La forza della terapia di coppia può risiedere proprio nella sua possibilità di accedere alle modalità in cui, un tempo, si sono intrecciate due personalità separate. Quando le coppie entrano nello studio del terapeuta, questi ha l’impressione di stare assistendo alla scena di un dramma, con un suo ritmo ed un suo contenuto, che viene rappresentato davanti ai suoi occhi.
I bisogni individuali prima della famiglia nella società odierna
Quando un amore va in acido e poi finisce, la domanda ricorre, soprattutto nei figli. Torneranno mai insieme mamma e papà? La risposta non è semplice. Non esistono statistiche ufficiali. Vi sono quelle delle separazioni e dei divorzi, ma non quelle delle riconciliazioni, che, probabilmente, sono ben più rare dei primi.
La psicoterapia di coppia, che potrebbe avere come obiettivo la riconciliazione coniugale, pur essendo praticata in tempi più lontani, è diventata oggetto specifico di interesse soltanto a partire dagli anni ’70, quando esplode il dramma della riuscita o del fallimento degli individui che fanno coppia e della coppia in quanto tale.
Fino a tempi relativamente recenti, la realizzazione di una persona, sia essa maschio o femmina, era legata al fare famiglia e all’avere unafamiglia. Oggi le cose sono chiaramente cambiate e se di realizzazione si può parlare, è quella individuale ad essere principalmente perseguita. In primo piano vi sono ora le persone, con i propri sogni e bisogni e non più i ruoli da esse tradizionalmente ricoperti nella famiglia. A furia di perseguire gli interessi individuali e di concettualizzare il divorzio come “male minore” rispetto a una relazione falsa e conflittuale, nella quale i figli “soffrono di più”, si è giunti da più parti alla conclusione che la fine di un rapporto coniugale non è altro che una fase del ciclo di vita, da annoverare fra gli eventi normativi, un fatto-accadimento normale (Andolfi, M., Cigoli, V., 2003).
Il divorzio non è prerogativa della nostra civiltà, ma siamo solo noi ad averne fatto uno stile di vita, ad avanzare idee come “l’accordo prematrimoniale”, il divorzio “breve” o, per dirla con Lemaire (2002), il divorzio “all’acqua di rose”. Tuttavia la realtà è che il divorzio libera “forze aggressive drammatiche” (Andolfi, M., Cigoli, V., 2003) auto ed etero dirette e costituisce invariabilmente una transizione di vita assai complessa.
La terapia di coppia: una rappresentazione in vivo del conflitto coniugale
La forza della terapia di coppia può risiedere proprio nella sua possibilità di accedere alle modalità in cui, un tempo, si sono intrecciate due personalità separate. Piuttosto che cercare di sbrogliare la matassa motivazionale di ciascun partner, occorre creare un nuovo tessuto condiviso. Quando le coppie entrano nello studio del terapeuta, questi ha l’impressione di stare assistendo alla scena di un dramma, con un suo ritmo ed un suo contenuto, che viene rappresentato davanti ai suoi occhi.
Il dramma è di un genere specifico, comico o romantico, e la rappresentazione della coppia è resa possibile dalla presenza terapeutica. Considerare le coppie come attori di un dramma è un’utile metafora per riflettere sull’esperienza condivisa che una coppia, o una famiglia, porta al terapeuta. Le coppie e le famiglie arrivano dunque con un dramma in corso, con una storia che si sta svolgendo. Una caratteristica unica della terapia di coppia è che, a differenza del “parco giochi transferale” della terapia individuale di cui parla Freud, in cui l’analista rappresenta l’effige dell’oggetto assente, la coppia porta al terapeuta la relazione reale: i membri sono costretti dalla reciproca presenza a mettere in atto le loro interazioni consuete.
Le coppie che iniziano a descrivere un loro recente conflitto, spesso lo reinterpretano in favore del terapeuta/spettatore. Ciò che la terapia di coppia/familiare e il dramma hanno in comune non è soltanto la “finzione”, ma anche lo straordinario, infinito e ricorrente gioco fra ciò che è reale e ciò che è immaginario. Proprio come il teatro, anche le relazioni familiari e di coppia sono un misto di realtà e finzione. In qualità di regista, come notato anche da Andolfi (1981), il terapeuta porta avanti il dramma e spesso un lieve cambiamento nella storia o nella narrativa può comportare molti spostamenti della vita relazionale.
È qui che diviene evidente la creatività dell’intervento. I partner vengono incoraggiati a “recitare” con nuove possibilità in qualsiasi ambito: comportamentale, affettivo, ideativo. La coppia fa un’esperienza simile a quella degli attori in quanto, pur restando chi si è, ci si trasforma in qualcuno in parte sconosciuto, che si rifà però al sé familiare.
Così, mentre i partner si percepiscono come i personaggi di una storia, che sovrasta i loro sé individuali, il terapeuta fa da testimone o da spettatore di questa espansione. Nel presentare le interazioni e i pattern ridondanti a un testimone coinvolto, ma neutrale, la coppia avverte la possibilità di una nuova prospettiva, così come gli attori che, pur recitando lo stesso ruolo ogni sera, rispondono alle sottili reazioni del pubblico.
La psicoeducazione nella terapia di coppia
Seguendo un approccio psicoeducativo, si può affermare che le coppie più disfunzionali si mostrano fondamentalmente disinformate su quali siano gli ingredienti di una relazione sana (Chambers, 2012). La psicoeducazione di coppia deve essere dunque mirata a fornire ai partner, ove ne fossero sprovvisti, informazioni basilari, come nella tradizione psicoeducativa, sulle caratteristiche, individuali e duali, di una relazione di coppia funzionale; ma non può limitarsi a questo, pena un’assoluta inefficacia, bensì deve focalizzarsi anche sull’hic et nunc della coppia, sugli ostacoli di ordine pratico che ne impediscono la funzionalità, sulla comunicazione coniugale ma anche parentale e familiare, sulle cognizioni e/o emozioni disfunzionali di ciascun partner, sugli altri sistemi e sotto-sistemi familiari, organizzativi e sociali che influiscono sulla coppia.
Vi è poi la psicoeducazione alla comunicazione, il cui scopo è quello di aiutare la coppia ad accrescere l’empatia reciproca e la “connessione”, vale a dire la capacità di sentirsi in sintonia con il coniuge. Secondo Lukas (1987), «la famiglia è tanto più sana e stabile quanto più i singoli familiari sono in grado di accordare le funzioni che adempiono in seno alla famiglia alle condizioni degli altri membri».
La coppia armonica e l’importanza di gestire il conflitto
Per un sano sviluppo dei membri è molto importante che sia presente in famiglia una coppia armonica, capace di fronteggiare le situazioni in una maniera unitaria e funzionale. Una coppia sta bene quando «riesce ad adattarsi alle esigenze connesse con il processo evolutivo dei due individui che la compongono; non solo adattarsi, ma favorirne lo sviluppo. Ciò avviene quando ciascuno è in grado di utilizzare lo scambio con l’altro in una prospettiva evolutiva che li riguardi entrambi» (Andolfi, 1999). Il momento di grande maturazione è legato alla capacità di guardare l’altro al di là di se stesso. In tal senso, imparare a guardare l’altro nella coppia significa imparare a vedere se stessi (Altomonte, 2016). In tale prospettiva, «ogni familiare è risorsa per la crescita personale di sé e dell’altro e, d’altra parte, la crescita personale di ciascuno è obiettivo per sé e per l’altro» (Bellantoni, 2010).
La coppia armonica, di conseguenza, non è quella che non vive mai la dimensione del conflitto, ma è quella che sa gestirlo, quella che sa plasmarsi a seconda delle situazioni e degli eventi, senza mai perdere di vista la crescita propria e della propria famiglia. Per fare ciò non bisogna mai dimenticare il pensiero di Frankl (2001): «La porta della felicità si apre solo verso l’esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla ancora di più. Chi insegue la felicità non fa che allontanarla di più, chi dà la caccia al piacere non ottiene che di farlo fuggire più lontano». L’armonia non è qualcosa che va ricercato all’interno di sé, ma va colto nell’altro. Con queste premesse il “noi” ne trarrà beneficio. Una coppia armonica sarà predittiva e propedeutica ad una maggiore possibilità di un “essere educante” coeso, unitario, in favore della prole (Altomonte, 2016).
Ciò che impariamo oggi influenza i nostri apprendimenti futuri
Lo studio, condotto da Matthew Shapiro, Professore di Neuroscienze presso la Scuola di Medicina Icahn, ha indagato la flessibilità ed interferenza della memoria, approfondendo i meccanismi attraverso i quali il cervello interpreta gli eventi ed anticipa i loro possibili risvolti.
I ricordi depositati in memoria influenzano l’apprendimento di nuove informazioni
La nostra corteccia prefrontale influenza la formazione dei ricordi modulando l’attività dell’ippocampo, una struttura cruciale per la memoria. I neuroni della corteccia prefrontale “insegnano” ai neuroni dell’ippocampo ad identificare informazioni nuove lasciandosi guidare da predizioni che si basano su informazioni analoghe depositate in memoria. In poche parole, ciò che si impara nel presente guiderà i futuri apprendimenti, secondo quanto emerso nella ricerca condotta presso la Scuola di Medicina Icahn sita all’Ospedale di Mount Sinai (New York City) e pubblicata sulla rivista Neuron.
Le aree cerebrali coinvolte nei processi di memorizzazione
Lo studio, condotto da Matthew Shapiro, Professore di Neuroscienze presso la Scuola di Medicina Icahn, ha indagato la flessibilità ed interferenza della memoria, approfondendo i meccanismi attraverso i quali il cervello interpreta gli eventi ed anticipa i loro possibili risvolti.
L’ippocampo è una struttura del lobo temporale necessaria per ricordare eventi recenti: ad esempio, il luogo dell’ultimo pasto. La corteccia prefrontale è, invece, la sede dove il cervello utilizza il contesto per scegliere tra più alternative sulla base di regole apprese, come ad esempio sapere che prima di attraversare la strada di norma bisogna guardare prima a sinistra e poi a destra, ma che, al contrario, bisogna guardare prima a destra e poi a sinistra se ci si trova in Gran Bretagna. Senza queste regole, i ricordi interferirebbero gli uni con gli altri e le predizioni basate sulla memoria risulterebbero inaccurate.
In condizioni non patologiche, gli individui confrontano rapidamente i loro ricordi con gli obiettivi presenti nell’ambiente per scegliere, in modo coerente, il susseguirsi delle azioni da mettere in pratica. Questa flessibilità cognitiva richiede un’interazione tra la corteccia prefrontale e l’ippocampo.
Ricerche precedenti hanno indicato che le interazioni tra queste due regioni cerebrali sono danneggiate in molte patologie neuropsichiatriche, quali schizofrenia, depressione e disturbo da deficit dell’attenzione, senza però chiarire i meccanismi che le regolano.
[blockquote style=”1″]Volevamo capire come il nostro cervello impari a pensare prima e quali siano i meccanismi che utilizzano il contesto per richiamare eventi, predire possibili risultati e prendere delle decisioni. Ad esempio, come può il cervello sapere che si risponde ad un telefono che squilla se si è a casa propria, ma non lo si fa a casa di altri?[/blockquote] ha affermato il Dr. Shapiro.
“Noi abbiamo scoperto che le regole segnalate dalla corteccia prefontale mediale insegnano all’ippocampo a distinguere gli obiettivi. Sapevamo già che le cellule dell’ippocampo predicono quale memoria utilizzare attraverso una codifica della situazione, mandando impulsi a varie frequenze. Abbiamo però imparato che rendere inattiva la corteccia prefrontale riduce la codifica della situazione da parte dell’ippocampo. Inoltre, più la corteccia prefrontale altera l’attività ippocampale, più velocemente si passa alla regola successiva.”
Il nuovo meccanismo scoperto da questo studio potrebbe migliorare la comprensione di determinate condizioni psichiatriche concernenti le interazioni tra la corteccia prefrontale e l’ippocampo e contribuire alla creazione di nuovi trattamenti ad hoc. Un’altra ricerca sta investigando se gli stessi meccanismi descritti in questo studio esistono anche tra l’ippocampo e altre strutture prefrontali.
L’uso delle tecniche di neuroimmagine nella scelta del trattamento della depressione
L’utilizzo di tecniche di neuroimmagine volte alla misurazione del livello di connettività funzionale tra diverse aree sarebbero utili per l’identificazione della migliore linea di intervento nel trattamento della Depressione.
In un recente studio, Dunlop e collaboratori della Emory University School of Medicine di Atlanta hanno evidenziato, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), come la presenza di un’attivazione cerebrale ben specifica a livello della corteccia cingolata subcallosale (SCC) possa aiutare i clinici ad identificare la tipologia di intervento migliore, tra psicoterapia e antidepressivi, per persone affette da depressione.
La corteccia cingolata subcallosale è una porzione della corteccia cingolata anteriore (ACC), area da tempo nota per le vaste interconnessioni con aree quali insula, corteccia prefrontale, amigdala, ipotalamo e tronco encefalico, che la rendono un’area estremamente importante per quanto riguarda la funzionalità del sistema simpatico e parasimpatico, in quanto deputata, tra le altre cose, alla connotazione emotiva degli stimoli in entrata, all’elaborazione delle emozioni e all’integrazione di aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali.
Tecniche di neuroimmagine per la scelta del trattamento della depressione: lo studio PReDICT
Inizialmente lo studio, denominato PReDICT (Predictors of remission in depression to individual and combined treatments; Dunlop et al., 2012), aveva coinvolto un campione di 400 persone tra i 18 e i 65 anni che, nonostante soddisfacessero i criteri per un Disturbo Depressivo Maggiore (DDM), non erano mai stati curati per un disturbo dell’umore. I soggetti partecipanti erano quindi stati assegnati in modo randomico ad un trattamento di 12 settimane di tipo farmacologico con antidepressivi (Duloxetina o Escitalopram) o ad una psicoterapia di orientamento cognitivo-comportamentale (CBT, 16 sessioni).
All’inizio dello studio, prima dell’assegnazione ad uno dei due trattamenti, i partecipanti erano stati sottoposti ad una valutazione di tipo biologico comprensiva, tra i vari testi, anche di una scansione cerebrale di tipo funzionale (fMRI). La valutazione è stata poi ripetuta alla fine delle 12 settimane.
Una volta trascorso il periodo iniziale di trattamento, i soggetti in via di remissione hanno preso parte ad una seconda fase di follow-up, costituita da 7 incontri a cadenza trimestrale, per tenere sotto controllo eventuali ricadute. Diversamente, ai soggetti che non mostravano miglioramenti apprezzabili, veniva proposto, indipendentemente dal gruppo di appartenenza iniziale, di prendere parte ad un trattamento incrementale, dato dalla combinazione di CBT e antidepressivi, per ulteriori 12 settimane.
Le tecniche di neuroimmagine utilizzate, scansioni fMRI, sono così state utilizzate come punto di partenza per poter valutare la presenza o meno di differenze nell’attivazione cerebrale sulla base del tipo di trattamento ricevuto e dell’esito (remissione sintomatologica vs. mancanza di remissione).
Dalle analisi è così stato possibile notare come il grado di connettività funzionale della SCC con altre tre aree cerebrali (corteccia prefrontale ventrolaterale anteriore sinistra/insula, corteccia prefrontale ventromediale sinistra e mesencefalo dorsale) sembri essere associato all’esito del trattamento. Nel complesso, una connettività funzionale positiva (il segno della connettività complessiva è dato dalla somma delle connettività funzionali tra la SCC e le altre tre aree prese singolarmente) tra la SCC e le altre aree sembra essere associata ad una remissione sintomatologica in caso di psicoterapia, ma ad una mancanza di efficacia del trattamento farmacologico. D’altro canto, una connettività funzionale negativa sembra associarsi ad una remissione in seguito all’assunzione di antidepressivi e ad una mancanza di efficacia della CBT.
Gli autori affermano quindi che, così come esistono diverse tipologie di cancro, esistono anche diversi tipi di depressione che richiedono cure altrettanto differenziate e specifiche. Sulla base di quanto emerso recentemente, sembra che le tecniche di neuroimmagine, nella fattispecie la risonanza magnetica funzionale, possano essere utilizzate proprio per operare questa differenziazione.
Sulla base della scansione cerebrale sarebbe così possibile abbinare in modo efficace le diverse tipologie di pazienti affetti da depressione con i trattamenti per loro più efficaci, evitando al contempo quei trattamenti che difficilmente potrebbero apportare qualche beneficio.
Attualmente, le linee guida per il trattamento della depressione in adulti dai 18 anni in su affermano che la scelta della modalità di cura dovrebbe tenere in considerazione i bisogni e anche le preferenze dei pazienti. In questo senso, i pazienti affetti da depressione dovrebbero avere l’opportunità di prendere decisioni consapevoli circa il proprio trattamento (NICE, 2009). Nonostante questo, però, Dunlop e collaboratori hanno potuto notare come le preferenze di trattamento dei pazienti, così come l’età, il genere o la provenienza culturale (ad es. ispanica, afroamericana, …), siano solo debolmente associate all’esito; più che il livello di miglioramento sintomatologico, le preferenze sembrerebbero essere in grado di predire in modo statisticamente significativo il drop-out al trattamento.
In conclusione, più che fare affidamento sugli specifici sintomi o sulle preferenze dei pazienti, sembra essere estremamente rilevante, nella scelta di un trattamento che sia il più possibile personalizzato e tailored, l’identificazione di caratteristiche biologiche e neurofunzionali ben specifiche.
Quanto messo in evidenza da Dunlop e collaboratori risulta essere in linea con quanto già ottenuto precedentemente da Kozel e collaboratori dell’Università del Texas.
Il reminiscing nella diade genitore-bambino: condividere esperienze vissute assieme
Discutere di esperienze passate, che hanno visto coinvolta la diade, è un’attività frequente che ha inizio durante l’età prescolare e risulta essere un’attività comune all’interno dei contesti familiari (Nelson, 1996). A tal proposito, tra i diversi tipi di conversazioni diadiche assume particolare rilievo il reminiscing, conversazione tra bambino e caregiver riguardante eventi del passato vissuti insieme (Reese & Brown, 2000).
Laura Guidotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA
Lo sviluppo del bambino nei primi anni di vita
I primi anni di vita delbambinohanno un’importanza fondamentale per l’acquisizione e il consolidamento di abilità fisiche, cognitive e socio-emotive (Wareham & Solmon, 2006). In particolare, durante l’età prescolare, emergono importanti capacità nel bambino, quali: consapevolezza di sé, capacità narrativa e competenza emotiva. Lo sviluppo di tali abilità consente al bambino di instaurare relazioni significative nel contesto di appartenenza e di collocare la propria persona in relazione agli altri.
Proprio durante questo periodo di vita genitori e bambini cominciano, in maniera sempre più frequente, ad intavolare conversazioni tra di loro su vari aspetti della vita quotidiana vissuti insieme. A tal proposito, un assunto fondamentale della psicologia dello sviluppo riguarda il fatto che le interazioni genitore-bambino, in generale, e le conversazioni diadiche tra essi, in modo più specifico, costituiscono un importante contesto di sviluppo (Fivush, 2007; Laible & Song, 2006). Questa idea è radicata in diverse formulazioni teoriche, ma soprattutto nella teoria socio-culturale di Vygotskji (1978), il quale sosteneva che tutte le abilità si sviluppano innanzitutto sul piano interpersonale nelle interazioni tra genitori e bambini piccoli. Tale assunto è stato ripreso da Bruner (1990), il quale ha analizzato le relazioni sociali che il bambino stabilisce precocemente con chi si prende cura di lui, sottolineando come i processi mentali del bambino abbiano un fondamento sociale.
In linea con tali prospettive teoriche le conversazioni riguardanti gli stati interni come, ad esempio, emozioni, desideri e valutazioni rivestono un ruolo importante nello sviluppo di competenze socio-cognitive, tra cui la teoria della mente (Adrián, Clemente, & Villanueva, 2007; Reese & Cleveland, 2006), la competenza emotiva (Taumoepeau & Ruffman, 2006), i comportamenti pro-sociali e le relazioni positive (Laible, 2004), oltre ad una maggior comprensione di sé (Reese, Bird, & Tripp, 2007; Welch-Ross, Fasig, & Farrar, 1999).
Le conversazioni sono favorite dallo sviluppo della competenza linguistica e narrativa del bambino che gli consentono di narrare e organizzare le proprie memorie, imparando forme adeguate per raccontare la propria esperienza e per rappresentarla a se stesso (Bruner, 1990; Fivush, 1993). Inoltre, è importante sottolineare come durante le conversazioni il bambino non sia passivo, bensì attivo nella costruzione di una narrazione condivisa.
Il reminiscing: discutere di esperienze passate vissute dal bambino e il caregiver
Discutere di esperienze passate, che hanno visto coinvolta la diade, è un’attività frequente che ha inizio durante l’età prescolare e risulta essere un’attività comune all’interno dei contesti familiari (Nelson, 1996). A tal proposito, tra i diversi tipi di conversazioni diadiche assume particolare rilievo il reminiscing, conversazione tra bambino e caregiver riguardante eventi del passato vissuti insieme (Reese & Brown, 2000).
A partire dagli anni ’90 del XX secolo lo studio del reminiscing è stato affrontato da molti studiosi, i quali si sono focalizzati prevalentemente sulle conversazioni tra bambini di età prescolare e le loro madri. Nonostante ciò, seppur siano numericamente inferiori, sono presenti anche lavori che analizzano lo stile di reminiscing paterno, evidenziando differenze e analogie rispetto a quello materno, soprattutto relativamente ad aspetti emotivi contenuti nelle conversazioni sul passato (Fivush, Brotman, Buckner, & Goodman, 2000; Fivush & Buckner, 2003; Reese, Haden, & Fivush, 1996).
Per quanto riguarda il reminiscing è presente una ricca letteratura, che evidenzia come esso sia un contesto importante per lo sviluppo di diverse competenze nel bambino, tra cui memoria autobiografica, competenza emotiva e conoscenza di sé (Fivush, Haden, & Reese, 2006). Esso permette al bambino di affrontare esperienze emotive, anche con valenza negativa (Fivush, 2011; Laible, 2004; Reese & Cleveland, 2006; Sales & Fivush, 2005), favorendo una condizione di benessere emotivo e psicologico.
Stili materni di reminiscing
Le conversazioni riguardanti eventi vissuti insieme dalla diade madre-bambino possono diventare attività di routine, tuttavia vi sono sostanziali differenze individuali nel modo in cui le madri guidano e strutturano l’interazione con il proprio bambino. A tal proposito, gli studi presenti in letteratura hanno approfondito l’analisi dei diversi stili di reminiscing che le madri adottano nelle conversazioni con i loro figli. Attualmente in letteratura gli autori tendono a collocare le modalità di conduzione del reminiscing lungo un continuum che permette di differenziare tra stili più o meno elaborativi (Fivush et al., 2006; Nelson & Fivush, 2004). Nello specifico, madri solite utilizzare uno stile di reminiscing definito scarsamente elaborativo tendono ad attuare con i loro bambini conversazioni ripetitive, corte, caratterizzate da poche domande che risultano essere ridondanti. Il bambino coinvolto in tale tipo di conversazione viene scarsamente incoraggiato a fornire il proprio contributo allo scambio conversazionale.
Al contrario, la letteratura evidenzia come risulti maggiormente funzionale e adattivo per lo sviluppo di diverse competenze nel bambino l’impiego di interazioni linguistiche caratterizzate da uno stile di reminiscing altamente elaborativo ed emotivo. Tale stile risulta caratterizzato da un uso elevato di domande, descrizioni dettagliate degli eventi, presenza di informazioni contestuali, focalizzazione su aspetti emotivi e di valutazione di eventi passati, oltre ad un ampliamento e approfondimento dei contenuti. Tutto ciò risulta favorevole ad espandere il contributo apportato dal bambino nella conversazione diadica. Inoltre, l’impiego di uno stile di reminiscing maggiormente elaborativo favorisce nel bambino lo sviluppo di alcune competenze tra cui: memoria autobiografica, capacità linguistico-narrativa, comprensione del Sé e competenza socio-emotiva.
Memoria autobiografica
Gli studi iniziali sul reminiscing hanno incentrato l’attenzione sul legame tra tale costrutto e la memoria autobiografica (Nelson & Fivush, 2004), la quale consiste nell’insieme di ricordi attribuiti a sé che identificano la storia personale dell’individuo (Fivush et al., 2006). Essa possiede un valore adattivo poiché permette di conservare conoscenze relative alle esperienze passate che guidano il modo di agire nel mondo (Pillemer, 1998; Conway & Pleydell-Pearce, 2000). Bambini di 3-4 anni mostrano differenze individuali nel modo in cui riportano le loro memorie autobiografiche e uno dei fattori che contribuisce maggiormente nel caratterizzare la variabilità individuale è la qualità del supporto che essi ricevono nelle conversazioni con i genitori, in modo particolare la madre (Nelson & Fivush, 2004). A tal proposito, un’ampia letteratura evidenzia come le conversazioni madre-bambino su eventi passati, se condotte con stile elaborativo, facilitino la memoria autobiografica di quest’ultimo (Fivush, 2011; Fivush et al., 2006). In particolare, vengono favoriti il ricordo autonomo degli eventi e la capacità di organizzarli in sequenze più complesse (Fivush, 2007), la capacità di immagazzinare i ricordi personali (Wareham & Salmon, 2006) ricordando in modo più ricco e specifico gli eventi stessi (Valentino et al., 2014).
Inoltre, i bambini hanno maggiori probabilità di ricordare successivamente un evento se sono stati coinvolti attivamente nell’elaborazione di tale ricordo (McGuigan & Salmon, 2004; Ornstein, Haden, & Hedrick, 2004). McGuigan e Salmon (2004) hanno rilevato come una conversazione elaborativa successivamente ad un evento si riveli maggiormente efficace nell’aumentare l’ampiezza della memoria verbale dei bambini rispetto ad una conversazione elaborativa intrattenuta prima e durante l’evento. Essa aiuta il bambino ad effettuare una ricca codifica dell’evento, permettendogli di porre maggior attenzione sui dettagli (Boland, Haden, & Ornstein, 2003) e sulle conseguenze di un avvenimento (McGuigan & Salmon, 2004). Infatti, solo successivamente il genitore dispone del tempo necessario per creare un racconto elaborativo ed emotivo su ciò che è successo, influenzando la memoria del bambino anche a livello di rappresentazioni. Pertanto l’interazione madre-bambino durante la pratica di reminiscing, riveste un ruolo importante nello sviluppo di abilità necessarie a creare la propria storia di vita (Fivush et al., 2006).
Capacità linguistico-narrativa
La tendenza da parte delle madri ad adottare uno stile di reminiscing più elaborativo e basato su affermazioni che stabiliscono nessi tra eventi narrati facilita nei bambini lo sviluppo di abilità linguistiche più complesse, tra cui la conoscenza semantica, sintattica e di vocabolario (Beals, 2001) ed una maggiore consapevolezza fonologica (Leyva, Sparks, & Reese, 2012). Inoltre, i bambini coinvolti nel reminiscing elaborativo contribuiscono attivamente a fornire un numero maggiore di informazioni nelle conversazioni (Cleveland & Reese, 2005; Fivush et al., 2006; Leichtman, Pillemer, Wang, Koreishi, & Han 2000), e mostrano, nel corso dello sviluppo, migliori capacità narrative (Fivush & Fromhoff, 1988; Peterson & McCabe 2004; Peterson, Jesso, & McCabe, 1999; Reese, Yan, Jack, & Hayne, 2010) e più alti livelli di comprensione e utilizzo del linguaggio emotivo (Bird & Reese, 2006; Sales & Fivush, 2005).
Conoscenza di Sè
La letteratura sul reminiscing evidenzia come tale pratica sia un importante contesto di sviluppo per la comprensione e definizione del sè nel bambino (Fivush, Berlin, Sales, Mennuti- Washburn, & Cassidy, 2003; Fivush, 2008). Egli, attraverso le conversazioni su eventi del proprio passato e l’attenzione posta ai propri stati interni ed emotivi (Eder & Mangelsdorf, 1997; Shiner, 2010), acquisisce una maggior consapevolezza di sé. È nel ricordo condiviso che il bambino è supportato dal genitore ad organizzare gli eventi e ad attribuirvi un significato rispetto al sé e alla cultura di appartenenza e a collocarsi nel tempo e nella relazione con gli altri. Fivush e Haden (2005) sottolineano come siano i riferimenti elaborativi che i genitori fanno agli stati mentali e alle emozioni, che permettono al bambino di inserire gli accadimenti all’interno della propria storia personale favorendo un senso soggettivo del sé più complesso e coerente (Bird, Reese, & Tripp, 2006; Fivush et al., 2006). Inoltre, viene favorita la capacità di pensare a sé e agli altri in un’ottica temporalmente estesa (Fivush & Nelson, 2006).
Competenza emotiva
L’area della competenza emotiva costituisce un ambito particolarmente saliente rispetto a cui è stato studiato il reminiscing (Fivush, 2007; van Bergen, & Salmon, 2010).
Complessivamente, la letteratura evidenzia come lo stile di reminiscing materno sia un forte predittore dello sviluppo socio-emotivo del bambino (Bohanek, Marin, & Fivush, 2008; Laible, 2004; Laible & Song, 2006; Reese & Cleveland, 2006). Infatti, un aspetto importante del ricordo condiviso tra mamma e bambino riguarda il fatto che tale interazione si rivela ricca di contenuti emotivi (Fivush & Buckner, 2003). Queste conversazioni influiscono sul linguaggio emotivo adottato dal bambino, sulla comprensione che esso ha del significato delle emozioni e, complessivamente, migliorano la sua capacità di regolazione emotiva (Fivush, 1993; Laible, 2011; Laible & Panfile, 2009; van Bergen, Salmon, Dadds, & Allen, 2009). I bambini possono imparare come discutere sulle emozioni proprio in queste prime conversazioni con i genitori (Dunn, Bretherton, & Munn, 1987). Essi, infatti, possono fornire un valido aiuto nel chiarire le cause delle emozioni e il ruolo che esse giocano all’interno delle relazioni, oltre a fornire informazioni sul modo di fronteggiarle in maniera adeguata (Denham, Zoller, & Couchoud, 1994; Laible & Panfile, 2009).
Alcuni studi hanno incentrato l’attenzione sul significato emotivo del ricordo condiviso, distinguendo tra eventi positivi ed eventi negativi. Laible (2011) evidenzia come sia soprattutto nel ricordo congiunto di eventi emotivamente negativi o spiacevoli che la conversazione diadica madre-bambino si arricchisce di contenuti emotivi, riferimenti agli stati interni, cause che hanno portato a sperimentare una determinata emozione e conseguenze (Nolivos & Levya, 2013) favorendo lo sviluppo socio-emotivo nel suo complesso. Tali evidenze mostrano come l’adulto, utilizzando uno stile di reminiscing emotivo, oltre che elaborativo, può aiutare il bambino ad affrontare meglio eventi emotivamente spiacevoli, o addirittura stressanti favorendo nel bambino abilità di coping adattive (Sales & Fivush, 2005) .
Conclusioni
L’obiettivo del presente elaborato è stato quello di approfondire le principali abilità che vengono favorite e potenziate dall’utilizzo da parte del caregiver di un reminiscing elaborativo.
La letteratura sottolinea come lo stile materno di reminiscing presenti differenze individuali dal momento che esso si dipana lungo un continuum che vede agli estremi uno stile altamente elaborativo, da un lato, e scarsamente elaborativo dall’altro, risultando anche influenzato dalla cultura di appartenenza del genitore. I risultati emersi evidenziano l’importanza dell’utilizzo da parte della madre, di uno stile elaborativo di reminiscing nel favorire lo sviluppo di diverse abilità tra cui memoria autobiografica, competenze narrative, linguistiche e socio-emotive dei bambini, soprattutto di età prescolare. Le conversazioni a contenuto emotivo rivestono importanti funzioni psicosociali. Esse intensificano la consapevolezza di sé da parte del bambino, rafforzano il suo legame sociale con gli altri significativi, insegnano modi efficaci di affrontare esperienze emotive, oltre a rafforzare ulteriormente il legame tra memoria autobiografica e concetto di sé (Ackil, Van Abbema, & Bauer, 2003; Farrar, Fasig, & Welch-Ross, 1997; Fivush, 1993; Fivush et al., 2003). Pertanto, l’adozione da parte del caregiver di uno stile di reminiscing elaborativo ed emotivo si rivela una pratica utile nel favorire diverse abilità nel bambino apportando importanti benefici. Infine, è utile sottolineare come tale pratica rafforzi anche l’interazione e la relazione tra caregiver e bambino.
Madre schizofrenogena e stato assistenziale: quali i punti in comune?
Il doppio legame indica l’incongruenza tra il livello verbale e non verbale nella comunicazione tra due persone coinvolte in una relazione emotivamente significativa, facendo un ragionamento in senso lato è possibile parlare dell’esistenza di un doppio legame nel rapporto dello Stato assistenziale con i cittadini?
Il doppio legame e la madre schizofrenogena in psicologia
Il doppio legame, concetto elaborato dall’antropologo, sociologo e psicologo britannico Gregory Bateson (1904-1980) indica l’incongruenza tra il livello verbale e non verbale nella comunicazione che avviene tra due persone coinvolte in una relazione emotivamente significativa.
Segue un esempio riportato dallo stesso Bateson, che rende meglio comprensibile la teoria sopra esposta: un ragazzo con disturbi mentali torna a casa dopo un periodo di ricovero e in uno slancio d’affetto tenta di abbracciare la madre; quest’ultima si irrigidisce facendo ritrarre il figlio. Ciò che la madre dice al figlio è: “Non devi aver paura ad esprimere i tuoi sentimenti”.
Risulta evidente l’incoerenza della modalità comunicativa della madre che se al livello non verbale esprime rifiuto attraverso l’irrigidimento fisico, a livello verbale nega di essere la responsabile della reazione di allontanamento del figlio, attribuendone a lui la responsabilità. La comunicazione disfunzionale della madre non lascia spazio di risposta al figlio che trovandosi esposto continuamente a messaggi contraddittori di questo tipo diviene incapace di comprendere correttamente i legami esistenti tra i due livelli della comunicazione.
Una madre di questo tipo viene definita “madre schizofrenogena”, in quanto il suo schema comunicativo disfunzionale associato ad un’eventuale vulnerabilità biologica del figlio, possono predisporre quest’ultimo a sviluppare la schizofrenia.
Il doppio legame nel rapporto tra Stato assistenziale e cittadini: tra Gioco d’Azzardo Patologico e tabacco
Alla luce del concetto sopra esposto, e facendo un ragionamento in senso lato è possibile parlare dell’esistenza di un doppio legame nel rapporto dello Stato assistenziale con i cittadini?
L’art. 32, comma 1, della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Va osservato che “il diritto alla salute comporta anche il diritto alla salubrità dell’ambiente poiché la prevenzione di varie patologie impone di eliminare le cause dell’inquinamento ambientale”.
Nel 1946 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la salute come “lo stato di benessere fisico, psichico e sociale, e non semplice assenza di malattia”. La salute così intesa è oggetto di specifica tutela da parte dello Stato.
Tutelare la salute quindi, non significa solamente curare le malattie manifeste ma prevenirne l’insorgenza. Oggi infatti si sente sempre più spesso parlare di promozione e prevenzione della salute al fine di ridurre la spesa sanitaria nazionale attraverso un minor ricorso alle prestazioni sanitarie.
Per le patologie legate all’abuso e alla dipendenza di droghe o di comportamenti compulsivi, per esempio, sono stati istituiti dalla legge 162/90, dei servizi pubblici afferenti al Sistema Sanitario Nazionale italiano; questi servizi dedicati alla cura, alla prevenzione e alla riabilitazione delle patologie da dipendenza, sono nominati SerT (Servizi per le Tossicodipendenze) o, dicitura più recente, SerD (Servizi per le Dipendenze).
In alcune regioni i SerT hanno istituito specifiche équipe composte da medici, psicologi, assistenti sociali, educatori e infermieri che si occupano nello specifico di diagnosi e cura del gioco d’azzardo patologico.
Il gioco d’azzardo patologico definito anche “Gambling patologico” è un disturbo molto vicino alla tossicodipendenza, tanto da essere stato inserito nel DSM-5 all’interno del capitolo delle Dipendenze (Substance-Related and Addictive Disorders). Per questo motivo in Italia, il 13 gennaio 2017 sono stati aggiornati i Livelli essenziali di assistenza (LEA), che hanno incluso anche i trattamenti per il gioco d’azzardo.
Il giocatore d’azzardo patologico mostra una crescente dipendenza nei confronti del gioco d’azzardo; egli aumenta di volta in volta la frequenza delle giocate e i soldi investiti, nell’illusoria speranza di recuperare i soldi persi nelle giocate precedenti.
Basta fare un giro per la città per rendersi conto di quanto i Centri Scommesse abbiano reso questo fenomeno dilagante, diventando luoghi fertili allo sviluppo dei disturbi da dipendenza. Tra una giocata e l’altra, uomini e donne di ogni età con i segni del fumo sul viso ingiallito, stanno all’entrata ad aspirare compulsivamente sigarette di tabacco, per poi rientrare e continuare a riempire di monete le macchinette mangiasoldi.
Questi centri, che sono anche Tabaccherie, elogiano con frasi “achiappa-clienti” le varie tipologie di tabacco disponibili, diverse per fragranza e taglio, ma è quando si legge subito sotto l’avviso della nocività del prodotto che si resta interdetti e ingabbiati in una sensazione di assoluta illogicità. Frasi minacciose e immagini shock anti-fumo tentano di scoraggiare l’acquisto del prodotto, al quale viene dato comunque libero accesso alla fruizione; inoltre tra le diverse sostanze tossiche contenute nelle sigarette è presente la nicotina, sostanza stupefacente che provoca dipendenza.
Ma per tornare alla domanda iniziale, quali sono gli anelli di congiunzione che rendono possibile applicare la teoria del doppio legame al rapporto intercorrente tra lo Stato assistenziale e i cittadini?
In primo luogo è importante osservare il paradosso, che se nel caso della comunicazione madre-figlio si traduce con l’incoerenza dei livelli verbale e non verbale, nel rapporto tra Stato assistenziale e cittadini si rileva nella sconnessione dell’ideologia costituzionale dalla prassi statale; in secondo luogo è invece evidente la deresponsabilizzazione, che se nel primo caso ha a che fare con l’atteggiamento della madre di attribuire al figlio la responsabilità di un comportamento che è da lei stessa provocato, nel secondo ha a che fare con la scelta dello Stato di avvisare i cittadini sulla pericolosità di certe abitudini che però è lui stesso a favorire, lasciando libero accesso a prodotti e situazioni che provocano dipendenza, soprattutto nelle persone prediposte geneticamente a svilupparla.
Come prendere la decisione migliore? Basta non pensarci! Soprattutto in italia – Is unconscious judgment culture bound?
Siamo solitamente portati a pensare che la decisione migliore richieda del tempo e un’attenta valutazione dei pro e dei contro, tuttavia una serie di studi recenti, facendo riferimento alla teoria del pensiero inconsapevole, dimostra esattamente l’opposto.
Quando ci troviamo nella situazione di dover decidere qualcosa di importante per la nostra vita, siamo solitamente portati a pensare che la decisione migliore richieda del tempo e un’attenta valutazione dei pro e dei contro. Eppure una serie di studi recenti, condotti in Olanda, dimostra esattamente l’opposto.
Secondo gli autori, quando si tratta di decisioni su questioni “semplici”, prendersi del tempo per valutare le caratteristiche e gli scenari possibili è effettivamente vantaggioso e può aiutare a prendere la decisione migliore. Tuttavia, quando sono in ballo decisioni “complesse”, vale a dire quelle che includono un gran numero di caratteristiche, fattori e scenari possibili, i loro studi dimostrano che non pensarci affatto e scegliere per così dire d’istinto, porti a una decisione migliore di quanto non faccia un’attenta riflessione in merito.
La funzione del pensiero inconsapevole nel decidere
Nella saggezza popolare esiste la credenza nel “dormirci sopra”, prima di decidere. E questo, a quanto pare, potrebbe essere vero. Infatti, gli studi di Dijksterhuis e colleghi (2006) si basano sulla teoria del pensiero inconsapevole (Unconscious Thought Theory, Dijksterhuis e Nordgren, 2006), che non ha niente a che fare con l’inconscio freudiano, ma indica un tipo di pensiero che avviene al di fuori della nostra coscienza e che opera in parallelo rispetto al pensiero consapevole, vale a dire ciò che noi effettivamente pensiamo.
Il pensiero inconsapevole è più ampio e creativo, meno soggetto alle restrizioni culturali e sociali. Ecco perché, se lasciato agire, il pensiero inconsapevole porterebbe alle conclusioni più favorevoli per l’individuo. Le implicazioni di questi risultati sono davvero importanti. Se capi di stato, giudici o grandi manager prendessero le loro decisioni senza pensarci sopra, ci sentiremmo più sicuri? Il cosiddetto effetto di decisione senza attenzione è stato dimostrato da una serie di studi che ponevano i soggetti nella situazione di scegliere, in una lista di più oggetti, quello con le caratteristiche migliori.
Un gruppo di soggetti era nella condizione di poter riflettere sulle caratteristiche degli oggetti (automobili, appartamenti ecc.), mentre il gruppo sperimentale doveva scegliere il migliore di essi, dopo averne letto solo superficialmente le caratteristiche. Degli oggetti presentati, solo uno possedeva le caratteristiche migliori. Ebbene, tutti gli studi condotti dagli autori dimostravano che i soggetti che non avevano avuto il tempo di riflettere sceglievano l’oggetto migliore, mentre quelli che avevano avuto alcuni minuti per valutare le varie opzioni sceglievano quella che possedeva un minor numero di caratteristiche positive.
Troppo bello per essere vero? Sì, purtroppo. In realtà, l’effetto di decisione senza attenzione, guidato dal pensiero inconsapevole, non si otteneva quando le decisioni erano semplici, cioè quando gli oggetti presentati avevano poche caratteristiche fra cui scegliere. In questo caso i soggetti che avevano avuto il tempo di riflettere avevano scelto l’oggetto migliore.
Pensiero inconsapevole e decisioni: come decidono gli Italiani?
Inoltre, questi esperimenti sono stati replicati da altri studiosi internazionali, fra cui il mio team di ricerca dell’Università di Leiden, in Olanda (Vivo et al., 2011, unpublished). Purtroppo, molti altri studi non hanno confermato i risultati.
Il nostro studio, invece, aveva lievemente modificato il disegno di ricerca originale, ma la differenza più evidente consisteva nell’aver scelto soggetti italiani e non olandesi, come negli altri studi. Ottenemmo risultati straordinari, confermando e superando quelli degli autori originari. Tant’è che supponemmo una specificità culturale nell’uso del pensiero inconsapevole. Gli italiani, avendo uno stile cognitivo meno rigido, normativo e preciso dei popoli nordici, come si riflette nella nostra cultura, e avendo caratteristiche di creatività e immaginazione, sembrerebbero fare un uso più estensivo del pensiero inconsapevole. Prima di cedere alla tentazione di prendere le decisioni importanti a “occhi chiusi”, però, sono necessari molti studi più approfonditi.
Is unconscious judgment culture bound?
Introduction
Conscious thought is rule-based and precise, but it has limited capacity. Unconscious thought, on the other hand, is less strict, creative, and has high capacity. A series of studies by Dijksterhuis and his colleagues support the idea that unconscious thought works better when complex decisions are at stake. Because of the importance of the implications of these findings (e.g., that people should stop consciously deliberating complex decisions), we decided to repeat one Dijksterhuis’ studies in order to examine whether the so-called “deliberation-without-attention” effect would still hold if we emphasized the role of experience and context in conscious decision-making.
Dijksterhuis’ experiment (2006)
Participants were subjected to a 2 (mode of thought: conscious versus unconscious) by 2 (complexity of choice problem: simple versus complex) factorial design.
All participants read information about four hypothetical cars. Depending on the condition, each car was characterized by 4 attributes (simple) or by 12 attributes (complex). The attributes were either positive or negative. One car was characterized by 75% positive attributes, two by 50% positive attributes, and one by 25% positive attributes.
After reading the information about the four cars, participants were assigned either to a conscious thought condition or to an unconscious thought condition. In the conscious thought condition, participants were asked to think about the cars for 4 min before they chose their favourite car. In the unconscious thought condition, participants were distracted for 4 min (they solved anagrams) and were told that after the period of distraction they would be asked to choose the best car. The deliberation-without-attention effect was therefore demonstrated with complex but not simple decisions.
Our research
We used the same 2×2 factorial design as Dijksterhuis, but we changed the type of items to choose from and also took a more naturalistic approach. According to NDM (Naturalistic Decision Making) we wanted to emphasize the role of experience in decision-makingand also the context in which decisions are made. Therefore, on the one hand, we chose mobile phones, that is items that our participants were more likely to have bought in the past than apartments or cars, as used in the original studies.
On the other, we manipulated the conscious condition, allowing participants to keep looking at the attributes for the full 4 minutes and also encouraging them to take notes, as they would do in a phone shop (whether real or online). Also, we only selected subjects who were familiar with online shopping, since our research was carried out electronically and we wanted to be sure our participants would find it natural to make decisions in a computer-based environment. Finally, we slightly changed the unconscious condition, using a 2-back task as distractor instead of anagrams. Participants ran the task by clicking on a link to a Website (http://cognitivefun.net/test/4). Our participants were all students from Sapienza University of Rome, Italy.
Our Results
We performed a 2-way ANOVA and we found that the interaction supporting the deliberation-without-attention hypothesis was significant [F (1,76) = 8,71, p <.04]. The other significant effects we found are mode of thought [F(1,76) = 6,05, p<.016] and complexity of choice [F(1,76) = 3,87, p <.053].
Limitations
Although the number of participants was not very small, we expected to receive more feedback, having contacted over 300 people by e-mail. Moreover, another limitation of our study was that it did not include any weighting of the attributes (e.g. WIFI, Bluetooth, GPS etc.), which would have been appropriate to assess whether the mobile phone we considered to be the best choice was indeed the one participants would pick as the best. We suggest this should be done in future studies.
Conclusions
Our study confirms the results obtained by Dijksterhuis as it shows that, in complex decisions, unconscious thought outperforms conscious thought. This is completely in line with Dijksterhuis’ results, which showed the unconscious thought superiority. The more marked deliberation-without-attention effect in our study is quite surprising because we used a more naturalistic approach in the conscious condition, which might have favoured decision-making in such a condition. Despite emphasizing experience and context, the study shows evidence of a powerful unconscious deliberation mechanism.
We hypothesize that the nationality of the subjects may play a role. In actual fact, Italian culture appears to be dominated by less rule-based and less precise thought, while being highly creative and imaginative. As stated in the introduction, these features match those of unconscious thought. Therefore, it may be true that Italians make more extensive use of unconscious thought in their daily decisions as reflected in their overall culture, but more research is needed to investigate any cultural differences in the use of conscious vs. unconscious thought.
Stato d’animo e memoria: come l’ emozione influenza il ricordo
Per molti anni gli studiosi interessati alla neuropsicologia dei processi cognitivi hanno focalizzato la loro attenzione sulle basi neuronali di tali processi, soffermandosi soprattutto su percezione e memoria. Gli studi condotti sui processi di memoria hanno permesso di individuare le aree e le strutture responsabili dei processi mnestici e di osservare la stretta relazione tra memoria ed emozione
Ilenia La Rocca – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi
Memoria ed emozioni: il ruolo di ippocampo e amigdala
Da questi studi è emerso che le strutture maggiormente responsabili nei processi mnestici sono l’ippocampo e l’amigdala, due strutture sottocorticali nel lobo temporale, facenti parte del sistema limbico (Riechen, The Physiological Process of Memory, 1986). L’ippocampo sembra giocare un ruolo primario nella formazione della memoria a breve termine, ma non nel consolidamento della traccia mnestica (memoria a lungo termine). Esso raggrupperebbe informazioni processate da altre aree cerebrali sintetizzandole in un’unica configurazione di stimoli sensoriali esterni. L’amigdala, invece, consente il controllo dell’informazione sensoriale e l’attribuzione di un particolare significato affettivo e/o emotivo a tale informazione. È considerata anche la struttura grazie alla quale è possibile associare uno stimolo ad un premio (ricompensa) o ad una punizione (stimolo avversivo). L’ippocampo e l’amigdala sono strutture intercambiabili ma al mancare di entrambe si realizzano vere e proprie perdite di memoria.
Gli studi condotti sulle scimmie mostrano come la rimozione bilaterale dell’ippocampo e dell’amigdala provochi, nell’animale sottoposto al compito di riconoscimento di oggetti non familiari, prestazioni di poco superiori alla semplice scelta casuale. Altre strutture implicate nei processi di memoria sono l’ipotalamo (corpi mammillari), il talamo (con le sue afferenze e efferenze da e verso la neocorteccia) ed in parte i lobi frontali (soprattutto per i processi mnestici legati alle emozioni). Da un punto di vista neuronale, l’informazione esterna viene ricevuta da recettori sensoriali “periferici” per poi essere trasmessa alla stazione talamica specifica per ciascuna modalità sensoriale ed infine giungere alla corteccia primaria dove viene elaborata affinché si produca una risposta comportamentale coerente con la stimolazione ambientale.
La relazione tra emozione e memoria
Sul versante biologico, le teorie dell’apprendimento sostengono che la traccia mnestica viene consolidata quando un comportamento o stimolo è seguito da rinforzo (Pavlov, 1927; Skinner, 1938; Thorndike, 1913; Watson, 1930). Gli studiosi dell’apprendimento ritengono che la capacità di uno stimolo di giocare il ruolo di rinforzo sia strettamente legata alle sue capacità “ego distoniche”, ovvero di suscitare piacere. In tal senso, le memorie dipendenti dai meccanismi di rinforzo possono ugualmente dipendere dall’attivazione (arousal) emozionale.
D’altra parte, altre ricerche (svolte soprattutto in ambito psicoanalitico), suggeriscono che l’emozione possa avere effetti di “soppressione” sulla memoria. Sotto questo punto di vista, quindi, il ricordo di un determinato evento legato all’arousal emozionale produrrebbe ansia che, a sua volta, sarebbe prevenuta (controllata) col raggiungimento della consapevolezza e, successivamente della rievocazione, dello stesso evento traumatico. Quindi l’ emozione potrebbe essere descritta come una sorta di memoria se si considerano le sue possibilità di facilitare o inibire il ricordo di eventi e/o esperienze personalmente vissuti.
Si può in tal senso fare una distinzione fra memoria “tout – court”, definita anche memoria dichiarativao esplicita (ovvero la semplice rievocazione dell’evento) e memoria “emozionale”, ovvero il significato affettivo legato ad un determinato evento. Quest’ultimo tipo di memoria sembra giocare un ruolo determinante nella formazione delle flashbulb memories (FBM), o ricordi fotografici, definite da Brown e Kulik nel 1977 come ricordi vividi, dettagliati e persistenti, come delle istantanee, che preservano tutti i particolari, anche irrilevanti, di un episodio. La stessa distinzione fra i due tipi di memoria viene ulteriormente confermata dalle strutture cerebrali implicate: l’ippocampo sembra essere responsabile della prima mentre l’amigdala della seconda (Bellelli G., 1999, pp. 87-93).
Vividezza dei ricordi ed emozione
L’esperienza emozionale comprende, dunque, due dimensioni: la valenza e l’intensità. Gli individui solitamente si fidano dei loro ricordi; essi sono convinti che il modo in cui ricordano un evento coincida con il modo con cui esso si è verificato, ma sono anche disposti ad ammettere che la memoria è fallibile e che spesso il loro ricordo potrebbe non essere il riflesso della realtà. Gli studi sui falsi ricordi e sui ricordi controversi hanno identificato diverse caratteristiche che influenzano la fiducia nel proprio ricordo. La letteratura sulle flashbulb memories ha suggerito che i ricordi molto intensi di eventi negativi sono mantenuti con più sicurezza rispetto ai ricordi di eventi neutri (Brown e Kulik, 1977). La vividezza, spesso definita come l’aumento di dettagli percettivi e sensoriali, è stata la proprietà della memoria autobiografica maggiormente studiata all’interno dei ricordi emozionali (Rubin, Talarico, 2003). E’ stata trovata una forte correlazione tra vividezza del ricordo ed emozionalità (Bekerian e Conway, 1988; Kozin e Rubin, 1984; Wagenaar, 1986; White, 1982).
La coerenza narrativa è definita come il modo in cui il ricordo è rievocato come una storia coerente ed unitaria, sia in parole che in immagini piuttosto che come dettagli frammentari ed isolati. E’stato dimostrato che i ricordi di eventi traumatici erano rievocati con minore probabilità in una forma narrativa coerente (Berntsen, Rubin, Willert, 2003; Beckham, Feldman, Rubin, 2004; Rubin e Talarico, 2003). I ricordi di esperienze emozionali passate sono spesso usati per ricreare gli stati emozionali attuali (Conway, 1990).
La relazione tra intensità, valenza e memoria autobiografica è incompleta e talvolta contraddittoria. Dai risultati degli studi emerge che l’intensità influenza la proprietà della memoria autobiografica molto di più rispetto alla valenza. Non solo eventi ad alta intensità tendono ad essere ricordati più a lungo ma tendono anche ad essere ricordati con più vividezza (Talarico et al., 2004). Anche l’attività dell’amigdala durante la codifica si riferisce non solo ad una maggiore probabilità di ricordare un elemento emotivo ma anche alla probabilità che si ricordi con maggiore vividezza (Dolcos et al., 2004).
Alcuni studi hanno dimostrato che la valenza di un evento può influenzare la vividezza di un ricordo. Sembra che la vividezza della memoria possa risultare dalla combinazione di generici elementi sensoriali, percettivi e semantici; oltretutto, essa non è necessariamente associata con dettagli specifici di un determinato episodio. Quindi un ricordo emozionale può essere vivido senza essere specifico. È stato inoltre dimostrato che i ricordi emozionali possono essere più vividi ma non più specifici rispetto ai ricordi neutri e che i ricordi emozionali negativi contengono un minor numero di dettagli sensoriali, spaziali e temporali rispetto ai ricordi positivi (Philippot e Schaefer, 2005). All’interno del laboratorio, gli eventi negativi vengono spesso ricordati con maggiore vividezza rispetto agli eventi positivi (Dewhurst e Parry, 2000; Ochsner, 2000). Gli stimoli positivi, al contrario, spesso si ricordano in termini generici (Bless e Schwarz, 2000; Ochsner, 2000). Oltretutto, lo stato d’animo positivo è associato anche a maggiori errori di ricostruzione rispetto allo stato d’animo negativo, probabilmente perché gli individui in uno stato d’animo felice contano su euristiche, mentre gli individui che si trovano in uno stato d’animo negativo sono più propensi a concentrarsi sui dettagli specifici delle informazioni (Benedici et al., 1996; Clore e Storbeck, 2005).
Spesso, però, le ricerche sulla memoria autobiografica hanno prodotto anche risultati opposti alla ricerca in laboratorio: i ricordi di eventi positivi sarebbero più vividi rispetto agli eventi negativi (D’Argembeau et al, 2003; Philippot e Schaefer , 2005). Dunque, mentre alcuni studi suggeriscono uno scarso effetto della valenza sulla vividezza della memoria, altri hanno riscontrato che l’intensità è il fattore che principalmente predice le caratteristiche della memoria autobiografica (Talarico et al., 2004).
Come l’ emozione agisce sul ricordo
Bower (1994) ha indicato tre differenti modi in cui l’ emozione incide sul ricordo. Il primo di essi si basa sulla mediazione dell’attenzione. Di solito, prestiamo più attenzione agli stimoli salienti emotivamente e questo ci permette di avere un miglior ricordo. Le emozioni sono attivate dal prodursi di discrepanze tra un dato evento e le aspettative collegate ai nostri scopi. Quando si produce una discrepanza, l’ emozione mobilizza le risorse attentive verso quelle caratteristiche dell’evento che appaiono significative o predittive della discrepanza così da poter intraprendere le azioni necessarie per rimuoverla.
Tuttavia, l’ emozione non agisce indistintamente sul ricordo di tutto l’evento, ma solo sugli aspetti centrali dell’evento, mentre quelli periferici sono più facilmente perduti. Easterbrook nel 1959 sostenne che un elevato arousal provoca un restringimento dell’attenzione, “proteggendo” l’individuo dall’informazione distraente ma comportando anche la perdita di una parte dell’informazione rilevante. Diversi esperimenti effettuati con una varietà di compiti visivi o di memorizzazione di parole e che hanno utilizzato varie modalità di induzione dell’arousal (shock elettrici, deprivazione di cibo, etc.) sono coerenti con tale ipotesi (Bruner, Mattew e Papanek, 1955; Easterbrook, 1959; Eysenck, 1982).
Nell’esperimento classico di Clifford e Hollin (1981), furono utilizzate due differenti versioni dello stesso filmato: una “emotiva”, in un cui un uomo aggrediva una donna per rapinarla ed una “neutra” in cui l’uomo semplicemente fermava la donna per chiederle un’informazione. In seguito, l’uomo veniva più facilmente riconosciuto dalle persone che avevano visto la versione emotiva. In seguito, nell’esperimento di Burns e Loftus (1982) fu mostrato, a due gruppi di persone, un filmato che rappresentava una rapina in banca: di esso furono proposte due versioni, una delle quali più “emotiva”, nella quale si assisteva ad una scena particolarmente violenta. In una prova di memoria successiva (sia di riconoscimento che di rievocazione) i soggetti mostrarono di ricordare molti più dettagli della parte del filmato, comune alle due versioni, che precedeva la scena violenta. Questi studi mostrano che le varianti “emotive” provocano un ricordo peggiore degli eventi neutri che precedono l’episodio violento.
In seguito, Christianson e Loftus (1991) introducono una distinzione tra elementi centrali e periferici dell’evento. Per elementi centrali si intende quelli che sono percettivamente centrali o ad essi vicini e sono quelli che vengono maggiormente ricordati nelle situazioni emozionali; i ricordi periferici, invece, sono quelli peggio ricordati in confronto con le corrispondenti condizioni neutrali. Gli studi di psicologia delle emozioni confermano che l’elaborazione emotiva possa non richiedere il ricorso a processi controllati, né nell’acquisizione, né nel recupero dell’informazione, e che i meccanismi invocati siano piuttosto di tipo pre – attentivo. A questo processo pre – attentivo può far seguito una maggiore focalizzazione attentiva con l’allocazione di risorse a livello controllato per la elaborazione delle informazioni rilevanti. Si deve supporre che l’informazione emotiva sia elaborata, almeno inizialmente, a livello automatico e inconscio (essendo mediata da strutture subcorticali) e questo darebbe luogo anche alla difficoltà di esprimere verbalmente le stesse emozioni (Bellelli, 1999, pp. 100-103).
Il secondo modo attraverso cui l’ emozione può influenzare il ricordo è costituito dagli effetti di congruenza e stato – dipendenza. Con l’Associative Network Model, Bower (1981) assunse che le emozioni costituivano i nodi centrali di una rete associativa, connessi alle idee collegate, agli eventi con la stessa valenza, all’attività autonomica, a patterns specifici di reazioni muscolari ed espressive. Quando vengono appresi dei nuovi stimoli, essi vengono associati ai nodi attivi in quel momento. Di conseguenza, gli stimoli appresi in un particolare stato affettivo sono collegati al corrispettivo nodo affettivo. L’effetto di stato – dipendenza si basa sull’accoppiamento dell’ emozione o del mood al momento dell’apprendimento e al momento di recupero: implica, dunque, il confronto fra lo stato emotivo al momento della formazione della traccia mnestica e lo stato emotivo durante la rievocazione.
L’effetto di congruenza, invece, si basa invece sulla corrispondenza tra la valenza affettiva dello stimolo e dello stato affettivo al momento del recupero (Bellelli, 1999, pp. 103-105). Una caratteristica dei ricordi emotivi è la loro persistenza. Uno studio di Cutshall e Yuille (1986), riguardante uno studio di 13 testimoni di un episodio di violenza che aveva portato alla morte di una persona e al ferimento dell’altra, ha potuto mostrare, a distanza di 4 – 5 mesi, il permanere di un alto livello di accuratezza del ricordo. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i ricordi emotivi si dimentichino più lentamente, riprendendo il concetto di slow forgetting (oblio lento), già discusso negli anni ’30 (Cohen, 1989; Blankstein e Craik, 1975; Kantor e Langdon, Maltzman, 1966; Leeper e Waters, 1936). Già a partire dalla ricerca classica di Kaplan e Kleinsmith (1963), negli studi tra emozione e memoria, ha destato un particolare interesse il ruolo del differimento della rievocazione, rispetto al quale si evidenzia un rovesciamento degli effetti riscontrati nella rievocazione immediata. Del resto, vi sono prove che il ricordo di un evento emotivo può essere in parte dissociato da quello di specifiche caratteristiche dell’evento stesso, così che è possibile avere accesso alla componente emotiva dell’evento stesso senza ricordare i particolari dell’evento. In altri termini, è possibile ricordare l’ emozione senza ricordare i particolari dell’evento (Bellelli, 1999, pp. 105-110).
Altri studi mostrano che eventi appresi in un determinato stato psichico possono essere ricordati meglio quando una persona è rimessa nello stesso stato in cui era durante l’esperienza originale. Se lo stato interno della persona che rievoca (recaller) è molto cambiato rispetto allo stato interno che esisteva durante l’esperienza iniziale (al momento della formazione della traccia mnestica), allora la persona che rievoca avrà difficoltà a ricordare l’evento. I ricordi acquisiti in uno stato sono accessibili principalmente in quello stato ma sono “dissociati” o comunque non disponibili per il richiamo in uno stato alternativo. E’ come se i due stati costituissero librerie diverse in cui una persona ripone i ricordi registrati, ed un dato ricordo registrato possa essere recuperato solo tornando a quella libreria o stato psicologico in cui l’evento era stato memorizzato. Se i soggetti si sentivano felici, gli incidenti emozionali richiamati erano giudicati come più piacevoli; se si sentivano tristi, gli incidenti erano giudicati come meno piacevoli rispetto a quelli originali.
Si è osservato un effetto di recupero dipendente dallo stato d’animo quando si chiedeva ai soggetti di raccontare della loro infanzia. Quello che riportavano era notevolmente dipendente dal loro stato d’animo del momento (Bower, 1981). Bollenbach e Madigan e (1986) usarono la procedura Velten per indurre felicità o tristezza nelle persone costituenti il loro campione. I ricordi recuperati dalle persone felici erano valutati come più piacevoli rispetto a quelli rievocati dalle persone tristi. Precedentemente, Fogarty e Teasdale (1979) usarono la procedura Velten e trovarono che le persone felici recuperavano ricordi felici più velocemente rispetto a quelli tristi, mentre le persone tristi recuperavano ricordi tristi più velocemente rispetto a quelli felici. Successivi studi, hanno dimostrato che l’effetto di stato – dipendenza si verifica di più con il richiamo libero, quando sono dati indizi minimi per il recupero dei target, ma l’effetto è di gran lunga ridotto quando la memoria è testata attraverso indizi più adeguati, come si verifica in richiami che forniscono forti indizi o in test di riconoscimento (Eich, Gillin, Stillman, Weingartner, 1975).
Ci sono tre ulteriori punti di vista per spiegare gli effetti dell’ emozione sulla qualità del richiamo della memoria. Il primo: l’ emozione aumenta la ricchezza di dettagli soggettivi di memoria. Gli studi sui testimoni hanno mostrato che le persone che vivono un evento emozionale riportano memorie vivide e dettagliate per questo evento (Christianson e Hubinette, 1993; Yuille e Cutshall, 1986; Tollestrup et al., 1992). Il secondo: gli studi sulle FBM portano simili risultati. Il flashbulb effect denota che gli individui mantengono una memoria molto dettagliata e vivida del contesto in cui l’evento emozionale pubblico è stato appreso per la prima volta (Bohannon, 1988; Bohannon e Symons, 1992; Christianson, 1989; Conway et al., 1994; Curci, Gisle, Finkenauer e Luminet, 2001; El-Ahmadi, Finkenauer, Gisle, Luminet, Philippot e Van der Linden, 1998; Pillemer, 1984; Rubin e Kozin, 1984). Il terzo: gli esperimenti che hanno usato il paradigma R-K, trovarono che le immagini e le parole emozionali sono ricordate meglio di quelle neutre, soprattutto rispetto a immagini e parole negative. In questo paradigma, una risposta “remember” indica una specifica memoria dell’evento durante la quale l’item è stato imparato, inclusi pensieri, sentimenti e dettagli sensoriali. La risposta “know” è caratterizzata dal sentimento di essersi precedentemente imbattuto nell’item senza nessun ricordo specifico dell’apprendimento dell’evento.
Dall’altro lato, molti studi hanno mostrato che l’ emozione ha un effetto deleterio sul recupero di specifici dettagli della memoria. Gli studi dimostrano che le persone che sono testimoni di eventi negativi hanno spesso una performance povera nel recupero dei dettagli dell’evento (Christianson e Safer, 1996; Burns e Loftus, 1982; Steblay, 1992). Altri studi suggeriscono che l’attivazione emozionale, sia momentanea che cronica, è associata con un richiamo più povero di dettagli specifici della memoria. Dozier e Philippot (1996) e Herbette, Philippot e Schaefer (2003) mostrano che le emozioni sono preferenzialmente associate con ricordi autobiografici generali piuttosto che con ricordi con specifici dettagli spazio – temporali. I pazienti con disordini emozionali come depressione o disturbi ossessivi – compulsivi, hanno la tendenza a richiamare ricordi generici, con scarso accesso a specifici dettagli. Questi studi dimostrano che l’ emozione è associata con ricordi più ricchi di dettagli, mentre altri studi riportano il contrario. I motivi della contraddizione riguardano i molteplici metodi utilizzati per valutare le performance di memoria e il fatto che l’ emozione può avere un effetto differente sui diversi tipi di dettagli ricordati (Christianson, 1992).
La mia vita da zucchina (2016) – Recensione del film
La mia vita da zucchina, un film per raccontare la vita di alcuni piccoli bambini “orfani“ in una casa famiglia. Un racconto verosimile di questa realtà: ci sono gli eventi traumatici vissuti dai bambini, ci sono gli abbandoni, ci sono i sintomi e le reazioni post-traumatiche. Ma ci sono anche figure positive e benevole che fanno scoprire ai bambini cosa significa prendersi cura.
La mia vita da zucchina: la trama
Zucchina – così lo chiama la mamma, vero nome è Icar, ha 9 anni. Viveva con la mamma alcolizzata e trascorreva il tempo in una soffitta giocando in solitudine con lattine di birra vuote. A seguito di un incidente in casa perde la mamma.
Il papà lo ha abbandonato da tempo, unica traccia è il disegno che Zucchina ha fatto di lui su un lato del suo aquilone. Un poliziotto accompagna il povero Zucchina in una casa-famiglia.
All’inizio, resterà chiuso nel suo dolore, lentamente si aprirà alla vita della piccola casa famiglia ove è capitato.
I punti chiave del film
Uno dei punti chiave de La mia vita da zucchina è l’amicizia con gli altri bambini grazie alla quale Zucchina fa esperienza di condivisione, divertimento e consapevolezza :
“Siamo tutti uguali qui non c’è più nessuno che ci ama” – così dice Simon, il leader tra i bambini.
Altro punto chiave del film La mia vita da zucchinaè l’ espressione della sofferenza. I bambini fanno cose che possono apparire strane, in realtà sono espressioni delle esperienze traumatiche vissute: c’è la bimba africana che al sentire il motore di un auto avvicinarsi si affaccia e chiama mamma, Zucchina conserva con cura e gelosia una lattina di birra vuota, Simon non riesce ad aprire la lettera che arriva dalla sua famiglia, il tremore ripetitivo a tavola…
Ulteriore punto degno di nota è l’esperienza nuovissima di qualcuno che non solo ti guarda ma ti vede e vuole vedere te, qualcuno che ti accudisce con affetto e provvede ai tuoi bisogni:
Il bacio della buonanotte dell’educatrice;
Il poliziotto, che non ha mai smesso di andarlo a trovare…
Il maestro che porta in gita sulla neve e fa il “ buffone” per divertire i bambini.
In La mia vita da zucchina vi è anche l’esperienza di tutela: il giudice prende decisioni nette nella tutela del bambino e sceglie la soluzione che ritiene più protettiva per il bambino stesso, anche se questo talvolta comporta l’allontanamento del bambino dal genitore.
Il richiamo alla realtà
Ho lavorato per diverso tempo nell’ambito dell’adozione e dell’affido e tuttora nel mio lavoro incontro storie di abbandoni infantili ma anche di bambini che attraverso incontri felici in case famiglie o in affido, trovano nuove opportunità di esperienze di accudimento e cura che a loro volta possono dare origine ad esiti nuovi e favorevoli.
La mia vita da zucchina, tratto dal romanzo di Gilles Paris, trasportato cinematograficamente dal regista francese Claude Barras, racconta con delicato realismo il dolore di un bambino, che teme di aver ucciso la propria mamma, che non ha più una famiglia che si prende cura di lui.
Il film senza eccedere e senza retorica racconta davvero che significa il dolore di non avere più una famiglia, di non avere un posto nel mondo, di non appartenere a nessuno o di avere un posto ma in una famiglia maltrattante.
La mia vita da zucchinamostra anche la struttura delle case famiglie. Gestite da una giovane coppia, proprio per mantenere l’esperienza dei ruoli genitoriali, e da una figura apparentemente dura e autoritaria ma protettiva: la direttrice, forse un assistente sociale. Una casa che accoglie pochi bambini, sei i protagonisti della pellicola, proprio per ricreare l’ambiente familiare.
Ho apprezzato il disegno e la grafica: gli occhi grandi con i quali sono rappresentati i personaggi richiamano bene il grande bisogno di questi bambini: essere visti non solo guardati.
La battuta che preferisco del film è: “ da oggi voi siete diventati miei figli e questa è casa nostra”.
Ciò che è stato prima non si cancella ma si integra in quello che c’è ora.
Andate a vedere questo film per godere di questo lieto finale ma soprattutto per capire la realtà di questi bambini e delle case famiglie, sono certa che coglierete messaggi utili ciascuno alla propria realtà famigliare perchè in fondo tutti cerchiamo soprattutto l’esperienza di amare ed essere amati.
GUARDA IL TRAILER DEL FILM LA MIA VITA DA ZUCCHINA:
Sistema esperto nella diagnosi in psicologia clinica: analisi di un prototipo
E’ mia intenzione qui di seguito introdurre un prototipo di sistema esperto pensato per supportare il lavoro dello psicologo clinico nella diagnosi dei possibili disturbi dei suoi clienti.
Sistema esperto per la diagnosi: un prototipo
Considerando le limitazioni insite nelle basi di conoscenza dei sistemi esperti, la scarsa affidabilità delle procedure di elicitazione dell’esperto umano, la rigidità del funzionamento dei programmi automatici a causa della separazione tra regole e fatti, non sembra al momento giustificata una eccessiva fiducia nelle capacità dei sistemi esperti come solutori di problemi e come decisori autonomi.
Per cercare di ovviare a tale problematica, soprattutto tra gli psicologi clinici, è mia intenzione qui di seguito introdurre un prototipo di sistema esperto pensato per supportare il lavoro dello psicologo clinico nella diagnosi dei possibili disturbi dei suoi clienti.
In modo particolare seguirà un’analisi approfondita di come le parti che concorrono a formare questo programma (il sistema di dialogo, il database, la base di conoscenza e il motore inferenziale) adempiono al loro scopo. Lo studio di tale sistema è tratto dall’articolo: “An expert system supporting diagnosis in clinical psychology” di Spiegel R. e Nenh Y. (2004).
Il sistema di dialogo
L’interfaccia del sistema è stata creata in codice html e PHP è stato utilizzato per allacciare la connessione con il database. Per accedere al sistema esperto l’utente, nel nostro caso lo psicologo clinico, deve inserire una password di riconoscimento. Non appena connesso, egli riceverà una carrellata di informazioni riguardanti l’utilizzo e lo scopo del programma.
I disturbi elencati all’interno del sistema esperto sono strutturati rispettando gli stessi criteri guida del DSM IV e dell’ICD 10 mentre i sintomi descritti sono raggruppati in diverse categorie Non appena lo psicologo clicca sopra una categoria, una lista di sintomi appare sullo schermo del computer. Ecco come vengono visualizzati tre sintomi che rientrano nella categoria “sintomi riferiti allo stato d’animo”.
Figura 1: Sintomi visualizzati sul display del computer
Una volta selezionati i sintomi interessati, allo psicologo non resta altro che inviarli al database, il quale formulerà a sua volta una possibile diagnosi. Lo psicologo si dovrà tuttavia ricordare che la diagnosi espressa dal sistema è formulata in termini di rischi e non come una risposta finale. Inoltre, una rappresentazione grafica su scala da 1 (alto rischio) a 5 (rischio basso) può essere ottenuta per stimare il rischio di incidenza del disturbo.
Disturbo Bipolare
Figura 2: Rappresentazione del rischio di decenza del Disturbo Bipolare
Oltre a ciò l’interfaccia del programma permette allo psicologo di trascrivere una serie di informazioni in formato testuale. Queste informazioni saranno salvate nel database e potranno essere utilizzate come materiale di scambio con altre figure professionali dedite alla cura della persona.
Il database
Postgres, il database del sistema esperto, contiene al suo interno tutte le informazioni relative a ogni possibile sintomo e disturbo. Tale database, usando i sintomi selezionati dallo psicologo, crea una query allo scopo di cercare quanti dei sintomi precedentemente indicati coincidono, anche solo parzialmente, con quelli di una qualunque patologia. Bisogna tuttavia considerare che alcuni sintomi, predittivi per una determinata patologia, possano essere validi anche per un altro tipo di disturbo. Ad esempio, il sintomo “esercizio eccessivo” può essere applicato sia alla bulimia che all’anoressia nervosa, ma nonostante tutto è un indicatore migliore per l’anoressia nervosa. La ponderazione di ciascun sintomo è attentamente valutata dalla base di conoscenza.
La base di conoscenza
La base di conoscenza si fonda sui rapporti verbali di esperti che affermano come le loro conoscenze vengono applicate per eseguire un determinato compito.
Questa conoscenza, è poi tradotta in un set di regole successivamente programmate nel sistema esperto. Nel nostro caso, la conoscenza trasposta riguarda i resoconti clinici di specialisti che spiegano come determinati sintomi possono appartenere a differenti disturbi. Ciò nonostante, va ricordato che una vera diagnosi in psicologia clinica è più complessa di una serie di regole sviluppate per un sistema esperto. Un esempio di conoscenza competente tradotta in una base di conoscenza può riguardare i sintomi di depressione, quali il persistente umore basso per una durata di almeno due settimane, più cinque dei sintomi seguenti:
Perdita di peso significativa o guadagno.
Inabilità di dormire o difficoltà a stare addormentato.
Perdita di energia o la fatica.
Agitazione, inquietudine o l’irritabilità.
Perdita di piacere o interessa in usuali attività.
Pessimismo o disperazione
Ricorrenti pensieri di suicidio, morte o tentativi di suicidio
Questi sintomi verranno poi tradotti in una serie di regole che verranno successivamente interpretate dal motore inferenziale al fine di pervenire a conclusioni valide.
Il motore inferenziale
Il motore inferenziale collega le regole provenienti dalla base di conoscenza con i “fatti” del database (nel nostro caso i sintomi) allo scopo di inferire un possibile risultato (la diagnosi) o formulare responsi di altro tipo. Ogni fatto è inoltre legato a delle regole ben precise nel motore inferenziale. Queste regole si basano sulle indicazioni provenienti dalla base di conoscenza. Una possibile regola potrebbe essere questa:
“SE l’ammontare dei sintomi associati all’anoressia nervosa è maggiore o uguale a 14 ALLORA c’è un alto rischio di incidenza del disturbo. SE l’ammontare dei sintomi è invece minore di 14, ma più grande o uguale a 10, c’è ALLORA un rischio medio di anoressia nervosa. SE l’ammontare dei sintomi è minore di 10 ma maggiore o uguale a 5, ALLORA il rischio che la patologia si manifesti è molto basso”.
Le mnemotecniche: in che modo migliorano la memoria
Tutte le volte in cui facciamo qualcosa di deliberato per irrobustire il ricordo mettiamo in atto delle strategie di memoria: facciamo un uso strategico della memoria compiendo operazioni attive intelligenti. Le mnemotecniche sono tecniche di memoria volte alla memorizzazione e che facilitano l’immagazzinamento e recupero di informazioni.
Le mnemotecniche: i metodi per migliorare il ricordo
Esistono numerosi modi in cui può essere elaborato il materiale che voglio ricordare, ma è poco probabile che la semplice intenzione di ricordare ci sia di aiuto, poiché l’uso passivo, meccanico e ripetitivo della memoria, senza sfruttarne la potenzialità strategica, favorisce poco l’elaborazione efficace del materiale da ricordare.
Specifici compiti di memoria possono essere risolti usando strategie interne (mnemotecniche) o strategie esterne (prendere appunti, usare sveglie e il famoso nodo al fazzoletto).
In base al tipo e alla quantità di informazione da memorizzare è possibile categorizzare i differenti metodi in tre gruppi:
1) metodi che migliorano il ricordo di singoli item: il metodo dei loci, la creazione di immagini mentali, il metodo dei link, il peg-system, la categorizzazione e prendere appunti;
2) metodi che migliorano il ricordo dei nomi: la tecnica facce-nomi;
3) metodi che migliorano il ricordo dei numeri: il sistema numero-consonante.
1) Metodi per migliorare il ricordo di singole informazioni
METODO DEI LOCI. È una delle tecniche più conosciute e più antiche, in passato veniva utilizzata per ricordare i discorsi (Yates, 1966), ma è anche impiegata per memorizzare singoli item in sequenza come la lista della spesa o le azioni da compiere durante il giorno (Lorayne e Lucas, 1974). Si procede con la creazione di una sequenza di luoghi (loci), meglio se ben conosciuti (come ad esempio tutti i luoghi che incontro nel tragitto da casa al lavoro). Questa sequenza è fondamentale e, perché la strategia sia utile, deve essere appresa perfettamente, automatizzata. Nella fase di codifica del materiale il primo item da ricordare deve essere associato al primo luogo della lista, il secondo item al secondo luogo e così via. Quando dovrò richiamare il materiale dovrò ripercorrere mentalmente la sequenza di luoghi partendo dal primo, che costituisce il cue (l’aggancio) e che favorirà il ricordo del primo item, e procedendo nello stesso modo fino all’ultimo luogo per ricordare l’ultimo item.
CREAZIONE DI IMMAGINI MENTALI. È un’abilità di codifica di base che richiede meno risorse cognitive rispetto alla tecnica dei loci. Consiste nella formazione di scenari mentali molto vividi per consentire il ricordo dell’informazione.
METODO DEI LINK. Come la tecnica precedente, anche questa richiedere meno dispendio cognitivo e consiste nell’associare ogni item della lista a quello precedente. Questa strategia, insieme a quella delle immagini, può anche essere utilizzata per formare immagini interattive di più item invece di immaginarne uno alla volta (Stigsdotter Neely e Bäckman, 1993b).
PEG-SYSTEM. È simile al metodo dei loci e prevede la memorizzazione di dieci parole di riferimento in rima con i numeri da 1 a 10 (ad esempio 1-pruno, 7-vette o 10-ceci). Ogni item viene associato attraverso immagini interattive a ciascuna parola di riferimento, che costituisce il peg (l’aggancio) per l’item: se ad esempio il primo item da ricordare è “sciarpa” si può immaginare una sciarpa su un pruno e così via. Per ricordare gli item procederò in ordine da 1 a 10 e attraverso il peg recupererò le immagini elaborate.
CATEGORIZZAZIONE. È il metodo più usato nella vita quotidiana e prevede il raggruppamento in categorie specifiche degli item da ricordare. Richiede l’abilità di ristrutturare e classificare gli stimoli in base ai loro elementi caratteristici, costruendo categorie in cui inserirli.
PRENDERE APPUNTI. Probabilmente è la strategia quotidiana più usata ed è il mezzo più ovvio per ricordare singole informazioni, ma non per questo meno efficace. Tecniche interne, come il metodo dei loci, e tecniche esterne, come prendere appunti, sono complementari. In alcune circostanze il prendere nota è preferibile rispetto a metodi interni, ma in altre occasioni è vero il contrario (Intons-Peterson e Fournier, 1986).
2) Metodi per migliorare il ricordo di nomi
I nomi sono elementi difficili da ricordare, in particolare se hanno una natura astratta. Vengono usate molte tecniche per migliorare il ricordo dei nomi (Higbee, 1988), ne esistono di più complesse, come ad esempio quelle che si basano sulla trasformazione delle immagini, e di più semplici. Tra quelle complesse rientrano le mnemotecniche facce-nomi usata da Yesavage (1983), composta da tre fasi:
a) scegliere una caratteristica rilevante del volto;
b) mettere in atto una concreta trasformazione in immagine del nome della persona;
c) formare un’immagine visiva interattiva collegando la trasformazione del nome alla caratteristica facciale prominente.
È un metodo che richiede un notevole dispendio cognitivo, ma esistono anche dei modi per semplificarlo senza comprometterne l’efficacia, come ad esempio usare solo la fase b), privilegiando quindi l’elaborazione del nome e la sua trasformazione in una rappresentazione visiva.
Sempre per diminuire la richiesta di risorse cognitive, si usano sia strategie che elaborano i nomi da ricordare associandoli a conoscenze pregresse, come ad esempio pensare a qualcuno di conosciuto con lo stesso nome, sia la tecnica “spaced retrieval”: si ripete il nome da ricordare aumentando di volta in volta l’intervallo tra una ripetizione e l’altra.
3) Metodi per migliorare il ricordo di numeri
Una mnemotecnica tra le più conosciute per ricordare i numeri è il sistema numero-consonante (Higbee, 1988), simile al metodo dei loci. È composto da quattro fasi:
a) memorizzare una serie di coppie cifra-consonante (ad esempio 1=T o D; 5=L; 9=P o B) fino a che non sia super-appresa e automatica;
b) trasformare la stringa di numeri da ricordare in una sequenza di consonanti alla quale unire vocali per formare una parola;
c) memorizzare la parola formata;
d) trasformare la parola nella stringa originale di numeri.
Strategie come questa possono essere utili per codici che non vengono usati ogni giorno, perché quando l’uso è quotidiano il codice viene super-appreso e automatizzato rendendo superflua la necessità di un’elaborazione complessa.
Una delle critiche più frequenti rivolta all’uso delle mnemotecniche più complesse (come il metodo dei loci o quello facce-nomi) si centra sulla difficoltà di applicazione in situazioni quotidiane perché molto articolate, tanto da risultare a volte anche inappropriate; ma è anche vero che l’uso sistematico di queste strategie consente di ottenere in breve tempo miglioramenti nelle performance di memoria.
Aspetti psicologici e psicopatologici correlati all’endometriosi
La complessità clinica-terapeutica dell’endometriosi non riguarda solo il trattamento dei suoi effetti sul sistema organico-corporeo, ma anche si riflette sulla componente psichica-soggettiva (Kennedy, 2005): l’endometriosi non è infatti solo una malattia che sovverte l’anatomia degli organi, ma si tratta soprattutto di qualcosa che colpisce l’identità femminile, in tutte le sue dimensioni: individuale, relazionale, sessuale e sociale.
Valentina Olivi, Alessia Zoppi
Endometriosi: il quadro clinico
L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica che colpisce le donne prevalentemente in età riproduttiva, ed è caratterizzata dalla presenza di tessuto endometriale fuori dall’utero, che creando infiammazione, può arrivare a compromettere il funzionamento degli organi coinvolti. Il quadro sintomatico si presenta come estremamente variabile ed eterogeneo, generalmente caratterizzato dalla presenza di: dismenorrea, dolori pelvici cronici, forti crampi durante il ciclo e/o l’ovulazione, rapporti sessuali dolorosi (dispareunia), disturbi a livello della vescica e dell’intestino e ipofertilità (Bulletti C., Coccia M.E., Battistoni S., Borini A., 2010).
Sintomi questi, che variano a seconda della localizzazione delle ghiandole endometriali. Nonostante la maggior parte delle donne affette presenti dismenorrea e dolore pelvico, si riscontrano casi in cui la malattia è quasi del tutto asintomatica, motivo per cui Valle e Sciarra (2003) parlano di “malattia enigmatica”, sostenendo una scarsa correlazione tra la fase della malattia e la qualità/gravità del dolore.
Quindi, sebbene l’endometriosi rientri tra le patologie benigne, possiede carattere progressivo ed è responsabile di una sintomatologia in molti casi dolorosa e invalidante (Pope C.J., Sharma V., Sharma S., Mazmanian D., 2015).
Nonostante la sua scoperta da quasi un centennio e la sua incidenza superiore al 10% della popolazione femminile in età fertile, si rivela essere una malattia poco conosciuta dal punto di vista eziopatogenetico, della ricorrenza dei sintomi, delle recidive (Ardenti R., 2014): aspetti questi che incidono negativamente sulle modalità diagnostiche e terapeutiche efficaci; l’approccio prevalente ad oggi utilizzato di trattamento della patologia è di tipo “contenitivo”, nella misura in cui ha lo scopo di rallentare e alleviare la patologia, in assenza di una cura definitiva (Bulletti C., Coccia M.E., Battistoni S., Borini A., 2010).
Gli aspetti psicologici associati all’ endometriosi
La complessità clinica-terapeutica dell’endometriosi non riguarda solo il trattamento dei suoi effetti sul sistema organico-corporeo, ma anche si riflette sulla componente psichica-soggettiva (Kennedy, 2005): l’endometriosi non è infatti solo una malattia che sovverte l’anatomia degli organi, ma si tratta soprattutto di qualcosa che colpisce l’identità femminile, in tutte le sue dimensioni: individuale, relazionale, sessuale e sociale (Geremia L., Ippolito R., Belluomo G., Cariola M., Vitale S.G., Cianci A., 2012).
Nonostante la limitatezza della ricerca in merito, gli studi esaminati sino ad ora dimostrano che la patologia incide negativamente sul funzionamento psicologico, in termini di benessere soggettivo, salute mentale e qualità di vita, poiché intacca diversi domini dell’equilibrio della donna: quello sessuale, quello di coppia, quello dell’identità di genere e quello della maternità (Ferrero S. et al., 2005 ; Caruso S. & Giuliani M., 2015 ; Geremia L. et al., 2012 ; Ferraro F., 1992 ; Righetti P.L. & Luisi S., 2007 ; Bulletti C. et al., 2010).
Questo ci porta a pensare che le donne affette da endometriosi siano maggiormente a rischio di sviluppare disturbi psicosociali e di natura psichiatrica, in prevalenza del tipo disturbi dell’umore (depressione maggiore e bipolarità), ansia, disturbi di adattamento, elevati livelli di stress cronico (Pope C.J. et al., 2015 ; Sepulcri R.D. et al., 2009).
Sembra infatti che le donne affette da endometriosi si presentino come più introverse e ansiose rispetto a coloro che sono affette da altre patologie ginecologiche (Low W.Y., Edelmann R.J., Sutton C., 1993),
A giocare un ruolo determinante in questo senso è il fenomeno del dolore cronico e ciclico che colpisce le pazienti sintomatiche: ricerche recenti mostrano come ad esempio la prevalenza della depressione è maggiore nelle donne affette da endometriosi con dolore pelvico cronico, rispetto alle donne che pur soffrendo di tale patologia, non presentano nessun sintomo doloroso (Pope C.J., Sharma V., Sharma S., Mazmanian D., 2015). Barnack e Chrisler (2007), confermando in merito a ciò che ad avere implicazioni specifiche per la salute mentale delle donne sono proprio i fattori legati al dolore provocato dall’endometriosi.
Il dolore pelvico cronico si dimostra quindi essere associato a conseguenze negative non solo fisiche, ma anche psicologiche e di conseguenza socio-relazionali, nella misura in cui la donna affetta da tale sintomo non può lavorare, non gode dei rapporti sessuali, delle situazioni sociali e anzi esperisce sbalzi d’umore e livelli moderati/gravi di depressione e ansia. Tali problematiche sono inoltre associate al lasso di tempo eccessivamente lungo che intercorre tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi. Per cui sintomi difficili da gestire e lunghe attese prima di ricevere una diagnosi portano le pazienti a sperimentare una condizione di dolore e sofferenza prolungata, che si rivela poi essere in parte responsabile dell’aumento dei livelli di stress, insoddisfazione sessuale e diminuita autostima: fattori questi che possono aumentare il rischio di complicazioni psichiatriche (Pope C.J., Sharma V., Sharma S., Mazmanian D., 2015).
In una direzione diversa, altri studi hanno cercato di dimostrare come queste pazienti presentino una maggiore sensibilità al dolore per l’instaurarsi di meccanismi di ipersensibilità centrale, riduzione della soglia del dolore e disturbi psicologici associati (Geremia L., Ippolito R., Belluomo G., Cariola M., Vitale S.G., Cianci A., 2012).
Alla luce degli studi presenti è possibile ipotizzare che la sofferenza corporea e i deficit organici associati alla patologia, cui fa seguito la problematica psicologica e socio-relazionale, determinino una rappresentazione psichica di sé carente e deficitaria. In queste patologie il deficit della rappresentazione di sè e del proprio corpo è consequenziale all’emersione della patologia, che in modo così assoluto va a incidere negativamente sulla vita della donna. Infatti i fattori che accentuano il disagio psicologico sono: l’iter diagnostico, la diagnosi di sterilità e l’iter terapeutico (Ardenti R., 2011 ; Sepulcri R.P. & Amaral V.F., 2009 ; Huntington & Gilmour, 2005 ; Denny E. & H.Mann C., 2007 ; Fourquet J. et al., 2010).
L’attuale conoscenza circa la correlazione tra endometriosi e disturbi psichici è limitata; appare però piuttosto chiaro che la rappresentazione deficitaria del sé che si rileva in queste pazienti è una conseguenza dei sintomi organici: il modo di percepire il proprio corpo, quindi se stesse, cambia in seguito alla sintomatologia, diversamente da come ad esempio accade in altri tipi di disturbi (DCA, dismorfismo corporeo, etc.), nei quali è possibile individuare una rappresentazione deficitaria di sé precedente allo sviluppo del sintomo psichico. I meccanismi difensivi messi in atto dalle pazienti affette da endometriosi sono finalizzati all’elaborazione dei vissuti di perdita e accettazione luttuosa e delle emozioni suscitate dalla malattia (vergogna, colpa, rabbia) (Ardenti R., 2014 ; Geremia L. et al., 2012 ; Denny E. & H.Mann C., 2008).
Per le sue importanti implicazioni e per la sua pervasività è possibile affermare che l’endometriosi è l’artefice di una ferita narcisistica che fa sentire la donna incompleta, inadeguata e colpevole, schiacciata da un profondo senso d’inferiorità (Ardenti R., 2011). Avendo a che fare in questi casi con un Io svuotato, impoverito, è comprensibile come tali vissuti conducano a reazioni di natura prevalentemente ansiosa e depressiva.
Non a caso in merito all’ampia costellazione di emozioni riscontrate in queste pazienti, emerge un senso di vuoto improvviso che si estende a macchia d’olio, coinvolgendo i punti nevralgici di un’esistenza sana ed equilibrata (Lorencatto et al., 2006).
Il forte impatto sulla qualità della vita viene messo in rilievo dalle stesse donne che ne sono affette, le quali dichiarano di soffrire di disturbi del sonno, di forti dolori che rendono i rapporti sessuali difficili o impossibili, con ripercussioni negative sul rapporto di coppia, esse inoltre riferiscono problemi sul lavoro e nella vita sociale, sperimentando vissuti di rabbia, depressione, frustrazione, ansia, nervosismo, affaticamento e sensazione di non essere aiutate (Alio L. & Maiorana A., 2006).
La sofferenza fisica e quella psichica finiscono per alimentarsi a vicenda, fino a fondersi, suggerendo una lettura circolare di questo meccanismo (Solano L., 2015); tale considerazione si rivela particolarmente appropriata in merito al ruolo del dolore pelvico cronico nell’aumentare il rischio di sviluppare sintomi di natura depressiva: se è vero infatti, che stati psicologici negativi possono aggravare la percezione di dolore cronico, è importante tenere in considerazione che la disfunzione psicologica può essere una conseguenza di esso (Blackburn-Munro G. & Blackburn-Munro R.E., 2001).
A fronte delle ricerche condotte dunque, per ora ansia e depressione costituiscono comuni condizioni di comorbilità nei casi di endometriosi (specie nelle donne infertili e con dolore pelvico cronico). Vi è tuttavia da considerare il fatto che a influenzare il benessere emotivo di tali donne siano anche altri fattori, che potrebbero mediare la relazione tra endometriosi e disturbi psichiatrici: in particolare ci si riferisce all’infertilità, all’isolamento sociale e alle difficoltà di relazione (Pope C.J., Sharma V., Sharma S., Mazmanian D., 2015).
Alla luce di quanto emerso dalle ricerche è evidente l’importanza di un lavoro di sostegno psicologico, nell’immediato, successivo alla diagnosi e a lungo termine, che possa prendere in carico il tema della accettazione della malattia, del dolore, della terapia farmacologica, della gestione relazionale e personale dei sintomi al fine di rendere possibile un processo di accettazione e revisione funzionale della vita dopo la malattia.
La dipendenza patologica nel film “Non essere cattivo” (2015) – Recensione
Il film Non essere cattivo traccia una panoramica della dipendenza da cocaina ed eroina, con uso occasionale di ecstasy affiancata ad episodi di devianza legati alla ricerca della sostanza e più in generale della sopravvivenza, e dell’identità.
Non essere cattivo: la trama
Cesare e Vittorio sono amici per la pelle, fratelli che si uniscono, si aggrappano, si distanziano, per poi ritrovarsi nuovamente in un contesto che offre ben poco per crescere e molto per distruggersi: criminalità e cocaina sono infatti a portata di mano, imminenti fonti di piacere e di guadagno, tentazioni difficili da respingere per due ragazzi che nei soldi e nello sballo intravedono un mezzo percorribile per emergere, vivere come si dovrebbe e quindi costruirsi un’esistenza agiata e soddisfacente.
Ad Ostia l’alternativa è lavorare al cantiere, spaccarsi la schiena per racimolare qualche spicciolo che purtroppo sfama poche bocche in casa e lascia l’amaro, la voglia di ottenere quel qualcosa in più per vedere sorridere la famiglia. Non essere cattivo (2015) è quindi una storia verosimile, un ritratto lineare e limpido di una condizione frequente, in cui questa volta i protagonisti sono due giovani soli che insieme trovano la forza di affrontare una vita misera nella quale muore di AIDS chi non ha mai toccato la droga, né sa cosa sia, mentre sopravvive, seppur con costi molto alti, chi vende e usa le strisce quotidianamente e ne ha fatto, ormai, una triste e inevitabile abitudine: nonostante i tentativi di recuperare e reinventarsi in altre vesti, finiscono per ritornare ad essere ancora se stessi, fino alla fine del percorso insieme.
Non essere cattivo: i fattori di rischio della dipendenza legati al contesto
Il film Non essere cattivo traccia una panoramica della dipendenza da cocaina ed eroina, con uso occasionale di ecstasy affiancata ad episodi di devianza legati alla ricerca della sostanza e più in generale della sopravvivenza, e dell’identità. Come già precisato, infatti mantenersi con un lavoro onesto in cui è necessario sudare e impegnarsi è un obiettivo tanto ambizioso quanto arduo e impervio, e molti, per permettersi qualche sfizio e non restare a “stecchetto”, sono costretti a perseguire un cammino sporco e pericoloso, dal profitto rapido, elevato e senza sforzi eccessivi. Se a ciò si aggiunge la totale mancanza di interessi alternativi e produttivi, il quadro peggiora notevolmente: spesso la dipendenza conduce ad incentrare l’esistenza attorno al procacciamento della “roba” attraverso qualsiasi strumento possibile, per di più antisociale, di conseguenza viene meno la maturazione di passioni intraprese costantemente e quindi la frequentazione di posti nei quali coltivare un’attività sportiva o artistica, ad esempio, o un corso di formazione che fornisca la preparazione necessaria per attivare un bagaglio di risorse protettive al fine di prevenire l’insorgenza della dipendenza o delle ricadute.
Non essere cattivo mostra come ad Ostia ci sia il vuoto completo: emblematica, a tal proposito, è la scena in cui Cesare invita Vittorio “a tirare due calci”, non tanto per il gusto di farlo, ma perché non c’è altro che recarsi in spiaggia e giocare a pallone. Il posto non offre molto, i ragazzi non si impegnano per trovare attività meno malsane e l’ambiente è costellato dalla criminalità che costituisce la normalità, non l’eccezione, in un sistema di credenze condiviso nel quale per fare i soldi, vivere bene, soddisfare le voglie e farsi passare i fastidi e i dolori, si deve per forza ricorrere a mezzi illegali e a sostanze psicoattive: sussistono quindi differenti e significativi fattori di rischio che aumentano la probabilità di innescare condizioni cliniche rilevanti come la dipendenza da sostanze e il disturbo antisociale di personalità (Bonino & Cattelino, 2010).
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM NON ESSERE CATTIVO:
Non essere cattivo: l’identità del “tossico” e accortezze nel lavoro terapeutico
È interessante notare il tema dell’identità nella tossicodipendenza nelle narrazioni dei pazienti: dichiararsi “tossici” e chiamare gli altri “tossici” non riconoscendosi in quella categoria, due atteggiamenti non necessariamente in contraddizione, appaiono collegati alle tematiche del sé nel rapporto disfunzionale con la sostanza. Nel primo caso sembra mancare un distanziamento tra “quello che faccio e quello che sono” tale da permettere di scorgere i vari lati della personalità, mentre nel secondo un avvicinamento essenziale per incentivare la consapevolezza della dipendenza: detto altrimenti, se definirsi con ostinata veemenza “tossici”, senza comprendere quanto il sé sia composto da altre parti potenzialmente produttive, rischia di rafforzare il disturbo, rifiutare quella parte proiettandola di continuo sugli altri, rischia di allontanare il problema, senza possibilità di elaborazione e quindi di motivazione al cambiamento.
Per di più l’aspetto dispregiativo dell’espressione comprende un universo di simboli e significati rilevanti nelle storie di vita dei pazienti, che racchiudono la vergogna, il disprezzo, il senso di emarginazione ed estraneità, l’impotenza e il fallimento, tutti elementi che il clinico dovrà considerare e approfondire.
Oltre alla coscienza del problema, viene a cadere anche la sua accettazione: nel film Non essere cattivo nella conversazione tra Cesare e Samantha, ad esempio si evidenzia quanto il primo, paradossalmente subito dopo aver consumato l’eroina, continui a non identificarsi come un individuo che dipende da una sostanza, e quindi un tossicodipendente. Questo costituisce, talvolta, un aspetto particolarmente intollerabile e sottovalutato, ovvero realizzare l’incapacità di gestire l’incessante desiderio di assumere una sostanza che sul momento soddisfa, ma a lungo andare rovina, essere quindi dipendenti da quella pallina, pillola o striscia che distrugge ed è socialmente disapprovata, il che è il testimone del senso di debolezza personale, del fallimento e della delusione che evitati attivamente contribuiscono alle ricadute, nonostante ricoveri, e la frequenza costante ai servizi di cura pertinenti. Pertanto, in un’ottica di lavoro terapeutico è necessario concentrarsi sull’intreccio tra identità e uso della sostanza, astenendosi dal colludere con gli atteggiamenti svalutanti, auto ed eterodiretti, cercando, al contrario, di osservare la modalità con cui il soggetto entra in relazione con sé e gli altri, le rappresentazioni nella logica interna del funzionamento (Bara, 2015: Guidano, 1988).
In terapia tali pazienti, inoltre, oscillano dall’idealizzazione alla svalutazione e la rottura dell’alleanza o la difficoltà a relazionarsi si evidenzia anche attraverso forme sottili, come gli atteggiamenti manipolatori, seduttivi e aggressivi (Bara, 2015) tesi ad ingannare, distanziare o coinvolgere il professionista per non approfondire le aree rilevanti: a questo proposito sono frequenti le narrazioni torrenziali intrise di dettagli poco pertinenti alle domande, o di elementi confusi, contraddittori e accatastati l’uno sull’altro, o ancora svariati complimenti fin dalle prime battute, modalità compiacenti e tentativi di dirigere il colloquio sugli argomenti desiderati, evitando quelli temuti. Non è inusuale, pertanto, sperimentare emozioni intense in seduta oppure difficoltà ad agganciare emotivamente il paziente che può apparire ritirato e distaccato (Bara, 2015). È compito del terapeuta, pertanto, identificare e monitorare anche il proprio stato emotivo “in campo”, cercando altresì una distanza adatta per esaminare i dati principali, cogliendo i momenti di rottura come occasioni adatte per capire insieme quale tipo di problema sta attraversando il rapporto (Carcione, Nicolò & Semerari, 2016).
Impostare la relazione da un punto di vista collaborativo aiuta così il paziente a rappresentare la terapia come un lavoro a due, e non ad uno, in cui riveste il ruolo di esperto dei contenuti, al contrario del terapeuta che si contraddistingue come l’esperto del metodo per orientare verso una maggior conoscenza di sé (Lenzi & Bercelli, 2010). Un altro dettaglio da prendere in esame è l’ambivalenza del paziente, che assume posizioni contrapposte anche quando i fatti risultano evidenti: potrebbe succedere che, una volta rivisti insieme gli episodi legati all’uso, sorgano convinzioni opposte finalizzate a rafforzare la dipendenza. In questi casi, come nelle eventuali ricadute, è bene rammentare la libertà di scelta del paziente sia nei comportamenti che nelle idee, tenendo in considerazione che non sempre si tratta di resistenza al trattamento, bensì di un processo auto-referenziale in cui l’individuo dà senso alla realtà e decide pertanto di accettare tale condizione come l’unico modo di essere, seppur con sacrifici e pericoli elevati (Bara, 2015).
In determinate circostanze, la dipendenza costituisce un elemento essenziale che mantiene l’equilibrio psichico, seppur precario, senza la quale rischierebbe di crollare e fomentare una patologia ben più grave, come un quadro psicotico: ciò non dev’essere comunque generalizzato, ma contestualizzato a seconda del caso che va esaminato approfonditamente non solo attraverso un’analisi funzionale e storica del sintomo, ma anche nei vissuti sperimentati durante le sedute, nelle carenze metacognitive, nonché nelle risorse presenti o potenziali del paziente. A tal proposito può essere un buon suggerimento cercare di individuare i punti di forza, come le passioni e gli interessi, anche se minimi, al fine di agevolare una partecipazione costante: capita sovente di trovare una scarsa padronanza degli stati affettivi negativi che si “placano” attraverso la sostanza, pertanto riuscire a sostituirla con un interesse costruttivo, anziché distruttivo, potrebbe essere un modo più sano per gestire le emozioni disturbanti e dare un senso diverso alla realtà (Carcione, Nicolò & Semerari, 2016).
C’è da precisare, inoltre, il ruolo cruciale della famiglia nell’accettazione della dipendenza e nel sostegno: nel film Non essere cattivo, come capita nella realtà, questo elemento manca appunto perché entrambi i personaggi provengono da una situazione complessa in cui il problema è evitato o addirittura condannato, il che rafforza il circolo vizioso di emozioni, pensieri e comportamenti relativi alla dipendenza e all’abuso. La presenza di una famiglia supportiva e di interessi soddisfacenti possono essere importanti aiuti, così come il ricorso ai servizi per la cura, il ricovero e il recupero, tuttavia è doveroso precisare l’eventualità che i tentativi percorribili non siano sufficienti a proteggere dal rischio di recidive o di insorgenza: fatta questa premessa, non bisogna cadere nell’errore di abbandonare il paziente a sé, come un caso perso, né di lasciarsi travolgere da tendenze controllanti e accudenti che sortirebbero un peggioramento. In tali frangenti la famiglia dovrà scendere a patti con i propri limiti e quelli del parente affetto da dipendenza, senza smettere di frequentare i servizi giusti per una corretta informazione e un percorso di sostegno.
Per quanto riguarda l’interazione tra sostanza e fattori di personalità, esistono quadri variegati: per esempio, nei tratti prevalenti di tipo depressivo l’uso sarà spesso collegato a situazioni di perdita, sensazioni di solitudine, di impotenza e di rabbia, mentre in un’organizzazione di significato personale di tipo DAP (disturbi alimentari psicogeni), si riconduce alla delusione di sé e dell’altro e alla definizione di sé (Guidano, 1988). Nel primo caso, inoltre, è presente un rischio suicidario per overdose decisamente alto, poiché la sostanza assume il significato di distruzione di un sé che nasconde un profondo senso di inamabilità, nel secondo, invece, si riscontra un utilizzo calibrato, in cui le dosi raramente si rivelano letali e si collegano al problema della auto-definizione che nei temi dapici appare vaga: la sostanza quindi non si limita alla “soppressione” di stati affettivi intolleranti, ma si estende al nucleo dell’identità e denota, pertanto, le rappresentazioni proprie, degli altri e del mondo esterno. Per questo, come si diceva prima, è fondamentale conoscere il paziente come persona, per approfondire i temi ricorrenti, le spiegazioni del problema, e in generale i fattori di personalità che lo guidano verso il mondo esterno e l’uso della sostanza.
Non essere cattivo: la funzione della sostanza e le possibili ricadute
Per comprendere meglio la funzione della sostanza nel funzionamento soggettivo occorre osservare alcuni elementi, tra cui la modalità del consumo, se avviene prevalentemente in solitudine o in compagnia e con chi, e gli eventi precedenti alle ricadute, nella maggioranza dei casi situazioni emotivamente impattanti in cui l’assunzione costituisce una soluzione rapida per alleviare la sofferenza o il malessere (Bara, 2015). Prima di una festa in discoteca i due protagonisti ricorrono all’ecstasy che procura un effetto euforico ed irritabile, con comportamenti violenti e aggressivi, mentre assumono la cocaina sia nei momenti di festa e in gruppo, sia nelle situazioni di estremo dolore accompagnato dall’abuso alcolico.
Una dose piuttosto elevata di cocaina potrebbe innescare un atteggiamento particolarmente violento e sintomi psicotici rilevanti: non è insolito, infatti, riscontrare anche convinzioni deliranti e allucinazioni dopo un’intossicazione, ed è infatti quello che capita a Vittorio, il quale, sconvolto dalle immagini fatate e demoniache, esprime tutta la vergogna e il disprezzo sputandosi in faccia, dopodiché decide di cambiare vita, lasciando la fidanzata, il giro, trovando altri spazi: il cantiere, una donna seria e riservata con un figlio adolescente a cui badare per evitare che ripeta gli stessi errori, una realtà ben lontana dalle serate “discoteca, coca e prostitute” che da quel momento in poi gli sembrano gli accessori di uno sbaglio clamoroso.
Per evitare il rischio di ricadute, taglia così i ponti con tutti, compreso l’amico del cuore dal quale, però, non riesce a stare molto lontano: “i soliti giri” fatti di soggetti che maneggiano la droga e i reati con estrema facilità costituiscono una fortissima tentazione per chi sta provando a lasciarsi alle spalle una vita dolorosa e contemporaneamente piacevole; tuttavia, in questa storia, non si tratta semplicemente di cattive conoscenze, bensì di un legame solido tra due persone profondamente sole, incomprese e poco supportate, che trovano l’uno nell’altra una base sicura, un porto a cui attraccare nel bene e nel male.
In Non essere cattivo Cesare, in casa, ha ancora una madre stanca e addolorata per la morte della figlia vittima dell’Aids contratta dal partner da cui ha partorito una bambina destinata a morire inesorabilmente nella stessa maniera sotto i loro occhi impotenti, di conseguenza è costretto ad esercitare il ruolo di capofamiglia obbligato “senza se e senza ma”, a badare economicamente ed empaticamente ai componenti: non c’è quindi tempo per piangere, né alternativa ai giri rapidi, fruttuosi e malavitosi, per fare il muratore infatti ci vuole una competenza che non ha sviluppato e agli occhi del capo è un totale inadeguato che ha trascorso l’esistenza a drogarsi e commettere crimini, un perditempo che toglie spazio a chi del mestiere se ne intende e ha dato il corpo e mischiato il sangue per una costruzione.
Vittorio è quindi il solo amico, il fratello con il suo stesso problema, a cui confidare le paure, abbandonarsi e permettersi di soffrire, che può comprenderlo e accoglierlo, senza il quale si sente totalmente spaesato. Pur di non perderlo, accetta anche di reinventarsi, seppur con scarsi risultati: il modo di gestire la dipendenza è diverso e ben presto conduce ai momenti di rottura, così mentre uno cerca di evadere, riprendendo il lavoro, continuando a mantenere una certa costanza e avviando una progettualità che sembra funzionare seppur con qualche discrepanza, l’altro si abbandona a sé, prova a costruirsi una famiglia, poi demolisce il tutto per procurarsi la droga, avviando dinamiche pericolose per sé e per gli altri.
Nel film Non essere cattivo mentre per Vittorio l’idea di avere una famiglia stabile sembra avviarsi sul piano della concretezza, per Cesare, al contrario, sfuma piano piano nell’aria, e una sostanza segue l’altra a ruota libera. Se nel primo si parla di ricadute, appunto perché l’uso di sostanze viene interrotto per un periodo significativo, per il secondo non sembra esserci un lasso di tempo molto ampio dal poliabuso di cocaina e alcol che appare connesso al disagio familiare. Subito dopo la notizia della morte di Deborah, infatti, i due amici consumano di nuovo la cocaina insieme aggiungendo l’alcol che provoca in entrambi un atteggiamento similmente apatico: la modalità ricorda una condivisione di una sofferenza inesprimibile, in cui la sostanza riveste lo strumento per sopperire le emozioni intense conseguenti al lutto di una persona cara, un evento che getta gli amici nello sconforto, i quali non avendo altre risorse per tollerare il dolore lancinante, ricorrono ad un “aiuto” rapido e soddisfacente. Tra i due è Vittorio a rivestire, in prevalenza, il ruolo di protettore che sostiene e aiuta l’amico, anche se ad un certo punto smette di essere il più forte, il fratello maggiore, e ricomincia così il vecchio giro.
Senza una famiglia alle spalle, solo, con un amico da controllare, in casa di una donna che ha già un figlio e nonostante le apparenze, si rivela estremamente fragile, il giovane avverte una sensazione di solitudine che si riflette nel modo in cui usa, un momento in cui nessuno è intorno e che probabilmente non ritornerà più, visto che è destinato a fare immediatamente i conti con il senso di responsabilità e il ruolo di protettore nei confronti delle figure significative che rischiano di soccombere alla medesima condizione senza il suo intervento. Ed è così che nel film Non essere cattivo Vittorio esce dalla dipendenza, sopportando in silenzio, lavorando sodo senza pretendere altri soldi, sistemandosi, come recita nel film, abbandonando le tentazioni alle spalle. Se prima apre e gestisce un locale di videopoker, dopo torna alle mansioni umilissime, rifiutando persino le offerte di lavoro sporco. Poco prima della svolta definitiva, accadono due eventi significativi: la prima assunzione di cocaina da parte di Linda e la morte di Cesare, ucciso dall’uomo che tentava di rapinare. La prima avviene la mattina dopo la ricaduta, quando la compagna sorprende la droga sul tavolo e decide di provarla in un gesto di disperata condivisione: questo episodio sembra innescare un forte senso di colpa in Vittorio che attraverso Linda e il figlio trova una famiglia e una nuova occasione per recuperare l’esistenza partendo da zero. E infine la morte di Cesare, l’ultima goccia che fa traboccare il vaso: l’amico più caro muore appunto per mano di un evento che egli stesso ha ricercato per la droga e la vita da criminale, che l’ha condotto lentamente alla distruzione di sé e dei progetti futuri.
Non è raro riuscire a superare la dipendenza o l’abuso occasionale, specialmente da giovani, dopo una serie di eventi di vita traumatici per il soggetto che coinvolgono le figure significative: assistere ad un suicidio per overdose o ad un omicidio correlato al problema, ad esempio, o ancora all’esordio del disturbo in un parente sono occasioni per riflettere su di sé e sulla vita che si sta conducendo, prendendo in considerazione l’eventualità di abbandonare l’assunzione e certe frequentazioni per sostituirle con altre più gratificanti. Ne dà l’esempio Vittorio in Non essere cattivo che dopo ripetuti tentativi si crea finalmente una stabilità in famiglia e sul lavoro, accontentandosi di poco pur di aver una vita tranquilla che magari in altri frangenti avrebbe salvato anche Cesare. Gli eventi drammatici e le difficoltà interpersonali sono “molle” da monitorare, come si vede dagli episodi successivi alla morte di Deborah e ai problemi di coppia tra Linda e Vittorio; di conseguenza non vanno mai sottovalutate nemmeno quando l’uso è terminato ormai da anni.
Smettere da tempo, non significa non ricominciare mai più, ed è per questo che chi ha attraversato un problema con le sostanze, insieme ai famigliari, non dovrebbe trascurare l’eventualità che il disturbo si ripresenti soprattutto in circostanze difficili da sostenere emotivamente o che la sostanza usata in precedenza venga sostituita da un’altra o da una dipendenza comportamentale (gioco d’azzardo patologico o dipendenza da internet, ad esempio).
Attraverso la condivisione della sofferenza con le persone significative è possibile raggiungere un apprendimento dall’esperienza e stabilire un impegno al cambiamento che merita una valorizzazione e un affiancamento ad un percorso psicoterapico in cui il paziente e la famiglia possano riconoscere i campanelli d’allarme delle potenziali ricadute. La psicoterapia si rivela utile, così, anche nei periodi lunghi di astinenza con l’obiettivo di riconoscere e nominare le emozioni e i pensieri connessi all’uso e quindi i momenti in cui la vulnerabilità alle ricadute è tendenzialmente elevata: “addestrare” il soggetto a riconoscere i segnali corporei, a dare un nome alle sensazioni sperimentate collegandole ai pensieri e alle immagini potrebbe diventare un primo passo per la consapevolezza di sé e dei motivi che riconducono ad usufruire di una particolare sostanza.
Le controindicazioni attuali e future all’utilizzo della realtà virtuale
Alcuni presupposti medici presentano controindicazioni significative all’utilizzo della realtà virtuale. Le avvertenze attuali nell’utilizzare la realtà virtuale fanno normalmente riferimento a malesseri fisici e sensoriali, come ad esempio la Cybersickness. Nel lungo periodo invece, quali incognite potrebbe comportare tale espediente tecnologico?
Alcuni presupposti medici presentano controindicazioni significative all’utilizzo della realtà virtuale. Tali “avvertimenti” suggeriscono grande cautela quando questi strumenti sono usati in pazienti con ipertensione, malattie cardiovascolari e circolatorie. Inoltre, dato che la realtà virtuale può interferire con i normali processi psicologici, un’attenta osservazione è necessaria quando si usa tale espediente tecnologico con pazienti schizofrenici, psicotici e altri disturbi psicopatologici, giacché la confusione del reale versus il virtuale potrebbe accentuare la loro patologia.
Le avvertenze attuali nell’utilizzare la realtà virtuale fanno normalmente riferimento a malesseri fisici e sensoriali, come ad esempio la Cybersickness, nonché a problematiche quali la Disforia dell’Identità Personale o il Disturbo da Dissociazione delle Realtà. Nel lungo periodo invece, quali incognite potrebbe comportare tale espediente tecnologico? Tra le tante ipotizzabili, l’Internet Addiction Disorder e la Nomofobia sarebbero quelle più probabili.
Realtà virtuale: le problematiche attuali
La Cybersickness
La cinetosi (motion sickness) è un complesso fenomeno sia fisiologico sia psicologico che pur essendo legato alla percezione del movimento non presenta un’evidente relazione tra moto e grado di malessere.
Numerosi sono i fattori che possono essere collegati alla cinetosi, ma i principali sono le accelerazioni con contenuto a bassa frequenza che sono percepite dal sistema vestibolare (otolite e canale semicircolare), visivo e propriocettivo.
Quello che è interessante notare è che non solo il moto “reale” è provocativo; con il sempre maggiore utilizzo della realtà virtuale si è constatato come anche condizioni di moto simulato (ad esempio all’interno di simulatori o in ambienti virtuali) provochino tale malessere (cybersickness) dimostrando quanto sia importante la sensazione visiva nella genesi della sintomatologia. I sintomi correlati alla cybersickness riguardano differenti aree target:
vestibolare (instabilità, nausea, vomito e sudorazione);
sistema nervoso centrale (cefalea, convulsioni, flashback e instabilità);
Muscolo – scheletrica (dolori al collo, polso e schiena).
Disforia dell’Identità Personale
Chi sono io veramente? La domanda che turba cuori e menti dell’umanità da tempo immemorabile si caricherà di ulteriori perturbanti significati nella società del futuro.
Le nostre identità verranno ulteriormente frammentate e suddivise tra le diverse elaborazioni artificiali a cui affideremo sempre compiti via via più sofisticati di svariate sfere della nostra esistenza, anche intima e personale. Multipli pezzi di noi vivranno e interagiranno in multiple realtà più o meno reali; perdita d’individualità e confusione patologica sulla nostra vera identità e natura saranno in agguato. Gergen scrive:
Questa frammentazione della percezione di sé corrisponde a una molteplicità di relazioni incoerenti e fra loro sconnesse. Queste relazioni ci spingono in una miriade di direzioni, invitandoci a interpretare una varietà di ruoli tale da far sfumare il concetto stesso di sé autentico, dotato di caratteristiche conoscibili. Il sé completamente saturato diventa un non sé. D’altro canto la mancanza di una reale presenza fisica e l’impossibilità di poter accedere a tutta una serie di messaggi non verbali ai quali siamo abituati nelle relazioni interpersonali diminuisce la possibilità di accesso a tutta una serie d’informazioni fondamentali nell’interazione tra due individui
Disturbo da Dissociazione della Realtà
È una malattia correlata a quella precedente, dato che sempre riguarda la gestione del proprio rapporto con la realtà virtuale. Questa diventerà infatti così realistica, credibile e pervasiva che sarà quasi impossibile per una persona distinguere le esperienze virtuali da quelle reali. Come in sogno, dove a volte si fa molta fatica, o non si riesce proprio, a riconoscere ciò che è successo sul piano onirico o sul livello di realtà da veglia, lo stesso dubbio riguarderà il confine con la sofisticata copia della realtà che sarà quella virtuale. Questo disorientamento colpirà i rapporti intrapersonali ma anche i rapporti interpersonali, dato che sarà sempre più difficile capire se stiamo interagendo con una persona reale o no.
Realtà Virtuale: le problematiche future
L’Internet Addiction Disorder
Sebbene l’uso dei sistemi di Realtà Virtuale nella cura delle patologie psichiche sia un notevole passo avanti, c’è da chiedersi quali incognite future comporterà l’uso di tale tecnologie. Una di queste potrebbe essere l’Internet Addiction Disorder.
Pur con una certa diffidenza negli ambienti scientifici, diffidenza che si è tradotta in un mancato riconoscimento della paternità di tale “disturbo”, la sindrome da “dipendenza” da Internet, è una patologia “annunciata” che, come nota Grohl, è nata prima nei luoghi comuni e nelle convinzioni delle persone esterne all’ambito scientifico. In ambito scientifico il lavoro che viene citato come esempio di ricerca e prova sull’esistenza dell’ Internet Addiction Disorder è quello di K. Young che nel 1997 intervenne al congresso dell’American Psychological Association proponendo una indagine dalla quale risulterebbe che esistono peculiarità specifiche di comportamenti dipendenti in Internet. Nel suo lavoro di ricerca sull’esistenza dell’ Internet Addiction Disorder, Young ha cercato inoltre di classificare le persone come internet-dipendenti solo se mostravano quattro o più dei sintomi elencati qui sotto:
Vi agitate o irritate quando qualcuno tenta di ridurre o arrestare il vostro uso della Rete?
Quando vi collegate in rete sentite di stare bene, provate una sensazione di benessere?
Rimanete in linea più a lungo di quanto avete inizialmente progettato?
Preferite rimanere on line rischiando di perdere un rapporto significativo, o un’occasione di carriera?
Elemento fondamentale per comprendere le dinamiche legate alla dipendenza da Internet è il fenomeno della “distorsione del tempo”, l’alterazione spazio temporale prodotta nel soggetto che rimane collegato per molte ore, talvolta per giorni, in internet senza che se ne renda conto. Alcuni pazienti vanno incontro ad un’ inversione del ritmo sonno veglia e a veri e propri stati deliranti in rapporto al costante utilizzo della rete.
La Nomofobia
Una domanda sorge spontanea: e se con il tempo la tecnologia della Realtà Virtuale fosse, al pari degli smartphone, accessibile a tutti? Cosa accadrebbe? In un intervista condotta ad aprile 2015 da ‘Il Fatto Quotidiano’ è stato chiesto ad un gruppo di persone, di diverse età, se riuscirebbero a stare senza il loro smartphone: la risposta è stata quasi del tutto unanime: “senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”. Si scrive nomofobia, si legge ‘stato ansioso che si manifesta quando non è possibile usare il telefono cellulare”.
L’ossessione per il cellulare è oggi una patologia: cos’è la “Nomofobia“? Le tecnologie informatiche e digitali sono in grado di acutizzare diverse fobie umane, tra cui questa che viene descritta esattamente come un’ansia da separazione, inesistente fino a pochi anni fa.
La paura di essere separati da uno smartphone o di non poterlo utilizzare, genera nel nomofobico una vera e propria interruzione dei contatti sociali e quindi un’ansia da separazione nel vero senso psicologico del termine.
Negli adolescenti – spiega il dottor Federico Tonioni, psichiatra dell’Ospedale Gemelli di Roma.– che sono nativi digitali e non hanno mai conosciuto un vita prima del computer, quella online è davvero un nuovo modo di comunicare e pensare. Negli adulti, invece, che un prima del computer lo hanno conosciuto, ci sono più i caratteri della dipendenza patologica e, quindi, è ipotizzabile che un adulto senza il suo telefonino si senta un po’ mutilato, come se perdesse il controllo della realtà
Il nomofobico – continua Tonioni – è un soggetto ansioso, può anche avere degli spunti paranoidei, difficoltà nel perdere il controllo sugli altri, ma potrebbe essere anche una persona con dei tratti narcisistici molto spiccati, che ha sempre bisogno di avere una conferma da parte degli altri, di sapere che ha un seguito
Questa però – specifica lo psichiatra – non è considerabile come una vera e propria patologia. Per questo si parla di fobia: è una paura non giustificata dalla realtà
Talento sprecato? Una nuova prospettiva della psicologia dello sport: consulenza per una scelta più ponderata
Lo sport fornisce in continuazione esempi di “talento sprecato” che sono sotto gli occhi di tutti, la psicologia dello sport potrebbe esserci d’aiuto nel capire se vale la pena o meno investire sul proprio talento.
Luca Innocenzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto
“Talento sprecato“. È qualcosa che accade da sempre e in diversi ambiti ma spesso le ragioni sono simili. Lo sport, in cui il talento è una delle sue prerogative, fornisce in continuazione esempi che sono sotto gli occhi di tutti. La figlia della vicina che sognava di salire come prima ballerina sul palco della Scala, il compagno di banco delle superiori che poteva esordire in serie A o il tennista adolescente che batte il futuro n°2 del mondo senza poi lasciare tracce nella storia di quello sport.
Tutte queste situazioni portano naturalmente a fare delle valutazioni e a domandarsi se vale la pena o no investire sul proprio talento o nel maggiore dei casi sul talento del proprio figlio a scapito di una normale vita da adolescente perché queste scelte vanno fatte quando ci si trova nel pieno dell’adolescenza, e non abbiamo certamente bisogno di spiegare quanto sia importante per un ragazzo godersela. Il risultato peggiore che possa verificarsi è quello di investire tempo e denaro, oltre ad una probabile separazione precoce dalla famiglia, per poi ottenere risultati mediocri ritrovandosi senza una valida alternativa; ma anche sprecare l’occasione di sfondare è qualcosa che si vorrebbe evitare.
Lapsicologia dello sport potrebbe essere la risposta per evitare entrambe le situazioni. Quando pensiamo allo psicologo dello sport viene spontaneo immaginare quella figura che con i suoi strumenti riesce a incrementare le prestazioni degli sportivi; l’ipotesi è se per caso con gli stessi strumenti che ha a disposizione possa diventare all’occorrenza un consulente per indirizzare nel migliore dei modi i giovani atleti e le loro famiglie. Si tratterebbe di un lavoro di valutazione sulle risorse del giovane tentando di ottenere dei risultati che possano avere una buona attendibilità di previsione sui risultati futuri. Vediamo quali dovrebbero essere le principali aree d’indagine.
Psicologia dello sport e talento: il ruolo della motivazione e dell’ autodeterminazione
L’autodeterminazione è legata alla percezione che un individuo ha dell’origine del proprio comportamento in termini di locus of causality. Il locus of causality interno sta ad indicare che la ragione primaria nella messa in atto di un dato comportamento sia da ricercare nelle proprie scelte autonome. Al contrario, un locus causality esterno attribuisce il motivo primario di un proprio comportamento a cause esterne a se stessi. Le persone sono spinte a internalizzare la regolazione di attività inizialmente non determinate da un locus causality interno.
L’internalizzazione è il processo attraverso il quale una persona passa da una regolazione dei propri comportamenti basata sulle contingenze o sulle pressioni esterne a una regolazione basata su spinte interne. Idealmente, il processo di internalizzazione di un comportamento si conclude quando esso viene messo in atto esclusivamente perché ritenuto piacevole o interessante, personalmente importante e prossimo ai sistemi di valori dell’individuo agente.
Questo processo di internalizzazione, che vede come fine ultimo l’autodeterminazione, si può considerare come un continuum in cui si identificano sei distinti punti. Il punto di partenza del continuum è l’assenza di regolazione, in cui non c’è la volontà di mettere in atto un dato comportamento: l’azione viene subita e la persona agisce senza alcuna specifica intenzione di ottenere un risultato. Le motivazioni per le quali il comportamento viene espresso non sono chiare alla persona che le mette in atto. Ciò rende maggiormente probabile che le attività amotivate si interrompano a breve.
I successivi quattro step del processo sono caratterizzati da differenti forme di motivazione estrinseca. Sono tutte accomunate dal fatto che le azioni sono agite con la finalità di raggiungere degli obiettivi strumentali e non per il piacere ad esse connesso. La regolazione intrinseca viene raggiunta nel momento in cui un’attività viene intrapresa per il piacere e la soddisfazione derivanti da essa stessa. Quando sono intrinsecamente regolate, le persone fanno le cose perché le ritengono interessanti o piacevoli, senza ricercare alcuna altra conseguenza strumentale dall’attività. La regolazione intrinseca viene definita come una tendenza innata a cercare novità e sfide, a esercitare e ampliare le proprie capacità di esplorare e di apprendere. In psicologia dello sport sono stati creati appositi strumenti per poter valutare il livello di autodeterminazione nello sport come l’Exercise Self-Regulation Questionnaire (SRQ-E) e la Sport Motivation Scale (SMS).
Convinzioni di autoefficacia
L’ autoefficacia percepita si è dimostrata, all’interno dell’ambito sportivo e della psicologia dello sport, come una delle componenti psicologiche più importanti nella promozione del successo, in virtù dell’influenza positiva che essa esercita sul buon funzionamento dell’atleta sia in fase di gara che in fase preparatoria e di allenamento.
Numerosi studi di psicologia dello sport testimoniano il ruolo centrale delle convinzioni di autoefficacia nella scelta delle attività sportive, nell’applicazione delle strategie più appropriate per l’ottimizzazione della prestazione, nella resistenza, nella pressione competitiva e nelle modalità da adottare per fronteggiare lo stress e calcolare la durata dell’impegno e della perseveranza di fronte ai fallimenti o quando i miglioramenti risultano irregolari o lenti ad arrivare.
Sono stati individuati diversi tipi di autoefficacia in ambito sportivo che spaziano da aspetti propriamente tecnico-tattici, caratteristici dello sport praticato, alla gestione delle relazioni interpersonali e delle emozioni.
Numerose ricerche nella psicologia dello sport concordano nell’evidenziare che atleti con un elevato senso di efficacia personale s’impegnano a fondo nelle attività che intraprendono, sicuri di poter esprimere al meglio il proprio talento e le proprie potenzialità. Essi percepiscono le difficoltà e gli errori come occasioni per mettersi alla prova e attribuiscono i fallimenti ad un impegno insufficiente o a fattori episodici. L’autoefficacia percepita favorisce la scelta autonoma di obiettivi realistici anche se ambiziosi, rispetto ai quali le capacità dell’atleta sono effettivamente messe alla prova, e l’autoefficacia viene rafforzata dal successo e dal talento mostrato nel perseguimento dell’obiettivo. In caso di insuccessi, di passi falsi e di lunghi periodi di stasi, è indispensabile percepirsi in grado di riuscire per poter mantenere un impegno elevato e non cedere allo sconforto.
Le convinzioni di autoefficacia, inoltre, favoriscono un’appropriata gestione degli stressor da competizione. Gli atleti che nutrono più solide convinzioni mostrano una capacità superiore di concentrarsi sui modi e sui mezzi più adeguati per andare oltre i propri limiti, per affrontare al meglio le difficoltà, individuare strategie per affrontare lo stress e i rischi connessi alla continua competizione. Coloro che hanno un’equilibrata percezione della personale autoefficacia dispongono di essere più abili nella gestione delle distrazioni, sono in grado di controllare i pensieri intrusivi negativi determinati da insuccessi passati e riescono meglio nel controllo dell’ansia che comunemente precede l’attività agonistica.
Gli atleti che, al contrario, dubitano delle proprie capacità e delle personali energie sono inclini a sopravvalutare, talvolta in maniera irrealistica, il talento e le doti atletiche degli avversari e a preoccuparsi esageratamente dei rischi e delle conseguenze di un eventuale fallimento, sia sul piano personale che su quello dello status sociale che può essere compromesso.
Un ultimo ambito in cui l’autoefficacia è particolarmente importante è quello relativo al controllo del dolore e della fatica e la capacità di accelerare il recupero psico-fisico in caso di infortuni. La ripresa funzionale a seguito d’infortuni, infatti, richiede allo sportivo generalmente lunghe ore di lavoro, di esercizi, una dura lotta non solo per non soggiacere al dolore ma anche di contrastare con abilità la noia e lo scoraggiamento quando il recupero delle funzionalità fisiologiche è particolarmente lento. Se ne può facilmente dedurre che le consolidate convinzioni di autoefficacia rendono più accettabili i programmi di riabilitazione, promuovono un’efficace autoregolazione emotiva e comportamentale e favoriscono la scelta di obiettivi a breve e lungo termine adeguati alle concrete possibilità di recupero.
Lo stress nella psicologia dello sport
Con il termine “stress” ci si riferisce solitamente ai fattori che scatenano risposte d’ansia. L’ansia conseguente agli stimoli stressanti spesso si manifesta attraverso risposte disadattive a livello fisiologico, comportamentale e cognitivo che ostacolano la prestazione.
L’intensità della risposta soggettiva dipende soprattutto da fattori personali che portano a un’interpretazione cognitiva della situazione; infatti, ciò che può essere eccessivamente stressante per una persona può non esserlo per un’altra. Sin dalle prime esperienze impariamo a reagire alle stimolazioni psicofisiche, che possono essere positive o negative, realizzando inconsapevolmente comportamenti i più adeguati possibili all’adattamento all’ambiente.
Quando non riusciamo a reagire in maniera appropriata, il rischio è di sviluppare una sindrome generale di adattamento descritta dal Dr. Hans Selye in cui il nostro corpo viene impegnato in una lotta contro uno stress cronico, nel quale la fase di resistenza può durare da qualche ora a molti anni. Questo disturbo si articola in tre fasi. La prima fase è di allarme, caratterizzata dalla comparsa di alterazioni del sistema nervoso simpatico e dall’abbassamento delle difese generali dell’organismo, rappresentate dal sistema immunitario. Ciò ha una ripercussione a livello muscolare, al sistema cardiocircolatorio, gastrointestinale e ormonale, predisponendo il corpo all’azione. La principale reazione interna è la produzione di adrenalina e noradrenalina. Superata la criticità della prima fase, subentra quella della resistenza nella quale l’organismo si adatta alla nuova situazione. Continua la carenza delle difese immunitarie dovuta alla sovrapproduzione del cortisolo; inizialmente non costituisce un problema, ma nel lungo periodo con uno stress cronico rende molto più probabile l’attecchimento di molte malattie virali e batteriche e si ipotizza anche lo sviluppo di malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide o la sclerosi multipla. La sua durata dipende dalla natura e dall’intensità dello stressor e da altre variabili riguardanti le condizioni psicofisiche generali. La terza è la fase conclusiva che assicura al corpo il riposo necessario per rimettersi completamente; in genere comincia quando l’organismo percepisce il pericolo come finito o quando le energie cominciano a venir meno. Quando la fase di resistenza termina, si possono presentare due casi:
Le energie non sono esaurite del tutto e la persona avverte la fase di esaurimento come un torpore benefico rilassante, con una sensibile sensazione di debolezza e lassità;
La fase di resistenza è durata troppo e l’esaurimento è dovuto alla completa mancanza di energie, con periodi di recupero lunghi e debilitanti (anche depressivi).
Biochimicamente parlando abbiamo un calo repentino degli ormoni surrenali (adrenalina, noradrenalina e cortisolo) e la rapida diminuzione delle riserve energetiche. In sostanza ci troviamo davanti a un’azione depressiva contraria a quella da resistenza che tenderà a riportare il corpo nella condizione precedente allo stress e quindi in equilibrio (il sistema parasimpatico calmante prende il posto di quello simpatico). Importante è ricordare che molte volte quando il soggetto diventa stress-dipendente, arrivando a vivere fasi di resistenza prolungatissime, può sentire la necessità impellente di utilizzare sedativi, alcool, fumo e altri mezzi per passare artificialmente alla fase di esaurimento e permettere al proprio corpo di riposarsi. Questo disturbo si ripercuote nel mondo sportivo con il fenomeno del drop-out (sgocciolare) che sta a indicare il fenomeno dell’abbandono precoce, che, stando alle statistiche, coinvolge il 30% degli adolescenti praticanti attività sportiva, nonostante il loro talento.
Ottenere la certezza del successo è chiaramente improbabile ma avere un quadro più chiaro sulle risorse dei giovani atleti non può che facilitare una scelta cosi difficile. Oltretutto nel caso in cui si optasse per il proseguo dell’attività agonistica, da semplice consulente, lo psicologo esperto in psicologia dello sport può sempre riprendere le più classiche funzioni di sostegno allo sportivo. L’obiettivo finale rimane quello di non aver rimpianti per aver gettato il proprio talento e la possibilità di emergere nel mondo dello sport o più semplicemente per aver perso una parte della vita cosi importante.
Show me yours and I’ll tell you mine – Questionario sulle abitudini sessuali
Cliccando sul pulsante potrà rispondere al questionario sulle sue abitudini sessuali. Le risposte saranno anonime e la sua privacy sarà rispettata e garantita.
L’abitudine è il processo mediante il quale un comportamento diventa consueto e molto spesso, tale comportamento è legato al contesto.
Oggi più di ieri, sappiamo come il contesto, in cui le nostre vite sono costantemente immerse, cambia repentinamente. Come le nostre preferenze sessuali variano e fluttuano nel corso della nostra vita, anche gli atteggiamenti sociali nei confronti della sfera sessuale sono cambiati e con essi anche la definizione di norma e normalità.
Ci siamo quindi chiesti: come sono cambiate, e continuano a mutare, le abitudini sessuali nella società odierna, che fa dell’innovazione tecnologica e del dinamismo i suoi capisaldi principali? Facciamo davvero parte della “sharing generation” essendo più aperti nel parlare delle nostre abitudini sessuali e dei nostri desideri, oppure veniamo solo travolti dalla velocità dei legami interpersonali nel mondo delle delle “dating app” e delle relazioni via Skype?
La ringraziamo per la partecipazione al nostro questionario sulle abitudini sessuali e affettive. La invitiamo a condividere il link del questionario, in modo da raggiungere più persone ed avere gruppo ampio e diversificato da cui poter raccogliere dati.
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Il ruolo della speranza e dell’ottimismo nelle malattie croniche
Psicologia positiva e malattie croniche: La psicologia positiva, movimento creato alla fine degli anni ’90 da Seligman, ha fra i costrutti principali del suo statuto epistemologico lo spiegare come una condizione di positività mentale possa influire sullo stato di salute di un individuo, concorrendo a determinare il suo benessere. Archetipi importanti della psicologia positiva sono la speranza, la saggezza, la creatività, il coraggio, la spiritualità, la responsabilità e l’ottimismo (Seligman e Csikszentmihalyi, 2000).
La psicologia positiva, movimento creato alla fine degli anni Novanta da Seligman, ha fra i costrutti principali del suo statuto epistemologico lo spiegare come una condizione di positività mentale possa influire sullo stato di salute di un individuo, concorrendo a determinare il suo benessere.
Archetipi importanti della psicologia positiva sono la speranza, la saggezza, la creatività, il coraggio, la spiritualità, la responsabilità e l’ottimismo. La speranza può essere definita come uno stato di motivazione positiva, basato su tre componenti, ovvero obiettivi da raggiungere, strategie per il raggiungimento degli obiettivi e motivazione a raggiungerli. Essa può essere misurata con la Hope Scale. L’ottimismo può essere indicato come la tendenza a credere che si possano raggiungere dei risultati positivi, piuttosto che negativi. Perché ci possa essere l’ottimismo, è necessario avere un’aspettativa positiva nei confronti del futuro. L’ottimismo può essere misurato con il Life Orientation Test (LOT). Da tempo, diversi studi hanno messo in evidenza l’impatto positivo che la speranza e l’ottimismo, fra i costrutti fondamentali della psicologia positiva, hanno sulla salute fisica dell’individuo.
La psicologia positiva, movimento creato alla fine degli anni ’90 da Seligman, ha fra i costrutti principali del suo statuto epistemologico lo spiegare come una condizione di positività mentale possa influire sullo stato di salute di un individuo, concorrendo a determinare il suo benessere. Archetipi importanti della psicologia positiva sono la speranza, la saggezza, la creatività, il coraggio, la spiritualità, la responsabilità e l’ottimismo (Seligman e Csikszentmihalyi, 2000).
Attraverso questi parametri, si determina quella che Seligman (2008) definisce la salute positiva, che ha come paradigma fondante la salute mentale dell’individuo, da intendersi non come assenza di malattia, ma come una condizione caratterizzata dal provare emozioni positive, dall’avere degli impegni finalizzati al raggiungimento di obiettivi positivi, dall’essere in grado di relazionarsi positivamente con l’alterità. Il benessere provato, frutto della salute mentale sopra delineata, incrementa la longevità degli individui e migliora il loro invecchiamento; migliora la prognosi delle malattie; riduce l’entità delle spese sanitarie affrontate dagli Stati (Seligman, 2008).
Da tempo, diversi studi hanno messo in evidenza l’impatto positivo che la speranza e l’ottimismo, fra i costrutti fondamentali della psicologia positiva, hanno sulla salute fisica dell’individuo (Schiavon, Marchetti, Gurgel, Busnello e Reppold, 2017). La speranza può essere definita come uno stato di motivazione positiva, basato su tre componenti, ovvero obiettivi da raggiungere, strategie per il raggiungimento degli obiettivi e motivazione a raggiungerli (Snyder e al., 1991).
La speranza può essere misurata con la Hope Scale, messa a punto da Snyder e al. (1996). Questa scala è composta da 12 items, costituiti da affermazioni, a cui l’intervistato deve rispondere con dei numeri che vanno da 1 (completamente falso) ad 8 (completamente vero). Alti punteggi indicano che la persona ha un alto livello di speranza.
L’ottimismo può essere indicato come la tendenza a credere che si possano raggiungere dei risultati positivi, piuttosto che negativi (Scheier e Carver, 1985). Perché ci possa essere l’ottimismo, è necessario avere un’aspettativa positiva nei confronti del futuro (Carver e al., 2010). L’ottimismo determina nell’individuo degli atteggiamenti proattivi finalizzati alla protezione della sua salute, cosa che non si verifica nel soggetto pessimista (Carver e al., 2010).
Nell’ambito dell’ottimismo, un ruolo chiave lo rivestono gli eventi stressanti e la loro durata. A questo proposito le ricerche di Cohen e al. (1999) e Segerstrom (2005) hanno dimostrato che quando gli eventi stressanti sono di breve durata (meno di una settimana) l’ottimismo funge da barriera protettiva nei loro confronti. Cosa che non si verifica quando i fattori stressanti sono di lunga durata: in questo caso, anche le persone ottimiste diventano immunologicamente più vulnerabili. In generale, chi è pessimista ha una salute fisica più scadente, una tendenza maggiore a soffrire di depressione, un incremento dei fattori di rischio relativi alla mortalità, condizioni che non accadono per l’ottimista, che vive più a lungo e ha una migliore qualità della vita (Urcuyo e al., 2005).
L’ottimismo può essere misurato con il Life Orientation Test (LOT), messo a punto da Scheier e Carver nel 1985. Esso è un questionario composto da 12 items, che misurano l’orientamento di vita, ovvero se le persone percepiscono la loro vita in termini positivi o negativi.
Il ruolo dell’ottimismo nelle malattie croniche
L’ottimismo svolge un ruolo positivo in molte malattie croniche. DuBois e al. (2012) sottolineano che esistono delle evidenze relative all’associazione fra ottimismo e prognosi migliore nelle malattie cardiache. In questo ambito, l’ottimismo è associato ad un miglioramento delle condizioni cardiache (Shepperd e al., 1996), ad una minore probabilità di ricovero per patologie cardiache (Scheier e al., 1999), ad una riduzione del rischio di malattia coronarica nella popolazione anziana (Kubzansky e al., 2001) e ad una diminuzione della mortalità per cause cardiovascolari negli anziani (Giltay e al., 2004).
Relativamente al cancro, l’ottimismo aumenta l’aspettativa di vita nei pazienti con tumore cerebrale e con neoplasie localizzate nel distretto del collo (Allison e al, 2003).
L’ottimismo, inoltre, svolge un ruolo positivo nei malati di sclerosi multipla, determinando una variazione positiva nel vissuto psicologico e un miglioramento delle condizioni fisiche (Hart e al., 2008). Importante è anche l’impatto positivo che l’ottimismo ha nella colite ulcerosa (Flett, 2011).
Nel controllo del peso, le persone ottimiste sono più propense ad adottare i cambiamenti salutari che servono a riportare l’Indice di Massa Corporea (BMI) nella norma (Boehm e al., 2013).
In rapporto alla speranza, le persone che nutrono speranza hanno una minore probabilità che possa essere loro diagnosticata un’infezione dell’apparato respiratorio (Richman e al., 2005). Negli individui che sono sottoposti a trattamenti riabilitativi a lungo termine, la speranza permette una buona adesione alla riabilitazione e l’abbandono di abitudini nocive nel campo della salute (Halding e Heggdal, 2012). Altri benefici effetti della speranza sono stati trovati nelle malattie croniche di natura mentale: infatti, Waynor e al. (2012) hanno dimostrato che la speranza è inversamente proporzionale alla ricomparsa di sintomi.
Psicoanalisi: intervista con Anne Marie Sandler
Pubblichiamo una interessante intervista alla collega psicoanalista Anne Marie Sandler, con pareri molto istruttivi. Tuttavia desideriamo prendere le distanze da alcune affermazioni finali: State of Mind non appoggia l’opinione che alcune psicoterapie approfittino di uno scorretto vantaggio economico e temporale per il paziente che andrebbe a danno della sua vera e completa guarigione mentre altre psicoterapie manterrebbero una supposta purezza. La valutazione di efficacia è frutto di studi empirici e non di giudizi di valore. Detto questo, auguriamo buona lettura.
Intervista a cura di Antonio Cusaniello & Gabriele Cassullo
Anne Marie Sandler is a child and adult training psychoanalyst of the British Psychoanalytical Society. From 1982 to 1984 she has been a Visiting Professor at the Department of Psychology of the Hebrew University, Jerusalem, and from 1993 to 1996 Director of the Anna Freud Centre, London. In 1998 Anne Marie Sandler received the Sigourney Award in ‘Recognition of her Distinguished Contribution to the Field of Psychoanalysis.’
Anne Marie Sandler is the widow of Prof. Joseph Sandler, a psychoanalyst himself, who in 1984 founded the Psychoanalytic Unity the at the University College London, now directed by his pupil Peter Fonagy. Since the 1960s Prof. Sandler started to introduce a research culture into psychoanalysis and, when President of the International Psychoanalytical Association, launched the Open Door Review of Outcome Studies in Psychoanalysis, which now reached its third edition (Leuzinger-Bohleber, Kächele, 2015).
At the end of the interview A.S. Sandler makes an argument, touching on the delicate and largely debated point of the empirical validation of psychotherapy. For an in-depth discussion of the subject the interviewers encourage reading: Westen D., Novotny C.M., Thompson-Brenner H., 2004.
Interview with Anne Marie Sandler
– First of all we would like to introduce your psychoanalytic contribution. And we think that the most striking feature of your husband’s Joseph and yours psychoanalytical work is the idea of background of security (Anne Marie Sandler, 1959), which was developed way before Bowlby‘s most-known secure base. One could say that since then psychoanalysis had only dealt with the human need for freedom, and any search for security was seen as defensive or regressive, eventually alienating the person from oneself. On the contrary, you highlighted how any child or any person needs a background of safety (a physical as well as psychological safety) in order to develop as a healthy, integrated human being.
Anne Marie Sandler: I think that in order to understand our work you have to understand the situation of British Psychoanalytic Society (BPS) where, before the war, Melanie Klein had been invited to the Society and the Society was very psychoanalytic but had gone away in many ways from the classical sexual-centred psychoanalysis of Freud and had developed in two ways. One trying to answer what was going on in the baby much more than in the older child as the adult, to understand the baby’s functions, while on the other side a much more important role was given to the relationship of the child to the parent, as the mother, but also as the father, and so the two theories really clashed on most of those topics. On the one hand, the more classical Freudians saw the idea of phantasies in the baby from birth as pure imagination: there was no proof to it, they said. And then they saw the first (mainly Kleinian) group as no longer giving a central role as to the child emotional development and of thinking to the basic discovery of sexuality, in the sense of Freud’s use of the term.
When my husband Joseph and I became students in the Institute there was a very important split because of the conflict about the different techniques to work with patients, according to the different viewpoints on theory. Those theoretical and technical differences were enormous, and so both my husband and I, through our work with patients, felt that we could not ignore the importance of object-relationship; but that did not mean that you have to accept all the ideas of Melanie Klein about the very early development of fantasies and the idea of very primitive psychotic life, projection, and so on.
Therefore, we thought that the idea for example of the safety principle was one way of showing how, for anybody who develops, you get a feeling of safety if you feel a certain satisfaction with what you have achieved, and this achievement which you spell out was partly due to the relationship. There was a feeling that we have done well or that we can be satisfied with ourselves for what we have achieved, but this basic feeling is much more important than what was untill now seemed that if you cannot create or keep a minimal feeling of safety you will use a message or you will defend in a way which will very soon be quite psychological, because if you don’t have a basic kind of sense of security.
– However, the safety principle, as you call it, seem to contradict a certain degree of uncertainty which is inherent to the human condition, and also the push towards the unknown which characterizes the development of the child as well as of any human being.
Anne Marie Sandler: Yes the unknown is always present to a certain degree because this is a part of a push towards learning, towards new experiences. But it’s a question of degree and if you don’t have a feeling of safety to a certain extent you will also refuse what is unexpected. This is important if you have a very depressed mother or a very harsh father; and you come home with the expectation that your mother becomes totally loving and your father goes like: “Oh! You can do what you like my darling”. The child would get very anxious because of all his expectations, and so he may be very pleased to get a present or be cuddled, or whatever. Yet there would always be a part of himself which says: “What’s happening? This is strange, dangerous”.
That’s what we mean by background of safety. A basic need for continuity, even in a not-satisfying environment. However, it’s a very interesting question that you raised because of course if it were always exactly the same and there was nothing new, first of all we would be very bored or it would be very boring but also it would not encourage the development but here we really speak about a degree of basic safety needs, a degree of giving a child a feeling that he can live expecting what’s going to happen. If I can put in that way.
– So, that is why you and your husband revisited the concept of internal objects.
Anne Marie Sandler: Yes. We wanted to show that we have readdressed the concept of Freud and changed it in a sense of bringing constantly the role of the object-relation. You probably remember the clinical case, for example, in our book Internal Object Revisited (J. Sandler, Anne Marie Sandler, 1998, pp. 116-122), where it is clear that we understood the role of sexuality and the problem of fear about sexual understanding; but it was also for us very important to show this woman that she was repeating, even though it had been very unpleasant, something which she was used to, especially because she had been suddenly deprived of the use. She had been traumatized. But that’s one reason why we wanted to revisit it, in order to include psychological trauma by discontinuity in the object-relations, which also shows that you can have a reason why you feel traumatized, even without any massive traumatic event.
At the time Joseph and I worked very much with Anna Freud, to talk about internal-objects was… “no-no”. You couldn’t talk about it because the Freudians did not believe in internal objects: that was Melanie Klein’s domain; but we wanted to show that we can speak of an internal-objects in a way that is not the same as the internal-object of Melanie Klein, it’s not the internal-object of the baby, and the breast, and so on. So we wanted to revisit it to show very clearly where we have different views from the classical Freudians but we believe we are still Freudians, we are not Klenians! But we do believe that there is something lacking in the classical Freudian theory.
– One of the most cogent and controversial issues in psychology and psychiatry today is the issue of narcissistic disregulation of the Self, with the connected compulsion to repeat an idealization-disillusionment interpersonal pattern. You addressed this issue many times by highlighting the pain that results from a discrepancy between an actual state of the Self and an ideal / wished-for state of the Self. How do you make use of this concept in clinical practice?
Anne Marie Sandler: I can take an example. Just this morning I had a patient whose father died when he was four and half years old and he remained with his mother who was quite young when his father died very tragically, and became very depressed. Her depression took a course, but she remained very dissatisfied. She was very angry with life and she kept saying: “Who is looking after me now in my life, I have nobody, my life is destroyed, I have two children and I’ve to be there for them and my life is finished”. Now this little boy who was just four and half (eye on Oedipus) had a touching but absolutely unrealistic belief (because it was more than a fantasy) that in order to help his mother he must look after her, and not only in terms of sexuality, but he must find the way to make her happy; and it’s interesting because this man came to analysis late in his life, but you can see that thread throughout his life. For example, that his main aim in starting to work very early and earning quite a lot of money was in order to give money to his mother, in order to give her a house, in order to make sure and so on. It’s in everything he did… you always have the feeling it was to make the mother satisfied, but it was never any good, because the mother was never satisfied. Now this would be an example where I’ve shown that his wishes left him also very depressed because he could never do this in a successful way. And you can see it was also a way to mourn his father, to try to replace his father on his mother’s side: Yet, since he was a little boy, he couldn’t do so; while on the other hand he was constantly sinful for wishing to replace his father. This is a very good example of what we meant by that concept.
Part of the treatment in analysis is to help the patient realize that the wished-for object is unattainable because it’s a mixture of idealization and a search, or projection, in the object of all the things that one hasn’t managed to get oneself, and that this image can cause pain and disappointment. If you are too dissatisfied with what you have, or if you are too much wanting “always the very best”, then you idealize, and you will surely feel terribly frustrated because you can’t reach what you want: in other words, you haven’t really accepted the limitation of life.
– You are a world-famous psychoanalyst. What do you recommend to the younger generation of psychologists who face the world of psychoanalysis?
Anne Marie Sandler: I would recommend a number of things. First of all, to understand that psychoanalysis is a very specialized part of psychology. Both its theory and clinical practice are dependent on the possibility of the understanding of people about their own psychic needs, and I would say that nowadays the situation is very different than what it was at the time of Freud. For example, the development of pharmacology has brought a lot of medications, too much in my view. When people are just a little bit sad, they take a pill and they feel good again, or when they have a problem to fall asleep they go to get something to fall asleep. When they have anxiety they take a pill for not to feel anxious. Yet I am aware that there is always a number of people who are not satisfied with this, they want more, they want to understand; and these are the people that psychoanalysis can help, not the others.
And this brings me to disclose my thought. I think that in itself psychoanalysis is not for the masses. Psychoanalysts will never be popular. They will never reach hundreds of people. In fact, what is happening in Italy, as I’m sure everywhere, is that there is a lot of psychotherapy. Techniques that use a little bit of psychoanalysis (e.g. the background of safety which became Bowlby’s secure base) mixed with many many many other things. And they do that because it is much cheaper. They see the patients a few weeks, or a few months, and it is finished.
I don’t think this is neither good or bad in itself. If that helps the people why not? But I think it’s very important to face a very unpleasant reality. The reality is that I don’t think that you can want to become a psychoanalyst and then hope that you will become rich. I mean that you will have a lot of patients and you’ll be, you know, really able to work deeper than with any other psychotherapy, as deep as you yourself arrived with your own analysis. But as to the people who will look for that…, I think there are very few, fewer and fewer. There are some… people who often have an important job for whom it is very important to understand themselves and this will help the work that they do, but they are a minority group in society. Lucky enough, it is also usually a group which can afford analysis, because analysts also needs to live! They need to live, to be paid, and government usually don’t pay for analysis because it costs too much. It’s as simple as that. And so I tend to regard psychoanalysis myself as more a scientific enterprise. If you can do research in a lab and you don’t need to get rich, it’s very interesting. But people don’t. They want to get rich. And in England many many people often work half-day as psychiatrists, or psychologists, or do other things, and then they see patients as psychoanalysts. Those analysts are very very happy because they don’t depend for their living on the analysis. It is a sad situation, because one would like to imagine that psychoanalysis would be more accepted as a way to understand people, but it is way too complex, to profound in a way, to be appealing I think. That would be my understanding.
– Is there anything that you would like to add?
Anne Marie Sandler: What I would like to add is about the changes in the governments’ desire to make use of psychoanalysis, especially in Europe, and how it has changed since the end of the Second World War. I mean Germany and Scandinavia would be the two best examples. These governments have really understood that after such a terrible war many people were in need of psychological support for a long time and in depth, and they paid the support of psychoanalysis: they paid people to come to analysis four or five times. Real analysis! Not therapy! Psychoanalysis! And I think they did a great deal. Helped a great deal of people in the countries where it was allowed, and it was possible because people did not have to pay. But at the moment when the economy became very very tight the government could not afford it any more. So they started to cut, they said: “Not psychologists, they can’t get money, only the doctors”; or “You cannot do it five times a week, but for times”. And now for example in Germany it’s three times, but then there is a group that says that twice is enough… you know… and so on… . And then they used to pay it for as long as you needed it, while now they say: “It’s only two years”. One understands that the governments don’t have money. But still that’s no good for the poor psychoanalysts that also need to eat and to have a life…, so that’s where you have the problems now. And then of course people rationalise and say “you know, the other methods are just as good”. That’s the situation right now.
Maybe what I also should say is that in many countries, and in England very much, there is a complaint that the result the psychoanalytic method claims to achieve is an improvement that should be demonstrated scientifically. That is a way of demonstrating results most psychoanalysts do not believe in at all, and that’s why psychoanalysts don’t do proper research. Yet, now we do more and more research on psychoanalysis in England. We do a lot of good research with a good outcome about psychoanalytic therapies, but of course the difficulty is that psychoanalysis as such does not aim to achieve a healing but aims to improve the quality of life, or the general understanding of how people function. So people may feel much happier, or better adapted, or able to marry, or able to be comprehended, but you know if you ask them: “Do you sleep better?”, “Do you eat better?”. Yes, maybe, but it’s not all about that. So it’s very very difficult as you know as psychologists to make really the kind of research that would please the government, and there we are, always in competition with brand new therapists which go only for symptoms and promise to offer better results in six months. You know, if you go just for symptoms, it is ok, but it is very difficult to know how to measure contentment or satisfaction, or a better life, particularly in the long run of life, not just after a year. That is our problem as psychoanalysts. How can you find ways to scientifically measure a life worth living?
Per salvare l’aereo servirebbe il trolley giusto: i dilemmi morali secondo la psicologia
Cosa sanno gli psicologi di questi dilemmi morali? Il paradigma è il dilemma del trolley. Un carrello corre lungo i binari, lasciato a se stesso ucciderà cinque persone. Vi si offre la possibilità di attivare lo scambio. Li salvate, ma condannate a morte un uomo che si trovava sull’altra corsia. Cosa fate?
Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato su LA LETTURA del Corriere della Sera del 26 marzo 2017
Terror: la pièce teatrale con un dilemma morale da risolvere
“Terror” è una pièce teatrale di Ferdinand von Schirach. È la storia del maggiore Lars Koch, al quale è dato l’ordine di fare da scorta a un aereo con 164 passeggeri dirottato da terroristi. L’aereo, all’improvviso si dirige verso uno stadio pieno di 70000 tifosi. Che fare? Abbattere l’aereo? Non intervenire? Koch decide che l’aereo si può sacrificare per un bene maggiore in termini di vite umane salvate. Inizia il processo. L’invenzione teatrale di von Schirach è che sarà il pubblico in sala a decidere il verdetto.
Lo spettacolo è andato in giro in tutto il mondo e, con l’eccezione del Giappone, il pubblico tende ad assolvere il maggiore Koch. In media lo salva il 60,8% degli spettatori.
Viviamo tra dilemmi morali. Ogni santo giorno. Devo fare studiare mio figlio o accompagnarlo a casa dell’amico che ha avuto un lutto e necessita compagnia? Cosa è più nobile e benefico: organizzare un weekend in montagna perché ai ragazzi l’idea fa brillare gli occhi, o farli andare a visitare la nonna che si sente sola?
Nel caso del dilemma dell’aereo dirottato dai terroristi la scelta è: abbatterlo – e garantire morte sicura a, quante? 200 persone – oppure lasciare che raggiunga lo stadio zeppo verso cui è diretto e portare la morte a, quante? 2000? 5000 persone? A me la scelta pare semplice: i passeggeri sarebbero, con probabilità altissima, destinati a morire, i terroristi non sono tipi che cambiano idea molto facilmente. Parere personale. Cambierebbe molto se in questo aereo ci fosse un figlio, o una compagna di vita. La prossimità – genetica o affettiva – cambia le carte in tavola. Salviamo chi ci è più prossimo, chi condivide con noi molti geni e chi ci aiuterebbe a replicarli. Significa: fare figli.
I dilemmi morali secondo la psicologia cognitiva
Cosa sanno gli psicologi di questi dilemmi morali? Il paradigma è il dilemma del trolley. Un carrello corre lungo i binari, lasciato a se stesso ucciderà cinque persone. Vi si offre la possibilità di attivare lo scambio. Li salvate, ma condannate a morte un uomo che si trovava sull’altra corsia. Cosa fate? Chi sceglie di non agire, dice Francesco Mancini (2016), segue il principio morale: “non giocare a fare Dio”. Chi agisce, e salva cinque vite al costo di una, segue invece un imperativo altruistico.
È di grande importanza sapere che il modo in cui si presenta il problema cambia le decisioni delle persone (si veda il lavoro di Petko Kusev e colleghi, 2016). Se si dà informazione più limitata, aumenta la tendenza a non agire (e quindi a lasciare morire cinque persone per salvarne una). Se si dà informazione più ampia, del tipo: “Se premi l’interruttore salverai cinque persone e ne morirà una, se non lo premi salverai una persona e ne moriranno cinque” aumenta la tendenza a compiere scelte cosiddette ‘razionali’ ovvero salvare cinque vite al prezzo di una.
Ogni giorno prendiamo scelte così, salviamo qualcuno o qualcosa a un certo prezzo. Scelte del genere le compiono chirurghi, politici, magistrati. Come già si chiedeva Piattelli Palmarini: sono informati dei processi psicologici con cui essi stessi scelgono? Temo di no. Se fossero formati in tal senso, avremmo, nella metafora, stadi più sicuri.