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Prolonged grief disorder, stili di attaccamento e burden in caregiver di pazienti affetti da demenza – Riccione, 2017

Prolonged grief disorder, stili di attaccamento e burden in caregiver di pazienti affetti da demenza

Elena Del Rio, Silvia Baraldi, Sara Bocchicchio, Maddalena De Matteis  Studi Cognitivi, Modena

 

La perdita di una persona cara si configura come uno degli eventi più traumatici nella vita di una persona e si caratterizza per un intenso e prolungato periodo di adattamento. Nella riflessione di relazione che cambia, il caregiver deve sottrarsi dalla percezione di un lutto costantemente vissuto nel presente.

Benché sia difficile definire un tempo prefissato per la risoluzione del lutto, dopo un certo periodo si assiste ad un progressivo cambiamento, con una riduzione del distress psicologico e dei sintomi fisici.

In alcuni casi tuttavia i soggetti colpiti possono presentare Prolonged Grief Disorder (PGD) (Prigerson, 2004). Lo sviluppo di problematiche psicopatologiche, specialmente di tipo depressivo, sembra essere legato in particolar modo alla durata dell’assistenza alla persona malata, ai livelli di ansia e depressione del caregiver e al costo emozionale prima del decesso. Tali caregiver presentano originariamente un problema di attaccamento insicuro che impedisce loro di affrontare la perdita e il lutto.

L’intento del presente studio è stato in primo luogo quello di valutare all’interno di un campione di caregivers di familiari con malattia di Alzheimer (AD), o altro tipo di demenza, l’incidenza di Prolonged Grief Disorder (PGD) in assenza di una perdita reale, e verificare l’associazione tra PGD e burden del caregiver. Si è cercato quindi di andare a verificare come il PGD possa associarsi sia alla presenza di stili di attaccamento insicuro, sia ad una diversa manifestazione dei livelli di burden (Stroebe et al. 2005).

 

Mindfulness: conoscere la verità del sentire-percepire – Report dal Seminario, Genova 22 Aprile 2017

Sabato 22 aprile si è svolto a Genova presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il secondo incontro del ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova 2017″ dove la Dott.ssa Renzoni ha condotto l’incontro dal titolo “ Mindfulness: conoscere la verità del sentire-percepire

 

Il corpo ci parla, la mente anche ma si va avanti ignorando, ignoranti; annebbiati, continuiamo a “spingere”  fino a volte a perdere il contatto con noi stessi, gli altri, le cose. Non basta guardare, serve vedere “in modo chiaro” .

 

La mindfulness è presenza mentale, pienezza della mente ovvero significa vivere intenzionalmente nella consapevolezza del momento presente. Secondo la definizione di Jon Kabat-Zinn, mindfulness significa proprio “porre attenzione al momento presente in un modo intenzionale, partecipatorio e non giudicante”. La pratica della Mindfulness, infatti, non è una tecnica di rilassamento ma, piuttosto, un modo utile per divenire consapevoli dei propri meccanismi abitudinari e automatici e agire nella quotidianità aprendo la strada ai comportamenti scelti in modo appunto più consapevole.

Si può scegliere di fermarsi per un tempo sufficiente Qui ed Ora, portare l’Attenzione all’esperienza del momento presente e semplicemente con accettazione, apertura, disponibilità, attenzione, ricettività attraverso i cinque sensi, energia e impegno, disciplina e fiducia, dedizione e gentilezza ma sempre senza modificare nulla, senza giudicare o rifiutare il momento presente attraverso un atteggiamento che non è né di avversione/ostilità né di desiderio/attaccamento poiché quest’ultimo comporta un attaccarsi al momento presente. Di qui le abilità nucleari della mindfulness ovvero Osservare, Descrivere e Partecipare, senza giudizio, momento dopo momento con disponibilità e fiducia nella sensazione che qualcosa di nuovo possa accadere.

L’atteggiamento con cui ci si avvicina alla pratica mindfulness, insegna Kabat Zinn, determina in buona misura i benefici che si possono avere.

I sette pilastri della meditazione sono proprio questi: descrivono un atteggiamento mentale, un insieme di attitudini alla consapevolezza.

Sono atteggiamenti che vanno coltivati deliberatamente, con intenzione, anche perché sono molto lontani dal modo con cui di solito ci si approccia alle esperienze: spesso infatti sono proprio l’esatto contrario di quello che si è abituati a pensare. I pilastri della meditazione e dell’atteggiamento mindfulness sono il non giudizio, la pazienza, la mente del principiante, la fiducia, il non cercare risultati, l’accettazione, il lasciar andare.

 

Primo pilastro della Mindfulness: il Non giudizio

La nostra mente valuta di continuo quello che succede dentro e fuori di noi. È l’attività normale dei pensieri.

Il problema è determinato da due fattori:

  1. questi giudizi vengono espressi in modo immediato e se ne è in larga parte inconsapevoli;
  2. questi giudizi, immediati e inconsapevoli, innescano delle reazioni del tutto automatiche.

E’ importante imparare a riconoscere questa attività giudicante della mente. L’obiettivo è esserne consapevoli e capire che la mente funziona in questo modo.

 

Il secondo pilastro: la Pazienza

La pazienza, dice Kabat Zinn, è una forma di saggezza: nasce dal comprendere e accettare che le cose hanno un loro naturale tempo di maturazione.

Con la mindfulness si può coltivare la pazienza imparando prima di tutto a essere pazienti con sè stessi.

 

Terzo pilastro: la mente del principiante

La mente del principiante è limpida e senza pregiudizi. L’esperto sa, e quindi immediatamente classifica la realtà in base alle sue conoscenze. Il principiante non sa niente, guarda le cose per la prima volta, non ha esperienze precedenti e non ha aspettative.

L’atteggiamento del principiante, dice Jon Kabat Zinn, è particolarmente importante nel praticare non solo all’inizio, ma sempre. Nessun momento è uguale a un altro: ciascun momento è unico e contiene possibilità uniche. La mente del principiante ricorda questa semplice verità.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Mindfulness conoscere la verità del sentire-percepire - Report dal Convegno - IMM1

La Dott.ssa Renzoni durante l’incontro “Mindfulness: conoscere la verità del sentire-percepire”

 

Quarto pilastro della mindfulness: la Fiducia

Con la mindfulness si può provare a entrare in sintonia con se stessi attraverso la fiducia nelle proprie sensazioni, nelle proprie intuizioni, e nel proprio corpo.

Praticare la mindfulness significa anche assumersi una precisa responsabilità: imparare a essere se stessi e a fidarsi.

 

Quinto pilastro: non cercare risultati

Kabat Zinn riferisce che se si pratica la mindfulness inseguendo un particolare risultato si potrebbe ottenere l’effetto contrario. Occorre concentrare l’attenzione sul vedere e accettare le cose così come sono, momento per momento. I risultati, i benefici, arriveranno da sé, con la pazienza e la pratica regolare.

 

Sesto pilastro: Accettazione

Viene come conseguenza: se quando mediti non cerchi risultati e non chiedi niente a te stesso (se non di meditare) vuol dire che stai praticando l’accettazione. Accettare non ha niente a che vedere con la rassegnazione. Vuol dire invece vedere chiaramente le cose così come sono. E questa è la base di ogni miglioramento.

Ogni cambiamento passa in primo luogo dall’accettazione di sé stesso così come si è ora. Non si può accettarsi domani, quando si è diventati quello che si vuole essere. Domani non esiste. L’unico momento in cui si può amarsi è ora.

 

Settimo pilastro: lasciare andare

Quando si inizia a praticare la mindfulness ci si accorge che ci sono pensieri che la propria mente cerca di trattenere, e altri che al contrario cerca di respingere.

Con la mindfulness ci si allena a mettere da parte la tendenza della mente ad attaccarsi a certe esperienze e a respingerne altre. L’idea è di lasciare andare, di essere semplici spettatori di tutto quello che accade nel teatro dei nostri pensieri.

Così facendo, dice Kabat Zinn si può imparare molte cose sui propri attaccamenti e sul loro effetto nella nostra vita.

La pratica della Mindfulness favorisce la possibilità di essere in relazione con se stessi e sviluppare consapevolezza su come il proprio mondo interno sia in rapporto con il mondo in cui siamo immersi, momento dopo momento. In altre parole, la pratica di consapevolezza permette di fare esperienza e di rimanervi in contatto, mentre essa avviene. Permette, inoltre, di coltivare una modalità differente, consapevole appunto, nei confronti della propria sofferenza e disagio, fisico e psicologico.

Qualsiasi persona che desideri utilizzare tale pratica deve affrontare un training personale, dal momento che solo la dimensione di esperienza personale di pratica apre la strada ai benefici della pratica stessa.

Non c’è nessun luogo dove è necessario andare, nulla che bisogna fare, nulla che è indispensabile ottenere.

Il ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova” è proseguito con il terzo incontro dal titolo “La riabilitazione dei DSA si fa APPetibile” condotto dalla dott.ssa Della Morte, svoltosi sabato 29 Aprile 2017 ore 10-13 presso il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva.

Trattamento del disturbo da deficit di attenzione/ iperattività (ADHD) tramite Neurofeedback Training

Vi sono ancora molti dubbi e critiche per quanto riguarda il trattamento utilizzabile in casi di ADHD, uno dei trattamenti meno conosciuti, fruibile anche in aggiunta al trattamento farmacologico e psicologico, è il Neurofeedback Training.

Flavia Costantino – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

 

La diagnosi del disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (ADHD) è spesso considerata controversa e vi sono associati ancora molti dubbi e critiche anche per quanto riguarda il trattamento utilizzabile. Uno dei trattamenti meno conosciuti, fruibile anche in aggiunta al trattamento farmacologico e psicologico, è il Neurofeedback Training.

Per comprendere come funziona e come agisce questo tipo di intervento, innanzitutto, è necessaria una breve descrizione del disturbo.

L’ ADHD è un disturbo che coinvolge due diversi ambiti (DSM-5, 2013):

  • Disattenzione;
  • Iperattività e Impulsività

Vi sono altre difficoltà ad esse associate, tra le quali la pianificazione, l’organizzazione, lo spostamento attentivo connesso ad un’iperfocalizzazione e all’incapacità d’inibizione, la difficoltà di regolazione emotiva e la bassa tolleranza alla frustrazione.

La prevalenza di ADHD riscontrata nella popolazione, secondo le ultime indicazioni del DSM-5, è del 5% in età infantile e nel 2,5% in età adulta.

Il decorso di tale disturbo prevede che vi sia una maggiore evidenza della sintomatologia in età scolare, periodo nel quale iniziano le prime richieste di autonomia e di organizzazione, aumenta la necessità di mantenere l’attenzione per lunghi periodi e la complessità dei compiti da eseguire.

A seconda delle caratteristiche individuali della persona che soffre di ADHD e del contesto nel quale è inserita, le problematiche, nel corso dell’adolescenza, posso mantenersi relativamente stabili ma, se non prese in considerazione, a tali difficoltà possono sommarsi problematiche comportamentali e relazionali. L’iperattività motoria solitamente diminuisce con la crescita, i sintomi permangono invece sotto forma di un senso di irrequietezza interiore, persistono le difficoltà organizzative e di attenzione (DSM-5, 2013), difficoltà che il paziente con ADHD può imparare a gestire tramite l’uso di strategie.

Il grado di severità della sintomatologia varia da persona a persona lungo un continuum, sulla base del grado di compromissione della qualità di vita del soggetto, da una sintomatologia più facilmente gestibile ad una di complessità maggiore. Anche il livello di disregolazione all’interno delle diverse aree coinvolte nel disturbo è variabile tra gli individui, configurando diverse sottocategorie diagnostiche: a prevalenza disattentiva, a prevalenza iperattiva/impulsiva, o in combinazione (attentiva e iperattiva/impulsiva) (DSM-5, 2013).

Per diminuire i fattori di rischio nell’andamento del decorso dell’ ADHD è bene effettuare una diagnosi il più possibile precoce ed iniziare il trattamento della sintomatologia, tramite psico-educazione ed eventuale trattamento farmacologico e psicoterapico.

 

Il Neurofeedback

Oltre ai trattamenti più comuni appena citati, alcuni studi hanno evidenziato dei miglioramenti prestazionali in seguito all’utilizzo dell’elettroencefallogramma (EEG) biofeedback, meglio conosciuto come Neurofeedback. Si tratta di uno strumento che permette di rilevare l’attività elettrica cerebrale e presentarla visivamente ed in tempo reale al paziente tramite uno schermo, basandosi sul fatto che ad ogni attività corticale corrisponde una diversa tipologie di onde cerebrali. Tramite il feedback osservato sul monitor l’individuo potrà imparare a conoscere “il comportamento cerebrale” e successivamente provare a modificare la propria attività elettroencefalica ricercando lo stato cognitivo voluto (www.neurofeedback-italia.it; Masterpasqua & Healey, 2003). L’individuo acquisisce in questo modo una strategia di autoregolazione.

Il Neurofeedback rileva, tramite l’utilizzo di elettrodi posizionati sul capo, l’attività elettroencefalica, acquisendo frequenza e ampiezza delle onde cerebrali relative all’attività svolta. I dati rilevati vengono trasmessi ad un computer che li trasforma in un formato visualizzabile sul monitor e quindi codificabile dall’utente. In questo modo il soggetto che si sottopone a tale trattamento potrà osservare e successivamente imparare a “gestire” il feedback relativo all’attività cognitiva e raggiungere volontariamente gli stati desiderati.

Solitamente vengono previste diverse sedute, gli studi indicano un trattamento che varia dalle 20 alle 40 sedute con caduta bi- o trisettimanale, a seconda del centro che lo propone. Si tratta quindi di un percorso impegnativo che richiede costanza e motivazione.

Le sedute prevedono livelli a complessità crescente che varieranno in parallelo all’acquisizione della metodologia e alla capacità di auto-regolazione della persona. Al raggiungimento della soglia di concentrazione e di rilassamento richiesta corrisponde l’attivazione delle immagini visualizzate sul monitor che saranno il feedback del raggiungimento dell’obiettivo.

 

Attivazione elettrica rilevata con il Neurofeedback

L’attivazione elettroencefalica si suddivide in quattro categorie di onde, che variano per la loro diversa frequenza. Le onde theta (4 – 7 Hz) corrispondono allo stato di pre- e post-addormentamento, ossia ad uno stato di rilassamento profondo; le onde delta (1 – 3 Hz) sono connesse al sonno profondo; le onde alpha (8 -13 Hz) sono maggiormente attive durante lo stato di veglia rilassata, mentre i processi di focalizzazione e processamento cognitivo (concentrazione su un compito e sua esecuzione) sono connesse ad un incremento dell’attività beta (14 – 30 Hz) nelle aree cerebrali frontali (Deilami et al. 2016).

Proprio queste aree frontali, insieme alle aree centrali, sono le aree indicate in alcuni studi, nell’avere una differente tipologia di attivazione elettrica in individui con ADHD, rispetto a coloro senza tale diagnosi (Loo & Barkley, 2005).

 

Neurofeedback e ADHD

Un elemento non diagnostico esplicitato nel DSM-5, evidenzia la maggior presenza delle onde lente theta in soggetti con ADHD e una carenza di onde beta, rispetto ai coetanei senza tale diagnosi. Tale dato che si collegherebbe alla diminuzione della capacità di rimanere concentrati su un determinato compito, per la carenza di onde beta nel corso del processamento cognitivo (Wangler et al., 2011), mentre, le onde theta, sarebbero associate a disattenzione e pensiero decentralizzato come sottolineato da Lubar (2003).

Sulla base di tali dati l’obiettivo del training con Neurofeedback, sarà quello di modificare l’attività cerebrale al fine di migliorare le performance cognitive e comportamentali dell’individuo (Becerra et al., 2006).

Un recente studio effettuato nel 2014, su 144 pazienti ADHD in età scolare, ha evidenziato miglioramenti prestazionali in seguito a training con Neurofeedback, in alcuni casi in aggiunta al trattamento farmacologico. Il dato è stato valutato attraverso la somministrazione di una batteria di test che ne rilevasse le variazioni nelle performance inerenti la sintomatologia ADHD comparate precedentemente e successivamente al trattamento (Holtmann et al., 2014).

Un ulteriore studio di Deilami del 2016 ha riportato le medesime differenze prestazionali nei risultati ottenuti da soggetti tra i 5 e i 12 anni sottoposti al training, confermando il miglioramento rilevato in precedenti studi (Fox, Tharp, & Fox, 2005).

Il dato principale nell’ottenere il miglioramento della sintomatologia tramite training con Neurofeedback consisterebbe nella costanza della sua applicazione, necessaria all’acquisizione graduale della metodologia da parte dell’utente.

Diversi studi hanno sottolineato l’efficacia del neurofeedback come rientrante all’interno delle linee guida cliniche delineate dall’APA (American Psychological Association). In particolare, Monastra effettuò un’analisi delle ricerche effettuate in quest’ambito dagli anni ’80 ai primi anni del nuovo secolo, rilevando un livello 3, in una scala di 5 livelli, di “efficacia probabile”, per indicare gli effetti positivi rilevati in più studi.

Nel portale statunitense CHADD The National Resource on ADHD il livello di efficacia raggiunto corrisponde al grado di “efficacia possibile” (livello 2) per le carenze metodologiche a loro avviso presenti negli studi scientifici effettuati, come indicato anche da Loo e Barkley (2005), che riportano l’incompletezza dei dati, ad esempio nel campione di controllo selezionato con il quale sono state confrontate le prestazioni dei soggetti analizzati, nel numero di pazienti coinvolti, nelle variabili considerate.

Altri limiti osservati riguardano l’impossibilità di comprovare l’efficacia del trattamento come connessa esclusivamente allo stesso (Lansbergen et al., 2011; Perreau- Linck et al., 2010).

Nel 2005 Hirshberg et al., indicarono come tale metodologia osservasse invece le “linee guida cliniche” di “forte evidenza empirica e/o con forte consenso clinico” dell’AACAP (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry) nel trattamento dell’ ADHD.

 

Conclusioni

I risultati qui osservati riportano pareri contrastanti. Gli studi più recenti sull’efficacia del trattamento dell’ ADHD con Neurofeedback sembrano esserne a favore (Deilami et al., 2016), come anche l’utilizzo di tale metodologia da parte di diversi centri sul territorio italiano, tuttavia appare necessario effettuare ulteriori approfondimenti per dimostrarne l’effettiva efficacia.

Inoltre sembra che il trattamento sia indirizzato maggiormente ad aumentare le capacità prestazionali nell’eseguire un’attività specifica, tenendo meno in considerazione le altre difficoltà dell’individuo con ADHD, come le capacità organizzative e di pianificazione. Ciò nonostante l’aumento delle capacità attentive potrebbe comunque avere effetti trasversali positivi anche sugli altri ambiti e migliorare le prestazioni individuali.

Importante sarà quindi non sottovalutare la complessità del disturbo, considerando all’interno della possibile efficacia del trattamento anche il grado di gravità della sintomatologia, la motivazione e la capacità individuale nel tollerare la frustrazione.

E se il “Dio delle Piccole Cose” fosse il terapeuta? – Commento alla canzone di M. Gazzè, D. Silvestri, N. Fabi

Una semplice canzone come Il Dio delle Piccole Cose può aprirti orizzonti particolari, per me (e forse non solo) questo Dio ha le sfumature di un Terapeuta e proprio per lui sembrano scritte le parole.

 

Ascolti tante canzoni, magari la stessa più volte ma basta un attimo in cui qualcosa cambia e vibrano quelle parole portatrici di un significato speciale.

Dammi un momento quella conchiglia là, ecco questa non è né più né meno che una raccolta di storie diverse e molto belle. Prodotto di milioni di passi, di modulazioni successive. Essa ha la forma che si può evolvere attraverso una serie di passi. E proprio come te e come me, anch’essa è fatta di ripetizioni di parti e di ripetizioni di parti di parti. Una storia che parla di una chiocciola o di un albero è anche una storia che parla di me e allo stesso tempo una storia che parla di te

(Bateson G.1989).

In virtù di ciò e di tanto altro ancora, una semplice canzone Il Dio delle Piccole Cose può aprirti orizzonti particolari, per me (e forse non solo) questo Dio ha le sfumature di un Terapeuta e proprio per lui sembrano scritte queste parole.

Chissà se qualcuno ha raccolto quei baci mai dati, i gesti invisibili come bottoni smarriti…Chissà se qualcuno ha raccolto quell’attimo in cui le impazziva il cuore

E noi ne raccogliamo tanti, di baci e di carezze ormai spenti e smarriti nelle coppie che, nelle loro guerre li trasformano in proiettili dolorosi. Dobbiamo essere in grado di sintonizzarci sui nostri bisogni più profondi e tramutarli in segnali chiari che aiutino il nostro partner a risponderci. Riconoscere che la “la fame emotiva” (Johnson S. 2011) è una realtà, l’amore necessita di continue attenzioni, e così in stanza di terapia proviamo a ritrovare quei baci, quegli abbracci, a farli tornare presenti e caldi per le coppie e le famiglie.

Ci vuole fortuna, magia, un prestigiatore

Queste parole de Il Dio delle Piccole Cose lasciano pensare che in ogni medico esiste un ferito, in ogni paziente e in ogni essere umano che soffre dimora un potente guaritore interiore. E ce lo ricorda il mito di Chirone che ha vissuto per sempre con la sua ferita, rappresentando l’archetipo del guaritore ferito. Ogni paziente offre all’analista una possibilità assolutamente nuova di entrare nel rapporto (Carotenuto A.1977). Ed in tutti gli approcci terapeutici è in questa relazione “magica” che avviene la cura.

Io spero che esista anche un Dio delle Piccole Cose…Che sappia i silenzi mai diventati parole…Quel nome che hai proprio lì sulla lingua e non viene

Quanti silenzi in stanza, quanto è importante imparare a rispettare quei momenti, cercando di suggerire ai miei pazienti (individui, coppie, famiglie) parole per uscire da quell’imbarazzo, che a volte è anche quello del terapeuta. Eppure la realtà dell’altro non è in ciò che ti rivela, ma in quel che non può rivelarti, perciò se vuoi capirlo non ascoltare le parole che dice, ma quelle che non dice (Kahil G. 1999).

Dio mostrale passi di danza che aveva sbagliato…

Da terapeuti sistemici relazionali ciò che osserviamo è proprio la danza della famiglia, quando arriva da noi c’è di sicuro qualche passo di danza sbagliato, quello che poi si trasforma in sintomo. Ciò che muta durante il percorso sono i modelli transazionali disfunzionali (Minuchin S. 1976), avviene una ristrutturazione del sistema familiare, un nuovo modo in cui le persone si pongono in relazione l’una con l’altra, ed ecco che si può tornare a danzare con un ritmo più equilibrato.

Conserva le foto in cui s’era trovata per caso, Raccogli le briciole perse di ogni esistenza, I respiri sui vetri, di treni in partenza

Spesso, come dice questo verso de Il Dio delle Piccole Cose, ci troviamo a raccogliere delle briciole di varie esistenze che hanno danzato attorno a quella delle persone che ci chiedono aiuto. Rintracciare gli “script familiari” intesi come aspettative condivise dalla famiglia di come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti (Byng-Hall J. 1998). L’analisi approfondita di questi script diventa fondamentale per capire quale sia la loro influenza sulle altre generazioni. In questi momenti tante foto sbiadite, altre strappate ma pur sempre pezzi di vita che congiungiamo in un puzzle familiare.

Chissà se qualcuno sa dire i cognomi dei suoi compagni di scuola, Poesie che non è mai riuscita a imparare a memoria, Se ha letto i romanzi che poi non abbiamo finito…Se sa le preghiere e i fantasmi di noi da bambini..

Quanti sono gli adolescenti e gli adulti che da piccoli non sono riusciti ad imparare a memoria le lunghe poesie, a scrivere correttamente un dettato…quanti di notte hanno bagnato quel lettino coccolati forse solo da quel cattivo fantasma che nessuno riusciva a vedere, e quindi a cacciar via. Come afferma Cancrini L. (2012) i giovani e i meno giovani, i bambini non curati e non ascoltati se li portano dentro, finché un lavoro terapeutico non riesce a raggiungerli, perché quelli che curiamo anche curando pazienti adulti, alla fine, sono i bambini feriti che piangono ancora dentro di loro.

Il Dio delle Piccole Cose aspetta la fine del cammino, con un sacco sgualcito dal tempo ed un piccolo inchino, chissà se ci ridà indietro le vite che abbiamo in sospeso

Che dire, queste ultime righe della canzone non hanno bisogno di commenti, aspettiamo la fine del cammino accanto a loro, e sarà quell’ultima stretta di mano così diversa da tutte quelle date nell’arco delle sedute, con cui ci si saluta per l’ultima volta. Il nostro sacco invecchiato sicuramente dagli anni, ma ricco, ricchissimo delle loro vite, dei loro dolori, delle loro lacrime, dei loro sintomi…li congediamo facendo un inchino per averceli donati.

 

ASCOLTA LA CANZONE “IL DIO DELLE PICCOLE COSE”:

Essere motivati è sufficiente a raggiungere lo scopo?

La domanda è: sentirsi motivati o desiderare qualcosa, è sufficiente a raggiungere lo scopo? La realtà è che la motivazione, da sola, non è sufficiente. Spesso le persone si sentono motivate a raggiungere uno scopo, ma non costruiscono un piano specifico di azione per il suo raggiungimento.

 

La motivazione e gli step da seguire per il cambiamento

Le persone utilizzano spesso il termine “motivazione” in riferimento a diversi ambiti di vita, ad esempio: al proprio aspetto fisico (“Mi sento motivato a perdere peso”), all’ambito lavorativo (“Mi sento motivato per questo nuovo incarico”), e ancora nel contesto sportivo, accademico ecc.. Accade spesso che le persone utilizzino in maniera intercambiabile i termini motivazione e desiderio. In genere, il desiderio, al contrario della motivazione, indica un obiettivo più astratto e più a lungo termine, ad esempio: “Vorrei guadagnare di più”, “Desidero relazioni più stabili” ecc..

La domanda è: sentirsi motivati o desiderare qualcosa, è sufficiente a raggiungere lo scopo? La realtà è che la motivazione, da sola, non è sufficiente. Spesso le persone si sentono motivate a raggiungere uno scopo, ma non costruiscono un piano specifico di azione per il suo raggiungimento. La motivazione rappresenta sicuramente il primo step fondamentale affinché venga affrontato un cambiamento; tuttavia, se quest’ultima non è seguita da azioni strategiche, non risulterà sufficiente al raggiungimento dello scopo.

Quando le persone sentono di essere motivate per il raggiungimento di un obiettivo, ad esempio “Voglio perdere peso”, è opportuno stabilire un piano d’azione concreto e realizzabile, o meglio dei sotto-obiettivi (a breve termine), che permettano, successivamente, di raggiungere l’obiettivo prefissato (a lungo termine). In questo caso, dei sotto-obiettivi potrebbero essere: “Non mangerò al fast food”, “Inizierò a fare attività fisica”, “Acquisterò più verdure”, “Preparo il cibo a casa per evitare di utilizzare il distributore automatico”.

Stabilire degli obiettivi specifici, da seguire giornalmente, permette alle persone un più attento monitoraggio del proprio andamento, e soprattutto che tali comportamenti diventino delle abitudini. Una volta che i comportamenti specifici, dettati dai sotto-obiettivi, sono stati spesso ripetuti, diventano delle abitudini. Queste ultime, al contrario dei comportamenti iniziali, non necessitano più di motivazione, ma sono delle azioni automatiche.

Step verso il cambiamento:
1. Motivazione: sentirsi motivati rappresenta la base per affrontare qualunque cambiamento con successo.
2. Piano d’azione: s’intende il passaggio all’azione. Stabilire dei sotto-obiettivi giornalieri è fondamentale affinché sia possibile raggiungere l’obiettivo prefissato.
3. Mantenere il cambiamento: forse, quello che più mette alla prova le persone che vogliono attuare un cambiamento è il mantenimento dei comportamenti nel tempo, affinché questi diventino un’abitudine.

Lavorare sulla motivazione è molto importante per apportare determinati cambiamenti nel proprio stile di vita. Nel contesto terapeutico, l’intervento motivazionale rappresenta spesso uno degli obiettivi principali, ad esempio nei disturbi correlati a sostanze, disturbi dell’alimentazione ecc..

Gelosia e invidia: le somiglianze e le differenze

Gelosia e invidia possono essere definite come emozioni complesse di derivazione sociale. Vi sono ampie aree di sovrapposizione tra le due, poichè ciò che risulta determinante per l’insorgere di queste emozioni è la percezione di un confronto sfavorevole in un campo rilevante per l’individuo che ha esiti negativi per l’autostima del soggetto. Vi è in comune un danno psicologico in termini di crisi di autostima all’interno di un confronto sociale.

 

La gelosia

Da sempre la gelosia ha rivestito un ruolo importante nella vita degli esseri umani. Essa infatti è parte integrante della vita dell’uomo, lo accompagna sin dalla prima infanzia e viene provocata da situazioni via via diverse durante la sua crescita: dalla gelosia verso le proprie figure genitoriali, passando dalla gelosia verso alcuni oggetti particolarmente significativi e quella che nasce in determinati contesti sociali quali l’ambiente scolastico o di lavoro (caratterizzata per lo più da competizione), fino ad arrivare alla gelosia provocata da eventi che minacciano la propria vita di coppia.

La gelosia è un’emozione complessa e molto frequente che può essere definita come un modo di reagire alla percezione che un’importante relazione interpersonale oppure un oggetto sia minacciata/o da altri. Infatti, oltre alla gelosia relativa alle relazione, vi è anche una gelosia nei confronti di beni, oggetti o posizioni in cui è centrale la paura che il loro possesso o esclusività vengano messe a repentaglio (D’Urso, 2013). Quando si prova gelosia si esperisce uno spiacevole stato di allerta e di minaccia di perdita di qualcosa o qualcuno; nelle sue forme più acute è accompagnata da tipiche attivazioni fisiologiche e tipici comportamenti; come vedremo in seguito, la gelosia può impattare in modo significativo sui processi cognitivi e sulla memoria. Come le altre emozioni, anche la gelosia può essere attivata da pensieri inerenti circostanze esterne e/o immagini mentali e ricordi.

 

La gelosia romantica

La gelosia per una persona che si ama e che si teme di perdere è chiamata in letteratura gelosia romantica. La dinamica della gelosia romantica si sviluppa in un triangolo composto da tre elementi fondamentali: il Sé (la persona gelosa), la Persona Amata e il Rivale.

La dinamica della gelosia amorosa, secondo D’Urso (2013) e’ costituita da:

1) La convinzione che alcune relazioni si configurino come oggetto di possesso e diano il diritto di richiedere o vietare determinati comportamenti (persino di vietare, in modo paradossale, sentimenti e desideri);
2) Il timore che il Rivale voglia o possa insidiare il possesso e il godimento della Persona Amata provocandone la perdita parziale o completa;
3) La previsione che se ciò dovesse accadere la persona gelosa ne avrebbe un danno, una sofferenza per la perdita dell’oggetto d’amore o della sua esclusività, e una ferita all’immagine di sè.

Questo tipo di gelosia è caratterizzata da un forte sentimento di possessività nei confronti della persona amata e quindi dalla convinzione di avere il diritto di vietare o imporre determinati comportamenti al proprio partner. Tuttavia a volte si può essere gelosi anche di persone quasi sconosciute, il che esclude la presenza assoluta nella dinamica della gelosia della possessività. Nella gelosia è a volte presente il timore di perdere la persona amata per causa del rivale, timore tuttavia presente anche se in realtà la reale minaccia di un terzo incomodo nella relazione di coppia è del tutto assente (D’Urso, 1995). Altro elemento importante in questo tipo di gelosia è l’aspettarsi di un possibile danno qualora la persona amata dovesse tradire, danno che porterebbe a una forte perdita dell’autostima. E’ quindi facile comprendere come le situazioni che provocano gelosia possano avere delle reali fondamenta ma possano anche essere causate da paure infondate proiettate dalla persona gelosa all’interno della coppia oppure da comportamenti di poco conto che semplicemente adombrano il rischio o il sospetto di infedeltà (D’Urso, 2013). Per quanto riguarda il Rivale, alcuni autori (Schmitt, 1988) evidenziano che il Rilave più temuto è colui che possiede le caratteristiche positive che si avvicinano al proprio Se’ ideale, piuttosto che all’ideale della persona amata.

La gelosia amorosa è spesso accompagnata da paura, rabbia, tristezza e vergogna, nonchè da una diminuzione dell’autostima. Secondo gli studi di Desteno, Valdesolo e Bartlett (2006) questo stato emotivo determina una grave perdita di autostima e induce come reazione un aumento dell’aggressività. Dal punto di vista comportamentale, quando si è gelosi si sviluppa una forte ambivalenza nei confronti della persona amata: l’atteggiamento può essere imprevedibile ed estremo in termini di eteroaggressività, sia verso la persona amata che verso il Rivale, nei confronti del quale sono dominanti i sentimenti di odio e il desiderio di annullamento.

E’ interessante riflettere sulle alterazioni cognitive che sono copresenti e conseguenti all’emozione della gelosia. In primo luogo, è presente il fenomeno dell’attenzione selettiva: l’attenzione si accentra minuziosamente su ciò che riguarda la persona amata e il Rivale e relativi atteggiamenti e comportamenti. Analogamente, anche i processi di memoria vengono influenzati dalla gelosia poichè vengono richiamati ricordi interpretati e valutati come coerenti con tale emozione e a conferma dei propri sospetti. Si accompagnano alla gelosia rimuginio e ruminazione che mantengono in modo disfunzionale tale emozione. Dunque i processi cognitivi sono di tipo investigativo, con attenzione allertata e ruminazioni che interferiscono con il normale corso dei pensieri e del funzionamento cognitivo, con inferenze e deduzioni che confermano e riconducono alla radice della minaccia.

Possiamo dire che si verifica un fenomeno che somiglia – anche se superficialmente- al delirio di riferimento osservato in casi psicopatologici: moltissimi eventi e situazioni della propria quotidianità vengono cognitivamente interpretati coerentemente ai pensieri specifici della gelosia e confermanti i sospetti e le minacce della gelosia.

Giancarlo Dimaggio identifica due radici della gelosia. La prima è il senso di vulnerabilità, inferiorità. Le azioni del geloso (controllo, investigazioni, aggressioni e vendette) nascono da lì, dal proprio senso di inferiorità. Costruire grandi case in mura di orgoglio e intonare inni al proprio valore servono ad allontanare la vulnerabilità. Se c’è qualcuno da accusare, il geloso scaccia l’idea strisciante di appartenere ad una genia di reietti. Gode del vigore che dà il combattere il nemico invece di sentirsi una nullità.

La seconda radice è più vicina a una forma di relazione oggettuale, il modo in cui nella mente si prevede andranno i rapporti. Di solito funziona così: si brama l’amato ma si teme di non essere alla sua altezza e che qualcuno più potente lo conquisterà. L’angoscia è insostenibile. La vita affettiva si plasma intorno al bisogno di controllare la perdita temuta.

La gelosia romantica ha conseguenze sulle persone che giocano i ruoli fondamentali della sua dinamica: sulla persona amata, sul rivale ma in primo luogo sul Sé. Accade infatti spesso che la persona gelosa soffra sia per la gelosia in se stessa, sia per il fatto di provare con tale intensità questo sentimento di sofferenza.

Nel caso in cui la gelosia insorga in seguito ad un fatto compiuto e innegabile, l’ansia quasi scompare e lascia il posto ad emozioni differenti: nel caso in cui la persona tradita si concentri sulla perdita, vi sarà la predominanza del range delle emozioni legate alla tristezza e alla disperazione; se invece il focus è sulla menzogna e sull’infedeltà emergeranno emozioni di rabbia e odio nei confronti del partner e del rivale. Chiaramente, se nei confronti del rivale vi saranno emozioni a valenza negativa tra cui anche invidia, nei confronti del partner vi potrà essere una costellazione emotiva più ambivalente.

 

Altri tipi di gelosia

Oltre alla gelosia romantica, è utile citare anche la gelosia da competizione sociale, descrivibile come il desiderio di ottenere un bene o una condizione/status che non si ha, accompagnato dal timore di fallire per la presenza di altri contendenti che ugualmente desiderano e perseguono lo stesso bene o condizione (Tagney e Salovey, 2010). Spesso questo tipo di gelosia è legato a situazioni competitive di tipo sociale e ad esiti o prestazioni pubbliche, quando bisogna mostrare e misurare le proprie abilità confrontandosi con gli altri. Secondo Salovey e Rodin (1984) la caratteristica specifica della gelosia da confronto sociale, che consente di differenziarla dalla gelosia romantica, risiede nell’oggetto del desiderio che non è una persona ma un bene o una condizione.

Esistono poi casi di gelosia in relazioni altre caratterizzate da altri tipi di affetto, ad esempio filiale e amicale. La gelosia dell’infanzia, in particolare tra bambini appartenenti alla stessa famiglia, è stata studiata da diverse ricerche (Dunn e Kendrick, 1982). La forma più comune di gelosia in famiglia è probabilmente quella che insorge nel primogenito all’arrivo del secondogenito (secondo Dunn e Kendrick nel 93% dei casi da loro esaminati). Forme di antagonismo legato alla gelosia tra fratelli o sorelle possono permanere anche negli anni successivi all’arrivo del secondogenito/terzogenito, ma spesso si accompagnano anche ad altre manifestazioni di affetto e generosità. Inoltre non tutti i conflitti tra fratelli vanno attributi all’emozione della gelosia.

Infine, una situazione che può rendere molto gelosi è legata ai rapporti di amicizia. Se pensiamo ad esempio all’adolescenza, quando generalmente si creano delle amicizie che vengono vissute come esclusive, un allontamento o un interesse verso altri amici, possono provocare nella persona che prova gelosia amicale un forte grado di sofferenza: l’allontanamento è vissuto come un tradimento secondo una dinamica simile a quella della gelosia amorosa.

 

L’invidia

L’invidia, pur non essendo annoverata tra le emozioni fondamentali, riveste una grande rilevanza nella vita affettiva degli individui. L’invidia è un’emozione complessa che fa riferimento ai valori e all’immagine di sè. In particolare, alla base dell’invidia si riscontrano sentimenti di mancanza, di rivalità e senso di inferiorità. Il trigger da cui ha origine è il desiderio di possesso di un bene, di una qualità o di una condizione che impone un confronto tra il soggetto, frustrato nel suo desiderio, e chi invece lo possiede (D’Urso, 2013). L’invidia è quindi un sentimento di malanimo nei confronti di un’altra persona, o un gruppo di persone, che chi invidia crede possiedano qualcosa che lui crede di non possedere. Per malanimo qui si intende il sentimento che si prova nei confronti di colui al quale si attribuisce il fatto di non riuscire a raggiungere i propri scopi.

Vi è una differenza fondamentale tra il semplice desiderare e l’invidiare perchè nell’invidia è essenziale la componente emotiva di rivalità con l’altro: l’esistenza di un bene/condizione posseduto/a da altri ingenerano un senso di mancanza, di inferiorità e di inadeguatezza nel soggetto (Frijda, 1986). Dunque, la base dell’invidia è una mancanza, o meglio anche dire la percezione di una mancanza, resa evidente da un confronto sociale; tale mancanza è spesso attribuita a proprie carenze personali oppure può indebolire la propria immagine di sè, e di conseguenza aumentare il senso di inferiorità. Inoltre l’invidia chiama in gioco criteri morali, in quanto può essere sostenuta da un’idea di ingiustizia e di indegnità verso la persona che gode di un bene, qualità o condizione desiderata dal sè.

In letteratura vi è accordo tra gli studiosi rispetto alla dinamica di rivalità e mancanza dell’invidia: come già scritto sopra, si invidia qualcosa e/o qualcuno perchè si vorrebbero possedere oggetti, qualità o condizioni che mancano; tuttavia vi è discordanza rispetto alla funzione dell’invidia. Ovvero: tale emozione è da intendersi come completamente negativa perchè motiva ad azioni ostili e aggressive verso gli altri e se stessi oppure vi sono aspetti benevoli che possono sfociare in atteggiamenti utili rispetto agli scopi dell’individuo?

Secondo Castelfranchi Miceli e Parisi (1988) l’invidia ha come fulcro l’ostilità: chi non consegue uno scopo desiderato soffre vedendo che gli altri invece sono in grado di raggiungerlo e prova ostilità per chi gli causa questa sofferenza; un’altra ragione di ostilità risiede nella constatazione che l’invidiato presenta una meta come raggiungibile, e questa presa di consapevolezza di realizzabilità di uno scopo da parte di altri ma non da parte del sè, porta ad una autosvalutazione della propria idea di sè, che esce perdente dal confronto sociale.

L’invidia è frequentemente associata ad emozioni e sentimenti quali rabbia, disprezzo, ammirazione, indignazione, svalutazione di sè e vergogna. In termini di tendenza all’azione e al comportamento, l’invidia può indurre ad azioni aggressive espressamente dirette a danneggiare la persona invidiata. Viceversa, vi può anche essere un atteggiamento passivo in cui si rinuncia a lottare per il bene invidiato e prevale un generale senso di sfiducia in se stessi e di autocommiserazione.

In generale, l’emozione dell’invidia è qualcosa che non si ammette volentieri e tende ad essere negata da chi la prova. Diversi autori (Girotti, Marchetti e Antonietti, 1992) hanno confermato, nel contesto culturale italiano, la bassa accettazione sociale dell’invidia: l’invidia risulta essere l’emozione coscientemente più rifiutata, le persone negano di provarla e di parlarne, mentre attribuiscono notevolemente agli altri tale emozione.

Le ragioni di questa accezione negativa e dello stigma legato all’invidia si ritrovano già nelle nostre antiche radici filosofiche: Aristotele nella Retorica definiva l’invidia come “un dolore causato da una buona fortuna che appare presso presone simili a noi” e come “passione disonesta e propria delle persone disoneste”. In generale, si nega l’invidia perchè non si vuole apparire come perdenti in un confronto nè come persone che spendono energie e risorse per danneggiare l’altro al posto che per raggiungere una meta desiderata.

Tuttavia, secondo altri autori vi sarebbero accezioni positive dell’invidia, un’ invidia “buona” che porterebbe la persona ad automigliorarsi a seguito della percezione della propria mancanza nel confronto con l’altro. Nell’invidia buona vi è l’esistenza di alcuni meccanismi positivi che portano l’individuo a confrontarsi con l’altro al fine di raggiungere i propri scopi in ottica migliorativa. In tal senso può esserci un’identificazione positiva con l’altro. In tal caso, il sentimento speculare e copresente all’invidia è l’ammirazione, nel momento in cui accanto al riconoscimento di meriti e qualità altrui non vi è la propria autosvalutazione e la sensazione di inferiorità. Inoltre, l’ammirazione è un sentimento senza remore che afferma la giustizia del possesso di un bene o di una qualità, mentre nell’invidia è spesso presente disprezzo e indegnità di chi gode della condizione invidiata.

 

Differenze e somiglianze tra gelosia e invidia

Gelosia e invidia possono essere definite come emozioni complesse di derivazione sociale. Vi sono ampie aree di sovrapposizione tra l’emozione della gelosia e dell’invidia, poichè ciò che risulta determinante per l’insogere di queste due emozioni è la percezione di un confronto sfavorevole in un campo rilevante per l’individuo che ha esiti negativi per l’autostima del soggetto. Vi è in comune un danno psicologico in termini di crisi di autostima all’interno di un confronto sociale.

Sul piano della valenza emotiva, entrambe sono emozioni spiacevoli, a tratti penosi che come già visto, implicano una diminuzione dell’autostima. A livello cognitivo, sia nella gelosia che nell’invidia si attivano generalmente processi cognitivi che mantengono in modo disfunzionale l’attivazione emotiva, quali l’attenzione selettiva, il rimuginio e la ruminazione.

Gelosia e invidia si differenziano per diversi aspetti:
La gelosia è più frequente quando nel confronto sociale una nostra qualità viene minacciata; l’invidia è più frequente quando l’individuo si confronta con chi possiede in maggiore grado una qualit, un bene o una condizione rilevante per l’individuo stesso;
La gelosia nasce nell’ambito dei rapporti affettivi, essenzialmente per timore di perdere la totalità o l’esclusività di un legame affettivo, mentre l’invidia riguarda prevalentemente il rapporto con i beni o con determinate condizioni (di successo, di potere, di status);
La gelosia è spesso accompagnata da stati mentali di sospettosità, sfiducia, autosvalutazione, paura, ansia e rabbia, ipersensibilità alle frustrazioni ma anche amore e desiderio verso la persona di cui si è gelosi; l’invidia nasce dalla percezione di una mancanza nei confronti dell’altro, ed è spesso accompagnata da senso di inferiorità, acuto senso di possesso, desiderio di danneggiare l’altro, anche se può essere presente ammirazione e una spinta positiva a emulare chi si invidia.

 

Quando gelosia e invidia diventano patologiche

Gelosia e invidia sono due fenomeni emotivi ampiamente diffusi e impattanti le relazioni affettive interpersonali, che si collocano su un continuum tra normalità e patologia: il che significa che provare gelosia e invidia è un fenomeno comune, e che solo in certe condizioni può divenire patologico. Maggiore è la rigidità, la pervasività e l’immodificabilità dei contenuti e dei processi cognitivi, nonchè dei correlati comportamentali legati a tali emozioni, maggiore sarà la probabilità di riscontrare un quadro di gelosia o invidia patologica.

 

La gelosia patologica

Allo scopo di comprendere le differenze individuali Marrazziti e collaboratori (2010) hanno recentemente sviluppato un questionario inerente al tema della gelosia, con lo scopo di classificare le manifestazioni di gelosia nella popolazione non patologica, sulla base di quattro ipotetici profili: gelosia ossessiva, depressiva, associata ad ansia da separazione e paranoide. Le tipologie di gelosia si caratterizzano per i seguenti aspetti: nella forma ossessiva, sono presenti sentimenti egodistonici ed intrusivi di gelosia che la persona non riesce a far cessare; nella forma depressiva, la persona prova un senso di inadeguatezza rispetto al partner, aumentando il rischio percepito di tradimento; nella forma con associata ansia da separazione, la prospettiva di una perdita del partner appare intollerabile, e vi è un rapporto di dipendenza e di continua ricerca di vicinanza; nella forma paranoide, vi è un’estrema diffidenza e sospettosità, con comportamenti controllanti ed interpretativi. Tale strumento rappresenta un utile collegamento tra normalità e patologia, ed ha lo scopo di portare luce su un fenomeno molto diffuso, sebbene poco studiato, e fonte di disagio psicologico in un’ampia parte della popolazione.

Affrontando quindi il tema del continuum tra normalità e patologia, presentiamo brevemente la descrizione di gelosia normale e patologica. Si parla di gelosia normale quando è inseparabile dall’amore per il partner e mostra livelli di attivazione fisiologica accettabili. Non vi è rigidità e pervsasività dei pensieri e nelle credenze legate alla sospettosità e minaccia di perdita del partner; non vi sono dilaganti comportamenti compulsivi di controllo, di investigazione ne’ comportamenti aggressivi e coercitivi. Invece, la gelosia patologica si genera da comportamenti che non trovano riscontro nella realtà, da azioni infondate, e deriva, sostanzialmente, da un’angoscia che prende forma nella mente senza nessun riscontro oggettivo. Quest’angoscia produce delle vere e proprie rappresentazioni mentali in cui si costruiscono ad hoc lo scenario, il rivale e, più di tutto, le prove dell’infedeltà. Quindi, la realtà viene erroneamente interpretata e tutto può essere frainteso. Questo, può portare a dei veri e propri deliri di gelosia che in alcuni casi sono all’origine di delitti passionali. Si tratta, dunque, di autentico delirio florido, esattamente come affermava Freud anni or sono, e rappresenta la parte più patologica della gelosia. Nei casi più estremi infatti non è raro che vi siano deliri di riferimento specifici definiti “deliri di gelosia”.

Questa forma di gelosia si manifesta con le seguenti caratteristiche:
paura irrazionale dell’abbandono e tristezza per la possibile perdita;
sospettosità per ogni comportamento relazionale del partner verso persone dell’altro sesso;
controllo di ogni comportamento dell’ altro;
invidia ed aggressività verso i possibili rivali;
aggressività persecutoria verso il partner;
sensazione d’ inadeguatezza e scarsa autostima di noi stessi.

Sostanzialmente, è una sintomatologia affine a quella della dipendenza affettiva. La gelosia, dunque, potrebbe essere la manifestazione di una condizione patologica di dipendenza affettiva. Si può affermare che la gelosia e la dipendenza affettiva sono due facce di una stessa medaglia: se è presente l’una è molto probabile sia presente anche l’altra . Infatti, il dipendente affettivo agisce sulla scia di un bisogno: non voglio rimanere solo. Di conseguenza, nel momento in cui si assume che l’oggetto d’amore, senza un dato di realtà, possa venir meno, si manifesta questa strana sensazione di estrema vulnerabilità in cui iniziano i comportamenti investigativi e di controllo, nonchè gesti disperati nel tentativo di tenere legato a sé l’oggetto d’amore. La gelosia patologica può riscontrarsi ad esempio nei disturbi della personalità, oppure in tratti di personalità sottosoglia, ad esempio nel disturbo dipendente, borderline, paranoide, narcisistico, antisociale, etc.

A livello comportamentale, capita spesso che persone che soffrono di gelosia patologica possano controllare o spiare la persona amata e, in alcuni casi, possono persino esercitare forme di controllo molto aggressive sul partner per prevenire l’infedeltà (usare violenza verbale, fisica o addirittura imprigionare chi si teme di perdere). L’intensità della gelosia è direttamente proporzionale alle dimensioni immaginarie della catastrofe della perdita della relazione e dell’amato intollerabile.

Tra le conseguenze della gelosia sulla persona amata, possono a volte essere presenti veri e propri comportamenti distruttivi nei suoi confronti, come provare odio o abusarne fisicamente, fino a considerare la persona che si ama disturbante quanto il rivale: basti pensare ai numerosi casi di aggressioni fisiche, violenze efferate e omicidi a sfondo passionale. Anche verso il rivale ci si comporta proiettando su di esso quasi esclusivamente sentimenti di annullamento e odio.

 

L’invidia patologica

Come già esposto nei precedenti paragrafi, l’invidia è un’emozione altamente stigmatizzata nella nostra cultura, è l’emozione di cui si parla meno e di cui si è meno consapevoli. La psicoanalisi ha dedicato grande spazio all’invidia, nelle sue teorizzazioni sullo sviluppo infantile. Già Freud parlava del ‘complesso di evirazione’ tale per cui la bambina nell’infanzia prova l’ ‘invidia del pene’ quando viene a conoscenza del sesso maschile. Secondo Melanie Klein l’invidia è un’emozione fondamentale per il successivo sviluppo emotivo-affettivo del bambino. Nell’infanzia, se l’invidia non è eccessiva ed é adeguatamente supportata ed elaborata può essere superata e ben integrata nell’Io attraverso sentimenti di gratitudine.

Nel momento in cui questa emozione è negata e non riconosciuta può indurre emozioni disfunzionali secondarie (ansia, colpa, frustrazione) che aumentano il livello di sofferenza e di disagio psicologico. In generale l’invidia può divenire patologica nel momento in cui i contenuti e i processi cognitivi disfunzionali sono rigidi e perseveranti: il confronto con l’altro innesca pensieri e credenze di autosvalutazione e senso di inferiorità, che spingono l’individuo verso comportamenti distruttivi e aggressivi, verso l’altro o verso se stesso; mentre in taluni casi prevale un quadro di evitamento e passività, in cui sono presenti stati di impotenza e autocommiserazione.

L’invidia patologica è caratterizzata da una elevata quota di rancore e astio, al punto che la persona oggetto dell’invidia è deumanizzata e odiata; spesso sono presenti esperienze infantili traumatiche, in termini di abuso, umiliazione, denigrazione, criticismo, biasimo e sabotaggio del valore personale. Nelle persone che presentano invidia patologica è copresente una acuta emozione di vergogna e senso di inadeguatezza del sè. A livello comportamentale e cognitivo possono attuarsi modalità di relazione evitanti, defilate e schive caratterizzate da diffidenza nei confronti dell’altro; in alternativa, la vittima di invidia patologica può identificarsi con l’aggressore (ad esempio un caregiver umiliante) e perpetrare il ciclo dell’abuso attraverso la denigrazione e la svalutazione dell’altro attraverso agiti intenzionalmente diretti a danneggiare l’altro. In entrambi i casi è presente una marcata sensazione di inferiorità e inadeguatezza del sè.

Spesso possono accompagnarsi all’invidia patologica, patologie legate alla sfera dei disturbi depressivi, in cui è centrale l’autosvalutazione del sè e l’autocommiserazione, così come in alcuni casi di disturbi della personalità, come ad esempio nel caso del disturbo di personalità narcisistico.

Superare le difficoltà psicologiche è un (video)gioco da ragazzi! Fare Play Therapy attraverso i videogames

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Grazie alla Play Therapy,  il gioco fornisce una distanza psicologica sicura dai loro problemi dei bambini e consente l’espressione di pensieri e sentimenti appropriati al loro sviluppo

Marco Lazzeri, Lorenza Diato

 

Che cos’è la Play Therapy

Anche se non diffusa in maniera uniforme in tutto il mondo la Play Therapy è comunque una pratica conosciuta ed applicata in molti Paesi (in particolare modo in Nord America, Nord Europa, Corea del Sud e Giappone). Sul sito www.playtherapy.it troviamo, per chi fosse all’oscuro o a digiuno di tale argomento, una notevole mole di informazioni che ci possono aiutare a capire meglio che cos’è la tale metodologia applicativa.

L’Association for Play Therapy United States (APT) definisce la Play Therapy come:

l’uso sistematico di un modello teorico per stabilire un processo interpersonale dove un professionista della salute mentale formato in Play Therapy (Play Therapist) utilizza i poteri terapeutici del gioco per aiutare i clienti a prevenire o risolvere difficoltà psicosociali e a raggiungere un livello ottimale di crescita e sviluppo.

Attraverso il gioco i bambini imparano a comunicare con gli altri, a esprimere i sentimenti, a modificare comportamenti, a sviluppare abilità nel risolvere situazioni problematiche e ad apprendere una varietà di modalità attraverso le quali relazionarsi con gli altri. Tuttavia, questa metodologia d’intervento si realizza quando il gioco è utilizzato come processo terapeutico e non solo come momento ludico. In tal senso si può dire che “il gioco” fornisce quindi una distanza psicologica sicura dai loro problemi e consente l’espressione di pensieri e sentimenti appropriati al loro sviluppo.

Le attività pratiche di Play Therapy variano molto in base sia alla preparazione del Play Therapist, sia in base alle esigenze del cliente. Nell’articolo del Dott. Claudio Mochi (psicologo esperto di Play Therapy nonché Play Therapy Supervisor) del 2009 dal titolo “La Play Therapy: il gioco come comunicazione” , ci viene spiegato come vi siano tre diverse modalità di intervento d’uso della terapia del gioco. Secondo quanto sostiene lo psicologo:

Negli interventi che vengono ricondotti al settore denominato non direttivo, il Play Therapist seleziona con attenzione i giocattoli nella stanza dei giochi per aiutare i bambini ad esprimere una varietà di sentimenti e problemi. Sarà poi il bambino a scegliere quali giocattoli utilizzare ed anche il modo con cui intende giocarvi. Il Play Therapist segue empaticamente l’iniziativa del bambino unendosi a giochi di finzione e immaginazione quando invitato dal bambino e fornisce nei momenti opportuni i limiti per tutelarne l’integrità fisica e favorire l’esercizio e lo sviluppo dell’autocontrollo. L’intero lavoro del Play Therapist è rivolto a creare un’atmosfera sicura nel quale il bambino si senta libero di esprimere se stesso, provare cose nuove, apprendere regole e restrizioni sociali, affrontare ed elaborare i propri problemi. Nell’ampio settore dei modelli direttivi è invece il Play Therapist a proporre, di volta in volta, le attività di gioco in base al piano terapeutico che ha formulato.

Un’altra forma di Play Therapy è quella Familiare. In questa tipologia di interventi è l’intera famiglia ad essere coinvolta in giochi e attività ludiche. Una forma particolare di intervento Familiare è la Filial Therapy. In questa modalità estremamente efficace, i genitori divengono gli agenti principali nel trattamento dei propri figli, in quanto vengono formati dal Play Therapist ad attuare delle sessioni di gioco non direttivo (centrate sul bambino) con i propri figli. Ogni attività è comunque adattata al livello di sviluppo del bambino per cui con il crescere dell’età e l’ulteriore sviluppo del linguaggio e delle capacità cognitive si utilizzano modalità di Play Therapy adeguate, in cui il linguaggio assume progressivamente una proporzione maggiore rispetto al gioco.

I principi terapeutici della Play Therapy sono assimilabili non soltanto ai classici giochi, ma anche ai videogiochi, ai giochi online e ad alcuni mondi virtuali. Eccone spiegati alcuni:

  • Abreazione: le persone tramite il gioco o la Realtà Virtuale rivivono determinate esperienze traumatiche, questo permette, in maniera graduale, di avere un maggior controllo su di esse.
  • Addestramento comportamentale: il gioco permette di modellare determinati comportamenti di vita rendendoli più adattivi. Ciò è permesso dall’ambiente sicuro del gioco, dove si possono sviluppare comportamenti socialmente più accettabili.
  • Catarsi: il rilascio emotivo è quasi universalmente riconosciuto come un elemento essenziale in ogni forma di psicoterapia. Coinvolge quelle forme emozionali in precedenza interrotte, piangere, colpire, ecc…La persona può esprimere queste emozioni colpendo un pupazzo gonfiabile, dei palloni, o qualunque altro mezzo sciogliendo così le tensioni fisiologiche e psicologiche accumulate e represse.
  • Contro-condizionamento: alcuni condizioni emotive interne si escludono reciprocamente, pertanto alcune situazioni di giocosità possono essere utilizzate come contropartita per situazioni spiacevoli. Ad esempio se si riesce a far giocare a nascondino un bambino, che ha paura del buio, in una stanza buia, questo lo porterebbe ad affrontare meglio le sue paure.
  • Potere e controllo: alcuni adulti nella vita reale credono di avere poche possibilità di controllo sugli eventi, nel gioco si può fare accadere quello che vuole, sentirsi potente e tenere la situazione sotto controllo permettendo di sviluppare un locus of control interno.

 

La Play therapy e i videogiochi

A livello internazionale le aziende che investono nel campo dei videogiochi a livello sanitario sono molteplici, e molte iniziano ad essere le applicazioni ludiche presenti in campo “mobile” per smartphone e tablet.

Facendo una ricerca su Pubmed Central con parole chiave come “Wii” o “Playstation” notiamo come esistono diversi studi sugli sviluppi di piattaforme create per attività che coinvolgono le due piattaforme. La cosa interessante che notiamo, dando una prima lettura veloce, è come i due dispositivi ludici siano stati utilizzati in molti campi diversi, dalla riabilitazione dall’ictus alla riabilitazione cognitivo-comportamentale. Si è notato a tal proposito che cercando solo la parola Wii sono emersi ben 2643 articoli su PubMed Central.

Il grande beneficio dei videogiochi sta nella capacità di unire la componente ludica all’esercizio motorio, al contrario delle terapie tradizionali, che richiedono esercizi monotoni e ripetitivi. Il videogioco tiene il morale alto senza far perdere la motivazione. La Playstation, la Nintendo Wii o perché no anche l’Xbox, non sono solo degli strumenti ludici, ma anche delle valide strumentazioni per la terapia del recupero motorio dei casi di ictus. Citando alcuni esempi tratti dal libro “Game therapy. L’uso dei mondi virtuali in campo sanitario” di Claudio Pensieri (2013), troviamo:

  1. EbaViR (Easy Balance Virtual Rehabilitation) – EbaVir è un sistema basato sulla tecnologia della Wii Balance Board Nintendo. È stato progettato dai terapisti clinici per migliorare, attraverso esercizi motivazionali e adattivi, l’equilibrio in piedi e la postura dei pazienti con ABI (ovvero lesioni celebrali acquisite). Il sistema EbaVIR non utilizza nessun software commerciale. Gli esercizi sono stati programmati con l’ausilio di un programma per la creazione di applicazioni 2D e 3D ed è stato progettato con l’aiuto di specialisti clinici della riabilitazione dell’equilibrio. Il sistema è stato sviluppato puntando a tre obiettivi: 1) ottenere un sistema valido per il recupero dell’equilibrio dei pazienti, 2) realizzazione di un sistema che rafforzasse la motivazione dei pazienti durante il processo riabilitativo, 3) realizzare un sistema che fornisse ai terapisti dei dati oggettivi sull’evoluzione dei pazienti
  2. EVREST  – EVREST è il primo trial randomizzato controllato in parallelo ed è stato ideato per valutare la fattibilità, la sicurezza e l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale offerta da un gioco della Nintendo Wii rispetto alla tradizionale terapia di riabilitazione per migliorare il recupero e il riacquisto delle funzionalità del braccio in pazienti colpiti da ictus. I software utlizzati erano software di sport (ad esempio la compilation di giochi sportive Wii Sports) e Cooking Mama.
  3. Wii Sports – Nella popolazione anziana la depressione subsindromica è molto diffusa. Essa è associata a una notevole sofferenza, disabilità funzionale, maggiore utilizzo di costosi servizi sanitari e una maggiore mortalità. In uno studio dove sono stati campionati 22 individui (di età compresa tra 63 a 94 anni) e 19 di essi hanno completato le 12 settimane di studio con il gioco Wii Sports (contenente cinque giochi: tennis, bowling, baseball, golf e pugilato). I partecipanti hanno giocato alla Wii nella loro struttura residenziale o nel loro centro anziani per 35 minuti in tre sedute settimanali. L’indagine pilota di 12 settimane con questi videogiochi ha suggerito un alto tasso di adesione (84%), con un significativo miglioramento dei sintomi depressivi, del funzionamento cognitivo e senza grandi eventi avversi.

 

La Computer Game Therapy e Pokémon Go

Altri esempi riconducibili a pieno titolo alla Play Therapy, oltre a quelli appena citati, fanno riferimento alla metodologia riabilitativa sviluppata dal Dott. Antonio Consorti (e conosciuta al pubblico come Computer Game Therapy) nonché all’applicazione per dispositivi mobile Pokémon Go.

Procediamo con ordine. La Computer Game Therapy metodo Vi.Re.Dis. è una metodologia terapeutica che si avvale dell’uso dei videogames e delle consolle video-ludiche di ultima generazione per la riabilitazione delle patologie del pensiero, del linguaggio e della relazione. La Computer Game Therapy poggia i suoi pilastri sull’ampio sfondo teorico-scientifico sull’Intelligenza Emotiva e sul Quoziente Emotivo, ovvero sulla capacità di relazionarsi emotivamente in modo dinamico alle sollecitazioni sensoriali o emotive provenienti dall’esterno. Grande attenzione viene riposta nella scelta degli strumenti da usare nei laboratori: sia l’elemento video, sia la componente audio hanno fondamentale importanza nello simulazione virtuale poiché allenano i soggetti disabili al riconoscimento di suoni e rumori dell’ambiente di vita quotidiana. La terapia si svolge in gruppo, da un minimo di 3 a un massimo di 6 partecipanti, diversi per età, patologia e livello comunicativo, ed è gestita da tre terapisti.

Le sperimentazioni effettuate in ambito scolastico nelle scuole del 7° Circolo Didattico di Verona, ad esempio, hanno evidenziato come l’uso dei videogames in questo ambito abbia stimolato i bambini all’apprendimento, li abbia portati a migliorare le loro capacità di relazione sociale e a sperimentarsi in modo consapevole all’interno di un gruppo, riducendo le dissimmetrie comunicative dovute a difficoltà relazionali tra i membri delle classi.

E per quanto concerne Pokemon Go cosa possiamo dire? Nell’articolo “Beyond the playful: pokemon go among captology, positive technology and emotional intelligence” spiegai i benefici di questo videogioco. Un articolo apparso su Panorama.it del 14 luglio 2016 riporta una riflessione del dottor John Grohol, esperto nello studio dell’impatto della tecnologia sul comportamento umano, sulla salute mentale e fondatore del fondato Psych Central, il più grande network su Internet che contiene ricerche, spunti materiale di supporto sui disturbi psichici. Ecco uno stralcio di quanto viene riportato:

La sfida, per chi è depresso, è aumentare i livelli motivazionali per uscire di casa, fino a quel momento inesistenti. Ci sarebbe bisogno di andare fuori e respirare un po’ di aria pulita, magari farsi una doccia o un bagno. Sembrano cose stupide ma sono estremamente difficili da affrontare per chi è ansioso o è depresso. Per questo credo che l’impatto del gioco possa davvero portare a notevoli benefici – Continua ancora lo stesso Grohol – La scienza è molto chiara su questo punto: più si fa attività fisica più scendono i livelli di depressione. Si tratta di uno strumento molto potente, con un effetto notevole

Ma in che modo quindi Pokémon Go può aiutare a uscire da uno stato mentale di apatia e scoraggiamento? Prima di tutto l’applicazione punta molto sull’interazione con il mondo esterno più che concentrandosi solo sul personaggio che si comanda. In questo modo si incoraggia verso la conoscenza di edifici e monumenti storici (i cosiddetti “Pokéstop”) e il contatto con gli altri giocatori sulla mappa. Il solo fatto di dover poi uscire allo scoperto per avanzare nel gioco è già un primo passo verso l’apertura allo sconosciuto, all’esterno, a quel mondo che fa così tanta paura. Certo, non è possibile e corretto considerare questo gioco come la cura per l’ansia e la depressione, ma è sicuramente un valido strumento per dare uno slancio. L’utilità positiva di Pokemon Go tuttavia non si ferma qui. Un altro esempio della sua funzionalità, in quanto tecnologia positiva, ci viene fornito dalla vicenda del C.S. Mott Children’s Hospital – Stati Uniti.

In questo ospedale pediatrico del Michigan, è in uso una terapia veramente speciale, avente a che fare con la popolarissima applicazione dei Pokemon. Pokémon GO viene difatti utilizzato come terapia in un ospedale pediatrico! Bambini con una vasta gamma di condizioni mediche differenti (malati di cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc ..) hanno l’opportunità di usufruire di Pokémon GO, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti! L’utilizzo della stessa, sebbene in condizioni alquanto singolari, è volto a migliorare le condizioni dei bambini: grazie a Pokémon GO possono muoversi dal proprio letto e socializzare più facilmente! Il movimento, dice un membro del personale, aiuta i bambini dal punto di vista fisico, non lasciando atrofizzare gli arti, mentre il socializzare con gli altri li fa sentire meno soli.

 

Un potenziale inespresso

Arrivati a questo punto, si potrebbe pensare che basti utilizzare la tecnologia in modo appropriato per veder migliorare le condizioni di vita di una persona. La realtà però, è più complicata e suggerisce altre considerazioni. Tra la disponibilità di questo potenziale e il suo effettivo dispiegamento nella vita delle persone, possono frapporsi degli ostacoli che rischiano di farlo rimanere inespresso. Oltre che a impedimenti di carattere oggettivo, legati al contesto in cui si vive, si aggiungono anche motivazioni di altro genere. Nel libro “DigitAbili” di Luca Spaziani (2016) vengono riportati una serie di fattori che possono impedire o limitare il supporto offerto dalle tecnologie alle persone. Ne riporto alcune:

  • Ignoranza: non si adotta un ausilio o non ci si avvale di un servizio per il semplice motivo che non lo si conosce;
  • Formazione insufficiente: non basta dotarsi di un ausilio perché offra un supporto, ma è necessario saperlo utilizzare per sfruttarne al massimo le potenzialità.
  • Inadeguatezza all’ambiente: affinché un ausilio informatico non resti una “cattedrale nel deserto”, è necessario che anche l’ambiente nel quale viene utilizzato sia sufficientemente tecnologico.
  • Scarsa attenzione nei confronti delle tecnologie: se la responsabilità di conoscere le tecnologie e i loro benefici è prerogativa di pochi, è innegabile che una maggior conoscenza da parte della società in genere, consentirebbe di sfruttarne maggiormente i benefici. Proprio in quanto strumento e non fine, la tecnologia è in grado di aiutare la persona, non di modificarne il contesto di riferimento. Le nuove tecnologie come si sa comportano scelte coraggiose, offrendo tante sfide e occasioni nuove, ma non per questo bisogna averne paura.  Bisogna solo avere buon senso nell’usarle.

La depressione nel ciclo vitale femminile

La depressione è una malattia che colpisce prevalentemente il genere femminile e la realtà clinica della depressione nelle donne è profondamente più ampia e complessa rispetto al termine generico di depressione.

Francesca Turra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il disturbo depressivo maggiore colpisce il sesso femminile in misura doppia rispetto a quello maschile (41,9% contro il 29,3%). La prevalenza nel lifetime per il disturbo depressivo maggiore è del 10,2% nelle donne contro il 5,2% degli uomini; per la distimia del 5,4% contro il 2,6% e ancora più marcata risulta la preponderanza femminile per la depressione atipica e per i disturbi depressivi stagionali (Kessler, McGonagle, Swartz et al., 1993; World Health Organization Kobe Center, 2005; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

Sono diverse le ipotesi fatte per spiegare la maggior prevalenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini; attualmente la più accreditata dalla letteratura internazionale è l’ipotesi biopsicosociale. Sono chiamati in causa:

  • Fattori neuroendocrini: differenze nella struttura cerebrale e nell’impatto sul cervello dei diversi ormoni sessuali;
  • Fattori psicosociali: differenze nelle strategie di coping, nella vulnerabilità personale, nella frequenza di esposizione e nella qualità degli eventi stressanti. In particolare:
    • Eventi di separazione o di perdita traumatica, abusi e violenze;
    • Fattori legati alla storia dello sviluppo: relazioni di attaccamento nell’infanzia e in età prepuberale;
    • Storia famigliare di disturbi psichiatrici;
    • Tratti temperamentali;
    • Variazioni ormonali in determinate fasi del life span.

Tutti questi aspetti, interagendo tra loro in maniera e con intensità diversa, possono rendere ragione delle differenze nella prevalenza della depressione nelle donne rispetto alla depressione nel sesso maschile (Marcus, Young, Kerber, et al., 2005). Oltre che nella prevalenza secondo alcuni studi si riscontrano diversità di genere anche nella sintomatologia: le donne sembrano presentare con maggior prevalenza statistica il quadro della depressione atipica. Le comorbidià psichiatriche maggiori per le donne risultano i disturbi d’ansia, i disturbi somatoformi e la bulimia, mentre nell’uomo si riscontra un’associazione maggiore con il disturbo ossessivo compulsivo, abuso di alcol e di sostanze. Anche la risposta al trattamento sembra essere diversa nella donna rispetto all’uomo e all’interno del sesso femminile nelle varie fasi del ciclo riproduttivo (Khan, Broadhead, Schwartz, Koltz, Brown, 2005).

 

La depressione nelle donne caratteristiche e fasi di vulnerabilita specifica - TAB

Differenze di genere nella depressione

 

Il ciclo riproduttivo fa da sfondo a tutti i fattori di rischio di depressione nelle donne e in particolare in alcune fasi di vulnerabilità specifica: adolescenza, gravidanza, post partum e perimenopausa.

Quadri clinici diversi sono associati a specifici momenti del ciclo riproduttivo femminile: la sindrome premestruale e il disturbo disforico premestruale coincidono con la fase luteale del ciclo mestruale; la depressione in gravidanza nel periodo del pre-parto, la maternity blues entro le due settimane dal parto; la depressione post-partum entro le quattro settimane (fino a 12 mesi); la psicosi post-partum nel primo mese; la depressione perimenopausale dai 5 ai 7 anni prima della menopausa.

 

La depressione nelle donne durante l’adolescenza

Nell’adolescenza la depressione, in generale, subisce un incremento di prevalenza, dall’1% all’8%, con una prevalenza lifetime compresa tra il 15% e il 20%, paragonabile a quella dell’età adulta. In particolar modo tale prevalenza è a carico del sesso femminile, sia come numero di episodi, che come durata e gravità degli stessi. Inoltre, l’esordio in età adolescenziale rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di episodi depressivi successivi, in età adulta, e dunque per una cronicizzazione della depressione (McCauley, Myers, Mitchell et al., 1993; Kovacs, 1997; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

In letteratura sono state fatte varie ipotesi per spiegare la maggior prevalenza di depressione nelle donne in questa fase di vita. Ha suscitato molto interesse, e sembra avere anche un numero più consistente di dati empirici a supporto, l’associazione tra il “timing” dello sviluppo puberale relativamente ai coetanei e la depressione, in particolare per quanto riguarda la predittività di cronicità (Conley & Rudolph, 2009).

La transizione puberale porta con sé tutta una serie di processi di cambiamento fisico e psichico, e molto spesso tali modifiche possono avere un carattere “violento”, in quanto spesso il mutamento fisico e biologico non è sincronizzato rispetto al livello di sviluppo psichico e sociale raggiunto. Inoltre, i bruschi cambiamenti nel corpo possono portare con sé conseguenze negative sull’immagine corporea e sulle relazioni sociali (senso di appartenenza al gruppo, rifiuto del cambiamento, inizio della sessualità). Inoltre ancora, la pubertà induce variazioni ormonali che di per se stesse possono incrementare il rischio di depressione; essendo tali variazioni differenti nei due sessi, evidentemente anche le conseguenze che portano con sé sui diversi piani sono differenti, rendendo ragione, in parte, delle differenze di prevalenza di depressione nell’età adolescenziale.

Gli adolescenti che raggiungono la pubertà precocemente potrebbero essere meno preparati e potrebbero accusare con disagio le differenze rispetto al gruppo dei coetanei in un momento in cui l’appartenenza e l’omologazione al gruppo rappresentano fattori di stabilità e identità forti. Analoghe difficoltà possono presentarsi per gli adolescenti che sviluppano cronologicamente più tardi rispetto al gruppo. Il timing appare, dai dati più recenti, fortemente correlato alla depressione, in particolare nelle ragazze; tuttavia, i dati della letteratura non sono omogenei. Secondo la maggior parte degli studi uno sviluppo troppo precoce o troppo tardivo si correla con elevati tassi di sintomi depressivi o di depressione franca nelle ragazze, al contrario nei ragazzi questo si riscontrerebbe più frequentemente in caso di sviluppo ritardato. Altri autori, anche se in minoranza, riscontrano un andamento simile tra maschi e femmine, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo precoce (Ge, Conger, Elder, 2001; Weichold, Silbereisen, Schmitt-Rodermund, 2003).

 

Sindrome premestruale e disturbo disforico premestruale

La sindrome premestruale è una fase del ciclo mestruale che le donne tra i 25 e i 40 anni sperimentano con intensità diversa nei 6-7 giorni precedenti alle mestruazioni e coinvolge aspetti somatici, emotivi, relazionali e sociali. La Sindrome Pre Mestruale (SPM), si manifesta con una serie di sintomi di carattere somatico e affettivo-comportamentale. Tra i sintomi somatici si possono riscontrare: tensione mammaria e addominale, ritenzione idrica, modificazione dell’appetito, cefalea e, con minor frequenza, eruzioni cutanee acneiformi, nausea e vomito. Le manifestazioni affettive e comportamentali più frequenti sono: depressione, facilità al pianto, ansia, irritabilità.
Nel corso della fase premestruale, la donna può esperire una serie di disagi che, a seconda delle caratteristiche e della gravità, si definiscono: SPM di grado lieve, di grado moderato, grave fino ad arrivare al Disturbo Disforico premestruale (DDPM). Circa il 75% delle donne presenta sintomi premestruali minori o isolati; dal 20 al 50% manifesta una SPM, dal 5 al 15% una SPM grave, il 3-5% un DDPM.

Il Disturbo Disforico Premestruale (DDPM), inserito nel DSM 5 (Diagnostic and Statistica Manual of Mental Disorder; American Psychiatric Association) nella categoria di disturbi depressivi, prevede che nella maggior parte dei cicli mestruali almeno 5 sintomi devono essere presenti nella settimana precedente le mestruazioni, iniziare a migliorare entro pochi giorni dall’insorgenza e ridursi al minimo o scomparire nella settimana successiva. I sintomi sono  i seguenti:

  • Marcata labilità affettiva (sbalzi d’umore, sentirsi improvvisamente tristi o tendenti al pianto, aumentata sensibilità al rifiuto);
  • Marcata irritabilità o rabbia oppure aumento dei conflitti interpersonali;
  • Umore marcatamente depresso, sentimenti di disperazione o pensieri autocritici;
  • Ansia marcata, tensione e/o sentirsi con i nervi a fior di pelle;
  • Diminuito interesse nelle attività abituali;
  • Difficoltà soggettiva di concentrazione;
  • Letargia, facile faticabilità o marcata mancanza di energia;
  • Marcata modificazione dell’appetito;
  • Ipersonnia o insonnia;
  • Senso di sopraffazione o di essere fuori controllo;
  • Sintomi fisici come indolenzimento o tensione al seno, dolore articolare o muscolare, sensazione di gonfiore o aumento di peso.

I sintomi risultano gravi al punto da interferire in modo rilevante con l’adattamento lavorativo, sociale o interpersonale. Il DDPM tende a cronicizzare e permanere fino alla menopausa.

Vi sono donne che nella loro storia hanno sofferto di disturbi d’ansia o di depressione che presentano un peggioramento dei sintomi psichici in fase premestruale o hanno esordito la patologia psichiatrica in questa fase del ciclo. I sintomi della SPM o del DDPM possono aumentare con l’età e dopo aver avuto un figlio, in caso di assunzione o sospensione di un contraccettivo orale o in seguito a chirurgia pelvica.

 

Depressione nelle donne e gravidanza

La gravidanza è sempre stata vista come un fase sacra nella vita di una donna, un periodo di felicità e attesa del nuovo nascituro in un clima di serenità e benessere. Ciononostante esistono forti evidenze cliniche ed empiriche che dimostrano che la gravidanza può non essere un periodo così idilliaco. Si stima infatti che il rischio di depressione nelle donne in gravidanza oscilli tra il 10 e il 15%, valori vicino a quelli della depressione post-partum. Un recente studio condotto in quattro città italiane (Bari, Ascoli Piceno, Udine, Verona) ha documentato su un campione di circa 1700 donne al secondo trimestre di gravidanza la presenza di un disturbo depressivo più o meno grave in 20 donne su 100 (Balestrieri et al., 2012).

Sono stati individuati una serie di importanti fattori di rischio che possono scatenare o far precipitare uno stato depressivo in gravidanza; tra questi particolarmente frequenti sono: un precedente stato di ansia, condizioni di vita stressanti, precedenti episodi di depressione, la mancanza di supporto sociale, violenze domestiche, una gravidanza indesiderata. I sintomi che sono più spesso riferiti in casi di depressione nelle donne gravide sono rappresentati da tristezza, stanchezza fisica, facile tendenza al pianto, preoccupazioni eccessive, senso di inadeguatezza, pensieri negativi sulla capacità di portare avanti la gravidanza e sul futuro ruolo di mamma, disturbi del sonno. Nei casi più gravi possono essere presenti idee autoadesive associate e deliri di colpa o di rovina riguardanti i propri familiari.

La sintomatologia depressiva può risultare in questa fase del ciclo vitale della donna di difficile diagnosi perché insonnia, apatia, anergia, inappetenza e mancanza di concentrazione sono sintomi molto comuni in gravidanza. Un mancato riconoscimento e conseguente trattamento della depressione nelle donne in gravidanza aumenta il rischio di depressione nel post-partum, a cui sono associati numerosi esiti negativi per la salute del nascituro, come una inadeguata crescita fetale e uno scarso sviluppo cognitivo e comportamentale del bambino durante l’infanzia e l’adolescenza.

 

La depressione nel Post Partum

Nei giorni immediatamente successivi al parto è considerato fisiologico un periodo caratterizzato da calo dell’umore e instabilità emotiva (la cosiddetta baby blues o maternity blues): si stima che una percentuale collocabile tra il 30% e l’85% delle donne (O’Hara et al., 1990; Gonidakis et al., 2007) sperimenta e manifesta sintomi associabili a una leggera depressione post partum, ma caratterizzati da transitorietà (presentano una durata variabile da poche ore ad alcuni giorni) e che non necessariamente si trasformano in un vero e proprio disturbo. La notevole diffusione del baby blues suggerisce un adattamento psicofisico fisiologico agli importanti cambiamenti che intervengono nella vita di una donna quando diventa madre; per il suo carattere transitorio e la scarsa entità della sintomatologia non richiede generalmente trattamenti specifici e non implica conseguenze a lungo termine. La vera e propria depressione post-partum sembra invece colpire circa il 10-15% (Centers for Disease Control and Prevention, 2008) delle donne. Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder; American Psychiatric Association) considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale specificata come “depressione postpartum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto. I criteri del DSM 5 per questo disturbo richiedono che sia presente, quasi ogni giorno per un periodo di almeno due settimane:

  • Umore depresso, per la maggior parte del tempo, quasi tutti i giorni, come riportato dall’individuo (per esempio si sente triste, vuoto, disperato) o come osservato da altri (per esempio appare lamentoso);
  • Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte della giornata, quasi ogni giorno;

Devono inoltre essere presenti almeno 5 o più dei seguenti sintomi, perduranti per un periodo di almeno due settimane: significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o ipersonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; faticabilità o mancanza di energia; sentimenti di autovalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati; ridotta capacità di pensare o di concentrarsi o indecisione; pensieri ricorrenti di morte, ricorrente idea suicidaria senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti. Si presentano in modo conclamato tra le otto e le dodici settimane dopo il parto, periodo che è stato individuato come picco di insorgenza più frequente (Guedeney & Jeammet, 2001).

I sintomi della depressione post partum non sono transitori e possono persistere, variando d’intensità, anche per molti anni, e quindi avere conseguenze più o meno significative non solo sulla salute mentale della donna, ma anche sulla relazione madre-bambino, sullo sviluppo del bambino e sull’intero nucleo familiare.

 

La depressione nelle donne in menopausa

La menopausa è la fase del ciclo biologico femminile che corrisponde alla definitiva cessazione dei cicli mestruali conseguente alla perdita della funzione follicolare ovarica. Costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Secondo lo stereotipo classico la maternità e la crisi adolescenziale hanno un significato evolutivo e creativo mentre la menopausa è più un’esperienza di lutto dovuto alla perdita della fertilità.

Nonostante questo dati empirici hanno mostrato che invece spesso le donne mostrano un’attitudine positiva verso la menopausa, ritenendola non solo una transizione fisiologica ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi. Studi epidemiologici hanno mostrato che i fattori di stress psicosociale sono associati ad un aumentato rischio per sviluppo di sintomi depressivi subclinici ed un esordio depressivo maggiore durante la transizione menopausale e il loro impatto è maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé (Lanza di Scalea, Niolu, Siracusano, 2010).

L’effetto placebo per risanare un cuore spezzato

Sentite il cuore infranto a causa di una recente rottura? Il solo credere di star agendo per aiutare se stessi a superare l’evento,  può influenzare regioni del cervello associate alla regolazione emotiva e diminuire la percezione del dolore.

 

Questa è la scoperta di un recente studio della University of Colorado Boulder che ha misurato l’impatto di ordine neurologico e comportamentale che l’effetto placebo ha avuto su un gruppo di partecipanti volontari che avevano vissuto recentemente la rottura di una storia d’amore.

La rottura con un partner è una delle esperienze emotivamente più negative che una persona possa vivere e può essere un trigger importante per sviluppare problemi psicologici.

Queste sono le parole riportate dal primo autore dell’articolo Leonie Koban, divenuto ricercatore associato a seguito di un periodo di dottorato.

Egli ha notato che un tale dolore sociale è associato ad un rischio 20 volte maggiore di sviluppare un vissuto depressivo nell’ anno successivo all’accaduto.

Nel nostro studio, abbiamo trovato che un placebo può avere effetti abbastanza forti sulla riduzione dell’intensità del dolore sociale.

Da decenni, la ricerca ha dimostrato che i trattamenti con placebo, quindi senza alcun principio attivo, possano ridurre in misura significativa il dolore, la malattia di Parkinson e altri disturbi fisici.

Il nuovo studio, pubblicato a marzo nel Journal of Neuroscience, è il primo a misurare l’impatto del placebo sul dolore emotivo derivante da un rifiuto nell’ambito di una relazione  di coppia.

I ricercatori hanno reclutato 40 volontari che avevano esperito, indesideratamente, la fine di una relazione d’amore negli ultimi sei mesi.

Si è chiesto di portare all’interno di un setting laboratoriale per imaging cerebrale una foto degli ex e una foto di un buon amico dello stesso genere.

I partecipanti venivano posti all’interno di una macchina per la risonanza magnetica funzionale (fMRI),venivano loro mostrate le immagini dei loro ex partner e si chiedeva di ricordare il momento della rottura. Poi sono state mostrate le immagini riferite agli amici.

Sono stati anche sottoposti ad uno stimolo che induceva dolore fisico (uno stimolo caldo sull’avambraccio sinistro).

Poiché questi stimoli sono stati ripetuti alternativamente, ai soggetti veniva chiesta una valutazione circa le loro sensazioni su una scala da 1 (molto male) a 5 (molto buono). Nel frattempo, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI) si registrava l’attività cerebrale.

Sebbene non identiche, le regioni che si attivano durante il dolore fisico erano simili a quelle attivate per il dolore emotivo.

Questa scoperta ci suggerisce un messaggio importante da recapitare ai cuori spezzati, come detto  dall’autore principale Tor Wager, professore di psicologia e neuroscienze alla CU Boulder:

Sappiate che il vostro dolore è reale, neuro-chimicamente reale.

Conclusa la fase di registrazione dell’attività cerebrale, ai soggetti è stato somministrato uno spray nasale. Alla metà dei soggetti è stato riferito che si trattava di un “potente analgesico efficace nel ridurre il dolore emotivo”. All’altra metà si diceva che fosse una semplice soluzione salina.

L’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale – un’area coinvolta nella modulazione delle emozioni – si è dimostrato essere aumentata notevolmente. Al contrario , le aree cerebrali associate al tema del rifiuto presentavano una diminuita attivazione.

In particolare, a seguito del placebo, nel momento in cui i partecipanti dicevano di sentirsi meglio, effettivamente si registrava un’aumentata attività in una zona del “midbrain” chiamata sostanza grigia periacquedottale (PAG). La PAG svolge un ruolo fondamentale nel modulare i livelli di sostanze chimiche cerebrali, come gli oppiacei, e neurotrasmettitori del buon umore, come la dopamina.

Anche se lo studio non ha esaminato specificamente se il placebo abbia indotto il rilascio di tali sostanze chimiche, gli autori sospettano sia proprio questo processo ad essere attivato.

La prospettiva attuale dimostra che avere aspettative positive influenza l’attività nella corteccia prefrontale, che a sua volta influenza i sistemi del midbrain  generando risposte neurochimiche con il rilascio di oppiacei o dopamina – ha dichiarato Wager.

Precedenti studi hanno dimostrato che l’effetto placebo da solo non solo allevia la depressione, ma può effettivamente far funzionare meglio gli antidepressivi.

Fare qualcosa per se stessi ed  impegnarsi in qualcosa che dona speranza può avere un impatto effettivo nella vita di un soggetto – ha dichiarato Wager. – In alcuni casi, il principio attivo del farmaco può essere meno importante di quanto noi abbiamo pensato.

Gli autori hanno affermato che questo recente studio non solo aiuta a capire meglio come il dolore emotivo venga elaborato a livello cerebrale, ma può anche suggerire modalità con cui le persone possano utilizzare il potere e la forza delle aspettative a proprio vantaggio.

Dice Koban:

Ciò che sta diventando sempre più chiaro è che le aspettative e le previsioni hanno una forte influenza sulle esperienze di base, su come ci sentiamo e su  ciò che percepiamo.

Per concludere, se sei stato lasciato di recente:

Fare qualcosa che tu credi possa aiutarti a sentirti meglio, probabilmente ti farà sentire meglio.

Anche il nostro cervello ha la sua canzone preferita

Una recente ricerca ha scoperto come la musica preferita, di qualunque genere essa sia, sia in grado di attivare una specifica attività cerebrale.

 

Per studiare come le preferenze musicali possano influenzare la connettività funzionale del cervello, più specificatamente le interazioni tra le distinte aree cerebrali, Burdette e colleghi hanno utilizzato la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), la quale consente di misurare l’attività cerebrale rilevando i cambiamenti nel flusso sanguigno.

Lo studio è stato effettuato su 21 soggetti: mentre i soggetti ascoltavano la musica, dovevano esprimere il grado di piacimento della stessa da “apprezzamento” a “disgusto” valutando cinque generi musicali (classico, country, rap, rock e opera cinese). Inoltre gli ascoltatori dovevano indicare quale fosse la loro canzone preferita, a prescindere dal genere musicale.

I risultati hanno mostrato un modello coerente con quanto supposto inizialmente: le preferenze degli ascoltatori, a prescindere dal tipo di musica che stessero ascoltando, hanno avuto il maggior impatto sulla connettività cerebrale: specialmente si è attivato in misura più marcata il circuito del cervello definitio “Default Mode Network”.

Il Default Mode Network era scarsamente attivato quando i partecipanti ascoltavano la musica che non amavano, mentre era significativamente più attivato quando i soggetti ascoltavano la musica di loro gradimento. Lo stesso circuito ha rivelato ancora più alti livelli di connettività quando i soggetti ascoltavano la loro canzone preferita.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che l’ascolto della canzone preferita altera la connettività tra aree cerebrali uditive e l’attivazione di una regione responsabile della memoria e del consolidamento delle emozioni sociali.

In altri progetti di ricerca, il team coordinato dal Dr. Burdette, ha evidenziato una serie di risultati interessanti nell’ambito della neuropsicologia della musica. Ad esempio, i loro studi hanno dimostrato come diversi livelli di complessità nella musica possono avere effetti differenti sulla connettività funzionale del cervello.

Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2017 di Riccione

Si è svolto, presso il palazzo del Turismo a Riccione dal 5 al 6 maggio 2017, il Forum sulla Ricerca in Psicoterapia, manifestazione organizzata dalle tre scuole di specialità post-laurea in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi” di Milano, Modena e San Benedetto del Tronto, “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Milano, Bolzano e Mestre e “Scuola Cognitiva Firenze” di Firenze.

Il Forum era riservato agli allievi delle tre scuole, che hanno avuto la possibilità di mettersi alla prova in presentazioni orali o poster di ricerche scientifiche effettuate da loro stessi, con l’aiuto dei tutor delle scuole. Il formato delle presentazioni dava largo spazio alla discussione, evitando la catena di montaggio della trafila di decine di presentazioni troppo brevi, non più di quindici o venti minuti ognuna, disgrazia che affligge molti congressi di psicologia, psichiatria e psicoterapia, trasformandoli in una affollata processione di lavori in cui la discussione si riduce a pochissimi minuti. Si è deciso invece che ogni presentazione avesse un’ora di tempo, di cui almeno la metà dedicata alla discussione. Il timore che le discussioni non nascessero e che ci fossero poche domande è svanito ben presto. Al contrario, l’impressione è che ci si potesse concedere spazi di confronto ancora maggiore.

Anche i poster avevano lo stesso formato: ogni poster aveva un discussant che esortava gli autori a descrivere i propri poster e stimolava il dibattito in orari precisi, in modo da evitare un’altra piaga dei congressi: il vagare insieme annoiato e affaccendato intorno ai poster e le domande casuali e occasionali ai poveri autori dei poster, spesso lasciati soli accanto alla propria opera.

Il primo giorno l’interesse è stato catturato dal lavoro sui correlati neurali delle capacità decisionali, davvero istruttivo sui nuovi orizzonti che lo studio del cervello può suggerire alla psicoterapia, e l’analisi delle interazioni tra processi cognitivi e metacognitivi e stati dissociativi. La dialettica tra dissociazione e metacognizione potrebbe essere la principale polarità dei futuri sviluppi della psicoterapia, in concomitanza con la tendenza delle nuove terapie di tipo processuale a classificare gli interventi in top-down, che privilegiano il controllo e la consapevolezza metacognitiva della propria funzionalità, e bottom-up, tese a una lenta rieducazione su base corporea ed esperienziale di stati dissociativi incontrollabili.

Il secondo giorno è stato dedicato ai disturbi alimentari, anche qui con una buona messe di lavori dedicati ai processi metacognitivi e al ruolo del pensiero ripetitivo negativo nella psicopatologia dell’anoressia e della bulimia. Nell’ultima presentazione si è tornati agli studi neurologici con una presentazione dedicata alla tecnica della tDCS (Transcranial Direct Current Stimulation) un metodo innovativo, non invasivo e poco ingombrante per esplorare gli stati neurologici e al tempo stesso per effettuare un’azione terapeutica attraverso la stimolazione transcraniale.

Anche tra i poster c’è stata una prevalenza dei lavori di tipo processuale, come è giusto dato che ormai è questa la principale corrente di sviluppo della terapia cognitiva, che si avvia a diventare terapia metacognitiva/esperienziale, almeno per ora. Meglio però non abbandonarsi a previsioni.

Riccione ci ha riservato la sua primaverile atmosfera quasi felliniana e molto vitellona e le sue onnipresenti e gustose piadine. Le cena sociale al ristorante si è spontaneamente trasformata in una festa danzante, risparmiandoci una faticosa migrazione in una assordante discoteca, con la gratitudine dei partecipanti meno giovani.

Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

 

Cefalee in età pediatrica: l’impiego del biofeedback

Nonostante i farmaci abbiano dimostrato un’efficacia terapeutica mediante la riduzione del dolore, della frequenza e della durata dei sintomi, comportano una serie di effetti collaterali, che per i bambini possono rivelarsi importanti, considerata la giovane età. L’utilizzo, quindi, di una terapia farmacologica in età pediatrica sembra essere fortemente sconsigliata. Per questo, negli ultimi anni, si sono incrementati gli studi riguardanti le terapie non farmacologiche nelle cefalee infantili. Tali studi hanno evidenziato la probabilità che la procedura del biofeedback possa essere una valida modalità di gestione del dolore.

Benedetta Frascaroli, Maddalena De Matteis, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Le cefalee nei bambini

Parlare di cefalea in ambito pediatrico non è semplice, l’argomento è stato più volte ripreso e discusso, ma ancora oggi si fatica a riconoscerne i sintomi, effettuare una diagnosi precoce e trovare la cura efficace. Molti bambini manifestano dolori in varie parti del corpo per innumerevoli motivi: quando dicono di avere mal di testa a volte si tende a sottovalutarlo o collegare il sintomo ad una banale stanchezza.

Accade sempre più frequentemente, tuttavia, che si presentino forme di cefalea primaria nei bambini anche sotto i 6 anni di età. Questo richiede un aiuto specialistico quando il sintomo diventa quasi quotidiano ed impedisce al bambino gran parte delle attività svolte in precedenza.

Le cefalee primarie, che si distinguono da quelle secondarie per l’assenza di una causa organica primaria da cui derivi il disturbo (come traumi, tumori,…), si suddividono principalmente in due categorie: Emicrania e Cefalea di tipo tensivo, seguite da una minor prevalenza di Cefalea a grappolo (e altre cefalee autonome) e Trigeminali.

Per emicrania si intende una cefalea idiopatica ricorrente, che si manifesta con attacchi della durata da 4 a 72 ore. Le caratteristiche tipiche del disturbo sono: localizzazione unilaterale, dolore pulsante, intensità media o forte, aggravamento con le attività fisiche di routine, associazione con nausea, fotofobia e fonofobia.

La cefalea tensiva, invece, è una cefalea idiopatica ricorrente che si manifesta con attacchi della durata media di 30 minuti con frequenza quotidiana, 7 giorni su 7. Caratteristiche tipiche della cefalea sono: sede bilaterale, qualità compressiva-costrittiva (non pulsante), intensità lieve o media, dolore non aggravato da attività fisiche di routine.

Dal punto di vista fisiopatologico, l’emicrania è un disordine neurologico complesso delle funzioni superiori e dei meccanismi di controllo del dolore senza alcuna anormalità strutturale rilevabile. Mentre precedenti definizioni, suggerivano l’intervento causale diretto della contrazione muscolare e/o di particolari stati psicologici, attualmente si ipotizza una genesi multifattoriale della cefalea tensiva, basata sia su meccanismi periferici che centrali.

Le cefalee primarie rappresentano un disturbo molto frequente in ambito pediatrico.

Negli ultimi anni, l’interesse crescente è derivato non solo dalla constatazione che questa affezione colpisce dall’8 al 60% dei bambini in età scolare, ma anche dall’osservazione che l’80% degli adulti affetti da emicrania ha cominciato a soffrire di mal di testa nell’infanzia.

Solitamente questi pazienti assumono molteplici terapie farmacologiche per periodi che possono variare da qualche mese a numerosi anni. Questo aspetto pone problematiche rilevanti considerando la giovane età dei pazienti e gli effetti collaterali associati alla terapia. L’utilizzo di trattamenti non farmacologici in età pediatrica, potrebbe nascere dall’esigenza di avere una terapia scevra da effetti collaterali; questi, tuttavia, non possono essere visti solo come un’alternativa ad un intervento di tipo farmacologico, in quanto l’utilizzo di farmaci non preclude la possibilità di far ricorso a tali interventi. La facilità dei giovani pazienti cefalgici di apprendere tecniche di rilassamento e la mancanza di effetti collaterali, fa sì che queste possano essere considerate una terapia di prima scelta (Linee guida per la diagnosi e la terapia della cefalea giovanile; SISC, 2003).

Il trattamento delle cefalee: il biofeedback

Tra le tecniche utilizzate nel trattamento non farmacologico delle cefalee va sicuramente annoverato il Biofeedback.

In letteratura già diversi studi hanno valutato l’efficacia del Biofeedback:
1) 1970: Budzynski: prima dimostrazione di efficacia del Biofeedback elettromiografico (EMG Biofeedback).
2) 1978: l’American Headache Society (AHS) riconosce il Biofeedback come una valida terapia per la cefalea.
3) 1980: Blanchard & Andrasik: Migraine and Tension Type Headache: a meta-analytic review
4) 1999: Goslin et al.: Behavioral and physical treatments for migraine headache. Technical review 2.2 (AHRQ)
5) US Headache Consortium (Campbell et al., 2000) ha assegnato il grado più elevato di evidenza (“A”) al biofeedback termico ed elettromiografico per il trattamento e la prevenzione dell’emicrania,  combinato con tecniche di Rilassamento e training di tipo Cognitivo Comportamentale nella gestione dello stress.
6) 2001: McCrory: Behavioral and Physical treatment for Tension-Type and Cervicogenic Headache
7) Anche i bambini e gli adolescenti sono ottimi candidati per questo approccio terapeutico (Hermann & Blanchard, 2002); il biofeedback elettromiografico e termocutaneo ha dato prova di efficacia nei bambini e adolescenti in numerosi studi scientifici e metanalisi (Andrasik et al., 2002).
8) Secondo le più recenti rassegne e metanalisi di studi scientifici (Nestoriuc et al., 2007), il biofeedback è un trattamento efficace e specifico per la cefalea tensiva (livello “5”, il più elevato), ed è una opzione efficace di trattamento per l’emicrania (livello “4”).

Per quanto riguarda l’ambito pediatrico, già dagli anni ’80 si riscontrano alcune evidenze scientifiche riguardo l’efficacia del trattamento di Biofeedback nelle cefalee infantili, tuttavia gli studi sono ancora estremamente esigui ed il contributo clinico in Italia scarseggia allo stesso modo.

Ma capiamo meglio di cosa si tratta, cos’è il Biofeedback?

Il termine Biofeedback deriva dall’unione di due parole :“Biological feedback”, che possiamo tradurre letteralmente come “retroazione biologica”.
Il Biofeedback è, infatti, un’apparecchiatura elettronica composta da una centralina a cui si collegano un numero di elettrodi sufficienti per rilevare le variabili fisiologiche di cui il clinico necessita. Le variabili, in ambito psicologico, che si possono misurare tramite questo strumento sono: tensione muscolare, conduttanza cutanea, temperatura corporea, frequenza cardiaca e frequenza respiratoria. Il Biofeedback risulta estremamente efficace nel controllare il dolore e ridurre il livello di stress ed ansia che ogni persona può presentare in differenti momenti della vita, aiutando ad apprendere nuove modalità di risposta alle situazioni stressanti.

Tramite questa tecnica le modificazioni fisiologiche vengono registrate e tradotte in un segnale acustico o visivo, il quale offre al soggetto il feedback dell’attività di una propria funzione biologica. L’idea di base nell’addestramento in biofeedback è quella di usare dei rilevatori elettronici al fine di far vedere che cosa stia succedendo all’interno del proprio corpo, istante per istante, fornendo un aiuto tangibile (feedback) nel comprendere se si stia apprendendo, nel modo corretto, il rilassamento come nuova risposta anti-stress. È quindi una forma di apprendimento che si ottiene premiando la persona ogni volta che riesce ad abbassare le attivazioni disfunzionali del proprio corpo.

Con un opportuno training la persona diventa capace di autoregolare le proprie risposte fisiologiche ed emozionali alle situazioni stressanti.

Cosa accade nella pratica quando si usa il biofeedback?

Durante una seduta di Biofeedback, gli elettrodi vengono posizionati in alcune parti del corpo del paziente, come le dita delle mani, la fronte, il collo o altre zone del corpo, in maniera non invasiva, in base alle necessità individuali. Il paziente, quindi, in un tempo che varia da 30 a 60 minuti, vedrà su uno schermo collegato all’apparecchiatura centrale, delle immagini animate o ascolterà un suono, che rappresentano alcuni dei feedback a disposizione, al fine di prendere consapevolezza ed imparare a distinguere e riconoscere la presenza di uno stato di tensione da uno di rilassamento, per poi apprendere a modificarli volontariamente.

L’impostazione del training segue quattro momenti fondamentali, di durata flessibile: valutazione diagnostica, acquisizione, stabilizzazione e generalizzazione.

Le tipologie di Biofeedback maggiormente utilizzate nelle cefalee sono:
TH-BFB: Thermal Biofeedback: Consente un aumento della vasodilatazione periferica (Sargent, 1973; Blanchard et al., 1982; Balnchard e Kim, 2005). Secondo numerose evidenze scientifiche, infatti, la presenza di cefalea, in particolare di tipo emicranico, può essere causata da una difficoltà della temperatura corporea, caratterizzata da una differenza termica superiore a 1 grado centigrado tra la parte centrale e quella periferica del corpo (per esempio fronte e mani) che risulta essere sempre inferiore e quindi caratterizzata da una vasocostrizione.
EMG-BFB: Elettromiografic Biofeedback: Consente una riduzione della tensione muscolare a livello frontale (Budzynski,1973; Grassi and Bussone,1993; Rokicki, 2003).

L’utilizzo del Biofeedback con i bambini

Erroneamente, si tende a considerare il bambino come un piccolo adulto. Questo porta, molto spesso, a fare delle valutazioni non adeguate sui piccoli soggetti, sebbene le linee guida delle varie società scientifiche internazionali, che fanno riferimento agli studi di meta analisi, siano piuttosto rigide al riguardo. Infatti, il sistema maturativo cerebrale e neurobiologico nel bambino non si è ancora completato, e questo comporta un intervento specifico e mirato per ogni piccolo paziente, strettamente correlato con l’età di esordio della cefalea.

Trattandosi di bambini, l’uso dei farmaci è sconsigliato, se non in casi in cui il dolore diventa invalidante. In tali circostanze, più comunemente, si ricorre all’utilizzo degli analgesici (più comunemente all’ibuprofene), che consentono di alleviare il dolore e permettono al bambino di ritornare alle sue attività. Se l’ibuprofene risulta essere alquanto efficace nelle fasi acute delle cefalee muscolo-tensive, il paracetamolo, viene prevalentemente impiegato nei casi di emicrania. Laddove il caso lo richieda, si procede con una terapia di profilassi, volta a stabilizzare la situazione di dolore e invalidazione in cui si trova il piccolo paziente.

Nonostante i farmaci abbiano dimostrato un’efficacia terapeutica mediate la riduzione del dolore, delle frequenza e della durata dei sintomi, comportano una serie di effetti collaterali, che per un bambino possono rivelarsi importanti, considerata la giovane età. L’utilizzo, quindi, di una terapia farmacologica in età pediatrica sembra essere fortemente sconsigliata.

Per i motivi sopra elencati, negli ultimi anni, si sono incrementati gli studi riguardanti le terapie non farmacologiche nelle cefalee infantili. Tali studi hanno evidenziato la probabilità che la procedura del biofeedback possa essere una valida modalità di gestione del dolore.

I primi studi sull’efficacia del biofeedback nel trattamento della cefalea risalgono agli anni ’70 (Budzynski et al., 1970; Sargent et al., 1972) e si focalizzano sulla tecnica elettromiografica o di controllo della temperatura distale. Attualmente gli approcci a disposizione sono numerosi e differenti.

Negli ultimi 30 anni, infatti, la ricerca ha fornito consistenti ed indiscutibili prove di efficacia relativamente all’impiego del Biofeedback nelle cefalee.
A tale proposito, il prestigioso US Headache Consortium (Campbell et al., 2000), in virtù della sua efficacia, ha assegnato il grado più elevato di evidenza (“A”) al Biofeedback termico ed elettromiografico per il trattamento dell’emicrania. Questa procedura risulta essere ancora più efficace se combinata con tecniche di Rilassamento e training di tipo Cognitivo Comportamentale, utili nella gestione dello stress.

Una recente metanalisi (Nestoriuc et al., 2008) ha messo a confronto 53 ricerche, condotte a partire dagli anni 70, sull’efficacia dei vari protocolli di biofeedback nel trattamento della cefalea tensiva. Tale procedura è risultata essere un trattamento totalmente efficace e specifico per la cefalea tensiva (livello “5”, il più elevato), ed una valida scelta nell’emicrania (livello “4”).

Da questo imponente studio, condotto con una metodologia di analisi esemplare, sono emersi dati molto chiari: il biofeedback  presenta un’incisività che si colloca nel range medio-alto a seconda del protocollo utilizzato, in particolare il Biofeedback elettromiografico ottiene il grado di efficacia più elevato.

I bambini e gli adolescenti sembrano poter divenire ottimi candidati per questo approccio terapeutico (Hermann & Blanchard, 2002): numerosi studi scientifici e di metanalisi hanno, infatti, dimostrato la validità del biofeedback elettromiografico e termocutaneo all’interno di vari campioni di giovane età (Andrasik et al., 2002).

In linea generale, tale procedura permette ai piccoli pazienti di gestire il dolore, grazie alla possibilità di ricevere in modo immediato e diretto le informazioni riguardanti le proprie funzioni fisiologiche. Inoltre, permette ai pazienti di aumentare o assumere, talvolta, la consapevolezza della distinzione esistente tra tensione e rilassamento muscolare nei vari distretti. Educando le persone a controllare quelle funzioni fisiologiche che sono indipendenti dalla loro stessa volontà, le si può aiutare a modificarle, segnalando, talvolta, la presenza di una relazione tra esse e le emozioni. Sia il segnale acustico che visivo, possono rilevare chiaramente l’esistenza, ad esempio, di una situazione di ansia non riconosciuta. Per questo motivo, l’impiego della tecnica di biofeedback potrebbe risultare indicata anche nei bambini che presentano un dolore causato o peggiorato da modifiche fisiologiche associate a stati di tensione e stress.

Nel 1985 Attanasio e colleghi ne individuarono i vantaggi in ambito pediatrico, rispetto agli adulti. I ricercatori hanno evidenziato come i bambini siano maggiormente entusiasti, meno scettici e imparino più rapidamente rispetto agli adulti. I piccoli individui selezionati esprimono una fiducia maggiore nelle proprie abilità rispetto agli adulti, hanno esperienza di scarsi insuccessi, si divertono e riescono più facilmente a controllare il sintomo.

I ricercatori hanno, inoltre, dimostrato come il biofeedback rappresenti uno strumento di grande efficacia clinica nell’età pediatrica, nonostante i tempi di attenzione siano certamente ridotti e possano verificarsi dei timori verso una strumentazione elettronica sconosciuta.

In conclusione, possiamo, quindi, affermare che il biofeedback, grazie alla sua totale assenza di effetti collaterali, potrebbe essere uno strumento indicato nell’età pediatrica per fronteggiare un disturbo sempre più incidente ed invalidante della nostra società: la cefalea primaria. Grazie agli studi di efficacia, si ipotizza che il Biofeedback possa fornire al bambino l’apprendimento di un’abilità di gestione e controllo del dolore che consente una riduzione della tensione muscolare ed un’azione diretta di modifica della frequenza dell’attacco cefalgico.

Come accade per altre problematiche, potrebbe risultare indicato avvalersi di un intervento multidisciplinare, dove l’utilizzo del biofeedback venga integrato ad un approccio psicoterapeutico che consenta di individuare e modificare i principali fattori scatenanti e di mantenimento, gli stili di vita, gli eventi stressanti e tutto ciò che risulti essere coinvolto nella formazione, conservazione e aggravamento delle cefalee pediatriche.

Digital Detox: nudging e uso consapevole dello smartphone

L’incremento nell’utilizzo dello smartphone appare una reazione fisiologica al progresso tecnologico ma al contempo sembra comportare un peggioramento della nostra salute, talvolta compromettendo anche gli equilibri biologici del nostro organismo.

 

La scelta è chiara: o non facciamo nulla e permettiamo che un futuro deprimente e probabilmente catastrofico abbia il sopravvento su di noi, o utilizziamo la nostra conoscenza sul comportamento umano per creare un ambiente sociale nel quale vivere una vita produttiva e creativa e dobbiamo farlo senza mettere in pericolo le opportunità di coloro che ci seguiranno di poter fare lo stesso (B.F Skinner)

 

Se dovessimo chiedere ad adolescenti, ragazzi universitari o adulti quanto tempo dedicano quotidianamente a utilizzare i loro dispositivi digitali (smartphone, tablet o pc) risponderebbero: “poco, abbastanza, molto” senza avere una reale percezione del tempo effettivamente trascorso. Un analista del comportamento potrebbe consigliar loro di conteggiare il tempo di utilizzo di tali dispositivi, per scoprire che su sedici ore di veglia almeno sei sono mediamente dedicate al mondo digitale. Se le moltiplichiamo per tutti i giorni di una settimana, diventa facile farsi un’idea della rilevanza del fenomeno e di quanto la tematica delle dipendenze digitali sia degna di attenzione.

Secondo le indagini condotte da Flurry (USA), società impegnata nelle ricerche di mercato globale, in media ciascun utente utilizza lo smartphone 2 ore e 38 minuti ogni giorno per controllare messaggi, partecipare alle attività dei social network o giochi online. Gli utenti che utilizzano lo smartphone, in media, appaiono online più di 80 volte al giorno, questo vuol dire che essi utilizzano il proprio dispositivo mobile circa ogni 12 minuti.

Prendendo in considerazione le informazioni riportate dal sito “we are social”, il quale si occupa di raccogliere i dati relativi all’utilizzo dei canali social, dei dispositivi mobili e di tutto ciò che riguarda il mondo digitale a livello globale e dei singoli mercati, è possibile osservare un incremento di più del 10% nell’utilizzo dei dispositivi digitali nell’ultimo anno in Italia. I dati mostrano molto chiaramente, come si tenda per altro a usare sempre meno il pc, e sempre di più lo smartphone per visitare le pagine web. Facebook risulta essere il canale social più utilizzato (più di 1.5 miliardo di utenti attivi nel mondo), ma è in enorme crescita l’utilizzo di servizi di messaggistica istantanea quali Whatsapp Facebook Messanger, Snapchat, ecc.

Tale tendenza a essere sempre più “social” ci porta a riflettere sugli effetti positivi e negativi che il digitale ha apportato nella vita quotidiana. Come afferma il ricercatore della Microsoft, Nancy Baym, se da un lato gli smartphone hanno reso la comunicazione più veloce, avvicinato le persone ai loro amici e ridotto l’impiego di energie precedentemente investite dall’uomo nel processo di comunicazione, dall’altro, studi recenti fanno riflettere notevolmente sulle ripercussioni negative che essi hanno introdotto a livello biologico e psicologico. Gli smartphone hanno portato l’uomo gradualmente a sentirsi intrappolato, come al guinzaglio, con il costante obbligo di essere sempre disponibile e comunicare il proprio status, ovunque egli sia (Choliz, 2010).

Osservando i criteri del Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, attualmente più che di crescita digitale, è possibile parlare di disturbo da abuso della rete telematica, l’Internet Addiction Disorder (IAD). Si può parlare di dipendenza quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, con importanti ripercussioni sulle principali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva (DSM V, APA 2014).

I classici sintomi di dipendenza digitale sono: preoccupazione elevata verso il dispositivo in termini di localizzazione e di notizie presenti su di esso, uso eccessivo con conseguente perdita di controllo, utilizzo del mobile in situazioni socialmente inappropriate ed effetti negativi sulle relazioni, ansia di stato se i social non sono funzionanti o non si ottiene risposta dal ricevente, emissione di comportamenti ripetuti e compulsivi nel toccare il touch screen (Guades E.,2016). La società di ricerca di mercato Braun Research, nello studio condotto per la Bank of America (2016) attraverso un sondaggio telefonico su 1004 persone di almeno 18 anni di età, ha riscontrato che il 59% dei consumatori possiede uno smartphone. Le persone controllano compulsivamente i loro dispositivi mobili per paura di perdere un “aggiornamento sociale” o come fonte di autosoddisfazione e tale comportamento non è circoscritto a un contesto specifico.

L’utilizzo dello smartphone è presente in attività quali mangiare, partecipare alle riunioni, attraversare la strada, guidare, dormire, ecc. Il 70% della popolazione controlla il proprio cellulare prima di andare a letto e al risveglio. Il 32%, ammette di controllare il proprio dispositivo se si sveglia durante la notte. Il 61% lo usa anche in bagno e il 9% di loro riferisce di averlo fatto cadere almeno una volta nella toilette. I dati riportati dal sito B2C mostrano che il 35% della popolazione statunitense utilizza lo smartphone mentre gioca con i propri figli, il 36% mentre usufruisce dei trasporti pubblici, il 37% mentre è a una festa e il 36% mentre è al ristorante o durante momenti di aggregazione.

Secondo l’ISTAT (2013), nel contesto italiano 81 persone su 100 della popolazione comprese tra i 16 ed i 24 anni utilizzano internet tutti i giorni, o quasi tutti i giorni. Di questa fascia: l’84,9% partecipa ai social network, il 76,1% invia messaggi su chat, blog, forum e altri siti affini, il 74,2% spedisce o riceve email e il 70,5% consulta wiki. Mentre, le restanti attività, come telefonate in rete, videochiamate, partecipazione a siti politici sensibili a temi sociali o altro analogo, e partecipazione a votazioni o consultazioni hanno invece una minor frequenza percentuale (ISTAT, 2013).

L’incremento nell’utilizzo dello smartphone appare una reazione fisiologica al progresso tecnologico ma al contempo sembra comportare un peggioramento della nostra salute, talvolta compromettendo anche gli equilibri biologici del nostro organismo. Tra gli “effetti collaterali” emergono: depressione, deficit di attenzione, sintomi somatici, aggressività, compromissione della qualità del sonno (Lee et al., 2014; Thomèe et al., 2011; Ozguner et al., 2005; Elder, 2013; Lepp, 2014).

La tendenza a iper-utilizzare i dispositivi digitali ha inoltre preso piede nei momenti destinati all’aggregazione e all’interazione sociale, durante una cena al ristorante o un dopocena in un locale, riducendo considerevolmente le interazioni tra le persone presenti, l’impegno nella relazione e l’arricchimento personale (emotivo, affettivo, esperienziale) che ne deriverebbe (Greser, 2006). Coloro che non utilizzano lo smartphone nei luoghi pubblici o nei momenti di aggregazione, inoltre, risultano maggiormente empatici (Misra et. al., 2016). L’utilizzo del motore di ricerca “Google”, consultato per qualsiasi quesito o perplessità conduce verso “conversazioni killer” in cui è assente l’interazione faccia a faccia e lo scambio di opinioni. Non sempre le informazioni inoltre sono vere, nel web è semplice imbattersi in informazioni distorte. Sulla base di tali considerazioni, sembra opportuno parlare di disintossicazione digitale come aiuto alle persone nel ridurre la frequenza di utilizzo del proprio smartphone. La disintossicazione dai dispositivi digitali è fondamentale per aprire gli occhi, conoscersi, dare il buon esempio, partecipare, proteggersi, ascoltare, gustare, condividere, giocare, evitare conversazioni killer, migliorare la postura e la qualità del sonno.

È importante in quest’ottica comprendere come l’utilizzo pervasivo e disfunzionale di tali dispositivi possa essere influenzato in maniera importante da fattori contestuali. Daniel Kahneman, psicologo Israeliano e Premio Nobel per l’Economia nel 2002, mette bene in luce nel suo lavoro come l’ambiente in cui ci si muove possa esercitare un’importante influenza sulle nostre scelte, che ne siamo consapevoli o meno (Kahneman, 2012).

Il meglio che si può fare è strutturare contesti che promuovano comportamenti funzionali per il benessere individuale e sociale. Il Nudge, tradotto in italiano come “spinta gentile”, ci viene incontro in tal senso. L’obiettivo di questo approccio è quello di indirizzare le persone verso scelte il meno possibile distorte da bias, ovvero errori sistematici ai quali la maggior parte degli individui è sensibile. A tal fine, l’utilizzo di un’accurata “architettura delle scelte”, ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo, può essere utile per modulare alcuni comportamenti, senza l’utilizzo di incentivi economici o punizioni e senza precludere la libertà di scelta. (Thaler & Sunstein, 2009).

Nei mesi di Aprile e Maggio del 2016, osservando i comportamenti delle persone all’interno di contesti adibiti alla socializzazione, quali ristoranti e pub, il team di ricerca di Nudge Italia, ha sviluppato un intervento di nudging in due locali Milanesi con l’obiettivo di ridurre la frequenza di utilizzo degli smartphone tra i clienti dei locali che hanno ospitato l’iniziativa.

A tale fine sono state posizionate sui tavoli dei locali scatole di legno all’interno delle quali era possibile inserire i propri smartphone. All’esterno di ogni scatola sono stati inoltre applicati adesivi con la scritta “Sei davvero social? #posalo”, invitando i clienti a lasciare al loro interno i dispositivi digitali (vedi immagini). È stata dunque monitorata la frequenza di utilizzo degli smartphone prima e durante l’intervento. Nel corso dell’osservazione preliminare si è rilevato che il 25% dei clienti utilizzava il proprio smartphone, percentuale scesa al 15% durante la fase sperimentale.

 

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Disintossicazione digitale l'intervento di Nudge per ridurre l'uso dello Smartphone_1

 

Disintossicazione digitale l'intervento di Nudge per ridurre l'uso dello Smartphone_2

 

Disintossicazione digitale l'intervento di Nudge per ridurre l'uso dello Smartphone_3

Le scatole in legno sui tavoli dei locali che hanno aderito all’iniziativa per ridurre l’uso dello smartphone

L’iniziativa ha fatto leva sull’effetto gregge, la tendenza a preferire l’appartenenza al gruppo e comportamenti coerenti a quelli dei propri simili, utilizzando il comportamento degli altri come metro di paragone su come sia appropriato o non appropriato agire (Sunstein, 2014). Infatti, l’intervento di nudge ha strutturato il contesto in modo che fosse in evidenza il comportamento sociale che si riteneva il “modello desiderabile”. La modificazione del contesto (presenza della scatola riponi smartphone sui tavoli) e la scelta di una persona seduta al tavolo di riporre all’interno della scatola il proprio smartphone, ha reso più probabile l’emissione quello stesso comportamento da parte degli altri membri della tavolata. Inoltre la presenza e la salienza della scritta con l’immagine del dispositivo ai lati della scatola ha permesso di rendere visibili e immediatamente accessibili le informazioni necessarie a orientare l’attenzione delle persone sedute ai tavoli verso una determinata opzione/informazione.

Adulti e nuove generazioni mostrano quindi di essere tecnologicamente sempre connessi perdendo contatto con la realtà circostante, come dimostrato dalla letteratura (Srivastava, 2005). Questo semplice esperimento ha dimostrato come piccoli interventi di modificazione intenzionale dei contesti di vita possano supportare un uso più consapevole dei propri dispositivi, funzionale a non impattare aspetti fondamentali per il benessere, come le interazioni e relazioni sociali, e a non incorrere in una dipendenza.

Quali sono i bisogni delle persone che soffrono di demenza?

Tom Kitwood e il gruppo di Bradford individuano un cluster di bisogni, fondamentali nella persona con demenza. Essi affermano che esista un bisogno onnicomprensivo nelle persone affette da questa malattia: il bisogno di amore, ovvero di un’accettazione generosa e incondizionata, senza alcuna aspettativa di una ricompensa diretta.

 

I bisogni più marcati delle persone che soffrono di demenza

In psicologia, con il termine bisogno si indica la mancanza, totale o parziale, di uno o più elementi importanti per il benessere della persona. Il bisogno è generalmente determinato da una condizione di squilibrio organismico, che produce quella spinta alla base dei comportamenti diretti al soddisfacimento e a ripristinare l’equilibrio mancante.

Tom Kitwood e il gruppo di Bradford individuano un cluster di bisogni, fondamentali nella persona con demenza. Essi affermano che esista un bisogno onnicomprensivo nelle persone affette da questa malattia: il bisogno di amore, ovvero di un’accettazione generosa e incondizionata, senza alcuna aspettativa di una ricompensa diretta.

Il modello proposto individua, inoltre, cinque importanti bisogni che convergono nel bisogno centrale di amore. I bisogni individuati, presenti in tutti gli esseri umani, sembrano essere più marcati nelle persone con demenza, in quanto più vulnerabili e meno abili nell’intraprendere delle azioni volte al loro soddisfacimento.

  • Conforto
    Confortare una persona vuol dire fornire quel calore e forza che potrebbe consentirle di non andare in pezzi quando è in pericolo o sul punto di crollare”. Nella demenza è probabile che questo bisogno sia particolarmente forte quando la persona affronta un senso di perdita, quando è reduce da un lutto, dall’indebolimento delle proprie capacità o dalla fine di un modo di vivere che sembrava ormai consolidato.

 

  • Identità
    Possedere un’identità significa sapere chi si è a livello sia cognitivo che affettivo. Significa avere un senso di continuità con il passato e quindi una storia da raccontare agli altri. In qualche misura l’identità si forma anche dal confronto con gli altri, i quali trasmettono continuamente alla persona sottili messaggi sulla sua prestazione. Si può fare molto per preservare l’identità della persona, anche in presenza di decadimento cognitivo. Due cose sembrano essenziali: conoscere la storia di vita dell’individuo ed essere empatici, rispettando l’unicità del suo essere.

 

  • Essere occupati
    Essere coinvolti in modo personalmente significativo nelle attività che generano piacere. Il contrario è uno stato di noia e apatia. Le capacità delle persone deprivate di ogni occupazione si atrofizzano e ciò si ripercuote sulla propria autostima. Nella persona con demenza il bisogno di occupazione si manifesta nella voglia di dare il proprio contributo. Per soddisfare questo bisogno si rivela fondamentale una buona dose di creatività e la conoscenza del background della persona, e in particolare delle sue fonti più importanti di soddisfazione.

 

  • Inclusione
    Il bisogno di inclusione è radicato nella natura sociale dell’uomo; l’appartenenza al gruppo ha consentito alla specie di evolversi, in quanto essenziale per la sopravvivenza dell’uomo.
    La vita sociale delle persone con demenza tende a ridursi col progredire della malattia. Se questo bisogno non viene soddisfatto è facile che una persona peggiori e si ritiri. Soddisfare questo bisogno, vuol dire, invece, rendere la persona partecipe alle azioni e darle nuovi significati e ruoli.

 

  • Attaccamento
    Tutti gli individui, sin dalla prima infanzia, mostrano un forte bisogno di avere una base sicura a cui rivolgersi in caso di incertezza e a cui attingere per ricevere calore (J. Bowlby). La perdita di una figura di attaccamento primario mina fortemente il proprio senso di sicurezza. Questo bisogno è attivo tutta la vita e perdura nella malattia; può addirittura essere forte come nella prima infanzia in quanto la vita della persona con demenza può essere sovrastata da incertezze e ansie, poiché si trovano spesso in situazioni che sperimentano come ambigue e poco definite, ciò attiva fortemente il loro bisogno di avere accanto una persona che funga da base sicura.

Il soddisfacimento di anche uno solo di questi bisogni porta, in qualche misura, al soddisfacimento degli altri.
L’attenzione a questi bisogni fa parte di un modello più ampio, definito Approccio di cura centrato sulla persona (PCC, Person Centred Care) proposto da Tom Kitwood e dai suoi collaboratori. L’ipotesi di fondo della PCC è la seguente: pur nella consapevolezza che la compromissione neurologica sia la causa principale della demenza, Kitwood ritiene che siano molti altri i fattori che incidono profondamente sul vivere quotidiano della singola persona che ne è affetta; e su come agisce, sente e pensa. Compito principale di chi si prende cura della persona è mantenere la personhood (l’essere persona nel suo senso più completo), nonostante il decadimento delle funzioni cognitive (Faggian et al., 2013).

 

Le memorie traumatiche e il fenomeno dell’oblio

Le memorie traumatiche si distinguono dalle memorie normali perché sono composte da immagini, sensazioni, comportamenti, sono immodificabili nel tempo e sono automaticamente portate alla luce con modalità particolari, come ad esempio tramite incubi e flashback.

 

Come funziona la memoria e l’oblio delle informazioni immagazzinate

Quando si pensa alla memoria, viene in mente qualcosa che ha che fare con dati immagazzinati in seguito ad esperienza ed apprendimento e dunque possano semplificare la nostra vita quotidiana: il ricordo di numeri di telefono, di date ed eventi particolari, sono solo un esempio.

Oltre alla memoria in senso quantitativo (immagazzino di informazioni), si pensa anche alla capacità di sfruttare le conoscenze strategiche che abbiamo, per risolvere i problemi che ci capita di incontrare quotidianamente. Nell’esperienza quotidiana di chiunque, non si può fare a meno di constatare come alle volte, la memoria non sia efficace. L’insuccesso mnestico, può essere temporaneo o definitivo: nel secondo caso è anche possibile dimenticare completamente, oppure ricordare in maniera confusa e del tutto insoddisfacente persino concetti che erano stati studiati a fondo con grande dispendio di tempo e di energie.

La prima ricerca sull’oblio, è stata condotta dallo studioso tedesco H. Ebbinghaus (1885-1923) che, usando se stesso come soggetto dell’esperimento, apprese un numero sterminato di liste di sillabe senza significato, per verificare quante ne avrebbe dimenticate col passare del tempo.
Per spiegare tale fenomeno, ha proposto la “teoria dell’interferenza”, secondo la quale non sarebbe il tempo ad essere il fattore principale responsabile dell’oblio, bensì l’interferenza che si crea quando ricordi diversi sono associati ad uno stesso elemento. Quando l’apprendimento pregresso (passato) interferisce con il nuovo apprendimento, si parla di “interferenza proattiva”; quando invece è l’apprendimento successivo ad alterare l’apprendimento pregresso, si parla di “interferenza retroattiva”.

Altra ipotesi sviluppata da Ebbinghaus è quella relativa al “mancato immagazzinamento”, per cui alcune informazioni vengono dimenticate in ragione del fatto che non sono mai passate nella memoria a lungo termine. Per spiegare tale fenomeno l’autore ha fatto ricorso al concetto di “consolidamento”, secondo il quale esisterebbero processi biologici che renderebbero stabile una traccia di memoria. Nel momento in cui questi processi vengono in qualche modo contrastati l’informazione presente nella memoria di lavoro non passerebbe nella memoria a lungo termine e verrebbe persa.

Secondo E. Tulving (1974), in aggiunta esisterebbero due tipi di oblio: “l’oblio traccia-dipendente”, nel quale l’informazione non sarebbe più presente nella memoria e “l’oblio suggerimento-dipendente”, nel quale l’informazione troverebbe ancora nella memoria, ma non sarebbe accessibile.

In un’ottica psicoanalitica, d’altro canto S. Freud ha enfatizzato l’importanza dei fattori emotivi e difensivi nell’oblio. Egli sostenne che ricordi angoscianti, avvertiti come minacciosi o causanti ansia, spesso non riescono ad accedere alla sfera della consapevolezza, per ragioni difensive: Freud denominò tale fenomeno “rimozione”.

Appare quindi evidente che il ricordo percorre strade molto soggettive e variegate: a volte affiora nella mente qualcosa di vago, altre volte di molto preciso; altre volte ancora dalla memoria qualcosa che è stato rimosso al fine di difendere la struttura psichica di chi è in possesso dell’esperienza penosa, apparentemente dimenticata: le memorie traumatiche.

Che cosa sono le memorie traumatiche?

Le memorie traumatiche si distinguono dalle memorie normali perché sono composte da immagini, sensazioni, comportamenti, sono immodificabili nel tempo e sono automaticamente portate alla luce con modalità particolari, come ad esempio tramite incubi e flashback. Inoltre, mentre le memorie di eventi ordinari perdono chiarezza con il tempo, alcuni aspetti degli eventi traumatici sembrano fissarsi nella mente rimanendo inalterati nel tempo.
Esse sono rintracciabili in un’estesa serie di fenomeni che solo in parte possono essere ricondotti all’ambito della psicopatologia.

Le memorie traumatiche variano così da forme di “non conoscenza”, in cui l’esperienza del trauma è disconnessa e inaccessibile al ricordo ma nondimeno permea le strategie di difesa e adattamento, a stati di dissociazione in cui il trauma viene rivissuto piuttosto che ricordato, a frammenti di ricordo decontestualizzati e apparentemente privi di senso, alla messa in atto di ripetizioni nelle relazioni oggettuali e nei temi di vita, per arrivare alla possibilità di racconto, testimonianza e metaforizzazione.

Si osserva, che alcune forme di memorie traumatiche non sono connotate da un ricordare consapevole, ma implicano “derivati” più o meno organizzati che sono messi in atto.

Laddove il ricordo può essere evocato consapevolmente e l’evento può quindi essere narrato, assistiamo a livelli diversi di padronanza del ricordo stesso, in rapporto al grado di presenza dell’Io osservante e di integrità delle sue funzioni sintetiche ovvero alla capacità di storicizzazione dell’evento.
Nella sua forma più drammatica, il ricordo traumatico fa mostra di sé nei sintomi di reviviscenza.

Riproducono infatti gli eventi a cui si riferiscono con estrema vivacità e chiarezza, tanto da renderle drammaticamente reali e presenti.
Nella forma più drammatica ed estrema si tratta di vere e proprie visioni quasi allucinatorie della scena traumatica, che il soggetto rivive con intensa e penosa partecipazione emotiva; talvolta di pensieri ossessivi relativi al trauma, che emergono in modo acuto ed intenso occupando interamente il campo della coscienza del soggetto, il quale non riesce in alcun modo a sottrarvisi; assai spesso, infine, di sogni o incubi ripetitivi che riproducono variamente l’atmosfera traumatica.

L’evento traumatico e l’impatto emotivo che ha avuto nella psiche del soggetto, attivano una serie di meccanismi difensivi, oltre alla dissociazione, la rimozione e il diniego, finalizzati a ridurre la consapevolezza di un significato emotivo impossibile da sostenere.
Stanley Cohen scriveva: “La sofferenza rimossa non è veramente dimenticata rimane là da qualche parte, provocando distorsioni, stati patologici interiori e un comportamento simbolico generalmente deteriorato”.

Il “là” a cui si riferisce Cohen è naturalmente l’inconscio, nel quale i contenuti emotivi dell’evento traumatico, diversamente da quanto avviene per il suo ricordo cosciente, sembrano mantenere la sua forza originaria, e da cui emergono attraverso manifestazioni somatiche, causate da un ricordo, depositato nella memoria implicita, di un’esperienza traumatica che basta uno stimolo semplice, per attivare emozioni o sensazioni legate a quell’esperienza traumatica. Non è necessario che questi stimoli siano terrificanti, poiché qualunque sentimento o sensazione legata a un’esperienza traumatica, può fare da innesco nel richiamare la sensazione associata all’esperienza. Le amnesie traumatiche, che comportano l’assenza del ricordo o un ricordo differito dell’evento traumatico o di alcune sue parti, sono stati notati in seguito a incidenti o disastri naturali, a traumi da guerra, ad abusi fisici e sessuali. Quindi l’oblio, viene provocato da un evento traumatico, che ha la funzione di difendere la memoria, tramite amnesia transitoria o retrograda, caratterizzata da emozioni intense.

Il Baby Schema: anche bambini di etnie diverse elicitano accudimento e affetto

Alice Mado Proverbio e Valeria De Gabriele, della Bicocca di Milano, hanno pubblicato su Neuropsychologia un esperimento che offre una risposta: vince il “baby schema”. Diciassette studenti caucasici erano automaticamente attratti dalle facce dei bambini, di età tra sei mesi e tre anni, non importa a quale etnia appartenessero.

 Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su Il Corriere della Sera del 29 aprile 2017

 

Riconosciamo più velocemente le facce della nostra etnia. Per quanto si teorizzi, la tendenza alla discriminazione razziale è connaturata negli umani, e si attiva rapidamente. Negarla non aiuta a superarla. Un altro dato confligge con questo: riconosciamo i neonati come creature tenere, di cui prenderci cura. Gli psicologi lo chiamano “baby schema” e fonda il comportamento innato, e evoluzionisticamente indispensabile, di accudimento. A quel punto i ricercatori si sono chiesti: se presentiamo ai soggetti di un esperimento le facce di neonati di altre etnie, quale meccanismo vince? Caratterizzano quei volti come: “stranieri” o “bambini teneri di cui prendersi cura?”.

Alice Mado Proverbio e Valeria De Gabriele, della Bicocca di Milano, hanno pubblicato su Neuropsychologia un esperimento che offre una risposta: vince il “baby schema”. Diciassette studenti caucasici erano automaticamente attratti dalle facce dei bambini, di età tra sei mesi e tre anni, non importa a quale etnia appartenessero.

La ricerca effettuata è preliminare, diciassette studenti caucasici non sono sufficienti per generalizzare i risultati, ma il dato è di rilievo. Da un lato ricorda che percepire volti di etnie diversa dalla nostra comporta attivazione automatica di pregiudizio. Dall’altro suggerisce che se mettiamo in contatto adulti con bambini di un’altra etnia, di meno di tre anni, non c’è confine che tenga, la tendenza è a volergli bene. Dopo i tre anni non sappiamo, mentre dopo i sette va sparendo la tendenza a considerare una faccia come ‘da bambino’. Chi si occupa di adozione internazionale può trarre vantaggio da questo studio: sbrigatevi quando c’è da affidare un bimbo. La velocità della pratica può favorire un legame più solido in cui l’affetto prevale sulla differenza.

Gerascofobia e ricorso alla chirurgia estetica nella terza età: caratteristiche psicologiche predisponenti

La gerascofobia è definita come la paura persistente, anormale e ingiustificata di invecchiare. Essa è generalmente classificata tra le fobie specifiche e può essere associata al timore di restare soli, senza risorse e incapaci di provvedere a se stessi durante la vecchiaia e questo a volte induce al ricorso alla chirurgia estetica. 

Giuseppina Ferrer, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

«Ora, ovunque andiate, voi incantate il mondo. Sarà sempre come oggi?» (Da “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde).

Il ritratto di Dorian Gray e la paura di invecchiare

Dorian Gray, protagonista del celebre romanzo di Oscar Wilde scese a patti con il proprio divenire: lo specchio gli avrebbe rimandato ciò che era stato in giovinezza, il quadro ciò che diventava invecchiando. E’ il tempo, con il suo scorrere lento e inesorabile, che diviene fantasma così doloroso da dover essere negato; Dorian Gray rappresenta l’esempio per eccellenza di un meccanismo di negazione: nega il trascorrere del tempo e della morte in un continuo sforzo di superare ogni limite, biologico e personale. Il protagonista del celebre romanzo, non potendo pensarsi imperfetto, pregò il proprio ritratto di invecchiare al suo posto. Dorian Gray rappresenta, pertanto, l’emblema dell’ideologia dell’apparire che difficilmente può conciliarsi con l’essere se stessi.

Tale ideologia appare quanto mai attuale nella nostra società che vede sempre più il ricorso alla chirurgia plastica ed estetica quale strumento atto ad anestetizzare emozioni dolorose connesse alla naturale evoluzione del corpo umano. La gerascofobia (dal greco θα γεράσω invecchiare e φόβος fobia) è definita come la paura persistente, anormale e ingiustificata di invecchiare. Essa è generalmente classificata tra le fobie specifiche e può essere associata al timore di restare soli, senza risorse e incapaci di provvedere a se stessi (definizione tratta da Wikipedia).

Nella gerascofobia, studiata fin dagli anni ‘60, frequente è la comorbilità con altri tipi di fobie e sintomi ansiosi, unitamente ad un sentimento di mancanza di realizzazione personale (Cesa-Bianchi M., 1987). Come avviene per le altre fobie specifiche, essa si associa spesso a quadri psichiatrici complessi.

Già nella cultura greca antica del VI secolo a.C., vi erano opinioni discordanti circa il tema della vecchiaia: Solone sosteneva come la vecchiaia fosse degna di essere vissuta in pienezza, permettendo di apprezzare i propri familiari, il valore del tempo che passa e le conoscenze acquisite nel corso della vita. Al contempo Mimnermo affermava “quando arriva la dolorosa vecchiaia, che rende turpe anche l’uomo bello, sempre dolorosi affanni lo sconvolgono nel cuore, né si rallegra a vedere i raggi del sole, ma nemico ai ragazzi, disprezzato dalle donne, così il dio rese la vecchiaia dolorosa…Ma non appena sia passata questa fine della stagione primaverile meglio morire che vivere”. Appare chiaro da questi frammenti come Mimnermo esalti i piaceri della giovinezza enumerando i mali della vecchiaia, che questi individua nel decadimento del corpo e dell’anima.

D’altra parte la senescenza è innanzitutto uno stadio naturale della vita che, in virtù del decadimento fisico e psicologico che essa comporta, rende la vita fragile e maggiormente esposta. Essa, benché si fantastichi sull’eterna giovinezza tanto agognata dalla ricerca scientifica, è parte ineliminabile della vita stessa. La vecchiaia è da sempre stata considerata l’età contemplativa per eccellenza, in cui l’attenzione per l’immagine corporea lascia spazio alla riflessione consapevole della saggezza tipica della veneranda età. Tuttavia non mancano, anche nel mondo letterario, esempi di scarsa accettazione di tale naturale condizione di vita: “Una vecchia che si veste come una giovinetta suscita il riso”, scrive Pirandello nel suo Saggio sull’Umorismo, che sottolinea come riflettendovi a fondo si possa in lei cogliere il fondo dolente, di umana sofferenza che dal riso lascia spazio alla compassione.

Quanto mai attuale appare l’immagine della “vecchia signora” di Pirandello in un’epoca che teme la vecchiaia e cerca spesso di negarla ad ogni costo.

Gerascofobia: i fattori psicologici che inducono il ricorso alla chirurgia estetica nella vecchiaia

La vecchiaia è oggi grande fenomeno di massa, divenuta oggetto di studio di medici, psicologi e scienziati, ciò anche in virtù del significativo aumento della “popolazione anziana”. Il fascino della bellezza fisica sta diventando sempre più centrale nella società odierna tanto che non sorprende che vi sia una crescente richiesta, anche in età avanzata, di interventi di chirurgia estetica.

Nel corso degli ultimi anni, stante la notevole diffusione di tali procedure chirurgiche, sono stati condotti numerosi studi volti ad approfondire il ruolo che i fattori psicologici esercitano nel ricorrere alla chirurgia estetica. Secondo l’American Society for Aesthetic Plastic Surgery nel 2013 negli Stati Uniti d’America sono stati effettuati oltre 11 milioni di interventi chirurgici (16,5%) e non chirurgici (83,5%), registrando un incremento di oltre il 279% rispetto all’anno 1997 (American Society for Plastic Surgery. Cosmetic Surgery National Data Bank. Statistics, 2013 New York). Nel 2013 le procedure chirurgiche erano la liposuzione, l’aumento del seno, blefaroplastica e addominoplastica. La percentuale di ultracinquantenni è del 23,9%, con un range di età che va dai 51 ai 64 anni.

La crescente frequenza di tali trattamenti chirurgici estetici può essere attribuibile a molteplici fattori: tra questi vi è l’evoluzione delle ricerca medica sul campo che ha reso le procedure chirurgiche sempre più sicure e meno invasive, significativo è anche il ruolo che i mass media attribuiscono ai canoni estetici di bellezza sempre più ideali. D’altra parte, numerose ricerche hanno dimostrato come l’insoddisfazione legata all’immagine corporea rappresenti il principale fattore predisponente al ricorso alla chirurgia estetica (Henderson-King, D. & Henderson-King, E. 2005; Di Mattei et al., 2014).

L’estrema insoddisfazione per l’immagine corporea è la caratteristica principale di diverse forme di psicopatologia tra cui il Disturbo di Dismorfismo Corporeo (Castle & Phillips, 2002). Una recente revisione della letteratura condotta da Mallick e colleghi (Mallick et al., 2008) ha dimostrato un’elevata percentuale di tale disturbo nelle popolazioni di pazienti che ricorrono alla chirurgia estetica, sia nei paesi americani che europei. In queste popolazioni si stima una prevalenza di Disturbo da Dismorfismo Corporeo che varia dal 13% al 28%. Altre ricerche sperimentali hanno messo in luce come, tra i pazienti che ricorrono ai trattamenti chirurgici estetici, si arrivi al 47,7% di incidenza di disturbi mentali.

In particolare, alcuni studi evidenziano un’elevata prevalenza di Disturbi di Personalità afferenti al Cluster B secondo la classificazione del DSM-IV tr (Belli et al., 2013). Sembra che il Disturbo di Personalità più frequente tra questi pazienti sia quello Narcisistico, che è stato rilevato nel 25% dei pazienti che ricorrono alla chirurgia estetica, mentre nel 9,7% dei casi si rileva la presenza di Disturbo Istrionico di Personalità (Mallick et al., 2008). A questo proposito, è bene tener presente come la prevalenza di Disturbi di Personalità di questo tipo si aggiri in popolazione generale attorno all’1,5% (Huang et al., 2009).

Oltre ai fattori personologici predisponenti sopra descritti è bene considerare come la senescenza si associ altresì alla cessazione delle attività lavorative, che talvolta comporta l’emergere di un vissuto di esclusione dalla vita sociale, associato a vissuti di ansia e frustrazione. Il pensionamento comporta cambiamenti radicali nell’assetto di vita di un individuo, e spesso viene vissuto in maniera ambivalente, da un lato con un senso di liberazione, dall’altro come profondamente destabilizzante, venendo a mancare le consuetudini ormai acquisite e consolidate.

Tale condizione può associarsi ad una deflessione del tono dell’umore con sentimenti di tristezza e vuoto; in tale nuovo assetto di vita, la persona può infatti ritrovarsi a contatto con se stesso, con i propri stati emotivi talora dolorosi, non potendo più servirsi del lavoro anche come strumento di distrazione e in un certo qual modo di “allontanamento” dalla parte più intima di sé. Sempre più spesso, infatti, nella società attuale si perseguono obiettivi professionali sempre più ambiziosi che comportano in alcuni casi un’attitudine all’iper-lavoro che lascia poco o nessuno spazio al contatto con i propri stati emotivi. Può quindi accadere che ciò avvenga, tutto ad un tratto, nella fase della senescenza e che la persona sia poco preparata a gestire tali stati emotivi. In tali condizioni è possibile che la persona, sguarnita di altri strumenti utili a gestire tali vissuti dolorosi, ricorra alla chirurgia estetica quale strategia auto-immunizzante utile a non entrare in contatto con gli stati emotivi dolorosi che possono accompagnarsi alla senescenza.

D’altra parte, qualora l’individuo ricorra ai trattamenti chirurgici estetici con un tale assetto psicologico, è probabile che permanga l’insoddisfazione rispetto all’immagine corporea o, più verosimilmente, un più generico vissuto di insoddisfazione che poco attiene alla sfera corporea, riguardando il mondo interiore dell’individuo. A questo proposito, alcuni studi hanno messo in luce il significativo aumento del rischio suicidario tra le donne che si erano sottoposte ad interventi chirurgici di aumento del seno (Brinton et al., 2001; Koot et al., 2003; Pukkala et al., 2003; Jacobsen et al., 2004; Villeneuve et al., 2006).

Benché le ricerche citate siano state condotte mediante differenti metodologie e su popolazioni cliniche eterogenee, esse giungono alla medesima conclusione: ovvero che vi sarebbe un rischio suicidario più elevato (poco più del doppio di quello trovato in popolazione generale) tra le donne che si sono sottoposte ad un intervento di chirurgia estetica mammaria. Malgrado la spiegazione di questi risultati rimanga incerta, studi precedenti indicano come possano esservi differenze significative tra le donne con protesi al seno rispetto a quelle appartenenti alla popolazione generale. Tra le prime si rilevano indici di massa corporea significativamente più bassi, un maggior tasso di fumo di sigarette (Kjoller et al., 2003), un maggior numero di aborti volontari (Fryzek et al., 2000), più bassi livelli di istruzione ed un maggior numero di screenings per problemi senologici (Brinton et al., 2000). Ulteriori differenze riguardano la prevalenza di Disturbi Mentali di Asse I e II, la cui incidenza sembra essere significativamente più elevata tra le donne che si sono sottoposte a chirurgia estetica mammaria, rispetto a quelle appartenenti alla popolazione generale (Mallick et al., 2008).
In conclusione, di tutte le sfide cui è sottoposto l’individuo nel corso del proprio percorso evolutivo, quella della vecchiaia è la più umana. L’uomo, infatti, lungi dall’arrendersi al trascorrere ciclico del tempo, gioca con la vecchiaia una complessa partita, anche mediante strategie di compensazione come quelle descritte.

Erikson riteneva che nel periodo della senescenza l’individuo raccoglie quanto seminato in precedenza, guardando al suo passato per fare un bilancio di quanto sia riuscito a perseguire dei propri obiettivi iniziali, cerca inoltre di comprendere ciò che la propria esistenza abbia per lui e per gli altri significato, valutando quanto tali conclusioni lo soddisfino. Qualora tale bilancio risulti positivo, l’individuo avrebbe la sensazione di aver speso adeguatamente la propria esistenza, riuscendo quindi a vivere serenamente la terza età. Nel caso in cui, tuttavia, il bilancio fosse negativo, essendo la persona poco soddisfatta di quanto vissuto, quest’ultima assumerebbe un’attitudine di rifiuto rispetto alla propria vita passata, di timore della morte e di negazione della vecchiaia stessa. In queste situazioni, dice Erikson, prevale un senso di disperazione che esprime la consapevolezza di avere un tempo ormai insufficiente per correggere gli errori del passato; tale disperazione si nasconde spesso dietro il disprezzo verso le persone e le istituzioni, sentimenti che in realtà riflettono il disprezzo che l’individuo, intimamente, prova verso se stesso (Erikson, Teoria Psicosociale dello Sviluppo da i I cicli della vita, 1987).

L’alcool e i suoi effetti – Introduzione alla psicologia

Molte sono le sostanze psicoattive esistenti, prima tra tutte troviamo l’ alcool. L’alcool è la sostanza di abuso più diffusa, perché facilmente acquistabile, per questo la più utilizzata. L’alcool è una droga la cui assunzione determina effetti ansiolitici, rilassanti, che costituiscono un rinforzo positivo e invogliano immediatamente a desiderarne ancora.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Le sostanze psicoattive, o droghe, sono composte da agenti chimici che producono, alla lunga, alterazioni di alcune funzioni biologiche, psicologiche e mentali.Ogni sostanza chimica assunta agisce a livello cerebrale generando delle modificazioni emotive, cognitive, sensoriali e comportamentali.
E’ noto che l’assunzione di droghe provochi effetti a breve e a lungo termine, da pochi minuti a diversi mesi e anni. Tali effetti variano da persona a persona sia in base alle caratteristiche della sostanza assunta sia rispetto alle caratteristiche individuali di chi la assume.

In seguito a un utilizzo costante e ripetuto della sostanza si manifesta l’assuefazione dell’organismo che consiste nella richiesta di una maggiore quantità di sostanze da assumere in tempi più ravvicinati. Questo comportamento è definito dipendenza e induce alla ricerca costante e irrefrenabile della sostanza da utilizzare.

L’uso delle sostanze psicoattive influenza negativamente la vita di chi le assume e compromette l’esistenza di coloro che sono prossimi alla persona. L’assunzione della sostanza diventa nel tempo una vera e propria schiavitù volta alla dipendenza fisica, comportamentale e emotiva dalla droga assunta.

 

Alcool

Molte sono le sostanze psicoattive esistenti, prima tra tutte troviamo l’alcool. L’alcool è la sostanza di abuso più diffusa, perché facilmente acquistabile, per questo la più utilizzata. L’alcool è una droga la cui assunzione determina effetti ansiolitici, rilassanti, che costituiscono un rinforzo positivo e invogliano immediatamente a desiderarne ancora.

L’alcol deriva dalla fermentazione di zuccheri o amidi di origine vegetale, esso è in parte assorbito dallo stomaco ed in parte dall’intestino e, se lo stomaco è vuoto, l’assorbimento è più rapido e i sui effetti si manifestano più velocemente.

L’alcool è assimilato attraverso il sangue e passa al fegato che ha il compito di smaltirlo. Finché il fegato non ha completato la digestione però l’etanolo continua a circolare diffondendosi nei vari organi, tra cui il cervello. L’alcool è una tra le sostanze più tossiche, e per questo potrebbe, in seguito a un abuso, oltrepassare le membrane cellulari e provocare lesioni e, in casi più gravi potrebbe portare alla distruzione delle cellule cerebrali. Quando si è ubriachi l’alcool raggiunge il cervello dove, col tempo, si verifica una perdita della sostanza grigia e necrosi di alcuni neuroni.

L’alcool provoca una iniziale euforia e perdita dei freni inibitori, ma a quantità maggiori corrispondono effetti indesiderati più cospicui, come riduzione della visione laterale (visione a tunnel), perdita di equilibrio, difficoltà motorie, nausea e confusione. Quantità eccessive di alcool possono portare fino al coma e alla morte. La velocità con cui il fegato riesce a sintetizzare l’alcool dal sangue varia da individuo ad individuo; in media, per smaltire un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica l’organismo impiega 2 ore. Se si beve molto alcool in poco tempo lo smaltimento è più lungo e difficile, e gli effetti più gravi e duraturi.

L’alcool produce conseguenze sull’umore e determina una maggiore rilassatezza, felicità, senso di benessere e euforia. Tali effetti derivano dall’azione che l’alcool svolge sul sistema cerebrale imputato al controllo dell’inibizione.

Esso non ha uno specifico recettore localizzato nel cervello, ma agisce sugli ioni di membrana. Esso, in sostanza, inibisce i recettori per i neurotrasmettitori eccitatori, mentre potenzia quelli dei neurotrasmettitori inibitori. Inoltre, la dopamina, la serotonina, il GABA e i neurotrasmettitori peptidici oppiacei sembrano essere coinvolti nel rinforzo generato dall’assunzione di alcool, che genera non solo effetti ansiolitici, ma anche ricerca costante dell’assunzione di alcool (alcool-seeking behavior).

L’alcool, inoltre, provoca col tempo perdita della coordinazione motoria e distorsioni a carico del sistema percettivo, soprattutto visivo, ma anche uditivo e somatosensoriale. Tali effetti aumentano di intensità in funzione della quantità della dose di alcool assunta. Se la dose supera il livello critico, ovvero il livello di sopportabilità tipico di ciascun individuo, allora gli effetti positivi dell’assunzione lasciano il posto a quelli negativi che sono: incoscienza, coma o addirittura morte. Proprio quest’ultima, deriverebbe da alcune manifestazioni adattative del corpo come il vomito: la persona può soffocare in seguito al vomito perché si trova in uno stato di semi-incoscienza e non è in grado di gestirlo.

 

L’Alcolismo

L’alcolismo è la condizione patologica derivante dall’abuso di alcool. Spesso, in molti assumono saltuariamente dosi più o meno elevate di alcool senza diventarne dipendenti. Solo l’assunzione prolungata e regolare di alcool porta alla dipendenza. L’abuso di alcool determina modificazioni adattative a carico del sistema legato alla gratificazione che si occupa di codificare i rinforzi naturali. Il risultato è l’instaurarsi di un comportamento di ricerca della sostanza e, pertanto, di dipendenza.

L’assunzione prolungata di alcool, in generale, determina una serie di disturbi fisici, che comprendono danni agli organi interni coinvolti nella modalità di assunzione (come lo stomaco, fegato, pancreas e sistema cardiocircolatorio) che possono essere a medio-lungo termine, come la gastrite, o permanenti, come la cirrosi cronica a carico del fegato.

L’assunzione costante di alcool provoca dipendenza che si manifesta, a livello comportamentale, come ricerca della sostanza (craving) e sindrome d’astinenza nel caso si interrompa l’assunzione. Il craving è il desiderio irresistibile di assumere alcool, mentre la sindrome d’astinenza è caratterizzata da ipereccitabilità del sistema nervoso centrale e comportamenti come ansia, anoressia, insonnia, disorientamento e talvolta allucinazioni. In alcuni casi gravi la sindrome d’astinenza può diventare delirium tremens ovvero si possono presentare allucinazioni, disorientamento nel tempo e nello spazio e la comparsa di comportamenti irrazionali.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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