziative proposte: “molto utile e da rifare assolutamente”, uno dei commenti al gruppo sulla gestione delle emozioni. Ancora oggi, infatti, il settore della salute mentale non è privo di quello stigma che è legato ai disturbi mentali. La diffusione di conoscenze e buone pratiche che possano coinvolgere la popolazione generale diventa perciò un modo per avvicinare e sgretolare alcune resistenze nel chiedere aiuto e per poter intervenire e prevenire difficoltà psicologiche.

L’iniziativa sarà riproposta nel 2018, si invitano perciò psicologi, psicoterapeuti, ricercatori e chiunque operi nel settore della salute mentale, a prendere contatti per poter organizzare attività nel territorio locale di appartenenza e per fare rete in tutta Italia.

 

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