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45 Anni (2015) Il tempo, la passione e il corpo nella coppia – Recensione del film

Il film 45 Anni, diretto da Andrew Haigh, costituisce una meravigliosa ed intima esplorazione dei significati del tempo, del corpo e della passione amorosa nel privato di una coppia che si accinge a celebrare i traguardi conseguiti in quarantacinque anni di vita insieme.

 

Siamo lontani dall’anzianità rappresentata in “Amour” di Haneke, non c’è accudimento ed assistenza, non vi è la caducità dei corpi ma al contrario predomina la vitalità della passione amorosa, con i suoi turbamenti e le sue angherie, e trova spazio sullo schermo il tema, fin troppo poco affrontato, della sessualità nella tarda età adulta.

Un’interpretazione da brividi, nel film 45 anni, quella di Charlotte Rampling che si confronta con uno spettro del passato del marito Geoff, interpretato da Tom Courtenay, durante la preparazione dei festeggiamenti per il quarantacinquesimo anniversario di nozze, con tanto di pubblico ricevimento. A perturbare l’apparente placida serenità domestica sarà l’arrivo di una lettera all’attenzione di Geoff che annuncia il ritrovamento, dopo 50 anni, del corpo della fidanzata del tempo, l’amata Katya, rimasto intatto nel suo candore e donato all’eternità attraverso il ghiaccio che l’ha custodito e protetto nelle sue sembianze originarie.

 

45 anni – Il corpo

Lo scioglimento delle nevi ha lasciato emergere il cadavere con un cuore che continua a pulsare nel corpo di Geoff, il marito di Kate.

Il corpo, vero protagonista della narrazione, è l’elemento perturbante nel film 45 anni che riattiva e muove passioni ritenute sopite; il cadavere ritrovato non viene mai visto, aleggia senza essere tangibile, costituisce una presenza vagheggiata e nell’indefinito si amplificano i tormenti e le minacce per gli equilibri di Kate e Geoff, si ispessiscono le crepe che questa nuova presenza solo evocata, e mai osservata, crea. È interessante notare il potere d’azione nell’immaginario umano di un corpo senza vita, come la sua presenza pronunciata sia sufficiente a scardinare l’equilibrio della quotidianità apparentemente imperturbabile; il racconto della ricomparsa di quel corpo ancora immobile nel ghiaccio riattiva antichi desideri mai sopiti, difficili da accettare per Kate.

 

La gelosia

La gelosia, un’emozione complessa che come l’invidia prevede un coinvolgimento di ben tre attori, diventa per Kate, la protagonista del film 45 anni, una condizione logorante che la isola nel dolore e nel timore di perdere suo marito. Silvia Vegetti Finzi, in “Romanzo familiare”, scrive (p. 284):

Ma l’adulterio non può esporsi alla verità senza produrre immediatamente il triangolo della gelosia. La gelosia è una passione particolarmente complessa, fatta di paura, di amore, di odio, di ammirazione, di disprezzo. Innanzitutto di panico per l’invasione del cerchio di intimità condivisa, la parte più fragile e preziosa del matrimonio. Ma anche paura, già sperimentata nell’infanzia, di perdere il proprio oggetto d’amore, di rimanere soli in balia di un mondo fattosi improvvisamente estraneo e ostile.

Non solo dunque Kate, in 45 anni, si confronta con un oggetto d’amore idealizzato e reso perfetto dalla morte, quindi inattaccabile, ma con un corpo che possiede ancora lo splendore della giovinezza. Una sfida dunque impari e frustrante poiché non è lecito competere con chi è oramai privo delle ombre di un oggetto d’amore reale. Soltanto dopo il pubblico discorso di Geoff, che è al contempo una tacita ed implicita richiesta di perdono, dopo averlo sentito presente, Kate può lasciare finalmente spazio al suo dolore, allo smarrimento dinanzi alle verità emerse che ridefiniscono nuovi equilibri nella coppia, segnando uno spartiacque che giunge dopo 45 anni di vita condivisa.

 

La dimensione del tempo in 45 anni

Geoff sembra cadere in una ruminazione senza meta che lo distanzia dal presente e, dunque, da Kate. Il tempo che in cui si ritrova immerso è quello dell’inconscio, in cui non c’è confine che separi e contenga il passato ed il presente, in una commistione sconosciuta a quello stratagemma dell’Io che scandisce lo scorrere temporale per ordinare l’esperienza ed il mondo.

Con la ricomparsa del cadavere dell’amata di un tempo, per Geoff sembra illusoriamente ricomparsa anche la giovinezza, così il fumo non appare più una minaccia per il suo debole cuore, di colpo gli amici coetanei appaiono invecchiati incredibilmente male ed il tempo trascorso in loro compagnia terribilmente noioso. Il tempo della notte, dell’intimità, è invece dedicato a venerare il simulacro del suo passato: le diapositive che ritraggono il viaggio in cui il percorso di Geoff e Katya si è interrotto.

Si potrebbe ipotizzare che l’insieme dei comportamenti di Geoff raccontati nel film 45 anni sia funzionale a spingere Kate ad invadere quel suo mondo privato per far emergere un segreto che, probabilmente, il marito non è in grado di confessare. Il segreto è lì, presente nell’assenza di Geoff intento a fantasticare i vari percorsi possibili giocando con i “se” della propria esistenza personale.

Ma spetta a Kate la scalata verso la soffitta per scovare quei nuovi significati della narrazione privata del marito che le consentiranno di ri-leggere, in modo nuovo, la loro vita vissuta sino a quel momento. Kate comunica a Geoff il suo essere a conoscenza servendosi dell’implicito della relazione; nascoste dalle parole, l’espressività corporea di Kate urla ciò che deve essere taciuto. L’interdizione della parola diventa marchio del sapere e al contempo difesa della coppia.

Nello sguardo memorabile di Charlotte Rampling su cui si chiude il film 45 anni è possibile intravedere la Disperazione di cui scrive Erickson proprio nel dar forma alla crisi nella tarda età adulta, quel polo contrapposto all’integrità dell’Io che sembrava aver prevalso in Kate sino all’arrivo della notizia del ritrovamento del cadavere.

L’intera vita condivisa con Geoff si colora di nuovi significati che fanno decadere le certezze di Kate, sola nella lotta contro il rimpianto per quanto si è fatto o per quanto non si è fatto, con il ticchettio inesorabile del tempo che sta per concludersi. Il tempo scandito è il sottofondo evocato attraverso l’immagine ricorrente delle vetrine con gli orologi esposti, quel regalo pensato per Geoff che non ama, però, ricordare che ora sia.

Addio a Jaak Panksepp, neuroscienziato di fama mondiale

È deceduto pochi giorni fa, il 17 aprile, Jaak Panksepp, importante psicologo, neuroscienziato e psicobiologico statunitense di origine estone. È stato una figura di spicco delle cosiddette “neuroscienze affettive” – quella che negli ultimi anni si sono affermate come approccio di riferimento nello studio delle emozioni e dei loro meccanismi neurali.

 

Nel testo “Archeologia delle mente”, recentemente tradotto in italiano da Cortina, Jaak Panksepp riporta una sorprendente quantità di dati sulla localizzazione, sulla funzione e sulle conseguenze di sette circuiti emozionali di base, situati nelle zone filogeneticamente più antiche del cervello, che si sono evolute e selezionate nel corso di milioni di anni permettendo la sopravvivenza dell’uomo e di altre specie animali. Queste emozioni di base sono indicate con lettere maiuscole per sottolineare il fatto che se ne conosce l’esatta localizzazione nel cervello: SEEKING (sistema della ricerca / entusiasmo / curiosità verso il mondo esterno, RAGE (sistema della rabbia), FEAR (sistema della paura), LUST (sistema del desiderio di accoppiamento), CARE (sistema di cura e accudimento), PANIC (sistema del panico) e PLAY (sistema del gioco). Secondo il modello di Panksepp, questi sette sistemi affettivi di base definiscono sette bisogni di base che “sentiamo” in maniera irriflessiva e sui quali poi costruiamo la nostra vita mentale consapevole.

Sicuramente, tutti i bisogni emotivi individuati da Panksepp erano stati già descritti in vari modelli clinici, da Freud a Erikson, da Jung a Beck. Tutti questi modelli, però avevano il torto di privilegiare un solo sistema emotivo, in genere a scapito degli altri che erano fatti derivare da quello preferito. Ad esempio la psicoanalisi freudiana che tentava di derivare tutto dal desiderio sessuale. Il lavoro di Panksepp ha fornito una base biologica consente di validare definitivamente varie intuizioni cliniche, e per questo verrà sicuramente ricordato.

Diego Sarracino e Giovanni Maria Ruggiero

 

E’ mancato Jaak Panksepp, famoso neuroscienziato e psicobiologo originario dell’Estonia.

Jaak Pankseep, che viveva e insegnava da anni negli Stati Uniti, è diventato famoso per le sue ricerche sulle emozioni dal punto di vista neuroscientifico (è lui ad aver coniato il termine affective neuroscience, neuroscienze affettive) e per le estese ricerche sulla risata negli animali non umani.

 

Gli articoli di State of Mind in cui è citato:  Jaak Panksepp

 

The Science of emotions, TED Conference di Jaak Panksepp:

Il rischio internet-correlato alle scuole medie: uno strumento di indagine per l’intervento nelle classi

La diffusione di tecnologie che permettono l’accesso a Internet o l’utilizzo di videogiochi sembra diventare sempre più pervasiva e precoce, l’utilizzo dei pc e degli smartphone da parte di giovani e giovanissimi porta con sé numerose dimensioni di rischio internet-correlato.

Matteo Kettmaier – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

 

La diffusione di tecnologie che permettono l’accesso a Internet o l’utilizzo di videogiochi sembra diventare sempre più pervasiva e precoce. Questo fenomeno ha portato a reazioni di preoccupato interesse da parte della comunità scientifica e, talvolta, a manifestazioni di panico morale sui mass-media.

 

Diversi tipi di rischio internet-correlato: quali sono e perché è facile incontrarli?

L’utilizzo dei personal computer, dei tablet e degli smartphone da parte di giovani e giovanissimi porta con sé numerose dimensioni di rischio internet-correlato:

  • Il rischio di sviluppare una dipendenza tecnologica
  • Il rischio di adescamento da parte di pedofili o organizzazioni terroristiche
  • Il rischio della messa in atto di comportamenti aggressivi nei confronti dei pari (cyberbullismo)

Ad esacerbare questi tipi di rischio internet-correlato possono concorrere tanto una situazione di disagio pregressa, quanto il gap generazionale tra genitori e figli, con questi ultimi nati in un contesto in cui tali strumenti tecnologici sono una realtà scontata, nonché un “ambiente” virtuale nel quale vengono agite parte delle tappe di crescita e formazione della personalità.

Un genitore nato trenta o quaranta anni fa può non avere la consapevolezza di che cosa effettivamente è possibile fare con le varie applicazioni, né essere aggiornato sui contenuti degli ultimi videogiochi in circolazione, considerato anche come, questi ultimi, non godono ancora del riconoscimento sociale del proprio valore culturale e artistico come invece è successo, ad esempio, con il cinema e pertanto non vengono considerati dai quotidiani e dai telegiornali, se non, occasionalmente, in maniera allarmistica.

Un atteggiamento di condanna e svalutazione del potenziale positivo di Internet, difficilmente può avere effetti positivi. Alimentare le paure dei genitori promuovendo un atteggiamento censorio non fa che incrementare l’incomunicabilità e l’incomprensione tra i cosiddetti “nativi digitali” e gli adulti. Va anche preso atto di una realtà in cui lo smartphone è, a torto o a ragione, considerato uno strumento di controllo parentale e in cui i computer sono una realtà presente in quasi qualsiasi contesto lavorativo. Inoltre, se già attualmente i divieti ai minori vigenti in materia di social network e videogiochi vengono puntualmente disattesi, pensare ad una legislazione che restringa l’accesso a Internet ai soli maggiorenni non è realistica.

 

Il rischio internet-correlato nei ragazzi: la Scala del Rischio Internet-Correlato in Adolescenza (RICA)

Insieme ai colleghi dott. Daniele Maramaldo e dottt.ssa Giulia Tomasi stiamo portando avanti un progetto di prevenzione del rischio internet-correlato, formazione e ricerca nelle scuole medie in cui ci proponiamo di ridurre il gap generazionale facendo da cerniera tra genitori, figli e insegnanti. Per poter fare questo, non partiamo da una posizione preconcetta ma andiamo ad indagare l’effettivo utilizzo dei mezzi tecnologici da parte dei ragazzi nelle scuole secondarie di primo grado. Per poterlo fare, abbiamo approntato uno strumento di screening specifico, grazie al quale possiamo avere una fotografia dell’attuale livello di rischio di ciascuna classe esaminata sulla quale calibrare gli interventi formativi nelle classi: la Scala del Rischio Internet-Correlato in Adolescenza (RICA)

La Scala del Rischio Internet-Correlato in Adolescenza non si propone di essere uno strumento diagnostico, bensì di rilevazione dei rischi connessi al comportamento on-line del ragazzo. Tale strumento è stato perfezionato in itinere e sicuramente verrà modificato per adattarsi alla mutevolezza del fenomeno indagato. Riguardo al costrutto della “dipendenza da Internet”, ad esempio, non ha più molto senso parlare delle conseguenze economiche del tempo trascorso in rete, considerato come le tariffe per la connessione sono precipitate nel corso degli ultimi anni e un accesso illimitato a Internet, attualmente, può costare meno di quaranta euro al mese.

Mediante tale strumento si può ottenere un indice generale di quanto il comportamento del ragazzo sia un potenziale pericolo per la sua salute mentale e la sua sicurezza. Tale indice è composto di quattro dimensioni, ciascuna rappresentata da cluster specifici, e da un cluster specifico relativo ai fattori protettivi.

 

Tempo trascorso in rete e sui videogiochi

Prima delle dimensioni relative specificatamente all’utilizzo “a rischio”, chiediamo ai ragazzi quanto tempo trascorrano utilizzando videogiochi, social network e altri servizi (ad esempio i quotidiani on-line). Particolare attenzione è data ai videogiochi, con una lunga checklist che include diversi generi di videogiochi tra i quali indicare i propri preferiti e una voce libera in qui indicare i videogiochi maggiormente utilizzati. Un’altra checklist è relativa ai social network, una voce di approfondimento importante, considerato come ciascuno presenti peculiarità e problematiche potenziali specifiche.

 

Rischio esterno

Tale indice si riferisce direttamente al rischio internet-correlato che corre il ragazzo di essere adescato online ed è dato dalla misura auto-riportata di alcuni suoi comportamenti (fare amicizie direttamente on-line, cercare in rete risposte a domande personali), del controllo parentale e dall’utilizzo prevalente di social network, è documentato infatti come l’adescamento avvenga tipicamente mediante un processo di seduzione operato mediante le tecnologie di comunicazione tramite il quale l’aggressore guadagna la fiducia del ragazzo (Cohen-Almagor 2013, Katz 2013). Un altro indice della disinibizione del ragazzo è dato dal suo imbattersi involontariamente in contenuti che ritiene spaventosi o lo mettono a disagio (Dobrowski et al. 2007, Webb et al. 2007)

 

Comportamento dipendente

Le domande che indagano modalità di comportamento dipendente sono in parte mutuate dai criteri proposti da Young (1996), tradotti ed adattati per la popolazione di riferimento. Nello specifico indaghiamo: la preoccupazione riguardo a Internet (intesa come pensiero anticipatorio del tempo passato on-line), la perdita del senso del tempo durante la navigazione, la riduzione di altre attività (ricreative, sportive o sociali) per trascorrere più tempo in rete, l’uso di Internet come fuga dai propri problemi.

Per la popolazione di riferimento abbiamo deciso di non includere item relativi all’escalation nell’uso e i tentativi di riduzione perché riteniamo che siano fenomeni che si verifichino almeno intorno ai sedici anni mentre l’età delle scuole medie può coincidere con una fase di esordio del comportamento dipendente nella quale non c’è ancora consapevolezza dell’escalation o tentativi di mantenimento dell’astinenza. Abbiamo invece aggiunto una voce specifica relativa alla perdita di ore di sonno, che può avere conseguenze dirette sul rendimento scolastico. Giova qui sottolineare ancora una volta come si sia preferito evitare parlare di “dipendenza” o “sintomi” preferendo il termine “funzionamento”: la massima prudenza e delicatezza viene infatti da noi applicata nella restituzione dei risultati per evitare che dei ragazzi si trovino ad essere etichettati come “dipendenti” il che potrebbe avere conseguenze negative in tale fase dello sviluppo.

 

Problemi relazionali

Una serie di domande relative ad episodi di conflitto famigliare in cui l’uso di Internet è stato centrale. Tale dimensione va a sommarsi alla precedente nel costituire l’indice di “rischio interno” ma va considerata separatamente in quanto non è possibile stabilire un nesso di causazione tra le due in nessuna direzione. Non possiamo dare per scontato che i problemi relazionali in famiglia focalizzati sull’uso delle tecnologie Internet rifletta effettivamente un comportamento preoccupante del ragazzo, può darsi infatti il caso che sia una conseguenza di altri problemi pregressi nel nucleo famigliare o semplicemente del gap generazionale, per cui, magari, un ragazzo sta trovando la propria strada professionale nella programmazione o nel web design senza che i genitori se ne rendano conto. In tali situazioni, la reazione parentale negativa può diventare causa (e non effetto) di un comportamento aberrante, in quanto alimenta il senso di incomunicabilità in famiglia e può rinforzare l’idea che i computer siano solo degli strumenti di intrattenimento: degli “iper-giocattoli”.

 

Videogiochi

Meritevoli di una voce a sé stante: i videogiochi, una realtà quotidiana e ineludibile di praticamente tutti i giovani occidentali contemporanei.

Nonostante il dibattito sulla loro nocività generale sullo sviluppo sia ancora aperto, l’uso prolungato di videogiochi è stato associato a fenomeni dissociativi e pseudo-allucinatori (Caretti et al. 2010, De Gortari & Griffiths, 2013) e la dipendenza da videogiochi è stata indagata come fenomeno a sé Stante, ad esempio, in uno studio su ragazzi olandesi dai 13 ai 16 anni (vanRooij et al. 2010). Nella prima versione della scala, l’unica domanda era relativa all’uso specifico di videogiochi come modo di sfogare la rabbia, indicata come fonte di rischio da Tonioni (2014), nella versione più recente è stato incluso l’Item “Ti capita di sentirti “strano” o “confuso” dopo aver giocato molto tempo con i videogiochi?” relativo al fenomeno della “Trance dissociativa da videoterminale” (Caretti et al. 2010) ricercata attivamente come spia di una forte tendenza alla fuga dalla realtà, associato all’item “Ti capita mai di giocare ai videogiochi per distrarti e non pensare ai problemi?”.

 

Fattori protettivi

Considerato come il dialogo famigliare sia un fondamentale fattore protettivo nei confronti dello sviluppo di una “dipendenza da Internet” (Wąsiński & Tomczyc, 2015), nonché del rischio internet-correlato di adescamento, quattro dei cinque item che compongono questo cluster possono essere letti come l’opposto degli item del cluster “Problemi relazionali”. In essi si indaga se viene trascorso del tempo famigliare collettivo usando Internet e quanto i ragazzi parlino di cosa fanno in rete (soprattutto nel caso si imbattano in contenuti non adatti) con i loro genitori e viceversa. La bi-direzionalità è infatti fondamentale per evitare pericolose ambivalenze che possono ingenerare confusione o rifiuto da parte del ragazzo. L’ultimo item indaga se il ragazzo pratica altre attività oltre a passare tempo on-line.

 

Modalità di somministrazione

Dopo una prima somministrazione in forma cartacea (circa 500 soggetti), il test è stato digitalizzato mediante il servizio Google Forms. Gli item relativi al rischio internet-correlato e al tempo trascorso on-line sono in forma di scala semi-likert. Per rendere più potente lo strumento in sé, può essere somministrato insieme a questionari relativi al funzionamento sociale e famigliare dei ragazzi, oltre a questionari specifici sulla resilienza e la gestione delle emozioni negative. Il tempo medio di compilazione dell’intera batteria è intorno ai 35-40 minuti,  pertanto viene dedicata un’ora scolastica allo screening di ciascuna classe.

 

Applicazione e possibili sviluppi della Scala del Rischio Internet-Correlato in Adolescenza

Attualmente la scala R.I.C.A. viene utilizzata per inquadrare la classe in un livello di rischio internet-correlato da uno a cinque. Questo risultato, insieme a quelli degli altri test somministrati e ai resoconti degli insegnanti riguardo ad episodi specifici, viene usato per calibrare degli interventi sul rischio internet-correlato nelle scuole medie. Tali incontri consistono in tre formazioni dal taglio pratico-maieutico da due ore ciascuna. Il primo incontro è focalizzato sul concetto di rete, sulla comunicazione e la relazionalità, il secondo incontro consiste in un training sul lessico emotivo e il terzo incontro è un’attività pratica di lavoro sulle chiavi di ricerca in forma di gioco a squadre.

L’obiettivo della formazione è quello di far parlare i ragazzi del loro vissuto relativo all’uso di Internet, a seconda dei risultati dei test il discorso verte su tematiche specifiche (ad esempio l’aggressività nei videogiochi o il pericolo nel fare amicizie on-line) cercando di essere il meno prescrittivi possibile ma cercando di condurre i ragazzi a dei ragionamenti condivisi.

Evitare la demonizzazione del mezzo ed enfatizzarne le potenzialità positive è una linea guida costante di tutto il percorso che si chiude infatti con un’esercitazione pratica sull’utilità di Internet come fonte di informazione che è anche un’importante occasione formativa per correggere i ragazzi su comportamenti superficiali e potenzialmente dannosi come il copiare acriticamente i contenuti trovati in rete o il fermarsi ai primi risultati di una ricerca.

Ulteriori analisi condotte sull’intero campione daranno un’immagine complessiva del territorio in esame (la Provincia Autonoma di Trento) e delle specificità dei singoli istituti (ad esempio tra scuole in città e scuole in montagna).

Un altro tema di indagine è quello relativo alle esigenze emotive a cui i diversi tipi di videogiochi possono rispondere: se videogiochi violenti come GTA V possono prevedibilmente essere preferiti da ragazzi con un alto livello di aggressività oppure che hanno difficoltà ad esprimere l’aggressività positiva nei contesti quotidiani, sarebbe interessante indagare il potenziale “dissociativo” di videogiochi arcade molto semplici come “Geometry Dash” o “Candy Crush” per verificarne anche il potenziale additivo. Se queste due categorie di videogiochi sono quelle potenzialmente più pericolose, videogiochi di costruzione e gestione come “Minecraft” o “Age of Empires” potrebbero rispondere ad un’esigenza di percezione di controllo in un’età particolarmente soggetta a cambiamenti destabilizzanti e imprevedibili mentre i giochi sportivi potrebbero rappresentare un’importante momento di aggregazione tra pari.

Infine, incrociando la scala R.I.C.A. con altri test si possono identificare dei profili di rischio internet-correlato per programmare interventi individuali. Ad esempio un ragazzo che riporta valori alti di rischio esterno, valori bassi relativi alla sua percezione dell’ambiente famigliare e valori bassi in un test che ne misura l’integrazione sociale tra i pari.

Ipnosi in oncologia: migliorare lo stato di salute psicofisica in caso di diagnosi oncologiche

Recenti studi indicano con sempre maggior chiarezza come l’ ipnosi in oncologia possa essere uno strumento utile per sostenere il paziente inserito in percorsi di cura.

 

L’ ansia nei pazienti oncologici

Pur essendo l’ansia una reazione normale a situazioni, notizie ed eventi spiacevoli, il suo permanere per lunghi periodi di tempo può generare sintomi fisici e psicologici. In fasce sensibili,come quella dei pazienti oncologici, tali stati d’animo possono generare ricadute rilevanti sui processi di guarigione e sullo stato di salute generale (Potié, Roelants, Pospiech, Momeni, & Watremez, 2016).

Non sorprende quindi che parte degli sforzi scientifici si sia focalizzata sulla gestione di tali aspetti emotivi.

Nonostante l’esistenza di farmaci efficaci nel ridurre l’ ansia, questi spesso portano ad effetti collaterali come capogiri, sonnolenza, confusione e più in generale interferenze sui processi di pensiero (Glass, Lanctôt, Herrmann, Sproule, & Busto, 2005). Nell’ottica di trovare soluzioni alternative o complementari (anche in modo da poter ridurre i dosaggi dei sedativi), i ricercatori si sono dedicati ad indagare l’efficacia di strumenti psicologici e relazionali per permettere a tale gruppo di pazienti di raggiungere il massimo grado di benessere possible (Fischer & Wedel, 2012).

 

L’ ipnosi in oncologia: quali effetti sullo stato emotivo dei pazienti?

Gli autori di un articolo pubblicato proprio quest’anno (Chen, Liu, & Chen, 2017), partendo da evidenze della letteratura scientifica che indicano che l’ ipnosi è in grado di migliorare lo stato emotivo e la qualità della vita di pazienti che dovranno sottoporsi a procedure mediche o interventi chirurgici (Schnur, Kafer, Marcus, & Montgomery, 2008; Tefikow et al., 2013), hanno indagato gli effetti dell’ ipnosi in oncologia e le potenzialità di questa metodica per campioni di pazienti oncologici. Nella loro metanalisi (un tipo di studio nel quale vengono raccolti i risultati delle ricerche disponibili per avere un riscontro globale dell’efficacia di un trattamento) si sono chiesti quanto fosse efficace l’ ipnosi in oncologia, quali fossero i pazienti che possono trarre più beneficio dalla metodica e quali fossero le modalità di induzione migliori più indicate.

Dopo aver selezionato gli studi metodologicamente più rigorosi, i ricercatori hanno tratto le loro conclusioni a partire da 20 ricerche sul tema.

I risultati hanno mostrato che, anche per questa particolare popolazione clinica, l’ ipnosi ha portato ad un significativo miglioramento dell’equilibrio emotivo dei partecipanti agli studi. I pazienti hanno infatti riportato livelli maggiori di benessere sia nelle loro vite quotidiane, sia durante i trattamenti e le procedure mediche indispensabili per il loro percorso di cura.

I risultati più eclatanti in tema di ipnosi in oncologia sono stati ottenuti con fasce particolarmente sensibili come bambini, individui affetti da tumori ematologici e/o che dovevano sostenere numerose procedure mediche.

Rispetto alle modalità di induzione più efficaci, i ricercatori hanno osservato che i risultati ottenuti dall’ ipnosi eteroindotta (in cui un conduttore esperto accompagna il soggetto nell’esperienza della trance) sono migliori di quelli derivanti dal solo addestramento all’ autoipnosi, soprattutto quando quest’ultimo veniva implementato in forma di audioregistrazioni.

Altro dato interessante dal punto di vista dell’efficienza dell’ ipnosi in oncologia è che la durata dell’induzione influiva solo marginalmente sugli effetti. Una induzione breve (entro i 30 minuti), aveva un effetto paragonabile ad induzioni più lunghe.

Infine, gli interventi di ipnosi in oncologia, oltre ad avere una efficacia immediata sul paziente, tendevano ad ottenere miglioramenti dello stato emotivo a lungo termine, misurati in follow-up che negli studi più estesi raggiungevano i 6 mesi dal primo incontro.

Prima di concludere è bene ricordare che un miglioramento dell’equilibrio emotivo del paziente oncologico non corrisponde solo ad un miglioramento della sua esperienza soggettiva. Lo stato emotivo, infatti, ha effetti su variabili cruciali per la guarigione fisica. Tali aspetti, raccolti in una rassegna della letteratura pubblicata nel 2016 (Potié et al., 2016), includono miglioramenti rispetto alle funzioni immunitarie ed ormonali, al tempo di guarigione delle ferite chirurgiche,all’aspettativa di vita, ai livelli di dolore percepito nel post-operatorio, alla probabilità che questo si cronicizzi, ed alla probabilità di recidiva del tumore.

Alla luce di queste evidenze gli autori della metanalisi raccomandano l’utilizzo dell’ ipnosi in oncologia, condotta da un operatore esperto, per migliorare lo stato di salute psicofisica dei pazienti che hanno ricevuto diagnosi oncologiche e sottolineano la sua utilità per popolazioni particolarmente sensibili, come bambini e pazienti affetti da tumori ematologici.

L’importanza di raccontarsi: la narrazione nella pratica clinica

Nella pratica clinica, psicologo e paziente hanno congiuntamente accesso ai ricordi autobiografici grazie al linguaggio e alla narrazione. La capacità di narrare, intesa come funzione mentale, è fondamentale per dare un’organizzazione al proprio mondo interiore e per attribuire significati all’esperienza umana.

 

È difficile capire tutto questo. Se avessi una vita davanti a me, forse la passerei a raccontare questa storia, senza smettere mai, mille volte, fino a quando, un giorno la capirei.

Baricco, 2007

 

Memoria autobiografica e senso di Sé

La memoria autobiografica è la funzione umana che permette di organizzare le informazioni, derivanti dalle esperienze di vita personali, in relazioni a schemi e strutture di significato, consentendo l’integrazione di pensieri, rappresentazioni, affetti, bisogni, desideri dell’individuo (Rubin, 2003).

Nell’ambito della psicologia, si è posta molta attenzione all’utilità dei ricordi autobiografici nei percorsi di psicoterapia (Angus e Hardtke, 2007). Come affermava Bauer (Bauer, Hertsgaard e Dow, 1994), infatti, le caratteristiche di autoconoscenza di tali ricordi contribuirebbero alla percezione di coerenza personale e di un senso di sé nel tempo.

Grazie alla memoria autobiografica, infatti, una particolare esperienza viene inserita all’interno di una trama più ampia (Smorti, 2007), il che permette il continuamento di quel “fil rouge” che consente all’individuo di percepirsi come unico e costante, come integrato nelle diverse parti di sé e nei diversi episodi di vita. Il senso di coerenza, infatti, riguarda i rapporti sia tra diversi eventi di vita, sia tra varie dimensioni costituenti gli eventi (emozioni, rappresentazioni, comportamenti…) (Conway, 2005).

 

La narrazione nella pratica clinica

Nella pratica clinica, psicologo e paziente hanno congiuntamente accesso ai ricordi autobiografici grazie al linguaggio e alla narrazione.

La capacità di narrare, intesa come funzione mentale, è fondamentale per dare un’organizzazione al proprio mondo interiore e per attribuire significati all’esperienza umana. Possiamo intendere la narrazione come racconto del Sé (Mittino e Maggiolini, 2013), che si sviluppa nel ripercorrere eventi ed esperienze, attribuendo emozioni e idee, contribuendo così alla formazione dell’identità (Bruner, 2002). A tal proposito Stern (1987), infatti, identifica il Sé narrativo come ultima tappa dello sviluppo del sé.

Secondo Dimaggio (Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013), l’accesso a episodi narrativi specifici è fondamentale per l’identificazione degli schemi che strutturano il sistema di attribuzione di significato dell’individuo e che, proprio per questo, contribuiscono al maggiore o minore benessere psicologico. La narrazione di un’esperienza consentirebbe, inoltre, l’attivazione di collegamenti con altre esperienze simili per qualche aspetto, mostrando ricorsività più o meno adattive nel proprio modo di pensare, esperire e comportarsi, materiale prezioso per il lavoro terapeutico.

La narrazione è uno strumento potente sotto diversi punti di vista.

Secondo Bergner (2007), una delle principali potenzialità della narrazione in ambito terapeutico è quella di permettere al paziente di “impacchettare cognitivamente” il proprio problema. Raccontare è mettere a fuoco una determinata questione all’interno di un contesto, collegarla a ciò che la precede (antecedenti) e a ciò che la segue (conseguenze), trovare importanti relazioni con altri fattori, notare le proprie tendenze nell’interpretazione degli eventi e nel comportarsi. Tutto questo sfocia in un miglioramento dell’autocomprensione.

Oltre a questo, la narrazione permette di uscire dal ruolo del protagonista assumendo la posizione di spettatore dei fatti. In questo modo avviene un distacco emotivo che facilita da un lato l’attenuazione delle resistenze verso i contenuti del tema trattato (De La Torre, 1972) e, dall’altro, una visione più oggettiva degli eventi, dovuta all’esternalizzazione del focus attentivo.

La narrazione permette quindi di ricostruire e di dare significato ad alcune esperienze della propria vita (Smorti, 2007). L’individuo, nel narrarsi, aumenta la consapevolezza e la conoscenza di sé, elabora gli eventi e li colloca sulla sua linea evolutiva, riformula il senso del sé evitando fratture e incongruenze.

Raccontarsi è, possiamo dire, già un processo terapeutico.

Critica all’articolo ‘Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile’

This work means to provide a logical and methodological critic to the article by Macrì P.G. et. al. (2012), “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”, published in “Rivista di Crimino­logia, Vittimologia e Sicurezza”, Vol. VI, N. 3, September-Dicember 2012, 30, which attempts to investigate women’s violence against men.

Francesco Iovine

 

The authors, starting from ideological premises according to which the Italian culture would “normalize” public violence against men, report the results of an – in many aspects – invalid questionnaire, yet claiming to fulfill projections of results on a national scale.

From these premises, this paper aims to analyze all problematic aspects through a deconstruction on different levels – epistemological, theoretical, methodological, and bibliographic. The starting point will be an analysis of language employed by the authors, which appears strikingly ideological and far from the properness of form a scientific publication would require.

The absence of any theory supporting the authors and authoresses’ petitio principii is furtherly made worse by the missing references to the topic’s literature or any study or data gathering in the field. The substantial scientific unreliability of such questionnaire, the items of which investigate the single act in a generic way and rule out all variables linked to the episode’s context, to the author’s own characteristics, to the consequences of violence and of the victim’s behaviour, to relations with the forces of law and to the history of violence, will be discussed in detail.

Further object of discussion will be the participation in such a questionnaire of male subjects reached through the subscription to a newsletter of a network of websites revolving around a distinguishably misogynous blog (Centro Documentazione Violenza Donne) and unknown associations. The discussion on the point of non-representativeness of such a sample selection and the limits of such a bibliography will be further elements supporting the thesis of the poor validity of the whole Indagine.

 

Keywords: gender symmetry, gender violence, misogyny.

Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017) – Recensione del libro

Nel momento in cui diventa patologico il rimuginio ostacola ogni nostra possibilità di movimento. Tutte le scelte danno adito al pensiero ripetitivo, che logora, toglie il sonno e ci fa tenere l’ombrello aperto anche se il cielo è sereno. Tutto ciò è descritto in modo tecnico e dettagliato nel volume di Caselli, Ruggiero e Sassaroli.

 

In fin dei conti il pensiero, lo hanno già detto altri, o forse anch’io, è come un grosso gomitolo di filo arrotolato su se stesso, lento in alcuni punti, in altri stretto fino alla soffocazione e allo strangolamento, è qui, dentro la testa, ma è impossibile conoscerne tutta l’estensione, bisognerebbe srotolarlo, tenderlo e infine misurarlo, ma questo, per quanto lo si tenti, o si finga di tentarlo, non si può fare da soli, senza aiuto, dev’esserci qualcuno che un giorno venga a dirti dove tagliare il cordone che lega l’uomo al suo ombelico, dove legare il pensiero alla sua causa.

(José Saramago, Il vangelo secondo Gesù Cristo, 1991)

 

Rimuginare è l’arte di soffocare la razionalità costruendo diagrammi di flusso con un numero di opzioni che tende a infinito. È l’illusione di poter riuscire a affermare che tutti i cigni del pianeta sono bianchi perché realmente li abbiamo contati tutti. È la percezione che, pensandoci bene, saremo in grado di prevedere il futuro. O per lo meno evitare di essere sorpresi.

Chi rimugina? Tutti. Siamo tutti matti? Forse. Ma qualcosa che ci ha fatto rimuginare c’è stato e ci sarà ancora. Dalla scelta del percorso di studi, al dubbio ossessivo che ti assale quando tua moglie chiede: “Non senti un desiderio di paternità?”, fino a decidere come suddividere la tua eredità senza offendere nessuno. Questi e molti altri sono ottimi motivi per infilarsi a capofitto nel vortice del rimuginio.

Nel momento in cui diventa patologico il rimuginio ostacola ogni nostra possibilità di movimento. Tutte le scelte, anche le più banali, danno adito al pensiero ripetitivo, che logora, toglie il sonno e ci fa tenere l’ombrello aperto anche se il cielo è sereno. Tutto ciò è descritto in modo tecnico e dettagliato nel volume di Caselli, Ruggiero e Sassaroli, che hanno dedicato parte della loro attività di ricerca nel comprendere il rimuginio e parte della loro attività clinica nel cercare di aiutare i pazienti a chiudere i loro ombrelli.

 

Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo: struttura del manuale

Gli autori, ripercorrendo le più importanti tappe del cognitivismo, analizzano il passaggio dal focus sui contenuti all’attenzione sui processi del pensiero. La storia del rimuginio è narrata nel dettaglio, così come vengono definite le sue implicazioni in diversi costrutti, fino a descrivere un modello integrativo articolato, che unisce strategie di regolazione cognitiva, vulnerabilità emozionale automatica e contenuto-specifica e conoscenze metacognitive (Life themes and plans Implications of Biased Beliefs: Elicitation and Treatment – LIBET, Ruggiero e Sassaroli, 2013; Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016).

La seconda parte del volume è dedicata ai risvolti psicopatologici del rimuginio e alle credenze che ne sostengono l’utilizzo. Uno dei motivi principali per cui rimuginiamo è perché siamo spinti dalla convinzione che sia il modo giusto di risolvere il problema. In effetti, a tutti noi hanno insegnato di pensare bene prima di prendere una decisione. Mossi da questo principio, possiamo dedicare ore e ore nel tentativo di sviscerare un problema, fino a credere di non poter fare altro, di non avere mezzi diversi dal rimuginio per trovare una soluzione. L’opzione di considerare una scelta come valida, seppur non perfetta, non è contemplabile. Per ogni stile di pensiero ripetitivo (rimuginio ansioso, ruminazione depressiva, ruminazione rabbiosa e pensiero desiderante) gli autori analizzano il costrutto, le emozioni negative a essi correlate, le credenze che ne sostengono l’utilizzo e le implicazioni all’interno della terapia.

L’ultima parte del manuale è dedicata all’esposizione di strumenti e tecniche per lavorare in terapia sul pensiero ripetitivo. La concettualizzazione dell’episodio di rimuginio è spiegata passo per passo e illustrata tramite numerosi esempi tratti dalla pratica clinica. Allo stesso modo viene descritto come sia possibile incrementare la consapevolezza e il controllo sul rimuginio e quali homework possano essere utili a tale scopo.

Dopo questi primi passaggi, in terapia è chiara la discrepanza tra l’obiettivo che il paziente intende raggiungere (decidere come dividere l’eredità) e i mezzi che sta utilizzando per farlo (cercare di prevedere tutte le possibili reazioni, emotive e cognitive, dei beneficiari e dei relativi parenti).

Tuttavia emerge spesso nel paziente la sensazione di paura all’idea di dover abbandonare una strategia così famigliare. È il terrore di essere disarmati davanti al nemico, di non avere strumenti per dirigere la propria vita. Anche su questo punto gli autori si soffermano, suggerendo step by step gli interventi necessari a focalizzare nuovamente l’obiettivo della terapia e rafforzare i nuovi apprendimenti. Chi conosce il modello metacognitivo potrebbe pensare a tecniche mirate sul processo, che danno poco spazio ai contenuti personali. In questo volume non si tratta solo di questo: lo stile cognitivo non è descritto in sé e per sé, né nella sua concettualizzazione, né nel trattamento. Gli autori tessono una mappatura del funzionamento personale che permette al terapeuta di muoversi dalla superficie sintomatologica ai temi dolorosi nucleari, propri dell’individuo che incontriamo nel nostro studio. Chiude il libro una precisa rassegna degli strumenti utilizzati per misurare il pensiero ripetitivo e i costrutti a esso correlati. Autrice di quest’ultima parte è Chiara Manfredi, clinica e ricercatrice, che ha curato diverse pubblicazioni in questo ambito.

L’accurato lavoro di raccordo svolto dagli autori ha permesso di realizzare un manuale che scandaglia il costrutto analizzato senza lasciare incertezze al lettore (verosimilmente ci hanno rimuginato, almeno un po’). Ma risulta chiaro che l’impianto teorico alla base va oltre la concettualizzazione e il trattamento del rimuginio: muove nuovi passi la condivisione di un modello profondamente integrato, le cui caratteristiche comprendono il funzionamento dell’individuo e indicano la direzione del trattamento. Le sue orme sono tra queste pagine.

Amore e aggressività nella stanza di analisi: come gestire il transfert

Transfert: Ferenczi (1932) per primo si rese conto che odio, sadismo e aggressività sono forze sempre presenti nei rapporti di amore. Nel suo Diario Clinico riconosce con grande lucidità che i propri sentimenti infantili di aggressività e odio nei confronti della madre erano spesso spostati sui pazienti. Questa idea è stata ampiamente accolta e vagliata sia in ambito clinico che al di fuori della stanza di analisi; di fatto oggi le forze dell’aggressività sono considerate strumentali al legame che si crea nelle relazioni amorose.

 

I sentimenti di odio e aggressività nel transfert analitico

Kernberg (1991) ha osservato in proposito che: “un uomo e una donna che scoprono la loro attrazione e il loro desiderio reciproco […] esprimono non soltanto la loro capacità di unire inconsciamente erotismo e tenerezza, sessualità e ideale dell’Io, ma anche di reclutare l’aggressività al servizio dell’amore” (p. 46-47).

Come afferma efficacemente Brenner (1982) il fatto che l’amore sia regolarmente mescolato all’odio e viceversa è frutto di osservazione empirica, non di logica o di definizione. Si tratta quindi di una questione pratica con conseguenze parimente pratiche per il lavoro analitico.

In linea generale viene riconosciuta valida la distinzione per cui la forma “benigna” di odio di transfert, come la sua controparte erotica, si manifesta in modo caratteristico nei pazienti con organizzazione nevrotica, mentre la variante “maligna”, come il transfert erotizzato, è più frequente nei pazienti con organizzazione psicotica o borderline (Kernberg 1984). Questa distinzione non ha valore assoluto ma è clinicamente utile per concettualizzare la forma prevalente di erotismo (o di odio) nel transfert in relazione al livello di organizzazione dell’Io riscontrato nel paziente.

Tuttavia è bene tenere a mente l’avvertimento della Little (1966) per la quale è possibile osservare transfert normali, nevrotici e psicotici nello stesso paziente all’interno della stessa seduta secondo un’oscillazione che potrebbe essere difficilmente afferrabile all’istante da parte dell’analista.
Mi pare comunque evidente in letteratura la tendenza a considerare e trattare le forme estreme di erotizzazione transferale alla stregua di quel fenomeno che Guidi (1994) puntualizza come “transfert negativo irreprensibile” o come specifiche narrazioni del problema relazionale ed emotivo quale si sta realizzando in quel momento nella stanza di analisi. Infatti, Ferro (1996) considera la sessualità e l’aggressività nel processo analitico come possibili linguaggi o comunicazioni: “di quanto il paziente non ha ancora consapevolezza di poter esprimere in modo meno mediato, rispetto all’analisi, e in maggior contatto con le proprie verità emotive […] e non è l’esplicitare questo il fattore terapeutico, quanto piuttosto il poter trasformare tutto l’ ”a monte” di questo” (Ferro 1996, p. 116).

Le azioni terapeutiche in casi di eccessiva erotizzazione o aggressività nel transfert

Secondo Gabbard (1996) le azioni terapeutiche indispensabili per creare lo spazio analitico in situazioni di intensa erotizzazione o aggressività sono: il contenimento, l’interpretazione differita e l’integrazione. Vediamoli in dettaglio.

Il contenimento si riferisce alla capacità dell’analista di pensare, metabolizzare e disintossicare i contenuti mentali che il paziente proietta in lui (Bion 1962). Esso implica una tacita elaborazione ma anche chiarificazioni verbali di ciò che accade nella diade paziente-analista. Inoltre presuppone numerosi altri processi tra cui l’identificazione di stati affettivi nell’analista e la diagnosi delle relazioni oggettuali interne del paziente in virtù della loro manifestazione nella coppia analitica attraverso l’identificazione proiettiva. Ma presuppone anche un costante processo di autoanalisi nel tentativo di individuare i contributi dell’analista stesso alle difficoltà con il paziente e di chiarire le manovre difensive messe in atto.

Anche Winnicott (1968) valorizza quell’aspetto del contenimento che comunica al paziente la durevolezza dell’analista in quanto oggetto, resistente, che non viene distrutto dai suoi attacchi. Come la madre sopravvive agli attacchi primitivi del bambino perché questo possa procedere sulla via dello sviluppo, anche l’analista deve servire al paziente come figura esterna reale che sfugge al suo controllo onnipotente. Per Winnicott (1968) sopravvivere significa mancanza di ritorsioni e avverte specificamente di non usare l’interpretazione nel bel mezzo degli attacchi del paziente per poi discutere di ciò che è accaduto quando la fase distruttiva si è conclusa.

Venendo ora al tema del differimento e dilazione dell’interpretazione, seguiamo ancora Gabbard (1996) quando afferma che per arrivare ai problemi transferali primitivi l’analista deve sospendere la propria attività interpretativa per tutta dal durata della dinamica distruttiva. Dopo di ché le funzioni profonde svolte dall’erotizzazione e dall’odio, mentalmente annotate durante il processo di contenimento, possono essere interpretate.

Questo differimento dell’interpretazione è necessario per diverse ragioni. In primo luogo perché è improbabile che il paziente sia in grado di fruire delle determinanti inconsce comunicate dall’interpretazione se è in atto un attacco diffuso ai legami con gli oggetti buoni (Bion 1959). In secondo luogo è imperativo che l’analista abbia prima sviluppato una sufficiente comprensione del proprio controtransfert e abbia elaborato le proiezioni del paziente abbastanza da aver ristabilito il proprio spazio analitico interno. Bollas (1990) al riguardo ha opportunamente notato: “E quando certi pazienti psicotici incoraggiano le regressioni nell’analista, più che in se stessi, gli analisti devono tollerare gli episodi regressivi, da cui usciranno con il tempo, la pazienza e il lavoro riflessivo. Quando ciò accade, la comprensione analitica e l’interpretazione sono in primo luogo curative per l’analista, che sta meglio di prima” (Bollas 1990, p.352). Anche secondo Carpy (1989), sostenitore del differimento dell’interpretazione, il paziente inizierà a utilizzare gli interventi interpretativi in modo costruttivo solo quando riconoscerà aspetti di se stesso nell’analista.
Quando finalmente emergeranno in superficie gli aspetti scissi e isolati della personalità del paziente potrà essere usata efficacemente l’interpretazione.

A questo punto insorge un nuovo compito per l’analista che consiste nel procedere all’integrazione di questi aspetti del sé (Gabbard 1996). Ricollegare le isole di amore con i nuclei dell’odio restituisce al paziente il senso della propria soggettività e mette a sua disposizione una diversa modalità di lavoro analitico in conseguenza del suo essere entrato in uno spazio appunto analitico. Può ora pensare simbolicamente a ciò che accade nella relazione analista-paziente ed essere osservatore di pensieri e sentimenti in quanto creazioni intrapsichiche piuttosto che come percezioni fattuali incontrovertibili (Ogden 1989).

Con questo processo, che può comportare anche tempi lunghi, si normalizza in un certo senso il rapporto analitico secondo una dinamica che smussando le asperità provocate dalle implicazioni sessuali avviano paziente e terapeuta verso quella meta ambita chiamata risoluzione che non è detto che sia raggiungibile. E qui ecco il tema dell’analisi finita o infinita su cui siamo ancora debitori a Freud.

Searching for Sugar man (2012) – Recensione del film documentario

Il film Searching for Sugar man racconta la storia di Rodriguez, un talentuoso musicista americano degli anni ’60, che ha avuto la casualità di vivere in una terra che non aveva la capacità di comprenderlo. Così, rassegnato, ha mollato la chitarra e ha “ripreso a lavorare”, mettendosi a fare il muratore.

 

La parola talento è spesso abusata, a volte fraintesa, fino a svuotarsi di significato o innalzarsi a qualcosa di irraggiungibile.

Il film Searching for Sugar man racconta la storia di Rodriguez, un talentuoso musicista americano degli anni ’60, che ha avuto la casualità di vivere in una terra che non aveva la capacità di comprenderlo. Così, rassegnato, ha mollato la chitarra e ha “ripreso a lavorare”, come ha raccontato in un’intervista rilasciata molti anni dopo, mettendosi a fare il muratore.

 

Searching for Sugar man : Rodriguez eroe inconsapevole dell’apartheid

Nel frattempo, in un mondo parallelo era diventato famoso, letteralmente più famoso di Elvis Presley, ma a sua insaputa. Anzi, più che famoso era considerato un eroe: in Sud Africa Rodriguez era diventato la colonna sonora della lotta contro l’apartheid; centinaia di cittadini cantavano le sue canzoni durante le manifestazioni di rivolta e le sue parole venivano riprese dagli striscioni dei cortei.

E mentre lui alzava muri e si spaccava la schiena nei cantieri edili, il suo pubblico lo aveva creduto morto, al contrario di ciò che qualche fan ha creduto di Elvis dopo la sua morte. Nessun mezzo di comunicazione di massa parlava di lui, poiché l’establishment lo ha sempre ignorato. In Sud Africa si pensò ad un suicidio, ma non in una modalità qualunque, e iniziarono a girare le storie più incredibili su come Rodriguez avesse deciso di togliersi la vita. Solo così le persone potevano digerire quel lutto immenso: costruire una leggenda nella quale collocare l’eroe per continuare a idealizzarlo.

Un giorno un detective musicale sudafricano volle far luce su come realmente Rodriguez si fosse suicidato. L’investigatore fece la scoperta clamorosa. Sugar man (anche così chiamato per una tra le canzoni più amate) viveva a Detroit nella sua casa di sempre, la stessa da quasi 50 anni nella più semplice normalità. Rodriguez non poteva credere alla fama che si era conquistato al di là dell’oceano Atlantico. Inizialmente era incredulo e stordito, assolutamente non preparato ad accogliere tanto riconoscimento. Poi si è lasciato convincere dall’uomo che lo stava cercando da anni e lo ha seguito nell’altro mondo per suonare davanti al pubblico che lo aspettava da sempre. Suonò guardando la folla delirante, con lo stupore di un bambino e la calma di un eroe. Finalmente al posto giusto.

 

Searching for Sugar man e le parti del Sé non validate

Questa storia di un eroe inconsapevole, raccontata nel film documentario Searching for Sugar man, mi ha fatto chiedere “cosa siamo quando parti di noi non vengono riconosciute?”.

Rodriguez rispetto al lavoro come manovale dichiarò “è stato bellissimo, è un lavoro che ti fa sentire vivo“, nel frattempo la parte più talentuosa e grandiosa del proprio Sé restava comatosa e sospesa tra vita e morte. Quanto avrà potuto soffrire per non essersi sentito validato come musicista? Era bravo a costruire case e qualcosa di “visibile” lo aveva dotato di senso e riscontro sociale.

Rodriguez era dentro due vite parallele, in una era muratore e in un’altra artista ispiratore e leader “spirituale” di un movimento di lotta civile. Mentre viveva l’una era totalmente all’oscuro dell’esistenza della seconda, in termini psicodinamici a Detroit conduceva la vita consapevole e in Sud Africa quella incoscia. Immagino il lavoro svolto dal detective come quello di uno psicoanalista che aiuta il paziente a mettere in comunicazione parti del Sé dissociate tra loro.

Coming from reality” è il titolo di un suo album. Ma venire dalla realtà per andare dove, Sugar man ? Forse ti riferisci al sogno di te stesso, quello che hai fatto ad occhi aperti davanti alla folla oceanica che ti riconciliava col tuo destino.

L’origine del complottismo: dalla landa delle ipotesi ragionevoli alle terre selvagge dei deliri

Ancora una volta si parla e si paventa di complotti, si dubita di tutto e si immaginano burattinai, dalle scie chimiche alle torri gemelle, dai cassonetti che spariscono fino ai responsabili dell’attacco chimico in Siria. Perché lo facciamo? Forse perché la realtà ci sgomenta superando ogni giorno le più sfrenate fantasie dei complottisti. Non ci credete?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 08/04/2017

 

Prendiamo un altro complottismo di questi giorni, il caso degli hameriani, quelli che rinunciano alle cure mediche per il cancro e che aderiscono alle teorie di Ryke Geerd Hamer, il medico tedesco inventore della Nuova Medicina Germanica, la NMG. Si chiama proprio così: NMG; grottesco acronimo che è la controfigura degradata dei tanti acronimi che popolano il mondo della scienza moderna.

E questo non è ancora niente. La NMG è un incrocio di varie degradazioni. Degradazione della psicologia, poiché la NMG sostiene che le malattie, tutte, sono originate da esperienze traumatiche. Questi traumi determinerebbero conflitti psicologici che poi si trasmetterebbero nel corpo. Le cure mediche, in particolare la chemioterapia, sarebbero inutili se non dannose. Su questa teoria Hamer costruisce uno stravagante metodo terapeutico che pretende di curare i tumori con farmaci omeopatici e risolvendo i conflitti psicologici. Non basta. Egli fonda una vera setta di seguaci. E questi seguaci spesso sono medici che convincono molti sciagurati a non curarsi, condannandoli a morte. Di pochi giorni fa è la condanna della dottoressa Germana Durando che aveva convinto una paziente a curare un melanoma maligno con la NMG, risolvendo i suoi problemi affettivi con il suo ex fidanzato. Prima ancora c’erano stati i casi di Emanuela Bottaro e prima ancora di Cristian Trevisan e Anna Maria Tosin, tutti morti per le non cure della NMG.

E anche questo non è ancora nulla. La NMG aggiunge a queste bislacche teorie la componente del complotto. Hamer sostiene che le sue scoperte per la cura dei tumori sarebbero state messe sotto silenzio dal solito complotto mondiale ebraico. E anche questo non basta. Secondo Hamer, gli ebrei non solo gli avrebbero impedito di regalare la sua NMG all’umanità, ma si curerebbero –i furbi- di nascosto con la sua NMG. È  stupefacente come tutta questa storia sia così risaputa e al tempo stesso così imprevedibile. Alla caricatura della psicoanalisi e del naturismo, Hamer aggiunge una forma grottesca e balzana di razzismo, così bislacca da essere straniante, per poi concludersi nell’arcinoto complotto ebraico. Il finale rischia di essere comico, ma rimane solo disorientante.

Il complotto è il rimedio che oppone la nostra mente all’inspiegabilità degli avvenimenti, all’irrimediabile dominio del caso che cozza contro ogni ragionamento e contro ogni deduzione. Meglio sarebbe tacere, non pensare di fronte a tutto questo. Ma per noi umani questo è troppo duro. Spegnere la mente è difficile, tacitarla impossibile. Come un gruppo di vecchi zii indementiti e incapaci di stare zitti, così sono la nostra mente, la nostra ragione e il nostro intelletto, questa triade sopravvalutata e troppo spesso così inutilmente intelligente.

La capacità della nostra mente di immaginare scenari alternativi, di analizzare la realtà in concatenazioni logiche o con sfrenate fantasie è nata per darci un’altra possibilità che ci liberasse dalla schiavitù degli istinti. Però questa libertà ci ha illusi e viziati, ci ha illusi che potessimo esercitare questa libertà non solo verso gli istinti, ma anche verso la realtà esterna. Ma la realtà è un osso più duro degli istinti profondi. Non si lascia domare, la sua complessità è irraggiungibile. E davanti a questo fallimento come reagiamo? Male, invece di smettere e di tacere, invece di staccarci dal bancone alcolico dell’inutile moltiplicazione dei pensieri, pensiamo ancora di più, sconfinando dalla landa delle ipotesi ragionevoli per passare alle terre selvagge dei deliri. E immaginiamo complotti.

Poveri illusi che siamo, e povera illusa con noi la nostra povera mente. Non possiamo competere con la realtà, che supererà sempre le nostre immaginazioni più folli, i nostri complotti più stupefacenti. Non ci credete? La prova è proprio lo stesso Ryke Geerd Hamer, che per noi italiani è un vecchio amico che riemerge da un passato dimenticato. Lo abbiamo già incontrato in un altro mondo, e non lo ricordiamo. Egli non è solo l’inquietante inventore della NMG, ricercato e latitante in Norvegia perché incolpato nel suo paese e altrove della morte di tanti sciagurati  che gli hanno creduto. Lui è anche un altro. Sapete chi è costui?

Ryke Geerd Hamer è il padre di quel Dirk Hamer che alcuni o molti di noi ricordano, il giovane tedesco che nel 1978 morì in seguito alle ferite determinate dai colpi di fucile sparati dal principe Vittorio Emanuele di Savoia dal suo yacht verso la barca dell’imprenditore Nicky Pende. Il principe era ubriaco e furente perché gli ospiti di Pende sarebbero stati rei di avergli sottratto un gommone. Uno dei colpi di fucile penetrò nella stiva della barca di Pende e andò a colpire il giovane Hamer, che stava dormendo, alla gamba. Il ritardo dei soccorsi e l’elevata perdita di sangue mandarono la gamba in gangrena e uccisero il giovane dopo un’atroce agonia di quattro mesi, durante la quale aveva anche subito l’amputazione della gamba colpita.

C’era anche il padre su quella maledetta barca, c’era anche Ryke Geerd Hamer, anche lui ospite di Nicky Pende. Egli assistette all’agonia del figlio. In seguito Hamer padre si ammalò di tumore a un testicolo ma si salvò dopo che fu asportato chirurgicamente. Si salvò lui, ma non si salvò la sua mente, a quanto pare. Fu dopo quella operazione chirurgica che Hamer padre iniziò a elaborare la sua teoria, la sua NMG. La prima vittima fu sua moglie, la madre di Dirk. Ammalatasi di tumore, fu convinta dal marito a curarsi con la nascente NMG. Il resto lo sappiamo.

È evidente, o forse è solo plausibile, che Hamer padre sia impazzito di dolore dopo la tragedia del figlio e per dimenticare tutto si sia tuffato in questa vita matta di fondatore di una setta medica e sacerdotale, sorta di versione europea di Scientology. Inquietante che da quella morte non sia seguita nessuna redenzione, ma una scia di altri morti, sciagurati che si lasciano mangiare dal tumore invece che curarsi e salvarsi. Una storia di anti-salvazione, una inversione grottesca del cristianesimo. O forse anche questa è l’ennesima spiegazione che non sappiamo trattenerci dall’elaborare di fronte all’abisso dell’assurdità degli eventi.

Che questi hameriani siano legati a quel lontano fatto di cronaca degli anni ’70, che questi due eventi così strani e inspiegabili, la setta pseudo-medica dei nostri giorni e la morte accidentale, assurda e atroce di Dirk Hamer negli anni ’70, siano non solo due fatti già così eccentrici e macabri in sé ma siano anche legati tra loro in questa maniera così balzana e stravagante, è qualcosa che ci fa girare la testa e lascia la mente dispersa in un terrificante teatro dell’assurdo. Quale assurda e gratuita scia di morti è fiottata dal colpo di fucile del principe di Savoia? Se questa è la realtà, forse è meglio delirare, forse è meglio immaginare complotti. Magari qualcosa di risaputo, di già noto. E cosa c’è di più noto di un complotto ebraico?

Il comportamento alimentare negli atleti: tra normalità e patologia

Nel mondo degli sportivi talvolta lo schema alimentare viene applicato in modo disfunzionale e inflessibile per ottenere, in ottica perfezionistica, un’ottima performance oppure per mantenere un’immagine corporea perfetta. I disturbi alimentari negli sportivi (in particolare si intende anoressia e bulimia) sono problematiche che spesso vengono confuse con atteggiamenti di coerenza con la tipologia di attività sportiva svolta dall’atleta e spesso sfuggono all’occhio “non esperto”, salvo presentarsi con evidenti sintomatologie legate al peso o alla forma del corpo.

Martina Croci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

L’alimentazione degli sportivi: assumere il giusto apporto calorico

Inseguire un modello alimentare ad hoc o cercare di alimentarsi in modo sano ed equilibrato? Sono ormai note l’attenzione e la cura che gli sportivi dedicano alla loro alimentazione, ma quando uno stile di vita alimentare diventa problematico?

Una corretta alimentazione nella vita di ogni sportivo, e non solo, è di fondamentale importanza siccome permette, attraverso l’assunzione di alimenti in modo sano e bilanciato, di ottenere un benessere fisico ottimale adatto ad ogni prestazione fisica svolta. Tutto ciò che noi introduciamo nel nostro organismo serve, nello stesso momento, come carburante (le calorie sono la quantità di energia contenuta in ogni alimento), come protezione (le vitamine, le fibre, i minerali e gli antiossidanti giocano un ruolo difensivo), come regolazione termica (l’acqua contenuta nei cibi e nelle bevande aiuta il nostro corpo a mantenere la temperatura nel suo stato ottimale) ed infine le proteine con i loro amminoacidi essenziali permettono il continuo rinnovamento dei tessuti. Il nostro organismo ha bisogno di una miscela di macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi) con dei rapporti percentuali precisi per funzionare al meglio in ogni circostanza. L’apporto calorico, derivante dalla miscela dei diversi macronutrienti, più opportuno per qualsiasi essere umano, è composto, all’incirca, dal 50% di carboidrati, dal 30% di grassi ed infine dal 20% di proteine.

Nel caso particolare delle diete seguite dagli sportivi non ritroviamo un pattern specifico di alimentazione creata ad hoc per raggiungere un’ottima performance, tuttavia sarebbe auspicabile conoscere i principi alla base di una corretta alimentazione, sana e bilanciata, da adottare in relazione agli sforzi fisici da sostenere; la percentuale di macronutrienti assunta dagli sportivi può variare in base alla disciplina svolta, alla durata e all’intensità dello sforzo fisico (ad esempio se si tratta di giorni di allenamento oppure di competizione), tuttavia non esiste una “ricetta” universale per raggiungere un buon risultato, ma questo è dato da un equilibrio dei nutrienti assunti che varia in base all’obiettivo specifico da raggiungere di volta in volta, senza perdere di vista la corretta alimentazione che ognuno di noi, sportivi e non, dovrebbe mantenere.

I muscoli degli atleti consumano una combinazione di carboidrati e lipidi che variano in base alla durata e all’intensità dell’allenamento effettuato. I carboidrati solitamente, nelle diete adottate dagli atleti, sono utilizzati per mantenere un equilibrio dei livelli di glicogeno, ossia dei depositi composti da molecole di glucosio collocate prevalentemente nei muscoli e nel fegato. In particolare durante l’esercizio fisico si utilizzano alimenti ricchi di fruttosio o maltodestrine, contenuti prevalentemente nei cereali, allo scopo di prevenire l’esaurimento del glicogeno muscolare; infine, dopo lo sforzo, i carboidrati ad alto indice glicemico, come le bevande zuccherate e i dolci, servono per ricostruire il glicogeno muscolare che è stato esaurito dall’organismo durante l’allenamento. Assumere carboidrati dopo aver effettuato un allenamento intenso è fondamentale per ristabilire una sorta di omeostasi dei livelli di glucosio dato che vi è periodo di tempo post – allenamento (circa mezz’ora dopo lo sforzo fisico) chiamato finestra anabolica in cui i muscoli dell’atleta sono più ricettivi, quindi assumendo carboidrati in questo intervallo di tempo si velocizza il recupero del proprio stato ottimale (Aragon & Schoenfeld, 2013; Maughan & Shirreffs, 2012).

Il mondo degli esperti nella nutrizione sportiva raccomanda di consumare almeno cinque pasti durante l’arco della giornata (colazione, spuntino, pranzo, merenda e cena). Questo schema alimentare, tuttavia, non è possibile applicarlo in modo rigido a tutti gli sportivi ma è necessario modificarlo ed adattarlo alla specifica disciplina che ogni atleta svolge, in quanto il modello dell’assunzione dei pasti e dei macronutrienti nell’arco della giornata dipende fortemente dalla durata, dall’intensità e dall’orario dello svolgimento dell’attività sportiva, questo, come precedentemente accennato, proprio perché non esiste un paradigma alimentare ad hoc per l’atleta ma è necessario modulare l’apporto calorico e la percentuale dei macronutrienti in relazione agli sforzi fisici da sostenere in ogni peculiare circostanza e agli obiettivi che l’atleta si pone di raggiungere.

I disturbi alimentari negli sportivi

Nel mondo degli sportivi talvolta lo schema alimentare viene applicato in modo disfunzionale e inflessibile per ottenere, in ottica perfezionistica, un’ottima performance oppure per mantenere un’immagine corporea perfetta. I disturbi alimentari negli sportivi (in particolare si intende anoressia e bulimia) sono problematiche che spesso vengono confuse con atteggiamenti di coerenza con la tipologia di attività sportiva svolta dall’atleta e spesso sfuggono all’occhio “non esperto”, salvo presentarsi con evidenti sintomatologie legate al peso o alla forma del corpo.

Ci sono diverse ragioni per le quali si possa pensare che gli atleti siano più a rischio di sviluppare una problematica alimentare: in primo luogo gli atleti sono esposti a una pressione socioculturale maggiore rispetto alla popolazione, sull’essere conformi ad un ideale di forma corporea ben precisa; questo accade soprattutto negli sport in cui è richiesta la magrezza per ragioni di performance o apparenza, come ad esempio la danza, la ginnastica artistica. In secondo luogo molto spesso gli atleti vengono descritti come perfezionisti, orientati all’obiettivo, competitivi e preoccupati dalla buona riuscita della performance: queste caratteristiche sono altresì caratteristiche personologiche peculiari frequentemente associate ad individui che soffrono di disturbi alimentari. In terzo luogo l’esordio dei disturbi alimentari risale all’adolescenza o alla prima età adulta, periodo in cui inizia anche la partecipazione a competizioni degli sportivi.

Dai diversi studi condotti emerge una vulnerabilità maggiore degli atleti ad incorrere in problematiche legate all’alimentazione, soprattutto nella popolazione femminile, tuttavia pare non emergere un’assoluta prevalenza di disturbi alimentari (classificati nel DSM IV-TR) negli sportivi ma solo una maggiore esposizione ai fattori di rischio, i quali spesso vengono considerati come funzionali alla performance sportiva oppure alla forma corporea richiesta ma possono portare con più facilità all’inflessibilità e alla disfunzionalità degli atteggiamenti alimentari che possono configurarsi come vero e proprio disturbo alimentare (Byrne & McLean, 2001; El Ghoch, Soave, Calugi, & Dalle Grave, 2013).

Vi sono diverse tipologie di sport che sono maggiormente esposte al rischio di esordire con un disturbo alimentare, ad esempio, sport cosiddetti estetici (ad esempio la danza, il nuoto sincronizzato e la ginnastica artistica), sport che prevedono una categoria relativa al peso (come il pugilato e le arti marziali, in questo caso è stata individuato come disturbo del comportamento alimentare più frequente la bulimia, più soggetta alle oscillazioni, ma tra tutte quella meno riconoscibile), sport che necessitano di strutture minute e peso corporeo basso (come ad esempio nel ciclismo e nell’equitazione), sport che mettono in evidenza la massa muscolare (più frequente la dismorfofobia nel body building) ed infine gli sport che prevedono un abbigliamento che mette in evidenza la forma fisica (nuoto, pallavolo). Gli studi condotti sui disturbi alimentari nello sport non sono privi di criticità a livello metodologico, in quanto vi è molta variabilità tra le diverse discipline sportive e alle diagnosi effettuate (Byrne & McLean, 2001; El Ghoch et al., 2013; Kong & Harris, 2015).

Tra gli sportivi possono emergere solo disturbi del comportamento alimentare categorizzati dalla comunità scientifica oppure esistono diverse sfaccettature degli stessi, che possono portare ugualmente ad una sofferenza psicologica o possono rappresentarne “l’anticamera”?

Nel mondo degli sportivi vi può essere una maggiore diffusione dei disturbi alimentari (DCA) clinicamente diagnosticati, probabilmente proprio per una sovrapposizione di peculiari caratteristiche tipiche di pazienti affetti da Disturbi  del Comportamento Alimentare e peculiarità personologiche proprie degli sportivi. I disturbi alimentari non si limitano, in senso stretto, alle categorie descritte dell’attuale Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ma esistono diverse sfumature degli stessi che rispecchiano, nondimeno, una sofferenza della persona; tra queste sfaccettature, non ancora categorizzate nel DSM 5, troviamo, ad esempio, l’ortoressia, l’anoressia atletica e la vigoressia, più tipicamente maschile.

Ortoressia, anoressia atletica e vigoressia sono comportamenti alimentari molto frequenti tra gli atleti che, tuttavia, possono portare lo sportivo ad una sofferenza psicologica considerevole. Nella sfera degli sportivi è possibile incorrere in casi più evidenti di Disturbi del Comportamento Alimentare oppure possiamo ritrovare dei comportamenti degni di attenzione clinica, seppure non diagnosticabili principalmente come anoressia e/o bulimia nervosa; tuttavia queste sfumature possono rappresentare i prodromi dell’esordio di un Disturbo del Comportamento Alimentare oppure un comportamento alimentare problematico a sè stante.

Gli sportivi prestano molta attenzione e cura al proprio stile di vita alimentare, proprio perché è il loro carburante necessario per un’ottima performance, è la chiave di lettura per ottenere una perfetta forma fisica e gioca un ruolo fondamentale per assicurarsi un buon recupero fisico dopo l’allenamento per ricostruire le fibre muscolari e mantenere in equilibrio i nutrienti presenti nel proprio organismo. Spesso gli atleti, così attenti alla propria alimentazione, possono esasperare la ricerca dell’alimentazione perfetta e farla diventare una vera e propria ossessione ed in questo caso si può parlare di ortoressia: l’atleta che soffre di ortoressia sviluppa una vera e propria fobia per i cibi considerati “pericolosi”, la preoccupazione di assumere cibi sbagliati e/o dannosi prevale sulle altre aree della propria vita (affettiva, relazionale e lavorativa) al punto che si assiste ad un vero irrigidimento del pensiero legato unicamente alla sfera alimentare. L’ortoressia, in particolare, tra gli sportivi, può sfociare in un’eccessiva selezione dei cibi assunti, senza tener presente che una buona alimentazione, funzionale anche alla propria performance, è caratterizzata dalla varietà degli alimenti assunti (Dunn & Bratman, 2016).

Se l’ortoressia è considerata come un’eccessiva attenzione ad un’alimentazione sana, l’anoressia atletica è stata definita per distinguerla dall’anoressia nervosa; l’anoressia atletica è caratterizzata da una restrizione alimentare più tipicamente associata all’allenamento, alla performance sportiva e alla propria forma corporea, invece, l’anoressia nervosa è contraddistinta da un timore di incrementare il proprio peso corporeo e da una marcata alterazione della percezione della propria immagine corporea; in alcuni casi, pazienti affetti da anoressia nervosa possono utilizzare l’esercizio fisico per compensare l’apporto calorico assunto, da loro considerato eccessivo (Dalle Grave, 2009).

L’anoressia atletica

Il concetto di anoressia atletica è stato introdotto per la prima volta, negli anni ’90 da Jorunn Sundgot – Borgen, medico sportivo specializzata in problematiche legate all’alimentazione (J Sundgot-Borgen, 1994). In molti sport, vi è la tendenza a raggiungere un peso corporeo eccessivamente basso, dato l’errato convincimento che questo sia un fattore fondamentale per il miglioramento delle performance. Ne consegue che molte atlete possono andare incontro a disturbi alimentari, pur non soddisfacendo i criteri specifici e diagnostici dell’anoressia nervosa, al fine di riuscire a mantenere un basso peso corporeo e una prestazione ottimale (Sudi et al., 2004).

L’anoressia atletica, negli studi condotti da Sundgot – Borgen e Torstveit, viene inclusa tra i disturbi del comportamento alimentare, poiché si tratta di un pattern di alimentazione anomalo che può portare a seri disturbi alimentari clinici, pur mantenendo una propria singolarità (J. Sundgot-Borgen & Torstveit, 2010; Jorunn Sundgot-Borgen & Torstveit, 2004). L’anoressia atletica presenta la riduzione della massa corporea (comprendente sia la massa grassa che quella magra) e ciò avviene per migliorare la prestazione e non per un’eccessiva preoccupazione come tipicamente accade nelle pazienti che soffrono di anoressia nervosa. Nell’anoressia atletica l’attuazione di diete o di allenamenti eccessivi è spesso raccomandata dagli allenatori al fine di raggiungere un equilibrio dei macronutrienti consono alla durata temporale e all’intensità dell’esercizio fisico richiesto da ogni disciplina sportiva. Nell’anoressia nervosa la perdita di peso è legata esclusivamente ad una dispercezione della propria immagine corporea ed ad una volontà di ridurre il proprio peso corporeo, nell’anoressia atletica, invece, la perdita di peso è sia legata alla diminuzione degli apporti calorici assunti, ma anche al volume e all’intensità dell’allenamento; nei casi in cui le atlete dovessero mantenere un peso molto basso per tutto l’anno (tipicamente il loro peso corporeo subisce delle oscillazioni) aumenterebbe il rischio di sviluppare disturbi alimentari degni di attenzione clinica. Infine l’anoressia atletica spesso non è più rilevabile dopo la cessazione della carriera sportiva, in quanto la poca energia introdotta per compensare quella spesa durante l’esercizio fisico è solitamente temporanea (Sudi et al., 2004).

Ortoressia e anoressia atletica sono condizioni alimentari tipiche del genere femminile, come, d’altro canto, anche la prevalenza dei disturbi alimentari è maggiore nelle donne con valori intorno allo 0,4% per l’anoressia nervosa e intorno al 2% per la bulimia nervosa ed in entrambe le condizioni la prevalenza nel sesso maschile è di circa un decimo rispetto al sesso femminile (Association, 2013; Bratland-Sanda & Sundgot-Borgen, 2013).

I disturbi del comportamento alimentare negli uomini

Negli ultimi anni, anche la percentuale di Disturbi alimentari negli uomini è in aumento, ma in che modo le problematiche alimentari interessano maggiormente il genere maschile?

Per quanto riguarda ragazzi e giovani uomini, è stato descritto un disturbo, dalla sintomatologia apparentemente opposta all’anoressia nervosa, che è la vigoressia. L’uomo che soffre di vigoressia è ossessionato dall’idea di essere esile e poco sviluppato fisicamente e, nonostante abbia spesso una muscolatura ipertrofica, non è soddisfatto a causa della distorsione dell’immagine corporea. L’autostima si basa quasi esclusivamente sul peso corporeo e sulle forme fisiche, che in quanto riferiti a dei modelli irraggiungibili, richiedono un livello estremo di perfezionismo. Come si evince i meccanismi sottostanti al sintomo esplicito si possono considerare i medesimi tra vigoressia ed anoressia nervosa.

Più nel dettaglio, la vigoressia, non è semplicemente il trascorrere ore ed ore in palestra, avere cura del proprio fisico, ma è la continua e ossessiva preoccupazione per quanto riguarda la propria massa muscolare anche a discapito della propria salute fisica. Tra le principali caratteristiche della vigoressia vi è un iperinvestimento sul proprio corpo, la ricerca della perfezione fisica, l’eccessiva focalizzazione visiva sul corpo, sui singoli muscoli o sul peso corporeo, tutto ciò accompagnato da una marcata insoddisfazione per il proprio fisico nonostante l’enorme sforzo che è stato fatto per raggiungere l’obiettivo prefissato con il timore di regredire rispetto ai progressi fatti riguardo alle proprie dimensioni fisiche.

Nelle persone che soffrono di vigoressia spesso vi è la tendenza a consumare cibi ipocalorici e/o abusare di integratori alimentari; i vigoressici sono più inclini all’utilizzo di sostanze illecite, come ad esempio il doping, proprio per una spasmodica ricerca della perfezione del proprio fisico ed il doping ha proprio la funzione di stimolare l’ipertrofia e velocizzare il recupero muscolare che permette al soggetto di allenarsi più spesso e aumentare l’intensità dello sforzo (questo fenomeno si riscontra soprattutto nel body building) (Mosley, 2009).

In conclusione non esiste un regime alimentare che può attuare indistintamente ogni atleta al fine di raggiungere una perfetta prestazione o un’ottimale forma corporea, tuttavia, è sempre consigliabile mantenere un’alimentazione equilibrata, sana e bilanciata composta da tutti i macronutrienti necessari per il nostro organismo, i quali possono variare in base alla durata e all’intensità dell’esercizio fisico peculiare per ogni disciplina sportiva svolta dall’atleta. Tra gli sportivi vi potrebbe essere una maggior prevalenza di disturbi del comportamento alimentare, tuttavia possono essere presenti anche delle sfumature degli stessi che possono rappresentare un fattore di rischio rispetto all’esordio di un Disturbo del Comportamento Alimentare, oppure una sofferenza psicologica a sè stante. Infine sarebbe importante non confondere una sintomatologia clinica da una coerenza alimentare dell’atleta finalizzata al raggiungimento di una forma fisica perfetta oppure di una prestazione ottimale nella propria disciplina sportiva (Bar, Cassin, & Dionne, 2015).

Il rischio di infarto e ictus causato dall’insonnia

L’insonnia, secondo la ricerca pubblicata sulla rivista European Journal of Preventive Cardiology, è associata ad un aumentato rischio di infarto e ictus.

 

Insonnia e rischio di infarti e ictus

Secondo il Dottor Qiao Lui, il sonno è importante per il recupero biologico e occupa all’incirca un terzo del tempo della nostra vita. Nella società odierna sempre più persone si lamentano di soffrire di insonnia. Secondo alcuni dati, circa un terzo della popolazione in Germania ha affermato di soffrire di sintomi di insonnia.

Recenti ricerche hanno constatato che vi è una associazione tra i sintomi di insonnia e i disturbi cardiovascolari (infarto del miocardio, malattie coronariche, insufficienza cardiaca), ictus, o una combinazione di più di tali patologie.

I sintomi dell’insonnia includono la difficoltà ad addormentarsi, difficoltà a mantenere il sonno, e/o un risveglio mattutino precoce.

Gli autori hanno intervistato circa 160.867 soggetti; dalle analisi di tali dati sono emerse significative associazioni tra i sintomi dell’insonnia e l’aumentato rischio di soffrire di malattie cardiovascolari e ictus.

In particolare sembra che chi ha difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno, corra più alti rischi di soffrire di disturbi cardiovascolari e ictus.

I meccanismi alla base di tali collegamenti non sono attualmente molto chiari. Studi precedenti hanno dimostrato che l’insonnia altera il metabolismo e le funzioni endocrine di chi ne soffre, aumentando l’attivazione sinaptica e la pressione sanguigna; e questi sono tutti fattori di rischio delle malattie cardiovascolari e ictus.

In conclusione, i disturbi del sonno sono molto comuni e a volte anche sottovalutati perché non si calcolano i rischi clinici sia a livello psicologico che prettamente somatico. Per questo una buona consapevolezza di tali fenomeni per aumentare la conoscenza e consapevolezza di tali sintomi, potrebbe incoraggiare le persone a cercare aiuto e ad attuare interventi per una adeguata igiene del sonno.

 

Ipotalamo e ipofisi: le funzioni – Introduzione alla psicologia

L’ ipotalamo e l’ ipofisi costituiscono un circuito cerebrale attraverso il quale è possibile realizzare la biosintesi di ormoni di varia natura che regolano una serie di eventi biologici. L’ asse ipotalamo-ipofisario collega il sistema nervoso al sistema endocrino garantendo l’attuazione di processi regolatori a carico degli ormoni secreti.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Ipotalamo

L’ipotalamo è una struttura cerebrale in cui afferiscono informazioni provenienti da diversi distretti anatomici corporei. L’ipotalamo è posizionato nella zona centrale dell’encefalo, interna ai due emisferi cerebrali, e costituisce la parte ventrale del diencefalo. In dettaglio, l’ipotalamo è situato ai lati del terzo ventricolo cerebrale ed è delimitato posteriormente dai corpi mammillari, anteriormente dal chiasma ottico, superiormente dal solco ipotalamico  e inferiormente dall’ipofisi, con la quale è a stretto contatto sia da un punto di vista anatomico sia funzionale. Esso è formato da cellule della sostanza grigia raggruppate in nuclei, divisi in tre gruppi: anteriore, intermedio e posteriore. L’ipotalamo è collegato alla corteccia cerebrale, ai centri del telencefalo, al talamo, all’epitalamo, al mesencefalo e al bulbo.

L’ipotalamo controlla e gestisce il sistema nervoso autonomo. Esso, infatti, è in grado di modificare la motilità viscerale, il ciclo sonno-veglia, il bilancio idrosalino, la temperatura corporea, l’appetito, l’espressione degli stati emotivi, e il sistema endocrino.

L’ipotalamo attraverso il nucleo anteriore e il nucleo preottico riesce a stimolare il sistema nervoso parasimpatico, generando manifestazioni come la bradicardia, diminuzione della frequenza dei battiti cardiaci al di sotto dei 60 bpm, incremento della salivazione e della sudorazione e ipotensione arteriosa, nel momento in cui si verifica un incremento dell’attività parasimpatica. Inoltre, quando si registra uno stato di allarme, i segnali inviati dalla corteccia dai nuclei posteriori dell’ipotalamo, stimolano il simpatico determinando tachicardia, aumento del battito cardiaco, tachipnea, aumento della frequenza respiratoria, midriasi, dilatazione delle pupille e aumento del flusso sanguigno ai muscoli. In altre parole, si registra una reazione di attacco fuga, risposta automatica derivante dalla percezione di un pericolo.

L’ipotalamo svolge anche funzione di termoregolazione. I nuclei anteriore e preottico sono detti centri del raffreddamento, mentre il nucleo posteriore è detto centro del riscaldamento, e sono formati da cellule sensibili alle variazioni di temperatura. Quando si rileva una temperatura al di sotto dei 36 °C, l’ipotalamo anteriore induce il rilascio di serotonina, si attiva il nucleo posteriore, che stimola il simpatico e di conseguenza si genera un aumento della temperatura. Al contrario, se la temperatura è alta, il nucleo posteriore dell’ipotalamo stimola la produzione di noradrenalina o di dopamina, che, a loro volta, stimolano i nuclei situati nella zona anteriore dell’ipotalamo, i quali agiscono favorendo la sudorazione e la vasodilatazione periferica.

Inoltre, il nucleo soprachiasmatico mantiene lo stato di veglia, i nuclei ventro-mediali e laterale regolano l’assunzione di cibo e il rapporto fame-sazietà.

L’ipotalamo è responsabile della regolazione delle emozioni e del comportamento sessuale, grazie alla connessione con il talamo e con il sistema limbico.

La superficie inferiore dell’ipotalamo si espande leggermente verso il basso formando il tuber cinereum, dal cui centro sporge l’infundibolo, riccamente vascolarizzato, che a sua volta si prolunga nell’ipofisi.

Ipofisi

L’ipofisi, o ghiandola pituitaria, è la ghiandola del sistema endocrino strettamente connessa all’ipotalamo. Essa è situata alla base del cranio, nella fossa ipofisaria della sella turcica dell’osso sfenoide e produce ormoni che guidano l’attività di quasi tutte le altre ghiandole corporee.

L’ipofisi si divide in tre parti, denominate lobi: il posteriore è chiamato neuro-ipofisi ed è costituita da fibre nervose che derivano dai neuroni dell’ipotalamo, l’anteriore è costituito da cellule che secernono ormoni ed è denominato adeno-ipofisi, riceve stimoli dall’ipotalamo, ma in questo caso si tratta di molecole o mediatori trasportati dal sangue, attraverso una rete di vasi dedicati, definita circolo portale dell’ipofisi o ipofisario, e il lobo intermedio dell’ipofisi.

L’ipotalamo, dunque, regola la liberazione di ormoni attraverso la neuroipofisi e modula l’attività dell’adenoipofisi mediante ormoni specifici.

 

Ormoni secreti dall’ipotalamo

Gli ormoni prodotti dall’ipotalamo sono definiti anche “fattori di rilascio” o “fattori di inibizione”. Essi inducono la produzione e lo sviluppo di una serie di meccanismi nell’ipofisi dopo averla adeguatamente stimolata. I principali ormoni prodotti dall’ipotalamo sono:

  • CRH, ormone stimolante il rilascio di corticotropina (ACTH), da parte dell’adenoipofisi.
  • MSHRH, ormone melanotropo (MSH che stimola il rilascio di MSH da parte del lobo intermedio dell’ipofisi.
  • TRH, ormone stimolante il rilascio di tireotropina (TSH), da parte dell’adenoipofisi.
  • PIF, inibitore di prolattina da parte dell’adenoipofisi.
  • GHRH, stimola il rilascio di GH, ormone della crescita, da parte dell’adenoipofisi.
  • LHRH, stimola il rilascio dell’ormone luteinizzante (LH)
  • GnRH, attivante il rilascio delle gonadotropine. L’LHRH e il GnRH inducono la produzione di FSH e LH da parte dell’adenoipofisi.
  • PRH, ormone stimolante il rilascio di prolattina da parte dell’adenoipofisi.
  • GHIF, denominato anche Somatostatina, inibisce il rilascio di GH da parte dell’adenoipofisi.

Le funzioni svolte dell’ipotalamo sono dettate sia dal sistema nervoso, che modula l’attività attraverso informazioni derivanti da diverse regioni cerebrali, sia dal sistema endocrino che definisce le concentrazioni di ormoni nel sangue, regolando la liberazione di ormoni da parte dell’ipofisi. Di conseguenza, l’ipofisi, dopo essere stata stimolata, rilascia gli ormoni nel sangue e gli ormoni, a loro volta, raggiungono l’ipotalamo attraverso il sangue e lo informano circa la necessità di aumentare, diminuire o mantenere stabile la secrezione di ormoni stessi.

 

Neuroipofisi

A livello della neuroipofisi sono liberati due ormoni:
vasopressina, ormone antidiuretico che determina una riduzione della produzione delle urine;
ossitocina, che agisce sulle ghiandole mammarie e sull’utero durante il parto.

 

Adenoipofisi

Al contrario della neuroipofisi che riceve i mediatori dall’ ipotalamo l’adenoipofisi è in grado di produrre differenti tipi di ormoni:
– Ormone Tireostimolate o Tireotropinache stimola la produzione e la liberazione degli ormoni della tiroide T3 e T4.
– Ormone follicolo stimolante, regola l’ovaio, nel quale stimola lo sviluppo dei follicoli, e i testicoli.
– Ormone luteinizzante, agisce sull’ovaio, determinando l’ovulazione  e la formazione del corpo luteo, e sui testicoli, induce la produzione di testosterone da parte di cellule presenti nei testicoli.
– Ormone della crescita o somatotropina, stimola la crescita dei tessuti dell’organismo.
– Ormone corticostimolante o corticotropina, regola nelle ghiandole surrenali  la produzione di cortisolo.
– Prolattina, regola la produzione di latte da parte delle ghiandole mammarie.

 

Lobo intermedio dell’ipofisi

Il lobo intermedio dell’ipofisi secerne ormoni definiti melanotropi e altre proteine che possono agire come mediatori. Questi ormoni stimolano la produzione di melanina, sostanza che conferisce colore alla pelle.
Inoltre, l’ipofisi sintetizza anche i peptidi oppioidi o oppiacei endogeni, le endorfine e  fattori che influenzano il fegato ed il pancreas.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Quando il paziente si innamora dell’analista: osservazioni sull’ amore di transfert

La generica definizione di amore di transfert rimanda a una lunga serie di questioni che da sempre hanno riguardato la tradizione psicoanalitica.

 

Etchegoyen (1986) al riguardo afferma che:

In ogni analisi devono esistere momenti d’amore, di innamoramento, poiché la cura riproduce le relazioni d’oggetto della triade edipica, ed è pertanto inevitabile (e salutare) che ciò avvenga (p. 184).

Anche se questo è ben presente e in un certo modo atteso dall’analista, perché appunto la cognizione che l’evento accada è fortissima, tuttavia c’è una particolare sfumatura che desta nel terapeuta problematiche complesse.

L’ amore di transfert che maggiormente preoccupa ogni analista è quello che, per la sua improvvisa apparizione, per la sua tenacia, per la sua intenzione distruttiva e per l’intolleranza alla frustrazione che lo accompagna, sembra capace di portare l’analisi a un punto di rottura.

 

L’ amore di transfert tra veicolo di guarigione e pericolo per la terapia

Precocemente nella pratica analitica Freud si trovò alle prese con le potenti forze dell’ amore che si attivano tra paziente e analista. In una celebre lettera del 1906 indirizzata a Jung, Freud colloca inequivocabilmente l’amore al centro della riflessione sull’azione terapeutica:

Si tratta propriamente di una guarigione mediante l’amore (Citazione in McQuire 1974, p. 3).

Il fondatore della psicoanalisi non intendeva, ovviamente, che fosse l’ amore dell’analista a guarire la paziente, mentre appariva chiaro che per lui il veicolo della guarigione stava nell’ amore di transfert. Nella stessa lettera confidava all’illustre interlocutore:

A Lei non sarà sfuggito che le nostre guarigioni avvengono mediante la fissazione di una libido che domina nell’inconscio (traslazione), che s’incontra con la maggior probabilità nell’isteria. È questa che fornisce la forza motrice per afferrare e tradurre l’inconscio; quando essa si rifiuta, il paziente non si sottomette a tale fatica o non dà ascolto se noi gli presentiamo la traduzione che abbiamo trovato (Citazione in McQuire 1974 p. 14-15).

Tuttavia Freud scorgeva nell’ amore di transfert anche un lato oscuro in grado di opporre al trattamento un ostacolo formidabile. Già anni prima aveva sottolineato come la paziente potesse essere presa “dal timore di abituarsi troppo alla figura del medico, di perdere la propria indipendenza nei suoi confronti, e persino di poterne dipendere sessualmente” (Freud 1892-1895, p. 437) collegando questo particolare ostacolo alla “natura della sollecitudine terapeutica” (ibidem).

Per sollecitudine terapeutica Freud intendeva l’ascolto attento e interessato da parte dell’analista verso i contenuti mentali della paziente e questo avrebbe potuto sollecitare in lei una sorta di innamoramento.

Alcuni anni dopo, quando apparvero gli scritti sulla tecnica, Freud sembrava aver modificato la propria posizione sull’attrazione erotica come veicolo di cura: soltanto il transfert cosciente, il transfert positivo ineccepibile, è alleato del trattamento. Il transfert erotico veniva relegato, insieme al transfert negativo, tra i due tipi di transfert inconsci che rappresentano una resistenza al trattamento (Freud 1912).

L’incertezza di Freud sul tema dava adito a molte domande pertinenti: l’ amore di transfert era una resistenza o un veicolo di guarigione? Era un sentimento reale o irreale? E, soprattutto, era simile o diverso rispetto all’amore che si prova al di fuori del contesto analitico?

Nel saggio “Osservazioni sull’amore di traslazione” (1914) Freud tenta di dare una risposta a queste domande, ma rimane ambiguo e descrive sostanzialmente una situazione paradossale in cui l’analista dovrebbe utilizzare l’amore che l’analizzando nutre per lui per far cessare definitivamente quegli stessi desideri transferali.

 

Differenze tra amore di transfert e amore fuori dall’analisi

Secondo molti autori quali Coen (1994), Friedman (1991), Gabbard (1993) e Schafer (1993), tale ambiguità viene resa da Freud particolarmente evidente nella differenziazione tra amore di transfert e amore fuori dall’analisi:

È bensì vero che questo innamoramento costituisce una riedizione di antichi processi e riproduce reazioni infantili. Ma questo è il carattere tipico di qualsiasi innamoramento. […] Forse l’amore di traslazione offre un grado di libertà minore che non l’amore quale si verifica nella vita e che chiamiamo normale, e lascia scorgere di più la sua dipendenza dai modelli infantili, rivelandosi meno duttile e malleabile. Ma questo è tutto, e non è l’essenziale (Freud 1914b, p. 371).

Quindi secondo Freud anche se non c’è dubbio che residui di vecchie relazioni oggettuali vengano portati nel transfert non possiamo basarci su tali indizi per distinguerlo da ogni altro tipo di amore. L’astinenza dell’analista e lo stesso setting potrebbero renderlo un po’ più infantile, ma si tratta, probabilmente, di una differenza irrilevante.

Pur avendo scoperto solo differenze insignificanti tra l’ amore di transfert e quello reale, Freud avverte tuttavia l’analista di procedere come se l’amore non fosse reale:

Si tenga in pugno la traslazione amorosa, ma la si tratti come qualcosa di irreale, come una situazione che deve verificarsi durante la cura e va fatta risalire alle sue cause inconsce (1914, p. 369).

Questo consiglio nasce probabilmente dalle preoccupazioni che Freud aveva riguardo a quel fenomeno non ancora ben definito e chiamato controtransfert. Il timore principale era che i suoi colleghi si innamorassero delle pazienti anziché astenersi e che cedessero alla seduzione come accadrebbe al di fuori della situazione analitica. Freud era consapevole dell’intensa attrazione che l’analista può provare per la paziente e imparò ben presto la bidirezionalità della seduzione quando vide i suoi discepoli soccombere, uno dopo l’altro, al canto delle sirene dell’ amore di transfert.

Gabbard (1996), revisionando attentamente gli scritti sulla differenza tra amore reale e amore transferale negli autori  successivi a Freud ha evidenziato che:

l’amore nella situazione analitica ha molte più somiglianze che differenze rispetto all’amore in situazioni non analitiche: usa le stesse metafore, indossa le stesse maschere e provoca la stessa varietà di risposte negli altri […]. La differenza fondamentale sta nell’atteggiamento dell’analista, volto alla riflessione, alla contemplazione e all’analisi, piuttosto che all’azione (pp. 38-39).

Le supposizioni teoriche che nel suo fondamentale lavoro Gabbard mette al vaglio, riguardano molti autori alcuni dei quali però meritano di essere citati dettagliatamente per la maggior peculiarità  del loro dettato.

Schafer (1977) ritiene che l’ amore di transfert abbai una duplice natura. Da un lato, si tratta di una nuova edizione di una precedente relazione oggettuale regressiva, dall’altro è una nuova relazione oggettuale reale e adattata alla situazione di trattamento, ossia: “uno stato transizionale di carattere provvisorio in vista di un esito razionale, genuino quanto l’amore normale” (p. 340). Il problema principale che si presenta all’analista è come integrare i due aspetti dell’ amore di transfert in un approccio interpretativo efficace.

Modell (1991) mette in evidenza una differenza fondamentale tra l’amore in analisi e l’amore extra-analitico. I due membri della diade analitica sanno che alla fine si separeranno, a prescindere da quanto siano tra loro compatibili e dalla reciprocità dei loro sentimenti. Questa dimensione del rapporto analitico rispecchia un paradosso fondamentale: le risposte affettive di analista e paziente sono reali ma avvengono nel contesto di una relazione irreale, considerando i termini dei comuni rapporti sociali.

Hoffer (1993) sottolinea quanto sia fuorviante, per il paziente come per l’analista, considerare irreale l’amore nel rapporto analitico. L’amore di per sé è praticamente identico a quello che si prova nel trattamento e gli aspetti distintivi vanno cercati altrove:

La differenza non va cercata nella realtà, ma nella sua specifica unilateralità. Da parte dell’analista, la relazione d’amore è unilaterale a causa del suo scopo, in altri termini la raison d’être del rapporto è che esiste a vantaggio del paziente. Inoltre, il setting analitico stesso, il suo contesto e la sua struttura sono naturalmente definiti e subordinati a quello scopo (p. 349).

Anche Kernberg (1994) avvisa che la mancanza di reciprocità deve essere posta alla base dei criteri  di differenziazione tra l’ amore di transfert e quello extra-analitico. Inoltre, l’ amore di transfert permette al paziente di esplorare a fondo le determinanti inconsce della situazione edipica, possibilità che non è data in altre forme d’amore.

Per concludere questa breve panoramica sulle attuali posizioni definitorie di transfert erotico intendo nuovamente citare Gabbard (1996)  e segnatamente sulla possibilità di commettere un errore metodologico nel quale possono incorrere gli analisti:

Possiamo affermare che l’amore è reale nel senso che implica una specifica relazione in atto, e al tempo stesso è irreale nel senso che contiene elementi di relazioni oggettuali passate, che sono state interiorizzate e poi riattivate nella diade analitica […]. Oggi gli analisti spesso provano lo stesso disagio di Freud di fronte a intensi sentimenti tansferali d’amore e, un’attenzione eccessiva alle distinzioni tra l’ amore nel transfert e al di fuori di esso, può essere una difesa ossessiva contro il disagio che si prova all’insorgere di sentimenti d’amore nel trattamento (p.36).

Occuparsi delle difficoltà degli adolescenti è possibile: un esempio di percorso di cura dei disagi dell’età evolutiva

L’ adolescenza è sicuramente un periodo di vita caratterizzato da numerosi e profondi cambiamenti sia dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista emozionale e comportamentale.

 

Tali cambiamenti, che iniziano intorno ai 12 anni, determinano il processo di transizione verso lo stato di adulto e sottendono fattori di natura biologica, psicologica e sociale.

Il cambiamento più evidente agli occhi di chiunque è il cambiamento fisico, al quale però ogni adolescente associa esperienze emozionali intense e personali. Data la velocità con cui questi mutamenti si verificano, è infatti frequente un certo livello di ansia da parte dei ragazzi nei confronti del loro aspetto fisico e della loro capacità di relazionarsi con i pari, i quali cambiano rapidamente tanto quanto loro.

Così come ogni altra fase dello sviluppo di un individuo, anche l’ adolescenza è contraddistinta da peculiari atteggiamenti e comportamenti, prima su tutti la tendenza all’autonomia.

Il bisogno di indipendenza permette infatti ai ragazzi di sperimentare vari ruoli e nuove responsabilità, i loro interessi cambiano e iniziano porsi domande di natura esistenziale, tuttavia la carica emotiva che accompagna loro nella stragrande maggioranza delle attività, può condurli a conquiste e gioie, ma anche a delusioni e sconfitte di difficile gestione per loro.

Tali esperienze vengono vissute spesso con sbalzi di umore, iper-reattività al comportamento di amici, parenti e insegnanti, conflitti con i genitori e sentimenti di inadeguatezza, i quali nei casi più estremi possono sfociare in ansia, depressione, uso di sostanze stupefacenti e comportamenti devianti.

Le caratteristiche comportamentali ed emotive associate a particolari situazioni problematiche possono dare vita a determinati sintomi che se intensi e duraturi possono causare a loro volta, un disagio nella vita del ragazzo. I disturbi in età evolutiva, vengono spesso classificati e suddivisi in “problemi internalizzanti” e “problemi esternalizzanti”.

Con il termine esternalizzanti si intende una serie di disturbi e comportamenti ad essi associati caratterizzati da aggressività, scarsa concentrazione, impulsività e iperattività. Come si può facilmente immaginare, in adolescenza questi problemi si contraddistinguono per il fatto che il disagio che l’adolescente prova viene riversato all’esterno, dando luogo a situazioni e circostanze spesso spiacevoli o di difficile gestione. I più frequenti tra questi sono il Disturbo della Condotta e il Disturbo Oppositivo Provocatorio.

Il termine internalizzante invece, descrive una serie di disagi che i ragazzi sviluppano e mantengono dentro loro stessi, in altri termini, di fronte a sofferenze e stati emotivi intollerabili, alcune persone cercano di controllare e regolare le proprie emozioni e i propri pensieri in autonomia e in maniera inappropriata. I disturbi più frequenti tra questi sono i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore.

 

Problematiche dell’ adolescenza: il lavoro del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, si avvale di esperti e qualificati psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

Il percorso terapeutico con gli adolescenti, è in genere un intervento altamente strutturato e di breve durata. Il principio su cui si basa la terapia cognitivo comportamentale è che i pensieri, le emozioni e i comportamenti, siano tre aspetti capaci di influenzarsi reciprocamente; l’obiettivo di cura del centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, è dunque quello di aiutare i ragazzi a modificare proprio quei modi di pensare che spesso li portano a vivere determinate emozioni e di conseguenza a mettere in atto determinati comportamenti, spesso disfunzionali.

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova offre a ragazzi e genitori la possibilità di riconoscere le criticità che spesso portano a conflitti familiari e malessere individuale e ad individuare insieme il percorso più adatto al fine di ridurre gli stati di sofferenza.

Il percorso diagnostico e terapeutico offerto dal centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova prevede:

  • Assessment psicodiagnostico – valutazione psicologica delle difficoltà e delle risorse dell’adolescente attraverso l’utilizzo di strumenti standardizzati, allo scopo di descrivere la problematicità dell’individuo e individuare un obiettivo terapeutico condiviso.
  • Psicoterapia individuale – spesso ciò che pensiamo di noi stessi e della realtà che ci circonda può essere poco funzionale e causare un certo livello di sofferenza soggettiva. L’intervento terapeutico è volto a ridurre la sofferenza soggettiva e ad aiutare il ragazzo ad individuare nuove e più funzionali strategie relazionali e comportamentali.
  • Colloqui con i genitori – regolari incontri informativi e psicoeducativi con i genitori e/o con le figure di riferimento del ragazzo.

La Comunicazione Mediata da Computer e la Self-Disclosure, costrutto importante nella psicoterapia faccia a faccia e on-line

Considerando la rilevanza della Self-Disclosure nella comunicazione Face to Face come elemento fondamentale per iniziare, sviluppare e mantenere le relazioni e, considerando la repentina diffusione della Comunicazione Mediata da Computer, alcuni ricercatori hanno indagato la variazione della Self-Disclosure anche nella comunicazione online.

Tommaso Ciulli – OPEN SCHOOL Scuola Psicoterapia Cognitiva di Firenze

 

Dalla loro nascita ad oggi, le tecnologie di comunicazione via Internet hanno registrato un’espansione senza precedenti. Per le nuove generazioni la comunicazione mediata dal computer rappresenta una modalità comune e consueta di comunicare. Come rilevato da Erich e Rhonda (2000), Internet ha determinato un forte impatto nei modelli di comunicazione interpersonale, facilitando inoltre le amicizie e le relazioni romantiche. La diffusione della Comunicazione Mediata dal Computer (CMC) come modalità abituale di comunicare pone numerosi interrogativi su come queste tecnologie siano in grado di modificare la comunicazione (Corlianò, 2010).

La comunicazione mediata dal computer viene definita come un processo attraverso il quale le persone creano, scambiano e ricevono le informazioni utilizzando i sistemi di telecomunicazione che facilitano la codifica, la trasmissione e la decodifica dei messaggi (December, 1996).

Dal momento che Internet è divenuto un luogo importante per l’interazione sociale (D’Amico, 1998), diversi ricercatori in ambito psicologico hanno studiato le diverse applicazioni e possibilità legate alla comunicazione mediata dal computer via Internet, suddividendole in due principali categorie; in base alla capacità del mezzo utilizzato di permettere lo scambio comunicativo in tempi diversi (comunicazione asincrona) oppure nello stesso tempo (comunicazione sincrona). La comunicazione asincrona comprende: E-Mail, mailing-list e newsgroup; quella sincrona racchiude gli Istant Messaging (IM), le Internet Relay Chat (IRC) o le web-conference (la comunicazione via webcam).

 

Comunicazione mediata dal computer: le tecnologie al servizio della psicologia

Come affermato da Skitka e Sargis (2006), le tecnologie introdotte con Internet possono essere usate come un laboratorio di psicologia, possono essere manipolate molte variabili e molti indizi visivi e uditivi, possiamo scomporre l’interazione sociale nelle sue componenti base.

Nei primi anni ‘90 le ricerche scientifiche hanno analizzato diversi aspetti: la diversità tra le interazioni online nei differenti ambienti digitali, le differenze nelle interazioni faccia a faccia (FtF) e quelle online, gli effetti sulla vita quotidiana prodotti dall’uso prolungato della comunicazione mediata dal computer o le differenze etnografiche nell’uso della comunicazione mediata dal computer.

Le prime ricerche si sono concentrate sull’influenza che queste tecnologie hanno portato negli ambienti lavorativi\aziendali, primi veri luoghi di crescita della comunicazione mediata dal computer, definite task-oriented (Tosoni, 2004). Queste prime indagini si focalizzavano sulle conseguenze sociologiche dell’introduzione della comunicazione mediata dal computer in strutture organizzative preesistenti. Questi modelli si concentravano sulle caratteristiche fisiche del mezzo e della sua capacità\ricchezza di trasmettere più o meno informazioni. Alcuni ricercatori hanno direzionato la loro attenzione sulle varie componenti della comunicazione offline e sulle possibili differenze tra la comunicazione mediata dal computer e quella faccia a faccia (FtF). Come affermano Derlega, Winstead, Wong e Greenspam (1987), due fenomeni presenti nella comunicazione risultano essere molto importanti e rilevabili all’interno di ogni relazione, ovvero, la Self-Disclosure e la Self-Presentation.

 

La Self-Disclosure

La Self-Disclosure e la Self-Presentation sono componenti importanti della comunicazione, sono costrutti molto legati fra di loro ma non intercambiabili (Schlenker, 1986; Johnson, 1981). Goffman (1959) descrive la Self-Presentation come il processo di gestione delle informazioni personali, la selezione di ciò che riportiamo di noi all’esterno, mentre Wheeless e Grotz (1976), definiscono la Self-Disclosure come “ogni messaggio riguardo se stessi che una persona comunica ad un’altra”; Archer (1980) fornisce una definizione della Self- Disclosure molto simile e la identifica come l’azione di rivelare informazioni personali, pensieri e sentimenti ad altri soggetti. Pertanto, la Self-Presentation implicherebbe una selezione delle informazioni riguardanti se stessi divulgate all’esterno, mentre, stando alle definizioni di Self-Disclosure, non vi sarebbe in essa alcuna selezione delle informazioni.

Tra i due fenomeni quello più facilmente identificabile e osservabile è la Self- Disclosure, infatti, Jourard (1971) afferma come per identificare tale aspetto sia necessario solamente rilevare la quantità di informazioni personali espressa nella relazione.

Nella vita di tutti i giorni la Self-Disclosure risulta essere molto importante per le sue implicazioni all’interno di ogni relazione sia essa con un individuo o un gruppo di persone. È importante all’interno di semplici interazioni con gli amici, con i famigliari o con gli estranei, e, soprattutto, all’interno di quelle relazioni dove l’esprimere sé stesso è determinante come nel percorso psicoterapeutico.

Permette la nascita e lo sviluppo delle relazioni (Gibbs, Ellison, & Heino, 2006), ne influenza il percorso e può trasformarne il significato (Derlega, Metts, Petronio, & Margulis, 1993). Alcune ricerche, che hanno studiato le relazioni intime tra le persone, hanno riportato come una maggiore Self-Disclosure da parte di entrambi i partner accresca l’esperienza di intimità ed essi riportino una maggiore soddisfazione nel rapporto (Laurenceau, Barrett, & Pietromonaco, 1998; Reis & Shaver, 1988). È stata considerata come una componente rilevante all’interno delle relazioni genitori-figli (Papini & Farmer, 1990). La Self-Disclosure è stata anche associata ad una maggiore autostima, ad un maggiore benessere generale e psicologico (Kernis, 2003; Kernis & Goldman, 2006), inoltre, le persone sane tendono a riportare una Self-Disclosure con più dettagli di tipo positivo che negativo (Wheeless & Grotz, 1976).

Il passaggio dallo studio della Self-Disclosure nella vita di tutti i giorni, allo studio di essa nella Comunicazione Mediata da Computer è stato breve; considerando la rilevanza della Self- Disclosure nella comunicazione Face to Face come elemento fondamentale per iniziare, sviluppare e mantenere le relazioni e, considerando la repentina diffusione della Comunicazione Mediata da Computer, alcuni ricercatori hanno indagato la variazione della Self-Disclosure anche nella comunicazione online.

 

La Self-Disclosure online: i modelli

I dati raccolti dalle ricerche hanno portato alla formulazione di modelli interpretativi volti a spiegare le variazioni tra la Self-Disclosure nella comunicazione Face to Face e nella Comunicazione Mediata da Computer.

Sproull e Kiesler (1985) hanno proposto la teoria RSC, Reduced Social Cues, secondo i quali la Comunicazione Mediata da Computer impedirebbe alle persone impegnate nell’interazione di includere tutte quelle informazioni che si agganciano alla comunicazione verbale (quali il tono di voce, gli indizi visivi, il linguaggio del corpo, l’aspetto,  la mimica, la prossemica) presenti invece nella comunicazione Faccia a Faccia (FtF), con la conseguenza, secondo tale teoria, di un generale appiattimento sociale e di una minore Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer rispetto alla FtF.

Altri autori come Lea e Spears (1992) hanno sviluppato un modello diverso da quello proposto da Sproull e Kiesler (1985). Secondo il modello SIDE (Social Identity DE-individuation di Lea e Spears), tutti gli indizi che riguardano l’identità sociale non vengono filtrati dalla comunicazione mediata, ma passano attraverso le conoscenze pregresse delle persone che hanno un’interazione al computer, oppure, tramite indicatori inclusi nei messaggi come le intestazioni e le firme elettroniche. Proprio perché la Comunicazione Mediata da Computer, al contrario di quanto postulato dalla RSC, permette il passaggio di certi indicatori sociali nonostante la scarsa larghezza di banda che è comunque intrinseca al mezzo, la Comunicazione Mediata da Computer non equalizza gli attori, non avverrebbe un appiattimento sociale della comunicazione ed una minore Self-Disclosure. Inoltre, Lea e Spears (1992) hanno rilevato che tutte le informazioni che fanno parte della comunicazione non verbale e che non possono essere direttamente trasmesse tramite E-Mail, vengono in realtà “tradotte” e inserite nel testo tramite l’impiego di emoticon o di un particolare stile di scrittura permettendo così la Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer.

Walther (1992) propone un altro modello in grado, secondo l’autore, di spiegare quali siano le dinamiche che permettono o limitano la Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer. Il suo approccio denominato SIP (Social Information Processing) al contrario del modello SIDE (Lea & Spears, 1992) si distanzia molto dagli approcci basati sugli indizi filtrati, introducendo due variabili indipendenti fondamentali, ovvero, le aspettative di future interazioni e il fattore temporale. Per quanto riguarda la prima variabile, le aspettative di futura interazione, che in genere non venivano considerate negli esperimenti di laboratorio delle precedenti ricerche sulla Comunicazione Mediata da Computer, risulterebbero, secondo invece il modello SIP, determinanti nella disponibilità dei soggetti ad aprirsi maggiormente, a ricercare maggiori informazioni l’uno dell’altro, a comportarsi a in maniera più amichevole e a cooperare nelle negoziazioni. In riferimento alla seconda variabile, l’ipotesi dei ricercatori è che, comunicando al computer, i tempi per l’espressione di comportamenti relazionali e per poter rivelare la propria identità, sono ovviamente più lunghi, ecco perché nel modello SIP viene presa in considerazione la variabile temporale.

Secondo tale approccio la Comunicazione Mediata da Computer non sarebbe meno efficace della comunicazione faccia a faccia dal punto di vista dell’interazione sociale (come teorizzato e rilevato dal modello RSC), ma solo meno efficiente a causa delle caratteristiche tecniche del computer, tra le quali: la riduzione di canali simbolici (che secondo il modello SIP, tende all’irrilevanza via via che i soggetti prendono confidenza con i nuovi strumenti) e la lentezza della digitazione che amplia il tempo degli scambi comunicativi rispetto all’interazione faccia a faccia.

Tale approccio critica direttamente i dati ottenuti dalle ricerche utilizzano il modello RSC sulla impersonalità della comunicazione, ritenendo che esse non tengono conto in modo adeguato dei tempi necessari per la Self-Disclosure. Le ipotesi dei ricercatori è stata supportata da ricerche condotte su persone geograficamente distanti, le quali cooperavano in gruppi di lavoro per diverse settimane e con molto tempo a disposizione per entrare in contatto con la tecnologia impiegata e per potersi aprire (Tosoni, 2004).

Non solo, come riportato da Walther (1992), le persone sono motivate ad adattarsi ai pochi indizi che la Comunicazione Mediata da Computer consente di trasmettere al fine di favorire la  formazione di buone impressioni nel desiderio di sviluppare rapporti interpersonali, come ad esempio rilevato nelle ricerche condotte da Cummings, Butler, e Kraut, (2002) e Wellman, Haase, Witte, e Hampton (2001), in cui le persone coinvolte potevano manipolare i due tipi di comunicazione mediata da computer (sincrona e asincrona) per soddisfare obiettivi differenti.

Successivamente alla volontà dei ricercatori di strutturare un modello univoco in grado di spiegare le variazioni rilevate nella Comunicazione Mediata da Computer rispetto alla FtF della Self- Disclosure ed alla difficoltà riscontrata nel raggiungere tale obiettivo, alcuni di essi hanno cercato di rilevare le differenze della Self-Disclosure tra Comunicazione Mediata da Computer e FtF considerando altre variabili.

In una serie di esperimenti, Bargh, McKenna e Fitzsimmons (2002) hanno trovato che gli studenti erano più facilitati nella loro Self-Disclosure in Internet che di persona (FtF). Alcuni ricercatori hanno trovato che la Comunicazione Mediata da Computer faciliterebbe lo scambio emotivo, empatico e favorirebbe una maggiore Self-Disclosure tra persone con problemi di salute, disabilità o persone con un basso livello di sostegno reale (Braithwaite, Waldron, & Finn, 1999; Maloney-Krichmar & Preece, 2005; Rice & Love, 1987; Turner, Grube, & Meyers, 2001). Altri autori Wellman et. al. (2001) rilevano che coloro che sono classificati come utenti regolari di internet non usano l’E-Mail come sostituto dell’interazione FtF, ma piuttosto come mezzo per mantenere e sviluppare le relazioni con persone distanti o per aiutare le persone che hanno già una relazione a sentirsi vicine tra di loro (Vetere et al., 2005). Parks e Floyd (1996), hanno rilevato come il processo di Self-Disclosure delle persone fosse in qualche modo accelerato all’interno della Comunicazione Mediata da Computer, e di come le persone arrivassero a parlare di dettagli molto intimi solo dopo aver scambiato due E-Mail. Bonebrake (2002), Cooper e Sportolari (1997) riportano che le persone forniscono volontariamente online informazioni su se stesse che in una simile interazione FtF non avrebbero mai fornito.

Joinson (2004) nella sua ricerca su tre gruppi di discussione diversi, ovvero, FtF, Comunicazione Mediata da Computer con indizi visivi (registrazione video) e Comunicazione Mediata da Computer in completo anonimato visivo, riportò gli stessi risultati, una maggiore Self-Disclosure nelle condizioni Comunicazione Mediata da Computer rispetto a FtF e una maggiore apertura nella condizione di completo anonimato visivo rispetto a quella registrata con video.

Bargh et. al. (2002), Tidwell e Walther (2002), riportano che la Comunicazione Mediata da Computer stimolerebbe una maggiore Self-Disclosure rispetto alla FtF. Quello che emerge dalle ricerche, sembra ripercorrere quanto ipotizzato da Rubin (1975) e Derlega e Chaikin (1977), secondo i quali le persone siano più facilitate ad aprirsi agli estranei su Internet, come nel fenomeno “dell’estraneo sul treno”, cioè, come gli individui rivelano informazioni ad uno sconosciuto sul treno che non rivelerebbero ad amici, colleghi o parenti, poiché in tal caso potrebbero intercorrere nei rischi sopra elencati. Così in rete, nella Comunicazione Mediata da Computer, l’anonimato presente potrebbe garantire ai loro utilizzatori una qualche sorta di difesa dalle loro preoccupazioni e paure di critiche sociali (McKenna, Green, & Gleason, 2002).

Secondo un’altra ipotesi, livelli più alti di Self-Disclosure online rispetto alla FtF, dipenderebbero da una maggiore esperienza nell’uso della Comunicazione Mediata da Computer: infatti le persone che utilizzano maggiormente tali mezzi di comunicazione, benché siano a conoscenza delle varie problematiche legate alla privacy, per una forte convinzione che la loro comunicazione non possa essere intercettata, non permetterebbero a tali preoccupazioni di alterare la loro Self-Disclosure (Frye & Dornisch, 2010). Secondo lo studio di Lai-yee Ma e Leung (2006), un uso frequente del programma ICQ (software di instant messaging) sarebbe, per esempio, correlato positivamente a livelli più alti di Self-Disclosure, in termini di ore per giorno e giorni alla settimana. Suggerendo che chi usa maggiormente un software di IM, in questo caso ICQ, è portato ad aprirsi e rivelare più dettagli intimi di chi lo usa meno frequentemente. Inoltre, nello stesso studio emerge come persone con un livello di educazione più alto abbiano una maggiore Self- Disclosure online.

Nel caso dei SNS (Social Network Site, ad esempio Facebook) è stato rilevato che tali ambienti rafforzano la Self-Disclosure attraverso la gratificazione sociale, come un alto numero di amici e stretti legami (Park, Kee, & Valenzuela, 2009); cosi potrebbe essere anche per la Comunicazione Mediata da Computer, dove una maggiore apertura personale potrebbe dipendere dai possibili benefici ad essa connessi (Laurenceau et al., 1998; Reis & Shaver, 1988). Alcuni studi come ad esempio quello di Taddei, Contena e Grana (2010), evidenziano l’assenza di differenze significative nella Self-Disclosure tra la Comunicazione Mediata da Computer e FtF, sottolineando invece un effetto di “riscaldamento” per cui una prima esposizione ad un interazione via Comunicazione Mediata da Computer, comporta un aumento della Self-Disclosure in una successiva interazione via FtF. Come espresso da Moghaddam (2002) ci sono altri fattori oltre la Self-Disclosure rintracciabili all’interno di una relazione che ne permettono la sua formazione ed il suo mantenimento. Secondo il ricercatore, la Simpatia sarebbe un fattore molto importante nello studio dei fenomeni sociali.

 

Le caratteristiche personali dell’individuo nella Comunicazione Mediata da Computer

Studi recenti hanno indagato come certe caratteristiche dei soggetti possono condizionare la comunicazione stessa o se l’esistenza di relazioni tra l’uso di Internet e tali caratteristiche (Qin, Yusen, Zao, & Ruogu, 2010). Emerge che con  il passare del tempo le persone siano entrate sempre più in confidenza con le nuove tecnologie, diventando così sempre più d’uso comune, non solo negli ambienti lavorativi ma anche nella propria cerchia familiare e amicale (Leung, 2002) tanto da portare le persone ad adattarsi ad esse (Walther, 1992), e che a loro volta abbiano adattato queste tecnologie (Cummings et al., 2002; Wellman et al., 2001; Lea & Spears, 1992), le quali sono usate più in base a caratteristiche personali, che in base ad effettive differenze dei mezzi di comunicazione (Leung, 2002).

Ad esempio, Joinson (2004) riporta che quando le possibilità di rifiuto sono più elevate le persone scelgono di usare l’E-Mail per comunicare rispetto alla FtF e che questo comportamento sembra legato all’autostima delle persone; tanto più è bassa l’autostima, tanto più le persone useranno la Comunicazione Mediata da Computer; al contrario, tanto più è alta la loro autostima, tanto più preferiranno una conversazione FtF. Aspetti interessanti e da considerare all’interno di in una relazione psicoterapeutica soprattutto per quei soggetti per i quali il rifiuto o il giudizio possono essere temi rilevanti a tal punto da condizionare la scelta nel richiedere o usufruire di un percorso psicoterapeutico tradizionale in caso di bisogno.

Per quanto concerne la Timidezza, emerge come offline le persone timide mettono in atto comportamenti di ritiro sociale (Cheek & Buss, 1981; Jones et al., 1986) e quindi, potrebbero esprimere livelli di Self-Disclosure più bassi di coloro che non sono timidi; secondo Mckenna et al. (2002) la Comunicazione Mediata da Computer potrebbe facilitare comportamenti sociali nelle persone che riportano alti livelli di ansia sociale.

Come indicato da Guadagno, Okdie e Eno (2008), molte sono state le ricerche presenti nella letteratura scientifica che hanno indagato gli aspetti psicologici delle persone che utilizzano Internet, come ad esempio la personalità dei soggetti (Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2003; Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2000; Leung, 2002; Scealy, Philips, & Stevenson, 2002). Come spiegano Pervin e John (1997) e Shaffer (2000), i tratti di personalità rientrano tra quelle caratteristiche di una persona che perdurano in maniera relativamente stabile durante tutta la vita, in un gran numero di situazioni e contesti diversi. Dato che Internet è diventato di largo uso e coinvolge tutti i ceti sociali, è divenuto logico studiarlo dalla prospettiva della personalità, tanto più che è un’attività generalmente libera, non obbligatoria e che quindi può riflettere motivazioni personali, valori, preferenze e altre caratteristiche dell’individuo (Landers e Lounsbury, 2006).

Inoltre, da un punto di vista di sviluppo individuale, la personalità ha una rilevanza maggiore rispetto ad altre variabili che sono state messe in relazione con l’uso di Internet, tra cui gli atteggiamenti nei confronti di internet (Lavin, Marvin, McLarney, Nola, & Scott, 1999),  l’esperienza nell’uso del PC (Blair, O’Neil, & Price, 1999), il supporto sociale (Shaw & Gant, 2002), gli stili di vita (Ho & Lee, 2001), il supporto nelle informazioni (Scull, 1999), l’ansietà nell’uso del PC (Chua, Chen, &  Wong, 1999), l’autostima (Armstrong, Philips, & Saling, 2000) e altri stati affettivi correlati all’uso del computer (Coffin & MacIntyre, 1999; Landers & Lounsbury, 2006).

Riferendosi al modello dei Big-Five di McCrae e Costa (1992), nel caso delle dimensioni di personalità sembrerebbe che alti livelli di Amicalità siano correlati con la comunicazione all’interno di Facebook e quindi una possibile maggiore Self-Disclosure (Seidman, 2013). Per la dimensione Coscienziosità emerge come essa sembrerebbe correlata negativamente con la Self-Disclosure online (Seidman, 2013; Landers & Lounsbury, 2006). L’Apertura Mentale risulta essere correlata con una maggiore Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer (Guadagno et. al., 2008; Amichai-Hamburger & Vinitzky, 2010), mentre Seidman (2013) non rileva nessuna associazione. Il Nevroticismo risulta essere correlato positivamente con alti livelli di Self-Disclosure (Seidman, 2013; Correa et al., 2010; Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2000; Ehrenberg et al., 2008). Persone con alti livelli di Estroversione riportano tendenzialmente una maggiore Self- Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer (Muscanell & Guadagno, 2012).

 

Conclusioni: Comunicazione Mediata da Computer e psicoterapia

Come esposto da alcuni autori, internet ha creato e crea un’alternativa alla psicoterapia faccia a faccia e molti psicoterapeuti utilizzano le opportunità offerte da questi strumenti nel loro lavoro (Amichai-Hamburger et. al, 2014).

Specialmente la CBT (Terapia Cognitiva-Comportamentale) sta puntando molto nella ricerca sulle terapie online (Barak, Hen, Boniel-Nissim, & Shapira 2008; Speck et al., 2007). In una review di Amichai-Hamburger e colleghi del 2014, vengono elencati tutti gli studi a favore e contro la possibilità di integrare, alternare o sostituire la terapia FtF con quella Mediata da Computer e altri tipi di e-therapy.

Diversi sono i punti discussi, uno tra questi la capacità della Comunicazione Mediata da Computer di far passare quei segnali verbali e non verbali molto importanti nella relazione terapeutica, per questo è stato dato molto spazio in questo articolo a quei modelli che hanno cercato di determinare se effettivamente la Comunicazione Mediata da Computer favorisca o meno la trasmissione di questi segnali.

Molte sono le ricerche che hanno verificato l’efficacia delle psicoterapie online (Amichai-Hamburger et al., 2014). Alla luce di ciò, dei risultati raggiunti, dalle opportunità che Internet e la Comunicazione Mediata da Computer offrono e potrebbero offrire per la psicoterapia e considerando che in Italia rispetto ad altri paesi, le linee guida tracciate dall’Ordine nazionale degli psicologi tendono a essere comprensibilmente e in maniera precauzionale più restrittive nell’adozione della Comunicazione Mediata da Computer nella psicoterapia, risulta di primaria importanza continuare la ricerca in tal senso considerando anche gli aspetti strutturali e tecnologici della rete ed anche culturali specifici del nostro paese.

L’insight di malattia nei pazienti schizofrenici: un test per incrementarlo

Un nuovo studio del “Centre for Addiction and Mental Health”, ha dimostrato che un test dell’equilibrio che stimola una parte del sistema nervoso utilizzando dell’acqua fredda all’interno dell’orecchio sinistro, potrebbe alleviare temporaneamente la mancanza d’insight nei pazienti schizofrenici.

 

Il test che aumenta l’insight nei pazienti schizofrenici

Più della metà dei pazienti con schizofrenia hanno una ridotta capacità d’insight riguardo alla propria condizione; non credono, cioé, di essere affetti da patologia. Questa mancanza d’ insight è la principale ragione del perché molti pazienti rifiutino di seguire dei trattamenti medici o prendere regolarmente dei medicinali. Le conseguenze possono essere una cattiva condizione di salute, un rischio più alto di essere ospedalizzati o di esperire instabilità all’interno delle mura domestiche.

Un nuovo studio del “Centre for Addiction and Mental Health”, ha dimostrato che un test dell’equilibrio che stimola una parte del sistema nervoso utilizzando dell’acqua fredda all’interno dell’orecchio sinistro, potrebbe alleviare temporaneamente la mancanza d’insight.

Il Dr.Philip Gerresten, uno scienziato clinico del Campbell Familiy Mental Health Research Institute, ha concepito l’idea di utilizzare questo test sui soggetti schizofrenici, basandosi sui risultati promettenti ottenuti con i pazienti paralizzati con danno da stroke, che avevano perso la consapevolezza della propria paralisi.

Il test, chiamato “Stimolazione vestibolare calorica”, consiste nell’irrigare il canale uditivo con dell’acqua di varie temperature. Il test è comunemente usato per valutare il sistema vestibolare corporeo o l’equilibrio. La procedura può stimolare diverse aree del cervello, incluse le regioni specifiche associate con la mancanza d’insight, una connessione che è stata confermata da studi di neuroimmagine.

Nei pazienti affetti da stroke con l’emisfero destro danneggiato, l’acqua fredda conduce ad una temporanea consapevolezza della propria paralisi. I nuovi risultati ottenuti utilizzando la procedura tra i pazienti schizofrenici, sono stati promettenti.

L’acqua fredda nell’orecchio sinistro ha aumentato significativamente l’insight e la consapevolezza dei pazienti riguardo alla schizofrenia, che abbiamo misurato 30 minuti dopo il test, confrontandolo con un falso trattamento o placebo di acqua a temperatura ambiente“, sostiene Gerresten. Poco dopo il trattamento, tuttavia, l’insight è diminuito.

Nell’orecchio destro, il trattamento è sembrato avere l’effetto opposto, diminuendo la consapevolezza nei soggetti schizofrenici.

I ricercatori hanno utilizzato la procedura su 16 pazienti schizofrenici, che avevano un grado medio/grave di mancanza d’insight di malattia. Ai soggetti era assegnata, in ordine casuale, una sola di tre condizioni: acqua fredda a 39.2° F (4°C) nell’orecchio sinistro; acqua fredda nell’orecchio destro ed un finto trattamento in cui la temperatura dell’acqua corrispondeva a quella corporea.

L’insight di malattia dei pazienti era poi valutato 30 minuti dopo il test, utilizzando la scala “VAGUS Insight into Psychosis”, una misura creata per rilevare cambiamenti dell’insight in un lasso di tempo breve.

Con questi promettenti risultati, potremo intraprendere una nuova ricerca per rendere più lungo il periodo di consapevolezza, utilizzando una nuova tecnica che renderà la procedura più comoda“, sostiene il Dr. Gerresten.

Il ricercatore sta testando una nuova tecnica, un casco per la stimolazione vestibolare, con degli auricolari la cui temperatura è controllata. Al contrario del test dell’acqua, questa tecnica è stata progettata per uso domestico e non richiede acqua o uno specialista formato per applicarla. I partecipanti dello studio utilizzeranno la procedura per diversi giorni consecutivi, per vedere se condurrà ad un miglioramento prolungato nell’insight di malattia.

Il neurocostruttivismo in ricordo di Annette Karmiloff-Smith

Il 19 dicembre 2016 è venuta a mancare la fondatrice ed esponente del neurocostruttivismo odierno, Annette Karmiloff-Smith . Il suo lavoro ha ispirato e continua a ispirare tanta ricerca psicologica soprattutto nel campo dello sviluppo.

 

Tantissimi sono i suoi contributi e sarebbe impensabile e riduttivo cercare di ricordarli tutti. Con questo articolo, a pochi mesi dalla morte di Annette Karmiloff-Smith, si cerca di cogliere la portata innovativa del suo pensiero attraverso un piccolo scorcio della sua prospettiva teorica.

Partiamo da una domanda: come è organizzata la mente umana?

 

Annette Karmiloff-Smith: verso la mente modulare e oltre

Siamo comodamente seduti ad ascoltare la nona sinfonia di Beethoven, che costituisce uno “stimolo-input” per il nostro cervello. Il nostro sistema uditivo è il primo a codificare la melodia in un segnale “comprensibile” e manipolabile dal sistema cognitivo, segnale che viene inviato a delle determinate aree del nostro cervello. Queste elaborano lo stimolo selezionato in maniera specifica ed automatica e inviano a loro volta il segnale al sistema centrale, deputato ai processi decisionali, alle attività di monitoraggio, controllo e pianificazione dell’azione. Qui le informazioni vengono integrate e viene emesso un output comportamentale: ci godiamo l’ascolto di quella che viene riconosciuta come una melodia musicale.

Questo esempio rappresenta l’ipotesi modulare della mente umana, che Jerry Fodor ha ben descritto nel libro “La mente modulare”. L’autore ipotizza che la mente si caratterizzi per la presenza di tre componenti: trasduttori (sistema uditivo, in questo caso); moduli (aree specifiche come ad esempio l’area di Broca e di Wernicke); sistemi centrali (corteccia frontale e cingolata).

A tal proposito Annette Karmiloff-Smith, nel libro “Oltre la mente modulare” si chiede: può questa architettura della mente essere estesa ad una mente in via di sviluppo, ovvero ad una mente estremamente plastica? E quali implicazioni ha questa visione per la clinica dei disordini dello sviluppo?

La piccola rivoluzione operata da questa autrice prevede, in primis, un radicale cambio di prospettiva: è chiaro che questa visione statica a “compartimenti stagni” della mente umana può essere adatta alla descrizione di un cervello maturo, adulto, ma non si addice al cervello del bambino che subisce numerosi cambiamenti architettonici, strutturali e funzionali nel corso del tempo e in maniera continua. È necessario andare oltre questa prospettiva modulare: il cervello del bambino ha bisogno di una spiegazione non statica ma dinamica, in grado di cogliere il suo essere in divenire.

A tal proposito è importante inquadrare il concetto di “vincolo” che Annette Karmiloff-Smith propone in sostituzione a quello di modulo.

 

Il vincolo: definizione e sfaccettature

Secondo Annette Karmiloff-Smith il vincolo è una predisposizione biologicamente innata, “dominio rilevante” che conduce lo sviluppo verso una traiettoria tipica, per intenderci nella zona a norma della curva gaussiana, ma che può essere deviato da tantissime piccole alterazioni. Cosa vuol dire “dominio rilevante”? In un suo lavoro del 1998, Annette Karmiloff-Smith descrive come un vincolo dominio-rilevante abbia effetti a tre livelli: cerebrale, comportamentale e mentale.

Nel neonato a livello cerebrale si osserva, grazie alle tecniche di neuroimaging, un’attivazione molto diffusa interemisferica e intraemisferica, che si localizza e si specializza col passare del tempo.

A livello comportamentale osserviamo delle predisposizioni innate ad apprendere in maniera dominio-generale e dominio specifica.

A livello cognitivo si osserva una predisposizione innata all’elaborazione di taluni stimoli, prevalentemente di natura sociale (ad esempio i volti umani, cfr. esperimenti di Goren, Sarty & Wu,1975; Morthon & Johnson, 1991; Valenza, Simion, Macchi-Cassia & Umiltà, 1996). Un esempio di tipo cognitivo lo possiamo trarre dal modello evolutivo dell’HIP, nei meccanismi per estrarre invarianti: la categorizzazione, lo “statistical learning” (sistema per cogliere co-occorrenze statisticamente più frequenti) e il “rule learning” (sistema di apprendimento di regole), sono meccanismi “dominio-generali” che permettono al bambino come all’adulto di dare un senso al mondo circostante.

Senza addentrarci troppo in aspetti tecnici, ecco un esempio di come agisce un vincolo, attraverso processi di localizzazione e specializzazione e di come si passa da un “momento dominio-rilevante” ad uno “dominio-specifico”: a 3 giorni di vita il bambino mostra una preferenza per un volto rispetto a un non volto (ovvero ad uno stimolo non sociale), ma l’attivazione neurale riscontrata è molto diffusa in entrambi gli emisferi. A sei mesi di vita si nota che l’attivazione neurale è localizzata unicamente all’emisfero destro ed è scomparsa nel sinistro. A un anno di vita l’attivazione corrisponde ad una zona molto più ristretta dell’emisfero destro nel suo lobo temporale. Alla fine dell’età scolare l’attivazione è ristretta ad una specifica zona: l’area fusiforme per il riconoscimento dei volti, la stessa che si attiva in un cervello maturo.

Dunque, riformuliamo la domanda: può l’ipotesi modulare della mente descrivere in maniera esaustiva la plasticità di una mente in via di sviluppo? Appare chiaro che una visione modulare non possa essere applicata alla mente del bambino, molto più interconnessa e  “neurodiversa” sotto tanti aspetti! Ci vuole una prospettiva “prospettica” per analizzare il bambino, che non prenda come punto di partenza dell’analisi il modulo maturo dell’adulto (nel nostro esempio: l’area fusiforme), ma piuttosto che parta, come dice Annette Karmiloff-Smith, dallo sviluppo stesso per spiegare lo sviluppo.

 

Ripercussioni sulla clinica

Mettiamo il caso che un bambino, all’età di sei anni, mostri scarse abilità comunicative e linguistiche, in particolar modo un lessico molto povero rispetto ai coetanei e problemi a livello fonologico e sintattico. Non risulta avere problemi a livello uditivo a possiede un QI nella norma. Con questo quadro sintomatologico è molto probabile che al bambino venga diagnosticato un disturbo specifico del linguaggio. Ci si chiede: può un disturbo dello sviluppo linguistico essere ricondotto ad una disfunzione del modulo del linguaggio così come prevede l’ipotesi modulare della mente?

La neuropsicologia classica interverrebbe solo dopo una diagnosi attivando una riabilitazione del modulo disfunzionale senza prevedere nessun intervento sui moduli preservati. La prospettiva neurocostruttivista invece è totalmente differente: ricerca delle atipie nella traiettoria evolutiva in fase molto precoce. Si va a cercare la “deviazione” dal percorso tipico in un momento maggiormente plastico nel quale è possibile fornire dei supporti che possano limitare un decorso atipico.

Con ciò non si vuole dire che si può cambiare il corso della genetica: un bambino affetto da sindrome di Williams, ad esempio, possiede una microdelezione del cromosoma 7 e questo è un fatto immodificabile che provoca necessariamente degli effetti a cascata sul successivo sviluppo, però agire in un momento nel quale un cervello ha una fortissima interconnessione è sicuramente più fruttuoso che agire quando il cervello è modularizzato. Agire precocemente quando sono ancora presenti vincoli “dominio-rilevanti” significa agire su predisposizioni cognitive più generali che solo in seguito si specializzeranno e localizzeranno.

Dove è possibile osservare queste atipie? Ad esempio, in alcuni meccanismi cognitivi di base quale il focus attentivo (si veda lo studio di A. Karmiloff-Smith “Development itself is the key to understanding developmental disorders”, 1998), oppure nella postura (si veda lo studio di Lindsay e collaboratori “Posture Development in Infants at Heightened versus Low Risk for Autism Spectrum Disorders”, 2013 ), e in altri possibili “marcatori” o, come dice E. Valenza, “campanelli d’allarme” che possano segnalare la presenza di una piccola deviazione dalla traiettoria tipica dello sviluppo.

 

La metafora del paesaggio epigenetico

Il neurocostruttivismo in ricordo di Annette Karmiloff-Smith - Paesaggio epigenetico

C.H. Waddington (1940) – La metafora del paesaggio epigenetico

 

L’ immagine sovrimpressa è la copertina di un’opera di C.H. Waddington del 1940 e rappresenta la metafora del paesaggio epigenetico, che risulta particolarmente adatta a descrivere la prospettiva neurocostruttivista. La pallina (ovvero lo sviluppo) può percorrere infinite traiettorie e subire diverse deviazioni all’interno del suo percorso. Quando la pallina giunge in fondo alla sua traiettoria si ha l’esito fenotipico, prodotto dall’interazione tra geni e ambiente.

In termini squisitamente neurocostruttivisti, i vincoli, dunque alcune predisposizioni innate, innescati dall’ambiente filogenetico e ontogenetico determinano una traiettoria unica che è sempre bidirezionale e probabilistica.

L’originalità del neurocostruttivismo di Annette Karmiloff-Smith è stata quella di sottolineare come sia estremamente più interessante e produttivo studiare la “pallina” mentre scende a valle, guardarne le piccole deviazioni e fornire dei supporti educativi in itinere, piuttosto che analizzare la pallina quando è già in fondo, a percorso concluso.

Le intuizioni di Annette Karmiloff-Smith hanno aperto un varco enorme di possibilità per la ricerca sullo sviluppo e il cambiamento cognitivo.

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